domenica 17 febbraio 2019


IL LEONARDO SCOMPARSO
Estratto da "Tutti i racconti"
Volume 2 (1963-68)
James G. Ballard

(The Lost Leonardo, Fantasy and Science Fiction, 1964)

La  sparizione - o, per dirla senza eufemismi, il furto - della Crocifissione  di  Leonardo  da  Vinci  dal  museo  del  Louvre  di  Parigi, 
scoperta  la  mattina  del 19  aprile 1965,  provocò  uno  scandalo  senza precedenti. Dopo un decennio di grossi furti di opere d'arte, come quello del Duca di Wellington di Goya dalla National Gallery di Londra, o quelli delle collezioni private di impressionisti nelle loro case miliardarie nel Sud della Francia o in California, nonché i prezzi notevolmente aumentati nelle case d'asta di Bond Street e di Rue de Rivoli, ci si sarebbe potuti aspettare 
che  il  pubblico  non  si  stupisse  troppo  per  la  scomparsa  di  un  altro  notissimo  capolavoro,  ma  in  realtà  la  notizia  fu  accolta  con  autentica costernazione  e  sdegno.  Migliaia  di  telegrammi  da  tutto  il  mondo  si riversavano  quotidianamente  al  Quai  d'Orsay  e  al  Louvre,  i  consolati francesi di Bogota e del Guatemala furono presi a sassate e la sicurezza e le notevoli capacità degli addetti stampa di tutte le ambasciate, da Buenos Aires a Bangkok, vennero messe duramente alla prova.
Io arrivai a Parigi ventiquattr'ore dopo quello che già veniva chiamato 'il 
grande scandalo del Leonardo', e l'atmosfera di stupore e indignazione era 
palpabile.  Per  tutto  il  tragitto  dall'aeroporto  di  Orly  i  titoli  di  testa  dei 
giornali  esposti  nelle  edicole  riportavano  la  stessa  notizia,  a  caratteri cubitali. E cioè, nella formula succinta scelta dal Continental Daily Mail:
RUBATA LA CROCIFISSIONE DI LEONARDO
Un capolavoro da cinque milioni di sterline scompare dal Louvre. A Parigi tutte le autorità erano in piena bufera. Lo sfortunato direttore del Louvre era stato richiamato in patria da una conferenza dell'UNESCO a Brasilia per prostrarsi davanti al Presidente, all'Eliseo; il Deuxième Bureau era stato allertato ed erano stati nominati almeno tre ministri senza portafoglio, il cui futuro politico era legato a doppio filo al recupero del dipinto.  Come  il  Presidente  in  persona  aveva  sottolineato  durante  la conferenza stampa del pomeriggio precedente, il furto di un Leonardo era 
un problema che non toccava solo la Francia ma il mondo intero, e in un appello appassionato aveva chiesto a tutti di fare il possibile per facilitarne il rapido rientro (nonostante l'atmosfera carica di emozione, ai più cinici tra gli osservatori non era sfuggito che questa era la prima crisi della sua carriera in cui il grand'uomo non aveva terminato la sua perorazione con un 'Vive la France').
I miei sentimenti, nonostante il mio coinvolgimento professionale con  tutto  ciò  che  riguarda  le  belle  arti  -  ero,  e  sono  ancora,  il  direttore  di Northeby's,  la  casa  d'asta  di  Bond  Street  famosa  in  tutto  il  mondo  -
coincidevano  ampiamente  con  quelli  dei  profani.  Mentre  il  mio  taxi passava accanto ai giardini delle Tuileries guardai le rozze riproduzioni del meraviglioso capolavoro di Leonardo pubblicate sui giornali, richiamando alla mente l'incomparabile splendore del dipinto, con la sua ineguagliabile composizione  e  l'assoluta  padronanza  del  chiaroscuro,  la  sua  tecnica 
insuperata  che  era  riuscita  al  tempo  stesso  a  inaugurare  il  grande 
Rinascimento e ad aprire la strada per gli scultori, i pittori e gli architetti dell'età barocca.
Nonostante  i  due  milioni  di  riproduzioni  del  quadro  che  venivano vendute  ogni  anno,  per  non  parlare  degli  innumerevoli  pastiche  e  delle modeste  imitazioni,  il  soggetto  del  dipinto  preservava  intatta  la  sua 
maestosa potenza. Completato due anni dopo da La Vergine e Sant'Anna, anch'esso  al  Louvre,  non  solo  era  uno  dei  pochi  Leonardo  che  fossero passati intatti per quattro secoli senza subire ritocchi, ma era l'unico quadro del maestro, insieme al  Cenacolo,  che però era in pessime condizioni, in cui la composizione prevedeva un ampio paesaggio e una notevole galleria di figure minori.
Era  quest'ultimo  fattore,  forse,  a  dare  al  quadro  la  sua  potenza terrificante e allucinatoria: l'espressione enigmatica, quasi ambivalente, sul volto  del  Cristo  morente,  gli  occhi  velati  e  serpentini  della  Madonna  e della Maddalena, questi tratti così caratteristici di Leonardo diventavano ben più che semplici manierismi se confrontati con la spirale di figure che sembravano salire vorticando in cielo attraverso il Golgota, trasformando  l'intera  immagine  della  Crocifissione  in  una  visione  apocalittica  della resurrezione e del giudizio che attendeva l'umanità. Da questa tela erano derivati  i  grandi  affreschi  di  Michelangelo  e  Raffaello  nella  Cappella Sistina, e le scuole di Tintoretto e del Veronese. Che qualcuno avesse avuto l'audacia di rubarla era una tragica dimostrazione dello scarso rispetto che l'umanità nutriva per i suoi più grandi monumenti.
Eppure,  mi  chiedevo  mentre  raggiungevamo  gli  uffici  delle  Galeries Normand et Cie alla Madeleine, quel quadro era stato davvero rubato? Le sue dimensioni, cinque metri per sei, e il peso - l'opera era stata trasferita dalla tela originale su un pannello di quercia - escludeva a priori che il furto fosse opera di un fanatico o di uno psicopatico, e nessuna banda di professionisti specializzati in furti d'arte si sarebbe presa la briga di rubare un'opera per la quale non c'era mercato. Forse era possibile che il governo francese  sperasse  di  distogliere  l'attenzione  da  qualche  altro  evento imminente,   anche   se   solo   la   restaurazione   della   monarchia   e l'incoronazione del pretendente borbone a Notre Dame avrebbe richiesto una cortina fumogena di quelle dimensioni.
