sabato 23 febbraio 2019



L'ABISSO DI EROS 

Seduzione
Matteo Nucci

Una  profonda coinvolgente ricerca sulle radici e sulla complessità della seduzione. Non solo della seduzione amorosa. È seduzione  quella delle idee, è seduzione quella dello spirito, è seduzione quella del male, è seduzione quella delle  immagini, etc. Perché seduzione è ricerca in ogni direzione di qualsiasi possibilità che permetta a ognuno di sentirsi sempre di più partecipe della vita. Questo avviene attraverso una continua  sfida del perdersi e del ritrovarsi. È questa la seduzione.
Occorre rischiare, lottare, ispirarsi a Menelao, assecondare persino l’ira. Scrive Nucci: “Platone sapeva che solo lasciando scorrere eros adeguatamente nell’elemento che media all’interno dell’anima è possibile realizzare la propria forza erotica. Solo nell’ira, nell’orgoglio, nella forza guerriera della nostra parte animosa, pronta a prendersi la ribalta nel momento in cui l’amore sembra finire, quando ci pare di essere stati traditi. Non esiste nulla di semplice nelle nostre vite. E niente è più complesso di eros. Pòlemos, guerra, è padre di ogni cosa. Lo diceva Eraclito L’Oscuro e stavolta non era affatto ambiguo. Perché Pòlemos vive al centro della nostra anima. Per realizzare eros in noi allora dobbiamo armarci e combattere. Dobbiamo liberare l’ira che non ci annebbia come fumo ma ci dà vita come miele. L’auriga che domina la nostra anima deve fare affidamento sul cavallo bianco per contenere il cavallo nero. Solo allora sentiremo finalmente la potenza terrorizzante del brivido erotico. Per amarsi è necessario tradirsi insomma. Lottare e disperare, lasciarsi prendere dall’ira e dall’orgoglio. Salvare la propria dignità. Eppoi rincorrersi”.

L’amore senza fine
Quando smise di parlare, un silenzio inaudito calò sul Ceramico. La folla che sterminata riempiva la via delle sepolture davanti alla porta Sacra e al Dìpylon rimase immobile. Gli occhi sgranati e in gran parte bagnati di lacrime sembravano ancora in attesa di un cenno. Allora l’uomo, solo sulla tribuna, con lentezza estrasse il braccio dalla tunica in cui lo aveva tenuto per oltre un’ora, alzò la mano e accennò un saluto. Fu in quel momento che l’immensa moltitudine parve ondeggiare tutta insieme. Chi sedeva accanto al palco raccontò poi di aver avuto l’impressione di trovarsi davanti al mare scuro, il mare nero color del vino, quando in una giornata d’inverno viene percorso da una fugace corrente. Eppure non era stato affatto fugace lo scuotersi dei corpi. Tutto, infatti, in quel momento, sembrava improvvisamente cambiato. Il vento freddo che aveva imperversato fin dal mattino soffiando furiosamente dalle alture del Pentelico si era calmato, il suono gorgogliante dell’Eridano che scorreva fra le steli funerarie risuonava chiaro come mai prima in quei giorni, e uomini e donne, a migliaia, rimanevano al loro posto, quasi estasiati, come se le ultime parole del condottiero fossero le uniche a cui avevano deciso di non dar seguito. «Ora, dopo aver pianto a sufficienza ciascuno il proprio familiare, tornate alle vostre case» aveva detto Pericle mentre impassibile chiudeva un discorso destinato all’eternità. Adesso, il condottiero si faceva largo fra volti attoniti. I dignitari che lo avevano invitato a pronunciare l’epitaffio per i caduti di quel primo anno di guerra contro Sparta, lo osservarono mentre passava fra di loro senza tradire alcuna emozione. Era evidente a tutti che invitare proprio Pericle sulla tribuna dopo quel primo anno di una guerra che si preannunciava drammatica, significava chiamarlo a una sfida durissima. Calmare gli animi delle famiglie in lutto, spesso esacerbati dalla rabbia nei confronti di chi aveva aperto la contesa, pareva impresa impossibile. Ma, abituato alle grandi sfide, l’uomo che da trent’anni segnava la politica di Atene non si era tirato indietro. Aveva accettato ringraziando per l’onore e adesso il suo trionfo era sotto gli occhi di tutti. Ogni cosa era andata secondo i suoi piani, in quel mattino di dicembre. Diversamente da quello che chiunque si aspettava, Pericle era arrivato da solo al Ceramico, il quartiere dei vasai dove da anni si dava sepoltura agli uomini più illustri