IL MAGO DI OZ
di L. Frank Baum
Incipit
Il ciclone
Il ciclone
Dorothy abitava in mezzo alle grandi praterie del Kansas, con zio Henry che faceva il fattore e zia Emmy, sua moglie. La casa era piccola perché il legno per co-struirla era stato portato da lontano e con gran fatica, fatta di una sola stanza. I mobili erano pochi: una credenza per i piatti, un tavolo, poche sedie, una stufa arrugginita e due letti: uno grande, in un angolo, per gli zii e un altro piccolino per Dorothy nell'angolo opposto.
Mancava la soffitta e mancava la cantina; al suo posto c'era una buca scavata nel pavimento, chiamata «cantina da ciclone» dove rifugiarsi se si fosse scatenato uno di quei terribili uragani tipici del Kansas, tanto forti da abbattere qualsiasi costruzione.
Se Dorothy si guardava intorno, in piedi sulla soglia di casa, vedeva intorno a sé solo la grande prateria grigia, che si stendeva fino all'orizzonte senza che una casa, un albero ne interrompessero la monotonia. Il sole aveva talmente bruciato la terra arata da renderla dura, grigia, spaccata da innumerevoli, sottili fenditure e aveva seccato i fili d'erba rendendoli ugualmente grigi.
Un tempo i muri della casetta erano stati dipinti a colori vivaci, ma il sole aveva stinto la vernice. La pioggia l'aveva lavata via ed ora erano grigi e spenti come tutto il resto.
Quando zia Emmy era venuta a vivere in quel posto, era giovane e graziosa, poi sole e vento avevano trasformato anche lei; avevano spento la vivacità dei suoi occhi dando loro una tranquilla tonalità grigia e sbiadito i bei colori delle guance e delle labbra. Adesso era una donnina magra e smunta che non rideva mai. Quando Dorothy, diventata orfana, era venuta a vivere con lei, zia Emmy era rimasta così sorpresa delle sue spensierate risate che ogni volta sussultava e soffocava un grido, por-tandosi le mani al petto. E anche ora che era passato del tempo, non poteva fare a meno di guardare con stupore la nipotina, chiedendosi di che cosa mai potesse continuare a ridere.
Neanche zio Henry rideva mai. Lavorava senza sosta da mattina a sera e non sapeva cosa fosse l'allegria. Anche lui era tutto grigio, dalla lunga barba alla punta degli stivali, aveva un aria solenne e severa e parlava raramente.
Dorothy era riuscita a non diventare spenta e grigia specialmente per merito di Toto, un cagnolino nero, dal pelo lungo e lucente come seta, occhi neri e vivacissimi, un naso buffo e tanta voglia di giocare. Lei ci giocava tutto il giorno e gli voleva un bene dell'anima.
Quel giorno, però, i due non giocavano. Zio Henry, seduto sulla soglia, scrutava preoccupato il cielo più grigio del solito.
Dorothy, accanto a lui, con Toto in braccio, guardava il cielo lei pure. Zia Emmy stava lavando i piatti.
Poi da nord giunse improvviso il cupo ululato del vento e zio e nipote videro l'erba della prateria ondeggiare e incurvarsi. Subito dopo un altro ululato si alzò da sud e l'erba si curvò e ondeggiò in quella direzione.
Zio Henry balzò in piedi.
«Emmy, sta per scatenarsi un ciclone!» gridò alla moglie. «Vado a vedere le bestie.»
E corse verso il recinto delle mucche e dei cavalli.
Zia Emmy lasciò perdere i piatti, si affacciò alla porta. Le bastò solo un occhiata per rendersi conto del pericolo incombente.
«Presto, Dorothy!» ordinò. «Scendi in cantina.»
Sotto la botola che si apriva sul pavimento c'era una scala a pioli per facilitare la discesa e mettersi rapidamente in salvo. Ma Toto scelse proprio quel momento per saltar giù dalle braccia di Dorothy e rifugiarsi sotto il letto, lei gli corse dietro per riprenderlo e intanto zia Emmy, spaventatissima, già aveva aperto la botola e scendeva lungo la scala a pioli nell'angusta buca buia.
Finalmente Dorothy riuscì ad afferrare Toto e stava per calarsi lei pure nel rifu-gio quando una folata di vento fortissima investì la casetta. Dorothy perse l'equilibrio e cadde a sedere sul pavimento.
Poi accadde qualcosa di straordinario.
La casa roteò due o tre volte su se stessa e si sollevò nell'aria come se si fosse trasformata in un pallone.
Il vento del nord e quello del sud, scontrandosi proprio in quel punto ne avevano fatto il centro del ciclone. Di solito al centro del ciclone l'aria è ferma, ma la violenta pressione del vento da ogni lato stava sollevando la casa sempre più in alto, la trascinò fino al vertice dove rimase e poi la trasportò per miglia e miglia lontano, come se fosse una piuma.
C'era un gran buio, lassù e il vento ululava, ma a Dorothy quel viaggio sembrò ugualmente divertente. Dopo qualche scossone di assestamento e dopo essersi incli-nata pericolosamente, la casa si placò dandole la sensazione di venir cullata dolcemente come un bambino nel suo lettino.
Toto, invece, la pensava diversamente. Correva qua e là per la stanza, abbaiava senza sosta e lanciava occhiate preoccupate alla padroncina seduta sul pavimento ad aspettare il seguito di quell'avventura.
Nel suo andirivieni Toto si avvicinò troppo alla botola aperta e ci cadde dentro.
Dorothy temette di averlo perduto per sempre, invece dopo qualche istante vide un orecchio peloso spuntare dal buco: la pressione esterna dell'aria sosteneva il cagnolino, impedendogli di cadere. Allora lo afferrò per l'orecchio e lo mise in salvo sul pavimento; poi, per evitare altri incidenti, chiuse ben bene la botola.
Passarono le ore. Dorothy si sentiva tranquilla ma anche molto sola; il vento continuava ad ululare così forte che quasi l'assordava. In principio aveva temuto che la casa ripiombasse a terra, seppellendola tra le macerie, poi, visto che il tempo tra-scorreva senza che accadesse niente, decise che non era il caso di preoccuparsi ma di aspettare con calma gli eventi. Strisciò sul pavimento oscillante fino al suo letto, ci si arrampicò e si sdraiò, subito imitata da Toto.
Poco dopo dormiva profondamente, incurante del dondoli della casa, del rumore del vento.
Nel paese dei Munchkin
Dorothy fu svegliata da un gran colpo, così forte e inatteso che, se non fosse stata sdraiata sul suo lettino morbido, avrebbe potuto farsi male. Invece, quella scossa la lasciò solo senza respiro per un momento, a chiedersi che cosa fosse successo, mentre Toto le strofinava il naso umido contro una guancia e guaiva, spaventato.
Si alzò e solo allora si rese conto che la casa non si muoveva più. Non solo, anche il buio era svanito e la luce del sole, entrando dalla finestra, illuminava gaiamen-te la stanza. Subito, con Toto alle calcagna, corse ad aprire la porta e non poté trattenere un grido di stupore alla vista dello splendido spettacolo che le si parava davanti agli occhi.
