martedì 22 maggio 2018


IL MINOTAURO
Friedrich Dürrenmatt
La storia di Arianna e del minotauro nella versione di Dürrenmatt avviene  in un labirinto di specchi dove le immagini si  riflettono all'infinito. Protagonista è il minotauro, metà uomo e metà toro, sempre al limite della conoscenza, che  per natura non può provare sensazioni: sempre sulla soglia delle emozioni che proverebbe, se solo sapesse cosa vuol dire provare emozioni, mentre le sue migliaia di copie riflesse riproducono l’illusorietà di qualsiasi tentativo di fuga.

 Il minotauro
 A Charlotte
L’essere che Pasifae, la figlia del dio Sole, aveva partorito dopo che, rinchiusa per suo desiderio in una finta vacca, era stata montata da un bianco toro consacrato a Poseidone, si trovò, dopo lunghi anni d’un sonno confuso, durante i quali era cresciuto in una stalla fra le vacche, trascinato laddentro dai servi di Minosse, che avevano formato lunghe catene per non perdersi sul pavimento del labirinto che era stato costruito da Dedalo per proteggere gli uomini da quell’essere e l’essere dagli uomini, d’un impianto cioè da cui nessuno che vi si fosse inoltrato trovava più la via d’uscita e le cui innumerevoli intricate pareti erano di specchi, tanto che l’essere stava accovacciato non solo di fronte alla sua immagine, ma anche all’immagine delle sue immagini: vide davanti a sé un’infinità di esseri fatti com’era lui, e come si girò per non vederli più, un’altra infinità di esseri uguali a lui. Si trovava in un mondo pieno di esseri accovacciati senza sapere che quell’essere era lui. Era come paralizzato. Non sapeva dov’era né cosa volevano quegli esseri accovacciati tutt’attorno, forse sognava soltanto, anche se non sapeva cosa fosse sogno e cosa realtà. Balzò in piedi istintivamente per scacciare gli esseri accovacciati, e contemporaneamente balzarono in piedi le sue immagini. Si rannicchiò e con lui si rannicchiarono le sue immagini. Non c’era modo di scacciarle. Fissò l’immagine che gli sembrò più vicina, arretrò lentamente e anche la sua immagine si allontanò, urtò col piede destro contro una parete, si voltò di scatto e si trovò testa a testa con la sua immagine, arretrò cautamente e cautamente arretrò la sua immagine. Si tastò il capo istintivamente e mentre lo tastava anche le immagini si tastarono il capo. Si raddrizzò e con lui si raddrizzarono anche le sue immagini. Abbassò lo sguardo sul suo corpo e lo confrontò col corpo delle sue immagini, e le immagini abbassarono lo sguardo sul loro corpo e lo confrontarono col suo, e mentre osservava se stesso e le sue immagini, constatò d’essere fatto come le sue immagini: ritenne di essere un essere fra molti esseri uguali.
La sua espressione si rasserenò, le espressioni delle sue immagini si rasserenarono. Fece loro cenni di saluto, quelle risposero ai cenni, accennava con la destra, quelle accennavano con la mano sinistra, ma lui non sapeva cosa fosse destra né cosa sinistra. Si drizzò, stese le braccia, mugghiò, con lui si drizzò, stese le braccia e mugghiò un’infinità di esseri uguali, l’eco si ripercosse migliaia di volte, parve mugghiare senza fine. Fu colto da un senso di gioia. Si mosse verso la parete di vetro più vicina, un’immagine gli si mosse a sua volta incontro mentre altre immagini contemporaneamente si allontanavano. Toccò la sua immagine con la destra, toccò la sinistra della sua immagine che risultò liscia e fredda al tatto, davanti a lui le altre immagini si toccarono in immagini d’immagini. Si spostò lungo la parete toccando lo specchio liscio, coprendo con la mano destra la sinistra della sua immagine, con lui si spostò l’immagine, e come tornò poi indietro lungo l’altro lato della parete di vetro, tornò indietro anche la sua immagine. Divenne più spavaldo, fece salti, fece capriole, e con lui fece salti e capriole un’infinità d’immagini. Da quel correre e dalle capriole, dai balzi e dal muoversi sulle mani – tale divenne la sua baldanza, visto che le immagini facevano contemporaneamente lo stesso che faceva lui, tanto che gli parve d’essere come un capo, anzi di più, come un dio, se avesse saputo cos’è un dio – da quella gioia infantile scaturì un po’ per volta una ritmica danza dell’essere con le sue immagini che erano in parte specularmente inverse e in parte, quali immagini d’immagini, identiche all’essere, e poi ancora, quali immagini di immagini di immagini, specularmente inverse, sino a perdersi nell’infinito.


