J. M. Coetzee
Aspettando i barbari
Traduzione di Maria Baiocchi
Einaudi
Per anni, il magistrato si è concentrato su poche, piccole cose quotidiane: l'amministrazione giudiziaria della sua cittadina di frontiera durante il giorno, la lettura dei classici la sera, gli scavi archeologici nel tempo libero. Per anni, ha applicato la legge senza mettere in forse la propria fedeltà all'Impero, senza consentire ad alcun dubbio di turbare le sue serate con gli amici, le sue notti con le prostitute. Per anni. Finché i barbari non cominciano a premere lungo la frontiera - o almeno, così dicono nella capitale; finché due di quei
barbari non vengono catturati e torturati. Il magistrato,
all'improvviso, si trova a confrontarsi con la realtà: con la violenza, con il pregiudizio, perfino con l'amore. E da suddito dell'Impero si trasforma in nemico, da giudice in imputato - senza mai avere la certezza di battersi per una causa giusta, o di resistere a una causa
ingiusta: «Qualcosa mi ha guardato dritto in faccia e io ancora non la vedo.»
In copertina: Una fotografia di Elizabeth Zeilon. © Photonica.
Capitolo primo.
Mai visto niente del genere. Due dischetti di vetro cerchiati di metallo davanti agli occhi. E' cieco? Capirei se fosse cieco, se volesse nascondere occhi che non vedono. Ma non è cieco. I dischetti sono scuri,
dall'esterno sembrano opachi, però lui ci vede attraverso. Mi spiega che sono un'invenzione nuova. - Proteggono gli occhi dal riverbero del sole, - dice. - Sarebbero utili qui nel deserto. Ti evitano di strizzare gli occhi in continuazione. E di avere mal di testa. Guardi -. Si sfiora gli angoli degli occhi. - Niente rughe -. E si rimette gli occhiali. E' vero. Ha la pelle di un uomo più giovane. - Da noi li portano tutti. Siamo seduti nella stanza migliore della locanda, davanti a un fiasco e
a una ciotola di nocciole. Non parliamo del motivo per cui è venuto. E' qui a causa dello stato di emergenza e tanto basta. Invece parliamo di caccia. Mi racconta dell'ultima battuta a cui ha partecipato: migliaia di cervi, di cinghiali, di orsi abbattuti. Talmente tanti che hanno dovuto lasciare lì a marcire una montagna di carcasse («un peccato»). Io gli racconto degli stormi di oche e di anatre che calano sul lago tutti gli anni nel periodo della migrazione e dei modi in cui li catturano gli
indigeni. Propongo di portarlo a pesca una notte su una barca indigena.
- È un'esperienza da non perdere, - gli dico, - i pescatori portano le torce e suonano i tamburi sull'acqua per spingere i pesci nelle reti che
hanno gettato -. Annuisce. Mi racconta di un altro posto in cui è stato, sulla frontiera, dove mangiano certi serpenti come fossero una prelibatezza, e di un'enorme antilope che ha abbattuto.
Si muove a tentoni tra l'arredo che non conosce ma non si toglie gli occhiali scuri. Va a letto presto. Alloggia qui nella locanda perché è il posto migliore in città. Ho spiegato bene al personale che si tratta
di un personaggio importante: - Il colonnello Joll è della Terza Divisione, - ho detto. - E la Terza Divisione oggi è la sezione più importante della Guardia civile -. O almeno questo è quanto dicono le voci che ci arrivano con molto ritardo dalla capitale. Il padrone della locanda annuisce, le cameriere chinano la testa.
- Dobbiamo fargli una buona impressione.
Porto la mia stuoia fuori, sui bastioni, dove la brezza notturna allevia un po' il gran caldo. Al chiaro di luna intravedo le sagome di altri che dormono sui tetti piatti della città. In piazza, sotto gli alberi di noce, alcuni ancora parlano, mi giunge il mormorio della conversa-zione.
Nell'oscurità balugina il fornello di una pipa, come una lucciola, svanisce, si riaccende. L'estate volge lentamente al termine. I frutteti gemono sotto il peso dei frutti maturi. L'ultima volta che sono stato nella capitale ero ancora ragazzo.
Mi sveglio prima dell'alba e passo in punta di piedi vicino ai soldati che si muovono e sospirano nel sonno; sognano le madri e le fidanzate.
Scendo giù per le scale. Dal cielo mille stelle ci guardano. Siamo davvero sul tetto del mondo. Svegliarsi all'aperto, di notte, è abbacinante.
Sul cancello, la sentinella dorme profondamente, seduta a gambe incrociate, abbracciata al moschetto. La guardiola del facchino è chiusa, fuori c'è il suo carrello. Passo oltre.
- Non abbiamo alloggi speciali per i detenuti, - gli spiego. - Non c'è molta criminalità qui e in genere la pena consiste in una multa o in un po' di lavoro forzato. Questa baracca è solo un magazzino collegato al granaio, come vede -. Dentro puzza di chiuso e di sporco. Non ci sono finestre. I due prigionieri stanno a terra, legati. Il tanfo viene da loro, è di urina vecchia. Chiamo la guardia. - Falli lavare, subito per favore. Scorto il mio ospite nel granaio, che è fresco e buio.
- Speriamo di fare tremila staia quest'anno dalle terre demaniali. Seminiamo una volta sola. Ma è stata una buona annata questa per noi.
Parliamo dei ratti e di come contenerne il numero. Quando rientriamo nella baracca c'è odore di cenere bagnata e i prigionieri sono pronti, inginocchiati in un angolo. Un vecchio e un ragazzo.
- Li hanno presi
qualche giorno fa, - dico.
- C'è stata una razzia a una ventina di miglia da qui. E' insolito, in genere si tengono alla larga dal forte. Questi due sono stati catturati dopo. Sostengono di non avere niente a che fare con la scorreria. Non so, forse dicono la verità. Se ci vuole parlare naturalmente posso aiutarla con la lingua.
Il ragazzo ha la faccia tumida e piena di lividi, non riesce ad aprire un occhio per quanto è gonfio. Mi accovaccio vicino a lui e gli do un buffetto su una guancia. - Stammi a sentire, ragazzo mio, - dico nel dialetto della frontiera, - ti vogliamo parlare.
Non reagisce.
- Fa finta, - dice la guardia, - in realtà capisce.
- Chi l'ha picchiato?
- Non sono stato io, - dice la guardia, - era già ridotto così quando è arrivato.
- Chi ti ha picchiato? - gli chiedo.
Non mi ascolta. Guarda fisso oltre la mia spalla, non la guardia, ma il colonnello Joll che le sta accanto.
Mi rivolgo a Joll. - Non deve aver mai visto niente del genere -.
Accenno agli occhiali. - Dico gli occhiali. Penserà che sia cieco -. Ma Joll non risponde al mio sorriso. Davanti ai prigionieri evidentemente
bisogna mantenere un certo contegno.
Mi accovaccio davanti al vecchio. - Padre, stammi a sentire. Vi abbiamo portati qui perché vi abbiamo presi dopo che è stato rubato il nostro
bestiame. Una brutta storia. Sai che puoi essere punito per questo? Si inumidisce le labbra con la lingua. E' terreo, sfinito.
- Padre, lo vedi questo signore? E' venuto qui dalla capitale. Sta visitando tutti i forti sulla frontiera. Il suo compito è scoprire la verità. Lui scopre la verità. Se non parli con me dovrai parlare con lui, capisci?
- Eccellenza, - dice. La voce è gracchiante, si schiarisce la gola. - Eccellenza, noi non ne sappiamo niente del furto. I soldati ci hanno presi e legati senza motivo. Senza motivo. Eravamo per strada, stavamo
andando dal medico. Questo è il figlio di mia sorella. Ha una piaga che non si rimargina. Non siamo ladri. Fa' vedere la piaga ai signori.
A fatica, con una mano e coi denti, il ragazzo comincia a srotolare le pezze che gli fasciano l'avambraccio. Gli ultimi giri, incrostati di
sangue secco e di pus, sono incollati alla carne, ma lui solleva il bordo per mostrarmi il margine rosso vivo della ferita.
- Vede, - dice il vecchio, - non c'è niente da fare, non si rimargina.
Lo stavo portando dal medico, quando i soldati ci hanno fermato. Tutto qui.
Vado via col mio ospite. Riattraversiamo la piazza. Tre donne ci oltrepassano, di ritorno dalla chiusa del canale con i catini del bucato sulla testa. Ci guardano incuriosite, col collo teso e rigido. Il sole
picchia forte.
- Sono i primi prigionieri dopo tanto tempo, - dico. - E una
coincidenza. Normalmente non avremmo avuto barbari da mostrarle. Il cosiddetto banditismo dopotutto non è così grave. Rubano qualche pecora o portano via da un convoglio qualche bestia da soma. A volte per rappresaglia siamo noi a fare un'incursione. Per lo più sono gruppi di poveretti che vivono lungo il fiume con le loro piccole greggi. Vivono così. Il vecchio dice che erano venuti a cercare un medico. Forse è
vero. Nessuno avrebbe portato un vecchio e un ragazzo malato in una scorreria. Mi rendo conto che li sto difendendo.
- Naturalmente non si può esserne certi. Ma anche se mentono, che spera di tirare fuori da due poveretti come quelli?
Cerco di vincere l'irritazione che mi creano i suoi impenetrabili silenzi e la ridicola aria di mistero di quegli schermi scuri che
nascondono occhi sani. Cammina con le mani giunte davanti, come una donna.
- Comunque, - dice, - devo interrogarli. Stasera, se è possibile. Porterò con me il mio assistente. E poi avrò bisogno di qualcuno che mi
aiuti con la lingua. La guardia, per esempio. La parla?
- Riusciamo tutti a farci capire. Preferisce che io non ci sia?
- Si annoierebbe. Dobbiamo seguire una serie di procedure.
Le urla che la gente, in seguito, sosterrà di aver sentito provenire dal granaio, io non le sento. Mentre sbrigo le mie cose, quella sera, sono
perfettamente, continuamente conscio di ciò che forse sta succedendo. Ho perfino l'orecchio teso per cogliere il suono del dolore umano. Ma il granaio è un edificio massiccio con pesanti porte e piccole finestre; sta dietro il mattatoio e il mulino, nel quartiere meridionale. E poi quello che prima era un avamposto e dopo un forte sulla frontiera è
diventato un centro agricolo, una cittadina di tremila anime, in cui il rumore della vita, il rumore di tutta quella gente in una calda sera d'estate, non si ferma perché da qualche parte qualcuno grida. (A un certo punto comincio a perorare la mia causa).
Quando rivedo il colonnello Joll, appena ha un momento libero, porto la conversazione sulla tortura.
- E se il suo prigioniero dice la verità, - chiedo, - e tuttavia gli succede di non essere creduto? Non è una condizione terribile? Pensi un po', essere pronti a cedere, cedere e non avere più niente da cedere. Essere ridotti allo stremo ed essere forzati a cedere ancora! Che responsabilità per l'inquisitore! Come fa a sapere se un uomo le ha detto la verità?
- C'è un tono particolare, - dice Joll. - Un tono particolare nella voce dell'uomo che dice la verità. L'allenamento e l'esperienza ci insegnano a riconoscere quel tono.
- Il tono della verità! Riesce a riconoscerlo nella normale conversazione? Riesce a capire se dico la verità?
E' il momento di maggiore intimità che abbiamo avuto finora, lo scaccia con un lieve gesto della mano.
- No, lei adesso mi fraintende. Mi riferisco a una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In
principio mi dicono solo bugie, capisce... succede sempre così: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il
crollo, ancora pressione e alla fine la verità. E' così che si arriva alla verità.
Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. E questo che ricavo dalla mia conversazione col colonnello Joll. Con le sue unghie appuntite, i fazzoletti color malva e i piedi magri nelle scarpe di morbida pelle, continuo a immaginarmelo nella capitale, dove è
chiaramente impaziente di tornare, nei ridotti dei teatri durante gli intervalli, mentre parla a bassa voce con gli amici.
(E d'altro canto chi sono io per asserire la mia distanza da lui? Bevo con lui, mangio con lui, lo porto a spasso, gli offro tutta l'assistenza richiesta dalla lettera di incarico e anche di più. L'Impero non impone ai suoi servitori di amarsi, ma solo di fare il loro dovere).
Il rapporto che ricevo da lui, nella mia veste di magistrato, è breve.
Durante il corso dell'interrogatorio sono emerse contraddizioni evidenti nella testimonianza del prigioniero. Messo di fronte a quelle contraddizioni il prigioniero si è infuriato e ha aggredito il funzionario che lo interrogava. E' seguita una colluttazione durante la
quale il prigioniero è andato a sbattere violentemente contro il muro.
Ogni sforzo per fargli riprendere conoscenza è stato vano. Per scrupolo di completezza, come richiesto dalla lettera della legge, convoco la guardia e le chiedo di fare una dichiarazione. Parla e io trascrivo le sue parole. «Il prigioniero, perso il controllo, ha attaccato l'ufficiale. Sono stato chiamato in soccorso, ma quando sono
arrivato la lotta era già finita. Il prigioniero era privo di sensi e perdeva sangue dal naso.» Gli indico dove apporre la croce e lui prende con deferenza la penna che gli porgo.
- Te l'ha suggerito l'ufficiale cosa dire? - gli chiedo pacatamente.
- Sì, signore, - mi risponde.
- Il prigioniero aveva le mani legate?
- Sì, signore. Anzi no, signore.
Lo congedo e compilo l'autorizzazione per la sepoltura. Ma prima di andare a dormire prendo una lanterna, attraverso la piazza e raggiungo il granaio passando per le strade laterali. Davanti alla porta della baracca c'è una guardia nuova, un altro giovane contadino, che dorme, avvolto in una coperta. Quando mi avvicino un grillo smette di
cantare. Il rumore del catenaccio non sveglia la guardia. Entro nella baracca tenendo alta la lanterna. Mi rendo conto che sto violando quella che è diventata terra sacra, o profana, ammesso che ci sia una differenza tra le due cose, riserva dei misteri di Stato.
Il ragazzo giace su un pagliericcio in un angolo, è vivo e tutto intero.
Sembra che dorma, ma la tensione della sua posizione lo tradisce. Ha le mani legate davanti. Nell'altro angolo c'è un lungo fagotto bianco.
Sveglio la guardia.
- Chi ti ha detto di lasciare lì il corpo? Chi l'ha cucito?
Sente la rabbia nella mia voce. - E' stato l'uomo venuto con l'altra Eccellenza, signore. Era qui quando sono montato di guardia. Ha detto al ragazzo, l'ho sentito io: «Dormi col nonno, tienilo caldo.» Ha lasciato intendere di voler cucire anche il ragazzo dentro a quel sudario, lo
stesso sudario, ma poi non l'ha fatto.
Mentre il ragazzo continua a dormire tutto rigido, con gli occhi serrati, portiamo fuori il cadavere. Nel cortile, con la guardia che regge la lanterna, trovo la cucitura con la punta del coltello. Apro il sudario e lo tiro giù scoprendo la testa del vecchio.
La barba grigia è incrostata di sangue. Le labbra sono spaccate e lacere, i denti rotti. Un occhio è rovesciato all'indietro e l'altra orbita è tutta un grumo di sangue. - Chiudilo, - dico. La guardia
raccoglie la stoffa per chiuderlo. Si riapre.
- Dicono che ha sbattuto
la testa contro il muro. Che ne pensi? - Mi guarda diffidente.
- Prendi un po' di corda e richiudilo stretto.
Illumino il ragazzo con la lanterna. Non si è mosso, ma quando mi chino e gli tocco una guancia sussulta e comincia a tremare. Lunghi fremiti gli scuotono il corpo.
- Stammi a sentire, ragazzo, - gli dico, - non ti farò alcun male -.
Si gira sulla schiena e si copre la faccia con le mani legate. Sono gonfie e violacee. Cerco di allentare i nodi. Con questo ragazzo ogni mio gesto è sempre goffo.
- Ascolta, devi dire la verità al colonnello. E' solo questo che vuole da te: la verità. Se si
convince che gli dici la verità non ti farà del male, ma tu devi dirgli tutto quello che sai. Devi rispondere sinceramente a ogni domanda che ti fa. Se senti dolore non ti scoraggiare -.
Alla fine lavorando sul nodo
sono riuscito ad allentare la corda.
- Strofinati le mani finché il
sangue non riprende a circolare -.
Sfrego le sue mani tra le mie. Lui piega le dita dolorosamente. Non posso pretendere di essere qualcosa più di una madre che cerca di consolare il figlio tra un accesso e l'altro di rabbia del padre. Non mi sfugge il fatto che l'inquisitore può avere
due maschere, parlare con due voci diverse, una dura e l'altra suadente.
- Ha mangiato qualcosa stasera? - chiedo alla guardia.
- Non lo so.
- Ti hanno dato qualcosa? - chiedo al ragazzo. Lui scuote la testa. In petto il cuore mi sembra sempre più pesante. Non avrei mai voluto essere
trascinato in tutto questo. Non so dove andrà a finire. Mi rivolgo alla guardia.
- Adesso vado via, ma ci sono tre cose che devi fare. Primo:
quando le mani di questo ragazzo andranno un po' meglio dovrai legarle di nuovo, ma non troppo strette, perché non si gonfino. Secondo: devi lasciare il cadavere dov'è, nel cortile. Non riportarlo dentro.
Domattina presto lo manderò a prendere per la sepoltura e tu lo consegnerai agli incaricati. Se ti fanno domande di' che sono stato io a ordinartelo. Terzo: adesso devi chiudere a chiave la baracca e venire con me. In cucina troverò qualcosa da mangiare per il ragazzo, tu glielo porterai. Vieni.
Non volevo impegolarmi in questa cosa. Sono un magistrato, un funzionario responsabile al servizio dell'Impero; faccio il mio lavoro in questo pigro territorio di frontiera e aspetto di andare in pensione.
Incasso tasse e decime, amministro le terre demaniali, mi assicuro che la guarnigione riceva rifornimenti e controllo i giovani funzionari, che sono poi gli unici funzionari che abbiamo qui, tengo d'occhio il
commercio e presiedo il tribunale due volte a settimana. Per il resto guardo l'alba e il tramonto, mangio e dormo, e mi accontento. Quando morirò spero di meritare tre righe in corpo minore sulla gazzetta dell'Impero. Non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli.
Ma l'anno scorso dalla capitale sono cominciate ad arrivare voci di tumulti tra i barbari. Viaggiatori attaccati e depredati su strade prima
ritenute sicure. Razzie di bestiame sempre più numerose e più audaci. Ufficiali del censimento scomparsi e ritrovati in fosse poco profonde. Colpi d'arma da fuoco sparati contro un governatore provinciale durante un giro di ispezione. Scontri con la polizia di frontiera. Girava la voce che i barbari si stessero armando. L'Impero doveva prendere le
dovute misure perché certamente ci sarebbe stata la guerra. Di tutti questi tumulti io non ho visto niente. Personalmente mi sono reso conto che, a ogni generazione, a un certo punto si diffonde una specie di isteria sui barbari. Non c'è donna che viva nei territori di frontiera che non abbia sognato la nera mano di un barbaro che
l'afferrava per una caviglia spuntando da sotto il letto. Non c'è uomo che non sia stato colto dal terrore al pensiero di un'incursione di
barbari nella sua casa: piatti rotti, tende in fiamme, figlie
violentate. Questi sogni sono il risultato di una vita troppo
tranquilla. Fatemi vedere un esercito di barbari e ci crederò.
La preoccupazione nella capitale era che le tribù barbare del nord e dell'ovest potessero riunirsi. Ufficiali dello stato maggiore sono stati inviati a controllare le frontiere. Alcune guarnigioni sono state rinforzate. Ai mercanti che le avevano richieste sono state date scorte armate. E per la prima volta sulla frontiera sono stati visti gli ufficiali della Terza Divisione della Guardia civile, i difensori dello Stato, specializzati nei più oscuri moti di sedizione, devoti servitori della verità, dottori dell'interrogatorio. Dunque sembra che stiano per finire i miei anni tranquilli, in cui potevo dormire con l'anima in pace, sapendo che con una botta da una parte e una spinta dall'altra il mondo avrebbe continuato dritto per la sua strada. Se solo mi fossi
limitato a consegnare quei due prigionieri al colonnello:
- Ecco qua, colonnello! E lei lo specialista, veda cosa può cavare da questi due! -
Se fossi andato via per una battuta di caccia, come del resto era in programma, o magari per un'escursione lungo il fiume e poi, al ritorno, mi fossi limitato ad apporre il mio sigillo al suo rapporto senza neppure leggerlo o scorrendolo appena e comunque senza preoccu-parmi di indagare sul significato della parola investigazione, su che cosa ci
fosse sotto, come un'anima in pena sotto un sasso tombale - se avessi fatto la cosa giusta, allora forse adesso mi potrei dedicare tranquillamente alla caccia grossa e a quella col falcone, abbandonarmi
alla mia placida concupiscenza in attesa che provocazioni e agitazioni
lungo la frontiera finiscano. E invece, ohimè, non me ne sono andato: per un po' ho teso l'orecchio ai rumori che venivano dalla baracca
vicino al granaio, quella dove tengono gli attrezzi, poi, di notte, ho preso la lanterna e sono andato a vedere coi miei occhi. Da un capo all'altro dell'orizzonte la terra è bianca di neve. Cade da un cielo in cui la fonte di luce è diffusa e onnipresente, come se il sole si fosse dissolto nella nebbia, trasformato in un'aura. In sogno varco il cancello della caserma, oltrepasso l'asta senza bandiera. Mi si apre davanti la piazza, che ai limiti si fonde col cielo luminoso. Muri, alberi, case, come contratti, hanno perso solidità, si sono asserragliati all'estremità del mondo.
Mentre scivolo attraverso la piazza figure scure si staccano da quel biancore, sono bambini che giocano. Costruiscono un castello di neve in cima al quale hanno piantato una bandierina rossa. Stivali, guanti, sciarpe e cappucci li difendono dal freddo. Portano manciate di neve, una dopo l'altra, e così intonacano le pareti del loro castello, lo completano. Dalle loro bocche il respiro esce in nuvolette bianche.
Hanno quasi finito i bastioni intorno al castello. Cerco di afferrare lo strano, fluttuante borbottio delle loro voci, ma non capisco una parola.
Mi rendo conto di essere una massa pesante, scura, e non mi meraviglio che man mano che mi avvicino i bambini se la squaglino da una parte e dall'altra. Tutti tranne una. Più grande degli altri, forse non è nemmeno una bambina. Sta seduta nella neve, incappucciata, e lavora alla
porta del castello, mi volge le spalle. A gambe aperte scava, liscia, modella. Sto dietro di lei e guardo. Non si gira. Cerco di immaginarne il viso tra i lembi del cappuccio a punta, ma non mi riesce.
Il ragazzo giace supino, nudo, addormentato, ha il respiro corto e affannoso. La pelle è lucida di sudore. Per la prima volta non ha il braccio fasciato e vedo la brutta piaga aperta e infiammata. Avvicino la
lanterna. Il ventre e i testicoli sono punteggiati di croste, lividi e tagli, alcuni segnati da rivoletti di sangue.
- Che gli hanno fatto? - sussurro alla guardia, lo stesso ragazzo della
notte scorsa.
- Un coltello, - bisbiglia a sua volta. - Un coltellino piccolo così -.
Divarica pollice e indice. Impugnando il suo coltellino d'aria, con
gesto deciso, lo ficca nel corpo del ragazzo addormentato e poi lo
rigira delicatamente, come una chiave, prima a sinistra, poi a destra.
Quindi lo ritira, abbassa la mano e resta lì, in attesa.
Mi chino sul ragazzo, gli illumino il viso e lo scuoto. Apre gli occhi
stancamente e li richiude. Sospira, il respiro affannoso si fa più
lento. - Ascoltami, - gli dico, - era un brutto sogno. Ora svegliati -.
Apre gli occhi, sbatte le palpebre infastidito dalla luce, mi mette a
fuoco.
La guardia gli offre un pentolino d'acqua. - Può stare seduto? - chiedo.
La guardia scuote il capo e tira su il ragazzo, lo aiuta a bere.
- Stammi a sentire, - gli ripeto. - Dicono che hai confessato. Che hai
ammesso di aver rubato pecore e cavalli insieme al vecchio e ad altri
uomini della tua tribù. Hai detto che gli uomini della tua tribù si
stanno armando e che in primavera, tutti insieme, muoverete guerra
all'Impero. E' vero quello che hai detto? Ti rendi conto di che cosa
significa la tua confessione? Te ne rendi conto? - M'interrompo, il
ragazzo reagisce alla mia veemenza con lo sguardo vacuo, come di uno che
sia esausto dopo una lunga corsa. - Significa che i soldati
attaccheranno la tua gente. Ci saranno dei morti. Morirà la tua gente,
forse anche i tuoi genitori, le tue sorelle, i tuoi fratelli. Davvero
vuoi questo? - Non reagisce. Lo scuoto per le spalle, lo schiaffeggio.
Non batte ciglio, è come schiaffeggiare un cadavere. - Deve stare
malissimo, - bisbiglia la guardia, - soffre molto. E' ridotto male -. Il
ragazzo richiude gli occhi.
Chiamo l'unico medico che abbiamo qui. Un vecchio che si guadagna la
vita cavando denti e preparando afrodisiaci con farina d'ossa e sangue
di lucertola. Mette una poltiglia di argilla sulla piaga e spalma un
unguento su quell'infinità di tagli. Promette che nel giro di una
settimana il ragazzo sarà in grado di camminare. Raccomanda cibo
nutriente e scappa via. Non chiede in che modo il ragazzo si sia fatto
tutte quelle ferite.
Ma il colonnello è impaziente. Vuole fare un'incursione lampo tra i
nomadi e prendere altri prigionieri. Il ragazzo dovrà fargli da guida.
Mi chiede di dargli trenta dei quaranta uomini della guarnigione e di
fornirgli i cavalli.
Cerco di dissuaderlo. - Senza offesa, colonnello, - dico, - lei non è un
soldato di mestiere, non ha mai fatto una campagna in queste lande
inospitali. Vuole portarsi come unica guida un ragazzino a cui incute
tanta paura che dirà qualsiasi cosa gli passi per la testa pur di compiacerla e che comunque non è in grado di viaggiare. E non può
contare sull'aiuto dei soldati, sono solo contadini di leva, molti non
si sono mai allontanati più di poche miglia da qui. I barbari che
insegue fiuteranno nell'aria i vostri movimenti e si dilegueranno nel
deserto quando ancora sarete a un giorno di marcia da loro. Vivono qui
da sempre, conoscono la terra. Noi due siamo stranieri, lei ancora più
di me. In tutta sincerità le consiglio di non partire.
Mi sta a sentire, anzi (mi pare) mi dà addirittura corda. Sono sicuro
che, dopo, questa conversazione verrà trascritta, col commento «non
affidabile.» Dopo avermi ascoltato per un po' liquida le mie obiezioni:
- Mi è stato assegnato un compito, magistrato. Solo io posso giudicare
quando il mio lavoro sarà concluso -. E va avanti con i suoi
preparativi.
Viaggia nella sua carrozza nera a due ruote, con la brandina e lo
scrittoio pieghevole legati sul tetto. Gli do i cavalli, i carri, il
foraggio e le provviste per tre settimane. Lo accompagna un giovane
sottotenente della guarnigione, al quale mi rivolgo in privato. - Non ti
fidare della guida. E' un ragazzo debole e terrorizzato. Occhio al tempo
e alla strada, alle sue caratteristiche. Il tuo primo dovere è riportare
a casa sano e salvo il nostro ospite -. Annuisce.
Mi rivolgo di nuovo a Joll per avere un'idea delle sue intenzioni.
- Sì, - dice, - naturalmente non voglio impegnarmi a seguire un piano
prestabilito ma, in linea di massima, cercheremo di individuare
l'accampamento dei suoi cari nomadi e poi ci regoleremo secondo le
circostanze.
- Chiedevo, - continuo, - solo perché se vi doveste perdere sarebbe
compito nostro venirvi a cercare e riportarvi alla civiltà -. In
silenzio assaporiamo, dai nostri diversi punti di vista, l'ironia della
definizione.
- Sì, certo, - dice, - ma è improbabile. Per fortuna possiamo contare
sulle ottime mappe della regione che lei stesso ci ha fornito.
- Sono mappe basate su dicerie, colonnello. Le ho messe insieme grazie
ai racconti fatti dai viaggiatori negli ultimi dieci o venti anni. Io
stesso non sono mai arrivato dove lei pensa di andare. Volevo solo
metterla in guardia.
Da quando è qui, fin dal secondo giorno, la sua presenza mi disturba al
punto che nei suoi confronti non riesco a tenere altro che un
comportamento corretto e niente più. Immagino che, come tutti i
carnefici itineranti, sia abituato a essere evitato. (O boia e
torturatori sono ancora considerati personaggi impuri solo nelle
province?) Lo guardo e mi chiedo come si dev'essere sentito la prima
volta: invitato come apprendista a stringere le pinze o a girare la vite
o a fare quel che fanno, qualunque cosa sia, avrà provato un piccolo brivido al pensiero che stava varcando una soglia proibita? Mi sorprendo
a chiedermi se osservi un qualche suo privato rituale di purificazione,
celebrato a porte chiuse, che gli permetta di tornare fra gli uomini, di
sedersi a tavola insieme a loro. Forse si lava accuratamente le mani, o
si cambia da capo a piedi; o forse la Terza Divisione ha forgiato uomini
capaci di passare senza scomporsi dall'impuro al puro?
Più tardi quella notte mi arriva il rumore e il ritmo dell'orchestra che
suona sotto i vecchi alberi di noce, giù in piazza. C'è un bagliore
rosato nell'aria prodotto dalle braci ardenti su cui i soldati stanno
arrostendo pecore intere, dono di «Sua Eccellenza.» Berranno fino alle
prime ore del giorno e poi si metteranno in marcia prima che sorga il
sole.
Mi dirigo verso il granaio passando per le stradine secondarie. La
guardia non è al suo posto e la porta della baracca è spalancata. Sto
per entrare quando sento delle voci che provengono da dentro, bisbiglii,
risatine.
Scruto l'oscurità. - Chi va là? - chiedo.
Un fruscio, e mi viene a sbattere addosso la giovane sentinella. - Mi
scusi, signore, - dice. L'alito gli puzza di rum. - Il prigioniero mi ha
chiamato e stavo cercando di aiutarlo -. Dall'oscurità giunge un breve
scoppio di risa.
Dormo, poi mi sveglia un'altra ondata di musica che viene dalla piazza.
Mi addormento di nuovo e sogno un corpo che giace supino, a braccia
spalancate, con un ciuffo di peli che luccicano sul pube come un liquido
nero e oro che scorre sul ventre fino all'inguine e poi giù, come una
freccia dentro al folto ciuffo tra le gambe. Quando allungo una mano per
accarezzarlo, il ciuffo comincia a fremere. Non sono peli ma un denso
nugolo di api, ammucchiate una sull'altra: zuppe di miele, appiccicose,
escono dal ciuffo e vibrano le ali.
Per un ultimo gesto di cortesia accompagno il colonnello fino a dove la
strada svolta a nord-ovest, lungo il lago. La grande superficie d'acqua
riflette la luce del sole, ora alto nel cielo, con un bagliore così
violento che sono costretto a proteggermi gli occhi. Gli uomini, stanchi
e fiaccati dalla notte di bagordi, si trascinano dietro di noi. Al
centro della colonna, sostenuto da una guardia che gli cavalca a fianco,
c'è il prigioniero. Ha una faccia spaventosa e sta in sella con
difficoltà per il dolore che ancora gli procurano le ferite. In coda
seguono i cavalli da soma e i carri con i barili d'acqua, le provviste e
l'equipaggiamento più pesante: lance, fucili, munizioni, tende. Insomma
non è un bello spettacolo: la colonna procede stancamente, alcuni uomini
con la testa scoperta, altri con i pesanti elmetti piumati della
cavalleria, altri ancora con un semplice cappuccio di cuoio. Distolgono
gli occhi dal sole abbagliante, tutti tranne uno che guarda dritto
davanti a sé attraverso una striscia di vetro affumicato incollata a
un'asticciola che si tiene vicino agli occhi, a imitazione del capo. Fino a che punto arriverà questa ridicola affettazione?
Cavalchiamo in silenzio. I mietitori, che lavorano nei campi fin
dall'alba, al nostro passaggio si fermano ^per salutarci. Là dove la
strada curva tiro le redini e trattengo il cavallo. Mi congedo: - Le
auguro un felice ritorno, colonnello -. Incorniciato dal finestrino
della carrozza, lui china il capo, imperscrutabile.
Allora torno indietro, sollevato da un peso e felice di essere di nuovo
solo in un mondo che conosco e capisco. Salgo in cima ai bastioni per
guardare la piccola colonna che si snoda diretta a nord-ovest, verso la
lontana macchia verde, dove il fiume sbocca nel lago e la linea della
vegetazione scompare sfocando nel deserto. Il sole è ancora alto,
bronzeo e opprimente sopra le acque. A sud del lago si distendono le
paludi e le pianure saline, e ancora oltre una striscia grigio-blu di
aridi colli. Nei campi i contadini caricano i due vecchi, giganteschi
carri da fieno. Uno stormo di anatre selvatiche turbina in cielo, quindi
plana verso la distesa d'acqua. L'estate volge al termine, è un periodo
di pace e di abbondanza. Io credo nella pace, forse addirittura nella
pace ad ogni costo.
Due miglia a sud della città le dune si susseguono, una dopo l'altra,
nel piatto paesaggio sabbioso circostante. I bambini, intenti ai loro
classici divertimenti estivi, al mattino catturano le rane della palude
e a sera, quando la sabbia comincia a raffreddarsi, si lasciano
scivolare giù per le dune su lucide slitte di legno. Anche se il vento
soffia in ogni stagione le dune restano, tenute insieme da una leggera
pelle d'erba, e anche - come ho scoperto per caso qualche anno fa - da
strutture di legno. Perché le dune ricoprono rovine di case che
risalgono a tempi lontani, precedenti all'annessione delle province
occidentali e all'edificazione del forte.
