IL LEONARDO SCOMPARSO
Estratto da "Tutti i racconti"
Volume 2 (1963-68)
James G. Ballard
(The Lost Leonardo, Fantasy and Science Fiction, 1964)
La sparizione - o, per dirla senza eufemismi, il furto - della Crocifissione di Leonardo da Vinci dal museo del Louvre di Parigi,
scoperta la mattina del 19 aprile 1965, provocò uno scandalo senza precedenti. Dopo un decennio di grossi furti di opere d'arte, come quello del Duca di Wellington di Goya dalla National Gallery di Londra, o quelli delle collezioni private di impressionisti nelle loro case miliardarie nel Sud della Francia o in California, nonché i prezzi notevolmente aumentati nelle case d'asta di Bond Street e di Rue de Rivoli, ci si sarebbe potuti aspettare
che il pubblico non si stupisse troppo per la scomparsa di un altro notissimo capolavoro, ma in realtà la notizia fu accolta con autentica costernazione e sdegno. Migliaia di telegrammi da tutto il mondo si riversavano quotidianamente al Quai d'Orsay e al Louvre, i consolati francesi di Bogota e del Guatemala furono presi a sassate e la sicurezza e le notevoli capacità degli addetti stampa di tutte le ambasciate, da Buenos Aires a Bangkok, vennero messe duramente alla prova.
Io arrivai a Parigi ventiquattr'ore dopo quello che già veniva chiamato 'il
grande scandalo del Leonardo', e l'atmosfera di stupore e indignazione era
palpabile. Per tutto il tragitto dall'aeroporto di Orly i titoli di testa dei
giornali esposti nelle edicole riportavano la stessa notizia, a caratteri cubitali. E cioè, nella formula succinta scelta dal Continental Daily Mail:
RUBATA LA CROCIFISSIONE DI LEONARDO
Un capolavoro da cinque milioni di sterline scompare dal Louvre. A Parigi tutte le autorità erano in piena bufera. Lo sfortunato direttore del Louvre era stato richiamato in patria da una conferenza dell'UNESCO a Brasilia per prostrarsi davanti al Presidente, all'Eliseo; il Deuxième Bureau era stato allertato ed erano stati nominati almeno tre ministri senza portafoglio, il cui futuro politico era legato a doppio filo al recupero del dipinto. Come il Presidente in persona aveva sottolineato durante la conferenza stampa del pomeriggio precedente, il furto di un Leonardo era
un problema che non toccava solo la Francia ma il mondo intero, e in un appello appassionato aveva chiesto a tutti di fare il possibile per facilitarne il rapido rientro (nonostante l'atmosfera carica di emozione, ai più cinici tra gli osservatori non era sfuggito che questa era la prima crisi della sua carriera in cui il grand'uomo non aveva terminato la sua perorazione con un 'Vive la France').
I miei sentimenti, nonostante il mio coinvolgimento professionale con tutto ciò che riguarda le belle arti - ero, e sono ancora, il direttore di Northeby's, la casa d'asta di Bond Street famosa in tutto il mondo -
coincidevano ampiamente con quelli dei profani. Mentre il mio taxi passava accanto ai giardini delle Tuileries guardai le rozze riproduzioni del meraviglioso capolavoro di Leonardo pubblicate sui giornali, richiamando alla mente l'incomparabile splendore del dipinto, con la sua ineguagliabile composizione e l'assoluta padronanza del chiaroscuro, la sua tecnica
insuperata che era riuscita al tempo stesso a inaugurare il grande
Rinascimento e ad aprire la strada per gli scultori, i pittori e gli architetti dell'età barocca.
Nonostante i due milioni di riproduzioni del quadro che venivano vendute ogni anno, per non parlare degli innumerevoli pastiche e delle modeste imitazioni, il soggetto del dipinto preservava intatta la sua
maestosa potenza. Completato due anni dopo da La Vergine e Sant'Anna, anch'esso al Louvre, non solo era uno dei pochi Leonardo che fossero passati intatti per quattro secoli senza subire ritocchi, ma era l'unico quadro del maestro, insieme al Cenacolo, che però era in pessime condizioni, in cui la composizione prevedeva un ampio paesaggio e una notevole galleria di figure minori.
Era quest'ultimo fattore, forse, a dare al quadro la sua potenza terrificante e allucinatoria: l'espressione enigmatica, quasi ambivalente, sul volto del Cristo morente, gli occhi velati e serpentini della Madonna e della Maddalena, questi tratti così caratteristici di Leonardo diventavano ben più che semplici manierismi se confrontati con la spirale di figure che sembravano salire vorticando in cielo attraverso il Golgota, trasformando l'intera immagine della Crocifissione in una visione apocalittica della resurrezione e del giudizio che attendeva l'umanità. Da questa tela erano derivati i grandi affreschi di Michelangelo e Raffaello nella Cappella Sistina, e le scuole di Tintoretto e del Veronese. Che qualcuno avesse avuto l'audacia di rubarla era una tragica dimostrazione dello scarso rispetto che l'umanità nutriva per i suoi più grandi monumenti.
Eppure, mi chiedevo mentre raggiungevamo gli uffici delle Galeries Normand et Cie alla Madeleine, quel quadro era stato davvero rubato? Le sue dimensioni, cinque metri per sei, e il peso - l'opera era stata trasferita dalla tela originale su un pannello di quercia - escludeva a priori che il furto fosse opera di un fanatico o di uno psicopatico, e nessuna banda di professionisti specializzati in furti d'arte si sarebbe presa la briga di rubare un'opera per la quale non c'era mercato. Forse era possibile che il governo francese sperasse di distogliere l'attenzione da qualche altro evento imminente, anche se solo la restaurazione della monarchia e l'incoronazione del pretendente borbone a Notre Dame avrebbe richiesto una cortina fumogena di quelle dimensioni.