L’essere danzò per il labirinto, attraverso il mondo delle sue immagini, danzò come un bimbo mostruoso, danzò come un mostruoso padre di se stesso, danzò come un dio mostruoso attraverso l’universo delle sue immagini. D’un tratto però interruppe la danza, s’irrigidì, si accovacciò, fissò con occhi attenti, e con lui s’accovacciarono e scrutarono le sue immagini: danzando, l’essere aveva scorto, fra le immagini danzanti, degli esseri che non danzavano e che non erano immagini che gli ubbidivano. La fanciulla, riflessa anche lei come l’essere accovacciato, stava immobile, nuda, con lunghi capelli neri, fra quegli esseri accovacciati che erano dappertutto, davanti a lei, accanto a lei, dietro di lei, come dappertutto era anche lei, davanti a lui, accanto a lui, dietro di lui.
La fanciulla non osava muoversi, lo sguardo spaurito fisso sull’essere accovacciato davanti a lei e che le era più vicino. Sapeva che esisteva un solo essere accovacciato, che gli altri esseri accovacciati erano immagini, ma non sapeva quale fosse l’essere e non una sua immagine. Forse quello accovacciato davanti a lei era l’essere, forse la sua immagine riflessa, forse un’immagine della sua immagine, la fanciulla non lo sapeva. Sapeva solo che la sua fuga da lui l’aveva condotta a lui, e accanto all’essere accovacciato vedeva specchiata se stessa, e più oltre scorgeva se stessa di spalle e accanto a sé un essere accovacciato di spalle, e così via, per spazi infiniti. Le mani incrociate sul seno, guardava affascinata l’essere sempre ancora accovacciato davanti a lei. Credeva di poterlo toccare. Credeva di avvertirne il respiro. Credeva di udirlo ansimare. La testa poderosa coperta d’un rado vello marrone chiaro era quella d’un uro, alta la fronte, ampia e invasa di lanugine arruffata, corte le corna, e ricurve così che le punte corrispondevano alle radici, gli occhi rossastri apparivano alquanto piccoli in rapporto al cranio, e sporgente l’orbita in cui si trovavano, e imperscrutabili gli occhi. Il dorso massiccio del naso appena arcuato culminava nelle frogie sbieche; dalla bocca pendeva una lunga lingua violacea e da sotto il mento un ciuffo arruffato incrostato di bava. Tutto questo sarebbe stato sopportabile, insopportabile era il farsi uomo di quel toro. Oltre il cranio d’uro s’inarcava una montagna di pelo cespuglioso e poi ancora liso, dalle cui ispide ciocche spuntavano due braccia umane poggiate sul pavimento vetroso. Pareva che la testa orribile e la gobba che la sovrastava fossero l’escrescenza del corpo d’un uomo che stava rannicchiato davanti alla fanciulla, e poi anche accanto e dietro di lei, pronto a balzare.


