giovedì 31 maggio 2018



MAIGRET E L'AFFITTACAMERE
Georges Simenon
1
Come Maigret trascorse una
serata da scapolo e la concluse
all’ospedale Cochin
«Che ne direbbe di venire a mangiare qualcosa da noi, così,
senza cerimonie?».  Il buon Lucas aveva probabilmente aggiunto: «Mia moglie ne sarebbe felicissima, glielo assicuro».
Povero Lucas! Non era vero. Sua moglie, che si agitava per un nonnulla e considerava un martirio avere ospiti a cena, l’avrebbe sicuramente subissato di rimproveri.
Avevano lasciato insieme il Quai des Orfèvres verso le sette, mentre il sole splendeva ancora, si erano diretti verso la Brasserie Dauphine e si erano sistemati nel loro angolo. Avevano bevuto un primo aperitivo con lo sguardo fisso nel vuoto di chi ha appena finito di lavorare. Poi, pensando ad altro, Maigret aveva fatto tintinnare una moneta sul piattino per richiamare l’attenzione del cameriere e chiedergli il bis.
Sono cose senza importanza, è chiaro. Cose che assumono proporzioni esagerate quando le si esprime, ma che in realtà sono molto più sottili. Eppure Maigret era convinto che Lucas avesse pensato:
«Se il capo prende un altro
bicchiere è perché sua moglie è via».
Due giorni prima, infatti, la signora Maigret era stata chiamata in Alsazia al capezzale della sorella che doveva essere operata. Chissà, forse Lucas lo credeva disorientato, o infelice… In ogni caso, in quell’invito c’era un’insistenza involontariamente un po’ troppo affettuosa. E poi quel suo modo di guardarlo: come se lo compatisse. O erano solo sue fantasie? Ironia della sorte, da due giorni nessun caso lo tratteneva in ufficio dopo le sette di sera. Avrebbe
addirittura potuto andarsene alle sei, mentre di solito era un miracolo se riusciva ad arrivare a casa in tempo per la cena.
«No. Ne approfitto per andare al cinema» aveva risposto.
E aveva detto «approfitto» senza volerlo, senza averlo affatto pensato. Lui e Lucas si erano lasciati in place du Chatelet. L’ispettore si era precipitato giù per le scale del
métro, mentre Maigret era rimasto lì impalato in mezzo al marciapiede, indeciso sul da farsi. Il cielo era rosa, e anche le strade sembravano tingersi di rosa. Era una delle prime sere in cui nell’aria si sentiva la primavera, e i tavolini all’aperto dei bar erano pieni di gente. Cosa aveva voglia di mangiare? Dal momento che era solo e poteva andare ovunque volesse, si pose seriamente la questione, passando in rassegna i diversi ristoranti che lo tentavano, come per una serata speciale. Prima fece qualche passo verso place de la Concorde, ma ebbe un rimorso,  perché si stava allontanando da casa senza motivo. Vide nella vetrina di una salumeria delle lumache
cucinate in una salsina di burro e prezzemolo che sembravano davvero appetitose.
A sua moglie le lumache non piacevano e lui le mangiava di rado. Decise quindi di concedersele quella sera, di «approfittarne» insomma, ritornò sui suoi passi: c’era un
ristorante vicino alla Bastille la cui specialità erano proprio le lumache.
«È solo, commissario?».
Il cameriere, che lo conosceva
bene, lo guardò con un certo stupore e un pizzico di rimprovero. Essendo da solo non gli si poteva certo dare
un buon tavolo, e infatti lo fecero accomodare in una specie di corridoio, contro una colonna. In realtà non si era ripromesso niente di straordinario. Non era neanche vero che gli sarebbe
piaciuto andare al cinema. Non sapeva che farsene di quel suo corpaccione. Eppure era vagamente deluso.
«Che vino le porto?».
Non osò ordinarne uno troppo
costoso, sempre per non dare
l’impressione di approfittarne.
E tre quarti d’ora più tardi, quando i lampioni brillavano già nella sera azzurrina, si ritrovò di nuovo da solo in place de la Bastille. Era troppo presto per andare a letto. In ufficio aveva avuto il tempo di leggere il giornale della sera, e preferiva non incominciare un libro che l’avrebbe tenuto sveglio fino a notte inoltrata. Optò per un cinema e s’incamminò lungo i Grands Boulevards. Si fermò un paio di volte a dare un’occhiata alle locandine, ma nessuna lo invogliò. Una donna lo guardò con insistenza e lui quasi arrossì, pensando che avesse indovinato che era momentaneamente scapolo.
Si aspettava forse anche lei che ne approfittasse? La donna lo superò, si voltò e, dall’imbarazzo crescente del commissario, si convinse di avere a che fare con un cliente timido. Passandogli accanto gli mormorò qualche parola, e per liberarsene Maigret fu costretto a cambiare marciapiede. Perfino andare al cinema, così, da solo, diventava un gesto colpevole. In ogni caso si sentiva un po’ ridicolo. Allora si infilò in un bar e buttò giù un calvados. Anche lì una donna gli rivolse un sorriso ammiccante. Aveva bevuto al bancone di un bar migliaia di volte e mai aveva provato quella sensazione.