Il ciclone aveva deposto la casetta, con una delicatezza strana per un ciclone, nel bel mezzo di un paese bellissimo. Tutto intorno c'erano immensi prati verdi con u-n'infinità di alberi carichi di frutta matura e profumata, ovunque sbocciavano fiori, uccelli dalle piume variopinte svolazzavano cantando tra gli alberi e i cespugli. Poco lontano, un limpido torrente scorreva tra due rive erbose con un fruscio dolce che suonava come musica alle orecchie di una bambina abituata alle aride e silenziose praterie grigie del Kansas.
Mentre Dorothy se ne stava immobile con gli occhi sgranati, avida di ammirare tutto, vide un gruppetto di persone che venivano verso di lei. Gente dall'aspetto a dir poco originale: non alti come adulti né piccoli come nani, avevano più o meno la sua statura, ma si vedeva che non erano bambini.
Erano tre uomini e una donna, vestiti in modo curioso. Tutti e quattro avevano in testa dei cappelli a cono alti due spanne e con tanti campanellini tutto intorno alla tesa che tintinnavano dolcemente a ogni movimento. Quelli degli uomini erano azzurri e lo stesso colore avevano i vestiti e gli stivali lucidissi, con la punta rivolta verso l'alto e Dorothy pensò che dovevano avere più o meno la stessa età di zio Henry; e, come lui, portavano la barba.
La donnina, cappello bianco e gran mantello bianco tempestato di stelle che luc-cicavano al sole come brillanti, era sicuramente la più vecchia del gruppo, aveva i capelli candidi, la faccia rugosa e camminava con una certa difficoltà.
Quando furono vicini a Dorothy, i quattro si fermarono e si misero a sussurrare qualcosa, come se non avessero coraggio di proseguire. Alla fine la donnina vecchia fece qualche passo avanti e si inchinò profondamente.
«Sii la benvenuta, nobilissima fata, nel paese dei Munchkin» disse con una voce dolce dolce. «Ti siamo infinitamente grati perché hai ucciso la perfida Strega dell'Est liberando il nostro popolo dalla schiavitù.»
Dorothy ascoltava, sbalordita. Perché quella vecchina la chiamava fata e diceva che aveva ucciso la perfida Strega dell'Est? Lei era solo un innocente bambina che il ciclone aveva trasportato per miglia e miglia lontano da casa e non aveva mai ucciso nessuno!
Intanto la vecchina la guardava e si capiva bene che aspettava una risposta. Allora, esitando, disse:
«Lei è molto gentile, signora, ma guardi che si sbaglia: io non ho mai ucciso nessuno.»
«La tua casa sì, però» replicò la donnina ridendo. «Il che, in fondo, è la stessa cosa. Guarda tu stessa!» E indicò l'angolo della casa. «Non vedi quei due piedi che spuntano sotto un pezzo di parete?»
Dorothy guardò e gridò di spavento.
Sotto l'angolo del grosso trave che sosteneva tutta la casa spuntavano due piedi calzati di scarpe d'argento con la punta rivolta all'insù.
«Misericordia!» esclamò Dorothy torcendosi le mani per la disperazione. «La casa le è piombata proprio sopra! E ora, che facciamo?»
«Misericordia!» esclamò Dorothy, torcendosi le mani per la disperazione.
«La casa le è piombata proprio sopra! E ora che facciamo?»
«Proprio niente» rispose la donnina, tranquillissima.
«Ma... chi era?»
«Te l'ho detto: la perfida Strega dell'Est. Per anni e anni ha tenuto in suo potere i Munchkin costringendoli a lavorare come schiavi per lei, dall'alba al tramonto. Ora che è morta sono finalmente liberi e ti saranno grati per sempre.»
«E chi sono i Munchkin?» volle sapere Dorothy.
«Il popolo che abita in queste terre dell'Est che erano dominio della perfida Strega.»
«Anche lei signora, è una Munchkin?» disse Dorothy.
«No, sono loro amica, ma abito nelle terre del Nord. Quando i Munchkin hanno visto che la Strega dell'Est era morta subito mi hanno inviato un messaggio, ed ec-comi qui. Io sono la Strega del Nord.»
«Oh, povera me!» disse Dorothy, spaventata. «Lei è propri una strega?»
«Ma certo. Però sono una strega buona e tutti mi vogliono bene. Purtroppo non sono potente come la perfida Strega dell'Est, altrimenti avrei provveduto io stessa a liberare i miei amici.»
Dorothy non era del tutto convinta; l'idea di trovarsi faccia a faccia con una strega vera continuava a spaventarla.
«Io credevo che tutte le streghe fossero cattive.»
«Ah, no ti sbagli. C'erano solo quattro streghe nel Paese di Oz e due, quelle che abitano a nord e a sud sono buone. Posso assicurartelo perché una delle due sono io, bambina. E ora che tu hai ucciso la Strega dell'Est, di malvagie ne resta una soltanto: quella dell'Ovest.»
Dorothy rifletté per un momento poi disse: «Ma zia Emmy mi ha detto che tutte le streghe sono morte, tanti e tanti anni fa.»
«Chi è tua zia Emmy?» domandò la donnina.
«È mia zia e vive nel Kansas. Anch'io vivevo là.»
La Strega del Nord chinò la testa, gli occhi fissi a terra, pensosa. Poi la sollevò e disse:
«Non so dove si trovi il Kansas, non ne avevo mai sentito parlare, prima d'ora. E dimmi, è un paese civile?»
«Certo che lo è!» rispose Dorothy.
«Allora adesso capisco tutto. Nei paesi civili ormai non ci sono più né streghe né fate, né maghi né stregoni. Il regno di Oz invece, non è mai stato civilizzato perché è sempre stato tagliato fuori dal resto del mondo e per questo qui da noi ci sono ancora streghe e maghi. Oz è il grande mago,» e la Strega del Nord abbassò la voce
«più potente di tutte noi streghe messe insieme e vive nella Città di Smeraldo.»
Dorothy aveva una gran voglia di fare altre domande, ma non ci riuscì perché in quel momento i tre Munchkin che fino a quel momento non avevano aperto bocca, lanciarono un grido, indicando il punto in cui poco prima spuntavano da sotto il trave i piedi della perfida strega.
«Che succede?» chiese la donnina.
Poi guardò anche lei e scoppiò a ridere: i piedi erano scomparsi, restavano solo le scarpette d'argento.
«Era così vecchia» disse la Strega del Nord «che il sole l'ha disseccata e polve-rizzata in un batter d'occhio. Le scarpette però sono rimaste e ti appartengono, bambina.»
Si chinò, le raccolse e le porse a Dorothy aggiungendo:
«La Strega dell'Est andava fiera delle sue scarpette d'argento e io credo che abbiano dei poteri magici; quali, però, non siamo mai riusciti a saperlo.»
Dorothy le prese, entrò in casa, e le depose sul tavolo. Poi tornò fuori e chiese ai Munchkin:
«Vorrei tanto tornare a casa dai miei zii, chissà come sono in pena per la mia scomparsa. Per favore, mi aiutate a ritrovare la strada per il Kansas?»
I Munchkin e la Strega del Nord si scambiarono un'occhiata, poi guardarono Dorothy e scossero la testa.
Uno disse:
«A est, non lontano da qui, si estende un immenso deserto che nessuno al mondo riuscirebbe ad attraversare.»
«Idem al sud» riprese un altro. «Io lo so perché ci sono stato e l'ho visto, quel deserto. Il Sud è il paese dei Quadling.