Uno dei miei passatempi preferiti è scavare tra quelle rovine. Se non ci
sono da riparare le opere di irrigazione commino qualche giorno di scavo
delle dune ai piccoli delinquenti; ci mando anche i soldati in punizione
e, al massimo del mio entusiasmo, sono arrivato perfino a pagare di
tasca mia qualche lavoretto di scavo. Non è un lavoro ambito, perché chi
scava deve faticare sotto il sole cocente o al vento gelido senza
riparo, in mezzo alla sabbia che s'infiltra dappertutto. Lavorano di
malavoglia, non condividono il mio interesse (che a loro pare una
stramberia), e sono scoraggiati dalla velocità con cui la sabbia torna a
coprire la loro opera. Ma nel giro di pochi anni sono riuscito a
riportare alla luce alcune delle strutture più imponenti. L'ultima che
hanno dissotterrato sta lì, come il relitto di una nave incagliato nel
deserto, si vede perfino dalle mura della città. Di quella struttura,
forse un tempio o un edificio pubblico, ho recuperato il pesante
architrave di legno di pioppo, decorato a intaglio da un motivo
intrecciato di pesci guizzanti. Ora è appeso sul mio camino. Sotto il
livello del pavimento ho trovato anche, nascoste in una borsa che appena
toccata si è disintegrata, una serie di leggere tavolette di legno su
cui erano tracciati caratteri di una scrittura mai vista. Avevamo trovato tavolette simili in precedenza, disseminate come mollette tra le
rovine, ma per lo più erano talmente sbiancate dalla sabbia che i
caratteri risultavano illeggibili. I caratteri sulle ultime invece sono
chiarissimi, come appena tracciati. Ora, nella speranza di decifrarle,
mi sono dedicato a collezionarne a più non posso e ho fatto sapere ai
ragazzini che giocano qui intorno che sono disposto a pagarle un penny
l'una.
Le strutture lignee che riportiamo alla luce sono secche e polverose.
Tante si sono conservate solo perché la sabbia le ha tenute insieme, e
appena esposte all'aria si polverizzano. Altre si spezzano alla minima
pressione. Non ho idea dell'età del legno. Le leggende dei barbari,
pastori e nomadi che vivono nelle tende, non fanno riferimento a uno
stanziamento permanente nei pressi del lago. Non ci sono resti umani tra
le rovine. Se c'è un cimitero, non lo abbiamo scoperto. Nelle case non
c'è mobilio. Ho trovato frammenti di vasellame cotto al sole e qualcosa
di marrone, che faceva pensare a una scarpa o a un cappuccio di cuoio,
ma mi si è disintegrato sotto gli occhi. Non so da dove può essere
venuto il legno per costruire quelle case. Forse in passato galeotti,
schiavi e soldati erano costretti a marciare per quel sentiero di quasi
tredici miglia fino al lago e poi a tagliare gli alberi di pioppo,
segare e piallare il legno e quindi riportarlo sui loro carri fino a
queste lande desertiche. Potrebbero aver costruito allora le case e
anche il forte, per quanto ne so, e poi essere morti, in modo da
permettere ai loro padroni, ai loro prefetti e ai loro magistrati, di
salire sui tetti e sulle torri per scrutare il mondo, dominando
l'orizzonte da parte a parte per cogliere i segni della presenza dei
barbari. Forse con i miei scavi ho solo scalfito la superficie. Forse
poco sotto le fondamenta del forte sono sepolte le rovine di un altro
forte raso al suolo dai barbari, popolate dalle ossa di genti che
pensavano di essere al sicuro dentro le sue alte mura. Forse, quando
calpesto il suolo del tribunale, se di tribunale si può parlare, i miei
piedi calpestano la testa di un altro magistrato come me, di un altro
brizzolato servo dell'Impero, caduto sul campo della sua autorità,
finalmente faccia a faccia con i barbari. Come fare a saperlo? Scavando
buche nella terra come un coniglio? Forse un giorno me lo diranno i
caratteri tracciati sulle tavolette di legno? Nella borsa ce n'erano
duecentocinquantasei. Un numero perfetto, chissà se è solo un caso. Dopo
averle contate e aver fatto questa scoperta, ho sgombrato il pavimento
del mio ufficio e le ho disposte prima in un grande quadrato, poi in
sedici quadrati più piccoli, poi ancora in altre combinazioni, pensando
che quelle che fino a quel momento avevo considerato come le lettere di
un sillabario potessero in realtà essere gli elementi di un disegno i
cui contorni mi sarebbero balzati agli occhi se solo avessi indovinato
la loro giusta disposizione: una mappa del territorio barbaro nei tempi
antichi, o la rappresentazione di un tempio perduto. Mi sono perfino
sorpreso a cercare di leggerle allo specchio, a metterle una sull'altra
o anche ad avvicinarne due metà diverse.
Una sera ho indugiato tra le rovine, quando ormai i bambini erano
rientrati a cenare nelle loro case, nella luce viola del tramonto, con le prime stelle, all'ora in cui, secondo la leggenda, si svegliano i
fantasmi. Ho poggiato l'orecchio al suolo, come mi avevano insegnato i
bambini, per sentire quello che loro sentono: tonfi e gemiti sotto
terra, e il ritmo profondo e irregolare dei tamburi. Sotto la guancia ho
sentito la carezza della sabbia che scorre senza meta nel deserto.
Svanite le ultime luci, i contorni dei bastioni si sono fatti sempre più
indefiniti, si sono dissolti nell'oscurità. Ho aspettato per un'ora,
avvolto nel mio mantello, con la schiena contro l'angolo di una casa
dove un tempo la gente deve aver mangiato, parlato, ascoltato musica.
Sono rimasto lì a vedere sorgere la luna, coi sensi aperti alla notte,
aspettando un segno che tutto quello che avevo intorno, e sotto i piedi,
non fosse solo sabbia, polvere d'ossa, scaglie di ruggine, cocci,
cenere. Il segno non è venuto. Non avevo i brividi per paura dei
fantasmi. Il mio nido nella sabbia era caldo. Dopo poco mi ciondolava il
capo. Allora mi sono tirato su e mi sono stiracchiato, quindi mi sono
trascinato stancamente fino a casa nel buio profumato, seguendo la
traccia del soffuso chiarore che veniva dai camini accesi nelle case.
Ridicolo, ho pensato: un uomo con la barba grigia che se ne sta seduto
al buio ad aspettare che gli spiriti, usciti da qualche anfratto della
storia, vengano a parlargli prima che lui torni a casa, alla sua mensa
militare, al suo comodo letto. Lo spazio intorno a noi è solo spazio,
non più meschino o più grandioso di quello sopra le baracche e i
caseggiati, i templi e gli uffici della capitale. Lo spazio è spazio, la
vita è vita, la stessa ovunque. Ma per quel che mi riguarda, sostenuto
dal lavoro altrui, in mancanza di vizi raffinati coi quali riempire il
mio tempo libero, cullo la mia malinconia e cerco di trovare nella
vacuità del deserto una speciale pregnanza storica. Vano, inoperoso,
sviato. Ma per fortuna nessuno mi vede!
Oggi, solo quattro giorni dopo la partenza della spedizione, sono
arrivati i primi prigionieri del colonnello. Dalla mia finestra li vedo
attraversare la piazza tra le guardie a cavallo: ricoperti di polvere,
esausti, si ritraggono dalla gente che gli si affolla intorno per
guardarli, dai bambini che saltellano, dai cani che abbaiano. Arrivate
all'ombra delle mura della caserma le guardie smontano da cavallo;
subito i prigionieri si accucciano al suolo per riposare, tutti tranne
un bambino in piedi su una gamba sola, col braccio appoggiato alle
spalle della madre, che guarda curioso la gente che lo guarda. Qualcuno
porta un secchio d'acqua e un mestolo. Bevono assetati, mentre la folla
aumenta e gli si stringe attorno tanto che non riesco più a vederli.
Impaziente aspetto la guardia che si fa strada tra la folla e attraversa
il cortile della caserma.
- Che significa tutto questo? - urlo. Lui abbassa la testa e cerca
qualcosa in tasca. - Sono pescatori, che senso ha portarli qui?
Mi tende una lettera. Rompo il sigillo e leggo: «Per favore, in attesa
del mio ritorno, tenga segregati questi e i prossimi prigionieri che
arriveranno.» Accanto alla sua firma è ripetuto il sigillo, il sigillo
della Terza Divisione che ha portato con sé nel deserto e che, semmai il
colonnello dovesse morire, sarei costretto a far recuperare da una seconda spedizione.
- Ma quest'uomo è ridicolo! - grido. Faccio avanti e indietro per la
stanza, furiosamente. Non si dovrebbero mai denigrare gli ufficiali
davanti ai loro soldati, i padri davanti ai figli, ma per quest'uomo non
provo sentimenti di lealtà. - Nessuno gli ha detto che sono pescatori?
E' tempo perso portarli qui! Dovevate aiutarlo a individuare i banditi,
i ladri, gli invasori dell'Impero ! Questa gente qui vi sembra una
minaccia per l'Impero? - Scaglio la lettera contro la finestra.
La folla si apre per lasciarmi passare finché arrivo al centro, di
fronte a quella patetica dozzina di prigionieri. Indietreggiano davanti
alla mia furia e il bambinetto si rifugia tra le braccia della madre.
Faccio segno alle guardie. - Fatevi largo e portate questa gente nel
cortile della caserma-. Scortano i prigionieri; il cancello della
caserma si richiude dietro di noi. - Aspetto una spiegazione! - dico. -
Nessuno gli ha detto che questi prigionieri non gli servono a niente?
Nessuno gli ha spiegato la differenza tra i pescatori con le loro reti e
i nomadi selvaggi a cavallo, con arco e frecce? Nessuno gli ha detto che
non parlano nemmeno la stessa lingua?
- Quando ci hanno visti hanno cercato di nascondersi tra le canne, -
spiega uno dei soldati. - Hanno visto arrivare uomini a cavallo e così
si sono nascosti. Allora Sua Eccellenza ci ha ordinato di catturarli,
perché si nascondevano.
Potrei bestemmiare per la rabbia e la frustrazione. Un poliziotto! Il
ragionamento di un poliziotto! - E Sua Eccellenza ha detto per quale
motivo voleva che fossero portati qui? Non ha detto perché non poteva
interrogarli là dov'erano?
- Nessuno di noi parlava la lingua, signore.
Certo! Questa gente che vive lungo il fiume è aborigena, ancora più
antica dei nomadi. Vivono in stanziamenti di due o tre famiglie in riva
al fiume, pescano e mettono trappole per la maggior parte dell'anno e in
autunno si spingono a sud, fino alle sponde più meridionali del lago in
cerca dei vermi che gli serviranno da esca e che mettono a seccare. Si
costruiscono fragili capanne di canna dove l'inverno patiscono il freddo
coperti di pelli di animali. Hanno il sacro terrore di tutto e di tutti
e si nascondono tra le canne, che cosa mai possono saperne loro di una
grande impresa barbara contro l'Impero?
Mando uno degli uomini in cucina, a prendere del cibo. Torna con una
pagnotta di pane raffermo che offre al prigioniero più anziano. Il
vecchio prende il pane che gli viene dato, con reverenza, con entrambe
le mani, lo fiuta, lo rompe e ne distribuisce in giro i pezzi. I
prigionieri si riempiono la bocca con quella manna, masticano
rapidamente, a occhi bassi. Una donna sputa il pane masticato sul palmo
della mano, per nutrire il suo neonato. Faccio segno che portino altro
pane. Stiamo lì a guardarli mangiare come se fossero animali strani.
- Lasciateli nel cortile, - dico alle guardie. - Sarà scomodo per noi,
ma non c'è altro modo. Se stanotte dovesse fare troppo freddo troverò
un'altra soluzione. Dategli da mangiare e anche qualcosa da fare, per
tenerli occupati. Il cancello deve rimanere chiuso. Non scapperanno, ma
non voglio che i curiosi vengano qui per vederli da vicino.
Così, dominando la rabbia, faccio quello che mi chiede il colonnello:
tengo questi inutili prigionieri «segregati» per lui. Nel giro di un
giorno o due questi selvaggi sembrano aver già dimenticato di aver avuto
un'altra casa. Totalmente sedotti dal cibo abbondante e gratuito,
soprattutto dal pane, si rilassano, sorridono a tutti, si aggirano per
il cortile della caserma cercando le zone d'ombra, dormicchiano e si
svegliano, si eccitano quando s'avvicina l'ora dei pasti. Sono sporchi e
non conoscono il pudore. Un angolo del cortile è diventato una latrina
dove uomini e donne si accovacciano per fare i loro bisogni davanti a
tutti, sotto un nugolo di mosche ronzanti. («Dategli una vanga!» dico
alle guardie, ma loro non la usano). Il ragazzino, che ormai non ha più
paura, si aggira per la cucina e chiede zucchero alle serve. Oltre al
pane, anche lo zucchero e il té sono una grande novità per questa gente.
Tutte le mattine ricevono un panetto di foglie di té pressate e lo fanno
bollire sul fuoco di legna in un pentolone da quattro galloni appoggiato
su un treppiede. Qui sono felici, e se non li cacciamo noi è possibile
che rimangano per sempre. E' bastato poco per strapparli allo stato di
natura in cui vivevano. Passo ore a guardarli dalla finestra del mio
appartamento (gli altri curiosi si devono accontentare di guardarli dal
cancello). Guardo le donne che si spidocchiano tra di loro, si pettinano
e intrecciano i lunghi capelli neri. Alcune hanno accessi di una tosse
secca, stizzosa. E' singolare che tra di loro, a parte il ragazzino e il
neonato, non ci siano bambini. Forse qualcuno, più attento, più sveglio
degli altri, è riuscito a sfuggire ai soldati? Lo spero. Spero che,
quando li riporteremo alle loro case sul fiume, avranno tante storie
incredibili da raccontare ai loro vicini. Spero che la storia della
prigionia entri a far parte delle loro leggende, tramandate dai nonni ai
nipoti. Spero anche però che il ricordo della vita facile e del cibo
nuovo scoperto in città non li induca a tornare. Non voglio tra i piedi
tutta una genia di mendicanti.
Per qualche giorno questi pescatori rappresentano un diversivo, con la
loro strana lingua, la fame formidabile, la spudoratezza animalesca, il
temperamento volubile. I soldati se ne stanno sulla porta a osservarli,
fanno commenti osceni su di loro che non capiscono e ridono; dietro il
cancello si assiepano le facce dei bambini, aggrappati alle sbarre a
guardare. Anch'io guardo, non visto, dalla mia finestra.
Poi all'improvviso smettono di esserci simpatici. Non sopportiamo più la
sporcizia, la puzza, il baccano che fanno con le loro risse e la loro
tosse. Si verifica un incidente sgradevole, quando uno dei soldati -
chissà, forse solo per gioco, cerca di trascinare dentro la caserma una
delle loro donne e viene preso a sassate. Comincia a girare voce che
sono malati e che porteranno il contagio in città. Anche se li obbligo a
scavare un pozzo in un angolo del cortile e ordino che al mattino
portino via gli escrementi, il personale della cucina si rifiuta di dar
loro un qualsiasi utensile e comincia a tirargli il cibo dalla porta,
come se fossero davvero animali. I soldati sprangano l'ingresso della
caserma e i bambini smettono di venire al cancello. Qualcuno una notte
lancia un gatto morto dentro il muro di cinta e scatena un tumulto.
Nelle lunghe, torride giornate estive, si trascinano per il cortile
vuoto. Il neonato tossisce e piange, piange e tossisce, tanto che per
non sentirlo mi rifugio nella zona più remota del mio appartamento.
Scrivo una lettera indignata alla Terza Divisione, custode insonne
dell'Impero, denunciando l'incompetenza di uno dei suoi agenti. «Perché
non mandate qualcuno che conosca il territorio per indagare sulle
agitazioni lungo la frontiera?» scrivo. Poi, saggiamente, strappo la
lettera. Se una notte aprissi il cancello, mi chiedo, questa gente
andrebbe via? Ma non faccio niente. Poi un giorno mi rendo conto che il
piccolo ha smesso di piangere. Guardo dalla finestra ma non lo vedo da
nessuna parte. Mando la guardia a cercarlo. Trova il cadaverino sotto i
vestiti della madre che non vuole staccarsene. Glielo dobbiamo
letteralmente strappare dalle mani. Da quel momento la donna se ne sta
tutto il giorno accovacciata a terra, col volto coperto, e rifiuta il
cibo. La sua gente la evita. Abbiamo forse violato qualche loro costume,
mi chiedo, portandole via il bambino per seppellirlo? Maledico il
colonnello Joll per tutti i guai e la vergogna che mi ha portato.
Ritorna all'improvviso, in piena notte. Vengo svegliato dagli squilli di
tromba sui bastioni e dall'agitazione dei soldati che, nel piazzale
della caserma, si precipitano a prendere le armi. Sono confuso, mi vesto
con lentezza, quando arrivo in piazza la colonna sta già varcando le
porte della città. Alcuni uomini sono in sella, altri, a piedi, tirano
il cavallo per le redini. Resto indietro, mentre la folla accorsa si
stringe attorno ai soldati, li tocca e li abbraccia, ride eccitata
(«Tutti salvi!» grida qualcuno). Alla fine, al centro della colonna vedo
arrivare quello che avevo temuto: il carro nero, e poi il gruppo
cencioso di prigionieri, legati uno all'altro da una corda intorno al
collo, figure informi avvolte in pelli di montone sotto la luce argentea
della luna. In fondo avanzano gli ultimi soldati con i carri e i cavalli
da soma. Tra le persone che accorrono sempre più numerose, alcune con le
torce accese, e il frastuono che sale, volto le spalle al trionfo del
colonnello e me ne ritorno nelle mie stanze. Solo ora comincio a
rendermi conto dello svantaggio di vivere, come ho scelto di fare,
nell'appartamento sopra i magazzini e le cucine, quello destinato al
comandante militare che non abbiamo da anni, invece che nella bella
villa coi gerani alle finestre che toccherebbe al magistrato civile.
Vorrei potermi tappare le orecchie per non sentire i rumori che vengono
dal cortile qui sotto, che ormai sembra essere diventato una prigione
permanente. Mi sento vecchio e stanco, e voglio dormire. Di questi tempi
appena posso dormo e quando mi sveglio lo faccio con riluttanza. Il
sonno non è più bagno ristoratore, recupero delle forze vitali, ma
oblio, contatto notturno con l'annientamento. Vivere in questo
appartamento è diventato una condanna per me, penso. E non solo. Se
vivessi nella villa del magistrato, nella zona più tranquilla della città, se dessi udienza in tribunale il lunedì e il giovedì e andassi a
caccia ogni mattina, dedicando le sere ai classici, ignorando le
iniziative di questo poliziotto improvvisato, se lasciassi la città
quando le cose vanno male, tenendomi per me quello che penso, se facessi
tutto questo potrei smettere di sentirmi come uno trascinato dalla
risacca che, invece di nuotare, si arrende, va verso il mare aperto e la
morte. Ma è sapere quanto sia contingente il mio disagio, quanto dipenda
da un bambino che un giorno piange sotto la mia finestra e il giorno
dopo non piange più, è questo che mi riempie di vergogna, che mi rende
indifferente all'annientamento. So troppo. E da questo sapere, una volta
che ne sei contagiato, non c'è scampo. Non avrei mai dovuto prendere
quella lanterna per andare a vedere cosa succedeva nella baracca vicino
al granaio. D'altra parte era impossibile, una volta presa quella
lanterna, metterla giù. Il nodo si stringe da solo, e non ne trovo il
capo.
Tutto il giorno successivo il colonnello lo passa a dormire nella sua
stanza, alla locanda, e il personale deve muoversi in punta di piedi.
Cerco di non prestare attenzione al nuovo gruppo di prigionieri nel
cortile. E' un peccato che tutte le porte della caserma, come anche la
scala che conduce al mio appartamento, diano sul cortile. L'indomani
scappo via di primo mattino, mi occupo tutto il giorno degli affitti
municipali e la sera mangio con gli amici. Al rientro incontro il
giovane sottotenente che ha accompagnato il colonnello Joll nella sua
missione nel deserto e mi congratulo con lui per essere tornato sano e
salvo. - Ma perché non hai spiegato al colonnello che i pescatori non
potranno essergli di alcun aiuto nell'indagine? - Ha l'aria imbarazzata.
- Gliel'ho spiegato, - ribatte, - ma per tutta risposta mi ha detto «I
prigionieri sono prigionieri.» Così ho deciso che non stava a me
discutere con lui. Il giorno dopo il colonnello comincia gli
interrogatori. Lo avevo creduto un pigro, poco più di un burocrate dai
gusti perversi. Ora capisco quanto sbagliavo. Nella sua ricerca della
verità è instancabile. L'interrogatorio comincia la mattina presto ed è
ancora in corso quando rientro, dopo il tramonto. Per farsi aiutare ha
ingaggiato un cacciatore che ha passato la vita a stanare i cinghiali
lungo il fiume e ha imparato un centinaio di parole della lingua dei
pescatori. Uno dopo l'altro i prigionieri vengono fatti entrare nella
stanza dove si è installato il colonnello. A tutti chiede se hanno
notato movimenti di sconosciuti a cavallo. Interroga perfino il bambino:
- Hai visto stranieri nella capanna di tuo padre, di notte? -
(Naturalmente immagino quello che succede in quella stanza: la paura, lo
stupore, il degrado). Alla fine i prigionieri non vengono rimandati nel
cortile ma nella camerata più grande della caserma: i soldati - vengo a
sapere - sono stati acquartierati in città. Me ne sto nel mio
appartamento con le finestre chiuse, nel caldo soffocante di una sera senza vento, cerco di leggere e intanto mi sforzo di sentire o di non sentire i suoni della violenza. Finalmente a mezzanotte l'interrogatorio
finisce, non più porte sbattute, non più passi pesanti, il cortile è immerso nel silenzio e nella luce lunare. Finalmente posso dormire. Ho perduto la gioia di vivere, passo le giornate tra elenchi e conti, tiro per le lunghe ogni piccolo compito per riempire le ore. La sera
ceno alla locanda e poi, non avendo voglia di tornare a casa, salgo al piano di sopra, in quell'alveare di cubicoli e séparés dove dormono gli
stallieri e dove le ragazze intrattengono gli amici.
Dormo come un corpo morto. Quando mi sveglio, alla tenue luce del mattino, la ragazza sta acciambellata sul pavimento. Le tocco il
braccio.
- Perché dormi lì?
Mi sorride:
- Non c'è problema. Sto comoda -. (E' vero: sdraiata sul tappeto di morbida pelle di pecora si stiracchia e sbadiglia e il suo bel corpicino non arriva neppure al bordo).
- Ti agitavi nel sonno e mi hai detto di andarmene, così ho pensato che avrei dormito meglio qui.
- Ti ho detto di andartene?
- Sì, nel sonno. Non te la prendere -.
Si arrampica sul letto accanto a me. L'abbraccio con gratitudine, senza desiderio.
- Vorrei tornare a dormire qui anche stanotte, - dico.
Lei mi strofina il naso sul petto. Mi rendo conto che, qualunque cosa le voglia dire,
lei lo ascolterà con simpatia, con gentilezza. Ma cosa le posso dire?
«Cose terribili succedono nella notte mentre io e te dormiamo?»
Lo sciacallo strappa le viscere della lepre, ma la vita continua. Passo ancora un altro giorno e un'altra notte lontano dal regno del dolore. Mi addormento tra le braccia della ragazza. Al mattino la trovo di nuovo che dorme sul pavimento. Ride del mio imbarazzo.
- Mi hai spinta giù dal letto con le mani e coi piedi. Per favore, non ti agitare. Non possiamo controllare i nostri sogni e neppure quello che
facciamo nel sonno -. Mormoro qualcosa e mi volto dall'altra parte. La conosco da un anno e in certi periodi sono venuto a trovarla, in questa
stanza, anche due volte a settimana. Provo per lei un affetto tranquillo, quanto di meglio si possa auspicare tra un uomo di mezza età e una ragazza di vent'anni; certamente meglio di una passione possessiva. Ho perfino immaginato di chiederle di venire a vivere con me. Cerco di ricordare l'incubo che mi agita quando la caccio via dal letto, ma non ci riesco.
- Prometti di svegliarmi se lo faccio ancora, - le dico.
Sono nel mio ufficio, in tribunale, quando mi viene annunciata una visita. E' il colonnello Joll, sempre con gli occhiali scuri, anche qui dentro. Entra e mi si siede di fronte. Gli offro il té, sorpreso dalla fermezza della mia mano. Mi annuncia che se ne va. Debbo cercare di
dissimulare la mia gioia a questa notizia? Sorseggia il té, seduto rigidamente, si guarda attorno, ispeziona la stanza, gli scaffali pieni di fascicoli affastellati, legati da un nastro, l'archivio di decenni di monotona amministrazione. La piccola biblioteca con i testi giuridici, la scrivania ingombra. Per il momento ha concluso la sua indagine, mi
dice, e ha fretta di rientrare in città per fare rapporto. Ha un'aria di controllato trionfo. Faccio cenno che capisco. - Qualunque cosa possa fare per facilitare il suo viaggio... - dico. Una pausa. Poi nel silenzio, come un sasso in uno stagno, faccio cadere la mia domanda.
- E i suoi interrogatori di nomadi e indigeni, colonnello ... sono andati come sperava?
Prima di rispondere giunge le mani, polpastrello contro polpastrello. Credo che sappia quanto mi irrita la sua affettazione.
- Sì, magistrato,direi che abbiamo avuto un certo successo. Soprattutto se si pensa che analoghe indagini altrove, lungo la frontiera, vengono svolte in modo coordinato.
- Ottimo. E ci può dire se abbiamo qualcosa da temere? Possiamo dormire tranquilli?
Un lieve sorriso gli increspa un angolo della bocca. Quindi si alza, fa un inchino, gira i tacchi e se ne va. Il mattino seguente parte di buonora accompagnato dalla sua piccola scorta, sono diretti a est, per prendere la lunga strada che porta alla capitale. Per tutto un lungo, faticoso periodo, abbiamo cercato entrambi di intrattenere un rapporto civile. Ho sempre creduto nel comportamento civile, ma questa volta, non
posso negarlo, il solo ricordo mi riempie di disgusto per me stesso.
Per prima cosa vado dai prigionieri. Apro la porta dello stanzone della caserma dove sono stati rinchiusi, già nauseato dalla puzza di sporcizia e di sudore, e spalanco tutto.
- Mandateli via da qui! - grido ai soldati ancora mezzi svestiti, che mi guardano e mangiano il loro porridge. Dal locale buio i prigionieri mi fissano con apatia.
- Andate a pulire quella stanza! - urlo. - Voglio che tutto sia pulito! Acqua e
sapone! Voglio che tutto torni come prima! -
I soldati si affrettano ad eseguire gli ordini, ma certo si chiedono perché mai me la prenda con loro. I prigionieri incominciano a emergere alla luce del giorno, sbattono le palpebre, si coprono gli occhi. Una delle donne dev'essere
aiutata. Trema continuamente come una vecchia, anche se è giovane. Alcuni sono così malridotti che non riescono a stare in piedi. Non li vedevo da cinque giorni (ammesso che possa sostenere di averli
visti e non piuttosto di aver fatto scorrere, con riluttanza, uno sguardo assente su di loro). Non so che cosa abbiano subito in questi cinque giorni. Ora, guidati da una guardia, si stringono in un disperato
piccolo nodo nel cortile, nomadi e pescatori insieme, malati, affamati, feriti, terrorizzati. Se almeno questo oscuro capitolo della storia del
mondo si chiudesse qui, se questa brutta gente fosse cancellata dalla faccia della terra e noi giurassimo di ricominciare tutto da capo, di
fare un impero senza più ingiustizia né dolore. Non ci vorrebbe molto a scortarli nel deserto (magari dopo avergli dato un pasto per rendere
possibile la marcia), fargli scavare, con le ultime forze rimaste, una fossa grande abbastanza da contenerli tutti (o anche scavarla per loro!)
e lasciarli lì in eterno, sepolti. Poi ritornarcene alla nostra città fortificata pieni di buone intenzioni, di nuovi propositi. Ma non è roba per me. Gli uomini nuovi dell'Impero, loro sì che credono nelle palingenesi, nei nuovi capitoli, nelle pagine bianche. Io mi accanisco con la storia del passato, sperando che prima che finisca mi riveli la ragione per cui ho ritenuto che ne valesse la pena. E così che, essendo tornata nelle mie mani l'amministrazione della giustizia in questo
territorio, ordino che i prigionieri vengano nutriti, che sia chiamato
il medico per fare quello che può e che la caserma torni ad essere una
caserma. Che ci si organizzi per riportare i prigionieri alla loro vita
di sempre, prima possibile, più lontano possibile.
Capitolo secondo
Sta inginocchiata all'ombra del muro di cinta della caserma, a pochi metri dal cancello, avvolta in un cappotto troppo grande; per terra davanti a lei, un cappuccio di montone rovesciato. Ha le sopracciglia
nere e dritte, i capelli neri e lucidi dei barbari. Una donna barbara che chiede l'elemosina in città, che senso ha? Nel cappuccio solo pochi
penny. Le passo davanti altre due volte quel giorno. Ogni volta mi guarda in modo strano. Fissa dritto davanti a sé fino a che non le sono proprio vicino e poi, lentamente, gira la testa dall'altra parte. La seconda
volta metto una moneta nel cappuccio.
- E' troppo freddo e troppo tardi per stare fuori, - le dico. Lei annuisce. Il sole tramonta dietro una striscia di nuvole nere; il vento del nord porta con sé un presagio di neve; la piazza è vuota; passo oltre.
Il giorno dopo non c'è più. Parlo alla sentinella di guardia al cancello della caserma.
- Ieri per tutto il giorno c'è stata una donna seduta
laggiù, chiedeva l'elemosina. Da dove viene?
- Mi spiega che la donna è
cieca e che è una delle barbare portate dal colonnello. L'hanno lasciata
qui. Qualche giorno dopo la vedo attraversare la piazza. Cammina lentamente,
in modo strano, aiutandosi con due bastoni, e trascina il lungo cappotto di montone nella polvere. Do disposizioni. La portano nel mio appartamento, è lì in piedi davanti a me, appoggiata ai bastoni.
- Togliti il cappuccio, - dico.
Il soldato che l'ha accompagnata glielo tira giù. E' proprio la stessa ragazza. Stessi capelli neri con la
frangia sulla fronte, stessa bocca larga, stessi occhi neri che mi guardano e passano oltre.
- Dicono che sei cieca.
- Ci vedo, - dice. I suoi occhi si spostano dalla mia faccia e fissano un qualche punto dietro di me, sulla destra.
- Da dove vieni? -
Senza riflettere mi volto a guardare quello che guarda. Non c'è niente, fissa la parete vuota. Il suo sguardo si è indurito. Già sapendo la risposta, ripeto la domanda. Non parla.
Mando via il soldato. Siamo soli.
- Lo so chi sei, - dico. - Siediti, per favore -.
Le prendo i bastoni e l'aiuto a sedersi su uno sgabello. Sotto il cappotto porta grandi
mutandoni di lino, infilati in un paio di stivali dalla suola spessa.
Puzza di fumo, di abiti sporchi, di pesce. Ha le mani callose.
- Vivi chiedendo l'elemosina? - le domando. - Lo sai che non potresti stare in città? Potremmo espellerti in un qualunque momento e rimandarti dalla tua gente.
Se ne sta lì seduta e guarda in quello strano modo davanti a sé.
- Guardami, - le dico.
- Sto guardando. E' così che guardo.
Le agito una mano davanti agli occhi. Sbatte le palpebre. Mi avvicino, la guardo negli occhi. Distoglie lo sguardo dalla parete, lo sposta su
di me. L'iride nera risalta sulla cornea bianco latte, chiara come quella di un bambino. Le sfioro la guancia, sussulta.
- Ti ho chiesto cosa fai per vivere. Alza le spalle:
- La lavandaia.
- Dove vivi?
- Vivo.
- Il vagabondaggio non è permesso in città. L'inverno è alle porte. Devi avere un posto dove stare, oppure te ne devi tornare dalla tua gente.
Resta impassibile, ostinata. So che sto menando il can per l'aia.
- Posso darti un lavoro. Ho bisogno di qualcuno che pulisca la casa, che si occupi della biancheria. La donna che ho ora non va bene.
Capisce perfettamente il senso della mia offerta e resta lì rigida, con le mani in grembo.
- Sei sola? Ti prego, rispondimi.
- Sì, - dice con un filo di voce. - Sì.
- Ti ho offerto di venire qui, a lavorare. Non puoi chiedere l'elemosina per le strade. Non posso permetterlo. E poi devi avere un posto dove abitare. Se lavori da me puoi stare nella stanza della cuoca.
- Non capisci. Non puoi volere una come me -. Si trascina per prendere i bastoni. So che non vede. - Io sono... - alza l'indice poi lo afferra, lo torce. Non ho idea del significato di quel gesto. - Posso andare? -
Arriva da sola fino alle scale, poi mi aspetta, perché l'aiuti a
scendere.
Passa un giorno. Guardo la piazza dove il vento alza nugoli di polvere. Due ragazzini giocano con un cerchio. Lo fanno rotolare nel vento. Avanza, rallenta, ondeggia, torna indietro, cade. I bambini, la testa inclinata all'indietro, lo rincorrono, il vento gli libera la fronte, scopre le sopracciglia.
Trovo la ragazza e mi fermo davanti a lei. E' seduta, la schiena appoggiata al tronco di un grande albero di noce; difficile capire se è
sveglia.
- Vieni, - le dico, e le tocco la spalla. Lei scuote il capo.
- Vieni, - dico, - sono tutti dentro -.
Scrollo il cappuccio di pelliccia per liberarlo dalla polvere e glielo passo, l'aiuto a tirarsi su, e cammino lentamente vicino a lei. Attraversiamo la piazza; ora è vuota, a parte la sentinella che si ripara gli occhi con la mano per osservarci.
Il camino è acceso. Tiro le tende e accendo la lampada. Lei rifiuta lo sgabello ma lascia che prenda i bastoni e s'inginocchia al centro del
tappeto.
- Non è come pensi, - le dico. Le parole escono dalla mia bocca con riluttanza. E' mai possibile che stia per scusarmi? Ha la bocca chiusa,
le labbra serrate, sicuramente anche le orecchie; non ne vuole sapere di vecchi piagnucolosi e dei loro sensi di colpa. Le giro intorno, parlando di ordinanze sul vagabondaggio, disgustato di me. La sua pelle comincia
ad avvampare nell'aria calda della stanza chiusa. Apre il montone, espone la gola nuda al fuoco. La distanza tra me e i suoi aguzzini, mi rendo conto, è insignificante. Rabbrividisco.
- Fammi vedere i piedi, - le dico con la nuova voce roca che ormai sembra essere diventata la mia.
- Fammi vedere che cosa hanno fatto ai tuoi piedi.
Lei non mi aiuta, ma non mi ostacola. Armeggio coi ganci del montone, lo
apro, le tolgo gli stivali. Sono stivali da uomo, troppo grandi per lei. Dentro, i piedi sono fasciati, informi.
- Fammi vedere, - dico.
Comincia a srotolare le fasce sporche. Esco dalla stanza, scendo in cucina, risalgo con un catino di acqua calda e una brocca. Lei mi aspetta seduta sul tappeto, coi piedi nudi. Sono larghi, con le dita tozze e le unghie incrostate di sporcizia.
Passa un dito sulla caviglia, all'esterno.
- E' rotto qui. Anche l'altro -.
Si appoggia sulle mani e allunga le gambe.
- Fa male? - dico. Faccio scorrere il dito lungo quella linea, non sento niente.
- Non più. E' guarito. Ma forse quando viene il freddo.
- Dovresti metterti seduta, - dico, e l'aiuto a liberarsi del montone.