Per trovare un po’ di pace scelse una piccola sala seminterrata dove si proiettavano solo cinegiornali.
Alle dieci e mezzo era di nuovo fuori che gironzolava. Si fermò al bar di prima e, come fosse già un’abitudine, bevve un altro calvados; poi, riempiendosi la pipa, si avviò a passi lenti verso boulevard Richard-Lenoir.
Per tutta la sera si era sentito
fuori posto e, sebbene non avesse fatto nulla di male, in un angolino della sua coscienza c’era una specie di rimorso. Salendo le scale, tirò fuori la chiave dalla tasca. Da sotto la porta non filtrava luce e non c’era nessun profumo di cucina ad accoglierlo. Dovette girare da solo gli interruttori. Passando davanti alla credenza decise di servirsi un bicchierino, cosa che quella sera poteva fare senza aver prima scambiato un’occhiata con sua moglie.
Aveva iniziato a spogliarsi quando si accorse di non aver tirato le tende; si avvicinò alla finestra e, proprio mentre si stava togliendo le bretelle, squillò il telefono. Nello stesso istante ebbe la certezza che era accaduto qualcosa di spiacevole, e questo spiegava il suo malessere della serata.
«Pronto!…».
Sua cognata non era morta, visto che all’altro capo del filo non c’era sua moglie e la chiamata veniva da Parigi.
«È lei, capo?».
La Polizia giudiziaria, quindi.
Riconobbe la voce di Torrence, che al telefono squillava come una tromba.
«Meno male che è tornato a
casa. È la quarta volta che provo. Ho chiamato Lucas e mi ha detto che era andato al cinema, ma come facevo a…».
Il povero Torrence, sconvolto, non sapeva da che parte cominciare.
«Si tratta di Janvier…».
Maigret, quasi senza volerlo, fece la voce burbera:
«Che vuole Janvier?».
«Lo hanno appena portato al Cochin. Si è beccato una pallottola in pieno petto».
«Cosa?…».
«A quest’ora dev’essere sotto i ferri».
«Dove sei?».
«Al Quai. Qualcuno doveva pur rimanere qui. In rue Lhomond ho fatto il necessario. Lucas ha preso un taxi ed è corso all’ospedale. Ho anche avvertito la signora Janvier, che ormai sarà arrivata».
«Ci vado subito».
Stava per riagganciare e con una mano già si rimetteva le bretelle, quando gli venne in mente di chiedere:
«È stato Paulus?».
«Non lo sappiamo. Janvier era
da solo in strada. Aveva cominciato il turno alle sette. Lapointe doveva dargli il cambio alle sette del mattino».
«Hai mandato qualcuno alla pensione?».
«Sì. Sono ancora là. Mi tengono aggiornato per telefono. Non hanno trovato niente».
Maigret fu costretto ad arrivare fino in boulevard Voltaire per trovare un taxi. Rue Saint-Jacques era pressoché deserta, rischiarata solo dalle luci di qualche bistrot. Giunto al Cochin, entrò a precipizio e nell’androne fu investito dall’odore tipico di tutti gli ospedali in cui era stato in vita sua. Perché circondare di un’atmosfera così lugubre, così tetra, i malati, i feriti, le persone che si cerca di tener in vita e quelle che stanno morendo? Perché quella luce al tempo stesso tenue e cruda che esiste solo lì e in certi uffici  amministrativi?  E perché, fin dall’ingresso,  si viene accolti da personaggi dall’aspetto arcigno? 
Poco mancò che gli  chiedessero di esibire un
 documento. L’interno di guardia  sembrava un ragazzino e portava disinvoltamente la  bustina bianca sulle ventitré. 
«Padiglione C. La  faccio accompagnare…». 
Ribolliva d’impazienza. Era  in collera contro tutti, e
 adesso ce l’aveva con  l’infermiera che lo guidava per  via del suo rossetto e  dei suoi capelli arricciati. 
Corsie debolmenteilluminate, scale e, in fondo a un  lungo corridoio, tre  sagome. Il tratto che  lo separava da esse  pareva interminabile il pavimento più liscio  che nel resto  dell’ospedale. 
Il piccolo Lucas fece  qualche passo verso di lui  con l’andatura sbilenca di  un cane bastonato. 
«Sembra che se la
 caverà» disse subito sottovoce.  «È in sala operatoria già  da tre quarti d’ora». 
La signora Janvier, gli  occhi rossi e il cappellino  tutto storto, gli rivolse uno  sguardo supplichevole, come  se lui potesse farci  qualcosa, e improvvisamente  scoppiò in singhiozzi nel  fazzoletto. 
Maigret non conosceva il  terzo personaggio, un  uomo con lunghi baffi che si
 teneva disparte. discretamente in 
«È un vicino» gli
 spiegò Lucas. «La signora
 Janvier non poteva lasciare
 i bambini a casa da
 soli; ha chiamato una  vicina, e il marito  si è offerto di  accompagnarla». 