nonché ai caduti di guerra. E soprattutto era arrivato dall’esterno delle mura come se stesse percorrendo la via che entrava in città dall’Accademia. Così si era trovato immerso fra la folla avanzando a passi lenti e solenni con il suo volto imperturbabile. Nessuno aveva osato gridargli contro. Sorpresi e quasi spaesati dal coraggio con cui quello che era ritenuto il principale responsabile della guerra si faceva largo fra i familiari dei caduti, uomini e donne lo avevano osservato con ammirazione e riconoscenza. Qualcuno lo aveva addirittura invocato in una specie di saluto fraterno ma Pericle non aveva ceduto alla facile retorica degli abbracci e si era limitato a chiudere a lungo gli occhi. Al suo passaggio la folla si era aperta come un ventaglio. La terra appena gettata sulle sepolture divise secondo le circoscrizioni dell’Attica mostrava ancora, qua e là, i colori dei tappeti che erano stati sepolti assieme a letti vuoti come era in uso per celebrare anche i dispersi. Pericle aveva osservato senza tradire emozione e infine era salito sulla tribuna che due giorni prima era stata allestita contro le mura della città. Dunque aveva iniziato a parlare. Cominciò dagli antichi, dagli antenati, per spiegare la grandezza degli ideali di cui la città si era fatta portatrice modello contro la nemica Sparta. «Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini» scandì bene le parole «Perché noi, più che imitatori, siamo per gli altri un esempio. E siccome questa costituzione è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone, ma alla maggioranza, essa è chiamata democrazia». Da consumato oratore, tacque quanto bastava a lasciar risuonare quella frase perfetta, poi spiegò quanto contasse l’idea che la realizzazione personale potesse passare per la competenza e non per la classe di origine e le ricchezze che si possedevano casualmente alla nascita. Esaltò la forza militare della città e l’audacia degli Ateniesi, fondata non tanto sulla fatica quanto sul desiderio di vivere la vita seguendo un ideale preciso. Quindi si fermò di nuovo e disse: «Amiamo il bello, ma con semplicità, e amiamo il sapere, ma senza debolezza. Riuniamo in noi la cura degli affari pubblici insieme a quella degli affari privati, e se anche ci dedichiamo ad altre attività, pure non manca in noi la conoscenza degli interessi pubblici. Siamo i soli, infatti, a considerare non tanto ozioso ma inutile chi non se ne interessa». Qualcuno gridò. Non si capiva bene se fosse consenso o critica. Ma Pericle non si scompose. Cercò gli occhi dei cittadini in ascolto nelle prime file e lasciò che i suoi stessi occhi si dissolvessero nei loro. Dunque, evitò di sorridere. Ma si sentì improvvisamente forte e pieno di energie come l’Eridano che volava scintillando argenteo fra i rovi decrepiti dell’inverno, gonfio per via delle piogge cadute nei giorni precedenti. E così prese a volare anche Pericle sulle sue stesse parole e disse in toni vibranti che Atene era la scuola di tutta l’Ellade e che i cittadini solo qui venivano presi da vero e proprio amore verso la città, al punto da desiderare per essa i beni maggiori, ossia innanzitutto la sua salvezza, anteponendo gli interessi comuni a quelli privati. Per questo i morti di quel primo anno di guerra, avendo offerto la vita nell’interesse generale, spinti dalla più potente fra le passioni umane: l’amore, meritavano una lode eterna e sepolture illustri, ossia non soltanto la terra del Ceramico, ma la fama indimenticabile di chi ha vissuto per la città migliore e più amata. «Ora, dopo aver pianto a sufficienza ciascuno il proprio familiare, tornate alle vostre case». Così disse, infine. Dunque abbassò il capo in segno di rispetto, estrasse il braccio dalla tunica, salutò e scese dalla tribuna. Tutto sembrava finito per quel giorno straordinario. Ma fu proprio mentre gli Ateniesi ancora stentavano a lasciare la propria posizione e Pericle si allontanava – sempre in solitudine – sulla via di casa, che un uomo gli si avvicinò gridando: «Corri a complimentarti con la tua donna! Baciala anche una terza volta, oggi. E brindate al vostro successo. Tu e la tua Aspasia, la tua Elena, la nostra Elena, la nostra cagna». Pericle