lunedì 28 maggio 2018



SOGNI 
Da "Se hai bisogno chiama" 
Raymond Carver
Mia moglie ha l’abitudine di raccontarmi i suoi sogni quando si sveglia. Io le porto il caffè e un bicchiere di succo di frutta e mi siedo accanto al letto mentre lei si sveglia e si scosta i capelli dalla faccia. Ha la solita espressione di quando ci si sveglia, ma anche lo sguardo di chi torna da qualche parte.
– Allora? – le dico.
– Roba da matti, – dice lei. – Ho fatto un sogno proprio strano. Ho sognato che ero un ragazzo. Andavo a pesca con mia sorella e una sua amica, però ero ubriaco. Pensa un po’. Non ci si crede. Insomma, dovevo accompagnarle a pesca con la macchina, ma non riuscivo a trovare le chiavi. Poi, quando le trovavo, non mi partiva la macchina. Dopodiché, all’improvviso, eravamo già a pesca, su una barca in mezzo al lago. Stava arrivando un temporale, ma non riuscivo a far partire il motore della barca. Mia sorella e la sua amica non facevano altro che ridere. Ma io avevo una gran paura. E poi mi sono svegliata. Non ti pare strano? Tu che ne dici?
– Scrivilo, – le ho detto, alzando le spalle. Che altro potevo dire? Io non sogno nemmeno. Sono anni che non sogno piú. Oppure sogno, ma non mi ricordo niente quando mi sveglio.
Se c’è una cosa che non sono è un esperto di sogni, miei o di altri. Una volta Dotty mi ha detto di aver fatto un sogno subito prima che ci sposassimo in cui le sembrava di essersi messa ad abbaiare! Si svegliò e vide Bingo, il suo cagnolino, seduto accanto al letto che la guardava in un modo che le parve molto strano. E cosí si ricordò che aveva abbaiato nel sogno. «Chissà che voleva dire?», si chiedeva. – Era un brutto sogno, – disse. Lo aggiunse al suo libro dei sogni, ma la cosa finí lí. Non ci tornò sopra. Non cercava di interpretare i sogni. Si limitava a trascriverli e poi, quando ne faceva un altro, trascriveva anche quello.
Le ho detto: – Faccio un salto di sopra. Devo andare in bagno.
– Fra poco mi alzo anch’io. Mi devo prima svegliare per bene. Voglio pensare un altro po’ a questo sogno.
L’ho lasciata lí, seduta a letto, con la tazza in mano, ma senza bere. Stava lí seduta a riflettere sul suo sogno.
In realtà non avevo piú bisogno di andare in bagno e cosí mi sono preso un altro caffè, seduto al tavolo di cucina. Era agosto, faceva un gran caldo e le finestre erano spalancate. Caldo, sí, faceva proprio caldo. Un caldo boia. Mia moglie e io avevamo dormito giú nel seminterrato per la maggior parte del mese. Ma non era male. Avevamo portato tutto, là sotto: materasso, cuscini, lenzuola. Avevamo anche un comodino, una lampada e il posacenere. C’eravamo fatti un sacco di risate. Era come ricominciare tutto da capo. Ma tenevamo tutte le finestre di sopra spalancate e anche le finestre dei vicini erano tutte aperte. Me ne stavo seduto al tavolo e ascoltavo Mary Rice, la nostra vicina. Era ancora presto, ma lei era già in piedi, in camicia da notte, nella sua cucina. Non faceva che canticchiare e io l’ascoltavo sorseggiando caffè. Poi in cucina sono arrivati i suoi bambini. Ed ecco che cosa gli ha detto: – Buongiorno, bambini. Buongiorno, miei adorati.
Giuro. Cosí gli ha detto la madre. Poi si sono messi a tavola, ridevano non so perché e uno dei ragazzini sbatteva la sedia su e giú e rideva come un matto.
– Adesso basta, Michael, – ha detto Mary Rice. – Su, finisci i cereali, tesoro.