«Io ho sentito dire che anche all'ovest è la stessa cosa» intervenne il terzo omettino. «Il paese è abitato dai Winkie e vi regna la perfida Strega dell'Ovest. Se tu ci mettessi piede, bambina, verresti subito imprigionata.»
«Il Nord è il mio paese» disse la donnina «e anch'esso confina con l'immenso deserto che circonda intero regno di Oz. Penso proprio, mia cara, che tu debba restare per sempre con noi.»
Dorothy, scoraggiata, si mise a pianger perché si sentiva terribilmente sola in mezzo a quelle strane creature. E le sue lacrime toccarono il cuore dei buoni Munchkin che tirarono fuori i fazzoletti e si misero a singhiozzare essi pure. La donnina, invece, si tolse il cappello e lo tenne in equilibrio sul naso per la punta. E poi si mise e a contar «Uno.., due.., tre...»
D'improvviso il cappello si trasformò in una minuscola lavagna sulla quale stava scritto con il gesso, a grandi lettere:
CHE DOROTHY VADA ALLA CITTÀ DI SMERALDO
La donnina lesse, poi chiese:
«Ti chiami Dorothy, cara?»
«Sì» rispose lei, asciugandosi gli occhi e tirando su col naso.
«Allora devi andare alla Città di Smeraldo. Forse il Mago Oz ti aiuterà.»
«E dov'è questa città?» domandò Dorothy.
«Esattamente al centro del regno e Oz è il grande mago che la governa.»
«È un uomo buono?»
«È un mago buono. Non so se sia anche un uomo perché non l'ho mai visto» precisò la donnina.
«E come ci vado, da lui?»
«Devi andarci a piedi. È un viaggio molto lungo attraverso un paese ora bellissimo, ora cupo e pauroso. Da parte mia, userò tutte le arti magiche che posseggo per tenerti lontana dai guai.»
«Perché non viene anche lei con me?» implorò Dorothy che in quella donnina vedeva la sua unica amica.
«No, questo non posso farlo, piccola, ma ti darò un bacio. Vedrai che nessuno oserà nuocere a chi è stato baciato dalla Strega del Nord.»
Si avvicinò a Dorothy e la baciò lieve lieve sulla fronte: in quel punto sulla pelle apparve un'impronta rotonda e lucente. Poi disse:
«La strada per giungere alla Città di Smeraldo è lastricata di pietre gialle. Segui-la e non ti smarrirai. Quando sarai al cospetto di Oz non aver paura, raccontagli la tua storia e chiedigli aiuto. Addio, bambina cara.»
Anche i tre Munchkin salutarono Dorothy, inchinandosi fino a terra e auguran-dole buon viaggio, poi si incamminarono e poco dopo erano scomparsi tra gli alberi.
La Strega del Nord le fece un cenno amichevole con la testa, poi girò per tre volte sul tallone sinistro e scomparve, con grande sorpresa di Toto che si mise ad abbaiare furiosamente, mentre fino a quel momento aveva avuto tanta paura da non lasciarsi sfuggire neanche un guaito piccino piccino.
Dorothy, invece, non si sorprese per niente: una strega che si rispetti non può mica andarsene camminando come i comuni mortali, no?
Dorothy salva lo Spaventapasseri
Rimasta sola, Dorothy si accorse che tutte le emozioni delle ultime ore le avevano risvegliato l'appetito. Andò alla credenza, tagliò una fetta di pane, la spalmò di burro e la divise con Toto, poi con un secchio attinse acqua dal torrente e bevve. Toto, intanto, era corso sotto gli alberi e stava abbaiando agli uccellini appollaiati sui rami; Dorothy andando a riprenderlo vide della frutta meravigliosa, matura a puntino e con quella completò la colazione. Poi rientrò in casa e cominciò a prepararsi per il viaggio alla Città di Smeraldo.
Oltre a quello che indossava, Dorothy possedeva solo un altro vestito. Per fortuna zia Emmy lo aveva lavato e stirato e stava appeso a un gancio accanto al letto. Era di cotonina a quadretti bianchi e blu, e sebbene il blu si fosse scolorito per i molti bucati, era ancora un bel vestitino. Lei si lavò con l'acqua rimasta nel secchio, indossò il vestito pulito e si appuntò sui capelli una cuffietta rosa; il pane che era avanzato lo sistemò in un panierino, coprendolo con un tovagliolo bianco. Poi dette un'occhiata ai suoi piedi e vide che le scarpe erano proprio in cattive condizioni, tutte logore e stinte.
«Non reggeranno a un lungo viaggio, Toto» disse al cagnolino, con un sospiro.
Toto la guardò con quei suoi occhietti vivacissimi e agitò la coda, come se avesse capito il senso delle parole della padroncina.
Dorothy si guardò intorno e il suo sguardo si posò sulle scarpette d'argento che erano appartenute alla perfida Strega dell'Est, appoggiate sul tavolo.
«Chissà se sono della mia misura» rifletté. «In questo caso andrebbero proprio bene, prima di tutto perché l'argento non si consuma come il cuoio e poi perché sono anche fatate: lo ha detto la Strega del Nord.»
Si tolse le vecchie scarpe, provò quelle d'argento e con grande soddisfazione no-tò che le calzavano a meraviglia. Prese sottobraccio il panierino e disse a Toto:
«Su, andiamo alla Città di Smeraldo a chiedere al grande Mago Oz la strada per tornare a casa nel Kansas.»
Chiuse la porta: la sprangò, poi ripose la chiave nella tasca del vestito e si mise in cammino con Toto che le trotterellava alle calcagna.
C'erano molte strade lì intorno ma non fu difficile trovare quella lastricata di pietre gialle e Dorothy vi si inoltrò camminando di buona lena. Le scarpette d'argento risuonavano allegramente a ogni passo e lei non si sentiva né sola né triste come sarebbe stato logico in una bambina risucchiata con la sua casa e lontana dal suo paese per colpa di un ciclone, piombata in luoghi sconosciuti.
Il fatto è che quei luoghi che stava attraversando erano magnifici, illuminati da un sole splendente, rallegrati dal cinguettio di innumerevoli uccellini.
La strada costeggiava dei campi di grano e degli orti e ai due lati c'erano degli steccati dipinti di un azzurro squillante. I Munchkin dovevano essere dei bravi agricoltori, a quel che sembrava. Qua e là c'erano delle case dall'aspetto singolare: tondeggianti, con i tetti fatti a cupola e tutte quante dipinte d'azzurro, che doveva essere proprio il colore favorito di quel paese.
La gente si faceva sulla soglia e salutava Dorothy con grandi inchini: già tutti sapevano che era stata lei a uccidere la perfida Strega dell'Est e a liberarli dalla schiavitù.
Il tramonto era vicino e Dorothy stanca, cominciava a chiedersi dove avrebbe trascorso la notte, quando vide una casa più grande delle altre; aveva un grande prato verde sul davanti e sul prato c'erano uomini e donne che ballavano e cantavano mentre cinque omettini violinisti suonavano una musica allegra, poco lontano, su un grande tavolo facevano bella mostra di sé torte, biscotti, pasticcini, insomma una quantità di buone cose da mangiare.
Quella gente accolse la nuova arrivata con entusiasmo; la invitarono a rifocillar-si e a fermarsi per la notte e le spiegarono che quella era la casa di uno dei più ricchi Munchkin del paese che aveva riunito gli amici per festeggiare la liberazione dalla tirannia della perfida strega.