finse di non sentire. Tirò dritto nella consueta sobrietà del passo con cui spesso aveva affrontato ben altri insulti e si lasciò alle spalle l’uomo trattenuto dalle guardie. E tuttavia, benché avesse mantenuto un contegno straordinario e l’episodio non fosse durato che poche decine di secondi, la voce cominciò a correre per tutta Atene. La storia fece il giro di ogni bettola e ogni casa privata. E prese a diffondersi un po’ ovunque in città un’idea che quasi nessuno si sentiva di sconfessare. Era stata Aspasia a scrivere il discorso per Pericle. La donna di Mileto che molti consideravano quasi una prostituta, tale era stata la sua potenza nel sedurre il condottiero, stregandolo con le sue arti erotiche. Era stata lei l’artefice di quel discorso e Pericle si era soltanto adeguato come uno scolaretto pronto a tutto pur di compiacere l’insegnante dei cui poteri magici è certo. Già da anni del resto si rideva di lui e dell’amore che lo aveva preso per questa donna dalla strana bellezza, i tratti irregolari del viso, il modo di parlare eccentrico, la delicata autorevolezza. I commediografi avevano messo in scena a modo loro la storia. Le malelingue ripetevano che ogni santo giorno Pericle tornava a casa almeno due volte, diversamente dalle sue abitudini precedenti, pur di baciare la sua donna. E a tutti era noto il fatto che a costo di andar contro le sue precedenti risoluzioni, Pericle stava muovendo mari e monti per far avere al figlio avuto con Aspasia la cittadinanza ateniese, benché fosse nato da madre straniera. Tutti sapevano che aveva perso la testa, il grande statista. E che una specie di voluttà incontenibile lo aveva irretito dal giorno in cui era stato sedotto da questa donna fatale. Del resto anche Socrate, lo strano filosofo che girava di continuo in cerca di bei ragazzi da concupire, aveva iniziato a frequentare Aspasia per capire qualcosa di più circa il funzionamento dell’amore, quella tensione presente nell’animo umano chiamata come l’ambiguo e oscurissimo dio delle origini: Eros. Adesso, però, si cominciò a dire di più. Aspasia non soltanto aveva irretito Pericle, ma lo aveva anche istruito nella sua abilità retorica. Gli scriveva i discorsi, lo preparava nei movimenti austeri da esibire, gli mostrava il modo migliore per prendere in mano l’uditorio. Cos’altro era, del resto, ciò che faceva un uomo di fronte a un’assemblea se non tentare di sedurla? Il grande oratore che era sempre stato Pericle, da quando aveva incontrato Aspasia, era diventato anche un vero e proprio seduttore. Un seduttore implacabile. Dominato dall’ossessione di suscitare amore, desideri incontenibili, fra i suoi ascoltatori. A considerare bene le cose, anche in quella mattina tetra di inizio dicembre, la stoccata era arrivata alla fine e aveva a che fare con eros. Prima, infatti, Pericle aveva sorpreso la platea, maldisposta contro chi aveva portato Atene in guerra, con quell’ingresso inatteso e trionfale. Poi aveva sedotto gli ascoltatori con le sue parole vibranti sulla grandezza della città modello. Infine aveva esaltato chi s’innamora della città e proprio per questo amore cade e dunque resta per sempre. L’eros di Ettore e Achille nelle grandi storie del passato. L’eros che domina gli esseri umani e fa loro tremare le gambe. Quello stesso eros come potere in città e per la città. Che diavolo Aspasia! Che diavolo Pericle! L’avevano organizzata per bene la loro storia. Si cominciò a dire che quell’entrata sconcertante e trionfale e quel discorso così straordinario fossero stati preparati per giorni e giorni nelle pause fra i feroci amplessi che univano Pericle e Aspasia e durante le interminabili chiacchiere erotiche che condividevano a letto, dopo l’amore, lontano da sguardi indiscreti. Si cominciò a dire che Pericle si fosse preparato al discorso da tempo, ancor prima di essere stato invitato a farlo. Si disse tutto questo per corroborare definitivamente un’idea. Come nella guerra che Atene aveva sferrato contro Samos nove anni prima, una guerra fortemente voluta da Aspasia per difendere la sua Mileto, così anche stavolta era la donna che aveva spinto Pericle alla guerra, la donna che sempre porta lotte e contese e guerre, la donna