La faccio sedere sullo sgabello, verso l'acqua nel catino e comincio a lavarle i piedi. Per un po' sento le sue gambe rigide, poi si rilassano. La lavo lentamente, facendo la schiuma, afferrando la carne soda dei polpacci, manipolando ossa e tendini dei piedi, passando le dita tra le dita dei suoi piedi. Cambio posizione in modo da stare in ginocchio di lato e non di fronte a lei, cosicché tenendo ferma una gamba tra gomito
e fianco posso accarezzarle il piede con tutte e due le mani.
Mi perdo nel ritmo di quello che faccio. Quasi mi dimentico di lei. E' come un lasso di tempo vuoto: forse non sono nemmeno presente. Quando
ritorno in me le mie mani sono aperte, il piede è nel catino, la testa mi ciondola.
Asciugo il piede destro, passo dall'altra parte, spingo la gamba dei larghi mutandoni sopra il ginocchio e, lottando con la sonnolenza, comincio a lavare il piede sinistro.
- A volte questa stanza si
surriscalda, - dico. La pressione della sua gamba sul mio fianco non si
allenta. Continuo.
- Troverò delle fasce pulite per i tuoi piedi, - dico, - ma non ora -.
Spingo di lato il catino e le asciugo il piede. Mi rendo conto che cerca a fatica di alzarsi, ma ora, mi dico, deve
arrangiarsi da sola. Mi si chiudono gli occhi. Tenerli chiusi, assaporare quel torpore beato, mi procura un piacere intenso. Mi stendo
sul tappeto e un secondo dopo dormo. In piena notte mi sveglio rigido e infreddolito. Il camino è spento, la ragazza se n'è andata. La osservo mentre mangia. Mangia come una cieca, guardando lontano,
regolandosi col tatto. E' di buon appetito, l'appetito di una giovane e robusta contadina.
- Non è vero che ci vedi, - dico.
- Sì, ci vedo. Quando guardo dritto davanti a me non c'è niente, c'è... - (Strofina l'aria davanti a sé come se stesso pulendo un vetro).
- Una macchia, - dico io.
- C'è una macchia, ma ai lati vedo. L'occhio sinistro va meglio del destro. Come potrei andare in giro se non ci vedessi?
- Te l'hanno fatto loro?
- Sì.
- Che cosa ti hanno fatto?
Alza le spalle e non risponde. Il suo piatto è vuoto. Le metto ancora un po' della minestra di fagioli che le piace tanto. Mangia troppo in fretta, poi rutta nelle mani a coppa e sorride.
- I fagioli fanno scoreggiare, - dice.
La stanza è calda, in un angolo c'è il suo montone, con gli stivali sotto; addosso non ha che la camicia bianca e i
mutandoni. Quando non mi guarda sono solo una forma grigia che si muove in modo imprevedibile alla periferia del suo campo visivo. Quando mi guarda sono una macchia, una voce, un odore, un centro di energia che un giorno si addormenta mentre le lava i piedi e il giorno dopo le dà una minestra di fagioli e il giorno dopo ancora - non lo sa.
La faccio sedere, riempio il catino, le arrotolo i mutandoni sopra le ginocchia. Ora che ha tutti e due i piedi nell'acqua vedo che il sinistro è più torto verso l'interno del destro, che quando si tira su è costretta a poggiare sul bordo esterno dei piedi. Le caviglie sono grosse, gonfie, informi, la pelle cicatrizzata è viola.
Comincio a lavarla. Lei tira su i piedi per me, uno dopo l'altro. Impasto e massaggio gli alluci molli tra la morbida schiuma lattiginosa. Ben presto mi si chiudono gli occhi, la testa mi ciondola. A suo modo è inebriante.
Dopo comincio a lavarle le gambe. Per fare questo deve stare in piedi sul catino e appoggiarsi alle mie spalle. Le mie mani le scorrono Su e
giù per le gambe, dalla caviglia al ginocchio, avanti e indietro, stringono, sfregano, impastano. Ha le gambe corte e tarchiate, i polpacci forti. Qualche volta le mie dita finiscono dietro le sue ginocchia, inseguendo i tendini, premendo le cavità. Leggere come piume risalgono dietro le cosce. L'aiuto a salire sul letto e l'asciugo con un asciugamano caldo. Comincio a tagliarle e pulirle le unghie dei piedi, ma già mi sento
arrivare addosso le ondate di sonnolenza. Mi accorgo che mi ciondola la testa, che il corpo si piega in avanti intorpidito. Metto da parte con cura le forbici. Poi, tutto vestito, mi sdraio sul letto accanto a lei,
con la testa dalla parte dei suoi piedi. Le stringo le gambe fra le braccia, mi ci accuccio sopra con la testa e in un secondo mi addormento.
Mi sveglio che è buio. La lampada è spenta, c'è un odore di stoppino bruciato. Mi alzo e apro le tende. La ragazza è raggomitolata, con le ginocchia piegate sul petto. Quando la tocco geme e si rannicchia di più.
- Prendi freddo, - le dico, ma non sente niente.
Le metto addosso una coperta, poi un'altra. Prima di tutto c'è il rituale del lavaggio, per il quale adesso è nuda. Le lavo i piedi, come sempre, le gambe, il sedere. La mia mano insaponata risale tra le sue cosce ma, scopro, senza curiosità. Tira su le braccia quando le lavo le ascelle. Le lavo la pancia, il petto. Scanso i capelli per lavarle il collo, la gola. E paziente. La sciacquo
e l'asciugo. Si sdraia sul letto e io le strofino il corpo con olio di mandorle. Chiudo gli occhi e mi perdo nel ritmo di questo strofinare mentre nel
camino, pieno di ciocchi, il fuoco scoppietta dietro la grata. Non sento il desiderio di penetrare in questo corpo piccolo e tarchiato che adesso risplende illuminato dalle fiamme. E' da una settimana che non ci diciamo una parola. La nutro, le do un tetto, uso il suo corpo -
se è ciò che faccio - in questo modo strano. Ci sono stati momenti in cui si irrigidiva di fronte a certe intimità; ma adesso il suo corpo si
abbandona quando le strofino la faccia sulla pancia o le stringo i piedi tra le cosce. Si abbandona a tutto. Qualche volta scivola nel sonno
prima che io abbia finito. Dorme profondamente, come una bambina. Quanto a me, sotto il suo sguardo vuoto, nel chiuso calore della stanza,
mi spoglio senza imbarazzo, scopro le gambe magre, i genitali stanchi, la pancia, il torace flaccido da vecchio, la pelle da tacchino del collo. Mi sorprendo ad aggirarmi nudo senza pensarci, a volte rimango a godermi il fuoco nel camino dopo che lei si è addormentata, oppure mi
siedo a leggere in poltrona.
Ma il più delle volte, proprio mentre l'accarezzo, sono sopraffatto dal sonno, come tramortito, sprofondo nell'oblio scompostamente, steso sul suo corpo, e mi sveglio un'ora o due dopo, intontito, confuso, assetato.
Questi accessi di sonno senza sogni sono come la morte per me, o un incantesimo, un vuoto, fuori del tempo. Una sera, mentre le strofino la
testa con l'olio, le massaggio le tempie e la fronte, noto nell'angolo di un occhio una ruga grigiastra, come se sotto la palpebra fosse annidato un millepiedi, a pascolare.
- Che cos'è questo? - le chiedo sfiorando il millepiedi con l'unghia.
- E' dove mi hanno toccato, - dice, e scansa la mia mano.
- Ti fa male?
Lei scuote la testa.
- Fammi vedere.
Mi è sempre più chiaro che fino a che non avrò decifrato e capito i segni sul corpo di questa ragazza non potrò lasciarla. Non posso lasciarla. Le divarico le palpebre tra pollice e indice. Il millepiedi
finisce, decapitato, nell'angolo interno rosato della palpebra. Non ci sono altri segni, l'occhio è sano. Lo guardo bene. Devo credere che quando a sua volta mi guarda non vede niente, forse il mio piede, o qualche parte della stanza, un cerchio di luce indistinta, ma al centro, dove sto io, solo una macchia, un vuoto? Le passo lentamente la mano davanti al viso, fisso le sue pupille. Mi sembra che non si muovano. Non sbatte le palpebre, ma sorride: - Perché
lo fai? Pensi che non ci vedo? - Ha gli occhi marroni, così marroni da essere quasi neri.
Le sfioro la fronte con le labbra. - Che cosa ti hanno fatto? - mormoro.
Ho la lingua impastata, vacillo sulle gambe per la stanchezza. - Perché non me lo vuoi dire?
Scuote il capo. Sto per precipitare nell'oblio quando mi ricordo che le mie dita, scorrendo sul suo sedere, hanno sentito un immaginario intrecciarsi di solchi sotto la pelle.
- Niente è peggio di quello che
possiamo immaginare, - mormoro.
Non dà segno di avermi ascoltato. Scivolo sulla poltrona, tirandola giù con me, sbadigliando. «Dimmelo, -
le vorrei dire, - non me lo nascondere, il dolore è dolore, nient'altro», ma le parole mi sfuggono. Me la stringo contro, con le labbra sull'orecchio, cerco faticosamente di parlare; poi mi piomba addosso la notte.
L'ho liberata dalla vergogna di mendicare e l'ho sistemata nella cucina della caserma, come sguattera. «Dalla cucina al letto del magistrato sono solo sedici comodi gradini», così i soldati parlano delle
sguattere. Oppure, un'altra delle loro battute: «Qual è l'ultima cosa che fa il magistrato prima di uscire, la mattina? Chiude l'ultima
ragazza nel forno.» Più è piccola una città e più risuona di pettegolezzi. Non c'è niente di privato qui. Il pettegolezzo è l'aria che respiriamo.
Per una parte della giornata lava i piatti, pela le patate, aiuta a fare il pane e a preparare il solito porridge, la minestra e lo stufato che
mangiano i soldati. Oltre a lei c'è la vecchia che dirige la cucina almeno da quando io sono magistrato e due ragazze, la più giovane delle
quali l'anno scorso ha salito i sedici scalini una o due volte. In principio temo che le due si alleino contro di lei e invece no, fanno subito amicizia. Passando davanti alla porta della cucina, quando esco,
sento le loro voci, soffocate dal vapore caldo. Chiacchierano, ridono. Scopro in me, con un certo divertimento, una piccola morsa di gelosia.
- Ti pesa il lavoro? - le chiedo.
- Mi piacciono le altre ragazze, sono carine.
- Se non altro è meglio che chiedere l'elemosina, no?
- Sì.
Quando non dormono altrove, dormono tutte e tre in una piccola camera, tre porte dopo quella della cucina. La notte o la mattina presto, se la mando via, nel buio trova la strada per rientrare in quella stanza.
Certamente le sue amiche hanno chiacchierato di questi suoi convegni amorosi e i dettagli sono di pubblico dominio al mercato. Più uno è
vecchio e più la gente trova grotteschi i suoi accoppiamenti, come gli
spasmi di un animale che sta morendo. Non posso recitare la parte dell'uomo di ferro o di un santo vedovo. Risatine, battutacce, occhiate complici, fa tutto parte del prezzo che sono rassegnato a pagare.
- Ti piace vivere in città? - le chiedo cautamente.
- Sì, direi che mi piace. Ci sono più cose da fare.
- C'è qualcosa che ti manca?
- Mia sorella.
- Se vuoi veramente tornare a casa, - dico, - ti ci faccio portare.
- Portare dove? - dice.
E' stesa sul letto con le mani placidamente appoggiate sul petto. Sdraiato vicino a lei parlo a bassa voce. E' sempre a questo punto che qualcosa si rompe. E' a questo punto che la mia mano che le accarezza la pancia mi sembra una strana aragosta. L'impulso erotico, se di impulso erotico si trattava, si indebolisce; con una certa sorpresa mi vedo aggrappato a questa stolida ragazza, incapace di ricordare che cos'era che potevo desiderare in lei, furibondo con me stesso perché la desidero, ma anche perché non la desidero. Quanto a lei pare non far caso ai miei sbalzi d'umore. Le sue giornate seguono una routine di cui sembra contenta. Al mattino, quando esco, viene da me per spolverare e lavare il pavimento. Poi va ad aiutare in cucina per il pranzo. Il pomeriggio è libera. Dopo cena, una volta che le pentole e il pavimento sono stati lavati e il fuoco è stato spento,
lascia le sue compagne e sale le scale per venire da me. Si spoglia e si sdraia sul letto, in attesa delle mie inspiegabili attenzioni. Mi siedo vicino a lei e l'accarezzo, aspettando un impeto che non viene mai.
Oppure spengo la lampada e mi metto a letto con lei. Al buio ben presto mi dimentica e si addormenta. Così giaccio vicino a questo corpo giovane
e sano che nel sonno si risana sempre più, che tacitamente guarisce anche nei punti più irrimediabilmente danneggiati, gli occhi, i piedi,
fino a recuperare del tutto.
Torno indietro nel tempo, cercando di rintracciare un'immagine di com'era lei prima. Debbo pensare di averla vista il giorno in cui è
stata trascinata in città dai soldati con una corda al collo che la legava agli altri prigionieri barbari. So che il mio sguardo dev'essere passato su di lei, quando, insieme agli altri, si è seduta nel cortile della caserma in attesa di quello che sarebbe successo. Il mio sguardo
dev'essere passato su di lei, ma non ricordo quel passaggio. Quel giorno non era ancora segnata, ma devo credere che non era segnata, così come devo credere che un giorno dev'essere stata bambina, una bambinetta con
le treccine che rincorreva il suo agnellino in un universo in cui io, in qualche luogo lontano da quello, mi muovevo nel fiore degli anni. Per quanto mi sforzi la prima immagine continua ad essere quella della mendicante in ginocchio.
Non l'ho penetrata. Fin dall'inizio il mio desiderio non è andato in quella direzione, non è stato così diretto. L'idea di mettere il mio membro rinsecchito di vecchio in quella guaina calda, pulsante di sangue, mi fa pensare all'acido nel latte, alla cenere nel miele, al gesso nel pane. Quando guardo il suo corpo nudo e poi il mio non riesco
a credere di aver immaginato, un tempo, la forma umana come un fiore che ?s'irradiasse da un seme nei lombi. Questi nostri corpi, il suo e il mio, sono diffusi, gassosi, senza centro, per un momento si avvitano in un
vortice, poi si raggelano, pulsano altrove; ma spesso sono anche piatti, vuoti. Non so che fare con lei, non più di quanto una nuvola in cielo
sappia che fare con un'altra nuvola. La guardo mentre si spoglia, sperando di catturare nei suoi movimenti la
traccia di un'antica naturalezza. Ma perfino il gesto con cui si sfila la camicia, passandola sopra la testa e poi buttandola da una parte, è impacciato, difensivo, incerto, come se avesse paura di urtare contro ostacoli invisibili. Il volto ha l'espressione di chi si sente guardato.
Da un cacciatore ho comprato un cucciolo di volpe argentata. Ha pochi mesi, è appena svezzato, con i denti come una minuscola sega. Il primo giorno lei l'ha portato con sé in cucina, ma si è spaventato a morte per il fuoco e i rumori e così adesso me lo tengo in casa, dove sta sempre rintanato sotto i mobili. La notte qualche volta sento il ticchettio delle unghie sul pavimento di legno. Lappa il latte da un piattino e mangia briciole di carne cotta. Non si riesce ad abituarlo alla lettiera e le stanze cominciano a puzzare dei suoi escrementi, ma è troppo presto per lasciarlo libero nel cortile. Ogni tanto faccio venire su il nipote del cuoco perché s'infili dietro l'armadio e sotto le sedie a pulire.
- E' una creaturina deliziosa, - dico.
Lei si stringe nelle spalle
- Gli animali devono stare fuori.
- Vuoi che lo porti al lago e lo lasci libero?
- Non puoi, è troppo piccolo. Morirebbe di fame o in bocca ai cani.
Così il cucciolo rimane. A volte vedo il suo muso appuntito che sbuca da un angolo buio. Per il resto è solo un rumore nella notte e un penetrante tanfo di urina; aspetto che sia grande abbastanza per poterlo abbandonare.
- La gente dirà che tengo in casa due animali selvatici, una volpe e una ragazza.
Non capisce lo scherzo o comunque non le piace. Stringe le labbra e fissa ostinatamente la parete, so che sta cercando di sfidarmi. Provo una gran tenerezza per lei, ma che posso fare? Con la toga addosso o nudo davanti a lei, col cuore in mano, sono sempre lo stesso uomo.
- Mi dispiace, - dico, e le parole mi escono inerti dalle labbra. Allungo timidamente la mano, le accarezzo i capelli. - Ovviamente non è la
stessa cosa. Uno dopo l'altro chiamo i soldati che erano di guardia durante
l'interrogatorio dei prigionieri. Tutti mi riferiscono la stessa cosa: non hanno rivolto la parola ai prigionieri, era proibito entrare nella stanza dove si svolgevano gli interrogatori, non sono in grado di dirmi
cosa succedeva lì dentro. Ma dalla donna delle pulizie ottengo una descrizione della stanza. - Un tavolino e degli sgabelli, tre sgabelli,
e una stuoia in un angolo, non c'era altro... No, no, c'era il fuoco, un braciere. Svuotavo la cenere.
Ora che la vita è tornata alla normalità la stanza è di nuovo in uso. Su mia richiesta i quattro soldati che dormono lì portano i loro bauli in corridoio, ammonticchiano le stuoie, ci mettono sopra piatti e boccali, tolgono le corde del bucato. Entro nella stanza vuota e chiudo la porta.
L'aria è ferma e fredda. Il lago già comincia a ghiacciare. Sono cadute le prime nevi. In lontananza sento i campanelli di una slitta. Chiudo gli occhi e mi sforzo di immaginare come dev'essere stata questa stanza
due mesi fa, durante la visita del colonnello; ma è difficile perdersi in questa fantasia con i quattro soldati che ciondolano fuori, si sfregano le mani, sbattono i piedi, mormorano, impazienti che me ne vada, col fiato caldo che forma piccole nuvolette nell'aria. Mi inginocchio per esaminare il pavimento. E' pulito, lo spazzano ogni giorno, come in tutte le stanze. Sopra il camino, sulla parete e sul soffitto, c'è della fuliggine; c'è anche un'impronta grande come la mia mano dove la fuliggine è stata strofinata sul muro. Per il resto le pareti sono vuote. Che segni sto cercando? Apro la porta e faccio cenno agli uomini che riportino dentro le loro cose.
Torno a fare domande per la seconda volta alle guardie che erano in servizio nel cortile:
- Ditemi esattamente quello che succedeva quando venivano interrogati i prigionieri. Ditemi quello che avete visto.
Il più alto, un ragazzo con la faccia lunga e l'aria sveglia che mi è sempre piaciuto, risponde.
- L'ufficiale...
- L'ufficiale di polizia?
-Si... l'ufficiale di polizia veniva nell'atrio dove stavano i prigionieri e ne indicava alcuni. Noi prendevamo quelli che aveva indicato e li portavamo all'interrogatorio, poi li riportavamo qui.
- Uno per volta?
- Non sempre, ogni tanto due.
- Sapete che uno dei prigionieri dopo è morto. Ve lo ricordate quel prigioniero? Sapete cosa gli hanno fatto?
- Abbiamo sentito dire che era impazzito e li aveva aggrediti.
-Si?
- Questo è quello che abbiamo sentito dire. Lo abbiamo riportato nello stanzone, dove tutti gli altri dormivano. Aveva un respiro strano, molto profondo e rapido. E' stata l'ultima volta che l'ho visto. Il giorno dopo era morto. - Continua, ti ascolto. Devi dirmi tutto quello che riesci a ricordare.
Il ragazzo ha l'aria tesa. Sono sicuro che gli è stato consigliato di
non parlare. - Quell'uomo è stato interrogato più a lungo degli altri.
L'ho visto seduto da solo in un angolo dopo il primo interrogatorio, si
teneva la testa -. Guarda incerto il compagno. - Non voleva mangiare
niente. Non aveva fame. La figlia ha cercato di fargli mangiare qualcosa
ma lui si è rifiutato.
- Che ne è stato della figlia?
- Anche lei è stata interrogata, ma non così a lungo.
- Continua.
Ma non ha più niente da dirmi.
- Stammi assentire, - dico: - tutti e due sappiamo chi è la figlia. E'
la ragazza che sta da me. Non è un segreto. Adesso continua: dimmi che
cosa è successo.
- Non lo so, signore! Non stavo sempre lì.- Si rivolge al compagno, che
continua a tacere. - Qualche volta si sentivano delle urla, credo che la
picchiassero, ma io non c'ero. Quando smontavo andavo via.
- Sai che adesso non riesce più a camminare bene? Le hanno rotto i
piedi. Le hanno fatto tutto questo davanti a quell'uomo, a suo padre?
- Sì, credo di sì.
- E sai che non ci vede più bene. Quando gliel'hanno fatto?
- Signore, c'erano tanti prigionieri di cui occuparsi, alcuni stavano
male! Sapevo che le avevano rotto i piedi, ma che era cieca l'ho saputo
solo molto tempo dopo. Non potevo farci niente, non volevo essere
coinvolto in una cosa che non capivo!
Il suo amico non ha niente da aggiungere. Li congedo. - Non abbiate
paura per avermi parlato, - dico.
Quella notte il sogno ritorna. Cammino faticosamente in una distesa di
neve infinita verso un gruppetto di piccole figure che giocano intorno a
un castello di neve. Quando mi avvicino i bambini sgusciano via o si
dissolvono nell'aria. Solo una figura rimane, una bambina col cappuccio
che mi volta le spalle. Le giro intorno, mentre continua ad aggiungere
neve facendola aderire a piccoli colpi alle pareti del castello, finché
riesco a sbirciare sotto il cappuccio. La faccia che vedo è vuota, senza
tratti; è la faccia di un embrione o di una minuscola balena; non è
proprio una faccia, ma una qualche altra parte del corpo umano, gonfia
sotto la pelle; è bianca, è la neve stessa. Allungo una moneta tra le dita intirizzite.
L'inverno è arrivato. Il vento soffia da nord e continuerà a soffiare
ininterrottamente per i prossimi quattro mesi. Alla finestra, con la
fronte appoggiata sul vetro freddo, lo sento fischiare nelle grondaie,
sollevare e scuotere continuamente una tegola sconnessa del tetto. Nella
piazza si rincorrono nugoli di polvere leggera, il sole sorge
galleggiando in un cielo arancione e tramonta rosso rame. Di tanto in
tanto tempeste di neve spruzzano la terra di bianco. E' l'assedio
dell'inverno.
I campi sono deserti, nessuno varca le mura della città salvo quei due o
tre che vivono di caccia. La parata bisettimanale della guarnigione è
stata sospesa e i soldati hanno il permesso di lasciare la caserma se
vogliono e di andare a vivere in città, poiché non hanno molto da fare
tranne bere e dormire. Quando cammino sui bastioni al mattino presto la
metà delle torri di guardia sono vuote e le sentinelle, inebetite dal
freddo e coperte di pelli, faticano ad alzare la mano e fare il saluto.
Potrebbero starsene tranquillamente nei loro letti. Per tutto l'inverno
l'Impero è al sicuro: lontani dai nostri occhi anche i barbari si
stringono attorno alle stufe e battono i denti per il freddo.
Quest'anno non abbiamo avuto barbari in città. In passato gruppetti di
nomadi venivano qui durante l'inverno, piantavano le loro tende intorno
alle mura e poi si dedicavano al baratto. Scambiavano lana, pelli,
feltro e articoli di cuoio con biancheria, té, zucchero, legumi, farina.
I loro lavori in cuoio sono molto apprezzati qui da noi, soprattutto i
resistenti stivali cuciti a mano. In passato ho incoraggiato il
commercio ma ho proibito che venissero pagati in denaro. Ho anche
cercato di impedire che frequentassero le taverne. L'ultima cosa che
voglio è vedere una comunità parassita crescere ai margini della città e
popolarla di vagabondi e mendicanti schiavi dell'alcol. Mi ha sempre
addolorato vedere quella gente cadere vittima dell'avidità dei
commercianti, i loro prodotti ceduti in cambio di carabattole, loro
stessi buttati sui marciapiedi, ubriachi. Non sopportavo di vedere così
confermata la litania di pregiudizi dei coloni, secondo cui i barbari
sono pigri, immorali, sporchi e stupidi. Se la civiltà ha portato con sé
la corruzione delle virtù barbare, e la creazione di una massa di
persone asservite al vizio, allora sono contro la civiltà, e sulla base
di questa convinzione ho regolato la condotta della mia amministrazione
(proprio io dico questo, io che adesso tengo in casa una barbara per il
mio piacere!)
Ma quest'anno una cortina è scesa lungo tutta la frontiera. Dai bastioni
ci sforziamo di guardare lontano, verso le pianure deserte. Per quanto
ne sappiamo, dall'altra parte occhi più acuti dei nostri ci guardano a
loro volta. Il commercio è finito. Da quando dalla capitale è arrivata
la notizia che bisognava fare tutto quanto fosse ritenuto necessario per
la salvaguardia dell'Impero, siamo tornati a un'epoca di incursioni e di
vigilanza armata. Non possiamo fare altro che lucidare le spade, stare
all'erta e aspettare. Passo il tempo con i miei vecchi svaghi. Leggo i classici, continuo a
catalogare le mie varie collezioni, raccolgo tutte le mappe disponibili
della regione desertica meridionale, e quando il vento non è proprio
gelido porto con me un gruppo di scavatori per liberare i siti già
scavati dalla sabbia che si rideposita continuamente; poi, una volta o
due a settimana, parto all'alba per andare a caccia di antilopi lungo il
lago.
Solo una generazione fa c'era una tale quantità di antilopi e di lepri
che i campi, nottetempo, dovevano essere presidiati da custodi con tanto
di cani per proteggere il grano appena nato. Ma per effetto dello
stanziamento, e soprattutto per via dei branchi di cani selvatici che le
cacciano, le antilopi si sono ritirate verso est e nord, lungo le anse
più remote del fiume e la sponda più estrema del lago. Oggi ogni
cacciatore sa che se vuole prendere qualcosa deve cavalcare almeno per
un'ora prima di potersi appostare.
Qualche volta, al mattino, se la giornata è bella, riesco ancora a
sentire la forza e l'agilità della mia piena virilità. Come un'ombra
allora scivolo da una macchia all'altra. Con gli stivali che ho
ingrassato per trent'anni, passo a guado ruscelli di acqua gelata. Sopra
la giacca ho la mia gigantesca pelle d'orso. Sulla barba mi si forma la
brina ma le mani sono calde nei guanti. La vista è acuta, l'udito fino,
fiuto l'aria come un bracco, in uno stato di pura esaltazione.
Oggi lascio il mio cavallo legato dove finisce la striscia di erba
palustre, sulla brulla sponda sud-occidentale del lago, e procedo a
piedi tra le canne. Il vento, gelido e secco, mi soffia dritto negli
occhi, il sole è sospeso come un'arancia su un orizzonte striato di
viola e di nero. Quasi immediatamente, per un assurdo colpo di fortuna,
m'imbatto in un'antilope d'acqua, un maschio con le corna fortemente
attorcigliate, col pelo ispido e lungo del manto invernale: sta lì, al
mio fianco, e vacilla quando si allunga verso l'alto per strappare le
fronde delle canne. Dalla mia posizione, a soli trenta passi, vedo il
mansueto movimento circolare della mascella, sento il tonfo degli
zoccoli, riesco perfino a scorgere le goccioline di brina che si
depositano sulla sua barbetta.
Ancora non ho studiato la situazione e tuttavia, quando l'antilope si
solleva, con le zampe anteriori piegate sul petto, alzo il fucile e
glielo punto alle spalle. Il mio movimento è stato lento e continuo, ma
forse il sole dev'essersi riflesso sulla canna del fucile, perché nel
riabbassarsi volta la testa e mi vede. Gli zoccoli toccano la terra
ghiacciata producendo un suono secco, leggero, la mascella s'arresta a
metà, e ci guardiamo.
Il battito cardiaco è regolare: evidentemente non m'importa se l'antilope muore.
Mastica ancora una volta, un solo colpo di mandibola, poi smette. Nel silenzio di quel chiaro mattino scopro un sentimento oscuro annidato ai confini della mia coscienza. Col maschio di antilope immobile, come sospeso davanti a me, sembra che ci sia tempo per tutto, tempo
addirittura per rivolgere lo sguardo dentro di me e capire cos'è che ha tolto alla caccia tutto il suo fascino: la sensazione che ormai non si
tratti più di una mattina di caccia, ma di una circostanza in cui o il fiero animale cadrà colpito a morte insanguinando la neve o il vecchio cacciatore sbaglierà il suo colpo; la sensazione che per tutta la durata di questo istante raggelato le stelle siano disposte in una configurazione in cui gli eventi non sono più quello che sono, ma significano altre cose. Resto lì, dietro il mio meschino riparo, nel
tentativo di scuotermi di dosso questa sensazione irritante e
misteriosa, finché la bestia non si volta e con un guizzo della coda e un breve tonfo degli zoccoli scompare tra le alte canne.
Mi aggiro ancora senza meta per un'ora prima di rientrare.
- Non ho mai avuto la sensazione di non vivere la mia vita alle mie condizioni, prima d'ora, - dico alla ragazza cercando di farle capire
quello che mi è successo. Discorsi come questi la agitano, la pressione che sembro farle per avere una risposta la infastidisce.
- Non capisco, - dice. Scuote la testa: - Non volevi abbatterla quell'antilope?
Per un po' rimaniamo tutti e due in silenzio.
- Se vuoi fare una cosa, la fai, - dice alla fine con fermezza. Si
sforza di essere chiara, ma forse quello che vuole dire è: «Se l'avessi voluto fare l'avresti fatto.» Nella lingua approssimativa con cui
comunichiamo non esistono sfumature. Noto che a lei piacciono i fatti, le asserzioni pragmatiche; non ama le stranezze, le domande, le
elucubrazioni. Siamo una coppia male assortita. Forse è così che vengono educati i bambini dei barbari: a vivere meccanicamente guidati dalla
saggezza che si trasmette di padre in figlio.
- E tu? - dico. - Tu fai sempre tutto quello che vuoi? - Sento che rischio di lasciarmi andare, di essere trascinato pericolosamente lontano dalle parole.
- Adesso sei qui a letto con me perché è quello che vuoi?
E' lì, sdraiata nuda sul letto, con la pelle spalmata d'olio che alla luce della fiamma manda bagliori d'oro verde. Ci sono momenti - come questo - in cui il desiderio che sento per lei, in genere così oscuro,
si accende e prende una forma che posso riconoscere. Muovo la mano, l'accarezzo, seguo il profilo del suo seno.
Non risponde alle mie parole, ma io continuo, tenendola stretta, a parlarle all'orecchio con voce roca, soffocata: - Vieni qui, dimmi perché sei qui.
- Perché non ho un altro posto dove andare.
- E io, perché ti voglio qui, io?
Si divincola dal mio abbraccio e infila il pugno chiuso tra il suo petto e il mio torace.
- Tu vuoi solo parlare, tutto il tempo, - protesta.
La semplicità del momento è svanita; ci separiamo e restiamo lì, fianco a fianco, in silenzio. Qual è l'uccello che ha il coraggio di cantare in
un rovo spinoso?
- Non dovresti andare a caccia se non ti piace.
Scuoto il capo. Non era questo il senso della storia, ma a che
servirebbe discutere? Sono come un maestro di scuola inetto, lì a manovrare il mio forcipe maieutico quando quello che dovrei fare invece
è riempirla con la verità.
Parla lei.
- Mi fai sempre la stessa domanda e allora adesso ti
rispondo. Era una forchetta, una specie di forchetta con due soli denti. E la punta dei denti era come una pallina arrotondata, smussata. La
mettevano sulla brace finché non diventava incandescente e poi ti toccavano con quell'arnese per bruciarti. Ho visto i segni lasciati nei punti dove hanno bruciato gli altri.
E' questa la domanda che le ho fatto? Vorrei protestare e invece sto zitto, scoraggiato.
- Ma non mi hanno bruciato. Avevano detto che mi avrebbero bruciato gli occhi ma non l'hanno fatto. L'uomo me l'ha solo messa molto vicina agli occhi e mi ha costretto a guardare. Mi tenevano le palpebre aperte a
forza. Ma io non avevo niente da dire. E' tutto qui.
- E' stato allora che mi si sono rovinati gli occhi. Dopo non riuscivo più a vedere bene. Al centro di ogni cosa c'era una macchia, vedevo solo i contorni. E' difficile spiegarlo.
- Ma adesso va meglio. L'occhio sinistro sta migliorando. Tutto qui.
Le prendo il viso tra le mani e guardo fissamente il centro morto dei suoi occhi, mi restituiscono lo sguardo solenne di un me stesso
sdoppiato in due riflessi gemelli.
- E questo? - chiedo sfiorando la cicatrice a forma di verme che ha nell'angolo dell'occhio.
- Quello non è niente. E' dove mi ha toccato il ferro. Ha fatto una piccola bruciatura. Non è una piaga -. Scansa le mie mani.
- Cosa provi per gli uomini che ti hanno fatto questo?
Ci pensa a lungo. Poi dice:
- Sono stanca di parlare.
Altre volte sento fitte di insofferenza per quel rituale da cui dipendo, l'olio da spalmare e i massaggi, la sonnolenza e la discesa nell'oblio. Non capisco più che razza di piacere io possa aver tratto da quel suo corpo ostinato e flemmatico, e arrivo perfino a scoprire dentro di me moti di orgoglio ferito. Allora mi chiudo in me stesso, divento irritabile; la ragazza mi gira le spalle e si addormenta.
In questo stato d'animo contrariato una sera vado al secondo piano della locanda. Mentre salgo su per le misere scale un uomo che non riconosco le scende di corsa, rialzandosi il bavero. Busso alla seconda porta sul
corridoio ed entro. La stanza è proprio come la ricordo. Il letto rifatto e in ordine, lo scaffale sopra il letto carico di ninnoli e giocattoli, due candele accese e una forte vampa di calore che emana dal grande tubo della stufa che corre lungo la parete; nell'aria c'è un sentore di fiori d'arancio. La ragazza è seduta davanti allo specchio. Sussulta quando entro, ma si alza con un sorriso e mi viene incontro, poi chiude a chiave la porta. Niente sembra più naturale che metterla seduta sul letto e cominciare a spogliarla. Scrollando appena le spalle
mi aiuta a denudare il suo bel corpicino.
- Quanto mi sei mancato! -
sospira.
- Che piacere essere di nuovo qui! - le sussurro. E che piacere sentire menzogne così lusinghiere!
