giovedì 28 febbraio 2019

SULL’ARLESIANA DI VAN GOGH
Estratto da "Storie che danno da pensare"
Robert Walser

  Di fronte a questo quadro viene in mente ogni sorta di pensieri, e svariate domande si impongono spontanee a chi si perda a contemplarlo, domande di tipo così semplice e nello stesso tempo, tuttavia, di tipo così strano e sconcertante che sembra non possa esservi nessuna risposta. Molte domande trovano il loro significato più bello e la risposta più squisita e più fine proprio nel fatto che non abbiano mai risposta. Quando per esempio un innamorato chiede alla sua dama: «Posso avere qualche speranza?» e lei non replica nulla, la mancata risposta equivale in certi casi a uno stupendo sì! E altrettanto avviene in tutte le cose misteriose, in tutte le cose grandi; e qui siamo di fronte a un quadro pieno di misteri, pieno di grandezza, pieno di profonde e belle domande e pieno di risposte altrettanto profonde, sublimi e belle. È un quadro meraviglioso e c’è da rimanere stupefatti che lo abbia potuto dipingere un uomo del diciannovesimo secolo, giacché è dipinto come se fosse opera di un uomo e di un maestro dei primi tempi del cristianesimo. Tanto grandioso quanto semplice, tanto commovente quanto sereno, tanto discreto quanto di estasiante bellezza è il ritratto della donna di Arles che, senza troppi complimenti, uno vorrebbe avvicinarsi a lei con la supplice domanda: «Dimmi, hai sofferto molto?». Ora è il mero ritratto di una donna, ora torna a essere l’immagine del crudele enigma della vita nelle fattezze di colei che ha posato per il pittore e gli è servita da modello.

  Tutto in questo quadro è dipinto con uno stesso amore di cattolica solennità, di inesorabile devozione, serio e severo, la manica come la cuffia, la sedia come gli occhi cerchiati di rosso, la mano come il viso; e il tratto e lo slancio del pennello, misterioso ed energico, pare assolutamente leonino, sicché non ci si può sottrarre all’impressione di qualcosa di titanico. Eppure e sempre, non è nient’altro che l’immagine di una donna presa dalla vita d’ogni giorno, e proprio questa circostanza così misteriosa ne costituisce l’aspetto grandioso, toccante, sconvolgente. Lo sfondo del quadro è come l’ineluttabilità stessa di un duro destino. Qui una persona è dipinta tale quale come essa è, e con l’aspetto di chi da lungo tempo ha dovuto abituarsi a tenere in silenzio per sé tutto ciò che ha provato, in quanto forse si è già dimenticata per metà di tutto, di tutto quanto ha dovuto sopportare, lasciar perdere e superare. Verrebbe voglia di accarezzarle, le guance smagrite di questa... donna sofferente. Il cuore dice che non si dovrebbe stare a capo coperto davanti al dipinto, ma che bisognerebbe togliersi il cappello, come entrando sotto le volte consacrate di una chiesa. E non è curioso forse, e al tempo stesso nient’affatto curioso, che qui a un pittore provato dal destino (perché tale egli fu!) capiti di rappresentare una donna provata dal destino? Deve essergli subito piaciuta in sommo grado, e l’ha dipinta. Costei, trattata crudelmente dal mondo e dalla sorte, e ora forse divenuta essa stessa crudele, fu per lui un’improvvisa, grande esperienza, un’avventura dell’anima. Sembra anche, come ho sentito dire, che l’abbia dipinta più volte.

FAVOLOSO
Estratto da "Storie che danno da pensare"
Robert Walser
  Il tempo era favoloso. Con quel tempo Kitsch e Kutsch non avevano voglia di rimanere a casa e quindi si apprestarono a uscire, e veloci scesero in strada. Favolosa, la luce in strada, mormorò Kutsch, mentre proseguivano camminando ambedue di buon passo e anche Kitsch disse: favoloso. Poco dopo incontrarono una donna grassa, e i due amici a passeggio trovarono subito favolosa quella donna. Presero il tranvai, che cosa favolosa viaggiare così, disse di nuovo Kutsch grattandosi la barba da giovincello, e Kitsch si affrettò a convenirne senz’altro con il compagno. Nella vettura era seduta una ragazza dagli «occhi favolosi». All’improvviso cominciò a venir giù una leggera pioggerella: favoloso!

  Dopo un po’ i nostri Kitsch e Kutsch scesero ed entrarono in una galleria d’arte. Il mercante d’arte stava guardando fuori dalla sua bottega e ci mancò un pelo che i due non trovassero la cosa favolosa, dicessero cioè: è favoloso come quel tizio guarda fuori dal suo negozio, ma evitarono di formulare ad alta voce questo pensiero, avvertendo che non si può continuare sempre a dire la stessa cosa. Mezzo minuto dopo erano davanti a un Renoir: semplicemente favoloso!, scappò di bocca ad ambedue. Kutsch riprese a radersi la barba con le dita, ma già il suo collega aveva scoperto una cosa che era di cento favole ancor più favolosa del Renoir: un antico maestro olandese. Roba del genere, dissero, era più che favolosa e avrebbero voluto ambedue mettersi a urlare.

  Poi uscirono. Fuori nel frattempo si era formata una sottile crosta di neve, e aveva un aspetto favoloso, la neve era tutta nera, di un nero bluastro, semplicemente; be’, si trattennero, in fondo non si poteva dire sempre la stessa cosa. Incontrarono un pittore. Non passò molto tempo e il pittore disse che non conosceva nulla di più favoloso di Parigi. Kitsch e Kutsch trovarono disgustoso dire che Parigi è favolosa e senza indugio trattarono con disprezzo l’ignaro pittore insieme alla sua fi-fe-fo-fu-favolosa Parigi. Appena furono di nuovo soli, ai due venne da dirlo un’altra volta, ma quello sembrava il posto giusto, stavolta era uno stagno. Si trovavano su un ponte e sotto c’era lo stagno in tutta la sua favolosità. Di colpo si misero a parlare delle poesie di Verlaine. Kutsch batté le mani e gridò: favoloso. Allora Kitsch sorrise. Adesso aveva finalmente capito e disse a se stesso: com’è volgare favoloseggiare così ad ogni minima occasione. Un minuto dopo stramazzò per terra, abbattuto dal favoloso aspetto di una gonna azzurra. È un azzurro strepitoso, disse Kitsch, rialzandosi a fatica. Si era slogato un piede. Da quel momento in poi dissero sempre strepitoso e non più favoloso.

lunedì 25 febbraio 2019


GLI ZII DI SICILIA

Leonardo Sciascia
[...]  al cinema andava bene lo stesso, non c'era da sgarrare. Era un vecchio teatro, e ce ne andavamo sempre in loggione. Dall'alto, al buio, passavamo due ore a sputare in platea, ad ondate, con qualche minuto di intervallo, tra un attacco e l'altro: la voce dei colpiti si alzava violenta nel silenzio "le mamme puttane".[...]

GLI ZII DI SICILIA
Filippo fischiò dalla strada alle tre del pomeriggio. Mi affacciai alla finestra. Gridò "arrivano". Di corsa infilai le scale, mia madre mi gridò dietro qualcosa.
Nella strada che abbagliava di sole non c'era un cane. Filippo stava mezzo nascosto nel portone della casa di fronte. Mi raccontò che in piazza stavano il podestà l'arciprete e il maresciallo, aspettavano gli americani, un contadino aveva portato la notizia che arrivavano, erano al ponte del Canalotto.
In piazza c'erano invece due tedeschi: avevano spiegata per terra una carta e uno di loro vi segnava con la matita una strada, pronunciava un nome e alzava gli occhi verso il maresciallo che diceva "sì, va bene". Poi ripiegarono la carta e andarono verso la chiesa, sotto il portico stava un'automobile coperta di rami di mandorlo. Tirarono fuori una forma di pane, del prosciutto. Chiesero vino. Il maresciallo mandò un carabiniere a prenderne un fiasco dalla casa dell'arciprete. Stavano sulle spine con quei due tedeschi che mangiavano tranquilli, avevano in corpo paura e impazienza: tanta da decidere l'arciprete a mollare un fiasco di vino. I tedeschi mangiarono, scolarono il fiasco, accesero i sigari. Partirono senza un cenno di saluto.
Il maresciallo si accorse allora di noi due, ci gridò di andar via minacciando un calcio. Niente americani, dunque. Erano tedeschi, gli americani chi sa quando sarebbero arrivati. Per consolarci, ce ne andammo verso il clmltero; era un punto alto, si vedevano gli aeroplani a due code rovesciarsi sullo stradale di Montedoro, risalire nel cielo mentre lungo lo stradale si gonfiavano nere nuvole, poi sentivamo un rumore
come di quartare che si rompessero. Restavano gli auto-
carri neri sulla strada, il silenzio si dilatava; e quelli a due code tornavano a pungerlo di scoppi. Era bello vedere come piombavano sulla strada, e subito alti nel cielo. A volte giravano bassi sopra di noi, e agitavamo le mani a salutare l'americano che credevamo stesse a guardarci. Ma quella sera stessa portarono in paese un carrettiere col ventre squarciato e un bambino dell'età nostra ferito a una coscia: avevano agitato le mani, e quello a due code giù a sventagliare mitraglia. Facevano del tiro a
bersaglio, quelli a due code, sparavano anche sul grano abbicato, sui buoi che pascolavano tra le stoppie. L'indomani Filippo ed io andammo nella campagna dove il carretiere era stato colpito, c'erano intorno bossoli grossi
come quelli del calibro dodici di mio padre. Ce ne riempimmo le tasche. Tutta la campagna era nostra, silenziosa e splendente. I contadini non potevano uscire dal paese, c'erano i militi a bloccare le strade, noi prendeva-
mo un viottolo da capre, Ci portava a una cava di pietre e poi nella campagna aperta. Di frutti c'erano le mandorle dalla scorza verde e aspra, dentro bianche come latte, mandorle cagliate qui si chiamano; e le prugne maggioline che allappavano la bocca, verdi ancora e agre. Ne coglievamo quanto potevamo portarne, le commerciavamo poi con i soldati, ci davano in cambio le milit. Le milit erano la nostra grande risorsa, per tutto un anno furono una grande risorsa. Gli uomini fumavano di
tutto in quel tempo; mio zio aveva provato i pampini di vite spruzzati di vino e messi al forno, le foglie di melanzana spruzzate di miele e vino e poi seccate al sole, la barba del carciofi messa a macerare nel vino e poi infornata; perciò una milit la pagava anche mezza lira. Io facevo prima il prezzo, chiedevo un acconto: poi tiravo
fuori le due o tre sigarette della giornata. La sera tentavano di riprendersi i soldi o cercavano altre sigarette: io fingevo di dormire e vedevo che scuotevano i vestiti, frugavano nelle tasche. Mai niente trovavano, curavo sempre di spendere fino all'ultimo soldo prima di rientrare a casa, e se sigarette mi restavano le nascondevo, entrando, nel porta ombrelli. Nessuno voleva guastarsi con me per via di quelle sigarette che procuravo a mio zio, quando mio padre si arrabbiava per quel mio agire da strozzino lo zio lo calmava temendo quel commercio morisse. Mio zio si aggirava per la casa dicendo sempre "senza fumare muoio" mi guardava con odio e poi dolcemente mi chie-deva se non avessi una milit. Una volta un soldato che veniva da Zara per due uova che avevo rubato a casa mi diede un pacchetto da venti serraglio, mio zio lo pagò dodici lire. La sera non avevo più un soldo, mio padre voleva ammazzarmi: ma c'era di mezzo mio zio a proteg- germi, era costretto a farlo se no l'indomani non avrebbe avuto la sigaretta nemmeno dopo il caffè d'orzo, che era il momento in cui il desiderio del fumo lo strozzava. Da quando avevano suonato le campane per l'emergenza, e dalla strada ci avevano gridato la notizia che gli americani erano a Gela, mio zio faceva come un pazzo: e le milit io le avevo portate a una lira. Al terzo giorno di emergenza il bidello delle scuole, passando, gridò a mio zio che stava alla finestra "li abbiamo ricacciati, alla Favarotta i tedeschi hanno attaccato, un macello c'è stato" e mio zio rientrò urlando "tra la sabbia e il mare, lo diceva il duce, tra la sabbia e il mare" e dichiarò che non avrebbe pagato più di mezza lira per sigaretta. La notizia era falsa, e in serata la quotazione di una lira fu ristabi-
lita. Filippo vendeva le sigarette al fratello, ed anche al cameriere del circolo dei nobili, che poi le rivendeva a qualche socio guadagnandoci. I soldi ce li giocavamo a batti-muro o a testa e scritto con altri ragazzi, compravamo una poltiglia dolciastra fatta di carrube, e c'era ogni sera il cinema. Filippo aveva una particolare abilità a colpire con uno sputo un due soldi a dieci passi di distanza, il muso di un gatto che se ne stava al sole, la pipa dei vecchi che stavano seduti a chiacchierare davanti al circolo del Mutuo Soccorso. Io sbagliavo il bersaglio di un buon palmo, ma al cinema andava bene lo stesso, non c'era da sgarrare. Era un vecchio teatro, e ce ne andavamo sempre in loggione. Dall'alto, al buio, passavamo due ore a sputare in platea, ad ondate, con qualche minuto di intervallo, tra un attacco e l'altro: la voce dei colpiti si alzava violenta nel silenzio "le mamme puttane". Tornava il silenzio, lo stappo di qualche bottiglia di gazosa; poi di nuovo "le mamme..." e anche la voce della guardia municipale veniva su minacciosa da quel pozzo "se vengo su vi squarto quant'è vero Dio" ma noi stavamo certi che mai si sarebbe deciso a venir su. Quando nel film c'erano scene d'amore cominciavamo a soffiar forte, come in preda a un desiderio incontenibile, o facevamo quel rumore di succhiare lumache, che voleva essere il suono dei baci, era una cosa che in loggione anche i grandi facevano. E anche questo suscitava le proteste della platea, ma con una certa indulgenza e compatimento - e che, stanno morendo? mai donne hanno visto, figli di puttane - non sospettando che gran parte di quel chiasso lo facevamo noi due che nelle storie d'amore dei film trovavamo estro a sputare su quei baccalà che guardavano allocchiti.
Ma nei giorni dell'emergenza il cinema era chiuso. Non si poteva andare per le strade senza il permesso scritto del maresciallo, mio padre l'aveva per andare in ufficio, c'erano solo carabinieri e militier le  strade erano deserte. Nelle scuole i soldati se ne stavano buttati sulle brande; giocavano a morra, bestemmiavano; e avevano fame. Il maggiore col pizzo bianco che li comandava non si vedeva più, né il capitano, né il tenente. C'era il sergente
maggiore che andava ciondolando di noia, quando non
suonava la cornetta come un dannato. Quando c'era il cinema nessuno di loro aveva voglia di andarci, qui c'era ancora il cinema muto, a loro sembrava cosa da ridere. Ora non c'era nemmeno il cinema, all'alba del dieci luglio suonarono a martello le campane e il paese diventò vuoto come una conchiglia: la vita aveva un suono vuoto e indecifrabile, proprio come ad accostare una conchiglia all'orecchio; la gente chiusa nelle case; le botteghe spiragliate come quando passa un trasporto funebre; e un murmure di attesa, di ansia. Noi andavamo rasentando i muri,
infilandoci nei portoni per evitare di incontrare i carabinieri. Bello era quel paese vuoto e pieno di sole, mai avevamo sentito il suono delle fontane così fresco e dolce; e gli aerei lucenti che vibravano nel cielo che ci pareva anch'esso più vuoto e lontano. Avevamo l'impressione che gli americani non volessero venirci in questo paese così silenzioso, così morto; che stessero per avvolgerlo in un cerchio e lasciarlo così, nell'ansia di aspettare: bastava loro guardarlo dall'alto, bianco e silenzioso come un cimitero.
Il padre di Filippo faceva il falegname; era stato socialista, spesso lo chiamavano in caserma e lo tenevano per qualche giorno; guardando i militi Filippo diceva sempre "cornuti" e quando poteva li medagliava di sputi sul dorso. Aspettava perciò gli americani, suo padre voleva passarsi il gusto di fargliela vedere a tutti quei cornuti che lo facevano chiamare in caserma. Benché mio padre dei fascisti non avesse mai detto male io stavo dalla parte di Filippo, di suo padre che aveva una bottega odorosa di legno e vernice, e fuori il pentolino della colla che sul fornello fumava, un fumo dolciastro che mi metteva un certo sapore in bocca. Aspettavo anch'io gli americani. Mia madre mi raccontava dell'America, che c'era una sua sorella ricca e con uno storo grande, e aveva quattro figli, e uno già grande che poteva essere tra quei soldati che aspettavamo. L'America era per me lo storo grande di mia zia, che era una bottega quanto la piazza del Castello piena di cose buone, di vestiti e caffè e tocchi di carne, e
il figlio di mia zia soldato che si portava dietro di quelle buone cose, e certo era bravo a fare a fàit, a raccontare dello storo d'America e a mollare fàit ai cornuti che gli avrebbe indicato il padre di Filippo.
Ma gli americani non venivano. Forse si erano fermati al paese vicino, se ne stavano sulle brande a giocare come con  soldati nostri che gridavano numeri scattando le dita dal pugno chiuso, bestemmiavano e dicevano che sarebbero finiti prigionieri. Un giorno ci chiesero dei vecchi vestiti, ché volevano mettersi in borghese per non finire prlgionieri. Ne parlai a mia madre, e mi diede tutta la roba smessa di mio padre e di mio zio, anche Filippo portò qualcosa. I soldati ne furono contenti, quelli che restarono senza si misero in giro a cercarne. Era una cosa che mi piaceva, perché voleva dire che gli americani arrivavano sul serio.
Il giorno in cui si disse che gli americani stavano arrivando, e invece erano i due tedeschi di passaggio, la notizia misteriosamente si diffuse per il paese: mio padre e mio zio si diedero a bruciare tessere del fascio ritratti di Mussolini opuscoli sul Mediterraneo e l'impero, i distintivi e i fregi metallici delle divise li buttarono sul tetto della casa di fronte. Ma l'indomani altrettanto misterio-samente si diffuse la voce che i tedeschi, stavolta sul seno, buttavano a mare gli americani, tra Gela e Licata. Il segretario politico, che da qualche giorno prudentemente se ne stava a casa, tornò ad uscire: saettava in giro occhiate che, secondo mio padre, si fermavano agli occhielli dove di solito lo scarafaggio stava attaccato e se lo scarafagglo non c'era guardava in faccia con gelida riprovazione e disprezzo, come a dire che se ne sarebbe ricordato, Implacabilmente, di tutti quei vigliacchi che avevano buttato il distintivo sui tetti. Mio padre non credeva che davvero i tedeschi ce la facevano a buttare a mare gli americani, ma le occhiate del segretario politico lo Infastidivano. Propose a me e a Filippo la ricerca dei distintivi sul tetto della casa di fronte, promise un compenso di due lire. Non era una cosa difficile, ma mia madre aveva una gran paura, imprecava contro il fascio e i distintivi; e poteva consentire salisse Filippo sul tetto che era, lel diceva, più agile e forte; non suo figlio che aveva le gambe come stecchi e prendeva il proton. Filippo si sentiva lusingato ma nicchiava; e io ci tenevo a fare la scalata. Chiesi anticipato il compenso, mio padre insultandomi pagò. Prendemmo la scala a pioli e an-
dammo sul tetto. Dal balcone di casa nostra mio padre guidava la ricerca "ma che siete orbi, non vedete uno come luccica?, più a destra, dietro di te, davanti agli occhi l'avete, no più a sinistra".
Scalzi passeggiavamo sul tetto, ci restammo anche dopo aver ritrovato i distintivi.
Fu, per mio padre, una perdita secca di due lire: perché proprio in quell'ora gli americani arrivavano, e i distintivi dovette di nuovo farli scomparire, ma stavolta se li tenne a portata di mano, li seppellì nella grasta del prezzemolo. Stando a passeggiare sul tetto ci sorprese a un tratto un vociare alto e confuso, come di una radio improvvisamente accesa quando trasmettono le partite di calcio, e proprio nel momento che sta per scattare il goal. La meraviglia che nel paese silenzioso esplodesse quel clamore ci tenne per un momento impietriti; ma subito ne intuimmo la ragione, scivolammo dalla scala, mettemmo i piedi dentro le scarpe che avevamo lasciate sulla strada e scalcagnando per infilarcele, ché sempre ci toccavano scarpe strette, ci trovammo di corsa in fondo alla strada mentre mia madre a crepacuore gridava che tornassimo a casa, che potevano sparare, che ci avrebbero portatl vla, negri c'erano, chi sa dove ci avrebbero portati.
In piazza c'era una gran folla, urlava e applaudiva, ma su tutte le voci si levava quella dell'avvocato Dagnino, un uomo alto e robusto che io ammiravo per il modo come lanciava gli eja, che ora gridava "viva la repubblica stellata" e batteva le mani. Cannate di vino passate di mano in mano sorvolavano la folla: seguendone il cammino
giungemmo agli americani, erano cinque, avevano occhiali neri e lunghi fucili. Il parroco di San Rocco, in pantaloni e senza colletto parlava loro, pallido e sudato, dicendo sempre "plis, plis" ma gli americani non lo ascoltavano, sembravano ubriachi, si guardavano intorno e tiravano nervose boccate di fumo. Bicchieri si arrubinavano,
con dolce violenza venivano offerti ai soldati che li rifiutavano. L'avvocato Dagnino stava in piedi su una delle sedie del circolo, tuonava sempre "viva la repubblica stellata" e il padre di Filippo che venne a cercarci tra la folla e ci portò via, andava dicendoci "venite a casa, sentite
questo cornuto come grida, tutte le carogne son venute fuori". A me pareva fosse bello che anche l'avvocato Dagnino stesse a gridare contento, che urlasse "viva la repubblica stellata" come altra volta, dal terrazzo della stazione, aveva gridato "duce, per te la vita". Quando c'era
festa sempre l'avvocato Dagnino gridava, non riuscivo a capire perché al padre di Filippo, che tanto aveva aspettato gh americani, ora non paresse festa, e ci portava via, e aveva la faccia pallida e chiusa, la mano che sentivo tremare sulla mla spalla.
Giunti alla bottega io dissi "vado a casa mia" e scappai. Non volevo perdere niente della festa. In piazza trovai che gli americani erano riusciti a farsi un po' di largo intorno, tenevano i fucili inclinati come quando mio padre, in campagna, aspettava il passo delle calandre: la folla si era addensata sotto le insegne della casa del fascio, con pertiche tentavano farle venire giù, ma erano agganciate al balcone, spinsero uno ad afferrarsi ai ferri del balcone, appena fu dentro lo applaudirono. Le insegne crollarono giù con fracasso, furono prese a calci, trascinate
per la piazza. Gli americani guardavano, scambiavano qualche parola tra loro e non badavano al prete che diceva
"plis, plis" e all'avvocato Dagnino che ora non gridava più, Sl era avvicinato alla pattuglia e sussurrava qualcosa all'orecchio di quello che aveva le strisce nere sulla manica, forse era il caporale. Poi spuntò il brigadiere con quattro carabinieri, i fucili dei soldati si alzarono verso di loro: quando furono vicini un americano girò alle spalle dei carabinieri, sganciò con destrezza le loro pistole. An-
cora un applauso scoppiò. "Viva la libertà" gridò l'avvocato Dagnino. D'improvviso una bandiera americana fiorì sulla folla, saldamente la teneva il bidello delle scuole elementari, un uomo che ogni sabato pomeriggio passeggiava in divisa per il paese, e aveva la lasagna rossa di squadrista, e quando si arrabbiava prendeva a calci i ragazzi nell'atrio della scuola e il direttore diceva ai padri di famiglia che andavano a protestare "che volete, questo benedetto uomo è intrattabile, una volta o l'altra mette le mani addosso anche a me, ma ha fatto la marcia, il duce gli ha persino regalato una radio". Ora teneva la bandiera americana e gridava "viva l'America". Ma gli americani non badavano al corteo che veniva formandosi dietro la bandiera. Parlarono col prete e il prete disse al brigadiere "vogliono che lei vada con loro". Il brigadiere disse sì, e
andò via con la pattuglia. Ci fosse stato Filippo li avremmo seguiti, ma solo non me la sentivo. Restai a guardare la folla, vicino ai quattro carabinieri disarmati che non sapevano da che parte guardare, sembravano cani bastonati.
Poi d'ogni parte cominciarono ad affluire autoblinde e camionette. La folla si aprì plaudente, i soldati lanciavano sigarette, alla mischia che ne seguiva qualcuno faceva scattare la macchma fotografica. Non sò come, d'improvviso, sentii crescermi dentro un'ondata di pianto, forse fu per i carabinieri, per quella bandiera che si levava sulla folla, per Filippo e suo padre che erano rimasti soli nella bottega, per mia madre.
Mi assalì struggente, quasi potessi non ritrovarla come l'avevo lasciata, l'ansia della mia casa: di corsa risalii la strada ora festosa di voci, e quando mi chiusi il portone alle spalle mi sentii come dentro a un sogno, che qualcuno sognasse e io fossi dentro quel sogno, a salire stanco le scale e un groppo di pianto che mi serrava la gola.
Mio padre stava parlando di Badoglio. Mio zio, abbattuto che sembrava un sacco di segatura, si animò vedendomi entrare: tirò dalla tasca un pacchetto di sigarette, raleigh, c'era un uomo con la barba, e caricando la voce di ipocrita dolcezza mi chiese "quanto me lo faresti pagare
un pacchetto di queste?"
Scoppiai a piangere. "Piangi" disse "che davvero ti è finita la cuccagna; anche se mi condannano a morte le sigarette questi non le negano."
"Lascialo stare" disse mia madre.
Attaccarono in piazza manifesti. Uno cominciava "l'Harold Alexander" e mio padre disse che volevano i fucili le pistole le sciabole persino. Un altro manifesto diceva che i soldati dovevano stare alla larga dal paese; ma i soldati evidentemente non se ne curavano, di sera la piazzetta era fitta di jeeps, i soldati cercavano donne, le portavano nei caffè e bevevano; tiravano dalle tasche dei pantaloni manciate di soldi, le buttavano sul tavolo e bevevano dalle bottiglie. Si tiravano le donne sulle gambe e bevevano. Erano donne laide e sudice, di sconcertante bruttezza; una ce n'era che in paese la chiamavano 'bicicletta', camminava come uno che pedalasse in salita, a me sembrava piuttosto un granchio: quelli se la tiravano sulle ginocchia, passava da un soldato all'altro, le incollavano la
bottiglia alla bocca e lei ciondolava fradicia, gemeva oscene parole. I soldati ridevano, poi come un sacco la gettavano sulla jeep, la portavano via. Molti soldati parlavano il dialetto; nei primi giorni si credeva non capissero una parola del dialetto, forse i primi che passarono, che
erano di una divisione che si chiamava 'Texas', davvero
non capivano; ma poi successe in un caffè che un americano chiese una bottiglia, la indicò sullo scaffale, fece segno di voler pagare; un giovane che si trovava nel caffè disse al padrone "domandagli dieci dollari" e l'americano si voltò infuriato "a quel cornuto di tuo padre, deve domandarli" disse in dialetto.
Nutrita di dollari col marchio giallo e di amlire, la locale fuffianeria era tutta in succhio. Qualcuno procurava ai soldati incontri con donne più ritirate, quelle che non sarebbero mai andate nei caffè, che temevano l'occhio della gente e particolarmente quello già diffidente delle suocere; donne che avevano il marito fuori. Per queste donne gli americani venivano a sera inoltrata: e per far vuoto il paese, che non si venisse a sapere che in certe case si ricevevano uomini a quell'ora, i soldati si mettevano in plazza a tramare una fitta sparatoria; questa era stata una trovata suggerita dai mezzani, buonissima, tanto che poi se ne servirono quelli del mercato nero per caricare e scaricare i camion senza essere osservati. Alla sparatoria tutti si chiudevano in casa, nemmeno si stava più al
balcone per il fresco della sera; mio zio che si ostinava a restarvi, per curiosità credo io, lui diceva perché si sentiva crepare dal caldo, si sentì fischiare una pallottola all'orecchio, si gettò dentro con un tuffo scampanando bestemmie. Ma questa precauzione degli americani a tutela dell'onore di donne ritirate, serviva fino a un certo punto: egualmente si sapeva delle donne che aprivano la porta, bastava una lite intorno alla fontanella, una di quelle liti in cui per attingere l'acqua si fa violenta contestazione di precedenza, perché accuse circostanziate, giorno ora e nome del mezzano, esplodessero nel paese. Noi eravamo informatissimi: Filippo conosceva quelle del suo quartiere, io quelle del mio. Quello che queste donne facevano con gli americani, quel che un uomo poteva fare con una donna, restava per noi in nebulòse fantasie. Che le donne si spogliavano, era certo; noi andavamo spesso a Mattuzzo, dove c'era una gran fontana, per stare a guardare, nascosti dietro un roveto, le gambe delle lavandaie: quando si accorgevano di noi ci cacciavano gridando che andassimo a guardare le nostre mamme o sorelle; forse gli americani pagavano per stare a guardare senza essere cacciati via e, come al cinematografo, per baciarle. Rousseau direbbe che eravamo in quell'età in cui nella mente ci sono più parole che cose; e parole veramente ne avevamo, anche per le cose che non conoscevamo e che non ci riusciva di immaginare parole le più sconce ed atroci. 

 REVERSIBILITÀ

Estratto da "Il mare colore del vino"
Leonardo Sciascia

"Maestà" disse il ministro Santangelo battendo dolcemente un dito sulla spalla di Ferdinando "siamo alle Grotte." 
Il re si svegliò con un singulto, in faccia al ministro aprì gli occhi acquosi di sonno e smarriti, si passò il dorso della mano sulla bocca da cui colava un filo di saliva. 
"Che c'è?" domandò. 
"Siamo alle Grotte, maestà." 
Ferdinando si affacciò allo sportello della carrozza. 
Case grige che si ammucchiavano a scivolo sul fianco di una collina, tetti di ortiche e di muschio. E donne vestite di nero affacciate alle porte, e bambini dagli occhi attoniti e affamati, e porci che grufavano nelle immondizie. 
Si ritrasse. 
"E che mi svegliate a fare?" disse al ministro. E come rivolgendosi a una terza persona: "Ventiquattr'ore che non chiudo occhio: e appena riesco a cogliere un po' di sonno, ecco questo scimunito a svegliarmi con la bella notizia che siamo alle Grotte". 
Il labbro, che pareva un rognone di vaccina, gli tremava di collera. Si affacciò di nuovo. A pochi passi dalla carrozza la gente si aggrumava silenziosa. 
"Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriarno avanti" disse all'ufficiale di scorta. Rise, abbandonandosi all'indietro, della felice battuta che gli era venuta. Il ministro si piegò in due dal ridere. 
E tirarono avanti per altre due miglia: fino a Racalmuto, dove trovarono i balconi parati di seta come per il Corpus Domini, la guardia urbana schierata, una ricca mensa in municipio. 
Così Grotte, nei documenti del tempo chiamato Le Grotte e dai racalmutesi, ancor oggi,i i Gr~tti, non ebbe l'onore di ricevere re Ferdinando. 
Giusto un secolo dopo, dalla stazione di Grotte il treno di Mussolini passò velocemente, a filo di una folla che dal marciapiede quasi traboccava tra le ruote: e non furono molti i grottesi che per un momento intravidero la faccla abbronzata e ingrugnata di Mussolini accanto a quella olivigna e sorridente di Starace. 
Da questi due fatti, fino a pochi anni addietro, i racalmutesi traevano irrisione e disprezzo per i grottesi. E 
da parte loro, i grottesi tenevano un repertorio di mimi che comicamente rappresentavano i difetti dei racalmutesi: brevi fantasie come quelle da Francesco Lanza raccolte e ricreate, e che da Lanza ebbero appunto il nome di mtmi. 
Nelle partite di calcio tra le squadre dei due paesi, la letteratura dei ricordi storici e dei mimi, delle invettive degli insulti, durava fino agli ultimi cinque minuti della partita: e si passava poi a quelle che nei verbali dei carabi-merl erano denominate vie di fatto, cioè ai pugni, ai calci e alle sassaiole. 
In verità, a due miglia appena di distanza, i due paesi erano quanto di plU diverso ed opposto si possa immagi-nare. Grotte aveva una minoranza valdese e una maggio-ranza soclallsta, tre o quattro famiglie di origine ebraica, una forte mafia; e brutte strade, brutte case, squallide feste. Racalmuto aveva una festa, splendida e frenetica, che quasi durava una settimana: e i grottesi vi accorrevano in massa; ma era, per il resto, paese senza inquietudini, elet-toralisticamente diviso tra due grandi famiglie, con pochi socialisti, molti preti e una mafia divisa. 