Alla  prima  opportunità  manifestai  i  miei  dubbi  a  Georg  de  Stael,  il direttore delle Galeries Normand che mi avrebbe ospitato per tutta la mia permanenza. Ufficialmente ero a Parigi per una conferenza cui erano stati invitati i mercanti d'arte e i direttori di gallerie che avevano subìto furti di 
importanti opere, ma perfino un estraneo, davanti  alla nostra euforia ed eccitazione, avrebbe intuito che c'erano altri motivi. E ovviamente avrebbe avuto ragione. Quando nelle acque torbide dell'arte internazionale  viene 
gettata  una  grossa  pietra,  la  gente  come  me  e  Georg  de  Stael  prende immediatamente posizione sull'argine, attenta a ogni increspatura o bolla 
maleodorante. Senza dubbio, il furto del Leonardo avrebbe rivelato molto più dell'identità di un qualunque ladruncolo da quattro soldi. Tutti i pesci 
più  grossi  si  sarebbero  messi  a  nuotare  di  gran  carriera  in  cerca  di  un 
riparo, ed era innegabile che l'establishment ufficiale dei curatori e direttori 
di musei avesse subìto un duro colpo.
Questi  sentimenti  vendicativi  animavano  chiaramente  Georg  mentre 
girava intorno alla sua scrivania con eleganza e leggerezza per darmi il 
benvenuto.  Il  suo  abito  estivo  di  seta  azzurra,  molto  in  anticipo  sulla 
stagione, splendeva come i suoi capelli lisci e imbrillantinati, e i suoi tratti 
duri e rapaci si aprirono in un sorriso furfantesco quanto affascinante.
«Caro  Charles,  ti  assicuro  nella  maniera  più  categorica  che  quel maledetto quadro è davvero sparito...» Georg tirò fuori cinque centimetri di polsino azzurro «...puff! Per una volta, dicono tutti la pura verità. E la cosa più sorprendente è che si tratta davvero dell'originale.»
«Non so se essere lieto o no di sentirtelo dire» ammisi. «Ma sicuramente è più di quanto si possa affermare di quasi tutto il Louvre - e della National Gallery.
«Perfettamente  d'accordo  con  te.»  Georg  si  sedette  a  cavalcioni  sulla scrivania,  con  le  eleganti  scarpe  di  cuoio  che  brillavano  alla  luce  della lampada. «Avevo sperato che questa catastrofe potesse indurre le autorità a confessare la verità su certi loro cosiddetti tesori, magari nel tentativo di diradare un po' della magia che circonda il Leonardo. Ma sono tutti in uno stato di confusione totale.»
Per un istante restammo entrambi a contemplare gli effetti che quella 
sequenza di ammissioni avrebbe potuto comportare per i mercati d'arte di 
tutto il mondo - i prezzi di qualunque cosa fosse anche solo vagamente 
genuina sarebbero saliti alle stelle - nonché per l'immagine popolare del 
Rinascimento come qualcosa di puro e ineguagliabile. Ma tutto questo non 
comportava in alcun modo negare il genio del Leonardo trafugato.
«Dimmi, Georg» gli chiesi. «Chi lo ha rubato?» Immaginavo lo sapesse. Per la prima volta in tanti anni Georg sembrava a corto di risposte. Si strinse nelle spalle. «Caro Charles, non ne ho la minima idea. È un mistero vero e proprio. E sono tutti sconcertati quanto te.»
«In tal caso, dev'essere stato un lavoro fatto dall'interno.»
«Assolutamente  no.  I  dipendenti  del  Louvre  sono  al  di  sopra di  ogni sospetto.» Indicò il telefono. «Stamattina ne parlavo con un paio dei nostri contatti più sospetti - Antweiler a Messina e Kolenskya a Beirut - e anche loro sono sbalorditi. In effetti, sono convinti che potrebbe trattarsi di una manovra del governo francese; in caso contrario, potrebbe essere coinvolto addirittura il Cremlino.»
«Il Cremlino?» ripetei, in tono incredulo. Dopo che quel nome era stato pronunciato, l'atmosfera si fece più pesante, e per la mezz'ora successiva parlammo a bassissima voce.
La conferenza del pomeriggio, al Palais de Chaillot, non fornì altri indizi.  L'ispettore  capo  Carnot,  un  uomo  tetro  e  grosso  con  un  vestito azzurro  sgualcito,  prese  la  parola,  attorniato  dagli  altri  agenti  del Deuxième Bureau. Sembravano tutti stanchi e scoraggiati; dovevano già verificare dozzine di falsi allarmi ogni ora. Dietro di loro, come una giuria ostile, scura in volto, sedeva un gruppo di  investigatori  della  Lloyds di Londra  e  del  Morgan  Guaranty  Trust  di  New  York.  Per  contrasto,  i duecento venditori e agenti seduti sulle poltroncine dorate sotto il palco offrivano uno spettacolo animato, chiacchierando in una dozzina di lingue diverse e formulando le ipotesi più fantasiose.
Dopo  un  breve  riassunto  dei  fatti,  fornito  con  un  tono  di  sepolcrale
rassegnazione,  l'ispettore  Carnot  presentò  un  olandese  tarchiato  che  gli 
sedeva accanto, il sovrintendente Jurgens dell'ufficio dell'Interpol all'Aja, e poi  chiese  al  vice  direttore  del  Louvre,  Auguste  Pecard,  di  fornire  una 
descrizione dettagliata del furto. Quest'ultimo si limitò a confermare che le misure  di  sicurezza  al  Louvre  erano  di  altissimo  livello,  e  che  era assolutamente impossibile che il dipinto fosse stato rubato. Mi parve di 
capire che Pecard non era ancora completamente convinto che fosse uscito 
dal museo.
«...i pannelli a pressione sul pavimento intorno al quadro non sono stati 
manomessi,  e  i  due  raggi  infrarossi  che  s'incrociano  davanti  alla  sua 
superficie non risultano fuori uso. Signori, vi garantisco che è impossibile 
rimuovere il dipinto senza prima smantellare la cornice in bronzo, che da 
sola  pesa  quattro  quintali  ed  è  inchiodata  alla  parete.  Ma  il  circuito 
d'allarme che passa attraverso i bulloni non è stato disattivato...»
Io stavo guardando le due foto a grandezza naturale delle due facce del dipinto, incollate allo schermo dietro il palco. La seconda mostrava il lato posteriore del pannello di quercia con le sue sei fasce d'alluminio in cui si trovavano i punti di contatto con il circuito, e una massa di graffiti in gesso scarabocchiati nel corso degli anni dai laboratori del museo. Le foto erano state scattate l'ultima volta che il quadro era stato rimosso per la pulizia, e dopo  un  breve  giro  di  domande  venne  fuori  che  il  restauro  era  stato completato solo due giorni prima del furto.
A questa notizia, l'atmosfera della conferenza cambiò. Le decine di conversazioni private cessarono e i fazzoletti di seta colorata tornarono nei rispettivi taschini.
Diedi di gomito a Georg de Stael. «Ecco la spiegazione.» Ovviamente il dipinto  doveva  essere  scomparso  durante  il  periodo  trascorso  in laboratorio,  dove  le  misure  di  sicurezza  non  erano  certo  altrettanto rigorose. «Non è stato affatto rubato dalla galleria.»