L'abbraccio, affondo in lei, mi perdo in lei che palpita, morbida come piume d'uccello. Il corpo dell'altra
chiuso, pesante, addormentato nel mio letto in una stanza lontana mi sembra incomprensibile. Preso da questi piaceri soavi mi chiedo che cosa mai mi abbia attratto verso quel corpo estraneo. Tra le mie braccia la ragazza trema, ansima, grida quando arriva all'orgasmo. Sorrido felice e, mentre scivolo in un languore sonnolento, mi rendo conto che non sono
neppure in grado di ricordare la faccia dell'altra. «Lei è incompleta!» mi dico. Anche se il pensiero subito svanisce, mi ci aggrappo. Ho una visione di lei con gli occhi chiusi, la faccia chiusa, ricoperta dalla pelle. Vuota, come un pugno sotto una parrucca nera, la faccia sembra spuntare dalla gola e dal corpo informe che c'è sotto, senza aperture, senza entrate. Sono scosso da brividi di repulsione tra le braccia della mia piccola donna-piuma, la stringo forte a me.
Quando a metà notte scivolo cautamente fuori dalle sue braccia lei si lamenta ma non si sveglia. Mi vesto al buio, chiudo la porta alle mie
spalle e trovo a tentoni la via delle scale, quindi corro a casa con la neve che mi scricchiola sotto i piedi e il vento gelido che mi trapassa la schiena. Accendo la candela e mi chino sulla forma della quale sembra che in qualche misura sia divenuto schiavo. Seguo con dita leggere i contorni del suo viso, la mascella squadrata, gli zigomi alti, la bocca larga. Le sfioro appena le palpebre. Sono sicuro che è sveglia anche se non si muove.
Chiudo gli occhi, respiro profondamente per calmare l'agitazione, e mi concentro tutto nel tentativo di vederla con la cieca punta delle dita.
E' carina? La ragazza che ho appena lasciato, la ragazza di cui forse (me ne rendo conto solo ora) lei sente l'odore addosso a me, è molto carina, non c'è dubbio: l'acuto piacere che mi dà è accentuato
dall'eleganza del suo piccolo corpo, dai suoi modi, dalla sua maniera di muoversi. Ma di questa qui non c'è nulla che possa dire con certezza.
Non sono in grado di stabilire un rapporto tra il suo essere donna e il mio desiderio. Non posso neppure dire con certezza se la desidero oppure no. Tutto il mio comportamento erotico è indiretto: le giro intorno,
toccandole il viso, carezzandole il corpo senza penetrarla e senza sentire il bisogno di farlo. Sono appena uscito dal letto di una donna
sulla quale, nell'anno in cui ci siamo frequentati, non ho mai, nemmeno per un momento, avuto bisogno di interrogarmi a proposito del desiderio che provavo per lei. Desiderarla voleva dire abbracciarla ed entrarle
dentro, penetrarne la superficie e smuoverne la quiete interna con una
tempesta di piacere e poi ritirarmi, abbandonarmi, e aspettare che il desiderio si affacciasse di nuovo. Ma con questa donna qui è come se non ci fosse un interno, solo una superficie sulla quale faccio avanti e indietro inutilmente, cercando un ingresso. E' così che si saranno sentiti i suoi torturatori quando andavano a caccia del suo segreto, qualunque esso fosse? Per la prima volta sento nei loro confronti una forma di arida pietà: com'è naturale sbagliare, credere che si possa bruciare o strappare o farsi strada nel corpo segreto dell'altro! La ragazza sta nel mio letto ma niente motiva il suo stare nel mio letto.
In un certo senso mi comporto come un amante: la spoglio, la lavo, la carezzo, le dormo accanto - ma potrei anche legarla a una sedia e frustarla, non sarebbe meno intimo.
Ma non mi sta succedendo quello che succede agli uomini di una certa età, uno spostamento progressivo dal libertinaggio ad azioni vendicative del loro desiderio impotente. Se si stesse compiendo una trasformazione del mio essere morale me ne renderei conto e non avrei nemmeno
intrapreso l'esperimento rassicurante di stasera. Sono l'uomo di sempre, ma il tempo si è spezzato, qualcosa mi è piombato in testa dal cielo, a
caso, dal nulla: questo corpo nel mio letto, un corpo di cui io sono responsabile, o così pare, altrimenti perché lo terrei qui? Per ora, o forse per sempre, sono semplicemente stregato. Sdraiarmi a letto vicino a lei e addormentarmi oppure avvolgerla in un lenzuolo e seppellirla sotto la neve, mi sembra identico. Eppure quando mi chino su di lei e le sfioro la fronte con la punta delle dita, sto attento a non far gocciolare la cera.
Non sono in grado di dire se abbia capito dove sono stato; ma la notte successiva, quando il ritmo del massaggio con l'olio mi culla e sono sul
punto di addormentarmi, sento la sua mano che ferma la mia, l'afferra e la guida giù tra le gambe. Per un po' lascio la mano lì contro il suo sesso, poi mi verso altro olio caldo sulle dita e comincio a carezzarla. Subito il suo corpo si tende, inarca la schiena ed è scossa da un tremito, poi scansa la mia mano. Continuo a strofinarle il corpo fino a
che anch'io sono rilassato e sopraffatto dal sonno.
Questo, che pure è stato il nostro atto di maggiore collaborazione fino ad ora, non mi eccita. Non mi avvicina di più alla ragazza, e del resto neppure a lei sembra aver fatto un grande effetto. La mattina dopo cerco il suo viso, è vuoto. Si veste e, inciampando, scende in cucina. Sono agitato. «Che cosa devo fare per smuoverti?» Sono queste le parole che mi frullano in testa in quel mormorio sotterraneo che ha preso il posto della conversazione. «Nessuno ti smuove?» E con un moto di orrore vedo la risposta che aspettavo da sempre: mi si offre nell'immagine di una faccia nascosta dietro due neri e vitrei occhi d'insetto che non rispondono al mio sguardo, ma solo rimandano il mio riflesso raddoppiato.
Scuoto la testa furibondo, incredulo. No, no, no! grido a me stesso. Sono io che mi inganno per vanità, io che immagino questi significati e
queste corrispondenze. Che razza di depravazione si sta impadronendo di me? Cerco segreti e risposte, non importa se assolutamente insensati,
come una vecchia che legge le foglie del té. Non c'è niente che colleghi me agli aguzzini, acquattati in attesa come scarafaggi in buie cantine.
Come posso pensare che un letto sia qualcosa di diverso da un letto, il corpo di una donna qualcosa di diverso da un luogo di delizie? Debbo
ribadire la mia distanza dal colonnello Joll! Non voglio scontare io i suoi crimini!
Comincio ad andare dalla ragazza della locanda regolarmente. Ci sono momenti, di giorno, nel mio ufficio, dietro l'aula del tribunale, in cui mi distraggo e vago con l'immaginazione, momenti in cui mi lascio
trascinare dalle fantasie erotiche. Accaldato e gonfio di eccitazione, indugio sul suo corpo come un ragazzino libidinoso, poi, riluttante, torno al lavoro e alle tediose carte, oppure vado alla finestra e guardo la strada. Ricordo i primi anni qui, quando la sera, al tramonto, mi aggiravo senza meta per i quartieri più malfamati, coprendomi la testa col mantello; a volte una moglie scontenta, appoggiata alla
porta-finestra, illuminata dal fuoco del camino acceso nella stanza, rispondeva al mio sguardo senza ritrarsi. Oppure rivolgevo la parola a due o tre ragazzine a passeggio, pagavo loro il gelato, e poi magari
riuscivo a trascinarne una nel granaio, su un letto di sacchi. Se c'era una cosa invidiabile in un incarico sulla frontiera, mi avevano detto gli amici, era proprio la libertà di costumi delle oasi, le lunghe sere estive con l'aria satura di profumi, le donne compiacenti con gli occhi a mandorla. Per anni ho sfoggiato l'aria ben pasciuta di un toro da monta. In seguito quella promiscuità si è trasformata, modulandosi in
relazioni più discrete con governanti e cameriere, a volte alloggiate nel mio appartamento ma per lo più giù in cucina, come sguattere, o con le ragazze della locanda. Poi ho scoperto di avere bisogno delle donne meno spesso; passavo più tempo a lavorare e a coltivare i miei hobby, l'archeologia, la cartografia.
Ma non era solo questo; a volte, nel bel mezzo dell'atto sessuale, mi capitava, e mi sconcertava, di perdere la strada, come un cantastorie
che perda il filo del suo racconto. Pensavo con ribrezzo alle immagini grottesche e ridicole di vecchi grassoni che muoiono, farfugliando scuse, tra le braccia delle loro amanti, perché il cuore troppo appesantito non ha retto; e tocca trascinarli fuori, lasciarli in un vicolo buio, per salvare la reputazione della casa. L'orgasmo cominciò allora a diventare remoto, inconsistente, una stranezza. Qualche volta mi fermavo, altre arrivavo fino in fondo meccanicamente. Per settimane e mesi mi rinchiudevo nella mia solitudine. Il piacere che mi davano il calore e la bellezza dei corpi femminili non mi aveva abbandonato, ma mi
si poneva un dilemma nuovo. Davvero volevo entrare in quelle meravigliose creature, rivendicarne il possesso? Il desiderio sembrava portare con sé un'ansia di distanza e separazione che era inutile
negare. Né mi riusciva sempre di capire come mai una parte del mio corpo, con i suoi irragionevoli desideri e le sue false promesse, dovesse essere privilegiata rispetto a ogni altra come canale del desiderio. Qualche volta il mio sesso mi sembrava un essere distinto da me, uno stupido parassita che mi viveva addosso, gonfiandosi e
ammosciandosi secondo i suoi appetiti, aggrappato alla mia carne con grinfie che non riuscivo a staccare. Perché ti devo portare a spasso da
una donna all'altra, domandavo, solo perché sei nato senza gambe? Che
differenza farebbe per te essere attaccato a un cane o a un gatto, invece che a me?
Eppure in altri momenti, e soprattutto l'anno scorso, con la ragazza che alla locanda chiamano «La Stella», ma che a me ha sempre fatto pensare a un uccello, ho sentito ancora una volta il vigore e la potenza dell'attrazione sessuale, ho nuotato nel suo corpo, di nuovo trascinato ai confini ultimi del piacere. Così mi sono detto: «E solo un problema di età, di cicli alterni di desiderio e di apatia in un corpo che lentamente si raffredda e muore. Da giovane bastava l'odore di una donna
a eccitarmi; ora evidentemente solo le più dolci, quelle più giovani e
fresche, hanno quel potere. Uno di questi giorni saranno i ragazzini a farmi quell'effetto.» Immaginavo con un certo disgusto gli ultimi anni che avrei dovuto trascorrere in quest'oasi dell'abbondanza.
Sono tre notti di fila che la vado a trovare nella sua stanzetta e le porto in regalo olio di cananga, dolci, un barattolo di uova di pesce
affumicato che le piace tanto mangiare quando è sola. Quando l'abbraccio chiude gli occhi ed è scossa da un tremito che sembra di piacere. L'amico che me l'aveva raccomandata, la prima volta, mi aveva parlato delle sue qualità:
- Recita, naturalmente, - aveva detto, - ma nel suo caso la differenza è che crede davvero nella parte che
recita -.
Quanto a me, credo che non m'importi. Affascinato dalla scena che fa, apro gli occhi nel pieno dei sussulti, dei tremiti, dei gemiti e risprofondo nel
fiume nero del mio piacere.
Passo tre giorni in preda a un languore sensuale, con le palpebre che mi pesano, leggermente eccitato, sognante. Torno a casa dopo mezzanotte e m'infilo a letto, senza fare caso alla forma ostinata che ho accanto. Se
al mattino mi sveglia il rumore che fa quando si prepara, fingo di dormire fino a che non se n'è andata.
Un giorno, passando per caso davanti alla porta della cucina, do un'occhiata dentro. Tra nuvole di vapore vedo una ragazza tarchiata seduta a un tavolo che prepara il cibo. «So chi è», penso con sorpresa,
eppure l'immagine che mi resta dentro mentre attraverso il cortile è quella della montagna di zucchine verdi sul tavolo, davanti a lei. Mi sforzo di spostare mentalmente l'attenzione da quel mucchio di zucchine
alle mani che le affettano e dalle mani alla faccia. Ma scopro in me una resistenza. Continuo a fissare sbalordito le zucchine e la luce che si
riflette sulla loro buccia bagnata. Il mio sguardo, come dotato di una volontà sua, non si muove. Così comincio a capire il senso di quello che
sto cercando di fare: voglio cancellare la ragazza. Mi rendo conto che
se prendessi in mano una matita e cercassi di disegnarne il volto non
saprei da che parte incominciare. E' davvero così priva di fisionomia?
Con uno sforzo mi concentro su di lei. Vedo una figura con un cappuccio
e un pesante cappotto sformato che si regge in piedi a malapena, curva
in avanti, con le gambe storte, appoggiata a dei bastoni. Che brutta, mi
dico. La mia bocca articola la parola brutta. Sono sorpreso io stesso,
ma non resisto: è brutta, brutta.
La quarta notte ritorno a casa di malumore, mi aggiro per le stanze
rumorosamente, senza far caso se la sveglio. La serata è andata male, la
corrente di rinnovato desiderio si è interrotta. Lancio gli stivali per
terra e mi arrampico sul letto con una gran voglia di litigare e di dare
la colpa a qualcuno, al tempo stesso vergognandomi del mio infantilismo.
Non riesco a capire che diavolo ci faccia questa donna nella mia vita.
Il pensiero delle strane estasi cui mi sono avvicinato grazie al suo
corpo incompleto mi riempie di una repulsione distaccata, come se avessi
passato le mie notti ad accoppiarmi con una bambola di paglia e cuoio.
Cosa avrò visto in lei? Cerco di ricordare com'era prima che i maestri
del dolore cominciassero a dispensarle le loro cure. E' impossibile che
il mio sguardo non l'abbia sfiorata seduta nel cortile con tutti gli
altri prigionieri barbari, il giorno in cui li hanno portati qui. Da
qualche parte, nel bozzolo del mio cervello, deve pur esserci quel
ricordo, lo so, ma non riesco a farlo emergere. Ricordo la donna col
neonato e perfino il neonato. Ricordo ogni particolare: il bordo
sfilacciato dello scialle di lana, la patina di sudore sotto le ciocche
dei capelli sottili del bambino. Ricordo le mani ossute dell'uomo che è
morto; credo che con uno sforzo potrei anche ricostruirne il viso. Ma
vicino a lui, dove dovrebbe stare la ragazza, c'è uno spazio, un vuoto.
La notte mi sveglio con la ragazza che mi scuote e l'eco di un flebile
gemito ancora nell'aria. - Gridavi nel sonno, - dice, - mi hai
svegliato.
- Che cosa gridavo?
Borbotta qualcosa e mi gira le spalle.
Poi mi sveglia ancora, dopo un po': - Gridavi.
Intontito e confuso, e anche arrabbiato, cerco di guardarmi dentro ma
vedo solo un vortice e al centro del vortice l'oblio.
- Un sogno? - mi chiede.
- Non ricordo nessun sogno.
E' possibile che sia tornato il sogno della bambina col cappuccio che
costruisce il castello di neve? Se fosse così dovrei avere ancora
addosso il sapore, l'odore o il bagliore residuo di quel sogno.
- C'è una cosa che ti devo chiedere, - le dico. - Ricordi quando vi
hanno portato qui nel cortile della caserma la prima volta? Le guardie
vi fecero mettere tutti seduti. Dov'eri seduta tu? Da che parte
guardavi?
Dalla finestra vedo strisce di nuvole correre rapide davanti alla luna.
Lei parla nel buio, accanto a me: - Ci hanno fatti sedere insieme,
all'ombra. Io ero vicino a mio padre.
Richiamo l'immagine del padre. In silenzio cerco di ricreare il caldo,
la polvere, il tanfo di tutti quei corpi stanchi. All'ombra del muro di
cinta della caserma scorro i prigionieri seduti, uno dopo l'altro, tutto
quello che riesco a ricordare. Metto insieme la donna col neonato, il
suo scialle di lana, il suo petto nudo. Il bambino piagnucola, lo sento
piangere, è troppo stanco per ciucciare. La madre, esausta, assetata, mi
guarda e si domanda se sono uno a cui chiedere aiuto. Dopo vengono due
forme confuse, confuse ma presenti: so che con uno sforzo, in parte
della memoria e in parte dell'immaginazione, posso riempirle con dei
tratti. Poi viene il padre della ragazza, con le sue mani nodose giunte
sulle gambe e il berretto calato sugli occhi, non alza la testa per
guardare. Ora passo allo spazio vicino a lui.
- Da che parte eri seduta rispetto a tuo padre?
- A destra.
Lo spazio alla destra dell'uomo resta vuoto. Con un doloroso sforzo di
concentrazione riesco a vedere perfino la ghiaia per terra e il muro
dietro di lui.
- Dimmi cosa facevi.
- Niente. Eravamo tutti tanto stanchi. Avevamo camminato da prima
dell'alba, fermandoci una volta sola a riposarci. Eravamo stanchi e
avevamo sete.
- E mi hai visto?
- Sì, tutti ti abbiamo visto.
Mi prendo le ginocchia tra le braccia e mi concentro. Lo spazio vicino
all'uomo resta vuoto, ma comincia a emergere la sensazione indefinita
della presenza della ragazza, come un'aura. Ora! mi sprono. Ora aprirò
gli occhi e lei sarà lì! Apro gli occhi. Nella luce incerta distinguo la
sua forma vicino a me. In un impeto di tenerezza allungo le dita per
toccarle i capelli, il viso. Nessun segno di vita. E' come carezzare
un'urna o un pallone, qualcosa che è solo superficie.
- Ho cercato di ricordare com'eri prima che tutto questo succedesse, -
dico. - Mi è difficile. E un peccato che tu non me lo possa dire -, Non
mi aspetto che protesti, e infatti non lo fa. E' arrivato un distaccamento di nuovi coscritti per prendere il posto di
quelli che hanno finito il servizio di leva di tre anni sulla frontiera
e sono pronti a tornare a casa. Il distaccamento è comandato da un
giovane ufficiale che entrerà a far parte del comando locale.
Lo invito a cenare con me alla locanda insieme a due suoi colleghi. La
serata scorre piacevolmente: il cibo è buono, il vino abbondante, il mio
ospite ha tante storie da raccontare sul viaggio che ha intrapreso in
una stagione difficile e in un territorio che gli è totalmente
sconosciuto. Sulla strada, mi dice, ha perso tre uomini: uno era uscito
dalla tenda di notte per andare a fare i suoi bisogni e non è più
tornato; due hanno disertato appena avvistata l'oasi, nascondendosi nel
folto delle canne. Piantagrane, li definisce, gente che non gli dispiace
di aver perduto. E del resto, non sono d'accordo con lui che disertare
da parte loro è stato un gesto di follia? Una follia, rispondo. Ha idea
da che parte siano andati? No, erano trattati bene, come tutti, ma
d'altro canto coi coscritti... Alza le spalle. Avrebbero fatto meglio a
disertare prima, suggerisco. Il territorio qui intorno è inospitale, se
non hanno ancora trovato un riparo sono uomini morti.
Parliamo dei barbari. E' sicuro, mi dice, di essere stato seguito a
distanza dai barbari per una parte del viaggio. Si trattava proprio di
barbari? domando. E di chi altro poteva trattarsi? ribatte. Anche i suoi
colleghi sono dello stesso parere.
Mi piace l'energia di questo giovanotto, la sua curiosità per il
contesto nuovo della frontiera. Il fatto che sia riuscito a portare i
suoi uomini fino qui in una stagione morta come questa è encomiabile.
Quando gli altri due, vista l'ora tarda, se ne vanno, insisto perché si
fermi. Rimaniamo a parlare e a bere fin dopo mezzanotte. Ascolto le
ultime notizie della capitale da cui manco da tanto. Gli parlo dei
luoghi ai quali penso con nostalgia: i parchi con i padiglioni dove le
orchestrine suonano per la gente a passeggio e dove in autunno le foglie
secche dei castagni frusciano sotto i piedi. Ricordo un ponte dal quale
si vede il riflesso della luna sull'acqua che s'increspa intorno alle
rocce sottostanti e prende la forma di un fiore di acacia.
- La voce che gira al comando generale, - mi racconta, - è che in
primavera ci sarà una massiccia offensiva contro i barbari, per
ricacciarli dalla frontiera sulle montagne.
Mi dispiace interrompere il flusso dei ricordi. Non voglio concludere la
serata con una scenata. Però rispondo: - Sono certo che si tratta solo
di voci. Non è possibile che vogliano veramente fare una cosa del
genere. Quelli che chiamiamo barbari in realtà sono nomadi, ogni anno
scendono dalla montagna in pianura. Non si lasceranno mai imbottigliare
sulle montagne!
Mi guarda con un'espressione strana. Per la prima volta questa sera
sento una barriera scendere tra noi, la barriera tra il militare e il civile. - Ma d'altra parte, - dice, - se vogliamo essere franchi, a
questo serve la guerra: a imporre una certa scelta a gente che
altrimenti non la farebbe -. Mi esamina col candore arrogante di un
giovane diplomato dell'Accademia militare. Sono certo che gli è venuta
in mente la storia, che ormai dev'essersi diffusa dappertutto, di come
ho rifiutato la mia cooperazione a un ufficiale della Terza Divisione.
Credo di sapere quello che vede davanti a sé: un piccolo amministratore
civile, sprofondato, dopo anni passati in questa zona depressa, nei
disgustosi usi degli indigeni, uno dalle idee superate, pronto a mettere
a repentaglio la sicurezza dell'Impero per un'incerta pace quotidiana.
Si sporge in avanti, con un'aria infantile e deferente, perplesso. Sono
sempre più sicuro che mi sta prendendo in giro. - Mi dica, signore, in
confidenza: di che cosa si lamentano questi barbari? Che vogliono da
noi?
Dovrei usare prudenza, ma non lo faccio. Dovrei sbadigliare, essere
evasivo, mettere fine alla serata, e invece mi sorprendo a rispondere
alla provocazione. (Quando imparerò a tenere a freno la lingua?)
- Vogliono che finiscano gli stanziamenti nella loro terra. Insomma,
vogliono riprendersela, la loro terra. Vogliono essere liberi come una
volta di muoversi con le greggi da un pascolo all'altro -. Farei ancora
in tempo a interrompere la lezione e invece sento il tono della mia voce
alterarsi e mi lascio trascinare, a malincuore, dalla rabbia che mi
avvelena. - Non dirò niente delle ultime incursioni contro di loro, del
tutto immotivate, e seguite da atti di spaventosa crudeltà, poiché era
in pericolo la sicurezza dell'Impero, o così mi si dice. Ci vorranno
anni per riparare ai danni fatti in quei pochi giorni. Ma lasciamo
stare, piuttosto vorrei parlarle di quello che trovo deprimente come
amministratore, anche in tempo di pace, anche quando i rapporti sulla
frontiera sono buoni. C'è un periodo dell'anno, lo saprà, in cui i
barbari vengono qui per commerciare. Be', vada a uno qualunque dei
banchi del mercato in quel periodo e mi dica chi è che viene truffato
sul peso, maltrattato, ingannato. Mi dica chi è che è costretto a
lasciare a casa le donne per paura che i soldati le insultino. Chi è che
finisce per terra ubriaco e chi è che lo prende a calci. E il disprezzo
per i barbari, un disprezzo esibito dall'ultimo dei contadini e degli
stallieri. Il disprezzo con cui io, magistrato, ho dovuto scontrarmi per
vent'anni. Come si fa a sradicare il disprezzo, soprattutto se è fondato
su particolari insignificanti come il diverso modo di stare a tavola o
una differenza nella forma della palpebra? Vuole che le dica che cosa
vorrei, a volte? Vorrei che questi barbari si sollevassero e ci dessero
una lezione, per insegnarci a rispettarli. Pensiamo a questo paese come
se fosse solo nostro, parte del nostro Impero: il nostro avamposto, il
nostro stanziamento, il nostro centro commerciale. Ma questa gente,
questi barbari non la vedono affatto così. Sono più di cento anni che
stiamo qui, abbiamo strappato terra al deserto, fatto opere di
irrigazione, seminato i campi; abbiamo costruito case solide e
circondato la nostra città di mura, ma per loro continuiamo a essere
stranieri di passaggio. Ci sono dei vecchi tra loro che ancora ricordano i racconti dei genitori su quest'oasi, su com'era un tempo: un posto ben
ombreggiato sulla sponda del lago, con pascoli ricchi perfino d'inverno.
E' così che continuano a parlarne, forse è così che la vedono ancora,
come se non fosse stato smosso nemmeno un briciolo di terra, come se non
fosse stato mai messo un mattone sopra l'altro. Sono sicuri che uno di
questi giorni metteremo le nostre cose sui carri e ce ne andremo per
tornare da dove siamo venuti, che le nostre case diventeranno rifugio di
topi e lucertole e le loro bestie verranno a pascolare nei campi
rigogliosi che abbiamo dissodato. Sorride? Vuole sapere una cosa? Stia a
sentire: l'acqua del lago, anno dopo anno, diventa più salata. La
spiegazione è semplice, ma adesso non importa. I barbari questo lo
sanno. Proprio in questo momento si stanno dicendo: «Bisogna solo avere
pazienza e uno di questi giorni le loro coltivazioni cominceranno ad
appassire per il sale, le provviste non basteranno più, dovranno
andarsene.» E questo che pensano, che ci sopravviveranno.
- Ma noi non ce ne andremo, - è la risposta tranquilla del giovane.
- Ne è così certo?
- Noi non ce ne andremo e dunque loro sbagliano. Anche se dovesse essere
necessario rifornire la base dall'esterno, non ce ne andremo. Perché
questi avamposti sul confine sono la prima linea di difesa dell'Impero.
Prima i barbari lo capiranno e meglio sarà.
Malgrado l'aria cordiale c'è in lui una rigidità di pensiero, forse
frutto dell'educazione militare. Sospiro. Non ho ottenuto niente
lasciandomi andare. I suoi peggiori sospetti saranno stati confermati:
sono un individuo di cui non ci si può fidare e ho una mentalità
superata. E poi, dopotutto, credo davvero alle cose che ho appena detto?
Davvero auspico il trionfo del modo di vivere dei barbari? Torpore
intellettuale, disordine, accettazione passiva della malattia e della
morte. Se dovessimo scomparire, i barbari passerebbero i loro pomeriggi
a scavare le nostre rovine? Conserverebbero nelle bacheche le nostre
schede del censimento e i libri mastri dei nostri mercanti di grano? Si
dedicherebbero a decifrare il testo delle nostre lettere d'amore? Tanta
indignazione nei confronti della strada che sta imboccando l'Impero non
si spiegherà forse solo col carattere scontroso di un vecchio che non
vuole vedersi sconvolgere gli ultimi anni di vita sulla frontiera? Cerco
di spostare la conversazione su temi più tranquilli, la caccia, i
cavalli, il tempo. Ma è tardi, il mio giovane amico vuole andare via e
io devo regolare il conto.
I bambini giocano di nuovo sulla neve. Tra di loro c'è la figura della
bambina incappucciata, che mi dà le spalle. A tratti, mentre avanzo
faticosamente verso di lei, la sua immagine viene cancellata dalla
cortina di neve che continua a cadere. I piedi affondano così
profondamente che riesco a malapena a sollevarli. Ogni passo è
un'eternità. Non ha mai nevicato così tanto nei miei sogni.
Mentre mi avvicino a fatica, i bambini interrompono il loro gioco per guardarmi. Voltano le facce serie e luminose verso di me e dalle loro
bocche il respiro esce in piccole nuvole. Cerco di sorridere, di
toccarli mentre procedo verso la bambina, ma il gelo mi blocca i
lineamenti, non riesco a sorridere, sembra che un foglio di ghiaccio mi
copra la bocca. Per strapparlo alzo una mano e scopro che è calzata da
uno spesso guanto, e le dita dentro il guanto sono congelate; quando mi
porto il guanto sul viso non sento niente. Muovendomi pesantemente
oltrepasso i bambini.
Ora comincio a vedere cosa sta facendo la bambina. Costruisce un forte
di neve, una città protetta da mura che riconosco in tutti i suoi
dettagli: i bastioni con le quattro torri di guardia, la porta con la
stanza del facchino, le strade e le case e il grosso quadrato della
caserma in un angolo. Che poi è proprio il punto dove mi trovo io! Ma la
piazza è vuota. Indico il centro della piazza. «Ci devi mettere la gente
lì!» vorrei dire. Dalle mie labbra non esce suono. E' come se in bocca
al posto della lingua ci fosse un pesce congelato. Eppure lei risponde.
Si mette in ginocchio sulla neve e volta la faccia incappucciata verso
di me. Ora ho paura che sarà una delusione, che la faccia che mi
mostrerà sarà ottusa, liscia, come un organo interno che non dev'essere
esposto alla luce. E invece no, è lei, lei come non l'ho vista mai. Una
bambina sorridente, con la luce che le risplende sui denti e sugli occhi
nerissimi. «Allora questo significa vedere!» mi dico. Vorrei parlarle
con la bocca impedita dal ghiaccio. «Come riesci a fare un così bel
lavoro con i guanti?» vorrei dirle.
Sorride gentilmente al mio farfugliare. Poi torna a lavorare al suo
forte nella neve.
Riemergo dal sogno tutto teso e infreddolito. Manca un'ora all'alba, il
fuoco è spento, ho il cranio insensibile per il freddo. La ragazza
accanto a me dorme tutta rannicchiata. Scendo dal letto e col mantello
addosso comincio a riaccendere il fuoco.
Il sogno ha messo le radici. Notte dopo notte torno alla bianca distesa
deserta della piazza, faticosamente arrancando verso la figura nel
centro, e ogni volta verifico che nella città che sta costruendo non c'è
vita.
Le chiedo delle sorelle. Ha due sorelle, la più piccola secondo lei è
«molto carina, ma un po' scervellata.» - Non vorresti rivedere le tue
sorelle? - le chiedo. La gaffe rimane nell'aria, grottesca, tra di noi.
Sorridiamo. - Certo, - risponde.
Le chiedo anche della prigione, del periodo in cui, senza che io lo
sapessi, viveva in questa città sotto la mia giurisdizione. - Sono stati
gentili con me quando hanno visto che ero stata lasciata indietro. Per
un certo periodo ho dormito alla locanda mentre i piedi pian piano
miglioravano. C'era un uomo che si occupava di me. Adesso se n'è andato.
Era uno stalliere -. Accenna anche all'uomo che le ha dato gli stivali
che portava la prima volta che l'ho vista. Le chiedo se c'erano altri uomini. - Sì, c'erano altri uomini. Non avevo scelta. Era così, per
forza.
Dopo quella conversazione i miei rapporti con i soldati semplici
diventano più tesi. Quando esco di casa per andare in tribunale, al
mattino, faccio una delle rare ispezioni. Sono sicuro che tra questi
uomini sull'attenti, con i loro fagotti vicino ai piedi, ce ne sono
alcuni che sono andati a letto con la ragazza. Non è che li immagini a
ridacchiare di nascosto. Al contrario, non li ho mai visti sostenere con
lo stesso stoicismo il vento gelido che spazza il cortile. Non hanno mai
tenuto un comportamento più rispettoso. Se potessero, lo so, mi
direbbero che siamo tutti uomini, che qualunque uomo può perdere la
testa per una donna. E nondimeno cerco di rientrare più tardi, alla
sera, per evitare la fila dei soldati davanti alla porta della cucina.
Ci arrivano notizie sui due disertori di cui mi ha parlato il tenente.
Un cacciatore li ha trovati morti assiderati in una povera capanna non
lontana dalla strada, a meno di trenta miglia da qui. Anche se
l'ufficiale vorrebbe lasciarli dove stanno («Trenta miglia per andare e
altrettante per tornare con questo tempo... un'esagerazione per uomini
che non sono più uomini, non pensa?»), lo persuado a mandare una
squadra. - Debbono avere il loro funerale, - gli dico. - E poi è
importante per il morale dei compagni. Non debbono pensare che anche a
loro possa succedere di morire nel deserto ed essere dimenticati. Tutto
quello che si può fare per alleviare il loro terrore di dover
abbandonare questa meravigliosa terra, va fatto. Dopotutto siamo stati
noi a esporli a questa condizione di pericolo -. Così la squadra parte e
due giorni dopo torna con i due cadaveri deformi, congelati, in un
carro. Continuo a trovare strano che degli uomini decidano di disertare
a centinaia di miglia da casa e ad appena un giorno di marcia dal calore
e dal cibo, ma non indago oltre. In piedi vicino alle tombe, nel
cimitero ghiacciato, mentre si svolgono gli ultimi riti e i loro
compagni più fortunati sono lì a capo scoperto, mi ripeto che,
insistendo sulle giuste onoranze funebri da prestare alle spoglie, cerco
di dimostrare a questi uomini che la morte non è annullamento, che
sopravviviamo nella memoria di coloro che ci hanno conosciuto. Ma è solo
per loro che ho voluto questa cerimonia? Non è forse un conforto per me?
Mi offro di scrivere ai genitori per informarli della disgrazia. - E'
più facile per un vecchio, - dico.
- Non ti piacerebbe fare qualcos'altro? - chiede.
Ha appoggiato il piede tra le mie gambe. Io sono altrove, perso nel
ritmo della frizione e del massaggio alla caviglia gonfia. La sua
domanda mi coglie di sorpresa. E' la prima volta che mi parla in modo
così pungente. Alzo le spalle e sorrido, cerco di scivolare di nuovo
nella mia trance, non lontano dal sonno e riluttante all'idea di esserne
tirato fuori.
Il piede si agita nelle mie mani, prende vita, mi tocca delicatamente
l'inguine. Apro gli occhi e vedo il suo corpo dorato e nudo sul letto. Sdraiata con le braccia intorno alla testa, mi guarda in quel suo modo
indiretto a cui ormai mi sono abituato, mettendo in mostra il petto sodo
e la pancia liscia, traboccante di giovane salute animalesca. Gli alluci
continuano a indagare, ma in questo vecchio, fiacco signore in ginocchio
davanti a lei, avvolto nella sua vestaglia color prugna, non trovano
risposta.
- Un'altra volta, - dico, indugiando stupidamente sulle parole. Per quel
che ne so è una menzogna, ma la pronuncio: - Un'altra volta, forse -.
Poi sposto la sua gamba, mi alzo e mi allungo vicino a lei. - I vecchi
non hanno virtù da difendere, quindi che posso dire? - E una battuta
fiacca, espressa male, e lei non la capisce. Mi apre la vestaglia e
comincia a carezzarmi. Dopo un po' scanso la sua mano.
- Vai con le altre, - sussurra. - Credi che non lo sappia?
Faccio un gesto perentorio per azzittirla.
- Tratti così anche loro? - mormora, e comincia a singhiozzare.
Sento una gran pena per lei, ma non c'è niente che possa fare. Però che
umiliazione per lei! Non può nemmeno uscire di casa senza barcollare e
annaspare quando si veste. E prigioniera quanto prima. Le accarezzo la
mano con affetto e sprofondo nella malinconia.
