L'INFINITO NELLA CONOSCENZA
MICHELE DI SALVO
Nell’archivio della famiglia Florenskij si è conservato un manoscritto recante la seguente intestazione: «Corso di base. Introduzione alla filosofia antica (15 lezioni tenute nel semestre autunnale del 1908 presso l’Accademia Teologica di Mosca agli studenti del secondo anno) – Sergevskij Posad, 9. X. 1908 – 13. XII. 1908»1. Le lezioni n. 12, 13 e 14 di questo ciclo sono dedicate alla teoria della conoscenza e sviluppano tre nuclei tematici: 1. La conoscenza come sistema di atti di distinzione; 2. La conoscenza come giudizio sulla realtà; 3. Il momento religiosometafisico della conoscenza. I contenuti del primo punto appariranno poi sul Messaggero teologico (Bogoslovskij vestnik) vol. I, n. 1 del 1913, pp. 147-174 col titolo Predely gnoseologii. Osnovnaja antinomija teorii znanija [I limiti della gnoseologia. L’antinomia fondamentale della teoria della conoscenza]2, mentre il secondo ed il terzo punto nelle intenzioni dell’Autore sarebbero successivamente dovuti confluire in un altro articolo, seguito del primo.
La questione conoscitiva, su cui verte I limiti della gnoseologia, riveste un ruolo predominante tra gli interessi speculativi di Pavel Florenskij, costituendo peraltro la coordinata fondamentale del suo opus maximum, La colonna e il fondamento della verità3. Nelle pagine che qui presentiamo ci è offerto un approccio interdisciplinare ad essa4, in una tessitura sinfonica che abbraccia letteratura, fisica, matematica, filosofia5, senza trascurare qualche penetrante osservazione di taglio psicologico, e denotando persino presagi della teoria della relatività.
L’antinomia gnoseologica cui allude il sottotitolo è quella nella quale si viene a trovare la ragione umana quando, nell’esplicare la sua attività conoscitiva, le si prospetta di scegliere in definitiva tra due sole opzioni, quella del realismo e quella idealista6. Sia in un caso che nell’altro essa si ritroverà relegata ineluttabilmente entro gli angusti confini tracciati da queste due strade, che si rivelano entrambe dei vicoli ciechi7. È questo lo scacco di una ragione che non si voglia aprire alla trascendenza. Constatata allora l’impossibilità di comporre l’inconciliabilità tra questi due modelli gnoseologici Florenskij, nel solco della più genuina tradizione russa8, addita un’altra strada, quella della «verità vivente»9, aperta in ultima analisi a quell’invisibile in cui già molti secoli prima era stata ravvisata la fonte di ciò che è visibile dall’amato maestro Platone10, del quale Florenskij opera una rilettura singolarmente profonda11, capace di esaltarne la perenne attualità.
L’originalità dell’impianto di questa “lezione” risiede in gran parte nell’angolo di visuale peculiare all’Autore, fornitogli dalla scienza matematica, che resterà per lui un’«abitudine del pensiero»12, lo strumento ermeneutico per eccellenza, di cui si avvarrà come base per una rinnovata visione unitaria, integrale e dinamica della realtà13. Su questo sentiero Florenskij era stato condotto, in un certo senso, dall’ambiente della Scuola matematica di Mosca14, all’interno della quale spiccava la figura di Nikolaj Vasil’evič Bugaev (1837-1903), che fu suo autorevole docente, e della cui concezione scientifica, connotata da fruttuose implicazioni gnoseologiche15, il giovane Pavel Aleksandrovič rimase subito attratto16. Particolarmente felice risultò poco dopo l’integrazione della prospettiva “moscovita” con la teoria degli insiemi di Georg Cantor (1845-1918)17, preziosa per la sua capacità di unire uno e molteplice18, finito ed infinito. Quell’infinito di cui è gravido ogni momento della storia e della vita di ciascuno di noi.
1Cfr. P. A. Florenskij, Sočinenija v četerёkh tomakh [Opere in quattro volumi], a cura di A. Trubačёv, M. S. Trubačёva, P. V. Florenskij, II, Mysl’, Mosca 1996, pp. 735-736.
2Per la presente edizione abbiamo usato il testo riportato in P. A. Florenskij, Sočinenija v četerёkh tomakh, II, cit., pp. 34-60. La prima stesura della lezione n. 12 è stata pubblicata col titolo Znanie kak sistema aktov različenija[La conoscenza come sistema di atti di distinzione] in Filosofskie nauki [Scienze filosofiche] 6, Mosca 2009, pp. 92-98.
3P. A. Florenskij, La colonna e il fondamento della verità. Saggio di teologia ortodossa in dodici lettere, introduzione di Roberto Revello, Mimesis, Milano 2012.
4Nello snodarsi storico del pensiero russo spicca la propensione ad affrontare i problemi da una prospettiva plurima, tratto ascrivibile ad una concezione del reale colto nella sua organica proteiformità (Cfr. A. Asnaghi, L’uccello di fuoco. Storia della filosofia russa, Servitium, Sotto il Monte (BG) 2003).
5Con una chiara predilezione per gli autori dell’area tedesca (I. Kant, G. W. F. Hegel, J. G. Fichte, F. Schelling, F. Nietzsche, R. Cohen, E. von Hartmann), che si riscontra negli slavofili.
6Il riferimento ad I. Kant è imprescindibile. Il pensatore russo si confronta con il suo sistema gnoseologico individuandovi una deleteria frantumazione dell’unità reale, seriamente a rischio di sfociare in forme razionalistiche che prescindano dalla verità oggettiva. Mette conto di menzionare: P. A. Florenskij, Kosmologičeskije antinomii I. Kanta [Antinomie cosmologiche di I. Kant], in P. A. Florenskij, Sočinenija v četerёkh tomakh, cit., II, pp. 3-33.
7Nel saggio intitolato Sui simboli dell’infinito, risalente ad alcuni anni prima (1904) è possibile ricostruire il contesto di riflessioni che aveva condotto Florenskij a tale concezione bipolare.
8Cfr. S. M. Polovinkin, Filosofia e ortodossia: gli starcy e la teoria della verità vivente, in AA.VV., San Sergio e il suo tempo. Atti del 1° Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Qiqajon, Bose 1996, p. 232.
9Un possibile approfondimento in: M. Žust, À la recherche de la Vérité vivante. L’expérience religieuse de Pavel A. Florenskij (1882-1937), Lipa, Roma 2002.
10Le lezioni di filosofia tenute nel 1912-1913 e raccolte sotto il titolo Il significato dell’idealismo non a caso sono dedicate al platonismo, reputato il sistema filosofico più idoneo ad integrare numero ed Idea, uno e molteplice. Tornano alla mente le parole di A. N. Whitehead, che vedeva nella tradizione filosofica europea «una serie di note a piè di pagina a Platone» (A. N. Whitehead, Process and Reality. An Essay in Cosmology, Free Press, New York 1979, p. 39).
11Cfr. A. F. Losev, Očerki antičnogo simvolizma i mifologii[Saggi sul simbolismo antico e sulla mitologia], Mysl’, Mosca 1993, pp. 692-693.
12P. A. Florenskij, Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo, a cura di N. Valentini e L. Žák, Mondadori, Milano 2000, p. 68. Nel 1933 padre Pavel scriveva alla figlia Olga: «La matematica è la più importante delle scienze che formano il pensiero: essa appro fondisce, precisa, generalizza e lega in un unico modo la visione del mondo, educa e sviluppa, dà un approccio filosofico alla natura». (Ibidem, p. 363).
13Tra le opere matematiche ricordiamo Gli immaginari in geometria.
14Sulla Scuola matematica moscovita: A. E. Godin, Razvitie idej Moskovskoj filosofsko-matematičeskoj školy, Krasnyj svet, Mosca 2006. Segnaliamo anche il recente volume: I. Svetlikova, The Moscow Pythagoreans. Mathematics, Mysticism, and Anti-Semitism in Russian Symbolism, Palgrave Pivot, New York 2013.
15Cfr. A. F. Upravitelev, K buduščemu cel’nomu mirovozzreniju (Religioznoe mirosozercanie P. A. Florenskogo), Izdatel’stvo Altajskogo Gosudarstvennogo Universiteta, Barnaul 1997, p. 17.
16Cfr. N. Valentini, La simbolica della scienza in Pavel A. Florenskij, Introduzione a P. A. Florenskij, Il simbolo e la forma. Scritti di filosofia della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. XXXII.
17Cfr. R. Betti, La matematica come abitudine del pensiero. Le idee scientifiche di Pavel Florenskij, Centro Pristem Eleusi, Milano 2009, p. 27. L’interesse per il matematico tedesco è eloquentemente dimostrato dallo scritto giovanile I simboli dell’infinito. Studio sulle idee di G. Cantor (disponibile in P. A. Florenskij, Il simbolo e la forma, a cura di N. Valentini, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, cit., pp. 25-80).
18P. A. Florenskij, Ot perevodčika (Vstupitel’naya stat’ja k perevodu “I. Kant, Fizičeskaja monadologija”) [Da parte del traduttore (Articolo introduttivo alla traduzione di “I. Kant, Monadologia fisica”)], in P.I A. Florenskij, Sočinenija v četerёkh tomakh, cit., I, p. 682.
1. Ogni ricercatore della conoscenza, quali che siano le conclusioni teoretico-conoscitive cui pervenga, deve muovere indubbiamente da un punto comune a tutte le teorie della conoscenza, il quale contempli nel medesimo atto conoscitivo la compresenza di soggetto e oggetto di conoscenza.