Il  mormorio  intorno  a  noi  era  ripreso.  Duecento  nasi  tornarono  a 
sollevarsi per fiutare la pista. Allora il quadro era stato rubato, e si trovava 
da  qualche  parte.  La  ricompensa  per  chi  lo  avesse  trovato  -  se  non  la 
Legione d'onore o il titolo di Cavaliere, quanto meno l'esenzione totale 
dalle tasse e dalle indagini delle dogane straniere - ci aleggiava davanti 
come uno spettro.
Sulla via del ritorno, però, Georg guardava fuori dal finestrino del taxi, con un'espressione cupa e pensierosa.
«Il  dipinto  è  stato  rubato  proprio  dalla  galleria»  mi  disse,  con  tono meditativo. «L'ho visto personalmente dodici ore prima che svanisse.» Mi prese per un braccio e lo strinse. «Lo troveremo, Charles, a maggior gloria di Northeby's e delle Galeries Normande. Ma, Dio mio, l'uomo che l'ha rubato dev'essere un ladro dotato di risorse sovrannaturali!»

Così  cominciò  la  ricerca  del  Leonardo  perduto.  Tornai  a  Londra  la 
mattina  dopo  ma  Georg  e  io  ci  tenemmo  regolarmente  in  contatto  via 
telefono. All'inizio, come tutti gli altri, ci limitammo a restare in ascolto di 
qualunque segnale ci suonasse sospetto. Nelle case d'asta e nelle gallerie 
affollate  aspettavamo  la  frase  indiscreta,  l'indizio  rivelatore.  Gli  affari, 
naturalmente,  andavano  a  gonfie  vele;  tutti  i  musei  e  i  privati  con  un 
Rubens o un Raffaello di terz'ordine erano saliti di almeno un gradino nella 
considerazione  generale.  Con  un  po'  di  buona  sorte,  l'accelerazione  del 
mercato  avrebbe  portato  allo  scoperto  un  complice  del  ladro,  o 
quest'ultimo si sarebbe sbarazzato di un sostituto del Leonardo che era già 
nelle sue mani - magari un pastiche della Gioconda firmato dal Verrocchio
-, mettendolo in vendita su qualche mercato meno noto. Se la caccia al quadro scomparso veniva condotta pubblicamente con il consueto clamore, tra gli addetti ai lavori tutti erano calmi e sul chi vive.
In  realtà,  erano  anche  troppo  calmi.  Era  ragionevole  credere  che 
qualcosa  si  sarebbe  dovuto  materializzare,  che  qualche  vago  indizio 
sarebbe  dovuto  passare  attraverso  i  filtri  delle  gallerie  e  delle  aste.  E 
invece, nulla  di  tutto  questo. Quando il  fervore  di  attività scatenato  dal 
furto  si  fu  placato  e  gli  affari  ripresero  il  loro  ritmo  abituale, 
inevitabilmente il dipinto entrò a far parte della lista dei capolavori perduti.
Solo  Georg  de  Stael  sembrava  in  grado  di  mantenere  vivo  il  suo interesse per le ricerche. Di tanto in tanto faceva una chiamata a Londra per chiedere informazioni sul misterioso acquirente di un Tiziano o di un Rembrandt alla fine del diciottesimo secolo, o la storia di una copia danneggiata,  firmata  da  un  allievo  di  Rubens  o  Raffaello.  Sembrava particolarmente  interessato  alle  opere  di  cui  si  sapeva  che  erano  state danneggiate e poi restaurate: un tipo di informazione che molti proprietari, specie se privati, sono ovviamente gelosi di fornire.
Di conseguenza, quando chiamò per fissare un appuntamento con me a 
Londra, circa quattro mesi dopo la sparizione del Leonardo, non fu solo 
per scherzo che gli chiesi: «Allora, Georg, hai finalmente capito chi è stato 
a rubarlo?»
Aprendo  una  grossa  borsa,  Georg  mi  sorrise  con  un'espressione ambigua. «Ti sorprenderebbe se rispondessi di sì? In realtà non lo so, ma 
ho  un'idea,  un'ipotesi,  diciamo.  Credevo  che  ti  potesse  interessare 
sentirla.»
«Ma  certo,  Georg»  dissi,  per  poi  aggiungere,  in  tono  di  rimprovero, 
«Allora è di questo che ti sei occupato negli ultimi tempi.» 
Alzò  l'indice  magro,  per  farmi  tacere.  Sotto  la  consueta  patina 
affascinante notai una serietà tutta nuova, un modo di evitare decisamente i 
convenevoli. «In primo luogo, Charles, prima che mi cacci dal tuo ufficio 
ridendomi dietro, diciamo che considero la mia una teoria completamente 
fantasiosa e inverosimile, eppure» e scrollò le spalle come se non credesse 
alle sue stesse parole «a quanto pare è l'unica possibile. Ma per provarlo 
mi serve il tuo aiuto.»
«Non c'è bisogno neanche che tu me lo chieda. Ma qual è questa teoria? Non vedo l'ora di sentirla.»
Esitò, apparentemente incerto se esporre la sua idea, e poi cominciò a vuotare la borsa, tirando fuori una serie di cartelline e disponendole in fila davanti  a  sé,  sulla  scrivania.  Contenevano  quelle  che  sembravano riproduzioni fotografiche di un certo numero di quadri, con alcune zone segnate con dell'inchiostro bianco. Molte delle foto erano ingrandimenti di dettagli, e in tutte figurava un uomo alto in costume medievale, con un viso lungo e una barba caprina.
Georg  girò  sei  delle  foto  più  grandi  perché  potessi  vederle. «Le riconosci, vero?»
Annuii. A eccezione di uno, la  Pietà  di Rubens al museo Hermitage di 
Leningrado, avevo visto tutti gli originali negli ultimi cinque anni. Le altre 
opere erano la Crocifissione di Leonardo, appena rubata, le Crocifissioni di 
Veronese, Goya e Holbein, e quella di Poussin, intitolata Il Golgota. Erano 
tutte in musei pubblici - il Louvre, Santo Stefano a Venezia, il Prado e il 
Rjiksmuseum  di  Amsterdam - ed erano tutti capolavori familiari e 
autentici, opere centrali di importanti collezioni nazionali, con l'eccezione 
del Poussin. «È rassicurante vederli. Spero siano tutti in buone mani. O 
sono i prossimi titoli sulla lista del nostro misterioso ladro?»
Georg scosse il capo. «No, non credo che gli interessino molto. Anche se 
li tiene sempre d'occhio.» Ancora una volta notai l'evidente cambiamento 
nel  suo  comportamento,  più  riflessivo  e  con  lampi  di  umorismo  che 
sembravano rivolti più che altro a se stesso. «Hai notato qualcos'altro?»