A mutare i rapporti tra i due paesi, ad addolcire e spegnere le rivalità, hanno di certo contribuito, con le nuove 
norme di vita, i frequenti matrimoni tra racalmutesi e grottesi; matrimoni, in gran parte, laboriosamente me-diati e combinati da terze persone, ma quasi tutti felici. 
Uno di questi matrimoni, avvenuto qualche anno prima della fine del Regno delle Due Sicilie, è rimasto nel ricordo e nella fantasia dei racalmutesi e dei grottesi. 
Non per elementi romanzeschi, contrasti, passioni e sangue: forse solo per la bellezza di una ragazza; o forse perché, nella vicenda che ne è nata, ci sono i caratteri di una società, di un'epoca. 
Il matrimonio, tra don Luigi M., medico e benestante di Racalmuto, e una figlia di don Raimondo G., grosso proprietario terriero di Grotte, avvenne nello splendore che alle due famiglie si conveniva: e teneramente scorreva nella bella casa di Racalmuto in cui i due sposi vivevano, un marito di gigantesca e sanguigna complessione tutto pieno di timida dolcezza per la giovanissima e fragile sposa, quando accadde un terribile incidente. Don Luigi ebbe diverbio con un suo mezzadro, nella collera si lasciò andare a mollargli un calcio: che era poi un modo legittimo, per un galantuomo, di metter fine alla discussione con un villano. Ma il villano non aveva la robusta complessione di don Luigi, o forse il calcio lo prese in un punto vitale. "Fatto sta" mi racconta un discendente di don Luigi "che girò tre volte per la stanza, s'infilò a ciam-bella sotto un tavolino: e morì." 
C'era anche allora la legge: con i galantuomini più docile, più timida; ma un morto è un morto, e don Luigi non poteva scampare l'arresto. Scappò, lasciando la giovane moglie sola nella gran casa dorata. 
Nel Casino di Compagnia esplose l'indignazione dei notabili. Non, si capisce, nei riguardi del povero don Luigi. Il vecchio don Ottavio di Castro, presidente del so-dalizio e decano della nobiltà locale, accoratamente pronunciò una frase rimasta famosa e oggi usata come ironico proverbio: "Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un contadino".
Tutti approvarono: il mondo se ne andava a sfascio, che tempi! 
Don Luigi non era certo andato lontano: può darsi se ne stesse addirittura a Grotte, in casa di parenti o di amici fldatn Ma era pur sempre un disagio: e ardeva del pensiero della giovane moglie sola e spaurita, tutta trine ed amore, nel gran letto dalle cortine damascate. E furono chiamati amici potenti a far sparire, leggera farfalla fili-granata dei borbonici gigli, quel mandato d'arresto che il Capitano d'Arme teneva infilzato ad un chiodo sul tavolo del suo ufficio. Ma per molto tempo il suocero di don Luigi, che pure era uomo di grandi risorse e di vaste ami-cizie, stentò a trovare 'il canale giusto': e fortuitamente, per puro e felice caso, lo trovò una sera di dicembre che se ne stava, in veste da camera, a leggere accanto al braciere 'Il Monitore', e la figlia Concettina stava a ricamare sul tombolo, a corallini e pagliuzze d'oro, un Bambino Gesù nudo come un bruco, con appena una fascetta da CUI pendeva, tra le gambette sformate, un campanellino Concettina copiava il ricamo da una sacra immaginetta che le aveva regalato una zia monaca: e don Raimondo non mandava giù quel campanellino tra le gambe del Bambin Gesù, ma non parlava perché non poteva né mettere m dubbio l'innocenza delle monache, che quella immagine veneravano, né turbare l'innocenza della figlia, che Sl era mvaghita a copiarla. E mentre leggeva 'Il Monitore' il pensiero del campanellino era un piccolo tarlo, e si proponeva di parlarne alla moglie, che facesse smettere a Concettina quel ricamo.
Perciò, quando furiosamente sentì bussare al portone, alzandosi per andare ad aprire disse a Concettina "Leva di mezzo il campanellino" e poiché Concettina non capiva gridò "Il coso... il Gesù Bambino" ché temeva il visitatore chiunque fosse, facesse malizia sulla purezza di Concettina. 
Il visitatore era un pezzo grosso, nientemeno che don Nicola Cirino, giurista e poeta, Procuratore Generale a Palermo: e aveva avuto alle porte di Grotte, in quella notte da lupi, un incidente alla carrozza sulla quale viag-giava, e non potendo per quella notte proseguire, alla casa di don Raimondo, che era la più decorosa del paese, era stato accompagnato. 
Era un uomo di circa sessant'anni, grigio di capelli e di barba, gracile, un po' cadente: ma gli occhi aveva vivi ed attenti, e facevano curioso contrasto con la disarticolata stanchezza cui pareva cedere il corpo. 
Don Raimondo, che era di mente pronta, levò un pensiero di ringraziamento al Signore: che aveva mandato una notte d'inferno, una pietra sulla strada, una piccola fatale distrazione al lettighiere; al quale don Nicola attri-buiva il guaio, mentre si scusava con don Raimondo dell'incomodo che veniva a dargli. 
Incomodo? Era un onore, un piacere... 
Concettina aveva messo via il ricamo. Don Raimondo la presentò a don Nicola, per timidezza la ragazza si fece rosea come una pesca. Era bellissima: il corpo armonioso, i capelli del colore di zucchero bruciato, il volto soave e trepido ma insieme espressivo della incontenibile gaiezza di chi scopre il buffo rovescio di ogni cosa e anche di ogni pena Don Nicola pensò in versi a un ramo di tube-rose, alle arance tra le foglie verdi sotto la neve, alla stella del mattino, e sempre in versi, che gli venivano facili quando si accendeva della bellezza, paragonò il suo cuore al Mongibello in improvvisa ardente colata d'amore. Da quel momento, poiché già sapeva del mandato di cui il genero di don Raimondo era oggetto, i codicl, le pandette, le requisitorie, le sentenze giacquero come ex voto ai piedi di una fanciulla di sedici anni. 
Fu una bella serata. La cena, improvvisata, riuscì benissimo. Ceralacche che portavano impresse le cifre di un anno nefasto, 1848, furono tolte alle bottiglie: ma il vino risultò eccellente. Del resto, il 1848 fu pretesto ad esprimere opinioni che don Nicola e don Raimondo avevano identiche. Si fecero brindisi. Don Nicola ne fece in versi: alla padrona di casa, spampanata come una rosa in un vestito di raso che era andata a mettersi di furia, e a Concettina. Poi, invitato da don Raimondo, dalla signora e, con timida voce, anche dalla ragazza, don Nicola recito un suo poema su Torquato Tasso; e quando giunse ai versi Ma pur la vita travagliata, oppressa 
Di quel Grande infelice avea conforto 
Di furtive dolcezze, il core, ahi lasso! 
Abbandonava alla speranza, un foco 
Lo struggeva animando, il suo sospiro 
Era d'uomo a cui il duol quasi è alimento 
Se il consoli una lacrima d'amore 
Una pietà celeste, un cuor gentile, 
Eleonora... fissò Concettina con occhi da agonizzante, e si protese sulla tavola verso di lei quando in un soffio pronunciò 'Eleonora', e avrebbe voluto dire 'Concettina' il che anche don Raimondo e la signora capirono, scambiandosi un preoccupato sguardo d'intesa. 
Dopo i complimenti al poeta, don Raimondo sottilmente insinuò il discorso sulla sventura che ad un'altra sua flglia, sposata in un paese vicino, era capitata. il marito, inseguito da un mandato d'arresto, fuggito chi sa dove; la figlia, a pochi mesi dalle nozze, rimasta sola, e tutto per un calcio dato a un contadino... Ma di questo passo il mondo sarebbe finito a testa sotto... Sì, la legge: ma un calclo dato così, in un momento di nervi Don Nicola parve chiudersi dentro una corazza: guardava Concettina e non diceva né sì né no. Stava valutando i pro e i contro di un azzardo che voleva giocare: non se giocarlo o meno, ma se giocarlo subito o se aspettare l'indomam. 
"Possiamo appartarci un momento?" domandò? improvvisamente deciso. 
Madre e figlia si alzarono, un po' confuse; ad un cenno di don Raimondo uscirono dalla stanza. 
Facendo girare un fondo di vino nel bicchiere, don Nicola Cirino disse sorridente "Don Raimondo, volete fare il Natale con vostro genero?" 
"C'è da domandarlo?" disse don Raimondo; e pensò: 
'Denaro, per uno come lui gli ci vorrà un sacco di pezzi da dodicl'. 
Stettero un momento in silenzio. 
"Non quello che pensate voi" disse don Nicola "qualcosa di più: qualcosa che per voi, e per me, è preziosa, inestimabile...Non indovinate?" 
"Sant'Antonio Abate" esclamò don Raimondo, che al protettore del paese volgeva invocazione nei momenti più terribili. Aveva indovinato: un fulmine gli si era scaricato in testa, i suoi pensieri si erano di colpo accecati. 
"Mi rendo conto delle ragioni del vostro stupore: e vi dirò che non mi stupirei di un vostro rifiuto; e la buona conoscenza che abbiamo fatto stasera resterebbe per me, anche in tal caso, un buon ricordo... Ma voi capite: al posto in cui mi trovo tutto quel che farei, che sono disposto e in grado di fare, non mi sarebbe rimproverato se per un cognato, per un parente. 'Ha tirato dalla galera suo cognato: e chi non farebbe altrettanto?':questo direbbero.  Ma per un estraneo..." 
"E giusto" disse don Raimondo. 
"Mi fa piacere che lo riconosciate. E dunque pensateci: parlatene con la signora, con vostra figlia... Domani, prima ch'io parta, mi darete una risposta. Ed ora non ne parliamo più fino a domani." 
Don Raimondo chiamò la cameriera, fece avvertire le donne che potevano ritornare. La moglie cercava di leggergli in faccia, lo scrutava con ansia. Bevvero del rosolio e Concettina suonò al piano preghiere e romanze, don Nicola imbambolato a guardarla, appoggiato al pianoforte, che pareva la testa stesse per rotolargli sulla tastiera e finire in grembo a Concettina. 
Con grande sollievo degli ospiti, don Nicola si decise finalmente, e già la pendola scoccava la mezzanotte, ad andarsene a dormire. Fece arabesco di parole per augurare la buona notte. Era appena uscito che la signora si av-ventò su don Raimondo con un "Che voleva?" avido e inquieto. 
Don Raimondo non le rispose. Si rivolse invece a Concettina e le domandò se a sua sorella volesse del bene. 
Concettina gliene voleva. 
E tra padre e figlia cominciò a svolgersi, domanda e risposta, un catechismo familiare: e Concettina rispondeva nella più pura ortodossia, senza venir meno di un punto ai principl dell'amore familiare e del sacrificio ai quali con inflessibilità e tenerezza, era stata educata. 
E infine, quand'ebbe certezza che per la felicità della sorella a qualsiasi pena la ragazza si sarebbe votata, don Raimondo le disse che bisognava sposare quel don Nicola Cirino che bastava dicesse una parola perché don Luigi M. tornasse alla giovane moglie, alle sue terre, ai suoi malati: libero dall'infamia della legge. 
Concettina si abbandonò a ridere, a ridere; e ridendo passò a un pianto convulso, disperato. Ma quando cominciò a piangere sua madre, e anche don Raimondo cedeva ad un tremito di pianto, si rasserenò: e tra le lacrime disse che sì, avrebbe sposato don Nicola. 
Per l'impazienza di tutti, di don Nicola che vampava d'amore e di don Raimondo e dei suoi che subito libero volevano don Luigi M., in gran fretta si strinsero le nozze. 
Per una settimana la casa veleggiò di tele d'Olanda, di freschissimi lini, di variopinte coltri di lana e di lucide sete: la parola 'Ietto', astratta nel plurale delle conversa-zioni e dei capitoli nuziali ('ventiquattro letti di corredo') si faceva singolare e concreta, immagine di disgusto, di febbrile repugnanza, nei pensieri di Concettina. Ma niente traspariva nel suo volto, dolcemente reclinato sul tombolo da cui fioriva il Bambino Gesù col campanellino: e don Nicola la guardava estasiato, quel campanellino squillando innocenza nei suoi pensieri di vecchio gatto in amore e aggiungendovi un tocco, appena un tocco, di gustosa oscenità. 
Così avvenne che il lavoro di ampia mole e di fonda-mentale importanza cui don Nicola attendeva, L'istituto della Monarchia in Sicilia, restò incompleto: ché l'amore per la giovanissima moglie distrasse l'illustre giurista e poeta, e poi serenamente lo spense. Una mattina sveglian-dosi, circa sei mesi dopo le nozze, Concettma se lo trovo beatamente morto accanto. Finito nella notte silenziosamente: così come una candela si consuma dopo un ultimo guizzo. 
Vedova, Concettina tornò alla casa paterna; e molto ricca. 
Non passarono sei mesi: e fuggì di casa, lunare bellezza nel nero delle vesti vedovili, e in una notte di luna, con un giovane di Racalmuto che già da prima, in silenzio, l'amava. Un giovane bello, elegante, di buona famiglia: ma liberale e scialacquatore. 
Don Raimondo li perdonò solo in punto di morte. 
Di questa storia, che da ragazzo mi fece grande impressione, mi sono ricordato entrando a Palermo nella chiesa di san Domenico: dove, tra i grandi siciliani, don Nicola Cirino è sepolto. E mi sono deciso a scrlverla per una di quelle sollecitazioni imprevedibili e gratuite che a volte ci vengono da certe sensazioni, da certi incontri, da certe letture. Rileggevo Baudelaire, ed ecco: 'Mais de toi je n'implore, ange, que tes prières, Ange plein de bonheur, de joie et de lumières!' La cattolica reversibilltà: e mi e venuto il titolo di questa breve storia, e la ragione per scriverla. Reversibilità: di un corpo che ne riscatta un altro, nella straziante religione della famiglia, di cui ancor oggi la Sicilia vive, di una ragazza di Grotte che riscatta la libertà di un uomo del vicino e nemico paese di Racalmuto.

sabato 23 febbraio 2019



L'ABISSO DI EROS 

Seduzione
Matteo Nucci

Una  profonda coinvolgente ricerca sulle radici e sulla complessità della seduzione. Non solo della seduzione amorosa. È seduzione  quella delle idee, è seduzione quella dello spirito, è seduzione quella del male, è seduzione quella delle  immagini, etc. Perché seduzione è ricerca in ogni direzione di qualsiasi possibilità che permetta a ognuno di sentirsi sempre di più partecipe della vita. Questo avviene attraverso una continua  sfida del perdersi e del ritrovarsi. È questa la seduzione.
Occorre rischiare, lottare, ispirarsi a Menelao, assecondare persino l’ira. Scrive Nucci: “Platone sapeva che solo lasciando scorrere eros adeguatamente nell’elemento che media all’interno dell’anima è possibile realizzare la propria forza erotica. Solo nell’ira, nell’orgoglio, nella forza guerriera della nostra parte animosa, pronta a prendersi la ribalta nel momento in cui l’amore sembra finire, quando ci pare di essere stati traditi. Non esiste nulla di semplice nelle nostre vite. E niente è più complesso di eros. Pòlemos, guerra, è padre di ogni cosa. Lo diceva Eraclito L’Oscuro e stavolta non era affatto ambiguo. Perché Pòlemos vive al centro della nostra anima. Per realizzare eros in noi allora dobbiamo armarci e combattere. Dobbiamo liberare l’ira che non ci annebbia come fumo ma ci dà vita come miele. L’auriga che domina la nostra anima deve fare affidamento sul cavallo bianco per contenere il cavallo nero. Solo allora sentiremo finalmente la potenza terrorizzante del brivido erotico. Per amarsi è necessario tradirsi insomma. Lottare e disperare, lasciarsi prendere dall’ira e dall’orgoglio. Salvare la propria dignità. Eppoi rincorrersi”.

L’amore senza fine
Quando smise di parlare, un silenzio inaudito calò sul Ceramico. La folla che sterminata riempiva la via delle sepolture davanti alla porta Sacra e al Dìpylon rimase immobile. Gli occhi sgranati e in gran parte bagnati di lacrime sembravano ancora in attesa di un cenno. Allora l’uomo, solo sulla tribuna, con lentezza estrasse il braccio dalla tunica in cui lo aveva tenuto per oltre un’ora, alzò la mano e accennò un saluto. Fu in quel momento che l’immensa moltitudine parve ondeggiare tutta insieme. Chi sedeva accanto al palco raccontò poi di aver avuto l’impressione di trovarsi davanti al mare scuro, il mare nero color del vino, quando in una giornata d’inverno viene percorso da una fugace corrente. Eppure non era stato affatto fugace lo scuotersi dei corpi. Tutto, infatti, in quel momento, sembrava improvvisamente cambiato. Il vento freddo che aveva imperversato fin dal mattino soffiando furiosamente dalle alture del Pentelico si era calmato, il suono gorgogliante dell’Eridano che scorreva fra le steli funerarie risuonava chiaro come mai prima in quei giorni, e uomini e donne, a migliaia, rimanevano al loro posto, quasi estasiati, come se le ultime parole del condottiero fossero le uniche a cui avevano deciso di non dar seguito. «Ora, dopo aver pianto a sufficienza ciascuno il proprio familiare, tornate alle vostre case» aveva detto Pericle mentre impassibile chiudeva un discorso destinato all’eternità. Adesso, il condottiero si faceva largo fra volti attoniti. I dignitari che lo avevano invitato a pronunciare l’epitaffio per i caduti di quel primo anno di guerra contro Sparta, lo osservarono mentre passava fra di loro senza tradire alcuna emozione. Era evidente a tutti che invitare proprio Pericle sulla tribuna dopo quel primo anno di una guerra che si preannunciava drammatica, significava chiamarlo a una sfida durissima. Calmare gli animi delle famiglie in lutto, spesso esacerbati dalla rabbia nei confronti di chi aveva aperto la contesa, pareva impresa impossibile. Ma, abituato alle grandi sfide, l’uomo che da trent’anni segnava la politica di Atene non si era tirato indietro. Aveva accettato ringraziando per l’onore e adesso il suo trionfo era sotto gli occhi di tutti. Ogni cosa era andata secondo i suoi piani, in quel mattino di dicembre. Diversamente da quello che chiunque si aspettava, Pericle era arrivato da solo al Ceramico, il quartiere dei vasai dove da anni si dava sepoltura agli uomini più illustri nonché ai caduti di guerra. E soprattutto era arrivato dall’esterno delle mura come se stesse percorrendo la via che entrava in città dall’Accademia. Così si era trovato immerso fra la folla avanzando a passi lenti e solenni con il suo volto imperturbabile. Nessuno aveva osato gridargli contro. Sorpresi e quasi spaesati dal coraggio con cui quello che era ritenuto il principale responsabile della guerra si faceva largo fra i familiari dei caduti, uomini e donne lo avevano osservato con ammirazione e riconoscenza. Qualcuno lo aveva addirittura invocato in una specie di saluto fraterno ma Pericle non aveva ceduto alla facile retorica degli abbracci e si era limitato a chiudere a lungo gli occhi. Al suo passaggio la folla si era aperta come un ventaglio. La terra appena gettata sulle sepolture divise secondo le circoscrizioni dell’Attica mostrava ancora, qua e là, i colori dei tappeti che erano stati sepolti assieme a letti vuoti come era in uso per celebrare anche i dispersi. Pericle aveva osservato senza tradire emozione e infine era salito sulla tribuna che due giorni prima era stata allestita contro le mura della città. Dunque aveva iniziato a parlare. Cominciò dagli antichi, dagli antenati, per spiegare la grandezza degli ideali di cui la città si era fatta portatrice modello contro la nemica Sparta. «Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini» scandì bene le parole «Perché noi, più che imitatori, siamo per gli altri un esempio. E siccome questa costituzione è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia». Da consumato oratore, tacque quanto bastava a lasciar risuonare quella frase perfetta, poi spiegò quanto contasse l’idea che la realizzazione personale potesse passare per la competenza e non per la classe di origine e le ricchezze che si possedevano casualmente alla nascita. Esaltò la forza militare della città e l’audacia degli Ateniesi, fondata non tanto sulla fatica quanto sul desiderio di vivere la vita seguendo un ideale preciso. Quindi si fermò di nuovo e disse: «Amiamo il bello, ma con semplicità, e amiamo il sapere, ma senza debolezza. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non tanto ozioso ma inutile chi non se ne interessa». Qualcuno gridò. Non si capiva bene se fosse consenso o critica. Ma Pericle non si scompose. Cercò gli occhi dei cittadini in ascolto nelle prime file e lasciò che i suoi stessi occhi si dissolvessero nei loro. Dunque, evitò di sorridere. Ma si sentì improvvisamente forte e pieno di energie come l’Eridano che volava scintillando argenteo fra i rovi decrepiti dell’inverno, gonfio per via delle piogge cadute nei giorni precedenti. E così prese a volare anche Pericle sulle sue stesse parole e disse in toni vibranti che Atene era la scuola di tutta l’Ellade e che i cittadini solo qui venivano presi da vero e proprio amore verso la città, al punto da desiderare per essa i beni maggiori, ossia innanzitutto la sua salvezza, anteponendo gli interessi comuni a quelli privati. Per questo i morti di quel primo anno di guerra, avendo offerto la vita nell’interesse generale, spinti dalla più potente fra le passioni umane: l’amore, meritavano una lode eterna e sepolture illustri, ossia non soltanto la terra del Ceramico, ma la fama indimenticabile di chi ha vissuto per la città migliore e più amata. «Ora, dopo aver pianto a sufficienza ciascuno il proprio familiare, tornate alle vostre case». Così disse, infine. Dunque abbassò il capo in segno di rispetto, estrasse il braccio dalla tunica, salutò e scese dalla tribuna. Tutto sembrava finito per quel giorno straordinario. Ma fu proprio mentre gli Ateniesi ancora stentavano a lasciare la propria posizione e Pericle si allontanava – sempre in solitudine – sulla via di casa, che un uomo gli si avvicinò gridando: «Corri a complimentarti con la tua donna! Baciala anche una terza volta, oggi. E brindate al vostro successo. Tu e la tua Aspasia, la tua Elena, la nostra Elena, la nostra cagna». Pericle finse di non sentire. Tirò dritto nella consueta sobrietà del passo con cui spesso aveva affrontato ben altri insulti e si lasciò alle spalle l’uomo trattenuto dalle guardie. E tuttavia, benché avesse mantenuto un contegno straordinario e l’episodio non fosse durato che poche decine di secondi, la voce cominciò a correre per tutta Atene. La storia fece il giro di ogni bettola e ogni casa privata. E prese a diffondersi un po’ ovunque in città un’idea che quasi nessuno si sentiva di sconfessare. Era stata Aspasia a scrivere il discorso per Pericle. La donna di Mileto che molti consideravano quasi una prostituta, tale era stata la sua potenza nel sedurre il condottiero, stregandolo con le sue arti erotiche. Era stata lei l’artefice di quel discorso e Pericle si era soltanto adeguato come uno scolaretto pronto a tutto pur di compiacere l’insegnante dei cui poteri magici è certo. Già da anni del resto si rideva di lui e dell’amore che lo aveva preso per questa donna dalla strana bellezza, i tratti irregolari del viso, il modo di parlare eccentrico, la delicata autorevolezza. I commediografi avevano messo in scena a modo loro la storia. Le malelingue ripetevano che ogni santo giorno Pericle tornava a casa almeno due volte, diversamente dalle sue abitudini precedenti, pur di baciare la sua donna. E a tutti era noto il fatto che a costo di andar contro le sue precedenti risoluzioni, Pericle stava muovendo mari e monti per far avere al figlio avuto con Aspasia la cittadinanza ateniese, benché fosse nato da madre straniera. Tutti sapevano che aveva perso la testa, il grande statista. E che una specie di voluttà incontenibile lo aveva irretito dal giorno in cui era stato sedotto da questa donna fatale. Del resto anche Socrate, lo strano filosofo che girava di continuo in cerca di bei ragazzi da concupire, aveva iniziato a frequentare Aspasia per capire qualcosa di più circa il funzionamento dell’amore, quella tensione presente nell’animo umano chiamata come l’ambiguo e oscurissimo dio delle origini: Eros. Adesso, però, si cominciò a dire di più. Aspasia non soltanto aveva irretito Pericle, ma lo aveva anche istruito nella sua abilità retorica. Gli scriveva i discorsi, lo preparava nei movimenti austeri da esibire, gli mostrava il modo migliore per prendere in mano l’uditorio. Cos’altro era, del resto, ciò che faceva un uomo di fronte a un’assemblea se non tentare di sedurla? Il grande oratore che era sempre stato Pericle, da quando aveva incontrato Aspasia, era diventato anche un vero e proprio seduttore. Un seduttore implacabile. Dominato dall’ossessione di suscitare amore, desideri incontenibili, fra i suoi ascoltatori. A considerare bene le cose, anche in quella mattina tetra di inizio dicembre, la stoccata era arrivata alla fine e aveva a che fare con eros. Prima, infatti, Pericle aveva sorpreso la platea, maldisposta contro chi aveva portato Atene in guerra, con quell’ingresso inatteso e trionfale. Poi aveva sedotto gli ascoltatori con le sue parole vibranti sulla grandezza della città modello. Infine aveva esaltato chi s’innamora della città e proprio per questo amore cade e dunque resta per sempre. L’eros di Ettore e Achille nelle grandi storie del passato. L’eros che domina gli esseri umani e fa loro tremare le gambe. Quello stesso eros come potere in città e per la città. Che diavolo Aspasia! Che diavolo Pericle! L’avevano organizzata per bene la loro storia. Si cominciò a dire che quell’entrata sconcertante e trionfale e quel discorso così straordinario fossero stati preparati per giorni e giorni nelle pause fra i feroci amplessi che univano Pericle e Aspasia e durante le interminabili chiacchiere erotiche che condividevano a letto, dopo l’amore, lontano da sguardi indiscreti. Si cominciò a dire che Pericle si fosse preparato al discorso da tempo, ancor prima di essere stato invitato a farlo. Si disse tutto questo per corroborare definitivamente un’idea. Come nella guerra che Atene aveva sferrato contro Samos nove anni prima, una guerra fortemente voluta da Aspasia per difendere la sua Mileto, così anche stavolta era la donna che aveva spinto Pericle alla guerra, la donna che sempre porta lotte e contese e guerre, la donna che seduce con i sorrisi e in effetti vince e domina e spinge gli uomini alla follia della distruzione reciproca. Come Elena, la donna bellissima che aveva portato gli Achei a sferrare un lungo assedio alla lontana Troia. Come Elena con Menelao. Così era ora Aspasia con Pericle. Tranne il fatto che non lo tradiva. Si limitava a spingerlo a tradire la città. Era una storia semplice da ricordare e ripetere, quella che in poche settimane si diffuse definitivamente. Atene era finita in una guerra inutile come quella degli Achei a Troia. Una contesa che avrebbe portato solo sventura. Pochi tentarono di opporsi alle dicerie. E chi si ribellò con più veemenza dovette comunque arrendersi quando, all’inizio dell’estate, si verificarono in città fatti sconcertanti. Come all’inizio dell’Iliade, anche a Atene, infatti, cominciò a diffondersi una malattia contagiosa che pareva il segno di una condanna divina. Un’epidemia sempre più drammatica. Una malattia chiamata peste. Troia era tornata identica a se stessa. L’eros di una donna rovinava generazioni di uomini. Elena si era reincarnata in Aspasia. E Pericle era un nuovo Menelao. In pochi capirono, in quei mesi,perché lo statista provasse piacere ascoltando la storia. Ma pochi ormai potevano dire di conoscere davvero la città in cui Elena e Menelao si erano incontrati e traditi prima che il loro amore potesse trionfare per sempre. Grandezza di Sparta vai alle note «Se la città dei Lacedemoni fosse devastata e si salvassero solo i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo assai difficilmente i posteri potrebbero credere che la sua potenza sia stata corrispondente alla fama». Quando Tucidide, il più grande storico greco, il fondatore della storiografia moderna, scrive queste parole, siamo agli inizi della guerra fra Atene e Sparta, negli ultimi trent’anni del V secolo. Lo scontro frontale fra le due più potenti città greche arriva nel momento in cui le due antagoniste si trovano al culmine della forza politica, culturale e militare, quello stesso momento che dunque costituirà l’inizio del loro declino, a prescindere dall’esito della guerra. Mentre Tucidide ci racconta nel suo stile aspro della paradossale dismisura fra la potenza di Sparta e il suo aspetto urbano, è perfettamente consapevole del fatto che la città si trova al suo apogeo proprio come Atene. E tuttavia l’intelligenza e la lungimiranza dello storico e del viaggiatore gli permettono di immaginare quel che ne sarà, dopo secoli di oblio e dopo una devastazione completa. Di Atene i posteri immagineranno che abbia avuto una potenza militare doppia a quella che in realtà aveva se si troveranno di fronte, come in effetti accade ancora oggi, alla bellezza del Partenone, alla magnificenza degli altri templi, la grandezza brulicante dell’agorà, gli edifici monumentali, le strade cittadine, le steli cimiteriali del Ceramico. Sparta invece apparirà come poca cosa: un’insignificante congerie di pietre, una spenta realtà di cui è difficile immaginare un passato trionfale. Se arrivate oggi a Sparta scendendo dal nord del Peloponneso, non potrete che lasciar risuonare le parole di Tucidide come una specie di condanna annunciata. Cosa è rimasto della polis imprendibile, del suo potere travolgente, delle sue tradizioni inscalfibili? Neppure gli architetti moderni sembra che siano riusciti a far rivivere lo spirito antico. Quando nel 1834, Ottone di Wittelsbach decise di avviare la ricostruzione greca partendo proprio da Atene e Sparta, le due città erano un cumulo di pietre abitate da poche migliaia di cittadini. Ma il diciottenne bavarese che le grandi potenze scelsero per governare la Grecia da poco indipendente (gestendola come un protettorato, proprio come si continua a fare ai tempi della Troika) era fradicio di ideali storici e artistici e non credeva che Nafplio (per gli italiani Nauplia), la bella cittadina peloponnesiaca del golfo argolico, potesse restare a lungo capitale. Immaginava di nuovo Atene sul trono, e Sparta a fare stavolta da città sorella, un’altra grande realtà metropolitana al centro del Peloponneso. I lavori vennero avviati contemporaneamente. Palazzine neoclassiche sorsero per mano di grandi architetti mitteleuropei in quella che già diventava capitale, Atene, come nella nemica di un tempo, Sparta. E tuttavia Atene era l’Acropoli, l’agorà, il Ceramico. Sparta non era quasi nulla. Atene era il futuro centro politico e amministrativo. Sparta rimaneva un ideale. I decenni seguenti sancirono la disfatta del sogno di Ottone. Lo sviluppo urbanistico di Atene ha portato la città dai diecimila abitanti degli anni Trenta dell’Ottocento ai cinque milioni di oggi. Sparta è rimasta una piccola realtà da quindicimila abitanti, attraversata da strade che stando alla segnaletica dei nostri tempi sembrano portare sempre verso il Museo dell’olivo e dell’olio d’oliva. Grandi hotel sulla principale arteria, via Paleològou. E poco altro, a uso di scolaresche e viaggi organizzati. Tanto che nessuno, a sentir parlare della cittadina laconica, oggi viene preso dal desiderio di visitarla. Commettendo un errore gigantesco. Scendete a Sparta, nonostante tutto. Non lasciatevi convincere dalla retorica che la disegna come una città perduta. Non credete a chi insiste a dirvi che si tratta solo di uno scalo turistico perfetto per chi desidera visitare Mystràs, la meravigliosa città fondata dai Franchi a metà del XIII secolo, con i suoi monasteri, i suoi affreschi, gli acciottolati che disegnano un saliscendi alle pendici della montagna. Non fatevi persuadere da chi vi parla di un mondo non replicabile di cui restano scarse e insignificanti testimonianze perfette solo per l’ignoranza del turismo di massa. È vero, in parte. Certo. Dovrete superare parecchi ostacoli per scoprire l’anima di Sparta. Dovrete sopportare le orde di fotografi improvvisati di fronte alla statua moderna di Leonida, ricordo glorioso dei Trecento che difesero le Termopili dall’avanzata persiana nel 480. Dovrete accettare l’idea che quel che resta della città antica è davvero poco, benché quel poco sia disseminato fra cespugli, arbusti, rovi, una natura rigogliosa cupa e solenne anche se splende il sole: scampoli di un teatro ellenistico di fronte alla meraviglia del possente Taigeto che divide la valle di Sparta dal mare di Kalamàta; pietre sparse che ricordano edifici sacri non meglio identificati; e dalle parti del fiume, fra accampamenti gitani, anche i resti del santuario di Artemide Orthìa dove il carattere dei giovani era testato con prove che ne mostrassero l’abnegazione. Dovrete penare per scoprire l’anima di Sparta. Forse potrete lasciarvi conquistare dall’architettura moderna, dal sogno di Ottone e dalle intuizioni dell’urbanista bavarese Stauffert che disegnò le vie a scacchiera immaginando una città da centomila abitanti. Vi aggirerete fra palazzine neoclassiche notevoli come il bel municipio disegnato da Katsaròs e oscurato da un’impietosa insegna al neon e da un bar privato che incredibilmente occupa il piano terra – perfetta declinazione di una Grecia devastata dall’ultimatum nordeuropeo: o privati o morte. Mentre arrancate in questo limbo di sogni mai realizzati e abbandono, mancanza e perdita, mentre godete del museo zeppo di pezzi interessanti accatastati in teche polverose e antiche ma così calde rispetto alla neutra bellezza dei musei del nuovo mondo, mentre vi aggirate sempre più carichi di attesa, ecco che scoprirete qualcosa di indimenticabile. Innanzitutto che Sparta è lì, è nello stesso luogo di sempre, una banalità apparente finché non vi rendete conto che la posizione della città già da sola spiega ogni cosa. Il Taigeto svetta imperioso sullo sfondo occidentale. Il Parnone, poco più basso, chiude la città a oriente. Il fiume Eurota attraversa la piana fertile e guardandoci attorno abbiamo soltanto l’impressione che Sparta sia rimasta sempre «concava, avvallata» come la definivano gli aedi omerici. Fortezza inespugnabile per natura. Inutile qualsiasi cinta muraria. Ma, mentre i versi omerici vi risuonano in testa, vi rendete conto improvvisamente che la Sparta di cui tutti siamo da sempre in cerca è sempre e solo la nemica di Atene e non la città che crebbe molti secoli prima. Come se fossimo costretti da un paradigma in cui siamo cresciuti fin dall’infanzia: cercare la città che fu esemplare di un modello politico opposto a Atene. Ma Sparta ha una storia millenaria e proprio mentre consideriamo la sua posizione come la cantavano gli aedi omerici, non possiamo che guardare a molto prima di quel V secolo in cui la democrazia trionfò e la guerra del Peloponneso divenne inevitabile. Ci accorgiamo insomma che c’è un’altra città di cui possiamo andare in cerca, non quella che sempre abbiamo negli occhi, fra la potenza militare esaltata dal rigore e dall’abnegazione e la cultura politica tendenzialmente oligarchica, l’economia basata sulla terra e non i commerci, le arti perseguite per il vigore spirituale e per la difficile costruzione di una fiducia personale. Basta guardare oltre a quell’idea ormai così ingombrante per calarsi nelle storie che si confondono col mito e sentir pulsare il sangue di una storia forse ancora più potente e del tutto dimenticata. Basta scegliere la strada più lunga, quella che Platone, grande ammiratore di Sparta, elogiò sempre come l’unica strada che porta al vero. E allora evitate ogni attrazione. Evitate il Museo dell’oliva. Evitate qualsiasi facile richiamo. Uscite dalla città moderna in direzione est sulla strada intitolata a Licurgo e attraversate i vicoli periferici. Non fermatevi nei locali sublimi dove si cucinano capretti accompagnati da carciofi selvatici o erbe di campo. Avrete tempo al ritorno. Puntate verso il fiume, passate dall’altra parte, inoltratevi verso i campi segnati da case contadine sparse qua e là e semmai domandate della chiesa di Zoodòchos Pigì o di quella del Profeta Ilìas. Sulla strada che corre parallela all’Eurota, a una manciata di chilometri dal centro di Sparta, in una mezzoretta di cammino, potrete entrare in un altro tempo, il tempo in cui Menelao venne a regnare sulla città, sposando – invidiatissimo fra tutti gli uomini – la donna più bella del suo tempo, la regina di Sparta, la figlia di Tindaro re amatissimo in città: Elena. Elena di Sparta. Non Elena di Troia, come la vulgata ha voluto che fosse ricordata. Allora scoprirete la grandezza di un’altra Sparta. La città dell’amore. Il santuario dell’amore infinito vai alle note Gli antichi chiamavano questa località Therapne. Qualche contadino dei dintorni ancora riconosce il nome. Un cartello sbilenco indica la sterrata che dalla statale prende a salire su un’altura apparentemente anonima. Menelaion – c’è scritto. Salite su. Non guardatevi indietro. Non abbiate timori. Affidatevi al richiamo dei tempi più antichi, quelli dominati dalla vicina Micene su cui regnava il fratello di Menelao, Agamennone. Mentre camminate seguendo i tornanti immaginando che forse non ci sarà nulla in cima ad attendervi, non perdete la fiducia. Nulla vi avverte dell’esperienza estetica che state per fare. Del resto in Grecia le vere esperienze estetiche non costituiscono mai la conclusione di un percorso indicato. La sorpresa si mescola così alla meraviglia spingendoci a farci domande che aprono nuovi orizzonti. Quel che vi capiterà su questa collina di cui mi limito a dirvi che, stando alla tradizione, ospitò la tomba della regina e del re di Sparta, Elena e Menelao; divenne poi un luogo sacro e come tale si è conservato nei secoli. Ritrovamenti archeologici di un palazzo miceneo oggi ci fanno sognare che forse fu proprio qui anche la reggia gloriosa, ovvero la residenza in cui entrò pieno di timore e reverenza Telemaco, figlio di Odisseo, nella sua assillante ricerca del papadre, accompagnato da Pisistrato figlio del vecchio e saggio Nestore, re di Pilo. L’Odissea ci racconta tutto con cura. Aveva attraccato proprio lì, Telemaco, all’estremità sud del Peloponneso occidentale dove ancora oggi è Pilo con le sue rovine del palazzo di Nestore. La navigazione doveva essere stata breve. Aveva preso il largo da Itaca seguendo i «sentieri di mare», senza neppure avvertire sua madre Penelope. La necessità divina di ritrovare un padre mai conosciuto lo aveva sopraffatto. A Pilo, il vecchio saggio gli aveva indicato la strada per raggiungere l’ultimo vero eroe che avrebbe potuto raccontargli qualcosa. Ma non aveva voluto lasciare che andasse da solo e aveva incaricato suo figlio Pisistrato di accompagnarlo. Aggiogati al carro i veloci cavalli, la dispensiera aveva portato provviste di pane e di vino, poi il «cocchio bellissimo» era partito. Tutto il giorno volarono i cavalli sulla piana a sud del Peloponneso. La notte colse i due giovani a Fere (oggi Kalamàta) e il giorno dopo, presto al mattino, il viaggio riprese e il «carro dipinto» salì sulla vetta del Taigeto e ridiscese sulla piana di Sparta. Allora furono invitati nel palazzo reale, Telemaco e Pisistrato. Vennero spinti a mangiare e bere, e nessuno chiese loro nulla – né il nome né la provenienza – proprio come era d’uso fare per accogliere i viandanti. Solo quando furono sazi, Menelao e Elena vollero che parlassero. Allora accadde quel che accade sempre con le donne che conoscono meglio ogni cosa. Elena guardò Telemaco e lo riconobbe all’istante, notando immediatamente la somiglianza con il padre. Può darsi che dalla finestra entrasse la brezza che scende ancora oggi dal Taigeto. La montagna avvolta dal mistero la vedete svettare di fronte a voi, oltre alle case ormai lontane della Sparta moderna che ci paiono improvvisamente galleggiare in un vuoto di nuvole. Quando leggiamo il libro IV dell’Odissea e ascoltiamo le parole che Elena e Menelao dirigono sapientemente attraverso la «ringhiera dei denti» a Telemaco, mentre vediamo gli ori delle stanze e sentiamo che la presenza di Elena è dominante e l’armonia della casa ci accoglie in una sorta di tepore, improvvisamente ci sembra di trovarci in un luogo meraviglioso e sospeso nelle finzioni tipiche della letteratura. Ci stiamo quasi dimenticando infatti di quel che tutti, fin da bambini, sono abituati a credere. Ossia che Elena tradì Menelao, lo abbandonò seguendo il bellissimo principe troiano di nome Paride, diletto di Afrodite la dea del desiderio. Bellezza, forza, persuasione, seduzione. Paride aveva aspettato che Menelao fosse costretto da necessità inderogabili a lasciare Sparta per rapire l’anima di Elena. La donna non oppose resistenza. Anzi, lasciò la casa paterna, la città natale, addirittura la figlia Ermione e, lasciando tutto questo, arrivò a scatenare la peggior guerra che fosse immaginabile. Tuttavia, ora, mentre vediamo Elena che si muove accanto a Menelao in una casa che racconta innanzitutto la perfezione dell’amore coniugale, ci sembra improvvisamente che ogni cosa di quel che avevamo imparato da anni sul tradimento di Elena sia stato spazzato via dalla realtà. Non è vero quel racconto – ci viene voglia di dire. Elena non salì sulla nave che l’avrebbe portata a Troia, non abbandonò Menelao. E Menelao non fu preso dalla rabbia incontenibile dell’uomo che viene colpito nell’amore e nell’orgoglio, né fu preso dal desiderio di vendetta che assale chiunque venga tradito non solo dalla moglie ma anche dall’ospite, come Paride, straniero accolto con tutti i crismi dell’antica istituzione dell’ospitalità. No, non è vero quel racconto. Oppure non è vero questo racconto. Non è vera questa immagine di perfezione coniugale. O al limite, se entrambi i racconti devono essere veri, c’è di mezzo qualcosa di magico e umanamente incomprensibile. Forse quella droga chiamata nepente che Elena tira fuori proprio nelle pagine che stiamo leggendo, una droga che ha conosciuto in Egitto e che ora versa nel vino mentre Menelao, Telemaco e Pisistrato piangono ciascuno la rispettiva disperazione, per indurli a dimenticare il passato, seppellire nell’oblio nettareo i dolori invincibili. Forse è il nepente. E magari Elena lo ha usato con Menelao spingendolo a sopire il rancore e affogare nell’oblio il desiderio di vendetta. Ma noi ci troviamo qui, ormai. A Therapne. In quella che fu la residenza dell’amore ricomposto, la tomba dell’amore senza fine. Così, mentre ci aggiriamo fra le rovine assediate da pini e grandi cespugli di lentisco e ci guardiamo attorno, possiamo immaginare ancora un’altra soluzione all’enigma che ci tortura. Inutile negare il passato. Inutile sognare che una droga abbia potuto risolvere magicamente ogni dramma. Veri furono entrambi i racconti, sia quello del tradimento che quello della ricomposizione. E nulla poté il nepente. Ben altra fu la magia. Qualcosa di umanamente comprensibile, a patto che l’umano non cerchi scorciatoie. Ossia la magia di Eros, la divinità più potente che i Greci seppero immaginare. La magia dell’amore che si ricompone e che ricomponendosi dopo il peggior tradimento diventa amore immortale, infinito, completo. Le storie che si raccontano su questi luoghi, del resto, non lasciano spazio al dubbio. Dopo che Elena e Menelao morirono qui in vecchiaia, di morte naturale, forse a distanza di pochi giorni l’uno dall’altra come capita a volte alle coppie che si sono unite in una vita di passioni rincorse e riconoscimento reciproco, dopo che la loro tomba venne eretta come una specie di mausoleo, cominciò a crescere l’idea che qui, questa altura, potesse raccontare esemplarmente e per sempre l’amore senza fine. Forse qualche strana coincidenza alimentò le dicerie. Fatto sta che nei secoli seguenti, la Sparta di Therapne si trasformò in luogo mitico a tutti gli effetti, luogo di celebrazione, ricordo, rimpianto e fede incrollabile. Molte storie si tramandarono sul santuario dell’amore. Una di esse ci è stata raccontata per filo e per segno da Erodoto, l’ultimo a mescolare verità e finzione prima che Tucidide imponesse i canoni della storiografia moderna. È la storia di uno scontro di potere complesso che a noi non interessa se non perché al centro della sfida finì per trovarsi una giovane ragazza di cui ignoriamo il nome ma sappiamo che appena nata era apparsa a tutti nella sua assoluta bruttezza. Per i genitori abbienti della bimba il problema non era di poco conto ma non lo affrontarono, come invece decise di fare la nutrice portando ogni giorno la piccola al santuario di Elena e Menelao per pregare che la bruttezza fosse allontanata. «E dunque una volta, mentre la nutrice se ne andava dal santuario, si dice che apparve una donna che le chiese cosa portasse in braccio e quella le rispose che portava la bambina. Si dice che le chiese di mostrargliela e quella disse di no poiché i genitori le avevano ordinato di non mostrarla a nessuno. Ma l’altra insisteva. Vedendo dunque che la donna teneva molto a vederla, si dice che alla fine la nutrice abbia mostrato la piccola, e quella, toccato il capo della bambina, abbia detto che sarebbe diventata la più bella fra tutte le donne di Sparta. Da quel giorno cambiò aspetto. Giunta all’età del matrimonio, la sposò Ageto, figlio di Alcide, quello che era appunto l’amico di Aristone». Centro della leggenda tramandata fino a Erodoto è la bellezza della ragazzina magicamente ricevuta dalla divina Elena. Chi cerca di spiegarci il motivo razionale che si nasconde dietro alla leggenda parla della maturazione di una ragazza, parla della bellezza che si sviluppa e trasforma l’apparente bruttezza di forme dell’infanzia, parla del tocco che alla giovane fu dato da quella che i Greci chiamavano chàris, qualcosa che noi, perdendone l’impalpabile potenza, traduciamo «grazia»: una specie di pienezza che solo la maturità e l’autenticità donano agli esseri umani. La spiegazione razionale ha a che fare dunque con le ricerca inesauribile di cui è prova la nutrice nella sua ostinata e testarda frequentazione del santuario. Ma a prescindere dal racconto e dalle possibili letture che suscita, quel che colpisce noi oggi è un dato di fatto su cui è inutile indagare oltre. A Therapne, al santuario di Menelao e Elena si andava a cercare bellezza per diventare spose invidiabili, per costruirsi la possibilità di un amore maturo e infinito come quello di Elena e Menelao. Al punto che, ora, mentre ci accorgiamo che Sparta prima e più di essere l’antagonista di Atene fu semmai la città dell’amore, siamo messi inevitabilmente di fronte alla domanda più urgente. Cosa accadde fra Elena e Menelao perché proprio questa celebre coppia potesse diventare il paradigma dell’amore infinito? È una domanda complicata, però. Inutile tentare di rispondere soltanto ripercorrendo passioni e tormenti che Menelao e Paride nutrirono verso Elena o che Elena provò verso i due uomini. Bisogna tornare indietro. Fino al principio. Prendere la strada più lunga della filosofia. Quella strada platonica che non ci consente scorciatoie e non ci permette di separare le strade del pensiero da quelle su cui ci portano le nostre gambe. La strada più lunga di chi ama il sapere e perciò non smette di risalire verso le origini.