Poco dopo ha spedito i figli in camera loro a prepararsi per la scuola. Si è rimessa a canticchiare mentre lavava i piatti. Io ascoltavo e intanto pensavo: «Sono un uomo ricco. Ho una moglie che sogna tutte le notti, che è lí sdraiata accanto a me fino a che non si addormenta, e dopo se ne va lontano in qualche bel sogno tutte le notti». Certe volte sogna cavalli, oppure persone, o il sole e la pioggia, e certe volte cambia perfino sesso in sogno. Io non è che sentissi la mancanza dei sogni. Tanto avevo i suoi di sogni su cui riflettere, se proprio mi serviva un’altra vita. E poi avevo una vicina che cantava o canticchiava tutto il giorno. Tutto sommato, potevo ritenermi fortunato.
Mi sono messo alla finestra a guardare i figli dei vicini che uscivano di casa per andare a scuola. Ho visto Mary Rice schioccare un bacio sulle guance di ciascuno e l’ho sentita dire: – Ciao, ragazzi! – Poi ha richiuso la zanzariera, è rimasta un momento a guardare i figli che si allontanavano per la strada, poi si è voltata ed è tornata dentro.
Conoscevo le sue abitudini. Adesso si sarebbe messa a dormire per qualche ora; quando tornava a casa dal suo turno di notte, poco dopo le cinque di mattina, non andava a dormire. La ragazza che badava ai figli per lei – Rosemary Bandel, una del quartiere – l’aspettava, poi usciva e attraversava la strada per tornare a casa sua. E allora in quella di Mary Rice si accendevano le luci e restavano accese per tutta la notte. A volte, quando teneva le finestre aperte, come adesso, sentivo musica classica per pianoforte, e una volta ho perfino sentito la voce registrata di Alexander Scourby che leggeva Grandi speranze.
A volte, se non riuscivo a prendere sonno – mentre mia moglie dormiva e continuava a sognare accanto a me – mi alzavo, andavo di sopra e mi sedevo al tavolo ad ascoltare la sua musica o i suoi libri registrati e aspettavo che lei passasse dietro le tende o che si fermasse un attimo alla finestra. Ogni tanto, a quell’ora strana, cosí presto la mattina, a casa sua squillava il telefono, ma lei alzava sempre la cornetta al terzo squillo.
Ho scoperto che i figli si chiamavano Michael e Susan. Ai miei occhi non avevano niente di diverso da qualsiasi altro ragazzino del quartiere, tranne che quando li vedevo non potevo fare a meno di pensare: «Voialtri bambini siete fortunati ad avere una madre che vi canta le canzoni. Non avete neanche bisogno di un padre». Una volta sono venuti a bussare a casa nostra per vendere bagnoschiuma e un’altra volta sono venuti a vendere semi. Noi non abbiamo neanche un giardino, naturalmente – come diamine si fa a piantare qualcosa lí dove abitiamo? – però i semi glieli ho comprati lo stesso, crepi l’avarizia. E quando sono venuti a casa nostra a Halloween, sempre insieme alla loro babysitter – la madre era al lavoro, naturalmente – gli ho dato caramelle e dolciumi e ho salutato Rosemary Bandel.
Io e mia moglie viviamo in questo quartiere da piú tempo di tutti gli altri. Abbiamo visto quasi tutti arrivare o andare via. Mary Rice, il marito e i figli si sono trasferiti qui tre anni fa. Il marito lavorava per la società dei telefoni come guardafili e per un certo periodo usciva di casa tutte le mattine alle sette e tornava a casa per le cinque. Poi, a un certo punto, ha smesso di tornare alle cinque. Tornava piú tardi o non tornava affatto.
Se n’era accorta anche mia moglie. – Non lo vedo lí a casa da tre giorni, – mi diceva.
– Neanch’io –. Avevo sentito alzare la voce di là qualche mattina prima e uno dei bambini stava piangendo, o tutt’e due.
Poi, al mercato, la signora che abitava accanto a Mary Rice dall’altra parte aveva detto a mia moglie che Mary e il marito si erano separati. – Ha piantato moglie e figli, – cosí le aveva detto. – Quel figlio di puttana.