2. La bipolarità soggetto-oggetto dell’atto conoscitivo costituisce in sostanza il dato di partenza e l’oggetto della ricerca gnoseologica. È questo il punctum pruriens, il nodo problematico della coscienza speculativa, che suscita di rimando il dipanarsi del pensiero filosofico. È ancora la dualità che caratterizza l’atto conoscitivo a fungere nella teoria della conoscenza da scaturigine di quella «meraviglia» aristotelica da cui si genera e della quale vive la filosofia1. È chiaro, pertanto, che il vero intendimento della teoria della conoscenza sia sciogliere questo nodo problematico, rimuovere dalla dualità dell’atto conoscitivo l’aura di meraviglia e predisporre per il pensiero delle “balestre di sospensione” tali che esso possa procedere lungo la via della conoscenza, senza sussulti dovuti alla biforcazione della propria ricerca.
Eliminare tale immancabile dualità equivale a unificare queste due componenti. La teoria della conoscenza è e deve essere monista; ed è qui che convergono tutti i tentativi di formulazione di tale teoria, con la sola differenza che mentre taluni ostentano il vessillo del monismo, altri cercano di porre in essere un monismo ammantato di slogan meno espliciti.
3. Parlando in astratto, ci sono due indirizzi di pensiero, seguendo i quali si può sperare di raggiungere tale obiettivo. Il numerale «due» determina la quantità dei principi che si danno nel medesimo atto conoscitivo per il dipanarsi del pensiero. La terza via, che va battuta solo in caso d’insuccesso con le altre due, è intrinsecamente correlata con l’esigenza di una nuova realtà, e dovendo altresì essere una via per la trasformazione della realtà, non la si può ritenere solo di carattere teorico-etico.
4. Il primo percorso teoretico-conoscitivo prende le mosse dalla componente oggettiva della conoscenza, considerando l’oggetto O come qualcosa di immediatamente noto. Mediante una serie di trasformazioni e di costruzioni a partire da О (O’, О”, ecc.) la teoria della conoscenza arricchisce lungo il percorso O, Ο’, O”, Oβ il concetto О di proprietà sempre nuove. Quando l’insieme di queste proprietà β avrà raggiunta una complessità confacente, allora la teoria della conoscenza del tipo considerato eguaglierà il valore di Оβ a quello di un altro atto conoscitivo, al soggetto S, pervenendo così all’annullamento di S come dato di partenza. Originariamente equivalenti, O ed S perdono questa parità: O risulterà qualcosa di primitivo, nel quale la gnoseologia crede, ed S qualcosa di derivato, che essa conosce. Pertanto, in sostanza, si danno solo O e le sue trasformazioni: O’, O”, …, Oβ=S. Il soggetto si dedurrà dall’oggetto ed il compito della teoria della conoscenza potrà considerarsi assolto. Una teoria della conoscenza di questo tipo, a seconda del carattere del percorso e della limpidezza del risultato finale, prende nomi diversi: sensismo, positivismo, fenomenismo, realismo, empiriocriticismo, immanentismo; ma la sua espressione più nitida e coerente nella storia del pensiero è da ritenersi l’intuizionismo o empirismo mistico elaborato da N. O. Losskij2.
Il secondo percorso teoretico-conoscitivo è opposto al precedente, giacché muove dalla componente soggettiva della conoscenza S, e mediante una serie di sue trasformazioni S’, S”, e infine Sα, arricchendola di una serie di proprietà α, giunge ad una mutazione del soggetto ritenuta atta a eguagliare l’oggetto О. In tal modo l’oggetto viene ora dedotto dal soggetto, e con tale deduzione il compito della teoria della conoscenza può di nuovo dirsi assolto. Questo tipo di teoria della conoscenza presenta ancora una volta svariate versioni e, a seconda del tipo di percorso e della trasparenza dei risultati raggiunti, assume i nomi di idealismo, razionalismo, panlogismo, ecc. Una delle sue forme più compiute, dopo quella dell’hegelismo, è il panmetodismo di Hermann Cohen e della cerchia dei suoi allievi3.
5. I vari tipi di realismo, da una parte, e di razionalismo dall’altra, costituiscono due linee parallele che delimitano il campo di una teoria della conoscenza che intenda restare nei limiti del dato umano, escludendo la possibilità di nuove esperienze e rivelazioni di mondi altri. Non essendo in grado di risolversi per questa o quella via – in quanto la teoria della conoscenza è essenzialmente basata sulla fede nell’Io o nel non-Io – né di creare una nuova via, la teoria della conoscenza risulta confinata entro questi limiti, tracciati dalla sua fede nel dato reale; oppure, più esattamente, dal suo non credere in istanze superiori. L’uguale plausibilità dei sistemi soggettivi ed oggettivi nell’ambito della teoria della conoscenza: è questa l’antinomia fondamentale della scienza della conoscenza, la cui risoluzione può essere rintracciata solo al di fuori del campo di visuale dell’umanismo. Per illustrare questa antinomia più efficacemente, cercherò di delinearvi a grandi tratti l’essenza stessa di questi due indirizzi della gnoseologia. Non ci prefiggiamo una disamina storica di questa o quella dottrina, ma proveremo piuttosto a lumeggiare l’anima dei diversi sistemi. Senza dipendere da autori e opere specifiche, offriremo delle variazioni su temi prospettati dal razionalismo e dal realismo, e tenteremo di vedere come ciascun orientamento giustifichi il proprio angolo di visuale una volta assunto il suo punto di partenza.
Orbene, in che maniera risponde alla domanda fondamentale sul conoscere questo o quel tipo di teoria della conoscenza?
1Cfr. Aristotele, Metafisica I 2, 982 b. [Quando non è indicato diversamente le note appartengono al curatore].
2Nell’archivio della famiglia Florenskij si è conservato un foglietto, vergato da Florenskij di proprio pugno ed accluso alla «seconda redazione» del manoscritto originale relativo al ciclo di lezioni La conoscenza come sistema di atti di distinzione, che reca scritto: «L’intuizionismo di Losskij appare molto affi ne all’immanentismo di Schuppe. Ma fra di loro vi è la differenza che per Losskij l’oggetto di conoscenza “entra” nel soggetto, mentre per Schuppe risiede in esso. Di conseguenza, per Losskij esso può esistere ed è anche al di fuori del soggetto, mentre per Schuppe non è mai così». (Cfr. P. A. Florenskij, Sočinenija v četerёkh tomakh, cit., II, p. 736).
3E. N. Trubeckoj: «Comunemente per “metodo” s’intende il modo umano nel quale noi raggiungiamo qualcosa; in particolare, si denomina “metodo scientifico” il metodo di ricerca tramite il quale si perviene alla verità. Non così in Cohen, per il quale verità e metodo sono la medesima cosa: egli non conosce una verità distinta dal nostro percorso per reperirla. In ultima analisi la verità per lui s’identifica con la “somma delle categorie”, e le categorie con le “modalità di dispiegamento del giudizio”, ovverosia con i metodi del nostro pensiero fondamentale» (E. N. Trubeckoj, Metafizičeskie predpoloženija poznanija. Opyt preodoleniya Kanta i kantianstva [I presupposti metafisici della conoscenza. Un tentativo di superamento di Kant e del kantismo], Mosca 1917, p. 225).
6. Che cos’è la conoscenza? Per rispondere a questo quesito fondamentale occorre rintracciare un tratto della conoscenza tale da essere presente in qualunque attività conoscitiva. Si deve caratterizzare la conoscenza in genere, la conoscenza come tale. Oppure, in altre parole, dobbiamo dire, che cosa sappiamo della conoscenza?
Che cosa sappiamo della conoscenza, appunto? Innanzitutto della conoscenza sappiamo che essa non è nescienza, non-conoscenza. Sappiamo che la conoscenza non equivale alla nescienza. Quando io so, non ignoro, e so di non ignorare. La conoscenza sa di se stessa, cioè sa di essere proprio conoscenza e non qualcos’altro; la conoscenza sa di sé in primo luogo contrapponendosi alla nescienza. Contrapporre alla conoscenza il non sapere è l’unico modo per apprendere che cosa sia la conoscenza. Tutti questi ragionamenti vi appariranno troppo generici ed autoevidenti, ma in essi è detto succintamente tutto ciò che ne segue.
7. Quindi la distinzione è condizione necessaria e sufficiente per conoscere. Sottolineo: necessaria. Ciò significa che senza distinzione non c’è neppure conoscenza; distinguere è necessario per la conoscenza. Se non distinguiamo la conoscenza dalla non-conoscenza, non conosciamo la conoscenza. Ribadisco: sufficiente. Questo vuol dire che se si dà distinzione, non si richiede altro per conoscere. Allorché si dà distinzione, c’è eо ipso anche la conoscenza. Distinguere la conoscenza dalla nescienza è conoscere la conoscenza, giacché nel distinguere, almeno confusamente, conosciamo ciò che ci fa distinguere la conoscenza dalla nescienza, ne conosciamo l’essenza.
