Azzurre e leggere, mosse da un lieve, appena percepibile vento contrario, le onde dell’Adriatico erano corse incontro alla squadra imperiale, quando essa, avvicinandosi lentamente alle piatte colline della costa calabra, veleggiava verso il porto di Brindisi, ed ora che la solitudine del mare, così piena di sole e pur così piena di morte, si mutava nella serena allegrezza dell’opera umana ed i flutti, dolcemente irraggiati dalla vicinanza di uomini e case, si popolavano di ogni specie di navi, di quelle che egualmente tendevano al porto e di altre che né erano uscite, ora che le barche dalle vele rossastre già d’ogni parte uscivano per la pesca serale abbandonando i piccoli moli dei molti paesi e villaggi lungo la riva lambita dalle candide onde, ecco che l’acqua si era fatta come uno specchio; e in alto si era dischiusa la perlacea conchiglia del cielo, scendeva la sera, e si sentiva l’odore del fuoco di legna dei focolari, ogni qual volta le voci della vita, un picchiar di martello o un richiamo, giungevano portati dal vento.
Dei sette navigli d’alto bordo che procedevano l’uno dopo l’altro in linea di fila, soltanto il primo e l’ultimo — snelli, rostrati, a cinque file di remi — appartenevano alla flotta militare; gli altri cinque — più massicci e imponenti, a dieci, a dodici file di remi — erano di fastosa costruzione, come si addiceva al tono della corte augustea, e quello centrale, il più splendido, rilucente d’oro la bronzea prora, rilucenti d’oro sotto il parapetto le teste leonine inanellate, pavesate le sartie di variopinti vessilli, portava sotto vele di porpora, grande e maestosa, la tenda dell’imperatore. Ma sulla nave che immediatamente seguiva, giaceva il poeta dell’Eneide, e il segno della morte era scritto sulla sua fronte.
Oppresso dal mal di mare, che minacciando costantemente di insorgere lo teneva in continua tensione, per tutto il giorno non aveva osato muoversi, per quanto ora, anche se legato al giaciglio che gli avevano eretto in mezzo alla nave, egli avvertisse se stesso o più precisamente il suo corpo e la vita del suo corpo che già da molti anni a stento riusciva a riconoscere come sua propria, come una sola cieca ricerca e un solo assaporar la memoria di quel sollievo che, improvvisamente, come in un fiotto, gli aveva percorso le membra, allorché la nave aveva raggiunto il tratto di mare più calmo vicino alla costa; e questa fluente, quieta ed acquietante stanchezza lo avrebbe forse colmato di una felicità addirittura perfetta se, nonostante l’aria salubre e corroborante del mare, non fosse ritornato il tormento della tosse, lo spossamento della febbre d’ogni sera, l’affanno di ogni sera. Così giaceva, lui, il poeta dell’Eneide, lui, Publio Virgilio Marone, giaceva con diminuita coscienza, quasi umiliato per la sua impotenza, quasi esasperato per il suo destino, fissando la ricurva, perlacea conchiglia del cielo: ma perché aveva ceduto alle pressioni di Augusto? Perché aveva lasciato Atene? svanita era ormai la speranza che il sacro e ridente cielo di Omero potesse, propizio, favorire il compimento dell’Eneide, svanita ogni speranza di quella vita immensamente nuova che sarebbe dovuta seguire, una vita distaccata dall’arte, libera dalla poesia, rivolta al pensiero e alla scienza nella città di Platone, svanita la speranza di poter mai riporre piede sulla terra di Ionia, svanita, ahimè, svanita la speranza di poter essere partecipe del miracolo della conoscenza, di poter risanare nella conoscenza. Perché vi aveva rinunciato? Di sua volontà? No! era stato come un comando delle ineluttabili forze della vita, delle ineluttabili forze del destino, che mai compiutamente dileguano, anche se per qualche tempo sprofondano nel mondo sotterraneo, invisibile e inscandagliabile, e sono pur tuttavia ancora e sempre presenti, imperscrutabile minaccia delle potenze, alle quali non è dato sottrarsi e alle quali è necessario piegarsi; era il destino. Egli si era lasciato sospingere dal destino, e il destino lo spingeva ora verso la fine. Non era stata questa, sempre, la forma della sua vita? aveva mai vissuto diversamente? la perlacea conchiglia del cielo, il mare primaverile, il canto dei monti, ciò che dolorando gli cantava nel cuore ed il flauto del dio, erano stati forse per lui qualcosa d’altro se non un accadimento, che pari ad un vaso delle sfere celesti, stesse per accoglierlo in sé e immetterlo nell’infinito? Egli era nato agricoltore, un uomo cui conveniva la semplice, sicura vita della comunità agreste, destinato, per le sue stesse origini, a poter restare, a dover restare; e pur tuttavia, in obbedienza a un più alto destino, non gli era stato concesso di dimenticare la patria e nella patria non gli era stato concesso restare; egli era stato esiliato, scacciato dalla sua comunità, spinto nella nuda, maligna, folle solitudine dell’umano tumulto, era stato cacciato lontano dalla semplicità della sua origine, cacciato nella vastità del mondo in una molteplicità sempre crescente, e se mai qualcosa in quel mondo era divenuto più grande e più vasto, ciò era unicamente la distanza che lo separava dalla vera vita, poiché in verità solo questa distanza era cresciuta: egli aveva camminato soltanto al margine dei suoi campi, era vissuto soltanto al margine della sua vita, ed era diventato un uomo senza pace, che fuggiva la morte, cercava la morte, cercava la sua opera, fuggiva la sua opera, un uomo capace d’amore e pur tuttavia un perseguitato, errante per le passioni del mondo interiore e del mondo esteriore, un ospite della sua stessa vita. Ed oggi, quasi alla fine delle sue forze, alla fine della sua fuga, alla fine della sua ricerca, oggi che aveva vinto ed era pronto al congedo, che aveva conquistato la sua libertà ed era pronto ad accettare l’ultima solitudine, a ripercorrere l’interno cammino verso di essa, proprio oggi il destino si era, ancora una volta, con tutte le sue forze impossessato di lui, gli aveva ancor una volta rifiutato la semplicità e l’origine, di nuovo gli aveva sbarrato la via del ritorno, l’aveva piegata e distorta, ne aveva fatto una via della molteplicità dello spazio esteriore, lo aveva costretto a retrocedere verso quel male che era stata l’ombra di tutta la sua vita, anzi, sembrava che il destino gli riserbasse ormai una sola semplicità — la semplicità del morire. In alto, sopra di lui, cigolavano i pennoni nelle gomene, e di tanto in tanto si sentiva il morbido rimbombo delle vele ed egli udiva trascorrere le spume della scia e lo spruzzo argentino dei remi emergenti dal mare, li udiva stridere pesantemente negli scalmi e di nuovo tuffarsi nell’acqua con una tagliente percossa, sentiva la spinta morbida e uguale della nave che avanzava nella battuta ritmica delle centinaia di rematori, vedeva la linea della costa, orlata di bianco, scorrere davanti ai suoi occhi e pensava ai corpi muti e incatenati degli schiavi dentro lo scafo soffocante, fetido e rimbombante della nave. La stessa brusca battuta dei remi, nel suo alternarsi di cupa percossa e di spruzzo argentino, risuonava dalle due navi vicine, dalla prossima e dalla successiva, simile a un’eco, che si propagasse su tutti i mari e da tutti i mari ricevesse risposta, poiché dappertutto così navigavano, cariche d’uomini, cariche d’armi, cariche di frumento e di grano, cariche di marmi, d’olio, di vino, di spezie, di sete, cariche di schiavi, dappertutto la marineria, che scambia e commercia, è, tra le molte perdizioni del mondo, una delle più tristi. Queste navi, certo, non trasportavano merci, ma pance ingorde, i cortigiani del seguito: tutta la parte posteriore della nave dalla poppa al cassero era riservata alla nutrizione di questa gente, e fin dal primo mattino risuonavano colà i rumori del pasto, e ancora in quel momento schiere di crapuloni assediavano la sala da pranzo, in attesa che vi si rendesse libero un triclinio, pronti a piombarvi sopra in lotta con gli altri competitori, avidi di distendervisi per cominciare, o ricominciare, alfine, essi stessi il banchetto; gli inservienti, giovani dall’agile piede, eleganti e agghindati — non pochi fra essi i ganimedi — ora tuttavia sudati e disfatti, non avevano un attimo di respiro, e il loro capo con un eterno sorriso sulle labbra, ma con un freddo sguardo nella coda dell’occhio e le mani affabilmente aperte a ricevere le mance, li spediva da una parte e dall’altra, correva egli stesso su e giù per il ponte, perché oltre a servire gli ospiti del banchetto, bisognava occuparsi anche di quelli che — strano abbastanza — parevan già sazi ed ora si dilettavano in altro modo, alcuni passeggiando, le mani intrecciate sul ventre o dietro il sedere, altri invece discutendo con ampi gesti delle braccia, altri assopiti o ronfanti, il volto coperto dalla toga, altri infine seduti al tavolo da gioco; tutti costoro dovevano incessantemente essere colmati d’ogni sorta di attenzioni e di cure, come i piccoli pasti, che venivano loro recati ed offerti in ogni parte del ponte su grandi piatti d’argento, per non trascurare una fame che poteva annunciarsi rinvigorita ad ogni istante, una voracità, stampata in modo chiarissimo e incancellabile sulle facce di tutti — dei ben nutriti come degli smunti, dei tardi come degli spediti, dei passeggianti come dei seduti, dei desti come dei dormienti — voracità che era a volte scolpita, a volte impastata su quelle facce, con un’espressione dura o fiacca, maligna o bonaria, e con tratti di lupo, di volpe, di gatto, di pappagallo, di cavallo, di pescecane, e sempre rivolta a un piacere mostruoso, in qualche modo chiuso in se stesso, teso a un possesso insaziabile, smanioso di trafficare merci, denaro, posti ed onori, smanioso di godere l’affaccendata inerzia del possesso. C’era ovunque qualcuno che si metteva in bocca qualcosa, ovunque ardeva la cupidigia, ardeva l’avidità, priva di radici, ma pronta ad avviluppare e ad inghiottire tutto, era come un miasma che si effondeva per tutto il ponte, e veniva trasportato dalla stessa nave, nel ritmico batter di remi, inevitabile, inarrestabile. Oh, se lo meritavano di venir rappresentati una volta quali essi erano! Un canto della sfrenata bramosia gli si sarebbe dovuto dedicare! Pure, a che sarebbe servito?! nulla può il poeta, a nessun male egli può porre rimedio; gli si presta ascolto soltanto se magnifica il mondo, non lo si ascolta se lo rappresenta nella sua realtà. Soltanto dalla menzogna nasce la fama, non dalla conoscenza! Ed era ora pensabile che all’Eneide dovesse venir concesso un risultato diverso, migliore? Ahimè, essa sarebbe stata elogiata, poiché era stato elogiato tutto quanto aveva scritto, perché vi avrebbero inteso soltanto ciò che a loro piaceva, e perché non c’era né la speranza né il pericolo che potessero ascoltare i suoi ammonimenti; non gli era concesso illudersi o farsi illudere, ahimè, troppo bene egli conosceva questo pubblico, che della dura fatica del poeta e del travaglio della sua ricerca così poco conto teneva come dell’amara, aspra fatica dei rematori, e all’uno e all’altro lavoro dava lo stesso valore: un tributo per chi ne aveva il beneficio e come un tributo accettato e goduto! Eppure non erano tutti parassiti coloro che poltrivano e bagordavano intorno a lui; anche se Augusto doveva tollerare nel suo seguito più d’uno di questa specie, molti di essi tuttavia si erano già resi diversamente utili e meritori, ma di ciò che normalmente essi erano, durante l’inattività del viaggio, si erano quasi del tutto spogliati, con un piacere addirittura perverso di mettersi a nudo, sicché solo la loro cieca albagia era rimasta intatta, la loro squallida cupidità, il loro torpore colmo di cupidigia. Sotto, nella caligine del Disotto, lavorava, domata, la moltitudine degli schiavi, colpo su colpo, grandiosa, selvaggia, bestiale, subumana. Questi che stavano in basso non lo capivano e non si curavano di lui, quelli che stavano in alto pretendevano di venerarlo, ne erano anzi persino convinti, e tuttavia, non importa se per una qualche mendacia del gusto credessero di amar le sue opere o se, non meno mendaci, gli manifestassero la loro devozione perché amico dell’imperatore, lui, Publio Virgilio Marone, non aveva nulla in comune con loro, ed anche se il destino lo aveva sospinto nella loro cerchia, egli ne provava disgusto e se la brezza della costa, salutando il tramonto del sole, non avesse preso a spirare spazzando via dalla nave il fetore del banchetto e delle cucine, il mal di mare lo avrebbe aggredito di nuovo. Volle accertarsi che il baule contenente il manoscritto dell’Eneide si trovasse intatto accanto a lui, e guardando con gli occhi socchiusi l’astro che tramontava nel mare d’occidente, si tirò il mantello fin sotto il mento; gelava.
Di tanto in tanto gli veniva tuttavia voglia di voltarsi e di dare uno sguardo alla schiamazzante orda umana là dietro, quasi curioso di quanto essa stesse ancora per fare; ma non lo fece, ed era meglio così, anzi, gli pareva, sempre più chiaramente, che gli fosse addirittura proibito voltarsi.
Così giaceva tranquillo. Il primo velo del nascente crepuscolo si tendeva chiaro nel cielo, si tendeva delicato sul mondo, quando fu raggiunta l’imboccatura del porto di Brindisi, stretta, simile a un fiume. L’aria si era fatta più fresca, ma anche più mite, la lieve brezza salmastra si mescolava con l’aria più carica e intensa della terra, nel cui canale le navi, rallentando una dopo l’altra il loro corso, stavano ora entrando. Grigio e plumbeo si fece l’elemento di Posidone, non più increspato dall’onde. Sui merli dei castelli, a destra e a sinistra del canale, s’erano schierate le truppe del presidio per render gli onori all’imperatore e rivolgergli forse anche il primo saluto per il suocompleanno, perché Ottaviano Augusto ritornava in patria appunto per celebrare il giorno della sua nascita; tra due giorni, infatti, tra due giorni soltanto, doveva esserci festa a Roma e lo stesso Ottaviano che navigava sulla prima nave avrebbe compiuto quarantatré anni. Dalle voci roche delle truppe sulle due rive si levarono gli evviva, i vessillari alle ali dei manipoli inalzavano ad ogni grido di saluto i loro rossi stendardi con gesti abili e destri per abbassarli poi al passaggo del loro signore ponendo l’asta obliqua incontro al suolo; ciò che stava svolgendosi era insomma la marziale, sobria cerimonia del saluto, com’era prescritta dal regolamento, regolamentare nella sua asprezza militaresca e pur tuttavia singolarmente dolce, singolarmente crepuscolare, quasi la si sarebbe potuta definire trasognata, tanto lievi si perdevano le voci nella vastità della luce, tanto autunnale appassiva il rosso dei vessilli nell’ombra del firmamento che andava spegnendosi nel grigio della sera. Più grande della terra è la luce, più grande dell’uomo è la terra, e mai l’uomo potrà dire di essere, se il suo respiro non sia rivolto alla patria, se non ritorni alla terra e attraverso la terra non ritorni alla luce, e sulla terra, terrenamente, non riceva la luce, e solo attraverso la terra dalla luce sia accolto, attraverso la terra che si fa luce. E mai la terra è più intimamente vicina alla luce, né mai la luce più vicina alla terra, che nell’incipiente crepuscolo dell’uno e dell’altro confine della notte. La notte era ancor assopita nella profondità dell’acque, ma con mute, minuscole onde incominciava d’ogni parte a filtrare attraverso lo specchio del mare, indistinguibili il Disopra e il Disotto, le mute onde del fondo della notte emergevano morbide come un velluto, onde della feconda infinità, della feconda, germogliante, più alta infinità, e sommessamente presero ad alitare sullo sfavillio e a coprirlo di silenzio. La luce non cadeva più dall’alto, ma era come sospesa in se stessa, e così sospesa in se stessa riluceva ancora senza tuttavia dare più luce, cosicché anche la campagna sopra la quale era sospesa, sembrava stranamente risplendere di luce propria. Il canto dei grilli, sorgente da una miriade di voci, eppur assiduamente tenuto su un’unica nota, penetrante ed immobile nella sua monotonia, riempiva del suo ronzio la campagna già piena di ombre; senza fine. Sotto le opere di fortificazione, giù fino alla sponda rocciosa, cresceva un’erba rada sui pendii, e benché fosse una magra vegetazione, quel germogliare era pace, era notturno silenzio, era oscurità delle radici, oscurità della terra, distesa sotto la dileguante luce della sera. Poi la vegetazione si fece più eguale e continua, più ricca di piante e più viva di colori, e presto comparvero qua e là i ciuffi delle macchie, mentre sui dòrsi delle colline, lassù, tra i recinti di pietre eretti dai contadini, si mostravano i primi olivi, grigi come il tenuissimo svaporar della nebbia nel crepuscolo che si faceva man mano più scuro. Oh, senza limiti si fece in lui il desiderio di tender la mano verso quelle rive, ahimè tanto lontane, di immergerla nell’oscurità della boscaglia, di sentire tra le dita la fronda germogliata dalla terra e di tenerla stretta per sempre — questo desiderio palpitava nelle sue mani, le sue dita palpitavano di brama irrefrenabile per quelle foglie verdi, dal picciolo flessibile, dal margine tenero ed affilato, dal sodo, vivo tessuto, lo sentiva quando chiudeva gli occhi come un desiderio addirittura sensuale, di una sensualità semplice e vigorosa, come l’ossatura grossa e virile del suo pugno di contadino, di una sensualità ricchissima e assaporante come le innervature sensibilissime della sua mano dai polsi sottili e quasi femminei; o erba, o fronde, o politezza, o ruvidezza della corteccia, vitalità del germoglio, oscurità della terra, molteplice, ramificata in se stessa, divenuta corporea! o mano che sente, che tocca, che prende, che stringe, o dita, punte delle dita, ruvide e delicate e morbide, pelle viva, ultima superficie dell’oscurità dell’anima, dischiusa nelle mani alzate! Sempre aveva avvertito questo strano, quasi vulcanico pulsare nelle proprie mani, sempre l’aveva accompagnato l’intuizione di una loro vita segreta, una intuizione alla quale, una volta per sempre, era stato vietato di varcare la soglia della conoscenza, quasi in essa vi fosse un pericolo o una torbida insidia, ed ogni qual volta egli, come era sua abitudine e come stava facendo in quel momento, girava l’anello col sigillo che portava al dito della mano destra, anello di fine fattura e quasi un poco femmineo nella sua delicatezza, gli pareva di poter scongiurare in tal modo un oscuro pericolo, di poter placare il desiderio delle sue mani, di poter in qualche modo indurle a dominarsi, attenuando la loro angoscia, il loro ansioso desiderio di rustiche mani, che non dovevano afferrare mai più l’aratro, mai più le sementa e che perciò avevano appreso ad afferrare l’inafferrabile, la presaga angoscia di mani, alla cui volontà plasmatrice, strappata alla terra, null’altro era rimasto che la loro propria vita nell’universo inafferrabile, insidiate e insieme insidiose, così protese nel nulla e così prese dalla insidia del nulla, che l’intuizione di questa angoscia, per così dire rivolta oltre se stessa, si trasformava nello sforzo supremo di cogliere l’unità della vita, di preservare l’unità dell’umano desiderio, per evitare in tal modo che questo si dissolvesse in una molteplicità di singole vite particolari, piccole nel loro desiderio e vive solo di piccoli desideri, perché insufficiente è il desiderio delle mani, il desiderio dell’occhio, il desiderio dell’udito, sufficiente è soltanto la comunione del desiderio del cuore e della mente, la desiosa interezza dell’infinito spazio interiore ed esteriore, che guarda ed ascolta ed afferra e respira nell’unità di un doppio respiro, poiché ad essa soltanto è concesso di vincere la disperata cecità dell’isolamento angoscioso, poiché in essa soltanto ha luogo il duplice sviluppo che parte dalle radici dell’essere; questo egli sentiva, aveva sempre sentito — o nostalgia di colui che è sempre soltanto un ospite, può essere soltanto un ospite, o nostalgia dell’uomo, — questo era stato sempre il presagio del suo orecchio, il presagio del suo respiro, il presagio della sua mente, proteso col suo orecchio, col suo respiro e con la sua mente nella fluttuante luce dell’universo, nell’irraggiungibile conoscenza dell’universo, nel mai compiuto avvicinamento all’infinità dell’universo, irraggiungibile persino il suo lembo più esterno, tanto che la mano anelante non osa nemmeno toccarlo. Pure, ciò nonostante, era un contatto, restava un contatto e il suo pensiero era come il respiro di un orecchio in attesa, proteso nel duplice abisso delle sfere di Posidone e di Vulcano, entrambe unite perché ad entrambe sovrasta la volta del cielo di Giove. La luce, l’aria del crepuscolo erano dischiuse e fluenti, come il fluido in cui erano immerse le chiglie, fluido bagno del mondo interiore e del mondo esteriore, fluido bagno dell’anima, e questo afflato fluiva da questo mondo nell’altro mondo, dall’altro mondo in questo mondo, svelata porta della conoscenza, non la conoscenza medesima, ma già intuizione della conoscenza, intuizione dell’entrata, intuizione della via, nascente intuizione di un viaggio nella penombra. Uno schiavo cantore più avanti, verso la prua, cantava; probabilmente. coloro che ivi si erano radunati — il loro clamore era stato come assorbito dal silenzio della sera — avevano fatto venire il fanciullo anelando pur essi al ritorno, e dopo la breve pausa degli accordi e la battuta di attesa conforme ai principi dell’arte, era cominciata la canzone senza nome del fanciullo senza nome, e giungeva ora al suo orecchio portata dal vento, la canzone radiosa e soave, un alito che si librava come i colori di un arcobaleno nel cielo della notte, radioso e soave, di una delicatezza eburnea, il suono delle corde, opera umana il canto, opera umana il suono dello strumento, ma al di là di questa origine umana, l’uno e l’altro lontani dall’uomo, disciolti dall’uomo, disciolti dal dolore, aura delle sfere celesti che canta se stessa. Scese una oscurità più profonda, i volti si fecero confusi, impallidirono le rive e più non si distinse la nave, restò unicamente la voce che divenne più chiara, dominante, quasi volesse guidare la nave e la battuta dei remi, obliata l’origine della voce e tuttavia voce di uno schiavo e di un fanciullo che era la guida; la canzone additava la via, riposava in se medesima e appunto perciò indicava il cammino e si schiudeva all’eternità, poiché solo ciò che riposa può indicare il cammino, solo ciò che è unico e inconfondibile, strappato e salvato dal flusso delle cose, si apre all’infinito, soltanto ciò che è immobile — ahimè, era mai riuscito, lui, ad attingere questa vera immobilità che addita la via? — solo ciò che è veramente immòbile, e fosse anche soltanto un unico istante nel mare dei milioni d’anni, si fa durata fuori del tempo, si fa canto che mostra il cammino, si fa guida; oh, un unico istante di vita, dilatato sino a comprendere il tutto, sino a colmare il cerchio della conoscenza del tutto, un cerchio dischiuso all’infinito; alto sopra il canto radioso, alto sopra il radioso crepuscolo respirava il cielo, e la sua dolcezza autunnale, chiara ed acerba, da migliaia di secoli si era ripetuta immutabilmente e ancora per migliaia di secoli immutabilmente si sarebbe ripetuta, e tuttavia inconfondibile nel luogo e nel tempo, ed il serico splendore della sua cupola era come soffuso del silenzio della notte incipiente.
La canzone li guidava, ma non più a lungo; il viaggio tra le rive del canale d’entrata volse presto alla fine e la canzone si spense nella generale animazione che nacque a bordo, quando si aprì l’insenatura interna del porto, già nereggiante il suo plumbeo specchio, e fu visibile la città, disposta a ventaglio intorno al bacino, con la moltitudine delle sue luci, sfavillante nei vapori del crepuscolo come un cielo stellato. L’aria d’improvviso si era fatta più calda. La squadra si arrestò per lasciare alla testa la nave dell’imperatore, ed ora — anche questo accadimento, nell’immutabilità del mite cielo autunnale, avrebbe dovuto essere colto, come infinita irripetibilità — s’iniziò una serie di caute manovre, per pilotare le navi in mezzo alle barche, ai velieri, ai pescherecci, alle tartane e alle navi da carico d’ogni parte ancorate; quanto più innanzi si procedeva, tanto più stretto si faceva il canale di rotta, tanto più serrata la massa degli scafi all’intorno, tanto più denso il groviglio degli alberi, delle vele raccolte e dei cordami, morti nella loro rigidità, vivi nella loro quiete, uno strano, oscuro viluppo di radici, incrociate e aggrovigliate, che dalla lucente superficie dell’acqua scura e oleosa cresceva fosco verso l’immoto chiarore del vespro, una nera tela di ragno di legno e di canapa, che sotto si specchiava spettrale nelle acque e sopra era attraversata in modo altrettanto spettrale dal caotico baluginar delle fiaccole che da ogni parte tra grida di saluto si agitavan sui ponti, e illuminata dallo sfarzo di luci sulla piazza del porto: nella fila di case allineate intorno al bacino tutte le finestre erano illuminate fin su nelle soffitte e così le osterie, una dopo l’altra, sotto i colonnati; attraverso la piazza si snodava una doppia spalliera di soldati armati di fiaccole, scintillanti gli elmi, l’uno a fianco dell’altro, i quali manifestamente avevano il compito di tenere sgombro il passaggio dal posto di sbarco alla città; illuminati di fiaccole erano anche le tettoie e gli uffici della dogana sui moli, era un gigantesco, scintillante spazio, stipato di corpi umani, un gigantesco scintillante serbatoio per un’attesa enorme quanto brutale, riempito da un fremito che centomila piedi producevano strisciando, strascicando, pestando, scalpitando sul lastrico di pietra, una gigantesca arena che ribolliva, riempita da un ronzio or crescente or decrescente, da un mugghiare di impazienza, che però improvvisamente si tacque e si irrigidì nell’attesa quando la nave imperiale, sospinta ancor solo da una dozzina di rematori, dolcemente virando, raggiunse la banchina e accostò quasi senza rumore al punto prestabilito, attesa dai dignitari della città in mezzo alle fiaccole del quadrato militare; era quello il momento che la massa bestiale, nella sua sorda aspettazione, aveva atteso per cacciar fuori il suo urlo di giubilo, ed ecco che quell’urlo proruppe, senza pausa e senza fine, vittorioso, vibrante, irrefrenabile, pauroso, immane, servile, se stesso adorando nella persona dell’Uno.
Questa era dunque la massa per la quale viveva l’imperatore, per la quale l’impero era stato creato, per la quale si era dovuto depredare la Gallia, piegare il regno dei Parti, combattere la Germania, questa era la massa per la quale era stata creata la grande pace augustea, la massa che attraverso questa opera di pace si sarebbe dovuta riportare alla disciplina e all’ordine dello Stato, alla fede negli dèi e alla moralità umana ,e divina. E questa era la massa senza la quale nessuna politica sarebbe stata possibile e sul favore della quale anche Augusto doveva contare, se voleva restare al potere; e naturalmente Augusto non nutriva altro desiderio. Sì, e questo era il popolo, il popolo romano, la cui anima e il cui onore lui, Publio Virgilio Marone, lui, schietta prole contadina di Andes presso Mantova, se non aveva ritratto, certo aveva tentato di glorificare! Glorificato e non ritratto: era stato questo l’errore! costoro erano gli Italici dell’Eneide! Empietà, un groviglio di empietà, un mostruoso groviglio di empietà, ineffabile, indicibile, incomprensibile, ribolliva nel serbatoio della piazza, cinquanta, centomila bocche esprimevano nel loro ruggito l’empietà, se la ruggivano gli uni agli altri, senza udirla, senza conoscerla, ma con la volontà tuttavia di soffocarla e di stordirla in un infernale ruggito, nello schiamazzo e nelle grida; quale saluto augurale per un compleanno! ma era il solo a rendersene conto? La terra aveva una pesantezza di pietra, il mare una pesantezza di piombo, e questo era il diabolico cratere dell’empietà, spalancato dallo stesso Vulcano, uno strepitante cratere al margine del regno di Posidone. E non sapeva, Augusto, che questo non era un saluto augurale, ma qualcosa di profondamente diverso? Un senso di straziante compassione emerse in lui, una compassione destinata così ad Ottaviano Augusto come alle masse umane, così al dominatore come ai dominati, e che si accompagnava a un senso di responsabilità non meno straziante e addirittura insopportabile, del quale a stento egli riusciva a rendersi conto poiché solo questo sapeva: che somigliava poco a quell’onere che l’imperatore si era addossato, che era piuttosto una responsabilità di natura del tutto diversa, perché irraggiungibile ad ogni misura statale e ad ogni potenza di questa terra per quanto grande essa fosse, irraggiungibile forse agli stessi dèi era questa empietà che ribolliva cupa, ignota, segreta, e nessun grido della massa riusciva a coprirla, sì invece la debole voce dell’anima, che si chiama canto e che annuncia, insieme al presagio del male anche il risveglio della salvezza, perché ogni vero canto è presago di conoscenza, è gravido di conoscenza, indica la via della conoscenza. La responsabilità del cantore, quel suo dovere di conoscere che egli mai riesce interamente ad affrontare e ad assolvere — oh, perché non gli era stato concesso di spingersi oltre il presagio fino al vero sapere dal quale soltanto si dovrà attender salvezza ?! Perché il destino lo aveva costretto a ritornare indietro fin qui ? ! Qui non c’era che morte e null’altro che morte!
Con gli occhi spalancati d’orrore, egli si era mezzo sollevato; ora però ricadde sul giaciglio, vinto dal ribrezzo, dalla pietà, dalla responsabilità che voleva assumersi, dall’impotenza, dalla stanchezza; non era odio ciò che egli sentiva per la massa e nemmeno ripugnanza o disprezzo, né ora né mai egli intendeva separarsi dal popolo né tanto meno inalzarsi al di sopra di esso, ma era accaduto qualcosa di nuovo, qualcosa che egli non aveva mai voluto riconoscere nonostante tutti i suoi contatti con il popolo, nonostante che egli, ovunque si fosse trovato, sia a Napoli che a Roma o ad Atene, ne avesse avuto abbondanti occasioni — qualcosa che ora, qui a Brindisi, lo sorprendeva per la sua insopprimibile urgenza, e cioè l’abissale empietà del popolo in tutta la sua ampiezza, la decadenza dell’uomo che si fa plebe dì grande città, e con ciò il pervertimento dell’uomo, in qualcosa che è contrario all’umano per uno svuotamento, per una metamorfosi dell’essere ridotto ai meri appetiti della superficie, recise le radici della sua origine e da questa esso stesso reciso, sicché null’altro restava che la vita sradicata di una torbida, mera esteriorità, gravida di male, gravida di morte, oh, gravida d’una fine misteriosa e infernale. Era questo ciò che il destino aveva voluto insegnargli quando lo aveva nuovamente ricacciato nella molteplicità, nel pozzo della crudele, tumultuosa terrestrità? era questa la vendetta per la sua passata cecità? mai egli aveva conosciuto l’empietà della massa con tale immediatezza; ora egli era costretto a guardarla, ad udirla, a sentirla fin nelle estreme e più profonde radici del proprio essere, poiché la cecità stessa è parte del male. Ancora echeggiava il non lieto ruggito di giubilo di coloro che stordivano se stessi; si agitarono fiaccole, comandi risuonarono attraverso la nave, una gomena, lanciata da terra, cadde sorda sul ponte e si udì il clamore della perdizione e il clamore del tormento e il clamore della morte, si udì il clamore del mistero gravido di male, segreto e tuttavia palese ed ovunque presente. In mezzo al calpestio di molti piedi precipitosi, egli giaceva immobile, la sua mano teneva stretta in pugno una maniglia del baule di cuoio che conteneva i suoi manoscritti, perché non glielo strappassero via, eppure, stanco di quel clamore, stanco della febbre e della tosse, stanco del viaggio e di ciò che sarebbe venuto, egli si immaginava che quest’ora dell’arrivo facilmente avrebbe potuto mutarsi nell’ora della sua morte, e quasi arrivava a desiderarlo benché egli sentisse, o proprio perché chiaramente sentiva, che il momento della sua morte non era ancor giunto, — sì, quasi lo desiderava, anche se sarebbe stata, o proprio perché sarebbe stata, una morte stranamente abbrutita, stranamente rumorosa, ma non gli pareva inaccettabile, gli sembrava anzi quasi desiderabile, perché il suo cuore, costretto a guardare nell’inferno di fuoco, costretto ad udirlo, sarebbe stato costretto a conoscere anche il fuoco segreto del subumano.
Ora, sarebbe stato certo allettante lasciarsi portar via così coi sensi intorpiditi e sottrarsi in tal modo al frastuono, chiudersi al vociar della folla, vulcanico, sotterraneo, che fluttuava inerte verso di lui attraverso la piazza, quasi non volesse aver fine; ma questa evasione gli era proibita, soprattutto poi se essa avesse dovuto condurre alla morte, poiché troppo forte era ora l’imperativo di cogliere ogni più piccola particella del tempo, ogni più piccola particella degli avvenimenti e incorporarla nel ricordo, come se potesse in questo modo venir conservata oltre tutte le morti e per tutti i tempi; egli si aggrappò alla coscienza, vi si aggrappò con la forza di colui che sente avvicinarsi il momento più pregnante della sua vita terrena ed è colmo d’angoscia, temendo di sciuparlo, e la coscienza, tenuta vigile dalla vigile angoscia, obbediva alla sua volontà: nulla gli sfuggiva, né i gesti premurosi e le vuote parole di conforto dell’aiuto medico, un giovane dal viso glabro, azzimato con estrema cura, che ora si trovava al suo fianco per ordine di Augusto, né le facce ottuse e sorprese dei portatori che avevano recato a bordo una lettiga, per portare via lui, malato e privo di forze, come una merce fragile e preziosa; egli notava tutto, egli doveva fissare tutto nella coscienza, egli notò lo sguardo incarcerato dei loro occhi, il ringhioso brontolio con cui i quattro uomini si intesero nell’atto di alzare il peso sulle loro spalle, il fortore aggressivo e maligno dei loro corpi sudati, né gli sfuggì che il suo mantello era rimasto presso il suo giaciglio e che un giovanetto dall’aspetto assai infantile e dai capelli neri e ricciuti lo aveva raccolto con un agile balzo ed ora glielo portava seguendo la lettiga. Certo, il mantello era meno importante dei manoscritti; egli aveva dato ordine ai due servi adibiti al loro trasporto di tenersi sempre vicino alla lettiga; ciò nondimeno una piccola parte di quella vigilanza che egli si sentiva obbligato e si obbligava ad osservare contro l’insidioso torpore della stanchezza poteva certo essere dedicata al mantello, ed egli si chiedeva da dove mai fosse uscito il fanciullo, che gli pareva stranamente noto e familiare benché non l’avesse mai notato durante il viaggio. Era un ragazzo in certo modo poco avvenente, di una goffaggine un po’ campagnola, sicuramente non uno schiavo né uno degli inservienti, e mentre egli, molto fanciullesco, con gli occhi chiari nel volto abbronzato, sostava in attesa presso il parapetto, dato che ad ogni passo c’era un ingorgo di gente, gettava di tanto in tanto una furtiva occhiata alla lettiga, distogliendone subito lo sguardo, timido e dolcemente divertito, non appena si sentisse osservato. Un gioco degli occhi? Un gioco d’amore? Doveva lui, malato, essere trascinato ancora una volta nel doloroso gioco dell’amorosa follia, lui, infermo e giacente, essere ancora una volta travolto nel gioco di coloro che incedono eretti? oh, nel loro incedere essi non sanno quanto la morte sia loro intessuta nel volto e negli occhi, e si rifiutano di saperlo e vogliono soltanto continuare il gioco delle loro lusinghe e del loro reciproco inganno, il gioco ingenuo ed amabile del bacio ancora non dato, gli occhi negli occhi, e non sanno che ogni abbandono d’amore è sempre un abbandono alla morte; lo sa invece colui che irrevocabilmente giace disteso e quasi prova vergogna d’aver un giorno camminato egli stesso, di avere egli stésso — ma quand’era stato? in tempi immemorabili o solo pochi mesi prima? — preso parte al dolce e vago, dolce e cieco gioco della vita, e il disprezzo con cui lo guardano coloro che sono irretiti nel gioco, perché ne è escluso per sempre e giace nell’abbandono, gli sembra quasi una lode. Perché la verità dell’occhio non è dolce lusinga; solo con le sue lacrime l’occhio diviene veggente, nel dolore soltanto diventa occhio che vede, solo per le sue lacrime si colma di quelle del mondo, colmato di verità dall’oblioso, immemore licore dell’essere! Oh, soltanto nel risveglio tra le lacrime la morte di questo mondo, nella quale vivono gli amanti, diventa vita che vede la morte, che vede il tutto. E proprio perciò anche il fanciullo doveva — ma quali lineamenti recava sul volto? quelli di un passato immemorabile o di un passato recente? — proprio perciò il fanciullo avrebbe dovuto distogliere lo sguardo e non continuare un gioco, che come svago e diletto aveva finito il suo tempo; era troppo innaturale che questo sguardo potesse dimenticare quanto fosse vicino alla morte, che fosse inviato ad un uomo prostrato, il cui occhio non poteva e, ahimè, non voleva più dare risposta, e troppo innaturale ormai era la follia, la dolcezza, il dolore in mezzo a un inferno di frastuono e di fuoco, immoto nel suo cieco tumulto, popolato da un’umanità fiaccata ed afflitta. Tre ponticelli erano stati gettati dalla nave alla banchina, quello di poppa riservato ai passeggeri, ben lontano dal poter accogliere la folla fattasi d’improvviso impaziente, gli altri due invece destinati allo sbarco delle merci e dei bagagli, e mentre gli schiavi a ciò comandati, in una lunga fila tortuosa, spesso appaiati come coppie di cani l’uno a fianco dell’altro con collari e catene, folla di razze diverse, dallo sguardo abbrutito, ancor umana e non più umana, mera creaturalità incalzata e battuta, figure lacere o seminude, lucide di sudore nella cruda luce delle fiaccole, oh, scena terribile e atroce, mentre essi così s’affrettavano a salire a bordo su per il ponticello centrale, per ridiscendere poi da quello di prua, il corpo curvato quasi ad angolo retto sotto il fardello delle casse, dei sacchi e dei bauli, mentre tutto ciò accadeva, i sorveglianti, uno per ciascuna estremità dei due ponti, con una corta sferza vibravano colpi alla cieca sui còrpi che gli passavano dinanzi, senza discriminazione e a più non posso, con la crudeltà insensata e quasi più nemmeno crudele di un potere assoluto e del tutto gratuito, dal momento che quella gente già s’affannava con tutto quanto aveva in corpo, a mala pena rendendosi conto di ciò che gli capitava e senza più nemmeno piegarsi quando la cinghia schioccava sopra di loro e rispondendo piuttosto con un ghigno beffardo; un piccolo schiavo nero di Siria, che proprio al suo arrivo in coperta era stato colpito da una sferzata, si aggiustò imperturbabile, senza preoccuparsi della striscia livida sulla sua schiena, i cenci che aveva sistemati sotto il collare, allo scopo di scorticarsi il meno possibile le clavicole, e si limitò a sogghignare, rivolto alla lettiga sollevata: “ Vieni un po’ giù, grande re, vieni giù, assaggia anche tu ciò che piace a noialtri! ” —, la sferza si alzò di nuovo come risposta, ma intanto il piccolo schiavo, che se l’aspettava, era prontamente scattato, la catena si era tesa repentinamente sicché il colpo sibilò sulla spalla del compagno che era stato strappato in avanti dal suo balzo improvviso; era un Parto d’alto fusto, dai capelli fulvi e dalla barba ispida, che, quasi stupito, girò il capo e sulla metà del viso rivolta da quella parte, in mezzo a un groviglio di cicatrici scolorite — era evidentemente un prigioniero di guerra — mostrò rosso, sanguinante, sbarrato, un occhio sbrindellato e disvelto, che, nonostante la sua cecità, era realmente sorpreso, perché, prima che lo schiavo venisse risospinto in avanti dalla fila incalzante degli uomini incatenati, ancora una volta la sferza, che continuava a colpire senza posa, gli era fischiata intorno al capo e gli aveva spaccato l’orecchio con un taglio sanguinante. Tutto ciò era durato un solo battito del cuore, ma fu sufficiente perché il cuore cessasse di battere; era un’infamia essere lì a guardare senza nemmeno tentare di intervenire, senza la capacità e forse anche senza la volontà di intervenire, come pure una infamia era voler fissare quell'avvenimento nella memoria, infame la stessa memoria dove persino questo doveva essere inciso per sempre! Senza memoria aveva sogghignato il piccolo schiavo di Siria, come se null’altro esistesse se non questo devastato e violentato presente, senza futuro e perciò senza passato, senza un poi e perciò senza un prima, come se i due uomini incatenati non fossero mai stati fanciulli, non avessero mai giocato nei campi della giovinezza, e nella loro terra non vi fossero stati né monti, né prati, né fiori e nemmeno un ruscello che la sera mormora e ascolta nella valle lontana, — oh, era un’infamia vivere nella memoria, curarsene e darsene pena! Oh, memoria, incancellabile, memoria colma dell’ondeggiare del grano, colma dei campi e della foresta crosciante dalle fresche pareti, colma dei boschetti della giovinezza, ebbri gli occhi al mattino, ebbro il cuore la sera, brivido verde che nasce, brivido grigio che muore, oh, conoscenza dell’origine è del ritorno, splendore della memoria! E tuttavia, sferzato il vinto, nel giubilo urla il vincitore, di pietra è lo spazio in cui ciò accade, bruciante l’occhio, bruciante la cecità, — per quale irreperibile essere valeva ancora vegliare? per quale futuro valeva l’indicibile pena della memoria? verso quale futuro doveva ancora addentrarsi? e c’era, poi, ancora un futuro?