Dorothy non si fece pregare e mangiò finché non fu sazia, servita dal padrone di casa in persona di nome Boq, poi sedette su un divano a guardare la gente che ballava.
Boq notò le sue scarpette d'argento e le disse:
«Tu devi essere una grande strega.»
«Perché chiese Dorothy.»
«Perché calzi le scarpette d'argento e perché hai ucciso la perfida Strega dell'Est.
Inoltre c'è del bianco nel tuo vestito e solo le streghe portano quel colore.»
«Ma il mio vestito è bianco a quadretti azzurri» gli fece notare Dorothy, spianando una piegolina.
«Di bene in meglio: l'azzurro è il colore dei Munchkin il bianco è il colore delle streghe: questo significa che sei una strega amica.»
Dorothy si sentiva imbarazzata: tutti la credevano una strega potente e lei invece sapeva bene di essere solo una bambina qualsiasi giunta in quello strano paese a causa di un ciclone.
Quando si fu stancata di ammirare i ballerini Dorothy venne guidata in casa da Boq, in una bella camera da letto; le lenzuola erano azzurre e lei ci dormì dentro saporitamente fino al mattino con Toto raggomitolato sul pavimento sopra un tappetino azzurro. Al risveglio fece un abbondante colazione e si divertì a osservare un piccolissimo bambino Munchkin che giocava con Toto, gli tirava la coda e rideva, felice.
Toto incuriosiva anche gli adulti, d'altronde, perché prima di allora nessuno aveva mai visto un cane.
Poi Dorothy chiese al suo ospite: «È molto lontana da qui la Città di Smeraldo?»
«Non lo so» rispose Boq - perché non ci sono mai andato. È meglio starsene alla larga dal Mago Oz, a meno che non si abbiano affari importanti da sbrigare con lui in persona. Comunque una cosa la so per certo: quella città non è vicina e ti occorreranno diversi giorni di cammino per raggiungerla. Qui, come vedi il paese è bello, tranquillo ma prima di arrivare dovrai attraversare luoghi pericolosi e selvaggi.» Quelle notizie non fecero certo piacere a Dorothy; d'altra parte lei sapeva che solo il grande Oz avrebbe potuto aiutarla a tornare nel Kansas, perciò bisognava farsi coraggio e proseguire. Salutò gli amici e riprese il cammino lungo la strada lastricata di pietre gialle. Cammina, cammina, ad un certo punto cominciò a sentirsi stanca. Si arrampicò sullo steccato azzurro che costeggiava la strada e si sedette. Al di là dello steccato si stendeva un gran campo di grano e, in mezzo al grano c'era uno Spaventa passeri, infilato in cima a un palo per tenere lontani gli uccelli. Dorothy, con il mento appoggiato alla mano lo osservò a lungo. La testa era fatta con un sacchetto di tela riempito di paglia sul quale erano stati dipinti gli occhi, il naso e la bocca, e sormontato da un vecchio cappello a cono, azzurro, che doveva essere appartenuto a qualche Munchkin. Il corpo era fatto di un vestito blu, logoro e sbiadito , anch'esso ben imbottito di paglia. Ai piedi il fantoccio calzava un paio di stivali azzurri con la punta al-l'insù uguali a quelli usati da tutti gli abitanti del paese e dominava il gran campo di grano dall'alto del palo che aveva conficcato nella schiena.
Mentre fissava quella buffa faccia dipinta, a Dorothy sembrò che uno degli occhi ammiccasse. Lì per lì pensò di essersi sbagliata: nel Kansas non aveva mai visto spaventapasseri che ammiccavano. Ma ecco che, subito dopo, il fantoccio chinò la testa con aria amichevole! Allora Dorothy balzò giù dallo steccato e raggiunse lo Spaventapasseri, mentre Toto girava intorno al palo abbuiando a più non posso.
«Buongiorno» disse lo Spaventapasseri con voce un po' rauca.
«Come, tu parli?» chiese Dorothy, sbalordita.
«Ma certo. Come stai?»
«Bene, grazie. E tu?»
«Be', così e così» rispose lo Spaventapasseri con un sorriso mesto. «Sai, è una gran noia starsene notte e giorno infilzato quassù a spaventare gli uccelli.»
«Non puoi scendere?» chiese Dorothy.
«E come? Ho il palo infilato nella schiena! Se tu fossi così gentile da aiutarmi a liberarmene te ne sarei proprio grato.»
Dorothy si alzò sulla punta dei piedi e staccò lo Spaventapasseri; non fece per niente fatica perché riempito di paglia com'era, pesava pochissimo.
«Grazie mille» disse lo Spaventapasseri non appena ebbe posato i piedi a terra.
«Ora mi sento un altro.»
Dorothy era davvero sconcertata nel sentir parlare quel fantoccio impagliato e nel vederlo compitamente inchinarsi davanti a lei.
Lo Spaventapasseri si stirò fece un grande sbadiglio poi chiese: «E tu, bambina chi sei? Dove vai?»
«Mi chiamo Dorothy e sono diretta alla Città di Sm eraldo per chiedere al grande
Oz di farmi tornare a casa mia, nel Kansas.»
«Dov'è questa Città di Smeraldo?» volle sapere lo Spaventapasseri. «E chi è questo Oz?»
«Come non lo sai?» si stupì Dorothy.
«Io non so niente di niente. Ho la testa piena di paglia, capisci, e non ho cervello» rispose il fantoccio con aria triste.
«Oh poverino mi dispiace per te.»
«Credi che, se venissi con te il grande Oz mi darebbe un po' di cervello?»
«Non saprei. Ma, anche se fai il viaggio a vuoto, non starai peggio di adesso, no?»
Lo Spaventapasseri annuì, convinto.
«Hai ragione. Sai» proseguì, in tono confidenziale «a me non importa di avere le braccia, le gambe, tutto il corpo insomma pieno di paglia; non mi dispiace per niente anzi perché così non posso farmi male. Se qualcuno mi pesta i piedi o mi punge con uno spillo non sento niente. Bello no? Ma non mi va che la gente mi consideri uno stupido. E come faccio a diventare intelligente se al posto del cervello ho in testa della paglia?»
«Ti capisco» disse Dorothy, che davvero provava una gran pena per il poverino.
«Se vieni con me, chiederò al Mago Oz di fare qualcosa per te.»
«Grazie» mormorò lo Spaventapasseri, commosso.
Dorothy lo aiutò a superare lo steccato, poi fianco a fianco si incamminarono lungo la strada lastricata di pietre gialle che conduceva alla Città di Smeraldo.
Toto non aveva l'aria per niente soddisfatta e sembrava non nutrire sentimenti amichevoli per quel nuovo compagno di viaggio. Annusò a lungo lo Spaventapasseri e poi ringhiò a lungo in tono tutt'altro che amichevole.
«Non c'è da preoccuparsi» intervenne subito Dorothy. «Toto ringhia, ma non morde mai.»
«Io non mi preoccupo per niente» ribatté l'altro. «Non può mica rovinare la mia paglia! Dammi piuttosto quel panierino che porti al braccio: ti aiuto volentieri, tanto più che io non mi stanco mai. Senti, voglio confidarti un segreto: c'è una sola cosa al mondo che mi fa paura.»
« E quale?» chiese Dorothy. «Il Munchkin che ti ha costruito, che potrebbe in-seguirti quando si accorgerà della tua fuga?»