che seduce con i sorrisi e in effetti vince e domina e spinge gli uomini alla follia della distruzione reciproca. Come Elena, la donna bellissima che aveva portato gli Achei a sferrare un lungo assedio alla lontana Troia. Come Elena con Menelao. Così era ora Aspasia con Pericle. Tranne il fatto che non lo tradiva. Si limitava a spingerlo a tradire la città. Era una storia semplice da ricordare e ripetere, quella che in poche settimane si diffuse definitivamente. Atene era finita in una guerra inutile come quella degli Achei a Troia. Una contesa che avrebbe portato solo sventura. Pochi tentarono di opporsi alle dicerie. E chi si ribellò con più veemenza dovette comunque arrendersi quando, all’inizio dell’estate, si verificarono in città fatti sconcertanti. Come all’inizio dell’Iliade, anche a Atene, infatti, cominciò a diffondersi una malattia contagiosa che pareva il segno di una condanna divina. Un’epidemia sempre più drammatica. Una malattia chiamata peste. Troia era tornata identica a se stessa. L’eros di una donna rovinava generazioni di uomini. Elena si era reincarnata in Aspasia. E Pericle era un nuovo Menelao. In pochi capirono, in quei mesi,perché lo statista provasse piacere ascoltando la storia. Ma pochi ormai potevano dire di conoscere davvero la città in cui Elena e Menelao si erano incontrati e traditi prima che il loro amore potesse trionfare per sempre. Grandezza di Sparta vai alle note «Se la città dei Lacedemoni fosse devastata e si salvassero solo i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo assai difficilmente i posteri potrebbero credere che la sua potenza sia stata corrispondente alla fama». Quando Tucidide, il più grande storico greco, il fondatore della storiografia moderna, scrive queste parole, siamo agli inizi della guerra fra Atene e Sparta, negli ultimi trent’anni del V secolo. Lo scontro frontale fra le due più potenti città greche arriva nel momento in cui le due antagoniste si trovano al culmine della forza politica, culturale e militare, quello stesso momento che dunque costituirà l’inizio del loro declino, a prescindere dall’esito della guerra. Mentre Tucidide ci racconta nel suo stile aspro della paradossale dismisura fra la potenza di Sparta e il suo aspetto urbano, è perfettamente consapevole del fatto che la città si trova al suo apogeo proprio come Atene. E tuttavia l’intelligenza e la lungimiranza dello storico e del viaggiatore gli permettono di immaginare quel che ne sarà, dopo secoli di oblio e dopo una devastazione completa. Di Atene i posteri immagineranno che abbia avuto una potenza militare doppia a quella che in realtà aveva se si troveranno di fronte, come in effetti accade ancora oggi, alla bellezza del Partenone, alla magnificenza degli altri templi, la grandezza brulicante dell’agorà, gli edifici monumentali, le strade cittadine, le steli cimiteriali del Ceramico. Sparta invece apparirà come poca cosa: un’insignificante congerie di pietre, una spenta realtà di cui è difficile immaginare un passato trionfale. Se arrivate oggi a Sparta scendendo dal nord del Peloponneso, non potrete che lasciar risuonare le parole di Tucidide come una specie di condanna annunciata. Cosa è rimasto della polis imprendibile, del suo potere travolgente, delle sue tradizioni inscalfibili? Neppure gli architetti moderni sembra che siano riusciti a far rivivere lo spirito antico. Quando nel 1834, Ottone di Wittelsbach decise di avviare la ricostruzione greca partendo proprio da Atene e Sparta, le due città erano un cumulo di pietre abitate da poche migliaia di cittadini. Ma il diciottenne bavarese che le grandi potenze scelsero per governare la Grecia da poco indipendente (gestendola come un protettorato, proprio come si continua a fare ai tempi della Troika) era fradicio di ideali storici e artistici e non credeva che Nafplio (per gli italiani Nauplia), la bella cittadina peloponnesiaca del golfo argolico, potesse restare a lungo capitale. Immaginava di nuovo Atene sul trono, e Sparta a fare stavolta da città sorella, un’altra grande realtà metropolitana al centro del Peloponneso. I lavori vennero avviati contemporaneamente. Palazzine neoclassiche sorsero per mano di grandi architetti