martedì 19 febbraio 2019


DONA FLOR E I SUOI DUE MARITI 
Jorge Amado


Il filo conduttore che rende unica  e piacevole la lettura sta nell'interrogativo che dona Flor, come ogni donna, come ogni essere umano, pare nasconda dentro di sé.
Due mariti, due amori. E non uno dopo 
l´altro, in sequenza cronologica. Ma tutti e due insieme, contemporaneamente, senza tuttavia dover sottostare, almeno nella realtà quotidiana, alle ambiguità del sotterfugio. Perché solo lei,  dona Flor dos Guimares, e sicuramente  l'autore, del romanzo,  conoscono la verità di quanto succede al mattino nel suo letto di legittima e timorata sposa del dottor Teodoro Madureira, dopo l´uscita di quest´ultimo. 

PARTE PRIMA

    Della morte di Vadinho, primo marito di dona Flor, della veglia funebre e della sepoltura del suo corpo.

    (al chitarrino il sublime Carlinhos Mascarenhas)

    I

    Vadinho, il primo marito di dona Flor, morì a Carnevale, una domenica mattina, mentre ballava un samba vestito da baiana in Largo 2 Luglio, non lontano da casa sua. Non apparteneva al gruppo, ci si era semplicemente aggregato, con altri quattro amici tutti vestiti da baiana, e tutti provenienti da un bar della zona del Cabeça, dove il whisky correva a fiumi, alle spalle di un certo Moysés Alves, piantatore di caffè, ricco e spendaccione.
    Del gruppo faceva parte una piccola ma affiatata orchestra di violini e flauti: al chitarrino Carlinhos Mascarenhas, un tipo magrolino, celebre in tutti i bordelli della città, ah! un chitarrino divino. I giovanotti erano vestiti da zingari, le ragazze da contadine ungheresi o romene; mai tuttavia ungherese, romena, e fosse anche bulgara o cecoslovacca, seppe sculettare con tanto brio come quelle baiane puro sangue, nel fiore dell’età e della seduzione.
    Vadinho, il più scatenato di tutti, vedendo il gruppo che spuntava all’angolo, e udendo il pizzicato dello scheletrico Mascarenhas al chitarrino sublime, s’avanzò rapidamente e piazzandosi di fronte alla romena dalla pelle più scura — una ragazzona monumentale come una chiesa (e doveva trattarsi della Chiesa di San Francesco[5] visto che era coperta da una cascata di paillettes d’oro) annunziò:
  «Eccomi, mia bella russa del Tororó.»[6]
    Lo zingaro Mascarenhas, coperto anche lui di perline e paillettes, con allegri anellini alle orecchie, raddoppiò di virtuosismo al chitarrino; i flauti e i violini sospirarono e Vadinho si gettò nella danza con l’entusiasmo esemplare che metteva in qualsiasi cosa facesse, tranne lavorare. Volteggiava in mezzo al gruppo, intrecciava passi complicati davanti alla mulatta, avanzava verso di lei con figure e contorsioni; quando d’improvviso gli sfuggì una specie di rantolo sordo, vacillò sulle gambe, pencolò da un lato e si abbatté per terra, una bava giallastra alla bocca, dalla quale lo spasmo della morte non era riuscito a cancellare completamente il sorriso soddisfatto del viveur di professione che era stato.
    Gli amici pensavano ancora che si trattasse dell’effetto dell’acquavite: non del whisky del piantatore, non sarebbero bastate quelle quattro o cinque dosi ad aver ragione d’un bevitore della forza di Vadinho; ma che tutta la cachaça accumulata dal giorno avanti a mezzogiorno, quando al bar Triunfo della piazza del Municipio si era inaugurato ufficialmente il Carnevale, salendogli alla testa di colpo, l’avesse buttato a terra, addormentato. La mulattona però non si lasciò ingannare: infermiera di professione, conosceva bene la morte, la frequentava giornalmente all’Ospedale. Non era però sua intima al punto da sculettarle davanti, farle l’occhiolino, danzare con lei un samba. Si curvò su Vadinho, gli appoggiò la mano sul collo, sussultò e un brivido freddo le corse per il ventre e per la schiena:
    «Mio Dio, è morto!»
 Anche gli altri toccarono il corpo del giovane, gli tennero alta la testa dalle ciocche bionde scomposte, cercarono il battito del cuore. Niente da fare, non trovarono nulla. Vadinho aveva disertato per sempre il Carnevale di Bahia    

    II

    Fu una confusione generale nel gruppo delle maschere e in tutta la strada, un’iradiddio fra i frequentatori del Carnevale e, come se non bastasse, quella piazzaiola dell’Anete, maestrina romantica e isterica, approfittò dell’occasione per farsi venire un deliquio, con gridolini acuti e minaccia di svenimento. Rappresentazione questa ad esclusivo beneficio dell’indifferente Carlinhos Mascarenhas, per il quale sospirava la delicatina dallo svenimento facile, che si proclamava ultrasensibile e si raggricciava tutta come una gatta quando lui pizzicava il chitarrino.
    Lo strumento, ora silenzioso, pendeva inutile dalle mani dell’artista, come se Vadinho ne avesse portato con sé all’altro mondo gli ultimi accordi.
    Accorse gente da ogni parte, la notizia si sparse velocemente per le vicinanze, arrivò fino a S. Pedro, all’Avenida 7 Aprile, al Campo Grande, richiamando una folla di curiosi. Intorno al cadavere s’era riunita gomito a gomito una piccola folla che commentava il fatto. Fu convocato un medico del Sodré, mentre un vigile, tirato fuori il fischietto, ci soffiava dentro senza posa, come per avvisare la città intera e tutto il Carnevale della fine di Vadinho.
    «Eccome se è Vadinho, poverino!» commentò un tizio mascherato con una calza, persa ormai ogni vivacità. Tutti riconoscevano il morto, popolarissimo per la sua scintillante gaiezza, per i suoi baffetti ben curati, per la sua fierezza di vagabondo: benvoluto soprattutto dove si giocava, si beveva, si faceva bisboccia; e là, così vicino a casa sua, non c’era nessuno che non lo conoscesse.
    Un altro tipo in maschera, vestito con una pelliccia e un testone d’orso, s’aprì un varco nel gruppo compatto, riuscì ad avvicinarsi, a vedere il morto. Si strappò la maschera, mostrando un viso costernato dai baffi cascanti, una testa calva:
   «Vadinho, fratellino, che t’hanno fatto?» mormorò.
    «Che gli è successo, di che è morto?» si chiedevano gli altri fra loro, e ci fu anche chi, scegliendo la spiegazione più facile per una morte così inattesa, rispose: «E stata la cachaça.» Una vecchia curva si fermò con gli altri, dette un’occhiata, constatò:
    «Ancora così moderno,[7] perché è morto così giovane?»
    Domande e risposte s’incrociavano, mentre il medico appoggiava l’orecchio al petto di Vadinho, in un’ultima inutile constatazione.
    «Stava ballando un samba con una vivacità scatenata, e senza dir niente a nessuno è cascato da una parte, già tutto pieno di morte,» disse uno dei quattro amici, completamente guarito dalla sbronza, improvvisamente sobrio e commosso e vagamente imbarazzato dalle sue vesti femminili da baiana, il viso imbrattato di rossetto, nere occhiaie tracciate col nerofumo intorno agli occhi.
    Il fatto che si fossero mascherati da baiana non deve indurre ad illazioni maliziose sui cinque giovani, tutti di mascolinità comprovata. Si vestivano da baiana per divertirsi di più, per farsa e monelleria, non a causa di tendenze effeminate o di stranezze sospette. Non c’erano froci fra loro, Dio li benedica. Fra l’altro Vadinho, sotto il sottanone bianco inamidato, s’era legato una enorme radice di tapioca e ad ogni passo alzava la gonna, mostrando l’imprevedibile trofeo fallico, obbligando le donne a nascondere fra le mani il viso ridente, con maliziosa vergogna. La radice pendeva ora abbandonata sulla coscia scoperta del morto, e non faceva più ridere nessuno. Un amico venne e la tolse; ma neppure così Vadinho divenne un defunto decente e morigerato. Era un morto del Carnevale, ma non ostentava neppure ferite d’arma da fuoco o di coltello che, coprendogli il petto di sangue, riscattassero la sua aria fatua da maschera.
    Dona Flor, naturalmente preceduta da dona Norma, che dava ordini e faceva strada, arrivò contemporaneamente alla polizia. Quando apparve all’angolo, sostenuta dalle braccia solidali delle amiche, tutti indovinarono in lei la vedova, poiché avanzava sospirando e lamentandosi, senza neppur tentare di trattenere i singhiozzi, sopraffatta da un pianto irrefrenabile. Inoltre portava un abitino da casa molto usato, che adoperava per fare le pulizie e aveva ai piedi delle pantofoline ricamate con un muso di gatto. Anche così però appariva graziosa, piacevole da guardarsi, piccolina e rotondetta, di una rotondità senza grasso superfluo, colorito olivastro bronzeo, i capelli lisci e così neri da sembrare azzurrati, gli occhi languidi, le labbra carnose, leggermente aperte sui denti bianchissimi. Appetitosa, com’era solito definirla Vadinho nei suoi rari momenti di tenerezza: rari ma indimenticabili. Era forse a causa dell’attività culinaria della moglie, che in quei momenti d’idillio Vadinho la chiamava il suo «manuè»[8] di granturco fresco, il suo «acarajé profumato» la sua «pollastrella grassa», e tali similitudini gastronomiche davano un’idea esatta del fascino sensuale e casalingo di dona Flor, occulto sotto un aspetto docile e tranquillo. Vadinho conosceva e portava alla luce le debolezze di lei, quell’impazienza controllata di timida, quel desiderio represso che si trasformava in violenza e perfino incontinenza liberandosi nell’amplesso. Quando Vadinho era in vena, non esisteva uomo più incantevole di lui, né una donna capace di resistergli. Dona Flor non riusciva mai a sottrarsi a quel fascino, neppure quando tentava risolutamente, piena d’indignazione e di rabbia recente. Eppure più volte era arrivata ad odiarlo, a maledire il giorno in cui s’era legata a quello sciagurato.
    Ma andando, angosciata, incontro alla morte prematura del marito, dona Flor si sentiva venir meno, svuotata d’ogni pensiero, incapace di ricordare: né tenerezze, né tanto meno, i giorni crudeli d’angustia e solitudine, come se, esalando l’ultimo respiro, il marito si fosse spogliato di tutti i difetti, o come se mai ne avesse avuti durante il suo «breve passaggio per questa valle di lacrime».
    «Breve è stato il suo passaggio per questa valle di lacrime,» recitò il rispettabile prof. Epaminondas Souza Pinto, commosso ed esagitato, tentando di bloccare la vedova e farle le sue condoglianze prima ancora che fosse arrivata presso il corpo del marito. Dona Gisa, anche lei professoressa — e fino ad un certo punto anche lei rispettabile — trattenne l’irruenza del collega, e una risata. Se in verità era stato breve il passaggio di Vadinho per la vita — aveva appena compiuto trentun anni — per lui, dona Gisa ben lo sapeva, il mondo non era stato certo una valle di lacrime, ma piuttosto il palco delle sue farse, beffe, imbrogli e peccatucci. Alcuni di essi, senza dubbio capaci di apportare afflizioni e confusione, sottomettendo il suo cuore a prove ardue, ad angoscie e soprassalti: debiti da pagare, cambiali da scontare, avallisti da ammansire; impegni assunti formalmente, scadenze improrogabili, protesti, uffici di esazione, banche e strozzini, facce scure, amici che lo evitavano, per non parlare delle sofferenze fisiche e morali di dona Flor. Poiché, come faceva notare dona Gisa nel suo portoghese sbilenco — era vagamente americana, si era naturalizzata e si sentiva brasiliana, ma quell’accidente della lingua, ah! non ce la faceva a dominarla — se delle lacrime erano state versate durante il breve passaggio di Vadinho per la vita, era stata dona Flor a piangerle, ed erano state molte, ce n’era d’avanzo per tutti e due.
    Di fronte a una morte così improvvisa, era solo con rimpianto che dona Gisa pensava a Vadinho. Malgrado tutto le era simpatico, aveva un lato gentile e cattivante. E tuttavia, non perché lui si trovava al Largo 2 Luglio, sdraiato a terra morto, vestito da baiana, non per questo dona Gisa si sarebbe prestata a santificarlo, a distorcere la realtà, inventando un nuovo Vadinho tutto d’un pezzo. Questo spiegò a dona Norma, sua vicina ed intima amica, senza però ottenere da lei l’approvazione sperata. Dona Norma più d’una volta aveva detto a Vadinho il fatto suo: ci litigava, gli faceva delle prediche chilometriche, una volta l’aveva perfino minacciato di chiamare la polizia. Ma, giunta per lui l’ultima ora, in quel momento d’afflizione non aveva voglia di parlare dei lati negativi, predominanti nel carattere dell’estinto, voleva soltanto esaltarne i lati buoni, la naturale gentilezza, la solidarietà sempre pronta a manifestarsi, la lealtà verso gli amici, l’indiscutibile generosità (specie se praticata con denaro altrui), l’irresponsabile ed infinita gioia di vivere. D’altronde era così occupata ad accompagnare e soccorrere dona Flor, che non aveva orecchie per dona Gisa con le sue dure verità. Ma dona Gisa era fatta così: la verità avanti a tutto, a volte al punto di farla apparire aspra e inflessibile: atteggiamento forse di difesa per la sua buona fede, dato che era assurdamente credulona e si fidava di tutti. No, non rievocava le malefatte di Vadinho per criticarlo o condannarlo: anzi lui le piaceva e spesso i due s’intrattenevano in lunghe conversazioni, dona Gisa interessata ad imparare qualcosa sulla psicologia di quel mondo sotterraneo che Vadinho frequentava, lui a raccontarle fatti avvenuti e a spiarle giù per la scollatura l’attacco dei seni fiorenti e lentigginosi. Forse dona Gisa capiva Vadinho meglio di dona Norma ma, contrariamente all’altra, non gli faceva grazia neppure di un solo difetto, non intendeva mentire, solo perché lui era morto. Dona Gisa non mentiva neppure a se stessa, a meno che la cosa non fosse strettamente indispensabile. E questo, evidentemente, non era il caso.
    Dona Flor fendeva la folla nella scia di dona Norma che si faceva largo con i gomiti e con la sua vasta popolarità:
    «Coraggio gente, fate largo, lasciate passare questa poverina...»
    Ed ecco Vadinho, sdraiato per terra sull’acciottolato, la bocca sorridente, tutto bianco e biondo, circonfuso di pace e d’innocenza. Dona Flor rimase un istante ferma a contemplarlo come se tardasse a riconoscere il marito o, più probabilmente, ad accettare il fatto, ormai indiscutibile, della sua morte.
    Ma fu solo un istante. Con un grido strappato dal più profondo delle viscere si gettò su Vadinho, s’aggrappò al corpo immobile, baciandogli i capelli, la faccia dipinta, gli occhi spalancati, i baffetti insolenti, la bocca morta, per sempre morta.