«No, un fiammifero acceso.»
Dorothy abitava in mezzo alle grandi praterie del Kansas, con zio Henry che faceva il fattore e zia Emmy, sua moglie. La casa era piccola perché il legno per co-struirla era stato portato da lontano e con gran fatica, fatta di una sola stanza. I mobili erano pochi: una credenza per i piatti, un tavolo, poche sedie, una stufa arrugginita e due letti: uno grande, in un angolo, per gli zii e un altro piccolino per Dorothy nell'angolo opposto.
Mancava la soffitta e mancava la cantina; al suo posto c'era una buca scavata nel pavimento, chiamata «cantina da ciclone» dove rifugiarsi se si fosse scatenato uno di quei terribili uragani tipici del Kansas, tanto forti da abbattere qualsiasi costruzione.
Se Dorothy si guardava intorno, in piedi sulla soglia di casa, vedeva intorno a sé solo la grande prateria grigia, che si stendeva fino all'orizzonte senza che una casa, un albero ne interrompessero la monotonia. Il sole aveva talmente bruciato la terra arata da renderla dura, grigia, spaccata da innumerevoli, sottili fenditure e aveva seccato i fili d'erba rendendoli ugualmente grigi.
Un tempo i muri della casetta erano stati dipinti a colori vivaci, ma il sole aveva stinto la vernice. La pioggia l'aveva lavata via ed ora erano grigi e spenti come tutto il resto.
Quando zia Emmy era venuta a vivere in quel posto, era giovane e graziosa, poi sole e vento avevano trasformato anche lei; avevano spento la vivacità dei suoi occhi dando loro una tranquilla tonalità grigia e sbiadito i bei colori delle guance e delle labbra. Adesso era una donnina magra e smunta che non rideva mai. Quando Dorothy, diventata orfana, era venuta a vivere con lei, zia Emmy era rimasta così sorpresa delle sue spensierate risate che ogni volta sussultava e soffocava un grido, por-tandosi le mani al petto. E anche ora che era passato del tempo, non poteva fare a meno di guardare con stupore la nipotina, chiedendosi di che cosa mai potesse continuare a ridere.
Neanche zio Henry rideva mai. Lavorava senza sosta da mattina a sera e non sapeva cosa fosse l'allegria. Anche lui era tutto grigio, dalla lunga barba alla punta degli stivali, aveva un aria solenne e severa e parlava raramente.
Dorothy era riuscita a non diventare spenta e grigia specialmente per merito di Toto, un cagnolino nero, dal pelo lungo e lucente come seta, occhi neri e vivacissimi, un naso buffo e tanta voglia di giocare. Lei ci giocava tutto il giorno e gli voleva un bene dell'anima.
Quel giorno, però, i due non giocavano. Zio Henry, seduto sulla soglia, scrutava preoccupato il cielo più grigio del solito.
Dorothy, accanto a lui, con Toto in braccio, guardava il cielo lei pure. Zia Emmy stava lavando i piatti.
Poi da nord giunse improvviso il cupo ululato del vento e zio e nipote videro l'erba della prateria ondeggiare e incurvarsi. Subito dopo un altro ululato si alzò da sud e l'erba si curvò e ondeggiò in quella direzione.
Zio Henry balzò in piedi.
«Emmy, sta per scatenarsi un ciclone!» gridò alla moglie. «Vado a vedere le bestie.»
E corse verso il recinto delle mucche e dei cavalli.
Zia Emmy lasciò perdere i piatti, si affacciò alla porta. Le bastò solo un occhiata per rendersi conto del pericolo incombente.
«Presto, Dorothy!» ordinò. «Scendi in cantina.»
Sotto la botola che si apriva sul pavimento c'era una scala a pioli per facilitare la discesa e mettersi rapidamente in salvo. Ma Toto scelse proprio quel momento per saltar giù dalle braccia di Dorothy e rifugiarsi sotto il letto, lei gli corse dietro per riprenderlo e intanto zia Emmy, spaventatissima, già aveva aperto la botola e scendeva lungo la scala a pioli nell'angusta buca buia.
Finalmente Dorothy riuscì ad afferrare Toto e stava per calarsi lei pure nel rifu-gio quando una folata di vento fortissima investì la casetta. Dorothy perse l'equilibrio e cadde a sedere sul pavimento.
Poi accadde qualcosa di straordinario.
La casa roteò due o tre volte su se stessa e si sollevò nell'aria come se si fosse trasformata in un pallone.
Il vento del nord e quello del sud, scontrandosi proprio in quel punto ne avevano fatto il centro del ciclone. Di solito al centro del ciclone l'aria è ferma, ma la violenta pressione del vento da ogni lato stava sollevando la casa sempre più in alto, la trascinò fino al vertice dove rimase e poi la trasportò per miglia e miglia lontano, come se fosse una piuma.
C'era un gran buio, lassù e il vento ululava, ma a Dorothy quel viaggio sembrò ugualmente divertente. Dopo qualche scossone di assestamento e dopo essersi incli-nata pericolosamente, la casa si placò dandole la sensazione di venir cullata dolcemente come un bambino nel suo lettino.
Toto, invece, la pensava diversamente. Correva qua e là per la stanza, abbaiava senza sosta e lanciava occhiate preoccupate alla padroncina seduta sul pavimento ad aspettare il seguito di quell'avventura.
Nel suo andirivieni Toto si avvicinò troppo alla botola aperta e ci cadde dentro.
Dorothy temette di averlo perduto per sempre, invece dopo qualche istante vide un orecchio peloso spuntare dal buco: la pressione esterna dell'aria sosteneva il cagnolino, impedendogli di cadere. Allora lo afferrò per l'orecchio e lo mise in salvo sul pavimento; poi, per evitare altri incidenti, chiuse ben bene la botola.
Passarono le ore. Dorothy si sentiva tranquilla ma anche molto sola; il vento continuava ad ululare così forte che quasi l'assordava. In principio aveva temuto che la casa ripiombasse a terra, seppellendola tra le macerie, poi, visto che il tempo tra-scorreva senza che accadesse niente, decise che non era il caso di preoccuparsi ma di aspettare con calma gli eventi. Strisciò sul pavimento oscillante fino al suo letto, ci si arrampicò e si sdraiò, subito imitata da Toto.
Poco dopo dormiva profondamente, incurante del dondoli della casa, del rumore del vento.
Nel paese dei Munchkin
Dorothy fu svegliata da un gran colpo, così forte e inatteso che, se non fosse stata sdraiata sul suo lettino morbido, avrebbe potuto farsi male. Invece, quella scossa la lasciò solo senza respiro per un momento, a chiedersi che cosa fosse successo, mentre Toto le strofinava il naso umido contro una guancia e guaiva, spaventato.
Si alzò e solo allora si rese conto che la casa non si muoveva più. Non solo, anche il buio era svanito e la luce del sole, entrando dalla finestra, illuminava gaiamen-te la stanza. Subito, con Toto alle calcagna, corse ad aprire la porta e non poté trattenere un grido di stupore alla vista dello splendido spettacolo che le si parava davanti agli occhi.