L’uomo, che aveva sentito, 
salutò e sorrise a Lucas  per ringraziarlo. 
«Cosa dice il chirurgo?». 
Erano davanti alla porta  della sala operatoria e  parlavano a bassa voce.
 All’altro capo del corridoio, delle infermiere costantemente indaffarate andavano avanti  e indietro in continuazione  come formiche. 
«Il proiettile non ha  colpito il cuore, ma si  è conficcato nel polmone  destro».
«Janvier ha detto  qualcosa?». 
«No. Quando la
 volante è arrivata in rue  Lhomond, era privo di  sensi». 
«Crede che si salverà,
 signor commissario?» chiese
 la signora Janvier, che era
 visibilmente incinta e aveva le
 lentiggini sotto gli occhi. 
«Non c’è motivo di  pensare il contrario». 
«Vede che avevo ragione  di stare in pena ogni volta
 che passava la notte  fuori?». 
Abitavano in periferia,  in un villino che Janvier  aveva fatto costruire tre anni
 prima, pensando alla
 difficoltà di crescere i
 bambini in un appartamento
 a Parigi. Era 
orgogliosissimo  giardino. del suo
Scambiarono qualche altra  frase smozzicata, senza  convinzione, lanciando sguardi
 ansiosi alla porta che  continuava a rimanere
 chiusa. Maigret aveva tirato fuori  la pipa dalla tasca, poi,  ricordandosi che era vietato  fumare, l’aveva rimessa  via. Ne sentiva il  bisogno, e fu sul  punto di scendere in
 cortile a tirare qualche boccata. 
Non voleva domandare  a Lucas cos’era successo
 davanti alla signora Janvier,  ma non poteva neanche andarsene. A parte Lucas  il suo braccio destro -,  Janvier era sempre stato  il suo ispettore preferito. Lavorava con lui da
 quand’era ragazzino, come ora
 Lapointe, e a Maigret  capitava ancora di 
chiamarlo il 
 Janvier. piccolo
Finalmente la porta si
 aprì. Ma era solo
 un’infermiera dai capelli rossi
 che si precipitò verso  un’altra porta senza degnarli  di uno sguardo, e ritornò  indietro con in mano un oggetto che non riuscirono  a distinguere. Non avevano  potuto fermarla mentre  passava per chiederle come andava
 l’operazione, ma tutti e
 quattro, guardandola in faccia, erano rimasti
 delusi di leggervi solo l’aria
 indaffarata di chi  lavorando. sta
«Credo che se gli
 capitasse una disgrazia
 morirei anch’io» disse la 
signora Janvier, la quale,
 pur avendo una sedia a  disposizione, restava in piedi come loro, barcollando,
 per paura di perdere un  solo secondo ad alzarsi
 quando, da un momento 
all’altro, la porta si  sarebbe aperta una volta per  tutte. 
Si udì un rumore, poi  i due battenti si  spalancarono. Videro una barella. Maigret afferrò
 il braccio della signora  Janvier per impedirle di  precipitarsi dentro. Per un  attimo il cuore gli balzò in  gola, perché da lontano gli  era parso di scorgere il volto di Janvier coperto  da un lenzuolo. 
Ma quando la
 barella arrivò alla loro  altezza, si rese conto di  aver visto male. 
«Albert…» gridò sua  moglie trattenendo un  singhiozzo. 
«Ssst…» fece il chirurgo  che si avvicinava togliendosi  i guanti di gomma. 
Janvier aveva gli occhi  aperti e sembrò riconoscerli,
 perché le sue labbra  abbozzarono un sorriso. 
Lo portarono verso una delle 
camere. Sua moglie lo
 seguì insieme a Lucas e al  vicino, mentre il commissario si  intratteneva con il medico  nel vano di una finestra. 
«Se la caverà?». 
«Direi che è fuori
 pericolo. Come per tutte le  ferite ai polmoni la convalescenza sarà lunga,e 
bisognerà prendere qualche precauzione, ma di fatto  non corre alcun rischio». 
«Ha estratto il  proiettile?». 
Il chirurgo rientrò un
 momento in sala operatoria
 e tornò con un batuffolo
 di cotone macchiato di 
sangue che conteneva un
 pezzetto di piombo. 
«Questo lo tengo io» disse Maigret. «Le manderò la
 liberatoria più tardi. Ha per  caso parlato?». 
«No. Sotto l’effetto 
dell’anestesia ha balbettato
 poche parole in modo
 confuso, ma ero troppo
 impegnato per attenzione». prestargli 
«Quando potrò fargli
 qualche domanda?». 
«Non appena si 
 ripreso dallo choc, sarà
 probabilmente domani verso
 mezzogiorno. Quella è
 la moglie? Le dica di non
 stare in pensiero. E che non  cerchi di vederlo prima di
 domani. Secondo le sue
 istruzioni gli abbiamo  assegnato una camera  singola e un’infermiera. La  prego di scusarmi, ma  ricomincio a operare alle  sette del mattino». 