Alla prima opportunità manifestai i miei dubbi a Georg de Stael, il direttore delle Galeries Normand che mi avrebbe ospitato per tutta la mia permanenza. Ufficialmente ero a Parigi per una conferenza cui erano stati invitati i mercanti d'arte e i direttori di gallerie che avevano subìto furti di
importanti opere, ma perfino un estraneo, davanti alla nostra euforia ed eccitazione, avrebbe intuito che c'erano altri motivi. E ovviamente avrebbe avuto ragione. Quando nelle acque torbide dell'arte internazionale viene
gettata una grossa pietra, la gente come me e Georg de Stael prende immediatamente posizione sull'argine, attenta a ogni increspatura o bolla
maleodorante. Senza dubbio, il furto del Leonardo avrebbe rivelato molto più dell'identità di un qualunque ladruncolo da quattro soldi. Tutti i pesci
più grossi si sarebbero messi a nuotare di gran carriera in cerca di un
riparo, ed era innegabile che l'establishment ufficiale dei curatori e direttori
di musei avesse subìto un duro colpo.
Questi sentimenti vendicativi animavano chiaramente Georg mentre
girava intorno alla sua scrivania con eleganza e leggerezza per darmi il
benvenuto. Il suo abito estivo di seta azzurra, molto in anticipo sulla
stagione, splendeva come i suoi capelli lisci e imbrillantinati, e i suoi tratti
duri e rapaci si aprirono in un sorriso furfantesco quanto affascinante.
«Caro Charles, ti assicuro nella maniera più categorica che quel maledetto quadro è davvero sparito...» Georg tirò fuori cinque centimetri di polsino azzurro «...puff! Per una volta, dicono tutti la pura verità. E la cosa più sorprendente è che si tratta davvero dell'originale.»
«Non so se essere lieto o no di sentirtelo dire» ammisi. «Ma sicuramente è più di quanto si possa affermare di quasi tutto il Louvre - e della National Gallery.
«Perfettamente d'accordo con te.» Georg si sedette a cavalcioni sulla scrivania, con le eleganti scarpe di cuoio che brillavano alla luce della lampada. «Avevo sperato che questa catastrofe potesse indurre le autorità a confessare la verità su certi loro cosiddetti tesori, magari nel tentativo di diradare un po' della magia che circonda il Leonardo. Ma sono tutti in uno stato di confusione totale.»
Per un istante restammo entrambi a contemplare gli effetti che quella
sequenza di ammissioni avrebbe potuto comportare per i mercati d'arte di
tutto il mondo - i prezzi di qualunque cosa fosse anche solo vagamente
genuina sarebbero saliti alle stelle - nonché per l'immagine popolare del
Rinascimento come qualcosa di puro e ineguagliabile. Ma tutto questo non
comportava in alcun modo negare il genio del Leonardo trafugato.
«Dimmi, Georg» gli chiesi. «Chi lo ha rubato?» Immaginavo lo sapesse. Per la prima volta in tanti anni Georg sembrava a corto di risposte. Si strinse nelle spalle. «Caro Charles, non ne ho la minima idea. È un mistero vero e proprio. E sono tutti sconcertati quanto te.»
«In tal caso, dev'essere stato un lavoro fatto dall'interno.»
«Assolutamente no. I dipendenti del Louvre sono al di sopra di ogni sospetto.» Indicò il telefono. «Stamattina ne parlavo con un paio dei nostri contatti più sospetti - Antweiler a Messina e Kolenskya a Beirut - e anche loro sono sbalorditi. In effetti, sono convinti che potrebbe trattarsi di una manovra del governo francese; in caso contrario, potrebbe essere coinvolto addirittura il Cremlino.»
«Il Cremlino?» ripetei, in tono incredulo. Dopo che quel nome era stato pronunciato, l'atmosfera si fece più pesante, e per la mezz'ora successiva parlammo a bassissima voce.
La conferenza del pomeriggio, al Palais de Chaillot, non fornì altri indizi. L'ispettore capo Carnot, un uomo tetro e grosso con un vestito azzurro sgualcito, prese la parola, attorniato dagli altri agenti del Deuxième Bureau. Sembravano tutti stanchi e scoraggiati; dovevano già verificare dozzine di falsi allarmi ogni ora. Dietro di loro, come una giuria ostile, scura in volto, sedeva un gruppo di investigatori della Lloyds di Londra e del Morgan Guaranty Trust di New York. Per contrasto, i duecento venditori e agenti seduti sulle poltroncine dorate sotto il palco offrivano uno spettacolo animato, chiacchierando in una dozzina di lingue diverse e formulando le ipotesi più fantasiose.
Dopo un breve riassunto dei fatti, fornito con un tono di sepolcrale
rassegnazione, l'ispettore Carnot presentò un olandese tarchiato che gli
sedeva accanto, il sovrintendente Jurgens dell'ufficio dell'Interpol all'Aja, e poi chiese al vice direttore del Louvre, Auguste Pecard, di fornire una
descrizione dettagliata del furto. Quest'ultimo si limitò a confermare che le misure di sicurezza al Louvre erano di altissimo livello, e che era assolutamente impossibile che il dipinto fosse stato rubato. Mi parve di
capire che Pecard non era ancora completamente convinto che fosse uscito
dal museo.
«...i pannelli a pressione sul pavimento intorno al quadro non sono stati
manomessi, e i due raggi infrarossi che s'incrociano davanti alla sua
superficie non risultano fuori uso. Signori, vi garantisco che è impossibile
rimuovere il dipinto senza prima smantellare la cornice in bronzo, che da
sola pesa quattro quintali ed è inchiodata alla parete. Ma il circuito
d'allarme che passa attraverso i bulloni non è stato disattivato...»
Io stavo guardando le due foto a grandezza naturale delle due facce del dipinto, incollate allo schermo dietro il palco. La seconda mostrava il lato posteriore del pannello di quercia con le sue sei fasce d'alluminio in cui si trovavano i punti di contatto con il circuito, e una massa di graffiti in gesso scarabocchiati nel corso degli anni dai laboratori del museo. Le foto erano state scattate l'ultima volta che il quadro era stato rimosso per la pulizia, e dopo un breve giro di domande venne fuori che il restauro era stato completato solo due giorni prima del furto.
A questa notizia, l'atmosfera della conferenza cambiò. Le decine di conversazioni private cessarono e i fazzoletti di seta colorata tornarono nei rispettivi taschini.
Diedi di gomito a Georg de Stael. «Ecco la spiegazione.» Ovviamente il dipinto doveva essere scomparso durante il periodo trascorso in laboratorio, dove le misure di sicurezza non erano certo altrettanto rigorose. «Non è stato affatto rubato dalla galleria.»
