Mia mamma diceva, quando il chiasso vociante era al massimo in casa: "ma basta insoma" in dialetto mantovano.
mercoledì 30 maggio 2018
CARLO MAGNO
Alessandro Barbero
Fino a pagina 10
Introduzione
Paderborn, estate 799
È il luglio del 799, e il re dei Franchi, Carlo, è accampato a Paderborn, nel cuore
della Sassonia conquistata. C’è gran traffico di muratori e falegnami, convogli di
carri carichi di mattoni e calcina giungono ogni giorno lungo le piste di terra battuta,
altri materiali arrivano per via d’acqua, risalendo i fiumi su chiatte e barconi: in mez-
zo alle foreste e alle paludi il re sta costruendo una nuova città, che sarà l’avamposto
della Cristianità in mezzo ai pagani da poco convertiti, con un palazzo e una basilica
capaci di rivaleggiare con quelli di Aquisgrana. Ma in questi giorni il re non ha tempo
per pensare ai piani di costruzione, e neanche a quelli militari, benché stia aspettando
con ansia il ritorno del figlio Carlo, che s’è spinto fino all’Elba per negoziare con le
tribù slave insediate lungo il grande fiume. A Paderborn, infatti, è arrivato papa
Leone III, preceduto dalla notizia di un’insurrezione scoppiata a Roma, durante la
quale i suoi nemici si sono impadroniti di lui, gli hanno cavato gli occhi e tagliato la
lingua, prima che la Provvidenza intervenisse con un miracolo aiutandolo a fuggire.
L’arrivo del papa, in verità, ha prodotto una delusione, perché si è visto subito che
aveva ancora gli occhi e la lingua; ma Leone III ha spiegato che anche quelli gli
erano ricresciuti grazie a un miracolo, e per cortesia si è fatto finta di credergli. Non
che il re sia disposto ad ascoltare troppo pazientemente quest’uomo sul cui conto
corrono da sempre troppi pettegolezzi, e che lui stesso, al momento dell’elezione al
trono pontificio, ha salutato con una strana lettera, esortandolo a comportarsi bene e
non dar adito a sospetti. Ma Leone III è pur sempre il papa, e il re dei Franchi, che
tutti considerano il vero protettore della Chiesa in Occidente, deve fare il possibile
perché la sua figura sia rispettata: perciò andrà a Roma, per quanto ne abbia poca
voglia, soffocherà la rivolta e ristabilirà l’autorità del pontefice agli occhi del mondo,
purché, aggiungono a mezza voce i bene informati, le voci che corrono sul suo conto
non trovino troppe conferme.
È nel corso dei colloqui fra il papa e il re, nel caldo e nella polvere di quest’estate
di Paderborn, che nasce o almeno si perfeziona un’idea eccitante: quando Carlo verrà
a Roma, gli abitanti, che sono pur sempre il popolo romano, lo acclameranno
imperatore, così come in altri tempi avevano acclamato Augusto e Costantino. Così il
re dei Franchi diventerà a pieno titolo il successore degli imperatori romani, allo
stesso titolo del basileus che regna nella lontana Costantinopoli, e nessuno potrà
obiettare ai suoi interventi nelle faccende dell’Urbe, anzi di tutto il popolo cristiano.
È possibile che un’ipotesi del genere circolasse già da qualche tempo, tanto negli
ambienti del Laterano, che è a quell’epoca la residenza dei papi, quanto in quelli del
palazzo d’Aquisgrana; ma è a Paderborn, nell’estate del 799, che per la prima volta se
ne discute sul serio, sia pure con tanta cautela che nessun resoconto scritto di quei
colloqui è giunto fino a noi.
In quegli stessi giorni un poeta rimasto anonimo, nonostante i ripetuti tentativi
degli storici per identificarlo con questo o quell’intellettuale di palazzo, è impegnato
a comporre un poemetto in esametri latini, che i copisti intitoleranno Karolus Magnus
et Leo papa. I versi sono decorosi, ma qui non c’interessa la loro qualità letteraria,
bensì l’intento politico dell’anonimo, che, di fatto, sta confezionando un instant-book.
Il papa, afferma chiaramente, dev’essere difeso dai suoi nemici, e Carlo è l’unico
sovrano al mondo capace di ristabilire la maestà della Chiesa; ma proprio per questo
è giusto che i cristiani, in tutto l’Occidente, lo riconoscano come guida, più di quanto
non comporti il suo titolo regio. Informato, evidentemente, dei negoziati in corso, il
poeta riconosce nel re franco il successore degli imperatori romani, che regna ad
Aquisgrana come in una seconda Roma; e saluta in lui il «rex pater Europae», il
padre dell’Europa.