Il ciclone aveva deposto la casetta, con una delicatezza strana per un ciclone, nel bel mezzo di un paese bellissimo. Tutto intorno c'erano immensi prati verdi con u-n'infinità di alberi carichi di frutta matura e profumata, ovunque sbocciavano fiori, uccelli dalle piume variopinte svolazzavano cantando tra gli alberi e i cespugli. Poco lontano, un limpido torrente scorreva tra due rive erbose con un fruscio dolce che suonava come musica alle orecchie di una bambina abituata alle aride e silenziose praterie grigie del Kansas.
Mentre Dorothy se ne stava immobile con gli occhi sgranati, avida di ammirare tutto, vide un gruppetto di persone che venivano verso di lei. Gente dall'aspetto a dir poco originale: non alti come adulti né piccoli come nani, avevano più o meno la sua statura, ma si vedeva che non erano bambini.
Erano tre uomini e una donna, vestiti in modo curioso. Tutti e quattro avevano in testa dei cappelli a cono alti due spanne e con tanti campanellini tutto intorno alla tesa che tintinnavano dolcemente a ogni movimento. Quelli degli uomini erano azzurri e lo stesso colore avevano i vestiti e gli stivali lucidissi, con la punta rivolta verso l'alto e Dorothy pensò che dovevano avere più o meno la stessa età di zio Henry; e, come lui, portavano la barba.
La donnina, cappello bianco e gran mantello bianco tempestato di stelle che luc-cicavano al sole come brillanti, era sicuramente la più vecchia del gruppo, aveva i capelli candidi, la faccia rugosa e camminava con una certa difficoltà.
Quando furono vicini a Dorothy, i quattro si fermarono e si misero a sussurrare qualcosa, come se non avessero coraggio di proseguire. Alla fine la donnina vecchia fece qualche passo avanti e si inchinò profondamente.
«Sii la benvenuta, nobilissima fata, nel paese dei Munchkin» disse con una voce dolce dolce. «Ti siamo infinitamente grati perché hai ucciso la perfida Strega dell'Est liberando il nostro popolo dalla schiavitù.»
Dorothy ascoltava, sbalordita. Perché quella vecchina la chiamava fata e diceva che aveva ucciso la perfida Strega dell'Est? Lei era solo un innocente bambina che il ciclone aveva trasportato per miglia e miglia lontano da casa e non aveva mai ucciso nessuno!
Intanto la vecchina la guardava e si capiva bene che aspettava una risposta. Allora, esitando, disse:
«Lei è molto gentile, signora, ma guardi che si sbaglia: io non ho mai ucciso nessuno.»
«La tua casa sì, però» replicò la donnina ridendo. «Il che, in fondo, è la stessa cosa. Guarda tu stessa!» E indicò l'angolo della casa. «Non vedi quei due piedi che spuntano sotto un pezzo di parete?»
Dorothy guardò e gridò di spavento.
Sotto l'angolo del grosso trave che sosteneva tutta la casa spuntavano due piedi calzati di scarpe d'argento con la punta rivolta all'insù.
«Misericordia!» esclamò Dorothy torcendosi le mani per la disperazione. «La casa le è piombata proprio sopra! E ora, che facciamo?»
«Misericordia!» esclamò Dorothy, torcendosi le mani per la disperazione.
«La casa le è piombata proprio sopra! E ora che facciamo?»
«Proprio niente» rispose la donnina, tranquillissima.
«Ma... chi era?»
«Te l'ho detto: la perfida Strega dell'Est. Per anni e anni ha tenuto in suo potere i Munchkin costringendoli a lavorare come schiavi per lei, dall'alba al tramonto. Ora che è morta sono finalmente liberi e ti saranno grati per sempre.»
«E chi sono i Munchkin?» volle sapere Dorothy.
«Il popolo che abita in queste terre dell'Est che erano dominio della perfida Strega.»
«Anche lei signora, è una Munchkin?» disse Dorothy.
«No, sono loro amica, ma abito nelle terre del Nord. Quando i Munchkin hanno visto che la Strega dell'Est era morta subito mi hanno inviato un messaggio, ed ec-comi qui. Io sono la Strega del Nord.»
«Oh, povera me!» disse Dorothy, spaventata. «Lei è propri una strega?»
«Ma certo. Però sono una strega buona e tutti mi vogliono bene. Purtroppo non sono potente come la perfida Strega dell'Est, altrimenti avrei provveduto io stessa a liberare i miei amici.»
Dorothy non era del tutto convinta; l'idea di trovarsi faccia a faccia con una strega vera continuava a spaventarla.
«Io credevo che tutte le streghe fossero cattive.»
«Ah, no ti sbagli. C'erano solo quattro streghe nel Paese di Oz e due, quelle che abitano a nord e a sud sono buone. Posso assicurartelo perché una delle due sono io, bambina. E ora che tu hai ucciso la Strega dell'Est, di malvagie ne resta una soltanto: quella dell'Ovest.»
Dorothy rifletté per un momento poi disse: «Ma zia Emmy mi ha detto che tutte le streghe sono morte, tanti e tanti anni fa.»
«Chi è tua zia Emmy?» domandò la donnina.
«È mia zia e vive nel Kansas. Anch'io vivevo là.»
La Strega del Nord chinò la testa, gli occhi fissi a terra, pensosa. Poi la sollevò e disse:
«Non so dove si trovi il Kansas, non ne avevo mai sentito parlare, prima d'ora. E dimmi, è un paese civile?»
«Certo che lo è!» rispose Dorothy.
«Allora adesso capisco tutto. Nei paesi civili ormai non ci sono più né streghe né fate, né maghi né stregoni. Il regno di Oz invece, non è mai stato civilizzato perché è sempre stato tagliato fuori dal resto del mondo e per questo qui da noi ci sono ancora streghe e maghi. Oz è il grande mago,» e la Strega del Nord abbassò la voce
«più potente di tutte noi streghe messe insieme e vive nella Città di Smeraldo.»
Dorothy aveva una gran voglia di fare altre domande, ma non ci riuscì perché in quel momento i tre Munchkin che fino a quel momento non avevano aperto bocca, lanciarono un grido, indicando il punto in cui poco prima spuntavano da sotto il trave i piedi della perfida strega.
«Che succede?» chiese la donnina.
Poi guardò anche lei e scoppiò a ridere: i piedi erano scomparsi, restavano solo le scarpette d'argento.
«Era così vecchia» disse la Strega del Nord «che il sole l'ha disseccata e polve-rizzata in un batter d'occhio. Le scarpette però sono rimaste e ti appartengono, bambina.»
Si chinò, le raccolse e le porse a Dorothy aggiungendo:
«La Strega dell'Est andava fiera delle sue scarpette d'argento e io credo che abbiano dei poteri magici; quali, però, non siamo mai riusciti a saperlo.»
Dorothy le prese, entrò in casa, e le depose sul tavolo. Poi tornò fuori e chiese ai Munchkin:
«Vorrei tanto tornare a casa dai miei zii, chissà come sono in pena per la mia scomparsa. Per favore, mi aiutate a ritrovare la strada per il Kansas?»
I Munchkin e la Strega del Nord si scambiarono un'occhiata, poi guardarono Dorothy e scossero la testa.
Uno disse:
«A est, non lontano da qui, si estende un immenso deserto che nessuno al mondo riuscirebbe ad attraversare.»
«Idem al sud» riprese un altro. «Io lo so perché ci sono stato e l'ho visto, quel deserto. Il Sud è il paese dei Quadling.
«Io ho sentito dire che anche all'ovest è la stessa cosa» intervenne il terzo omettino. «Il paese è abitato dai Winkie e vi regna la perfida Strega dell'Ovest. Se tu ci mettessi piede, bambina, verresti subito imprigionata.»