mitteleuropei in quella che già diventava capitale, Atene, come nella nemica di un tempo, Sparta. E tuttavia Atene era l’Acropoli, l’agorà, il Ceramico. Sparta non era quasi nulla. Atene era il futuro centro politico e amministrativo. Sparta rimaneva un ideale. I decenni seguenti sancirono la disfatta del sogno di Ottone. Lo sviluppo urbanistico di Atene ha portato la città dai diecimila abitanti degli anni Trenta dell’Ottocento ai cinque milioni di oggi. Sparta è rimasta una piccola realtà da quindicimila abitanti, attraversata da strade che stando alla segnaletica dei nostri tempi sembrano portare sempre verso il Museo dell’olivo e dell’olio d’oliva. Grandi hotel sulla principale arteria, via Paleològou. E poco altro, a uso di scolaresche e viaggi organizzati. Tanto che nessuno, a sentir parlare della cittadina laconica, oggi viene preso dal desiderio di visitarla. Commettendo un errore gigantesco. Scendete a Sparta, nonostante tutto. Non lasciatevi convincere dalla retorica che la disegna come una città perduta. Non credete a chi insiste a dirvi che si tratta solo di uno scalo turistico perfetto per chi desidera visitare Mystràs, la meravigliosa città fondata dai Franchi a metà del XIII secolo, con i suoi monasteri, i suoi affreschi, gli acciottolati che disegnano un saliscendi alle pendici della montagna. Non fatevi persuadere da chi vi parla di un mondo non replicabile di cui restano scarse e insignificanti testimonianze perfette solo per l’ignoranza del turismo di massa. È vero, in parte. Certo. Dovrete superare parecchi ostacoli per scoprire l’anima di Sparta. Dovrete sopportare le orde di fotografi improvvisati di fronte alla statua moderna di Leonida, ricordo glorioso dei Trecento che difesero le Termopili dall’avanzata persiana nel 480. Dovrete accettare l’idea che quel che resta della città antica è davvero poco, benché quel poco sia disseminato fra cespugli, arbusti, rovi, una natura rigogliosa cupa e solenne anche se splende il sole: scampoli di un teatro ellenistico di fronte alla meraviglia del possente Taigeto che divide la valle di Sparta dal mare di Kalamàta; pietre sparse che ricordano edifici sacri non meglio identificati; e dalle parti del fiume, fra accampamenti gitani, anche i resti del santuario di Artemide Orthìa dove il carattere dei giovani era testato con prove che ne mostrassero l’abnegazione. Dovrete penare per scoprire l’anima di Sparta. Forse potrete lasciarvi conquistare dall’architettura moderna, dal sogno di Ottone e dalle intuizioni dell’urbanista bavarese Stauffert che disegnò le vie a scacchiera immaginando una città da centomila abitanti. Vi aggirerete fra palazzine neoclassiche notevoli come il bel municipio disegnato da Katsaròs e oscurato da un’impietosa insegna al neon e da un bar privato che incredibilmente occupa il piano terra – perfetta declinazione di una Grecia devastata dall’ultimatum nordeuropeo: o privati o morte. Mentre arrancate in questo limbo di sogni mai realizzati e abbandono, mancanza e perdita, mentre godete del museo zeppo di pezzi interessanti accatastati in teche polverose e antiche ma così calde rispetto alla neutra bellezza dei musei del nuovo mondo, mentre vi aggirate sempre più carichi di attesa, ecco che scoprirete qualcosa di indimenticabile. Innanzitutto che Sparta è lì, è nello stesso luogo di sempre, una banalità apparente finché non vi rendete conto che la posizione della città già da sola spiega ogni cosa. Il Taigeto svetta imperioso sullo sfondo occidentale. Il Parnone, poco più basso, chiude la città a oriente. Il fiume Eurota attraversa la piana fertile e guardandoci attorno abbiamo soltanto l’impressione che Sparta sia rimasta sempre «concava, avvallata» come la definivano gli aedi omerici. Fortezza inespugnabile per natura. Inutile qualsiasi cinta muraria. Ma, mentre i versi omerici vi risuonano in testa, vi rendete conto improvvisamente che la Sparta di cui tutti siamo da sempre in cerca è sempre e solo la nemica di Atene e non la città che crebbe molti secoli prima. Come se fossimo costretti da un paradigma in cui siamo cresciuti fin dall’infanzia: cercare la città che fu esemplare di un modello politico opposto a Atene. Ma Sparta ha una storia