Il mormorio intorno a noi era ripreso. Duecento nasi tornarono a
sollevarsi per fiutare la pista. Allora il quadro era stato rubato, e si trovava
da qualche parte. La ricompensa per chi lo avesse trovato - se non la
Legione d'onore o il titolo di Cavaliere, quanto meno l'esenzione totale
dalle tasse e dalle indagini delle dogane straniere - ci aleggiava davanti
come uno spettro.
Sulla via del ritorno, però, Georg guardava fuori dal finestrino del taxi, con un'espressione cupa e pensierosa.
«Il dipinto è stato rubato proprio dalla galleria» mi disse, con tono meditativo. «L'ho visto personalmente dodici ore prima che svanisse.» Mi prese per un braccio e lo strinse. «Lo troveremo, Charles, a maggior gloria di Northeby's e delle Galeries Normande. Ma, Dio mio, l'uomo che l'ha rubato dev'essere un ladro dotato di risorse sovrannaturali!»
Così cominciò la ricerca del Leonardo perduto. Tornai a Londra la
mattina dopo ma Georg e io ci tenemmo regolarmente in contatto via
telefono. All'inizio, come tutti gli altri, ci limitammo a restare in ascolto di
qualunque segnale ci suonasse sospetto. Nelle case d'asta e nelle gallerie
affollate aspettavamo la frase indiscreta, l'indizio rivelatore. Gli affari,
naturalmente, andavano a gonfie vele; tutti i musei e i privati con un
Rubens o un Raffaello di terz'ordine erano saliti di almeno un gradino nella
considerazione generale. Con un po' di buona sorte, l'accelerazione del
mercato avrebbe portato allo scoperto un complice del ladro, o
quest'ultimo si sarebbe sbarazzato di un sostituto del Leonardo che era già
nelle sue mani - magari un pastiche della Gioconda firmato dal Verrocchio
-, mettendolo in vendita su qualche mercato meno noto. Se la caccia al quadro scomparso veniva condotta pubblicamente con il consueto clamore, tra gli addetti ai lavori tutti erano calmi e sul chi vive.
In realtà, erano anche troppo calmi. Era ragionevole credere che
qualcosa si sarebbe dovuto materializzare, che qualche vago indizio
sarebbe dovuto passare attraverso i filtri delle gallerie e delle aste. E
invece, nulla di tutto questo. Quando il fervore di attività scatenato dal
furto si fu placato e gli affari ripresero il loro ritmo abituale,
inevitabilmente il dipinto entrò a far parte della lista dei capolavori perduti.
Solo Georg de Stael sembrava in grado di mantenere vivo il suo interesse per le ricerche. Di tanto in tanto faceva una chiamata a Londra per chiedere informazioni sul misterioso acquirente di un Tiziano o di un Rembrandt alla fine del diciottesimo secolo, o la storia di una copia danneggiata, firmata da un allievo di Rubens o Raffaello. Sembrava particolarmente interessato alle opere di cui si sapeva che erano state danneggiate e poi restaurate: un tipo di informazione che molti proprietari, specie se privati, sono ovviamente gelosi di fornire.
Di conseguenza, quando chiamò per fissare un appuntamento con me a
Londra, circa quattro mesi dopo la sparizione del Leonardo, non fu solo
per scherzo che gli chiesi: «Allora, Georg, hai finalmente capito chi è stato
a rubarlo?»
Aprendo una grossa borsa, Georg mi sorrise con un'espressione ambigua. «Ti sorprenderebbe se rispondessi di sì? In realtà non lo so, ma
ho un'idea, un'ipotesi, diciamo. Credevo che ti potesse interessare
sentirla.»
«Ma certo, Georg» dissi, per poi aggiungere, in tono di rimprovero,
«Allora è di questo che ti sei occupato negli ultimi tempi.»
Alzò l'indice magro, per farmi tacere. Sotto la consueta patina
affascinante notai una serietà tutta nuova, un modo di evitare decisamente i
convenevoli. «In primo luogo, Charles, prima che mi cacci dal tuo ufficio
ridendomi dietro, diciamo che considero la mia una teoria completamente
fantasiosa e inverosimile, eppure» e scrollò le spalle come se non credesse
alle sue stesse parole «a quanto pare è l'unica possibile. Ma per provarlo
mi serve il tuo aiuto.»
«Non c'è bisogno neanche che tu me lo chieda. Ma qual è questa teoria? Non vedo l'ora di sentirla.»
Esitò, apparentemente incerto se esporre la sua idea, e poi cominciò a vuotare la borsa, tirando fuori una serie di cartelline e disponendole in fila davanti a sé, sulla scrivania. Contenevano quelle che sembravano riproduzioni fotografiche di un certo numero di quadri, con alcune zone segnate con dell'inchiostro bianco. Molte delle foto erano ingrandimenti di dettagli, e in tutte figurava un uomo alto in costume medievale, con un viso lungo e una barba caprina.
Georg girò sei delle foto più grandi perché potessi vederle. «Le riconosci, vero?»
Annuii. A eccezione di uno, la Pietà di Rubens al museo Hermitage di
Leningrado, avevo visto tutti gli originali negli ultimi cinque anni. Le altre
opere erano la Crocifissione di Leonardo, appena rubata, le Crocifissioni di
Veronese, Goya e Holbein, e quella di Poussin, intitolata Il Golgota. Erano
tutte in musei pubblici - il Louvre, Santo Stefano a Venezia, il Prado e il
Rjiksmuseum di Amsterdam - ed erano tutti capolavori familiari e
autentici, opere centrali di importanti collezioni nazionali, con l'eccezione
del Poussin. «È rassicurante vederli. Spero siano tutti in buone mani. O
sono i prossimi titoli sulla lista del nostro misterioso ladro?»
Georg scosse il capo. «No, non credo che gli interessino molto. Anche se
li tiene sempre d'occhio.» Ancora una volta notai l'evidente cambiamento
nel suo comportamento, più riflessivo e con lampi di umorismo che
sembravano rivolti più che altro a se stesso. «Hai notato qualcos'altro?»