Il minotauro si alzò. Era imponente. Capiva improvvisamente che c’era qualcosa d’altro oltre ai minotauri. Il suo mondo s’era raddoppiato. Vedeva gli occhi che si rispecchiavano ovunque, la bocca, i lunghi capelli neri che scendevano sulle spalle, vedeva la pelle bianca, il collo, il seno, il ventre, l’inguine, le cosce, il connettersi e comporsi di tutte quelle parti. Si mosse verso di lei. Quella si allontanò da lui, mentre altrove gli si muoveva incontro. L’inseguì attraverso il labirinto, lei fuggiva. Fu come se una bufera avesse scompigliato minotauri e fanciulle, a tal punto turbinavano discostandosi, confondendosi, accostandosi l’un l’altro, e quando la fanciulla gli corse fra le braccia, quando toccò d’un tratto il corpo, la carne calda, bagnata di sudore, e non il duro vetro che aveva fin lì toccato, comprese – nei limiti in cui si può parlare di comprendere da parte del minotauro – che fino a quel momento era vissuto in un mondo in cui c’erano solo minotauri, ciascuno rinchiuso in una prigione di vetro, mentre ora toccava un altro corpo, toccava altra carne.
La fanciulla si divincolò: la lasciò fare. Arretrò, i grandi occhi fissi su di lui, e quando lui cominciò a danzare, cominciò a danzare la fanciulla e le immagini d’entrambi danzarono anche loro. Lui danzò la sua deformità, lei danzò la sua bellezza, lui danzò la gioia d’averla trovata, lei danzò la paura di essere stata trovata, lui danzò la sua liberazione, lei danzò il suo destino, lui danzò la sua smania, e lei danzò la sua curiosità, lui danzò il suo addossarsi, lei danzò la sua ripulsa, lui danzò il suo penetrare, lei danzò il suo avvinghiare.


Danzarono, e danzarono le loro immagini, e lui non seppe di prendere la fanciulla, non poteva sapere nemmeno che l’uccideva, perché non sapeva cos’era vita e cosa morte. In lui non c’era altro che incontenibile felicità fusa con incontenibile piacere. Proruppe in un muggito quando prese la fanciulla, e negli specchi minotauri presero fanciulle, e il muggito fu un grido immenso, un portentoso grido universale, come se altro non esistesse che quel grido che si confuse col grido della fanciulla, e poi lui giacque, e negli specchi giacevano minotauri, e giacque il bianco corpo nudo della fanciulla dai grandi occhi neri, rispecchiandosi nelle pareti. Sollevò il braccio sinistro della fanciulla, e quello ricadde, il destro, e ricadde, ovunque ricadevano braccia. La leccò con la sua enorme lingua violacea, leccò la faccia, il seno, la fanciulla rimase immobile, tutte le fanciulle rimasero immobili. La rivoltò con le corna, la fanciulla non si mosse, nessuna fanciulla si mosse. Si raddrizzò, si guardò attorno, ovunque c’erano minotauri eretti che si guardavano attorno, e ovunque ai loro piedi giacevano bianchi corpi di fanciulle. Si chinò, sollevò la fanciulla, mugghiò, lamentò, sollevò la fanciulla verso il cielo buio, e ovunque minotauri si chinarono, sollevarono fanciulle, mugghiarono, lamentarono, sollevarono fanciulle verso il cielo buio, e poi depose la fanciulla fra le pareti di vetro, le si distese accanto e si addormentò, e tutti i minotauri con lui, stesi sul pavimento pieno di bianchi corpi nudi di fanciulle.