«Il Nord è il mio paese» disse la donnina «e anch'esso confina con l'immenso deserto che circonda intero regno di Oz. Penso proprio, mia cara, che tu debba restare per sempre con noi.»
Dorothy, scoraggiata, si mise a pianger perché si sentiva terribilmente sola in mezzo a quelle strane creature. E le sue lacrime toccarono il cuore dei buoni Munchkin che tirarono fuori i fazzoletti e si misero a singhiozzare essi pure. La donnina, invece, si tolse il cappello e lo tenne in equilibrio sul naso per la punta. E poi si mise e a contar «Uno.., due.., tre...»
D'improvviso il cappello si trasformò in una minuscola lavagna sulla quale stava scritto con il gesso, a grandi lettere:
CHE DOROTHY VADA ALLA CITTÀ DI SMERALDO
La donnina lesse, poi chiese:
«Ti chiami Dorothy, cara?»
«Sì» rispose lei, asciugandosi gli occhi e tirando su col naso.
«Allora devi andare alla Città di Smeraldo. Forse il Mago Oz ti aiuterà.»
«E dov'è questa città?» domandò Dorothy.
«Esattamente al centro del regno e Oz è il grande mago che la governa.»
«È un uomo buono?»
«È un mago buono. Non so se sia anche un uomo perché non l'ho mai visto» precisò la donnina.
«E come ci vado, da lui?»
«Devi andarci a piedi. È un viaggio molto lungo attraverso un paese ora bellissimo, ora cupo e pauroso. Da parte mia, userò tutte le arti magiche che posseggo per tenerti lontana dai guai.»
«Perché non viene anche lei con me?» implorò Dorothy che in quella donnina vedeva la sua unica amica.
«No, questo non posso farlo, piccola, ma ti darò un bacio. Vedrai che nessuno oserà nuocere a chi è stato baciato dalla Strega del Nord.»
Si avvicinò a Dorothy e la baciò lieve lieve sulla fronte: in quel punto sulla pelle apparve un'impronta rotonda e lucente. Poi disse:
«La strada per giungere alla Città di Smeraldo è lastricata di pietre gialle. Segui-la e non ti smarrirai. Quando sarai al cospetto di Oz non aver paura, raccontagli la tua storia e chiedigli aiuto. Addio, bambina cara.»
Anche i tre Munchkin salutarono Dorothy, inchinandosi fino a terra e auguran-dole buon viaggio, poi si incamminarono e poco dopo erano scomparsi tra gli alberi.
La Strega del Nord le fece un cenno amichevole con la testa, poi girò per tre volte sul tallone sinistro e scomparve, con grande sorpresa di Toto che si mise ad abbaiare furiosamente, mentre fino a quel momento aveva avuto tanta paura da non lasciarsi sfuggire neanche un guaito piccino piccino.
Dorothy, invece, non si sorprese per niente: una strega che si rispetti non può mica andarsene camminando come i comuni mortali, no?
Dorothy salva lo Spaventapasseri
Rimasta sola, Dorothy si accorse che tutte le emozioni delle ultime ore le avevano risvegliato l'appetito. Andò alla credenza, tagliò una fetta di pane, la spalmò di burro e la divise con Toto, poi con un secchio attinse acqua dal torrente e bevve. Toto, intanto, era corso sotto gli alberi e stava abbaiando agli uccellini appollaiati sui rami; Dorothy andando a riprenderlo vide della frutta meravigliosa, matura a puntino e con quella completò la colazione. Poi rientrò in casa e cominciò a prepararsi per il viaggio alla Città di Smeraldo.
Oltre a quello che indossava, Dorothy possedeva solo un altro vestito. Per fortuna zia Emmy lo aveva lavato e stirato e stava appeso a un gancio accanto al letto. Era di cotonina a quadretti bianchi e blu, e sebbene il blu si fosse scolorito per i molti bucati, era ancora un bel vestitino. Lei si lavò con l'acqua rimasta nel secchio, indossò il vestito pulito e si appuntò sui capelli una cuffietta rosa; il pane che era avanzato lo sistemò in un panierino, coprendolo con un tovagliolo bianco. Poi dette un'occhiata ai suoi piedi e vide che le scarpe erano proprio in cattive condizioni, tutte logore e stinte.
«Non reggeranno a un lungo viaggio, Toto» disse al cagnolino, con un sospiro.
Toto la guardò con quei suoi occhietti vivacissimi e agitò la coda, come se avesse capito il senso delle parole della padroncina.
Dorothy si guardò intorno e il suo sguardo si posò sulle scarpette d'argento che erano appartenute alla perfida Strega dell'Est, appoggiate sul tavolo.
«Chissà se sono della mia misura» rifletté. «In questo caso andrebbero proprio bene, prima di tutto perché l'argento non si consuma come il cuoio e poi perché sono anche fatate: lo ha detto la Strega del Nord.»
Si tolse le vecchie scarpe, provò quelle d'argento e con grande soddisfazione no-tò che le calzavano a meraviglia. Prese sottobraccio il panierino e disse a Toto:
«Su, andiamo alla Città di Smeraldo a chiedere al grande Mago Oz la strada per tornare a casa nel Kansas.»
Chiuse la porta: la sprangò, poi ripose la chiave nella tasca del vestito e si mise in cammino con Toto che le trotterellava alle calcagna.
C'erano molte strade lì intorno ma non fu difficile trovare quella lastricata di pietre gialle e Dorothy vi si inoltrò camminando di buona lena. Le scarpette d'argento risuonavano allegramente a ogni passo e lei non si sentiva né sola né triste come sarebbe stato logico in una bambina risucchiata con la sua casa e lontana dal suo paese per colpa di un ciclone, piombata in luoghi sconosciuti.
Il fatto è che quei luoghi che stava attraversando erano magnifici, illuminati da un sole splendente, rallegrati dal cinguettio di innumerevoli uccellini.
La strada costeggiava dei campi di grano e degli orti e ai due lati c'erano degli steccati dipinti di un azzurro squillante. I Munchkin dovevano essere dei bravi agricoltori, a quel che sembrava. Qua e là c'erano delle case dall'aspetto singolare: tondeggianti, con i tetti fatti a cupola e tutte quante dipinte d'azzurro, che doveva essere proprio il colore favorito di quel paese.
La gente si faceva sulla soglia e salutava Dorothy con grandi inchini: già tutti sapevano che era stata lei a uccidere la perfida Strega dell'Est e a liberarli dalla schiavitù.
Il tramonto era vicino e Dorothy stanca, cominciava a chiedersi dove avrebbe trascorso la notte, quando vide una casa più grande delle altre; aveva un grande prato verde sul davanti e sul prato c'erano uomini e donne che ballavano e cantavano mentre cinque omettini violinisti suonavano una musica allegra, poco lontano, su un grande tavolo facevano bella mostra di sé torte, biscotti, pasticcini, insomma una quantità di buone cose da mangiare.
Quella gente accolse la nuova arrivata con entusiasmo; la invitarono a rifocillar-si e a fermarsi per la notte e le spiegarono che quella era la casa di uno dei più ricchi Munchkin del paese che aveva riunito gli amici per festeggiare la liberazione dalla tirannia della perfida strega.