8. Ma voi potreste dire: «Questo vale solo per la conoscenza della conoscenza, ma non in generale». Sì, allorquando distinguiamo, noi discerniamo la conoscenza dalla nescienza, cioè distinguiamo l’oggetto di conoscenza (che è conoscenza) da ciò che non lo è (la nescienza). Dunque, prescindendo da questo o quell’oggetto di conoscenza, cioè dalla conoscenza – a differenza di tutto ciò che conoscenza non è – la natura della conoscenza come tale nella sua interezza, o ancora, tutto ciò che rende la conoscenza tale (qualunque cosa sia), è a noi nota. Essa è distinzione; e la domanda «Che cosa?», «Distinzione di che cosa?» è soddisfatta non già dalla risposta sulla natura della conoscenza, bensì da quella riguardante il caso particolare dell’applicazione dell’atto conoscitivo. Inoltre, se la distinzione non fosse per natura conoscenza in generale, non potrebbe esserlo neppure in questo caso, in cui l’oggetto della conoscenza è la conoscenza medesima, poiché, deducendo questa proprietà della conoscenza in quanto atto, non abbiamo detto alcunché sulla natura specifica del suo oggetto (la conoscenza stessa, in questo caso). Sebbene abbiamo detto «conoscenza della conoscenza», nel secondo caso «conoscenza» è a rigore un riferimento all’oggetto in genere (applicazione del «metodo dei coefficienti indeterminati» o «metodo cartesiano», «metodo della funzione indeterminata» di Bugaev)5.
9. Che cosa significa questo, se non che il conoscere consiste solo nel distinguere ciò che è conosciuto da tutto il resto? Conoscere vuol dire discernere il conosciuto dall’ignoto e contrapporlo a tutto il resto. Sapere vuol dire porre in risalto e distinguere. L’essenza del conoscere è evidenziare, distinguere, isolare.
10. Però noi abbiamo fatto astrazione dall’oggetto della conoscenza. Tuttavia si può prendere in considerazione anche l’oggetto di conoscenza. Si comprende allora che c’è una certa differenza tra la conoscenza che discerne l’oggetto e la conoscenza che distingue la conoscenza degli oggetti dalla nescienza. Una conoscenza è rivolta alla distinzione degli oggetti, mentre l’altra alla distinzione della conoscenza degli oggetti dalla loro nescienza. L’una è mera conoscenza (A1); l’altra è conoscenza di conoscenza, una conoscenza di secondo grado, per così dire (A2). Nel primo caso la conoscenza è fagocitata interamente dal proprio oggetto, si perde in esso, si oblia; nell’altro, conoscendo l’oggetto, essa al contempo segue se stessa, ciò che costituisce la sua attività. Nel secondo caso, quindi, è la conoscenza medesima (A1) a divenire oggetto di conoscenza (A2), vale a dire ciò che prima era soggetto (conoscente).
11. Dopo tutto anche la conoscenza (A2) orientata su se stessa (A1), avente se stessa come oggetto, può essere distinta dalla non-conoscenza di sé, cioè dalla conoscenza non orientata su se stessa. Pertanto c’è un’attività distintiva, mediante la quale la conoscenza della conoscenza (A2) si contrappone alla nescienza della conoscenza. Detto diversamente, c’è una conoscenza il cui oggetto funge da conoscenza di conoscenza (A2); o ancora: esiste una conoscenza di terzo grado (A3).
12. È possibile procedere oltre. Si può individuare una conoscenza di terzo livello (A3) con la corrispondente non-conoscenza; tale processo di distinzione sarà una conoscenza di quarto grado (A4), e via di seguito ad indefinitum. Si badi, ad indefinitum, proseguendo indefinitamente:
Ciò vuol dire che in questa nostra ascesa lungo la scala della conoscenza non c’imbattiamo in alcun ostacolo che interrompa la (1). Questa assenza di ostacoli nell’ascesa deriva dall’iterazione o ripetitività dell’atto di distinzione della conoscenza. Ogni volta il suo oggetto muta, ma l’atto medesimo resta uguale a se stesso, e dunque è sempre formalmente realizzabile, purché sia attuato all’inizio della serie; e qui, come sappiamo, è attuato, e perciò attuabile in ogni punto.
13. Ad ogni nuovo gradino della scala (1) (che si può indicare brevemente con {Ai}) verrà ripetuto il medesimo procedimento. E specificamente, «l’attività di distinzione del grado che precede sarà estesa al successivo; il processo conoscitivo di uno diventerà conoscibile nell’altro; ciò che in uno era attività soggettiva, per l’altro diventerà oggetto»6. Ciascuno di tali atti della serie (1) è una riflessione della conoscenza su se stessa. Re-flexio significa ripiegamento, ritorno. Il prefisso “re-” rimanda ad un duplice movimento, di allontanamento e di avvicinamento rispetto a qualcosa. Riflessione su di sé vuol dire altresì: 1) rientro in se stessi, 2) introspezione, 3) riconoscimento, o più precisamente autoidentificazione.
14. I nostri vocaboli «conoscenza», «apprendimento», «coscienza», «autocoscienza», «conoscenza di sé» rimandano anch’essi a siffatti atti di conoscenza riflessivi; e alcuni dei termini richiamati non rientrano nella serie {Ai}: rappresentano dei membri, per così dire, intermedi, il cui senso risulterà chiaro più avanti.
15. Le medesime riflessioni su se stessa presenta anche qualsiasi critica. La critica prima (К1) studia un prodotto noto (Р). La critica seconda (К), o anticritica è la critica sul prodotto, vale a dire К2. La critica terza (o «ricritica») (К3) fronteggia la critica alla critica, o anticritica, e via di seguito. Si forma in tal modo una serie, costruita a partire da Р:
Ciascuna delle critiche successive presenta un livello o grado maggiore della precedente. La sostituzione di una critica di ordine n (Кn) con una critica di ordine n+1 (Кn+1) costituisce la storia di qualunque scienza. Ogni processo di conoscenza è sostanzialmente un passaggio da Кn alla critica di questa critica, cioè a Кn+1.
16. La conoscenza, quindi, consiste di un’infinita successione di atti riflessivi, rivolti su di sé; e questi atti si compendiano, si combinano in una qualche unità. L’insieme
è non soltanto una molteplicità di atti Aidistinti, ma anche la loro totalità, concepita come un intero, come {Ai}. Questo pensiero non è una novità: come un filo rosso esso percorre tutta la storia della filosofia, iniziando dai più antichi filosofi fino ai più recenti. Ne tratta anche Fichte nella sua «Dottrina della scienza»7. Ma esso viene messo a tema sistematicamente per la prima volta da Schelling nel suo Sistema dell’idealismo trascendentale8, in cui egli si prefigge di delineare una storia della coscienza come serie di atti di riflessione:
da lui denominati «potenze», o «gradi» (Potenz) di coscienza, che per analogia con i gradi della matematica indica con
17. Per comodità espositiva mi permetterò di spiegare sinteticamente e mettere a punto questa nomenclatura di Schelling. Abbiamo un certo oggetto di conoscenza, una certa unità che vogliamo considerare non ulteriormente scomponibile, e che nel corso dell’analisi considereremo non scomponibile. È opportuno indicare questa unità col segno «1», simbolo naturalmente consentaneo al concetto di oggetto, in quanto l’appercezione dell’oggetto conosciuto consiste nell’isolarlo da tutto il resto, contemplandolo come una sostanza indivisibile, come un’unità. Ad ogni modo, il senso più profondo di questo simbolismo risulterà più chiaro in seguito. Dobbiamo però ricordare che per la teoria della conoscenza l’oggetto «1» non è altro che un qualcosa di definito da un atto di “isolamento”.
18. Sull’oggetto «1» si esegue l’operazione di distinzione, A. Il simbolo A indica perciò l’atto di distinzione di un contenuto dato da ciò che da esso differisce. È opportuno dunque esprimere la conoscenza di primo grado A1 con la formula
Ma in quanto conoscenza è conoscenza “di che cosa?”. In realtà dire «dell’oggetto» o non dirlo è lo stesso. Nel processo di conoscenza il concetto di oggetto è già contenuto, come pure nel concetto di oggetto quello di distinzione del suo atto conoscitivo. Traducendo questo pensiero nel linguaggio dei simboli, diremo: giacché la moltiplicazione per 1 lascia immutato il valore del prodotto, il segno «1» può non essere scritto. Il nostro atto di conoscenza si può quindi esprimere così:
La distinzione di questa distinzione A1, cioè A2, può essere rappresentata come segue:
E la distinzione di questa distinzione, A3, in questo modo:
Proseguendo con la distinzione di questa distinzione:
e via di seguito. Generalizzando si ha:
Risulta ora naturale indicare queste espressioni di operazioni iterative come gradi simbolici dell’operatore A, notando che per ogni Ai l’operatore A si ripete un numero i di volte, e sostituendo di volta in volta gli indici di Ai coi corrispettivi esponenti, avremo:
oppure, esplicitando,
Abbiamo ottenuto così una serie di “potenze della coscienza” o, più esattamente, di potenze di conoscenza sotto una nuova forma, e la (1) si tramuta nella serie:
Però prima di procedere ad ulteriori ragionamenti, forniremo una piccola delucidazione. Vi sarete chiesti su quale base abbiamo trasformato l’operazione ignota su «1» della (3) nella notazione simbolica della (3’). Innanzitutto faccio rilevare che tutte le nostre formule sono simboliche, rivestono una valenza convenzionale. Ma occorre mostrare perché di fatto i nostri simboli possano legittimamente essere interpretati come moltiplicazione. Orbene, si ha che: in primo luogo, A(1) deve essere tale da risultare uguale ad A, giacché l’atto di conoscenza Α ipso facto è l’atto di conoscenza dell’oggetto «1», e dunque che lo indichiamo o meno con un simbolo specifico, il significato rimarrà immutato. Di conseguenza,
ove è il segno di identità. In secondo luogo, la relazione tra Α1 e 1 deve equivalere a quella intrattenuta da A2 con A1, da A3 con A2, e così via, poiché solo tramite un atto di conoscenza si distinguono due potenze adiacenti An e Αn-1. Vi chiederete perché mai proprio «relazione», e non «diversità». Perché potenze differenti sono delle sostanze eterogenee, sicché non possono essere addizionate e confrontate tra loro (come 5 sedie con 3 calamai, oppure 5 anime con 3 panche), e perciò per compararli bisogna coglierne la relazione. Quindi:
La (12) mostra che l’operazione simbolica con A non può essere uguale a quella adiacente [A≠A+1]; la (13) dimostra inoltre questa operazione non può essere l’elevamento a potenza perché
Rimane solo la moltiplicazione. Certamente si potrebbe fornire anche una rigorosa dimostrazione matematica, ricorrendo alla teoria delle differenze finite, risolvere un’equazione funzionale. Ma lo rimando ad un lavoro futuro, tanto più che sarebbe fuori luogo in questa esposizione divulgativa9.