Dormì e sognò la fanciulla dai capelli neri e dai grandi occhi, l’inseguì, giocò con lei, l’attirò a sé, l’amò, e quando aprì gli occhi c’era qualcosa sul suo petto, artigliato nel suo ciuffo incrostato. Gli sfiorava il naso con le ali e tuffava da qualche parte accanto a lui il nudo collo biancogiallastro con la piccola testa, gli occhi rossi e il poderoso becco stranamente ricurvo. Sulle pareti s’era posato un fitto groviglio di penne, colli, occhi, becchi, e tracciava cerchi su di lui, oscurando il chiarore dell’alba, piombava giù, si tuffava, strappava, beccava, scarnificava, scavava, divorava, strideva, volava via, tornava in volo, piombava di nuovo giù, si rispecchiava nel cadere e nel risalire, senza che lui capisse perché piombava giù, si tuffava, strappava, risaliva, girava, tanto era avvolto dallo sfarfallare e dallo sbattere delle ali, e quando, a giri sempre più alti, si dissolse nel nulla luminosissimo del cielo ora sfavillante, il sole irruppe attraverso le pareti di vetro e gli marchiò nel cervello la sua immagine, disco possente e rotante che infiggeva raffiche di fuoco nel cielo in segno d’ira per il misfatto di sua figlia Pasifae che aveva partorito un essere – ingiuria agli dèi e maledizione all’uomo – condannato a non essere dio, né uomo, né animale, bensì solo minotauro, colpevole e incolpevole insieme. Vide l’immensa ruota salire rivoltando, tenne chiusi gli occhi e la vedeva ugualmente, ruota della maledizione che gravava su di lui, ruota del suo destino, ruota della sua nascita e ruota della sua morte, ruota che gli bruciava il cervello senza che sapesse cosa fossero maledizione, destino, nascita e morte, ruota che si rivoltava su di lui, ruota cui era arrotato, e mentre giaceva lì, arso dal sole e dalla sua luce riflessa all’infinito, notò confusamente un piede che assomigliava al piede suo.
Pensò che fosse la fanciulla, che avesse ripreso a muoversi e volesse giocare con lui. Sollevò il capo e vide ora due piedi che arretravano. Si alzò. Davanti a lui stava un essere che assomigliava alla fanciulla e che pure non era la fanciulla, che reggeva uno stracciato mantello nella sinistra e nella destra una spada, e il minotauro non sapeva cosa fossero mantello o spada, sapeva solo – dal momento che all’abbagliante luce del sole le pareti non riflettevano più immagini – che i minotauri e le fanciulle lo avevano abbandonato, e che anche la fanciulla che aveva preso doveva essersi di nuovo mossa e dileguata, poiché non era più lì. Era espulso dal suo mondo di minotauri, solo con quell’essere che, scrutandolo, arretrava, si fermava, gli si faceva incontro e arretrava di nuovo. Il minotauro gli si avvicinò pieno di buona volontà, anche se non disponeva di un concetto per questo sentimento, che era diverso da quello che aveva provato per la fanciulla, meno impetuoso, meno smanioso. Era contento di poter giocare e di rincorrersi con lui per le gallerie, forse quell’essere lo avrebbe condotto dagli altri minotauri e dalle fanciulle e dagli esseri fatti come quell’essere nuovo. Doveva solo comportarsi con lui con maggiore prudenza, più delicatamente, altrimenti sarebbe diventato immobile.
Il minotauro sbuffò contento e, quando l’essere agitò ancora il mantello, cominciò a danzare. Davanti alle pareti rese radiose dalla luce del sole, i due si mossero come ombre, il minotauro danzando e balzando, battendo le mani e poi ancora rapido pestando, l’essere agitando il suo panno, avanzando o arretrando, ripetutamente attaccando con la spada che, celata sotto il mantello, aveva preso con sé nel labirinto per uccidere il minotauro, e ora nel trovarselo di fronte e nello scorgerne l’innocente candore, si vergognò. Il minotauro gli girava attorno danzando, battendo le mani e pestando i piedi. Danzava la gioia di non essere più solo, danzava la speranza d’incontrare gli altri minotauri, le fanciulle e gli esseri uguali a quello con cui ora danzava. Dimenticò il sole danzando, danzando dimenticò la maledizione. Esprimeva solo gaiezza, gentilezza, leggerezza, tenerezza ancora. Danzava, e l’essere spiava e balzava attorno al minotauro, e quando il sole calò, assieme alle sue innumerevoli immagini divennero visibili anche le immagini dei due. Il minotauro danzò felice di aver trovato i minotauri e quegli esseri nuovi, presto avrebbe trovato la fanciulla che aveva preso e che era diventata immobile e si era poi dileguata, e le altre fanciulle che erano state prese dai minotauri ed erano poi a loro volta diventate immobili e si erano dileguate.