La signora Janvier  insistette per vedere il
 marito a letto, e li
 fecero attendere in corridoio  finché non lo ebbero  sistemato, poi li autorizzarono  a dare soltanto un’occhiata. 
La moglie dell’ispettore  fece qualche raccomandazione  sottovoce all’infermiera, che  dimostrava circa cinquant’anni  e aveva l’aria di un travestito. 
Una volta fuori, non  sapevano che fare. Non  c’erano taxi in vista. «Stia tranquilla, va tutto  bene,» la rassicurò Maigret
 «glielo garantisco. Il dottore
 non è affatto preoccupato.
 Torni domani verso 
mezzogiorno, non prima.
 Mi terrò costantemente
 informato e le comunicherò
 le novità per telefono. 
Pensi ai bambini…». 
Dovettero arrivare fino  a rue Gay-Lussac per  trovare un’auto, e l’uomo con i baffi fece in
 modo di scambiare due  parole in disparte con 
Maigret. 
«Non si preoccupi per  lei. Conti pure su me e  mia moglie». Soltanto quando  rimase solo con Lucas sul marciapiede Maigret si
 chiese se la signora
 Janvier avesse abbastanza denaro. Erano alla fine del  mese. Non voleva che fosse
 costretta ogni giorno a
 prendere il treno e il
 métro. I taxi sono cari.
 Avrebbe provveduto l’indomani
 stesso. 
Girandosi finalmente verso Lucas, accese la pipa che  teneva in mano da un  pezzo e chiese: 
«Che ne pensi?». 
Erano a due passi da  rue Lhomond, e si
diressero verso la pensione della
 signorina Clément. 
La via, a quell’ora
 deserta, aveva un aspetto
 ancora più provinciale del 
solito con le casette a
 uno o due piani incastrate
 tra i condomini. La pensione
 della signorina Clément era
 una di queste, con i
 tre gradini all’ingresso e  una targhetta di fianco alla  porta che diceva: 
   
  CAMERE AMMOBILIATE IN 
AFFITTO 
   
Due agenti del
arrondissement, che stavano chiacchierando vicino al  portone, salutarono il  commissario. 
C’era luce al di 
 della porta, così come alle sopra
 finestre di destra e
 a quelle del secondo piano.
Maigret non ebbe bisogno
 di suonare. Evidentemente
 li avevano visti arrivare,
 dato che la porta si aprì
 e il commissario si trovò
 di fronte l’ispettore Vacher
 che lo guardava con aria  interrogativa. 
«Se la caverà» lo  rassicurò. 
E una voce di donna,
 nella stanza a destra,  esclamò: 
«Cosa le avevo detto?». 
Era una voce bizzarra,  allegra e infantile insieme.  Una donna molto alta e  molto grassa comparve nel vano della porta e gli tese cordialmente la mano: 
«Lieta di conoscerla, commissario». 
Era come un enorme
 neonato, aveva la pelle rosea,  formeindecise, due occhioni  azzurri, i capelli 
biondissimi e un vestito
 color confetto. A vederla
 si sarebbe detto che non
 era successo niente di
 grave, che tutto andava per  il meglio nel migliore dei  mondi. 
Li accolse in un
 salottino intimo e
 confortevole. Su un  tavolo erano posati tre  bicchieri da liquore. 
«Sono la signorina  Clément. Sono riuscita a  far andare a letto i miei  inquilini. Ma naturalmente posso chiamarli quando vuole.  E così il suo ispettore non  è morto?». 
«La pallottola gli ha  perforato il polmone destro». 
«Oggigiorno i chirurghi sistemano queste cose in  un batter d’occhio». 
Maigret era sbalordito. Per  una volta si era fatto
 un’idea completamente diversa  sia della pensione sia della  proprietaria. 
Vauquelin e Vacher,  i due ispettori che
 Torrence aveva inviato sul luogo  appena saputo dell’attentato,  sembravano divertiti nel
 vederlo tanto meravigliato; 
Vauquelin, che lo conosceva  meglio di Vacher, gli
 lanciava addirittura delle  strizzatine d’occhio indicandogli  la cicciona. 
Doveva avere fra i  quaranta e i quarantacinque  anni, anche se apparentemente  era senza età. Proprio come la  si sarebbe detta senza peso,  malgrado la stazza 
impressionante. Ed era così
 piena di vitalità che, nonostante  la situazione drammatica, ci
 si aspettava di vederla  scoppiare in un’allegra risata da un momento all’altro. 
 Quello era un caso di cui Maigret non si era  occupato molto in prima  persona. Non aveva neanche fatto un sopralluogo, ma  aveva lavorato sui referti
 dall’ufficio, lasciando la  responsabilità delle operazioni
 a Janvier, che ne era  stato felicissimo. 
Nessuno, al Quai, si  sarebbe mai immaginato che  quel caso, chiamato «il caso  della Cigogne», presentasse il  minimo pericolo. 