    III

    Era una domenica di Carnevale: chi non aveva in programma per quella notte una corsa d’automobili cui partecipare, una festa dove divertirsi, un programma per le ore piccole? Eppure, malgrado tutto, la veglia funebre di Vadinho fu un successo, «un autentico successo», come orgogliosamente constatò e proclamò dona Norma.
    I  barellieri scaricarono il corpo sul letto, in camera, e solo più tardi i vicini lo trasportarono in salotto. Quelli dell’obitorio avevano fretta, il loro lavoro aumentava col Carnevale. Mentre gli altri si divertivano, loro avevano da occuparsi dei defunti, vittime di incidenti e risse. Strapparono via il lurido lenzuolo che copriva il cadavere, consegnarono alla vedova l’attestato di morte.
    Vadinho restò nudo come Dio l’aveva fatto, sul letto matrimoniale, un letto di ferro con la testiera e la parte davanti lavorate, che dona Flor aveva comprato ad un’asta di mobili quando s’erano sposati sei anni prima. Dona Flor, sola in camera, aprì la busta, studiò il referto dei medici. Scosse la testa, incredula. Chi l’avrebbe mai detto? Apparentemente così forte e sano, ancora così giovane!
    Vadinho si vantava di non essere mai stato malato, d’esser capace di passare otto giorni e otto notti senza dormire, giocando e bevendo, oppure con donne. E forse che a volte non passava otto giorni senza farsi vedere in casa, lasciando dona Flor nella disperazione, come pazza? Eppure, ecco lì il referto dei medici dell’Istituto di Medicina Legale: un uomo condannato, fegato incapace di funzionare, reni sfiancati, cuore a pezzi. Poteva morire, com’era morto, in qualsiasi momento. Così, all’improvviso. La cachaça, le notti passate a giocare, le sbornie, l’insensato correre alla ricerca di denaro per il gioco, avevano minato quell’organismo bello e forte, lasciandone intatta solo l’apparenza. Sì, perché guardandolo, chi l’avrebbe giudicato così irrimediabilmente spacciato?
    Dona Flor contemplò il corpo del marito, prima di chiamare i servizievoli vicini per il delicato compito di vestirlo. Eccolo là, nudo come gli piaceva stare al letto, una peluria dorata che gli copriva braccia e gambe, un cespuglio di peli biondi sul petto, la cicatrice d’un colpo di rasoio sulla spalla sinistra. Così bello e maschio, così esperto nel piacere! Di nuovo le lacrime velarono gli occhi della giovane vedova. Cercò di scacciare i pensieri che le occupavano la mente, non erano cosa propria per un giorno di veglia funebre.
    E tuttavia, vedendolo così, abbandonato sul letto, completamente nudo, dona Flor non poteva per quanti sforzi facesse, fare a meno di ricordarlo com’era al momento del desiderio sfrenato: Vadinho non tollerava alcun indumento sui loro corpi, né lenzuolo pudibondo a nasconderne le nudità, il pudore non era il suo forte. Quando la invitava al letto «andiamo a spassarsi, ragazza,» le diceva; l’amore era per lui una festa, fatta d’infinita gioia e libertà, cui egli s’abbandonava con l’abituale entusiasmo, alleato ad una competenza attestata da innumerevoli donne di diverso ceto e condizione. Nei primi tempi del matrimonio, dona Flor se ne stava tutta vergognosa e timida, poiché lui la voleva completamente nuda:
  «Quando mai s’è visto qualcuno spassarsi in camicia? Perché ti nascondi? Lo spasso è una cosa santa, inventata da Dio in Paradiso: non lo sapevi?»
   Non solo la spogliava, ma toccava e giocherellava con ogni dettaglio del suo corpo dalle curve ampie e le rientranze profonde, dove ombre e luci s’incrociavano in un gioco di mistero. Dona Flor cercava di coprirsi, Vadinho le strappava di dosso il lenzuolo, fra scoppi di risa, mettendole allo scoperto i seni sodi, le natiche ben fatte, il ventre quasi privo di peluria. La prendeva come se fosse stata un suo giuoco, od un bottone di rosa che lui faceva sbocciare ad ogni notte di piacere. Dona Flor andava perdendo, a poco a poco la timidezza, abbandonandosi a quella festa lasciva, crescendo in violenza, diventando un’amante animosa e audace. Mai tuttavia aveva abbandonato compieta- mente il suo pudore, la sua timidezza: era necessario riconquistarla ogni volta, perché, ridesta appena da quelle pazze audacie, dai sospiri d’estasi, lei tornava ad essere la sposa timida e pudica di sempre.
    In quel momento, sola con la morte di Vadinho, dona Flor si rese conto, allora e completamente, della sua vedovanza, che mai più l’avrebbe avuto accanto, né mai più sarebbe venuta meno fra le sue braccia. Perché dal momento in cui la tragica notizia era giunta, trasmessa di bocca in bocca, fino all’arrivo della barella verso la fine del pomeriggio, la maestra d’arte culinaria era vissuta in una specie d’in- cubo, sinistro ma eccitante al tempo stesso: il colpo della notizia, la corsa in pianto fino al Largo 2 Luglio, l’incontro col corpo, la folla che la circondava, si prendeva cura di lei, le offriva solidarietà e conforto; il ritorno a casa quasi sulle braccia di dona Norma e dona Gisa, del prof. Epaminondas e di Mendez, lo spagnolo del caffè: tutto così rapido e confuso da non lasciarle il tempo di pensare e di rendersi effettivamente conto della morte di Vadinho.
   Il corpo era stato trasportato dal Largo 2 Luglio all’obitorio, ma neppure allora dona Flor aveva avuto un istante di tranquillità. Improvvisamente era diventata il centro dell’interesse non solo della strada in cui abitava, ma anche delle vie adiacenti, e questo in una domenica di Carnevale. Fino al momento in cui le riportarono il marito avvolto in un lenzuolo, col costume da baiana in una piccola borsa a colori vivaci, dona Flor non aveva fatto altro che ricevere condoglianze, testimonianze d’amicizia, gentilezze, in un pellegrinaggio ininterrotto di vicini, amici e conoscenti. Dona Norma e dona Gisa abbandonarono completamente le faccende delle rispettive case, già un tantino trascurate a causa del Carnevale, i pasti lasciati a discrezione di donne di servizio frettolose. Nessuna delle due abbandonò un istante dona Flor, gareggiando in dedizione e consolazioni.
    Là fuori il Carnevale con le sue maschere, i gruppi folcloristici, le bande, i costumi a volta a volta lussuosi o divertenti, la musica d’innumerevoli orchestre, le grancasse i tamburelli, i gruppi di candomblé con i loro tamburini e i loro atabaques.[9] Ogni tanto dona Norma non resisteva e correva alla finestra, s’affacciava, arrischiava un’occhiatina, scambiava parole scherzose con qualche conoscente in maschera, dava la notizia della morte di Vadinho, applaudiva un costume originale o un gruppo folcloristico ben riuscito. A volte, se appariva da dietro l’angolo della strada una banda particolarmente vivace, chiamava anche dona Gisa. E quando, già a pomeriggio inoltrato, apparve nella strada l’Afochè[10] dei Figli del Mare, con la sua indimenticabile coreografia, accompagnato da una folla enorme che danzava il samba, perfino dona Flor s’avvicinò alla finestra trattenendo a stento le lacrime, e dette un’occhiata nascosta dietro le larghe spalle di dona Gisa. Dona Norma, dimentica del morto e delle convenienze, batteva le mani entusiasta.
    Così era stato per tutto il giorno, dal momento in cui era giunta la notizia. Perfino dona Nancy, un’argentina riservata che abitava da poco in quella strada, sposata col proprietario della fabbrica di ceramiche, un certo Bernabò dalla pronuncia ingarbugliata, era scesa dal suo ricco villino e dalla sua alterigia, per offrire a dona Flor condoglianze e aiuto, rivelandosi una persona simpatica ed educata e scambiando con dona Gisa considerazioni sulla brevità della vita e la sua precarietà.
    Come si vede, non aveva avuto, dona Flor, neppure il tempo di riflettere sul suo nuovo stato e sulla trasformazione della sua esistenza. Fu solo quando riportarono Vadinho dall’obitorio e lo lasciarono nudo sul letto matrimoniale dove tante volte avevano fatto l’amore, allora e solo allora, che si trovò sola con la morte del marito e si sentì vedova. Mai più lui l’avrebbe rovesciata sul letto di ferro, strappandole di dosso vestito, sottabito e biancheria intima, buttando il lenzuolo sulla specchiera, prendendola in ogni dettaglio del suo corpo, facendola delirare.
    Ah! mai più, pensò dona Flor, e si sentì un nodo alla gola, le gambe tremanti, capì allora che tutto era finito. Restò là ferma, senza parole e senza lacrime, deserta di ogni eccitazione, distante da tutte le esteriorità che circondano la morte. Solo lei e il cadavere nudo, lei e l’assenza definitiva di Vadinho. Mai più l’avrebbe dovuto aspettare oltre l’alba, né nascondergli il denaro lasciato dalle alunne, né sorvegliare le sue relazioni con le più carine, mai più prender botte nei giorni di sbronza o malumore, né ascoltare gli acidi commenti dei vicini. E mai più si sarebbe rotolata con lui sul letto, aprendosi tutta al suo desiderio, spogliandosi di vestiti, lenzuola e modestia per la sua festa d’amore, festa indimenticabile. Il nodo alla gola che la strangola; un dolore al petto, acuta pugnalata.
    «Flor, non è tempo di vestirlo?» la voce di dona Norma, dal salotto, suonava urgente. «Fra poco cominciano ad arrivare le visite...»
    La vedova aprì la porta, seria, ormai, silenziosa, senza singhiozzi né gemiti, fredda e austera. Sola al mondo. I vicini entrarono ad aiutare. Il sor Vivaldo delle Pompe Funebri «Paradiso in fiore», era venuto personalmente a consegnare la bara da poco prezzo (aveva fatto un bello sconto, era compagno di Vadinho alla roulette e al baccarà, dove si giocava bare e lapidi) e collaborò con efficienza ed esperienza per fare del bohémien un morto presentabile. Dona Flor presenziò senza parole, senza una lacrima. Era sola al mondo.



    Il corpo di Vadinho fu depositato nella bara e portato in salotto dove era stato improvvisato un catafalco con delle sedie. Il sor Vivaldo aveva portato dei fiori, contributo gratuito delle pompe funebri. Dona Gisa sistemò una pansé violacea fra le dita intrecciate di Vadinho. Il sor Vivaldo considerò fra sé e sé l’assurdità del gesto: quel che avrebbero dovuto mettere fra le dita del morto era una fiche da gioco, quella sì. Una fiche invece della pansé viola, e se al posto della musica e delle risate del Carnevale si fosse fatto udire il rumore dei tavoli della roulette, la voce arrochita del croupier, il tintinnio delle fiches, le esclamazioni nervose dei giocatori, sarebbe stato ben possibile che Vadinho si alzasse dalla bara e, scuotendosi dalle spalle la morte com’era solito scuoter via in un suo gesto caratteristico le difficoltà che lo perseguitavano, si dirigesse al tavolo per deporre la sua fiche sul 17, suo numero preferito. Che se ne faceva d’una pansé viola? Fra poco sarebbe stata moscia e appassita, nessuna roulette l’avrebbe accettata.

    Il sor Vivaldo non si trattenne; patito del Carnevale, aveva aperto le pompe funebri quella domenica di festa solo per servire un amico come Vadinho. Fosse stato un altro defunto, che si arrangiasse; lui, Vivaldo non si sarebbe lasciato turbare il Carnevale.

    Furono in molti, invece, a disturbare il Carnevale del sor Vivaldo. Tutta una sfilata di gente, durata tutta la notte, per la veglia funebre del bohémien. Alcuni vennero perché Vadinho apparteneva al ramo povero e bastardo di una famiglia importante, i Guimarães. Uno dei suoi antenati era stato senatore e un pezzo grosso in politica. Un suo zio, soprannominato Chimbo, aveva occupato per pochi mesi il posto di delegato ausiliare. Questo zio, uno dei pochi Guimarães a riconoscere Vadinho come parente, gli aveva procurato un impiego al Municipio: ispettore dei giardini pubblici: posto dei più modesti, salario misero, insufficiente a finanziare sia pure una sola notte al Tabaris. Inutile sottolineare la totale negligenza del giovane funzionario municipale: mai in vita sua aveva ispezionato un solo giardino, si presentava all’ufficio unicamente per ricevere i pochi spiccioli del mensile, o per cercare di strappare al caporeparto un impossibile avallo di cambiale e infliggere ai colleghi stoccate di venti o cinquanta cruzeiros. I giardini non lo interessavano, potevano sparire tutti dalla faccia della terra, non ne avrebbe sentito la mancanza. Da uccello notturno qual era, le sue aiuole erano i tavoli da gioco, i suoi fiori, come aveva giustamente osservato il sor Vivaldo, le fiches e le carte.

    Quelli che erano venuti in omaggio al nome dei Guimarães si potevano contare sulle dita, vaghi e frettolosi parenti. Tutti gli altri invece, quella sfilata incontabile di gente, erano venuti per accomiatarsi da Vadinho, guardarlo un’ultima volta in viso, sorridergli per un piacevole ricordo, dirgli addio. Poiché gli volevano bene scusavano le sue pazzie, valorizzavano i suoi lati buoni.

    Uno dei primi ad arrivare quella sera, in smoking perché doveva accompagnare le figlie, tre ragazze da marito, al ballo di un club elegante, fu il commendator Celestino, portoghese di nascita, banchiere ed esportatore. Non era passato in fretta come uno che compie un dovere fastidioso. S’era trattenuto in salotto a parlare, ricordando successi di Vadinho, dopo aver abbracciato dona Flor ed averle offerto i suoi servigi. Da dove veniva la sua simpatia per il piccolo funzionario municipale, per il bohémien di cabaréts di seconda categoria, per il giocatore perennemente squattrinato?

    Vadinho aveva parlantina, e che parlantina! Una volta aveva strappato al prospero lusitano una firma per una cambiale di alcune migliaia di cruzeiros. Non dimenticò di pagare, visto che mai dimenticava le date di scadenza dei vari effetti da lui firmati, e sparpagliati per le banche o in mano a strozzini. Non potè pagare, il che era diverso. In generale non poteva mai pagare, e non pagava; tuttavia ogni giorno aumentava il circolante delle cambiali da lui emesse, aumentava il numero degli avallisti. Come faceva?

    Celestino non aveva mai più avallato nulla, non cascava due volte nella stessa trappola. Ma gli mollava banconote di cento, duecento e perfino cinquecento cruzeiros, quando Vadinho gli si presentava disperato, senza un soldo e con la certezza che era quello il giorno in cui avrebbe fatto saltare il banco. Altri tuttavia avallavano due e anche tre volte, come se Vadinho fosse stato il pagatore più puntuale e il tipo dalle più impeccabili referenze bancarie. Vinti tutti dalla sua scaltrezza, dalla sua parlantina drammatica e convincente.

    Lo stesso Zé Sampaio, marito di dona Norma, proprietario d’u- na calzoleria nella Città Bassa, un tipo di poche parole, musone, poco disposto a visite, rapporti e intimità con i vicini, proprio il contrario della moglie, perfino lui era stato raggirato alcune volte da Vadinho, e ciò malgrado non gli aveva tolto l’amicizia né il credito al negozio. Neppure quando scoprì l’incredibile porcheria: Vadinho una mattina aveva comprato a credito nel suo negozio varie paia di scarpe delle più fini e care per poi rivenderle immediatamente, quasi sotto gli occhi inorriditi dei commessi del Sampaio, e a prezzo minimo, ad un negozio concorrente installatosi da poco nelle vicinanze. A pronti contanti — si trattava di un Vadinho bisognoso di denaro urgente per giocare al bicho.[11]

    Il commerciante tenne certamente conto, malgrado le responsabilità dell'’imbroglione di certe attenuanti capaci di spiegare e scusare il fallo.

    Un Vadinho allegro e spensierato gli raccontò quello stesso pomeriggio d’aver sognato tutta la notte dona Gisa, trasformata in struzzo, che lo rincorreva per una pianura sconfinata, non sapeva esattamente se con l’intenzione di sollazzarsi con lui sui prati verdi — era una struzza femmina e nei suoi occhi brillava una luce mascalzona — oppure di divorarlo, visto che lo rincorreva coll’enorme becco aperto e minaccioso. Si svegliava angosciato, scuoteva via il sogno, tentava di riaddormentarsi pensando a qualcosa di più allegro, e rieccoti la petulante professoressa a rincorrerlo con l’occhio libertino e il becco aggressivo. Si fosse trovata, dona Gisa, nel suo quotidiano involucro carnale, Vadinho non sarebbe fuggito; avrebbe affrontato la situazione e avrebbe fatto un figlio a quel demonio della gringa, lì sull’erbetta, malgrado tutto il suo accento inglese e le sue conoscenze di psicologia. Ma di fronte a lei vestita di penne, trasformata in una struzza fuori del comune, non gli restava altra alternativa se non la vergognosa ritirata. Quattro, cinque volte s’era ripetuto l’incubo e la mattina, stanco da tanto correre e sudato fradicio, Vadinho s’era svegliato col presentimento giusto e senza un soldo in tasca. Rastrellò la casa, dona Flor era a zero: la sera prima lui le aveva portato via perfino gli spiccioli. Uscì nella speranza di dare una stoccata a qualche conoscente, la piazza si rivelò fiacchissima, ultimamente Vadinho aveva abusato del suo parco credito. Fu allora che, passando di fronte alla Casa Stella, il ben fornito negozio di Zé Sampaio, gli venne l’idea luminosa e divertente di dedicarsi per breve tempo all’onesto commercio delle scarpe, unico modo per ottenere rapidamente qualche spicciolo.

    Non avesse intrapreso quell’operazione, disonesta e disastrosa in apparenza, in realtà sottile e lucrosa, non se lo sarebbe mai perdonato, poiché uscì effettivamente lo struzzo — dona Gisa non mentiva neppure in sogno — e Vadinho mise insieme una bella sommetta. Grato e degno andò subito a cercare Zé Sampaio in negozio e, davanti ai commessi stupefatti, gli pagò le scarpe comprate la mattina e lo invitò per una bevuta commemorativa. Zé Sampaio declinò l’invito, ma non se la prese con Vadinho, continuò a trattarlo amichevolmente e a vendergli le scarpe con lo sconto e a credito. Sconto del dieci per cento sul prezzo, credito limitato a un paio di scarpe per volta, e solo dopo aver liquidato la fattura precedente.

    Una prova ancor più impressionante del prestigio di Vadinho fu il fatto che Zé Sampaio fosse intervenuto alla veglia funebre. Per pochi minuti, è vero, ma era quella la prima veglia funebre del commerciante negli ultimi dieci anni. Aveva in orrore gli impegni sociali di qualsiasi specie, ma particolarmente le cerimonie funebri, veglie, cimiteri, messe di suffragio, il che spingeva dona Norma a gridargli, quando si rifiutava d’accompagnarla ad uno dei suoi vari funerali settimanali:

    «Quando muori tu, Sampaio, non ci sarà un cane neppure per portare la bara... Sarà una vergogna.»

    Zé Sampaio le lanciava un’occhiata torva, non rispondeva, il dito pollice della mano destra infilato fra i denti in un suo gesto abituale di rassegnazione dinanzi al perpetuo mulinìo della moglie.

    Vennero gl’importanti come Celestino e Zé Sampaio, come il parente Chimbo, l’architetto Chaves, il dottor Barreiros, eminente figura di magistrato, ed il poeta Godofredo Filho. Vennero, inquadrati, i colleghi d’ufficio — a tutti Vadinho doveva piccole somme — e alla testa del drappello, oratorio e solenne, venne l’illustre direttore del Dipartimento Parchi e Giardini, tutto in nero. Vennero i vicini ricchi e i poveri, ed anche i benestanti. E vennero tutti coloro che a Bahia in quel tempo frequentavano i casinò da gioco, i nights, i banchi del bicho, le case di donnine allegre: Mirandão, Curvelo, Pié-di-Mulo, Waldomiro Lins e il suo fratello più giovane Wilson, Anacreon, Cardoso Pereba, Arigof, Pierre Verger col suo profilo d’uccello e i suoi misteri d’Ifà.[12] Alcuni, come il dottor Giovanni Guimarães, medico e giornalista, appartenevano a tutti e due i gruppi, intimi dei grandi e dei piccoli, dei rispettabili e degli irresponsabili.

    Gli importanti ricordavano Vadinho fra risate, le sue storie piene d’impertinenza e di malizia, le sue imprese divertenti, i suoi raggiri sfacciati, i suoi pasticci e imbrogli, e il suo buon cuore, la sua gentilezza, la sua grazia inconseguente. Anche i vicini lo ricordavano cosi: un bohémien senza orari e senza limiti.

    Gli uni e gli altri esageravano la realtà, inventavano dettagli, gli attribuivano fatti e avventure: la leggenda di Vadinho cominciava a nascere là, vicino al suo corpo, quasi al momento stesso della sua morte. Il succitato dottor Giovanni Guimarães inventava brani interi di storie, infiorava quelle realmente avvenute, era incline a qualche bugiola ben appoggiata a date e luoghi precisi.

    «Un giorno, quattro anni fa, nel mese di Marzo, alla casa da gioco dei Tre Duchi incontrai Vadinho che stava puntando sul 17. Era vestito con un impermeabile di gomma, sotto non aveva niente, completamente nudo. Aveva impegnato tutto, calzoni e giacca, camicia e mutande, per poter giocare. Ramiro, quello spagnolo spilorcio del Settantasette, voleva accettare solo i pantaloni e la giacca, che diavolo se ne poteva fare d’una camicia col colletto liso, d’un vecchio paio di mutande, d’una cravatta da quattro soldi? Ma Vadinho riuscì ad appiccicargli anche i calzini, si tenne soltanto le scarpe. E aveva tanto miele sulla lingua che riuscì a convincere Ramiro, quella belva che tutti conoscete, a prestargli un impermeabile di gomma quasi nuovo, visto che non poteva uscire per strada come Dio l’aveva fatto per andare ai Tre Duchi...

    «E vinse?» volle sapere il giovane Arthur, figlio del sor Sampaio e di dona Norma, studente ginnasiale e ammiratore di Vadinho, che ascoltava a bocca aperta il racconto del giornalista.

    Il dottor Giovanni guardò il ragazzo, fece una pausa, sorrise, illuminandosi tutto:

    «Macché... all’alba aveva perso anche l’impermeabile dello spagnolo puntando sul 17 e fu accompagnato a casa avvolto nelle pagine d’un giornale...» Il sorriso si trasformava in una risata sonora, contagiosa, nessuno come il dottor Giovanni per animare una veglia funebre.

    E poiché in quell’istante entrava in salotto l’incommensurabile Robato, il giornalista aggiunse come prova definitiva, le parole ancora intrise di riso:

    «Ecco chi può confermare le mie parole... Ti ricordi, Robato, di quando Vadinho tornò a casa nudo, avvolto in un giornale?»

    Robato non era tipo da vacillare: volse lo sguardo intorno, esaminando il gruppo seduto in un angolo della sala da pranzo, timoroso di indiscrete orecchie femminili, che tali ricordi non avessero ad arrivare alla desolata vedova; ma vacillare non vacillò, non era uomo da rifiutare una sfida, aveva l’improvvisazione facile, raccolse nell’aria la battuta:

    «Nudo, avvolto in un giornale? Eccome che me ne ricordo...» Tossicchiò per schiarirsi la voce barocca e dare il via all’immaginazione. «Ma se il giornale era mio... Successe nella “casa” di Eunice-Un-Dente-Solo; oltre a noi due e Vadinho mi ricordo che c’erano Carlinhos Mascarenhas, Jenner e Viriato Tanajura... Avevamo bevuto tutta la notte, una sbronza monumentale...»

    Questo Robato era un nottambulo della forza di Vadinho, ma d’altra razza. Il gioco non lo tentava, né fuggiva il lavoro; al contrario, uomo dai mille mestieri, aveva fama d’essere laborioso e capace. Fabbricava dentiere, accomodava radio e giradischi, faceva foto per documenti, metteva le mani in qualsiasi tipo di macchina, pieno di curiosità e di abilità. La sua roulette era la poesia, dalla metrica rigorosa e ben rimata (rime abbondanti) il suo casinò i bar e cabaréts dove si tratteneva oltre l’alba nell’amena compagnia di altri letterati tenaci, e di donzelle simpatizzanti delle muse e dei loro cultori, a declamare odi, canti libertari, poemi lirici e lubrici, sonetti d’amore. Il tutto composto da lui. S’era autoproclamato «re mondiale del sonetto», aveva battuto tutti i records conosciuti, avendo composto fino a quel momento ventimilaottocentosessantacinque sonetti fra decasillabi e alessandrini, semplici e caudati ed anaciclici. Un principio di calvizie minacciava la sua vasta capigliatura bruna da vate, senza sminuire la sua radiosa simpatia.

    Prese la parola e di nuovo Vadinho traversò il salotto avvolto in giornali: mai più l’avrebbe dimenticato il giovane Arturo, di lui avrebbe conservato un eterno ricordo: avvolto nelle pagine di «A Tarde», Vadinho, eroe di un mondo proibito e affascinante.

    Le storie seguivano alle storie, mentre dona Norma, dona Gisa e Regina, fanciulla da marito, insieme con altre signore e signorine, servivano il caffè con focaccine, bicchierini di cachaça e di liquore di frutta. I vicini avevano provveduto acché alla veglia funebre non mancasse nulla.

    Gl’importanti seduti in sala da pranzo, in corridoio, sulla porta, ricordavano Vadinho fra aneddoti e risate. Gli altri, i compagni di gioco e d’imbrogli, lo ricordavano in silenzio, seri e commossi, si fermavano in salotto in piedi vicino al corpo. Entrando si trattenevano dinanzi a dona Flor, imbarazzati come se fossero stati loro i responsabili della cattiva condotta di Vadinho. Molti non la conoscevano neppure, non l’avevano mai vista, ma da tanto sentirne parlare sapevano come a volte Vadinho le portasse via perfino i soldi della spesa per andare a giocarseli al Palace, al Tabaris, all’Abaixadinho, nell’antro di Zezé Meningite, in quello di Abílio Moqueca, nelle molte roulettes illegali della città, ivi compresa la malfamata casa da gioco del negro Paranaguá Ventura, dove per principio solo il banco poteva vincere.

    Figura torva e minacciosa quella del negro Paranaguá Ventura, con i suoi innumerevoli arresti, una lista di accuse mai compieta- mente provate, la sua fama di ladro, stupratore e assassino. Per assassinio era stato anche processato ed era stato assolto più per mancanza di coraggio dei giurati che per mancanza di prove. Lo dicevano autore di altri due assassini, senza contare la donna accoltellata in pieno Largo San Michele, poiché quella se l’era cavata per un pelo. Il covile di Paranaguá lo frequentavano solo imbroglioni di professione specializzati in carte marcate, truffatori, scippatori, bidonari, gente che non aveva più niente da perdere. Eppure fin là si spingeva Vadinho col suo scarso denaro e la sua risata allegra, e forse era uno dei pochi eletti che potessero vantarsi d’aver vinto qualche volta con i dadi truccati del Paranaguá. A quanto pareva, ogni tanto il negro permetteva a qualche giocatore che gli restava particolarmente simpatico di vincere una mano.

    Vennero anche le alunne di dona Flora, quasi tutte. Alunne ed ex-alunne, unanimi nel desiderio di consolare la stimata e competente maestra, così buona, poverina! Di tre in tre mesi si succedevano i gruppi, nei corsi di culinaria in generale (di mattina) e cucina baiana (nel pomeriggio); si diplomavano in forno-e-fornelli. Con tanto di diploma stampato e tabellone dei diplomati esposto nella vetrina d’un negozio dell’Avenida 7 Aprile, fin dal tempo d’un gruppo antico di cui aveva fatto parte dona Oscarlinda, infermiera di prima categoria presso l’Ospedale Portoghese, svelta e attiva, e pazza per inventare qualche complicazione. Aveva richiesto diploma e tabellone, aveva messo in agitazione le colleghe, fatto il diavolo a quattro, raccogliendo contributi, trovando un disegnatore che facesse il lavoro gratis; di tutti i colori ne aveva fatte quella sciagurata. Di fronte a tante pressioni, dona Flor si era dichiarata d’accordo con tutto, compresa la scelta del disegnatore, un amico di dona Oscarlinda, non senza però aver proclamato l’abilità di suo fratello Heitor — che aveva disegnato il cartellone col nome della scuola, ancora ai tempi della Ladeira Alvo — attualmente purtroppo residente in Nazareth das Farinhas. In ogni modo si era sentita lusingata, leggendo sul diploma e sul tabellone, in grosse lettere a stampatello:

    SCUOLA DI CULINARIA SAPORE E ARTE

    e sotto, in caratteri svolazzanti

    Direttrice: Florípedes Paiva Guimarães.

    Vadinho, le rare volte che si alzava più presto e rimaneva in casa, girava intorno alle alunne, immischiandosi nelle lezioni di culinaria e disturbandole. Riunite intorno alla maestra, alacri e graziose, le ragazze annotavano le ricette: la quantità esatta di gamberoni, olio di dendê, cocco grattugiato, un pizzico di pepe; imparavano come trattare il pesce, come preparare la carne, come battere le uova. Vadinho interrompeva con una barzelletta a doppio senso sulle uova, e giù a ridere, quelle sfacciate.

    Delle sfacciate, quasi tutte. Molta amicizia e molti complimenti per dona Flor, ma con gli occhi interessati addosso al mascalzone. Lui se ne stava là, con la sua aria ribalda e distaccata, buttato su una sedia, o semi-sdraiato su uno scalino della porta di cucina, alla godereccia, squadrandole dalla testa ai piedi, soffermandosi insolente sulle gambe, le ginocchia, su per le cosce, all’altezza dei seni. Le ragazze abbassavano gli occhi, lui, il non-so-come-chiamarlo non abbassava i suoi.

    Dona Flor preparava i piatti salati e le focacce, torte e dolci, nelle lezioni pratiche. Vadinho elaborava concetti, motteggiava, mangiava i manicaretti, ronzando intorno a loro, attaccando discorso con le più carine, arrischiando la mano scostumata, se qualcuna più audace gli si avvicinava.

    Dona Flor diventava nervosa, angosciata, al punto di sbagliare le dosi di burro fuso in un manuè difficile, pregando Iddio che Vadinho se ne andasse fuori ai suoi imbrogli, alla disgrazia del gioco, ma lasciasse in pace le alunne.

    Che ora, alla veglia funebre, circondavano dona Flor e la confortavano; ma una di loro, la piccola Ieda dalla faccia di gatta selvatica, a malapena riusciva a trattenere le lacrime e non distoglieva gli occhi dal viso del morto. Dona Flor s’accorse subito di quel sentimento esagerato, senti un colpo al petto. C’era forse stato qualcosa fra di loro? Non aveva mai notato niente di sospetto, ma chi avrebbe potuto garantire che i due non s’incontrassero fuori dalla scuola, che non andassero a terminare la serata in qualche bordello? Vadinho, dal tempo della sua relazione con quella puttanella della Noèmia, apparentemente aveva smesso di pascolare fra le alunne. Ma era un tipo molto astuto, avrebbe potuto benissimo aspettare l’ingenua all’angolo, invischiarla con le sue chiacchiere, e qual’era la donna capace di resistere alla parlantina di Vadinho? Dona Flor seguiva lo sguardo di Ieda, osservava le labbra tremanti della ragazza. Non le restavano più dubbi, ah! Vadinho senza giudizio!...

    Di tutti i dispiaceri che le aveva dato il marito, nessuno poteva paragonarsi alla storia con la donzella Noèmia, puttanella di buona famiglia, e fidanzata, un orrore! Ma dona Flor non voleva ricordare quell’antico dispiacere la notte della veglia funebre, quando per l’ultima volta guardava in viso Vadinho. Era tutto passato, distante, la tizia s’era sposata, era partita con lo sposo, un tipetto con fumi da giornalista, talento precoce — così giovane, infatti, e già così cornuto — di nome Alberto. Per di più col matrimonio quell’uggiosa era imbruttita definitivamente, era diventata una panciona monumentale.

    Quando quella volta tutto era finito bene quasi per miracolo, Vadinho le aveva detto, nel calore del letto e della riconciliazione:

    «Donna permanente, solo te sono capace di sopportare. Il resto è tutto xixica per passare il tempo.» Là alla veglia funebre, circondata da tanta gente e da tanto affetto, dona Flor non desidera ricordare quella storia ormai dimenticata, né sorvegliare i gesti e le occhiate della piccola Ieda, col suo pianto a malapena trattenuto, il suo segreto messo a nudo dalle lacrime. Scomparso Vadinho, niente più importava, perché chiarire, verificare, accusare e lamentarsi? Lui era morto, aveva pagato tutto, e con gl’interessi, visto che era mancato così giovane. Dona Flor si sentì in pace col marito, non aveva conti in sospeso con lui.

    Abbassò la testa, smise di sorvegliare i movimenti della ragazza. Abbassando gli occhi vedeva solo Vadinho che le percorreva il corpo con la mano, nel letto di ferro, dicendole all’orecchio: «Tutto xixica per passare il tempo, permanente solo tu, Flor, mio fiore di maggiorana; tu e nessun’altra.» Che diavolo voleva dire «xixica»? D’improvviso dona Flor desiderò saperlo. Peccato, non gliel’aveva mai chiesto, ma cosa buona certamente non era. Sorrise. Tutto xixica, permanente solo lei, Flor, fiore di Vadinho sfogliata dalla sua mano.

    V

    Il giorno seguente, alle dieci del mattino, ci fu il funerale, con grande concorso di gente. Non c’era in quel lunedì di Carnevale, gruppo né banda carnevalesca, comparabile per numero e animazione al funerale di Vadinho. Neppur lontanamente comparabile.

    «Guarda... almeno guarda dalla finestra,» disse dona Norma a Zé Sampaio, rinunciando a trascinarselo dietro al cimitero, «... guarda e vedi un po’ com’è il funerale di un uomo che sapeva occuparsi delle sue relazioni con gli altri, non era una bestia selvatica come te... Era un’imbroglione, un giocatore, un vizioso senz’arte né parte, eppure guarda... Guarda quanta gente, e quanta gente per bene... E per di più in un giorno di Carnevale... Tu, Sampaio, quando muori, non avrai neppure chi regga le maniglie della bara...»

    Zé Sampaio non rispose, né guardò dalla finestra. Avvolto in un vecchio pigiama, al letto con i giornali del giorno prima, rispose solo con un debole gemito e si ficcò il pollice in bocca. Era un malato immaginario, aveva una paura insensata della morte, una repulsione profonda per le visite agli ospedali, per le veglie funebri e i funerali, e in quel momento si trovava sull’orlo di un infarto. Si sentiva cosi fin dal giorno prima, da quando sua moglie gli aveva spiegato che il cuore di Vadinho era scoppiato d’un tratto. Aveva passato una notte da cani, aspettando l’esplosione delle coronarie, rotolandosi nel letto, coperto di sudore freddo, le mani che comprimevano il lato sinistro del petto.

    Dona Norma, mettendosi sulla bella capigliatura castana uno scialle nero adatto per l’occasione, completò spietata:

    «Io, se non avrò almeno cinquecento persone ad accompagnare il mio funerale, mi sentirò una fallita. Da cinquecento persone in su...»

    Partendo da quel principio, Vadinho avrebbe dovuto considerarsi pienamente vittorioso e realizzato. Mezza Bahia aveva infatti accompagnato il suo funerale e perfino il negro Paranaguá Ventura aveva abbandonato il suo sinistro covile ed era lì, in un completo bianco brillante di amido, cravatta nera, fascia nera alla manica sinistra, in mano un mazzo di rose rosse. Si preparava a prendere una delle maniglie della bara, e, nel presentare le sue condoglianze a dona Flor, riassunse il pensiero di tutti nella più bella e succinta orazione funebre per Vadinho:

    «Era un dritto!»


    

    INTERVALLO

    Breve relazione (apparentemente inutile) sulla polemica accesasi intorno all’autore d’un poema anonimo, circolante di bettola in bettola, nel quale l’autore piangeva la morte di Vadinho, rivelandosi qui ed infine la vera identità dell’ignoto bardo, sulla scorta di prove irrefutabili.
(declamato dall'’incommensurabile Robato Filho)

    No, col passar del tempo il caso non si sarebbe trasformato in un mistero indecifrabile delle lettere brasiliane, in un nuovo oscuro enigma della cultura universale, capace di sfidare, dopo secoli, università e letterati, studiosi e biografi, filosofi e critici e, trasformandosi in materiale di ricerca, di dar da fare a borsisti, istituti, professori, storiografi e lazzaroni di vario tipo, in cerca di un sistema facile per sbarcare comodamente il lunario.

    Non sarebbe divenuto un nuovo «caso Shakespeare», non sarebbe stato che un piccolo dubbio, insignificante quanto il piccolo evento che gli era servito da tema e ispirazione: la morte di Vadinho.