19. Abbiamo dunque a che fare con una serie (11). A questo punto sorge la domanda: come indicare l’incognita, l’indifferenziato oggetto di conoscenza, il nostro «1»? In altri termini, che cosa sarà esso dal punto di vista del soggetto conoscente? Noi comunque parliamo del non-conosciuto, il che vuol dire che in qualche modo lo conosciamo, poiché non si può parlare di ciò che sia ignoto del tutto; differentemente le nostre sarebbero delle parole vuote, prive di qualunque senso. Orbene, che cos’è questo oggetto «1» rispetto all’operatore iterativo A? Come introdurre la simmetria nel nostro simbolismo? Come realizzare l’uniformità dei simboli? Ragionando rigorosamente, si può dire: ad esso, all’oggetto della nostra distinzione, all’«1» non è applicata alcuna operazione di distinzione, cioè i=0. In questo senso esso può essere espresso, dal punto di vista del processo conoscitivo, con Ao oppure, impiegando l’altra nomenclatura, con Ao. In effetti, questa scrittura è molto appropriata, avendosi:
perché qualsiasi numero elevato 0 è uguale a 1.
Quindi, contrassegnando l’oggetto incognito con Ao, non esuliamo dalla simbologia iniziale, ma la approfondiamo soltanto. Prima avevamo indicato l’oggetto di conoscenza con «1», come qualcosa di eterogeneo rispetto ad A. Adesso, invece, sotto la forma di Ao, questo «1» è debitamente uniformato alla serie (1) o alla (11), e di conseguenza è inserito nella serie iterativa. In altre parole, l’oggetto di conoscenza è posto nella serie delle potenze della coscienza.
Forse non è inutile spendere ancora qualche parola sulla conoscenza di potenza nulla, cioè sulla «cosa». La conclusione che Ao, la conoscenza di potenza nulla corrisponda all’oggetto o alla «cosa», all’«1», all’unità dell’attività conoscitiva, non deve meravigliarci o sembrare strano. In effetti, dal punto di vista gnoseologico, il fatto stesso che parliamo di una cosa dimostra che essa rappresenti una qualche conoscenza (altrimenti parleremmo senza sapere che cosa stiamo dicendo). La cosa è conoscenza di per sé. Sì, ma di che genere? In quanto conoscenza deve essere spirito, ma in modo tale che lo spirito non sappia della propria condizione di res; e dunque sia sì un atto dello spirito, essendo tuttavia per esso come un risultato compiuto.
20. A questo punto fa capolino una domanda: Come interpretare questo oggetto Ao, incognito ma conoscibile? O ancora: Quale relazione esso intrattiene con il processo conoscitivo? Per prima cosa ricordiamo che questo vale per ogni An. Si tratta di una conoscenza pregressa An-1:
cioè An è l’operazione di distinzione A applicata ad An-1.
Più specificamente, A1 è la conoscenza Ao; ma Ao è l’oggetto, la «cosa». Oggetto è poi qualunque conoscenza rispetto alla conoscenza di grado successivo: qualunque An è oggetto rispetto ad An+1. Ma che cos’è in se stesso? Se ci vogliamo servire della terminologia da noi predisposta, dovremo dire: Ao (cioè 1) è anch’esso conoscenza. Ma di che genere è la conoscenza A1? Essa è conoscenza conoscente, è conoscenza consapevole, conoscenza autocosciente, e così via. Ma qui Ao è fuori posto. Benché sia conoscenza, essa non è tuttavia conosciuta come tale, come conoscenza. Ao è conoscenza inconscia o non-sciente. Si tratta di una conoscenza che non ha raggiunto il grado di conoscenza, non pervenuta alla coscienza, non cosciente. L’oggetto di conoscenza in sé, dunque, è una conoscenza, ma inconscia. Ripetiamo ancora quanto già detto: l’oggetto di conoscenza è pure conoscenza, inconscia. Dal punto di vista della conoscenza, quel che è conoscibile è conoscenza inconscia, sicché il processo conoscitivo non è altro che la presa di coscienza di quanto già alberga nello spirito, seppure in una forma inconsapevole.
21. Ma andiamo avanti. Voi certamente sapete che nell’algebra esistono gradi negativi con esponenti negativi. Sviluppando ulteriormente la nostra simbologia, ci si può domandare che cosa indichino i simboli
oppure, ed è lo stesso, i simboli
Per rispondere a questa domanda, cercheremo di conoscere una di queste potenze, ipotizzate ma per adesso a noi ignote. Si consideri A-3. Conoscerlo equivale ad applicare su di esso l’operazione di distinzione A. Otteniamo:
risultato ancora non del tutto chiaro. Consideriamo ancora A-2.
Abbiamo:
Considerando A-1, troviamo:
Allora, applicando ad A-3 l’operazione di distinzione per tre volte, perveniamo ad una conoscenza inconscia, o all’oggetto «1». È chiaro che considerando A-3 un numero ancora maggiore di volte, si avrà A1, A2, ecc. Questo si sarebbe potuto ottenere anche immediatamente, applicando subito un’operazione multipla di distinzione:
oppure, se interpretiamo la potenza negativa come una frazione, ma con esponente positivo, otteniamo:
22. In altre parole, le potenze negative della coscienza sono quelle potenze alle quali l’operazione di distinzione A si deve applicare più volte per ottenere questo o quel grado di coscienza. O ancora: le potenze negative sono dei livelli inconsci oppure, meglio, subconsci dello spirito, che s’immergono sempre più a fondo nelle viscere dell’oggettività. Esse sono le cose “più cose” delle cose stesse, quam res reales. Da questo si capisce che quanto più in profondità risiede questa res realiоr nello spirito, tanto più intensa deve essere l’attività di distinzione della conoscenza affinché la res realiоr sia riconosciuta.
Probabilmente vi chiederete: che cosa sono concretamente queste potenze negative della conoscenza? A questo quesito, poi, ne segue un altro: si possono concretamente comprendere questi livelli di reitas più profondi della cosa stessa? Non siamo condannati a restare sempre dinnanzi ad una loro conoscenza astratta, “gnoseologica”, poiché una loro conoscenza concreta li eleverebbe al grado cosciente, privandoli così proprio di quella proprietà in virtù della quale vogliamo comprenderli concretamente? Non dovremmo pensare che proprio questa proprietà della “cosa” (cioè una componente subconscia maggiore di quella cosciente, una realitas più realis della res) verrebbe meno con un processo conoscitivo simile? È a queste due ultime domande che bisogna accordare la priorità sulla prima.
Effettivamente, mediante un processo di graduale differenziazione priveremmo queste potenze minori della loro caratteristica reitas. Tale è necessariamente il sapere scientifico, che percorre metodicamente tutti i gradini consolidandosi, e pone necessariamente in mutua correlazione gli oggetti di conoscenza, trasformando così la realtà in una minuta trama di concetti. Ma può aversi anche una sapere non metodico, che conduca subito l’oggetto attraverso poche potenze, e che introduca senza mediazioni l’inconscio nella sfera della coscienza (in questo modo Hartmann definisce la mistica10). Esiste dunque una conoscenza di questa attività inconscia in quanto tale.
23. Ma ci si può avvicinare alle potenze negative anche da un altro versante. In effetti il simbolo A è stato da noi considerato non solo un operatore (operator), ma anche un operando (operandum); non solo un simbolo, col quale effettuare un’operazione, ma anche un simbolo sul quale effettuarla. Ne discende per analogia che, una volta interpretate le potenze negative come entità conoscibili, come operandi, possiamo ora considerarle degli operatori, delle entità “conoscitive”, “conoscenti”, un qualcosa dalla natura peculiare. Quale? Per rispondere alla domanda applicheremo il nostro operatore ad una delle potenze positive, a noi già note, e osserveremo che cosa accade ad essa. Si consideri A2 e come operatore A-1:
oppure
24. Eseguendo su una potenza positiva l’operazione A-1 se ne abbassa il grado, il rango. Detto altrimenti, A-1 è l’operazione inversa di A, che è l’operazione di differenziazione e A-1 quella d’integrazione; A è l’operazione di distinzione e A-1 quella di mescolamento, di con-fusione; A è l’operazione del conoscere e A-1 quella di non-conoscenza, o più esattamente di “disapprendimento”; A è l’operazione di formazione del giudizio e A-1 quella di annullamento del giudizio; A è la moltiplicazione gnoseologica e A-1[=1/A] la divisione gnoseologica; A è l’operazione di elevamento del rango della potenza di coscienza e A-1 quella del suo abbassamento; A è l’operazione di riflessione, A-1 quella di inflessione, del rientro della coscienza in se stessa, ma non su se stessa, non in sich, bensì an sich. In una parola, gli operatori A e A-1sono antagonisti, “in lotta”, opposti polarmente.