Confrontai  di  nuovo  le  foto.  «Sono  tutte  crocifissioni.  Autentiche,  a 
parte, forse, qualche dettaglio secondario. E tutte dipinte a olio.» Scrollai le spalle.
«Sono stati tutti rubati, in fasi diverse.» Georg li scorse rapidamente da 
destra a sinistra. «Il Poussin dalla collezione dello Chateau Loire nel 1822, 
il Goya nel 1806 dal monastero di Montecassino, a opera di Napoleone; il 
Veronese dal Prado nel 1891, il Leonardo quattro mesi fa, come sappiamo, 
e lo Holbein nel 1943, per andare ad arricchire la collezione di Hermann 
Goering.»
«Interessante» commentai. «Ma ci sono ben pochi capolavori che non 
siano stati rubati, almeno una volta. Spero che non sia il punto chiave della 
tua teoria.»
«No,  ma  unito  ad  altri  fattori  acquista  un  significato  più  rilevante. Allora...»  Mi  porse  la  riproduzione  del  Leonardo.  «Ci  trovi  niente  di insolito?» Quando scossi il  capo di fronte  all'immagine  familiare,  prese un'altra foto del dipinto scomparso. «E che mi dici di questa?»
Le fotografie erano state scattate da due prospettive lievemente diverse, ma  per  il  resto  sembravano  identiche. «Sono  entrambe  foto  della Crocifissione originale,» spiegò Georg «scattate al Louvre nel mese prima della sparizione.»
«Ci rinuncio» risposi. «Mi sembrano uguali. No... aspetta un attimo!» Accostai la lampada della scrivania alle foto e mi chinai su di esse, mentre Georg annuiva. «Sono leggermente diverse. Ma che succede?»
Confrontai  rapidamente  le  foto,  passando  da  una  figura  all'altra,  e  in 
pochi  istanti  colsi  la  disparità.  Le  foto  erano  identiche  quasi  in  ogni 
dettaglio, ma una figura tra le molte che componevano lo sfondo era stata 
alterata. Sulla sinistra, mentre la processione si faceva strada serpeggiando 
verso le tre croci, il volto di uno degli spettatori era stato completamente 
ridipinto. Benché al centro del quadro la figura di Cristo pendesse dalla 
croce a diverse ore dall'atto della Crocifissione, per effetto di una sorta di 
prospettiva spazio-temporale - una caratteristica comune a tutta la pittura 
del Rinascimento, che aveva lo scopo di superare la natura di per sé statica 
della tela - la processione portava l'azione indietro nel tempo, consentendo 
di  seguire  l'invisibile  presenza  del  Cristo  nella  sua  estrema,  dolorosa 
ascesa verso il Golgota.
La figura il cui volto era stato ridipinto faceva parte della folla sulle 
pendici più basse. Era un uomo alto e imponente con una veste scura, ed 
era  stato  evidentemente  oggetto  di  un'attenzione  particolare  da  parte  di 
Leonardo, che lo aveva investito di quel fisico potente e di quella grazia sinuosa  che  di  solito  riservava  alla  rappresentazione  degli  angeli. 
Guardando  la  foto  nella  mia  mano  sinistra,  la  versione  originale  senza 
ritocchi,  mi  resi  conto  che  in  effetti  Leonardo  aveva  voluto  che  quella 
figura  rappresentasse  un  angelo  della  morte,  o  piuttosto  uno  di  quegli 
agenti  dell'inconscio,  terrificanti  nella  loro  calma  enigmatica,  nella  loro 
riflessiva ambivalenza, che nei suoi dipinti sembrano presiedere a tutte le 
paure e i desideri più profondi degli uomini, come le statue dal volto grigio 
che guardano in basso dai cupi cornicioni della necropoli di Pompei.
Tutto questo, così tipico di Leonardo e della sua originalità di visione, sembrava sommarsi nel volto di quell'alta figura angelica. Girato quasi di profilo sulla sinistra, il viso era rivolto alla croce, e un vago accenno di pietà ne investiva i tratti grigi e melanconici. Una fronte alta, lievemente convessa sulle tempie, dominava il bel naso semitico e la bocca. La traccia di un sorriso, misto di compassionevole rassegnazione e di comprensione, sfiorava le labbra, andando a illuminare ciò che del volto non era stato oscurato dalle ombre del cielo tempestoso.
Nella foto alla mia destra, però, tutto questo era stato completamente 
alterato. L'intero carattere di questa figura angelica era stato rimpiazzato 
da  una  nuova  concezione.  Restava  una  superficiale  somiglianza,  ma  il 
volto  aveva  perso  la  sua  espressione  di  tragica  compassione.  L'artista 
subentrato ne aveva invertito la postura, e ora la testa era voltata dal lato 
opposto  rispetto  alla croce  e  verso la  Gerusalemme  terrena, le  cui  torri 
spettrali  sorgevano  nel  crepuscolo  azzurrino  come  quelle  della  città 
infernale di Milton. Mentre gli altri spettatori seguivano l'ascesa di Cristo 
come se fossero disperati all'idea di non poterlo assistere, l'espressione sul 
volto della figura vestita di nero era arrogante e critica, e la tensione dei 
muscoli  del  collo  indicava  che  aveva  bruscamente  distolto  lo  sguardo, 
quasi disgustato dallo spettacolo che si era trovato davanti.
«Cos'è?» domandai, indicando la seconda foto. «La copia perduta di un allievo? Non riesco a capire perché...»
Georg si sporse in avanti e indicò la foto. «È  questo  l'originale di 
Leonardo. Non capisci, Charles? La versione alla tua sinistra, che hai 
ammirato  per  tutti  quei  minuti,  è  stata  sovrimposta  da  un  ritoccatore 
sconosciuto pochi anni dopo la morte di Leonardo.» Sorrise di fronte al 
mio  scetticismo.  «Credimi,  è  così.  La  figura  in  questione  è  solo  una 
piccola parte della composizione, nessuno l'ha mai esaminata seriamente 
prima d'ora, anche perché il resto del quadro è indubbiamente autentico. 
Queste  aggiunte  sono  state  scoperte  cinque  mesi  fa,  poco  dopo  che  il dipinto è stato rimosso per la pulizia. L'esame agli infrarossi ha rivelato il 
profilo completamente intatto al di sotto del primo strato.» 
Mi passò altre due foto, entrambe dettagli ingranditi della testa, in cui i 
contrasti  nella  caratterizzazione  erano  ancor  più  evidenti. «Come  puoi 
constatare dalle pennellate nelle ombreggiature, il ritocco è stato fatto da 
un artista che dipingeva con la destra, mentre naturalmente sappiamo che 
Leonardo era mancino.»
«Be'...» scrollai le spalle. «Mi sembra strano. Ma se ciò che dici è esatto, perché  mai  sarebbe  stato  alterato  un  dettaglio  così  piccolo?  L'intera concezione del personaggio è diversa.»