Il ponticello oscillò rigido e duro, quando vi passò sopra la lettiga portata dagli uomini con passo misurato ed eguale; sotto, lentamente, fluttuava l’acqua nera, stretta fra il nero e pesante scafo e la nera e pesante muraglia della banchina, il liscio elemento che pesantemente fluiva, esalando se stesso, esalando immondezze e rifiuti, foglie di verdura e meloni imputriditi e tutto ciò che galleggiava in quella brodaglia, pigre onde di un greve, dolciastro alito di morte, onde di una vita putrescente, dell’unica vita che può vivere fra le pietre e che vive solo nella speranza di rinascere dalla sua dissoluzione. Così era lì sotto; qui sopra invece le stanghe della lettiga, dorate e adornate e di immacolata fattura, poggiavano sulle spalle di bestie da soma in figura umana, bestie umanamente nutrite, umanamente parlanti, umanamente dormienti e pensanti; e sul sedile della lettiga, intagliato e cesellato, un lavoro di immacolata fattura, la cui spalliera ed i cui bracciali erano decorati da stelle di lamine d’oro, riposava un uomo infermo ed impuro, nel quale era già in agguato la dissoluzione. Tutto ciò era d’un’estrema dissonanza, in tutto ciò si celava la nascosta empietà, l’immota fissità di un accadimento che è più perfetto dell’uomo, anche se è l’uomo stesso che costruisce le muraglie, che intaglia e martella, che intreccia le cìnghie della sferza e foggia le catene. Era impossibile chiuder gli occhi a questa realtà, impossibile dimenticarla. E qualunque cosa volesse dimenticare, questo, perpetuamente, tornava a presentarsi sotto diverso aspetto, come nuovi occhi, nuovo clamore, nuove frustate, nuova fissità e nuova empietà e ciascuno di questi aspetti esigeva un suo spazio particolare, l’uno serrando e soggiogando l’altro in un terribile urto e pur l’uno stranamente intessuto nell’altro in una singolare, indissolubile dissonanza. Dissonante come il reciproco contatto delle cose s’era fatto anche lo scorrer del tempo; le singole parti del tempo non volevano più ricomporsi: mai il presente era stato così nettamente reciso dal passato; una profonda, incolmabile frattura, aveva trasformato il presente in qualcosa di autonomo e lo aveva del tutto diviso dal passato, dal viaggio per mare e da tutto ciò che prima era accaduto, lo aveva distaccato da tutta la sua vita precedente; eppure, nel lieve dondolio della lettiga, difficilmente avrebbe potuto dire se ancora fosse sulla nave o non si trovasse invece già a terra. Egli spingeva lo sguardo sopra un mare di teste, si librava sopra un mare di teste, circondato da una marea di uomini, anche se ora ne era ancora ai margini essendo falliti i primi tentativi di vincere la resistenza di quelle ondate. E qui, al punto di attracco delle navi di scorta, l’ordine assicurato dai pretoriani era molto meno rigido che poco più in là, dove era sbarcato Augusto, ed anche se taluni passeggeri erano riusciti ad aprirsi un varco in quella direzione ed unirsi al solenne corteo che stava formandosi all’interno dello sbarramento per accompagnare l’imperatore al palazzo, ciò non sarebbe stato assolutamente possibile per il trasporto della lettiga; il familiare dell’imperatore che era stato assegnato alla piccola scorta per accompagnarla, per guidarla e per così dire vigilarla, era troppo anziano, troppo corpulento, troppo fiacco e fors’anche troppo bonaccione per riuscire ad aprirsi un varco tra la folla, egli era impotente e poiché era impotente doveva limitarsi a brontolare contro la polizia, che permetteva questi assembramenti plebei e che avrebbe dovuto garantirgli almeno una conveniente protezione, sicché alla fine si fu sbattuti e risospinti qua e là per la piazza e in certi momenti bloccati senza possibilità di muoversi, incalzati ed urtati or da una parte or dall’altra in uno stagnante zig-zag.
Il fatto che il fanciullo fosse venuto con loro, si rivelò di maggior aiuto di quel ch’era lecito sperare; come se in qualche modo si fosse reso conto — e ciò era molto strano — dell’importanza del baule dei manoscritti, sorvegliava i portatori perché lo tenessero sempre molto vicino alla lettiga, e mentre così gli camminava accanto col suo mantello gettato sulla spalla badando a non farsi trascinar dalla ressa, alzava di quando in quando lo sguardo verso la lettiga e con aria divertita ma rispettosa ammiccava con quei suoi occhi limpidi e chiari. Dal fronte delle case e dalle vie giungevano folate soffocanti di calura in larghe onde trasversali che si infrangevano, pur rimanendo immobili, nel caos senza fine delle voci e delle grida, nel brusìo e nel fremito del respiro di quella massa bestiale; respiro dell’acqua, delle piante, della città: una sola greve esalazione della vita costretta entro lastre di pietra e della sua putrescente parvenza di vitalità, humus dell’essere, prossimo a] disfacimento, che dai pozzi di pietra rovente saliva immane verso la fredda pietra delle stelle di cui già si copriva la sfera più interna del cielo, sempre più scura, d’un nero morbido e profondo. Da profondità inaccessibili germoglia e s’innalza la vita aprendosi un varco attraverso la pietra e muore e si corrompe e si raffredda già in questo suo crescere e già in questo suo crescere si vanifica; ma da altezze inaccessibili discende, freddo come la pietra, immutabile, un soffio cupo e luminoso, che tocca e soggioga, e si fa rigida pietra della profondità, in alto ed in basso la pietra, come se la pietra fosse l’ultima realtà di questo mondo, — e tra questa corrente e la corrente contraria, tra questa notte e l’altra notte, accesa di rosso nel basso, sfavillante di chiarità nell’alto, in quest’atmosfera doppiamente notturna egli era sospeso nella sua lettiga, come se questa fosse una barca che solcasse le onde della vita vegetale e della vita animale, inalzata nell’alito freddo dell’immutabile, sospinta verso mari così oscuri e così ignoti, che il viaggio era come un ritorno; perché di onda in onda, le grandi distese solcate dalla sua chiglia, onde della memoria, onde del mare, non si erano fatte più chiare, nulla in loro si era rivelato alla conoscenza, era rimasto soltanto l’enigma, il passato colmo d’enigma giungeva oltre le proprie sponde fin nel presente, sicché in mezzo al denso vapore resinoso delle fiaccole, in mezzo al soffocante miasma della città, in mezzo alla ferina esalazione cupa ed ansante dei corpi, in mezzo alla piazza e alla sua estraneità, egli sentiva, incancellabile e inconfondibile, l’odore del mare e la sua grande e imperitura presenza: dietro di lui riposavano ferme le navi, gli strani uccelli dell’ignoto; ancora risuonano le voci di comando e giungono di lontano al suo orecchio, poi lo stridente, sussultante cigolìo di un argano di legno, poi un colpo di timpano sonoro e profondo, che si propaga come un’ultima eco dell’astro del giorno tramontato nel mare, e là dietro c’è il vento delle grandi distese marine, c’è la loro inquietudine incoronata dal bianco di milioni e milioni di spume, il sorriso di Posidone, sempre pronto a mutarsi in un mugghiarne scoppio di risa quando il dio sollecita i suoi cavalli, e di là dalle distese marine ci sono le terre che cingono il mare, tutte le terre che egli ha attraversate, camminando sulle loro pietre, sul loro humus, partecipando delle loro piante, dei loro uomini e dei loro animali, intessuto in questo mondo, senza più forze dinanzi alla vastità dell’ignoto, incapace di violare l’ignoto, irretito e smarrito nelle vicende e nelle cose, nelle terre e nelle città; quant’era lontano e sommerso tutto questo, e pur così vicino; cose, terre, città, come giacciono tutte dietro di lui, intorno a lui, dentro di lui, come sono sue, veramente sue, assolate ed avvolte d’ombra profonda, sussurranti e notturne, conosciute ed enigmatiche: Atene, Mantova, Napoli, Cremona, Milano, Brindisi e, ahimè, Andes, — tutto gli veniva portato ed era vicino, lì, sulla piazza del porto, mentre intorno a lui confusamente ondeggiavano le luci, alitava un fiato irrespirabile e un incomprensibile canto squarciava le gole; tutto si riuniva in una singolare unità, dove senza sforzo il lontano si faceva vicino, il vicino lontano, e lui, che vi era sopra sospeso, circondato da un mare di ferinità, poteva senza sforzo librarsi in uno stato di vigile attesa; ciò che sotterra, ignoto, lentamente riarde, era dinanzi ai suoi occhi e nella sua coscienza, ed egli così sapeva la sua vita, la sapeva portata dalla doppia corrente della notte, dove si incrociano passato e futuro, la sapeva lì nella piazza sulla riva del mare, in quel punto d’incrocio, in quel presente immerso nel fuoco e lambito dal fuoco, tra passato e futuro, tra mare e terra, e lui era proprio in mezzo alla piazza, come se per volere del destino lo si fosse portato nel centro della sua vita, nel punto d’incrocio dei suoi mondi, nel centro del suo universo. Ed era solo la piazza del porto di Brindisi.
Ma quand’anche fosse stato il centro del mondo, qui meno che mai si sarebbe potuto restare; dalle strade che sfociavano sotto la volta gioiosa e fiammeggiante delle luminarie la moltitudine, sempre più grande, si riversava sulla piazza respingendo i portatori sempre più lontano dal centro, sicché era ormai assolutamente impossibile raggiungere da questa parte la spalliera dei soldati, e il corteo imperiale, che fra squilli di fanfare s’era già messo in movimento. E non s’era meno ingrossato il frastuono, ora che le grida, le urla ed i fischi dovevano assordare anche la musica, e col crescente frastuono cresceva in proporzione anche la furia e l’impudenza di coloro che premevano e spingevano col solo scopo e per il puro piacere di premere e spingere; solo che, nonostante questa continua violenza, pareva che la facilità e la leggerezza di quello stato di vigile attesa che si era impossessato di lui, si fosse comunicato a tutta la piazza, come una seconda luce che si fosse aggiunta all’altra visibile agli occhi e che senza nulla mutare della sua dura, inquieta crudezza, l’avesse addirittura approfondita, scoprendo tuttavia un secondo rapporto nella presenza delle cose visibili, quel rapporto allucinante che rende lontane ed inafferrabili persino le cose più immediate e vicine. E come se l’evidente e pur straniante naturalezza di questo secondo rapporto avesse avuto bisogno di una dimostrazione, il fanciullo si trovò d’improvviso alla testa della scòrta senza che ci si fosse avveduti di quando ciò fosse accaduto, e, quasi come per gioco, agitando con leggerezza una fiaccola che aveva evidentemente strappato al primo che gli era capitato, se ne serviva come di una arma per aprirsi una via tra la folla: “ Largo a Virgilio! ” gridava gaiamente in faccia alla gente, “ largo al vostro poeta! ” ed anche se la folla faceva largo, forse solo perché si trasportava un personaggio al seguito dell’imperatore, o forse perché quegli occhi lucidi di febbre nel cupo viso giallo del malato le ispiravano timore e inquietudine, c’era tuttavia da esser grati alla piccola guida, per essere riuscita a destare la loro attenzione ed aver, bene o male, resa possibile la marcia. Naturalmente vi erano degli agglomeramenti di fronte ai quali il piccolo portatore del mantello con la sua disinvoltura di piccolo birbante e col fuoco della sua fiaccola nulla poteva, e in questi momenti non serviva nemmeno l’inquietante aspetto del malato, al contrario: ogni volta la gente, che da principio, come per difesa, si limitava a distogliere con indifferenza lo sguardo, passava poi a una manifesta avversione per quella vista inquietante e a un bisbiglio di paura e insieme di lepidezza aggressiva per giungere infine a un umore pressoché minaccioso, per il quale un burlone altrettanto bonario quanto maligno trovò la calzante espressione nel grido: “Un mago, il mago dell’imperatore! ” — “ Si capisce, balordo,” gli gridò di rimando il ragazzo, “ un simile mago non l’hai ancora visto, tu, nella tua stupida vita; è il nostro mago più grande, il più grande di tutti!,»” Si alzarono alcune mani con le dita aperte in segno di 'scongiuro, e una prostituta dal viso impiastricciato di bianco e con la parrucca messa di sbieco sul cranio strillò verso la lettiga: “ Dammi un filtro d’amore! ” “ Sì, tra le gambe e gagliardo,” aggiunse imitando la voce chioccia un giovanotto bruciato dal sole che pareva un galletto — era evidentemente un marinaio — e che tendendo le braccia tatuate d’azzurro l’acchiappò di dietro con ambedue le mani, mentre la donna squittiva teneramente soddisfatta, “ te lo do io il filtro d’amore, io sì che te lo do! ” — “ Largo al mago, largo! ” comandò il ragazzo, che col gomito spinse risolutamente da parte il galletto, e si volse a destra con decisione rapida e in certo modo sorprendente, allontanandosi verso il margine della piazza; di buon grado lo seguirono i portatori col baule dei manoscritti, un po’ meno volentieri il familiare di guardia, lo segui poi la lettiga con gli altri schiavi, quasi tirati dietro al fanciullo da un’invisibile catena. Dove li conduceva il fanciullo? da quale lontananza, da quali profondità della memoria era egli emerso? per volere di quale passato, di quale futuro? di quale misteriosa necessità? e, lui stesso, da quale passato mistero, verso quale futuro mistero veniva portato? o non era piuttosto un continuo, immoto librarsi nell’immensità del presente? Intorno a lui c’erano le bocche bestiali aperte al pasto bestiale, al ruggito, allo stupore ed al canto, le bocche aperte nei volti impenetrabili, le bocche spalancate, armate di lingua, munite di denti dietro a labbra rosse, pallide e brune, egli guardava dall’alto le rotonde teste dei portatori coperte d’un muschio lanoso, guardava di profilo le loro mascelle e la pelle pustolosa delle loro guance, conosceva il sangue che pulsava nelle loro vene, la saliva che dovevano inghiottire, e conosceva non poco dei pensieri che s’erano perduti in queste voraci macchine di carne, goffe, maldestre e sfrenate, pensieri perduti e tuttavia per sempre incancellabili, teneri e ottusi, limpidi e oscuri, stillanti goccia su goccia, cadono e trascorrono le gocce dell’anima; egli conosceva la nostalgia che nemmeno nella più straziante concupiscenza e nella più dissoluta carnalità riesce ad appagarsi, quella nostalgia inestirpabile, innata in tutti loro, tanto nel galletto che nella prostituta, una nostalgia indistruttibile che si può tutt’al più deformare e sviare in un sentimento malvagio ed ostile. Remoto e tuttavia indicibilmente vicino, sospeso nella sua vigile attesa e tuttavia mescolato a tutto il torpore d’intorno, egli vedeva l’ottusità di quei corpi senza volto che sprizzavano e assorbivano il seme, vedeva i loro irrigidimenti ed i loro turgori, vedeva ed udiva gli occulti atti della loro casuale concupiscenza, il giubilo selvaggio e ottusamente guerresco dei loro accoppiamenti, la rimbambita saggezza della loro vecchiaia, e gli pareva quasi che la. conoscenza di tutto ciò gli fosse stata comunicata attraverso il naso, come se l’avesse inspirata insieme con l’esalazione che lo stordiva e in cui erano inalveate le impressioni della vista e dell’udito e con la molteplice esalazione delle bestie umane e del loro cibo quotidiano, ogni giorno raccolto, ogni giorno masticato e ingerito; ora però che finalmente ci si era aperta una via in mezzo a quei corpi e che la folla, come le luci al margine della piazza, s’andava facendo sempre più rada per dissolversi infine del tutto nel buio, l’odore di quelle bestie umane fu sostituito dal fetore liscio e rilucente delle baracche della pescheria che, abbandonate nel silenzio del vespro, delimitavano la piazza del porto. Dolciastro, e non meno putrido, s’aggiungeva ancora l’odore del mercato delle frutta, saturo di fermenti, indistinguibile il profumo dell’uva rossa, delle prugne lucide e gialle, delle mele dorate e dei fichi neri d’inverno dall’odore della loro comune putrefazione, e le pietre del selciato avevano l’aspetto rilucente e lubrico dell’umido sudiciume dei frutti calpestati.
Il centro della piazza era ora molto lontano, alle sue spalle, molto lontane le navi alla banchina, molto lontano il mare, anche se non definitivamente perduto; l’urlo della folla era in quel punto ancora soltanto un lontano rimbombo e del tutto spento era il suono delle fanfare.
Con grande sicurezza, come se fosse guidato da una precisa conoscenza del luogo, il fanciullo aveva pilotato il suo seguito attraverso l’intrico delle baracche, per penetrare nel settore dei magazzini e dei cantieri, che con i suoi edifici tetri e senza luci seguiva immediatamente la zona del mercato e da lì si estendeva nel buio, come si poteva intuire, non certo vedere con gli occhi. E qui, ancora una volta, l’odore cambiò: si sentiva l’odore di tutto il lavoro della regione, dell’enorme quantità di viveri che vi erano preparati, preparati per il commercio interno nel territorio dell’impero, ma sempre destinati, di qua o di là, dopo la compra e la vendita, ad attraversare con le loro scorie i corpi umani e i meandri delle loro viscere; si sentiva la asciutta dolcezza dei cereali ammucchiati dinanzi ai neri silos in attesa di venirvi introdotti dalle pale, la polverosa asciuttezza dei sacchi di grano, di frumento, di avena e di farro, l’acidula morbidezza dell’olio nei barili e nei tini e così pure la frizzante asprezza dei depositi di vino che si estendevano lungo la riva, si sentiva l’odore delle officine dei carpentieri, dei fusti di quercia accatastati nel buio, del loro legno indistruttibile, della loro corteccia e dell’anima del loro tronco duttile e forte, si sentivano i ceppi squadrati nei quali l’ascia è rimasta infissa, come il legnaiuolo l’ha abbandonata al termine del suo lavoro, e accanto all’odore delle assi nuove e ben piallate, accanto a quello dei trucioli e della segatura si sentiva l’odore stanco del legno delle vecchie navi, rotto, verde biancastro, lubrico, ammuffito, disseminato di conchiglie, che raccolto in grandi cataste aspettava d’esser bruciato. Era questo il ciclo della vita operosa. Un’infinita pace spirava dall’atmosfera notturna del lavoro, gravida di profumi, la pace di un paese operoso, la pace dei campi, dei vigneti, dei boschi, degli uliveti, la pace del mondo contadino dalla quale era uscito lui stesso, figlio di contadini, la pace della sua perenne nostalgia della patria e della sua nostalgia legata alla terra, rivolta alla terra, ferma e costante come la terra, alla quale da sempre aveva dedicato il suo canto, oh, la pace, l’irraggiungibile pace della sua nostalgia. E come se dovesse rispecchiarsi anche qui questa irraggiungibilità, come se tutto dovesse trasformarsi nell’immagine del suo destino, anche questa pace era, qui, costretta fra le pietre, imprigionata e profanata per l’ambizione, il lucro, la venalità, l’avidità, l’esteriorità, la schiavitù, la discordia. L’interno e l’esterno sono la medesima cosa, sono l’immagine e il riflesso dell’immagine, ma non sono ancora quell’unità che è la conoscenza. Ovunque egli scopriva se stesso, e se egli doveva, e poteva, fissare ogni cosa nella propria coscienza, se riusciva a ghermire la molteplicità del mondo — il compito al quale si era sentito chiamato e verso il quale si sentiva incalzato — quella molteplicità a cui si era abbandonato tra il sogno e la veglia, appartenendole e possedendola senza sforzo, ciò soltanto perché fin dall’inizio, anzi, ancor prima di ogni indagine della vista, dell’udito e del tatto, essa era stata sua, perché ricordare e cogliere il mondo altro non è che ricordare se stessi, è il proprio io che ricorda se stesso, è ricordare il proprio passato, un passato in cui egli doveva aver bevuto il vino, toccato il legno, assaporato l’olio, ancor prima che ci fossero stati olio, vino e legno, e riconosciuto l’inconosciuto, perché l’insieme delle creature umane coi loro volti umani e bestiali, con la loro concupiscenza, con la loro bramosia, con la loro carnalità, con la loro avida freddezza, con la loro animalesca corporeità, ma anche con la loro grande notturna nostalgia, tutte queste creature e tutte queste cose — le avesse o non le avesse vedute, fossero o non fossero mai esistite — erano incorporate dentro di lui fin dal primo principio, erano il caotico, originario humus del suo essere, erano la sua carnalità, la sua concupiscenza, la sua bramosia, la bestialità del suo volto, ma anche la sua nostalgia: e benché la sua nostalgia nel corso del suo viaggio terreno si fosse profondamente mutata e si fosse rivolta alla conoscenza, a tal punto che essa, fattasi sempre più dolorosa, poteva dirsi ancora a stento nostalgia, anzi nostalgia della nostalgia, e benché ciò, fin dal principio, fosse stato prestabilito dal destino come espulsione e come solitudine — gravida di sventura la prima, apportatrice di felicità e di salvezza la seconda, ma entrambe quasi insopportabili a una creatura umana, — incancellabile tuttavia era rimasto l’innato, originario humus dell’essere, il terreno del conoscere e del riconoscere da cui la memoria trae il suo alimento e a cui essa ritorna, scudo contro la fortuna e la sventura, scudo contro l’insopportabile; una così estrema e così struggente nostalgia, che, in ogni sua ricerca della più pura profondità del ricordo, vibrava quasi corporea. E in verità, era una nostalgia corporea e incancellabile. Egli teneva le dita spasmodicamente intrecciate, sentiva l’anello che premeva duro contro la pelle e il tessuto della sua carne, sentiva le ossa della sua mano dure come la pietra, sentiva il suo sangue, la profonda memoria del suo corpo, profonda delle ombre del lontano passato e della viva luce del presente, e si ricordava della sua infanzia ad Andes, si ricordava della casa, delle stalle, del granaio, degli alberi, si ricordava dei chiari occhi di sua madre, del suo volto sempre pronto al sorriso e sempre un po’ bruciato dal sole, e la rivedeva con i suoi riccioli bruni attendere ai lavori domestici — oh, si chiamava Maia, e nessun nome avrebbe potuto essere più maturo e più estivo, nessuno le si sarebbe meglio adattato, — e ricordava com’essa, con la sua lieta operosità, diffondesse all’intorno un senso di calore, infaticabile e costantemente serena anche quando doveva stare agli ordini del nonno che, seduto in casa, la chiamava continuamente per qualche servizio, o quando, non meno frequentemente, aveva il compito di placare il vecchio e le sue grida infuriate, che scuotevano fin l’anima e spaventavano i bambini, quelle grida che aspettavano di essere placate e che il vecchio non tralasciava mai di intonare ad ogni occasione, particolarmente quando si discuteva sul prezzo del bestiame e del grano, e lui immancabilmente, sia nella compera che nella vendita, lui, il canuto Magus Polla, metà generoso e metà spilorcio, si credeva abbindolato dai mercanti; ah, com’era forte questo strepito nella memoria, com’era soave, nella memoria, la quiete che la madre restituiva alla casa quasi con divertita letizia, ed egli si ricordava del padre, che solo col matrimonio era potuto diventare un vero contadino e il cui precedente mestiere di vasaio gli era parso meschino, sebbene fosse molto bello sentir raccontare la sera del lavoro intorno alle panciute botti di vino e agli orci dell’olio di nobile linea che il padre aveva fabbricati, sentir raccontare del pollice che plasma l’argilla, delle spatole e del tornio ronzante e dell’arte della cottura, bei racconti, interrotti da qualche antica canzone di vasaio. Oh, visi del tempo, che rimangono nel tempo, oh, viso della madre, che ricordava come viso giovanile e che s’era fatto poi sempre più vago e profondo, così che nella morte era parso al di là di ogni umana sembianza, quasi una eterna natura, oh, viso del padre, non ricordato al principio e poi via via cresciuto e trasformatosi in pura immagine umana così che nella morte era l’indelebile volto dell’uomo, foggiato di bruna creta, solida e dura, volto benigno e forte nell’ultimo sorriso, indimenticabile. Oh, nulla può maturare e farsi realtà, che non sia radicato nella memoria, oh, nulla è comprensibile all’uomo, che non gli sia stato dato fin dal principio, adombrato dai volti della sua giovinezza. Perché l’anima è sempre vicina al suo principio, vicina al grande risveglio del suo principio e persino la fine ha per essa la dignità del principio; non va perduto alcun canto che abbia toccato una volta le corde della sua lira, ed essa, sempre pronta a rinnovarsi, conserva in sé ogni suono che sia risuonato dentro di lei, melodia imperitura, che sempre ritorna e che era presente anche qui; ed egli s’imbeveva di quell’aria per cogliere ed inspirare nei propri polmoni malati il fresco odore degli orci di terracotta e dei barili accatastati che usciva talvolta leggero e scuro dalle porte aperte dei capannoni. Certo poi dovette tossite, come se avesse commesso qualcosa di proibito o di pregiudizievole per il suo stato. Le scarpe chiodate dei portatori continuavano intanto a trottare, picchiavano sul lastricato, scricchiolavano sulla ghiaia, mentre la fiaccola della giovane guida, che di quando in quando si voltava a sorridere alzando gli occhi verso la lettiga, li precedeva con la sua luce; si acquistò così un buon ritmo di marcia, abbastanza rapido, troppo rapido per l’anziano familiare che s’era incanutito e ingrassato nel comodo servizio di corte e che arrancava ora in coda al piccolo corteo con sonori sospiri; il labirinto dei multiformi tetti dei magazzini e dei silos, taluni a punta, altri piatti, altri infine appena inclinati, si profilava contro un cielo già fitto di stelle, anche se non del tutto notturno; le gru e le armature di legno gettavano ombre minacciose nella luce che andava dileguando, passarono dinanzi a carri vuoti e carichi, alcuni ratti attraversarono la strada, una falena si posò smarrita sulla spalliera della lettiga; sommessamente tornarono ad annunciarsi la stanchezza ed il sonno, sei gambe aveva la falena e assai numerose, e forse incalcolabili, la muta dei portatori ai quali era affidata la lettiga e, con la falena, egli stesso, fragile e nobile merce, e pensò di voltarsi a contare il numero dei portatori che camminavano dietro di lui e il numero delle loro gambe, solo che, prima che egli potesse realizzare il suo proposito, erano giunti in uno stretto passaggio tra due capannoni, e subito dopo si trovarono, in modo davvero sorprendente, ancora una volta dinanzi alle case della città, fermi all’imbocco di un vicolo che, abbastanza erto, saliva tra grandi case d’affitto, molto stretto, roso dalle intemperie, tra file e file di panni appesi ad asciugare: effettivamente si erano fermati, poiché il fanciullo, senza esitare, aveva arrestato la marcia dei portatori che altrimenti avrebbero verosimilmente continuato a trottare — ed effettivamente ora erano, come prima, quattro soltanto, — e proprio quest’improvvisa interruzione, unita all’inatteso spettacolo, produsse l’effetto come d’una gioia del rivedersi, un effetto così sorprendente e sconcertante che tutti insieme — signore, familiare, schiavo — scoppiarono a ridere, tanto più allorquando il fanciullo, infervorato dalle loro risate, s’inchinò leggermente e con un gesto superbo li invitò ad entrare nel vicolo.
Ma in verità non c’era ragione d’essere allegri: specialmente nell’abisso di questo vicolo. La via saliva oscura, a scalini bassi, popolata d’ogni sorta di ombre e soprattutto di branchi di bambini, che nonostante l’ora avanzata facevano un chiasso diabolico su e giù per la gradinata, bipedi ombre, alle quali — guardando più da vicino — s’accompagnavano ombre quadrupedi, poiché dappertutto, lungo i muri, legate a una corda più o meno lunga, erano attaccate le capre; le finestre nere, senza vetri e per lo più prive di imposte, guardavano dentro quella voragine e così le botteghe simili a cantine o ad oscure caverne, dalle quali usciva lo schiamazzo della folla che contrattava oggetti d’ogni specie e di infimo prezzo, mercato della miseria e dei bisogni delle prossime ore o appena del prossimo giorno, nel mentre, accanto, il lavoro dell’artigiano batteva, cigolava, rattoppava, si nutriva di piccoli affanni, lavoro compiuto da ombre e destinato ad ombre che proseguiva col suo tenue strepito e, manifestamente, non aveva più alcun bisogno di luce, perché anche là, dove il chiarore d’una povera lucerna o di un mozzicone di candela s’arrischiava d’uscire dal buio, gli uomini restavano appiattati nell’ombra. Vita quotidiana nella vicenda della miseria più nera, indipendente da ogni avvenimento esterno, si viveva in quel luogo, quasi al di fuori del tempo, come se la festa imperiale fosse lontanissima da questo vicolo ed i suoi abitanti non sapessero nulla di ciò che accadeva nelle altre parti della città, sicché l’apparir del corteo non significava nulla di stupefacente, bensì piuttosto un fastidio estremamente spiacevole o, per meglio dire, estremamente ostile. Cominciò con una baraonda da spiriti folletti, e cioè coi bambini, e persino con le capre, poiché tanto gli uni quanto le altre ruzzavano tra le gambe dei portatori senza trarsi da parte, belanti i quadrupedi, trillanti i piccoli bipedi che erompevano da tutti gli angoli per tornare poi a nascondersi; cominciò che volevano strappar di mano la fiaccola alla giovane guida, certo senza successo a causa della sua selvaggia bellicosità, ma questo non sarebbe stato il peggio, poiché, se pur lentamente, si procedeva tuttavia gradino per gradino su per il vicolo della miseria, no, il peggio non erano questi atti di molestia, il peggio erano invece le donne, erano loro il peggio, erano queste donne che si sporgevano dalle finestre, col seno schiacciato sul davanzale, ciondolando all’ingiu come serpi le braccia nude con le mani guizzanti, e se erano ancor solo deliranti e litigiose parole d’insulto quelle in cui traboccava il loro cicaleccio avvedendosi del passaggio della lettiga, era anche ad un tempo un litigioso delirio, grande come ogni delirio, che si faceva accusa e verità, poiché era contumelia. E qui ora, dove le case l’una dopo l’altra emanavano dalle fauci dei portoni spalancati un bestiale puzzo di feci, qui, in questo canale di case corrose dalla pioggia e dal vento, attraverso il quale egli veniva portato sull’alta lettiga, così che poteva e doveva anzi guardare nelle misere stanze, colpito dalle maledizioni folli e furenti che le donne gli scagliavano in faccia, colpito dal frignare lamentoso dei poppanti malati che si vedevano ovunque avvolti nei brandelli e nei cenci, colpito dal fumo denso delle tede resinose fissate alle crepe delle pareti, colpito dalle esalazioni stantie delle cucine e delle padelle di ferro bruciacchiate e sporche di grasso d’antica data, colpito dall’orrido quadro dei vecchi brontolanti e quasi ignudi, che dovunque se ne stavano rannicchiati nei buchi neri delle loro dimore, egli cominciò a sentirsi sopraffatto dalla disperazione, e qui, tra queste tane di vermi, dinanzi a questa estrema depravazione e a tanto miserabile disfacimento, dinanzi a questo profondo carcere terreno, in questo luogo dove la nascita altro non era che un parto doloroso e perverso e la morte che un perverso crepare, dove l’inizio e la fine della vita si intessevano nella più stretta fraternità — oscuro presagio il nascere, oscuro presagio il morire, entrambi senza nome nel regno tenebroso di un male senza tempo, — qui, in questa innominabile atmosfera notturna e impudica, qui egli dovette per la prima volta coprirsi il viso, tra le urlanti risa delle donne, dovette farlo per rendersi cieco egli stesso, mentre lo portavano avanti, gradino per gradino, su per la scalinata del vicolo della miseria —
—: “ O moscio, tu, moscio della lettiga! ” — “ Crede d’essere qualcosa di meglio che noialtri! ” — “ Sacco di soldi sul suo trono! ” — “ Se non avessi denari, potresti andar a piedi! ” — “Si fa portare al lavoro! ” gridavano le donne —
—: insensata era la gragnuola dei vituperi che dall’alto crosciavano su di lui, insensata, insensata, insensata, e tuttavia giustificata, e tuttavia ammonimento, e tuttavia verità, e tuttavia delirio che s’era fatto verità, ed ogni invettiva strappava un pezzo di superbia dalla sua anima, che restò nuda come i lattanti, nuda come i vecchi nei loro stracci, nuda per le tenebre, nuda per l’assenza di ogni memoria, nuda per la colpa, smarrita nella fluttuante nudità dell’indistinguibile —
— gradino per gradino si attraversava il vicolo della miseria, arrestandosi ad ogni ripiano della gradinata —
—: flutto della più nuda creaturalità distesa sopra il respiro della terra, distesa sotto il respiro del cielo nella vicenda del giorno e della notte, rinchiusa tra le immutabili rive degli evi, il nudo gregge della vita, simile all’ampia corrente di un fiume, a stilla a stilla salendo dall’humus dell’essere, a stilla a stilla sempre ridiscendendo nell’humus dell’essere, l’ineluttabile unione di tutte le creature —
—: “ Quando sei crepato, puzzi come gli altri! ” — “ Becchini, buttatelo giù, lasciatelo cadere, il morto! ” —
—: monti e valli del tempo, oh, miriadi di creature, che dagli evi infiniti erano state portate per quelle valli e quei monti, creature che incessantemente vengono ancora portate per quelle valli e quei monti nella torpida corrente, nella corrente infinita della loro totalità, e non c’è singola creatura che non abbia pensato e non pensi di potersi librare in eterno come anima eterna al di fuori del tempo, libera nella libertà dell’eterno, disciolta dalla corrente, redenta dal terreno tumulto, sicura di non più cadere, non più creatura, ma solo fiore ormai, cresciuto solitario fino a toccare le stelle, diafano fiore libero e solo, il cuore tremante come un diafano fiore di un tralcio divenuto invisibile.
—: portato avanti, gradino per gradino, attraverso gli oltraggi del vicolo della miseria —
—: oh, era sempre quest’illusione dell'eternità, ed anche la sua vita, germogliata dal caotico humus della notte senza nome, cresciuta dalla sterpaglia di tutto ciò che è creato arrampicandosi in volute infinite, abbarbicandosi or da una parte or dall’altra, all’impurità e alla purezza, al perituro e all’eterno, alle cose, al possesso, agli uomini e ancora agli uomini, alle parole e ai paesaggi, questa vita sempre sprezzata e sempre vissuta, egli l’aveva profanata, ne aveva abusato per superare se stesso, per innalzarsi al di sopra di se stesso, al di là di ogni limite e di ogni temporalità, come se non fosse potuto cadere, come se non dovesse ritornare nel tempo, tra le creature e nel carcere della terrestrità, come se dinnanzi a lui non si spalancasse l’abisso.
—: “ Poppante! ” — “ Bagna-pannolini! ” — “ Cacone! ” — “ Hai fatto il cattivo, e ti portano a casa! ” — “ Ti buschi un clistere, ti mettono sul vasetto! ” le risate piovevano d’ogni parte giù dalle finestre —
—: il vicolo echeggiava dei sarcasmi delle donne, ma non era possibile sfuggirvi; solo assai lentamente, gradino per gradino, si procedeva —
—: eppure, erano proprio le voci delle donne che qui lo insultavano con giustificato sarcasmo e scoprivano la sua vana illusione? ciò che qui risuonava, non era più forte che le voci di donne di questa terra, che le voci umane di questa terra, che le voci di deliranti creature di questa terra? oh, non era invece il tempo, che lo apostrofava coi suoi sarcasmi, il tempo che fluisce immutabile con tutta la varietà delle sue voci e con tutta la suggente forza che in esso e solo in esso dimora, il tempo si era incarnato nelle voci delle donne, perché attraverso i loro insulti venisse cancellato il suo nome, e perché lui, spogliato del nome, spogliato della sua anima, spogliato d’ogni canto, spogliato della canora eternità del suo cuore, ricadesse nella notte ineffabile e nell’humus dell’essere, umiliato a quell’ama-rissima vergogna, che è l’ultimo resto d’una spenta memoria —
—: voci del tempo, voci che sapevano dell’ineluttabilità, degli ineluttabili artigli del destino! Esse sapevano che anche lui non si era potuto sottrarre all’irrevocabile, che c’era una nave sulla quale, nonostante ogni illusione, egli era dovuto salire e che lo aveva riportato all’indietro, in un fatale ritorno; oh, esse conoscevano il nudo fiume della creaturalità, che scorre lento tra nude sponde di originaria argilla, deserto di navi, spoglio d’ogni vegetazione, palese illusione il fiume e la nave e tuttavia realtà che è destino, invisibile realtà dell’illusione, e sapevano che ognuno per volere del destino deve immergersi ancora una volta nella corrente e che il punto della sua nuova immersione non può esser distinto da quello in cui un tempo s’era illuso di emergere, perché il ritorno deve chiudere il cerchio del destino —
— : “ O, ti pigliamo, sai, coda, coda penzolante! ” risuonavano le voci litigiose —
—: eppur erano solo voci di donne, voci piene di scherno, proprio come se egli non fosse stato che un bambino disobbediente che avesse cercato una sua illusoria libertà ed ora volesse ritornarsene a casa di soppiatto, anzi, di più, un bambino che si fosse dovuto riportare indietro per vie tortuose e piene persino di pericoli e che dovesse essere rimproverato soltanto per aver preso quello sciagurato cammino; ma anche se erano soltanto litigiose le voci grevi delle madri, colme dell’oscurità del tempo, esse tuttavia sapevano che il cerchio della via del destino circonda l’abisso del nulla, e che i disperati, gli smarriti, gli spossati infallibilmente precipitano nell’abisso del centro non appena sono costretti ad interrompere prematuramente il loro cammino — oh, non era forse ognuno costretto a una simile fine? era mai riuscito qualcuno a compiere coi suoi passi l’intero cammino? —, e insieme pieno d’ansia vibrava, nei furiosi rimproveri, l’eterno, indicibile desiderio della madre, che ogni bambino possa per sempre restar nudo così com’è nato, nudo e incarcerato nella sua prima sicurezza, immerso nel flusso degli evi della terra, nella corrente della creaturalità, da esso dolcemente innalzato, in essa dolcemente naufragando, quasi senza destino —
—: “ Tu, nudo, nudo, tutto nudo! ” —
—: inevitabile la madre — che cosa aveva indotto il fanciullo che era la sua guida a scegliere questa via? e sé ora non avesse più saputo guidarlo? la lettiga si fermò; come per un divieto espresso dal grido delle madri, come se non dovesse mai più rimettersi in moto, si fermò in un’attesa spaventosa, ma, poi, liberatasi ancora una volta, riprese di nuovo a salire, gradino per gradino, inerpicandosi su per il vicolo della miseria —
—: non era dunque sufficiente la forza materna delle voci per stabilire un vincolo perenne? era così imperfetta la loro sapienza e così lacunosa che ancora una volta dovevano concedere la libertà all’incatenato? oh, debolezza della madre, che è nascita essa medesima e perciò nulla sa della rinascita e nulla vuole sapere, incapace di comprendere che la nascita, per esser vera, anela alla rinascita, ma che entrambe, la nascita e la rinascita, non potrebbero mai accadere se accanto a loro non accadesse il nulla, se dietro a loro non vi fosse, eterno e immutabile, ultima genesi, il nulla, e che soltanto da questo rapporto indissolubile di essere e di non essere incomincia a risplendere, in tacita, divinante unione, la grande luce dell’atemporalità, la libertà dell’anima umana, il cui canto eterno non è inganno o illusione o superbia, ma, al di là d’ogni scherno, destino dell’uomo, la terribile magnificenza dell’umano destino —
—: oh, è il destino divino dell’uomo ed è l’aspetto visibile dell’uomo nel destino degli dèi, è l’immutabile sorte di entrambi di venire sempre ricondotti sulla via della rinascita, è l’incancellabile speranza di entrambi d’essere destinati ancora una volta a ripercorrere il cerchio, perché il poi diventi il prima e perché ogni punto del cammino riunisca in sé tutto il passato e tutto il futuro, fermandosi nel canto di una presenza irripetibile, portando nel proprio grembo l’istante della perfetta libertà, l’istante dell’indiazione, questo nulla-tempo di un attimo, nel quale tuttavia l’universo viene compreso come un unico ricordo al di fuori del tempo —
—: vicolo della furente empietà, che non voleva finire, che non poteva forse finire, prima che si fosse giunti al fondo del vituperio, del peccato, della maledizione, e sempre più lentamente in esso, gradino per gradino, si procedeva —
—: la scoperta della nuda colpa, il delirio della nuda verità —
—: oh, immutabile destino umano del dio, di dover discendere nel carcere della terra, nel male e nel peccato, affinché prima sulla terra si esaurisca il male, perché il cerchio si compia prima sulla terra e sempre più stretto si chiuda intorno all’inesplorabilità del nulla, intorno all’inesplorabile fondo della nascita che un giorno si trasformerà nella rinascita di tutto il creato, non appena il dio e l’uomo avranno assolto la loro missione —
—: oh, immutabile dovere dell’umano destino, di essere pronto a spianare il cammino del dio, il cammino su cui non potranno scender gli insulti, il cammino della rinascita fuori dal tempo, un’aspirazione in cui dio e uomo si uniscono, sottraendosi al vincolo materno —
—: ma qui c’era il vicolo della miseria, per il quale si andava salendo gradino per gradino, qui c’era il terrore della maledizione, il terrore del giustificato sarcasmo, sputato fuori dalla miseria, oh, e lui, accecato dalla miseria, accecato dalla maledizione, sì lui, che aveva il capo coperto e nascosto, era tuttavia costretto a udire. Perché era stato condotto in quel luogo? gli si voleva mostrare che a lui non era stato concesso di concludere il cerchio? che aveva teso l’arco della sua vita, sempre di più, fino all’estremo, col risultato di render più grande, invece che più piccolo, il nulla del centro? che con questa apparente infinitezza, con questa apparente eternità, con questa apparente solitudine egli si era soltanto allontanato, sempre più allontanato dalla mèta della rinascita, e che in crescente misura era aumentato il pericolo della sua caduta? era questo un avvertimento, o già una minaccia? o era già realmente la definitiva caduta? Ed il punto più alto del suo troppo lungo cammino, solo in. apparenza aveva attinto la divinità, era stato un cammino folle e smisurato verso il giubilo e l’ebbrezza, verso la grande esperienza della potenza e della fama, e reso ancora più lungo da ciò che nella sua illusione egli aveva chiamato poesia e conoscenza, pensando che bastasse soltanto ricordare tutto per carpire la forza di un presente senza fine, l’infinita fissità dell’infanzia divina, ed ora tutto ciò si rivelava puerile parvenza di divinità, impudica presunzione di divinità, esposta al riso di tutti, al nudo riso delle donne — delle ingannate e tuttavia non ingannabili madri — per sottrarsi alla cui protezione egli era stato troppo debole, sommamente debole poi in quella sua ambizione infantile di volersi innalzare fino agli dèi. Oh, nulla si può contrapporre alla nudità del riso, nessuna reazione può far fronte al sarcasmo, non resta che velare la propria nudità, la nudità del proprio volto, e col volto velato egli giaceva sul suo sedile, velato anche quando alla fine, nonostante tutte le soste, spingendosi innanzi gradino per gradino, e in verità contro ogni attesa, si potè uscire dall'infernale abisso del vicolo, dall’infernale selva del riso, e un dondolìo più calmo della lettiga lasciò capire che nuovamente si procedeva su una strada piana.