    Nei circoli letterari di Salvador, tuttavia, sorse l’interrogativo, e intorno ad esso la polemica, su quale dei poeti locali avesse composto e fatto circolare l’«ELEGIA SULLA DEFINITIVA MORTE DI WALDOMI- RO DOS SANTOS GUIMARÃES, VADINHO PER LE PUTTANE E PER GLI AMICI». Rapida s’allargò la discussione, non tardò a inacidirsi, a diventare motivo di inimicizia, rappresaglie, epigrammi, e qualche schiaffone. Circoscritti sempre, tuttavia, dibattiti e rancori, dubbi e certezze, affermazioni e negazioni, insulti e beffe, ai tavoli dei bar dove, intorno a birrine ghiacciate si ritrovavano a notte avanzata i giovani geni incompresi (intenti a demolire e radere al suolo tutta la letteratura e l’arte antecedenti al felice apparire di quella nuova e definitiva generazione d’artisti) ed i sotto-letterati tenaci, incalliti e resistenti a qualsiasi innovazione, con i loro giochi di parole, i loro epigrammi, le loro frasi reboanti — gli uni e gli altri — i giovani geni imberbi e i mal sbarbati cultori delle belle lettere, — impugnando, con la stessa violenta inclinazione a leggerli, i loro ultimi componimenti in prosa o in versi, ognuno dei quali, e i quali tutti, avrebbero rivoluzionato, a Dio piacendo, le lettere brasiliane.

    Né il dibattito perde d’interesse per il fatto di essersi svolto nell’ambito dello Stato di Bahia (dello Stato, intendiamoci, non soltanto della Capitale[13], visto che il dibattito si ripercosse fino in alcuni municipi della Zona del Cacao. Negli annali dell’Accademia di Belle Lettere d’Ilhéus, per esempio, si trovano riferimenti sicuri ad un saggio dedicato allo studio del problema), e neppure per non aver trovato posto nel supplemento letterario di giornali e riviste, esaurendosi in discussioni orali. Non è per tutte le ragioni suelencate che il dibattito, singolare e a momenti acido, può perdere d’interesse e non meritare la dovuta attenzione, ove si narri la storia di dona Flor e dei suoi due mariti — della quale storia Vadinho è un personaggio importante, un eroe di primo piano.

    Eroe? O non sarà piuttosto il cattivo, il bandito che fa soffrire la fanciulla — nella fattispecie dona Flor — sposa devota e fedele? Questo è già un altro problema, avulso dalla questione letteraria che occupa poeti e prosatori e di essa forse più grave e difficile, e toccherà al lettore risolverlo, se ostinata pazienza lo condurrà fino al termine di queste modeste pagine.

    Dell’elegia — non sussistevano dubbi — l’eroe indiscusso era Vadinho.

    «Mai un altro vi sarà / così amico delle stelle / e di dadi e puttane, / magico menestrello,» cantavano i versi, in una lode sperticata. E se il poema, allo stesso modo della polemica, non trovò spazio nelle riviste letterarie, ciò non fu per mancanza di merito. Un certo Odorico Tavares, poeta nazionale, gravitante in sfere ben al disopra del cicalio dei vati regionali — i quali, tutti, per di più, gli mangiavano in mano a briglia corta, visto che il despota controllava due giornali e una stazione radio — leggendo una copia dattiloscritta dell’elegia, lamentò:

    «Peccato che non si possa pubblicare...»

    «Se non fosse anonima...» aggiunse un altro poeta, Carlos Eduardo.

    Quel Carlos Eduardo, un tipo con pretese a bel giovane, intenditore d’antiquariato, era socio del Tavares in un affare un tantinello scabroso di santi antichi. I subletterati più frustrati e i giovani geni più aggressivi, quelli ormai privi di ogni speranza di vedere apparire il loro nome nel supplemento domenicale del Tavares, l’accusavano

    —   e con lui il Carlos Eduardo — di ricettazione di antiche statue di santi, racimolate per le chiese da un agguerrito gruppetto di ribaldi specializzati, al comando d’un tipo di dubbia reputazione, un chiacchierato Mário Cravo, del resto compare e amico di Vadinho. Magro e baffuto, passava il tempo, l’astuto Cravo, trafficando con pezzi d’automobile, lamiere di ferro, macchine scassate, torcendo e rammendando tutti quei rottami, per poi attribuire al risultato un gran valore artistico, fra gli applausi dei due poeti e di altri «esperti», unanimi nell’etichettare quei ferri vecchi come scultura moderna, e nel- l’indicare in quell’imbroglione un artista singolare e rivoluzionario, una vera rivelazione. Ecco un altro problema, la cui discussione non è materia per queste pagine: quello del valore reale dell’opera del maestro Cravo, del quale non discuteremo l’opera. Ci basti sottolineare — a titolo di cronaca — che in seguito la critica ha riconosciuto la validità dei suoi lavori, oggetto, fra l’altro, di studi di giornali stranieri. A quel tempo, tuttavia, il tipo non era ancora un artista stimato, era ancora agli inizi, e se già aveva una certa notorietà, questa era dovuta unicamente alla sua discutibile attività fra altari e sacrestie.

    A quanto consta, lo stesso Vadinho aveva partecipato, in un momento di particolare penuria, ad un segretissimo pellegrinaggio notturno ad un’antica chiesa del Recôncavo, devota visita organizzata dall’eretico Mário Cravo. Il saccheggio della chiesa sollevò un vespaio perché una delle opere sgraffignate, un San Benedetto, era attribuita a Frate Agostino della Pietà, ed i frati strillarono come aquile. Oggi la prestigiosa immagine si può ammirare in un museo del Sud[14] dove si trova, se si deve credere alle malelingue dei subletterati, per i buoni uffici ed in grazia dei due — allora magri — soci in voli lirici e devoti commerci.

    Quella mattina, poco prima di pranzo, chiacchieravano i due in redazione, parlando appunto di statue di santi e di quadri, quando Carlos Eduardo tirò fuori di tasca la copia dell’elegia e la passò al poeta Odorico.

    Rimpiangendo di non poterla pubblicare — non per l’anonimato, il nome si poteva rimpiazzare con uno pseudonimo qualsiasi, ma per via delle parolacce —Tavares ripetè «che peccato...» e rilesse ad alta voce ancora un verso:

    Sono in lutto i giocatori e le negre di Bahia.

    Chiese all'’amico:

    «Hai capito subito chi è l’autore, no?»

    «Credi che sia sua? Mi sembrava, però...»

    «Si sente subito... Ascolta: “Un momento di silenzio in tutte le roulettes, bandiere a mezz’asta sui bordelli, natiche disperate singhiozzanti”.»

    «Può darsi...»

    «Può darsi, no. È, sicuramente,» rise. «Vecchio scostumato...»

    La stessa certezza non si trovava presso i circoli letterari. L’elegia fu attribuita a diversi poeti — vati già famosi o giovani alle prime armi —. La fecero passare per un’opera di Sosigenes Costa, di Carvalho Filho, di Alves Ribeiro, di Hélio Simões, di Eurico Alves. Molti indicarono Robato come l’autore più probabile. Non declamava forse l’elegia con entusiasmo, modulando la voce ricca d’inflessioni?

    Con lui partì l’aurora cavalcando la luna.

    Non potevano capire perché mai Robato avrebbe declamato versi altrui, gesto poco abituale in quell’ambiente, dimenticando la generosità del sonettista, la sua capacità di ammirare ed applaudire gli altri.

    Si può anche datare l’inizio della popolarità dell’elegia e della polemica da essa suscitata a partire da un’allegra serata nella casa di Carla — la grassa Carla — abile professionista venuta dall’Italia, la cui cultura travalicava i limiti del mestiere (nel quale del resto eccelleva, se si deve credere a Nestor Duarte, cittadino di notoria intelligenza e con viaggi al suo attivo, un conoscitore). La grassa Carla aveva letto D’Annunzio, andava pazza per le rime. «Romantica come una mucca» la definiva il baffuto Mario Cravo, col quale aveva avuto una relazione per qualche tempo. Carla non poteva vivere senza una passione drammatica, e navigava da spiantato a spiantato, sospirando e gemendo, straziata dalla gelosia, con i suoi tremendi occhi azzurri, i suoi seni da primadonna, le cosce spettacolari. Anche Vadinho ne aveva meritato le buone grazie e qualche spicciolo, benché le sue preferenze andassero ai poeti, verseggiatrice anche lei, «nella dolce lingua di Dante con molto estro e ispirazione», secondo le parole adulatrici del Robato.

    Tutti i giovedì sera Carla riuniva nelle sue ampie stanze una specie di salotto letterario. Intervenivano poeti, artisti, vagabondi, qualche tipo importante come l’avvocato Airosa, e le ragazze della casa, pronte ad applaudire i versi e a ridere delle barzellette. Si serviva da bere e dei dolcetti.

    Carla presiedeva la serata, semisdraiata su di un divano ingombro di cuscini, vestita di una tunica greca o carica di monili fantasia, ateniese copiata da un figurino o egizia di Hollywood, uscita fresca fresca dal palcoscenico di un’opera. I poeti declamavano, si scambiavano battute, epigrammi, giochi di parole, l'avvocatone sputava un assioma preparato con dura fatica durante la settimana.

    Il clou della festa si aveva quando la padrona di casa, la grande Carla, si sollevava di fra i cuscini, con tutta la sua tonnellata di carne bianca coperta di pietre false, e con un filo di voce, sorprendente in una donna di quel calibro, proclamava in zuccherosi versi italiani il suo amore per l’eletto del momento. Intanto l’artista Cravo ed altri grossolani materialisti della stessa risma, approfittavano della semioscurità — luci velate in sala acciocché nella penombra meglio si potesse udire e gustare la poesia — e, senza alcun rispetto per un ambiente di così alta spiritualità, di sentimenti così elevati, palpeggiavano senza pudore le ragazze, tentando d’ottenere favori gratuiti a detrimento delle finanze della casa: dei filibustieri.

    Il convivio terminava immancabilmente decadendo verso la fine della nottata, dalla poesia alle barzellette licenziose. Brillavano allora Vadinho, Giovanni, Mirandão, Carlinhos Mascarenhas e soprattutto Lev, architetto all’inizio della carriera, figlio d’immigrati, una anima lunga come una giraffa, titolare d’un repertorio inesauribile, e per di più buon narratore. Portava un nome russo impronunziabile e le ragazze l’avevano soprannominato «Lev-Lingua d’Argento», forse a causa delle barzellette. Forse.

    Fu durante uno di questi «eleganti convegni dell’intelligenza e della sensibilità», che Robato declamò con voce tremula l’elegia in morte di Vadinho, introducendola con poche parole commosse sullo scomparso, amico di tutti i frequentatori di quel «delizioso rifugio dell’amore e della poesia». Menzionò di passaggio che l’autore aveva preferito «le nebbie dell’anonimato al sole della gloria». Lui, Robato, aveva avuto il poema da un ufficiale della Polizia Militare, il capitano Crisostomo, anche lui amico fraterno di Vadinho. E tuttavia non aveva saputo, l’amico militare, dargli informazioni sull’identità del poeta.

    Molti attribuirono il poema allo stesso Robato, ma di fronte al suo rifiuto sistematico d’accettarne la paternità, si misero ad indicarne come autori quanti in città si dilettassero di verseggiare, soprattutto i nottambuli e quelli di più comprovata scapigliatura. Vi fu tuttavia chi non volle mai credere alle negazioni del Robato, attribuendole ad un eccesso di modestia e continuarono a fare il suo nome. Ancor oggi c’è gente che pensa che le controverse strofe siano di sua mano.

    Il dibattito divenne così acido che in un caso oltrepassò i limiti della letteratura e della buona creanza, degenerando in un conflitto a base di schiaffoni, quando il poeta Clóvis Amorim, lingua viperina in bocca epigrammatica, succhiante senza soluzione di continuità un sigaro puzzolente comprato al mercato, negò al bardo Hermes Climaco ogni possibilità d’essere l’autore dei dibattuti versi, a tanto mancandogli genio e grammatica.

    «Del Climaco? Ma non diciamo scemenze... Quello con molto sforzo partorisce una quartina di settenari. Un poeta stitico...»

    Per colmo di sventura il poeta Climaco appariva in quel momento sulla porta della bettola, col suo eterno completo nero, l’impermeabile di gomma e l’ombrello, eterni anche quelli.

    «Stitica sarà la puttana che t’ha fatto...»

    S’acciuffarono, fra insulti e sergozzoni, con evidente vantaggio dell'’Amorim, miglior verseggiatore e atleta più robusto.

    Ugualmente singolare e degno di essere riportato è ciò che accadde ad un tipo, autore di due magri quadernetti di versi, al quale alcune persone poco esperte avevano attribuito la paternità dell’elegia. Dapprima egli negò con fermezza, poi, visto che perseveravano, fu meno reciso nelle sue negazioni e alla fine reagiva in maniera così timida e confusa, che la negazione sembrava piuttosto un’affermazione imbarazzata.

    «È sua, non c’è dubbio,» dicevano vedendolo fregarsi le mani abbassando gli occhi, sorridendo in un bisbiglio:

    «Che sembrano versi miei, è un fatto. Ma non lo sono...»

    Negò sempre, ma al tempo stesso non permise mai che si attribuissero i versi ad altri. Quando ciò accadeva si faceva in quattro per dimostrare l’impossibilità dell’ipotesi. E se qualche ostinato perseverava nell’attribuzione, terminava borbottando in tono definitivo e misterioso:

    «A me lo vuoi dire?... Ho buone ragioni per sapere...»

    E quando sentiva declamare l’elegia non mancava mai d’accompagnare la recitazione, correggendo se qualche parola risultava scambiata, geloso del poema, zelante come per un’opera sua. Solo più tardi, con la rivelazione del nome del vero autore, giunse per lui il momento di spogliarsi della gloria non dovuta. Cominciò allora, ed immediatamente, a dire peste e corna dell’elegia, alla quale negava qualsiasi merito o bellezza:

    «Poesia postribolare e stercoraria.»

    In mezzo a tante discussioni, l’elegia seguì il suo cammino, letta e imparata a memoria, sospirata ai tavoli dei bar verso l’alba, quando la cachaça risveglia i sentimenti più nobili. I declamatori cambiavano aggettivi e verbi, a volte scompigliavano o inghiottivano strofe intere. Ma, corretta o deturpata, intrisa d’acquavite o trascinata per terra nei ritrovi notturni, essa circolava tessendo le lodi di Vadinho, facendone l’elogio funebre.

    Chiunque l’avesse composta rifletteva uno stato d’animo generale nel mondo sotterraneo in cui Vadinho si muoveva fin dall’adolescenza, e del quale aveva finito per essere una specie di simbolo. L’elegia rappresentò il culmine del fiume di parole spese in lode del giovanotto. Avesse potuto sentirle, tutte quelle parole d’elogio e di rimpianto, Vadinho non le avrebbe credute. Giammai in vita sua era stato fatto segno ad encomi e laudazioni, anzi: non facevano che martellargli le orecchie con rimproveri e consigli, con prediche sulla sua vita dissipata e sui suoi cattivi sentimenti.

    D’altronde, l’indulgenza per i suoi misfatti, l’accettazione di quell’esibizione pubblica delle sue pretese qualità, tendente a fare di Vadinho un eroe da saga, una figura quasi leggendaria, durò poco.

    Trascorsa una settimana dalla sua morte, le cose già cominciavano a tornare al loro posto: l’opinione delle classi conservatrici, custodi della morale e della decenza, cominciò a manifestarsi per bocca di comari e vicine, al disopra dell’anarchico panegirico corruttore del costume, tessuto dai teppisti sovversivi delle case chiuse e dei casinò, nel tentativo criminale di sovvertire la moralità ed il regime stesso.

    Sorgeva quindi un nuovo ed appassionante problema, come se quello della paternità dei versi non bastasse. Riferendoci a quest’ultimo avevamo promesso di produrre prove della vera identità dell’autore, ora infine rivelata e per sempre inscritta nell’albo d’oro delle patrie lettere.

    Quando, anni dopo la morte di Vadinho, il poeta Odorico ricevè la sua copia delle «Elegie Impure» — una delle tre uniche offerte gratis dall’autore — magnifica edizione di lusso, tiratura limitata a cento esemplari autografati, illustrata con xilografie di Calazans Neto, egli si volse a Carlos Eduardo, porgendogli il libro prezioso.

    I due amici si trovavano nella stessa stanza di redazione dove, un giorno lontano, avevano letto e discusso insieme l’elegia. Solo che ora erano grassi signori rispettabili — e ricchi, molto ricchi, proprietari d’immobili e collezioni.

    Odorico ricordò:

    «Non te l’avevo detto già allora? Era sua...» e concluse con lo stesso sorriso e con le stesse parole di un tempo: «Vecchio scostumato...»

    Anche Carlos Eduardo rise del suo riso cordiale d’uomo arrivato e tranquillo, e ammirò l’edizione raffinata. Sulla copertina, a lettere incise nel legno, il nome del poeta: Godofredo Filho. Pian piano si mise a sfogliare le pagine, chiedendosi con una certa invidia quali vie ed erte scoscese, quali oscuri sentieri crepuscolari, quali buie grotte odorose avessero scoperto ed amato insieme il poeta celebre ed il povero vagabondo, al punto che fra loro fosse sbocciato il fiore raro dell’amicizia. Pian piano, riflettendo sull’enigma, Carlos Eduardo accarezzava le pagine come fossero una morbida epidermide femminile; forse pelle nera, velluto notturno. La quarta delle cinque elegie era quella dedicata alla morte di Vadinho, la «fiche azzurra dimenticata sul tappeto».

    Si dà così soluzione al problema, com’era stato promesso. Ma un altro ne sorge e s’impone, e chissà che non sia possibile trovare la soluzione anche di questo. Alla vostra perspicacia esso resta affidato quello del mistero di Vadinho.

    Chi era Vadinho? Quale la sua fisionomia reale; le sue esatte proporzioni? Bagnato di sole od oscuro d’ombra il suo volto d’uomo? Chi era lui? Il poetico giullare dell’elegia, il dritto della frase di Paranaguá Ventura o lo spregevole imbroglione, lo stoccatore incorreggibile, il cattivo marito di cui parlavano i vicini, gli amici di dona Flor? Chi lo aveva conosciuto meglio: le pie frequentatrici della messa delle sei alla chiesa di Santa Teresa, o gli irrecuperabili habitués del Tabaris «la palla a girar sulla roulette, le carte, i dadi, l’ultima giocata»?


    PARTE SECONDA

    Del tempo iniziale della vedovanza, tempo di dolore, di lutto strettissimo, con il ricordo di ambizioni e inganni, di fidanzamento e sposalizio, della vita matrimoniale di Vadinho e dona Flor, con fiches e dadi e la dura attesa ormai senza speranza (con in più la scomoda presenza di dona Rozilda)

    (con Edgard Cocô al violino, Caymmi alla chitarra e il dottor Walter da Silveira col suo flauto magico)

    I
    Ora, alla messa di suffragio officiata alla chiesa di Santa Teresa da Don Clemente Nigra — la navata splendida avvolta in una luce mattinale azzurrata e trasparente, proveniente dal mare giù di fronte, quasi la chiesa stessa fosse stata una nave pronta a mollare gli ormeggi — la simpatia e la solidarietà generale, espresse in commenti a mezza voce, andavano a dona Flor, inginocchiata nella prima panca davanti all’altare, tutta in nero, una mantiglia di pizzo nero prestata da dona Norma a coprirle i capelli e le lacrime, un rosario fra le dita. Ma quel bisbiglio pietoso non compativa dona Flor per aver perduto il marito, bensì per averlo avuto. Piegata sull’inginocchiatoio dona Flor non udiva nulla, come se nessun altro fosse stato presente nel santuario, tranne lei, il prete e l’assenza di Vadinho.

    Un coro di beghine, vecchi topi di sacrestia, rancide nemiche dell'’allegria e del riso s’innalzava, insieme con l’incenso, in un acido bisbiglio:

    «Non valeva due soldi di preghiere, quel miscredente.»

    «Se lei non fosse una santa, non una messa avrebbe fatto celebrare, ma una festa, con danze e tutto...»

    «Per lei è stata una liberazione...»

    All’altare, celebrando la messa per l’anima di Vadinho, Don Clemente, macerato dalle veglie su libri antichi, sentiva una specie di perturbazione nell’atmosfera magica del mattino appena ridesto, come se un diavolo qualsiasi, Lucifero o Exu — più probabilmente Exu — stesse vagando libero per la navata. Perché non lasciavano in pace Vadinho, non gli permettevano di riposare? Don Clemente l’aveva conosciuto bene: gli piaceva venire a chiacchierare nel cortile del convento; si sedeva sul muro e raccontare fatti che non sempre s’addicevano a quelle mura, ma che il frate ascoltava con attenzione, curioso e comprensivo com’era di ogni tipo d’esperienza umana.

    C’era nel corridoio fra la navata e la sacrestia una specie d’altare, con un angelo intagliato in legno, scultura d’un ingenuo anonimo, forse del XVII secolo: ed era come se l’artista avesse preso per modello Vadinho. La stessa fisionomia innocente e impertinente, la stessa insolenza, la stessa tenerezza. L’angelo era inginocchiato dinanzi all’immagine ben più recente e barocca d’una Santa Chiara e le tendeva le mani. Una volta Don Clemente aveva condotto Vadinho davanti all’altare con l’angelo, per vedere se si sarebbe accorto della somiglianza. Appena messi gli occhi sulle due immagini Vadinho si mise a ridere.

    «Perché ridi?» chiese il frate.

    «Dio mi perdoni, padre, non sembra che l’angelo stia facendo il filo alla santa?»

    «Stia che cosa? Che modo di esprimersi è questo, Vadinho?»

    «Scusi, Don Clemente, ma è che quest’angelo ha una faccia patita da gigolò... Non pare neanche un angelo... Guardi che occhi... per me le sta facendo l’occhiolino...»

    Voltandosi con le mani alzate, per dare la benedizione dall’altare, Don Clemente vide le beghine che borbottavano; ecco da dove venivano le perturbazioni, da dove proveniva il Maligno! Ah! bocche di fango e malvagità, acide verginità ammuffite, zitellone avide e meschine, al comando di dona Rozilda, «Dio le perdoni, poiché infinita è la sua bontà!»

    «La poverina ha sofferto per colpa di lui. Ha mangiato pane amaro...»

    «Perché l’ha voluto. Non perché le siano mancati consigli da parte mia... Non fosse stata così precipitosa, mi avesse ascoltato... Ho fatto tutto quel che potevo...»

    Così perorava dona Rozilda, madre di dona Flor, nata con la vocazione di matrigna, in uno sforzo diligente per seguire la sua vocazione.

    «Ma lei aveva il tarlo addosso, il fuoco aveva; Dio liberi, non volle ascoltar consigli, si ribellò... E trovò anche chi le dette una mano... trovò una casa dove rifugiarsi...»

    Disse guardando verso la panca dove pregava inginocchiata dona Lita, sua sorella. Completò il suo pensiero:

    «Far dire una messa per quell’avanzo di galera son soldi buttati via, serve solo a riempire la saccoccia del frate...»

    Don Clemente prese il turibolo e lanciò l’incenso contro il fetido alito del demonio che spirava per la bocca delle beghine. Scese dall’altare, si fermò davanti a dona Flor, le mise una mano affettuosa sulla spalla, disse, in modo da essere udito dal sinistro coro delle vecchie pinzochere: «Anche gli angeli traviati trovano posto al lato di Dio, nella sua gloria.»

    «Angelo!... vade retro... quello era un demonio d’inferno,» ringhiò dona Rozilda.

    Don Clemente, un po’ curvo, traversò la navata in direzione alla sacrestia. Nel corridoio si fermò a contemplare quella strana immagine in cui l’artista aveva trasfuso grazia e cinismo ad un tempo. Spinto da quale sentimento, per trasmettere quale messaggio? Posseduto da passioni umane, l’angelo divorava con occhi cupidi la povera santa. Le faceva l’occhiolino, come aveva detto Vadinho nel suo colorito linguaggio: sorriso indecente, faccia sfrontata, nessuna compostezza. Identico a Vadinho, tale somiglianza non s’era mai vista. Non aveva esagerato, lui, Don Clemente, a collocare Vadinho vicino al trono di Dio, nella sua gloria?

    S’avvicinò alla finestra scavata nella pietra, guardò giù nel cortile. Là era solito sedersi Vadinho, sul muro a strapiombo sul mare solcato dai pescherecci. «Padre,» diceva Vadinho, «se Dio voleva davvero far vedere la sua capacità, faceva uscire il 17 dodici volte di fila. Questo sì che era un miracolo di quelli buoni. Allora io venivo e riempivo tutta la chiesa di fiori...»

    «Dio non s’interessa al gioco, figliolo...»

    «Allora padre lui non sa quel che è buono e quel che non è. Quell’angoscia di vedere la pallina che gira, gira e gira, e uno gioca l’ultima fiche col cuore che gli scoppia...»

    E in tono confidenziale, con l’aria di parlare d’un segreto solo suo e del sacerdote:

    «Possibile che Dio non lo sappia, padre?»

    Nell’atrio, dona Rozilda alzava la voce: «Denaro buttato, non c’è messa capace di salvargli l’anima a quel maledetto. Dio è giusto!»

    Dona Flor, lo scialle a nasconderle la faccia dolorosa, appariva dal fondo appoggiandosi a dona Gisa e dona Norma. La chiesa, nella chiarità del mattino, sembrava una nave di pietra a navigare.

    II

    Fu solo il martedì di Carnevale a sera che la notizia della morte di Vadinho raggiunse Nazareth das Farinhas, dove abitava dona Rozilda, col figlio sposato impiegato delle Ferrovie, amareggiando la vita della nuora, schiava al suo dittatoriale comando. Senza por tempo in mezzo si trasportò a Bahia, dove piombò il mercoledì delle ceneri, giorno a lei molto affine, se si deve credere alle parole dell’altro suo genero, Antonio Morais.

    «Quella non è una donna, è un mercoledì di ceneri, stermina il buon umore di chiunque.» Era stato senza dubbio il desiderio di mettere la maggior distanza possibile fra la sua casa e quella della suocera una delle ragioni per cui il Morais risiedeva già da vari anni in un sobborgo di Rio de Janeiro. Abile meccanico, aveva accettato l’invito d’un amico ed era andato a tentare la fortuna al Sud, dove i suoi affari avevano prosperato. Si rifiutava di rimetter piede a Bahia, fosse pure in visita, finché «quella megera appestasse i luoghi».

    Dona Rozilda, tuttavia, non detestava Morais, così come non detestava la nuora. Detestava invece Vadinho, e non aveva mai perdonato a dona Flor quel matrimonio, risultato d’una vile cospirazione contro la sua autorità e le sue decisioni. Per il matrimonio di Morais con la figlia più grande, Rosàlia, se non aveva incoraggiato la faccenda, neppure l’aveva ostacolata, non aveva opposto obiezioni al fidanzamento. Non andava d’accordo né con lui né con la nuora, perché per sua natura dona Rozilda si dedicava attivamente ad infernizzare la vita del suo prossimo. Quando non stava contrariando qualcuno, si sentiva vuota ed infelice.

    Con Vadinho era diverso: l’aveva in avversione fin dai tempi del suo idillio con Flor, dal momento in cui aveva scoperto la rete d’imbrogli e raggiri che l’indesiderabile pretendente le aveva teso. L’aveva preso in odio per sempre, non poteva neppur sentire il suo nome. «Ci fosse una polizia come si deve in questo paese, quella canaglia sarebbe in prigione,» ripeteva a chi le parlava del genero, a chi le chiedeva notizie del mariuolo o lo mandava a salutare. Le rare visite che faceva a dona Flor, erano solo per rovinarle la giornata, parlandole in continuazione ed esclusivamente delle bricconate di Vadinho, della sua vita scostumata, della vergognosa cronaca dei suoi misfatti, scandalo quotidiano e permanente.

    Gridando dalla murata del vaporetto dava libero sfogo alla sua acrimonia, interpellando dona Norma, che su richiesta di dona Flor era venuta ad aspettarla sulla banchina:

    «Finalmente quello scomunicato ha tirato il calzino, eh!»

    Il postale aveva attraccato, affollato d’una moltitudine di gente impaziente, intralciata da pacchi, ceste, borse, fagotti e fagottini, con frutta, farina di tapioca, igname e aipo, carne secca, chuchu e zucche. Dona Rozilda sbarcava vociferando:

    «Gli è venuto un accidente, avrebbe già dovuto schiattare da un pezzo!»

    Dona Norma si sentiva sconfitta: dona Rozilda aveva la capacità di ridurla all’inazione, nello scoraggiamento più totale. La servizievole vicina s’era precipitata sulla banchina di buon mattino, il viso buono traspirante compassione, pronta a consolare una suocera in lutto e in lacrime, a lamentare — in duetto con lei — la precarietà delle cose di questo mondo: oggi uno è vivo e saltellante, domani in una cassa da morto. Avrebbe accolto le lamentazioni di dona Rozilda, le avrebbe servito il lenitivo della rassegnazione alla volontà di Dio: Lui sa quel che fa! insieme avrebbero discusso — la madre e l’amica intima — del nuovo stato di dona Flor, vedova, sola al mondo e ancora cosi giovane. A questo era venuta preparata dona Norma: gesti, parole, atteggiamenti, e tutto sincero e sentito; nel suo modo di essere e di agire non esisteva la benché minima sfumatura d’artificio. Dona Norma si sentiva un po’ responsabile di tutti, era la provvidenza del quartiere: una specie di pronto soccorso del vicinato. Da ogni parte correvano a battere alla sua porta, la miglior casa della strada era la sua — solo quella dell’argentino della fabbrica di ceramiche, quella dei Bernabò, le si poteva paragonare, forse un pochino più lussuosa. Venivano a chiederle in prestito dal sale e dal pepe fino ai piatti per colazioni e pranzi, al vestiario per qualche festa.

    «Dona Norma, dice mamma se le può prestare una tazza di farina, che è per una torta che sta facendo. Poi gliela rende...»

    Era Aninha, la figlia più piccola del dottor Ives, vicino e buon conoscente, la cui moglie, dona Êmina, cantava canzoni arabe accompagnandosi al piano.

    «Ma bambina, la tua mamma non è andata al mercato ieri? Ma che donna smemorata! Una tazza ti basta? Dille che se ne vuole ancora non faccia complimenti...»

    Oppure era il ragazzino di casa di dona Amélia, con la sua voce stridula:

    «Dona Norma, dice la padrona se le può prestare la cravatta nera a farfalla del sor Sampaio, che quella del signor Ruas l’hanno mangiata le tignole...»

    Quando non era dona Risoleta che compariva, drammatica, con la sua solita aria da macerata:

    «Norminha aiutami per amor di Dio.»

    «Che c’è?»

    «Un ubriaco s’è piazzato davanti alla porta di casa e non c’è modo di farlo andar via, come faccio?»

    E dona Norma accorreva, sorridendo riconosceva il tipo:

    «Ma è Bastião Cachaça, un amico... coraggio Bastião, vieni via di lì, va’ a fare un sonnellino nel garage di casa mia...»

    E così il giorno intero: biglietti per chiedere un prestito in denaro, una chiamata urgente per accudire ad un pazzo, per soccorrere un ammalato, senza contare i clienti per le iniezioni: dona Norma faceva concorrenza gratuita a medici e farmacie, per non parlare dei veterinari, visto che tutte le gatte del vicinato venivano a partorire in fondo al suo giardino, dove non mancava mai loro né assistenza né cibo. Distribuiva campioni di medicinali — forniti dal dottor Ives — tagliava abiti e modellini — era diplomata in taglio e cucito — scriveva lettere per le domestiche, dava consigli, ascoltava lamentele, assecondava progetti matrimoniali, favoriva innamoramenti, risolveva

    i  problemi più diversi, sempre di corsa, il che spingeva Zé Sampaio a constatare: «È una che fa di corsa perfino i suoi bisogni, non ha tempo neppure di sedersi sul water...» e s’infilava il pollice in bocca, rassegnato.

    S’era dunque preparata, la buona vicina, a ricevere una dona Rozilda lamentosa, a proteggerla ed accoglierla sul suo petto; e lei invece veniva fuori con quelle assurdità, quasi che la morte del genero fosse stata una notizia festiva. Eccola che scendeva la scaletta, in una mano il classico pacchetto di farina di Nazareth, ben tostata, odorosa, insieme ad una cesta in cui si muoveva indocile una fila di granchi[17] comperata a bordo, e nell’altra l’ombrello ed una valigetta.

    Meno male, pensò dona Norma, non era una grossa valigia da far prevedere un lungo soggiorno; era la valigetta di legno dei viaggi brevi: qualche giorno ed arrivederci alla prossima volta. Si fece avanti per aiutarla ed abbracciarla cerimoniosamente, presentandole le sue condoglianze: per nulla al mondo avrebbe omesso quel triste dovere.