Cinque giorni prima, verso
 le due e mezzo di
 notte, due uomini avevano fatto
 irruzione alla 
Cigogne, un piccolo
 locale notturno in rue Campagne-
Première a Montparnasse,  mentre stava chiudendo. 
Avevano il volto coperto  da una benda nera e uno
 dei due impugnava una  pistola. 
A quell’ora nel locale  erano rimasti solo il  proprietario, un ragazzo di  nome Angelo e la
 signora dei bagni,che si stava  sistemando il cappellino davanti  allo specchio. 
«La cassa!» aveva
 ordinato uno degli uomini  mascherati. 
Senza opporre resistenza  il gestore aveva spinto sul  bancone l’incasso della serata,
 e pochi secondi dopo i
 ladri si erano già dileguati a  bordo di un’auto scura. 
L’indomani mattina era  stato Maigret a interrogare  la signora dei bagni, una grassottella ancora piuttosto  piacente. 
«È sicura di averlo  riconosciuto?». 
«Non l’ho visto in
 faccia, se è questo che
 intende. Ma ho visto bene
 il filo dei pantaloni e
 ho riconosciuto la stoffa». 
Un dettaglio stupido,  in realtà. Due ore prima del  furto, uno dei clienti che
 stavano al bancone era andato in bagno per
 lavarsi le mani e  una pettinata. darsi
«Sa come succede. A
 volte lo sguardo cade su un
 punto qualsiasi senza che uno
 nemmeno se ne renda conto. Nel tendergli  l’asciugamano ho notato un  filo bianco tirato nei pantaloni, all’altezza del  ginocchio sinistro. Era lungo  almeno dieci centimetri e
formava una specie di 
disegno. Ho addirittura
 pensato  profilo». che sembrava un
Era stata lì per
 levarglielo, e non lo aveva fatto
 solo perché proprio in quel
 momento il giovanotto  uscito. era
Perché si trattava  un uomo giovane. Un di
 ragazzino, diceva lei. Negli
 ultimi tempi l’aveva visto diverse volte al bar. Là,
 una sera, aveva conosciuto una
 ragazza che frequentava  assiduamente La Cigogne e
 se n’era andato via con lei. 
«Te ne occupi tu,
Janvier?». 
Non più di tre ore
 dopo uno dei ladri era già
 stato identificato. A Janvier era  bastato rintracciare la ragazza,  una certa Lucette, che viveva
in un albergo  quartiere. del
«Ha passato  notte con me». 
«Da lui?». tutta la
«No. Qui. È rimasto
 stupefatto quando gli ho
 detto che sono di Limoges,
 perché anche lui è nato  lì e i suoi genitori ci  vivono ancora. Si chiama  Paulus. Gli davo a
 malapena diciott’anni, invece
 ne ha diciannove e  mezzo». 
La faccenda avrebbe  potuto richiedere ancora  tempo se nei registri degli  affittacamere Janvier non  avesse trovato il  nome di Emile Paulus, di
 Limoges, domiciliato da quattro  mesi in una pensione di  rue Lhomond. 
Dalla signorina Clément. «Midà un mandato,  capo?». 
Janvier aveva preso qualche 
agente con sé. Maigret
 si ricordava che erano circa  le undici di mattina e c’era il sole. Due ore dopo  era tornato e aveva posato
 sulla scrivania del
 commissario una busta che
 conteneva delle banconote, una pistola giocattolo e un  pezzo di stoffa nera. 
«È proprio Paulus». 
«I soldi ci sono tutti?». 
«No. Solo la metà. I  soci devono aver diviso.
 Ma lì dentro ci sono  tre biglietti da un dollaro.
 Sono andato a interrogare  il proprietario della Cigogne:
 mi ha confermato che quella
 sera un americano l’aveva 
pagato in dollari». 
«E Paulus?». 
«Il suo letto era disfatto,
 ma in camera non c’era. La
 signorina Clément,
 l’affittacamere, non l’ha visto
 andar via e suppone che
 sia uscito verso le dieci di  mattina come al solito». 
«Hai lasciato qualcuno  sul posto?». 
«Sì. Gli stiamo
 tendendo una trappola». 
La sorveglianza andava  avanti già da quattro  giorni, senza risultato. 
Maigret non se ne
 occupava, leggeva sul rapporto  il nome dell’ispettore di  guardia puntualmente seguito  dalla nota «niente da  segnalare». 
La stampa non aveva fatto  parola della scoperta della  polizia. Paulus non si era  portato via i bagagli
 e sembrava probabile che  tornasse a riprendersi la
 piccola fortuna chiusa in  valigia. 
«Tu sei stato di  guardia, Vacher?». 
«Sì, un paio di  volte». 
«E come funzionava?». 
«Mi pare che il
 primo giorno Janvier sia  rimasto nella pensione ad aspettare Paulus nella sua  camera». 
Gettò un’occhiata alla  corpulenta signorina Clément. 
«Deve aver sentito  puzza di bruciato. Può darsi che
 il ragazzo sia stato
 avvertito prima di salire le scale». 