E non molto tempo dopo, siccome doveva mantenersi da sola dato che il marito si era licenziato e trasferito altrove, Mary Rice si era messa a lavorare in un ristorante dove serviva cocktail e ben presto aveva cominciato a stare sveglia tutta la notte ad ascoltare musica e libri registrati. Certe volte cantava, altre volte intonava un motivetto a bocca chiusa. La signora che abitava dall’altra parte disse anche che Mary Rice si era iscritta a due corsi per corrispondenza dell’università. Si stava rifacendo una vita, aveva detto la vicina, e questa nuova vita comprendeva anche i due bambini.
L’inverno ormai si avvicinava e cosí ho deciso di montare le finestre antiuragano. Ero lí fuori sulla scala, quando i due bambini della casa accanto, Michael e Susan, si sono precipitati in strada con il loro cane, lasciando sbattere la zanzariera. Si sono messi a correre lungo il marciapiedi infagottati nei loro cappottini e prendevano a calci i mucchi di foglie.
Mary Rice si è affacciata sulla porta e li ha seguiti con lo sguardo. Poi si è rivolta a me.
– Salve! – ha detto. – Vedo che si sta preparando per l’inverno.
– Già, – ho risposto. – Non manca poi molto.
– Proprio cosí, – ha detto lei. Poi è rimasta in attesa per un po’, come se volesse aggiungere qualcosa. Invece ha detto: – Be’, mi ha fatto piacere parlare con lei.
– Il piacere è tutto mio, – le ho detto.
 Questo è successo poco prima del giorno del Ringraziamento. Una settimana dopo, quando sono andato in camera a portare caffè e succo di frutta a mia moglie, l’ho trovata già sveglia, seduta sul letto e pronta a raccontarmi il sogno. Mi ha fatto cenno di sedermi, dando dei colpetti sul letto accanto a sé.
– Questo lo devo scrivere per forza, – ha detto. – Sta’ a sentire e poi dimmi se non ho ragione.
– Racconta, – le ho detto. Ho preso un sorso dalla sua tazza e poi gliel’ho passata. Lei ci ha messo le mani intorno, come se volesse scaldarsele.
– Eravamo su una nave, – ha esordito.
– Non ci siamo mai stati su una nave, – ho detto io.
– Lo so, comunque eravamo su una nave, una nave grande, da crociera. Eravamo a letto, in una cuccetta o qualcosa del genere, quando a un certo punto un tizio ha bussato alla porta e si è presentato con un vassoio di tortine. È entrato, ha lasciato lí le tortine e se n’è andato. Io sono scesa dal letto e ho fatto per prenderne una. Avevo una gran fame, sai, ma quando ho toccato la tortina mi sono bruciata i polpastrelli. Poi hanno cominciato ad arricciarmisi le dita dei piedi – hai presente come fanno quando si prende un grosso spavento? E cosí mi sono reinfilata nel letto, ma si sentiva una musica forte – era Skrjabin – e poi qualcuno si è messo a far tintinnare dei bicchieri, centinaia di bicchieri, forse addirittura migliaia, e tutti questi bicchieri tintinnavano insieme. Cosí t’ho svegliato e te l’ho detto e tu hai risposto che saresti andato a vedere che cos’era tutto quel baccano. Mentre tu eri via, ricordo di aver visto passare la luna fuori dall’oblò, e poi la nave deve aver invertito la rotta o non so che, perché la luna è ritornata e ha illuminato tutta la cabina. Poi sei tornato tu, eri ancora in pigiama, sei entrato nel letto e ti sei rimesso a dormire senza neanche una parola. La luna brillava appena fuori dall’oblò e nella cabina sembrava che splendesse ogni cosa, ma tu continuavi a non aprir bocca. Ricordo che ho avuto un po’ paura di te, per il fatto che non dicevi niente, e mi si sono arricciate le dita dei piedi un’altra volta. Poi mi sono riaddormentata... ed eccomi qua. Che ne dici? Non è un sogno strano? Dio! Come lo interpreti? Non è che hai sognato qualcosa anche tu? – Ha bevuto un po’ di caffè e si è messa a fissarmi.
Ho scosso la testa. Non sapevo che dire e cosí le ho detto che avrebbe fatto bene a scrivere tutto sul suo taccuino.