25. In tal modo ci avviciniamo ad una nuova comprensione della conoscenza, intendendo quest’ultima parola non nel senso di A, bensì come attività conoscitiva dello spirito.
La conoscenza, nella sua struttura globale è costituita da una serie di atti di riflessione infinita sia a destra che a sinistra, se si considera la parola «riflessione» con un’accezione ampia, includendovi il concetto di inflessione, e più specificamente, dalla serie
Questa serie, se presa come insieme transfinito ordinato, individua da due elementi, Αω a destra e A-ω a sinistra, i quali, non appartenendo alla serie stessa, ne costituiscono anche i limiti. Eseguendo l’operazione A su qualsiasi elemento della serie, la coscienza si sposta dalla parte di Aω, mentre se vi si esegue l’operazione A-1, si sposta dalla parte di A-ω. La serie (30), in quanto individua l’elemento esterno di frontiera Αω, cioè se la consideriamo in senso ascendente, si chiama filosofia, , amore per la saggezza. Ma è possibile considerare la medesima serie (26) in quanto individua l’elemento esterno di frontiera A-ω, vedendovi cioè una serie discendente. In quest’ultimo caso sarebbe opportuno battezzare la nostra serie (30) col neologismo «nicosofia», , avversione per la saggezza; però certamente non in senso deteriore, non nel senso di un giudizio di valore, bensì per rimarcare un divergere dalla riflessione, un protendersi verso le radici dell’essere e la caligine della notte primordiale. A è un atto di filosofia, A-1 un atto di nicosofia.
26. Ciascun membro della serie risulta conoscibile rispetto al successivo e conoscente rispetto al precedente. L’operatore A rende il conoscibile conoscente; A-1, al contrario, rende il conoscente conoscibile. A è pertanto l’operazione di passaggio dall’oggettività alla soggettività, dall’oggetto al soggetto, da una conoscenza ad un’altra più grande. A è l’operatore della soggettivazione; viceversa, A-1 è l’operazione di passaggio dalla soggettività all’oggettività, dal soggetto all’oggetto, da una maggiore ad una minore conoscenza. A-1 è l’operatore dell’oggettivazione.
27. Ogni atto di riflessione è così soggetto ed oggetto insieme: soggetto “dalla parte sinistra” e oggetto “dalla parte destra”. Ciascun membro della serie è una potenza, è soggetto ed oggetto. Ma l’oggetto è ciò che chiamiamo principio reale, e il soggetto ciò che chiamiamo principio ideale. Ne consegue che ogni atto di coscienza è reale rispetto al successivo, e ideale rispetto al precedente. Ogni atto di conoscenza è ideale e reale, cioè ideal-reale e real-ideale.
28. In ogni potenza di conoscenza, pertanto, ideale e reale, soggetto ed oggetto sono inscindibili, sebbene non si fondano fino all’indistinzione. Essi formano una biunità, e gli oggetti di conoscenza sono altresì immanenti al medesimo processo di conoscenza e al soggetto conoscente.
29. Lo si può spiegare anche così: qualunque atto conoscitivo è ideale. E, da questo punto di vista, ideale è altresì qualsivoglia oggetto conoscibile; né potrebbe essere diversamente. D’altronde, se esso non fosse ideale, non verrebbe neppure conosciuto, in quanto assolutamente incomprensibile: come si conosce ciò che è del tutto dissimile dal conoscente? Come può la conoscenza assimilare quel che è radicalmente differente da essa? Conoscere quello che non è in alcun modo conoscenza, vale a dire un principio ideale, sarebbe la trasformazione di un “a” in un “non-a” nell’atto del giudizio. Nell’atto conoscitivo, perciò la natura ideale del conosciuto non si crea, ma si disvela soltanto, si rinviene, si riconosce.
30. Ma, per altro verso, qualsiasi atto conoscitivo è reale, dato che è un processo oggettivo, strutturante, che avanza nella realtà. Formulerò adesso un’affermazione non del tutto esatta, ma comunque esplicativa: il processo di conoscenza è considerato nella sua materialità, come un processo nervoso, l’innervazione delle corde vocali, i suoni, le contrazioni muscolari, ecc. E questo è un dato reale. Ma quanto detto è il primo e più grezzo componente del processo del pensiero. Siamo a livello di res e nel senso più sottile (correnti di fluidi, emanazioni, e in generale tutto il complesso dei fenomeni organici “occulti”, concomitanti degli atti conoscitivi). Se prima abbiamo detto che qualunque pensiero, nonché la cosa stessa, è idealità, diciamo ora che qualunque pensiero è realtà, come pure la cosa stessa. Non è soltanto la cosa ad essere “pensieriforme”, ma anche il pensiero ad essere “cosiforme”. Il pensiero possiede in sé le cose sotto la specie del proprio contenuto. E questo perché il pensiero è una forza creativa nella sfera delle «cose». Si pensi all’ipnosi, agli esorcismi, alla creazione artistica, che trasforma la realtà, alla produzione scientifica, che irrompono nell’oggettività della vita: pure il pensiero stesso, se non direttamente (magari fosse direttamente!), in maniera indiretta, come ricorrendo alla dinamite, scaglia la montagna in mare! È in definitiva la montagna il punto di applicazione della forza del pensiero; la montagna stessa, non di certo un miraggio o una “rappresentazione” di essa, nel senso di una mera illusorietà: in caso contrario all’uomo non rimarrebbe che contemplare il caleidoscopio della propria psiche, senza poter essere artefice dell’esistenza e costruttore di cultura.
31. Il pensiero è pensiero di cose e dunque, differenziandosi dal proprio contenuto, esso non è una cosa. Ma, al contempo, il pensiero è pensiero di cose; e le cose sono il contenuto del pensiero, e pertanto si danno insieme col pensiero. Lo ripeto: il pensiero e la cosa formano una biunità.
32. Ma sorge una domanda: che cosa rende allora le potenze differenti l’una dall’altra, se ognuna di esse costituisce una biunità? E in che consiste propriamente la «cosa»?
Spostandoci verso A-ω aumentiamo la componente ideale della potenza, e di conseguenza ne diminuiamo la componente reale. Le potenze diventano sempre meno res. Noi risaliamo ab idealia ad idealiora. Al contrario, spostandoci nella direzione di A-ω, discendiamo a realia ad realiora.
Ao, ovvero la «cosa», nel senso corrente del termine, è l’equilibrio tra il momento ideale e quello reale. Ao è l’indistinzione del soggetto e dell’oggetto, l’identità di Io e non-Io, l’indifferenziazione o “indifferenzialità” del conoscente e del conosciuto. Ao è nel contempo limite superiore delle potenze negative rispetto alla serie (30), ed inferiore rispetto a quella delle potenze positive. Ao è il maximum dell’idealità o il massimo grado della coscienza, nella sfera dell’inconscio, ed il maximum della realtà, o dell’inconscio, nella sfera del cosciente. E inversamente, Ao è il minimum del reale nella sfera dell’inconscio ed il minimum di idealità nella sfera del cosciente.
In tal modo, Ao è la frontiera tra due mondi, il primo dei quali, quello delle potenze positive, possiamo chiamare mondo dell’Io in senso lato; l’altro, quello della potenze negative, mondo del non-Io, intendendo anche questo termine nel senso più corrente. E qui non dobbiamo tuttavia dimenticare che ciascuna potenza è oggettiva rispetto alle une, e soggettiva rispetto alle altre.
33. Che cos’è in questo caso il «soggetto puro», vale a dire quale potenza è soggetto rispetto a tutte le altre, non essendo mai oggetto per alcuna? Che cos’è la forma pura, o lo schema della soggettività? In che cosa consiste il limite della soggettività? Detto diversamente, che cos’è il soggetto trascendentale, il soggetto in sé? Appare chiaro che esso debba essere esterno alla serie delle potenze (30), trascendente rispetto alla conoscenza, sebbene postulato da essa, cioè dalla serie (30). Esso per la serie (30) è la frontiera dell’idealità a destra, il suo limite superiore; e rispetto alla conoscenza stessa, nel complesso della coscienza medesima, gnoseologicamente non può significare altro che un rimando alla possibilità di una discesa della coscienza protratta a piacere ab idealia ad idealiora. Il soggetto gnoseologicamente trascendentale, l’Io puro, non è altro che l’intera serie (30) nel suo aspetto ideale. Che cos’è l’Io puro? È il tutto, ma preso nell’idealità di una relazione gerarchizzata, un tutto ordinato in quanto ideale. Il soggetto gnoseologicamente trascendentale non è mai dato sotto forma di conosciuto (differentemente sarebbe oggetto!), ma è dato semplicemente. In una parola, esso è quello che abbiamo indicato col simbolo Aω.