Confrontai di nuovo le foto. «Sono tutte crocifissioni. Autentiche, a
parte, forse, qualche dettaglio secondario. E tutte dipinte a olio.» Scrollai le spalle.
«Sono stati tutti rubati, in fasi diverse.» Georg li scorse rapidamente da
destra a sinistra. «Il Poussin dalla collezione dello Chateau Loire nel 1822,
il Goya nel 1806 dal monastero di Montecassino, a opera di Napoleone; il
Veronese dal Prado nel 1891, il Leonardo quattro mesi fa, come sappiamo,
e lo Holbein nel 1943, per andare ad arricchire la collezione di Hermann
Goering.»
«Interessante» commentai. «Ma ci sono ben pochi capolavori che non
siano stati rubati, almeno una volta. Spero che non sia il punto chiave della
tua teoria.»
«No, ma unito ad altri fattori acquista un significato più rilevante. Allora...» Mi porse la riproduzione del Leonardo. «Ci trovi niente di insolito?» Quando scossi il capo di fronte all'immagine familiare, prese un'altra foto del dipinto scomparso. «E che mi dici di questa?»
Le fotografie erano state scattate da due prospettive lievemente diverse, ma per il resto sembravano identiche. «Sono entrambe foto della Crocifissione originale,» spiegò Georg «scattate al Louvre nel mese prima della sparizione.»
«Ci rinuncio» risposi. «Mi sembrano uguali. No... aspetta un attimo!» Accostai la lampada della scrivania alle foto e mi chinai su di esse, mentre Georg annuiva. «Sono leggermente diverse. Ma che succede?»
Confrontai rapidamente le foto, passando da una figura all'altra, e in
pochi istanti colsi la disparità. Le foto erano identiche quasi in ogni
dettaglio, ma una figura tra le molte che componevano lo sfondo era stata
alterata. Sulla sinistra, mentre la processione si faceva strada serpeggiando
verso le tre croci, il volto di uno degli spettatori era stato completamente
ridipinto. Benché al centro del quadro la figura di Cristo pendesse dalla
croce a diverse ore dall'atto della Crocifissione, per effetto di una sorta di
prospettiva spazio-temporale - una caratteristica comune a tutta la pittura
del Rinascimento, che aveva lo scopo di superare la natura di per sé statica
della tela - la processione portava l'azione indietro nel tempo, consentendo
di seguire l'invisibile presenza del Cristo nella sua estrema, dolorosa
ascesa verso il Golgota.
La figura il cui volto era stato ridipinto faceva parte della folla sulle
pendici più basse. Era un uomo alto e imponente con una veste scura, ed
era stato evidentemente oggetto di un'attenzione particolare da parte di
Leonardo, che lo aveva investito di quel fisico potente e di quella grazia sinuosa che di solito riservava alla rappresentazione degli angeli.
Guardando la foto nella mia mano sinistra, la versione originale senza
ritocchi, mi resi conto che in effetti Leonardo aveva voluto che quella
figura rappresentasse un angelo della morte, o piuttosto uno di quegli
agenti dell'inconscio, terrificanti nella loro calma enigmatica, nella loro
riflessiva ambivalenza, che nei suoi dipinti sembrano presiedere a tutte le
paure e i desideri più profondi degli uomini, come le statue dal volto grigio
che guardano in basso dai cupi cornicioni della necropoli di Pompei.
Tutto questo, così tipico di Leonardo e della sua originalità di visione, sembrava sommarsi nel volto di quell'alta figura angelica. Girato quasi di profilo sulla sinistra, il viso era rivolto alla croce, e un vago accenno di pietà ne investiva i tratti grigi e melanconici. Una fronte alta, lievemente convessa sulle tempie, dominava il bel naso semitico e la bocca. La traccia di un sorriso, misto di compassionevole rassegnazione e di comprensione, sfiorava le labbra, andando a illuminare ciò che del volto non era stato oscurato dalle ombre del cielo tempestoso.
Nella foto alla mia destra, però, tutto questo era stato completamente
alterato. L'intero carattere di questa figura angelica era stato rimpiazzato
da una nuova concezione. Restava una superficiale somiglianza, ma il
volto aveva perso la sua espressione di tragica compassione. L'artista
subentrato ne aveva invertito la postura, e ora la testa era voltata dal lato
opposto rispetto alla croce e verso la Gerusalemme terrena, le cui torri
spettrali sorgevano nel crepuscolo azzurrino come quelle della città
infernale di Milton. Mentre gli altri spettatori seguivano l'ascesa di Cristo
come se fossero disperati all'idea di non poterlo assistere, l'espressione sul
volto della figura vestita di nero era arrogante e critica, e la tensione dei
muscoli del collo indicava che aveva bruscamente distolto lo sguardo,
quasi disgustato dallo spettacolo che si era trovato davanti.
«Cos'è?» domandai, indicando la seconda foto. «La copia perduta di un allievo? Non riesco a capire perché...»
Georg si sporse in avanti e indicò la foto. «È questo l'originale di
Leonardo. Non capisci, Charles? La versione alla tua sinistra, che hai
ammirato per tutti quei minuti, è stata sovrimposta da un ritoccatore
sconosciuto pochi anni dopo la morte di Leonardo.» Sorrise di fronte al
mio scetticismo. «Credimi, è così. La figura in questione è solo una
piccola parte della composizione, nessuno l'ha mai esaminata seriamente
prima d'ora, anche perché il resto del quadro è indubbiamente autentico.
Queste aggiunte sono state scoperte cinque mesi fa, poco dopo che il dipinto è stato rimosso per la pulizia. L'esame agli infrarossi ha rivelato il
profilo completamente intatto al di sotto del primo strato.»
Mi passò altre due foto, entrambe dettagli ingranditi della testa, in cui i
contrasti nella caratterizzazione erano ancor più evidenti. «Come puoi
constatare dalle pennellate nelle ombreggiature, il ritocco è stato fatto da
un artista che dipingeva con la destra, mentre naturalmente sappiamo che
Leonardo era mancino.»
«Be'...» scrollai le spalle. «Mi sembra strano. Ma se ciò che dici è esatto, perché mai sarebbe stato alterato un dettaglio così piccolo? L'intera concezione del personaggio è diversa.»