E' l'ultima notte che dormiamo nello stesso letto. Mi porto una branda
in salotto e dormo lì. L'intimità fisica tra di noi è finita. - Per ora,
- dico. - Fino alla fine dell'inverno. E' meglio così -. Lei accetta
questa scusa senza una parola. Quando torno a casa, la sera, mi porta il
té e si inginocchia vicino al vassoio per servirmi. Poi scende in
cucina. Un'ora dopo la sento salire su per le scale dietro la ragazza
col vassoio della cena. Mangiamo insieme. Dopo io mi ritiro nel mio
studio, oppure esco e riprendo le abitudini sociali che ho trascurato
per un po': gioco a scacchi a casa di amici, a carte con gli ufficiali
alla locanda. Vado anche a trovare la ragazza della locanda, una volta o
due, ma i sensi di colpa mi rovinano tutto. Quando rientro lei è sempre
addormentata e debbo camminare in punta di piedi come un marito
adultero.
Si adatta senza protestare al nuovo corso. Mi dico che dev'essere
l'educazione dei barbari a renderla così sottomessa. Ma che ne so io di
come i barbari educano i loro figli? Quella che definisco sottomissione
magari è solo indifferenza. Che gliene importa a una mendicante, a una
ragazzina orfana di padre, se io dormo per conto mio oppure no, fintanto
che ha un tetto sopra la testa e abbastanza cibo in pancia? Finora però
mi piaceva pensare che lei mi vedesse come un uomo in preda alla
passione, per quanto perversa, che in quei trattenuti silenzi che sono
tanta parte del nostro rapporto non potesse non sentire il mio sguardo
insistere su di lei col peso di un corpo. Preferisco non soffermarmi
sulla possibilità che l'educazione che i barbari danno alle loro figlie
non sia accettare ogni capriccio del maschio, compreso quello di ignorarle, ma vedere la passione sessuale, nel cavallo o nella capra,
nell'uomo o nella donna, come un semplice fatto della vita, chiaro nei
modi come negli scopi. Cosicché le azioni confuse di uno straniero di
una certa età che la prende per strada e se la mette in casa, per
baciarle i piedi un giorno e tiranneggiarla l'altro, spalmarla di oli
esotici oppure ignorarla, passare tutta la notte tra le sue braccia
oppure andarsene di malumore a dormire per conto suo, non possano
apparirle altro che dimostrazioni di impotenza, di indecisione, di
alienazione dai suoi stessi desideri. Mentre io non ho mai smesso di
vederla come un corpo menomato, ferito, danneggiato, lei forse nel
frattempo si è abituata a quel suo nuovo corpo imperfetto, è diventata
quel corpo, e non si sente più deforme, non più di quanto un gatto si
senta deforme perché ha gli artigli invece delle dita. Farei bene a
prendere sul serio tutte queste considerazioni. Più ordinaria di quanto
mi piaccia pensarla, può essere che anche lei a sua volta mi trovi
ordinario.
Capitolo terzo
Al mattino l'aria è piena di palpiti di ali, gli uccelli arrivano dal
sud, volteggiano a grandi cerchi sul lago e poi si posano sulle salate
lingue di terra palustre. Quando il vento s'acquieta la cacofonia dei
loro rauchi versi, gridi, strida e schiamazzi ci arriva come il brusio
di una città rivale sull'acqua: oche selvatiche e granaiole, codoni,
fischioni, germani reali, alzavole e pesciaiole.
L'arrivo dei primi uccelli acquatici migratori conferma i segni
precedenti, quell'accenno di calore nuovo nel vento, la trasparenza
vitrea del lago ghiacciato. La primavera è alle porte, uno di questi
giorni sarà tempo di seminare.
Intanto è la stagione delle trappole. Prima dell'alba gruppi di
cacciatori si mettono in marcia alla volta del lago per tendere le reti.
A metà mattina sono di ritorno con un grosso bottino: uccelli col collo
spezzato, appesi per le zampe legate a lunghi pali, o chiusi vivi dentro
gabbie di legno stracolme, che gridano per l'offesa e si calpestano.
Qualche volta, rannicchiato in silenzio in mezzo a loro, c'è anche un
grande e silenzioso cigno canoro. La cornucopia della natura: per
qualche settimana tutti mangeranno bene.
Prima di poter partire devo stilare due documenti. Il primo diretto al
governatore provinciale. «Per riparare in parte ad alcuni danni prodotti
dalle incursioni della Terza Divisione, - scrivo, - e per ristabilire,
per quanto possibile, i buoni rapporti pregressi, mi appresto a fare una
breve spedizione tra i barbari.» Firmo e appongo il sigillo alla
lettera.
Come debba essere il secondo documento ancora non lo so. Un testamento?
Una confessione? Una storia di trent'anni sulla frontiera? Passo un
giorno intero in preda a una specie di trance, seduto alla mia scrivania
davanti al foglio bianco, e aspetto che mi vengano le parole. Un altro
giorno passa allo stesso modo. Al terzo mi arrendo, metto via i fogli e
mi dedico ai preparativi per la partenza. Mi sembra giusto che un uomo
che non sa cosa fare con la donna che ha nel letto non sappia cosa
scrivere.
Per accompagnarmi ho scelto tre uomini. Due sono giovani coscritti che
mi sono stati assegnati come attendenti. Il terzo è un uomo più vecchio,
nato da queste parti, cacciatore e mercante di cavalli, che pagherò di
tasca mia. Li convoco tutti insieme la sera prima della partenza. - Lo
so, questo non è un buon periodo per viaggiare, - dico loro. - E una
stagione infida, la coda dell'inverno; e la primavera deve ancora
arrivare. Ma se aspettiamo non raggiungeremo i barbari prima che
migrino. Non mi fanno domande.
Alla ragazza dico solo: - Ti riporto dalla tua gente, o comunque il più
vicino possibile, visto che oramai è dispersa. Non dà segni di gioia. Le
metto vicino la pesante pelliccia che le ho comprato per il viaggio, con
un cappuccio di coniglio ricamato secondo l'uso indigeno, i guanti e gli
stivali nuovi.
Ora che ho deciso dormo meglio e riesco perfino a trovare in me qualcosa
che somiglia alla felicità.
Partiamo il 3 marzo, scortati oltre la porta della città e per la strada
che costeggia il lago da una truppa di ragazzini e di cani. Superato
l'acquedotto, quando imbocchiamo la strada lungo il fiume, seguendo il
sentiero a destra, che nessuno usa mai tranne i cacciatori e gli
uccellatori, la nostra scorta comincia a ridursi, finché rimangono solo
due ragazzini ostinati che ci trotterellano dietro, ognuno deciso a non
cedere prima dell'altro.
Il sole è sorto, ma non riscalda. Il vento che spazza il lago ci frusta
facendoci lacrimare. Procediamo in fila indiana: quattro uomini, una
donna, quattro animali da soma, e i cavalli che continuamente
indietreggiano per il vento e continuamente debbono essere spronati.
Lasciamo dietro di noi la città fortificata, i campi deserti e alla fine
anche i ragazzini ansimanti.
Il mio piano è di seguire il sentiero fino a che non avremo aggirato la
sponda meridionale del lago, tagliare quindi a nord-ovest attraverso il
deserto, diretti alle valli montane dove svernano i nomadi del nord. E
una strada poco battuta, perché i nomadi, quando migrano con le loro
greggi, seguono il vecchio letto del fiume in un ampio giro verso est e
verso sud. Comunque riduce il viaggio da sei settimane a una o due. Io
stesso non l'ho mai fatta.
Così per i primi tre giorni arranchiamo verso sudest. Alla nostra destra
si apre una pianura a terrazze erosa dal vento, che in lontananza si fonde con le nubi di polvere rossa e con un torbido cielo giallo. A
sinistra abbiamo la palude piatta, strisce di canneti e il lago con al
centro il ghiaccio che ancora non si è sciolto. Il vento che ci soffia
sopra gela il fiato in bocca, cosicché invece di cavalcare per lunghi
tratti preferiamo camminare al riparo dei cavalli. La ragazza si è
avvolta la faccia con molti giri di sciarpa e accucciata sulla sella
segue ciecamente la sua guida.
Due cavalli da soma sono stati caricati con la legna, che però va
conservata per il deserto. A un certo punto, mezzo sepolto dalla sabbia,
troviamo un cespuglio di tamerici, lo tagliamo per usarlo come
combustibile. Per il resto dobbiamo accontentarci dei fasci di canne
secche. Io e la ragazza dormiamo vicini nella stessa tenda, avvolti
nelle nostre pellicce per difenderci dal freddo.
In questi primi giorni di viaggio mangiamo bene. Abbiamo portato carne
salata, farina, fagioli, frutta secca, e poi ci sono gli uccelli
selvatici da cacciare. Ma dobbiamo stare attenti con l'acqua. L'acqua
della palude, poco profonda nelle insenature meridionali, non si può
bere perché è troppo salata. Uno degli uomini deve addentrarsi nel lago
di venti o trenta passi, con l'acqua che gli arriva fino ai polpacci,
per riempire le borracce di pelle, meglio se con blocchi di ghiaccio. Ma
anche l'acqua che si ottiene dai pezzi di ghiaccio squagliato è così
amara e salata che si riesce a utilizzare solo per preparare un té rosso
molto forte. Ogni anno il lago diventa più salmastro, man mano che il
fiume ne erode le sponde e vi riversa sale e allume. Poiché il lago non
ha sbocco il contenuto minerale delle sue acque va sempre più
aumentando, in particolare a sud, dove a seconda della stagione i banchi
di sabbia isolano alcuni tratti d'acqua dal resto. Dopo la piena estiva
i pescatori trovano carpe morte che galleggiano nelle pozze d'acqua a
pancia in su. Dicono che già non si trova più il pesce persico. Che ne
sarà della colonia se il lago si trasforma in un mare morto?
Dopo un giorno di té salato tutti, tranne la ragazza, cominciano ad
avere la diarrea. Io sono quello che sta peggio. Soffro l'umiliazione
delle soste frequenti, di svestirmi e rivestirmi con le dita gelate al
riparo di un cavallo mentre gli altri aspettano. Cerco di bere il meno
possibile, a tal punto che la mia mente comincia a produrre immagini che
mi tormentano: una botte piena accanto a un pozzo, con l'acqua che
trabocca dal mestolo; candida neve. Andare ogni tanto a caccia e a
donne, i miei occasionali esercizi di virilità, finora mi hanno impedito
di capire fino a che punto il mio corpo sia diventato debole. Dopo le
lunghe marce mi fanno male le ossa e quando cala la sera sono così
stanco che non ho nemmeno fame. Continuo a camminare a fatica, fino a
che letteralmente non sono più in grado di mettere un piede davanti
all'altro; allora mi arrampico in sella, mi arrotolo dentro il mantello
e faccio segno a uno degli uomini perché si metta alla guida. Il vento
non si calma mai. Ci ulula addosso spazzando il ghiaccio, dal nulla
furiosamente andando verso il nulla, e vela il cielo di una nuvola di
polvere rossa. Dalla sabbia non c'è difesa, ci penetra nelle vesti,
sotto la pelle, nei bagagli.
Quando mangiamo ci impasta la lingua, ci scricchiola sotto i denti, ci
costringe a sputare spesso. Si direbbe che viviamo nella polvere invece
che nell'aria. Nuotiamo nella polvere come i pesci nuotano nell'acqua.
La ragazza non si lamenta. Mangia bene, non si ammala, la notte dorme
profondamente arrotolandosi a palla, in un freddo così mostruoso che
sarei pronto ad abbracciare un cane per un po' di conforto. Una volta
guardando in su vedo che cavalca addormentata, il viso disteso come
quello di un neonato.
Il terzo giorno il bordo della palude comincia a piegare verso nord,
vuol dire che abbiamo aggirato il lago. Piantiamo le tende presto e
approfittiamo delle ultime ore di luce per raccogliere ogni pezzetto di
legno per il fuoco, mentre i cavalli pascolano per l'ultima volta sulla
magra terra palustre. Poi all'alba del quarto giorno cominciamo la
traversata del vecchio letto del lago, che si estende ancora per
quaranta miglia oltre le paludi.
La terra è più desolata che mai. Niente cresce su questo salato fondo di
lago che in alcuni punti s'inarca e forma delle gobbe, esagoni
cristallini dal bordo frastagliato larghi un piede. Ed è anche
pericoloso: attraversando una distesa insolitamente liscia il cavallo
che è in testa all'improvviso rompe la crosta e sprofonda fino al petto
nella melma verde, e l'uomo che lo porta rimane un attimo attonito prima
di sprofondare a sua volta. Ci precipitiamo a tirarli su, la crosta
salina si scheggia sotto gli zoccoli del cavallo, il buco si allarga, un
tanfo di salmastro pervade tutto. Non ci siamo ancora lasciati il lago
alle spalle, ce ne rendiamo conto adesso, continua anche qui, a volte
sotto una coltre profonda decine di centimetri, a volte sotto una
fragile lastra salina. Da quant'è che il sole non risplende più su
queste acque morte? Accendiamo il fuoco su un pezzo di terra più ferma
per riscaldare l'uomo, che è scosso dai brividi, e far asciugare i suoi
vestiti. Scuote la testa. - Ho sempre sentito dire «Attento ai tratti di
terra verde», ma non avevo mai visto succedere niente del genere, -
dice. E' lui la nostra guida, l'unico tra noi che si sia mai spinto a
est del lago. Dopo l'incidente sproniamo ancora di più i cavalli, per
allontanarci al più presto dal lago morto, terrorizzati all'idea di
perderci in un fluido più gelido del ghiaccio, minerale, sotterraneo,
senz'aria. A testa bassa, procediamo nel vento che ci gonfia le giacche,
prendiamo il sentiero dalla crosta salina più accidentata, evitando i
tratti più lisci. Nel fiume di polvere che corre maestoso nel cielo
brilla un sole arancio che non scalda niente. Quando cala la sera
conficchiamo i pioli delle tende nelle spaccature della crosta salina,
dura come roccia; consumiamo una quantità esagerata della legna raccolta
per il fuoco e come marinai preghiamo che appaia la terraferma.
Il quinto giorno ci lasciamo alle spalle il letto del lago e
attraversiamo una striscia di morbida terra salina che ben presto lascia
il posto alla sabbia e poi alle rocce. Ci rianimiamo tutti, perfino i
cavalli che per giorni non hanno avuto altro da mangiare che qualche manciata di semi di lino e un secchio di acqua salmastra. Le loro
condizioni peggiorano a vista d'occhio.
Gli uomini non si lamentano. La carne fresca sta finendo ma rimangono
quella salata e i fagioli secchi, e ci sono ancora tanta farina e tanto
té, viveri fondamentali per il viaggio. Ad ogni sosta prepariamo il té e
le frittelle che, affamati come siamo, ci sembrano deliziose. Gli uomini
cucinano. Vergognandosi della ragazza, non sapendo bene quale sia la sua
posizione e soprattutto non capendo perché la stiamo riportando dai
barbari, le rivolgono a malapena la parola e così non le chiedono aiuto
per cucinare. Io non la sprono, spero che l'imbarazzo diminuisca col
passare dei giorni. Ho scelto questi uomini perché sono forti, onesti e
animati da buona volontà. Mi seguono allegramente, per quanto possibile
in queste condizioni, anche se ormai la bella armatura laccata che i due
giovani soldati portavano quando abbiamo varcato le porte del forte è
ridotta a un fagotto sui cavalli da soma, e la sabbia riempie le guaine
delle loro spade.
Le distese sabbiose cominciano a modularsi in un paesaggio di dune. La
marcia è rallentata dalla necessità di inerpicarsi su per il fianco
delle colline sabbiose. E' il terreno peggiore per i cavalli, che
procedono pochi centimetri alla volta, con gli zoccoli che affondano
nella sabbia. Guardo la guida, che si stringe nelle spalle: - Vanno
avanti così per miglia, ma dobbiamo attraversarle, non c'è altro modo -.
In cima a una duna mi riparo gli occhi con la mano e guardo: davanti a
me nient'altro che turbini di sabbia.
Quella sera uno dei cavalli da soma si rifiuta di mangiare. Il mattino
successivo, malgrado la frusta, non si alza. Ridistribuiamo il carico e
buttiamo via un po' della legna. Mentre gli altri si avviano io resto
indietro. Giurerei che la bestia sa che cosa sta per succedere. Alla
vista del coltello rovescia gli occhi all'indietro. Scalpita, col sangue
che zampilla dalla gola, libera gli zoccoli dalla sabbia e trotta via,
qualche metro giù per la duna, sottovento, e poi stramazza. Ho sentito
dire che i barbari in condizioni disperate succhiano il sangue dalle
vene dei loro cavalli. Dovremo forse rimpiangere questo sangue così
prodigalmente profuso sulla sabbia?
Il settimo giorno, con le dune finalmente alle nostre spalle,
avvistiamo, sull'uniforme sfondo grigio-bruno del paesaggio desertico,
una striscia di grigio più scuro. Avvicinandoci vediamo che si estende a
destra e a sinistra per miglia. Ci sono perfino le ombre nere di alberi
striminziti. Siamo fortunati, dice la guida, qui troveremo l'acqua.
Siamo capitati sul letto di un'antica laguna. Canne morte, bianche come
fantasmi e fragili come vetro, popolano quelle che un tempo erano le sue
sponde. Gli alberi sono pioppi, anche loro morti da un pezzo, da quando,
anni e anni fa, le loro radici non sono più riuscite a pescare l'acqua
sotterranea che andava ritirandosi.
Liberiamo i cavalli dal carico e cominciamo a scavare. A due piedi di profondità compare l'umida argilla blu. Scavando ancora troviamo altra
sabbia, quindi altra argilla molto viscosa. Quando arriviamo a una
profondità di sette piedi, col cuore in gola e un ronzio nelle orecchie,
sono costretto a rinunciare al mio turno con la vanga. Gli altri tre
uomini continuano a scavare tirando fuori la terra dalla buca con un
grande telo da tenda legato agli angoli.
A dieci piedi sgorga l'acqua. E' dolce, non c'è traccia di sale; ci
sorridiamo entusiasti, ma l'acqua si raccoglie con lentezza e i lati
della buca vanno ininterrottamente liberati della terra che continua a
franare dentro. E' quasi sera quando riusciamo a svuotare le ultime
pelli dall'acqua salmastra del lago per riempirle con questa. Al
crepuscolo caliamo la botte nella buca e facciamo bere i cavalli.
Nel frattempo, vista l'abbondanza di legno di pioppo, gli uomini hanno
scavato due piccoli forni di argilla, uno a ridosso dell'altro; sopra vi
hanno acceso un gran fuoco per farli asciugare. Quando il fuoco si
esaurisce, raccolgono le braci e le mettono nei forni per cuocere il
pane. La ragazza guarda, appoggiata ai suoi bastoni in fondo ai quali ho
legato dei dischi di legno perché non affondino nella sabbia.
Nell'atmosfera di allegro cameratismo che si è creata grazie alla
giornata positiva e alla prospettiva di un intero giorno di riposo, le
chiacchiere corrono. Scherzando con lei gli uomini fanno i primi passi
amichevoli: - Vieni qui con noi ad assaggiare il pane che sanno fare i
maschi! - Lei sorride sollevando il mento con un movimento che forse io
solo riconosco come il tentativo di vedere. Cautamente si siede accanto
a loro al calore dei forni.
Me ne sto lontano, nell'apertura della mia tenda, al riparo dal vento,
alla luce di una lampada a olio dalla fiammella tremolante. Scrivo il
diario della giornata trascorsa ma al tempo stesso ascolto. Scherzano
nel dialetto misto della frontiera e a lei non mancano certo le parole.
Sono sorpreso dalla sua disinvoltura: è sveglia, sicura di sé. Scopro
perfino in me una sorta di orgoglio: non è una puttanella qualunque che
sta con un vecchio, è una giovane donna intelligente e attraente! Forse
se fin dall'inizio avessi usato con lei questo gergo vivace e scherzoso
ci saremmo avvicinati di più. Invece di tenerla allegra, come un idiota
l'ho oppressa con la mia cupezza. Davvero il mondo dovrebbe essere dei
teatranti! Futile amarezza, vana malinconia, vuoti rimpianti! Spengo la
lampada e resto a guardare il fuoco col mento appoggiato sul pugno;
sento il mio stomaco che gorgoglia.
Esausto, mi addormento. Emergo appena dal sonno quando lei scivola
accanto a me sollevando il lembo della pesante pelle d'orso. «I bambini
sentono freddo di notte», è quello che penso nella mia confusione, e la
circondo con un braccio, riaddormentandomi. Forse per un po' dormo
ancora profondamente. Poi, perfettamente sveglio, sento la sua mano
insinuarmisi sotto le vesti. Mi lecca un orecchio. Sono scosso da un
piacevole brivido di eccitazione, sbadiglio, mi stiracchio e sorrido nel
buio. La sua mano trova quel che stava cercando. «E ora? - penso. - E se
morissimo nel mezzo del deserto? Almeno cerchiamo di non morire tesi e disperati!» Sotto la camicia è nuda. Mi sollevo e mi metto sopra di lei:
è calda, turgida, pronta per me. Un minuto cancella cinque mesi di
insensata esitazione, vengo risucchiato nel facile oblio dei sensi.
Al risveglio ho la mente così vuota che il terrore mi attanaglia. Solo
con uno sforzo di volontà riesco a ritrovarmi nel tempo e nello spazio:
in un letto, una tenda, una notte, un mondo, un corpo disteso. Anche se
le sto addosso col peso di un bue morto, lei dorme lo stesso, e mi
abbraccia mollemente. Mi libero dall'abbraccio, sistemo la coperta e
cerco di ricompormi. Nemmeno per un attimo immagino di poter smontare le
tende l'indomani, tornare all'oasi e organizzarmi per vivere i miei
ultimi anni nell'assolata villa del magistrato, con una giovane moglie,
dormendo placidamente al suo fianco, dandole dei figli, assistendo al
trascorrere delle stagioni. Non mi sgomenta pensare che se non avesse
trascorso la serata con i ragazzi attorno al fuoco da campo molto
probabilmente non avrebbe sentito nessun bisogno di me. Forse la verità
è che quando la stringevo tra le braccia, era uno di quei giovani che
abbracciava. Osservo con scrupolo l'effetto che questo pensiero suscita
in me: neppure un tuffo al cuore, non mi sento ferito. Dorme, la mia
mano scorre sulla sua pancia liscia, le carezza le cosce. E' fatta, sono
contento. Al tempo stesso sono pronto a scommettere che non sarebbe
successo se non mancassero pochi giorni alla nostra separazione. E poi,
se devo dire la verità, il piacere che ho trovato in lei, quello di cui
ancora rimane traccia sensibile nel palmo della mia mano, non arriva in
profondità. Il cuore non ha un sussulto, il sangue non mi pulsa con più
violenza nelle vene, se la sua mano mi sfiora. Non sto con lei per il
rapimento dei sensi che mi promette o produce, ma per ragioni diverse
che continuano a sfuggirmi, come sempre. Certo devo ammettere che a
letto, al buio, i segni che le torture hanno lasciato su di lei, i piedi
torti, gli occhi quasi ciechi, sono presto dimenticati. Allora posso
dire che è la donna tutta intera che voglio, che il piacere che mi viene
da lei sarà incompleto finché quei segni non saranno del tutto scomparsi
e lei non sarà tornata alla sua integrità, o non sono piuttosto (non
sono stupido, lasciatemi dire queste cose) proprio quei segni che mi
hanno attratto verso di lei? Segni che mi deludono perché non arrivano
abbastanza a fondo? Troppo o troppo poco: è lei che voglio o le tracce
di una storia scritta sul suo corpo? Resto a lungo disteso a fissare
l'oscurità senza fondo, anche se so che il tetto della tenda è a solo un
braccio di distanza. Nessun pensiero, nessuna definizione, per quanto
contraddittoria, dell'origine del mio desiderio sembra turbarmi. «Devo
essere stanco, - penso. - Oppure qualsiasi cosa possa essere formulata è
perciò stesso falsa.» Le mie labbra si muovono componendo e ricomponendo
le parole. «O forse la verità è che solo quello che non è stato
formulato va vissuto fino in fondo.» Osservo quest'ultima proposizione
senza individuare in me nessuna reazione di assenso, né di dissenso. Le
parole diventano sempre più opache ai miei occhi; presto perdono ogni
significato. Sospiro alla fine di un lungo giorno, nel mezzo di una
lunga notte. Poi mi volto verso la ragazza, l'abbraccio, l'attraggo a me
e la stringo forte. Ronfa nel sonno, dove ben presto la raggiungo.
L'ottavo giorno riposiamo, perché i cavalli ormai sono davvero ridotti male. Masticano affamati la fibra insipida delle canne secche. Si
riempiono le pance d'acqua e fanno grandi peti. Abbiamo dato loro gli
ultimi semi di lino e anche un po' del nostro pane. Se nel giro di un
giorno o due non troviamo qualche pascolo moriranno.
Ci lasciamo alle spalle il pozzo e la montagnola di terra che abbiamo
scavato. Proseguiamo verso nord. Camminiamo tutti, tranne la ragazza.
Abbiamo abbandonato tutto quello che potevamo abbandonare per
alleggerire il carico dei cavalli; ma poiché non possiamo sopravvivere
senza il fuoco, ancora portano grandi cataste di legna.
- Quanto manca alle montagne? - chiedo alla guida.
- Un giorno. Due. Difficile dirlo. Non ho mai preso questa strada prima
d'ora -. E' andato a caccia lungo la sponda orientale del lago e ha
costeggiato la periferia del deserto, ma non ha mai avuto motivo di
attraversarlo. Aspetto, dandogli modo di dirmi cosa pensa, ma resta
imperturbabile, non crede che siamo in pericolo. - Forse ancora due
giorni per avvistare le montagne e un altro per raggiungerle -. Strizza
gli occhi, scrutando la bruna foschia che vela l'orizzonte. Non chiede
cosa faremo una volta arrivati sulle montagne.
Giungiamo alla fine di questo deserto rosso e sassoso e saliamo su per
una serie di balze rocciose, fino a un primo altopiano, dove cominciamo
a incontrare le rade dune di malconcia erba invernale. Le bestie ci si
buttano con furore, è un grande sollievo vederle mangiare.
Mi sveglio con un sussulto in piena notte, con l'orribile sensazione che
qualcosa non vada. La ragazza è seduta accanto a me: - Che cos'è? -
chiede.
- Ascolta. Si è calmato il vento.
Scalza, avvolta in una pelliccia, striscia dietro di me fuori dalla
tenda. Cade una neve leggera. La terra è una serena distesa bianca sotto
la luna piena, coperta da un velo di nebbia. L'aiuto ad alzarsi in piedi
e resto li, abbracciato a lei, a guardare il vuoto da cui cadono i
fiocchi di neve in un silenzio reso palpabile da una settimana di vento
incessante. Gli uomini della seconda tenda si uniscono a noi. Ci
guardiamo, sorridendoci con aria ebete. - Ecco la primavera, - dico, - è
l'ultima neve dell'anno -. Gli altri annuiscono. Un cavallo che si
scuote la neve di dosso ci fa sobbalzare.
Nel calore della tenda, al riparo dalla neve, faccio di nuovo l'amore
con lei. Passiva, mi lascia fare. Quando cominciamo sono sicuro che è il
momento giusto, l'abbraccio carico di piacere e di fierezza, ma a metà
perdo il contatto con lei e tutto si spegne, scioccamente. E' chiaro che
le mie previsioni non sono infallibili, ma comunque continuo a sentire
una gran tenerezza per questa ragazza che ora, bruscamente, si
addormenta nell'incavo del mio braccio. Sarà per un'altra volta, e comunque, seppure non dovesse essere, non credo che me ne importi.
Una voce chiama dall'apertura della tenda: - Signore, si svegli!
Sono confuso e ho la sensazione di aver dormito troppo. E' questa gran
calma, mi dico: è come se ci fossimo placati per via della bonaccia.
Emergo dalla tenda nella luce del sole. - Guardi, signore! - mi dice
l'uomo che mi ha svegliato, indicando a nord-est. - Sulla nostra strada
si prepara il maltempo.
Una gigantesca onda nera corre contro di noi sopra la distesa innevata.
E' ancora lontana diverse miglia, ma la vediamo divorare la terra al suo
passaggio man mano che si avvicina. Il suo bordo superiore si perde
nelle nuvole bige. - La tempesta! - grido. Non ho mai visto niente di
così spaventoso. Gli uomini si affrettano a smontare le tende. - Portate
i cavalli al riparo, legateli qui, nel centro! - Arrivano le prime
raffiche di vento, la neve comincia a turbinarci intorno.
La ragazza è accanto a me, appoggiata ai bastoni. - Lo vedi? - le
chiedo. Scruta nel suo modo curioso e annuisce. Gli uomini si mettono al
lavoro e smontano la seconda tenda. - La neve non era un buon segno,
allora! - Lei non mi risponde. So che dovrei aiutarla, ma non riesco a
scollare gli occhi da quella muraglia nera che si precipita ruggendo
contro di noi, alla velocità di un cavallo al galoppo. Si leva il vento
e ci fa vacillare; abbiamo di nuovo nelle orecchie quell'ululato
familiare.
Mi scuoto. - Svelti, svelti! - grido, battendo le mani. Un uomo s'è
inginocchiato a riavvolgere le tende, arrotolare i feltri, mettere via
le coperte; gli altri due portano al riparo i cavalli. - Siediti, -
grido alla ragazza, e mi precipito ad aiutare gli altri. La muraglia che
avanza non è più nera, ma un caos turbinante di sabbia, di neve e di
polvere. Poi all'improvviso il vento si alza ululando, mi strappa il
cappello, la tempesta ci colpisce. Vengo buttato a terra, non dal vento,
ma da un cavallo che si stacca dagli altri e brancola, le orecchie
appiattite, gli occhi roteanti. - Prendetelo! - urlo. La mia voce è un
mormorio, io stesso non riesco a sentirla. Il cavallo ci scompare
davanti agli occhi, come un fantasma. Nello stesso momento la tenda vola
via, volteggia nel cielo trascinata in alto da un turbine. Mi butto
sulle coperte arrotolate, tenendole giù, gemendo di disperazione e di
rabbia. Poi, a quattro zampe, trascinando le coperte, mi sposto
faticosamente verso di lei. E come nuotare controcorrente. Ho gli occhi,
il naso, la bocca pieni di sabbia che mi soffoca.
La ragazza è appoggiata con le braccia tese come ali al collo di due
cavalli. Sembra che stia parlando con loro. Gli animali, malgrado
abbiano gli occhi pieni di furia, stanno fermi.
- E' volata via la nostra tenda! - le grido nell'orecchio, agitando un
braccio verso il cielo. Si volta: la faccia, sotto il cappuccio, è
avvolta in una sciarpa nera, anche gli occhi sono coperti. - Non abbiamo
più la tenda, - grido di nuovo. Annuisce.
Per cinque ore restiamo stretti dietro i cavalli e le cataste di legna
mentre il vento ci frusta buttandoci addosso neve, ghiaccio, pioggia,
sabbia, pietrisco. Il freddo ci penetra dolorosamente nelle ossa. Il
fianco dei cavalli esposto al vento è ricoperto di ghiaccio. Ci
stringiamo tutti insieme, uomini e animali, per riscaldarci e tenere
duro.
Poi a mezzogiorno cala il vento. E' come se da qualche parte fosse stato
chiuso un portone. Le orecchie ci fischiano nell'improvvisa quiete.
Dovremmo muovere gli arti intirizziti, pulirci, caricare gli animali,
qualunque cosa pur di far scorrere il sangue nelle vene, ma non vogliamo
altro che rimanere un po' pia a lungo nel nostro nido. Sinistra
letargia! Le parole mi raschiano la gola: - Forza ragazzi, carichiamo i
cavalli!
Montagnole di sabbia indicano la posizione dei nostri bagagli sparsi.
Cerchiamo sottovento ma non c'è traccia della tenda volata via. Aiutiamo
i cavalli malconci a rialzarsi e li carichiamo. Il freddo della tempesta
è niente rispetto a quello che viene dopo, che ci avvolge come un
lenzuolo di ghiaccio. Il respiro ci si gela in bocca, tremiamo nei
nostri stivali. Dopo tre passi incerti, a zig zag, il cavallo di testa
si piega sulle zampe posteriori. Lo liberiamo dal carico di legna e lo
tiriamo su con l'aiuto di un bastone, lo frustiamo. Mi maledico ancora
una volta per essermi imbarcato in una spedizione così dura, con una
guida incerta, in una stagione infida.
Decimo giorno: aria più tiepida, cielo più sereno, vento più mite.
Marciamo pesantemente nel paesaggio piatto quando la guida lancia un
grido indicando un punto. «Le montagne!» penso con un tuffo al cuore. E
invece no, non sono le montagne che ha visto. Le macchie che indica, in
lontananza, sono uomini, uomini a cavallo. Mi rivolgo alla ragazza di
cui conduco il malconcio cavallo: - Siamo quasi arrivati, - dico. - C'è
gente laggiù, presto sapremo chi sono -. Il peso che mi gravava addosso
da giorni si fa più lieve. Corro verso la testa della carovana e
indirizzo la marcia verso quelle tre figure lontane.
Andiamo avanti di buon passo per mezz'ora prima di renderci conto che
non ci stiamo avvicinando. Si muovono insieme a noi. «Non reagiscono»,
mi dico, e mi chiedo se non sia il caso di accendere un fuoco. Ma quando
ci fermiamo anche le tre macchie lontane sembrano fermarsi. Quando
ricominciamo a marciare, ricominciano anche loro. «Sono solo un riflesso
nostro? Un miraggio?» Non riusciamo ad avvicinarci. Da quanto tempo ci
seguono? Oppure procedono e credono, forse, che siamo noi a seguirli?
- Basta, non ha senso inseguirli, - dico agli uomini. - Vediamo
piuttosto se accettano di farsi avvicinare da uno solo di noi -. Allora monto sul cavallo della ragazza e mi avvio verso quegli stranieri da solo. Per un po' non si muovono, stanno là, guardano e aspettano. Poi
ricominciano a ritrarsi, lucenti, verso il margine estremo della nuvola
di polvere. Sprono il cavallo, inutilmente: non riesce a fare di meglio
che procedere a malapena sbandando qua e là. Smetto di inseguirli,
smonto da cavallo e aspetto che gli altri mi raggiungano.
Per non affaticare troppo gli animali abbiamo via via ridotto le nostre
tappe. Quel pomeriggio non facciamo più di sei miglia su quella terra
piatta e dura. Davanti a noi, sempre visibili ma lontani, procedono
anche i tre cavalieri. Decidiamo di accamparci. Lasciamo che i cavalli
pascolino per un'ora, nutrendosi dell'erba stenta che possono trovare,
poi li raduniamo vicino alla tenda, li leghiamo e mettiamo un soldato di
guardia. Cala la notte, le stelle compaiono nel cielo offuscato.
Restiamo ancora un poco intorno al fuoco a goderci il calore,
assaporando il riposo delle membra doloranti, riluttanti all'idea di
stiparci tutti nell'unica tenda. A nord giurerei di aver visto tremolare
un altro fuoco, ma quando cerco di farlo vedere agli altri la notte è
una cortina fitta, nera, impenetrabile.