34. A questo punto appare spontaneo chiedersi che cosa sia l’«oggetto puro», ovvero una potenza tale da essere oggetto rispetto a tutte le altre, non essendo mai oggetto di alcuna. O ancora: che cos’è la pura forma, o schema dell’oggettività, la cosa liminale o limite dell’oggettività, della realitas? In altri termini, che cosa sarebbe l’«oggetto trascendente», l’«oggetto in sé», o «cosa in sé», più esattamente «intorno a sé»? Risulta chiaro che anch’esso, questo oggetto, deve essere esterno alla serie delle potenze (30), cioè è trascendente rispetto alla conoscenza, benché sia postulato da quest’ultima, dalla serie (30). È la frontiera ideale a sinistra della serie (30), il suo limite inferiore, e rispetto alla conoscenza medesima, al suo assetto, gnoseologicamente, non può che segnalare la possibilità di una discesa della conoscenza protratta a piacere a realia ad realiora. L’oggetto gnoseologicamente trascendente, la «cosa in sé», il non-Io puro, è null’altro che l’intera serie (30) sotto il suo aspetto reale. Che cos’è il puro non-Io? È il tutto considerato nella realtà di una relazione gerarchizzata, un tutto ordinato in quanto reale. Un oggetto trascendente ontologicamente non si dà mai (altrimenti sarebbe un soggetto!), ma è sempre soltanto dato. In una parola, esso è ciò che abbiamo contrassegnato col simbolo A-ωgiacché, se A-ω fosse dato, si potrebbe ricavare A-ω-1, e A-ω diventerebbe soggetto.
35. E ancora, il soggetto trascendentale è l’intera conoscenza (conoscente) nel suo complesso. L’oggetto trascendente è l’intera conoscenza (conosciuta) nel suo complesso. In realtà sono la medesima cosa; ma differiscono per tipologia, per dirla con Cantor. In realtà, l’Io assoluto è lo stesso che il non-Io assoluto, e sono ambedue pari a qualunque potenza finita. Tutto è in tutto, e perciò tutto è uguale a tutto.
36. Quanto si è venuto dicendo è illustrato efficacemente dal seguente schema:
Rappresentiamo un sistema, un fascio infinito di cerchi concentrici, che da una parte “si addensino” intorno al centro avvicinandosi infinitamente ad esso, a rappresentare il «soggetto trascendentale» Αω, e che dall’altra aumentino illimitatamente di raggio tendendo ad un cerchio di grandezza infinita, che rappresenta la «cosa in sé», A-ω. A fungere da frontiera tra Io e non-Io (la cosa) sarà uno dei cerchi, Ao, mentre gli altri cerchi saranno contrassegnati progressivamente con Ai (i = ±1, 2, 3, …, n,…) secondo i valori della serie (30). Dopodiché coloreremo tutti gli anelli, per esempio quelli esterni di azzurro e gli interni di rosa, facendo sì che l’intensità della colorazione dello spazio tra coppie di cerchi concentrici corrisponda al grado di avanzamento verso la parte soggettiva o oggettiva della serie (30); mentre la tinta rossa o blu indicherà la prevalenza della soggettività o dell’oggettività. I cerchi più interni rispetto ad Ao rappresenteranno il campo dell’«Io», mentre quelli esterni il campo del «non-Io».
37. Magari sarebbe più appropriato anche tracciare i cerchi che rappresentano le potenze negative in modo che si avvicinino al cerchio limite di raggio finito, che ancora una volta rappresenta A-ω.
38. Andiamo oltre nello studio dei sistemi delle potenze di conoscenza (30). L’atto conoscitivo n-esimo di potenza An è conoscenza dell’oggetto An-1, ma An-1 è conoscenza della conoscenza An-2; An-2 è conoscenza della conoscenza An-3, e via di seguito, fino ad Ao incluso, ed oltre: Ao è conoscenza di A-1, A-1 di A-2, ecc. Pertanto, non solo An-1 funge da argomento di An, ma anche An-2, An-3, An-4, ecc., come pure Ao, A-1, A-2, e così via. Pertanto, ogni atto di conoscenza An include un’infinità di contenuti, tutta la serie (30) fino ad A-n-1incluso, cioè tutto il campo del subconscio, la cosa e tutti i precedenti gradi di conoscenza An, laddove An rappresenta qualsivoglia Ai, con i < n.
39. Ma non basta. Se esiste un’operazione A-1, come abbiamo già visto, l’operazione di annullamento del giudizio, di fusione, confluenza, oblio, ecc., vale a dire l’operazione inversa di A, allora possiamo considerare la relazione tra An e tutte le potenze che vengono dopo. Eseguendo l’operazione A-1 su An+1, An+2, An+3, … un numero di volte a piacere, otterremo sempre An.
An conterrà così non soltanto l’intera serie delle potenze di conoscenza più piccole, ma anche tutta quella delle più grandi.
40. Per An conoscibile, apprendibile direttamente è solo An-1. Mentre tutte le potenze che precedono An-1 (tutti gli Ai per i < n-1), rispetto ad An (alla «conoscenza potenziata») sono «infra-conoscibili», giacciono sotto il livello di conoscenza.
Al contrario, tutte le potenze successive ad An-1 (tutti gli Ai, con i > n) sono «ultra-conoscibili», giacciono al di sopra del livello di conoscenza. Le une non sono più conosciute, le altre non lo sono ancora. Nel primo caso si ha un infinito prima, nell’altro un infinito dopo. Da una parte c’è la dimenticanza del passato, dall’altra l’oblio del futuro.
41. Difatti, la legittimità di questa nuova interpretazione della conoscenza – alla luce dell’idea di tempo – risulta da quanto segue.
L’alternarsi consecutivo delle potenze di conoscenza produce l’idea di tempo. Il movimento verso la parte positiva della serie rappresenta il passaggio dal passato al futuro; il movimento verso la parte opposta quello dal futuro al passato. Così, la coscienza dei morenti, di chi anneghi, di chi cada da un’altura, ecc., quando l’organismo è privo di conoscenza (oblio, astenia, ecc.), genera una sequenza temporale che dal passato si volge al presente. E al contrario, l’atto creativo del conoscere attrae nel futuro, dà un’anticipazione del futuro, la profezia. La confusione mentale è lo smarrimento di sé nel presente, l’atto di movimento verso il passato, e perciò la creazione intellettuale un atto di movimento verso il futuro. Sia lo smarrimento di sé nel presente, – cioè la confusione mentale – che la creazione intellettuale muovono dal presente, ma secondo direzioni opposte.
Così, se A è il presente (nel presente), che cos’è allora il passato? È un sistema di potenze {Ai}, con i < n. Che cosa è il futuro? È un sistema di potenze {Ai}, ove i > n. Il soggetto della conoscenza è il futuro, il suo oggetto il passato; l’atto di conoscenza in sé è il presente. La cosa in sé è un presente assoluto; il soggetto trascendentale è un futuro assoluto.
42. La questione è adesso come la serie di potenze generi da sé la sequenza temporale. In effetti, se la nostra serie di potenze (legge di svelamento della coscienza) deve essere la fonte del processo storico delle filosofia, allora essa, questa serie, deve – come si è detto – essere generatrice di storia per sua natura. Ma generando la storia, già non può essere storica, a rigore non può essa stessa essere storia. Essa è generatrice di storia, sicché non può essere a sua volta storica. È al di fuori della storia, e conseguentemente fuori dal tempo. Ne consegue che in esso ci debbano essere delle forze che ne svelino il contenuto come processo nel tempo, oppure, ancora, che siano tempo riempito da accadimenti storici, forze “cronogeniche”, generatrici del tempo. E qui c’è altresì una pietra d’inciampo. Voi avrete già pensato: ma già per passare da potenza a potenza è necessario il tempo. Com’è che una serie di potenze genera il tempo, quando a sua volta ha bisogno del tempo per la sua costituzione? Sono argomentazioni idem рer idem. Il tempo è una condizione della serie, e la serie una condizione del tempo. Abbiamo numerato i membri della serie. Ma forse la numerazione non dimostra a sufficienza che la serie non può esistere senza tempo, perché la numerazione, l’ordine di successione, già presuppone il tempo e senza tempo non può esistere? Rispondo senza indugi alle Vostre domande con un’altra domanda.
Davvero qualunque ordine di avvicendamento, qualsiasi successione presuppone il tempo? Oppure, forse, è possibile una “concatenazione logica”, atemporale e persino extratemporale o sovratemporale? Ora risponderò brevemente alla domanda posta come segue.
Considerate un sistema complesso di argomentazioni, che siano filosofiche o di altra natura, possibilmente rigorosamente logiche, poniamo il sistema di Spinoza qual è esposto nell’Etica, o un qualche teorema geometrico. Se la leggete o valutate attentamente per la prima volta, punti formalmente ed esteriormente separati si corrispondono tra loro, si inizia a innescare il meccanismo dei ragionamenti. La seconda volta questo movimento si compie più agevolmente; punti separati si accostano più stabilmente tra loro, iniziano a saldarsi l’uno all’altro. La terza volta abbiamo nuovamente un’accelerazione del movimento e una saldatura più organica. Alla fin fine, tutta la trafila di ragionamenti scorre quasi come un tutt’uno, come un corpo coi propri organi. Noi discerniamo un primo momento, un secondo, e via di seguito, ma riguardo ad essi non si può dire che siano momenti temporali; no, sono momenti logici, dialettici, estetici, etici, eccetera. L’intero gruppo delle posizioni tende al limite, al tempo nullo, a diventare un attimo. Da qui postuliamo una successione istantanea, questo limite, come realtà. In seguito tenterò di mostrare che questa realtà esiste effettivamente, ma ora dirò soltanto che per noi non è essa ad essere importante, bensì il suo concetto, il concetto di avvicendamento extratemporale di momenti. Ecco, di questo concetto extratemporale di successione noi adesso ci avvaliamo anche per giustificare la derivazione dell’idea di tempo dalla serie extratemporale delle potenze.