«Allora?». 
«All’esterno ci siamo dati
 il cambio. A me non è
 mai toccato il turno di
 notte. Durante il giorno  era facile e gradevole. C’è  un piccolo bistrot proprio  a due passi, dall’altra parte  della strada, con due
 tavolini tondi fuori. Fanno
 anche da mangiare e devo  dire che la cucina non è  niente male». 
«La pensione è stata  perquisita il primo giorno?». 
Fu la signorina Clément  a rispondere in tono  allegro, quasi si trattasse di  una piacevole avventura: 
«Da cima a fondo,
 commissario. E come se non  bastasse l’ispettore Janvier è
 tornato a trovarmi  almeno una decina di volte.  C’era qualcosa che non gli
 quadrava, non mi chieda cosa.
 È rimasto lassù delle ore,
 a camminare in lungo e
 in largo per la camera. Altre
 volte veniva a sedersi qui
 a chiacchierare con me.  Ormai conosce la storia di  tutti i miei inquilini». 
«Cos’è successo  esattamente stasera? Lei
 sapeva che Janvier  fuori?». 
«Sapevo che c’era un era là
 poliziotto di guardia, ma  sapevo che era lui». 
«È riuscita vederlo?». non
«Ho dato un’occhiata verso  le nove e mezzo,  prima di andare a dormire.  Ho visto qualcuno che camminava avanti e indietro lungo il marciapiede,  ma il lampione è troppo  lontano perché potessi riconoscerlo. Me ne sono  tornata in camera». 

mercoledì 30 maggio 2018


CARLO MAGNO

Alessandro Barbero
Fino a pagina 10
Introduzione
Paderborn, estate 799
È il luglio del 799, e il re dei Franchi, Carlo, è accampato a Paderborn, nel cuore
della Sassonia conquistata. C’è gran traffico di muratori e falegnami, convogli di
carri carichi di mattoni e calcina giungono ogni giorno lungo le piste di terra battuta,
altri materiali arrivano per via d’acqua, risalendo i fiumi su chiatte e barconi: in mez-
zo alle foreste e alle paludi il re sta costruendo una nuova città, che sarà l’avamposto
della Cristianità in mezzo ai pagani da poco convertiti, con un palazzo e una basilica
capaci di rivaleggiare con quelli di Aquisgrana. Ma in questi giorni il re non ha tempo
per pensare ai piani di costruzione, e neanche a quelli militari, benché stia aspettando
con ansia il ritorno del figlio Carlo, che s’è spinto fino all’Elba per negoziare con le
tribù slave insediate lungo il grande fiume. A Paderborn, infatti, è arrivato papa
Leone III, preceduto dalla notizia di un’insurrezione scoppiata a Roma, durante la
quale i suoi nemici si sono impadroniti di lui, gli hanno cavato gli occhi e tagliato la
lingua, prima che la Provvidenza intervenisse con un miracolo aiutandolo a fuggire.
L’arrivo del papa, in verità, ha prodotto una delusione, perché si è visto subito che
aveva ancora gli occhi e la lingua; ma Leone III ha spiegato che anche quelli gli
erano ricresciuti grazie a un miracolo, e per cortesia si è fatto finta di credergli. Non
che il re sia disposto ad ascoltare troppo pazientemente quest’uomo sul cui conto
corrono da sempre troppi pettegolezzi, e che lui stesso, al momento dell’elezione al
trono pontificio, ha salutato con una strana lettera, esortandolo a comportarsi bene e
non dar adito a sospetti. Ma Leone III è pur sempre il papa, e il re dei Franchi, che
tutti considerano il vero protettore della Chiesa in Occidente, deve fare il possibile
perché la sua figura sia rispettata: perciò andrà a Roma, per quanto ne abbia poca
voglia, soffocherà la rivolta e ristabilirà l’autorità del pontefice agli occhi del mondo,
purché, aggiungono a mezza voce i bene informati, le voci che corrono sul suo conto
non trovino troppe conferme.
È nel corso dei colloqui fra il papa e il re, nel caldo e nella polvere di quest’estate
di Paderborn, che nasce o almeno si perfeziona un’idea eccitante: quando Carlo verrà
a Roma, gli abitanti, che sono pur sempre il popolo romano, lo acclameranno
imperatore, così come in altri tempi avevano acclamato Augusto e Costantino. Così il
re dei Franchi diventerà a pieno titolo il successore degli imperatori romani, allo
stesso titolo del basileus che regna nella lontana Costantinopoli, e nessuno potrà
obiettare ai suoi interventi nelle faccende dell’Urbe, anzi di tutto il popolo cristiano.
È possibile che un’ipotesi del genere circolasse già da qualche tempo, tanto negli
ambienti del Laterano, che è a quell’epoca la residenza dei papi, quanto in quelli del
palazzo d’Aquisgrana; ma è a Paderborn, nell’estate del 799, che per la prima volta se
ne discute sul serio, sia pure con tanta cautela che nessun resoconto scritto di quei
colloqui è giunto fino a noi.