Danzarono entrambi, accostandosi l’un l’altro, danzarono scostandosi l’un l’altro, le immagini s’incontravano, si sovrapponevano, s’intersecavano. Ovunque c’era un minotauro che danzava, girava su se stesso, e ovunque un giovane che balzava avanti e balzava di nuovo indietro, molleggiandosi, e poi anche a capriole, aspettando di colpire, e quando il sole calò dietro il labirinto, e le pareti si accesero d’un rosso profondo affondò il colpo, balzò all’indietro, s’appoggiò a una parete, fissò il minotauro. Questi fece alcuni altri passi di danza, la spada nel petto, si fermò, estrasse la spada con la mano destra, l’osservò stupito, si portò la mano sinistra sul petto che gorgogliava nero, gettò lontana da sé la spada che slittò sul pavimento, premette anche la mano destra sul petto, vacillò, parve volersi muovere barcollando, tornò a stare immobile.
Era confuso. Non capiva cosa gli colorava le mani e nemmeno il dolore che gli infuriava il petto. Intuì solo che quell’essere che gli era balzato addosso e che gli aveva infisso qualcosa in corpo non lo amava come lo avevano amato tutti prima, i minotauri, la fanciulla, le fanciulle, e nell’intuirlo si fece sospettoso, tanto più che non era capace di pensare, tutto scorreva per figure e non per concetti davanti al suo spirito, era come un percepire in forma di scrittura figurata: forse la fanciulla non lo aveva affatto amato, e neanche le altre fanciulle avevano amato i minotauri, e per questo s’erano immobilizzate e si erano dileguate. Forse appartenevano a quell’essere nuovo che era simile d’aspetto alla fanciulla eppure diverso, con un corpo robusto quasi quanto il suo, e che gli era balzato addosso come quegli altri nuovi esseri erano balzati addosso ai minotauri che ora, come lui, si premevano le mani sul petto da cui gorgogliava nero; e come apparvero le altre sei fanciulle e gli altri sei giovani, reggendosi l’un l’altro per mano, tanto che negli specchi la fila di coloro che si muovevano attorno pareva non interrompersi, anzi raddoppiarsi, quadruplicarsi, moltiplicarsi alla luce dell’imponente sera, e come trovarono il compagno che, appoggiato a una parete, sperava che il minotauro stramazzasse finalmente, l’uomo-toro ebbe l’impressione che l’intera umanità – se avesse potuto disporre del concetto – si avventasse su di lui per annientarlo.


Si rannicchiò. Si sentì minacciato, e per non aver paura oppose l’orgoglio alla paura, l’orgoglio d’essere minotauro, e chi minotauro non era, era suo nemico. Solo i minotauri avevano il diritto di essere nel labirinto, in un mondo al di fuori del quale non esisteva altro mondo per lui, poiché solo una sensazione vaga del calore animale delle stalle in cui era cresciuto fluttuava ancora nella sua memoria. Fu sopraffatto dall’odio che l’animale nutre per l’uomo, da cui l’animale è domato, maltrattato, cacciato, macellato, divorato, l’odio primigenio che ciascun animale prova. Gli occhi gli si riempirono di rabbia. Gli uscì schiuma dalla bocca, e come il giovane si staccò dalla parete, fraintendendo il rannicchiarsi del minotauro per il suo perire, convinto d’averlo mortalmente ferito, e come gli esseri umani, le fanciulle e i giovani formarono ora un cerchio attorno al rannicchiato senza far caso alla sua rabbia, e gioirono a loro volta e danzarono selvaggi girotondi attorno al minotauro, sempre più rapidi, sempre più spavaldi, come se fossero salvi, sempre più insensati, senza considerare che il solo labirinto di per sé li condannava – neanche alla morte dell’uomo-toro avrebbero trovato l’uscita dall’intrico delle pareti a specchio – sempre meno prudenti nell’ebbrezza della supposta libertà, tracciando sempre più stretto il cerchio esultante, sempre più minaccioso coll’irrompere della notte, in cui lui non scorgeva più che esseri umani e non le proprie immagini poiché gli esseri umani che gli mulinavano e saltellavano attorno gli coprivano la visuale sulle pareti del labirinto al punto che queste non erano più nella condizione di rispecchiarlo, il minotauro si sentì abbandonato e tradito anche dai minotauri.