I tre uomini propongono di dormire all'aperto e di fare la guardia a
turno. Sono commosso. - Fra qualche giorno, - dico, - quando farà un po'
più caldo -. Dormiamo male, quattro corpi stipati in una tenda per due.
La ragazza, vergognandosi, si mette nel punto più esterno.
Mi alzo prima dell'alba e comincio a scrutare verso nord. Quando il rosa
e il viola del sole nascente iniziano a fondersi nell'oro le macchie
riappaiono nella pianura deserta, non più tre, ma otto, nove, dieci,
forse dodici.
Con un bastone e una camicia di lino bianco preparo una specie di
bandiera e cavalco verso gli stranieri. Il vento è calato e l'aria è
tersa; mentre cavalco conto: dodici figure minuscole sul fianco di una
collina e oltre, molto oltre, l'accenno vago e spettrale del blu delle
montagne. Poi, mentre continuo a osservarle, le figure riprendono a
muoversi. Sono disposte in fila indiana e come formiche salgono su per
l'altura. Arrivate in cima si fermano. Una nuvola di polvere le oscura,
poi riappare il profilo dei dodici uomini a cavallo, stagliati contro il
cielo. Con la bandiera che mi frusta le spalle continuo a cavalcare
verso di loro, fissando la cima, eppure mi sfugge il momento in cui
svaniscono di nuovo.
- E' meglio ignorarli, - dico ai miei uomini. Ricarichiamo le bestie e riprendiamo la marcia verso i monti. Per quanto il carico si faccia ogni
giorno più leggero siamo comunque costretti, a malincuore, a frustare i
cavalli sfiniti.
La ragazza sanguina, è arrivato per lei quel periodo del mese. Non può
nasconderlo, non ha nessuna possibilità di privacy, non un cespuglio
dietro al quale nascondersi. E agitata e anche gli uomini lo sono. E' la
solita vecchia storia: il sangue mestruale porta sfortuna, al raccolto
come alla caccia, e ai cavalli. Gli uomini s'incupiscono, non la vogliono vicino agli animali, cosa impossibile, non vogliono che tocchi il loro cibo. Piena di vergogna, lei se ne sta in disparte tutto il
giorno e non ci raggiunge nemmeno per la cena. Quando ho finito di
mangiare porto una ciotola di fagioli e di gnocchi di farina nella tenda
dove se ne sta da sola.
- Non dovresti servirmi, - mi dice, - e io non dovrei nemmeno stare qui
nella tenda, ma non ho nessun posto dove andare -. Non critica la sua
esclusione.
- Non ti preoccupare, - le dico accarezzandole una guancia, e mi siedo
per un po' a farle compagnia mentre mangia.
Inutile cercare di costringere gli uomini a dormire nella tenda insieme
a lei. Dormono fuori, tengono il fuoco acceso e si alternano alla
guardia. Al mattino, per tranquillizzarli, officio una piccola cerimonia
di purificazione con la ragazza (perché anch'io, avendo dormito con lei,
sono impuro): traccio una linea sulla sabbia con uno stecco, poi mi lavo
le mani e le lavo anche a lei. Quindi le faccio varcare la linea
tracciata e la reintroduco nel campo. - Domani dovrai fare la stessa
cosa, - mi bisbiglia. Siamo in viaggio da dodici giorni, dodici giorni
in cui siamo diventati molto più intimi che in mesi di convivenza nello
stesso appartamento.
Siamo giunti ai piedi della collina. In lontananza, davanti a noi, gli
strani cavalieri risalgono il corso serpeggiante di un torrente secco.
Abbiamo abbandonato ogni tentativo di raggiungerli. Sappiamo che, anche
se ci seguono, in verità ci stanno facendo strada.
Il terreno diventa sempre più roccioso e noi procediamo sempre più
lentamente. Quando ci dobbiamo fermare, o per un momento perdiamo di
vista gli stranieri nascosti da un'ansa del torrente, non abbiamo più
paura che svaniscano.
Infine superiamo un crinale, sproniamo in ogni modo i cavalli, ce la
mettiamo tutta e, all'improvviso, li raggiungiamo. Emergono da dietro le
rocce, dietro una gola nascosta; montano pony malmessi, sono in dodici o
anche più, vestiti di pelli di montone, con grossi mantelli e cappucci.
Hanno la pelle scura, indurita dal vento, gli occhi obliqui; eccoli qui,
sono loro, i barbari in carne e ossa, nel loro territorio. Sono
abbastanza vicino a loro da sentirne l'odore: sudore di cavallo, fumo,
pelli semiconciate. Uno di loro mi punta sul petto un moschetto lungo
quanto un uomo con un poggiacanna fissato all'altezza della bocca da
fuoco. Mi si ferma il cuore in petto. - No, - bisbiglio e, con cautela,
lascio le redini che stringevo, per mostrare le mani vuote. Poi con
altrettanta lentezza mi giro, riprendo le redini e, inciampando e
scivolando per la scarpata, porto il cavallo una trentina di passi più
in basso, ai piedi dell'altura, dove mi aspettano i miei compagni.
I barbari, sopra di noi, si stagliano contro il cielo. Il battito del
mio cuore, gli zoccoli dei cavalli, l'ululare del vento. Nient'altro.
Abbiamo oltrepassato i confini dell'Impero. Non è uno scherzo.
Aiuto la ragazza a smontare da cavallo. - Ascoltami bene, - le dico: -
ora ti accompagno lassù da loro, e tu ci parli. Portati i bastoni,
perché si scivola e non c'è altro modo di salire fin là. Quando ci avrai
parlato potrai decidere cosa fare. Se vuoi andare con loro, se sono
disposti a riportarti a casa, seguili pure. Se invece vuoi ritornare con
noi, torni con noi. Hai capito? Non voglio forzarti in nessun modo.
Annuisce. E molto nervosa.
Le circondo le spalle col braccio e l'aiuto a salire su per la scarpata.
I barbari non si muovono. Tre imbracciano i moschetti a canna lunga, gli
altri portano gli archi corti che già conosco. Quando arriviamo in cima
indietreggiano leggermente.
- Li vedi? - chiedo ansimante.
Piega la testa in quel suo strano inspiegabile modo. - Non bene, - dice.
- Cieca, come si dice cieca?
Me lo dice. Mi rivolgo ai barbari. - Cieca, - dico, toccandomi le
palpebre. Non reagiscono. Il fucile, con la canna poggiata tra le
orecchie del pony, è sempre puntato contro di me. Il suo proprietario mi
guarda con occhi brillanti, allegri. Un silenzio interminabile.
- Parlagli, - dico alla ragazza. - Spiegagli perché siamo qui,
raccontagli la tua storia. Digli la verità.
Lei mi guarda in tralice e accenna un sorriso. - Davvero vuoi che gli
dica la verità?
- La verità. Che altro c'è da dire? Continua a sorridere, scuote la
testa e tace.
- Digli quello che vuoi. Solo, ora che ti ho portato fin dove mi è stato
possibile arrivare, voglio chiederti apertamente di tornare in città con
me. Di tua volontà -. Le stringo un braccio: - Mi capisci? E' questo che
voglio.
- Perché? - La parola le scivola con mortale dolcezza dalle labbra. Sa
che mi confonde, che mi ha sempre confuso, fin dall'inizio. L'uomo col
fucile avanza verso di noi, ci arriva quasi addosso. Lei scuote la
testa. - No, non voglio tornare in quel posto.
Mi affretto giù per la scarpata. - Accendete il fuoco, preparate il té,
ci fermiamo qui, - dico agli uomini. Dall'alto mi giunge, interrotta a
tratti dal vento, la morbida cascata di parole della ragazza. Sta in
piedi, appoggiata ai bastoni, e gli uomini, scesi da cavallo, le si sono
stretti intorno. Non capisco nemmeno una parola. «Che peccato, - mi
dico, - in tutte quelle lunghe sere vuote avrebbe potuto insegnarmi la sua lingua! Troppo tardi, ormai.»
Dalla sacca della sella tiro fuori i due piatti d'argento che mi sono
portato dietro per tutto il deserto. Estraggo dal suo involto il rotolo
di seta. - Vorrei che li prendessi, - dico. Guido la sua mano, perché
senta la morbidezza della seta, la cesellatura dei piatti, con gli
intrecci di pesci e foglie. Ho portato anche il suo piccolo fagotto. Non
so cosa contenga. Lo poggio a terra. - Ti porteranno fino a casa?
Annuisce. - Lui dice che ci arriveremo verso metà estate. Dice anche che
vuole un cavallo, per me.
- Digli che ci aspetta una strada lunga e dura. I nostri cavalli sono
ridotti male, come può vedere lui stesso. Chiedigli anzi se sono
disposti a venderci qualcuno dei loro cavalli. Digli che paghiamo in
argento.
Traduce al vecchio, mentre io aspetto. Gli altri sono scesi da cavallo,
ma lui è ancora in sella, con l'enorme vecchio fucile a tracolla sulla
schiena. Staffe, borchie, fibbie: niente è di metallo. Tutto è di osso o
di legno indurito sul fuoco, cucito con budella, tenuto insieme da lacci
di cuoio. Sono vestiti di lana e pelli di animali, nutriti fin
dall'infanzia a carne e latte. Non conoscono la morbidezza del cotone,
la tenerezza del grano e della frutta: sono stati cacciati dagli
altopiani, spinti su per le montagne, dall'avanzata dell'Impero. Prima
d'ora non avevo mai incontrato questi uomini del nord sul loro
territorio, in condizioni di parità. I barbari che conosco sono quelli
che vengono all'oasi per barattare le loro merci, i pochi che si
accampano lungo il fiume e quei poveretti catturati da Joll. Che
occasione - ma al tempo stesso che vergogna - essere qui oggi! Un giorno
i miei successori collezioneranno gli oggetti prodotti da questa gente -
punte di frecce, manici intagliati di coltelli, piatti di legno - e li
metteranno in mostra accanto alle mie uova di uccello e alle iscrizioni
delle mie misteriose tavolette. Ed eccomi qui a cercare di costruire un
ponte tra gli uomini del futuro e quelli del passato, a restituire con
tante scuse un corpo che abbiamo prosciugato. Un intermediario, insomma.
Uno sciacallo dell'Impero, nei panni dell'agnello.
- Dice di no.
Tiro fuori dalla sacca una delle piccole barre d'argento e la mostro al
barbaro. - Digli che questa è per un cavallo.
L'uomo si china, prende la barra luccicante, la mordicchia con cura.
Quindi la fa scomparire sotto la pelliccia.
- Dice di no. L'argento lo prende al posto del cavallo che ti lascia.
Non porta via il mio cavallo e al suo posto prende l'argento.
Sto per sbottare, ma a che servirebbe litigare? Lei va via. Se ne è già
quasi andata. E l'ultima volta che posso guardarla in faccia, analizzare le reazioni del mio cuore, cercare di capire chi è veramente. Dopo, lo
so, comincerò a ricrearla, utilizzando il repertorio dei ricordi,
secondo i miei discutibili desideri. Le tocco la guancia, le prendo la
mano. Su quest'arida collina, a metà mattina, non trovo traccia in me di
quel sonnolento erotismo che per notti e notti mi ha spinto verso il suo
corpo, e neppure dell'affettuoso cameratismo nato durante il viaggio.
Solo un gran vuoto, e la desolazione che debba esserci quel gran vuoto.
Quando le stringo più forte la mano non reagisce. Vedo fin troppo
chiaramente quello che vedo: una ragazza tarchiata, con la bocca larga e
la frangia, che guarda il cielo dietro di me, una straniera venuta da
luoghi sconosciuti che ora se ne torna a casa dopo un periodo tutt'altro
che felice. - Addio, - dico. - Addio, - dice. La sua voce è smorta, come
la mia. Mi avvio giù per la collina. Quando arrivo in fondo le hanno già
tolto i bastoni e la stanno aiutando a montare su un pony.
Per quel che si può affermare con ragionevole certezza, è arrivata la
primavera. L'aria è profumata e l'erba verde comincia a spuntare qua e
là, davanti a noi volano rincorrendosi a frotte le quaglie del deserto.
Se fossimo partiti adesso invece di due settimane fa saremmo andati più
spediti e non avremmo rischiato la vita. E però chissà se avremmo avuto
la stessa fortuna, chissà se avremmo trovato i barbari? Proprio ora, in
questo preciso momento, ne sono certo, stanno piegando le tende,
caricano i carri e radunano le greggi per la migrazione di primavera.
Non è stato un errore rischiare, anche se so che gli uomini mi criticano
per questo. («Trascinarci fin qui d'inverno, - immagino che dicano. -
Non avremmo dovuto accettare!» E chissà cosa penseranno, adesso che si
sono resi conto di non aver preso parte a una spedizione diplomatica
presso i barbari, come avevo detto, ma di aver solo scortato una donna,
una prigioniera barbara abbandonata, una persona di nessun conto, la
puttana del magistrato).
Cerchiamo di ripercorrere il più possibile la stessa strada fatta
all'andata, orientandoci con la posizione delle stelle che avevo
accuratamente trascritto. Abbiamo il vento alle spalle e l'aria è più
tiepida. Il carico dei cavalli è più leggero e sappiamo dove ci
troviamo. Non c'è motivo per non procedere spediti. Ma già alla prima
tappa c'è un contrattempo. Mi chiamano vicino al fuoco, dove un giovane
soldato se ne sta seduto con aria disperata, il viso tra le mani. Si è
tolto gli stivali e ha liberato i piedi dalle fasce.
- Guardi un po' quel piede, signore! - dice la guida. Il piede destro è
rosso e gonfio. - Che è successo?
- chiedo al ragazzo. Solleva il piede e mi mostra un calcagno incrostato
di sangue e di pus. Dalle fasce da piede sporche viene un odore di carne
imputridita.
- Da quant'è che hai il piede ridotto in quello stato? - urlo. Si copre
il viso. - Perché non hai detto niente? Non avevo forse dato ordine a
tutti di tenere i piedi puliti e cambiare le fasce a giorni alterni e di
lavarle? Di mettere l'unguento sulle vesciche e di fasciarle? C'era una ragione se ho dato quegli ordini. E adesso, come prosegui col piede in
quelle condizioni?
Tace. - Non voleva farci perdere tempo, - mormora il suo amico.
- Non voleva farci perdere tempo e ora dovremo riportarlo in lettiga! -
grido. - Fate bollire dell'acqua. Che si lavi quel piede e se lo fasci.
Come prevedevo la mattina dopo, quando cercano di aiutarlo a infilare lo
stivale, il ragazzo non riesce a dissimulare il forte dolore. Col piede
fasciato e infilato in un sacchetto riesce a zoppicare nei tratti di
strada più facili, ma per il resto deve andare a cavallo.
Quando questo viaggio finirà saremo felici tutti. Non ci sopportiamo
più.
Il quarto giorno arriviamo al letto della laguna morta e lo seguiamo per
parecchie miglia a sud-est prima di arrivare al posto dove avevamo
trovato l'acqua, con i tronchi mozzi di pioppo. Lì ci fermiamo un giorno
intero per raccogliere le forze per il tratto più duro. Friggiamo le
frittelle e facciamo bollire gli ultimi fagioli rimasti.
Me ne sto in disparte. Gli uomini parlano a bassa voce e smettono quando
mi avvicino. Tutta l'eccitazione iniziale è scomparsa e non solo perché
il momento culminante si è rivelato deludente - un breve incontro nel
deserto per poi riaffrontare lo stesso tragitto - ma perché la presenza
della donna aveva creato tra gli uomini una sorta di gara a sfondo
sessuale, una fraterna rivalità che ora si è trasformata in irritazione,
soprattutto nei miei confronti perché li ho trascinati in questa assurda
spedizione, nei confronti dei cavalli perché recalcitrano, nei confronti
del compagno col piede ferito perché rallenta la marcia, nei confronti
dei pesanti bagagli che devono portare e infine addirittura nei
confronti di se stessi. Decido, a mo' di esempio, di mettere il mio
sacco a pelo fuori, sotto le stelle, vicino al fuoco. Preferisco il
freddo dell'aria aperta al caldo soffocante di una tenda dove dormono
quattro uomini di pessimo umore. La notte successiva nessuno propone di
piantare la tenda e dormiamo tutti fuori.
Il settimo giorno procediamo sulla distesa salmastra. Perdiamo un altro
cavallo. Gli uomini, stanchi di fagioli e gallette, chiedono di poterlo
macellare e mangiare. Do il permesso ma non mi unisco a loro. - Io vado
avanti con i cavalli, - dico. Che si godano il loro banchetto. Non
voglio impedirgli di immaginare che sia mia la gola che tagliano, mie le
viscere che strappano, mie le ossa che rompono. Forse dopo saranno più
bendisposti.
Penso con nostalgia alla solita routine delle mie giornate di normale
lavoro, quando s'avvicina l'estate, con le lunghe sieste piene di sogni
e le conversazioni con gli amici al tramonto, sotto il noce, con i
camerieri che portano il té e le limonate e le appetibili ragazze che ci
passeggiano davanti nella piazza a gruppi di due o tre nei loro vestiti più belli. Solo qualche giorno è passato da quando ho salutato
quell'altra e già quasi non ne ricordo il viso. E' divenuto opaco,
impermeabile, come se stesse ricoprendosi di un guscio. Avanzando a
fatica su questa distesa di sale mi sorprendo a pensare con stupore di
aver potuto amare una creatura di un regno così remoto. Ora non desidero
altro che vivere la mia vita in pace in un mondo a me familiare, morire
nel mio letto e essere accompagnato alla tomba da vecchi amici.
Scorgiamo le torri che si stagliano contro il cielo a dieci miglia di
distanza. Siamo ancora sul sentiero a sud del lago quando l'ocra delle
mura comincia a staccarsi dallo sfondo grigio del deserto. Lancio
un'occhiata agli uomini dietro di me. Hanno affrettato il passo,
nascondono a fatica l'eccitazione. Sono tre settimane che non ci laviamo
e non ci cambiamo; puzziamo, abbiamo la pelle secca e nera per il vento
e il sole. Siamo esausti, ma marciamo come soldati, perfino il ragazzo
col piede ferito ci zoppica accanto col petto in fuori. Poteva andare
peggio. Forse sarebbe potuta andare meglio, ma poteva anche andare
peggio. Perfino i cavalli, con il ventre gonfio per l'erba di palude,
sembrano rianimarsi. Nei campi cominciano a spuntare i germogli
primaverili. Ci giunge il suono lontano di trombe, un drappello di
cavalieri esce dalle porte della città per accoglierci, il sole
risplende sugli elmi. Sembriamo spaventapasseri, sarebbe stato meglio se
avessi detto agli uomini di indossare l'armatura per queste ultime
miglia. Guardo i cavalieri che trottano verso di noi, aspettandomi che
da un momento all'altro si lancino al galoppo, sparino in aria salve di
fucile e comincino a gridare. Il loro atteggiamento invece si direbbe
efficiente, non hanno per niente l'aria di un drappello che venga a
darci il benvenuto. Comincio a rendermi conto che il corteo non è
seguito da bambini trotterellanti. Si dividono in due squadre e ci
circondano. Non riconosco neppure un volto, hanno sguardi duri, non
rispondono alle mie domande e ci scortano attraverso la porta aperta,
come prigionieri. Solo quando sbuchiamo nella piazza e vediamo le tende
e sentiamo il clamore, solo allora capiamo: è arrivato l'esercito. La
campagna annunciata contro i barbari è in atto.
CAPITOLO QUARTO.
Un uomo siede alla mia scrivania, nel mio ufficio dietro il tribunale.
Non l'ho mai visto prima, ma i gradi sulla camicia azzurra mi dicono che
è della Terza Divisione della Guardia civile. Accanto al gomito ha una
pila di cartelle marroni chiuse da nastri rosa, ne tiene una aperta
davanti. Riconosco quelle cartelle, sono i registri di cinquant'anni di
tasse e tributi. E mai possibile che le stia esaminando? Che cosa cerca?
Parlo:
- Posso esserle di aiuto?
Mi ignora, e quanto ai due rigidi soldati che mi scortano, potrebbero
anche essere di legno. Non penso nemmeno a protestare. Dopo le settimane
passate nel deserto non mi riesce difficile tacere. E poi provo una vaga esultanza all'idea che la falsa amicizia tra me e la Terza Divisione
stia per concludersi.
- Posso parlare con il colonnello Joll? - La butto lì. Non ho idea se
Joll sia tornato.
Non mi risponde, continua a fare finta di leggere i documenti. E' un
bell'uomo, coi denti bianchi e regolari e grandi occhi celesti. Ma è
vanitoso, penso. Me lo immagino seduto sul letto accanto a una donna:
gonfia i muscoli e gode della sua ammirazione. Insomma, il tipo d'uomo
che usa il suo corpo come una macchina, ignorandone i ritmi naturali.
Quando, tra un attimo, mi guarderà, lo farà da dietro quella sua bella
faccia impassibile, con quei suoi occhi chiari, come un attore dietro
una maschera.
Alza lo sguardo dalla pagina. Proprio come pensavo.
- Dov'è stato? - mi chiede.
- Sono stato via per un lungo viaggio. Mi spiace non essermi trovato qui
quando lei è arrivato, per offrirle ospitalità. Ma ora che sono
rientrato, quel che è mio è suo.
Dai gradi sulla camicia azzurra, vedo che è sottufficiale. Un
sottufficiale della Terza Divisione. Che vuol dire? Così a naso: cinque
anni passati a prendere a calci e a botte la gente, disprezzo per la
polizia regolare e per i regolari processi di legge, odio per i modi
civili come i miei. Ma forse lo sto giudicando ingiustamente; è tanto
che manco dalla capitale.
- Lei ha proditoriamente complottato col nemico, - mi dice.
Finalmente! «Proditoriamente complottato»: parla come un libro stampato.
- Siamo in tempo di pace, qui, - dico, - non abbiamo nemici -. Una
pausa. - A meno che non mi sbagli,
- dico, - a meno che non siamo noi il nemico.
Non sono sicuro che mi capisca. - Gli indigeni sono in guerra con noi, -
mi dice. Dubito che abbia mai visto un barbaro in vita sua. - Perché ha
complottato con loro? Chi l'ha autorizzata a lasciare il suo posto?
Scrollo le spalle di fronte alla provocazione. - E una faccenda
personale, - dico, - su questo deve fidarsi della mia parola. Non ho
intenzione di discuterne. Riconosco solo che il posto di magistrato di
un distretto non può essere abbandonato come quello di un portiere.
Cammino con una certa baldanza mentre le due guardie mi scortano in
prigione. - Spero che mi permetterete di lavarmi, - dico. Mi ignorano.
Non importa. Conosco la ragione della mia esultanza: la mia alleanza con i custodi
dell'Impero è finita. Mi sono messo contro, il legame è spezzato, sono
un uomo libero. Chi non sorriderebbe? E tuttavia, che pericolosa
allegria! Non dev'essere tanto facile la salvezza. E poi su che
principio si basa la mia opposizione? Non sarà forse solo una reazione
alla vista di uno dei nuovi barbari che usurpa la mia scrivania e fruga
tra le mie carte? E quanto alla libertà che sto per buttare via, che
valore ha per me? Mi sono davvero goduto la libertà totale di
quest'ultimo anno, in cui, come non mai in passato, la mia vita è stata
solo mia, da decidere momento per momento? Per esempio, la libertà di
fare quello che volevo della ragazza, di farne una moglie, una
concubina, una figlia, una schiava, o tutte queste cose insieme, o
niente di tutto ciò, a mio piacimento, perché non avevo nessun dovere
nei suoi confronti se non quello che di volta in volta sentivo? Chi non
accoglierebbe con gioia la reclusione come liberazione da quella
opprimente libertà? Nella mia opposizione non c'è niente di eroico,
questo non devo dimenticarlo neppure per un momento.
E la stanza della caserma che l'anno scorso hanno usato per gli
interrogatori. Resto da una parte mentre portano via i materassi e le
coperte dei soldati che ci dormivano e li ammucchiano sulla porta. I
miei tre uomini, ancora sporchi e tutti stracciati, emergono dalla
cucina e mi fissano. - Che state mangiando? - grido.
- Portatemi qualcosa prima che mi chiudano dentro!
- Uno di loro viene di corsa con la sua farinata di miglio macinato. -
La prenda, - mi dice. Le guardie mi fanno cenno di entrare. - Un momento
solo, - dico, - lasciate che mi porti le coperte, poi non vi darò più
noia -. Aspettano mentre io, godendomi un raggio di sole, divoro la
farinata come un morto di fame. Il ragazzo col piede ferito mi si
avvicina con una tazza di té, sorridendo. - Grazie, - dico. - Non
preoccuparti, non ti faranno niente, tu eseguivi solo gli ordini -. Con
le mie coperte e la mia vecchia pelle d'orso sotto il braccio entro
nella cella. Le macchie di fuliggine sono ancora sul muro dove prima
c'era il braciere. La porta si chiude e piomba il buio.
Dormo tutto il giorno e tutta la notte, a malapena disturbato dal rumore
dei picconi dall'altra parte del muro, dietro la mia testa, dal lontano
sferragliare delle carriole e dalle grida degli operai. Nel sogno sono
di nuovo nel deserto e arranco faticosamente nello spazio infinito verso
una meta oscura. Sospiro e mi inumidisco le labbra: - Cos'è questo
rumore? - chiedo alla guardia che mi porta da mangiare. Stanno buttando
giù le case costruite lungo il muro meridionale della caserma, mi dice:
amplieranno la caserma e costruiranno delle vere e proprie celle. - Ah,
giusto, - dico, - era ora che il nero fiore della civiltà sbocciasse -.
Non capisce.
Non ci sono finestre, solo un buco in alto sulla parete. Ma dopo un
giorno o due i miei occhi si sono adattati all'oscurità e debbo
schermarli con la mano, mattina e sera, quando spalancano la porta per
darmi da mangiare. L'ora migliore è la mattina presto, quando mi sveglio
e resto steso ad ascoltare il canto dei primi uccelli e guardo il
quadrato in alto sulla parete, in attesa dell'istante in cui l'oscurità
cederà il posto alla prima luce grigio tortora.
Mi danno le stesse razioni che danno ai soldati comuni. Ogni due giorni
il cancello della caserma viene chiuso per un'ora e io posso uscire per
lavarmi e camminare. Dall'altra parte del cancello ci sono sempre tante
facce assiepate a bocca aperta di fronte allo spettacolo della caduta di
uno che è stato potente. Tante di quelle facce le riconosco, ma nessuno
mi saluta.
Di notte, quando tutto si ferma, escono gli scarafaggi in
perlustrazione. Sento, o forse l'immagino, lo scatto corneo delle loro
ali, lo zampettio veloce sul pavimento. Sono attratti dall'odore del
secchio nell'angolo, dalle briciole di cibo sparse a terra e certamente
anche da questa montagna di carne che emana i suoi diversi odori di vita
e disfacimento. Una notte mi sveglia il passaggio leggero, come di una
piuma, di uno di loro sulla gola. Da quel momento in poi mi sveglio
spesso di scatto durante la notte, con la sensazione di un solletico,
cerco di liberarmi dalle loro antenne che mi saggiano le labbra, gli
occhi. E così che cominciano le ossessioni: attenzione.
Fisso tutto il giorno le pareti spoglie, incapace di credere che
l'impronta di tutto il dolore, di tutta la degradazione che hanno
racchiuso non si materializzi a uno sguardo attento. Oppure chiudo gli
occhi e cerco di affinare l'udito per captare il suono lievissimo delle
grida di tutti quelli che hanno sofferto qui e che ancora devono
riecheggiare tra queste mura. Prego che un giorno queste mura vengano
finalmente abbattute e l'inquieta eco possa essere finalmente liberata,
anche se è difficile ignorare il suono così vicino dei mattoni messi uno
sull'altro.
Aspetto con ansia l'ora della passeggiata, quando posso sentire il vento
sul viso e la terra sotto i piedi, vedere altre facce e ascoltare la
conversazione degli uomini. Dopo due giorni di solitudine le mie labbra
sono flosce e inutili e la mia voce risuona strana alle mie stesse
orecchie. Davvero l'uomo non è stato fatto per vivere solo! Costruisco
le mie giornate assurdamente attorno alle ore del pasto. M'ingozzo come
un cane. Una vita bestiale mi sta trasformando in una bestia.
E tuttavia è solo nei giorni vuoti, quando sono abbandonato
completamente a me stesso, che riesco a concentrarmi profondamente
sull'evocazione dei fantasmi racchiusi tra queste mura, fantasmi di
uomini e donne che, dopo essere stati qui dentro, non volevano più
mangiare e non erano più in grado di camminare senza aiuto.
Da qualche parte c'è sempre un bambino che viene picchiato. Penso a una
che malgrado la sua età era ancora bambina, una che è stata portata qui
dentro e torturata davanti agli occhi del padre, che ha assistito all'umiliazione del padre e ha visto che lui sapeva che lei vedeva.
O forse, arrivati a quel punto, lei già non ci vedeva più bene e doveva
aiutarsi a capire con altri mezzi: il tono che aveva preso la voce del
padre quando li implorava di smettere, per esempio.
Arrivo sempre a un punto in cui mi rifiuto di immaginare i particolari
di quello che è successo qui dentro.
Da quel momento lei non ha più avuto padre. Suo padre era annichilito,
era un uomo morto. Dev'essere stato allora, quando lei si è staccata da
lui, che lui si è avventato addosso ai suoi aguzzini, se c'è qualcosa di
vero nella storia che raccontano, e li ha graffiati come una bestia
selvaggia, finché non l'hanno bastonato a morte.
Per ore, a occhi chiusi, sto seduto per terra al centro della stanza,
nella tenue luce del giorno, e cerco di evocare l'immagine di quell'uomo
che ricordo a malapena. Tutto quello che riesco a vedere è una figura di
nome padre che potrebbe essere la figura di qualunque padre conscio che
sua figlia viene picchiata e non la può proteggere. Non può fare il suo
dovere nei confronti di una persona amata. E sa che per questo non sarà
mai perdonato. Questa consapevolezza di padre, questa consapevolezza
della condanna è troppo per lui, non la può sopportare. Non meraviglia
allora che abbia desiderato morire.
Ho dato alla ragazza la mia protezione, offrendomi, nel mio modo
equivoco, di farle da padre. Ma sono arrivato troppo tardi, quando lei
aveva smesso di credere nei padri. Volevo fare quel che era giusto,
riparare al male che le era stato fatto, non negherò questo dignitoso
impulso, sia pure mescolato ad altre, più discutibili motivazioni: ci
dev'essere sempre uno spazio per fare penitenza e offrire riparazione. E
però questo non toglie che non avrei mai dovuto permettere di aprire le
porte della città per far entrare gente convinta che esistano
considerazioni più importanti di quelle dettate dalla dignità. Le hanno
mostrato il padre nudo e l'hanno fatto farfugliare davanti a lei per il
dolore. L'hanno torturata di fronte a lui e lui non ha potuto fare
niente per impedirlo (quel giorno l'ho passato a sfogliare le mie
pratiche in ufficio). Dopo, lei non è stata più pienamente umana,
sorella di tutti noi. Certi affetti erano morti, certi moti del cuore
non erano più possibili. Anch'io, se resto abbastanza tra queste mura
con i fantasmi non solo della ragazza e di suo padre, ma anche dell'uomo
che perfino sotto la lampada non si toglieva quei cerchietti scuri dagli
occhi e di quel suo scagnozzo che aveva il compito di tenere acceso il
braciere, anch'io sarò contagiato e mi trasformerò in un essere che non
crede in niente.
Così continuo a volteggiare e a girare intorno alla figura irriducibile
della ragazza, gettandole addosso una rete di significati dopo l'altra.
Lei, appoggiata ai suoi due bastoni, guarda vagamente verso l'alto. Cosa
vede? Le ali protettrici di un albatro custode, o la sagoma nera di un
corvo vigliacco, che ha paura di colpire finché la sua preda ancora
Pag 69respira?
Anche se le guardie hanno l'ordine di non rivolgermi la parola, non è
difficile mettere insieme una storia coerente dai brani di conversazione
che sento quando esco in cortile. Ultimamente non si parla d'altro che
dell'incendio lungo il fiume. Cinque giorni fa era solo una macchia più
scura sulla nebbia, a nord-ovest. Da allora ha camminato lungo il corso
del fiume, spegnendosi a tratti ma poi riaccendendosi sempre e ora è ben
visibile dalla città come un cupo sudario sul delta, laddove il fiume si
butta nel lago.
Posso immaginare quel che è successo. Qualcuno deve aver deciso che le
rive del fiume offrivano troppo riparo ai barbari e che il fronte
fluviale sarebbe stato molto più facile da difendere eliminando la
vegetazione sulle dune. Così hanno appiccato il fuoco. Col vento che
soffiava da nord le fiamme si sono propagate per tutta la bassa valle.
Ne ho visti altri di incendi così. Il fuoco corre tra le canne e i
pioppi bruciano come torce. Gli animali abbastanza veloci, come
l'antilope, le lepri, i gatti, scappano. Stormi di uccelli volano via
terrorizzati. Tutto il resto muore. Ma sono talmente tanti i tratti
spogli lungo il fiume che il fuoco raramente si propaga. Dunque in
questo caso è chiaro che ci dev'essere stata una squadra di uomini a
seguire il fuoco, a controllarne l'avanzata. Non si preoccupano del
fatto che una volta bruciata la vegetazione il vento comincia a
corrodere il suolo e il deserto avanza. E' così che la forza di
spedizione contro i barbari si prepara alla sua campagna: distrugge la
terra, devasta il nostro patrimonio.
Gli scaffali sono stati svuotati, spolverati e lucidati. Il piano della
scrivania brilla per quant'è lucido ed è tutto sgombro, salvo per un
piattino con dentro biglie di vari colori. La stanza è immacolata. In un
angolo, su un tavolino, un vaso di fiori di ibisco profuma l'aria. Per
terra c'è un tappeto nuovo. Il mio ufficio non è mai stato così bello.
Sto lì ad aspettare con la guardia accanto, indosso gli stessi vestiti
con cui ho viaggiato e la biancheria che ho lavato un paio di volte; ma
la giacca ancora puzza di fumo per i fuochi di campo. Guardo il gioco
della luce sui fiori di mandorlo fuori dalla finestra e sono contento.
Dopo una lunga attesa arriva, butta un fascio di fogli sulla scrivania e
si siede. Mi fissa senza parlare. Sta cercando, anche se in modo un po'
troppo teatrale, di intimidirmi. L'attenta riorganizzazione del mio
ufficio dal disordine e dalla polvere a questo perfetto e spoglio
nitore, la lenta disinvoltura con cui attraversa la stanza, la contenuta
insolenza con cui mi fissa, tutto questo ha un senso: non solo farmi
capire che è lui che comanda (e come potrei contestarlo?) ma anche che
sa come ci si comporta in un ufficio, sa perfino introdurvi una nota di
funzionale eleganza. Perché mi ritiene degno di tanto sfoggio? Perché,
malgrado i miei abiti sporchi e la barba incolta, sono pur sempre uno di
una vecchia famiglia, per quanto caduto in basso e spregevolmente
degradato? Ha paura forse che gli rida in faccia se non si arma di un
Pag 70
certo decoro, scopiazzato, non ne dubito, dall'attenta osservazione
degli uffici dei suoi superiori della Terza Divisione? Non mi crederà se gli dico che non importa. Devo stare attento a non sorridere.