– Dio mio, non so mica. Stanno diventando troppo strani. Tu che dici?
– Mettilo nel tuo libro.
Ben presto è arrivato Natale. Abbiamo comprato un albero, l’abbiamo decorato e la mattina di Natale ci siamo scambiati i regali. Dotty mi ha comprato un paio di muffole nuove, un mappamondo e un abbonamento alla rivista dello Smithsonian. Io a lei un profumo – è arrossita quando ha scartato il pacchetto – e una camicia da notte nuova. Mi ha abbracciato. Poi siamo andati in macchina dall’altra parte della città dove eravamo invitati a cena da amici.
Tra Natale e Capodanno ha cominciato a fare ancora piú freddo. È nevicato e poi è rinevicato un’altra volta. Michael e Susan un giorno sono usciti e sono rimasti fuori parecchio, tanto che hanno fatto un pupazzo di neve. Gli hanno ficcato una carota in bocca. Di sera vedevo il riflesso della televisione accesa dalla finestra di camera loro. Mary Rice continuava ad andare al lavoro tutte le sere e a tornare all’alba. Rosemary veniva a badare ai bambini e ogni notte, per tutta la notte, le luci rimanevano accese.
La sera dell’ultimo dell’anno siamo andati di nuovo a cena dai nostri amici dall’altra parte della città, abbiamo giocato a bridge, guardato un po’ la televisione e a mezzanotte in punto abbiamo stappato una bottiglia di champagne. Ho stretto la mano a Harold e ci siamo fumati un sigaro insieme. Poi io e Dotty abbiamo ripreso la macchina e siamo tornati a casa.
Ma – e qui comincia la parte peggiore – quando siamo arrivati dalle nostre parti abbiamo trovato la strada bloccata da due macchine della polizia. I lampeggianti sul tetto giravano vorticosamente. Altre macchine, di automobilisti curiosi, erano parcheggiate lí intorno e parecchie persone erano uscite di casa. La gente era per lo piú vestita elegante e con il cappotto, ma c’era anche chi indossava un giaccone sopra il pigiama, ed erachiaro che se l’erano messo in gran fretta. In fondo alla strada erano parcheggiate due autopompe: una nel nostro giardino e un’altra nel vialetto della casa di Mary Rice.
Ho detto a un agente come mi chiamavo e che abitavo lí, dov’era l’autopompa (– Sono proprio davanti a casa nostra! – aveva esclamato Dotty) e l’agente ci ha detto di accostare la macchina.
– Cos’è successo? – gli ho chiesto. 
– Credo che uno di quei termoconvettori abbia preso fuoco. Perlomeno, cosí ho sentito dire. C’erano un paio di ragazzini in casa. Tre, contando la babysitter. Lei se l’è cavata. Ma mi sa che i bambini non ce l’hanno fatta. Asfissia da fumo.
Ci avviammo lungo la strada verso casa nostra. Dotty camminava al mio fianco, aggrappandosi al mio braccio. – O Dio mio! – ha detto.
Vicino alla casa di Mary Rice, alla luce dei fari delle autopompe, vedevo un uomo in piedi sul tetto con un idrante. Però ormai non uscivano che poche gocce d’acqua. La finestra della camera da letto era sfondata e all’interno vedevo un uomo che si aggirava con in mano quella che poteva essere un’ascia. Poi un altro è uscito dalla porta davanti portando qualcosa in braccio e ho visto che era il cane dei bambini. A quel punto mi sono sentito malissimo.
C’era una troupe mobile di una tv locale e un tizio stava riprendendo con una telecamera a spalla. I vicini erano tutti ammucchiati da una parte. Le autopompe tenevano i motori accesi e di tanto in tanto dall’interno delle cabine uscivano voci che gracchiavano dagli altoparlanti. Ma nessuno diceva una parola, fra tutti quelli che assistevano alla scena. Li ho guardati bene e a un certo punto ho riconosciuto Rosemary, in piedi, con la bocca aperta, accanto alla madre e al padre. Poi i pompieri, omoni con gli stivali, l’impermeabile e l’elmetto, gente che sembrava indistruttibile come se potesse campare altri cent’anni, hanno portato fuori i bambini su due barelle. Sono usciti, uno al capo e uno ai piedi di ogni barella, e hanno portato fuori i bambini.