«Una domanda interessante. A proposito, la figura rappresenta Ahasvero, l'Ebreo errante.» Indicò i piedi dell'uomo. «È sempre stato raffigurato convenzionalmente con i sandali a strisce incrociate della setta degli Esseni, di cui potrebbe aver fatto parte lo stesso Gesù.»
Ripresi le foto in mano. «L'Ebreo errante» ripetei. «Strano. L'uomo che
sfidò Cristo a muoversi più in fretta e fu condannato a vagare sulla faccia
della terra fino al Secondo Avvento. Sembra quasi che il ritoccatore
volesse difenderlo, sovrimponendo l'espressione pietosa alla
rappresentazione di Leonardo. Ecco un'idea che fa al caso tuo, Georg. Sai
bene come i cortigiani e i mercanti che si radunavano negli studi dei pittori
venissero incorporati in modo informale nei loro dipinti... Forse Ahasvero,
nelle sue peregrinazioni, decise di posare nella parte di se stesso, spinto dal
senso di colpa, per poi rubare i dipinti ed emendarli. Questa sì, che sarebbe
una gran teoria.»
Guardai Georg, aspettando che mi rispondesse. Stava annuendo lentamente, guardandomi fisso negli occhi con un'espressione di muta complicità, senza la minima traccia di divertimento. «Georg!» esclamai. «Ma parli sul serio? Vuoi davvero dire...»
Mi interruppe, con tono garbato ma fermo. «Charles, dammi solo
qualche altro minuto per spiegarmi. Ti avevo avvertito che la mia teoria
non era verosimile.» Prima che potessi protestare mi passò un'altra
fotografia. «La Crocifissione del Veronese. Non riconosci nessuno? In
basso a sinistra.»
Alzai la foto contro la luce. «Hai ragione. Il trattamento tardo veneziano è diverso, molto più pagano, ma è abbastanza evidente. Sai, Georg, la somiglianza è davvero impressionante.»
«D'accordo. Ma non è solo la somiglianza. Guarda la postura, e la caratterizzazione.»
Anche qui identificata dalla veste nera e dai sandali a strisce incrociate,
la figura di Ahasvero era in piedi in mezzo alla calca di quella
affollatissima tela. L'aspetto più insolito non era tanto che la posa
coincidesse con quella del Leonardo ritoccato, con Ahasvero che guardava
il Cristo morente con un'espressione di profonda compassione -
un'interpretazione di per sé irrilevante - quanto che vi fosse una
somiglianza così notevole tra le due figure, quasi fossero state dipinte
utilizzando lo stesso modello. La barba era forse appena più folta, secondo
la moda veneziana, ma i tratti del viso, la convessità all'altezza delle
tempie, la durezza affascinante della bocca e della mascella, la saggia
rassegnazione nello sguardo, come quella di un dottore di fronte a un atto
di una forza e bellezza quasi barbariche: tutti questi aspetti rimandavano
direttamente al Leonardo.
Feci un gesto impotente: «È una coincidenza davvero sorprendente.»
Georg annuì. «E un'altra coincidenza è che questo dipinto, come il Leonardo, è stato rubato subito dopo aver subìto una pulitura radicale. Quando è stato ritrovato a Firenze, due anni fa, era lievemente danneggiato e non sono stati fatti ulteriori interventi di restauro.» Georg si interruppe. «Hai capito dove voglio arrivare, Charles?»
«Più o meno. Tu sospetti che se il Veronese venisse ripulito verrebbe
trovata una versione di Ahasvero sensibilmente diversa. La versione
originale.»
«Esatto. Dopo tutto, il trattamento attuale non ha molto senso. Se sei ancora scettico, da' un'occhiata a queste.»
Dopo esserci alzati, cominciammo a scorrere le altre foto. In tutti gli altri
dipinti, il Poussin, lo Holbein, il Goya e il Rubens, compariva sempre la
stessa figura, lo stesso volto tetro e melanconico che guardava la croce con
un'espressione di compassionevole comprensione. Anche in
considerazione degli stili molto diversi degli artisti, il grado di somiglianza era davvero notevole. E in ciascuno dei dipinti la posa era altrettanto priva di senso, la caratterizzazione completamente in contrasto con il leggendario ruolo di Ahasvero.
A quel punto, l'intensità delle convinzioni di Georg mi si stava
trasmettendo in modo quasi fisiologico. Tamburellava sulla scrivania con il
palmo della mano. «In ciascun caso, Charles, il dipinto è stato rubato
subito dopo essere stato ripulito - perfino lo Holbein è stato trafugato dalla
collezione di Goering da qualche SS traditore dopo essere stato restaurato
dai prigionieri di un campo di concentramento. Come hai detto tu stesso, è come se il ladro non volesse che il mondo veda la vera immagine del personaggio di Ahasvero al posto di quella evidenziata e dipinta deliberatamente nelle sue apologie.»
«Ma Georg, si tratta di supposizioni. Sei in grado di provare che in tutti i casi, e non solo in quello del Leonardo, ci sia una versione originale al di sotto di quella attuale?»
«Non ancora. Naturalmente le gallerie non sono molto favorevoli all'idea di dare a chicchessia l'opportunità di mostrare che le loro opere non sono del tutto originali. So che si tratta ancora di ipotesi, ma quale altra spiegazione potresti trovare?»
Scuotendo il capo, andai alla finestra, lasciando che il rumore e i movimenti di Bond Street interrompessero le speculazioni esaltate di Georg. «Georg, stai ipotizzando seriamente che la figura in veste nera di Ahasvero stia ancora vagando per il mondo e che nel corso dei secoli non abbia fatto altro che rubare e ritoccare dei quadri che lo rappresentano nell'atto di deridere Gesù? Ma è ridicolo!»
«Non più ridicolo del furto del dipinto. Tutti si sono detti d'accordo sul fatto che non può essere stato rubato da qualcuno che rispetti le normali leggi della fisica.»
Per un istante ci guardammo dai due lati opposti della scrivania. «E va bene» presi tempo, non volendo offenderlo. L'intensità della sua idea fissa mi aveva allarmato. «Ma non è meglio seguire il nostro piano e restarcene seduti tranquilli, aspettando che il Leonardo salti di nuovo fuori?»