43. Potrebbe rivelarsi poco chiaro come questo sistema di potenze sia il futuro o il passato. Ma è certamente così: esistono il futuro ed il passato. Come si colloca in modo ignoto nel presente la parte del contenuto di questo presente, An? È il coordinamento di parti del presente correlate fra loro la caratteristica in forza della quale noi denominiamo una parte «futuro» e l’altra «presente» in senso stretto, e la terza «passato». Ma che cos’è il coordinamento, se non una relazione gerarchizzata tra le parti (la posizione di una parte come prima, di un’altra come seconda, di una terza come terza)? È la numerazione quella che crea l’idea di tempo. L’eterogeneità qualitativa delle potenze: ecco che cosa fa spazio alla numerazione. Le differenze quantitative delle potenze sono di fatto solo una proiezione di quelle qualitative sulla sequenza temporale originata da queste ultime. Le differenze quantitative sono costruzioni su quelle qualitative. E così l’interrelazione della serie delle potenze con l’idea di tempo è ora chiara:
44. Ma perché mai il presente è un mero punto? Perché quando parliamo di esso già non c’è più? Perché tutti i nostri discorsi possono vertere solo sul passato? Perché tempus fugit ed in maniera irreparabile?
Il presente è un punto perché è la potenza unitaria, vale a dire un atto unitario, che non presenta parti. Siccome vogliamo considerare l’oggetto un’unità priva di parti, il suo atto distintivo è privo di molteplicità, assolutamente semplice. Il presente non esiste quando cominciamo a parlarne, perché iniziando a parlare del presente, di An, lo si deve rendere oggetto (a partire dal soggetto). Ma una volta oggetto, esso già cala di posizione rispetto al soggetto del discorso An+1. È per questa ragione che i nostri discorsi possono essere solo sul passato, cioè su una delle precedenti potenze di conoscenza. Fugit tempus? No, perché noi non pensiamo, non viviamo. Lo scorrere del tempo è un’illusione assimilabile a quella del girotondo degli alberi quando si viaggia in treno. Non è il tempo ad allontanarsi da noi, ma siamo noi a distanziarci dal presente, andando da An verso An+1, An+2 e via di seguito, allontanandoci lungo la conoscenza di A. Se non lo avessimo conosciuto, se non ci fosse stata la riflessione (coscienza intorpidita, deliquio, anestesia, sogni, ecc.), il tempo non sarebbe fuggito via, e avremmo vissuto in un eterno “adesso”.Voi direte: ma per gli altri, “oggettivamente”, la persona vivrebbe nel tempo o no?
Per gli altri sì, cioè essi muterebbero il proprio presente rispetto a questa persona. Non mutando il proprio presente rispetto a lui, nemmeno per loro egli vivrebbe nel tempo: «Si raccoglie quel che si è seminato». Quando ci si sveglia dopo un sonno profondo o si torna in sé dopo l’anestesia o il deliquio, come l’addormentata della fiaba che si risveglia principessa, non si sa se sia trascorso del tempo o no: non si è vissuti nel tempo.
45. Ripetiamo così la rivoluzione copernicana, ma solo in senso lato. Quello che Copernico ha detto sul moto dei corpi celesti, lo estendiamo ora a qualsivoglia movimento, a qualsiasi mutamento, al tempo medesimo come al “moto in genere”, al “moto puro”, alla “forma” o alla “struttura del moto”. Copernico annunciò che il moto del sole è apparente e determinato dal fatto che ci muoviamo. Mentre noi ora dichiariamo che il tempo non scorre, ma sembra soltanto che lo faccia in dipendenza dal fatto che noi mutiamo il punto di osservazione dei nostri atti conoscitivi. Noi corriamo lungo una serie di potenze, e immaginiamo che la serie delle potenze si muova davanti a noi. È questo scorrere delle potenze nella coscienza che noi chiamiamo tempo.
46. Ma torniamo alle nostre potenze. Ogni atto conoscitivo An include un intero insieme di atti di conoscenza infinito in entrambe le direzioni, nel suo passato e nel suo futuro, intendendo i termini «passato» e «futuro» come connotazioni temporali. Insomma, ogni atto conoscitivo include la res dimenticata in sé anche del soggetto trascendentale non più presente alla mente. Quantunque la cosa in sé sia trascendente rispetto alla coscienza e il soggetto puro sia trascendentale, essi sono tuttavia contenuti sempre in ogni atto del conoscere.
47. Noi ci troviamo a pensare quello che non pensiamo più e quello che non avevamo più pensato. Conosciamo ciò che non conosciamo più e che ancora non sappiamo. Ma tutto, tanto il presente che il futuro sono in un certo senso in noi, poiché la conoscenza potenziale non è semplicemente una possibilità astratta di conoscere, ma assenza di conoscenza, non , ma piuttosto autentica potenza conoscitiva, una particolare condizione della conoscenza, ; non conoscenza assente, bensì la conoscenza stessa presente in maniera peculiare.
48. Quindi qualsiasi identificazione è reminiscenza o di una “condizione precedente” della conoscenza, della conoscenza in una sua “condizione passata”, o della conoscenza nella sua “condizione futura”; e qui si può enumerare pure lo spostamento frammentario verso la coscienza delle potenze dalla sfera del sub e sovracosciente, che ricevono da questa frammentarietà una connotazione extratemporale. Tali processi mistici potrebbero essere opportunamente chiamati «memoria del presente». Esiste inoltre una memoria del futuro, così come si dà una memoria del passato, entrambe legate a un ordine temporale, ma che trasferiscono il passato ed il futuro con le loro connotazioni temporali nel presente. Questa memoria del futuro, però, si ritrova concretamente di fatto nella psicologia? Lo stesso avvento del futuro mostra che noi ce ne siamo “ricordati”, che l’abbiamo riconosciuto; quando poi la coscienza, inoltrandosi in avanti, è come se percorresse in velocità la serie delle potenze, ecco il verificarsi di incursioni nel futuro, presentimenti, predizioni, ecc. A questi movimenti disordinati afferiscono anche i fenomeni di paramnesia, chiaroveggenza e chiaroudienza, i sogni premonitori, infine l’anticipazione delle idee scientifiche e delle scoperte. In particolare, con questi medesimi processi è correlata la dottrina platonica della conoscenza come , «anamnesi» del mondo iperuranio, e la dottrina nietzschiana dell’«eterno ritorno», esprimendosi psicologicamente ora su una base, ora su un’altra. Ed è qui che si situa anche il fenomeno della paramnesia, che si verifica quando quel che si vive in un dato momento lo si era già vissuto esattamente allo stesso modo. Ogni lavoro scientifico è contenuto nel precedente, e viceversa; una cosa si ritrova nell’altra: c’è solo da “scavare”. È una semplice verità, dalla mancata assimilazione della quale è derivato lo storicismo del XIX secolo, con la sua smodata ed esasperata attenzione a ogni genere di “influenze” storiche. Ma è indiscutibile che in ogni opera si possano ritrovare tutte quelle precedenti e seguenti, sedimentatesi in essa, come foglioline accartocciate nella gemma di un albero. Spesso l’autore non ha alcun sentore dei propri legami col passato, né col futuro, e non comprende se medesimo. A chi studi il pensiero di un altro capita di continuo di constatarne di fatto i legami con quello di altri. Vengono in mente spontaneamente le parole di Heinrich Hertz, secondo cui talvolta è come se le formule matematiche fossero molto più perspicue di chi le ha ideate, giacché esse contengono in sé ciò che l’ideatore neppure sospettava, ma che si riscontra nella loro storia successiva.
Questa forza magica delle formule dipende proprio dal fatto che il loro compilatore conosceva molte cose, che però in se stesso non aveva sapute scorgere. E di nuovo ritornano alla mente le parole di Heinrich Heine: «Allorquando crea la propria opera, lo scrittore nell’anima è come se – conformemente alla dottrina pitagorica della trasmigrazione delle anime – avesse condotta un’esistenza precedente, per poi vagare sulla terra sotto varie forme: la sua ispirazione possiede tutti i caratteri della reminiscenza»11. E qui va inclusa anche la capacità dei grandi artisti di preconizzare simbolicamente il proprio destino nelle opere che realizzano (ricordo a titolo di esempio solo Lermontov, Puškin, Gogol’, Byron, О. Wilde).
49. Ricapitolando, possiamo fare uno schema illustrativo dei differenti tipi di memoria:
50. Oltre ad una conoscenza ordinata quanto alla consequenzialità dei passaggi da una potenza all’altra, esiste poi tutto un vasto campo del conoscere, per così dire, disordinato.