– Oh no! – hanno esclamato le persone lí vicino. E poi ancora: – Oh no, no! – qualcuno ha gridato.
I pompieri hanno appoggiato le barelle a terra. Un uomo in borghese, con un berretto di lana in testa, si è fatto avanti e ha auscultato con uno stetoscopio i bambini, se per caso il cuore batteva ancora, poi ha fatto un cenno col capo agli infermieri dell’ambulanza, che si sono avvicinati per prendere le barelle.
A quel punto è arrivata un’utilitaria e Mary Rice è saltata fuori dal sedile del passeggero. È corsa verso gli uomini che stavano per infilare le barelle nell’ambulanza. – Metteteli giú! – ha gridato. – Metteteli giú!

    E gli infermieri si sono bloccati, hanno rimesso giú le barelle e hanno fatto un passo indietro. Mary Rice si è chinata sui figli e si è messa a ululare – sí, non c’è un’altra parola. La gente è arretrata e poi si è fatta avanti di nuovo quando lei è caduta in ginocchio sulla neve accanto alle barelle e toccava con le mani ora la faccia del bambino, ora quella della bambina.

    L’uomo in borghese con lo stetoscopio si è avvicinato e si è inginocchiato accanto a Mary Rice. Un altro – poteva essere il capo dei pompieri oppure il suo vice – ha fatto un segno agli infermieri e poi si è accostato a Mary Rice e l’ha aiutata a rialzarsi, mettendole un braccio sulle spalle. L’uomo in borghese le stava al fianco dall’altra parte, ma senza toccarla. Il tizio che l’aveva accompagnata in macchina si è avvicinato per vedere cosa stava succedendo, ma era solo un ragazzo dall’aria spaventata, un garzone o un lavapiatti del ristorante. Non aveva alcun diritto di stare lí ad assistere al dolore di Mary Rice, e lo sapeva. Si teneva lontano dalla gente, guardando fisso le barelle mentre gli infermieri le infilavano nel retro dell’ambulanza.
– No! – ha gridato Mary Rice, e ha fatto un balzo verso l’ambulanza mentre caricavano le barelle.
È stato allora che mi sono avvicinato a lei – nessun altro si muoveva – le ho preso il braccio e le ho detto: – Mary, Mary Rice.
Si è girata di scatto verso di me e ha detto: – Non ti conosco, che cosa vuoi? – Ha tirato indietro il braccio e mi ha dato uno schiaffo in faccia. Poi è salita sull’ambulanza insieme agli infermieri e l’ambulanza si è avviata per la strada, scivolando sulla neve, con la sirena spenta, mentre la gente faceva largo.
Quella notte ho dormito malissimo. Anche Dotty si lamentava nel sonno e non la smetteva piú di rigirarsi. Sapevo che, nel sogno, era in qualche posto lontano da me per tutta la notte. La mattina dopo non le ho chiesto che cosa aveva sognato e lei non si è offerta di dirmelo. Ma quando sono arrivato da lei con il caffè e il succo di frutta, l’ho trovata con il taccuino e la penna in grembo. Ha chiuso la penna nel taccuino e mi ha guardato.– Che succede di là? – mi ha chiesto.
– Niente, – ho risposto. – La casa è al buio. La neve è tutta segnata dalle tracce delle gomme. La finestra della stanza da letto dei bambini è sfondata. Tutto lí. Nient’altro. Se non fosse per quello, per la finestra, non si capirebbe neanche che c’è stato un incendio. Non si capirebbe mica che sono morti due bambini.
– Quella povera donna! – ha esclamato Dotty. – Dio, quella povera disgraziata. Che Dio l’aiuti! E che aiuti anche noi.