millenaria e proprio mentre consideriamo la sua posizione come la cantavano gli aedi omerici, non possiamo che guardare a molto prima di quel V secolo in cui la democrazia trionfò e la guerra del Peloponneso divenne inevitabile. Ci accorgiamo insomma che c’è un’altra città di cui possiamo andare in cerca, non quella che sempre abbiamo negli occhi, fra la potenza militare esaltata dal rigore e dall’abnegazione e la cultura politica tendenzialmente oligarchica, l’economia basata sulla terra e non i commerci, le arti perseguite per il vigore spirituale e per la difficile costruzione di una fiducia personale. Basta guardare oltre a quell’idea ormai così ingombrante per calarsi nelle storie che si confondono col mito e sentir pulsare il sangue di una storia forse ancora più potente e del tutto dimenticata. Basta scegliere la strada più lunga, quella che Platone, grande ammiratore di Sparta, elogiò sempre come l’unica strada che porta al vero. E allora evitate ogni attrazione. Evitate il Museo dell’oliva. Evitate qualsiasi facile richiamo. Uscite dalla città moderna in direzione est sulla strada intitolata a Licurgo e attraversate i vicoli periferici. Non fermatevi nei locali sublimi dove si cucinano capretti accompagnati da carciofi selvatici o erbe di campo. Avrete tempo al ritorno. Puntate verso il fiume, passate dall’altra parte, inoltratevi verso i campi segnati da case contadine sparse qua e là e semmai domandate della chiesa di Zoodòchos Pigì o di quella del Profeta Ilìas. Sulla strada che corre parallela all’Eurota, a una manciata di chilometri dal centro di Sparta, in una mezzoretta di cammino, potrete entrare in un altro tempo, il tempo in cui Menelao venne a regnare sulla città, sposando – invidiatissimo fra tutti gli uomini – la donna più bella del suo tempo, la regina di Sparta, la figlia di Tindaro re amatissimo in città: Elena. Elena di Sparta. Non Elena di Troia, come la vulgata ha voluto che fosse ricordata. Allora scoprirete la grandezza di un’altra Sparta. La città dell’amore. Il santuario dell’amore infinito vai alle note Gli antichi chiamavano questa località Therapne. Qualche contadino dei dintorni ancora riconosce il nome. Un cartello sbilenco indica la sterrata che dalla statale prende a salire su un’altura apparentemente anonima. Menelaion – c’è scritto. Salite su. Non guardatevi indietro. Non abbiate timori. Affidatevi al richiamo dei tempi più antichi, quelli dominati dalla vicina Micene su cui regnava il fratello di Menelao, Agamennone. Mentre camminate seguendo i tornanti immaginando che forse non ci sarà nulla in cima ad attendervi, non perdete la fiducia. Nulla vi avverte dell’esperienza estetica che state per fare. Del resto in Grecia le vere esperienze estetiche non costituiscono mai la conclusione di un percorso indicato. La sorpresa si mescola così alla meraviglia spingendoci a farci domande che aprono nuovi orizzonti. Quel che vi capiterà su questa collina di cui mi limito a dirvi che, stando alla tradizione, ospitò la tomba della regina e del re di Sparta, Elena e Menelao; divenne poi un luogo sacro e come tale si è conservato nei secoli. Ritrovamenti archeologici di un palazzo miceneo oggi ci fanno sognare che forse fu proprio qui anche la reggia gloriosa, ovvero la residenza in cui entrò pieno di timore e reverenza Telemaco, figlio di Odisseo, nella sua assillante ricerca del papadre, accompagnato da Pisistrato figlio del vecchio e saggio Nestore, re di Pilo. L’Odissea ci racconta tutto con cura. Aveva attraccato proprio lì, Telemaco, all’estremità sud del Peloponneso occidentale dove ancora oggi è Pilo con le sue rovine del palazzo di Nestore. La navigazione doveva essere stata breve. Aveva preso il largo da Itaca seguendo i «sentieri di mare», senza neppure avvertire sua madre Penelope. La necessità divina di ritrovare un padre mai conosciuto lo aveva sopraffatto. A Pilo, il vecchio saggio gli aveva indicato la strada per raggiungere l’ultimo vero eroe che avrebbe potuto raccontargli qualcosa. Ma non aveva voluto lasciare che andasse da solo e aveva incaricato suo figlio Pisistrato di accompagnarlo. Aggiogati al carro i veloci cavalli, la dispensiera aveva portato provviste di pane e di