In senso lato, tutta questa conoscenza può essere denominata cumulativamente «mistica» oppure, più precisamente, «mistica naturale», in contrapposizione alla grazia soprannaturale. La mistica ci fornisce inoltre quella conoscenza tramite la quale si appalesa l’esistenza di molti livelli di realtà, di molte potenze negative. Sono qui da annoverare innanzitutto i sogni multipli. Tutti avrete presenti i casi in cui una persona vede in sogno se stesso che sogna, si sveglia e poi si riaddormenta. Risulta che il primo risveglio è avvenuto nel sonno: questo è il duplice sonno. Nel caso di tre risvegli successivi si ha un sonno triplice, e poi un sonno quadruplice, e così via. Avete notato che il passaggio dal sonno di secondo livello, per dir così, al sonno comune è accompagnato da una sensazione di aumento della coscienza, da un passaggio da qualcosa di subcosciente a qualcosa di relativamente cosciente? Questa sensazione di brusco passaggio è particolarmente dirompente, penosa e porta comunemente a sudare freddo. L’accostamento più aderente possibile è con la sensazione di essere sbalzati, di cadere, di sprofondare velocemente verso il basso, di essere trascinati in un vortice. Di contro, il ritorno a livelli di sonno “semplice” o allo stato di veglia è accompagnato da una sensazione di risalita, di ascensione, di emersione, fuoriuscita, espulsione, come di chi sia trascinato da una corrente. E subito, come tramortito da un colpo, il “sognatore” dimentica quanto ha visto. Con ogni probabilità, la dottrina platonica dell’oblio del mondo celeste da parte dell’anima precipitata in questo mondo che si scontra con la materia deve intendersi come l’espressione mitologica e plastica propria di tali esperienze o di altre affini. Non indugerò in dettagli fornendo una descrizione di queste tipologie di sonno multiplo e dei rispettivi risvegli multipli. Essi ricorrono nelle belle lettere: in Shelley, nelle Fiabe del gatto Murlyka (Kota Murlyka) di Nikolaj Wagner, in Hoffmann, in Gogol’, Lermontov, ecc.
Un’immagine ancora più chiara di questi passaggi dell’Io da un piano del subconscio all’altro è fornito dall’ipnosi. Molti ipnotizzati conoscono bene tale immersione in questo o quel grado di incoscienza. Questo passaggio è particolarmente percettibile se improvviso o rapido; in questo caso talora lo spavento è tale che l’ipnotizzato compie ogni sforzo per svegliarsi, e questo disturba l’ipnosi, o comunque interrompe il suo regolare svolgimento.
Quello che nell’ambito di un’iniziazione selvaggia in una sacra rappresentazione o nelle società religiose occulte si chiama «morte temporanea», che dappertutto, sempre e in tutti i riti consacratori tocca sperimentare all’iniziato, è ancora una volta uno dei più significativi gradi del subconscio, una potenza negativa A-n di grado n relativamente alto. I differenti «piani» dei teosofi, con tutta probabilità hanno anch’essi a che fare con i gradi negativi della conoscenza.
51. L’apprendimento è pertanto reminiscenza, come insegna Platone. La reminiscenza è un ritornare alla mente di ciò che l’anima aveva visto prima della nascita, nell’iperuranio. Platone si esprime in questo modo. Ma questa formulazione mitica della verità gnoseologica è una proiezione dei dati della gnoseologia sulla sequenza temporale, mentre invece la sequenza temporale, e conseguentemente il mito, sorge da elementi gnoseologici correlati gerarchicamente. Tutta la scienza è racchiusa in nuce in ogni suo inveramento peculiare. Tutti gli atti conoscitivi sono presenti in un atto singolarmente dato. Ogni giudizio equivale a tutta la filosofia. La conoscenza, come se non fosse limitata, è per sua stessa natura illimitata, e perciò irrazionale: per quanto chiara appaia la conoscenza, essa lo è soltanto sotto la coltre fulgida del “presente” (An), ma è oscura tendendo tanto verso Αω, quanto verso A-ω. Qualunque nostro pensiero tocca l’infinità della conoscenza. In ogni atto di apprendimento si manifesta nell’anima tutta la conoscenza. Dinnanzi a qualsivoglia apprendimento si agita nell’anima l’intera conoscenza.
52. È solo in questa maniera che si spiega perché possa soddisfare una conoscenza limitata, finita: ciò che è limitato è illimitato; la parte è l’intero; uno è tutti, , il condizionato è incondizionato, il temporale è eterno. Aver capito che in una data potenza finita della coscienza, corrispondente all’epoca e al momento della storia e della vita personale, ci sia dato un contenuto infinito, e perciò contenere le proprie passioni rivolte al suo contenuto: è in questo che consiste il vivere autenticamente, diventando saggi senza protendersi solo al futuro, poiché così facendo non è il giorno col suo carico di affanni ad espandersi sull’eternità, ma l’eternità a guardarci dalle profondità del quotidiano affanno.
53. A partire dal momento soggettivo della conoscenza, dunque, la teoria razionalista della conoscenza si è imbattuta in svariati tipi di conoscenza e a suo modo ha lumeggiato tutti i concetti essenziali della gnoseologia. Ma questa sua coesione, da sola, non dice ancora nulla di dirimente in favore del razionalismo, perché non disponiamo di alcun presupposto per affermare che il realismo o la sua forma più pura, l’intuizionismo, non rispondano in qualche modo agli stessi interrogativi della conoscenza.
Sacerdote Pavel Florenskij
4In questi paragrafi iniziali il pensiero prende corpo sotto l’influsso congiunto di Schelling, N. S. Trubeckoj e M. A. Ostroumov, Istorija filosofii v otnošenii k otkroveniju. Vzgljad na uslovija istoričeskogo razvitija filosofii [Storia della filosofia rispetto alla rivelazione. Uno sguardo alle condizioni dello sviluppo storico della filosofia], Tipografija Okružnogo štaba, Khar’kov 1886 (raccolta di articoli della rivista Vera i Razum [Fede e Ragione]). [n.d.a.].
5Il metodo della funzione indeterminata di Bugaev costituisce una generalizzazione del metodo di coefficienti indeterminati, esposto da Cartesio nella sua Geometria.
6M. A. Ostroumov, Istorija filosofii v otnošenii k otkroveniju, cit., p. 18. [n.d.a.].
7Della sequenza degli atti riflessivi Fichte si è occupato, per esempio, nel trattato Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre (1794); tr. it. Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, a cura di F. Costa, Laterza, Roma-Bari 1971.
8Il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) termina con le seguenti parole: «Questi sono, nella storia dell’autocoscienza, i momenti immutabili e costanti per ogni sapere, i quali nell’esperienza sono contrassegnati da una sequenza di gradi continua che può esser indicata e seguita dal semplice sostrato materiale sino all’organizzazione (tramite la quale ritorna in se stessa la natura inconsapevolmente produttiva) e di lì, per mezzo della ragione e del libero arbitrio, sino all’unificazione suprema della libertà e della necessità nell’arte (per la quale la natura produttiva con coscienza si richiude su se stessa e si compie)» (F. W. J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, a cura di Guido Boffi, Bompiani, Milano 2006, p. 591). La nomenclatura A e A2si riscontra nelle lezioni intitolate Zur Geschichte der neueren Philosophie, tenute nel 1827. (Cfr. F. W. J. Schelling, Sočinenija v 2 tomakh, II [Opere, in due volumi, II], Mosca 1989, pp. 475-476; tr. it. Lezioni monachesi sulla storia della filosofia moderna, a cura di G. Durante, Laterza, Roma-Bari 1996).
9Più rigorosamente, si può ragionare anche così:
La prima formula mostra quindi che l’operazione A è o la moltiplicazione o l’elevamento a potenza. Indicando poi per pura convenzione col segno «*» l’operazione di uguaglianza tra due potenze, scriviamo:
L’operazione * può essere o la differenza o la divisione. [n.d.a].
10Eduard von Hartmann, Suščhnost’ mirovogo processa ili filosofija Bessoznatel’nogo, Mosca 1875, p. 316 [L’essenza del processo cosmico o filosofia dell’Inconscio]: «(…) alla base dello slancio mistico soggiace un’illusione. È un impeto, una tensione a comprendere direttamente con una percezione cosciente l’identità dell’Inconscio unitotale col soggetto della conoscenza e godere della percezione di tale identità. Ma il fine di detta tensione è per sua natura irraggiungibile, poiché la coscienza non può uscire dai propri limiti e non può comprendere l’Inconscio come tale, e di conseguenza nemmeno l’unità di esso con l’individuo cosciente. Nell’ambito della mistica, poi, più che in qualunque altro, l’umanità in cammino individua l’illusione e se ne affranca. È impensabile che dopo la nostra età dei lumi si possa ripetere il Medioevo con la sua mistica».
11Heinrich Heine, Mysli i zametki [Pensieri e annotazioni], San Pietroburgo 1899, p. 130.
ABRAXAS
Collana diretta da Claudio Bonvecchio ed Elio Jucci
1.Olimpiodoro, Commentario al libro di Zosimo “sulla forza”, alle sentenze di Ermete e degli altri filosofi, traduzione e note di Ezio Albrile, 2007
2.Agostino D’Ippona, Le eresie, a cura di Claudio Bonvecchio, 2010
3.Raymond Ruyer, La Gnosi di Princeton, introduzione di Claudio Bonvecchio, 2011
4.Hermes Trismegisto, Liber Astutas. Trattato delle cause spirituali, a cura di Paolo Scopelliti e Abdessattar Chaouech, 2012
5.Ernesto Buonaiuti, Lo gnosticismo. Storia di antiche lotte religiose, 2012
6.Henry Corbin, Nell’Islam iranico. Aspetti spirituali e filosofici. 1. Lo shī’ismo duodecimano, a cura di Roberto Revello, prefazione di Claudio Bonvecchio, 2012
7.Apocalisse Cristiana.Ippolito, sull’Anticristo, 2012
8.Apocalisse Ebraica. Libro della rivelazione di Baruc, 2012
9.Apocalisse Islamica. Louis Massignon, I sette dormienti di Efeso, 2012
10.Henry Corbin, Tempo ciclico e gnosi ismailita, a cura di Roberto Revello, prefazione di Bernardo Nante, 2013
11.Ildegarda di Bingen, Come per lucido specchio. Libro dei meriti di vita, prefazione di Claudio Bonvecchio, a cura di Luisa Ghiringhelli, 2013