Per tutta la mattinata, ogni tanto la gente in macchina rallentava e guardava la casa di Mary Rice. Altri addirittura si avvicinavano e guardavano la finestra sfondata, le tracce delle gomme che avevano macinato la neve davanti alla casa e poi continuavano per la loro strada. Verso mezzogiorno, mentre guardavo dalla finestra, ho visto arrivare una familiare che ha parcheggiato nel vialetto. Ne sono scesi Mary Rice e il suo ex marito, il padre dei bambini, e si sono avviati dentro casa. Camminavano piano e per salire i gradini l’uomo le ha preso il braccio. La porta della veranda era rimasta aperta dalla notte precedente. È entrata prima lei, poi lui l’ha seguita.
    Quella sera, al telegiornale locale, abbiamo visto tutta la faccenda un’altra volta. – Non riesco a guardare questa roba, – ha detto Dotty, ma ha continuato a guardarla lo stesso, proprio come me. Si vedeva la casa di Mary Rice e un pompiere sul tetto con un idrante che gettava acqua attraverso la finestra sfondata. Poi si vedeva che portavano fuori i bambini in barella e Mary Rice che cadeva in ginocchio. Poi quando caricavano le barelle sull’ambu lanza, Mary Rice che si gira di scatto verso qualcuno e grida: – Che cosa vuoi?
    L’indomani, a mezzogiorno, la familiare è tornata davanti alla casa. Appena ha parcheggiato, prima ancora che l’autista potesse spegnere il motore, Mary Rice è venuta giú dai gradini. L’uomo è sceso dalla macchina, ha detto: – Ciao, Mary, – e le ha aperto la portiera sul lato del passeggero. Poi si sono avviati per andare al funerale.
    Dopo il funerale l’uomo si è fermato per quattro notti, poi la mattina seguente, quando mi sono alzato, presto come al solito, la familiare non c’era piú e mi sono reso conto che se n’era andato durante la notte.
    Quel mattino Dotty mi ha raccontato un altro sogno che aveva fatto. Era in una casa di campagna e un cavallo bianco si era avvicinato e l’aveva guardata attraverso una finestra. E a quel punto si era svegliata.
    – Voglio fare qualcosa per esprimerle il nostro dolore, – ha detto Dotty. – Voglio invitarla a cena, magari.
    Però sono passati i giorni e non abbiamo fatto niente, io e Dotty, per invitarla da noi. Mary Rice era tornata a lavorare, solo che adesso lavorava di giorno, in un ufficio, e la vedevo uscire di casa la mattina e tornare poco dopo le cinque. Le luci si spegnevano verso le dieci di sera. Le tende nella stanza dei bambini erano sempre tirate e, anche se non lo sapevo, immaginavo che la porta fosse sempre chiusa.
    Verso la fine di marzo, un sabato sono uscito per togliere le controfinestre. Ho sentito un rumore e quando mi sono girato ho visto Mary Rice che cercava di rivoltare un po’ di terra dietro casa sua. Indossava calzoni larghi, un maglione e un cappello da sole. – Oh, salve, – ho detto.
    – Salve, – ha detto lei. – Magari sto precipitando un po’ le cose. Ma è che ho un sacco di tempo libero, ormai, capisce? E poi, be’, sul pacchetto c’è scritto che adesso è la stagione adatta –. Ha tirato fuori dalla tasca un pacchetto di semi. – L’anno scorso i miei figli hanno fatto il giro dei vicini a vendere semi. Stavo pulendo i cassetti e ne ho ritrovati vari pacchi.
    Non le ho detto di quelli che avevo anch’io in un cassetto della cucina. – È un sacco di tempo che io e mia moglie volevamo invitarla a cena, – le ho detto. – Le andrebbe di venire una di queste sere? Verrebbe stasera stessa, se è libera?
    – Be’, perché no. Certo. Ma non so neanche come si chiama. E nemmeno sua moglie.
    Gliel’ho detto e poi ho aggiunto: – Alle sei le va bene?
    – Quando? Ah, certo. Le sei vanno benissimo –. Ha rimesso mano alla vanga e l’ha affondata nel terreno. – Finisco di piantare questi semi. Alle sei sarò da voi. Grazie.
    Sono rientrato in casa per dire a Dotty della cena. Ho preso i piatti del servizio buono e tirato fuori l’argenteria. La volta successiva che ho guardato in giardino, Mary Rice non c’era piú.