    «Condoglianze... »

    «Condoglianze? A me? No, cara non sprechi la sua cortesia. Per me poteva esser crepato già da un pezzo, non sento la sua mancanza. Ora posso nuovamente battermi la mano sul petto, e dichiarare che nella mia famiglia gente disonorata non ce n’è. E che vergogna, eh? Ha scelto per morire proprio il centro della gazzarra del carnevale, vestito in maschera... per me l’ha fatto apposta.»

    Si piantava davanti a dona Norma, posava in terra la valigetta, la cesta, il pacco, per guardarla meglio, squadrandola da capo a piedi, per poi dirle, in un elogio vigliacco:

    «Eh, sì, sissignora, non è per farle un complimento, ma è ingrassata un bel po’... Ha un bell’aspetto, giovanile, grassoccia ch’è un piacere, Dio la benedica e liberi dal malocchio...»

    Sistemava la cesta, da cui i granchi tentavano di fuggire, proseguiva imperterrita:

    «Così mi piacciono le donne: senza preoccupazioni per tutte le stupidaggini della moda. Quelle che si mettono a fare cure dimagranti finiscono tutte tisiche. Invece lei...»

    «Non me lo dica dona Rozilda. E io che pensavo d’essere dimagrita! Sto facendo un regime di quelli severissimi... La cena l’ho abolita, è un mese che non sento il sapore dei fagioli...»

    Dona Rozilda tornò a squadrarla con occhio critico:

    «Be, non si direbbe...»

    Aiutata da dona Norma recuperò i pacchi; si dirigevano all’Ascensore Lacerda,[18] dona Rozilda senza mai smettere di cicalare.

    «E il sor Sampaio? Sempre ficcato nel letto? Non ho mai visto un uomo più deprimente. Sembra un vecchio cane.»

    Dona Norma non gradì molto il paragone, protestò sorridendo:

    «È il suo carattere... un po’ abulico...»

    Dona Rozilda non era donna da scusare le debolezze di chicchessia:

    «Dio ci liberi, un marito noioso come il suo dev’essere un impiastro. Il mio... il povero Gil... bé, non dirò che fosse una gran cosa, non era certo un santo. Ma in confronto al suo... Ah, gliel’assicuro: io al suo posto non l’avrei sopportato... Un uomo che non esce, non va mai da nessuna parte, imbronciato, sempre ficcato in casa...»

    Dona Norma cercava di riportare la conversazione nella sua direzione logica: in fin dei conti dona Rozilda aveva perduto un genero, era questa la causa del suo viaggio alla Capitale: era di quell’argomento così palpitante e drammatico che dovevano discorrere: a questo era preparata dona Norma:

    «Flor è molto triste e abbattuta, ha risentito molto...»

    «Perché è una debole, una scioccona. È sempre stata cosi, non sembra neppure mia figlia, ha preso tutto dal padre. Lei non l’ha conosciuto il povero Gil: non faccio per vantarmi, ma l’uomo di casa ero io. Lui non apriva bocca, chi decideva di tutto era la sua umilissima serva. E Flor gli somiglia, è venuta fuori una smidollata senza volontà: altrimenti come avrebbe fatto a sopportare per tanto tempo quel bel marito che s’era trovata?»

    Dona Norma considerò fra sé e sé che se il povero Gil non fosse stato anche lui una pera cotta, uno smidollato senza volontà, certamente non avrebbe sopportato per tanto tempo una moglie simile, e compatì la sorte del padre di dona Flor. E quella di dona Flor, minacciata ora da frequenti visite della madre, capace perfino — chissà — di venire a stabilirsi in casa della figlia vedova, corrompendo l’atmosfera cordiale del Sodré e dintorni.

    Al tempo di Vadinho, quando dona Rozilda appariva, era di corsa, in rapido passaggio: giusto il tempo di parlar male del genero e riprendere la via del ritorno, prima che arrivasse il maledetto con i suoi scherzi di cattivo gusto. Perché con Vadinho dona Rozilda non era mai riuscita ad avere la meglio; non lo aveva mai dominato, non era neppur mai riuscita ad innervosirlo, ad irritarlo. Come la vedeva in atto di spettegolare, s’abbandonava alle risate, mostrando la più grande soddisfazione, quasi fosse stata, la suocera, la sua visita preferita, quello scostumato:

    «Guarda guarda chi c’è: la mia suocerina santissima, la mia seconda mammina; questo cuor d’oro, questa colomba senza fiele. E la linguina come va? Sempre ben affilata? Sieda qui santa donnina, vicino al suo generino preferito, che ci mettiamo a razzolare in tutta l’immondizia di Bahia...»

    E rideva, di quella sua risata sonora e allegra d’uomo smaliziato e soddisfatto della vita: se neppure tante cambiali in scadenza, tanti debiti in giro, tanta penuria di denaro e tanta urgenza di contante per il gioco riuscivano a rattristarlo, o esasperarlo, come poteva dona Rozilda alimentare qualche speranza in proposito? Per questo lo odiava, e per ciò che aveva combinato nei primi tempi in cui amoreggiava con dona Flor.

    Con un rabbioso voltafaccia abbandonava il campo di battaglia, accompagnata dalla risata di Vadinho; andava a vendicarsi su dona Flor, accusandola in piena strada, in tempestosi comizi:

    «Mai più rimetterò piede in questa casa, figlia maledetta! Tieniti quel cane di tuo marito, permettigli d’insultare tua madre, dimentica il latte che hai succhiato... me ne vado prima che mi metta anche le mani addosso. Non sono come te che ci provi gusto a prenderle...»

    Con la risata di Vadinho che la inseguiva per gli angoli delle strade, scoppiando nei vicoli, in un arpeggio di scherno, dona Rozilda perdeva la testa. Una volta la perse del tutto e, dimentica della sua condizione di signora vedova e decorosamente riservata, si piantò nel bel mezzo della strada piena di gente, e voltandosi verso la finestra vicino a cui il genero si buttava via dalle risate, gli sbucciò col braccio un grappolo, se non addirittura un casco intero di banane.[19] Accompagnava il gesto grossolano con una pioggia d’insulti e maledizioni, pronunziati con voce strangolata:

    «Prendi su, sporcaccione, indecente, prendi e mettitelo...»

    Scandalizzati i passanti, il grave professor Epaminondas, l’imperturbabile dona Gisa.

    «Che donna scomposta...» criticava il professore.

    «Un’isterica,» diagnosticava la professoressa.

    Pur conoscendo bene dona Rozilda, per aver presenziato a quella e ad altre scene furibonde, abituata com’era al carattere difficile, all’acidità congenita dell’altra, dona Norma, facendo la fila davanti all’Ascensore Lacerda, tornava ancora una volta a stupirsi. Non avrebbe mai immaginato che l’antipatia fra suocera e genero potesse durare oltre la morte, senza che dona Rozilda concedesse al defunto una sola parola di rimpianto, ancorché vuota di sentimento, pura formalità, pronunziata solo con la bocca. Ma neppure quella:

    «Perfino l’aria che si respirava qui è diventata più leggera da quando quel disgraziato ha tirato le cuoia.»

    Dona Norma non ce la fece a trattenersi:

    «All’anima! Ce l’aveva proprio con Vadinho, eh?»

    «Diamine, e non ce la dovevo avere? Un vagabondo senz’arte né parte, un ubriacone giocatore che non valeva niente... E s’insinuò in casa mia per far girare la testa a mia figlia, portò via di casa quella sciagurata per vivere alle sue spalle...»

    Giocatore, beone, vagabondo, cattivo marito, tutto vero, rifletté dona Norma pensierosa. E tuttavia, come si poteva continuare ad odiare oltre la morte? Non è forse vero che si deve spazzar via e seppellire, ogni risentimento, ogni discordia, col funerale del defunto? Nossignori, non era affatto questa l’opinione di dona Rozilda:

    «Mi chiamava vecchia ficcanaso, non mi ha mai portato rispetto, mi rideva in faccia. M’ingannò fin dall’inizio, mi fece passare da scema, mi trascinò sulla via dell’amarezza... Perché mai me ne dovrei dimenticare? Solo perché è morto e seppellito? Solo per questo?»

     

    III

    Nel dipartirsi da questa per passare a miglior vita, il compianto Gil, lo smidollato privo di volontà di cui sopra, lasciò la famiglia in gravi ristrettezze, in situazione precaria. Nel suo caso l’espressione «partì da questa per passare a miglior vita» non era semplicemente una frase fatta, un luogo comune, ma la pura verità. Qualsiasi cosa l’aspettasse nel mistero dell'Aldilà: un paradiso di luci, musiche, angeli radiosi; un tenebroso inferno con pentoloni in ebollizione, o un umido limbo; un vagabondare senza fine per gli spazi siderali, o il nulla, il non-essere e basta, qualsiasi cosa avrebbe rappresentato un notevole miglioramento, a paragone della vita con dona Rozilda.

    Magro e silenzioso, ogni giorno più magro e più silenzioso, il sor Gil sostentava la sua tribù con i magri proventi di certe rappresentanze modeste: articoli di scarsa domanda, scarso guadagno: appena il sufficiente per la spesa: la sbobba giornaliera, l’affitto dell’appartamento al 1° piano della Ladeira[20] do Alvo, il vestiario dei bambini, le pretese borghesi di dona Rozilda, con la sua mania di grandezza, la sua ambizione a convivere con le famiglie più importanti, a penetrare nei circoli della gente abbiente. Dona Rozilda aveva a noia la maggior parte dei vicini, gente dimenticata dalla fortuna: commessi di negozio, impiegatucci, commessi viaggiatori, sartine. Disprezzava tutta quella gentaglia, incapace di nascondere la propria povertà; si dava un sacco d’arie, piena di boria, e cortese solo con pochi eletti fra gli abitanti della Ladeira, le «famiglie di rappresentanza», come andava ripetendo al povero Gil, quando lo prendeva in flagrante a bere una birretta nella poco raccomandabile compagnia di Cazuza Imbuto, giocatore e stoccatore che posava a filosofo, uno degli inquilini più discutibili della Ladeira do Alvo. Imbuto, sarà necessario chiarirlo? non era il suo cognome, ma un soprannome fin troppo significativo, con chiara allusione alla sua gola sempre aperta, alla sua sete insaziabile.

    E perché Gil non frequentava invece il dottor Carlos Passos, medico di vasta clientela, l’ingegner Vale, pezzo grosso dell’Assessorato ai Lavori Pubblici, il telegrafista Peixoto, signore d’una certa età, alla vigilia della pensione, dopo aver raggiunto i più alti gradi nell’amministrazione delle Poste, o il giornalista Nacife, giovane ancora, ma capace di mettere insieme un bel po’ di soldini con la sua pubblicazione Il Negoziante Moderno dedita, a suo stesso dire, alla «intransigente difesa del commercio baiano». Tutti questi, vicini anch’essi della Ladeira, i vicini «di rappresentanza»? Quello sprovveduto del marito non era neppure capace di scegliersi le amicizie quando non si trovava al «Ponto Fino», bar della Baixa dos Sapateiros, con Imbuto, s’infilava in casa di Antenor Lima, a giocare a tric-trac o a dama, forse il solo vero divertimento della sua vita. Antenor Lima, proprietario d’un negozio al Taboão, e uno dei clienti più importanti di Gil, avrebbe anche potuto essere classificato fra i vicini di rappresentanza, non fosse stato il suo legame, pubblico e notorio, con la negra Juventina, un tempo sua cuoca, ora installata alla finestra della casa del negoziante, con una donna a farle i servizi, insolente e linguacciuta: i suoi battibecchi con dona Rozilda avevano fatto epoca alla Ladeira do Alvo. Orbene, sul marciapiede di quel rifiuto andava a far salotto Gil, tutto salamelecchi per quell’ordinaria, come se fosse stata una vera signora, sposata davanti al prete e davanti al sindaco.

    A nulla servivano gli sforzi di dona Rozilda per farsi delle amicizie influenti: la famiglia Costa, discendente d’un vecchio politico e proprietaria di terreni immensi nel Matatu — il vecchio uomo politico era diventato perfino nome d’una strada e il nipote, Nilson, era banchiere e industriale; i Marinho Falcão di Feira de Sant’Ana nel cui magazzino aveva fatto il suo apprendistato il sor Gil da ragazzo — era stato il signor João Marinho a prestargli la somma necessaria per iniziare la sua attività nella Capitale; il dottor Luis Henrique Dias Tavares, Capo Divisione in un ministero, una testa fina che firmava articoli sui giornali, e il cui nome sonoro dona Rozilda si faceva rotolare in bocca con un sapore di parentado:

    «È mio compare, ha battezzato il mio Heitor.»

    Citando tali sue relazioni altolocate per schernire quelle di Gil, dona Rozilda interrogava drammatica i vicini, la ladeira, la città, il mondo intero: che male aveva mai fatto per meritarsi da Dio il castigo di quel marito incapace di procurarle un livello di vita degno di lei, all’altezza del suo lignaggio e di quello dei suoi amici? Tutti i rappresentanti del mondo prosperavano, ampliando studio e clientela, vedendo crescere le vendite di mese in mese, ottenendo nuove importanti rappresentanze. Molti si compravano una casa, o almeno un terreno, per costruirci la casa più tardi. Alcuni si permettevano anche il lusso della macchina, come un loro conoscente, Rosalvo Medeiros, un alagoano sbarcato pochi anni prima da Maceió con una mano davanti e l’altra dietro, mani che si appoggiavano ora, ambedue, sul volante d’una Studebaker. Ed era diventato così signore, quel Rosalvo, che un giorno, passando per la via Cile, non aveva riconosciuto dona Rozilda e per poco non l’aveva messa sotto quando lei, a piedi e tutta amabilità, s’era buttata davanti alla macchina, ansiosa di salutare il prospero collega del marito. Non solo il tipo le aveva fatto prendere uno spavento del demonio attaccandosi al clacson, ma l’aveva anche insultata, gridandole dietro parole ingiuriose:

    «Ti puzza la vita, pidocchio di cobra?»

    In tre o quattro anni, a forza di prodotti farmaceutici, chiacchiere e cordialità, quel villanzone s’era fatto la macchina, era socio del Club Baiano di Tennis, intimo di politici e ricconi, un hidalgo, signori miei, pieno di boria come se si portasse un re in pancia. Dona Rozilda digrignava i denti dalla rabbia: e quello stupidone di Gil?

    Ah, Gil vegetava, a piedi o in tram, con il suo campionario di stringhe, bretelle, colletti e polsini duri, specializzato in prodotti fuori moda, ridotto ad una piccola clientela di negozietti dei sobborghi, di mercerie antiquate. Non si espandeva in altre direzioni, aveva segnato il passo tutta la vita. Nessuno credeva nelle sue capacità, neppure lui.

    Un giorno si sentì stanco di tante lamentele e reclami, di tanto applicarsi senza risultato e senza gioia. Pòrto, cognato di sua moglie, marito di Lita, la sorella di Rozilda, faceva anche lui una gran fatica a combinare il pranzo con la cena, andando ad insegnare disegno e matematica in un istituto statale per artigiani, sperduto nelle lontananze del Paripe. Tutte le mattine un viaggio in treno, alzandosi col sole per rientrare solo a pomeriggio inoltrato.

    Ma la domenica usciva per le vie della città con una cassettina di colori sotto il braccio a dipingere case ed edifici a tinte vivaci, e da quella occupazione gli derivava tanta gioia, che non lo si vedeva mai di malumore o malinconico. È anche vero che aveva sposato Lita, non Rozilda, e Lita, l’opposto di sua sorella, era una cara donnina la cui bocca non si era mai aperta per fare della maldicenza su chicchessia.

    Gil non faceva progressi neppure alla dama ed al tric-trac, e Antenor Lima lo accettava come avversario solo quando non ne aveva sotto mano uno più forte; quanto al sor Zeca Serra, campione della Ladeira, neppure così per passare il tempo: non c’era gusto a giocare con un avversario così mediocre, maldestro e disattento. E come se non bastasse, dona Rozilda aveva preteso che troncasse definitivamente le sue relazioni con Cazuza Imbuto, proprio nel momento in cui l’amico, molto giù di morale e appena fuori di prigione, aveva più bisogno di solidarietà. E lui, Gil, totalmente spregevole, tagliava per vie traverse allo scopo di evitarlo, ligio agli ordini della moglie.

    Ne concluse che il suo faticoso arrangiarsi non serviva a niente, e approfittò d’un giorno d’inverno più umido degli altri per prendersi una piccola polmonite di quelle a buon mercato — neppure una polmonite doppia, ironizzò il dottor Carlos Passos — ed emigrare verso la zona astrale. Lo fece silenziosamente, con una tosse discreta e timida. Fosse stato un altro ce l’avrebbe fatta, avrebbe superato la malattia, poco più d’una banale influenza. Ma Gil era stanco, così stanco! Non aveva voglia d’aspettare una malattia rispettabile e grave. E poi non si faceva illusioni; le malattie importanti, di qualità, malattie alla moda, care, di cui i giornali parlano, non erano fatte per lui: meglio contentarsi della sua meschina polmonite. Così fece e, senza dir nulla, abbandonò il corpo, si mise a riposo.


    IV

    Da tempo dona Rozilda controllava con mano ferrea gli scarsi proventi delle rappresentanze del marito, consegnando ogni settimana al rappresentante i pochi spiccioli necessari per il tram e per il pacchetto delle sigarette «Aromatic»: un pacchetto ogni due giorni. Ma malgrado ciò il denaro economizzato bastò a malapena per le spese del funerale, dei vestiti a lutto, dei giorni di lutto stretto. Commissioni da ritirare sulle ultime vendite quasi non ce n’erano, una bagattella, e dona Rozilda si trovò con un ragazzino ginnasiale e due figlie giovinette da tirar su — delle quali Flor appena adolescente — e senza nessuna fonte di guadagno.

    Né perché la brava donna era quella che era, agra, rude, di convivenza sgradevole e difficile, non per questo si debbono negare od occultare le sue qualità, la sua decisione e forza di volontà, e tutto ciò che essa fece per completare l’educazione dei figli e mantenerli almeno nella posizione in cui li aveva lasciati l’improvvisa morte del marito, senza dover rotolar giù dalla Ladeira do Alvo, giù per angoli di strada, o per le sordide stanzucce dei casermoni del Pelourinho.

    Si attaccò alla casa con tutta la sua violenta ostinazione. Cambiar casa, traslocando di là per andare a vivere in un’abitazione più a buon mercato, avrebbe significato la fine di tutte le sue speranze d’ascesa sociale. Bisognava mantenere Heitor agli studi fino alla fine della scuola secondaria, poi impiegarlo e sposare le ragazze: sposarle bene. Ma per questo era necessario non scendere, non lasciarsi trascinare dalla povertà senza maschera, senza pudore né vergogna, esposta e sfacciata. Lei, dona Rozilda, si vergognava della povertà, come di un delitto che meritasse castigo.

    Doveva restare ad ogni costo nell’appartamento della Ladeira do Alvo. Questo spiegò al cognato, quando lui venne ad offrire in prestito le economie di dona Lita (che dona Rozilda restituì poi, soldo su soldo, sia detto a suo onore). Niente casa ad un fitto ragionevole nelle plaghe deserte del quartiere della Plataforma, né sottosuolo abitabile alla Lapinha, né una camera e salottino in subaffitto alle Porte del Carmine: si mantenne piantata alla Ladeira do Alvo, nella casa dall’affitto relativamente alto, specie per chi, come lei, non disponeva di entrate, né consistenti né scarse.

    Di là, dagli ampi balconi del primo piano, poteva guardare all’avvenire con fiducia: non tutto era perduto. Avrebbe modificato leggermente i suoi piani, senza peraltro desistere dalle sue pretese. Se avesse ceduto subito, abbandonando la casa ben messa, con tappeti e tende, per andare ad abitare in un ghetto qualsiasi, non le sarebbe stato più possibile nutrire speranze né illusioni. Avrebbe visto Heitor dietro il banco d’un negozio di alimentari o, al gran massimo, picco

    lo commesso di negozio, per tutta la vita; avrebbe visto le ragazze assoggettate allo stesso destino, se non addirittura garçonnettes di bar o caffè, esposte alla libidine di padroni e clienti, in cammino sicuro verso la zona del porto, verso l’orrore delle strade delle donne di vita. Di là, da quella casa poteva resistere a tutte le minacce. Abbandonarla avrebbe significato abbandonare la lotta.

    Per questo rifiutò l’offerta di un posto di commesso per Heitor, fatta da Antenor Lima. Così come non volle neppur discutere con Rosàlia, quando questa s’offrì d’accettare una specie d’impiego di reception girl o segretaria, alla «Foto Elegante», dove Andrés Gutiérrez, uno spagnolo bruno dai baffetti ben curati, sfruttava l’arte fotografica nelle sue forme più molteplici: dalle istantanee 3x4 per documenti (consegna in 24 ore) agli «incomparabili ingrandimenti a colori, vere meraviglie», passando per i ritratti dei più diversi formati e le foto per immortalare battesimi, matrimoni, prime comunioni ed altri eventi festivi, degni d’essere consegnati all’eternità ingiallita degli album di famiglia. Ovunque vi fosse una foto da scattare, compariva il Gutiérrez, con la sua macchina ed il suo aiutante, un chiacchierato cinese, tanto vecchio da non aver neppure più età, incartapecorito e sospetto. Circolavano strane voci, che erano giunte alle orecchie di dona Rozilda, sempre dritte per captare tali chiacchiere, a proposito di quell’Andrés, la sua «Foto Elegante», il suo aiutante e l’estensione dei suoi affari. Dicevano fossero di produzione della ditta certe cartoline che il cinese vendeva in busta chiusa, espressione sublime della più pura arte naturalistica, «nudi artistici» di grande successo. Per quelle foto, a detta delle comari, posavano ragazzine povere e facili, in cambio di qualche spicciolo. Di passaggio usava di loro l’Andrés e forse, chissà, anche il cinese: le beghine riportavano cose orripilanti su quell’atelier fotografico. Non c’è quindi da meravigliarsi se dona Rozilda saltò addosso alla figlia quando questa, entusiasta ed ingenua, le rivelò l’offerta dello spagnolo:

    «Se mi riparli di questa storia ti strappo la pelle di dosso, te ne dò tante che finisci all’ospedale...»

    Ad Andrés minacciò carcere e morte, sbattendogli sul muso tutte le relazioni influenti che aveva: venisse a stuzzicare sua figlia e avrebbe visto, gallego porco d’una figa, con tutte le sue zozzerie, il suo libertinaggio; lei, dona Rozilda, sarebbe andata alla polizia...

    Andrés, con la mosca al naso anche lui, caratteraccio di spagnolo, l’aveva ripagata della stessa moneta. Cominciò col puntualizzare che gallego era quel cornuto del padre di dona Rozilda: ma come, lui, mosso a compassione dalla situazione della famiglia dopo la morte del signor Gil, uomo educato e dabbene, meritevole d’una moglie migliore, veniva ad offrire un impiego alla ragazza che conosceva a malapena, al solo scopo di aiutarla, e come tutta ricompensa eccoti quella vacca isterica a gridare davanti alla porta del suo atelier, a minacciare dio e il mondo, inventando storie, calunnie miserabili? Se non chiudeva immediatamente quella latrina che usava come bocca (andasse all’inferno, e piuttosto alla svelta anche) a chiamare la polizia sarebbe stato lui, Andrés, cittadino rispettabile, con ditta propria, ossequiante alle leggi, in pari con le tasse; lui, andaluso di buon ceppo — e quella strega a chiamarlo gallego... indifferente alla disputa, il cinese si puliva le unghie con un fiammifero, unghie lunghe come artigli che, secondo le malelingue...

    Vere o non vere quelle storie eccitanti, dona Rozilda non aveva allevato le figlie, non le aveva tirate su abili nei lavori di casa e gentili, per gli appetiti di nessun Andrés Gutiérrez, andaluso, gallego o cinese poco le importava... le figlie erano ora il suo timone per cambiar rotta al destino; la sua scala per salire, per elevarsi. Rifiutò altri impieghi da gente meglio intenzionata, per Rosàlia e Flor: non voleva che le ragazze fossero esposte al pubblico e ai pericoli. Luogo adatto per le fanciulle è in casa, loro mèta il matrimonio — questo pensava dona Rozilda. Mandare le figlie dietro al banco d’un negozio o alla cassa d’un cinema, nella sala d’aspetto d’un medico o d’un dentista, significava arrendersi, confessare la propria povertà, metterla in mostra, piaga repellente e pestifera. Avrebbe fatto lavorare le ragazze, questo sì, ma in casa, alle faccende destinate loro in vista d’un futuro fidanzamento e matrimonio. Se prima lavori domestici e matrimonio occupavano un posto importante nei piani di dona Rozilda, essi si trasformavano ora nella chiave di volta dei suoi progetti.

    Quando Gil era vivo, dona Rozilda aveva progettato di mandare il figlio all’Università, di farne un medico, un avvocato, un ingegnere e, appoggiata al suo diploma di medico, diploma universitario, ascendere all’élite, brillare fra i potenti del mondo. L’anello professionale[21] splendente al dito di Heitor, sarebbe stata la chiave che le avrebbe aperto la porta della gente di alto bordo, di quel mondo chiuso e distante delle zone residenziali della Vitória, del Canela, della Graça. Insieme a questo, e sua diretta conseguenza, sarebbero venuti i bei matrimoni delle ragazze con colleghi del figlio, dottori di alto lignaggio e di grande avvenire.

    La morte di Gil rendeva inattuabile quel piano a lunga scadenza: Heitor era ancora al ginnasio, gli mancavano due anni per completare gli studi secondari — era rimasto indietro, aveva ripetuto qualche anno. Come fare a mantenerlo all’Università per altri cinque o sei anni, studi lunghi e costosi? Con sforzo e sacrificio si sarebbe potuto continuare a mandarlo a scuola — frequentava il ginnasio Statale di Bahia, statale e quindi gratuito — fino a quando non avesse completato il corso secondario. Con in mano il diploma del corso secondario, gli sarebbe stato possibile sfuggire ai miseri impiegucci del commercio, la vita intera passata a segnare il passo col metro in mano. Avrebbe potuto ottenere un posto in banca oppure, perché no? una sinecura ufficiale, un impiego statale con diritti e garanzie, gratifiche e aumenti, promozioni, abbuoni ed altri vantaggi. Per questo, dona Rozilda contava sulle sue relazioni influenti.

    Più non contava, tuttavia, sul titolo di dottore, l’anello, emblema della categoria, splendente — smeraldo, rubino o zaffiro — al dito del figlio, per raggiungere le sospirate altezze. Un peccato, ma non c’era nulla da fare; ancora una volta quel pezzo di sterco di suo marito le aveva rovinato i piani con quella sua morte idiota.

    Non poteva più, però, mandare a monte i suoi nuovi piani, ri- strutturati durante i giorni di lutto più stretto. In quei nuovi piani, la chiave maestra per aprire le porte del comfort e del benessere era il matrimonio, quello di Rosàlia e di Flor. Sposarle («sistemarle» diceva dona Rozilda) meglio che fosse possibile, con ragazzi di grande nome, progenie di famiglie distinte, figli di colonnelli[22] proprietari di terre, o di grossi commercianti (possibilmente all’ingrosso) — solidamente stabiliti, con denaro e credito in Banca. Se questa era la mèta da raggiungere, perché esporre le ragazze in impiegucci da quattro soldi, perché esibirle come poveracce la cui grazia e giovinezza malvestite avrebbero risvegliato nei ricchi e negli importanti unicamente gli istinti più bassi, i desideri peccaminosi, procurando loro proposte, certamente, ma di ben diversa natura da quella di un onesto fidanzamento e matrimonio?

    Dona Rozilda voleva le figlie in casa, riservate, ad aiutarla, col loro lavoro e col loro comportamento, a conservare quell’apparenza di benessere, a rinsaldare quella maschera di gente, se non opulenta, almeno abbastanza agiata e di buona educazione. Quando le ragazze uscivano, in visita a qualche famiglia amica, per le matinés domenicali al cinema, o per qualche festicciola in casa di amiche, andavano tutte in ghingheri, ben vestite, con l’aspetto illusorio di ereditiere ben abituate. Dona Rozilda era economa, contava fino gli spiccioli, ma non tollerava sciatteria nel vestiario delle figlie, neppure nell’intimità domestica. Le esigeva impeccabili, in grado di accogliere in qualunque momento il principe azzurro, quando questo si fosse presentato. A tale scopo dona Rozilda non risparmiava sforzi.

    Una volta Rosàlia fu invitata ad una festicciola per il compleanno della figlia più grande del dottor João Falcão, un pezzo grosso: palazzina con lumiere di cristallo, posaterie d’argento, camerieri in giacca bianca. Gli altri invitati, tutta gente fine, ricca da non saper che fare dei soldi, appartenente alla miglior società: bisognava vedere che lussi. Ebbene, Rosàlia ebbe un gran successo, era quella che si presentava meglio, la più chic; al punto che la gentile padrona di casa, dona Detinha, ne fece gli elogi:

    «La più bella di tutte... Rosàlia, deliziosa... una bambola...»

    Sembrava effettivamente la più ricca ed aristocratica di tutte. Eppure là si trovavano le ragazze più ricche e di miglior famiglia della crème locale: figlie di laureati e medici, alti funzionari e banchieri, grossi commercianti e negozianti. Col suo colorito olivastro, soave e pallido, era la più autenticamente bianca di tutte quelle bianche raffinatissime, baiane pure in tutti i toni del bruno, detto qui fra noi — e che nessuno ci senta — meticce della più fine e bella qualità mulatta!

    Nessuno, vedendola così elegante, avrebbe immaginato che quel vestito, il più elegante della festa, fosse opera sua e di dona Rozilda: il vestito e tutto il resto, non escluso un paio di scarpe vecchie trasformate in un capolavoro di raso. Fra le abilità di Rosàlia la più eminente era il cucito: tagliava e cuciva, ricamava e lavorava a maglia.

    Sì, erano loro, le ragazze, con le loro molteplici attività, sotto la ferrea direzione di dona Rozilda, le autrici di quel miracolo di sopravvivenza: Heitor intento a terminare il ginnasio, l’affitto dell’appartamento del primo piano pagato sempre alla scadenza, così come le rate della radio e del fornello nuovo, e per di più qualche soldo messo da parte per terminare il corredo delle ragazze, per gli abiti di nozze, il velo, il diadema di fiori; così che lenzuola e federe, camicie e sottovesti, s’andavano a poco a poco accumulando nei bauli.

    Erano loro, le ragazze. Rosàlia a pedalare alla macchina cucendo per fuori, tagliando abiti, ricamando bluse raffinate. Flor da principio preparando vassoi di dolci e salatini per qualche festicciola familiare, piccole riunioni, compleanni, prime comunioni. Se il cucito era il forte di Rosàlia, la cucina era il debole della sorella più giovane: aveva per natura la scienza del punto giusto di cottura, il dono di saper scegliere gli ingredienti. Fin da bambina faceva torte e manicaretti, sempre intorno ai fornelli ad imparare i misteri dell’arte suprema con zia Lita, donna esigente. Lo zio Pòrto, a parte la pittura domenicale, non aveva altri vizi se non il gusto per la buona cucina. Era un frequentatore di carurus[23] e sarapateis,[24] perso dietro a una buona feijoada[25] o un buon lesso con molte verdure. Dai vassoi di sfogliatelle e polpettine, dalle ordinazioni per i pranzi del vicinato, dona Flor avrebbe preso l’avvio per la compilazione di ricette, per le lezioni e, finalmente, per la Scuola di Culinaria.

    Una delle ragazze alla macchina, a tagliare e cucire, l’altra in cucina ai fornelli, dona Rozilda al timone, proseguivano la traversata. Modestamente, mediocremente, in attesa dei cavalieri erranti che sarebbero apparsi d’improvviso, durante una festa o una passeggiata, coperti di denaro e di titoli. Il primo avrebbe rapito Rosàlia, il secondo avrebbe condotto via Flor, ambedue al suono della marcia nuziale, verso l’altare e il lieto mondo dei potenti. Rosàlia per prima perché era la più grande.

    Pertinace dona Rozilda stava in vedetta, aspettandosi di veder spuntare all’angolo quel genero d’oro e d’argento tempestato di brillanti. A volte la prendeva lo scoraggiamento: e se il principe incantato non fosse mai venuto? Era già tempo che si facesse vedere, non si poteva aspettare tutta la vita, le ragazze stavano arrivando all’irrequieta età del maschio. Rosàlia, vent’anni sciorinati in sospiri alle finestre, stufi del pedale della macchina da cucire, reclamava con urgenza quel duca, quel conte, quel barone. Quando aveva intenzione di venire a liberarla? Un così gran ritardo, un’attesa così faticosa che Rosàlia non avesse a trovarsi d’improvviso negletta e dimenticata, zitellona, donzella incallita, con quell’odore inacidito di verginità stantia, cui alludeva sorridendo il bonario zio Pòrto, ogni volta che si burlava dei pruriti aristocratici della cognata.

    Di tanto in tanto Rosàlia se lo figurava l’atteso pretendente: alle feste da ballo più esclusive, durante le visite a casa dello zio Pòrto al Rio Vermelho, in matinés al cinema, oppure al volante d’una piccola automobile veloce; tutto in bianco in una domenica di regate, universitario dalla goliardia scatenata o studioso dalle braccia cariche di grossi volumi di scienza; agile nelle acrobatiche figure d’un tango argentino danzato con perfezione; romantico al suono d’una serenata notturna.