Roteò gli occhi, fremette, si chinò più a fondo, tese i muscoli, scattò verso l’alto, s’avventò, prese una fanciulla sulle corna e scomparve con essa, continuando a scagliarla in aria, nel labirinto. Tornando poi, fremente di rabbia, con le corna sudice di sangue – tante le volte che aveva colpito – trovò gli esseri umani ammassati in un groviglio confuso, mentre sopra di loro s’era già posata sulle pareti l’affamata orda piumata, groviglio scuro su groviglio scuro, uno stormo il cui gracidare, sibilare, rauco gridare e schiamazzare si confondeva coi gemiti di paura degli esseri umani. La luna stava per sorgere da qualche parte oltre il labirinto, la notte, appena segnata ancora dal sole tramontato, si rischiarò. Il minotauro attaccò, colpì in un morbido mucchio di corpi bianchi, si aprì un varco, tornò a colpire, si rivoltò, calpestò, schiacciò, infilzò, fece a brandelli, infierì, scannò, mentre attorno a lui era tutto un avventarsi, beccare, spaccare, digrignare, strappare, schioccare, tanto che il groviglio urtante e piangente degli esseri umani in cui il minotauro infuriava fu avvolto dallo svolazzare fitto di stridenti avvoltoi: avvoltoi degli agnelli, capivaccai, avvoltoi col ciuffo, avvoltoi reali, avvoltoi col cappuccio, avvoltoi monaci, orecchiuti, calvi, neri, condor e urubu beccavano, ingoiavano, si rituffavano; l’uomo-toro furioso, colpendo senza tregua, svelse membra dall’intricato groviglio umano, bevve sangue, ruppe ossa, frugò in ventri e inguini, finché l’arruffata nube d’ali, penne, colli, occhi, becchi, fauci e artigli si fu dissolta nella luce lunare.
Il minotauro si trovò solo. Abbagliato dalla luna, rivide sulle fredde pareti le sue immagini riflesse come ombre nere che s’intersecavano e si sovrapponevano a formare un labirinto d’ombre nel labirinto. Sollevò le braccia, minacciò coi pugni, li agitò, e con lui sollevarono le braccia, minacciarono coi pugni, li agitarono le sue immagini, e la sua rabbia ne fu accresciuta al punto che si scagliò a capo taurino chino, alla cieca, addosso alla prima ombra. Sfondò la parete, cercò furioso fra le schegge di vetro l’immagine che pure era la sua e che gli sembrò sepolta sotto le schegge. S’avventò con la testa poderosa, e quando scorse nella parete successiva la sua immagine continuò a non capire, attaccò di nuovo prorompendo in un urlo, le si gettò contro a capofitto così come quella parve gettarglisi contro a capofitto. Rimbalzò, fissò furibondo con rossastri occhi d’uro la sua immagine che, come lui, lo fissava furibonda con rossastri occhi d’uro. S’avventò di nuovo, con maggiore violenza, rimbalzò con maggiore violenza, si rovesciò sulla schiena.