«Una domanda interessante. A proposito, la figura rappresenta Ahasvero, l'Ebreo  errante.»  Indicò  i  piedi  dell'uomo. «È  sempre  stato  raffigurato convenzionalmente  con  i  sandali  a  strisce  incrociate  della  setta  degli Esseni, di cui potrebbe aver fatto parte lo stesso Gesù.»
Ripresi le foto in mano. «L'Ebreo errante» ripetei. «Strano. L'uomo che 
sfidò Cristo a muoversi più in fretta e fu condannato a vagare sulla faccia 
della  terra  fino  al  Secondo  Avvento.  Sembra  quasi  che  il  ritoccatore 
volesse     difenderlo, sovrimponendo     l'espressione     pietosa     alla 
rappresentazione di Leonardo. Ecco un'idea che fa al caso tuo, Georg. Sai 
bene come i cortigiani e i mercanti che si radunavano negli studi dei pittori 
venissero incorporati in modo informale nei loro dipinti... Forse Ahasvero, 
nelle sue peregrinazioni, decise di posare nella parte di se stesso, spinto dal 
senso di colpa, per poi rubare i dipinti ed emendarli. Questa sì, che sarebbe 
una gran teoria.»
Guardai  Georg,  aspettando  che  mi  rispondesse.  Stava  annuendo lentamente,  guardandomi  fisso  negli  occhi  con  un'espressione  di  muta complicità, senza la minima traccia di divertimento. «Georg!» esclamai. «Ma parli sul serio? Vuoi davvero dire...»
Mi  interruppe,  con  tono  garbato  ma  fermo. «Charles,  dammi  solo 
qualche altro minuto per spiegarmi. Ti avevo avvertito che la mia teoria 
non  era  verosimile.»  Prima  che  potessi  protestare  mi  passò  un'altra 
fotografia. «La  Crocifissione  del  Veronese.  Non  riconosci  nessuno?  In 
basso a sinistra.»
Alzai la foto contro la luce. «Hai ragione. Il trattamento tardo veneziano è diverso, molto più pagano, ma è abbastanza evidente. Sai, Georg, la somiglianza è davvero impressionante.»
«D'accordo.  Ma  non  è  solo  la  somiglianza.  Guarda  la  postura,  e  la caratterizzazione.»
Anche qui identificata dalla veste nera e dai sandali a strisce incrociate, 
la  figura  di  Ahasvero  era  in  piedi  in  mezzo  alla  calca  di  quella 
affollatissima  tela.  L'aspetto  più  insolito  non  era  tanto  che  la  posa 
coincidesse con quella del Leonardo ritoccato, con Ahasvero che guardava 
il  Cristo  morente  con  un'espressione  di  profonda  compassione -
un'interpretazione  di  per  sé  irrilevante - quanto che vi fosse una 
somiglianza  così  notevole  tra  le  due  figure,  quasi  fossero  state  dipinte 
utilizzando lo stesso modello. La barba era forse appena più folta, secondo 
la  moda  veneziana,  ma  i  tratti  del  viso,  la  convessità  all'altezza  delle 
tempie,  la  durezza  affascinante  della  bocca  e  della  mascella,  la  saggia 
rassegnazione nello sguardo, come quella di un dottore di fronte a un atto 
di una forza e bellezza quasi barbariche: tutti questi aspetti rimandavano 
direttamente al Leonardo.
Feci un gesto impotente: «È una coincidenza davvero sorprendente.»
Georg annuì. «E un'altra coincidenza è che questo dipinto, come il Leonardo, è stato rubato subito dopo aver subìto una pulitura radicale. Quando è stato ritrovato a Firenze, due anni fa, era lievemente danneggiato e non sono stati fatti ulteriori interventi di restauro.» Georg si interruppe. «Hai capito dove voglio arrivare, Charles?»
«Più o meno. Tu sospetti che se il Veronese venisse ripulito verrebbe 
trovata  una  versione  di  Ahasvero  sensibilmente  diversa.  La  versione 
originale.»
«Esatto. Dopo tutto, il trattamento attuale non ha molto senso. Se sei ancora scettico, da' un'occhiata a queste.»
Dopo esserci alzati, cominciammo a scorrere le altre foto. In tutti gli altri 
dipinti, il Poussin, lo Holbein, il Goya e il Rubens, compariva sempre la 
stessa figura, lo stesso volto tetro e melanconico che guardava la croce con
un'espressione di compassionevole     comprensione.     Anche     in
considerazione degli stili molto diversi degli artisti, il grado di somiglianza era davvero notevole. E in ciascuno dei dipinti la posa era altrettanto priva di  senso,  la  caratterizzazione  completamente  in  contrasto  con  il leggendario ruolo di Ahasvero.
A quel punto, l'intensità delle convinzioni di Georg mi si stava 
trasmettendo in modo quasi fisiologico. Tamburellava sulla scrivania con il 
palmo  della  mano.  «In  ciascun  caso,  Charles,  il  dipinto  è  stato  rubato 
subito dopo essere stato ripulito - perfino lo Holbein è stato trafugato dalla 
collezione di Goering da qualche SS traditore dopo essere stato restaurato 
dai prigionieri di un campo di concentramento. Come hai detto tu stesso, è come  se  il  ladro  non  volesse  che  il  mondo  veda  la  vera  immagine  del personaggio  di  Ahasvero  al  posto  di  quella  evidenziata  e  dipinta deliberatamente nelle sue apologie.»
«Ma Georg, si tratta di supposizioni. Sei in grado di provare che in tutti i casi, e non solo in quello del Leonardo, ci sia una versione originale al di sotto di quella attuale?»
«Non ancora. Naturalmente le gallerie non sono molto favorevoli all'idea di dare a chicchessia l'opportunità di mostrare che le loro opere non sono del  tutto  originali.  So  che  si  tratta  ancora  di  ipotesi,  ma  quale  altra spiegazione potresti trovare?»
Scuotendo  il  capo,  andai  alla  finestra,  lasciando  che  il  rumore  e  i movimenti  di  Bond  Street  interrompessero  le  speculazioni  esaltate  di Georg. «Georg, stai ipotizzando seriamente che la figura in veste nera di Ahasvero stia ancora vagando per il mondo e che nel corso dei secoli non abbia  fatto  altro  che  rubare  e  ritoccare dei  quadri  che  lo  rappresentano nell'atto di deridere Gesù? Ma è ridicolo!»
«Non più ridicolo del furto del dipinto. Tutti si sono detti d'accordo sul fatto che non può essere stato rubato da qualcuno che rispetti le normali leggi della fisica.»
Per un istante ci guardammo dai due lati opposti della scrivania. «E va bene» presi tempo, non volendo offenderlo. L'intensità della sua idea fissa mi aveva allarmato. «Ma non è meglio seguire il nostro piano e restarcene seduti tranquilli, aspettando che il Leonardo salti di nuovo fuori?»