Si schiarisce la gola. - Le leggerò qualcosa dalle deposizioni che abbiamo raccolto, magistrato, - dice, - così potrà rendersi conto della gravità delle accuse contro di lei -. Fa un cenno e la guardia lascia la
stanza.
ingiusta: «Qualcosa mi ha guardato dritto in faccia e io ancora non la vedo.»
In copertina: Una fotografia di Elizabeth Zeilon. © Photonica.
Capitolo primo.
Mai visto niente del genere. Due dischetti di vetro cerchiati di metallo davanti agli occhi. E' cieco? Capirei se fosse cieco, se volesse nascondere occhi che non vedono. Ma non è cieco. I dischetti sono scuri,
dall'esterno sembrano opachi, però lui ci vede attraverso. Mi spiega che sono un'invenzione nuova. - Proteggono gli occhi dal riverbero del sole, - dice. - Sarebbero utili qui nel deserto. Ti evitano di strizzare gli occhi in continuazione. E di avere mal di testa. Guardi -. Si sfiora gli angoli degli occhi. - Niente rughe -. E si rimette gli occhiali. E' vero. Ha la pelle di un uomo più giovane. - Da noi li portano tutti. Siamo seduti nella stanza migliore della locanda, davanti a un fiasco e
a una ciotola di nocciole. Non parliamo del motivo per cui è venuto. E' qui a causa dello stato di emergenza e tanto basta. Invece parliamo di caccia. Mi racconta dell'ultima battuta a cui ha partecipato: migliaia di cervi, di cinghiali, di orsi abbattuti. Talmente tanti che hanno dovuto lasciare lì a marcire una montagna di carcasse («un peccato»). Io gli racconto degli stormi di oche e di anatre che calano sul lago tutti gli anni nel periodo della migrazione e dei modi in cui li catturano gli
indigeni. Propongo di portarlo a pesca una notte su una barca indigena.
- È un'esperienza da non perdere, - gli dico, - i pescatori portano le torce e suonano i tamburi sull'acqua per spingere i pesci nelle reti che
hanno gettato -. Annuisce. Mi racconta di un altro posto in cui è stato, sulla frontiera, dove mangiano certi serpenti come fossero una prelibatezza, e di un'enorme antilope che ha abbattuto.
Si muove a tentoni tra l'arredo che non conosce ma non si toglie gli occhiali scuri. Va a letto presto. Alloggia qui nella locanda perché è il posto migliore in città. Ho spiegato bene al personale che si tratta
di un personaggio importante: - Il colonnello Joll è della Terza Divisione, - ho detto. - E la Terza Divisione oggi è la sezione più importante della Guardia civile -. O almeno questo è quanto dicono le voci che ci arrivano con molto ritardo dalla capitale. Il padrone della locanda annuisce, le cameriere chinano la testa.
- Dobbiamo fargli una buona impressione.
Porto la mia stuoia fuori, sui bastioni, dove la brezza notturna allevia un po' il gran caldo. Al chiaro di luna intravedo le sagome di altri che dormono sui tetti piatti della città. In piazza, sotto gli alberi di noce, alcuni ancora parlano, mi giunge il mormorio della conversa-zione.
Nell'oscurità balugina il fornello di una pipa, come una lucciola, svanisce, si riaccende. L'estate volge lentamente al termine. I frutteti gemono sotto il peso dei frutti maturi. L'ultima volta che sono stato nella capitale ero ancora ragazzo.
Mi sveglio prima dell'alba e passo in punta di piedi vicino ai soldati che si muovono e sospirano nel sonno; sognano le madri e le fidanzate.
Scendo giù per le scale. Dal cielo mille stelle ci guardano. Siamo davvero sul tetto del mondo. Svegliarsi all'aperto, di notte, è abbacinante.
Sul cancello, la sentinella dorme profondamente, seduta a gambe incrociate, abbracciata al moschetto. La guardiola del facchino è chiusa, fuori c'è il suo carrello. Passo oltre.
- Non abbiamo alloggi speciali per i detenuti, - gli spiego. - Non c'è molta criminalità qui e in genere la pena consiste in una multa o in un po' di lavoro forzato. Questa baracca è solo un magazzino collegato al granaio, come vede -. Dentro puzza di chiuso e di sporco. Non ci sono finestre. I due prigionieri stanno a terra, legati. Il tanfo viene da loro, è di urina vecchia. Chiamo la guardia. - Falli lavare, subito per favore. Scorto il mio ospite nel granaio, che è fresco e buio.
- Speriamo di fare tremila staia quest'anno dalle terre demaniali. Seminiamo una volta sola. Ma è stata una buona annata questa per noi.
Parliamo dei ratti e di come contenerne il numero. Quando rientriamo nella baracca c'è odore di cenere bagnata e i prigionieri sono pronti, inginocchiati in un angolo. Un vecchio e un ragazzo.
- Li hanno presi
qualche giorno fa, - dico.
- C'è stata una razzia a una ventina di miglia da qui. E' insolito, in genere si tengono alla larga dal forte. Questi due sono stati catturati dopo. Sostengono di non avere niente a che fare con la scorreria. Non so, forse dicono la verità. Se ci vuole parlare naturalmente posso aiutarla con la lingua.
Il ragazzo ha la faccia tumida e piena di lividi, non riesce ad aprire un occhio per quanto è gonfio. Mi accovaccio vicino a lui e gli do un buffetto su una guancia. - Stammi a sentire, ragazzo mio, - dico nel dialetto della frontiera, - ti vogliamo parlare.
Non reagisce.
- Fa finta, - dice la guardia, - in realtà capisce.
- Chi l'ha picchiato?
- Non sono stato io, - dice la guardia, - era già ridotto così quando è arrivato.
- Chi ti ha picchiato? - gli chiedo.
Non mi ascolta. Guarda fisso oltre la mia spalla, non la guardia, ma il colonnello Joll che le sta accanto.
Mi rivolgo a Joll. - Non deve aver mai visto niente del genere -.
Accenno agli occhiali. - Dico gli occhiali. Penserà che sia cieco -. Ma Joll non risponde al mio sorriso. Davanti ai prigionieri evidentemente
bisogna mantenere un certo contegno.
Mi accovaccio davanti al vecchio. - Padre, stammi a sentire. Vi abbiamo portati qui perché vi abbiamo presi dopo che è stato rubato il nostro
bestiame. Una brutta storia. Sai che puoi essere punito per questo? Si inumidisce le labbra con la lingua. E' terreo, sfinito.
- Padre, lo vedi questo signore? E' venuto qui dalla capitale. Sta visitando tutti i forti sulla frontiera. Il suo compito è scoprire la verità. Lui scopre la verità. Se non parli con me dovrai parlare con lui, capisci?
- Eccellenza, - dice. La voce è gracchiante, si schiarisce la gola. - Eccellenza, noi non ne sappiamo niente del furto. I soldati ci hanno presi e legati senza motivo. Senza motivo. Eravamo per strada, stavamo
andando dal medico. Questo è il figlio di mia sorella. Ha una piaga che non si rimargina. Non siamo ladri. Fa' vedere la piaga ai signori.
A fatica, con una mano e coi denti, il ragazzo comincia a srotolare le pezze che gli fasciano l'avambraccio. Gli ultimi giri, incrostati di
sangue secco e di pus, sono incollati alla carne, ma lui solleva il bordo per mostrarmi il margine rosso vivo della ferita.
- Vede, - dice il vecchio, - non c'è niente da fare, non si rimargina.
Lo stavo portando dal medico, quando i soldati ci hanno fermato. Tutto qui.
Vado via col mio ospite. Riattraversiamo la piazza. Tre donne ci oltrepassano, di ritorno dalla chiusa del canale con i catini del bucato sulla testa. Ci guardano incuriosite, col collo teso e rigido. Il sole
picchia forte.
- Sono i primi prigionieri dopo tanto tempo, - dico. - E una
coincidenza. Normalmente non avremmo avuto barbari da mostrarle. Il cosiddetto banditismo dopotutto non è così grave. Rubano qualche pecora o portano via da un convoglio qualche bestia da soma. A volte per rappresaglia siamo noi a fare un'incursione. Per lo più sono gruppi di poveretti che vivono lungo il fiume con le loro piccole greggi. Vivono così. Il vecchio dice che erano venuti a cercare un medico. Forse è
vero. Nessuno avrebbe portato un vecchio e un ragazzo malato in una scorreria. Mi rendo conto che li sto difendendo.
- Naturalmente non si può esserne certi. Ma anche se mentono, che spera di tirare fuori da due poveretti come quelli?
Cerco di vincere l'irritazione che mi creano i suoi impenetrabili silenzi e la ridicola aria di mistero di quegli schermi scuri che
nascondono occhi sani. Cammina con le mani giunte davanti, come una donna.
- Comunque, - dice, - devo interrogarli. Stasera, se è possibile. Porterò con me il mio assistente. E poi avrò bisogno di qualcuno che mi
aiuti con la lingua. La guardia, per esempio. La parla?
- Riusciamo tutti a farci capire. Preferisce che io non ci sia?
- Si annoierebbe. Dobbiamo seguire una serie di procedure.
Le urla che la gente, in seguito, sosterrà di aver sentito provenire dal granaio, io non le sento. Mentre sbrigo le mie cose, quella sera, sono
perfettamente, continuamente conscio di ciò che forse sta succedendo. Ho perfino l'orecchio teso per cogliere il suono del dolore umano. Ma il granaio è un edificio massiccio con pesanti porte e piccole finestre; sta dietro il mattatoio e il mulino, nel quartiere meridionale. E poi quello che prima era un avamposto e dopo un forte sulla frontiera è
diventato un centro agricolo, una cittadina di tremila anime, in cui il rumore della vita, il rumore di tutta quella gente in una calda sera d'estate, non si ferma perché da qualche parte qualcuno grida. (A un certo punto comincio a perorare la mia causa).
Quando rivedo il colonnello Joll, appena ha un momento libero, porto la conversazione sulla tortura.
- E se il suo prigioniero dice la verità, - chiedo, - e tuttavia gli succede di non essere creduto? Non è una condizione terribile? Pensi un po', essere pronti a cedere, cedere e non avere più niente da cedere. Essere ridotti allo stremo ed essere forzati a cedere ancora! Che responsabilità per l'inquisitore! Come fa a sapere se un uomo le ha detto la verità?
- C'è un tono particolare, - dice Joll. - Un tono particolare nella voce dell'uomo che dice la verità. L'allenamento e l'esperienza ci insegnano a riconoscere quel tono.
- Il tono della verità! Riesce a riconoscerlo nella normale conversazione? Riesce a capire se dico la verità?
E' il momento di maggiore intimità che abbiamo avuto finora, lo scaccia con un lieve gesto della mano.
- No, lei adesso mi fraintende. Mi riferisco a una situazione particolare. A una situazione in cui cerco la verità e in cui devo esercitare una certa pressione per scoprirla. In
principio mi dicono solo bugie, capisce... succede sempre così: prima bugie, poi pressione, poi ancora bugie, ancora pressione, quindi il
crollo, ancora pressione e alla fine la verità. E' così che si arriva alla verità.
Il dolore è verità; tutto il resto è soggetto al dubbio. E questo che ricavo dalla mia conversazione col colonnello Joll. Con le sue unghie appuntite, i fazzoletti color malva e i piedi magri nelle scarpe di morbida pelle, continuo a immaginarmelo nella capitale, dove è
chiaramente impaziente di tornare, nei ridotti dei teatri durante gli intervalli, mentre parla a bassa voce con gli amici.
(E d'altro canto chi sono io per asserire la mia distanza da lui? Bevo con lui, mangio con lui, lo porto a spasso, gli offro tutta l'assistenza richiesta dalla lettera di incarico e anche di più. L'Impero non impone ai suoi servitori di amarsi, ma solo di fare il loro dovere).
Il rapporto che ricevo da lui, nella mia veste di magistrato, è breve.
Durante il corso dell'interrogatorio sono emerse contraddizioni evidenti nella testimonianza del prigioniero. Messo di fronte a quelle contraddizioni il prigioniero si è infuriato e ha aggredito il funzionario che lo interrogava. E' seguita una colluttazione durante la
quale il prigioniero è andato a sbattere violentemente contro il muro.
Ogni sforzo per fargli riprendere conoscenza è stato vano. Per scrupolo di completezza, come richiesto dalla lettera della legge, convoco la guardia e le chiedo di fare una dichiarazione. Parla e io trascrivo le sue parole. «Il prigioniero, perso il controllo, ha attaccato l'ufficiale. Sono stato chiamato in soccorso, ma quando sono
arrivato la lotta era già finita. Il prigioniero era privo di sensi e perdeva sangue dal naso.» Gli indico dove apporre la croce e lui prende con deferenza la penna che gli porgo.
- Te l'ha suggerito l'ufficiale cosa dire? - gli chiedo pacatamente.
- Sì, signore, - mi risponde.
- Il prigioniero aveva le mani legate?
- Sì, signore. Anzi no, signore.
Lo congedo e compilo l'autorizzazione per la sepoltura. Ma prima di andare a dormire prendo una lanterna, attraverso la piazza e raggiungo il granaio passando per le strade laterali. Davanti alla porta della baracca c'è una guardia nuova, un altro giovane contadino, che dorme, avvolto in una coperta. Quando mi avvicino un grillo smette di
cantare. Il rumore del catenaccio non sveglia la guardia. Entro nella baracca tenendo alta la lanterna. Mi rendo conto che sto violando quella che è diventata terra sacra, o profana, ammesso che ci sia una differenza tra le due cose, riserva dei misteri di Stato.
Il ragazzo giace su un pagliericcio in un angolo, è vivo e tutto intero.
Sembra che dorma, ma la tensione della sua posizione lo tradisce. Ha le mani legate davanti. Nell'altro angolo c'è un lungo fagotto bianco.
Sveglio la guardia.
- Chi ti ha detto di lasciare lì il corpo? Chi l'ha cucito?
Sente la rabbia nella mia voce. - E' stato l'uomo venuto con l'altra Eccellenza, signore. Era qui quando sono montato di guardia. Ha detto al ragazzo, l'ho sentito io: «Dormi col nonno, tienilo caldo.» Ha lasciato intendere di voler cucire anche il ragazzo dentro a quel sudario, lo
stesso sudario, ma poi non l'ha fatto.
Mentre il ragazzo continua a dormire tutto rigido, con gli occhi serrati, portiamo fuori il cadavere. Nel cortile, con la guardia che regge la lanterna, trovo la cucitura con la punta del coltello. Apro il sudario e lo tiro giù scoprendo la testa del vecchio.
La barba grigia è incrostata di sangue. Le labbra sono spaccate e lacere, i denti rotti. Un occhio è rovesciato all'indietro e l'altra orbita è tutta un grumo di sangue. - Chiudilo, - dico. La guardia
raccoglie la stoffa per chiuderlo. Si riapre.
- Dicono che ha sbattuto
la testa contro il muro. Che ne pensi? - Mi guarda diffidente.
- Prendi un po' di corda e richiudilo stretto.
Illumino il ragazzo con la lanterna. Non si è mosso, ma quando mi chino e gli tocco una guancia sussulta e comincia a tremare. Lunghi fremiti gli scuotono il corpo.
- Stammi a sentire, ragazzo, - gli dico, - non ti farò alcun male -.
Si gira sulla schiena e si copre la faccia con le mani legate. Sono gonfie e violacee. Cerco di allentare i nodi. Con questo ragazzo ogni mio gesto è sempre goffo.
- Ascolta, devi dire la verità al colonnello. E' solo questo che vuole da te: la verità. Se si
convince che gli dici la verità non ti farà del male, ma tu devi dirgli tutto quello che sai. Devi rispondere sinceramente a ogni domanda che ti fa. Se senti dolore non ti scoraggiare -.
Alla fine lavorando sul nodo
sono riuscito ad allentare la corda.
- Strofinati le mani finché il
sangue non riprende a circolare -.
Sfrego le sue mani tra le mie. Lui piega le dita dolorosamente. Non posso pretendere di essere qualcosa più di una madre che cerca di consolare il figlio tra un accesso e l'altro di rabbia del padre. Non mi sfugge il fatto che l'inquisitore può avere
due maschere, parlare con due voci diverse, una dura e l'altra suadente.
- Ha mangiato qualcosa stasera? - chiedo alla guardia.
- Non lo so.
- Ti hanno dato qualcosa? - chiedo al ragazzo. Lui scuote la testa. In petto il cuore mi sembra sempre più pesante. Non avrei mai voluto essere
trascinato in tutto questo. Non so dove andrà a finire. Mi rivolgo alla guardia.
- Adesso vado via, ma ci sono tre cose che devi fare. Primo:
quando le mani di questo ragazzo andranno un po' meglio dovrai legarle di nuovo, ma non troppo strette, perché non si gonfino. Secondo: devi lasciare il cadavere dov'è, nel cortile. Non riportarlo dentro.
Domattina presto lo manderò a prendere per la sepoltura e tu lo consegnerai agli incaricati. Se ti fanno domande di' che sono stato io a ordinartelo. Terzo: adesso devi chiudere a chiave la baracca e venire con me. In cucina troverò qualcosa da mangiare per il ragazzo, tu glielo porterai. Vieni.
Non volevo impegolarmi in questa cosa. Sono un magistrato, un funzionario responsabile al servizio dell'Impero; faccio il mio lavoro in questo pigro territorio di frontiera e aspetto di andare in pensione.
Incasso tasse e decime, amministro le terre demaniali, mi assicuro che la guarnigione riceva rifornimenti e controllo i giovani funzionari, che sono poi gli unici funzionari che abbiamo qui, tengo d'occhio il
commercio e presiedo il tribunale due volte a settimana. Per il resto guardo l'alba e il tramonto, mangio e dormo, e mi accontento. Quando morirò spero di meritare tre righe in corpo minore sulla gazzetta dell'Impero. Non ho chiesto altro che una vita tranquilla in tempi tranquilli.
Ma l'anno scorso dalla capitale sono cominciate ad arrivare voci di tumulti tra i barbari. Viaggiatori attaccati e depredati su strade prima
ritenute sicure. Razzie di bestiame sempre più numerose e più audaci. Ufficiali del censimento scomparsi e ritrovati in fosse poco profonde. Colpi d'arma da fuoco sparati contro un governatore provinciale durante un giro di ispezione. Scontri con la polizia di frontiera. Girava la voce che i barbari si stessero armando. L'Impero doveva prendere le
dovute misure perché certamente ci sarebbe stata la guerra. Di tutti questi tumulti io non ho visto niente. Personalmente mi sono reso conto che, a ogni generazione, a un certo punto si diffonde una specie di isteria sui barbari. Non c'è donna che viva nei territori di frontiera che non abbia sognato la nera mano di un barbaro che
l'afferrava per una caviglia spuntando da sotto il letto. Non c'è uomo che non sia stato colto dal terrore al pensiero di un'incursione di
barbari nella sua casa: piatti rotti, tende in fiamme, figlie
violentate. Questi sogni sono il risultato di una vita troppo
tranquilla. Fatemi vedere un esercito di barbari e ci crederò.
La preoccupazione nella capitale era che le tribù barbare del nord e dell'ovest potessero riunirsi. Ufficiali dello stato maggiore sono stati inviati a controllare le frontiere. Alcune guarnigioni sono state rinforzate. Ai mercanti che le avevano richieste sono state date scorte armate. E per la prima volta sulla frontiera sono stati visti gli ufficiali della Terza Divisione della Guardia civile, i difensori dello Stato, specializzati nei più oscuri moti di sedizione, devoti servitori della verità, dottori dell'interrogatorio. Dunque sembra che stiano per finire i miei anni tranquilli, in cui potevo dormire con l'anima in pace, sapendo che con una botta da una parte e una spinta dall'altra il mondo avrebbe continuato dritto per la sua strada. Se solo mi fossi
limitato a consegnare quei due prigionieri al colonnello:
- Ecco qua, colonnello! E lei lo specialista, veda cosa può cavare da questi due! -
Se fossi andato via per una battuta di caccia, come del resto era in programma, o magari per un'escursione lungo il fiume e poi, al ritorno, mi fossi limitato ad apporre il mio sigillo al suo rapporto senza neppure leggerlo o scorrendolo appena e comunque senza preoccu-parmi di indagare sul significato della parola investigazione, su che cosa ci
fosse sotto, come un'anima in pena sotto un sasso tombale - se avessi fatto la cosa giusta, allora forse adesso mi potrei dedicare tranquillamente alla caccia grossa e a quella col falcone, abbandonarmi
alla mia placida concupiscenza in attesa che provocazioni e agitazioni
lungo la frontiera finiscano. E invece, ohimè, non me ne sono andato: per un po' ho teso l'orecchio ai rumori che venivano dalla baracca
vicino al granaio, quella dove tengono gli attrezzi, poi, di notte, ho preso la lanterna e sono andato a vedere coi miei occhi. Da un capo all'altro dell'orizzonte la terra è bianca di neve. Cade da un cielo in cui la fonte di luce è diffusa e onnipresente, come se il sole si fosse dissolto nella nebbia, trasformato in un'aura. In sogno varco il cancello della caserma, oltrepasso l'asta senza bandiera. Mi si apre davanti la piazza, che ai limiti si fonde col cielo luminoso. Muri, alberi, case, come contratti, hanno perso solidità, si sono asserragliati all'estremità del mondo.
Mentre scivolo attraverso la piazza figure scure si staccano da quel biancore, sono bambini che giocano. Costruiscono un castello di neve in cima al quale hanno piantato una bandierina rossa. Stivali, guanti, sciarpe e cappucci li difendono dal freddo. Portano manciate di neve, una dopo l'altra, e così intonacano le pareti del loro castello, lo completano. Dalle loro bocche il respiro esce in nuvolette bianche.
Hanno quasi finito i bastioni intorno al castello. Cerco di afferrare lo strano, fluttuante borbottio delle loro voci, ma non capisco una parola.
Mi rendo conto di essere una massa pesante, scura, e non mi meraviglio che man mano che mi avvicino i bambini se la squaglino da una parte e dall'altra. Tutti tranne una. Più grande degli altri, forse non è nemmeno una bambina. Sta seduta nella neve, incappucciata, e lavora alla
porta del castello, mi volge le spalle. A gambe aperte scava, liscia, modella. Sto dietro di lei e guardo. Non si gira. Cerco di immaginarne il viso tra i lembi del cappuccio a punta, ma non mi riesce.
Il ragazzo giace supino, nudo, addormentato, ha il respiro corto e affannoso. La pelle è lucida di sudore. Per la prima volta non ha il braccio fasciato e vedo la brutta piaga aperta e infiammata. Avvicino la
lanterna. Il ventre e i testicoli sono punteggiati di croste, lividi e tagli, alcuni segnati da rivoletti di sangue.
- Che gli hanno fatto? - sussurro alla guardia, lo stesso ragazzo della
notte scorsa.
- Un coltello, - bisbiglia a sua volta. - Un coltellino piccolo così -.
Divarica pollice e indice. Impugnando il suo coltellino d'aria, con
gesto deciso, lo ficca nel corpo del ragazzo addormentato e poi lo
rigira delicatamente, come una chiave, prima a sinistra, poi a destra.
Quindi lo ritira, abbassa la mano e resta lì, in attesa.
Mi chino sul ragazzo, gli illumino il viso e lo scuoto. Apre gli occhi
stancamente e li richiude. Sospira, il respiro affannoso si fa più
lento. - Ascoltami, - gli dico, - era un brutto sogno. Ora svegliati -.
Apre gli occhi, sbatte le palpebre infastidito dalla luce, mi mette a
fuoco.
La guardia gli offre un pentolino d'acqua. - Può stare seduto? - chiedo.
La guardia scuote il capo e tira su il ragazzo, lo aiuta a bere.
- Stammi a sentire, - gli ripeto. - Dicono che hai confessato. Che hai
ammesso di aver rubato pecore e cavalli insieme al vecchio e ad altri
uomini della tua tribù. Hai detto che gli uomini della tua tribù si
stanno armando e che in primavera, tutti insieme, muoverete guerra
all'Impero. E' vero quello che hai detto? Ti rendi conto di che cosa
significa la tua confessione? Te ne rendi conto? - M'interrompo, il
ragazzo reagisce alla mia veemenza con lo sguardo vacuo, come di uno che
sia esausto dopo una lunga corsa. - Significa che i soldati
attaccheranno la tua gente. Ci saranno dei morti. Morirà la tua gente,
forse anche i tuoi genitori, le tue sorelle, i tuoi fratelli. Davvero
vuoi questo? - Non reagisce. Lo scuoto per le spalle, lo schiaffeggio.
Non batte ciglio, è come schiaffeggiare un cadavere. - Deve stare
malissimo, - bisbiglia la guardia, - soffre molto. E' ridotto male -. Il
ragazzo richiude gli occhi.
Chiamo l'unico medico che abbiamo qui. Un vecchio che si guadagna la
vita cavando denti e preparando afrodisiaci con farina d'ossa e sangue
di lucertola. Mette una poltiglia di argilla sulla piaga e spalma un
unguento su quell'infinità di tagli. Promette che nel giro di una
settimana il ragazzo sarà in grado di camminare. Raccomanda cibo
nutriente e scappa via. Non chiede in che modo il ragazzo si sia fatto
tutte quelle ferite.
Ma il colonnello è impaziente. Vuole fare un'incursione lampo tra i
nomadi e prendere altri prigionieri. Il ragazzo dovrà fargli da guida.
Mi chiede di dargli trenta dei quaranta uomini della guarnigione e di
fornirgli i cavalli.
Cerco di dissuaderlo. - Senza offesa, colonnello, - dico, - lei non è un
soldato di mestiere, non ha mai fatto una campagna in queste lande
inospitali. Vuole portarsi come unica guida un ragazzino a cui incute
tanta paura che dirà qualsiasi cosa gli passi per la testa pur di compiacerla e che comunque non è in grado di viaggiare. E non può
contare sull'aiuto dei soldati, sono solo contadini di leva, molti non
si sono mai allontanati più di poche miglia da qui. I barbari che
insegue fiuteranno nell'aria i vostri movimenti e si dilegueranno nel
deserto quando ancora sarete a un giorno di marcia da loro. Vivono qui
da sempre, conoscono la terra. Noi due siamo stranieri, lei ancora più
di me. In tutta sincerità le consiglio di non partire.
Mi sta a sentire, anzi (mi pare) mi dà addirittura corda. Sono sicuro
che, dopo, questa conversazione verrà trascritta, col commento «non
affidabile.» Dopo avermi ascoltato per un po' liquida le mie obiezioni:
- Mi è stato assegnato un compito, magistrato. Solo io posso giudicare
quando il mio lavoro sarà concluso -. E va avanti con i suoi
preparativi.
Viaggia nella sua carrozza nera a due ruote, con la brandina e lo
scrittoio pieghevole legati sul tetto. Gli do i cavalli, i carri, il
foraggio e le provviste per tre settimane. Lo accompagna un giovane
sottotenente della guarnigione, al quale mi rivolgo in privato. - Non ti
fidare della guida. E' un ragazzo debole e terrorizzato. Occhio al tempo
e alla strada, alle sue caratteristiche. Il tuo primo dovere è riportare
a casa sano e salvo il nostro ospite -. Annuisce.
Mi rivolgo di nuovo a Joll per avere un'idea delle sue intenzioni.
- Sì, - dice, - naturalmente non voglio impegnarmi a seguire un piano
prestabilito ma, in linea di massima, cercheremo di individuare
l'accampamento dei suoi cari nomadi e poi ci regoleremo secondo le
circostanze.
- Chiedevo, - continuo, - solo perché se vi doveste perdere sarebbe
compito nostro venirvi a cercare e riportarvi alla civiltà -. In
silenzio assaporiamo, dai nostri diversi punti di vista, l'ironia della
definizione.
- Sì, certo, - dice, - ma è improbabile. Per fortuna possiamo contare
sulle ottime mappe della regione che lei stesso ci ha fornito.
- Sono mappe basate su dicerie, colonnello. Le ho messe insieme grazie
ai racconti fatti dai viaggiatori negli ultimi dieci o venti anni. Io
stesso non sono mai arrivato dove lei pensa di andare. Volevo solo
metterla in guardia.
Da quando è qui, fin dal secondo giorno, la sua presenza mi disturba al
punto che nei suoi confronti non riesco a tenere altro che un
comportamento corretto e niente più. Immagino che, come tutti i
carnefici itineranti, sia abituato a essere evitato. (O boia e
torturatori sono ancora considerati personaggi impuri solo nelle
province?) Lo guardo e mi chiedo come si dev'essere sentito la prima
volta: invitato come apprendista a stringere le pinze o a girare la vite
o a fare quel che fanno, qualunque cosa sia, avrà provato un piccolo brivido al pensiero che stava varcando una soglia proibita? Mi sorprendo
a chiedermi se osservi un qualche suo privato rituale di purificazione,
celebrato a porte chiuse, che gli permetta di tornare fra gli uomini, di
sedersi a tavola insieme a loro. Forse si lava accuratamente le mani, o
si cambia da capo a piedi; o forse la Terza Divisione ha forgiato uomini
capaci di passare senza scomporsi dall'impuro al puro?
Più tardi quella notte mi arriva il rumore e il ritmo dell'orchestra che
suona sotto i vecchi alberi di noce, giù in piazza. C'è un bagliore
rosato nell'aria prodotto dalle braci ardenti su cui i soldati stanno
arrostendo pecore intere, dono di «Sua Eccellenza.» Berranno fino alle
prime ore del giorno e poi si metteranno in marcia prima che sorga il
sole.
Mi dirigo verso il granaio passando per le stradine secondarie. La
guardia non è al suo posto e la porta della baracca è spalancata. Sto
per entrare quando sento delle voci che provengono da dentro, bisbiglii,
risatine.
Scruto l'oscurità. - Chi va là? - chiedo.
Un fruscio, e mi viene a sbattere addosso la giovane sentinella. - Mi
scusi, signore, - dice. L'alito gli puzza di rum. - Il prigioniero mi ha
chiamato e stavo cercando di aiutarlo -. Dall'oscurità giunge un breve
scoppio di risa.
Dormo, poi mi sveglia un'altra ondata di musica che viene dalla piazza.
Mi addormento di nuovo e sogno un corpo che giace supino, a braccia
spalancate, con un ciuffo di peli che luccicano sul pube come un liquido
nero e oro che scorre sul ventre fino all'inguine e poi giù, come una
freccia dentro al folto ciuffo tra le gambe. Quando allungo una mano per
accarezzarlo, il ciuffo comincia a fremere. Non sono peli ma un denso
nugolo di api, ammucchiate una sull'altra: zuppe di miele, appiccicose,
escono dal ciuffo e vibrano le ali.
Per un ultimo gesto di cortesia accompagno il colonnello fino a dove la
strada svolta a nord-ovest, lungo il lago. La grande superficie d'acqua
riflette la luce del sole, ora alto nel cielo, con un bagliore così
violento che sono costretto a proteggermi gli occhi. Gli uomini, stanchi
e fiaccati dalla notte di bagordi, si trascinano dietro di noi. Al
centro della colonna, sostenuto da una guardia che gli cavalca a fianco,
c'è il prigioniero. Ha una faccia spaventosa e sta in sella con
difficoltà per il dolore che ancora gli procurano le ferite. In coda
seguono i cavalli da soma e i carri con i barili d'acqua, le provviste e
l'equipaggiamento più pesante: lance, fucili, munizioni, tende. Insomma
non è un bello spettacolo: la colonna procede stancamente, alcuni uomini
con la testa scoperta, altri con i pesanti elmetti piumati della
cavalleria, altri ancora con un semplice cappuccio di cuoio. Distolgono
gli occhi dal sole abbagliante, tutti tranne uno che guarda dritto
davanti a sé attraverso una striscia di vetro affumicato incollata a
un'asticciola che si tiene vicino agli occhi, a imitazione del capo. Fino a che punto arriverà questa ridicola affettazione?
Cavalchiamo in silenzio. I mietitori, che lavorano nei campi fin
dall'alba, al nostro passaggio si fermano ^per salutarci. Là dove la
strada curva tiro le redini e trattengo il cavallo. Mi congedo: - Le
auguro un felice ritorno, colonnello -. Incorniciato dal finestrino
della carrozza, lui china il capo, imperscrutabile.
Allora torno indietro, sollevato da un peso e felice di essere di nuovo
solo in un mondo che conosco e capisco. Salgo in cima ai bastioni per
guardare la piccola colonna che si snoda diretta a nord-ovest, verso la
lontana macchia verde, dove il fiume sbocca nel lago e la linea della
vegetazione scompare sfocando nel deserto. Il sole è ancora alto,
bronzeo e opprimente sopra le acque. A sud del lago si distendono le
paludi e le pianure saline, e ancora oltre una striscia grigio-blu di
aridi colli. Nei campi i contadini caricano i due vecchi, giganteschi
carri da fieno. Uno stormo di anatre selvatiche turbina in cielo, quindi
plana verso la distesa d'acqua. L'estate volge al termine, è un periodo
di pace e di abbondanza. Io credo nella pace, forse addirittura nella
pace ad ogni costo.
Due miglia a sud della città le dune si susseguono, una dopo l'altra,
nel piatto paesaggio sabbioso circostante. I bambini, intenti ai loro
classici divertimenti estivi, al mattino catturano le rane della palude
e a sera, quando la sabbia comincia a raffreddarsi, si lasciano
scivolare giù per le dune su lucide slitte di legno. Anche se il vento
soffia in ogni stagione le dune restano, tenute insieme da una leggera
pelle d'erba, e anche - come ho scoperto per caso qualche anno fa - da
strutture di legno. Perché le dune ricoprono rovine di case che
risalgono a tempi lontani, precedenti all'annessione delle province
occidentali e all'edificazione del forte.