Oggi che i popoli del nostro continente, usciti dal vicolo cieco in cui li avevano
sospinti le ideologie nazionaliste, sembrano avviati all’integrazione in un’Europa
sovranazionale, l’immagine escogitata dal poeta di Paderborn suona sorprendente-
mente attuale. Giacché è con Carlo Magno che per la prima volta si costituisce in
Europa uno spazio politico unitario, che va da Amburgo a Benevento, da Vienna a
Barcellona, il cui asse commerciale sono il Reno e i porti del mare del Nord; uno
spazio, cioè, profondamente diverso da quello dell’impero romano, che aveva al cen-
tro il Mediterraneo, e contava fra le sue regioni più ricche e civilizzate il Nordafrica e
l’Asia Minore. Per citare quelli che restano forse i più grandi storici del nostro secolo,
se «l’Europa è sorta quando l’impero romano è crollato» (Marc Bloch), essa acquista
solo più tardi il suo volto compiuto: è «l’impero di Carlo Magno che ha dato forma
per la prima volta a ciò che noi chiamiamo Europa» (Lucien Febvre).
Sia chiaro: ogni generazione di storici si costruisce la propria immagine del
passato, e l’equazione tra l’impero di Carlo Magno e la nascita d’uno spazio europeo
non ha sempre suscitato lo stesso consenso. Vent’anni fa un importante convegno,
radunando a Spoleto i maggiori specialisti del periodo altomedievale, pose la questio-
ne proprio in questi termini, dandosi come titolo Nascita dell’Europa ed Europa
carolingia: un’equazione da verificare. I pareri risultarono diversissimi, anzi in qual-
che caso diametralmente contrastanti, ma nell’insieme l’importanza di Carlo Magno
come padre dell’Europa ne uscì piuttosto malconcia, o almeno un po’ meno
indiscutibile di quanto non fosse apparsa, una generazione prima, a Bloch e Febvre.
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Oggi la lancetta ha compiuto un altro giro e il consenso si è rifatto ampio, grazie
anche alla vera e propria rivoluzione che ha investito interi ambiti della ricerca, come
quello economico. Fino a qualche anno fa, le vittorie militari conquistate su tutti gli
orizzonti e il programma di rinnovamento culturale promosso da Carlo Magno
potevano apparire la superficie brillante d’una società profondamente arretrata e di
un’economia stagnante; oggi, una molteplicità di segnali ci induce a pensare che
proprio nell’età carolingia si siano poste le basi della rinascita demografica ed
economica divenuta poi manifesta intorno al Mille, e da cui nacque con tutta la sua
prorompente vitalità l’Europa moderna. Al di là del facile entusiasmo che circonda in
quest’anno 2000 tutto ciò che suona europeo, lo stato attuale della ricerca ci autorizza
a riprendere l’espressione usata dodici secoli fa dall’anonimo poeta, e a parlare di
Carlo Magno come di un padre dell’Europa.
I
LA MEMORIA DEI FRANCHI
1. L’insediamento franco in Gallia
Carlo Magno è rimasto indelebilmente impresso nell’immaginario europeo col
titolo d’imperatore che gli venne conferito in San Pietro la mattina di Natale
dell’anno 800. Ma in realtà egli non portò questo nome che negli ultimi quattordici
anni della sua lunga vita: prima di allora era stato per trentadue anni il re dei Franchi,
e avrebbe continuato a esserlo anche dopo, giacché il titolo imperiale, come vedremo
al momento giusto, era di natura intrinsecamente diversa e non cancellava affatto
quello regio toccato a Carlo alla morte del padre Pipino, nel settembre 768, «Carles li
reis, nostre emperere magnes»: così lo chiamerà, molto tempo dopo la sua morte, il
poeta della Chanson de Roland, ancora perfettamente consapevole di questa duplice
identità. Ma che cosa significava, in quello scorcio dell’VIII secolo, essere il re dei
Franchi?
Fra i popoli germanici che tre o quattro secoli prima di Carlo avevano varcato a
piccoli gruppi il confine del Reno e s’erano insediati, dapprima da alleati e poi da
padroni, sul territorio dell’impero romano d’Occidente, i Franchi avevano occupato
fin dal primo momento un posto di spicco. Eppure, a rigore, non erano neppure un
popolo, ma una confederazione di tribù del bacino renano, Bructerii, Cattuarii,
Camavi, che parlavano lo stesso dialetto germanico, praticavano culti religiosi
comuni e si aggregavano intorno agli stessi capi guerrieri, sicché finirono col darsi un
nome collettivo, peraltro assai debole, all’inizio, come fattore di identità: giacché
Franchi in origine significava semplicemente «i coraggiosi», e più tardi volle dire «i
liberi».