In quegli stessi giorni un poeta rimasto anonimo, nonostante i ripetuti tentativi
degli storici per identificarlo con questo o quell’intellettuale di palazzo, è impegnato
a comporre un poemetto in esametri latini, che i copisti intitoleranno Karolus Magnus
et Leo papa. I versi sono decorosi, ma qui non c’interessa la loro qualità letteraria,
bensì l’intento politico dell’anonimo, che, di fatto, sta confezionando un instant-book.
Il papa, afferma chiaramente, dev’essere difeso dai suoi nemici, e Carlo è l’unico
sovrano al mondo capace di ristabilire la maestà della Chiesa; ma proprio per questo
è giusto che i cristiani, in tutto l’Occidente, lo riconoscano come guida, più di quanto
non comporti il suo titolo regio. Informato, evidentemente, dei negoziati in corso, il
poeta riconosce nel re franco il successore degli imperatori romani, che regna ad
Aquisgrana come in una seconda Roma; e saluta in lui il «rex pater Europae», il
padre dell’Europa.
Oggi che i popoli del nostro continente, usciti dal vicolo cieco in cui li avevano
sospinti le ideologie nazionaliste, sembrano avviati all’integrazione in un’Europa
sovranazionale, l’immagine escogitata dal poeta di Paderborn suona sorprendente-
mente attuale. Giacché è con Carlo Magno che per la prima volta si costituisce in
Europa uno spazio politico unitario, che va da Amburgo a Benevento, da Vienna a
Barcellona, il cui asse commerciale sono il Reno e i porti del mare del Nord; uno
spazio, cioè, profondamente diverso da quello dell’impero romano, che aveva al cen-
tro il Mediterraneo, e contava fra le sue regioni più ricche e civilizzate il Nordafrica e
l’Asia Minore. Per citare quelli che restano forse i più grandi storici del nostro secolo,
se «l’Europa è sorta quando l’impero romano è crollato» (Marc Bloch), essa acquista
solo più tardi il suo volto compiuto: è «l’impero di Carlo Magno che ha dato forma
per la prima volta a ciò che noi chiamiamo Europa» (Lucien Febvre).
Sia chiaro: ogni generazione di storici si costruisce la propria immagine del
passato, e l’equazione tra l’impero di Carlo Magno e la nascita d’uno spazio europeo
non ha sempre suscitato lo stesso consenso. Vent’anni fa un importante convegno,
radunando a Spoleto i maggiori specialisti del periodo altomedievale, pose la questio-
ne proprio in questi termini, dandosi come titolo Nascita dell’Europa ed Europa
carolingia: un’equazione da verificare. I pareri risultarono diversissimi, anzi in qual-
che caso diametralmente contrastanti, ma nell’insieme l’importanza di Carlo Magno
come padre dell’Europa ne uscì piuttosto malconcia, o almeno un po’ meno
indiscutibile di quanto non fosse apparsa, una generazione prima, a Bloch e Febvre.
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Oggi la lancetta ha compiuto un altro giro e il consenso si è rifatto ampio, grazie
anche alla vera e propria rivoluzione che ha investito interi ambiti della ricerca, come
quello economico. Fino a qualche anno fa, le vittorie militari conquistate su tutti gli
orizzonti e il programma di rinnovamento culturale promosso da Carlo Magno
potevano apparire la superficie brillante d’una società profondamente arretrata e di
un’economia stagnante; oggi, una molteplicità di segnali ci induce a pensare che
proprio nell’età carolingia si siano poste le basi della rinascita demografica ed
economica divenuta poi manifesta intorno al Mille, e da cui nacque con tutta la sua
prorompente vitalità l’Europa moderna. Al di là del facile entusiasmo che circonda in
quest’anno 2000 tutto ciò che suona europeo, lo stato attuale della ricerca ci autorizza
a riprendere l’espressione usata dodici secoli fa dall’anonimo poeta, e a parlare di
Carlo Magno come di un padre dell’Europa.

I
LA MEMORIA DEI FRANCHI
1. L’insediamento franco in Gallia
Carlo Magno è rimasto indelebilmente impresso nell’immaginario europeo col
titolo d’imperatore che gli venne conferito in San Pietro la mattina di Natale
dell’anno 800. Ma in realtà egli non portò questo nome che negli ultimi quattordici
anni della sua lunga vita: prima di allora era stato per trentadue anni il re dei Franchi,
e avrebbe continuato a esserlo anche dopo, giacché il titolo imperiale, come vedremo
al momento giusto, era di natura intrinsecamente diversa e non cancellava affatto
quello regio toccato a Carlo alla morte del padre Pipino, nel settembre 768, «Carles li
reis, nostre emperere magnes»: così lo chiamerà, molto tempo dopo la sua morte, il
poeta della Chanson de Roland, ancora perfettamente consapevole di questa duplice
identità. Ma che cosa significava, in quello scorcio dell’VIII secolo, essere il re dei
Franchi?