Certo, non si procedeva per questo sensibilmente più rapidi; ancora una volta si avanzava lentamente passo a passo, forse addirittura più lentamente di prima, anche se qui, com’era evidente, non c’era più l’ostacolo opposto da una gente maligna, bensì di nuovo la calca, che anzi era aumentata e manifestamente andava ancora aumentando, come s’avvertiva dal mormorio di uomini, dall’odore di uomini, dal calore di uomini, che si spandeva sempre più denso. Egli era evaso dal vicolo della miseria ed era ormai lontano dalle sue voci e tuttavia egli credeva di sentire ancora nel suo orecchio l’assordante vituperio di quelle parole, gli pareva anzi che quelle parole lo inseguissero simili a Erinni, in una caccia infernale, per tormentarlo e straziarlo, unendosi allo strepito della folla che tutto intorno pullulava e andava rapidamente crescendo — segno che si era di nuovo in prossimità della festa imperiale — cosicché la caccia tormentosa degli insulti, congiungendosi allo strepito dell’entusiasmo, del potere e dell’ebbrezza, continuava a farsi sentire con non diminuita intensità, e mentre egli, rendendosene conto, non riusciva a difendersi dalla folla delle voci incalzanti di dentro e di fuori — un tormento così straziante che si sentiva quasi morire— anche la luce gli si trasformò in un clamore insopportabile, ineluttabile, in una luce così insopportabilmente cruda, che penetrò tagliente attraverso le palpebre e le costrinse ad aprirsi, dapprima riluttanti e a spalancarsi poi in uno sguardo d’orrore: un fuoco infernale investì i suoi occhi giungendo dalla fine di quella strada abbastanza larga, lungo la quale si vedevano le fitte teste degli uomini spingersi avanti, gli fiammeggiò nello sguardo, crudo ed orribile, come una magica sorgente di luce che trasformava tutto, il movimento della folla in un flusso quasi automatico, tanto che si sarebbe potuto pensare che persino la lettiga non venisse sorretta, ma nuotasse invece in quella corrente che la trascinava con sé, e ad ogni passo, ad ogni spinta, la potenza di quella segreta, empia, insensata ed enorme forza d’attrazione si faceva più chiara, più tremenda, più pressante, più penetrante, sempre più vicina al cuore, sempre più crescente, fin che d’un tratto si svelò nella sua interezza, si svelò nell’istante in cui la lettiga sospinta, tirata, portata, librata e sospesa in quel mare, si trovò allo sbocco della strada, perché qui subitamente, in mezzo al fuoco ed al clamore privo di ogni ombra visibile, privo di ogni ombra sonora, apparve in un completo abbacinamento di luci e clamori il palazzo imperiale, radioso e splendente, per metà dimora e per metà fortezza, che si ergeva entro un chiarore infernale e vulcanico al centro d’una piazza quasi circolare, incurvata a forma di scudo, e questa piazza era un unico flutto di creaturalità, un humus umano ribollente dal quale emergevano forme e figure umane, un’ondata di occhi e di sguardi scintillanti, che, quasi avessero perduto ogni altro contenuto, fissavano tutti la stessa mèta di fuoco e senz’ombra, un’umana ondata di fuoco, cupida di lambire quella sponda di fuoco. Così tra una marea di fiaccole, si innalzava il castello, la mèta irresistibile che dava una direzione e un significato alla massa del gregge che irresistibilmente attratto incalzava, fremeva e scalpitava, coscienza della sua sfrenata volontà, mèta a cui il gregge cupidamente tendeva per il bisogno di sentirsi guidato, ma che proprio per questo era anche l’immagine di un’enigmatica potenza, orribile, cupa, irreperibile, incomprensibile al singolo animale, incomprensibile al singolo uomo e così impenetrabile che il problema del significato e dell’origine di quella strapotente forza di attrazione che era rinchiusa all’interno del palazzo di fiamme e si sprigionava all’esterno, certo frugava dentro ciascuno di loro, e attendeva ansiosamente una risposta, sperava ansiosamente in una risposta, e benché nessuno fosse in grado di trovarne una vera, la stessa risposta più umile e più insufficiente sembrava appagare quella speranza ed essere salvezza della coscienza, salvezza dell’umanità e dell’anima, salvezza dell’essere, una risposta che metteva conto di annunciare superbamente —; “ Vino ” era la risposta, “ Vino gratis ” e “ I pretoriani ” era la risposta, e “ Parlerà l’imperatore ” era la risposta, e all’improvviso uno annunciò con voce ansante: “ Distribuiscono già il denaro! ” Così il castello irraggiava su di loro la seduzione, così pungolavano se stessi e si pungolavano a vicenda, perché non nascessero dubbi sulla grande seduzione e perché la paura di una sicura delusione che li attendeva alla misteriosa muraglia tanto desiderata, non lasciasse mai affievolire il loro selvaggio desiderio, la grande nostalgia della compartecipazione: risposta ben misera per una così grande speranza, grida e incitamenti ben miseri, eppure ogni volta una scossa attraversava la folla, i corpi e le anime, una scossa taurina, impudica, irresistibile, sorda, che li spingeva verso la mèta comune, in un unico mucchio, spinta su spinta, sempre in avanti, dentro un vampeggiante nulla. E denso, fitto, quasi compresso, fumigava sopra le teste l’odore del gregge, coperto dalla caligine delle fiaccole, un fumo ardente, irrespirabile, soffocante; densi vapori oscuri, che posandosi inerti l’uno sull’altro, strato su strato, restavano sospesi nell’aria immota, oh, strati pesanti, indivisibili, impenetrabili della nebbia infernale! Non c’era più via d’uscita? non c’era più possibilità di fuga? oh, indietro, indietro alla nave, per potervi morire tranquillo! Dov’era il fanciullo?! suo era l’obbligo, suo era il compito di additare la via del ritorno! A chi spettava la decisione?! Ahimè, immobilizzato dalla folla, non c’era nulla da decidere, e la voce, che avrebbe voluto sollecitare una decisione, più non si sciolse dal suo respiro; la voce rimase cieca! E intanto il fanciullo, come se avesse udito il suo muto richiamo, gli mandò un sorriso, un sorriso degli occhi che gaiamente chiedevano scusa e gaiamente esprimevano confidenza e conforto, nella consapevolezza che da tempo, ormai, si era dispensati da qualsiasi decisione, che la decisione presa si sarebbe rivelata la giusta, e questo gli infuse conforto nonostante la terribilità di ciò che li attendeva. Intorno a lui c’erano fitte le teste con i loro volti quotidiani che esprimevano la loro quotidiana, per l’occasione esasperata ingordigia di cibo e bevanda, e tale esasperazione, superando se stessa, era giunta a un ardore addirittura trascendente, s’era fatta un brutale Al-di-là che aveva lasciato dietro di sé ad immensa distanza ogni quotidianità e conosceva soltanto quel presente dell’irresistibile, fiammeggiante mèta, desiderata con ardore, bramata con ardore, pretesa con ardore, perché questo presente gettasse una ombra sul cerchio della loro vita e li portasse a partecipare della potenza, dell’apoteosi, della grandezza della libertà, dell’infinitezza dell’Uno, che risiedeva lì nel palazzo. Aspinte, a ondate, a sussulti, a scosse, a scoppi, ad aneliti e gemiti la compagine si muoveva in avanti, urtando per così dire contro una resistenza elastica che indubitabilmente esisteva, poiché si manifestava in forma di ondate eguali e contrarie, ed in questo poderoso e violento ondeggiare si percepivano d’ogni parte le grida di coloro che incespicavano e restavano calpestati e feriti e forse persino morivano, trascurati senza pietà se non addirittura derisi, grida tuttavia ricoperte dai giubilanti evviva, soffocate dal furioso frastuono, lacerate dal crepitìo del fuoco. Un mostruoso presente era in gioco, un presente bestiale e moltiplicato all’infinito, sollevato dal ruggito del branco, un presente precipitato nel frastuono e in pari tempo espulso dal frastuono, sollevato dalla follia, dalla demenza, dal delirio, spogliato d’ogni senso nella sua ferinità e tuttavia così straordinariamente significante nella sua totalità che tutto il passato e tutto il futuro vi erano dentro inviluppati, in sé accogliendo il clamore di tutte le profondità della memoria, celando nel proprio rombo il più lontano passato e il più lontano futuro! Oh, grandezza dell’umana molteplicità, vastità dell’umana nostalgia! E librandosi nella propria veglia, sospeso sulle teste ruggenti, innalzato sull’incendio di giubilo della città in tumulto, sostenuto e sospeso negli istanti sospesi di quell’istante, egli viveva l’esperienza dell’infinita concentrazione del corso del tempo nel cerchio della necessità: tutto era suo, tutto era incorporato in lui e gli apparteneva così intensamente, come se gli fosse appartenuto fin dal principio in una contemporaneità perenne, ed era Troia che bruciava intorno a lui, era l’inestinguibile incendio del mondo, ma lui, che si librava sopra l’incendio, era Anchise, cieco e insieme veggente, fanciullo e vecchio ad un tempo in forza d’una memoria indicibile, portato sulle spalle del figlio, egli stesso presente, del mondo, portato sulle spalle di Atlante. E così si avvicinava, passo per passo, al palazzo.
Il perimetro più stretto del palazzo era protetto da un cordone di polizia: gli uomini armati, l’uno a fianco dell’altro, con le lance inclinate sostenevano l’assalto della folla fluttuante opponendole quella stessa resistenza elastica che si manifestava in ondate successive e ricorrenti, come si era potuto osservare già ai margini della piazza. Ma dietro al cordone della polizia, la coorte pretoriana, il cui arrivo da Roma significava palesemente un avvenimento eccezionale, montava la guardia d’onore, e la sua presenza era un presuntuoso, alto, terribile ozio in assetto di guerra con pattuglie e fuochi di bivacco e grandi tende erette per la distribuzione delle vivande, dalle quali saliva la speranza e l’odore del vino gratuito, probabilmente illusorio, ma volentieri creduto. Fino a questo limite potevano spingersi i curiosi; non oltre. E qui era il punto in cui speranza e delusione si tenevano in equilibrio, in una inquietante, sinistra tensione, come ogni decisione tra la vita e la morte, come ogni istante di vita, perché ogni istante le racchiude entrambe, e quando l’alito ardènte del fuoco sfiorava la folla agitata gonfiando gli alti pennacchi degli elmi e facendo risplendere le armature dorate, quando il rauco e imperioso “ Indietro! ” della polizia si scagliava contro l’assalto vociante della moltitudine, l’ossessione saliva come una lingua di fuoco, mozzando il respiro, e i volti, con le labbra asciutte e le lingue guizzanti, fissavano istupiditi ed avidi il fuoco d’artificio dell’immortalità, perché il tempo stava sul filo del rasoio. Naturalmente la confusione più terribile si aveva davanti all’entrata del palazzo, soprattutto perché, dopo l’ingresso dell’imperatore, le doppie spalliere di soldati che gli avevano protetto il passaggio erano state imprudentemente disciolte, e nulla più poteva contenere la folla scatenata; il disordine era tale che dinanzi al portone d’ingresso il fluido viscoso della folla pareva fosse succhiato da una tromba d’aria che lo facesse turbinare; il portone, con le due fitte file di fiaccole ai due lati, assomigliava a una gola infuocata, e la folla vi turbinava, vi si ingorgava e ne veniva respinta, strepitante, rabbiosa, brutale, scalpitante, resa frenetica dal desiderio: il tutto faceva pensare assai più all’entrata di un circo che ad una dimora imperiale, tanto era il furore con cui la gente spingeva e altercava investendo coloro che controllavano l’ingresso, e così impensate e diverse erano le astuzie a cui ricorrevano i non autorizzati nel tentativo di abbindolare e di superare la sorveglianza dei funzionari, così furioso era il grido insistente di coloro che avendo diritto di entrare non si vedevano riconosciuti o erano costretti a una lunga e indébita attesa, e quando la scorta — a una parola del vecchio servitore del palazzo, la cui utilità si rivelò solo in questa circostanza — ottenne subito il permesso di entrare, l’ira di quelli che venivano sottoposti indiscriminatamente a tutte le formalità di controllo, raggiunse d’improvviso il grado di ebollizione; si sentivano avviliti e disprezzati per essere stati posposti, sentivano il disprezzo che pesa su tutta l’umanità e su tutte Je. istituzioni umane, e ne prendevano coscienza d’improvviso, perché era stata fatta eccezione per un singolo, perché si era potuto fare questa eccezione, e non aveva importanza che si trattasse soltanto dell’eccezione che spetta a un moribondo, dell’eccezione che spetta alla morte. Non c’è uomo che non sia incline a disprezzare il prossimo, e nella baraonda dell’abbiezione indicibile e senza nome che sempre rinnovata si spalanca e si chiude, vi è l’oscura consapevolezza dell’uomo che si sente impotente a raggiungere la vera umanità, l’angoscia che egli soffre per una dignità che gli è stata concessa senza che egli sia in grado di divenirne partecipe. Disprezzo lottava contro disprezzo nell’angusto e ribollente imbuto del portone d’entrata. Nessuna meraviglia, dunque, che egli, nell'interno del cortile, sottratto a quell’avida lotta e a quella luce dal crudo bagliore di inferno, immaginasse d’essersi liberato da tutti i vituperi che lo avevano perseguitato per le vie e nella piazza, e quasi sentiva il medesimo senso di sollievo che aveva provato quando era scomparso il mal di mare, il medesimo senso di acquietamento, benché il luogo dove ora approdava, non si rivelasse davvero un luogo di quiete, anzi, il cortile pareva addirittura schiantarsi per il disordine. E tuttavia era un disordine soltanto apparente; la servitù dell’imperatore, abituata ad eventi di questo genere, manteneva una rigorosa disciplina, e tosto si avvicinò alla lettiga anche uno dei funzionari di corte, munito di una lista degli ospiti, per ricevere l’arrivato; imperturbabile costui si rivolse al servitore, da cui si fece sussurrare il nome dell’ospite, imperturbabile ascoltò il nome e tracciò un segno sulla lista, così imperturbabile e indifferente, che un famoso poeta doveva sentirsi veramente offeso, tanto offeso, che egli sentì la necessità di confermare ed accentuare la dichiarazione del servitore: “ Sì, Publio Virgilio Marone, questo è il mio nome,” disse e si incollerì assai quando ne ebbe solo un piccolo inchino cortese, ma non meno indifferente, e persino il fanciullo da cui aveva sperato un appoggio, non pronunziò parola, ma si limitò ad accodarsi docilmente alla lettiga, che ora ad un cenno del funzionario si era mossa in direzione del secondo peristilio. Certo, l’irritazione non durò a lungo, ma svanì di fronte alla quiete che realmente lo circondò ora che la lettiga fu portata nel giardino silenzioso dove s’udiva soltanto il lieve mormorio della fontana, ed ivi fu deposto davanti al me-garon che l’imperatore aveva assegnato come dimora per i suoi ospiti; dinanzi all’entrata stavano gli schiavi del palazzo ad attendere il nuovo arrivato, sicché furono congedati i portatori estranei alla casa. Anche il fanciullo non ebbe diversa accoglienza; gli presero il mantello, e poiché non accennava a muoversi e si limitava a sorridere, il funzionario di corte gli ordinò recisamente: “ Che fai tu ancora qui? procura di filar via! ” Il fanciullo rimase in piedi, fermo, col viso ilare da piccolo birbante, e continuava similmente a sorridere, forse per la forma brutale con cui lo si ringraziava per aver fatto da guida, ma fors’anche per l’inutilità di ogni sforzo tendente a farlo allontanare. Ciò non di meno — questa sua attesa aveva un qualche significato? doveva desiderare che egli restasse? Che cosa avrebbe dovuto fare di questo ragazzo, lui, un malato, stanco, bisognoso di solitudine?! Eppure, che strano senso di angoscia, dover restare solo! che strano senso d’angoscia, dover rinunziare, ormai, alla giovane guida! —: “ È il mio scrivano,” disse, e gli era venuto di dirlo quasi contro la sua volontà, era come se qualcosa di estraneo avesse parlato in lui, per la sua bocca, qualcosa di estraneo e ad un tempo di familiare, una volontà che era più grande della propria, una volontà priva di volontà, e tuttavia incalzante, superiore: la notte. Un sommesso possente volere, sbocciato dalla notte. Sommesso era il giardino, sommesso il respiro dei fiori, sommesse gorgogliavano le due fontane, un profumo oscuro e delicato, sommesso ed umido, che nell’autunno ridava il senso d’una notte primaverile, alitava sopra le aiuole come un fresco e fine tessuto in cui si intrecciava il respiro della musica, or vicina or lontana, che proveniva dalla parte anteriore del palazzo e pareva uno sfiorare di veli; a un velo di suoni seguiva un altro velo di suoni, trapunto di colpi di cembalo, immerso nella nebbia grigia delle voci che trapelavano dalla festa lontana: laggiù uno strepito di luci e di suoni squillanti, qui solo una morbida nebbia di suoni, soltanto un mormorio che si spegneva nell’immenso spazio della notte; il riquadro di cielo teso sopra il cortile lasciava ora vedere di nuovo le stelle, era di nuovo visibile la luce del loro respiro, benché qua e là coperta dalle migranti nubi di denso vapore; queste stesse nubi erano come attraversate dalla nebbia dei suoni morbidi e mormoranti, partecipavano di quella mormorante nebbia che spirava e svaniva e impregnava il cortile velando ogni cosa — sì che le cose e i profumi ed i suoni si fondevano insieme — salendo alta nel notturno silenzio del cielo; e dall’altra parte una palma cresceva lungo il muro, giungendo fino all’altezza del tetto, ed il suo tronco, dalla dura scorza, era fasciato d’un chiarore indistinto: solida palma dal nero ventaglio, aspra e ritrosa, anch’essa portava la notte.
Oh, stelle, oh notte! oh, era la notte, finalmente la notte! Ed egli aspirava profondamente nel petto dolorante l’alito oscuro, umido e profondo della musica notturna. Pure, egli indugiava già da troppo tempo, doveva prepararsi ad alzarsi dalla lettiga, ed era un po’ irritato, perché la premura dell'imperatore che gli aveva inviato a bordo il fastidioso medico, non l’aveva seguito fin lì nel palazzo, e perché evidentemente nessuno si rendeva conto di quanto egli fosse debole; oltre a ciò, avevano già portato in casa il baule coll’Eneide e conveniva affrettarsi e seguirlo. “ Vieni, aiutami,” ordinò al fanciullo che gli venne vicino; intanto si era sollevato e, appoggiandosi alla spalla del fanciullo, tentò di superare i primi gradini della scala, col risultato però di accorgersi subito che il cuore, il petto, le ginocchia si rifiutavano di salire e che egli aveva sopravvalutato le proprie forze; fu costretto a farsi trasportare su da due schiavi. Salirono tre piani di scale, preceduti dall’indifferente funzionario di corte, che teneva puntato sull’anca il rotolo con la lista degli ospiti, quasi fosse un bastone da maresciallo; dietro egli sentiva i passi degli altri schiavi che lo seguivano col bagaglio; così si arrivò di sopra nell’arioso appartamento che era stato preparato per lui e gli fu facile capire che si trovava nell’angolo sud-ovest del palazzo, a forma di torrione; dalle finestre aperte ad arco rotondo, che sovrastavano di un buon tratto i tetti della città, spirava una fresca bava di vento, una fresca memoria di campagna dimenticata, di mare dimenticato, spirava dal mare e dalla terra l’alito notturno e riempiva la stanza; le fiamme delle candele ardevano, inclinate dal soffio, sul candelabro infiorato al centro della stanza; ad una parete la fresca fontanella lasciava cadere un delicato velo d’acqua sui gradini di marmo della base, c’era il letto munito di zanzariera, e sulla tavola presso il giaciglio erano approntati dei cibi e del vino. Non mancava nulla: una sedia a spalliera stava presso al balcone invitando alla meditazione, e nell’angolo c’era la seggetta; i bagagli furono collocati gli uni sugli altri a portata di mano, il baule dei manoscritti, dietro speciale ordine, fu avvicinato al letto, ogni cosa insomma veniva sistemata così appropriatamente e in modo così silenzioso, come meglio nessun malato avrebbe potuto desiderare, ma certo questo non era più merito di Augusto, questa era solo la mera pre-murosità dell’ineccepibile gestione di corte, organizzata in grande stile, ma priva di calore e d’affetto. Si doveva subirla, si doveva accettarla, la malattia ve lo costringeva, era una necessità della malattia, una fastidiosa ed amara necessità, e tuttavia quest’amarezza non si indirizzava tanto contro la sua infermità, quanto piuttosto contro lo stesso Augusto, il quale, evidentemente, aveva il dono di vanificare irrefutabilmente ogni senso di gratitudine. Questo risentimento nei confronti di Augusto — non era esistito fin da principio? in verità, tutto si doveva ad Augusto, la pace, l’ordine, la sicurezza personale, nessun altro avrebbe potuto realizzare tanto, e se al posto suo fosse salito al potere Antonio, Roma non avrebbe ritrovato più la pace, tutto questo era vero, eppure! sì, eppure! eppure ancor sempre diffidenza nei confronti di quest’uomo, che aveva già oltrepassato la quarantina, senza per altro invecchiare, nient’affatto cambiato da venticinque anni, quest’uomo che con la medesima tattica, liscia ed astuta, di cui aveva dato prove così precoci, continuava ancor oggi a tenere con abile mano le file della politica — non era pienamente giustificata l’astiosa diffidenza nei confronti di questo adolescente invecchiato, a cui si doveva tutto? Tutta la sua fisionomia aveva le caratteristiche del liscio: liscia la sua bellezza, liscio il suo spirito, liscia la sua gentilezza che tanto volentieri si voleva interpretare come amicizia, mentre amicizia non era e invece serviva sempre e soltanto a fini egoistici, sì che ognuno cadeva nella sua rete, nella sua rete così liscia!
Ed ora si era di nuovo a questo punto, a questa simulazione di amicizia, — ma perché ora, l’ipocrita, aveva insistito per trascinare nel proprio treno un malato, e riportarlo in Italia? Ah, meglio sarebbe stato morire sulla nave, meglio che dover giacere qui, in quest’ambiente viscido della corte dove tutto era troppo, troppo immacolato, mentre di là, alla festa dell’imperatore, tra gli squilli delle luci e della musica, l’imperiale non-adolescente si faceva festeggiare con tanto clamore. E lo strepito gli giungeva impudico agli orecchi, ora tenue ora forte, come un fremito lontano ed estraneo che contaminava l’alito della notte.
Ma nell’alito della notte tutto era congiunto, il clamore della festa ed il silenzio dei monti e lo sfavillio del mare, il passato e il presente e di nuovo il passato, e l’uno fluiva nell’altro, l’uno svaniva nell’altro. — Gli sarebbe stato concesso di ritornare ancora una volta ad Andes? Qui c’era Brindisi, ricca di tetti e di vie illuminate, distesa sotto il balcone, dove si era fatto trasportare, e dinnanzi al quale stava ora seduto nella sedia a spalliera, qui c’era soltanto Brindisi, ed egli ascoltava, con l’orecchio teso nella notte, tendeva l’orecchio nella lontananza del passato, là dove la morte doveva essere un bene; no, egli non sarebbe dovuto venir qui, tanto meno poi in questo appartamento per gli ospiti ben arredato, ma nient’affatto amichevole. Sulle candele che ardevano inclinate si formava — di fianco a ciascuna, goccia su goccia — come un impervio sentiero di cera che andava sempre crescendo.
“ Signore...”Il funzionario di corte stava davanti a lui.
“ Non desidero più nulla.”
Il funzionario accennò al fanciullo: “ Dobbiamo alloggiare il tuo schiavo? non era previsto...”
Veramente quell’uomo importuno aveva ragione; non era stato previsto.
“ Tuttavia, se tu desideri averlo alloggiato qui, vicino a te, possiamo subito — ne puoi esser certo, signore — darci la pena di accontentarti...”
“ Non è necessario... egli andrà in città.”
“ A parte ciò, quest’uomo,” il funzionario accennò ad uno degli schiavi, “ resterà tutta la notte ai tuoi ordini nella stanza vicina.”
“ Bene... spero di non averne bisogno.”*
“ Allora posso allontanarmi...”
“ Va’.”
Ne aveva ormai abbastanza di tutti quei preparativi; intrecciando le mani con impazienza, girando l’anello col sigillo, egli aspettava che quest’uomo così freddamente premuroso lasciasse finalmente la stanza insieme con la sua gente, ma quando ciò avvenne, ecco che, contro ogni attesa, lo schiavo designato dal funzionario, un uomo dal grosso naso orientale in un compunto viso di servo, non se ne era andato con gli altri, ma, come se così gli fosse stato ordinato, era rimasto alla porta.
“ Mandalo via,” pregò il fanciullo.
Lo schiavo domandò: “ Dài l’ordine di venire svegliato all’alba? ”
“ All’alba? perché? ”
Per un momento fu come se il sole, nonostante l’ora notturna, non fosse scomparso dal cielo, e pur essendo nascosto nelle plaghe d’Occidente, fosse tuttavia presente, Helios, che supera e vince la notte, più possente della stessa madre, dal cui grembo egli è nato.
Ciò non di meno, bisognò dare una risposta allo schiavo che attendeva la sua decisione: “ Non è necessario che tu mi chiami; sarò certamente sveglio...”
Si sarebbe potuto pensare che l’uomo non avesse udito la risposta; egli rimase immobile in piedi. Che cosa significava questo? che intendeva dire con ciò quell’uomo? forse che per colui che non viene svegliato, non avrebbe potuto esserci un nuovo giorno? Era notte, notte quieta e materna, dolce il suo alito, e dolce era immaginare che sarebbe potuta durare per sempre; no, non desiderava lo schiavo, come gli era ingrata l’idea di venir destato da lui: “ Puoi recarti a riposare...”
“ Finalmente,” commentò il fanciullo, quando lo schiavo ebbe chiuso la porta dietro di sé.
“ Finalmente, sì, tuttavia... ma veniamo a te, ora, piccola guida... che fai tu ancora qui? hai un desiderio da esprimermi? ti esaudirò volentieri...”
La piccola guida stava in piedi sulle gambe divaricate; il suo volto di giovane contadino, rotondo, un po’ duro e, bisognava ammetterlo, non propriamente bello, era un po’ chino, con espressione, certo, un po’ offesa, priva di grazia, col labbro inferiore sporgente: “ Anche tu vuoi mandarmi via...”
“ Gli altri ho mandati via, non te... a te solo chiedo...” “ Non devi mandarmi via...” La voce del fanciullo leggermente arrochita aveva un suono familiare, quasi paesano nel suo singolare fondo campagnolo. La voce era come una intesa lontana che viveva ancora appena nella memoria, una intesa che affondava le sue radici in un passato materno, lontano e inesplorabile, un’idea del quale riluceva nei chiari occhi del fanciullo.
“ Io non ho l’intenzione di sbarazzarmi di te, ma suppongo che anche a te, come agli altri, prema di partecipare alla festa dell’imperatore...”
“ La festa mi è indifferente.”
“ Tutti i giovani vogliono partecipare alla festa; non è il caso che tu ne provi vergogna, e la mia gratitudine per la tua opera di guida non ne verrebbe diminuita...”
Le mani dietro alla schiena, il fanciullo si girava or da una parte or dall’altra:
“ Non voglio andare alla festa.”
“ Alla tua età io ci sarei andato sicuramente, e persino oggi lo farei se fossi un po’ più in salute, ma se tu ci andassi al mio posto, per me sarebbe quasi come se io stesso vi partecipassi... per gioco, mascherato sotto un’altra figura... vedi, qui ci sono dei fiori, fatti una corona, potresti piacere ad Augusto.”
“ Non voglio.”
“ Peccato... che cosa vuoi? ”
“ Restare qui con te.”
L’immagine della festa, nella quale il ragazzo si sarebbe dovuto introdurre di soppiatto per essere presentato ad Augusto, quell’immagine svanì: “ Vuoi restare presso di me...”
“ Sempre.”
Notte sempiterna in cui regna la madre, e il fanciullo è assopita nell’immutabile, e dorme nell’oscurità e respira nel buio, oh, dolce, perenne immutabilità.
“ Chi cerchi? ”
“ Te.”
Sbagliava, il fanciullo. Ciò che noi cerchiamo è sommerso, e noi non dobbiamo cercarlo, perché la sua irreperibilità ci irride.
“ No, mia piccola guida, tu mi hai guidato, ma non mi hai cercato.”
“ La tua strada è la mia.”
“ Da dove vieni? ”
“ Tu ti sei imbarcato in Epiro.”
“ E sei venuto con me? ”
Un sorriso diede la risposta, affermando.
“ Dall’Epiro, dalla Grecia... però, tu parli la lingua di Mantova.”
Di nuovo sorrise il fanciullo: “ È la tua lingua.”
“ La lingua di mia madre.”
“ La lingua, nella tua bocca, si è fatta canto.”
Canto — aura delle sfere celesti, che se stessa canta, e si innalza di là da ogni limite umano: “ Eri tu, che cantavi sulla nave? ”
“ Io ascoltavo.”
Oh, canto materno della notte, che risuona nella notte, che è risuonato da sempre, sempre cercato, ad ogni inizio del giorno:
“Avevo la tua età, sì, forse ero ancora un po’ più giovane, quando scrissi i miei primi versi, versi d’ogni specie, alla rinfusa... sì, così ero allora; io dovevo trovare me stesso... mia madre era morta allora, solo il suono della sua voce era rimasto... ancora una volta: tu, chi cerchi? ” “ Io non ho bisogno di cercare, dal momento che lo fai tu.”
“ Son io, dunque, al tuo posto, anche se tu non vuoi andare alla festa in vece mia? e anche tu, forse, scrivi versi come ho fatto io? ”
Un’espressione divertita, che negava questa domanda, si disegnò sul volto familiare del ragazzo; anche le lentiggini alla radice del naso erano in perfetta armonia col suo aspetto familiare.
“ Dunque non scrivi versi... già pensavo tu fossi uno di quelli che si sono proposti di farmi sentire le loro poesie o le loro tragedie...”
Il fanciullo sembrò non aver capito o non avervi fatto caso: “ La tua strada è poesia, la tua mèta è al di là della poesia...”
La mèta era al di là dell’oscurità, era al di là dei campi del passato custoditi dalle madri; anche se il fanciullo parlava d’una mèta, non ne sapeva nulla, era troppo giovane per saperne qualcosa, egli lo aveva guidato, ma non per la mèta:
“ Comunque sia, tu sei venuto da me perché io sono un poeta... oppure no? ”
“ Tu sei Virgilio.”
“ Lo so... a parte ciò, l’hai gridato abbastanza chiaro nelle orecchie della gente, laggiù, sulla piazza del porto.” “ Ma non è servito molto.” L’aria divertita del suo giovane viso si concentrò in un ammiccare degli occhi, in un comico arricciarsi del naso, cosicché quella striscia di lentiggini alla radice si contrasse in tante piccole pieghe, e i suoi denti bianchi, regolari, molto forti, splendettero alla luce delle candele; era la medesima espressióne divertita, con cui laggiù nella piazza aveva tentato di sgomberare la strada al poeta Virgilio, ed era la stessa espressione che aveva la sua origine in un passato molto lontano.
Qualcosa lo costringeva a parlare, nonostante il pericolo che un fanciullo non potesse comprendere: “ Il nome è come una veste che non ci appartiene; noi siamo nudi sotto il nostro nome, più nudi ancora del bambino che il padre ha sollevato da terra e tiene nelle sue braccia per dargli un nome. E quanto più riempiamo d’essere quel nome, tanto più ci diventa estraneo, tanto più diventa indipendente da noi, tanto più abbandonati restiamo noi stessi. Un prestito è il nome che portiamo, un prestito è il pane che mangiamo, un prestito siamo noi stessi, che siamo nudi e immessi in un mondo estraneo, e solo colui che ha deposto ogni prestito e ogni vano ornamento, può vedere la mèta, è chiamato alla mèta, per unirsi definitivamente col proprio nome.”
“ Tu sei Virgilio.”
“ Lo ero un tempo; forse tornerò ad esserlo.”
“ Non ancora, e tuttavia di già,” confermarono le labbra del fanciullo.
Era un conforto, certo solo il conforto che può donare un fanciullo, e questo era un conforto che non bastava.
“ Questa è una casa di nomi prestati... perché mi ci hai condotto? è una casa di ospiti.”
Ancora una volta apparve quel sorriso di intesa, infantile e quasi impertinente, eppure immerso in una familiarità così profonda e come fuori del tempo: “ Sono venuto da te.”
E, cosa strana, ora la risposta bastò, quasi fosse un sufficiente conforto, addirittura bastò anche per la domanda seguente, che — ancora più strana, se ciò era possibile — si pose a questo proposito, strana per la sua perentorietà: “ Vieni da Andes? conduci ad Andes? ” Non sapeva se avesse pronunciato realmente la domanda a voce alta, sapeva soltanto che non voleva udire nessuna risposta, né affermativa, né negativa, perché il fanciullo non doveva essere originario di Andes, né doveva non esserlo, sarebbe stata troppo terribile la prima risposta, troppo assurda la seconda. Non doveva, no, seguire una risposta, ed era giusto che non seguisse; ma straordinariamente forte era il desiderio di poter tenere qui il fanciullo, di poter respirare, e respirando abbandonarsi alla quiete e al presagio, oh, il desiderio era esso stesso un presagio. Le candele ardevano inclinate nel soffio di un’aria dolce che fluiva e rifluiva come una fresca, delicata ed intensa nostalgia, che veniva dalla notte e tornava a riversarsi nella notte; la lampada d’argento presso il giaciglio oscillava lievemente, sospesa alla sua lunga catena, e fuori dalla finestra egli vedeva il vapore della città rifluire tremolante al di sopra dei tetti, dissolversi in un colore purpureo, violetto nell’azzurro profondo, nel nero, nell’incomprensibile, nel fluttuante.
Respiro, quiete, attesa, silenzio. Venendo dalla notte, tornando a riversarsi nella notte, il silenzio fluiva, e passò molto tempo prima che egli lo interrompesse: “ Vieni, siediti presso di me,” disse al ragazzo, perché venisse al suo fianco, ma anche quando questi gli si fu rannicchiato vicino, il silenzio continuò, ed essi ne furono travolti, abbandonati alla notte silente. Lontano s’udiva un frastuono; era lo strepito della folla percorsa da una folle brama di spettacolo, era il frastuono della festa, un ribollire di creature umane, sordo, infernale, ineluttabile, impudico, irresistibile, sfrenato e sazio ad un tempo, cieco e avido di guardare, il ribollire del gregge scalpitante che nella luce illusoria e senz’ombra delle fiaccole e dei fuochi s’accalcava verso l’abisso del nulla quasi senza salvezza e senza scampo, se in quel suo clamore non vi fosse stato — e quanto più a lungo si tendeva l’orecchio, tanto più chiaramente lo si avvertiva — se anche in quel suo clamore non fosse stato racchiuso il canto del silenzio, racchiuso da sempre e per sempre, lo scampanio del silenzio che cresceva per farsi bronzeo suono della notte, suono d’ogni umano gregge, sommessamente cantando la notte del gregge, sospirando il gregge nel suo grande sonno: la notte dimora profonda sotto l’humus dell’essere, sussurra nell’ombra e si cela nella propria infanzia, ed è sciolta da ogni destino, da ogni casualità, da ogni impudicizia; da lei germogliano le creature, percorse dal sussurro degli umori notturni, gravide di sonno, eternamente fecondate dalla sorgente d’ogni interiorità, e piante, animali, uomini da lei germogliano, ineffabilmente intessendosi e incorporandosi gli uni negli altri, coprendosi d’ombra gli uni con gli altri, perché la maledizione del ritorno è nascosta nella benedizione del sonno, e il nulla di un sogno si stende su] nulla, come dolce riparo dell’essere.
Oh, la vita segreta della terra! Il mondo del cielo e il mondo della notte in un incessante inspirare ed espirare, sospeso tra la doppia seduzione della grande ombra e dell’assenza dell’ombra, e non mutano mai le maree del corso del tempo, teso tra i poli della sua abolizione: l’eternità ferina e l’eternità divina — oh, in tutte le vene della vita terrestre, in tutte le creature germogliate dalla terra, scorre e sale la notte, ininterrottamente trasformandosi in veglia e coscienza, interiorità e esteriorità, da elementi informi creando figure che in sé contengono l’oscurità e in sé nascondono l’ombra, e librandosi in tale equilibrio, tra il nulla e l’essere, il mondo oscilla tra l’oscurità e la luce e si rende conoscibile nella sua opacità e nella sua luminosità. Sempre echeggia nell’anima lo scampanìo della notte, or sommesso or vibrante e sempre indimenticabile, sempre echeggia lo scampanìo delle greggi e il ruggito leonino del giorno, terrificante nella luce e nella conoscenza, aurea tempesta che inghiotte le creature — oh, conoscenza dell’uomo, che non è ancor conoscenza e non è più sapienza, conoscenza che sale dall’humus dell’essere, dalla vita primigenia e dalla sapienza delle madri verso la mortale chiarezza della luce e della vita suprema, verso la bruciante conoscenza del padre, verso la freddezza, oh, conoscenza dell’uomo, sradicata e in perpetuo movimento, che non è in alto e non è in basso, ma incessantemente è sospesa sulla soglia della penombra tra il giorno e la notte, ed è come un respiro nell’interregno del crepuscolo degli astri, tra la vita del gregge notturno e la morte dell’individuazione inondata di luce, tra il silenzio e la parola che ritorna sempre al silenzio. Non vi è creatura della terra che possa realmente liberarsi dal sonno, e soltanto colui che non si scorda mai della notte che è in lui, può concludere il cerchio, può far ritorno dall’eternità del principio all’eternità della fine, può sempre ricominciare a percorrere il cerchio, un astro egli stesso nell’immutabile corso dei tempi che emerge dal crepuscolo e scompare nel crepuscolo, che nasce e rinasce entrando nella notte e uscendo dalla notte, accolto dal giorno la cui luce si è dissolta nell’oscurità, dal giorno che in sé cela la notte: sì, così erano state le notti, tutte le notti della sua vita, tutte le notti che aveva attraversato e che aveva trascorso vegliando, colmo d’angoscia per la minaccia del torpore che giace sotto le notti, colmo d’angoscia per l’assenza d’ombra che le sovrasta, colmo d’angoscia per la paura di abbandonare Pan, colmo di un’angoscia che sapeva del pericolo della duplice eternità, sì, così erano state quelle notti, relegate sulla soglia del doppio congedo, notti del sonno uguale ed immutabile del mondo, benché nelle piazze, nei vicoli, nelle bettole e in tutte le città si udisse il clamore della vita umana, invariabile e uguale fin dal principio, e ne giungeva un’eco, inudibile e appunto perciò tanto più penetrante, da tutte le lontananze dei tempi — sonno anche questo — benché in tutti i luoghi delle loro feste i despoti del mondo si facessero osannare entro una marea di fanfare e di fiaccole, in mezzo ai sorrisi delle tante e tante facce, in mezzo al corteggiamento dei tanti e tanti corpi, sorridenti essi stessi, corteggiatori essi stessi — sonno anche questo — benché ardessero i fuochi di guardia, non solo dinanzi ai castelli, ma anche fuori, dove c’era la guerra, ai confini, ai fiumi che neri fluiscono nella notte e ai margini dei boschi che sussurrano nella notte e sotto il folgorante urlo d’assalto dei barbari erompenti dal buio — sonno anche questo — sonno e ancora sonno, come quello dei vecchi ignudi, che nelle tane fetenti si liberavano dormendo dell’ultimo resto della loro veglia, come quello dei lattanti, che dalla miseria della loro nascita entravano, senza sogni, a sognare nella cupa veglia della vita futura, come quello della masnada degli schiavi incatenati nei ventri delle navi, che come vermi intorpiditi giacevano distesi sulle panche, sui ponti, sui rotoli dei cordami, sonno e ancora sonno, gregge e ancora gregge, che si solleva dal suo fondo originario e indistinto come catene di colline notturne dormienti sulla pianura e affonda nell’immutabile grembo materno in un ritorno perpetuo che non è ancora eternità e tuttavia la rigenera in ogni notte terrestre; sì, così erano state quelle notti e così erano ancora, così era ancor questa, forse per sempre, notte in bilico tra l’eternità e il tempo, tra il congedo e il ritorno, tra la comunità del gregge e la più sola solitudine, tra l’angoscia e la salvezza, ed egli, relegato sulla soglia, notte per notte ad attendere sulla soglia nell’incerta luce della penombra ai margini della notte, nel crepuscolo ai margini del mondo, egli, che conosceva l’atto del sonno, era stato sollevato nell'immutabile, e facendosi forma egli stesso, ne veniva respinto e ricacciato nel mondo dei versi, nell’interregno della conoscerla terrena, nell’interregno delle madri, della sapienza e della poesia, nel sogno che è al di là del sogno e che sfiora la rinascita, mèta della nostra evasione, la poesia.