«Non necessariamente. La maggior parte dei dipinti rubati sono rimasti
irreperibili per dieci o vent'anni. Forse lo sforzo per superare i limiti dello
spazio e del tempo lo lascia esausto, o forse la vista dei dipinti originali lo
terrorizza al punto che...» Si interruppe quando si accorse che mi stavo
avvicinando a lui. «Lo so, Charles, sembra una follia, ma c'è una piccola
possibilità che sia vero. Ed è per questo che ho bisogno del tuo aiuto.
Evidentemente quest'uomo dev'essere un grande protettore delle arti,
spinto da un impulso irresistibile, da un senso di colpa irrefrenabile verso
gli artisti che dipingono crocifissioni. Dobbiamo cominciare a tener
d'occhio le aste e le gallerie. Quel volto, quegli occhi neri e quel profilo
tormentato - prima o poi lo vedremo mentre cerca un'altra Crocifissione, o
una Pietà. Prova a pensarci, non riconosci quella faccia?»
Abbassai lo sguardo sul tappeto, avendo sempre davanti a me
l'immagine di quel viandante dagli occhi scuri. 'Sbrigati', aveva intimato a
Gesù mentre passava portando la croce verso il Golgota, e Gesù aveva risposto, 'Io vado, ma tu dovrai attendere il mio ritorno.' Stavo per rispondere di no quando qualcosa mi trattenne e un vago ricordo si fece spazio nella mia mente. Quel bel profilo levantino, in un costume diverso, naturalmente, un completo a righine scure, un bastone con il pomello dorato e le ghette, che faceva la sue offerte tramite un agente...
«Lo hai visto, vero?» insisté Georg. «Charles, credo di averlo visto anch'io.»
Lo allontanai con un gesto. «Non ne sono sicuro, Georg, ma... ho
qualche dubbio.» Stranamente, era il ritratto ritoccato di Ahasvero, più che
l'originale di Leonardo, a sembrare più reale, più vicino al volto che mi
sentivo quasi certo di aver visto. Tutto d'un tratto, girai sui tacchi.
«Accidenti, Georg! Ma ti rendi conto che se quest'idea incredibile è vera,
quell'uomo deve aver parlato con Leonardo? E Michelangelo, Tiziano e
Rembrandt?»
Georg annuì. «E anche con qualcun altro» disse, pensieroso.
Il mese successivo, dopo il ritorno di Georg a Parigi, trascorsi meno
tempo in ufficio e più alle aste, cercando quel profilo familiare che, senza
sapere esattamente perché, ero certo di aver visto. Se non fosse stato per
questa convinzione innegabile avrei liquidato l'ipotesi di Georg come una
fantasia di tipo ossessivo. Feci anche qualche prudente indagine presso i
miei dipendenti, e con mio gran dispetto anche due di loro ricordavano
vagamente una persona che corrispondeva alla descrizione. E a quel punto
mi ritrovai incapace di prendere le distanze dalle fantasticherie di Georg de
Stael. Non c'erano più notizie del Leonardo scomparso, e la totale
mancanza di indizi disorientava tanto la polizia quanto il mondo dell'arte.
Di conseguenza, fu con grande sollievo ed eccitazione che, cinque settimane dopo, accolsi questo telegramma:
CHARLES. VIENI IMMEDIATAMENTE. L'HO VISTO.
GEORG DE STAEL.
Stavolta, mentre il taxi mi portava dall'aeroporto di Orly alla Madeleine,
non fu solo per passare il tempo che scrutai i giardini delle Tuileries in
cerca di un uomo alto con un cappello floscio e nero che scivolasse tra gli
alberi con una tela arrotolata sotto il braccio. Georg de Stael era
definitivamente e irreparabilmente impazzito, o aveva davvero visto il
fantasma di Ahasvero?
Quando mi venne incontro all'ingresso di Normand et Cie la sua stretta di mano fu robusta come sempre, e il suo volto era composto e rilassato. Nel suo ufficio si sedette e mi guardò da sopra le punte delle dita con un'espressione ironica: evidentemente era così sicuro di sé che poteva permettersi di prendere tempo prima di darmi la notizia.
«È qui, Charles» disse infine. «A Parigi, ospite del Ritz. Si è presentato alle aste di quadri dell'Ottocento e del Novecento. Con un po' di fortuna, potresti vederlo già oggi pomeriggio.»
Sentii montare di nuovo l'incredulità, ma prima che potessi obiettare Georg mi mise a tacere.
«E proprio come lo immaginavamo, Charles. Alto e robusto, con una grazia quasi statuaria, il tipo di persona che si trova perfettamente a suo agio tra i ricchi e la nobiltà. Leonardo e Holbein lo hanno colto nella sua essenza, con quella strana intensità tormentata negli occhi, il vento dei deserti e delle gole profonde.»
«Quando lo hai visto per la prima volta?»
«Ieri pomeriggio. Avevamo quasi completato le aste per l'Ottocento
quando è saltato fuori un piccolo Van Gogh - una copia modesta del Buon
Samaritano, realizzata personalmente dall'artista. Apparteneva all'ultima
fase della follia ed era pieno di spirali turbolente, le figure che sembravano
belve tormentate. Per qualche motivo, il volto del Samaritano mi ha fatto
pensare ad Ahasvero. E proprio in quel momento ho alzato gli occhi sulla
sala affollata.» Georg si sporse in avanti. «E con grande stupore, eccolo lì,
seduto in prima fila a meno di un metro da me, e mi guardava fisso. Mi è
stato difficile togliergli gli occhi di dosso. Non appena sono partite le
offerte, ne ha fatta subito una molto alta, di duemila franchi.»
«E si è aggiudicato il quadro?»
«No, per fortuna sono stato pronto. Dovevo assicurarmi che fosse
proprio l'uomo che cercavamo. In precedenza era sempre comparso nelle
vesti di Ahasvero, ma al giorno d'oggi ci sono ben pochi pittori che
facciano delle crocifissioni in stile tradizionale, e potrebbe aver tentato di
placare il suo senso di colpa apparendo in altre vesti, come quella del Buon
Samaritano. A quindicimila franchi era rimasto da solo - e in effetti la cifra
minima era di diecimila -, ma a quel punto mi sono imposto e ho fatto
ritirare il quadro. Ero sicuro che, se fosse stato Ahasvero, sarebbe tornato
anche oggi, e mi servivano ventiquattr'ore per mettermi in contatto con te e
con la polizia. Due uomini di Carnot saranno qui nel pomeriggio. Gli ho
raccontato una versione dei fatti piuttosto vaga, e non si intrometteranno.