vino, poi il «cocchio bellissimo» era partito. Tutto il giorno volarono i cavalli sulla piana a sud del Peloponneso. La notte colse i due giovani a Fere (oggi Kalamàta) e il giorno dopo, presto al mattino, il viaggio riprese e il «carro dipinto» salì sulla vetta del Taigeto e ridiscese sulla piana di Sparta. Allora furono invitati nel palazzo reale, Telemaco e Pisistrato. Vennero spinti a mangiare e bere, e nessuno chiese loro nulla – né il nome né la provenienza – proprio come era d’uso fare per accogliere i viandanti. Solo quando furono sazi, Menelao e Elena vollero che parlassero. Allora accadde quel che accade sempre con le donne che conoscono meglio ogni cosa. Elena guardò Telemaco e lo riconobbe all’istante, notando immediatamente la somiglianza con il padre. Può darsi che dalla finestra entrasse la brezza che scende ancora oggi dal Taigeto. La montagna avvolta dal mistero la vedete svettare di fronte a voi, oltre alle case ormai lontane della Sparta moderna che ci paiono improvvisamente galleggiare in un vuoto di nuvole. Quando leggiamo il libro IV dell’Odissea e ascoltiamo le parole che Elena e Menelao dirigono sapientemente attraverso la «ringhiera dei denti» a Telemaco, mentre vediamo gli ori delle stanze e sentiamo che la presenza di Elena è dominante e l’armonia della casa ci accoglie in una sorta di tepore, improvvisamente ci sembra di trovarci in un luogo meraviglioso e sospeso nelle finzioni tipiche della letteratura. Ci stiamo quasi dimenticando infatti di quel che tutti, fin da bambini, sono abituati a credere. Ossia che Elena tradì Menelao, lo abbandonò seguendo il bellissimo principe troiano di nome Paride, diletto di Afrodite la dea del desiderio. Bellezza, forza, persuasione, seduzione. Paride aveva aspettato che Menelao fosse costretto da necessità inderogabili a lasciare Sparta per rapire l’anima di Elena. La donna non oppose resistenza. Anzi, lasciò la casa paterna, la città natale, addirittura la figlia Ermione e, lasciando tutto questo, arrivò a scatenare la peggior guerra che fosse immaginabile. Tuttavia, ora, mentre vediamo Elena che si muove accanto a Menelao in una casa che racconta innanzitutto la perfezione dell’amore coniugale, ci sembra improvvisamente che ogni cosa di quel che avevamo imparato da anni sul tradimento di Elena sia stato spazzato via dalla realtà. Non è vero quel racconto – ci viene voglia di dire. Elena non salì sulla nave che l’avrebbe portata a Troia, non abbandonò Menelao. E Menelao non fu preso dalla rabbia incontenibile dell’uomo che viene colpito nell’amore e nell’orgoglio, né fu preso dal desiderio di vendetta che assale chiunque venga tradito non solo dalla moglie ma anche dall’ospite, come Paride, straniero accolto con tutti i crismi dell’antica istituzione dell’ospitalità. No, non è vero quel racconto. Oppure non è vero questo racconto. Non è vera questa immagine di perfezione coniugale. O al limite, se entrambi i racconti devono essere veri, c’è di mezzo qualcosa di magico e umanamente incomprensibile. Forse quella droga chiamata nepente che Elena tira fuori proprio nelle pagine che stiamo leggendo, una droga che ha conosciuto in Egitto e che ora versa nel vino mentre Menelao, Telemaco e Pisistrato piangono ciascuno la rispettiva disperazione, per indurli a dimenticare il passato, seppellire nell’oblio nettareo i dolori invincibili. Forse è il nepente. E magari Elena lo ha usato con Menelao spingendolo a sopire il rancore e affogare nell’oblio il desiderio di vendetta. Ma noi ci troviamo qui, ormai. A Therapne. In quella che fu la residenza dell’amore ricomposto, la tomba dell’amore senza fine. Così, mentre ci aggiriamo fra le rovine assediate da pini e grandi cespugli di lentisco e ci guardiamo attorno, possiamo immaginare ancora un’altra soluzione all’enigma che ci tortura. Inutile negare il passato. Inutile sognare che una droga abbia potuto risolvere magicamente ogni dramma. Veri furono entrambi i racconti, sia quello del tradimento che quello della ricomposizione. E nulla poté il nepente. Ben altra fu la magia. Qualcosa di umanamente comprensibile, a patto che l’umano non cerchi scorciatoie. Ossia la magia di Eros, la divinità più potente che i Greci seppero