Evasione, oh, evasione! o notte, l’ora della poesia. Perché poesia è veggente attesa nella penombra, poesia è abisso che sa della penombra, è attesa sulla soglia, è comunione e insieme solitudine, è promiscuità e paura della promiscuità, casta nella promiscuità, così casta come il sogno del gregge dormiente, e tuttavia paura dell’impudicizia: oh, poesia è attesa, non è ancora partenza, ma perenne congedo. Egli sentiva contro il suo ginocchio la pressione, quasi impercettibile, della spalla del fanciullo rannicchiato, non ne vedeva il viso, solamente sentiva che era immerso nella sua ombra, e intanto vedeva i capelli scuri e arruffati nella luce delle candele, e ricordava quella terribile notte felice e infelice in cui, sospinto dal destino, amante e perseguitato anche allora, era venuto da Plozia Hieria e a lei, rannicchiata, in un’ansiosa attesa invernale, come un boccio invernale non ancora dischiuso, aveva soltanto letto dei versi, — era stata l’egloga dell’incantatrice, l’egloga scritta per desiderio e incarico di Asinio Pollione, ma che non gli sarebbe mai riuscita così bene, se egli non fosse stato assistito dal pensiero di Plozia, dalla nostalgia e dal desiderio per la donna, perché fin da principio aveva capito che non gli sarebbe mai stato concesso di abbandonare la soglia e di entrare nella notte di una compiuta comunione; ahimè, poiché la volontà di evasione gli era stata imposta da sempre, aveva dovuto leggere l’egloga, e si erano adempiute così la paura come la speranza, era giunta la necessità del congedo. Ed era stato proprio il medesimo congedo che, in misura più grande, doveva più tardi essere vissuto da Enea, quando — per le misteriose, imperscrutabili ragioni che la poesia assegna alle proprie vicende — aveva abbandonato Didone ed era migrato con le fuggenti navi verso l’irrevocabile, rinunciando per sempre a giacere presso di lei, a cacciare insieme con lei, per sempre diviso da una creatura che per lui era stata l’ombra dolce della realtà, la dolce ombra del piacere, per sempre distaccato dall’antro notturno dell’amore sotto le tempeste. Sì, Enea e lui, lui ed Enea, erano fuggiti ih una reale partenza, non solo nell’ indugiante congedo della poesia, erano fuggiti dal suo interregno, come se questo interregno, benché sia anche quello dell’amore, non potesse nulla per il vivente — dov’era diretta, quest’evasione? da quale profondità nasceva il timore del materno comando di Giunone? Ahimè, l’amore è già un inabissarsi sotto lo specchio della notte, è un inabissarsi verso l’originario fondo notturno, dove il sogno si fa eternità oltrepassando la soglia di se medesimo, è una discesa nell’originario fondo dell’informe e dell’impenetrabile, che è sempre in agguato, pronto ad erompere con la furia devastatrice d’una tempesta: soltanto i giorni si mutano, soltanto nei giorni scorre il tempo, e nel moto delle cose alla luce del giorno è il tempo che l’occhio contempla; ma immobile e grande è l’occhio della notte in fondo al quale riposa l’amore, l’occhio che, vuoto, ardente e immoto nella luce delle stelle, incessante e immutabile, notte per notte, in sé rinnova, al di là di tutti i tempi, l’eternità terrestre — e il mondo viene creato e inghiottito dall’occhio della notte che dal suo fondo più segreto nulla più guarda se non l’abbagliante e fulminea profondità del nulla, e in sé accoglie tutti gli occhi, gli occhi dell’uomo nell’amore, nel risveglio, nella morte: e nell’amore e nella morte l’occhio dell’uomo si spegne, si spegne perché guarda nell’eternità.
Evasione, oh, evasione! Mutevole nelle sue forme è il giorno, quieta nelle sue forme la notte, ma l’uno e l’altra rivolti alla quiete dell'eternità! A poco a poco le candele consumandosi s’incrostavano di cera, e intorno sciamavano senza soste le zanzare in un ronzìo maligno, monotono, duro e informe ad un tempo, senza sosta mormorava l’acqua della fontanella alla parete, e quel mormorio era come una parte del suo ineffabile, immoto, oceanico fluttuare fuori dal tempo; immoti giocavano gli amorini nel fregio della parete, irrigiditi in una pacatezza e in una quiete così immensa, che quasi non era più forma e figura e partecipava piuttosto della sconfinata quiete notturna degli spazi dell’universo e dell’immutabilità dei loro evi infiniti, una quiete che — generando l’ombra ed imbevendosi d’ombra — s’innalzava tutt’intorno come una caverna vista in sogno, innalzata dalle maree del sogno, una caverna dai muri di respiro, informe silenzio su cui si librasse il volo zenza voci degli uccelli del tuono, le lucide stelle. Perché chiunque riposi nella notte bevendo la pace, il cuore percorso da un battito d’ombra, l’uno e l’altro uniti nella stessa sete, l’uno perduto nell’ombra dell’altro, l’anima stretta all’anima, lo sposo unito alla sposa, la fanciulla raccolta nelle braccia del giovane amante, il fanciullo in braccio all’amico, qualunque cosa accada nella notte, è un oscuro riflesso che partecipa della sua ancor più grande oscurità, è immagine del suo fulmine oscuro e guizzante, è caduta nell’abisso della sua bufera, strappato il velo del sogno; e se pure nel grido invochiamo la madre perché ci protegga dalla bufera notturna, essa è così lontana e così perduta nella memoria, che ormai soltanto un raro, freddo soffio dell’infanzia può giungere sino a noi, non più consolazione, non più protezione, ma solo soffio — familiare ed estraneo a un tempo — della patria da lungo tempo perduta, soffio della quiete che precede la bufera: certo, era così, e ancorché la brezza notturna entrando dalla finestra li sfiorasse tiepida e mite e, fluendo e rifluendo, abbracciasse ogni cosa e avvolgesse del suo alito gli oliveti e le messi e le vigne e le spiagge dei pescatori in un unico ondeggiante respiro notturno delle terre e dei mari, portando e mescolando i loro raccolti nella soave mano del vento; e ancorché questa mano scendesse così lieve sfiorando le vie e le piazze, rinfrescando i volti, dissipando il fumo e placando ogni voglia, ancorché anzi questo respiro di cui era colma la figura della notte, fosse cresciuto al di là della notte stessa, trasformato nella montagna della rintronante caverna, che, inafferrabile e quasi non più esteriorità, riposa sul suo fondo più segreto, dentro nel cuore e più profonda del cuore, dentro nell’anima e più profonda dell’anima, nel nostro io più profondo che s’è fatto esso stesso una notte — ancorché tutto questo esistesse e accadesse, era inutile, non serviva più a nulla, era ormai troppo tardi; gravido di dannazione resta il sonno del gregge, implacabile resta la furia terrena, inestinguibile il fuoco, l’amore preda del fragoroso fulmine del nulla, e la bufera sovrasta eternamente la caverna della notte.
Evasione, oh, evasione! La madre resta irrevocabile. Noi siamo derelitti alla sorgente del gregge, nessun nome possiamo invocare nel sogno, perché nessuno conta nell’oscurità della completa comunione — e tu, piccolo compagno del mio viaggio notturno, che ti sei accompagnato a me per guidarmi, potrò io ancora veramente invocarti? Mi sei stato inviato dal tuo o dal mio destino perché io ti parli? senti anche tu la minaccia dell’eternità? è nascosta anche sotto la tua notte — e vieni a me per questo? oh, appoggiati a me, mio piccolo fratello gemello, oh, appoggiati a me; io distolgo i miei occhi dalla minaccia e li rivolgo a te, e spero, spero ancora una volta, di poter ritornare dalla solitudine alla mia casa, di poter ritornare con te nell’oscura sede che è innalzata dentro di me come un focolare e che non conosco più, oh, ritorna, entra con me in questa domestica sicurezza, che, dopo essermi stata così estranea, riprende a pulsare così familiare nelle mie vene: forse ciò che mi è stato così estraneo, non mi sarà più tale, né io forse sarò più estraneo a me stesso; oh, stringiti a me, mio piccolo fratello gemello, stringiti a me, e se rimpiangi la perduta fanciullezza, se rimpiangi la madre perduta, potrai ritrovarle presso di me, poiché ti prendo nelle mie braccia e sotto la mia protezione. Fermiamoci ancor una volta nell’antro sospeso della notte, ancora un’unica volta, e insieme porgiamo l’orecchio alla notte e al suo sogno, all’assurda, dolce realtà del suo interregno — tu non sai ancora, mio piccolo fratello, poiché sei così giovane, da quale profonda interiorità del nostro essere emerge la speranza della notte che nella sua immutabilità abbraccia il tutto ed è animata dal tutto, ed è promessa tanto lieve e tanto dolce nella sua pena, che abbiamo bisogno di un tempo assai lungo prima di poterla udire, la speranza e la sua inquietudine, che si innalza intorno a noi come una montagna di echi, eco dopo eco, come un paesaggio sconosciuto e ciò nonostante come un richiamo del nostro stesso cuore, sì, ciò nonostante — e ciò nonostante così imperiosa, come se ancor una volta tutto lo splendore di un remoto passato tornasse di nuovo a risplendere, ciò nonostante così fiduciosa, come se in lei fosse rinchiusa tutta la promessa delle ultime cose — oh, mio piccolo fratello, io lo so, perché sono vecchio, più vecchio della mia età e perché sento in me ogni fragilità, ogni corruttibilità, io lo so, perché sono vicino alla fine; ahimè, soltanto nel desiderio della morte noi desideriamo la vita, e per quanto io possa risalire nella memoria, picchia e lavora in me, continuo, incessante, un estremo desiderio di morte che mina e disgrega la mia vita; così l’ho sempre sentita, la paura della vita e a un tempo la paura della morte, in tutte le molte notti alla cui soglia io mi sono fermato, alle rive di tutte le notti che mi sono passate dinanzi, e quanto più esse fluivano, tanto più sapevo del loro segreto, tanto più sapevo del distacco e del congedo che ha inizio con il crepuscolo; ed era il morire che mi fluiva dinanzi, che mi lambiva con il suo saliente flutto, che mi bagnava e mi prendeva, era la mia morte, che veniva dal di fuori, benché fosse nata dentro di me: soltanto il morente conosce veramente la comunione, conosce l’amore, conosce l’interregno, soltanto nel crepuscolo e nel congedo noi conosciamo il sonno, la cui più oscura comunione è senza impudicizia, riconosciamo che alla nostra partenza non potrà mai più seguire un ritorno, conosciamo il germe dell’impudicizia che è nel ritorno e soltanto nel ritorno; ahimè, piccolo compagno del mio viaggio notturno, anche tu un giorno conoscerai tutto ciò, anche tu un giorno siederai sulla soglia, alla riva del tuo interregno, alla riva del congedo e del crepuscolo, ed anche la tua nave sarà allestita per la fuga, per quella fuga superba che si chiama risveglio e dalla quale non esiste ritorno. Sogno, oh, sogno! Finché coltiviamo la poesia, non c’è partenza, finché indugiamo nell’interregno del nostro giorno notturno, ci doniamo l’un l’altro tutta la speranza del sogno, tutta la comunione della nostalgia, tutta la speranza dell’amore, e perciò, mio piccolo fratello, per questa speranza, per questa nostalgia, non andar più via da me; non voglio sapere il tuo nome, l’ombroso tuo nome, non voglio chiamarti né per partire né per ritornare, e tuttavia, senza ch’io ti chiami, poiché non posso chiamarti, resta presso di me, perché l’amore resti nella promessa di essere l’ultima cosa, resta presso di me nel crepuscolo, resta presso di me sulla riva del fiume, guardiamolo senza affidarci alla sua corrente, lontani dalla sorgente, lontani dalla foce, protetti contro l’oscura unione del principio, protetti contro la solitudine luminosa e senza ombra di Apollo, oh, resta presso di me, protettore e protetto, così com’io per sempre voglio restare presso di te; ancora una volta, l’amore: mi ascolti? ascolti la mia preghiera? può ancora la mia preghiera ascoltarsi, esaudire se stessa, sottrarsi al destino, sciogliersi da ogni dolore?
Immobile giaceva la notte, irrigidita nelle sue forme vicine e lontane, rinchiusa in questo spazio, rinchiusa entro spazi sempre più vasti, protesa dall’immediatezza del mondo sensibile verso altre, successive immediatezze, al di là dei monti e dei mari, distesa in un fluttuare perenne fino alle irraggiungibili cupole del sogno; ma questo fluttuare che scaturiva dal cuore e si perdeva come una marea sino ai confini della cupola per ritornare nella dimora del cuore, in sé accoglieva, onda per onda, la nostalgia, dissolvendo la stessa nostalgia della nostalgia, fermando la materna cuna del suo originario principio, la materna cuna delle stelle che oscillava nel crepuscolo; e intorno alla notte guizzavano gli oscuri fulmini del basso, i chiari fulmini dell’alto, dividendola in luce e tenebre, in nerezza e biancore, due colori la nube, due forme l’origine, afosa, soffocante, senza suono, senza spazio, senza tempo — oh, spalancato antro del didentro e del difuori, oh, grande migrare della terra! — così si fendeva la notte e si schiantava il sonno dell’essere; travolti il crepuscolo e la poesia, travolto il loro regno, infrante le pareti dell’eco del sogno, e derisa dalle mute voci del ricordo, gravata dalla colpa e infranta nelle sue speranze, sommersa dalla rapina dei flutti, si inabissava la vita, si inabissava con la sua troppo grande attesa, nel mero nulla. Era ormai troppo tardi, c’era ancor solo la fuga, la nave era pronta, l’àncora era stata salpata; era troppo tardi.
Egli attendeva ancora, attendeva che si annunciasse ancora una volta la notte, che gli sussurrasse parole ultime, parole di conforto, che ancora una volta ridestasse in lui con il suo bisbiglio la nostalgia. A stento si poteva ancora chiamare speranza, ma piuttosto speranza della speranza, a stento si poteva chiamare fuga dinanzi all’eterno, ma piuttosto fuga dinanzi alla fuga. Non c’era più tempo o desiderio o speranza, né per la vita né per la morte; non c’era più notte. Né c’era più un’attesa, forse impazienza che attendeva impazienza. Egli teneva le mani intrecciate, ed il pollice della sinistra toccava la pietra dell’anello. Così stava seduto, sentiva sul suo ginocchio il tepore della spalla del fanciullo, tanto vicina da potersi appoggiare e tuttavia discosta; ed egli desiderava ardentemente di liberare le dita intrecciate dal loro spasimo crescente, per accarezzare lievissimamente i capelli notturni, scuri, arruffati, infantili, su cui si chinava il suo sguardo, per lasciar scivolare tra le dita il crespo frusciante dei capelli morbidi come la notte, germoglio notturno, notturna umanità, e abbandonarsi alla notturna nostalgia della nostalgia; tuttavia non si mosse, e infine, benché gli riuscisse difficile interrompere la fissità dell’attesa, disse: “ È troppo tardi.” Il fanciullo alzò lentamente il viso verso di lui, con un’ espressione così intelligente e interrogante che sembrò che gli si fosse detto qualcosa a cui dovesse ora seguire una continuazione, e obbedendo a questa domanda, avvicinato soavemente il proprio viso a quello del fanciullo, ripetè con voce molto sommessa: “ È troppo tardi.” Era ancora un’attesa? Era deluso perché la notte non si muoveva più, perché non si muoveva il fanciullo e solo il suo sguardo, grigio, infantile, immobile, interrogante, restava fisso su di lui? l’impazienza, di cui aveva desiderato l’insorgere, si manifestò improvvisa: “ Sì, è troppo tardi... va’ alla festa.” D’un tratto si sentì vecchio, oltre misura; l’immediatezza terrestre si annunciò in un senso di sonnolenza e di incipiente torpore, e lo assalì il desiderio di inabissarsi nell’inconscio e dimenticare il * mai più,” si annunciò in una sorta di debolezza alla mascella inferiore e in un bisogno così forte di tossire, che il desiderio di restare solo e inosservato si fece prepotente: “ Va’... va’ alla festa,” proruppe con voce ancora arrochita, mentre la sua mano supina, anche se solo in un gesto allusivo e da una distanza crescente, sollecitava con brevi cenni il fanciullo che arretrava esitante verso la porta. “ Va’... va" il suono rauco che uscì dalla sua bocca, mentre il respiro già gli mancava, e quando poi fu effettivamente solo, fu come se un nero fulmine gli attraversasse il petto, dal quale eruppe la tosse, una tosse informe, mista a sangue notturno, che lo scuoteva e lo irrigidiva, lo fendeva e lo schiantava, togliendogli i sensi in una stretta soffocante ai margini dell’abisso, e gli parve poi come un miracolo quando fu tutto passato e ancora una volta potè udire il mormorio della fontana e il crepitio delle candele. Assai faticosamente si era trascinato dalla sedia fino al letto, vi si era lasciato cadere ed era rimasto a giacere immobile. Intrecciate nuovamente le mani, sentì ancora la pietra dell'anello, sentì l’alata figura del genio incisa nella pietra di cornalina, e attese, ascoltando se fosse una svolta verso la vita o verso la morte. Ma lentamente cominciò a sentirsi meglio — molto lentamente e con molta fatica e oppressione — tornò ancora al respiro, alla quiete, al silenzio.
Fuoco - La discesa
Egli giaceva e ascoltava. Di tanto in tanto lo riprendeva l’impeto della tosse, seppure a intervalli sempre più lunghi e senza che tornasse a manifestarsi l’emottisi, e da principio aveva creduto addirittura di dover chiamare lo schiavo dalla stanza vicina, perché facesse venire il medico; ma chiamare sarebbe costato troppa fatica, e il fastidio procurato dal medico sarebbe stato insopportabile: voleva restare solo, — nulla era più necessario che restar solo, per raccogliere in sé ancora e ancora una volta tutto l’essere, per poter ascoltare; era questa la cosa più urgente. Sollevando un poco le gambe, si era girato sul fianco, la sua testa riposava sul guanciale, l’anca si imprimeva nel materasso, un ginocchio era sovrapposto all’altro e parevano due esseri estranei, e i malleoli, come pure i calcagni, erano molto lontani. Quante volte, oh, quante volte non aveva pensato al fenomeno del giacere! Sì, c’era addirittura da arrossire al pensiero di non essere riuscito a liberarsi da questa puerile abitudine! Egli si ricordava bene di quella notte, per lui memorabile, in cui — aveva allora otto anni — si era accorto per la prima volta che c’era qualcosa da osservare nello stare distesi: era a Cremona, d’inverno; egli giaceva nella sua stanza, la porta che dava sul tranquillo giardino del peristilio, era piena di fessure, chiudeva male e sbatteva e ciò gli metteva paura; fuori si udiva il fruscio del vento che passava sulle aiuole ricoperte di paglia secondo l’uso invernale, e da qualche parte, probabilmente dalla lanterna ciondolante sotto il portico, giungeva, ritmico e pendolare, il debole riflesso di una luce che scivolava dentro la stanza, ritornava e spariva, come l’ultima eco d’un fluttuante infinito, come la ultima eco dell’infinito corso del tempo, come l’ultima eco di un occhio infinitamente lontano, così perduto, così spento, così minaccioso e così gravido di lontananza che era quasi un invito a chiedersi se mai la sua propria persona veramente esistesse, — e proprio come allora, seppur con maggior chiarezza e consapevolezza, essendosi tali osservazioni ripetute da allora ogni notte, anche oggi, ponendosi il problema dell’esistenza o dell’inesistenza della propria corporeità, egli distingueva ciascuno dei singoli punti su cui riposava il suo corpo disteso sopra il giaciglio, e proprio come allora, essi erano creste d’onda sopra le quali filava la sua nave con lieve immersione, menare tra un’onda e l’altra si aprivano immense pianure. Non si trattava di questo, naturalmente, e se adesso aveva voluto restar solo, in verità non era stato per continuare osservazioni infantili, per le quali avrebbe potuto senz’altro tenere presso di sé il piccolo compagno del viaggio notturno, no, si trattava di qualcosa di più essenziale e definitivo, di qualcosa che doveva avere una realtà molto grande, così grande da superare perfino quella della poesia e del suo interregno, si trattava di qualcosa che doveva essere più reale della notte e del crepuscolo, e non soltanto più reale ma perfino più terrena, si trattava di qualcosa per cui valeva la pena di radunare in sé tutto l’essere, e strano era soltanto che in tutto ciò non fosse possibile eliminare del tutto la puerilità e la futilità, che le loro infinite immagini continuassero ad esistere come prima e come sempre, che nella catena della memoria, da cui siamo avvinti, i primi anelli dovessero essere i più importanti, come se fossero essi, proprio essi, la più reale realtà. Sembrava quasi impossibile, anzi di più, sembrava quasi inammissibile che la nostra ultima, che la nostra più reale realtà si limitasse ad essere una mera immagine della memoria! Ciò nondimeno, l’immagine è la benedizione e la dannazione della vita umana; solo in immagini essa può comprendere se medesima, e insopprimibili sono le immagini, esistono in noi fin dall’inizio dell’umano gregge, procedono e superano la forza del nostro pensiero, sono fuori del tempo, racchiudono in sé passato e futuro, sono un doppio ricordo del sogno, e sono più forti di noi: egli era immagine a se medesimo, egli, che qui giaceva, e puntando la prora verso la più reale realtà, sospinto e bagnato da onde invisibili, l’immagine della nave era la sua immagine: veniva dall’oscurità, viaggiava verso l’oscurità, affondava nell’oscurità, egli stesso era l’immensa nave, che al tempo stesso è l’immensità, ed egli stesso era la fuga, che in questa immensità trova il suo fine, egli stesso la fuggente nave, egli stesso la mèta, immenso egli stesso, immenso, a perdita d’occhio, inimmaginabile, un infinito paesaggio corporeo, il paesaggio del suo corpo, un’immagine possente, distesa, infernale, della notte, tanto che da lungo tempo ormai, smarrita l’unità della vita umana, perduta l’unità dell’umano desiderio, non si riteneva più capace di governar se medesimo, conoscendo tutte le diverse regioni e province, nelle quali il suo io benché unico e disteso sopra l’infinito, si era dovuto suddividere, conoscendo tutte le demoniache istanze che in vece sua ne avevano assunto il governo, distinte l’una dall’altra nella loro molteplicità e secondo i loro diversi territori; ahimè, erano le regioni dissodate e sconvolte dei suoi polmoni doloranti, erano le inquietanti regioni della sua febbre che dalle più remote e infuocate profondità saliva bruciando alla pelle, erano le regioni degli abissi delle sue viscere e quelle ancor più terribili del sesso, le une e le altre ricolme e fitte di serpi, erano le regioni delle singole membra, dotate di vita autonoma e irrefrenabile, non ultime quelle delle dita; e tutte queste regioni demoniache, a lui più lontane o vicine, più amichevoli o ostili e nei rapporti reciproci e nei rapporti con lui — e le regioni più sue erano gli organi della sensibilità, erano gli occhi e gli orecchi — tutti questi luoghi della sfera corporea e sovracorporea, dura realta del suo scheletro di pietra, egli li conosceva nella loro estraneità, nella loro dissolta fralezza, nella loro lontananza, nella loro ostilità, nella loro inafferrabile infinitezza, sensibili e sovrasensibili, perché essi tutti insieme, e lui con essi, erano come una reciproca conoscenza, inalveati in quella grande corrente che si estende oltre i confini dell’uomo e dell’oceano, nella grande corrente delle maree, che ondeggia ed oscilla nella vicenda del flusso e del riflusso e si infrange sulla costa del cuore, facendolo palpitar senza posa, realtà dell’immagine e al tempo stesso immagine della realtà, con onde così profonde che nella sua profondità si aduna ciò che è più diviso, ancor disunito, eppure raccolto per una futura rinascita; oh, marea della riva della conoscenza, il suo flutto sale perenne, saturo del germoglio d’ogni consolazione e d’ogni speranza, oh, flutto primaverile, greve di notte, di germoglio e di spazio; ed egli, conoscendo questa grandiosa immagine del proprio io, sapeva ch’era possibile vincere l’elemento demoniaco appigliandosi ad una realtà sicura, la cui immagine dimora nell’indescrivibile e tuttavia abbraccia l’unità del mondo. Perché turgide di realtà sono le immagini, perché una realtà può essere simboleggiata sempre e soltanto da un’altra realtà: immagini e ancora immagini, realtà e ancora realtà, nessuna veramente reale finché resta isolata, ma ciascuna simbolo di una realtà ultima e inconoscibile, che è la loro totalità. E se nei molti anni trascorsi egli aveva seguito con sempre maggiore interesse e curiosità il decadimento e la debolezza che sentiva avanzar nel suo corpo, se per amore di questa curiosità, stupefacente e stupita, si era volentieri addossato il disagio della malattia e della sofferenza, se anzi — qualunque cosa l’uomo faccia, gli si trasforma in un simbolo, chiaro od oscuro — egli aveva incessantemente nutrito in sé il desiderio di rado consapevole e tuttavia sempre impaziente, che si dissolvesse alfine quell’unità corporea che ai suoi occhi era divenuta sempre di più una unità soltanto apparente, e quanto più presto tanto meglio, affinché accadesse il mirabile evento e la dissoluzione si mutasse in redenzione, in nuova unità, in senso ultimo, se tutto ciò l’aveva accompagnato e inseguito fin dalla prima fanciullezza, per lo meno fin da quella notte a Cremona, ma presumibilmente già dalla sua infanzia ad Andes, fosse nei primi tempi il giuoco di un’infantile, leggera inquietudine, o un’angosciosa paura che spegne ogni memoria — oggi non ricordava più né questo né quello — tuttavia egli non aveva mai mancato di chiedersi quale fosse il senso di tali fenomeni, e questa domanda era stata tutte le notti in quel suo incessante ascoltare, in quella sua continua ricerca, e proprio come allora, il bimbo di Andes, il fanciullo di Cremona, era giaciuto nel suo letto, stringendo i ginocchi, lo spirito assorto nel preludio del sogno, assorto lo spirito, come il corpo, nella nave del suo essere, disteso sulle ampie superfici della terra, egli stesso monte e campo e terra, egli stesso la nave e l’oceano, ascoltando nella notte dell’interiorità e dell’esteriorità, presagendo da sempre che questo ascoltare tendeva al compimento di una conoscenza, per la quale l’intera sua vita doveva essere vissuta, tutto ciò gli accadeva ancora una volta in quell’istante, in quel luogo, in quel giorno; gli accadeva ciò che da sempre gli era sempre accaduto, rinnovandosi perpetuamente, facendosi sempre più chiaro, egli faceva ciò che aveva fatto per l’intera sua vita, solo che ora conosceva la risposta: egli ascoltava la morte.
Poteva essere diversamente? l’uomo, soltanto l’uomo, sta in posizione eretta, ma si distende nel sonno, nell’amore, nella morte, — anche in questa triplice proprietà dal suo giacere egli si distingue da tutti gli altri esseri. Eretta, destinata a crescere, l’anima dell’uomo si estende dagli oscuri abissi delle sue radici immerse nell'humus dell’essere fino al cerchio delle stelle inondato di soli, portando in alto la sua tenebrosa origine posidonia e vulcanica, recando in basso la trasparenza della sua mèta apollinea, e quanto più essa, per questo suo crescere, diventa forma intrisa di luce, quanto più essa nel prendere forma si arricchisce di ombre come un albero che s’apre e ramifica, tanto più essa è in grado di unire nell’ombrosa fronda dei suoi rami l’oscuro col luminoso; ma quando essa si è distesa nel sonno, nell’amore, nella morte, ed è essa stessa diventata disteso paesaggio, allora non è più suo compito fondere gli elementi contrari, perché dormendo, amando e morendo essa chiude gli occhi, e non è più buona o cattiva, ma ancora soltanto un unico, infinito ascoltare: anima infinitamente distesa, infinitamente cinta dall’anello dei tempi, infinita nel suo riposo, e così, sottratta ad ogni sviluppo e senza sviluppo come il paesaggio che è, essa forma con questo il dominio immutato ed immutabile di Saturno attraverso il corso dei tempi, estendendosi dall’età dell’oro all’età del bronzo e, ancora, di là da questa, fino al ritorno nell’età dell’oro; e in forza di questa sua comunione col paesaggio, in forza della sua prigionia nell'elemento terrestre e nei campi terrestri, alla cui superficie si dividono le sfere della luce celeste e dell’oscurità della terra, l’anima è parimenti limite che divide le sfere e che unisce le sfere, limite tra le regioni superiori e le regioni inferiori, è, come Giano, bifronte perché appartiene alla sfera in cui si libran le stelle come alla sfera in cui cade la pietra, alla sfera dell’Etere come a quella del fuoco infernale, e come Giano bifronte è la sua duplice e diversa infinità, come Giano bifronte è l’anima distesa senza fine che riposa nel suo sopore, sicché l’alto e il basso, senza essere uniti, possono essere per il suo vigile ascolto zone di eguale significato; privo di significato, per contro, è l’accadi-mento in sé che non mette conto indagare e conoscere poiché l’anima non lo percepisce né come sviluppo, né come inaridimento, né come felicità, né come pena, bensì come perpetuo ritorno; il perpetuo ritorno all’interno del proprio essere, il perpetuo ritorno dell’universale corso saturnio nel quale si distendono senza fine i paesaggi dell’anima e della terra, indistinguibili nel ritmo alterno del loro respiro, maturazione e germoglio, frutto raccolto e frutto perduto, morte e rinascita, interminate stagioni, paesaggi intessuti nel perpetuo ritorno, chiusi nel cerchio dell’immutabile e perciò distesi nel sonno, nell’amore e nella morte, — un ascoltatore del paesaggio e dell’anima, il saturnio spiare di una morte sottratta alla morte, aureo e ferreo ad un tempo.
Egli spiava la morte; non poteva essere diversamente. Questa consapevolezza lo aveva colto senza atterrirlo, tut-t’al più con quella straordinaria chiarezza, che comunemente accompagna l’insorgere della febbre. Ed ora, disteso nel buio, tendendo l’orecchio nel buio, egli capiva la propria vita, e capiva che veramente essa era stata uno spiare continuo del maturar della morte, maturata la coscienza, maturato il germoglio della morte, che fin dall’inizio è posto in ogni vita e ne costituisce l’essenza, duplice, triplice maturazione, l’una scaturendo dall’altra e sbocciando sull’altra, ciascuna immagine della precedente e appunto perciò suo compimento, — non era questa la forza di tutte le immagini e soprattutto di quelle che possono determinare la vita? Non era così anche per l’immagine dell’antro della notte dei mondi, che, meraviglioso e angosciante nella sua atemporalità, carico di stelle, promessa di eternità, inarca la morte sopra la totalità dell’essere? Perché quella che un tempo, nella fanciullezza, era stata un’innocente e insieme puerile idea della morte, l’idea della tomba in cui viene calato il corpo, adesso era sbocciata e s’era trasformata nella grande immagine della caverna, e la costruzione del sepolcro sulla riva del golfo di Napoli, presso la grotta di Posillipo, era pertanto qualcosa di più che una semplice ripetizione e figurazione dell’antica immagine infantile; no, questa costruzione aveva espresso simbolicamente l’immane speco della morte, un simbolo forse sempre puerile in conseguenza di tale riduzione terrestre, e tuttavia simbolo dello spazio immenso della morte, che abbraccia ogni cosa e nel quale egli, che da sempre aveva conosciuto la mèta e ciò nonostante sempre l’aveva cercata, un viandante smarrito nello speco della morte, per un’intera vita aveva sognato ad occhi aperti. Per l’infinita potenza di questa mèta, egli, per tanto tempo, in verità per troppo tempo, si era affannato nella ricerca della propria vocazione, per questa mèta, sempre conosciuta e mai veramente riconosciuta, egli, insoddisfatto di tutte le strade, le aveva tutte prematuramente abbandonate, e non aveva potuto fermarsi, né tanto meno acquietarsi, né nella professione del medico, né in quella dell’astrologo, né in quella del dotto e del maestro di filosofia: l’imperiosa, inappagata, severa immagine della morte era sempre stata dinanzi ai suoi occhi, e nessuna professione poteva adeguarvisi, poiché non ve n’era nessuna che non dipendesse esclusivamente dalla conoscenza della vita, nessuna, tranne quella a cui si era sentito infine portato e che si chiama poesia, la più singolare tra tutte le attività umane, l’unica che serva la conoscenza della morte. Solo colui che vive nell’interregno del congedo — oh, esso era già alle sue spalle, e non c’era ritorno, -— solo colui che resta nel crepuscolo alla riva del fiume, lontano dalla sorgente, lontano dalla foce, ha il presagio della morte, lui solo è legato alla morte, e, servendo la morte, è simile al sacerdote che in forza del suo ufficio, in forza del sacerdozio che è al di sopra della sua personale professione, funge da mediatore tra l’alto e il basso ed è obbligato a servire la morte e appunto perciò è esiliato nell’interregno del congedo; sì, sacerdotale gli era sembrato, sempre, il compito del cantore, forse per quella singolare consacrazione alla morte che dimora nel rapito fervore d’ogni opera d’arte, e se finora egli aveva avuto solo raramente il coraggio di riconoscerlo, così come nelle sue prime composizioni poetiche non aveva avuto il coraggio di accostarsi alla morte, ma si era sforzato piuttosto di difendersi dalla sua minaccia, anzi dalla sua presenza, con il dolce impeto d’un profondo amore per l’essere, sempre più tuttavia egli era stato costretto a rinunciare a questa resistenza, poiché la violenza della morte si era assai presto mostrata più forte e s’era conquistata passo per passo un diritto di cittadinanza, che poi nell’Eneide, seguendo il volere degli dèi, si era mutato in quello di una assoluta sovranità, la sovranità del destino, risonante del frastuono dell'armi, insanguinata, ammonitrice, immutabile, la sovranità della morte che vince ogni cosa, e che, proprio perciò, vince anche se stessa ed abolisce se stessa. Nella morte infatti è immersa ogni contemporaneità, ogni contemporaneità della vita e della poesia è custodita per sempre in questo suo atto di totale abolizione, la morte è colma del giorno e della notte che si compenetrano a vicenda nella nube bicolore del crepuscolo; oh, la morte è colma di tutta la molteplicità che è nata dall’unità per riunificarsi nuovamente nella morte, è colma della sapienza originaria del gregge e della conoscenza dell’isolamento della fine, che essa riassume in un unico istante dell’essere, in quell’istante che è già quello del non-essere, perché la morte è in un gioco incessante ed alterno col corso dell’essere, e la corrente dei tempi, che sfocia dentro di lei e che in lei viene accolta per rivolgersi ancora una volta verso la sua sorgente, perennemente si trasforma nell’unità della memoria, nella memoria di tutti i mondi, nella memoria del dio: solo colui che accetta la morte può chiudere l’anello in questa terra, solo colui che cerca l’occhio della morte, potrà guardare nel nulla senza che il proprio occhio si spenga, solo colui che porge ascolto alla morte non ha bisogno di fuggire, ma può restare, perché il suo ricordo si muta nel profondo della contemporaneità, e colui che si immerge nel ricordo, può ascoltare il suono di quell’istante, in cui l’elemento terrestre deve aprirsi all’infinito e all’ignoto, dischiuso alla rinascita e alla resurrezione di un ricordo senza fine, — paesaggio dell’infanzia, paesaggio della vita, paesaggio della morte, sono una sola cosa nella loro immutabile contemporaneità, già presagendo il paesaggio degli dèi, il paesaggio del primo principio e della prima fine, immutabilmente uniti dal cerchio dell’arcobaleno, che dispiega i suoi sette colori, soffuso di pioggia — oh, le regioni dei padri. Molto accade per amore del ricordo e pure alla fine si svela come un porgere ascolto alla morte, e molto di ciò che pretende valer per la morte, è soltanto un ricordo, un angoscioso ricordo del desiderio che viene ansiosamente custodito, perché non vada perduto per sempre. Era così, e non altrimenti, anche per il sepolcro presso la grotta di Posillipo, su cui spiravano i venti del mare e si stendeva l’ombra della primavera e il verde delle fronde, era così per questa dimora della morte, costruita quasi per gioco, piena di ricordi infantili, che egli, senza rendersene conto, aveva stabilmente inseriti nella serenità di questo giardino, cosicché tutto quello che era stato visto dai suoi occhi di bimbo nella paterna fattoria di Andes, si ritrovava qui, su scala ridotta, ma con pochi mutamenti; così la via d’accesso al portone della fattoria, che ora era divenuta la via principale del giardino, con la medesima doppia curva, fiancheggiata a sinistra dal medesimo boschetto di lauri, che conduceva a destra alla collina dei suoi giochi infantili, anche se questa collina del sepolcro era incoronata soltanto da alcuni cipressi al posto dell’antico uliveto di Andes, mentre dietro l’edificio, qui come laggiù avvolti dal cinguettìo degli uccelli, si alzavano gli olmi a protezione, allora come oggi, della solitudine e della pace, e come al tempo della sua fanciullezza avrebbe potuto sfiorare con la mano le siepi del recinto; così limpidamente tutto ritornava nel sogno, così tutto era stato in precedenza sognato, valido per tutti i tempi, sogno dedicato alla morte e alla via che conduce alla morte, alla mèta d’ogni sua sognante ricerca fin dai giorni dell’infanzia, alla mèta e alla sorgente del suo ricordo, chiaro, incancellabile, avido di conoscenza, quantunque l’immagine della tomba rappresentasse soltanto una parte infinitamente piccola della memoria nella corrente del passato, un’isola reale, tangibile, emersa quasi per caso nella sua piccola tangibilità, meschina e addirittura degna d’oblìo a paragone del fiume ampio e fragoroso che si riversava nel suo incessante ascoltare; senza posa rifluiva in lui l’incancellabile, ampio nella memoria, ampio nelle sue onde, senza posa, morbido e grande scorreva verso di lui, e si avvicendavano l’onde di ciò che una volta egli aveva veduto, raggianti in una musica d’arpa, in un’armonia perenne e inafferrabile — oh, soave prigionia della fanciullezza, protetta e pronta alla liberazione, — ed era come se tutti i ruscelli e gli stagni del passato si riversassero in questo fiume della memoria, mormorando tra gli odorosi salici e tra le verdi sponde tremolanti di canneti, leggiadre immagini senza fine, esse stesse un mazzo di fiori colti dalla mano di un fanciullo, un mazzo di gigli, violacciocche, papaveri, narcisi e calte palustri, l’immagine dell’infanzia in un paesaggio dove si passa da sempre, vivo da sempre nella poesia, l’immagine delle regioni dei padri che egli aveva dovuto cercare ovunque il destino lo avesse sospinto, immagine dell’unico indelebile paesaggio della sua vita, immagine non descritta e indescrivibile nonostante la sua nitidezza, la sua precisione, la sua trasparenza solare, immagine che lo accompagnava con tanta vivida e ferma chiarezza e ciò nonostante così indescrivibile, che per quante volte l’avesse rappresentata si era perduta sempre e soltanto nell’inespresso, là dove il linguaggio mostra la sua insufficienza e superando i propri limiti terreni si spinge nell’inesprimibile, abbandona l’espressione verbale e — cantando ancor soltanto se stesso nel tessuto dei versi — spalanca il terribile, improvviso abisso tra le parole, per indicare in questa muta profondità — presagendo la morte, abbracciando la vita, fattosi esso stesso silenzio — la totalità dell’universo, la fluente contemporaneità in cui riposa l’eterno: oh, mèta d’ogni poesia, attimo in cui il linguaggio apre gli occhi e si innalza al di là di ogni comunicazione e di ogni descrizione, oh, istanti del linguaggio in cui esso si immerge nella contemporaneità, così che non è più possibile dire se il ricordo scaturisca dal linguaggio o il linguaggio dal ricordo! oh, era accaduto in questi istanti che il paesaggio dell’infanzia avesse preso a fiorire, lasciando se medesimo alle proprie spalle, crescendo al di là di se medesimo e di ogni ricordo, al di là di ogni principio e di ogni fine, tramutandosi negli agresti, bucolici ordinamenti di una età dell’oro, nel paesaggio latino delle origini, nella realtà degli dèi che servono e imperano, certo non ancora primo principio, ordine primo, originaria realtà, bensì loro simbolo, certo non ancora la voce che deve risuonare dall’ignoto più sconosciuto, dalla più inesprimibile ineffabilità, da ciò che immutabile sovrasta gli stessi dèi, bensì suo simbolo, bensì eco e quasi certezza del suo essere, — simbolo che è realtà, realtà che si fa simbolo dinanzi alla morte. Erano gli istanti di una immortalità fattasi suono, i vivi istanti della vera vita, redenta dalla penombra, gli istanti in cui la vera figura della morte si manifestava in tutta la sua purezza: rarissimi istanti della grazia, rarissimi istanti della perfetta libertà, sconosciuti ai più, agognati da molti, raggiunti da pochissimi, — ma se ad uno di questi pochi è concesso di cogliere un simile istante, se gli è accordato di ghermire la fuggente fuggevolezza della figura della morte, se gli riesce, nella sua continua ricerca, di dare una figura alla morte, costui ha trovato con la vera figura della morte anche la propria vera figura, ha raffigurato la sua morte e con ciò ha dato figura a se stesso, ed è protetto contro ogni ricaduta nell'humus dell’informe. Coi suoi sette colori, in una mitezza divina, l’arcobaleno dell’infanzia gli si inarca sull’essere, riscoperto ogni giorno, ricreato ogni giorno, creazione comune dell’uomo e del dio, nata dalla forza della parola che conosce la morte: non era stata questa la speranza, per amor della quale egli aveva dovuto sopportare il tormento d’una vita senza requie, spoglia di ogni pace e di ogni felicità? Egli riandava col pensiero a questa vita di rinuncia e di abnegazione che continuava tuttora, una vita che era stata senza resistenze verso la morte, ma sì invece verso la comunità e l’amore, egli rimemorava questa vita d’addio che giaceva ormai alle sue spalle nella penombra del fiume e della poesia, ed egli oggi sapeva, più chiaramente che mai, di essersi addossato tutto questo per amore di quella speranza; forse egli meritava scherno e disprezzo, perché questo ambizioso programma non aveva finora appagato nessuna delle sue speranze, perché il compito che egli si era assunto si era rivelato al di là delle sue deboli forze, e forse perché gli strumenti della poesia erano del tutto inadeguati al suo scopo, solo che ora però, egli sapeva che non era questa la causa, anzi, di più, che la legittimità o l’illegittimità di un compito nulla ha a che fare con la possibilità di realizzarlo su questa terra, che nulla importava se le sue forze fossero o non fossero sufficienti, che un qualunque altro uomo fosse nato con forze migliori o che si potesse un giorno scoprire un terreno migliore di quello della poesia, tutto dò non aveva importanza, perché non era dipeso dalla sua scelta; certamente, giorno per giorno, innumerevoli volte ogni giorno, egli aveva deciso e operato secondo una libera scelta, o almeno l’aveva creduto, e tuttavia la grande linea della sua vita non era stata una libera scelta secondo un libero atto della volontà, era stata un dovere, inserito nella salvezza e nella perdizione dell’essere, un dovere imposto dal destino e tuttavia libero da imposizioni, che gli imponeva di cercare la sua propria figura in quella della morte, per conquistare in tal modo la libertà dell’anima; perché la libertà è un dovere dell’anima, la cui salvezza e la cui perdizione sono sempre in gioco, ed egli si era sottomesso a quell’imposizione, aveva obbedito al compito assegnatogli dal destino.