Naturalmente, quando il Van Gogh è stato ritirato è scoppiato un pandemonio. Erano tutti convinti che fossi impazzito. Il nostro amico dall'aria tetra si è alzato in piedi e ha chiesto spiegazioni, quindi gli ho dovuto rispondere che avevo dei dubbi sull'autenticità del quadro e che volevo proteggere la reputazione della galleria, ma se i dubbi fossero rientrati avrei ripreso l'asta il giorno successivo.»
«Una mossa molto astuta.»
Georg chinò il capo. «Lo credevo anch'io. Era una trappola efficace. Lui
si è lanciato immediatamente in una difesa del dipinto - quando
normalmente un uomo con la sua esperienza di aste sarebbe stato ben lieto
di vederlo sottoposto a ulteriori accertamenti - fornendo tutta una serie di
dettagli sui pigmenti di terz'ordine usati da Vincent, sul lato posteriore
della tela, e così via. Nota bene, ha detto il lato posteriore, quello che un
modello ricorderà sempre meglio, in un quadro che lo raffigura. Gli ho
risposto che in linea di massima mi aveva convinto, e mi ha promesso che
sarebbe tornato oggi. Ha lasciato il suo indirizzo, nel caso fossero emerse
delle difficoltà.» Georg estrasse dalla tasca un biglietto da visita listato
d'argento e lesse ad alta voce: «Conte Enrique Danilewicz, Villa d'Est,
Cadaques Costa Brava.» E a mano era stato aggiunto: Hotel Ritz, Parigi.
«Cadaques» ripetei. «Dalì abita lì vicino, a Port Lligat. Un'altra coincidenza.»
«Forse più di una coincidenza. Indovina cosa sta realizzando il maestro catalano per la nuova cattedrale di San Giuseppe, a San Diego? Una delle sue commissioni più importanti. Esatto! Una crocifissione. Il nostro amico Ahasvero si è rimesso in moto ancora una volta.»
Georg tirò fuori un'agenda rilegata in pelle dal cassetto centrale della
scrivania. «Ora, senti questa. Ho fatto delle ricerche sull'identità dei
modelli per il personaggio di Ahasvero - di solito, cortigiani o mercanti di
corte. Quello utilizzato da Leonardo è irrintracciabile. Il suo studio era
aperto a chiunque, mendicanti e capre, e chiunque potrebbe essersi fermato
a fare da modello. Ma gli altri casi sono diversi. L'Ahasvero di Holbein era
un certo sir Henry Daniels, banchiere rinomato e amico di Enrico VIII.
Quello del Veronese era un membro del Consiglio dei Dieci, nientemeno
che il futuro doge Enri Danieli - a Venezia, abbiamo soggiornato entrambi
nell'albergo che porta il suo nome. Nel dipinto di Rubens era il barone
Henrik Nielson, ambasciatore danese ad Amsterdam, e in quello di Goya
un certo Enrico Da Nella, finanziere e mecenate del Prado. Infine, nel
Poussin era un famoso dilettante: Henri, duca de Nile.»
Georg chiuse l'agenda con uno svolazzo. Io dissi: «Davvero notevole.»
«E non esageri. Danilewicz, Daniels, Danieli, Da Nella, de Nile e Nielson. Alias, Ahasvero. Sai, Charles, ho un po' paura, ma credo che siamo molto vicini a ritrovare il Leonardo rubato.»
Nulla avrebbe potuto essere più deludente, quindi, della mancata comparsa della nostra preda, quel pomeriggio.
Fortunatamente, il rinvio dell'asta del Van Gogh aveva comportato che gli fosse assegnato un numero di lotto molto alto, dopo altre tre dozzine di quadri del Novecento. Mentre le offerte per i Kandinski e i Leger
proseguivano, mi sedetti sul podio accanto a Georg, sorvegliando la folla
elegante riunitasi per l'occasione. In un consesso internazionale come
quello, tra esperti americani, magnati della stampa inglesi, aristocratici
francesi e italiani, per giunta con una generosa spruzzata di signore del bel
mondo, perfino la presenza di una figura notevole come quella che Georg
mi aveva descritto non sarebbe apparsa insolita. Comunque, mentre ci
muovevamo rapidi lungo il catalogo d'asta, e i flash dei fotografi
diventavano sempre più fastidiosi, cominciai a chiedermi se si sarebbe
fatto vedere. Il suo posto in prima fila era rimasto riservato per lui, e attesi
con impazienza che quel fuggiasco nel tempo e nello spazio si
materializzasse e facesse il suo ingresso solenne proprio all'annuncio del
Van Gogh.
Ma la poltrona restò vuota, e il quadro invenduto. Svalutato dai dubbi di
Georg sulla sua autenticità, il Van Gogh non raggiunse il prezzo minimo, e
alla chiusura dell'asta restammo soli sul palco con la nostra esca ancora
intatta.
«Deve aver fiutato la trappola» bisbigliò Georg, dopo che i suoi dipendenti ebbero confermato che il conte Danilewicz non era presente in nessuna delle altre sale d'asta. Subito dopo, una chiamata al Ritz confermò che aveva lasciato la sua stanza ed era partito per il Sud.
«Dev'essere un vero esperto nell'evitare i trabocchetti. E ora che facciamo?» chiesi.
«Andiamo a Cadaques.»
«Georg, ma sei impazzito?»
«Niente affatto. C'è una sola possibilità, ma dobbiamo coglierla al volo!
L'ispettore Carnot ci troverà un volo. Inventerò qualcosa per convincerlo.
Dài, Charles, sono convinto che troveremo il Leonardo nella sua villa.»