«Non necessariamente. La maggior parte dei dipinti rubati sono rimasti 
irreperibili per dieci o vent'anni. Forse lo sforzo per superare i limiti dello 
spazio e del tempo lo lascia esausto, o forse la vista dei dipinti originali lo 
terrorizza al punto che...» Si interruppe quando si accorse che mi stavo 
avvicinando a lui. «Lo so, Charles, sembra una follia, ma c'è una piccola 
possibilità  che  sia  vero.  Ed  è  per  questo  che  ho  bisogno  del  tuo  aiuto. 
Evidentemente  quest'uomo  dev'essere  un  grande  protettore  delle  arti, 
spinto da un impulso irresistibile, da un senso di colpa irrefrenabile verso 
gli  artisti  che  dipingono  crocifissioni.  Dobbiamo  cominciare  a  tener 
d'occhio le aste e le gallerie. Quel volto, quegli occhi neri e quel profilo 
tormentato - prima o poi lo vedremo mentre cerca un'altra Crocifissione, o 
una Pietà. Prova a pensarci, non riconosci quella faccia?»
Abbassai  lo  sguardo  sul  tappeto,  avendo  sempre  davanti  a  me 
l'immagine di quel viandante dagli occhi scuri. 'Sbrigati', aveva intimato a 
Gesù mentre passava portando la croce verso il Golgota, e Gesù aveva risposto,  'Io  vado,  ma  tu  dovrai  attendere  il  mio  ritorno.'  Stavo  per rispondere di no quando qualcosa mi trattenne e un vago ricordo si fece spazio nella mia mente. Quel bel profilo levantino, in un costume diverso, naturalmente,  un  completo  a  righine  scure,  un  bastone  con  il  pomello dorato e le ghette, che faceva la sue offerte tramite un agente...
«Lo  hai  visto,  vero?»  insisté  Georg.  «Charles,  credo  di  averlo  visto anch'io.»
Lo allontanai con un gesto. «Non ne sono sicuro, Georg, ma... ho 
qualche dubbio.» Stranamente, era il ritratto ritoccato di Ahasvero, più che 
l'originale di Leonardo, a sembrare più reale, più vicino al volto che mi 
sentivo  quasi  certo  di  aver  visto.  Tutto  d'un  tratto,  girai  sui  tacchi. 
«Accidenti, Georg! Ma ti rendi conto che se quest'idea incredibile è vera, 
quell'uomo deve aver parlato con Leonardo? E Michelangelo, Tiziano e 
Rembrandt?»
Georg annuì. «E anche con qualcun altro» disse, pensieroso.

Il  mese  successivo,  dopo  il  ritorno  di  Georg  a  Parigi,  trascorsi  meno 
tempo in ufficio e più alle aste, cercando quel profilo familiare che, senza 
sapere esattamente perché, ero certo di aver visto. Se non fosse stato per 
questa convinzione innegabile avrei liquidato l'ipotesi di Georg come una 
fantasia di tipo ossessivo. Feci anche qualche prudente indagine presso i 
miei dipendenti, e con mio gran dispetto anche due di loro ricordavano 
vagamente una persona che corrispondeva alla descrizione. E a quel punto 
mi ritrovai incapace di prendere le distanze dalle fantasticherie di Georg de 
Stael.  Non  c'erano  più  notizie  del  Leonardo  scomparso,  e  la  totale 
mancanza di indizi disorientava tanto la polizia quanto il mondo dell'arte.
Di conseguenza, fu con grande sollievo ed eccitazione che, cinque settimane dopo, accolsi questo telegramma:

CHARLES. VIENI IMMEDIATAMENTE. L'HO VISTO. 
GEORG DE STAEL.
Stavolta, mentre il taxi mi portava dall'aeroporto di Orly alla Madeleine, 
non fu solo per passare il tempo che scrutai i giardini delle Tuileries in 
cerca di un uomo alto con un cappello floscio e nero che scivolasse tra gli 
alberi  con  una  tela  arrotolata  sotto  il  braccio.  Georg  de  Stael  era 
definitivamente  e  irreparabilmente  impazzito,  o  aveva  davvero  visto  il 
fantasma di Ahasvero?
Quando mi venne incontro all'ingresso di Normand et Cie la sua stretta di mano fu robusta come sempre, e il suo volto era composto e rilassato. Nel suo ufficio si sedette e mi guardò da sopra le punte delle dita con un'espressione  ironica:  evidentemente  era  così  sicuro  di  sé  che  poteva permettersi di prendere tempo prima di darmi la notizia.
«È qui, Charles» disse infine. «A Parigi, ospite del Ritz. Si è presentato alle aste di quadri dell'Ottocento e del Novecento. Con un po' di fortuna, potresti vederlo già oggi pomeriggio.»
Sentii  montare  di  nuovo  l'incredulità,  ma  prima  che  potessi  obiettare Georg mi mise a tacere.
«E proprio come lo immaginavamo, Charles. Alto e robusto, con una grazia quasi statuaria, il tipo di persona che si trova perfettamente a suo agio tra i ricchi e la nobiltà. Leonardo e Holbein lo hanno colto nella sua essenza,  con  quella  strana  intensità  tormentata  negli  occhi,  il  vento  dei deserti e delle gole profonde.»
«Quando lo hai visto per la prima volta?»
«Ieri  pomeriggio.  Avevamo  quasi  completato  le  aste  per  l'Ottocento 
quando è saltato fuori un piccolo Van Gogh - una copia modesta del Buon 
Samaritano,  realizzata  personalmente  dall'artista.  Apparteneva  all'ultima 
fase della follia ed era pieno di spirali turbolente, le figure che sembravano 
belve tormentate. Per qualche motivo, il volto del Samaritano mi ha fatto 
pensare ad Ahasvero. E proprio in quel momento ho alzato gli occhi sulla 
sala affollata.» Georg si sporse in avanti. «E con grande stupore, eccolo lì, 
seduto in prima fila a meno di un metro da me, e mi guardava fisso. Mi è 
stato  difficile  togliergli  gli  occhi  di  dosso.  Non  appena  sono  partite  le 
offerte, ne ha fatta subito una molto alta, di duemila franchi.»
«E si è aggiudicato il quadro?»
«No,  per  fortuna  sono  stato  pronto.  Dovevo  assicurarmi  che  fosse 
proprio l'uomo che cercavamo. In precedenza era sempre comparso nelle 
vesti  di  Ahasvero,  ma  al  giorno  d'oggi  ci  sono  ben  pochi  pittori  che 
facciano delle crocifissioni in stile tradizionale, e potrebbe aver tentato di 
placare il suo senso di colpa apparendo in altre vesti, come quella del Buon 
Samaritano. A quindicimila franchi era rimasto da solo - e in effetti la cifra 
minima era di diecimila -, ma a quel punto mi sono imposto e ho fatto 
ritirare il quadro. Ero sicuro che, se fosse stato Ahasvero, sarebbe tornato 
anche oggi, e mi servivano ventiquattr'ore per mettermi in contatto con te e 
con la polizia. Due uomini di Carnot saranno qui nel pomeriggio. Gli ho 
raccontato una versione dei fatti piuttosto vaga, e non si intrometteranno. 