Si sollevò un poco sui cuscini per alleviare il dolore che sentiva nel petto, ma con molta cautela, affinché i distesi paesaggi del suo io che sembravano assicurargli chiarezza, non si sconvolgessero e nella scossa non violassero l’uno i confini dell’altro, come accade per l’uomo in posizione eretta; allungò poi la mano verso il baule dei manoscritti, e quasi con tenerezza fece scorrere le dita sul coperchio di ruvido cuoio: calda ed eccitante era la sensazione del lavoro, la soggiogante sensazione della scoperta, la grande sensazione dell’opera in cammino, che si era ridestata in lui, e se nel medesimo tempo non fosse germogliata anche la grande angoscia del cammino, l’orribile angoscia di chi ha smarrito la via e erra nella folta selva notturna, questa strana, profondissima angoscia, che accompagna ogni creazione, certo quell’ardente e rapito fervore avrebbe soffocato nel suo petto la voce della sofferenza che lo ammoniva a prepararsi alla morte, e forse avrebbe anche lenito l’affanno del suo respiro, gli avrebbe fatto dimenticare l’ardore e il brivido della febbre, e nulla più avrebbe potuto impedirgli di rimettersi al lavoro, di ricominciare prontamente l’opera, memore di quel compito che egli doveva eseguire fino all’ultimo respiro e che soltanto con l’ultimo respiro avrebbe potuto veramente assolvere. No, nulla avrebbe potuto, nulla avrebbe dovuto trattenerlo dal lavoro, e tuttavia, tutto lo tratteneva, tanto che già da mesi il compimento dell’Eneide languiva del tutto e null’altro era rimasto che l’evasione e ancora l’evasione. E non la malattia, non i dolori, a cui da tempo si era abituato e che ormai aveva imparato a domare ne eran la causa, bensì l’inspiegabile inquietudine a cui non poteva sfuggire, questa sensazione angosciosa di essere irreparabilmente smarrito, questo conscio presagio della minaccia di uno smarrimento sempre vicino e troppo potente, la cui natura era irriconoscibile e della quale era impossibile dire donde fosse venuta, né se stesse in agguato dentro o fuori di lui. Respirando cautamente, giaceva immobile tendendo l’orecchio nell’oscurità. Le candele si spensero l’una dopo l’altra, restò soltanto la piccola luce paziente della lampada ad olio accanto al giaciglio che, sospesa alla leggera, tintinnante catenella d’argento, dondolava talvolta nel soffio del vento riflettendosi sulla parete in una pendula ombra, lieve come la tela di un ragno o la morbida ala d’una farfalla, e mentre fuori a poco a poco si spegneva l’agitazione selvaggia nelle strade, e il confuso, indistinto frastuono si dissolveva nei più diversi nitriti, grugniti e gracidamenti, mentre il ronzio della festa si allontanava in un bisbiglio più chiaro e profondo, disperso nel variopinto e sempre nuovo clamore, l’orecchio potè percepire il passo cadenzato, sordo e cupo delle truppe che si allontanavano, segno che una parte della guardia entrava negli alloggiamenti; poi si fece silenzio; un silenzio, certo, che cominciò subito ad animarsi in una singolare, lievissima vibrazione, un silenzio, anzi, che era esso stesso una lieve vibrazione, quando ad un tratto da lontano, da ogni parte — veniva dai campi intorno alla città, dai campi di Andes? — si udì lo stridio dei grilli, la nota corale, senza fine, di miriadi di creature, in un silenzio che si estendeva al di là dell’infinito. Quietamente, a poco a poco, impallidiva ora anche nelle strade il rossastro riflesso delle luci della festa, il soffitto della stanza si copri d’ombra con una sola macchia di luce sopra la lampada che ora assomigliava a un pendulo pennello che dipingesse oscillando su e giù blandamente, e le stelle dinanzi alla finestra spiccavano sullo sfondo nero del cielo. Era questa l’inquietudine, di cui egli cercava la fonte? Perché era inquietante, se la calma succeduta a quelle disperate urla triviali poteva piuttosto suggerire l’idea di un generale senso di appagamento? No, il male era rimasto, ed ora egli lo riconosceva, era costretto a riconoscerlo; era il male dell’anima umana incarcerata, per la quale ogni liberazione è sempre e soltanto il ritorno in un nuovo carcere.
Egli guardava fissamente la finestra; la notte girava nel suo immenso spazio, la sua cupola ruotava sulle spalle di Atlante, disseminata di stelle sfavillanti, immenso antro notturno, cui nulla sfugge; egli ascoltava i rumori della notte, che, con inasprita contemporaneità, venivano portati a lui, costretto nella sua febbre a bruciare e a rabbrividire sul suo giaciglio, perché egli le percepisse, le immagini, gli odori, i rumori del presente insieme con quelli d’ogni passato vissuto e ancora da vivere, in un duplice ricordo dell’ieri e del domani, così turgido di irrecusabile, inspiegabile inquietudine, così inafferrabile e sfuggente, così celato ed arcano nonostante tutta la sua nudità, che egli, spronato e paralizzato ad un tempo, precipitava indietro nel caos, nella fitta boscaglia di tutte le voci, — l’informe, al quale aveva creduto di sottrarsi, lo aveva assalito di nuovo, non quale indistinto principio del gregge, bensì, in modo assai immediato e addirittura palpabile, quale caos della solitudine e di una dissoluzione che nessuna ricerca e nessuna percezione poteva bastare a ricomporre in una nuova unità; il caos demoniaco di tutte le singole voci, di tutte le singole conoscenze, di tutte le singole cose, non importa se appartenessero al presente, al passato o al futuro, questo caos ora lo incalzava, di questo caos egli era preda, da quando l’assordante, indistinto frastuono della strada aveva cominciato a trasformarsi in una fitta selva di voci. Così era. Oh, ciascuno è circondato da una foresta di voci, ciascuno vi cammina smarrito per tutta la vita, cammina e cammina e tuttavia è immobile nell’impenetrabilità della selva delle voci, impigliato tra i germogli della notte e le radici della selva, che allignano al di là di ogni tempo e al di là di ogni spazio, oh, ciascuno è minacciato dalle indomabili voci e dalle loro braccia in agguato, dalle fronde delle voci, dai rami delle voci, che avvinghiandosi lo avvincono, che crescendo si separano e dritti si slanciano in alto per ritorcersi ancora l’uno nell’altro, demoniaci nella loro indipendenza e nella loro solitudine, voci dei minuti, degli anni, degli evi infiniti, che si avviluppano nell’intreccio dei mondi, nell’intreccio dei tempi, incomprensibili ed impenetrabili della loro rugghiante mutezza, madide di dolorosi gemiti e secche della gioia selvaggia d’un mondo intero; oh, nessuno sfugge al frastuono originario, nessuno si salva, poiché ciascun uomo, lo sappia o no, non è che una delle voci, appartiene alle voci e alla loro minaccia impenetrabile, indissolubile e indivisibile, — come si poteva nutrire ancora una speranza! non può salvarsi colui che è smarrito e imprigionato nella fitta boscaglia, non può aprirsi né un varco né una radura, e se mai vuole spingere la sua speranza oltre la selva, verso l’ultimo infinito, là dove è dato intuire l’unità, l’ordine, l’universale conoscenza della totalità delle voci, il grande armonioso accordo che le racchiude e le dissolve, l’accordo, risonante dagli ultimi spazi, dell’unità dei mondi, dell’ordine dei mondi, dell’universale conoscenza dei mondi, l’accordo che nella sua eco compie definitivamente la missione dei mondi, oh, tale speranza sarebbe temeraria in un uomo mortale, susciterebbe l’orrore degli dèi, e si infrangerebbe contro le pareti della inascoltabilità, spegnendosi nella fitta selva delle voci, nella fitta selva della conoscenza, nella fitta selva dei tempi, spegnendosi in un morente sospiro; perché irraggiungibile è la sorgente delle voci nel principio del tempo, giace sotto tutte le radici, sotto tutte le voci, sotto ogni mutezza, inaccessibile è la fonte delle radici dei boschi, in cui viene custodito il piano stellare dell’unità degli ordinamenti e del linguaggio, invisibile il simbolo di tutti i simboli, perché infinita e più che infinita è la molteplicità delle direzioni nello spazio più che infinito, infinito è il numero delle individualità, infinito è il numero delle vie e dei loro avvolgimenti, e persino la pluralità degli spazi del linguaggio e del ricordo, persino la ricchezza delle loro direzioni e l’infinità dei loro abissi sono soltanto un debolissimo, insufficiente riflesso, intessuto nelle meschine immagini di questa terra, di ciò che non può essere compreso da alcun pensiero, il riflesso di ciò che nel suo respiro custodisce tutti gli spazi delle sfere ed è custodito anche nel più piccolo punto delle sfere, inspirando ed espirando se stesso, assorbendo ed irradiando la propria luce, riflesso di una conoscenza e di una salvezza, che per la sua simbolicità è quasi inesprimibile, immemorabile, indicibile e coi suoi raggi supera la corsa dei tempi e tramuta ogni istante in eternità: punto di incrocio di tutte le vie, non raggiungibile per nessuna via, l’irremovibile, eterna, l’irremovibile, remota mèta d’ogni cammino!, anche un solo passo che si muovesse in una qualunque direzione della selva delle vie, richiederebbe tutta una vita e più che tutta una vita, sarebbe necessaria una vita infinita per fermare un solo misero istante del ricordo, una vita infinita per gettare lo sguardo di un unico istante nelle profondità dell’abisso del linguaggio! Tendendo l’orecchio dentro questo abisso, egli aveva sperato di poter spiare la morte, di poter cogliere un’idea, anche se solo il barlume di un’idea, di quella conoscenza-limite che già sarebbe stata conoscenza al fuori della conoscenza terrena, ma già la sola speranza era temerarietà di fronte all’inafferrabile che saliva come un’eco dalle pareti dell’abisso, un guizzo di luce, che già non era più luce e nemmeno il ricordo di una luce, nemmeno l’eco di un ricordo, un soffio labilissimo e così invisibile, che neppure la musica sarebbe bastata a fermare una simile invisibilità, e tanto meno ad esprimerla come presagio dell'infinito; no, non c’è cosa che possa estirpare la selva, non c’è mezzo che possa assolvere il compito eterno di scoprire l’ordine e di proclamarlo spingendosi verso la conoscenza che è al di là della conoscenza, no, ciò è concesso soltanto a potenze ed a mezzi ultraterreni, a una forza che lasci dietro di sé ogni espressione terrena, a un linguaggio che sia al di fuori della selva delle voci e al di là di ogni parola terrena, a un linguaggio che sia più della musica e consenta all’occhio di abbracciare in un solo sguardo l’unità della conoscenza dell’essere; in verità era necessario un linguaggio ultraterreno, nuovo e non ancora trovato, per realizzare quest’opera, e temerario era tentare di avvicinarsi con poveri versi a questo linguaggio, infruttuosa fatica ed empia temerarietà! ahimè, e gli era stato concesso di vedere il compito eterno, il compito della salvezza dell’anima, gli era stato concesso di porvi la vanga, e non si era accorto che vi aveva profuso tutta la vita, che aveva sperperato gli anni e consumato il tempo, non perché avesse fallito e si fosse rivelato incapace di scoprire anche una sola radice, ma perché la sola decisione di affondarvi la vanga avrebbe esaurito una vita infinita, anzi di più, perché la morte supera ogni anima rimanendo a sua volta irraggiungibile, perché la morte è troppo potente, e non vale ricorrere alla parola o alla memoria, troppo potente è la selva senza radure che senza pietà chiude nel suo carcere colui che ha smarrito la via, voce derelitta nella sterpaglia delle solitudini. Come si poteva nutrire ancora una speranza?! non si rivelava forse l’accadimento umano, comunque ed ovunque avvenisse, essere irrecusabilmente l’efflusso dell’angoscia di ogni creatura, l’ossessione di un accadimento dettato dall’angoscia, che è come un oscuro carcere che non concede evasioni, poiché è l’angoscia della creatura smarrita nella selva? Mai come ora egli si era reso conto di questa angoscia, aveva compreso il desiderio inestinguibile dell’anima smarrita di vincere il tempo e di abolire la morte, mai come ora aveva capito l’incancellabile speranza delle masse delle creature, aveva capito ciò che quelli laggiù — anch’essi una selva di voci — bramavano con le loro urla disperate e selvagge, li capiva quando, inflessibili e sordi ad ogni consiglio, si attaccavano al loro ardore plebeo urlando dentro di sé e fuori di sé: che ci poteva, che ci doveva essere nella selva una voce eccezionale, fortissima, straordinaria, la voce di un capo, che essi dovessero soltanto seguire perché nel riflesso di quella voce, nel riflesso di quel giubilo, di quell’ebrezza, di quella notte, di quell’apoteosi imperiale essi potessero aprirsi in un selvaggio, taurino ruggente ultimo assalto ancora una terrestre via l’uscita fuori dal viluppo della loro esistenza; e riconoscendo questo egli vedeva, capiva, riconosceva meglio che mai che la sua aspirazione si distingueva sì nella forma e nella presunzione, ma non già nel significato e nel contenuto, da questa rozza, ma più onesta volontà di violenza del gregge forsennato; riconosceva che quella schietta, nuda angoscia di creatura che atterrava anche lui con altrettanta forza, egli l’aveva soltanto trasformata e deformata in una ricerca dell’unità che dischiude ogni conoscenza, l’aveva camuffata sotto le spoglie di una indagine vana e perciò doppiamente ipocrita; riconosceva che la speranza nella voce di un capo eccezionale che preparasse la via, questa speranza plebea e tra le più terrene che era anche la sua, egli l’aveva semplicemente respinta al margine della vita terrena, illudendosi che essa di laggiù un giorno gli risuonasse per farsi ultraterrena, fantasma della sua presunzione, prigioniero della terra, perduto nella vanità d’ogni cosa terrena; oh, egli riconosceva meglio che mai la vanità dei tentativi di evasione della massa bestiale, l’inanità della sua paura d’animale inseguito, i cui assalti, ruggenti di speranza e ammutoliti di delusione, dovevano sfociare sempre nella rigida assenza del nulla, smarriti nel tempo e incapaci di evadere dal tempo; ed egli capiva che a lui era stato assegnato lo stesso destino, altrettanto necessario, altrettanto inevitabile, e cioè la caduta nella fissità di un nulla che non abolisce la morte, ma è esso stesso morte. Oh, la sua vita era smarrita e inutilmente profusa, perché la via su cui egli si era incamminato, era stata fin da principio una via senza uscita, oppressa dalla consapevolezza di non essere la giusta via, era stata fin da principio un errare, un brancolare, un cieco annaspare dentro la selva, una vita della falsa rinuncia e del falso congedo, oppressa dalla paura dell’inevitabile delusione, che egli, proprio per questo e non altrimenti che per la speranza, aveva respinto al margine della vita e della terra. Era stato raggiunto, ora, questo margine, se non era rimasto nulla, tranne la delusione? se non era rimasto nulla, tranne il freddo terrore che lo paralizzava e gli mozzava il respiro, inconfessato forse, il terrore della morte, ma sicuro, e forse ancora più forte il terrore della delusione? non era rimasto nulla tranne la rigidità che, come una misteriosa punizione decisa dalle stelle, l’opprimeva per punire un peccato che aveva la sua origine in un’irrevocabile predestinazione, un peccato che egli non aveva commesso e che, prima ancora che potesse venire commesso, era temerarietà, un peccato eternamente non commesso e sempre alle sue spalle, che eternamente contrastava il compito eterno della conoscenza e gli era eternamente imposto, perché egli non vedesse il suo compito ed il suo compimento, punizione invisibile in una invisibile fissità, il peccato e la punizione del non-risveglio, che irrigidiva il tempo, il linguaggio e la memoria; e il suo ascoltare nella penombra era irrigidito nel nulla, nel solitario campo della morte; e così, abbandonato in un tale irrigidimento, qui giaceva il suo corpo, infermo ed invecchiato dalla stanchezza, disteso nel suo sopore saturnino sopra le zone del suo io, che si facevano sempre più trasparenti, sempre più impercettibili e, abbandonate perfino dai dèmoni, si inoltravano sempre più nella solitudine, immote, quasi fossero cieche finestre senza prospetto: non c’era rimasto nulla, non c’era più nulla da ricordare, dal momento che tutto ciò che in passato era stato per lui arricchimento della vita, atemporalità, dovere del ricordo, gli appariva precocemente invecchiato, invecchiato ancor più rapidamente di lui, sfuggito dalle sue mani e inabissato in una sfera di produzioni imperfette, di esperienze imperfette; e invecchiate, appassite, disseccate erano le immagini del paesaggio della sua vita, un tempo così straordinariamente chiare, piene di luce, quasi aspre e dure nel loro splendore; disseccati e caduti come fogliame inaridito erano i versi che egli vi aveva intrecciati d’intorno, ed ora il vento aveva portato via tutte queste foglie morte, non più ricordate, ancor solo conosciute, portate via dal vento delle stagioni, esauste dalle stagioni, un obliato stormire; tante, oh, tante cose erano accadute, in un passato antico, in un passato recente, erano accadute in migliaia di specie diverse, in milioni di fatti particolari, ma non erano mai giunte fino a lui, non avevano mai potuto comporsi nella loro totalità, sicché l'anello della memoria non si era chiuso, né mai sarebbero giunte fino a lui, perché nel momento stesso in cui le aveva vissute egli le aveva respinte; e restavano pertanto incompiute, così come l’adempimento del suo compito infinito si era insabbiato nell’incompiuto arrestandosi già al primo passo, così come questo passo, benché ora durasse già da un’intera vita, in realtà non era stato ancora compiuto, anzi, era stato fin dall’inizio incompiuto, fermo in una orribile, invincibile paralisi, per la quale non c’era né avanti né indietro, sicché al primo passo incompiuto non poteva seguire un secondo, perché la distanza fra i singoli istanti della vita si era trasformata in un immenso, incolmabile spazio nel quale non vi poteva esser cammino, né rapido o lento, perché non era possibile continuare più nulla, né la cosa compiuta, né quella incompiuta, né la cosa pensata, né quella non ancora pensata, né la cosa espressa, né quella inespressa, né la poesia, né ciò che non era ancora poesia, — oh dèi! anche l’Eneide doveva restare incompiuta, imperfettibile, priva di conclusione come l’intera sua vita! Doveva essere proprio questa la decisione delle stelle? doveva essere proprio questo il destino del suo poema?! incompiuto il destino dell’Eneide, incompiuto il suo destino! Era possibile questo, oh, era forse possibile?! La pesante porta del terrore si era spalancata, e dietro di lei si aprì l’immane cupola dell’orrore che abbracciava ogni cosa. Qualcosa di pauroso, che lo afferrava di dentro e di fuori, qualcosa di orrido e di ignoto lo drizzò con uno strappo improvviso, maligno, travolgente, fulmineo, doloroso più di ogni altro dolore, lo sollevò — intorpidito com’era — con tutta la forza esplosiva e devastatrice, soffocante e disperata, del primo tuono di un uragano, così che la folgore penetrò dentro di lui, come per strangolarlo, portando la morte, minacciando la morte, e tuttavia riavvicinando l’uno all’altro gli attimi del tempo e arricchendo fulmineamente lo spazio vuoto tra l’uno e l’altro di quell’incomparabile elemento che si chiama vita; e quasi gli pareva che in quel fulmine rifolgorasse ancora la speranza, che mentre egli, stretto nella ferrea morsa, veniva travolto da quello strappo improvviso come uno sguardo e un respiro, tutto ciò accadesse affinché il mancato, il perduto e l’incompiuto potessero venir ancora ricuperati, fosse anche soltanto nell’attimo di quel risorto respiro; speranza o non-speranza: non poteva saperlo, stordito dal dolore, stordito dallo spavento, stordito dal torpore, non poteva saperlo, ma sapeva che ogni attimo di quella nuova vita era necessario e importante, sapeva che solo per questa nuova fiamma della vita — durasse poco o assai — egli era stato costretto a strapparsi dal giaciglio dell’immobilità, sapeva che doveva sottrarsi all’irrespirabilità di uno spazio rinchiuso tra rigide pareti, che doveva ancora inviare il suo sguardo al di fuori, distoglierlo da se medesimo, dalle zone dell’io, dalla deserta regione della morte, affinché ancora una volta, ancora un’unica volta, forse l’ultima volta, abbracciasse lo spazio universale della vita, oh, egli doveva ancora una volta, ancora un’unica volta vedere le stelle, e dritto, immobile accanto al letto, sostenuto dal pugno che vi si aggrappava e che l’afferrava e al tempo stesso attraversava tutto il suo corpo, egli, rigido, angoloso, come una marionetta guidata da fili invisibili, malsicuro, come si reggesse sui trampoli, prese a muoversi verso il balcone, si appoggiò alla balaustra, esausto, piegato dalla debolezza, e tuttavia ancora in piedi, e tirando i gomiti dietro le spalle, in un respiro ritmico e profondo, appagò la sua fame d’aria, perché l’essere tornasse ad aprirsi e partecipasse al fluttuante respiro delle sfere nuovamente desiderate.
Necessità del respiro, la necessità di respiro d’ogni creatura, lo aveva spinto fin qui, ma in pari tempo era stata una necessità non corporea, una nostalgia del visibile, della visibilità del mondo, del respiro nella certezza dell’universo visibile. Stordito dall’affanno egli stava alla finestra, sostenuto dalla mano che lo stringeva fortissima, e non sapeva quanto tempo egli fosse già stato lì in piedi, se ore o alcuni istanti soltanto; la coscienza del tempo riaffluiva in lui soltanto incompiuta e frammentaria, soltanto a frammenti, a grandi tratti nascosto dalla paura e dall’angoscia di soffocare, il mondo tornava a ricomporsi e la coscienza ridiventava coscienza, e soltanto a poco a poco si rese conto di ciò che era accaduto e comprese che il problema non riguardava soltanto l’Eneide, ma qualcosa che egli doveva ancora scoprire.
Il mondo era adesso lì innanzi a lui, immerso nel silenzio e dopo tutto il frastuono trascorso era un silenzio quasi incredibile, probabilmente era già notte inoltrata; le stelle ardevano grandi nel loro grande cammino, forti e rassicuranti irraggiavano quiete, perché infondeva quiete il riconoscerle, anche se nonostante la chiarezza del cielo restavano come velate da un’inquietante foschia, quasi che tra il loro spazio e quello del mondo sottostante si fosse interposta una volta di torbido cristallo, dura e impenetrabile e appena aperta allo sguardo, e quasi gli pareva che la demoniaca dissociazione a cui egli era stato sottoposto in precedenza insieme col suo corpo quando giacendo ascoltava e ascoltando giaceva, si fosse proiettata nel mondo esterno, che anzi questa frattura fosse divenuta qui così netta e così smisurata, come egli mai aveva sperimentato per se medesimo. Lo spazio terrestre era in tal modo chiuso e inarcato contro lo spazio stellare, che nulla si avvertiva dell’agognato alito dell’infinito, nemmeno era saziata la sua fame di aria, né poteva essere lenita quella sua pena, poiché il vapore, da cui prima la città era stata avvolta, ora, nonostante la brezza della sera, non si era dissolto, ma, a mala pena disperso, si era invece mutato in una specie di febbrile trasparenza, e quasi sotto la pressione dell’isolamento del mondo, era stagnato in una specie di opaca gelatina, che immota e immobile era sospesa nell’aria, più calda dell’aria, e nella sua irrespirabilità quasi altrettanto soffocante che l’afa dentro la stanza. Spietatamente l’irrespirabile era separato dal respirabile, spietatamente impenetrabile era la volta di oscuro cristallo tesa sopra la terra, una parete ermetica per l’atrio delle sfere, per l’atrio del respiro, per l’atrio dei mondi in cui egli si trovava, tenuto in piedi e sostenuto dalla ferrea mano, e mentre prima, aderendo alla superfìcie terrestre e disteso sui campi di Saturno, egli stesso era stato il confine tra l’alto e il basso, partecipe di entrambe le zone e intessuto in entrambe, ora egli le attraversava come una anima singola destinata a crescere, la quale nella sua singolarità e nella sua solitudine sa che se vuole scandagliare le profondità dell’alto e del basso deve ascoltare se stessa: una partecipazione immediata alla grandezza delle sfere è negata a colui che sta nuovamente nel tempo terrestre, in mezzo allo sviluppo umano e terrestre; solo col proprio sguardo, solo col proprio sapere egli può penetrare attraverso l’immensa separazione delle sfere, solo con la domanda del suo sguardo egli può abbracciarle e riunirle, solo per la domanda e nella domanda della sua ricerca egli può restaurare la contemporaneità e l’unità del mondo e delle sue sfere, solo nel fluente cerchio della domanda egli attua il presente della propria anima, la sua più intima e terrestre necessità, il dovere della conoscenza che è il suo compito fin dall’origine.
In alto scorreva il tempo, in basso scorreva il tempo, l’occulto tempo della notte, rifluito nelle sue vene, rifluito nelle orbite delle stelle, attimo connesso ad attimo senza intervallo, il tempo ridonato, ridestato, che supera il destino, che abolisce la casualità; sottratta allo scorrere l’immutabile legge del tempo, il perenne presente, nel quale
egli veniva immerso:
legge e tempo,
divisi dall’origine,
che a vicenda perpetuamente si annullano e si rigenerano,
che si rispecchiano l'una nell’altro e sono in tal modo vi-
sibili,
catene infinite delle immagini
che circondano il tempo e l’immagine eterna
senza cogliere interamente né l’uno né l’altra e tuttavia
sempre più eterne,
finché nell’ultima eco del loro accordo,
in un ultimo simbolo,
l’immagine della morte si unisce con quella di tutta la vita,
la realtà-simbolo dell’anima,
la sua dimora, il suo eterno presente e perciò
la legge che in lei si attua,
la sua necessità.
E nella necessità si era tutto compiuto, necessaria era stata persino la via di una conoscenza che dissolveva il didentro e il difuori nell’immensità inconoscibile, separandoli e dividendoli fino alla completa estraneità. Eppure in questa assoluta, ineluttabile necessità, non è racchiusa anche la speranza di un ritorno all’armonia dell’essere, la speranza della non-vanità di ciò che accade e di ciò che è accaduto? nella necessità sono emerse le immagini e nella necessità esse conducono sempre più vicino alla realtà! Oh, vicinanza dell’immagine eterna, vicinanza della realtà eterna, nel cui atrio egli stava, — si spezzerà ora la cristallina volta dei segreti celesti? svelerà ora la notte il suo ultimo simbolo a lui, i cui occhi sono destinati a spegnersi, quando essa apre i suoi occhi? egli fissava le stelle, il cui corso, determinato dal destino, determinava il destino, e che doveva presto compiersi dopo migliaia di anni, ciascuna stella seguendo il destino per la propria via e insieme spingendo avanti il destino di padre in figlio nella schiatta dei tempi; e lo salutava il presente del cielo che si stendeva dal visibile all’invisibile per compiere il ciclo del ridonato sapere, lo salutava di là, al margine sud-occidentale, familiare e inquietante, il segno dello Scorpione, dal corpo minacciosamente ricurvo, immerso nella mite corrente della Via Lattea; Andromeda posava il capo sull’alata spalla di Pegaso, ciò che non può mai svanire irradiava un invisibile saluto, e dall’evo infinito e sempiterno creato dell’oltremondo, lo salutavano le dieci fiammelle del Dragone spodestato dal trono d’un tempo; egli fissava la fredda pietra delle stelle in cui ruota l’immagine della legge, separato da lui l’oscuro luminoso respiro, separata da lui la verità che non tramonta e che nella sua remota necessità egli poteva solo intuire; ed ora vedendo la sua immagine, presagendo la sua immagine nella folla di immagini che essa è, sapeva il lavoro segreto e necessario della conoscenza, che tesseva dentro di lui, sapeva l’aspettazione senza attesa del proprio intelletto, redento d’ogni impazienza, ed egli era pronto per il necessario compimento nell’incompiuto. Allora la mano che lo teneva si fece via via più leggera e diventò sicurezza. E sui tetti della città riposava freddo e verdastro il luminoso pulviscolo della luna d’oriente; la terra si avvicinava. Perché colui che ha varcato la prima porta del terrore, è circondato dall’atrio di un nuovo e più grande ignoto, stretto e preso da una nuova consapevolezza che torna a collocarlo nella sua propria vita, nella sua propria legge, sciolto dalla legge del ritorno, sciolto dal corso saturnio e dall’impazienza della sua attesa, egli è colui che di nuovo è eretto, che cresce verso l’alto, che ritrova se stesso, e la sua barca procede senza forza di remi, leggera e priva di attesa in un tempo donato, come se l’approdo fosse vicino, immediato, l’approdo alla riva di un’ultima, necessaria realtà;
perché colui che ha lasciato dietro di sé la prima porta del
terrore, è entrato nell’atrio della realtà,
ove la sua conoscenza, scoprendo se stessa e come per la
prima volta rivolta a se stessa,
comincia a comprendere che la necessità della propria anima
è la necessità nel tutto, la necessità di ogni accadimento;
perché colui al quale è data quest’esperienza,
è immerso nell’unità dell’essere,
nel puro presente, che è comune al tutto ed all’uomo,
patrimonio inalienabile della sua anima,
in forza del quale essa si libra sulla necessità,
sospesa al di sopra del minaccioso abisso del nulla,
sospesa al di sopra della cecità dell’uomo;
perché egli è immerso nel perpetuo presente della domanda,
nel perpetuo presente di un sapere insciente, divina
prescienza dell’uomo che non sa, poiché domanda e
deve domandare,
che sa poiché precede ogni domanda,
divina per l’uomo e soltanto all’uomo concessa fin dal
principio
come sua intima, umana necessità,
per amor della quale egli
deve interrogare sempre la conoscenza e
sempre venirne interrogato,
ansioso di risposta l’uomo, ansiosa di risposta la cono-
scenza,
legato alla conoscenza l’uomo, legata all’umanità la cono-
scenza,
entrambi legati l’uno all’altra, entrambi ansiosi di risposta,
sopraffatti dalla realtà divina della prescienza,
dall’immensità della sciente domanda, che
a nessuna risposta terrena, a nessuna verità di conoscenza
terrena
è mai dato raggiungere e che tuttavia
solo qui sulla terra può avere e deve avere risposta,
realizzata sulla terra
come gioco alterno della doppia configurazione del mondo,
realtà trasformata in verità, verità trasformata in realtà,
secondo il comando a cui l’anima è sottoposta,
la sua necessità;
perché l’anima tesa alla domanda
è immersa nella propria salvezza la quale,
obbligata alla conoscenza, obbligata alla domanda, obbligata
alla forma,
tesa tra la sicurezza del sapere e la capacità di conoscere,
cerca la realtà,
e in tal modo
destata dal sapere originario, destata dalla sciente domanda
che sa dell’unità e della necessità dell’essere,
chiamata perciò ad un sapere nato dalla conoscenza,
chiamata a realizzare questo sapere,
chiamata alla conoscenza della legge necessaria,
l’anima è in continuo procinto di partire,
pronta alla partenza e in cammino verso la propria reale
entità,
verso la propria creaturalità e la propria origine eterna,
l’una e l’altra spogliate d’ogni casualità nella conoscenza
della legge,
il loro punto di partenza e la loro meta riuniti nelle sfere,
innalzando l’uomo alla sua umanità;
perché l’uomo è immerso nel fondo
della conoscenza della sua anima,
nel fondo della conoscenza
del suo fare e cercare, del suo volere e pensare, del suo
sognare,
ed egli è aperto all’infinita necessità del reale,
a questo enorme, immane,
dolce e ferreo, verissimo simbolo della realtà del suo essere,
nel quale vuole ritornare e ritorna per sempre,
immerso nel presente del proprio simbolo,
affinché gli si trasformi in costante realtà;
perché è la sfida della sua chiamata,
in cui l’uomo è proteso,
la sfida dell’incarcerato,
la sfida della sua inestinguibile libertà
e della sua inestinguibile volontà di conoscenza,
così inflessibile,
che egli diventa più grande della sua insufficienza terrena
e trascende se stesso,
la titanica sfida dell’umanità;
in verità, l’uomo è immerso nel compito della conoscenza,
e nulla ne lo può distogliere,
neanche l’inevitabilità dell’errore,
la cui casualità svanisce
dinanzi al compito necessario;
poiché, per quanto l’uomo sia incarcerato nella sua insufficienza terrena e particolarmente un uomo, che penosamente aggrappato al davanzale della finestra, malato e segnato dalla morte, penosamente e affannosamente respiri, — e per quanto egli sia destinato alla delusione e sia preda di tutte le delusioni, ed ogni sforzo sia vano e senza frutto il passato e senza speranza il futuro, e per quanto la delusione lo abbia sospinto di impazienza in impazienza, di inquietudine in inquietudine, ed egli abbia fuggito la la morte, cercato la morte, cercato l’opera, fuggito l’opera, e sia stato cacciato ed abbia amato e sia stato ancora cacciato, spinto dal destino da una conoscenza all’altra, respinto dalla patria d’un tempo e da quella vita semplice ed operosa, spinto verso la molteplicità d’ogni sapere, verso la poesia, verso l’indagine dell’antica e più occulta sapienza, impaziente di conoscere e di possedere la verità e ancora risospinto verso la poesia come se questa potesse unirsi con la morte per un ultimo compimento della realtà — delusione anche questa, via sbagliata anche questa, — oh, per quanto tutto questo dovesse essere considerato la via sbagliata, anzi, fosse la via sbagliata, o meglio ancora fosse soltanto il tentativo di un primo passo e già fallito ancor prima d’esser compiuto, oh, per quanto questa intera vita appaia un naufragio e sia un naufragio, insabbiata fin dall’inizio nell’impotenza, per sempre ed eternamente condannata al naufragio perché nulla al mondo può aprirsi un varco attraverso la selva, nessun mortale scampare alla fitta boscaglia, poiché, nel suo immoto vagare, legato alla disperazione ed al caso, egli resta prigioniero di tutta la terribilità dell’errore, oh, nonostante tutto questo, nulla è accaduto senza necessità, nulla accade senza necessità, poiché la necessità dell’anima umana, la necessità del compito umano vince ogni accadimento, persino la via sbagliata, persino l’errore;
perché solo nell’errore, solo attraverso l’errore,
in cui egli è ineluttabilmente immerso
l’uomo diventa il ricercatore
che egli è,
diventa l’uomo che cerca;
perché l’uomo deve conoscere l’inanità,
egli deve accettare il terrore dell'inanità, l'angoscia di ogni
errore
e, riconoscendolo, gustarlo sino alla feccia,
egli deve riconoscere il terrore,
non per tormentare se stesso, bensì
perché soltanto conoscendo il terrore
è dato di vincerlo,
perché soltanto in questa conoscenza
è dato varcarne la cornea porta
ed attingere l'essere;
per questo l'uomo è immerso nello spazio di ogni incertezza
come se nessuna nave più lo sostenga,
anche se naviga sospeso su una barca sospesa;
per questo egli è immerso negli infiniti spazi
della sua ricerca,
negli spazi del suo io proteso alla ricerca,
destino dell'anima umana;
ma colui, alle cui spalle
si sono chiusi i pesanti battenti del terrore,
ha raggiunto l'atrio della realtà e
l'incognito flutto sul quale egli trascorre,
il non-conoscere, si fa per lui fondamento del sapere,
poiché è il fluente crescere della sua anima,
l'incompiutezza e l'imperfettibilità del suo io;
e tuttavia, schiudendosi come unità
non appena l'io scopre se stesso,
imperitura nel suo sviluppo, la fluente unità dell'universo
da lui scoperta e da lui veduta
in una contemporaneità, che in forza del suo presente
unifica tutti gli spazi in cui l'uomo è immerso
nell'unico spazio dell'origine,
e come questo
in sé nasconde l'io, per essere a sua volta contenuta dall'io,
viene abbracciata dall'anima e a sua volta abbraccia l'anima
riposando nel tempo e stabilendo i tempi,
prigioniera della legge della conoscenza e creatrice della cono-
scenza.
con essa librandosi nel suo sospeso, crescente divenire che
è la sola origine della realtà,
e il compenetrarsi dell'interiorità e dell'esteriorità è di una
grandezza così immensa,
che librarsi ed essere trattenuto, che libertà e prigione,
si fondono in una sola indistinguibile trasparenza,
oh, così imperituri e necessari,
oh, così limpidi oltre misura,
che nella conchiusa sfera dell'alto,
raggiungibile solo dallo sguardo, raggiungibile solo dal
tempo,
saputo in entrambi,
rispecchiato in entrambi, riflesso nell'aperto
viso dell'uomo che una ferrea, soave mano tiene rivolto
verso il cielo,
avvolto dal destino,
avvolto dalle stelle,
s'annunzia il dono promesso della non-vanità,
tempo redento del caso e per sempre donato,
aperto alla conoscenza il conforto sulla terra, —
e consolanti entro la fluida luce della luna si univano
— e consolanti entro la fluida luce della luna si univano le sfere, le sfere del cielo e della terra, per sempre unite l’una con l’altra, consolanti come il respiro, che dall’universo fluente di luce di luna deve ritornare nel petto, annunciando che nulla è stato invano, che ciò che è stato fatto per amor della conoscenza, non è stato fatto invano e grazie alla sua necessità non poteva essere stato invano. Speranza nell’incompiuto e nell’imperfettibile, e inoltre, timidissima, la speranza di portare a termine l’Eneide. Un’eco, in cui risuonava la speranza della promessa terrestre, e che di rimando tornava nella terrestre fiducia; preparato a ricevere è l’uomo mortale, ricinto dall’essere terrestre.
Consolazione e fiducia, la consolazione della non-vanità, anche se la volta cristallina che copriva i misteri del cielo non si era dischiusa, anche se nessun’immagine vi era apparsa e tanto meno un ultimo simbolo; l’occhio della notte era rimasto velato, e il suo occhio non si era spento; come prima le zone dell’immensità si congiungevano soltanto nel riflesso, come prima era una unità soltanto saputa, creata dallo sguardo, nella quale convergevano le immense divisioni dell’alto e del basso, come prima era soltanto l’atrio della realtà, in cui si trovava, era soltanto lo spazio della domanda terrestre, nel cui presente era immerso, negata la piena realtà dell’ultima unità, e ciò nonostante era conforto e fiducia. In un freddo pulviscolo colava la luce della luna attraverso l’afa notturna, la impregnava senza mitigarla, senza potersi comunicare con essa, cieca e fredda eco della luccicante pietra del cielo, dipinta nella tenebra soffocante. Oh, fiducia dell’uomo che sa che nulla è avvenuto invano, che nulla avviene invano, anche se conosce soltanto delusione, anche se nessuna via lo porta fuori dalla fitta selva; oh, fiducia che sa che anche dove il male germoglia, cresce il profitto della conoscenza e dell’esperienza, poiché tale accresciuta conoscenza resta nel mondo, poiché resta nel mondo la fredda e limpida eco dell’assoluta necessità, verso la quale l’opera dell’uomo può aprirsi una via ogni qualvolta egli segua la necessità determinata dalla conoscenza e giunga a una prima illuminazione della terrestrità e del sonno terrestre del gregge. Oh, fiducia colma di fiducia, non irraggiata dall’alto del cielo, bensì terrestramente sorta nell’anima umana in forza del suo dovere della conoscenza: non dovrà trovare questa fiducia, se mai è adempibile, anche il suo avveramento su questa terra? Ciò che è necessario si compie sempre nella terrestrità; il fluente cerchio della domanda potrà concludersi sempre e soltanto su questa terra; e anche se il compito della conoscenza molto spesso si innalza al di là dei limiti della terra, anche se è dovere della conoscenza di riunire le separate sfere dell'universo, non può esservi vero compito che non si diparta da questa terra, non può esservi compito che non abbia su questa terra le proprie radici e con le radici la possibilità della sua risoluzione. Il mondo terrestre si apriva ora dinanzi al suo sguardo e pareva come dileguarsi e svanire nella luce della luna; l’umano si era come nascosto in se stesso, svanito nel sonno, celato nelle case sature di sonno, inabissato al di sotto di se stesso, distaccato dalle stelle che si erano come inabissate nell’alto del cielo; e il silenzio del mondo era una duplice solitudine tra la zona superiore e la zona inferiore; nessuna voce interrompeva l’immobile quiete, s’udiva soltanto il crepitare dei fuochi di guardia, or più intenso or più tenue, e i passi annoiati e pesanti delle sentinelle in pattuglia all’esterno del muro di cinta, or vicini or lontani; pure, ascoltando più attentamente, sembrava vibrasse anche qui un’eco da chi sa qual lontananza, un suono di accompagnamento, non più un suono riflesso, bensì soltanto disperso e dissolto, che tuttavia si infrangeva contro le pareti delle case ai margini della piazza, contro gli angoli dei vicoli e dei tuguri, contro le pietre della città e delle città, contro le pareti delle montagne e dei muri, contro la cupola di torbide» cristallo che si inarcava al di sotto del cielo, contro la luce delle stelle, contro l’inconoscibile, esalandosi e polverizzandosi in piccole onde che svanivano non appena si voleva afferrarle. Ma ben presente su questa terra e pur stranamente congiunto alle sfere, perdurava il debole crepitare dei fuochi dietro il muro di cinta, e seppure talvolta pareva spegnersi nell’eco di un’invisibile vibrazione, seppure anch’esso si inserisse nella catena infinita delle immagini del mondo, tuttavia era come un indice della non-vanità dell’umana fatica, come un indice dell’origine terrestre di quella titanica volontà di unificazione che è innata nell’anima umana; era come un invito a conoscere, a volgersi verso la terra, a penetrare nella terrestrità, per trovarvi la forza di rinnovarsi, la forza prometeica, che scaturisce dal regno del basso e non dal regno dell’alto. Sì, egli doveva rivolgersi al regno terrestre, e attentamente egli aspettava, piegato sul parapetto della finestra, respirando penosamente, ciò che era necessario, ciò che doveva venire.