Arrivammo a Barcellona con Carnot alle calcagna; il sovrintendente Jurgens, dell'Interpol, accelerò il passaggio della dogana, e tre ore dopo partimmo per Cadaques con un drappello di auto della polizia. La corsa veloce lungo quella fantastica costa, con le sue rocce gigantesche che sembrano rettili addormentati e la luce abbacinante sul mare immobile, proprio come nelle marine sospese nel tempo di Dalì, fu un degno preludio al capitolo finale. L'aria intorno a noi gettava diamanti di luce sulle immense spirali di roccia e sui grandi bastioni lunari che a tratti si aprivano su baie d'acqua rilucente.
La Villa d'Est sorgeva su un promontorio trecento metri sopra la città, e le sue alte mura e le finestre moresche con le persiane abbassate
splendevano alla luce del sole come quarzo bianco. Le grandi porte scure,
come le volte di una cattedrale, erano sbarrate, e nessuno rispose al ripetuto suono del campanello. A quel punto cominciò una lunga polemica tra Jurgens e la polizia locale, combattuta tra la riluttanza all'idea di
offendere un importante dignitario locale - il conte Danilewicz aveva
offerto diverse borse di studio per giovani artisti promettenti - e la loro brama di prendere parte al recupero del Leonardo scomparso.
Spazientiti, Georg e io noleggiammo una vettura con autista e partimmo per Port Lligat, dopo aver promesso all'ispettore che saremmo tornati in tempo per l'arrivo dell'aereo che doveva essere a Barcellona due ore dopo, probabilmente con il conte Danilewicz a bordo. «Ma non ho il minimo dubbio» mi sussurrò Georg «che viaggerà con altri mezzi.»
Non avevo ancora deciso quale scusa ci saremmo inventati per penetrare nella casa del pittore più famoso di Spagna, anche se la possibilità di due mostre in contemporanea a Northeby's e alle Galeries Normande avrebbe potuto placarne l'ira. Mentre ci avvicinavamo alla famosa villa bianca che scendeva a gradoni fino in riva al mare, ci venne incontro una grande limousine che portava via un ospite recente.
Le due macchine si incrociarono in un punto nel quale la strada si
restringeva passando in mezzo a un gruppo di grotte, e per un istante
rimasero affiancate remigando nella polvere con un ruggito da mastodonti.
All'improvviso, Georg mi afferrò per un gomito indicando il finestrino opposto.
«Charles! Eccolo!»
Abbassando il finestrino mentre i guidatori si insultavano, mi sporsi a
guardare l'abitacolo scuro della macchina adiacente. Seduto dietro, con la
testa sollevata ad ascoltare il vocio, c'era una figura che faceva pensare a Rasputin, con un gessato nero, i polsini bianchi e il fermacravatta d'oro che splendevano nel buio e le mani guantate incrociate su un bastone dal pomello d'avorio. Mentre gli passavamo accanto vidi per un attimo la sua grande testa melanconica, i cui lineamenti, dal vivo, corrispondevano quasi perfettamente, corroborandoli, a quelli che avevo visto riprodotti da tante mani su altrettante tele. Gli occhi scuri splendevano di un bagliore intenso, le sopracciglia nere si dipartivano dalla fronte come ali e la curva netta
della barba proiettava la linea della mascella all'infuori, come una lancia.
Benché fosse vestito con grande eleganza, la sua semplice presenza irradiava un'energia impressionante e irrequieta, un forte carisma che sembrava estendersi ben oltre i confini dell'abitacolo. Per un istante i nostri sguardi si incrociarono, da una distanza di meno di un metro. Ma lui guardava oltre me, verso un qualche luogo distante, l'invisibile cima di una collina, stagliata per l'eternità all'orizzonte, e vidi nei suoi occhi quell'espressione di irredimibile rimorso, di disperazione quasi allucinata, impermeabile alla pietà come a qualunque alleviamento, che di solito si immagina di vedere sui volti dei dannati.
«Fermalo!» gridò Georg, sopra il frastuono. «Charles, chiamalo!»
La nostra auto scivolò fuori dalla strettoia, e gridai nel fumo degli scappamenti: «Ahasvero! Ahasvero!»
I suoi occhi selvaggi si voltarono di scatto e si sollevò dal sedile, un
braccio scuro sul bordo del finestrino, come un immenso angelo
menomato che stesse per prendere il volo. Poi le due macchine si
allontanarono una dall'altra, e fummo separati dalla limousine da un
vortice di polvere, che rimase sospeso nell'aria incantata per dieci minuti.
Quando si dissolse e riuscimmo a invertire la marcia, la grande limousine
era svanita.
Trovarono il Leonardo nella Villa d'Est, appoggiato al muro nella sua grande cornice dorata, in salone. Con grande sorpresa di tutti, la casa era completamente vuota, benché due servitori cui era stato concesso un giorno di libertà testimoniassero che quando erano usciti quella mattina stessa era ancora riccamente ammobiliata, come di consueto. Del resto, come sottolineò Georg de Stael, non c'era dubbio sul fatto che il proprietario disponesse di mezzi di trasporto personali.
Il dipinto non aveva subìto danni, anche se un primo e generico esame confermò che una mano particolarmente abile si era messa all'opera su una piccola sezione del quadro. Il volto della figura vestita di nero guardava di
nuovo verso la croce, con un accenno di speranza, forse addirittura di redenzione, nello sguardo assorto. I colori erano asciutti, ma Georg mi riferì che il sottile strato di vernice era ancora umido.
Dopo il nostro festeggiatissimo e trionfale ritorno a Parigi, Georg e io raccomandammo che, visti i pericoli già corsi dal dipinto, non venissero fatti ulteriori tentativi di ripulirlo o restaurarlo, e con un sospiro di gratitudine il direttore e lo staff del Louvre lo inchiodarono di nuovo alla sua parete. Certo, il quadro non sarà tutto di mano leonardesca, ma siamo convinti che le poche aggiunte meritino di restare al loro posto.
Del conte Danilewicz non si ebbero più notizie, ma recentemente Georg mi ha detto che un certo professor Henrico Daniella sarebbe stato nominato direttore del Museo d'Arte Pancristiana di Santiago. I suoi tentativi di entrare in contatto con il professor Daniella non hanno avuto
buon fine, ma ha saputo che il museo era estremamente ansioso di poter creare un'ampia collezione di quadri che rappresentino la Crocifissione.