Naturalmente,  quando  il  Van  Gogh  è  stato  ritirato  è  scoppiato  un pandemonio.  Erano  tutti  convinti  che  fossi  impazzito.  Il  nostro  amico dall'aria tetra si è alzato in piedi e ha chiesto spiegazioni, quindi gli ho dovuto rispondere che avevo dei dubbi sull'autenticità del  quadro e che volevo  proteggere  la  reputazione  della  galleria,  ma  se  i  dubbi  fossero rientrati avrei ripreso l'asta il giorno successivo.»
«Una mossa molto astuta.»
Georg chinò il capo. «Lo credevo anch'io. Era una trappola efficace. Lui 
si  è  lanciato  immediatamente  in  una  difesa  del  dipinto - quando 
normalmente un uomo con la sua esperienza di aste sarebbe stato ben lieto 
di vederlo sottoposto a ulteriori accertamenti - fornendo tutta una serie di 
dettagli  sui  pigmenti  di  terz'ordine  usati  da  Vincent,  sul  lato  posteriore 
della tela, e così via. Nota bene, ha detto il lato posteriore, quello che un 
modello ricorderà  sempre meglio, in un quadro che lo raffigura. Gli ho 
risposto che in linea di massima mi aveva convinto, e mi ha promesso che 
sarebbe tornato oggi. Ha lasciato il suo indirizzo, nel caso fossero emerse 
delle  difficoltà.»  Georg  estrasse  dalla  tasca  un biglietto  da  visita  listato 
d'argento  e  lesse  ad  alta  voce:  «Conte  Enrique  Danilewicz,  Villa  d'Est, 
Cadaques Costa Brava.» E a mano era stato aggiunto: Hotel Ritz, Parigi.
«Cadaques»  ripetei. «Dalì  abita  lì  vicino,  a  Port  Lligat.  Un'altra coincidenza.»
«Forse più di una coincidenza. Indovina cosa sta realizzando il maestro catalano per la nuova cattedrale di San Giuseppe, a San Diego? Una delle sue commissioni più importanti. Esatto! Una crocifissione. Il nostro amico Ahasvero si è rimesso in moto ancora una volta.»
Georg tirò fuori un'agenda rilegata in pelle dal cassetto centrale della 
scrivania. «Ora,  senti  questa.  Ho  fatto  delle  ricerche  sull'identità  dei 
modelli per il personaggio di Ahasvero - di solito, cortigiani o mercanti di 
corte.  Quello  utilizzato  da  Leonardo  è  irrintracciabile.  Il  suo  studio  era 
aperto a chiunque, mendicanti e capre, e chiunque potrebbe essersi fermato 
a fare da modello. Ma gli altri casi sono diversi. L'Ahasvero di Holbein era 
un certo sir Henry Daniels, banchiere rinomato e amico di Enrico  VIII. 
Quello del Veronese era un membro del Consiglio dei Dieci, nientemeno 
che il futuro doge Enri Danieli - a Venezia, abbiamo soggiornato entrambi 
nell'albergo che porta il suo nome. Nel dipinto di  Rubens era il  barone 
Henrik Nielson, ambasciatore danese ad Amsterdam, e in quello di Goya 
un  certo  Enrico  Da  Nella,  finanziere  e  mecenate  del  Prado.  Infine,  nel 
Poussin era un famoso dilettante: Henri, duca de Nile.»
Georg chiuse l'agenda con uno svolazzo. Io dissi: «Davvero notevole.»
«E  non  esageri.  Danilewicz,  Daniels,  Danieli,  Da  Nella,  de  Nile  e Nielson.  Alias,  Ahasvero.  Sai,  Charles,  ho  un  po'  paura,  ma  credo  che siamo molto vicini a ritrovare il Leonardo rubato.»
Nulla  avrebbe  potuto  essere  più  deludente,  quindi,  della  mancata comparsa della nostra preda, quel pomeriggio.
Fortunatamente, il rinvio dell'asta del Van Gogh aveva comportato che  gli fosse assegnato un numero di lotto molto alto, dopo altre tre dozzine di  quadri  del  Novecento.  Mentre  le  offerte  per  i  Kandinski  e  i  Leger 
proseguivano, mi sedetti sul podio accanto a Georg, sorvegliando la folla 
elegante  riunitasi  per  l'occasione.  In  un  consesso  internazionale  come 
quello,  tra  esperti  americani,  magnati  della  stampa  inglesi,  aristocratici 
francesi e italiani, per giunta con una generosa spruzzata di signore del bel 
mondo, perfino la presenza di una figura notevole come quella che Georg 
mi  aveva  descritto  non  sarebbe  apparsa  insolita.  Comunque,  mentre  ci 
muovevamo  rapidi  lungo  il  catalogo  d'asta,  e  i  flash  dei  fotografi 
diventavano  sempre  più  fastidiosi,  cominciai  a  chiedermi  se  si  sarebbe 
fatto vedere. Il suo posto in prima fila era rimasto riservato per lui, e attesi 
con  impazienza  che  quel  fuggiasco  nel  tempo  e  nello  spazio  si 
materializzasse e facesse il suo ingresso solenne proprio all'annuncio del 
Van Gogh.
Ma la poltrona restò vuota, e il quadro invenduto. Svalutato dai dubbi di 
Georg sulla sua autenticità, il Van Gogh non raggiunse il prezzo minimo, e 
alla chiusura dell'asta restammo soli sul palco con la nostra esca ancora 
intatta.
«Deve  aver  fiutato  la  trappola»  bisbigliò  Georg,  dopo  che  i  suoi dipendenti ebbero confermato che il conte Danilewicz non era presente in nessuna delle altre sale d'asta. Subito dopo, una chiamata al Ritz confermò che aveva lasciato la sua stanza ed era partito per il Sud.
«Dev'essere  un  vero  esperto  nell'evitare  i  trabocchetti.  E  ora  che facciamo?» chiesi.
«Andiamo a Cadaques.»
«Georg, ma sei impazzito?»
«Niente affatto. C'è una sola possibilità, ma dobbiamo coglierla al volo! 
L'ispettore Carnot ci troverà un volo. Inventerò qualcosa per convincerlo. 
Dài, Charles, sono convinto che troveremo il Leonardo nella sua villa.»