immaginare. La magia dell’amore che si ricompone e che ricomponendosi dopo il peggior tradimento diventa amore immortale, infinito, completo. Le storie che si raccontano su questi luoghi, del resto, non lasciano spazio al dubbio. Dopo che Elena e Menelao morirono qui in vecchiaia, di morte naturale, forse a distanza di pochi giorni l’uno dall’altra come capita a volte alle coppie che si sono unite in una vita di passioni rincorse e riconoscimento reciproco, dopo che la loro tomba venne eretta come una specie di mausoleo, cominciò a crescere l’idea che qui, questa altura, potesse raccontare esemplarmente e per sempre l’amore senza fine. Forse qualche strana coincidenza alimentò le dicerie. Fatto sta che nei secoli seguenti, la Sparta di Therapne si trasformò in luogo mitico a tutti gli effetti, luogo di celebrazione, ricordo, rimpianto e fede incrollabile. Molte storie si tramandarono sul santuario dell’amore. Una di esse ci è stata raccontata per filo e per segno da Erodoto, l’ultimo a mescolare verità e finzione prima che Tucidide imponesse i canoni della storiografia moderna. È la storia di uno scontro di potere complesso che a noi non interessa se non perché al centro della sfida finì per trovarsi una giovane ragazza di cui ignoriamo il nome ma sappiamo che appena nata era apparsa a tutti nella sua assoluta bruttezza. Per i genitori abbienti della bimba il problema non era di poco conto ma non lo affrontarono, come invece decise di fare la nutrice portando ogni giorno la piccola al santuario di Elena e Menelao per pregare che la bruttezza fosse allontanata. «E dunque una volta, mentre la nutrice se ne andava dal santuario, si dice che apparve una donna che le chiese cosa portasse in braccio e quella le rispose che portava la bambina. Si dice che le chiese di mostrargliela e quella disse di no poiché i genitori le avevano ordinato di non mostrarla a nessuno. Ma l’altra insisteva. Vedendo dunque che la donna teneva molto a vederla, si dice che alla fine la nutrice abbia mostrato la piccola, e quella, toccato il capo della bambina, abbia detto che sarebbe diventata la più bella fra tutte le donne di Sparta. Da quel giorno cambiò aspetto. Giunta all’età del matrimonio, la sposò Ageto, figlio di Alcide, quello che era appunto l’amico di Aristone». Centro della leggenda tramandata fino a Erodoto è la bellezza della ragazzina magicamente ricevuta dalla divina Elena. Chi cerca di spiegarci il motivo razionale che si nasconde dietro alla leggenda parla della maturazione di una ragazza, parla della bellezza che si sviluppa e trasforma l’apparente bruttezza di forme dell’infanzia, parla del tocco che alla giovane fu dato da quella che i Greci chiamavano chàris, qualcosa che noi, perdendone l’impalpabile potenza, traduciamo «grazia»: una specie di pienezza che solo la maturità e l’autenticità donano agli esseri umani. La spiegazione razionale ha a che fare dunque con le ricerca inesauribile di cui è prova la nutrice nella sua ostinata e testarda frequentazione del santuario. Ma a prescindere dal racconto e dalle possibili letture che suscita, quel che colpisce noi oggi è un dato di fatto su cui è inutile indagare oltre. A Therapne, al santuario di Menelao e Elena si andava a cercare bellezza per diventare spose invidiabili, per costruirsi la possibilità di un amore maturo e infinito come quello di Elena e Menelao. Al punto che, ora, mentre ci accorgiamo che Sparta prima e più di essere l’antagonista di Atene fu semmai la città dell’amore, siamo messi inevitabilmente di fronte alla domanda più urgente. Cosa accadde fra Elena e Menelao perché proprio questa celebre coppia potesse diventare il paradigma dell’amore infinito? È una domanda complicata, però. Inutile tentare di rispondere soltanto ripercorrendo passioni e tormenti che Menelao e Paride nutrirono verso Elena o che Elena provò verso i due uomini. Bisogna tornare indietro. Fino al principio. Prendere la strada più lunga della filosofia. Quella strada platonica che non ci consente scorciatoie e non ci permette di separare le strade del pensiero da quelle su cui ci portano le nostre gambe. La strada più lunga di chi ama il sapere e perciò non smette di risalire verso le origini.