Sotto di lui si spalancava lo stretto spazio tra il palazzo ed il muro di cinta, simile ad un pozzo tenebroso; ma dietro al muro, interamente coperto dal muro e visibile solo nel suo riflesso, ardeva uno dei fuochi di guardia e quando la sentinella attraversava il piccolo campo fiammeggiante, l’indistinta ombra dell’uomo scivolava sul lastricato di pietra in una smorta luce rossastra, come un oscuro alito d’ombra che talvolta si proiettava sulla facciata dell’edificio di fronte, un’ombra frastagliata, rapidissima, quasi irreale per la sua singolare e incredibile mobilità. Quel che accadeva laggiù, al riparo della muraglia, non era che l’adempimento di un semplice dovere militare, ciò nondimeno, proprio come l’adempimento di ogni umano dovere, era stranamente congiunto con il fondo, anzi, con il compito stesso della conoscenza e con la sua nonvanità; quel che accadeva laggiù, si attuava nell’atrio della realtà ed era perciò pressoché definitivo. Non dalla sfera delle stelle, né da quella sotto le stelle verrà all’uomo la possibilità di aprirsi un varco verso la realtà originaria, non sarà qui che si compirà la promessa della non-vanità, bensì nella sfera dell’umano, e solo dall’uomo partirà l’impulso diretto a spezzare i confini; l’uomo è predestinato a tale compito per volontà divina e divina è la fiducia che gli è stata concessa, divina la sua necessità, e ancorché il momento in cui egli potrà attingere la grande realtà sia tanto poco prevedibile, che nessuno può dire se questo avvenimento celato nel grembo del destino avrà luogo in un troppo remoto futuro o non invece in un immediato presente, o se addirittura non sia già accaduto, perentorio tuttavia giunge dal segreto del destino il monito imperioso di vigilare, l’ordine di ricordare ogni istante nell’attesa dell’istante della rivelazione nella necessità, nella legge, nell’uomo. L’ordine risuonava dall’inesplorabile nella musica muta e smarrita dello stanco, caldo, febbrile e buio splendore inondato di luna, che avvolgeva la terra e che fluiva immobile sopra i tetti, avvolgendo anche lui alla finestra, investendolo dell’ordine di vigilare, come se questo vigilare fosse una parte della sua stessa febbre. E febbrilmente egli rivolse la sua attenzione al mondo visibile, quasi desiderando che in qualche parte si mostrasse un essere umano. Non apparve nessuno. Dalla parte della campagna, a sud-ovest, stava la minacciosa, splendente figura dello Scorpione; stava sopra la terra, che svaniva in un indistinto scintillìo, come svanivano i confini tra le case e le ondulate colline notturne, quasi nascoste sul fondo del paesaggio, e le fluttuanti onde dei campi, le onde dei boschi e dei prati, degli steli e delle fronde, su cui colava la luce della fredda pietra lunare, mentre più in fondo si inarcava la nera cupola dell’estremo infinito; tutto il paesaggio svaniva nello scintillìo di un’onda febbrile che aveva il suono della pietra, la freddezza della pietra, il tremito della pietra, si dissolveva nello scintillìo dello spazio stellare che vi si riversava, ed ogni cosa si imbeveva della notte e della luce dileguando, svanendo, fluttuando; il pallido splendore non aveva fine nella sfera dell’invisibile. Così tutto fluiva e rifluiva, scaturendo dalla doppia sorgente del caldo e del freddo, della luce e dell’ombra, inabissandosi nella nera oscurità, colando giù nei pozzi dei cortili, delle piazze, dei vicoli, sulle cose visibili ed invisibili della terra. Un vicolo dirimpetto veniva a sboccare di traverso nella piazza; nel tratto aperto alla vista era attraversato dal chiarore lunare, solo qua e là ombreggiato dalle case più alte, e dalla fuga dei tetti si poteva capire che, proseguendo più oltre, conduceva alla periferia della città mediante una doppia curva, non molto accentuata, che non solo assomigliava a quella dello Scorpione, ma pareva anzi mirare lassù, ed era seducente la somiglianza delle forme, seducente quella sua tensione verso il cielo, allettamento anzi tanto seducente che divenne paura, divenne struggente nostalgia di poter mettersi in cammino per quella strada, superando con facilità le curve, addentrandosi nella campagna, verso la costellazione, peregrinando di patria in patria, attraversando i boschi della febbre, della luce e dell’ombra, lieto il passo del sogno che vola attraverso quei boschi; oh, incamminarsi per le vie dello sguardo, che nella mèta contengono di nuovo l’origine, per sempre e senza ritorno. Non c’è bisogno di guida lungo una così facile via, né persona severa che ci risvegli, perché senza fine perdura il sopore del mondo che traluce e risplende; bastava soltanto incamminarsi, procedere nell’irrevocabile, aperti tutti i confini, e nulla più riesce a trattenere il viandante, nessuno lo supera, nessuno gli viene incontro nel suo cammino, non lo precede il divino, non incontra la ferinità, il suo piede è libero dal peso di entrambi, ma la direzione nella quale cammina è quella della consolazione e della fiducia, è quella della necessità, è quella del dio. Era così? realmente non c’era più una direzione contraria? Ma non sarebbe venuto nessuno in direzione contraria anelando di ritornare nella bestialità, di ricadere nel subferino?
Era necessario aspettare con molta pazienza, e ciò durava da tempo, da troppo tempo ormai. Poi, tuttavia, accadde qualcosa. E strano a dirsi, ciò che accadde, per quanto fosse il contrario d’ogni cosa attendibile, parve ugualmente richiesto dalla necessità. Dapprima venne come immagine sonora, precisamente come un’immagine sonora che si sciogliesse lentamente dal silenzio, composta di passi strascicati e di un borbottìo indistinto, e rimase un bel pezzonascosta nell’ombra, prima che emergessero le figure che le appartenevano, tre macchie bianche indistinte che vacillavano e piti volte fermandosi, fluendo l’una nell’altra e nuovamente separandosi, visibili nella luce della luna, immergendosi nell’oscurità, quasi contro voglia si trascinavano avanti. Senza respiro per la tensione della sua attesa, senza respiro per l’affanno nell’irrespirabile luce notturna, le mani intrecciate nello spasimo, spasmodicamente intrecciate le dita sull’anello, spasmodicamente piegato sul davanzale col capo proteso all’infuori, egli seguiva l’avvicinarsi delle tre apparizioni. Per un po’ di tempo esse rimasero mute, ma poi, contrariamente all’indistinto borbottìo di prima, si alzò con asprezza improvvisa e con estrema chiarezza, una gracchiante voce tenorile; quasi gridando, come se il suo latore si fosse riscosso e avesse preso una decisione incontrastabile e definitiva, seguì l’annuncio: “ Sei sesterzi.” Ammutolirono di nuovo, e quasi sembrava che quel tono definitivo non ammettesse repliche, e tuttavia la replica venne: “ Cinque,” disse la seconda voce maschile, maligna e pur di buon umore, in un tono basso, calmo, quasi assonnato, che senza dubbio intendeva tagliar corto ad ogni ulteriore trattativa: “ Cinque.” — “ Merda, sei,” gracchiò senza lasciarsi intimidire la prima voce, a cui rispose subito dopo un incomprensibile va e vieni il basso, ritornando con calma alla sua proposta definitiva: “ Cinque, e non un soldo di più.” Rimasero fermi. Fino a questo punto si riusciva a capire di che cosa trattassero, e intanto si intromise la terza voce, che era quella di una donna ubriaca: “ Dagliene sei!,” ordinò traboccando un sudicio strillo, in un tono insistente e pieno di impazienza da cui traspariva una abietta, vile profferta che tuttavia non ebbe grandi risultati, perché ora la risposta fu soltanto una risata gutturale e sarcastica. Ed irritata per quella risata e per quel sarcasmo inattaccabile, la voce della donna si riversò in accenti di furia: “ Vuoi riempirti la pancia, ma non pagar nulla... Vuoi avere la carne, e vuoi avere il pesce, e tutto...” e quando ancora una volta le rispose la risata dell’uomo, che pareva un latrato, la sua protesta proseguì: “ Devo comprare la farina, e le cipolle, e tutto, e le uova e l’aglio, e l’olio, e l’aglio... e l’aglio...” — ubriaca com’era e ansimante, accompagnata dalle risate dell’uomo che l’incitavano e che si erano ora convertite in una specie di gorgheggio convulso, si tenne ben salda all’altissimo prezzo dell’aglio, — “ hai voglia di mangiare l’aglio... l’aglio...” — “ Hai ragione,” gracchiò intanto il tenore e con un improvviso salto di logica si decise ad esclamare: “ Fa’ silenzio! ” Ma lei, come se la parola avesse una sua forza illuminante, non se ne dava per vinta: “ L’aglio... l’aglio devo comprare...” Erano stati nuovamente assorbiti dall’oscurità, e dall’oscurità continuava ad echeggiare il grido dell’aglio, e realmente, come se la parola avesse la virtù d’un richiamo, la febbrile oscurità della notte si fece a un tratto carica e gravida di tutti gli odori che le cucine della città potessero esalare; si fece pesante, satura, grassa, oleosa, neghittosa e terribile, colma di fetore di digerito, di putrefatto, di abbrustolito, di fritto e di rimasticato: il fetore della torpida nutrizione di una città. Per alcuni momenti ci fu silenzio, e un’atmosfera stranamente soffocata, come se il lento miasma avesse inghiottito anche i tre là sotto, che anche dopo esser rientrati nel campo della luce non avevano più niente da dire, l’argomento dell’aglio era esaurito, avanzavano muti, le loro figure si facevano sempre più distinte, ma nonostante il loro mutismo non parevano in nessun modo rappacificate: dapprima si mostrò un bizzarro e sparuto individuo, che procedeva zoppicando con una spalla sollevata, appoggiandosi a un bastone che alzava minacciosamente ogni qualvòlta doveva fermarsi perché gli altri due lo seguissero; a una certa distanza veniva la donna, grassa e massiccia, e da ultimo, se possibile ancora più grasso ed ancora più ubriaco, in ogni caso più tardo nei movimenti, seguiva l’altro uomo, una torre, ampia, panciuta, che non riusciva a colmare la distanza, sempre crescente, che lo separava dalla donna, ed alla fine con un piagnucolante pigolìo e con le mani infantilmente alzate verso di lei cercava di trattenerla; così s’appressavano, una visione traballante ed incerta, che si fece ancora più incerta, allorché raggiunsero l’imbocco della strada nella traballante luce dei fuochi di guardia; così erano giunti davanti ai suoi occhi insieme al loro alterco che tornò ad erompere, ora che la zoppicante guida si voltò a sinistra in direzione del porto accingendosi ad attraversare la piazza, e la donna gli urlò dietro un “ Fetente!,” tanto che lui si fermò desistendo dal suo proposito e, girandosi, si slanciò contro di lei agitando il bastone, certo senza incutere paura a colei che continuava irremovibile a garrire, spaventando invece quella torre di grasso che pigolando si volse alla fuga, costringendo la donna a rincorrerlo e a tirarlo indietro con la forza, — cosa che rallegrò l’altro a tal punto che lasciò cadere il bastone e vomitò, ora sì, una di quelle grasse e gutturali risate che già in precedenza avevano mandato la donna su tutte le furie. E così si produsse il medesimo fenomeno, la donna divenne furente e “ A casa! " ordinò allo sparuto che rideva; e allorché questi, agitando il dito proteso, volle sottolineare il suo precedente proposito accennando in direzione del porto, lei tese da parte sua il braccio nella direzione opposta, tutta ansante per l’eccitazione del battibecco: “ Fila a casa, non hai più niente da cercare in città... non me la dài da intendere, so già quello che hai laggiù, la conosco la tua cialtrona...”
— “ Oh?,” il dito cessò di agitarsi e si calmò, la mano assunse la forma di un bicchiere nel gesto, della bevuta. La proposta apparve così chiara al grasso, appoggiato al muro di una casa, da fargli ritrovare l’irrevocabilità delle sue decisioni: “ Vino,” pronunciò raggiante con la sua voce chioccia, e si mise in movimento. La donna gli sbarrò la strada: “Ah, vino,” sbavò, “vino?... da quella sudiciona vuole andare, ed io, io gli devo cucinare... Carne di porco vuole avere e tutto vuole avere...” — “ Carne di porchetta,” gracchiò il tenore. Con disprezzo ella lo respinse verso il muro, però quasi piangente si rivolse all’altro: “ Tutto vuoi avere da me, ma pagare niente...” — “Cinque gliene pago, ho detto... vieni con me, ci guadagni del vino.” — “Me ne infischio del vino... pagagliene sei.” — “Anche lui ci guadagna il vino.” — “Non ha bisogno del tuo vino.” — “ Questo non ti riguarda una merda, carogna; cinque gliene pago, non un quattrino di più, e lui ci guadagna il vino.” — “ Cinque,” precisò con dignità il trippone al muro. La donna si scagliò su di lui: “ Che cosa hai detto? che cosa hai detto?! ” Quello, terrorizzato, cercava una scappatoia; alla fine trovò quell’espressione amichevole e lusinghiera: “ Merda.” — “ Che cosa gli hai detto?! ” La donna non mollava e quello, messo alle strette, ripete in conformità del suo nuovo convincimento: “ Cinque.” — “ Dillo ancora,- otre, pancia piena di vino... e io dovrei procurarvi da mangiare, bestie che siete, dovrei procurarvene senza soldi...” Parole che non fecero nessuna impressione sull’uomo grasso: “ Vino... ci guadagni anche del vino,” disse felice con la sua voce di falsetto, come se ora dovesse venir premiato per il suo coraggio. Ella lo aveva afferrato per la tunica: “ Tutto il denaro lo porta alla sudiciona... sei ne deve pagare, mi ascolti? sei...”
— “ Sei, ” disse la torre assecondandola docilmente e fece i preparativi per mettersi giù a sedere, ma la manovra non gli riuscì perché la donna lo teneva stretto.
Lo sparuto riversava, come da una fonte, la sua soddisfazione a non finire, urlava a squarciagola ed agitava il suo bastone: “ Cinque ha detto, e cinque gli pago; ormai siamo d’accordo! ” — “ Non è vero,” soffiò la donna rabbiosamente, e tenendo ancor sempre il trippone per la tunica, gli gridò in faccia: “ Diglielo che sono sei, diglielo! ” Nonostante tutto, la sua voce, che pur si era tanto alterata nello sforzo di gridare, non perdeva, nel suo fondo, quel particolare tono di seduzione e di profferta; soltanto non era possibile capire con sicurezza a quale dei due uomini fosse destinato. Vero è che l’uomo sparuto, interrompendo alquanto la sua allegrezza, ora si faceva un po’ più conciliante: “ Ma che vuoi? Tanto la farina te la dà gratis l’imperatore...” La donna ebbe un momento di meraviglia e l’uomo grasso, che si storceva sotto la violenta presa della sua mano, ne approfittò, non solo per tirare il fiato, ma anche per cavarsela finalmente da quella spiacevole faccenda dei sesterzi: “ Viva Augusto! ” gracchiò rivolgendo la sua voce in alto, verso la residenza imperiale, e l’altro, alzando il suo bastone sguainato, rivolto anche lui verso il palazzo, ribadì quel grido festoso e gracidante con un suo rimbombante “ Evviva!,” e ancora una volta echeggiò il gracidare entusiastico “ Viva Augusto!,” e ancora una volta l’uomo sparuto salutò col suo rimbombante “ Evviva! ” — “ Chiudete il becco, chiudete il becco, tutti e due!,” intervenne schifata la donna con accento d’ira ed effettivamente per un paio di secondi il suo intervento ebbe un certo effetto: non perché avessero riguardo dell’ordine della donna, ma piuttosto per riguardo verso l’imperatore invocato, tacquero entrambi, anzi addirittura si irrigidirono, a bocca aperta il grasso, a bastone levato il magro; e mentre l’ombra armata di bastone, a un bagliore più acceso del fuoco, si proiettava più in alto sul muro, e la donna con le sue grosse braccia puntate sulle anche stava a contemplare il bell’effetto, si sarebbe potuto pensare che quell'immobilità potesse ormai durare eternamente, senonché fu interrotta da un rinnovato, fragoroso scoppio di risa canine, a cui partecipava la stessa coppia dei due grassi, distinguendosi il timbro chiaro e tenorile del grassone che cinguettava tutto allegro dall’irresoluto chiocciare della donna simile al coccodè di una gallina mentre il bastone batteva il tempo; da tre bocche bestiali usciva quel ridere sgangherato, che scaturiva da un’ignota e profonda sorgente di fuoco, un sarcasmo tricipite con cui schernivano se stessi e l’un l’altro, un dio ignoto in tre corpi, il più ignoto tra tutti gli dèi. Il ritmo del riso incalzava verso il suo punto culminante e l’uomo magro lo trovò: “ Vino,” fu il suo grido, “ ci guadagni il tuo vino, grassone, vino per tutti, vino alla salute dell’imperatore! ” — “ Ohi, ohi, ohi,” risuonò il coccodè della donna, e il suo riso si capovolse nell’ira, un’ira a cui si aggiungeva, ora più che mai, la sua profferta lasciva, “ lo conosco il tuo imperatore...” — “ La farina dell’imperatore,” le spiegò, soavemente ammaestrandola, la patriottica torre, cominciando a staccarsi dal muro, “ la farina dell’imperatore, l’hai udito tu stessa... evviva! ” Ci si aspettava, quasi, che ella tornasse ad espellere il suo grido dell’aglio, tanto la scena pareva girare intorno al medesimo punto, ma ora che l’altro, urlando a squarciagola e quasi strozzandosi, venne a confermare: “ Certo, la farà distribuire domani... non ti costerà nulla!,” la sua pazienza scoppiò: “ Una merda verrà distribuita,” fu il suo strillo, che oltrepassò squillante la piazza, — “ una merda ci dà l’imperatore... una merda è il tuo imperatore, una merda è lui, l’imperatore; il signor imperatore può ballare e cantare e fottere e andar a puttane, altro non può, e ci dà una merda! ” — “ Fottere... fottere... fotte-re...,” ripetè beato il grassone, come se al suono di quella parola fortuita si fosse aperta, dinanzi ai suoi occhi, la libidine di tutto il mondo, con tutta la fortuita concupiscenza, “ l’imperatore fotte, viva l’imperatore! ” Lo sparuto frattanto s’era fatto avanti di alcuni passi temendo l’eventualità che si avvicinasse la pattuglia di guardia, e benché il suo riso notturno continuasse come prima con quel suo urlo gutturale, esso aveva tuttavia un timbro particolare che tradiva inquietudine, tanto che ora gridò indietro, oltre la spalla sollevata: “ Avanti... ci guadagni del vino, avanti! ” Naturalmente non serviva a nulla, e probabilmente non c’era più niente, proprio più niente, che potesse servire a qualcosa, perché il trippone, nel suo ostinato entusiasmo per l’imperatore che ballava e fotteva, era inequivocabilmente disposto ad imitare il sublime personaggio, e affaticandosi con patriottico zelo ad appoggiare nobilmente la sua domanda d’amore mediante gridi di evviva ad Augusto padre, ad Augusto imperatore, al salvatore Augusto, tentava con le mani protese in un gesto di cupida preghiera di raggiungere la donna, che insultava e malediva e nello stesso tempo arretrava il passo; il trippone cercava goffamente di toccarla, emettendo piccoli suoni di cornacchia, era un colosso che cinguettava piacevolmente, pronto com’era a fare all’amore, e in conseguenza della cupida ebbrezza aveva iniziato un saltellante balletto, non privo di una sua balorda agilità, per cui come sordo, come cieco, si dirigeva verso la sua mèta e non vi avrebbe certamente rinunciato se di sorpresa non avesse posto fine al suo gioco l’altro individuo, che gli venne addosso zoppicando leggero e gli menò un colpo di bastone: la scena si era svolta in modo indescrivibilmente rapido e silenzioso, non si era udito nulla, era come se il bastone avesse colpito un mucchio di piume, e non si era potuto udire una sola voce di spavento o di dolore, né un gemito né un sospiro, P uomo grasso era semplicemente piombato a terra, si voltolò un poco, poi restò immobile disteso, — l’assassino tuttavia non si curò più di lui, preferì invece allontanarsi senza neanche voltarsi indietro, se ne andò via zoppicando con indifferenza, ma non in direzione del porto, del vino e della sua cialtrona, bensì invece sulla strada di casa, come gli aveva ordinato la donna, senza preoccuparsi di questa, che come indecisa — forse colpita e commossa dalla subitaneità con cui si era estinto quell’uomo, o dal così subitaneo estinguersi di quella concupiscenza fortuita — si era chinata sul cadavere in un indugio funebre, quasi teatrale, per poi staccarsene dopo pochi momenti e affrettarsi con rapida decisione a raggiungere lo zoppo che si allontanava; tutto questo accadde così presto, così lontano, così profondamente intessuto nella luce febbrile e immobile della notte, che nessuno sarebbe potuto intervenire per impedirlo, e meno di tutti un malato, che aveva dovuto seguire la scena dalla finestra, incapace di un grido, incapace di un cenno, paralizzato e irrigidito e incantato non solo per la vigilanza e per la pena che gli era stata imposta, ma anche perché a stento egli era riuscito a rendersi conto di ciò che era accaduto; infatti ancor prima che la coppia degli assassini in fuga fosse sparita dietro all'angolo acuto e saliente del merlato muro di cinta, il caduto si mosse e poi che fu riuscito a girarsi sulla pancia, cominciò a sgambettare a carponi come un animale, come un grosso e pesante insetto che avesse perduto un paio di zampe, e volesse raggiungere in tutta fretta i suoi compagni. Un’aura non già comica, bensì terribile e spaventosa aleggiava intorno a quel favoloso animale e lo spavento e il terrore perduravano ancora, quando finalmente egli si rizzò sulle zampe posteriori per orinare sul muro della casa; ma poi, perdendo l’equilibrio ad ogni passo e procedendo a tastoni, l’uomo avanzò vacillante lungo il muro. Chi erano stati quei tre? erano degli inviati infernali, inviati dal quartiere della miseria, nelle cui finestre egli aveva spinto lo sguardo, costretto dal destino inesorabile a guardare là dentro?! quali visioni, quali incontri gli riserbava ancora il destino? non bastava ciò che egli aveva veduto e incontrato finora? Oh, non erano toccate a lui, questa volta, le ingiurie, non a lui toccavano quelle risa sarcastiche che avevano scosso i tre, quelle risate virili, a squarciagola, canine, travolgenti, che non avevano nessuna somiglianza con le risa femminili del vicolo della miseria, no, qualcosa di più maligno si muoveva in questo riso, qualcosa di spaventoso e di terribile, ed era il terrore emanato dalle cose reali, che non si rivolge più all’uomo, né a lui che era stato lì alla finestra a vedere e a sentire e ad ascoltare, né a qualunque altro uomo, come fosse una lingua che non sia più ponte tra gli uomini, come fosse un riso disumano, che prendesse ad oggetto del suo sarcasmo l’obbiettiva consistenza del mondo e che estendendosi al di là di ogni zona umana, non deridesse più l’uomo, bensì semplicemente lo annientasse mettendo a nudo il mondo in cui vive; oh, questo era il significato del riso delle tre figure, esprimeva orrore, comunicava orrore, quel riso virile, quel beffardo riso dell’orrore! Perché, oh, perché era stato inviato a lui?! quale necessità glielo aveva mandato?! Egli si chinò sporgendosi in fuori e tese l’orecchio dalla parte dei tre che si erano allontanati, — laggiù nel cielo, verso sud, muto ed immobile, il Sagittario tendeva il suo arco contro lo Scorpione, e proprio da quella parte i tre erano scomparsi, e dal silenzio gli giunsero a tratti, dapprima con uno strappo brutale, poi in uno sfrangiarsi leggero, dapprima variopinti, poi grigi ed infine dissolti, gli ultimi immondi brandelli delle loro invettive, un lubrico, grasso, litigioso scoppio di risa della donna, con quella voce afflitta e lamentosa, in tono di imperiosa profferta, un paio di parole dalla voce cupa e gutturale dello zoppo, ed a tratti il suo riso canino, da ultimo ancor solo una maledizione quasi spenta, quasi percorsa da un doloroso senso della lontananza, fattasi quasi delicata e confusa tra gli altri rumori lontani della notte, intessuta in quella musica, in quell’estremo residuo di musica che si dissolveva nella lontananza e si univa al sognante canto argentino di un gallo insonnolito, al perduto abbaiare di due cani, che chi sa dove, nell’aperta campagna scintillante in un suo ultimo bagliore, forse presso qualche cantiere, forse presso qualche casa di campagna, si gridavano l’un l’altro la loro presenza sotto la luna; il dialogo tra i due animali, divisi da una invalicabile solitudine, si univa alle note d’una canzone umana che a tratti giungeva dalla zona del porto; se ne poteva certo riconoscere l’origine, sospinta com’era dal leggero vento del nord, e tuttavia era impossibile dire quale fosse la sua direzione, delicata anch'essa, anche se probabilmente altro non era che un osceno canto di marinai che si alzava in mezzo a un frastuono di risa da una taverna fetente di vino, delicata canzone, percorsa da una dolente nostalgia, come se la muta lontananza e l’immobile presenza in lei dell’eterno fosse il luogo in cui il muto linguaggio del riso e il muto linguaggio della musica — linguaggi, entrambi, al di là del linguaggio, al di sopra e al di sotto del limite dell’umana prigione — si riunissero in un nuovo linguaggio, in cui la terribilità del riso fosse mirabilmente assorbita dalla soavità del bello, non tuttavia cancellata, bensì rafforzata in una raddoppiata terribilità; un muto linguaggio della più disumana ed immobile lontananza e solitudine, un linguaggio estraneo ad ogni lingua materna, inesplorabile linguaggio dall’assoluta intraducibilità, incomprensibilmente penetrato nel mondo, che incomprensibilmente e inesplorabilmente attraversava il mondo con la propria lontananza, necessariamente presente nel mondo senza averlo modificato, e proprio perciò doppiamente incomprensibile, indicibilmente incomprensibile quale necessaria irrealtà entro la realtà immutata!
Perché nulla si era mutato: muta e irrigidita nelle sue figure, immutata nelle sue forme visibili, profondamente immersa sotto la superficie del cielo stava la molteplicità delle stelle, verso nord il Serpente domato dal braccio di Ercole, verso sud il minaccioso Sagittario, immutate laggiù nell’invisibile stavano le selve irrigidite nell’oscurità, attraversate dai sentieri notturni, tortuosi e cricchianti di luce lunare, battute da rapidi animali che, saturi di sogno, erano in cerca della fonte scintillante; immutati, nella loro patria così lontana e invisibile, con le loro vette lucenti illuminate di silenzio, i monti salutavano la luna, la cui luce li irraggiava dall’alto; lontanissimo ed invisibile il mare, nel suo mormorio d’argento: così si apriva la notte dinanzi a lui, immutata nel visibile e nell’invisibile, una delle miriadi di notti che si erano succedute invariabilmente ed immutabilmente fin dal primo principio, così si apriva il mondo nella sua assoluta invisibilità, e ciascuna sfera era separata dall’altra, immutato l’atrio della realtà; oh, nulla si era mutato, eppure tutto era stato risospinto in quella nuova lontananza, che annulla ogni vicinanza traducendola nell’inesplorabilità, che ci rende estranea la nostra propria mano e spinge il nostro sguardo fino all’invisibile, fino all’onnipresente lontananza che risucchia la luce e quello stesso riflesso del fuoco che si andava spegnendo laggiù, nascosto dal muro di cinta; lontananza, che toglie ogni percettibilità ai suoni della vita, persino al passo, rado e solitario, della sentinella, e li colloca in quello spazio in cui è vano porger l’orecchio; lontananza nella vicinanza, lontananza suprema nella lontananza, il più esterno e ad un tempo il più interno confine di entrambe, l’irreale nella realtà di entrambe, in entrambe collocata, come per incantesimo, la remota lontananza, — la bellezza.
Perché
sul più remoto confine si accende il raggio della bellezza,
dalla più remota lontananza essa manda il suo raggio
nell'uomo,
sottratta alla conoscenza, sottratta alla domanda,
percepibile solo allo sguardo
'unità del mondo fondata dalla bellezza,
l'unità che riposa sul bell'equilibrio della suprema
lontananza
che attraversa tutti i punti dello spazio saturandoli di
lontananza,
e — quasi demonica — non soltanto risolve la
contraddizione più profonda
nell'uguaglianza dei gradi e dei significati,
ma — ancor più demonica — in ogni punto colma
anche la lontananza dello spazio con la lontananza del
tempo,
in ogni punto immobile la fluttuante bilancia del tempo,
ancora una volta immobilità saturnia,
non abolizione del tempo, ma suo eterno presente,
presente della bellezza, come se l'uomo, contemplandola,
potesse, ancorché eretto e crescente in altezza, ricadere
ancora una volta
nell'attesa del suo riposo,
ancor una volta disteso tra le profondità dell'alto e del
basso,
congiunto ancor una volta col suo sguardo che ascolta.
come se la profondità permettesse una nuova
partecipazione che,
libera dalla conoscenza e dalla domanda,
primitiva e primigenia, può rinunciare alla conoscenza e
alla domanda
rinunciando alla distinzione tra il bene e il male,
sfuggendo all'umano dovere della conoscenza,
fuggendo verso una nuova e perciò falsa innocenza,
affinché
il male ed il bene, la perdizione e la salvezza,
la crudeltà e la bontà, la vita e la morte,
l'incomprensibile e il comprensibile
possano trasformarsi in un'unica indistinta comunione,
cinta dal vincolo della bellezza che fonda l'unità
compenetrata e intessuta nel raggio dello sguardo che
l 'abbraccia,
e appunto perciò la bellezza è come un incantesimo,
è incantata ed incanta, demonicamente in sé accoglie ogni
cosa
ed ogni cosa racchiude in sé il suo equilibrio saturnio,
ma appunto perciò essa è anche una ricaduta nel predivino,
appunto perciò è umano ricordo di qualcosa, che
ha avuto luogo ancor prima della prescienza dell'uomo,
ricordo di una predivina evoluzione del creato,
dell'indistinto crepuscolo della creazione,
spoglia del giuramento, spoglia dello sviluppo, spoglia del
rinnovamento,
e tuttavia ricordo e, come tale, pia, sebbene pietà
senza giuramento, senza sviluppo, senza rinnovamento,
demonica pietà del rapimento della bellezza
nell'estasi degli estremi confini,
e tuttavia non volontà di varcarli,
rivolta all'indietro, verso il caos,
predivino riflesso della divinità
la bellezza;
perché la notte si apriva dinanzi a lui accogliendo in se stessa ogni cosa, così remota e così colma dell’argenteo pulviscolo dell’eco che risuonava dai suoi più lontani confini, che si fece indistinta con tutto ciò che in lei si celava, si fece un canto, un urlio di risa, un soffio di voci bestiali, un fremito del vento: non si sapeva. E questo non-sapere nemico del sapere, di cui la bellezza come per proteggere la propria delicatezza e la propria fragilità si vela, anzi deve velarsi, perché l’unità dei mondi da lei fondata è più fugace, più cedevole e più labile dell’unità della conoscenza, e, oltracciò, contrariamente a questa, può sempre venir danneggiata dal sapere, questo non-sapere gli veniva irradiato dall’intero cerchio del mondo visibile insieme con la bellezza, delicato e tuttavia quasi demonico nel suo allettamento e nella sua presuntuosa seduzione dell’identità dei significati; gli veniva sussurrato demonicamente dagli estremi confini e penetrava sino ai confini più interni, un rilucente sussurro oceanico, attraversato dalla luce della luna che li inondava, in equilibrio come le maree dell’universo, il cui impeto sussurrante fonde e tramuta il visibile con l’invisibile, lega la molteplicità delle cose nell’unità dell’io, la molteplicità del pensiero nell’unità del mondo togliendo ad entrambe la loro realtà ed innalzando entrambe nella bellezza: l’essenza di sapere è il sapere della bellezza, l’essenza di conoscenza è il suo conoscere, quello senza predominio di pensiero, questo senza eccesso di realtà, e nella immobilità del loro equilibrio, immobile il fluttuante equilibrio tra pensiero e realtà, immobile l’alterno gioco della domanda e della risposta da cui si genera il mondo, la bellezza ferma l’oscillante bilancia dell’interiorità e dell’esteriorità, diventa nel suo immoto equilibrio il simbolo del simbolo. Così si inarcava la notte intorno a lui nell’equilibrio della sua armoniosa bellezza, l’oscuro, splendente spazio saturnio della notte che si estendeva al di là di tutti i tempi pur restando nel tempo e senza varcare i confini del mondo terreno, teso tra l’uno e l’altro confine ed esso stesso il più esterno e il più interno ad un tempo, così sì distendeva e si apriva la notte, intorno a lui e dentro di lui, e dalla notte, dal suo terreno equilibrio, fluiva a lui insieme con la sua bellezza il simbolo del simbolo, che recava con sé tutta l’estraneità dei più remoti confini ed era pur tuttavia singolarmente familiare, velato nel non-sapere e tuttavia mirabilmente svelato, poiché ora gli si mostrava — come nella magia di un’improvvisa, seconda illuminazione — quale simbolo della sua propria immagine, così chiaro, nonostante la sua suprema lontananza, che pareva che l’avesse creato egli stesso; era l’io che trovava il proprio simbolo nell’universo, era l’universo che trovava il proprio simbolo nell’io, e i due simboli dell’essere terrestre si intrecciavano reciprocamente in un unico simbolo: penetrando del suo splendore la notte, penetrando del suo splendore il mondo, la bellezza colmava di sé tutti i confini dello spazio senza confini, e con questo calata nel tempo e trasportata attraverso i tempi, si mutava nel loro perenne presente, nell’illimitata limitatezza del tempo, nel simbolo della totalità dell’ elemento terrestre, immerso nello spazio e nel tempo, rivelando il dolore della limitatezza; e appunto perciò bellezza nel mondo di questa terra;
così in dolente tristezza
la bellezza si svela all'uomo,
gli si svela nella sua compiutezza, che è quella
del simbolo e dell'equilibrio,
affascinante e sospesa nell'opposizione
dell'io che guarda la bellezza e del mondo colmo di
bellezza,
l'uno e l'altro nel proprio spazio, l'uno e l'altro limitato
in se stesso,
chiuso in se stesso nel proprio equilibrio, e proprio per
questo
entrambi in equilibrio reciproco, proprio per questo in
uno spazio comune;
in ciò si svela all'uomo
la compiutezza della bella terrestrità,
la compiutezza dello spazio portato dal tempo e immobile
nel tempo,
l'aereo, disteso spazio della bellezza che non si rinnova
più a nessuna domanda, che non si allarga più a nessuna
conoscenza,
l'irrinnovabile, l'indilatabile, costante totalità dello spazio
sostenuto dall'equilibrio
della bellezza che opera in lui, e questa compiuta totalità
dello spazio
si rivela in ogni sua parte,
in ogni suo punto, come se ciascun punto fosse il suo più
interno confine,
si rivela in ogni figura, in ogni cosa, in ogni opera umana
come simbolo della propria spazialità,
come suo più interno confine dove ciascuna essenza si
annulla,
il simbolo che annulla lo spazio, la bellezza che annulla
lo spazio,
in forza dell'unità che essa pone tra il confine interiore e
quello esteriore,
in forza della compiutezza dell'infinitamente limitato,
la limitata infinità, il dolore dell'uomo;
così la bellezza gli si svela come un fatto del limite,
e il limite, l'esterno come l'interno,
sia quello del più lontano orizzonte o quello di un unico
punto,
è teso tra l'infinito e il finito
nella più remota lontananza, e tuttavia è sempre
nell'elemento terrestre, sempre
nel tempo terrestre, ed anzi limita il tempo e fa sì che
si arresti,
produce la sua immobile quiete al confine dello spazio
senza annullarlo,
è puro simbolo, terrestre simbolo dell'annullamento del
tempo, —
puro simbolo, ma solo simbolo, dell'annullamento della
morte,
limite dell'umano che non ha ancora superato se stesso
e perciò anche limite del disumano;
il fatto della bellezza si svela all'uomo
come ciò che è, come ciò che è la bellezza,
come infinito nel finito,
come la terrena apparente infinità.
e perciò gioco,
gioco d'infinità dell'uomo terrestre nella sua terrestrità,
gioco di simboli all'estremo limite terreno,
bellezza, il gioco in sé,
il gioco, che l'uomo gioca col proprio simbolo, al fine
di sottrarsi
— egli non ha altre vie — all'angoscia della solitudine,
la bella, incessante illusione,
la fuga nella bellezza, il gioco della fuga;
ed ecco si svela all'uomo la fissità del mondo nella bellezza,
la sua incapacità di sviluppo, la limitazione della sua
compiutezza
che si fa imperitura soltanto nella ripetizione e
per tale apparente compiutezza deve essere sempre di
nuovo cercata,
si svela all'uomo il gioco dell'arte che serve la bellezza,
la sua disperazione, il suo disperato tentativo
di creare l'imperituro con la materia dell'essere perituro,
con parole, suoni, pietre, colori,
perché lo spazio figurato
duri di là dai tempi ,
come un segno di bellezza per le generazioni future, l'arte
che costruisce spazio in ogni immagine,
l'immortalità nello spazio, non nell'uomo,
e perciò senza sviluppo,
legata a una compiutezza, soltanto ripetibile e senza
sviluppo, che
mai raggiunge se stessa e cresce tanto più disperata quanto
più
diventa compiuta,
incarcerata nell'eterno ritorno al suo punto di partenza in
se stessa
e perciò dura,
dura verso la pena dell'uomo, perché questa pena per lei
null'altro significa
che essere perituro, null'altro che parola, pietra, suono e
colore,
utilizzati per la ricerca della bellezza e per la scoperta
della bellezza
in incessante ripetizione;
e la bellezza si svela all'uomo come crudeltà,
come crescente crudeltà di un gioco sfrenato che,
sprezzando la conoscenza,
promette nel simbolo il godimento dell'infinito,
il puro godimento dell'apparente infinitezza terrena
e che perciò è indifferente al dolore e alla morte,
poiché ciò accade nel regno remoto della bellezza,
raggiungibile solo al tempo e allo sguardo, ma non
all'umanità e al dovere dell'uomo;
cosi la bellezza si svela all'uomo come legge senza
conoscenza,
l'abbiezione di una bellezza che si è posta essa stessa
come legge,
per amor di se stessa
conclusa in se stessa, senza possibilità di rinnovarsi, di
ampliarsi o di crescere,
il godimento come legge del gioco della bellezza,
avido, voluttuoso, impuro, immutabile,
il gioco saturo di bellezza, che satura di bellezza e che,
innamorato della bellezza,
ha luogo ai confini della realtà e
ingannando il tempo senza annullarlo,
giocando col caso senza dominarlo,
infinitamente ripetibile, e tuttavia
fin da principio destinato a perdersi,
perché solo l'umano è divino;
e così l'ebbrezza del bello si svela all'uomo
come il gioco perduto in partenza, perduto
nonostante l'equilibrio imperituro in cui ha luogo,
nonostante la necessità in cui dev'essere ripetuto,
perduto, perché l'inevitabilità della ripetizione è anche
ad un tempo
l'inevitabilità della perdita,
inevitabilmente prigioniere l'una dell'altra
l'ebbrezza della ripetizione e quella del gioco,
entrambe sottomesse alla durata,
entrambe crepuscolari,
entrambe senza sviluppo in una crudeltà sempre crescente
mentre il vero sviluppo,
lo sviluppo del sapere dell'uomo,
senza limiti nella sua durata e senza ripetizione,
si dispiega nel tempo,
e tramuta il tempo in eternità, cosicché esso,
che consuma ogni durata e con sempre più crescente realtà
forza e supera un confine dopo l'altro, dal più interno al
più esterno,
lasciando dietro di sé un simbolo dopo l'altro, ed anche se
l'ultima simbolicità della bellezza non ne viene distrutta
e intatta resta la necessità della sua ultima armonia
tuttavia, non meno necessariamente, viene smascherata la
vanità del suo gioco,
l'insufficienza del simbolo terrestre,
la tristezza e la disperazione della bellezza,
la disincantata ebbrezza del bello,
senza conoscenza e smarrito nel vuoto della conoscenza
l'io sconfitto,
la sua povertà, —
ed egli, che per ineluttabile necessità era penetrato dal raggio di questo io, di questa bellezza e di questo gioco, irradiato dai più interni e dai più esterni confini dell’antro della notte, cosicché egli recava e celava in se medesimo questo intero accadimento pur restandovi incluso, egli era immerso nello spazio della necessità, nel limite del proprio io, nel limite del mondo e nel simbolo della sua illimitatezza, era immerso nello spazio del gioco, lo spazio della remota vicinanza, lo spazio della bellezza e del simbolo, che è domanda in tutti i suoi punti e che tuttavia nega e rifiuta ogni domanda; egli era immerso in tutti gli spazi della fissità, immoto egli stesso, e soffocato dalla fissità, egli sentiva e capiva, che nessuno di questi spazi va oltre la vitrea volta che è tesa tra l’alto ed il basso, che tutti questi spazi giacciono ancora nell’interregno del non-ancora-infinito e che il loro confine s’affaccia sì sull’infinito, ma appartiene ancora alla sfera terrestre: ciò che è ancora terrestre, il regno della bellezza, l’infinito terrestre, ancora terrestre! in questo spazio egli era immerso, da questo spazio egli era racchiuso; egli era incluso nello spazio del respiro terrestre, ma escluso dallo spazio delle sfere, dallo spazio del vero respiro. E avvertendo in questa inclusione la causa di ogni fissità e di ogni paralisi del respiro, egli sentiva d’ogni intorno tutta la forza esplosiva che era diretta contro la prigione, sentiva la necessità, l’inevitabilità della distruzione e la sentiva fin nella profondità del proprio io, della propria anima, del proprio respiro e del proprio affanno; egli sentiva e sapeva la distruzione, sentiva e sapeva che si preparava dentro di lui e nel mondo, che era dentro di lui e ad un tempo lo circondava, e l’avvertiva in modo addirittura fisico, come se fosse qualcosa di corporeo in agguato, qualcosa che strozzava lui e l’intero mondo visibile ed invisibile mozzandogli il respiro, qualcosa però che, nonostante tutto, intesseva una demonica lusinga dentro di lui e intorno a lui, come un’onda che gli veniva incontro, saliva in lui e lo sommergeva, corporea-incorporea, e lo invitava all’annientamento e all’annientamento universale, alla distruzione e alla distruzione universale, lo invitava ad abbandonare se stesso, a schernire se stesso, ad annientare se stesso, qualcosa che lo soffocava, lo strozzava, lo scuoteva tutto, e tuttavia gli prometteva la liberazione, così egli sentiva che tutto era pronto a fendersi, che tutto era pronto a distruggersi, sentiva la vicinanza del remoto, inesplorabile e caotico, questo sentiva, questo sapeva, questo voleva, in una rivolta quasi primordiale contro la fissità, contro il divenire concluso, contro l’involucro dello spazio limitato, contro il disarmonico, contro l’ancora esistente, ma nello stesso tempo anche contro il dolore che dimora al fondo di ogni gioco e di ogni bellezza, oh, era la lusinga di un orribile, primitivo piacere, era un orribile, titillante piacere, il titillamento della distruzione universale, della distruzione del mondo e dell’io, scosso dal piacere di un sapere ancora più grande e ancora più remoto, oh, un sentire e un capire dei sensi e dell’anima, era un sapere, anzi, era addirittura conoscenza, autoconoscenza, poiché dallo spazio della sua più profonda prescienza nel quale egli era immerso, gli giunse un’ultima rivelazione ed egli d’un tratto comprese che la distruzione della bellezza, non è che il nudo riso, egli comprese che il riso è la distruzione predestinata della bellezza dei mondi, che il riso fin dal principio accompagna la bellezza ed in lei per sempre dimora, che brilla in lei come sorriso ai confini irreali della lontananza suprema, ma da lei poi erompe come un ruggito al limite della sua durata, come una fragorosa, tonante rovina dei tempi, forza demonica che fa crollare l’universo, il riso, il nemico della bellezza dei mondi, disperato succedaneo della perduta fede nella conoscenza, fine della fuga nella bellezza e del gioco della bellezza; oh, dolore per il dolore, gioco col gioco, piacere nella negazione del piacere, raddoppiato dolore, raddoppiato gioco, raddoppiato piacere, il riso è sempre fuga dal rifugio, liberazione dal gioco, dal mondo, dalla conoscenza, è la distruzione del dolore del mondo, il titillamento dell’infinito nella gola virile, la frattura del rigido spazio della bellezza, che si spalanca in una mutezza indicibile, nella quale persino il nulla si perde, furibondo di non avere parole, furioso nel riso; e tuttavia divino:
perché
privilegio degli dèi e degli uomini è il riso,
a sua remota origine è il dio che ha riconosciuto se stesso,
e come muto presagio il riso è nato dalla sua prescienza,
dalla prescienza della sua distruttibilità,
dalla prescienza della distruttibilità del creato in cui
egli vive come creatura e come creatore,
e cresce in forza della conoscenza del mondo fino a
conoscere se stesso, rivolto
alla prescienza
donde ha origine il riso;
oh, nascita degli dèi e nascita dell'uomo, oh, morte degli
dèi e morte dell'uomo,
oh, l'inizio e la fine di entrambi sono per sempre
intrecciati l'uno nell'altra.