Fra i popoli germanici che tre o quattro secoli prima di Carlo avevano varcato a
piccoli gruppi il confine del Reno e s’erano insediati, dapprima da alleati e poi da
padroni, sul territorio dell’impero romano d’Occidente, i Franchi avevano occupato
fin dal primo momento un posto di spicco. Eppure, a rigore, non erano neppure un
popolo, ma una confederazione di tribù del bacino renano, Bructerii, Cattuarii,
Camavi, che parlavano lo stesso dialetto germanico, praticavano culti religiosi
comuni e si aggregavano intorno agli stessi capi guerrieri, sicché finirono col darsi un
nome collettivo, peraltro assai debole, all’inizio, come fattore di identità: giacché
Franchi in origine significava semplicemente «i coraggiosi», e più tardi volle dire «i
liberi».
Il romano Sidonio Apollinare, vescovo cristiano e poeta classico, descrive nel V
secolo i Franchi che ha imparato a conoscere in Gallia. Le sue parole evocano un tipo
fisico decisamente esotico agli occhi d’un lettore mediterraneo, e non nascondono
l’ammirazione per il coraggio di quei barbari:
Dalla sommità del capo scendono i loro capelli rossi, tirati tutti verso la fronte, mentre
la nuca è rasata. I loro occhi sono chiari e trasparenti, di un colore grigio-azzurro. Invece
della barba portano baffi sottili che arricciano con un pettine. I loro divertimenti preferiti
sono lanciare l’ascia mirando al bersaglio, roteare lo scudo, superare correndo e saltando
le lance che essi stessi hanno scagliato. Fin da fanciulli hanno un foltissimo amore per la
guerra. Se sono sopraffatti dal numero dei nemici o dall’avversità del terreno,
soccombono solo alla morte, mai alla paura.
E Sidonio conclude così: «Costoro sarebbero capaci di domare anche i mostri».
In attesa d’incontrare i mostri, quei barbari s’erano impadroniti della Gallia, che
nell’Occidente impoverito del tardo impero era forse la provincia più prospera e
popolosa; più della Spagna, certo più dell’Italia. E avevano subito mostrato di non
volerla spartire con nessuno: i Visigoti, che s’erano insediati prima di loro nella parte
meridionale del paese, cioè nell’attuale Provenza e Linguadoca, erano stati sconfitti e
ricacciati oltre i Pirenei; i Burgundi, insediati nella valle del Rodano, avevano dovuto
riconoscere la superiorità dei Franchi e sottomettersi al loro re; e solo a fatica i
generali bizantini, prima, e i re longobardi poi avevano impedito ai nuovi padroni
della Gallia di dilagare anche oltre le Alpi, in Italia.
Quanto ai Romani, o meglio ai Galloromani, di stirpe celtica o italica, ma ormai
tutti di lingua latina, che popolavano le province galliche, ad essi era stato consentito
di restare; e non solo ai contadini e agli schiavi, ma anche ai ricchi latifondisti di
famiglia senatoria e al clero cattolico, purché riconoscessero la supremazia del re
franco. I Franchi, del resto, da soli non avrebbero mai potuto popolare l’intera Gallia,
sostituendosi ai molti milioni di Romani che l’abitavano, giacché non erano più di
duecentomila, e forse meno, comprese le donne e i bambini. Questi guerrieri che
colpivano i contemporanei per la loro statura sovrumana s’erano insediati in gran
numero, con le loro famiglie, soltanto nella parte settentrionale del paese, lungo il
corso del Reno, della Mosa e della Mosella; lì, e soltanto lì, essi erano più numerosi
dei Romani, e infatti proprio lì passa ancor oggi il confine linguistico fra l’Europa
latina e quella germanica.
Ma via via che si scendeva verso sud, lasciando la terra della birra, della carne e
del burro per quella del vino, del grano e dell’olio, l’insediamento franco si faceva
meno fitto, ed era più facile per la popolazione galloromana assorbire i conquistatori,
imponendo i propri usi e il proprio dialetto, da cui sarebbe nato il francese odierno:
intorno a Parigi, fin da allora uno dei soggiorni favoriti dei re franchi, il linguaggio
romanzo non fu mai soppiantato da quello teutonico. A sud della Loira, infine, di
Franchi non se n’erano quasi visti, e le popolazioni galloromane di Provenza e
d’Aquitania continuavano a vivere come in passato, pur obbedendo ai re barbari del
Nord e pagando loro le tasse.
2. La monarchia franca
a) I regni merovingi
Il regno franco in Gallia era in realtà costituito da una pluralità di regni. Anche se
le diverse tribù che formavano il popolo franco s’erano momentaneamente
assoggettate a un unico re, l’energico e spietato Clodoveo, convertendosi con lui al
Cristianesimo verso la fine del V secolo, quell’unità non era durata a lungo.
L’abitudine di suddividere l’eredità del re fra tutti i suoi figli maschi determinò la
formazione non di uno, ma di diversi regni, di volta in volta riuniti o separati a
seconda delle contingenze. Il regno più orientale, fra la Mosella e il Reno, l’unico nel