Arrivammo  a  Barcellona  con  Carnot  alle  calcagna;  il  sovrintendente Jurgens, dell'Interpol, accelerò il passaggio della dogana, e tre ore dopo partimmo per Cadaques con un drappello di auto della polizia. La corsa veloce  lungo  quella  fantastica  costa,  con  le  sue  rocce  gigantesche  che sembrano  rettili  addormentati  e  la  luce  abbacinante  sul  mare immobile, proprio come nelle marine sospese nel tempo di Dalì, fu un degno preludio al capitolo finale. L'aria intorno a noi gettava diamanti di luce sulle immense  spirali  di  roccia  e  sui  grandi  bastioni  lunari  che  a  tratti  si aprivano su baie d'acqua rilucente.
La Villa d'Est sorgeva su un promontorio trecento metri sopra la città, e le  sue  alte  mura  e  le  finestre  moresche  con  le  persiane  abbassate 
splendevano alla luce del sole come quarzo bianco. Le grandi porte scure, 
come  le  volte  di  una  cattedrale,  erano  sbarrate,  e  nessuno  rispose  al ripetuto suono del campanello. A quel punto cominciò una lunga polemica tra  Jurgens  e  la  polizia  locale,  combattuta  tra  la  riluttanza  all'idea  di 
offendere  un  importante  dignitario  locale  -  il  conte  Danilewicz  aveva 
offerto diverse borse di studio per giovani artisti promettenti - e la loro brama di prendere parte al recupero del Leonardo scomparso.
Spazientiti, Georg e io noleggiammo una vettura con autista e partimmo per Port Lligat, dopo aver promesso all'ispettore che saremmo tornati in tempo per l'arrivo dell'aereo che doveva essere a Barcellona due ore dopo, probabilmente con il  conte Danilewicz a bordo. «Ma non ho il minimo dubbio» mi sussurrò Georg «che viaggerà con altri mezzi.»
Non avevo ancora deciso quale scusa ci saremmo inventati per penetrare nella casa del pittore più famoso di Spagna, anche se la possibilità di due mostre in contemporanea a Northeby's e alle Galeries Normande avrebbe potuto placarne l'ira. Mentre ci avvicinavamo alla famosa villa bianca che scendeva  a  gradoni  fino  in  riva  al  mare,  ci  venne  incontro  una  grande limousine che portava via un ospite recente.
Le due macchine si incrociarono in un punto nel quale la strada si 
restringeva  passando  in  mezzo  a  un  gruppo  di  grotte,  e  per  un  istante 
rimasero affiancate remigando nella polvere con un ruggito da mastodonti.
All'improvviso, Georg mi afferrò per un gomito indicando il finestrino opposto.
«Charles! Eccolo!»
Abbassando il finestrino mentre i guidatori si insultavano, mi sporsi a 
guardare l'abitacolo scuro della macchina adiacente. Seduto dietro, con la 
testa sollevata ad ascoltare il vocio, c'era una figura che faceva pensare a Rasputin, con un gessato nero, i polsini bianchi e il fermacravatta d'oro che splendevano  nel  buio  e  le  mani  guantate  incrociate  su  un  bastone  dal pomello d'avorio. Mentre gli passavamo accanto vidi per un attimo la sua grande testa melanconica, i cui lineamenti, dal vivo, corrispondevano quasi perfettamente, corroborandoli, a quelli che avevo visto riprodotti da tante mani su altrettante tele. Gli occhi scuri splendevano di un bagliore intenso, le sopracciglia nere si dipartivano dalla fronte come ali e la curva netta 
della barba proiettava la linea della mascella all'infuori, come una lancia.
Benché fosse vestito con grande eleganza, la sua semplice presenza irradiava  un'energia  impressionante  e  irrequieta,  un  forte  carisma  che sembrava estendersi ben oltre i confini dell'abitacolo. Per un istante i nostri sguardi  si  incrociarono,  da  una  distanza  di  meno  di  un  metro.  Ma  lui guardava oltre me, verso un qualche luogo distante, l'invisibile cima di una collina,  stagliata  per  l'eternità  all'orizzonte,  e  vidi  nei  suoi  occhi quell'espressione di irredimibile rimorso, di disperazione quasi allucinata, impermeabile alla pietà come a qualunque alleviamento, che di solito si immagina di vedere sui volti dei dannati.
«Fermalo!» gridò Georg, sopra il frastuono. «Charles, chiamalo!»
La nostra auto scivolò fuori dalla strettoia, e gridai nel fumo degli scappamenti: «Ahasvero! Ahasvero!»
I suoi occhi selvaggi si voltarono di scatto e si sollevò dal sedile, un 
braccio  scuro  sul  bordo  del  finestrino,  come  un  immenso  angelo 
menomato  che  stesse  per  prendere  il  volo.  Poi  le  due  macchine  si 
allontanarono  una  dall'altra,  e  fummo  separati  dalla  limousine  da  un 
vortice di polvere, che rimase sospeso nell'aria incantata per dieci minuti. 
Quando si dissolse e riuscimmo a invertire la marcia, la grande limousine 
era svanita.
Trovarono il Leonardo nella Villa d'Est, appoggiato al muro nella sua grande cornice dorata, in salone. Con grande sorpresa di tutti, la casa era completamente  vuota,  benché  due  servitori  cui  era  stato  concesso  un giorno di libertà testimoniassero  che quando erano usciti  quella mattina stessa  era  ancora  riccamente ammobiliata, come  di  consueto.  Del  resto, come  sottolineò  Georg  de  Stael,  non  c'era  dubbio  sul  fatto  che  il proprietario disponesse di mezzi di trasporto personali.
Il dipinto non aveva subìto danni, anche se un primo e generico esame  confermò che una mano particolarmente abile si era messa all'opera su una piccola sezione del quadro. Il volto della figura vestita di nero guardava di 
nuovo  verso  la  croce,  con  un  accenno  di  speranza,  forse  addirittura  di redenzione,  nello  sguardo  assorto.  I  colori  erano  asciutti,  ma  Georg  mi riferì che il sottile strato di vernice era ancora umido.
Dopo il nostro festeggiatissimo e trionfale ritorno a Parigi, Georg e io raccomandammo che, visti i pericoli già corsi dal dipinto, non venissero fatti  ulteriori  tentativi  di  ripulirlo  o  restaurarlo,  e  con  un  sospiro  di gratitudine il direttore e lo staff del Louvre lo inchiodarono di nuovo alla sua parete. Certo, il quadro non sarà tutto di mano leonardesca, ma siamo convinti che le poche aggiunte meritino di restare al loro posto.
Del conte Danilewicz non si ebbero più notizie, ma recentemente Georg mi  ha  detto  che  un  certo  professor  Henrico  Daniella  sarebbe  stato nominato  direttore  del  Museo  d'Arte  Pancristiana  di  Santiago.  I  suoi tentativi di entrare in contatto con il professor Daniella non hanno avuto 
buon fine, ma ha saputo che il museo era estremamente ansioso di poter creare un'ampia collezione di quadri che rappresentino la Crocifissione.