La luna era sempre ancora dietro il labirinto, però luceva attraverso le pareti, rispecchiandosi in loro come luna quasi piena, grottescamente ingranditi i frastagli dei crateri del versante non ancora arrotondato, e la luna si rispecchiò tante volte che il minotauro credette di guardare in un universo di pietra percorso da cicatrici. Fissò lo sguardo su quel mondo lunare, temette che il suo nemico si fosse rialzato. Si rotolò sul ventre, il traditore non si era ancora alzato, ma spiava, disteso sul ventre, verso di lui. Il minotauro strisciò incontro alla sua immagine che gli si avvicinò allo stesso modo, era pronto a levarsi di scatto e a gettarsi sull’altro, ma nell’osservare quell’altro avvertì, mentre stava per levarsi di scatto, la stessa intenzione negli occhi dell’altro.
S’impresse il volto del traditore, coperto di pelo, l’ampia fronte invasa di lanugine arruffata, sovrastata da un mucchio di schegge di vetro che scintillavano azzurrognole alla luce lunare, le corte corna ricurve, il dorso appena arcuato del naso, il muso bagnato, la lunga lingua violacea. Il minotauro ansimava tanto che il vapore delle sue frogie appannò lo specchio verso cui avanzava, e non vide così più la sua immagine, per disperdere la nebbia passò istintivamente con la mano sull’umidità e, sorpreso allorché al di là della liscia superficie fredda apparve repentinamente l’enorme faccia da toro del traditore, picchiò istintivamente con la fronte e colpì con essa la parete anziché la fronte dell’altro che era nella parete e non fuori. Si bloccò, disorientato. Si distaccò dalla parete, sbirciò pieno d’odio la sua immagine, e quella lui, colpì col pugno destro, l’immagine col sinistro, i due pugni s’incontrarono, nuovo scambio di colpi con lo stesso risultato, e allora colpì con entrambi i pugni, e così fece anche l’immagine: infine tambureggiò sulla parete.
Tambureggiò la sua rabbia, tambureggiò la sua smania di distruggere, tambureggiò il suo desiderio di vendicarsi, tambureggiò la sua voglia di uccidere, tambureggiò la sua paura, tambureggiò la sua ribellione, tambureggiò l’affermazione di se stesso, ma d’un tratto avvertì che quell’essere davanti a lui, che era un essere come lui eppure anche il suo traditore, perché era un altro e perché tutto quanto non fosse egli stesso gli era nemico, era intoccabile, intangibile. Fin dall’inizio del suo destarsi nel labirinto – di cui continuava a non sapere che era un labirinto – aveva bensì sentito che fra lui e i minotauri c’era qualcosa di misterioso, un qualcosa di simile ad una parete, ma dal momento che aveva danzato con loro come il loro capo, come il loro re, come il loro dio, su e giù per l’universo dei minotauri, non ci aveva badato, ma ora, dopo aver preso la fanciulla e premuto il suo corpo addosso e dentro quello di lei, ora che aveva penetrato e lacerato con le corna i corpi degli altri esseri umani dai quali era scaturito, come dal suo corpo, qualcosa di caldo e di rosso, avvertì l’irrealtà di quell’essere davanti a lui, che l’aveva bensì tradito, ma che era anche pieno di schegge di vetro come lui, e forse anche il suo volto era sudicio di sangue come quello del traditore.
Si tastò il volto, si osservò le mani, anche il suo volto era sudicio di sangue. Osservò con diffidenza la sua immagine, finse di non osservarla, sentì che sembrava essere qualcosa che non era. Ne fu spaventato e incuriosito insieme. Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto. Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto fra animale e uomo e fra uomo e dèi, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Pasifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dèi, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro.


Così lo trovò, addormentato, Arianna. Venne danzando col gomitolo di lana che svolgeva, e danzando, quasi delicatamente, avvolse del filo rosso attorno alle sue corna, se ne andò seguendo il filo e danzando, e quando il minotauro si svegliò, in un vetroso mattino, vide farglisi incontro un minotauro rispecchiato innumerevoli volte, gli occhi fissi sul filo di lana come se fosse una traccia di sangue. Lì per lì il minotauro pensò che fosse la sua immagine, anche se continuava a non capire cosa fosse un’immagine, ma poi si rese conto che l’altro minotauro gli si faceva incontro mentre lui era disteso a terra. Ne fu disorientato.