Il romano Sidonio Apollinare, vescovo cristiano e poeta classico, descrive nel V
secolo i Franchi che ha imparato a conoscere in Gallia. Le sue parole evocano un tipo
fisico decisamente esotico agli occhi d’un lettore mediterraneo, e non nascondono
l’ammirazione per il coraggio di quei barbari:
Dalla sommità del capo scendono i loro capelli rossi, tirati tutti verso la fronte, mentre
la nuca è rasata. I loro occhi sono chiari e trasparenti, di un colore grigio-azzurro. Invece
della barba portano baffi sottili che arricciano con un pettine. I loro divertimenti preferiti
sono lanciare l’ascia mirando al bersaglio, roteare lo scudo, superare correndo e saltando
le lance che essi stessi hanno scagliato. Fin da fanciulli hanno un foltissimo amore per la
guerra. Se sono sopraffatti dal numero dei nemici o dall’avversità del terreno,
soccombono solo alla morte, mai alla paura.
E Sidonio conclude così: «Costoro sarebbero capaci di domare anche i mostri».
In attesa d’incontrare i mostri, quei barbari s’erano impadroniti della Gallia, che
nell’Occidente impoverito del tardo impero era forse la provincia più prospera e
popolosa; più della Spagna, certo più dell’Italia. E avevano subito mostrato di non
volerla spartire con nessuno: i Visigoti, che s’erano insediati prima di loro nella parte
meridionale del paese, cioè nell’attuale Provenza e Linguadoca, erano stati sconfitti e
ricacciati oltre i Pirenei; i Burgundi, insediati nella valle del Rodano, avevano dovuto
riconoscere la superiorità dei Franchi e sottomettersi al loro re; e solo a fatica i
generali bizantini, prima, e i re longobardi poi avevano impedito ai nuovi padroni
della Gallia di dilagare anche oltre le Alpi, in Italia.
Quanto ai Romani, o meglio ai Galloromani, di stirpe celtica o italica, ma ormai
tutti di lingua latina, che popolavano le province galliche, ad essi era stato consentito
di restare; e non solo ai contadini e agli schiavi, ma anche ai ricchi latifondisti di
famiglia senatoria e al clero cattolico, purché riconoscessero la supremazia del re
franco. I Franchi, del resto, da soli non avrebbero mai potuto popolare l’intera Gallia,
sostituendosi ai molti milioni di Romani che l’abitavano, giacché non erano più di
duecentomila, e forse meno, comprese le donne e i bambini. Questi guerrieri che
colpivano i contemporanei per la loro statura sovrumana s’erano insediati in gran
numero, con le loro famiglie, soltanto nella parte settentrionale del paese, lungo il
corso del Reno, della Mosa e della Mosella; lì, e soltanto lì, essi erano più numerosi
dei Romani, e infatti proprio lì passa ancor oggi il confine linguistico fra l’Europa
latina e quella germanica.
Ma via via che si scendeva verso sud, lasciando la terra della birra, della carne e
del burro per quella del vino, del grano e dell’olio, l’insediamento franco si faceva
meno fitto, ed era più facile per la popolazione galloromana assorbire i conquistatori,
imponendo i propri usi e il proprio dialetto, da cui sarebbe nato il francese odierno:
intorno a Parigi, fin da allora uno dei soggiorni favoriti dei re franchi, il linguaggio
romanzo non fu mai soppiantato da quello teutonico. A sud della Loira, infine, di
Franchi non se n’erano quasi visti, e le popolazioni galloromane di Provenza e
d’Aquitania continuavano a vivere come in passato, pur obbedendo ai re barbari del
Nord e pagando loro le tasse.
2. La monarchia franca
a) I regni merovingi
Il regno franco in Gallia era in realtà costituito da una pluralità di regni. Anche se
le diverse tribù che formavano il popolo franco s’erano momentaneamente
assoggettate a un unico re, l’energico e spietato Clodoveo, convertendosi con lui al
Cristianesimo verso la fine del V secolo, quell’unità non era durata a lungo.
L’abitudine di suddividere l’eredità del re fra tutti i suoi figli maschi determinò la
formazione non di uno, ma di diversi regni, di volta in volta riuniti o separati a
seconda delle contingenze. Il regno più orientale, fra la Mosella e il Reno, l’unico nel