    Anche dona Rozilda aspettava, aumentava d’impazienza: quando, quando sarebbe arrivato lui, il genero annunziato, il milionario, il lord, il dottore in toga e tocco, il commerciante della città bassa, il piantatore di caffè o tabacco, il proprietario di negozio, e sia pure anche di merceria; nella peggiore delle ipotesi il laborioso straniero col suo negozio di pizzicagnolo, quando?

     

    V

    Tanto tempo aspettarono: settimane, mesi, anni, così ben messe ed accomodate, e nessun cavaliere si fece vivo; né giovani aristocratici della Barra o della Graça, né figli di colonnelli del cacao; nessun signore del commercio più raffinato e neppure un portoghese arricchito nel duro lavoro della drogheria o della panetteria. Chi si presentò, invece fu Antonio Morais, con la sua officina meccanica, la sua abilità di autodidatta, la sua onesta tuta macchiata di grasso. Arrivò al momento giusto e perciò fu ben accolto. Già Rosàlia piangeva lacrime di fanciulla condannata alla solitudine e alla bigotteria, dona Rozilda non ebbe la forza di opporsi. Non era quello il genero prefigurato durante le lunghe veglie di lavoro alla macchina da cucire o nel calore dei fornelli. Tuttavia non poteva più, con considerazioni varie o con la sua ira minacciosa, trattenere l’impeto frustrato di Rosàlia, con i suoi venti (e passa) anni fiorenti che reclamavano un marito.

    Inoltre, pur se Antonio Morais non era né ricco né importante, tuttavia almeno non dipendeva da un padrone, aveva una piccola officina in proprio con buona clientela, guadagnava abbastanza da poter mantenere moglie e figli. Dona Rozilda s’inchinò dinanzi ai decreti del destino. Un po’ a forza, ma s’inchinò, che altro poteva fare?

    A quell’epoca, grazie all’intervento del suo padrino, dottor Luis Henrique, Heitor aveva già avuto il posto alle Ferrovie di Nazareth, ed era andato a vivere nella piccola città del Recôncavo, da dove solo raramente si muoveva per venire nella Capitale. L’impiego offriva buone prospettive, dona Rozilda non aveva di che preoccuparsi per lui. Anche Flor aveva cominciato a dar lezioni di culinaria a ragazze e signore, guadagnando denaro e fama di ottima insegnante. Ora era lei che sosteneva la maggior parte delle spese di casa, perché Rosàlia, spaventata dal correre del tempo, spendeva tutto ciò che guadagnava in abiti, scarpe, profumi, trine.

    Antônio Morais aveva notato Rosàlia alla matiné del cinema Olimpia, in un giorno di avanspettacolo quando, oltre ai due film e al filmetto a puntate, l’impresario, il signor Motta, presentava al suo pubblico alcuni artisti di passaggio da Bahia, resti di troupes di guitti dissolte durante qualche tournée in provincia, stelle affamate dalla luce offuscata. Mentre «Mirabel, sogno sensuale di Varsavia», polacca veneranda rotta a tutte le guerre, a tutte le ribalte, ai letti di tutte le «case», agitava un antico deretano avvizzito, per maggior gaudio degli adolescenti ivi convenuti ad educarsi, Antonio Morais avvistò nelle prime file dona Rozilda, con le due figlie: Rosàlia nel pieno della sua eccitata attesa, Flor dai seni e le anche appena sbocciami.

    Non più il meccanico ebbe occhi per il logorato sculettare del «sogno di Varsavia». Lo sguardo petulante di Rosàlia incrociò la sua occhiata supplice. All’uscita il giovane accompagnò a prudente distanza madre e figlie, localizzando l’abitazione borghese della Ladeira do Alvo. Rosàlia comparve un istante sul balcone. Lasciò dietro di sé, svolazzante, un sorriso.

    Il giorno seguente dopo pranzo Antonio Morais penava su e giù per l’Erta, si attestava sul marciapiede di fronte alla casa. Dalla finestra occhieggiava Rosàlia, incoraggiante. Il meccanico passeggiava su e giù, gli occhi incollati al balcone, fischiettando. Dopo un po’ Rosàlia, scortata da Flor, apparve sulla scala. Col passo furtivo d’un predone s’accostò il Morais.

    Dona Rozilda, sempre all’erta, già al cinema s’era accorta della manovra. E vedendo Rosàlia focosa e indocile era andata a chiedere informazioni sul tipo. Antenor Lima lo conosceva, fornì notizie concrete e favorevoli: meccanico abilissimo, officina propria al- Galés, un mostro sul lavoro. Ancora bimbo, a nove anni, Antonio Morais aveva perso padre e madre in un incidente d’autobus, s’era trovato solo in mezzo ad una strada. Ma invece d’unirsi ai piccoli delinquenti dell’arenile e partire alla ventura per una vita di vagabondaggio e d’illegalità, s’era messo a servizio di Pié di Mola, un negro più alto della Cattedrale, meccanico di mestiere e brav’uomo. All’officina il ragazzino faceva un po’ di tutto, utensile per tutti i servizi, intelligente come non ce n’era un altro. Senza un salario fìsso, ma col diritto di dormire in officina, per non parlare delle mance alcune delle quali consistenti. Da solo aveva imparato a leggere e scrivere, con Pié di Mola aveva imparato il mestiere, ed ancora giovane aveva cominciato a lavorare per conto proprio, facendo del lavoro straordinario. Aveva le mani agili ed una buona testa: i motori delle macchine non avevano segreti per lui, per la sua curiosità. Non era certo né un dottore né un figlio di famiglia ricca, ma pochi meccanici potevano gareggiare con lui. Aveva un guadagno sicuro, sarebbe stato un ottimo marito, che diavolo poteva pretendere di più Rosàlia, che non era né una principessa né una proprietaria di terreni da cacao? Questo chiedeva senza tanti complimenti il Lima alla vicina attaccabrighe e brontolona.

    Altri conoscenti confermarono l’ampia cronaca del commerciante e dona Rozilda, dopo essersi consigliata col compare, dottor Luís Henrique, un ruybarbosa[26] di sapienza — consigli inestimabili i suoi — e dopo aver lungamente pesato i prò e i contro, decise a favore del meccanico.

    Non era quello, come andava ripetendo, il genero dei suoi sogni, il principe di sangue nobile dai forzieri pieni d’oro. Sangue nobile il Morais ne aveva ereditato soltanto da un antenato distante, Obitikò, principe africano sbarcato a Bahia da una nave negriera: sangue blu che si sarebbe mischiato col sangue plebeo di portoghesi deportati e mercenari olandesi. Dal miscuglio era venuto fuori un mulatto chiaro dal sorriso facile, un moretto simpatico.

    Quanto ai forzieri d’oro, nella calza dei risparmi del meccanico non c’era neanche abbastanza per metter su casa immediatamente. Ma Rosàlia s’era barricata nella sua così lungamente desiderata passione; non accettava neppure che si discutessero le oscure origini, l’onesto lavoro e le scarse economie del giovanotto, e di fronte a quella Rosàlia spinosa, dalle risposte insolenti e il broncio facile, dona Rozilda si arrese. Fu così che alla quarta o quinta apparizione notturna del Morais, — tutto inamidato, in bianco, il cappello inclinato su di un occhio, scarpe a due colori, irresistibile — lo interpellò.

    I  due amorosi se ne stavano rapiti, gli occhi negli occhi, la mano nella mano, dicendosi le solite cretinerie quando, inattesa e inquisitoria, dall’ombra della scala irruppe dona Rozilda, dura voce terrorista:

    «Rosàlia, cara, mi vuoi presentare al signore?»

    Fatte le presentazioni — Rosàlia che inciampava nelle parole, il Morais tutto intimidito, — dona Rozilda partì immediatamente all’attacco, senza complimenti né discrezione:

    «Le mie figlie non amoreggiano sulle scale o negli angoli bui, non escono da sole a passeggio con gl’innamorati; non allevo le figlie per il divertimento di nessun poco di buono, io...»

    «Ma io...»

    «Chi vuol parlare con mia figlia deve prima dichiarare le sue intenzioni.»

    Antonio Morais riaffermò la purezza matrimoniale delle sue: non era più un ragazzino per abusare delle figlie del prossimo. Prontamente e con modestia rispose al minuzioso interrogatorio, mediante il quale dona Rozilda cercava conferma alle informazioni ricevute, specie quelle concernenti le entrate dell’offìcina.

    Il meccanico fu promosso: ufficialmente permessa la sua presenza notturna alla porta di casa, presso la quale, a partire da quella conferenza a tre, Rosàlia lo avrebbe aspettato seduta su una sedia. Alla finestra dona Rozilda, per il controllo della morale di famiglia: le sue figlie non erano fatte ad uso di nessun vagabondo. Così, quando Morais allungava la mano tenera verso la tenera mano della fanciulla, eccoti, sputato dall’alto da dona Rozilda in tono di rimprovero, un:

    «Rosàlia!»

    Con questo sistema affrettò il fidanzamento, essendo Morais desideroso di maggior libertà, di un’intimità meno vigilata. Come fidanzato, cominciò a frequentare la casa, ad uscire con Rosàlia per le matinés della domenica, portandosi dietro come contrappeso Flor, che aveva ordini severissimi di vigilare e controllare gl’innamorati, impedendo sbaciucchiamenti ed altre manifestazioni. Ma Flor non era nata per fare lo sbirro; comprensiva e solidale voltava le spalle alla sorella e al futuro cognato, s’immedesimava nel film masticando dolciumi, lasciando in pace i fidanzati con la loro urgenza di ritrovarsi, bocche e mani affaccendate.

    Durante l’amoreggiamento e il fidanzamento dei due giovani, dona Rozilda si mostrò amabile quanto più potè, nascondendo i lati più agri del suo carattere. Aveva necessità di sposare le figlie, Rosàlia aveva raggiunto il limite d’età; ragazze in cerca di marito ce n’erano d’avanzo, scarsi invece i giovanotti disposti al matrimonio. Ardua battaglia, quella per sposare le figlie, dona Rozilda ben lo sapeva. Le sue conoscenti, quasi tutte, consideravano il meccanico un buon partito. Anzi una di loro, una certa dona Elvira, madre di tre donzelle incartapecorite e cispose, destinate al celibato definitivo, aveva perfino scatenato le tre racchione addosso al pretendente, ad assediarlo con sorrisi ed occhiate promettenti: mancava solo che lo trascinassero al letto, quelle tre maneggione scostumate. Per di più Morais era un tipo lavoratore e morigerato, dopo il matrimonio alla suocera non sarebbe stato difficile comandado a bacchetta, dirigerlo a piacer suo. In questo, tuttavia, sbagliò i suoi calcoli: il genero le avrebbe riservato una sorpresa.

    Fu così che la verità su dona Rozilda, l’artigiano venne a conoscerla solo dopo il matrimonio. Avevano deciso d’abitare tutti insieme al primo piano della Ladeira do Alvo, soluzione economica e sentimentale ad un tempo, visto che così avrebbero speso meno e sarebbero stati insieme ed altro non sembravano desiderare Morais e dona Rozilda se non continuare a vivere insieme per sempre. Rosàlia s’era opposta a questi piani temerari: «chi sposa vuol casa», ricordava; ma come resistere a quella luna di miele fra la madre e il fidanzato?

    Non durò sei mesi, la luna di miele; si ruppe il patto solenne, visto che, come informò il genero, «solo Cristo riuscirebbe a sopportare di vivere con dona Rozilda e non è neppure del tutto sicuro; sarebbe stato opportuno provare per vedere se lo stesso Nazareno avesse capacità sufficienti, ché forse neppure lui ce l’avrebbe fatta a sopportarla».

    Traslocarono ai confini del mondo, nel Cabula, quasi zona rurale. Morais preferiva ancora affrontare quel tram lungo lungo e lento (un viaggio che non finiva mai), che ogni poco usciva dalle verghe, eternamente in ritardo; preferiva alzarsi all’alba per poter arrivare in orario all'’officina situata nella vicinanze della Ladeira dos Galés; entrare per quelle macchie impraticabili, dove sibilavano i serpenti a sonagli, e tutti i diavoli evocati dai molti candomblé delle vicinanze se n’andavano liberi per strada facendo miserie, piuttosto che sopportare la convivenza con la suocera. Meglio i serpenti e i diavoli.

    Al primo piano della Ladeira do Alvo erano rimaste solo Flor adolescente, in via di trasformarsi in una bella ragazza dal viso delicato, i seni alti, le anche fiere, e dona Rozilda, una Rozilda di giorno in giorno più agra, limitata ora alle grazie e abilità di quell’unica figlia rimasta, che rappresentavano i suoi ultimi atout nella battaglia per l’ascesa sociale, battaglia già tante volte persa.

    Non aveva tuttavia perduto la resistenza, la ferma volontà di elevarsi, di calcare i gradini che l’avrebbero condotta al mondo dei ricchi. Nelle sue notti faticose d’insonnia (dormiva poco, restava sveglia a ruminar progetti) aveva deciso di non concedere la figlia più giovane a nessun altro Morais.

    Destinava Flor a un partito migliore, a un giovane di qualità, a un bianco di famiglia fine; ad un dottore, un laureato, oppure ad un ben avviato commerciante. Avrebbe difeso quell’ultima trincea con le unghie e coi denti, non si sarebbe ripetuto ciò che era accaduto con Rosàlia. Non solo Flor era molto più docile e sottomessa, ma per di più non temeva, come Rosàlia, di restare zitella. Non parlava di matrimonio, non si ribellava alla madre quando questa le proibiva di amoreggiare con impiegatucci, rappresentanti d’articoli di merceria, garzoni di panetteria. Obbediva senza protestare, non si ribellava urlando, non si rinchiudeva in camera minacciando il suicidio, con un muso lungo così, come faceva Rosàlia ogni volta che dona Rozilda, preoccupata per il suo avvenire, le proibiva qualche amorazzo da quattro soldi.

    Risultato: s’era sposata con quella mezza calzetta del Morais, un signor Nessuno, neppure rappresentante: un artigiano, un semplice operaio, che orrore. Socialmente parlando ancor meno importante di loro. Poteva anche essere un colosso sul lavoro, poteva guadagnare, essere un buon marito, un allegro compagno, la verità, tuttavia, era che sua figlia, anziché avanzare nella scala sociale, era scesa più in basso; o almeno così pensava con amarezza dona Rozilda, che ambiva a ben altre altezze. Con Flor era differente, l’errore non si sarebbe ripetuto.

    Mentre dona Rozilda metteva a punto i suoi piani, Flor si faceva una buona fama come maestra d’arte culinaria, specializzata in cucina baiana. Aveva avuto da madre natura il dono di saper scegliere gl’ingredienti, occupata fin da bambina fra ricette e sughi, imparando a fare piatti fini nel campo del dolce come in quello del salato. Da tempo riceveva ordinazioni per piatti baiani, era regolarmente chiamata ad aiutare nella preparazione di vatapa[27] ed efó,[28] di moquecas e xinxin,[29] per non parlare del famoso caruru di San Cosma e Damiano, come quello che si faceva in casa di sua zia Lita, o da dona Dorothy Alves, che serviva decine d’invitati, restando ancora di che dar da mangiare ad altrettante persone. Caruru tutti gli anni, per voto fatto agli spiriti mabaças, agli ibejes.[30] Col tempo il suo nome cominciò ad essere conosciuto; venivano a chiederle ricette, la invitavano in case ricche perché insegnasse il giusto punto di cottura e gli ingredienti della salsa di qualche piatto particolarmente diffìcile. Dona Detinha Falcão, dona Ligia Oliva, dona Laurita Tavares, dona Ivany Silveira ed altre «signore di rappresentanza», della cui amicizia dona Rozilda si vantava, la raccomandavano alle loro amiche; Flor non sapeva più dove mettere le mani. Fu una di quelle signore snob e danarose a darle l’idea della scuola: nel pagarle il suo lavoro di ricette e lezioni pratiche, sottolineò che stava remunerando l’ottima maestra e la buona amica, non gratificando una cuoca. Gentili sfumature di dona Luisa Silveira, sergipana, discendente d’una grande famiglia, piena di raffinatezza e di classe.

    Facendo le cose seriamente e con la scuola montata, Flor cominciò a dar lezioni solo dopo la partenza di sua sorella Rosàlia e Morais. Il meccanico aveva deciso che la distanza fra il Cabula e la Ladeira do Alvo non era ancora sufficiente, e preferito porre fra la propria casa e quella della suocera addirittura l’Oceano. Aveva ormai un sacro orrore di dona Rozilda, «quella», diceva, «è peste, fame e guerra».

    La scuola ebbe subito successo: perfino signori del Canela e del Garcia, e perfino della Barra, vennero da lei a svelare i misteri dell’olio dolce[31] e dell’olio di dendê. Una delle prime a venire fu dona Magà Paternostro, una riccona piena d’amici, propagandista entusiasta delle abilità di Flor.

    Il tempo correva, passavano gli anni, Flor non aveva fretta di trovarsi un fidanzato: ora era dona Rozilda che cominciava a preoccuparsi: in fin dei conti la figlia più giovane non era ormai più una bambina. Flor si stringeva nelle spalle: solo la scuola le interessava realmente. Il fratello, durante una delle sue visite, le aveva disegnato un’insegna ad inchiostri di vari colori — tutti elogiavano la sua abilità nel disegno — e l’aveva appesa al balcone:

    Scuola di culinaria sapore e arte

    Fleitor aveva letto sul giornale un lungo articolo a proposito di una certa scuola «Sapere e Arte», frutto dell’esperienza d’un tizio venuto dagli Stati Uniti, un certo Anisio Teixeira. Con il semplice cambio d’una lettera aveva adattato il titolo di moda alle esigenze di sua sorella. Accanto alle lettere svolazzanti dell’insegna, un cucchiaio, una forchetta ed un coltello, artisticamente disposti a treppiede, completavano l’opera dell’artista. (In un’epoca come la nostra, Heitor avrebbe potuto già programmare un’esposizione personale e la vendita dei suoi quadri ad un prezzo interessante; ma erano altri tempi ed il funzionario della Ferrovia si contentò degli elogi di sua sorella, di sua madre e di una delle alunne di Flor, una tale dagli occhi liquidi che rispondeva al nome di Celeste.)

    Le lezioni di culinaria fornivano il necessario per la casa, per le limitate spese di madre e figlia, ed anche per qualche economia in vista d’un futuro matrimonio. Ma soprattutto esse occupavano il tempo di Flor, la liberavano per un po’ da dona Rozilda, col suo costante ritornello su quanti sacrifici le fosse costato allevare ed educare i figli, allevare ed educare quella sua figlia minore, su quanto fosse necessario ora trovare un marito ricco che la tirasse fuori di li, dalla Ladeira do Alvo e dai fornelli, per trasportarla verso le delizie della Barra, della Graça, della Vitória.

    Ma Flor non sembrava occuparsi di amoreggiamenti e fidanzati. Alle feste danzava con questo e con quello, ascoltava le frasi galanti, sorrideva ringraziando, ma niente più. Non rispose neppure agli appelli appassionati d’un laureando in medicina, un paraense allegro, festaiolo e ben vestito. Non gli diede corda, malgrado l’eccitazione di dona Rozilda: finalmente uno studente, per di più quasi dottore, che aspirava alla mano di sua figlia.

    «Non mi piace,» dichiarò Flor perentoria, «è brutto come il diavolo.»

    Non ci fu consiglio né scenata di dona Rozilda furibonda che servisse a farle cambiare idea. La madre entrò in panico: non si sarebbe ripetuta la stessa storia di Rosàlia, visto che Flor si rivelava uguale alla sorella, ostinata, intenzionata a decidere per conto suo qual era il fidanzato e il marito che voleva? Mentre lei credeva d’avere nella figlia più giovane la copia esatta del carattere del povero Gil, sempre ossequiante alla sua volontà, eccoti che invece quella si metteva a prendere in antipatia il dottorino alla vigilia della laurea, figlio di padre latifondista del Pará, proprietario di navi e isole, di piantagioni di gomma e castagne,[32] tribù di indios selvaggi e fiumi immensi. Incorniciato d’oro! Dona Rozilda si era lanciata a raccogliere informazioni e, dopo aver parlato con alcuni conoscenti, già si vedeva in Amazzonia, regina d’un vasto territorio, a dare ordini e contrordini a indios e caboclos.[33] Finalmente era arrivato il principe azzurro, la sua attesa non era stata vana, né il suo sacrificio male speso. Su di un battello fluviale del Rio delle Amazzoni avrebbe fatto vela verso le case superbe dei quartieri residenziali della Barra, le palazzine esclusive della Graça, i cui padroni l’avrebbero corteggiata pieni di salamelecchi e complimenti. Flor sorrideva col delicato visino color del tè, sorrideva con le graziose fossette delle guance, con gli occhi meravigliati, ripeteva con voce stanca, voce schizzinosa e distante:

    «Non mi piace... è più brutto della miseria.»

    «Che diavolo si pensava?» dona Rozilda cominciava ad arrampicarsi sui vetri. Flor agiva come se il matrimonio fosse stato una questione di piacersi o non piacersi, come se esistessero uomini belli e brutti, come se i pretendenti come Pedro Borges si vedessero a dozzine per la Ladeira do Alvo.

    «L’amore viene con la convivenza, cara contessa della titica, viene con la comunione d’interessi, con i figli. Basta che non ci sia antipatia. Ce l’hai con lui?»

    «Io? No, Dio ci liberi. Anzi, lo trovo un bravo ragazzo. Ma io mi sposo solo con qualcuno che amo... Quel Pedro sembra un bestione da tanto è brutto...» Flor divorava i romanzetti della Biblioteca delle Giovinette, provava un’inclinazione speciale per i giovani poveri ma belli, biondi ed insolenti.

    Dona Rozilda schiumava di rabbia e di eccitazione, la voce strozzata che trasvolando sulla strada portava ai vicini echi della disputa: «Brutto! Ma quando mai è esistito un uomo brutto o bello? La bellezza di un uomo, infelice, non sta nella faccia, ma nel carattere, nella posizione sociale, nel patrimonio che ha. Quando mai s’è sentito dire che un uomo ricco sia brutto?

    Quanto a lei, non avrebbe scambiato Borges, benché bruttino (e in fondo non era poi così orribile, un tipo alto e forte — la faccia magari un po’ foruncolosa, questo sì) con tutti quei ragazzotti sfacciati ed insolenti del Rio Vermelho, senza un soldo in tasca, senza un posto dove cascar morti; dei veri vagabondi. Il dottor Borges (gli anticipava il titolo) era un ragazzo perbene, si vedeva subito dai modi, proveniva da una famiglia distinta del Parà, distinta e ricca. Lei, dona Rozilda, aveva saputo che la loro casa di Belém era un vero palazzo: solo di servitori ce n’erano più di dodici — una dozzina, capisci, figlia sconoscente, capricciosa e sciocca, oltre che fatua ed irragionevole. Tutti i pavimenti di marmo, di marmo anche le scale. Gesticolava, teatrale:

    «Quando mai s’è visto che un uomo ricco sia brutto?»

    Flor sorrideva, le fossette del viso erano uno splendore; non aveva fretta di sposarsi. Tappava la bocca alla madre:

    «Parli come se fossi una donnaccia che misura gli uomini per il denaro che hanno... non mi piace e basta.»

    La lotta fra dona Rozilda, irritata e irritante, presa da un nervosismo di malata, e Flor serena come se niente fosse successo, tenzone di cui il Borges rappresentava la causa e il premio in palio, raggiunse il culmine alla consegna dei diplomi ai laureati di quell’anno. Il dottorino le aveva invitate alla cerimonia e al ballo che seguiva.

    Per la cerimonia, nell’Aula Magna dell’Università, dona Rozilda si vestì da suocera, tutta chiusa in un’armatura di taffetas, maestosa come un tacchino che facesse la ruota, sorridente perfino dalle gale delle maniche, un pettine spagnolo infilzato nella crocchia. Al ballo Flor splendeva tutta trine e tulle, non si fermò un momento, non perse una sola contraddanza, tanti furono i cavalieri ad invitarla. Ma neppure allora dette speranza al neo-dottore.

    E neppure quando, alla vigilia della partenza per la lontana Amazzonia, lui venne a farle visita, in compagnia del padre per far migliore impressione. Si chiamava Ricardo, il pezzo grosso paraense, un gigante con un vocione da temporale, le dita coperte di anelli. Dona Rozilda per poco non sviene alla vista di tante pietre preziose. C’era un diamante smisurato, doveva valere almeno cinquanta milioni, ahi mio Dio!

    Il vecchio parlò delle sue terre, degli indios civilizzati, delle piantagioni di gomma, delle leggende del Rio delle Amazzoni. Parlò anche della sua felicità nel vedere il figlio dottore, col diploma di medico. Ora non gli restava più da desiderare che il vederlo sposato con una brava ragazza, modesta e sincera; non gl’importava che avesse denaro, denaro ne aveva fatto abbastanza lui — muoveva le dita e i brillanti sfolgoravano, illuminando il salotto. Voleva una nuora che gli desse nipoti e nipotini che riempissero col loro chiasso e il loro calore l’austera casa di marmo, dove il vecchio Ricardo, vedovo, aveva vissuto da solo per tutti quegli anni che Pedro aveva studiato all’Università. Parlava e guardava Flor come in attesa di una parola, di un gesto, di un sorriso: se quello non era il preambolo per una formale domanda di matrimonio, dona Rozilda non capiva più niente di tali argomenti. Tremava, di commozione e d’ansia: era dunque giunto il momento benedetto, mai prima d’allora era stata così vicina al suo obiettivo; fissava quella scioccherella di sua figlia, aspettando un cenno d’assenso, timido ma entusiasta. Ma Flor disse solo, con la sua voce sognante:

    «Non mancherà certo una bella e brava ragazza per sposarsi con Pedro, che se la merita. Vorrei solo che il matrimonio si facesse qui a Bahia per preparare io stessa il banchetto.»

    Pedro Borges ripose senza rancore l’anello d’oro già comperato, il vecchio Ricardo si schiarì la gola, cambiò argomento. Dona Rozilda si sentì male, boccheggiante, il cuore al galoppo. Uscì dal salotto in uno scatto indignato, temeva che le venisse un accidente. Desiderò vedere la figlia morta e sepolta, quell’ingrata scioccona, idiota, nemica della propria madre, maledetta! Come s’azzardava a rifiutare la mano del dottore — questa volta realmente dottore, del ragazzo ricco, futuro erede di isole, fiumi e indios, di tutti quei marmi, degli anelli sfolgoranti, ahi come s’azzardava, quella bastarda sciagurata?

    Ah! che muro di odio e inimicizia, d’incomprensione incapace di perdono, di rancore insormontabile, si sarebbe alzato allora fra madre e figlia, unite per sempre e per sempre separate se, all’inizio del nuovo anno, poco dopo la partenza del rifiutato Borges, non fosse spuntato all’orizzonte Vadinho! Ché, in confronto ai titoli, alla posizione, al patrimonio di Vadinho — dona Rozilda era stata ampiamente e dettagliatamente informata dallo stesso Vadinho e da certi amici suoi — il paraense altro non era che un poveraccio, con tutti i marmi del suo palazzo ed i suoi dodici servi. Un indigente, malgrado tutta la sua terra e la sua acqua.

     

    VI

    Con un breve e cortese inchino, Mirandão, il viso splendente di cordialità, chiese permesso e si sedè vicino a dona Rozilda. Le sedie di paglietta di Vienna erano accostate al muro. Lo studente cronico («perseverante» correggeva lui, alludendo ai suoi sette anni di agraria) allungò le gambe, s’aggiustò con cura la piega dei pantaloni, esaminando le coppie che con applicazione danzavano un tango: figure difficili, passi quasi acrobatici. Sorrise con aria d’approvazione: nessun ballerino era paragonabile a Vadinho, nessuno aveva la sua classe, Dio lo benedica e lo liberi dal malocchio — e vade retro! — Mirandão era superstizioso. Mulatto chiaro sui ventott’anni, la figura più popolare delle «case» e delle bische di Bahia.

    Sentendo lo sguardo di dona Rozilda che seguiva il suo, si volse verso di lei, aprendo ancor di più il sorriso cattivante, esaminandola allo stesso tempo con occhio critico per valutarla. «Un budello senza speranza,» concluse alla fine con tristezza, niente da fare. Non era per via dell’età. Da tempo nel codice che regolava i rapporti di Mirandão con le donne, esisteva un paragrafo che affermava nessuna dover essere mai disprezzata perché matura o vecchia, a scanso di errori fatali. Le donne già oltre i cinquanta mantenevano a volte una forma e una giovinezza ammirevoli, erano capaci di performances sorprendenti, d’incredibili record. Lo sapeva per sua esperienza diretta e ancora adesso, osservando l’ammasso di macerie di dona Rozilda, ricordava lo splendore crepuscolare di Célia Maria Pia dos Wanderleys e Prata; tutti questi nomi per designare un donnino alto così, signora di grande lignaggio, piccola, impertinente e scavezzacollo. A più di sessantanni confessati, ancora attivamente occupata a mettere una foresta di corna al marito e agli amanti, insaziabile. Nipoti già di mezz’età, bisnipoti in età da marito, e lei a fare la carità

    e che carità, da quell’ardente e magnanima femmina che era — a giovani studenti bisognosi. Mirandão abbassò le palpebre per non vedere la sua vicina, carcassa senza rimedio né scampo, ed anche per meglio ricordare gl’indimenticabili furori uterini di Célia Maria Pia dos Wanderleys e Prata, nonché i bigliettoni da cinquanta e da cento che lei, grata, ricca e spendacciona, gl’infilava di nascosto nelle tasche della giacca. Ah, bei tempi quelli! Mirandão che s’iniziava agli studi ed ai misteri della vita, matricola della Facoltà di Agraria e nottambulo, e Maria Pia dos Wanderleys che nelle rughe del collo e nelle zone accidentate usava autentico profumo francese.

    Riapri gli occhi sulla sala, sentendo ancora nelle nari il profumo della nonnetta indimenticabile. Accanto a lui, il rottame dalla faccia di strega — guance cascanti, capelli a crocchia — continuava a fissarlo con i suoi occhietti. Un vero spauracchio; sotto le sottane si doveva sentire un lezzo di carne passata; Mirandão aspirò rapido i resti del profumo francese delle sue distanti memorie. Ah, nobile Wanderleys, dove sei tu, ormai settuagenaria? Quella vecchia sulla sedia, che zoticaccia senza misericordia!

    Ma, educato come si pregiava di essere, lo studente permanente d’agraria non smise di sorridere a dona Rozilda. Una racchiona, una vecchia barcaccia, un resto di pesce secco, inutilizzabile per qualsiasi azione o pensamento lubrico, ma non per questo meno degna di rispetto e considerazione, esausta madre di famiglia, probabilmente vedova; e Mirandão era in fondo un moralista, dirottato verso le case da gioco. Per di più, era giunto il suo momento d’euforia.

    «Festa animata, non trova?» chiese a dona Rozilda, dando inizio allo storico dialogo.

    Era sempre così, ad ognuna delle sue frequenti sbronze. All’inizio aveva quella fase di giubilo sfavillante. Gli pareva che il mondo fosse perfetto, la vita allegra e facile: in quei momenti Mirandão sapeva tutto comprendere, tutto apprezzare. Si stabiliva fra lui e le altre creature un clima di comunione totale: perfino fra lui e quella zotica puzzolente sua vicina di sedia. Diventava cortese, buon conversato- re, la fantasia in eruzione, senza limiti. La figura dello studente povero, «eterno studente eternamente al verde» che s’era costruito, e di cui viveva, cedeva il posto a quella dell’uomo giovane, importante e vittorioso, promosso ad ingegnere agronomo, quando non addirittura a libero docente della Facoltà di Agraria, che passava di promozione in promozione e conquistava centinaia di donne. Si faceva in quattro a raccontare i suoi successi, e come raccontava! Era un maestro della narrativa orale, un creatore di tipi e di suspense, un classico della buona prosa.

    Se però le bevute continuavano, verso la fine della notte quell’ottimismo e quell’euforia sfumavano e alla fine della sbronza Mirandão si lasciava andare a recriminazioni e lamentele, flagellandosi dolorosamente in una spietata autocritica, ricordando la moglie, vittima della sua degradazione, i quattro figli affamati, la famiglia intera minacciata di sfratto, mentre lui si sollazzava negli antri del giuoco e nei postriboli. «Sono un miserabile, un corrotto, una canaglia,» comunicava ai presenti Mirandão, un Mirandão pungente, pieno di rimorsi e privo di malizia, il moralista.

    Questa seconda e lamentevole fase si verificava tuttavia piuttosto raramente: solo in occasione di sbronze monumentali.