Dorothy non si fece pregare e mangiò finché non fu sazia, servita dal padrone di casa in persona di nome Boq, poi sedette su un divano a guardare la gente che ballava.
Boq notò le sue scarpette d'argento e le disse:
«Tu devi essere una grande strega.»
«Perché chiese Dorothy.»
«Perché calzi le scarpette d'argento e perché hai ucciso la perfida Strega dell'Est.
Inoltre c'è del bianco nel tuo vestito e solo le streghe portano quel colore.»
«Ma il mio vestito è bianco a quadretti azzurri» gli fece notare Dorothy, spianando una piegolina.
«Di bene in meglio: l'azzurro è il colore dei Munchkin il bianco è il colore delle streghe: questo significa che sei una strega amica.»
Dorothy si sentiva imbarazzata: tutti la credevano una strega potente e lei invece sapeva bene di essere solo una bambina qualsiasi giunta in quello strano paese a causa di un ciclone.
Quando si fu stancata di ammirare i ballerini Dorothy venne guidata in casa da Boq, in una bella camera da letto; le lenzuola erano azzurre e lei ci dormì dentro saporitamente fino al mattino con Toto raggomitolato sul pavimento sopra un tappetino azzurro. Al risveglio fece un abbondante colazione e si divertì a osservare un piccolissimo bambino Munchkin che giocava con Toto, gli tirava la coda e rideva, felice.
Toto incuriosiva anche gli adulti, d'altronde, perché prima di allora nessuno aveva mai visto un cane.
Poi Dorothy chiese al suo ospite: «È molto lontana da qui la Città di Smeraldo?»
«Non lo so» rispose Boq - perché non ci sono mai andato. È meglio starsene alla larga dal Mago Oz, a meno che non si abbiano affari importanti da sbrigare con lui in persona. Comunque una cosa la so per certo: quella città non è vicina e ti occorreranno diversi giorni di cammino per raggiungerla. Qui, come vedi il paese è bello, tranquillo ma prima di arrivare dovrai attraversare luoghi pericolosi e selvaggi.» Quelle notizie non fecero certo piacere a Dorothy; d'altra parte lei sapeva che solo il grande Oz avrebbe potuto aiutarla a tornare nel Kansas, perciò bisognava farsi coraggio e proseguire. Salutò gli amici e riprese il cammino lungo la strada lastricata di pietre gialle. Cammina, cammina, ad un certo punto cominciò a sentirsi stanca. Si arrampicò sullo steccato azzurro che costeggiava la strada e si sedette. Al di là dello steccato si stendeva un gran campo di grano e, in mezzo al grano c'era uno Spaventa passeri, infilato in cima a un palo per tenere lontani gli uccelli. Dorothy, con il mento appoggiato alla mano lo osservò a lungo. La testa era fatta con un sacchetto di tela riempito di paglia sul quale erano stati dipinti gli occhi, il naso e la bocca, e sormontato da un vecchio cappello a cono, azzurro, che doveva essere appartenuto a qualche Munchkin. Il corpo era fatto di un vestito blu, logoro e sbiadito , anch'esso ben imbottito di paglia. Ai piedi il fantoccio calzava un paio di stivali azzurri con la punta al-l'insù uguali a quelli usati da tutti gli abitanti del paese e dominava il gran campo di grano dall'alto del palo che aveva conficcato nella schiena.
Mentre fissava quella buffa faccia dipinta, a Dorothy sembrò che uno degli occhi ammiccasse. Lì per lì pensò di essersi sbagliata: nel Kansas non aveva mai visto spaventapasseri che ammiccavano. Ma ecco che, subito dopo, il fantoccio chinò la testa con aria amichevole! Allora Dorothy balzò giù dallo steccato e raggiunse lo Spaventapasseri, mentre Toto girava intorno al palo abbuiando a più non posso.
«Buongiorno» disse lo Spaventapasseri con voce un po' rauca.
«Come, tu parli?» chiese Dorothy, sbalordita.
«Ma certo. Come stai?»
«Bene, grazie. E tu?»
«Be', così e così» rispose lo Spaventapasseri con un sorriso mesto. «Sai, è una gran noia starsene notte e giorno infilzato quassù a spaventare gli uccelli.»
«Non puoi scendere?» chiese Dorothy.
«E come? Ho il palo infilato nella schiena! Se tu fossi così gentile da aiutarmi a liberarmene te ne sarei proprio grato.»
Dorothy si alzò sulla punta dei piedi e staccò lo Spaventapasseri; non fece per niente fatica perché riempito di paglia com'era, pesava pochissimo.
«Grazie mille» disse lo Spaventapasseri non appena ebbe posato i piedi a terra.
«Ora mi sento un altro.»
Dorothy era davvero sconcertata nel sentir parlare quel fantoccio impagliato e nel vederlo compitamente inchinarsi davanti a lei.
Lo Spaventapasseri si stirò fece un grande sbadiglio poi chiese: «E tu, bambina chi sei? Dove vai?»
«Mi chiamo Dorothy e sono diretta alla Città di Sm eraldo per chiedere al grande
Oz di farmi tornare a casa mia, nel Kansas.»
«Dov'è questa Città di Smeraldo?» volle sapere lo Spaventapasseri. «E chi è questo Oz?»
«Come non lo sai?» si stupì Dorothy.
«Io non so niente di niente. Ho la testa piena di paglia, capisci, e non ho cervello» rispose il fantoccio con aria triste.
«Oh poverino mi dispiace per te.»
«Credi che, se venissi con te il grande Oz mi darebbe un po' di cervello?»
«Non saprei. Ma, anche se fai il viaggio a vuoto, non starai peggio di adesso, no?»
Lo Spaventapasseri annuì, convinto.
«Hai ragione. Sai» proseguì, in tono confidenziale «a me non importa di avere le braccia, le gambe, tutto il corpo insomma pieno di paglia; non mi dispiace per niente anzi perché così non posso farmi male. Se qualcuno mi pesta i piedi o mi punge con uno spillo non sento niente. Bello no? Ma non mi va che la gente mi consideri uno stupido. E come faccio a diventare intelligente se al posto del cervello ho in testa della paglia?»
«Ti capisco» disse Dorothy, che davvero provava una gran pena per il poverino.
«Se vieni con me, chiederò al Mago Oz di fare qualcosa per te.»
«Grazie» mormorò lo Spaventapasseri, commosso.
Dorothy lo aiutò a superare lo steccato, poi fianco a fianco si incamminarono lungo la strada lastricata di pietre gialle che conduceva alla Città di Smeraldo.
Toto non aveva l'aria per niente soddisfatta e sembrava non nutrire sentimenti amichevoli per quel nuovo compagno di viaggio. Annusò a lungo lo Spaventapasseri e poi ringhiò a lungo in tono tutt'altro che amichevole.
«Non c'è da preoccuparsi» intervenne subito Dorothy. «Toto ringhia, ma non morde mai.»
«Io non mi preoccupo per niente» ribatté l'altro. «Non può mica rovinare la mia paglia! Dammi piuttosto quel panierino che porti al braccio: ti aiuto volentieri, tanto più che io non mi stanco mai. Senti, voglio confidarti un segreto: c'è una sola cosa al mondo che mi fa paura.»
« E quale?» chiese Dorothy. «Il Munchkin che ti ha costruito, che potrebbe in-seguirti quando si accorgerà della tua fuga?»
«No, un fiammifero acceso.»