Il minotauro si alzò e non si accorse che il capo del filo rosso di lana era avvolto attorno alle sue corna. L’altro si avvicinò. Il minotauro levò di scatto entrambe le braccia e così fece l’altro, il minotauro divenne diffidente perché quell’altro poteva dunque essere davvero la sua immagine, poi gli parve però, di nuovo, che l’altro non avesse levato le braccia di scatto contemporaneamente a lui, le immagini di solito lo facevano tutte contemporaneamente, però poteva essersi ingannato, poiché erano entrambi rispecchiati e l’altro ora si era fermato. Il minotauro fece un passo di danza, le immagini pure, però stavolta molte immagini danzarono impacciate, lo poté notare chiaramente. Il minotauro stette di nuovo immobile e spiò l’altro minotauro che stava a sua volta immobile. Il minotauro tentò di pensare. Mosse il mignolo della mano destra, guardò attentamente, mosse il dito un’altra volta, l’altro mosse il mignolo della mano destra, il minotauro s’inquietò, era incerto, gli parve che l’altro avesse mosso il mignolo della mano sbagliata.

L’altro minotauro era proprio davanti a lui, ma poteva anche essere un’immagine dell’altro minotauro o un’immagine della sua stessa immagine, forse nemmeno pensando lo si poteva stabilire, l’altro, ammesso che ci fosse un altro, aveva una testa come la sua e un corpo come il suo. Il minotauro mosse la mano destra, ora l’altro mosse la mano sinistra, quasi contemporaneamente, o forse però  anche contemporaneamente; e mentre il minotauro verificava tutte le possibilità, vide d’improvviso che al corpo dell’altro minotauro o al corpo dell’immagine dell’altro minotauro era fissato, sul fianco, un oggetto, un qualcosa di peloso, il minotauro non sapeva bensì cosa fosse, ma gli dimostrava che si trovava dinnanzi a un altro minotauro o a una sua immagine. Il minotauro proruppe in un urlo, anche se fu più un mugghio che un urlo, un ululato prolungato, un muggito, un grido di gioia per non essere più l’unico, il contemporaneamente escluso e rinchiuso, perché c’era un secondo minotauro, non soltanto il suo Io, ma anche un Tu.
Il minotauro cominciò a danzare. Danzò la danza della fratellanza, la danza dell’amicizia, la danza della sicurezza, la danza dell’amore, la danza della vicinanza, la danza del calore. Danzò la sua felicità, danzò la sua dualità, danzò la sua liberazione, danzò il tramonto del labirinto, lo sprofondare fragoroso di pareti e specchi nella terra, danzò l’amicizia fra minotauri, animali, uomini e dèi, il filo rosso di lana avvolto fra le corna, danzò attorno all’altro minotauro che tese il filo rosso di lana, trasse il pugnale dalla guaina di pelo senza che il minotauro se ne accorgesse, e le immagini dell’uno danzarono attorno alle immagini dell’altro che tendevano un filo rosso di lana e traevano un pugnale dalla guaina di pelo, e quando il minotauro si gettò fra le braccia aperte dell’altro, confidando di aver trovato un amico, un essere come lui, e quando le sue immagini si gettarono fra le braccia delle immagini dell’altro, l’altro colpì e colpirono le sue immagini, l’altro piantò con perizia tale il pugnale fra le spalle che il minotauro era già morto quando s’accasciò a terra.
Teseo si tolse dal volto la maschera da toro e tutte le sue immagini si tolsero dal volto la maschera da toro, Teseo riavvolse il filo rosso di lana e scomparve dal labirinto, e tutte le sue immagini riavvolsero il filo rosso di lana e scomparvero dal labirinto che non rispecchiava altro ormai, senza fine, che lo scuro cadavere del minotauro. Poi, prima del sole, vennero gli uccelli.