    Ma alle ventitré e trenta, nella casa in festa del Maggiore Pergentino Pimentel, pensionato della Polizia Militare, si trovava un Mirandão soddisfatto delle cose del mondo, incline ad un cordiale e profittevole scambio d’idee con dona Rozilda. Aveva appena terminato di mangiare e bere in modo assolutamente soddisfacente, assaggiando tutti i piatti, di alcuni servendosi una seconda volta. In sala da pranzo, in una profusione di cibi da benedire e santificare, facevano bella mostra di sé i pezzi forti della cucina baiana: vatapá ed efó, abará[34] e caruru, moqueca di granchi, di gamberoni, di pesce, acarajé[35] ed acaçá,[36] xinxim di gallina e haussà di riso,[37] oltre a montagne di polli e tacchini arrosto, cosciotti di maiale, fritto misto di pesce per qualche ignorante incapace d’apprezzare l’olio di dendê (infatti, come rifletteva Mirandão a bocca piena e con disprezzo, esiste a questo mondo ogni sorta di bruti, gente capace di qualsiasi ignominia). Tutto quel ben di dio innaffiato da aluá,[38] cachaça, birra, vini portoghesi. Da più di dieci anni il Maggiore dava quella festa, in adempienza ad un voto severo di candomblé, da quando gli orixás gli avevano salvato la moglie, in pericolo di vita per via dei calcoli renali. Non badava a spese, metteva da parte il denaro l’anno intero per spenderlo con soddisfazione la notte della festa. Mirandão ci si era tuffato: forchetta di tutto rispetto, bicchiere ancora migliore. Ora, pieno fino agli occhi, esausto da tanto mangiare e bere, aveva proprio bisogno d’una bella chiacchierata per aiutare la digestione.

    In sala, le coppie ce la mettevano tutta in quel tango argentino. Al piano Joãozinho Navarro. Dicendo Joãozinho Navarro, per chi se ne intende si è già detto tutto; non esisteva a quell’epoca a Bahia un pianista più ricercato e alcuni, come un certo giudice, di nome Coqueijo, grande intenditore di musica, aprivano la radio solo per ascoltare lui che si esibiva in un programma di musica popolare. E nelle ore piccole, non era forse il suo piano l’attrazione principale del Tabaris? Non era facile averlo alle feste private, poiché non gli restava tempo per queste esibizioni dilettantesche. Indefettibile, tuttavia, alle feste del Maggiore, al quale non poteva far torto per un antico debito di cortesia.

    Mirandão guardava compiaciuto i ballerini, approvava con la testa l’esecuzione di Joãozinho — un dio! — sorrideva alla vicina constatando l’assenza dalla festa di qualsiasi altro clandestino, a parte lui e Vadinho. Nessun altro eroe! Penetrare di straforo alle feste del Maggiore Tiririca, (come i monelli avevano soprannominato il buon Pergentino) era una prodezza impossibile, oggetto di sfide e scommesse. Mirandão si considerava arrivato: finalmente lui e Vadinho erano riusciti a sfondare la barriera alzata dal Maggiore e ad ottenere che la pesante porta di quercia chiusa a chiavistello, solo passaggio possibile per gli invitati, e solo per quelli, — tutti facce note ai padroni di casa, amici di lunga data — si aprisse e desse loro entrata. Non solo, ma accolti ambedue con grandi abbracci dal Maggiore e da dona Aurora, sua moglie, ancor più pignola del marito quanto alla qualità e identità dei suoi invitati. Là fuori, in animatissima seduta a cielo aperto, i guappi del rione assaporarono amaramente la loro sconfitta, nel vederli penetrare, dopo brevissima conversazione col Maggiore, oltre la soglia invalicabile, fra vivaci esclamazioni di dona Aurora. Come diavolo avevano fatto?

    Mirandão, a pancia piena, sospirò con un sorriso beato. Vadinho volteggiava per la sala con una bella fanciulla fra le braccia, una morettina grassoccia ben in carne — e chi ama gli ossi è un cane — con certi occhi languidi e una pelle color di tè bronzodorato, di anche e seni ben messi.

    «Un bel pezzo di figliola da perderci la testa, tentazione di mora!» lodò Mirandão, indicando la ragazza che danzava con l’amico.

    Lo spaventapasseri si mise sulla difensiva, si drizzò sul busto incartapecorito, gracidò con voce battagliera:

    «È mia figlia...»

    Mirandão non si scompose:

    «Allora le faccio le mie congratulazioni, signora, si vede subito che è una ragazza come si deve, di buona famiglia. Il mio amico...»

    «Quello che sta ballando con lei è un suo amico?»

    «Se è mio amico?... Intimo, signora mia, fraterno...»

    «E chi è, si può sapere?»

    Mirandão s’accomodò meglio sulla sedia, trasse dalla tasca un fazzoletto profumato, tergendosi alcune goccie di sudore dalla vasta fronte, sempre più sorridente e felice: non c’era cosa al mondo che gli desse tanta soddisfazione quanto metter su una panzana ben congegnata, una storia particolarmente divertente.

    «Mi permetta prima di presentarmi: dottor José Rodrigues de Miranda, ingegnere agronomo, comandato presso il gabinetto del Delegato Ausiliare...», tendeva la mano, cordialissimo.

    In un ultimo sprazzo di diffidenza, dona Rozilda squadrò l’interlocutore con occhio ostile. Ma la fisionomia paciosa ed il sorriso franco di Mirandão cancellavano qualsiasi sospetto, smantellavano qualsiasi resistenza, disarmavano e conquistavano qualsiasi avversario, fosse pure malignetto e meschino come dona Rozilda.

     

    VII

    Parentesi, con Chimbo e con Rita de Chimbo

    Quel giorno, verso la fine del pomeriggio, quando più pesante era la caligine — un’atmosfera solida come il cemento — mentre Vadinho e Mirandão si trovavano in rione São Pedro a bere le prime dosi di cachaça al bar Alamèda, facendo piani per la festa della sera al Rio Vermelho, eccoti apparire sulla porta del locale la faccia congestionata di Chimbo, il parente importante di Vadinho, investito in quel momento della carica di Delegato Ausiliare, vale a dire, il secondo assoluto di tutta la polizia. Benché assessore e figlio di un uomo politico governista di rilievo, senza rispetto per la tradizionale austerità del padre né per le convenienze, questo lontano cugino di Vadinho, Guimarães di quelli legittimi e ricchi, era un festaiolo, un playboy inveterato, gagliardo per le bicchierate, i dadi e le puttane, per dirla in due parole un classico bon vivant. Ora un po’ più riservato, forzando la sua natura, per rispetto alla carica. Carica nella quale del resto, proprio per questo, non avrebbe durato a lungo, preferendo, come preferiva, a qualsiasi posizione brillante la sua libertà, che non avrebbe scambiato con lo stipendio più alto, né con alcun titolo.

    Già in precedenza aveva rinunziato al governo di Belmonte, sua città natale, dove l’aveva fatto nominare Intendente suo padre, senatore e feudatario locale, dopo un simulacro di elezione. Abbandonò posto e titolo, onori ed oneri: troppo alto era il prezzo da pagare. Non si contentavano i belmontesi delle sue effettive capacità amministrative, esigevano anche un governatore di illibati costumi: un abuso intollerabile.

    Ne era venuto fuori un bla-bla-bla di tutti i diavoli, uno scandalo fuori misura, solo perché, audace e progressista, egli aveva importato da Bahia alcune allegre fanciulle, nell’intento d’interrompere la monotonia della cittadina e la sua propria solitudine. Aveva convocato Rita de Chimbo, prestigiosa animatrice delle notti al Tabaris, soprannominata «de Chimbo» proprio in grazia del legame antico — e persistente — che li univa, amore cantato in prosa e in versi dagli scapigliati locali. Litigavano, s’insultavano, si separavano per sempre, e pochi giorni dopo facevano la pace, continuavano il loro idillio, irrimediabilmente legati. Per questo Rita al suo nome aveva aggiunto il nomignolo del suo amore, così come la sposa adotta il cognome dello sposo. Al saperlo Intendente, signore di scure e verghe, esercitante diritto di vita e di morte su di una popolazione indifesa, impose, con messaggio telegrafico, d’esser chiamata a partecipare alla sua autorità. Qual piacere al mondo si può paragonare con quello del comando, del potere? Voleva assaporarlo, la voluttuosa Rita. Chimbo, solitario nelle notti di Belmonte, lunghe per non aver che fare, assolutamente vuote, ascoltò l’ardente supplica, fece venire la ragazza.

    Chimbo Intendente, un re nella sua città. Rita de Chimbo non poteva sbarcare come una qualsiasi nel di lui impero: era la favorita, la concubina reale. Ecco perché invitò al suo seguito tre bellezze, fra loro diverse ma eccezionali tutte e tre: Zuleika Marron, mulatta raffinata e piuttosto lubrica, le cui anche ondulanti fermavano il traffico, stendevano i pedoni; Amalia Fuentes, enigmatica peruviana dalla voce morbida, tendente al misticismo, e Zizi Culhudinha, una spiga di grano fragile e dorata, birichina quant’altre mai. Questa ristretta e formosa carovana, ci pesa dirlo!, non ebbe in Belmonte l’accoglienza entusiastica che meritava; al contrario, fu oggetto di aperta ostilità da parte di signore e perfino di gentiluomini. Eccezion fatta per alcuni gruppi sociali: studenti imberbi, i pochi nottambuli,

    i  bevitori di cachaça in generale, più qualche sporadico caso individuale, siamo obbligati a riconoscere che la popolazione si mantenne distante e sospettosa.

    Per di più Rita de Chimbo fu vista a mezzanotte, sul marciapiede dell’Intendenza, sbronza da non reggersi in piedi, a salutare la città col suo ricco e variato repertorio di parolacce. Circolavano voci spaventose: il vecchio Abraão, commerciante e già nonno, si trascinava, coprendosi di ridicolo, ai piedi di Zuleika Marron, dilapidando il patrimonio dei nipoti in baccanali con quella bagascia. Bereco, giovane fino a quel momento casto e di morigerati costumi, funzionario delle Poste, presidente delle Opere Pie, si era innamorato di Amàlia Fuentes, avendone scoperto le segrete radici di purezza e religiosità, le offriva l’anello di fidanzamento, trascinando la sua timorata famiglia alla disperazione. Il culmine dello scandalo si ebbe quando la Culhudinha divenne la beneamata di tutti i ragazzini delle scuole medie, il loro sogno e la loro regina, la loro bandiera di combattimento, il loro pulcro ideale. Passava ella tutta bionda nelle notti di Belmonte, assediata da uno stuolo di ragazzini, e il poeta Sosìgenes Costa le dedicava sonetti. Oh, ignominia!

    Perfino quel frocio del padre vicario, prete arrogante dalla voce stridula, aveva predicato contro Chimbo: una violenta requisitoria contro la sua scandalosa incontinenza. Aveva classificato le sue dilette donzelle come «immondizie del meretricio della metropoli», «serve del demonio», quelle povere bambine! Sermone incendiario, la chiesa affollatissima per la messa domenicale, e il reverendo ad accusare Chimbo di star trasformando la morigerata Belmonte in Sodoma e Gomorra; case rovinate, famiglie in dissoluzione, o città infelice cui era capitata la disgrazia di un Intendente così depravato, quel «Nerone in mutande lunghe». Chimbo era dotato di senso dell’umorismo, e rise della virulenza del prete. Piansero invece le ragazze, Rita de Chimbo esigeva vendetta, e Miguel Turco, un arabo esaltato segretario dell’Intendenza, devoto anima e corpo ai Guimarães e notorio adulatore, si offrì di eseguirla: avrebbe mandato due gorilla di fiducia ad insegnare le buone maniere a quel sovversivo d’un vicario spolverandogli la sottana.

    Chimbo asciugò le lacrime di Rita, ringraziò il siriano per la sua devozione, gratificò i due gorilla — due assassini fuggiti da Ilhéus. Dietro la sua apparente indifferenza, Chimbo era un individuo prudente e abile, non gli mancava il senso dell’opportunità politica. Figurarsi la reazione del Senatore se lui fosse entrato in guerra con la Chiesa, spolverandole un curato per dar soddisfazione a una donnina allegra! Per di più il reverendo aveva le sue buone ragioni per avercela con lui. Definendolo un «Nerone in mutande lunghe», alludeva alla notte in cui, vestito solo d’un paio di mutandoni a righe, l’illustre Intendente aveva dovuto attraversare tutta la città, dato che il vicario l’aveva appena sorpreso in avanzato idillio con la candida Maricota, la stimabile domestica che assicurava i servizi di tavola e letto al reverendo — la sua pecorella preferita.

    A Chimbo non era rimasta altra scelta se non riunire le sue oltraggiate ospiti, dare il braccio a Rita de Chimbo, e con loro imbarcarsi su di un vaporetto della Compagnia Baiana. Rinunziava così alla carica, agli onori e alla ricca percentuale sul gioco del bicho. Orfana restò Belmonte delle sue capacità amministrative e dell’affabilità delle tre bellezze della Capitale. A testimonianza dell’efficiente amministrazione di Chimbo restavano il pontone d’attracco restaurato, l’ampliamento della Scuola Elementare e la riparazione del muro di cinta del cimitero. Delle donzelle rimase la fuggitiva visione a perturbare, ancora per molto tempo, i sonni di Belmonte.

    Chimbo si ritirò nell’anonimato del suo redditizio incarico di servitore della Giustizia, dove nessuno spiava i suoi passi. Si reinserì nella vita notturna; dal Tabaris (dove Rita de Chimbo tornò a regnare) al Palace, dall’Abaixadinho, alla bisca dei «Tre Duchi», dalla «casa» di Carla a quella di Helena Colibrì. Alle feste notturne ed all’incarico remunerativo e anodino lo strappava di tanto in tanto il padre senatore, per servirsene nelle sue manovre politiche, appiccicandogli incarichi ed onori che altri ambivano, ma non lui, Chimbo, desideroso soltanto di vivere libero e tranquillo.

    Chimbo voleva bene a Vadinho, non solo in grazia della loro lontana e spuria parentela, ma anche per le qualità del giovane compagno di roulettes e cabarets. Per cui sentendo una volta qualcuno che lo tacciava di essere un vagabondo, senza lavoro né mezzi di sussistenza, gli procurò un posto modesto d’ispettore dei Parchi e Giardini del Municipio, visto che «un Guimarães deve avere un posto ben definito nella società».

    «Nessun Guimarães è un vagabondo...»

    Contraddizioni del simpatico Chimbo, così poco attaccato a convenzioni e protocollo, e al tempo stesso dotato di un così profondo senso della famiglia, zelante per il buon nome del potente clan dei Guimarães.

    Orbene, quella sera Vadinho e Mirandão incontrarono Chimbo a São Pedro, nel momento esatto in cui il Delegato Ausiliare era diretto dal Capo della Polizia. Un Chimbo inferocito, ficcato in un completo scuro e pesante da cerimonia, tenuta da funerale o da sposalizio: colletto duro con le punte girate, plastron, gilet, ghette, bastone da passeggio con il pomo d’oro. Un Chimbo tutto in ghingheri, in una giornata calda come quella, di caligine asfissiante, di canicola mortale, quando tutte le bocche anelavano ad una birra ghiacciata.

    «Solo una birra a temperatura polare può salvarci la vita,» disse Vadinho, abbracciando il parente e protettore.

    In linguaggio forte e plastico Chimbo maledisse la sorte, distribuendo aggettivi con acida prodigalità: «Merda di vita stronza, impiego figlio di puttana; obbligato ad accompagnare il Governatore dappertutto, a tutte quelle cerimonie, a tutte quelle merdate e quelle schifezze...» Non lo vedevano, mascherato da Commendatore portoghese? Quella sera, in grazia dell’impiego, era obbligato a presenziare all’inaugurazione d’un congresso scientifico alla Facoltà di Medicina: il Congresso Nazionale di Ostetricia, con discorsi, saggi, dibattiti e relazioni a proposito di parti e aborti; una scocciatura monumentale. Chimbo vuotava d’un fiato il suo bicchiere di birra, tentando di placare la sete e la rabbia; suo padre e la sua eterna mania di servirsi di lui per la maledetta politica!

    E per di più, — s’immaginassero un po’ che razza di iella — l’infernale congresso decideva d’inaugurarsi giusto la sera della festa del Maggiore Pergentino, il Maggiore Tiririca del Rio Vermelho — certo sapevano di che festa si trattava. Lui aveva fatto un favore al militare: su sua richiesta aveva fatto metter fuori di galera un facinoroso; e ora il Maggiore non lo mollava più, voleva a tutti i costi dimostrargli la sua gratitudine, farlo segno dei suoi omaggi. La festa di Tiririca a quanto dicevano faceva epoca, valeva la pena andarci: si mangiava e beveva splendidamente. E lui, Chimbo, invitato d’onore, si figurassero un po’ che scherzetto!

    «Al posto della festa mi toccherà ascoltare dei medici che dissertano sui parti... Mio padre mi prepara di quelle prebende!»

    Come fare a convincere il Senatore a lasciarlo in pace nel suo angolino, se il vecchio era un satrapo di fronte al quale tremava lo stesso Governatore? Brillarono gli occhi di Vadinho, si schiusero al sorriso le labbra di Mirandão: Chimbo aveva appena terminato di aprire loro le porte della gloria e della casa del Maggiore.

     

    VIII

    La sera, davanti alla magione in festa, i due filibustieri scommisero con altri della stessa risma: sarebbero penetrati nella sala da ballo, e vi sarebbero stati ricevuti come invitati d’onore. Vi penetrarono, in effetti, e furono ricevuti con tutti gli onori, trattati in palma di mano, poiché Vadinho si fece riconoscere dal Maggiore e da dona Aurora come nipote del Delegato Ausiliare, assente per ragioni di forza maggiore, e allo stesso tempo investì Mirandão della carica, inesistente, di segretario personale di Chimbo.

    «Il dottor Airton Guimarães, mio zio, ha dovuto accompagnare il Governatore ad un Congresso di Ginecologia, ma siccome ci teneva a non venir meno al suo invito, ha mandato me e il suo segretario, dottor Mirandão, a rappresentarlo. Sono il dottor Waldomiro Guimarães...»

    Il Maggiore dichiarò che la gentilezza del Delegato lo commuoveva, troppo amabile a scusarsi e a farsi rappresentare. Rimpiangeva di non averlo alla festa, sarebbe stato un piacere per lui presentargli i suoi ossequi; ma intanto lui e sua moglie ricevevano a braccia aperte il rappresentante dello stimato amico. Stava tendendo la mano a Vadinho, quando Mirandão, in estasi e sfrontato, corresse rimettendo le cose al loro posto:

    «Perdoni, Maggiore, l’intromissione, ma a rappresentare il signor Delegato Ausiliare sta la mia modesta persona; io, dottor José Rodrigues de Miranda, libero docente della Facoltà d’Agraria, comandato presso il dottor Airton. Il mio amico, dottor Waldomiro, benché nipote del Delegato, non rappresenta lui, bensì il Signor Governatore...»

    «Il Governatore?» esclamò il Maggiore, abbagliato da tanti onori.

    «Sì,» rincarò Vadinho, quando il Governatore aveva sentito il Delegato Ausiliare chiedere a suo nipote ed al suo segretario di rappresentarlo alla festa del Maggiore, l’aveva incaricato (poiché era addetto al Gabinetto di Sua Eccellenza) di portare i suoi saluti al «buon amico Pergentino» e porgere i suoi omaggi «alla di lui degna sposa».

    Il Maggiore e dona Aurora, gonfi di vanità, facevano strada, presentavano gli ospiti, facevano riempire i bicchieri, preparare i piatti: niente era abbastanza per Vadinho e Mirandão.

    Là fuori, sbalorditi, i compagni di bricconate non credevano ai loro occhi. Che astuzia diabolica avevano messo in atto i due compari per essere ricevuti a quel modo? Non s’aveva ricordanza che nessun invitato spurio avesse mai varcato le soglie della porta del Maggiore, il quale faceva una questione di principio di mantenere la festa entro la ristretta cerchia dei suoi invitati, dei suoi amici: garanzia di decoro e buon nome. Giurando sui suoi gloriosi galloni si vantava: «nessun intruso alle mie feste, a meno che non passi sul mio cadavere». Ed i più esimi assalta-feste della città, capaci d’intrufolarsi, ed essendosi effettivamente intrufolati, in feste estremamente esclusive ed imponenti, con sbarramento di polizia — perfino al Palazzo del Governo ed in casa del dottor Clemente Mariani — feste in confronto alle quali quella del Maggiore non era che una festicciola improvvisata, un piccolo ballo di poveri, una danza di sobborgo, quattro salti in confidenza; questi famosi assalta-feste, tutti senza esclusione di uno, avevano fatto cilecca nei loro tentativi, rinnovati ogni anno, di intrufolarsi alla festa del Maggiore. Nessuno era riuscito a varcare la ben vietata soglia.

    Nessuno, è in verità un’esagerazione. Édio Gantois, astuto studente in combutta con un altro manigoldo della stessa specie, il già menzionato Lev-Lingua-d’Argento, a quei tempi ancora universitario, era riuscito una volta ad intrufolarsi alla festa del Maggiore, e per circa mezz’ora aveva mantenuto col compare la posizione conquistata, per poi essere espulsi a spinte e sganassoni: il muscoloso Édio in corpo a corpo con gl’invitati, il mingherlino Lev scambiando pedate col Maggiore.

    Come avevano potuto trionfare e, subito dopo aver assaporato il trionfo, fallire così miseramente? Benché questa sia un’altra storia, vale la pena raccontarla, per valorizzare meglio la prodezza di Vadinho e Mirandão. A quel tempo era sbarcato a Bahia, per dare due soli recitais al Conservatorio, con molta pubblicità sui giornali, un concertista stravagante, che armeggiava con uno strumento ancor più singolare: una sega, melodiosa quanto il pianoforte meglio accordato. Si trattava di un russo dal nome ostrogoto, il «russo dalla sega magica», come annunziavano i manifesti dei suoi concerti ed i giornali. Édio aveva in casa una vecchia sega da falegname, Lev, figlio di russi, il nome stramboide. Pazzi l’uno e l’altro per combinare qualche tiro, impacchettarono la sega in carta da pacchi, buttarono giù un paio di dosi di cachaça per tirarsi su il morale, si presentarono alla porta del Maggiore come il russo famoso e il suo impresario.

    Il Maggiore Tiririca aveva un sesto senso per gli intrusi: li annusava nell’aria a distanza. Come posò gli occhi su Lev ed Édio, una voce interna gli diede l’allarme. Ma già gl’invitati, all’annunzio della presenza del «russo dalla sega magica», salutavano con entusiasmo la possibilità di sentirlo suonare. In silenzio, dilaniato dai dubbi, il Maggiore aprì la porta, permettendo l’accesso ai due malandrini. Ma rimase ad osservarli. I due appoggiarono la sega dietro ad un mobile, dando modo al Maggiore di notare con che avidità si dirigevano verso la sala da pranzo, la loro fretta di mettersi a mangiare e a bere. Scambiando un’occhiata con dona Aurora, che anche lei trovava la scena piuttosto sospetta, il Maggiore intimò, appoggiato dalla totalità degl’invitati ansiosi di ascoltarlo, che si desse esecuzione immediata al recital musicale. Prima il concerto, poi la mangeria. Per quanto Édio tentasse, con chiacchiere temporeggiatrici, di ritardare il momento del disastro, non ci fu niente da fare, non ottenne né dilazione né appello.

    Per di più, per una qualche misteriosa metamorfosi, Lev s’era sentito subitamente ispirato, viveva il suo ruolo in modo cosi realistico che si considerava l’autentico russo dei concerti. Cosi, senza più farsi pregare, prese in mano la vecchia sega, fra grida di bravo! e battimani. Fu così perfetto, la lunga e magra persona piegata ad angolo retto, la chioma arruffata, gli occhi vaganti in zone astrali, che ingannò tutti, facendo vacillare per un istante perfino il Maggiore e dona Aurora. Questo fino al momento in cui con un cucchiaino da caffè ferì il bordo della sega. Infatti — come ebbe poi a raccontare Édio — non appena vibrò il primo colpo, tutti i presenti, senza eccezioni, capirono che si trattava d’una commedia. Solo Lev continuava, sempre più autentico e ispirato, a vibrare colpi di cucchiaino contro la sega, senza che né il Maggiore, né sua moglie, né gl’invitati dimostrassero la minima simpatia per tanto impegno artistico.

    Il Maggiore s’avanzò, seguito da alcuni amici fra i più sensibili a questi scherzi di cattivo gusto. La risalita del corridoio in direzione alla porta d’entrata fu lunga ed epica, realmente indimenticabile: Édio e Lev almeno l’avrebbero ricordata per tutta la vita. Sergozzoni, pedate, spinte, cadute. Dona Aurora voleva cavar gli occhi a tutt’e due; il Maggiore si contentò di buttarli fuori, in mezzo agli esclusi (e sui corpi stesi a terra fu gettata la sega, sempre meno sonora).

    Con Vadinho e Mirandão non era accaduto niente del genere; né il Maggiore né dona Aurora avevano avuto il più vago sospetto. I due avevano mangiato e bevuto splendidamente ed ora stavano, Vadinho a strusciare i piedi per il salotto in un valzer, Mirandão a domandarsi se avrebbe dovuto o no alzare il bicchiere alla salute del Maggiore e di dona Aurora in nome di Chimbo. Sorrideva dalla sua sedia, sentendo dona Rozilda chiedergli chi era il giovanotto che ballava con sua figlia. Per fare maggior effetto rispose con un’altra domanda:

    «Il Maggiore non gliel’ha presentato?»

    «No, ero di là, non l’ho visto arrivare.»

    «Ebbene, gentile signora, ho il piacere d’informarla: si tratta del dottor Waldomiro Guimarães, nipote del dottor Airton Guimarães, Delegato Ausiliare, e nipote del Senatore...»

    «Non sarà il famoso Senatore Guimarães?»

    «Proprio lui, distinta signora. L’onnipotente, il Capo dei capi, il Gesù Bambino della politica; proprio lui, il mio padrino.»

    «Suo padrino?»

    «Di cresima. E nonno di Vadinho.»

    «Vadinho?»

    «È il vezzeggiativo che gli davano da bambino. Lui è il nipote preferito del Senatore.»

    «Studente?»

    «Non le ho già detto che è dottore? Laureato, signora mia, avvocato. Ufficiale di Gabinetto del Governatore, alto funzionario municipale, ispettore...»

    «Ispettore delle Imposte?...» quell’informazione trascendeva ai più arditi sogni di dona Rozilda.

    «Ispettore delle Case da Giuoco, illustrissima,» e a voce bassa: «è il tipo d’ispezione che rende di più: una fortuna tutti i mesi... senza contare le regalie: una piccola fiche qui, una là... E ora per di più ha preso servizio nel gabinetto del Governatore...»

    Si sentiva generoso:

    «Non ha qualche parente povero cui desideri procurare un impiego? Se ce l’ha, basta che lo dica, che mi dia il nome,» respirò profondamente, soddisfatto di sé, proseguì indomito:

    «Lo vede, là che balla? Non si meravigli se alle prossime elezioni viene eletto Deputato...»

    «Ancora così giovane...»

    «Cosa vuole, signora mia, è nato in una culla dorata, ha trovato il piatto già pronto, il suo cammino è cosparso di rose.» Mirandão si sentiva poeta in quella notte di gloria; di lì a poco avrebbe improvvisato un discorso monumentale, che avrebbe strappato le lacrime perfino a dona Aurora, la belva del Rio Vermelho.

    Dona Rozilda strinse gli occhietti, una fiamma di ambizione le accendeva lo sguardo. Joãozinho Navarro terminava il suo tango con virtuosismi in grande stile, Vadinho e Flor si sorridevano. Dona Rozilda rabbrividì dall’emozione: mai aveva visto quell’espressione in viso alla figlia, e la conosceva bene. E lui? si chiedeva, era stato colpito anche lui, segnato per sempre? C’era, nel viso di Vadinho, un’espressione d’innocenza, un candore, una tale sincerità; dona Rozilda si sentì commossa. Ah miracoloso Signor del Bonfim, che fosse quello il genero ricco e importante che i cieli le avevano destinato? Ancor più ricco ed importante del paraense Pedro Borges, con le sue miglia di terra e di fiume, le sue dozzine di servitori. Un genero nipote d’un senatore, intimo del governo, parte del governo lui stesso: «Ahi, Nostra Signora di Capistola aiutatemi! Concedetemi, Signor del Bonfim, la grazia di questo miracolo, e prometto d’accompagnare scalza la processione del Lavaggio della Scala,[39] portando fiori e una mezzina d’acqua pura.»

    Il Maggiore s’avvicinava, dona Rozilda ringraziò Mirandão, si volse al padrone di casa mostrando il gruppo formato da Vadinho e Flor, Lita e Pòrto in un angolo del salotto. Mirandão osservò la manovra della vecchia maneggiona, facendo uno sforzo s’alzò anche lui, andò a prendersi una birra. Dona Rozilda chiedeva al Maggiore:

    «Maggiore, mi presenti a quel giovanotto...»

    «Non lo conosce? È un parente del dottor Airton Guimarães, il Delegato Ausiliare, grande amico mio...» sorrideva vanitoso: «Per gli amici intimi Chimbo... Me l’ha detto lui stesso: “Pergentino, chiamami Chimbo; siamo amici o no?” Un uomo alla mano, bravo ragazzo... M’ha fatto un favorone...» parlava per tutti, volendo rendere pubblica la sua amicizia per il Delegato.

    Dona Rozilda stringeva la mano al giovane, Flor presentava:

    «Mia Madre, il dottor Waldomiro...»

    «Vadinho per gli amici...»

    «Il dottor Waldomiro vive all’ombra del nostro eminente Governatore, lavora nel suo gabinetto....»

    «Il Governatore ha molta stima di lei, Maggiore. Proprio oggi mi ha detto: “Porta il mio abbraccio al mio amico Pergentino, un grande amico”.» Dalla felicità il Maggiore si sentiva perfino imbarazzato:

    «Grazie, dottore...»

    Pòrto, che quell’intimità a Palazzo intimidiva un po’, commentò:

    «Molta responsabilità, ma anche molta importanza...»

    Vadinho faceva il modesto:

    «Per carità... Non so neppure se resterò a Palazzo...»

    «E perché?» volle sapere donna Lita.

    «Mio nonno,» confidò Vadinho, «il senatore...»

    «Il Senatore Guimarães,» sussurrò piano dona Rozilda.

    Vadinho le sorrise, con un’aura di candore che gli circonfondeva il viso, sorrise malinconico a Flor, così bella:

    «Mio nonno vuole che vada a Rio, mi offre un posto...»

    «E lei accetta?» smoriva Flor negli occhi liquidi.

    «Niente mi trattiene qui... niente e nessuno... sono così solo...»

    Flor sospirava:

    «Così sola...»

    Dalla sala da pranzo chiamavano il Maggiore: non aveva un attimo di riposo per attendere a tutti i suoi ospiti, anfitrione perfetto. Qualcuno entrò subito dopo battendo le mani per chiedere silenzio: il dottor Mirandão avrebbe rivolto un saluto al padrone di casa. S’udì il botto d’una bottiglia di champagne, il tappo che sbatteva contro il soffitto.

    Vadinho e Flor s’avviavano sorridenti ad ascoltare il discorso di Mirandão: «Un discorso di Mirandão non è cosa che si possa perdere,» avvisò Vadinho. Dona Rozilda, il cuore che le saltava in petto, commentò con dona Lita e Thales Pòrto, suo marito, vedendo i ragazzi che s’imbarcavano definitivamente verso il loro idillio:

    «Non è una coppia perfetta? Non sembrano nati l’uno per l’altro? Se Dio vuole...»

    «Accidempoli! Si sono appena conosciuti e stai già architettando il matrimonio?» Lita scosse la testa: sua sorella doveva proprio essere ammattita, con quella smania del fidanzato ricco per la figlia.

    Dona Rozilda si drizzò sul busto, fissò con arroganza la sorella pessimista. Dalla sala da pranzo, ampia, intrisa di birra, giungeva la voce dell’oratore, nel brindisi ai padroni di casa. Verso quella voce s’incamminò la vedova, parata di speranze. Scrosci di mani salutavano una frase felice di Mirandão, che proseguiva impavido:

    «Nelle pagine immortali della storia, signore e signori, impresso in fulgenti lettere d’oro, resterà il nome onorato del Maggiore Pergentino, cittadino di virtù esponenziali (vibrava la voce nell’aria, pronunziando la parola sofisticata) e quello della sua nobilissima sposa, ornamento della società di Boa Terra, dona Aurora, un angelo... si, signore e signori, angelo d’incontaminata (incontaminata, ripeteva la voce cantilenante)... virtù, sposa devota, bronzea vergine...»

    Al centro della sala Mirandão, l’intruso, impugnando a braccio levato la coppa di champagne, dominava padroni di casa ed invitati, tutti abbagliati dalla sua eloquenza. Il Maggiore sorrideva beato; la devota sposa, la bronzea vergine, abbassava gli occhi commossa: mai una sua festa aveva raggiunto le superbe altezze di quel trionfo.

    «... dona Aurora, essere amorevole, santa, santissima creatura.» Le lacrime bruciavano gli occhi della santissima creatura.