oh, il riso ha origine dalla consapevolezza che gli dèi non
sono divini,
da questa consapevolezza comune al dio ed all'uomo,
dall'inquieta ed inquietante zona della comunione
che demonicamente è tesa tra l'altro mondo e questo
mondo,
affinché in questa demonica zona della penombra
dio e uomo possano incontrarsi e se
è Giove che intona il riso nel coro virile degli dèi,
è l'uomo che lo suscita,
così come
nel cerchio dell'incessante riconoscimento, serio e giocoso
ad un tempo,
il riso dell'uomo è suscitato dal gesto dell'animale,
così come
il dio si ritrova nell'uomo e l'uomo nell'animale,
sicché l'animale viene innalzato dall'uomo alla dignità
del dio,
ma il dio ritorna nell'uomo attraverso l'animale,
dio e uomo uniti nel dolore, e tuttavia sopraffatti dal riso,
perché esso
è il gioco dell'improvvisa confusione di tutte le sfere, dal cui
fatale ordine
essi furono presi,
è il gioco della vicinanza primigenia improvvisamente
svelata,
il grande gioco della confusione delle sfere,
un gioco degli dèi, che, annientando la bellezza e negando
ogni ordine,
unisce e confonde l'una con l'altra la divinità creatrice e
la creaturalità
abbandonando ilare al caso,
ira ed orrore della sapiente dea-madre,
gioco e audacia del dio che si è liberato dalla conoscenza
e disprezza la conoscenza,
sommerso dal riso,
perché il gioco di una così improvvisa unificazione delle
sfere, senza che si sia resa necessaria la minima conoscen-
za,
la minima domanda o il minimo sforzo si compie
come spontaneo abbandono, come lieto e spensierato
abbandono al caso ed al tempo,
a ciò ch'era saputo eppur torna inatteso e,
se così dev'essere,
anche alla morte;
gioco che scaturisce dall'ignoto e gioco così grande, che
con la distruzione giocosa degli ultimi resti di legalità,
con la giocosa rovina degli ordinamenti, dei limiti e dei
legami,
con la rovina della fissità degli spazi e della loro bellezza,
con la rovina dello spazio e della bellezza
ha luogo una prima ed ultima inversione,
il rovesciamento
in una sconfinata assenza di conoscenza, in una indicibile
assenza di parola
in un vuoto senza legami-,
le separazioni precipitano l'una nell'altra,
la prescienza del dio si fonde con la prescienza dell'uomo
e crolla la loro comune creazione, mentre
la lontananza dei tempi infiniti si trasforma in una
immediata vicinanza e si schiude,
si schiude la lontananza degli evi del caos,
si schiude l'immagine del caos in un oblìo, che
non è accessibile nemmeno alla prescienza del dio,
si schiude in una indistinguibilità, nella quale
le cose reali e irreali,
vive e senza vita,
significanti ed orribili,
sono accoppiate nella medesima impensatezza,
si schiude il vuoto inimmaginabile
dove le stelle fluttuano sul fondo delle acque
e nessuna cosa potrebbe essere tanto lontana dall'altra
da non mostrarsi confusa nell'altra,
scherzosamente mutandosi nell'altra, condotta dal caso
a penetrar nell'altra e da questa sbocciare,
scherzose
le indistinguibili, casuali essenze del corso dei tempi,
greggi di dèi, di uomini, di animali, di piante, greggi di
stelle
dimoranti l'une nell'altre;
dischiuso il vuoto del riso,
dischiuso nel riso il sovvertimento dei mondi,
come se non ci fosse mai stato il patto della creazione,
quel giuramento con cui dio e uomo si sono impegnati
alla conoscenza, all'ordine creatore,
all'aiuto che è il dovere verso il dovere;
oh, è il riso del tradimento,
è il male e il disordine del caos,
questo è,
l'eredità non buona, il germe della distruzione nel riso
represso che fin dal principio è innato nella creazione, germe
inestirpabile, che appare già nel fondo del sereno sorriso,
con cui la creazione si manifesta nell'amabile grazia
della sua infanzia,
e nell'inesorabile, primigenio sapere, con cui
persino l'orrido giocando con la bellezza
si trasfigura in lontananza, nuda e incapace di ogni pietà,
e, oltre a ciò, al di là di ogni possibile lontananza,
appare alla superficie giocosa e terribile del vuoto, dove
la bellezza, raggiunto il confine dei tempi, si capovolge
e capovolge
il suo fondo più segreto e più intimo,
l'eternità informe del caos, innata nella bellezza
e continuamente rinata dalla bellezza,
dalla quale nasce, si rovescia e precipita
il riso,
il linguaggio del caos, —
perché nulla si era mutato, oh, nulla: eppure rigido nelle sue forme, muto, sprofondato nella cupola del cielo, il giuramento violato era in agguato e vi aleggiavano intorno le risa, eppure nell’intoccabile canto delle stelle che impregnava la terra di silenzio e si impregnava di silenzio terrestre, nel grande, immutato splendore del mondo, nel visibile e nell’invisibile, nella bellezza che si spegneva nel canto, stava tremante e teso in agguato, pronto ad erompere, come un titillare violento che soffocava il respiro, stava in agguato, tempestoso, il riso, fratello della bellezza, lusinga della distruzione, lusinga dell’interiorità e dell’esteriorità, e lo stringeva ed era dentro di lui, esprimendo orrore, comunicando orrore, il linguaggio del caos, il linguaggio in un’incomunicabilità per la quale non era mai esistita comunicazione, senza nome il suo spazio, senza nome le stelle nell’alto del cielo, senza nome, senza rapporto, senza espressione la solitudine nello spazio indicibile dove si confondono le sfere e dove ogni bellezza inevitabilmente svanisce, e alla vista di questa bellezza, ma già immerso nel nuovo spazio, febbricitante d’orrore lo spazio, febbricitante d’orrore egli stesso, si accorse che non era più possibile accedere alla realtà, che non c’era più ritorno né rinnovamento, ma ancora solo il riso che annientava la realtà, egli si accorse anzi che l’esistenza del mondo, compromessa da quelle risate, difficilmente possedeva ancora una qualche realtà, poiché era esclusa la risposta, eliminati il dovere della conoscenza e la grande speranza nella nonvanità del dovere, e non perché questo dovere fosse vano, bensì perché era superfluo nello spazio dell’immota bellezza, nello spazio della sua rovina, nello spazio del riso —; più malvagio, più maligno del sonno del gregge è il riso, nessuno ride in sogno, se non nel dolore, se non per la malvagità della crescente crudeltà della morte di cui la bellezza ci offre un’immagine così giocosa e illusoria, oh, nulla è così vicino alla malvagità, nulla le è più vicino del dio che cade in basso in un’apparente umanità, nulla le è più vicino dell’uomo che cade in alto in un’apparente divinità, entrambi spinti alla malvagità, alla perdizione, alla ferinità primigenia, entrambi giocando con la distruzione, con la demonica distruzione di se medesimi dalla quale sono divisi soltanto dallo spazio del caso, poiché il tempo nel suo incessante fluire, fa sì che tutto possa accadere ad ogni istante: entrambi ridenti di questa incertezza lasciata in balìa del caso, ridenti del rovesciamento improvviso in così incerto lasso di tempo, entrambi preda di un riso che gioisce della facilità del dovere incompiuto e del giuramento spezzato, solleticati dal caso, eccitati dal caso, ridenti dell’abolizione del divino e dell’umano nella inutilità di ogni conoscenza, ridenti di quell’empietà che è scaturita dalla malvagità della bellezza, ridenti della realtà di ogni cosa irreale, giubilanti, perché è spezzato il patto della creazione, folli nei loro gridi di gioia per la loro vittoria, per l’illusorio misfatto, il frutto del giuramento infranto. Ora egli comprendeva: quei tre, i tre vacillanti là sotto, erano stati i testimoni della violazione del giuramento.
Ed avevano deposto testimonianza contro di lui. Così si spiegava la loro necessità; a questo scopo erano venuti. E perciò egli aveva dovuto aspettarli. Erano comparsi in qualità di testimoni e di accusatori, imputandolo di correità nella loro colpa, perché egli era loro complice, aveva violato come loro il giuramento ed era altrettanto colpevole perché anche lui non sapeva nulla del giuramento che ora era stato infranto e continuava ad essere infranto, anche lui era stato da sempre dimentico del giuramento e del dovere, e con ciò anzi aveva aggravato la colpa malgrado la necessità per cui la sua vita, non diversamente dalla loro vita, aveva seguito la rotta voluta dal destino fino al punto del nuovo abbandono: di nuovo abbandonata era la creazione, di nuovo abbandonati dio e uomo, di nuovo abbandonati al caos, dove non esiste nascita e la vita e la morte sono egualmente condannate a non aver significato, perché solo dal patto giurato ha origine il dovere, solo dal patto giurato ha origine il significato, il significato universale dell’essere indissolubile dal dovere, e nulla resta di significativo quando, nell’oblio del dovere, il patto sia stato spezzato, quando sia stato infranto il giuramento che è il segreto, primo principio, il giuramento che debbono osservare gli dèi come gli uomini e che nessuno conosce, nessuno, tranne il dio ignoto, poiché da lui, il più misterioso di tutti i celesti, si parte ogni linguaggio per far ritorno in lui che è il custode del patto e della preghiera, il custode del dovere. Per attendere questo dio ignoto, il suo sguardo era stato costretto a volgersi nuovamente alla terra, per spiare l’arrivo di colui la cui parola redentrice — generata dal dovere e genitrice del dovere — doveva rinnovare e vivificare il linguaggio, doveva trasformarlo nel linguaggio di una comunità fondata sul giuramento, nella speranza che esso in tal modo potesse venir redento dall’ineffabilità in cui l’uomo — è questo il suo privilegio — l’ha fatto precipitare, nella speranza che potesse essere ancora una volta salvato dalla nebulosità della bellezza, dalla lacerazione del riso, dalla fitta selva dell’opacità in cui era stato sciupato, e fosse restituito alla sua dignità di strumento del patto. Era stata una vana speranza, e il mondo, ricaduto nel caos dove non c’è nascita e non c’è significato, il mondo, cinto dalle ombre immani di una morte che nessuna morte terrestre riesce a varcare, il mondo giaceva disteso dinanzi a lui, intessuto di bellezza e infranto dall’esplosione del riso, privo di ogni linguaggio e di ogni comunità, perché lui aveva tradito il patto; al posto del dio ignoto, al posto di colui che in sé avrebbe personificato il patto e il dovere, erano venuti i tre, i rappresentanti della negazione del dovere.
Il dovere, il dovere terrestre, il dovere di aiutare, il dovere di risvegliare; non c’è altro dovere, e lo stesso impegno dell’uomo verso la divinità e della divinità verso l’uomo è il dovere dell’aiuto. Ed egli che necessariamente e inevitabilmente era stato associato dal destino ai rappresentanti della negazione del dovere, anch’egli aveva eluso il dovere e aveva negato l’aiuto, e probabilmente la sua sobrietà non era che ribellione contro l’aiuto che gli veniva d’ogni parte e che egli riceveva senza gratitudine, anche in ciò simile alla plebe, che desidera sì doni d’ogni specie, ma che per la sua incapacità di soccorrere respinge ogni vero aiuto: chi fin da principio è caduto nello spergiuro, chi è cresciuto e vive in tane di pietra, chi in tal modo si sente in gola fin da principio la paura dello spergiuro, costui è fin dalla prima giovinezza troppo esperto, troppo disincantato, troppo gaudente, troppo beffardo per dare ancora valore a qualcosa che non prometta godimento immediato alla sua assopita cupidità, che non miri ad un laido accoppiamento al di fuori di qualsiasi legge e di qualsiasi freno, ovvero, se non proprio questo, che rechi almeno un vantaggio espresso in sesterzi; non aveva importanza se quelli là sotto avessero desiderato farina ed aglio e vino, o se altri bramassero i giochi del circo per stordire la loro paura in uno spettacolo cruento e così, ingannando se stessi e gli dèi in quel gioco omicida in bilico tra la bellezza e il riso, unità atroce ed orrenda di entrambi, offrire alle potenze celesti un illusorio sacrificio in riparazione del giuramento violato, non aveva importanza se con ciò intendessero chiedere un godimento o la benevolenza degli dèi: in tutti i casi non veniva chiesto il risveglio, non veniva chiesto l’aiuto, il vero aiuto, bensì solo il vantaggio, il mero vantaggio; e se l’imperatore voleva imporre ancora una volta ai senza legge il freno della legge, ecco che i giochi del circo, il vino e la farina erano semplicemente il prezzo che egli doveva pagare per la loro obbedienza. Eppure, stranamente imprevedibili, essi, oltre a obbedirgli, l’amavano, per quanto non amassero nessuno e non osservassero nessuna forma di comunità, fosse pure la non-comunità della plebe, dove, in mancanza di ogni conoscenza comune, nessuno ama il prossimo, nessuno lo aiuta, nessuno lo comprende, nessuno si fida dell’altro, nessuno ne ascolta la voce; è questa la non-comunità in cui la parola è muta, la non-comunità senza linguaggio degli individui isolati: e non solo perché per la loro beffata paura e la loro saccente diffidenza la conoscenza è assolutamente superflua, un mero gioco di parole che non dà né piacere o vantaggio ed è sciocco per giunta, sol che si trovino parole ancora più furbe, — e non solo perché in questo modo amore, aiuto, comprensione, fiducia e parola, condizionandosi a vicenda, si dissolvono tutti nel nulla, e non solo infine perché, di conseguenza, la pura contabilità sembra restare l’unico appiglio sicuro, ma anche perché nemmeno questo è per loro abbastanza sicuro, e per quanto grande sia la passione con cui si dedicano a contare sesterzi, difficilmente tuttavia riescono con ciò a placare la loro paura, poiché persino questo considerano futile e vano; e così questi disperati, si sentono spinti a un’ultima irrisione, anche se sempre scherzosa, come si conviene a gente esperta in ogni piacere, cioè all’irrisione di se stessi, e si scuotono tutti dal ridere, perché nulla può resistere alla più intima, segreta paura e persino ciò che è calcolabile non vuole parer loro sicuro e degno di fede se prima non hanno sputato sulla moneta, secondo l’opportuna formula magica; creduli di fronte al miracolo — in fondo, la loro qualità più umana e, in tutti i casi, la più gentile — erano increduli di fronte alla verità, e proprio questo li rendeva — essi che credevano di essere così calcolatori — affatto incalcolabili e imprevedibili, rendeva la barriera della loro paura assolutamente impenetrabile e, alla fine, del tutto inaccessibile. Se egli, secondo i progetti della sua giovinezza, si fosse avvicinato a loro in qualità di medico, essi avrebbero deriso e disprezzato il suo aiuto, ancorché gratuito, e gli avrebbero preferito una qualunque strega con le sue erbe; questo era il loro modo di vivere, così stavano le cose, e tra le ragioni che lo avevano spinto ad abbandonare la medicina per la poesia c’era anche questa, ma per quanto tali ragioni gli fossero allora sembrate plausibili, oggi era chiaro che erano state le premesse della sua discesa verso la plebe, era chiaro che egli non avrebbe mai dovuto abbandonare la scienza medica, e che il nonaiuto da essa prestato sarebbe stato più onorevole che le false speranze d’aiuto con le quali da allora egli aveva adornato la propria professione di poeta, sperando — contrariamente a ciò che la sua stessa coscienza gli diceva — che la forza della bellezza, che la virtù magica del canto avrebbero infine gettato un ponte oltre l’abisso della mutezza e dell’incomunicabilità ed avrebbero innalzato lui, il poeta, alla dignità di messaggero della conoscenza nella restaurata comunità degli uomini, sottraendolo alla volgarità della plebe e, appunto perciò, elevando con lui la stessa plebe, Orfeo eletto a guida dell’umanità. Ahimè, nemmeno Orfeo aveva raggiunto tanto, nemmeno lui nella sua immortale grandezza poteva giustificare sogni così superbi, vani ed ambiziosi e una così colpevole sopravvalutazione della poesia! È vero, molti aspetti della bellezza terrestre, una canzone, il mare al crepuscolo, gli accordi di una lira, la voce di un fanciullo, un verso, una scultura, una colonna, un giardino od un unico fiore, tutto questo possiede il dono divino di indurre l’uomo a tendere l’orecchio verso gli estremi confini della propria esistenza, e dunque non meraviglia il fatto che all’arte sublime di Orfeo sia stata assegnata la virtù di costringere i fiumi a deviare dal loro corso, di attirare e di incantare le fiere, di indurre gli animali mansueti in cammino verso i loro pascoli ad arrestarsi, sognanti ed incantati, colmi del sognante desiderio che è di tutte le forme dell’arte: il mondo sottomesso, in ascolto, pronto ad accogliere il canto e l’aiuto che ne scaturisce. Ciò nondimeno, non più a lungo del canto dura l’aiuto, non più a lungo del canto la sosta dell’attesa; e non è davvero lecito al canto di risonare troppo a lungo, perché i fiumi furtivamente non si riducano prima del tempo nel loro letto antico e gli animali della selva non tornino ad assalire le mandrie innocenti e l’uomo non precipiti nuovamente nella sua antica crudeltà, poiché non solo non esiste un’ebbrezza che duri a lungo, e nemmeno l’ebbrezza generata dalla bellezza; anche la mansuetudine, a cui l’uomo e gli animali si sono piegati, non è che una metà dell’ebbrezza generata dal bello, mentre l’altra metà — che non è la meno forte, che anzi di solito è di gran lunga la più forte — è quella della più maligna, esasperata crudeltà — proprio l’uomo più crudele ama accendersi d’entusiasmo per un fiore, — sicché la bellezza, e persino la bellezza dell’arte, perde assai presto la sua virtù, quando essa, dimentica del suo alterno equilibrio, si rivolge all’uomo con una sola delle due metà. L’arte, dovunque e comunque la si coltivi, segue sempre questa regola, che anzi è una delle virtù essenziali dell’artista e, molto spesso, anche se non sempre, dell’eroe: se il virtuoso Enea, come per un istante ci si poteva attendere, fosse rimasto così pietoso là dove, per un nascente senso di compassione o per un bell’effetto della tensione poetica, esitò, timoroso a colpire il suo nemico mortale, se non avesse preso miglior partito e se non si fosse deciso all’atto crudele, non sarebbe per nulla divenuto un esempio di mansuetudine degna di emulazione, bensì un personaggio noioso e per nulla eroico, che nessun poema avrebbe potuto ardire di cantare; si tratti di Enea, o di un qualunque altro eroe e delle sue imprese, ogni opera d’arte deve realizzare il grande equilibrio ai limiti della lontananza più remota, coglierne il simbolo ineffabile, il simbolo alato e sfuggente, il simbolo che non assume in sé i singoli contenuti, bensì sempre e soltanto le loro relazioni, perché soltanto per questa via è raggiungibile l’intento, perché soltanto nelle loro relazioni si ricompone l’equilibrio delle contraddizioni dell’essere, si fondono tutti gli impulsi contrastanti dell’anima umana — come potrebbe altrimenti l’arte venir creata e compresa dall’uomo? —, si fondono la mansuetudine e la crudeltà nell’equilibrato linguaggio della bellezza, nell’equilibrio simbolico tra l’io e l’universo, nell’ebbrezza incantata di un’unità che dura così a lungo come il canto, ma non più a lungo del canto. E non diverso doveva essere stato il caso di Orfeo e della sua poesia, poiché egli era stato un artista, un poeta, un incantatore delle creature in ascolto, il cantore come i suoi uditori egualmente presi dalla penombra, lui come loro demonicamente preso dalla bellezza, ed anche se era dotato di un dono divino, egli era tuttavia un messaggero di ebbrezza, ma non un redentore degli uomini — non poteva esserlo: perché la guida che porta la salvezza ha deposto il linguaggio della bellezza, è penetrato oltre la sua fredda superficie, oltre la superficie della poesia, ed è giunto alle parole semplici, alle parole che per la loro vicinanza alla morte e per la loro conoscenza della morte hanno conquistato la facoltà di battere alla chiusa porta dal prossimo, di placare la sua paura e la sua crudeltà, di renderlo accessibile al vero aiuto; si è inoltrato fino al linguaggio semplice della bontà immediata, al linguaggio dell’immediata, umana virtù, al linguaggio del risveglio. Non era stata questa la lingua che Orfeo aveva cercato, allorché, per cercare Euridice, si era avviato a discendere nel regno delle ombre? non era stato anche lui un disperato, un uomo che aveva riconosciuto l’impotenza dell’artista di fronte all’umano dovere? Oh, colui che è stato gettato dal destino nel carcere dell’arte, difficilmente riesce più ad evaderne; egli rimane chiuso all’interno del confine invalicabile presso il quale vive la remota realtà della bellezza, e se la sua forza è insufficiente, egli diventa per tale reclusione un vano sognatore, un ambizioso, un fallito; ma se è un vero artista, diventa un disperato, poiché egli ode il richiamo che echeggia al di là del confine e può soltanto fermarlo nella propria poesia, ma non seguirlo, paralizzato com’è dal divieto, egli resta un uomo che scrive al di qua del confine, ancorché egli abbia accettato il compito impostogli dalla Sibilla, ancorché, pio al pari di Enea, abbia proferito il suo giuramento e toccato con la sua mano il sublime altare della sacerdotessa.
— facile è il sentiero che discende nell’Ade, e sempre aperta tu trovi la porta di Plutone, ma difficile è il ritorno perché minacciato da oscure foreste, minacciato dalla corrente di Cocito, dalle sue sinuosità e dai suoi vortici, ed è questa un’impresa che riesce soltanto a coloro che, incoronati di virtù o nati da stirpe divina, sono graditi allo stesso Giove; ma tu, se il cuore, se l’altero tuo cuore desidera questo duplice viaggio oltre lo Stige, nell’orrido Tartaro, ascolta ciò che devi fare: sacro alla dea infernale, germoglia nella penombra della valle, nella selva più selvaggia, nel più fitto groviglio degli arbusti un aureo-splendente ramo con le foglie d’oro, e non ti sarà concesso di discendere nell’Ade se prima, in onor di Proserpina e secondo la sua volontà, non avrai strappato il germoglio fulgente dall’aurea fronda dell’albero, che eternamente si rinnova; questo piccolo ramo tu devi cercare, con attento sguardo, e se il destino ti è amico, potrai coglierlo, semplicemente estirpandolo con mano leggera; nel mentre non potresti strapparlo, se te lo vietasse il destino, né con la più forte violenza né col ferro tagliente, perché il destino impera nel mondo, il destino che ti riserba ancora un altro dovere, poi che prima d’ogni altra cosa il corpo insepolto di un tuo compagno che è morto, esigendo da te il sacrificio espiatorio, desidera avere una tomba; è suo diritto, questo, ed è tuo obbligo curarne le esequie —
—, dunque, il confine è aperto a colui, al quale, per la comune volontà del dio e del destino, spetta il sacro compito di adempiere l’estremo dovere, di prestare l’ultimo aiuto; ma colui al quale, per la medesima duplice volontà, spetta il compito dell’arte ed è stato condannato soltanto a sapere e a presagire, soltanto a scrivere e a dire, a costui non è concessa la purificazione in vita ed in morte, e lo stesso sepolcro non è altro per lui che una bella costruzione, una dimora terrestre per il suo corpo, non è né un’entrata né un’uscita, né l’entrata dell’immensa discesa, né l’uscita all’immenso ritorno; il destino gli nega l’aureo ramoscello della guida, il ramoscello della conoscenza, e perciò lo coglie la sentenza di Giove. Così anche lui era stato condannato a violare il giuramento e al tempo stesso a vivere nella dannazione dello spergiuro, e al suo sguardo, costretto a rivolgersi verso la terra, era stato lecito soltanto incontrare i tre vacillanti sul lastricato di pietra, i tre che erano venuti verso di lui, complici della violazione del giuramento, i tre messaggeri della sua condanna; al suo sguardo non era lecito penetrare più profondamente, sotto la superficie delle pietre, sotto la superficie del mondo, sotto quella del linguaggio, sotto quella dell’arte; gli era negata la discesa, e ancor più il ritorno titanico dalla profondità, quel ritorno in cui si conferma l’umano, negata gli era l’ascesa per il rinnovamento del patto della creazione, e se lo aveva sempre saputo, ora lo sapeva più chiaramente che mai di essere escluso, una volta per sempre, dall’aiuto del patto, dall’aiuto del redentore, perché l’aiuto del patto e l’aiuto dell’uomo si condizionano a vicenda e soltanto nel loro stretto accordo si adempie la missione del Titano, nato dalla terra e rivolto al cielo, che crea la comunità e fonda l’umanità, perché soltanto nell'umanità, perché soltanto nella vera comunità, che rispecchia la totalità degli uomini e che rispetta l’umanità, si compie il ciclo della divina domanda e della divina risposta, mentre ne restava escluso l’incapace all’aiuto, al dovere ed al patto, ne restava escluso lui, che si era escluso da sé dalla possibilità di dominare, realizzare, deificare l’essere umano; in verità, lo sapeva,
e sapeva anche che la stessa cosa deve valere per l’arte, che anche l’arte solo in tanto sussiste — oh, sussiste essa ancora? le è ancora lecito sussistere? — in quanto contiene il patto e la conoscenza, in quanto è umano destino e dominio dell’essere, in quanto si rinnova a contatto col compito e lo realizza chiamando l’anima al continuo dominio ' di se medesima e in tal modo obbligandola a scoprire l’uno dopo l’altro gli strati della sua realtà, a penetrare sempre più profondamente nel suo più segreto groviglio, e a discendere gradino per gradino fino alle oscurità irraggiungibili, e pur sempre intuite e pur sempre sapute, da cui ha origine l’io ed a cui l’io ritorna, le oscure regioni dove l’io diviene e si estingue, entrata ed uscita dell’anima, e al tempo stesso entrata ed uscita di tutto ciò che è la sua verità e le viene indicato dall’aureo, lucente ramoscello che addita la via, dall’aureo ramoscello della verità, celato nell’ombra oscura, che non può venir né trovato o spezzato con la violenza, perché la grazia del ritrovamento e la grazia della discesa è una sola, è la grazia della conoscenza che appartiene tanto all’anima che all’arte come la loro comune verità, come la loro comune conoscenza della realtà; in verità, egli lo sapeva, e così anche sapeva che in questa verità dimora il dovere di ogni arte, il dovere di trovare la verità nella conoscenza di se medesimi e di esprimerla, un dovere assegnato all’artista, affinché l’anima, conscia del grande equilibrio tra l’io e l’universo, si ritrovi nell’universo, affinché riconosca l’arricchimento raggiunto dall’io nella conoscenza di se medesimo quale accrescimento dell’essere nell’universo, nel mondo, anzi nella stessa umanità, e ancorché questo duplice sviluppo possa essere sempre e soltanto simbolico, legato fin dal principio alla simbolicità del bello e del confine della bellezza, ancorché dunque resti sempre e soltanto conoscenza simbolica, questa conoscenza, proprio in conseguenza della sua simbolicità, è tuttavia in grado, nonostante tutto, di allargare gli invalicabili confini dell’essere, e non soltanto allargarli nella novità delle fòrze, bensì anche nella novità dei contenuti reali, perché proprio nell’arte si apre il più profondo segreto della realtà, il segreto della corrispondenza, la vicendevole corrispondenza della realtà dell’io e della realtà del mondo, quella corrispondenza che presta al simbolo la sua tagliente esattezza e ne fa il simbolo della verità, la corrispondenza che genera la verità e dalla quale ha origine ogni creazione di realtà e che penetra oltre tutti gli strati fino alle irraggiungibili, tenebrose regioni del principio e della fine, fino all’inesplorabile divinità presente nell’universo, nel mondo e nell’anima degli uomini, fino a quell’ultima segreta divinità che — pronta a donare la rivelazione e il risveglio — è ovunque presente, persino nell’anima più abbietta; questa rivelazione del divino attraverso la conoscenza della propria anima è l’umano compito dell’arte, è il suo compito di umanità, il suo compito di conoscenza e appunto perciò il riconoscimento della sua autenticità, fondato sulla oscura vicinanza alla morte che le è imposta, perché solo in tale vicinanza essa può divenire arte autentica, perché solo così essa coincide con l’anima umana dischiusa nel simbolo; in verità, lo sapeva, ma egli sapeva anche che la bellezza del simbolo, sia pure del simbolo più rigoroso e più esatto, non deve mai essere fine a se stessa, perché quando ciò accade, l’arte viene attaccata alle sue radici e il suo atto creativo inevitabilmente si capovolge e la forza generatrice improvvisamente è sostituita dalla cosa generata, il contenuto dalla vuota forma, l’esattezza della conoscenza dalla mera bellezza, in una confusione perenne, in un perenne ciclo di promiscuità e di inversioni che, conchiuso in se stesso e perciò incapace di rinnovarsi, non può più ampliarsi, non può scoprire più nulla, né il divino nell’abiezione, né l’abiezione nella divinità dell’uomo, ma deve inebriarsi di forme vuote e di parole vuote, e priva così di discernimento, priva del religioso vincolo del patto, l’arte perde la sua dignità abbassandosi a non-arte, e la poesia abbassandosi a letteratura; in verità, lo sapeva, lo sapeva e ne soffriva intensamente,
e appunto perciò sapeva anche quali sono i pericoli di ogni attività artistica, appunto perciò sapeva qual è la solitudine dell’uomo destinato ad essere artista, una solitudine innata che lo spinge in quella ancor più profonda dell’arte e nel silenzio della bellezza, ed egli sapeva che i più falliscono per tale solitudine, diventano ciechi di solitudine, ciechi per il mondo, ciechi per il divino racchiuso nel mondo e negli uomini, sapeva che essi, inebriandosi di solitudine, riescono a vedere solo la propria somiglianza con la divinità, come se questa fosse una distinzione toccata a loro soltanto, e sapeva che essi fanno di questa idolatria di se medesimi, di questa avidità di essere riconosciuti e lodati, il contenuto sempre più esclusivo della loro opera, — tradimento della divinità e dell’arte, perché in questo modo l’opera d’arte che si fa opera della nonarte, si fa manto impudico di vanità, si fa superfluo ornamento, nella cui menzogna persino la nudità che l’artista mette in mostra con fatuo compiacimento, si deforma e diventa una maschera, ed anche se l’impudico compiacimento di questa non-arte, la sua vanità, la sua ricerca dell’effetto, la sua irrimediabile caducità e la sua irreparabile limitatezza, parla più facilmente agli uomini di quanto non possa la vera arte, tuttavia essa è soltanto una via ingannevole, un’evasione dalla solitudine, ma non l’adesione alla comunità degli uomini che è la mèta della vera arte e del suo più profondo anelito umano, no, è l’adesione alla volgarità della plebe ed al gregge del volgo che, incapace di stringere il patto e di osservarlo, non domina né crea alcuna realtà, né pretende di farlo, ma preferisce vegetare nell’oblìo della realtà, perdere la realtà, proprio come la falsa arte e la falsa letteratura, che è il più intimo e profondo pericolo di ogni artista; oh, quanto era doloroso saperlo,
ed egli per questo sapeva anche che il pericolo della falsa arte e della falsa letteratura lo aveva insidiato da sempre e ancora lo insidiava, sapeva perciò che egli — anche se non aveva mai osato ammetterlo onestamente — non poteva più chiamare arte la sua poesia, poiché essa, incapace di rinnovarsi e di espandersi, altro non era stata che genesi di impura bellezza senza creazione di realtà: e dal principio alla fine, dal canto dell’Etna fino all’Eneide, aveva servito esclusivamente alla bellezza paga di se medesima, limitata ad abbellire idee, nozioni e vecchie forme già note, senza un vero, intimo progresso, se non quello di uno splendore e di una pompa sempre crescente, una arte mancata che non era stata mai in grado di dominare l’essere e di innalzarlo a reale simbolo. Oh, nella propria vita, nella propria opera egli aveva provato la lusinga della falsa arte e la lusinga della confusione che scambia la forza creatrice con la cosa generata, il gioco con la comunione, la fissità con la viva e operosa creazione, la bellezza con la conoscenza; egli conosceva questa confusione e questo capovolgimento, e tanto meglio lo conosceva, quanto era stato anche quello del cammino della sua vita, del cammino della perdizione, che lo aveva condotto dalla terra natale in una grande città, dal lavoro operoso alla ingannevole retorica, dal dovere dell’umanità e della responsabilità ad una menzognera compassione che considera le cose dall’alto in basso e non si risolve a porgere un aiuto concreto quasi fosse portata da una lettiga, lungo un cammino che dalla comunità, condizionata dalla legge, conduce verso il basso, verso l’isolamento affidato alle mani del caso, un cammino, anzi, un precipizio che trascina nella volgarità della plebe e là dove è più empia; nel mestiere del letterato! Benché raramente se ne fosse accorto, aveva dovuto soccombere sempre all’ebbrezza, comunque gli si offrisse, sia come bellezza che come vanità, sia come virtuosismo che come giocoso oblìo; e solo questo aveva determinato la sua vita, quasi essa fosse stata avvinta dalle viscide spire di un serpente, vertiginosa l’ebbrezza dell’incessante inversione, la lusinghiera ebbrezza della negazione dell’arte; ed anche se ora che guardava alla sua vita passata e ne provava vergogna, ora, che era stato raggiunto il confine del tempo ed imminente era la fine del gioco, egli doveva dire a se stesso che aveva condotto un’indegna e misera vita di letterato, non certo migliore di quello di un Bavio o di un Mevio o di un qualunque altro vano, spregevole parolaio; ed anche se ora, anzitutto ciò gli rivelava che in ogni disprezzo si nasconde anche non poco disprezzo verso se stessi, poiché questo sentimento ora saliva in lui e lo sconvolgeva infondendogli acuto dolore e insieme vergogna, a tal punto che non v’era ormai che un’unica soluzione accettabile e desiderabile e cioè l’annientamento di se stesso e la morte, tuttavia, ciò che lo aveva sopraffatto era qualcosa di diverso dalla vergogna, era più che vergogna: colui che, uscito dall’ebbrezza, si volge indietro a guardare la sua vita e riconosce come necessario e inevitabile, anzi, naturale ogni passo da lui compiuto sulla falsa via, colui che riconosce che il suo tortuoso errare gli è stato imposto dalla forza del destino e dalla forza degli dèi e che perciò egli è fermo e, nonostante i suoi sforzi, perduto nella selva delle immagini, del linguaggio, delle parole e dei suoni — prescritto dal destino il suo smarrimento tra i rami dell’interiorità e dell’esteriorità, proibita dal destino e dagli dèi la speranza di chi è senza guida, la speranza dell’aureo, splendente ramoscello nella selva delle mura del carcere, — colui che ha riconosciuto questo, che riconosce questo, è ancor più preso dalla vergogna, è colmo d’orrore, perché riconosce che per i celesti ogni accadimento si compie nella contemporaneità e che appunto perciò la volontà di Giove e quella del destino si erano potute congiungere sulla terra manifestandosi in una terribile contemporaneità come indissolubile unità di colpa e di castigo. Oh, virtuoso è soltanto colui che il destino ha eletto per l’adempimento di un dovere a sostegno e in aiuto della comunità, soltanto costui viene scelto da Giove perché il destino lo conduca fuori dalla fitta boscaglia; ma se Giove e il destino non concedono l’adempimento del dovere, allora l’incapacità di adempierlo e la poca volontà di adempierlo assumono ai loro occhi lo stesso valore, e l’una e l’altra mancanza essi puniscono con la privazione dell’aiuto: incapace d’aiuto, riluttante all’aiuto, privo d’aiuto nella comunità, schivo della comunità e rinchiuso nel carcere dell’arte è il poeta, privo di guida e incapace di guida nel suo abbandono, e se egli volesse ribellarsi, se nonostante tutto volesse diventare un uomo che porta aiuto e risveglio nella penombra, per ritrovare in tal modo la via che riconduce al patto ed alla comunità, questa sua aspirazione — oh, perché egli se ne rendesse conto, perché ne sentisse orrore e vergogna, gli erano stati inviati i tre! — sarebbe in partenza condannata al naufragio; il suo aiuto sarebbe un aiuto apparente, le sue cognizioni, cognizioni apparenti, e ammesso che fossero accettate dagli uomini, sarebbero per loro sempre una falsa guida, apportatrice di perdizione, lontana da ogni salvezza, che in nessun modo additerebbe la vera via. Sì, questo era il risultato: l’uomo privo di conoscenza si era fatto apportatore di conoscenza per coloro che non sono disposti a riceverla, il parolaio si era fatto suscitatore del linguaggio per i muti, l’uomo dimentico del dovere si era proposto di insegnare il dovere a coloro che l’ignorano, lo storpio si era fatto maestro degli uomini barcollanti.
Abbandonato egli era, ancora una volta, abbandonato in un mondo nuovamente abbandonato, oh, nessuna mano più lo sorreggeva, non c’era più nulla che gli offrisse un rifugio, che lo tenesse in piedi; lo si era lasciato cadere, e così, spezzato e abbandonato sul parapetto della finestra, aggrappandosi esanime agli esanimi mattoni, polverosi e caldi, sentendo sotto le unghie la polvere di questa surriscaldata argilla originaria, aggrappandosi all’irrigidito, originario elemento terrestre, egli udiva intorno a sé il muto riso nascosto di quelle pietre calde, in quelle irrigidite figure del silenzio notturno, udiva in esso il silenzio del giuramento infranto, il duro silenzio di una colpa spogliata di parola, di conoscenza e memoria, il silenzio del caos e della sua crudele, sempre crescente morte, per la cui assolutezza non può esservi rinnovamento e rinascita della creazione, perché la morte che essa impone non conosce alcunché di divino: oh, nessun’altra creatura è così incondizionatamente e così poco divinamente mortale quanto lo è l’uomo, perché nessun’altra creatura può farsi spergiura come l’uomo, e quanto più abbietto si fa l’uomo, tanto più si fa mortale, ma sopra tutti spergiuro e mortale è colui, il cui piede si è disabituato alla terra e sfiora ancor solo il lastrico di pietra, l’uomo che più non ara né semina, per il quale più nulla si compie secondo il giro delle stelle, l’uomo che non ascolta più il canto del bosco e delle verdeggianti campagne; in verità nessuna creatura, nessuna cosa è così mortale come la plebe di una grande città, che striscia coi suoi passi obliqui lungo le strade, simile a un brulicare di insetti, e continuamente barcolla e non sa più camminare, non sostenuta più da nessuna legge, senza più fede in nessuna legge, gregge nuovamente disperso, che ha perduto la saggezza d’un tempo, riluttante alla conoscenza, ferina, anzi, subferina, preda del caso ed infine nemmeno più del caso, senza memoria, senza speranza, senza immortalità; e la medesima sorte era stata destinata anche a lui insieme con lo smarrito gregge della plebe di cui egli rappresentava soltanto un frammento, la medesima sorte gli era stata imposta, inevitabilmente, dalla necessità, dal destino. Aveva lasciato alle proprie spalle le regioni del terrore, ma solo per rendersi conto, con raccapriccio, di essere precipitato nella volgarità della plebe, precipitato su una superficie che non permetteva l’accesso a nessuna profondità: sarebbe ancora continuata la sua caduta, doveva continuare ancora? di superficie in superficie giù fino all’ultima, fino a quella del puro nulla? fino alla superficie dell’ultimo oblio? Sempre aperte sono le porte di Plutone, inevitabile è il precipitare laggiù donde non c’è ritorno, e nell’ebbrezza della caduta l’uomo pensa di cader verso l’alto, lo pensa fino a quel punto in cui l’atemporalità degli accadimenti celesti si rivela improvvisamente come coincidenza e contemporaneità nel regno terrestre, fino a quel limite del tempo dove egli incontra il dio spodestato, che lo raggiunge, lo supera e, cinto ed avvolto dalle risa dei tempi infiniti, precipita anch’egli verso il basso entrambi scagliati nella medesima delusione, nel medesimo abbandono, in preda a un orrore che, certo, esprime nel riso la sua fiera e ostinata vergogna, ma nel medesimo tempo ha pure il presagio di un orrore futuro, ancora più orribile, e vuole perciò allontanarlo e cancellarlo col riso: il viaggio precipitoso, sospinto dal destino, andava verso un orrore ancora più nudo, verso una vergogna ancora più nuda, verso uno smascheramento ancora più nudo e cadeva in una nuova distruzione ed autodistruzione, peggiore di tutte le precedenti, in un nuovo isolamento che doveva vincere tutta la precedente solitudine, tutta la solitudine della notte, tutta la solitudine del mondo, ove si è abbandonati non solo da tutti gli uomini, ma da tutte le cose; la vuota superficie dell’essere invincibile si era scoperta all’improvviso, e nell’insufficienza delle sfere dell’interiorità e dell’esteriorità la notte, benché risplendesse immutata nel colmo cerchio della sua oscurità, si era dissolta in un vuoto nulla, dove tutto era abbandonato al caso e la conoscenza e il sapere, superflui ormai, si dissolvevano nell’inutilità. Erano sparite la memoria e la speranza di fronte alla violenza del caso invincibile, perché era questo, che si mostrava presente nel tutto, il caso ineluttabile che domina il caos; e avvolto da tutta l’ebbrezza e dall’oblìo del caos, cinto dalle fulgenti, fredde fiamme della pre-creazione, che non conoscono nascita e morte, il caso, il nudo caso, che è la più indicibile delle solitudini, rivendicava il suo diritto a regnare, — questa era la mèta del suo viaggio, la mèta, ora visibile, della sua caduta: l’indicibile. L’estrema, indicibile solitudine del caso, ecco, la vedeva dinanzi a sé, qui alla finestra, pronto a precipitare, anzi già precipitando. La notte, indomita ed indomabile nel suo abbandono, si era dischiusa dinanzi al suo sguardo febbricitante, immutata ed immobile e tuttavia estranea, sfiorata dall’alito soave e duro a un tempo della luna; immutata ed immobile era attraversata dolcemente dal fiume della Via Lattea, si era inabissata nel silenzioso canto delle stelle, nella bellezza e nell’incantata unità del suo incantesimo, nell’unità dileguante e sospesa del mondo divenuto bellezza, e della sua fissa irrigidita lontananza; e bella, la notte, nello spazio, rigida nello spazio, grande nello spazio come questa lontananza suprema e come questa lontananza suprema trasformata in estraneità per la virtù di un demonico incantesimo, veniva trasportata via, con essa, attraverso i tempi — notte e tuttavia immortalità all’interno del tempo, — simile an-ch’essa ai tempi infiniti e tuttavia priva di eternità, divenuta estranea ad ogni umanità ed all’anima umana, poiché la silenziosa unificazione che si colmava di lontananza e colmava le cose di lontananza non permetteva più nessuna specie di partecipazione; l’atrio della realtà si era trasformato nell’atrio dell’irrealtà. Spenti erano gli ordinamenti delle sfere dell’essere, il loro spazio d’argento, muto di risonanze, taceva, chiuso, estraniato da una suprema incomprensibilità, celando in se medesimo l’estraneità suprema e impenetrabile di ogni atto umano; e luna, Via Lattea, costellazioni non avevano più nome, gli erano ignote e inaccessibili, in una segregazione che era insuperabile, invalicabile, e tuttavia pesava su di lui, soggiogante minaccia, limpida ed infocata, la surriscaldata freddezza dello spazio dei mondi; ciò che era intorno a lui, non lo circondava più; ed egli, benché fosse cinto dall’antro notturno, ne restava escluso, separato dal destino, così dal proprio destino come da quello degli altri, separato dal destino del mondo invisibile e visibile, separato da ogni cosa umana e divina, separato dalla conoscenza e dalla bellezza, perché anche la bellezza del mondo era svanita nell’ineffabile e quasi non era più nemmeno memoria.
— oh, Plozia, conosco ancora il tuo nome? nei tuoi capelli dimorava la notte disseminata di stelle, presaga nella nostalgia, promessa di luce, ed io, chino sul suo volto notturno, ebbro del dolce sfavillante respiro della notte, non mi sono inabissato in lei! oh, perduto essere, la più familiare estraneità, la familiarità più estranea, tu, la più lontana vicinanza, la più vicina di tutte le lontananze, primo ed ultimo sorriso dell’anima nella sua severità, tu, oh tu, che sei e che eri tutto, familiare ed estranea, sorriso vicino e lontano, tu, fiore che in sé chiude il destino, non ho potuto far penetrare in me la tua vita per quella sua troppo greve lontananza, per quella sua troppo greve estraneità, per quella sua troppo greve vicinanza e familiarità, per quel suo notturno, troppo greve sorriso, per il destino, per il destino che portavi in te stessa e che porterai sempre in te stessa, irraggiungibile per te, irraggiungibile per me, per il tuo destino che non potei prendere su di me, poiché la sua troppo greve irraggiungibilità avrebbe infranto il mio cuore, ed io ho visto soltanto la tua bellezza, non la tua vita! oh, tu che esitante ti sei allontanata così presto, tu che non ho richiamato e che avesti in dono la grazia della nostalgia, tu che mi fu concesso di richiamare, tu, passo che più non torna, ahimè, così lieve passo nel mondo inesplorabile, nel mondo a cui è vano porgere ascolto, tu, raggio perduto nell’ombra, dov’è il tuo ritorno? tu dove sei?! tu eri; e mi lasciasti l’anello del tuo dito, lo mettesti nella mia mano; ed era, Plozia, non lo so più, era il tempo che ci chiudeva nell’oscurità, il tempo che è chiuso nell'oscurità, che chiude nell’oscurità, il tempo che passa via col suo fremito lontano —
— ciò che era svanito, era appena un ricordo; era appena un ricordo ciò che una volta era stato reale e più che reale; la donna che egli aveva amata era appena un nome, appena un raggio, appena un’ombra, era tornata a inabissarsi nell’inesplorabile, e non era rimasta che la stupita coscienza di un fatto, di un suono che si era spento, della musica spenta della bellezza, di un passato stupore, di un passato oblio inspiegabilmente possente, e verso quell’oggetto obliato egli si era rivolto, cercando di riprenderlo, con la stupita ostinazione di chi cerca l’ebbrezza; oh, nello stesso ricordo egli era stupito che tutto ciò fosse stato reale, stupito che la bellezza avesse fatto sentire la sua musica, che fosse riuscita a farla sentire, che immersa nel viso umano come un vapore leggero, nato dall’eternità, esalato dall’eternità, tornasse sempre a risplendere da quel viso umano, come un fulgore che è lontano e insieme familiare, vicino e insieme estraneo, che sorride come la notte e svanisce, destinato ad appassire come un bianco ligustro, il velo delicato della morte, che si distende su tutte le cose umane, il velo dell’umanità che si addensa nella bellezza e tuttavia nello stesso tempo in lei si fa trasparente, come se in tal modo lo stesso oblio fosse dolcemente penetrato nell’anima, come se l’anima per la sua terrestre immortalità si fosse obliata nella bellezza giungendo al puro oblio della bellezza, come se nell’umana bellezza si aprisse un ultimo fulgore di quella speranza da tempo smascherata, di quella speranza che si rivolge all’impenetrabile, irraggiungibile segreto della morte: non era stato nulla di questo, solo la morte indomabile stava dietro la figura che ritornava sempre, dolce da morire, solo la morte si innalzava indomita, grande in tutta la sua statura, si innalzava nell’immensità, eretta fino alle stelle, colmava le sfere, univa le sfere, e insieme con la morte, evocato dalla sua mutezza, mosso da quella mutezza, colmando quella mutezza, essendo quella stessa mutezza, si innalzava muto il susurro della morte, si innalzava muto il susurro di ciò che è abbracciato dalla morte, di ciò che è preda della morte, di ciò che è nato dal caso ed è prigioniero del caso, il susurro della molteplicità delle figure umane votate alla morte; si erano moltiplicate le figure degli zoppi, dei grassi, dei ciarloni e dei litigiosi, si erano moltiplicate in un brulichio così fitto di figure, che il vuoto recipiente di pietra della piazza ne traboccava, e questa molteplicità di figure penetrava in tutti gli spazi delle sfere, certo senza mutare il vuoto della piazza, senza mutare il vuoto degli spazi, ma così fitto che pareva che il tempo stesso si fosse spezzato ed aperto e se ne riversasse ora il gregge dei morti uniti nella contemporaneità, tutta la terrena, umana molteplicità, l’uomo terrestre nel molteplice ciclo delle sue trasformazioni, insieme col suo scheletro e il suo cranio, con il suo cranio rotondo o piatto o cupoliforme, con i capelli lanosi od irsuti o stopposi, senza capelli o coi capelli arruffati, cranio accanto a cranio, l’uomo munito di cranio con la molteplicità dei suoi visi, in cui vi era tutto il regno animale, vegetale o minerale, visi stranamente rivestiti di pelle, pelle liscia, pustolosa o grinzosa, imbottiti di carne o avvizziti, l’uomo dalla mascella atta a masticare e a parlare, con la caverna del viso occupata dai denti di pietra, l’uomo munito di viso, con i molteplici odori della sua pelle e delle sue cavità, col suo sorriso scaltro o imbecille, ringhioso o impotente, che persino nell’estrema abiezione è commovente e divino e che gli apre il volto prima che il riso glielo richiuda, affinché il suo occhio non veda la disumanità dello sfacelo della creazione, l’uomo che ha avuto in dono la grazia dell’occhio, che esprime nell’occhio la grandezza, la fissità, la limpidezza cristallina, l’oscurità, la vita, che svela nell’occhio il proprio destino, che nasconde nell’occhio se stesso, l’uomo che porta il destino e che il destino condanna alla vergogna proprio in virtù della capacità dei suoi occhi, l’uomo colmo di vergogna e tuttavia parlante con la sua voce umida e spudorata, diretta dalla mascella, dalla lingua e dalle labbra, voce che porta il respiro, che porta la parola, che porta la comunicazione e che prorompe da lui roca, grassa, adulatrice, rimbombante, agile, lenta, ansante, secca, gracidante, canina, e pur sempre capace di illuminarsi nel canto, l’uomo, questa mirabile, orrida opera di essenza anatomica, lingua, espressione, conoscenza e ignoranza, ottuso sopore, avidità, brame ed enigmi, questo essere completo, diviso in organi, zone vitali, sostanze, atomi, moltiplicato all’infinito, tutta questa molteplicità, questo, garbuglio di parti umane che a malapena si possono dire connesse, questo groviglio di creaturalità, terrestre nella sua realtà come il suo scheletro di pietra e come lo scheletro della morte, tutta questa sterpaglia di corpi, di membra, di occhi, di voci, questa boscaglia quasi informe e incompiuta di creature nate da una fregola fortuita e che continuano a germogliare l’una dall’altra, accoppiate in una fregola che sempre si rinnova, creature che si mescolano, si fottono, si intrecciano, si ramificano senza fine, per poi senza fine disseccarsi e morire, sicché cade a terra ciò che è morto, inaridito e appassito, questa selva umana vivente e votata alla morte come gli animali e le piante, tutto ora era rifluito nell’immagine della morte, si era innalzato insieme con la morte, con il suo susurro, il suo strepito e la sua mutezza, era la morte stessa che colmava le sfere, l’umano caos del caso, così fortuito e così mortale, che a mala pena sappiamo se colui, che casualmente ci appare come creatura vivente, non sia in realtà già morto in passato oppure non sia nemmeno ancor nato: morto ancor prima di nascere, — Plozia, oh Plozia, non mai trovata, introvabile! Oh, per lui ella era introvabile nella selva dei morti, per lui era ricaduta ancora una volta nella desolazione sotterranea, e la sua comunione con lei era minore che con una morta, poiché egli stesso era morto, caduto nel caos che è preludio alla morte, caduto nello spergiuro, caduto in un incedere sciancato e distorto, caduto ancora una volta nella desolazione di una letteratura degna della plebaglia cittadina che inserisce persino la morte nel falso cammino delle sue ingannevoli inversioni, mescolando la morte con la bellezza e la bellezza con la morte, per raggiungere con questa identificazione impudica ed avida di dissoluzione ciò che non è dato raggiungere, per illudersi di possedere quella conoscenza della morte cui è vano porgere ascolto, ma anche per estendere persino all’amore il godimento di simili equivoci, anzi, per toccare nell’amore il culmine di tale gioco impudico; perché colui che è incapace di amare, colui che è incapace di creare la comunione dell’amore, per uscire dall’isolamento e dall'incomunicabilità deve salvarsi nella bellezza, e il titillamento crudele a cui è sottoposto lo spinge a cercare la bellezza, a idolatrare la bellezza, non mai ad amare, bensì ad osservare la bellezza nell’amore; egli diventa un uomo che vuole generare l’amore attraverso la bellezza, perché scambia la creatura generata con la forza generatrice, perché anche nell’amore ha il segreto presentimento dell’ebbrezza, dell’ebbrezza della morte, della bellezza e dell’oblio, perché nel crepuscolare abisso del gioco della bellezza e della morte egli si procura il piacere di questo oblio, dimenticando di buon grado e di proposito che l’amore, anche se ha avuto in dono la grazia di creare il bello, non si indirizza mai alla bellezza, bensì unicamente e soltanto al proprio compito originario, al più umano di tutti i compiti, che sempre ed esclusivamente si chiama prendere-il-destino-su-di-sé; oh, questo solo è l’amore, ma i morti non conoscono alcuna comunità, si sono dimenticati l’uno dell’altro —
— oh, Plozia! indimenticabile, non dimenticata! cinta di fluente bellezza! oh, se ci fosse amore, se nella selva umana ci fosse la forza chiarificatrice dell’amore, allora potremmo trovare insieme il ramoscello d’oro e discendere insieme alla sorgente del nulla dell’oblio, all’estrema, fredda tranquillità del mondo sotterraneo, discendere — noi stessi in una fredda tranquillità senza sogni — giù al fondo originario, senza passare per la bella porta eburnea del sogno che non concede ritorno, per il corneo ingresso, che ci permette di risalire insieme, portando con noi nell’estremo annullamento del destino, il nuovo destino, dall’estremo non-amore, l’amore, portando con noi il destino nuovamente creato, il destino nel suo divenire! oh, Plozia, anima di fanciulla eppure non più fanciulla! solo il destino nel suo divenire, non il destino che è divenuto, possiamo prendere su di noi, soltanto ciò che diviene è la realtà dell’amore, che cerchiamo in tutti i germogli della primavera, in ogni stelo d’erba, in ogni fiore, in ogni fresca, crescente creatura, ma soprattutto nella creatura fanciulla per la quale amiamo tutto ciò che è intatto accogliendo un destino che è pronto a prendere forma e tuttavia non si è ancora dischiuso, accogliendo il divenire nel divenuto, accogliendo il fanciullo nella vigorosa forma dell’uomo; oh, Plozia, è il diveniente destino, è questo il destino che ci sarebbe assegnato se ci fosse l’amore, se la sua forza chiarificatrice, sottratta ad ogni piacere fortuito, potesse garantirci la più vera certezza d’amore, e lo stesso destino sarebbe l’amore, sarebbe l’amore nel suo divenire e nel suo essere, come discesa nell’oblio più profondo e come ascesa nell’universo della memoria, l’amore come un dissolversi nel nulla e un ritorno nella sfera dell’eternamente eguale, sarebbe l’amore come stelo e fiore e fanciullo, così immutato, come stelo e fiore e fanciullo lo sono sempre stati, anche se trasformati in amore, rischiarati dal raggio dell’aureo ramoscello dell’amore, dal ramoscello introvabile —
— oh, nessun aureo ramoscello illumina i morti che non hanno comunità e si sono dimenticati l’uno dell’altro, e la figura di Plozia, l'inobliato e ad un tempo obliato essere di Plozia che in passato era stato per lui una luce dietro a tutte le ombre, era ora svanito tra le ombre, si era fatto indistinguibile nel regno delle ombre, si era inabissato in mezzo al brulicare dei morti, una parte e nemmeno una parte nella folla dei morti, nella folla dei visi, dei crani, delle figure; e tutte queste figure, erano per lui indistinguibili, senza nome, come svanite e dissolte, poiché erano state per lui figure morte fin dal principio, poiché neppure per i viventi egli aveva voluto essere veramente l’aiuto, anzi — condannato dagli dèi e dal destino a questo non-volere, innocente e nonostante tutto colpevole — soltanto egli aveva impiegato un’intera vita per il primo, inattuato tentativo di aiuto, per il primo passo non compiuto, per il primo, inattuato accenno di tale passo, incapace di inserirsi in una qualunque vivente comunità, e a maggior ragione, incapace a tal fine di prendere su di sé il destino di una qualunque creatura, oh, egli aveva impiegato una vita nella non-comunità dei morti, egli era sempre e soltanto vissuto con i morti e similmente aveva contato i vivi nel numero dei morti, egli aveva veduto gli uomini sempre e soltanto come se fossero morti, li aveva considerati sempre e soltanto come pietre per esigere e produrre una bellezza irrigidita nella morte, e perciò gli uomini gli erano sfuggiti tutti insieme nello spazio della vita non vissuta e del compito non compiuto, ove non esiste né conoscenza né creazione. Perché soltanto nei compiti che l’uomo umanamente prende su di sé, riposa anche la sua salvezza nella conoscenza, e se egli non ha nessun compito, anche tale salvezza è perduta. Incapace di un aiuto attivo, incapace di un atto d’amore, aveva contemplato indifferente le pene degli uomini; egli aveva considerato la terribilità delle umane vicende unicamente per amore di una memoria che era ormai solo impurità, unicamente per amor dell’impudica, bella osservazione, e appunto perciò non gli era mai riuscito di raffigurare esseri veramente umani, esseri che mangiano e bevono, che amano e possono essere amati, e ancor meno, in verità, esseri di quella specie, che passano per le strade zoppicando e imprecando: non aveva saputo raffigurarli, nella loro bestialità e nel loro immenso bisogno di aiuto e meno che mai aveva saputo rappresentare quel miracoloso dono dell’umanità, che è concesso persino alla loro bestialità; gli uomini non avevano per lui nessun significato, erano solo personaggi di favola, attori della bellezza rivestiti di bellezza, e come tali li aveva disegnati, come re, eroi, e pastori da favola, creature di sogno, del cui aspetto divino, irreale e trasognato egli stesso, simile anche in questo alla plebe, volentieri avrebbe partecipato e forse anche avrebbe potuto partecipare, se esse fossero state veramente apparizioni del sogno; la realtà però era assai diversa: esse erano soltanto immagini intessute di parole, vive solo nei suoi versi, morte tuttavia non appena avessero girato il primo angolo, emerse dall’oscuro groviglio delle parole e di nuovo ricadute in una casualità senza amore, ricadute nella fissità, nella morte, nella mutezza, nell’irrealtà, esattamente come quei tre che ora erano spariti per sempre. E dalla parte dove erano scomparsi rintronava, quasi volesse far esplodere il mondo, la maligna mutezza del riso beffardo che li aveva attraversati scuotendoli tutti, rintronava come un secondo, maligno silenzio attraverso il silenzio della piazza e dei vicoli, rintronava attraverso il silenzio della notte, come se fosse nato dal caso, colmo di estraneità, per fender lo spazio ed abolire lo spazio, anche se non poteva certo abolire il tempo, il riso del giuramento violato, il muto rintronare della creazione abbandonata e distrutta.
Nulla era rimasto se non la vergogna accecata di sarcasmo di una spenta memoria, di una memoria morta e ingannevole, divenuta impurità. I fuochi del cielo, non più suscitati da alcuna fiamma terrestre si erano spenti in un silenzio senza nome; taceva il centro dell’universo, chiuso dalle lastre di pietra delle città che s’erano fuse con gli estremi confini, ventilate dal freddo alito del nulla, ed ora si irrigidiva anche la fluente contemporaneità in cui riposa l’eterno: guai a chi si abbandona alle ingannevoli sinuosità della falsa via, che danno l’illusione del grande cerchio in cui il passato e il futuro devono unirsi nell’eterno presente dell’atemporalità; guai a chi si abbandona alla tortuosa via dello spergiuro, a questa apparente eternità, che è l’essenza di ogni ebbrezza, e che per il mantenimento di questo diletto deve continuamente confondere la cosa generata con la forza generatrice, assetata di bellezza, di sangue e di morte, sicché il sacrificio si corrompe nella menzogna di una cupida ebbrezza; guai a chi si abbandona all’impura vanità di una memoria per la quale non c’è mai stata realtà e che ricorda semplicemente per puro amore del ricordo; guai a chi si abbandona a questa inversione dell’essere, perché il patto non si può più rinnovare, la fiamma non può più essere ridestata, il gioco è destinato a fallire ed effettivamente fallisce, e per quanta bellezza, per quanto sangue, per quanta morte sia esso costato, rimane inutile e senza efficacia a quel punto limite, alla svolta dei tempi in cui la terrestre infinità si dilania — in verità, finché l’atto del sacrificio non sia di nuovo un vero sacrificio, la perdizione è inevitabile, non c’è risveglio dal torpido sonno, e preso nel cerchio del male il superbo resta incarcerato una volta per sempre, poiché ritiene di poter trascurare il suo giuramento e di poter considerare l’affascinante contemporaneità del mondo interiore e del mondo esteriore, il flusso e il riflusso del cosmo, il seducente aspetto dei confini dell’universo incoronato di bellezza come un consenso ad attuare quell'ingannevole inversione che è tanto quella dell’uomo inebriato del ricordo quanto quella dell’uomo inebriato dell’oblio e che in entrambi parimenti significa perdita della realtà; guai a chi si è inebriato, a chi, ostinandosi nella sua presunzione, persevera nella violazione del giuramento e, inondato o non inondato di memoria, dimentica la sua umanità, poiché egli ha perduto il fiammeggiante centro dell’essere e non sa più se sta precipitando in alto od in basso, se sta guardando in avanti o all'indietro, il cerchio del suo cammino è senza meta e il suo capo è girato sulla nuca, immoto e ridicolo. Non si possono risvegliare i morti, non era possibile risvegliare la morta, lo spazio dell’oblio si era richiuso sopra di lei, simile ad un’onda grigia, ed era come se le donne nel vicolo della miseria avessero saputo che un uomo che non aveva veduto la propria vita, veniva portato alla sua ultima delusione e al suo ultimo oblio. Era stato il loro scherno veramente giustificato? non c’era realmente altra via che quella della vergognosa caduta nel nulla e nelle infernali regioni della vuota superficie sotto il confine del nulla? Oh sì, le donne avevano avuto ragione, e con un senso di orrore e di vergogna egli doveva accettare le loro beffarde imprecazioni, perché l’impurità, di cui senza colpa egli si era reso colpevole, era più abbietta di qualsiasi spudorata lussuria della plebe, perché egli si era reso colpevole dell’impudicizia della volontaria caduta e, sia pure per ordine del destino, si era volontariamente inserito nella genia spergiura e perduta che, spoglia di ogni legame, cammina vacillando sopra le pietre del nulla, senza fuoco come la bestia, fredda come le piante, ignara di risveglio come la pietra, smarrita nella selva ed essa stessa selva, inabissata nella sfera indistinta di una definitiva pietrificazione; egli era preda della minaccia che circondava gli abbietti, ed egli stesso era abbietto con loro, nascosto con i nascosti, e la minaccia che scaturiva con fatale violenza da un minaccioso ente supremo, la minaccia che nessun riso, pur rintronando, riusciva a contenere, silente e ancora silente nel suo silenzio, chiusa nell’oscurità cristallina dell’ineluttabile tanto che il suono e la luce ne restavano irrigiditi e distrutti, la minaccia dissolta nella notte e pietrificata nella notte, la minaccia saliva, saliva. Tutto era minacciato, tutto era incerto, persino la stessa minaccia, poiché il pericolo si era trasformato, si era trasferito dalla zona dell’accadere in quella del persistere. Imperturbabilmente persisteva la notte; la sua ala dorata, nera, ardente e fredda ad un tempo, si tendeva all’intorno, sopra le case degli uomini, sulle case di pietra che pesavano sulla rigidità della terra, dipinte dall’arida luce lunare; e questa fissità si imbeveva profondamente della luce delle stelle, si trasformava fin nelle sue più segrete viscere di fuoco in pietra trasparente, si mutava in ombra di limpida pietra negli aperti abissi cristallini della terra, in cristallina eco di un mondo inscandagliabile, spingendosi fin nei più segreti strati inesplorati, elevandosi fino alla sfera dell’udibile che era come un ultimo irrespirabile anello di respiro della pietrificazione, un affannoso anelito di pietra, che implorava il respiro dell’essere; era come un movimento ondeggiante, che si fosse pietrificato nell’ombra e a sua volta pietrificasse l’ombra, e ne partecipavano gli stessi passi della sentinella dietro il muro, in un persistente scandire del tempo che continuava, come prima, immutabile, passi incorporati nella pietra, passi sonori e solenni nell’ombra del nulla, che si sviluppavano dal lastrico sonoro e tornavano a radicarsi nel lastrico; e mentre ora, sotto una luce sempre più aspra, si vedeva la serie delle piccole aste di ferro che con le loro ombre nette e taglienti ornavano la cresta della muraglia, non meno chiaro nella luce e nell’ombra si apriva il pozzo tra la muraglia e l’edificio, penetrato fin nel profondo dal fluido raggio delle sfere, d’un color verde argenteo, con una luce pietrificata, una luce arida, una luce che per la sua mutezza pareva una musica che discendesse fino al fondo coperto di rena e di ghiaia, incerto e irreale nella sua aspra immobilità, e che nell’arida ombra di alcune macchie di cespugli mostrava ogni specie di vecchi arnesi, difficilmente definibili, semicoperti dai verdi rami inargentati della sterpaglia, tavole di legno ed utensili, a lor volta pieni di ombre e così terribilmente solenni, che il tutto pareva un’eco solitaria e stranamente indegna della mutezza pietrificata dell’universo, riflettendone un senso di pericolo, di vendetta, di minaccia, perché il nulla si rifletteva nel nulla, la trasparenza si rifletteva nella polvere, entrambi sfiorati dall’ala immota, entrambi paralizzati da un chiuso dolore, ma ciò nonostante era presente in entrambi, con un senso di incalzato sfinimento, con un senso di lacerazione, l’inudibile anelito della morte —
— ma le donne dei Ciconi, che egli aveva disprezzate per amore della morta, fecero a brani l’uomo durante la festa degli dèi, prese da bacchica ebbrezza, e ne rimasero disperse le membra per ampio tratto nei campi; anche il suo capo era strappato via dal collo marmoreo, solo aveva ancor voce, e già preso dalla corrente paterna dell’Ebro che lo rapiva nel suo rotante vortice, “ Euridice,” chiamava col fuggente respiro, “ tu, misera Euridice,” e dalle rive del fiume, “ Euridice,” rispondeva il richiamo dell’eco —
—, e senza eco egli era, senza eco, una morta risonanza senza eco tra le deserte montagne del Tartaro, ed immutabili, muta risonanza in un mondo interiore ed esteriore che si inaridiva, muta risonanza di un muto anelante respiro negli arditi abissi e nelle cristalline fosse della pietrificazione, egli era un cranio senza sguardo, rotolato con una frana di pietre fino all’ombrosa riva dell’oblio, rotolato tra i cespugli secchi e impenetrabili alla riva del fiume della penombra, rotolato nel nulla, dove non c’è via d’uscita e lo stesso oblio si estingue, egli non era che un occhio fisso nella cecità, egli era senza tronco, senza voce, senza polmoni, spogliato del suo stesso respiro, sì, così egli era stato scagliato nell’irrespirabile cecità sotterranea: la sua missione era stata quella di dissipare le ombre, ed egli invece aveva creato le ombre, gli era stato imposto il compito di concludere il grande patto con la terra, ed egli invece aveva violato il patto fin da principio, oh, gli era stato affidato il compito di rimuovere ancora una volta le pietre del sepolcro, affinché l’umanità risorgesse, affinché la viva legge della creazione e l’incessante contemporaneità nel corso dei tempi non venisse interrotta, affinché il dio potesse sempre essere ridestato alla contemporaneità, dal presente dell’olocausto riportato di forza al patto della sua autocreazione, al patto che riscuote il dio, che tiene lontana la rigidità e ravviva la fiamma, oh, questa era stata la sua missione, ed egli non l’aveva compiuta, non gli era stato lecito compierla: ancor prima che gli fosse stato concesso di rimuovere, anzi, di toccare le pietre del sepolcro per adempiere il patto ignoto, ancor prima che egli avesse potuto alzare le braccia, queste gli si erano fatte pesanti, paralizzate, trasparenti, radicate nella pietrificazione stessa della pietra, nel fluttuare immobile e indistinguibile, arido e trasparente della pietra; e questo immobile fluttuare, pietrificato e pietrificante, che da tutte le sfere penetrava fino al centro dell’universo e rifluiva fino ai confini estremi delle sfere assorbendo il mondo animato e il mondo inanimato nel cristallo della sua ombra, si fece un’unica pietra, si fece la pietra del sacrificio dell’universo, nuda, fredda, immota, irremovibile, pietra sepolcrale dei mondi, spoglia di ogni sacrificio, che copre l’incomprensibile ed è essa stessa l’incomprensibile. Oh, destino del poeta! La memoria d’amore aveva dischiuso ad Orfeo l’accesso alle profondità dell’Ade, impedendogli tuttavia ad un tempo l'ultima discesa, cosicché egli, perduto nella sfera sotterranea della memoria, fu costretto ad un precoce ritorno, impuro nella sua purezza e lacerato nel male. Egli invece, senza amore fin dal principio, incapace di inviare sul proprio cammino una memoria nutrita d'amore e non guidato da alcun ricordo, egli non aveva raggiunto nemmeno le prime profondità di Vulcano, signore dei metalli, e a piti forte ragione era rimasto lontano dai domini dei padri che fondano la legge, e a più forte ragione era rimasto lontano dai territori, ancora più profondi del nulla che fa nascere il mondo, che fa nascere memoria e salvezza, ed era rimasto nell’irrigidito vuoto della superficie. II. compito non assolto, allorché ciò si verifichi, non lascia nulla che resti ancora da compiere; ed ora erano ammutolite anche le grandi maree del divampare e dell’estinguersi che in sé portan la vita, assorbite dal grande silenzio in cui le cose vuotate della conoscenza e della legge, restano senza nome; tacevano le maree del principio e della fine, le maree per cui le cose si scuotono in uno splendore di fuoco e si acquietano poi in una stillante mitezza; tacevano il flusso e il riflusso delle cose che si trasfondono l’uno nell’altro generandosi a vicenda; la totalità del mondo aveva irrevocabilmente perduto il suo stesso respiro, la sua stessa concretezza, il suo stesso fluire, e cinta dell’universale silenzio si fece sguardo nudo, silente, universale sguardo della nudità visibile ed invisibile, si fece nuda, immutabile, definitiva assenza che guarda senza sguardo: in alto un occhio rigido come la pietra, in basso un occhio rigido come la pietra, oh, ecco, ciò che da tempo egli aveva atteso e temuto, eccolo, finalmente, ed egli ora lo vedeva, ora doveva fissare lo sguardo nell’indicibile, per amore del quale egli era fuggito un’intera vita e aveva fatto di tutto per preparare a questa vita una fine precoce; e non era l’occhio della notte, perché la notte si era dissolta nella pietra, e non era neppure paura né orrore, perché era più grande di ogni paura e di ogni orrore, era l’occhio del vuoto pietrificato, lo spalancato occhio del destino, che non partecipava più a nessun accadimento, né allo scorrere dei tempi né alla loro abolizione, né allo spazio né all’assenza di spazio, né alla vita né alla morte, né alla creazione né al caos, un occhio privo di partecipazione, nel cui sguardo non c’era inizio, né fine, né contemporaneità, sciolto da ogni cosa esistente ed ancora esistente e con tutte le cose legato ancora solo dalla minaccia, dalla minacciosa attesa, dalla temporalità dell’attesa, un occhio che si rifletteva nell’esistenza della creatura minacciata e nel suo occhio atterrito dalla minaccia, cosicché la minaccia e la creatura erano indissolubilmente legate nell’ultimo residuo del tempo. E non c’era più fuga, c’era soltanto il suo anelito affannoso, senza respiro, una fuga che non portava lontano — e dove avrebbe ancora dovuto portare?!, — e l’anelito somigliava a quello del corridore che, giunto dietro alla mèta, riconosce di non essere arrivato e che non arriderà mai, perché nel vuoto del giuramento violato attraverso il quale è stato inseguito come un animale per essere inseguito sempre più oltre, la mèta non può essere confermata da nessun giuramento, resta priva di una conferma giurata; senza mèta resta la creazione, senza mèta il dio, senza mèta l’uomo, senza eco la creazione, senza eco dio e uomo, in un nuovo abbandono al di fuori della legge, nell’abbandono che genera il vuoto. Ciò che era intorno a lui non simbolizzava più nulla, era il non-simbolo, era ciò che non può essere rispecchiato, era l’opacità in sé e oltracciò la tristezza dell’impoverimento del simbolo, quell’eterna tristezza del non-spazio, che riposa sognante in ogni cosa creata nello spazio e nello stesso dormiente humus dell’essere, spogliata d’ogni simbolo e che tuttavia cela in sé il germe di ogni simbolo, privata dello spazio e tuttavia condizionata dallo spazio come un ultimo residuo della bellezza portata dai tempi, la tristezza del sogno, che dimora nel fondo di ogni occhio, nell’occhio dell’animale, come in quello dell’uomo, del dio e persino del vuoto universale simile ad un estremo respiro della creazione, piangente e compianta nel tormento di un caos remotissimo nella memoria, come se il vuoto avesse inizio nella tristezza, ma nel medesimo tempo anche la tristezza ricominciasse sempre nel vuoto, come se in questa unità fosse penetrato il germe di tutta la creazione, l’immutabile destino originario di tutta la creazione, il male, da cui ogni cosa umana e divina è minacciata in virtù di un destino originario, la paura del destino, comune agli uomini e agli dèi, il castigo del destino, anch’esso comune agli uni e agli altri, la paura dello spergiuro, condannato fin da principio alla caduta, e l’espiazione, decretata fin da principio per l’azione non compiuta e per il misfatto non commesso, con la quale il destino domina gli stessi dèi, la punizione, decretata da una legge inconoscibile, della perdita della conoscenza e della segregazione nel carcere di un cieco e necessario vegetare, la segregazione della non-conoscenza nell’inconoscibile necessità: ciò si avvicinava sempre di più incalzato dalla muta, affannata tristezza del male, e tuttavia lento, quasi immobile, perduto nel dolore e nel male, perduto in un vuoto che annullava in sé persino quel dolore e quel male; saliva plumbeo, greve come la pietra, da tutti i pozzi del mondo interiore e del mondo esteriore, era la minaccia che si attuava, era lo sguardo del vuoto che saliva, come una bufera; sempre più minaccioso si faceva ciò che doveva accadere, sempre più uguale alla pietra la reclusione dello sguardo, come una parete di silenzio, che si innalzasse in un muto torpore e che era la sua mutezza e quella di tutte le sfere —; greve, angoscioso, sempre più angoscioso il crescente sguardo dell’orrore, che si avvicinava al morto centro dell’universo, e l’io, stretto e serrato dal centro, premuto tra le pareti dello sguardo, spinto nell’indistinguibilità del mondo interiore e di quello esteriore, soffocato da tale duplice tristezza, da questa illimitata, universale tristezza dell’essere ancora esistente che solleva ed annulla ogni molteplicità ed ogni duplicità nella propria sterminata illimitatezza, l’io restava anch’esso annullato, assorbito e schiacciato dall’illimitatezza e dal vuoto del suo vuoto dolore, restava come dissolto in un presagio d'orrore, che in se medesimo porta e ad un tempo dissolve il doppio sgomento e il doppio terrore; l’io restava dissolto e paralizzato nello sguardo della minaccia che lo circondava, minacciato dallo sguardo, esso stesso da tempo ancor solo la fissità di uno sguardo; l’io preda della minaccia era ormai soltanto l’ultimo residuo della propria essenza, era annientato, ridotto al vuoto del limbo dell’increato e del nonpensiero, rigettato nello spazio inconoscibile di un torpore senza più conoscenza, immobile preda della stretta del vuoto, oh, l’io era respinto, ricacciato nella continua contrizione di se medesimo, ineluttabilmente umiliato alla necessità della contrizione, umiliato nella contrizione del vuoto, mero non-piu-sussistere; l’io aveva perduto se stesso, era stato spogliato della propria umanità, della quale non era rimasto nulla, se non la più nuda nudità della colpa dell’anima, cosicché anch’essa, privata dell’io e tuttavia indistruttibile come anima umana, non era più che una tormentata, vuota nudità, prostrata ed assorbita dal cieco, muto vuoto dell’occhio minaccioso, senza riflesso la contrizione, senza riflesso l’io, senza riflesso l’anima, senza riflesso e abbandonata alla forza dello sguardo che si spegneva e spenta essa stessa —; silenzio, vuoto, non-spazio, muto, ma dietro le pareti dell’universale mutezza, dietro le pareti di nero cristallo, nella vuota, suprema lontananza della sterminata illimitatezza, dileguante e pur percettibile, quasi una remotissima eco dell’essere e ormai al di là di ogni essere, sottile e chiaro e femmineo e terribile nella sua indicibile piccolezza risonava un punto, il più remoto punto delle sfere, risonava un piccolo, ironico riso, ed era il vuoto sorriso del vuoto, il sogghigno del nulla. Oh, c’era ancora una possibilità di salvezza?! dov’erano gli dèi?! era, ciò che avveniva, l’ultima manifestazione della loro potenza, era la loro vendetta, la loro rivalsa per essere stati ancora una volta abbandonati, la vendetta contro gli uomini abbandonati che, a loro volta, avevano abbandonato gli dèi?! erano le divinità madri che si rallegravano dell’umana contrizione? si rallegravano che l’umano fosse perduto e che lo spergiuro fosse ineluttabile?! sordo ad ogni risposta, egli tendeva l’orecchio nell’indistinguibile, ma la risposta non veniva, perché colui che ha violato il giuramento così come l’animale non ha il diritto di porre domande, e morta era la pietra, morta e senza risonanza per la domanda che non era stata posta, morto era il labirinto di pietra dell’universo, morto l’abisso in fondo al quale l’io, spogliato della domanda e della risposta, dimora contrito, ignudo, annichilito. Oh, ritornare! ritornare ancora un’unica volta nell’oscurità, nel sogno, nel sonno, nella morte! oh, poter fuggire, poter ancora una volta rifuggire nell’essere! oh, fuga! fuggire ancora una volta? ma c’era ancora possibilità di fuggire? e si doveva ancora fuggire? Egli non lo sapeva; lo aveva saputo, forse, ma non lo sapeva più, egli era al di là di ogni sapere, era nel vuoto del sapere, era nel vuoto dell’universo, e perciò anche al di là della possibilità di venir inseguito e incalzato, ahimè, colui che è contrito nel rimorso è ormai al di là di ogni fuga: ma ora, al di là della fuga, prostrato dalla violazione del patto, come se colui che ha spezzato il giuramento dovesse essere a sua volta spezzato, come se non gli fosse lecito mai, mai più, di reggersi in piedi, egli si sentì scagliato sui ginocchi; e prostrato sotto l’immane peso del cielo, immoto, invisibile vuoto dei mondi, irrigidito nella fuga, paralizzato nella fuga, con le spalle oppresse e ricurve, brancolando con le mani aride e senza vita, alla cieca, in cerca della parete della stanza, sfiorando con le dita cieche l’ombra dalle dita cieche che si disegnava sulla superficie chiara ed arida di luna, egli si mosse lentamente a tentoni lungo quella superficie accompagnato dalla propria ombra che gli scivolava accanto anch’essa tutta curvata; ritornò poi dentro il buio, brancolando, scosso da un duro tremito, senza coscienza di quel che facesse e si diresse infine alla fontanella della parete, sempre brancolando, attratto dall’acqua come un animale, attratto come un animale dalla sete di ciò che era ancora terrestre, di ciò che era ancora vivo; e così, col cranio penzolante, attraversando l’irrigidita aridità, strisciò come un animale verso l’acqua, la più animalesca di tutte le mete, per leccare tutto curvato come un animale, spinto da una ferina, primigenia necessità, l’umore argenteo e stillante.[...]