Uno dei miei passatempi preferiti è scavare tra quelle rovine. Se non ci
sono da riparare le opere di irrigazione commino qualche giorno di scavo
delle dune ai piccoli delinquenti; ci mando anche i soldati in punizione
e, al massimo del mio entusiasmo, sono arrivato perfino a pagare di
tasca mia qualche lavoretto di scavo. Non è un lavoro ambito, perché chi
scava deve faticare sotto il sole cocente o al vento gelido senza
riparo, in mezzo alla sabbia che s'infiltra dappertutto. Lavorano di
malavoglia, non condividono il mio interesse (che a loro pare una
stramberia), e sono scoraggiati dalla velocità con cui la sabbia torna a
coprire la loro opera. Ma nel giro di pochi anni sono riuscito a
riportare alla luce alcune delle strutture più imponenti. L'ultima che
hanno dissotterrato sta lì, come il relitto di una nave incagliato nel
deserto, si vede perfino dalle mura della città. Di quella struttura,
forse un tempio o un edificio pubblico, ho recuperato il pesante
architrave di legno di pioppo, decorato a intaglio da un motivo
intrecciato di pesci guizzanti. Ora è appeso sul mio camino. Sotto il
livello del pavimento ho trovato anche, nascoste in una borsa che appena
toccata si è disintegrata, una serie di leggere tavolette di legno su
cui erano tracciati caratteri di una scrittura mai vista. Avevamo trovato tavolette simili in precedenza, disseminate come mollette tra le
rovine, ma per lo più erano talmente sbiancate dalla sabbia che i
caratteri risultavano illeggibili. I caratteri sulle ultime invece sono
chiarissimi, come appena tracciati. Ora, nella speranza di decifrarle,
mi sono dedicato a collezionarne a più non posso e ho fatto sapere ai
ragazzini che giocano qui intorno che sono disposto a pagarle un penny
l'una.
Le strutture lignee che riportiamo alla luce sono secche e polverose.
Tante si sono conservate solo perché la sabbia le ha tenute insieme, e
appena esposte all'aria si polverizzano. Altre si spezzano alla minima
pressione. Non ho idea dell'età del legno. Le leggende dei barbari,
pastori e nomadi che vivono nelle tende, non fanno riferimento a uno
stanziamento permanente nei pressi del lago. Non ci sono resti umani tra
le rovine. Se c'è un cimitero, non lo abbiamo scoperto. Nelle case non
c'è mobilio. Ho trovato frammenti di vasellame cotto al sole e qualcosa
di marrone, che faceva pensare a una scarpa o a un cappuccio di cuoio,
ma mi si è disintegrato sotto gli occhi. Non so da dove può essere
venuto il legno per costruire quelle case. Forse in passato galeotti,
schiavi e soldati erano costretti a marciare per quel sentiero di quasi
tredici miglia fino al lago e poi a tagliare gli alberi di pioppo,
segare e piallare il legno e quindi riportarlo sui loro carri fino a
queste lande desertiche. Potrebbero aver costruito allora le case e
anche il forte, per quanto ne so, e poi essere morti, in modo da
permettere ai loro padroni, ai loro prefetti e ai loro magistrati, di
salire sui tetti e sulle torri per scrutare il mondo, dominando
l'orizzonte da parte a parte per cogliere i segni della presenza dei
barbari. Forse con i miei scavi ho solo scalfito la superficie. Forse
poco sotto le fondamenta del forte sono sepolte le rovine di un altro
forte raso al suolo dai barbari, popolate dalle ossa di genti che
pensavano di essere al sicuro dentro le sue alte mura. Forse, quando
calpesto il suolo del tribunale, se di tribunale si può parlare, i miei
piedi calpestano la testa di un altro magistrato come me, di un altro
brizzolato servo dell'Impero, caduto sul campo della sua autorità,
finalmente faccia a faccia con i barbari. Come fare a saperlo? Scavando
buche nella terra come un coniglio? Forse un giorno me lo diranno i
caratteri tracciati sulle tavolette di legno? Nella borsa ce n'erano
duecentocinquantasei. Un numero perfetto, chissà se è solo un caso. Dopo
averle contate e aver fatto questa scoperta, ho sgombrato il pavimento
del mio ufficio e le ho disposte prima in un grande quadrato, poi in
sedici quadrati più piccoli, poi ancora in altre combinazioni, pensando
che quelle che fino a quel momento avevo considerato come le lettere di
un sillabario potessero in realtà essere gli elementi di un disegno i
cui contorni mi sarebbero balzati agli occhi se solo avessi indovinato
la loro giusta disposizione: una mappa del territorio barbaro nei tempi
antichi, o la rappresentazione di un tempio perduto. Mi sono perfino
sorpreso a cercare di leggerle allo specchio, a metterle una sull'altra
o anche ad avvicinarne due metà diverse.
Una sera ho indugiato tra le rovine, quando ormai i bambini erano
rientrati a cenare nelle loro case, nella luce viola del tramonto, con le prime stelle, all'ora in cui, secondo la leggenda, si svegliano i
fantasmi. Ho poggiato l'orecchio al suolo, come mi avevano insegnato i
bambini, per sentire quello che loro sentono: tonfi e gemiti sotto
terra, e il ritmo profondo e irregolare dei tamburi. Sotto la guancia ho
sentito la carezza della sabbia che scorre senza meta nel deserto.
Svanite le ultime luci, i contorni dei bastioni si sono fatti sempre più
indefiniti, si sono dissolti nell'oscurità. Ho aspettato per un'ora,
avvolto nel mio mantello, con la schiena contro l'angolo di una casa
dove un tempo la gente deve aver mangiato, parlato, ascoltato musica.
Sono rimasto lì a vedere sorgere la luna, coi sensi aperti alla notte,
aspettando un segno che tutto quello che avevo intorno, e sotto i piedi,
non fosse solo sabbia, polvere d'ossa, scaglie di ruggine, cocci,
cenere. Il segno non è venuto. Non avevo i brividi per paura dei
fantasmi. Il mio nido nella sabbia era caldo. Dopo poco mi ciondolava il
capo. Allora mi sono tirato su e mi sono stiracchiato, quindi mi sono
trascinato stancamente fino a casa nel buio profumato, seguendo la
traccia del soffuso chiarore che veniva dai camini accesi nelle case.
Ridicolo, ho pensato: un uomo con la barba grigia che se ne sta seduto
al buio ad aspettare che gli spiriti, usciti da qualche anfratto della
storia, vengano a parlargli prima che lui torni a casa, alla sua mensa
militare, al suo comodo letto. Lo spazio intorno a noi è solo spazio,
non più meschino o più grandioso di quello sopra le baracche e i
caseggiati, i templi e gli uffici della capitale. Lo spazio è spazio, la
vita è vita, la stessa ovunque. Ma per quel che mi riguarda, sostenuto
dal lavoro altrui, in mancanza di vizi raffinati coi quali riempire il
mio tempo libero, cullo la mia malinconia e cerco di trovare nella
vacuità del deserto una speciale pregnanza storica. Vano, inoperoso,
sviato. Ma per fortuna nessuno mi vede!
Oggi, solo quattro giorni dopo la partenza della spedizione, sono
arrivati i primi prigionieri del colonnello. Dalla mia finestra li vedo
attraversare la piazza tra le guardie a cavallo: ricoperti di polvere,
esausti, si ritraggono dalla gente che gli si affolla intorno per
guardarli, dai bambini che saltellano, dai cani che abbaiano. Arrivate
all'ombra delle mura della caserma le guardie smontano da cavallo;
subito i prigionieri si accucciano al suolo per riposare, tutti tranne
un bambino in piedi su una gamba sola, col braccio appoggiato alle
spalle della madre, che guarda curioso la gente che lo guarda. Qualcuno
porta un secchio d'acqua e un mestolo. Bevono assetati, mentre la folla
aumenta e gli si stringe attorno tanto che non riesco più a vederli.
Impaziente aspetto la guardia che si fa strada tra la folla e attraversa
il cortile della caserma.
- Che significa tutto questo? - urlo. Lui abbassa la testa e cerca
qualcosa in tasca. - Sono pescatori, che senso ha portarli qui?
Mi tende una lettera. Rompo il sigillo e leggo: «Per favore, in attesa
del mio ritorno, tenga segregati questi e i prossimi prigionieri che
arriveranno.» Accanto alla sua firma è ripetuto il sigillo, il sigillo
della Terza Divisione che ha portato con sé nel deserto e che, semmai il
colonnello dovesse morire, sarei costretto a far recuperare da una seconda spedizione.
- Ma quest'uomo è ridicolo! - grido. Faccio avanti e indietro per la
stanza, furiosamente. Non si dovrebbero mai denigrare gli ufficiali
davanti ai loro soldati, i padri davanti ai figli, ma per quest'uomo non
provo sentimenti di lealtà. - Nessuno gli ha detto che sono pescatori?
E' tempo perso portarli qui! Dovevate aiutarlo a individuare i banditi,
i ladri, gli invasori dell'Impero ! Questa gente qui vi sembra una
minaccia per l'Impero? - Scaglio la lettera contro la finestra.
La folla si apre per lasciarmi passare finché arrivo al centro, di
fronte a quella patetica dozzina di prigionieri. Indietreggiano davanti
alla mia furia e il bambinetto si rifugia tra le braccia della madre.
Faccio segno alle guardie. - Fatevi largo e portate questa gente nel
cortile della caserma-. Scortano i prigionieri; il cancello della
caserma si richiude dietro di noi. - Aspetto una spiegazione! - dico. -
Nessuno gli ha detto che questi prigionieri non gli servono a niente?
Nessuno gli ha spiegato la differenza tra i pescatori con le loro reti e
i nomadi selvaggi a cavallo, con arco e frecce? Nessuno gli ha detto che
non parlano nemmeno la stessa lingua?
- Quando ci hanno visti hanno cercato di nascondersi tra le canne, -
spiega uno dei soldati. - Hanno visto arrivare uomini a cavallo e così
si sono nascosti. Allora Sua Eccellenza ci ha ordinato di catturarli,
perché si nascondevano.
Potrei bestemmiare per la rabbia e la frustrazione. Un poliziotto! Il
ragionamento di un poliziotto! - E Sua Eccellenza ha detto per quale
motivo voleva che fossero portati qui? Non ha detto perché non poteva
interrogarli là dov'erano?
- Nessuno di noi parlava la lingua, signore.
Certo! Questa gente che vive lungo il fiume è aborigena, ancora più
antica dei nomadi. Vivono in stanziamenti di due o tre famiglie in riva
al fiume, pescano e mettono trappole per la maggior parte dell'anno e in
autunno si spingono a sud, fino alle sponde più meridionali del lago in
cerca dei vermi che gli serviranno da esca e che mettono a seccare. Si
costruiscono fragili capanne di canna dove l'inverno patiscono il freddo
coperti di pelli di animali. Hanno il sacro terrore di tutto e di tutti
e si nascondono tra le canne, che cosa mai possono saperne loro di una
grande impresa barbara contro l'Impero?
Mando uno degli uomini in cucina, a prendere del cibo. Torna con una
pagnotta di pane raffermo che offre al prigioniero più anziano. Il
vecchio prende il pane che gli viene dato, con reverenza, con entrambe
le mani, lo fiuta, lo rompe e ne distribuisce in giro i pezzi. I
prigionieri si riempiono la bocca con quella manna, masticano
rapidamente, a occhi bassi. Una donna sputa il pane masticato sul palmo
della mano, per nutrire il suo neonato. Faccio segno che portino altro
pane. Stiamo lì a guardarli mangiare come se fossero animali strani.
- Lasciateli nel cortile, - dico alle guardie. - Sarà scomodo per noi,
ma non c'è altro modo. Se stanotte dovesse fare troppo freddo troverò
un'altra soluzione. Dategli da mangiare e anche qualcosa da fare, per
tenerli occupati. Il cancello deve rimanere chiuso. Non scapperanno, ma
non voglio che i curiosi vengano qui per vederli da vicino.
Così, dominando la rabbia, faccio quello che mi chiede il colonnello:
tengo questi inutili prigionieri «segregati» per lui. Nel giro di un
giorno o due questi selvaggi sembrano aver già dimenticato di aver avuto
un'altra casa. Totalmente sedotti dal cibo abbondante e gratuito,
soprattutto dal pane, si rilassano, sorridono a tutti, si aggirano per
il cortile della caserma cercando le zone d'ombra, dormicchiano e si
svegliano, si eccitano quando s'avvicina l'ora dei pasti. Sono sporchi e
non conoscono il pudore. Un angolo del cortile è diventato una latrina
dove uomini e donne si accovacciano per fare i loro bisogni davanti a
tutti, sotto un nugolo di mosche ronzanti. («Dategli una vanga!» dico
alle guardie, ma loro non la usano). Il ragazzino, che ormai non ha più
paura, si aggira per la cucina e chiede zucchero alle serve. Oltre al
pane, anche lo zucchero e il té sono una grande novità per questa gente.
Tutte le mattine ricevono un panetto di foglie di té pressate e lo fanno
bollire sul fuoco di legna in un pentolone da quattro galloni appoggiato
su un treppiede. Qui sono felici, e se non li cacciamo noi è possibile
che rimangano per sempre. E' bastato poco per strapparli allo stato di
natura in cui vivevano. Passo ore a guardarli dalla finestra del mio
appartamento (gli altri curiosi si devono accontentare di guardarli dal
cancello). Guardo le donne che si spidocchiano tra di loro, si pettinano
e intrecciano i lunghi capelli neri. Alcune hanno accessi di una tosse
secca, stizzosa. E' singolare che tra di loro, a parte il ragazzino e il
neonato, non ci siano bambini. Forse qualcuno, più attento, più sveglio
degli altri, è riuscito a sfuggire ai soldati? Lo spero. Spero che,
quando li riporteremo alle loro case sul fiume, avranno tante storie
incredibili da raccontare ai loro vicini. Spero che la storia della
prigionia entri a far parte delle loro leggende, tramandate dai nonni ai
nipoti. Spero anche però che il ricordo della vita facile e del cibo
nuovo scoperto in città non li induca a tornare. Non voglio tra i piedi
tutta una genia di mendicanti.
Per qualche giorno questi pescatori rappresentano un diversivo, con la
loro strana lingua, la fame formidabile, la spudoratezza animalesca, il
temperamento volubile. I soldati se ne stanno sulla porta a osservarli,
fanno commenti osceni su di loro che non capiscono e ridono; dietro il
cancello si assiepano le facce dei bambini, aggrappati alle sbarre a
guardare. Anch'io guardo, non visto, dalla mia finestra.
Poi all'improvviso smettono di esserci simpatici. Non sopportiamo più la
sporcizia, la puzza, il baccano che fanno con le loro risse e la loro
tosse. Si verifica un incidente sgradevole, quando uno dei soldati -
chissà, forse solo per gioco, cerca di trascinare dentro la caserma una
delle loro donne e viene preso a sassate. Comincia a girare voce che
sono malati e che porteranno il contagio in città. Anche se li obbligo a
scavare un pozzo in un angolo del cortile e ordino che al mattino
portino via gli escrementi, il personale della cucina si rifiuta di dar
loro un qualsiasi utensile e comincia a tirargli il cibo dalla porta,
come se fossero davvero animali. I soldati sprangano l'ingresso della
caserma e i bambini smettono di venire al cancello. Qualcuno una notte
lancia un gatto morto dentro il muro di cinta e scatena un tumulto.
Nelle lunghe, torride giornate estive, si trascinano per il cortile
vuoto. Il neonato tossisce e piange, piange e tossisce, tanto che per
non sentirlo mi rifugio nella zona più remota del mio appartamento.
Scrivo una lettera indignata alla Terza Divisione, custode insonne
dell'Impero, denunciando l'incompetenza di uno dei suoi agenti. «Perché
non mandate qualcuno che conosca il territorio per indagare sulle
agitazioni lungo la frontiera?» scrivo. Poi, saggiamente, strappo la
lettera. Se una notte aprissi il cancello, mi chiedo, questa gente
andrebbe via? Ma non faccio niente. Poi un giorno mi rendo conto che il
piccolo ha smesso di piangere. Guardo dalla finestra ma non lo vedo da
nessuna parte. Mando la guardia a cercarlo. Trova il cadaverino sotto i
vestiti della madre che non vuole staccarsene. Glielo dobbiamo
letteralmente strappare dalle mani. Da quel momento la donna se ne sta
tutto il giorno accovacciata a terra, col volto coperto, e rifiuta il
cibo. La sua gente la evita. Abbiamo forse violato qualche loro costume,
mi chiedo, portandole via il bambino per seppellirlo? Maledico il
colonnello Joll per tutti i guai e la vergogna che mi ha portato.
Ritorna all'improvviso, in piena notte. Vengo svegliato dagli squilli di
tromba sui bastioni e dall'agitazione dei soldati che, nel piazzale
della caserma, si precipitano a prendere le armi. Sono confuso, mi vesto
con lentezza, quando arrivo in piazza la colonna sta già varcando le
porte della città. Alcuni uomini sono in sella, altri, a piedi, tirano
il cavallo per le redini. Resto indietro, mentre la folla accorsa si
stringe attorno ai soldati, li tocca e li abbraccia, ride eccitata
(«Tutti salvi!» grida qualcuno). Alla fine, al centro della colonna vedo
arrivare quello che avevo temuto: il carro nero, e poi il gruppo
cencioso di prigionieri, legati uno all'altro da una corda intorno al
collo, figure informi avvolte in pelli di montone sotto la luce argentea
della luna. In fondo avanzano gli ultimi soldati con i carri e i cavalli
da soma. Tra le persone che accorrono sempre più numerose, alcune con le
torce accese, e il frastuono che sale, volto le spalle al trionfo del
colonnello e me ne ritorno nelle mie stanze. Solo ora comincio a
rendermi conto dello svantaggio di vivere, come ho scelto di fare,
nell'appartamento sopra i magazzini e le cucine, quello destinato al
comandante militare che non abbiamo da anni, invece che nella bella
villa coi gerani alle finestre che toccherebbe al magistrato civile.
Vorrei potermi tappare le orecchie per non sentire i rumori che vengono
dal cortile qui sotto, che ormai sembra essere diventato una prigione
permanente. Mi sento vecchio e stanco, e voglio dormire. Di questi tempi
appena posso dormo e quando mi sveglio lo faccio con riluttanza. Il
sonno non è più bagno ristoratore, recupero delle forze vitali, ma
oblio, contatto notturno con l'annientamento. Vivere in questo
appartamento è diventato una condanna per me, penso. E non solo. Se
vivessi nella villa del magistrato, nella zona più tranquilla della città, se dessi udienza in tribunale il lunedì e il giovedì e andassi a
caccia ogni mattina, dedicando le sere ai classici, ignorando le
iniziative di questo poliziotto improvvisato, se lasciassi la città
quando le cose vanno male, tenendomi per me quello che penso, se facessi
tutto questo potrei smettere di sentirmi come uno trascinato dalla
risacca che, invece di nuotare, si arrende, va verso il mare aperto e la
morte. Ma è sapere quanto sia contingente il mio disagio, quanto dipenda
da un bambino che un giorno piange sotto la mia finestra e il giorno
dopo non piange più, è questo che mi riempie di vergogna, che mi rende
indifferente all'annientamento. So troppo. E da questo sapere, una volta
che ne sei contagiato, non c'è scampo. Non avrei mai dovuto prendere
quella lanterna per andare a vedere cosa succedeva nella baracca vicino
al granaio. D'altra parte era impossibile, una volta presa quella
lanterna, metterla giù. Il nodo si stringe da solo, e non ne trovo il
capo.
Tutto il giorno successivo il colonnello lo passa a dormire nella sua
stanza, alla locanda, e il personale deve muoversi in punta di piedi.
Cerco di non prestare attenzione al nuovo gruppo di prigionieri nel
cortile. E' un peccato che tutte le porte della caserma, come anche la
scala che conduce al mio appartamento, diano sul cortile. L'indomani
scappo via di primo mattino, mi occupo tutto il giorno degli affitti
municipali e la sera mangio con gli amici. Al rientro incontro il
giovane sottotenente che ha accompagnato il colonnello Joll nella sua
missione nel deserto e mi congratulo con lui per essere tornato sano e
salvo. - Ma perché non hai spiegato al colonnello che i pescatori non
potranno essergli di alcun aiuto nell'indagine? - Ha l'aria imbarazzata.
- Gliel'ho spiegato, - ribatte, - ma per tutta risposta mi ha detto «I
prigionieri sono prigionieri.» Così ho deciso che non stava a me
discutere con lui. Il giorno dopo il colonnello comincia gli
interrogatori. Lo avevo creduto un pigro, poco più di un burocrate dai
gusti perversi. Ora capisco quanto sbagliavo. Nella sua ricerca della
verità è instancabile. L'interrogatorio comincia la mattina presto ed è
ancora in corso quando rientro, dopo il tramonto. Per farsi aiutare ha
ingaggiato un cacciatore che ha passato la vita a stanare i cinghiali
lungo il fiume e ha imparato un centinaio di parole della lingua dei
pescatori. Uno dopo l'altro i prigionieri vengono fatti entrare nella
stanza dove si è installato il colonnello. A tutti chiede se hanno
notato movimenti di sconosciuti a cavallo. Interroga perfino il bambino:
- Hai visto stranieri nella capanna di tuo padre, di notte? -
(Naturalmente immagino quello che succede in quella stanza: la paura, lo
stupore, il degrado). Alla fine i prigionieri non vengono rimandati nel
cortile ma nella camerata più grande della caserma: i soldati - vengo a
sapere - sono stati acquartierati in città. Me ne sto nel mio
appartamento con le finestre chiuse, nel caldo soffocante di una sera senza vento, cerco di leggere e intanto mi sforzo di sentire o di non sentire i suoni della violenza. Finalmente a mezzanotte l'interrogatorio
finisce, non più porte sbattute, non più passi pesanti, il cortile è immerso nel silenzio e nella luce lunare. Finalmente posso dormire. Ho perduto la gioia di vivere, passo le giornate tra elenchi e conti, tiro per le lunghe ogni piccolo compito per riempire le ore. La sera
ceno alla locanda e poi, non avendo voglia di tornare a casa, salgo al piano di sopra, in quell'alveare di cubicoli e séparés dove dormono gli
stallieri e dove le ragazze intrattengono gli amici.
Dormo come un corpo morto. Quando mi sveglio, alla tenue luce del mattino, la ragazza sta acciambellata sul pavimento. Le tocco il
braccio.
- Perché dormi lì?
Mi sorride:
- Non c'è problema. Sto comoda -. (E' vero: sdraiata sul tappeto di morbida pelle di pecora si stiracchia e sbadiglia e il suo bel corpicino non arriva neppure al bordo).
- Ti agitavi nel sonno e mi hai detto di andarmene, così ho pensato che avrei dormito meglio qui.
- Ti ho detto di andartene?
- Sì, nel sonno. Non te la prendere -.
Si arrampica sul letto accanto a me. L'abbraccio con gratitudine, senza desiderio.
- Vorrei tornare a dormire qui anche stanotte, - dico.
Lei mi strofina il naso sul petto. Mi rendo conto che, qualunque cosa le voglia dire,
lei lo ascolterà con simpatia, con gentilezza. Ma cosa le posso dire?
«Cose terribili succedono nella notte mentre io e te dormiamo?»
Lo sciacallo strappa le viscere della lepre, ma la vita continua. Passo ancora un altro giorno e un'altra notte lontano dal regno del dolore. Mi addormento tra le braccia della ragazza. Al mattino la trovo di nuovo che dorme sul pavimento. Ride del mio imbarazzo.
- Mi hai spinta giù dal letto con le mani e coi piedi. Per favore, non ti agitare. Non possiamo controllare i nostri sogni e neppure quello che
facciamo nel sonno -. Mormoro qualcosa e mi volto dall'altra parte. La conosco da un anno e in certi periodi sono venuto a trovarla, in questa
stanza, anche due volte a settimana. Provo per lei un affetto tranquillo, quanto di meglio si possa auspicare tra un uomo di mezza età e una ragazza di vent'anni; certamente meglio di una passione possessiva. Ho perfino immaginato di chiederle di venire a vivere con me. Cerco di ricordare l'incubo che mi agita quando la caccio via dal letto, ma non ci riesco.
- Prometti di svegliarmi se lo faccio ancora, - le dico.
Sono nel mio ufficio, in tribunale, quando mi viene annunciata una visita. E' il colonnello Joll, sempre con gli occhiali scuri, anche qui dentro. Entra e mi si siede di fronte. Gli offro il té, sorpreso dalla fermezza della mia mano. Mi annuncia che se ne va. Debbo cercare di
dissimulare la mia gioia a questa notizia? Sorseggia il té, seduto rigidamente, si guarda attorno, ispeziona la stanza, gli scaffali pieni di fascicoli affastellati, legati da un nastro, l'archivio di decenni di monotona amministrazione. La piccola biblioteca con i testi giuridici, la scrivania ingombra. Per il momento ha concluso la sua indagine, mi
dice, e ha fretta di rientrare in città per fare rapporto. Ha un'aria di controllato trionfo. Faccio cenno che capisco. - Qualunque cosa possa fare per facilitare il suo viaggio... - dico. Una pausa. Poi nel silenzio, come un sasso in uno stagno, faccio cadere la mia domanda.
- E i suoi interrogatori di nomadi e indigeni, colonnello ... sono andati come sperava?
Prima di rispondere giunge le mani, polpastrello contro polpastrello. Credo che sappia quanto mi irrita la sua affettazione.
- Sì, magistrato,direi che abbiamo avuto un certo successo. Soprattutto se si pensa che analoghe indagini altrove, lungo la frontiera, vengono svolte in modo coordinato.
- Ottimo. E ci può dire se abbiamo qualcosa da temere? Possiamo dormire tranquilli?
Un lieve sorriso gli increspa un angolo della bocca. Quindi si alza, fa un inchino, gira i tacchi e se ne va. Il mattino seguente parte di buonora accompagnato dalla sua piccola scorta, sono diretti a est, per prendere la lunga strada che porta alla capitale. Per tutto un lungo, faticoso periodo, abbiamo cercato entrambi di intrattenere un rapporto civile. Ho sempre creduto nel comportamento civile, ma questa volta, non
posso negarlo, il solo ricordo mi riempie di disgusto per me stesso.
Per prima cosa vado dai prigionieri. Apro la porta dello stanzone della caserma dove sono stati rinchiusi, già nauseato dalla puzza di sporcizia e di sudore, e spalanco tutto.
- Mandateli via da qui! - grido ai soldati ancora mezzi svestiti, che mi guardano e mangiano il loro porridge. Dal locale buio i prigionieri mi fissano con apatia.
- Andate a pulire quella stanza! - urlo. - Voglio che tutto sia pulito! Acqua e
sapone! Voglio che tutto torni come prima! -
I soldati si affrettano ad eseguire gli ordini, ma certo si chiedono perché mai me la prenda con loro. I prigionieri incominciano a emergere alla luce del giorno, sbattono le palpebre, si coprono gli occhi. Una delle donne dev'essere
aiutata. Trema continuamente come una vecchia, anche se è giovane. Alcuni sono così malridotti che non riescono a stare in piedi. Non li vedevo da cinque giorni (ammesso che possa sostenere di averli
visti e non piuttosto di aver fatto scorrere, con riluttanza, uno sguardo assente su di loro). Non so che cosa abbiano subito in questi cinque giorni. Ora, guidati da una guardia, si stringono in un disperato
piccolo nodo nel cortile, nomadi e pescatori insieme, malati, affamati, feriti, terrorizzati. Se almeno questo oscuro capitolo della storia del
mondo si chiudesse qui, se questa brutta gente fosse cancellata dalla faccia della terra e noi giurassimo di ricominciare tutto da capo, di
fare un impero senza più ingiustizia né dolore. Non ci vorrebbe molto a scortarli nel deserto (magari dopo avergli dato un pasto per rendere
possibile la marcia), fargli scavare, con le ultime forze rimaste, una fossa grande abbastanza da contenerli tutti (o anche scavarla per loro!)
e lasciarli lì in eterno, sepolti. Poi ritornarcene alla nostra città fortificata pieni di buone intenzioni, di nuovi propositi. Ma non è roba per me. Gli uomini nuovi dell'Impero, loro sì che credono nelle palingenesi, nei nuovi capitoli, nelle pagine bianche. Io mi accanisco con la storia del passato, sperando che prima che finisca mi riveli la ragione per cui ho ritenuto che ne valesse la pena. E così che, essendo tornata nelle mie mani l'amministrazione della giustizia in questo
territorio, ordino che i prigionieri vengano nutriti, che sia chiamato
il medico per fare quello che può e che la caserma torni ad essere una
caserma. Che ci si organizzi per riportare i prigionieri alla loro vita
di sempre, prima possibile, più lontano possibile.
Capitolo secondo
Sta inginocchiata all'ombra del muro di cinta della caserma, a pochi metri dal cancello, avvolta in un cappotto troppo grande; per terra davanti a lei, un cappuccio di montone rovesciato. Ha le sopracciglia
nere e dritte, i capelli neri e lucidi dei barbari. Una donna barbara che chiede l'elemosina in città, che senso ha? Nel cappuccio solo pochi
penny. Le passo davanti altre due volte quel giorno. Ogni volta mi guarda in modo strano. Fissa dritto davanti a sé fino a che non le sono proprio vicino e poi, lentamente, gira la testa dall'altra parte. La seconda
volta metto una moneta nel cappuccio.
- E' troppo freddo e troppo tardi per stare fuori, - le dico. Lei annuisce. Il sole tramonta dietro una striscia di nuvole nere; il vento del nord porta con sé un presagio di neve; la piazza è vuota; passo oltre.
Il giorno dopo non c'è più. Parlo alla sentinella di guardia al cancello della caserma.
- Ieri per tutto il giorno c'è stata una donna seduta
laggiù, chiedeva l'elemosina. Da dove viene?
- Mi spiega che la donna è
cieca e che è una delle barbare portate dal colonnello. L'hanno lasciata
qui. Qualche giorno dopo la vedo attraversare la piazza. Cammina lentamente,
in modo strano, aiutandosi con due bastoni, e trascina il lungo cappotto di montone nella polvere. Do disposizioni. La portano nel mio appartamento, è lì in piedi davanti a me, appoggiata ai bastoni.
- Togliti il cappuccio, - dico.
Il soldato che l'ha accompagnata glielo tira giù. E' proprio la stessa ragazza. Stessi capelli neri con la
frangia sulla fronte, stessa bocca larga, stessi occhi neri che mi guardano e passano oltre.
- Dicono che sei cieca.
- Ci vedo, - dice. I suoi occhi si spostano dalla mia faccia e fissano un qualche punto dietro di me, sulla destra.
- Da dove vieni? -
Senza riflettere mi volto a guardare quello che guarda. Non c'è niente, fissa la parete vuota. Il suo sguardo si è indurito. Già sapendo la risposta, ripeto la domanda. Non parla.
Mando via il soldato. Siamo soli.
- Lo so chi sei, - dico. - Siediti, per favore -.
Le prendo i bastoni e l'aiuto a sedersi su uno sgabello. Sotto il cappotto porta grandi
mutandoni di lino, infilati in un paio di stivali dalla suola spessa.
Puzza di fumo, di abiti sporchi, di pesce. Ha le mani callose.
- Vivi chiedendo l'elemosina? - le domando. - Lo sai che non potresti stare in città? Potremmo espellerti in un qualunque momento e rimandarti dalla tua gente.
Se ne sta lì seduta e guarda in quello strano modo davanti a sé.
- Guardami, - le dico.
- Sto guardando. E' così che guardo.
Le agito una mano davanti agli occhi. Sbatte le palpebre. Mi avvicino, la guardo negli occhi. Distoglie lo sguardo dalla parete, lo sposta su
di me. L'iride nera risalta sulla cornea bianco latte, chiara come quella di un bambino. Le sfioro la guancia, sussulta.
- Ti ho chiesto cosa fai per vivere. Alza le spalle:
- La lavandaia.
- Dove vivi?
- Vivo.
- Il vagabondaggio non è permesso in città. L'inverno è alle porte. Devi avere un posto dove stare, oppure te ne devi tornare dalla tua gente.
Resta impassibile, ostinata. So che sto menando il can per l'aia.
- Posso darti un lavoro. Ho bisogno di qualcuno che pulisca la casa, che si occupi della biancheria. La donna che ho ora non va bene.
Capisce perfettamente il senso della mia offerta e resta lì rigida, con le mani in grembo.
- Sei sola? Ti prego, rispondimi.
- Sì, - dice con un filo di voce. - Sì.
- Ti ho offerto di venire qui, a lavorare. Non puoi chiedere l'elemosina per le strade. Non posso permetterlo. E poi devi avere un posto dove abitare. Se lavori da me puoi stare nella stanza della cuoca.
- Non capisci. Non puoi volere una come me -. Si trascina per prendere i bastoni. So che non vede. - Io sono... - alza l'indice poi lo afferra, lo torce. Non ho idea del significato di quel gesto. - Posso andare? -
Arriva da sola fino alle scale, poi mi aspetta, perché l'aiuti a
scendere.
Passa un giorno. Guardo la piazza dove il vento alza nugoli di polvere. Due ragazzini giocano con un cerchio. Lo fanno rotolare nel vento. Avanza, rallenta, ondeggia, torna indietro, cade. I bambini, la testa inclinata all'indietro, lo rincorrono, il vento gli libera la fronte, scopre le sopracciglia.
Trovo la ragazza e mi fermo davanti a lei. E' seduta, la schiena appoggiata al tronco di un grande albero di noce; difficile capire se è
sveglia.
- Vieni, - le dico, e le tocco la spalla. Lei scuote il capo.
- Vieni, - dico, - sono tutti dentro -.
Scrollo il cappuccio di pelliccia per liberarlo dalla polvere e glielo passo, l'aiuto a tirarsi su, e cammino lentamente vicino a lei. Attraversiamo la piazza; ora è vuota, a parte la sentinella che si ripara gli occhi con la mano per osservarci.
Il camino è acceso. Tiro le tende e accendo la lampada. Lei rifiuta lo sgabello ma lascia che prenda i bastoni e s'inginocchia al centro del
tappeto.
- Non è come pensi, - le dico. Le parole escono dalla mia bocca con riluttanza. E' mai possibile che stia per scusarmi? Ha la bocca chiusa,
le labbra serrate, sicuramente anche le orecchie; non ne vuole sapere di vecchi piagnucolosi e dei loro sensi di colpa. Le giro intorno, parlando di ordinanze sul vagabondaggio, disgustato di me. La sua pelle comincia
ad avvampare nell'aria calda della stanza chiusa. Apre il montone, espone la gola nuda al fuoco. La distanza tra me e i suoi aguzzini, mi rendo conto, è insignificante. Rabbrividisco.
- Fammi vedere i piedi, - le dico con la nuova voce roca che ormai sembra essere diventata la mia.
- Fammi vedere che cosa hanno fatto ai tuoi piedi.
Lei non mi aiuta, ma non mi ostacola. Armeggio coi ganci del montone, lo
apro, le tolgo gli stivali. Sono stivali da uomo, troppo grandi per lei. Dentro, i piedi sono fasciati, informi.
- Fammi vedere, - dico.
Comincia a srotolare le fasce sporche. Esco dalla stanza, scendo in cucina, risalgo con un catino di acqua calda e una brocca. Lei mi aspetta seduta sul tappeto, coi piedi nudi. Sono larghi, con le dita tozze e le unghie incrostate di sporcizia.
Passa un dito sulla caviglia, all'esterno.
- E' rotto qui. Anche l'altro -.
Si appoggia sulle mani e allunga le gambe.
- Fa male? - dico. Faccio scorrere il dito lungo quella linea, non sento niente.
- Non più. E' guarito. Ma forse quando viene il freddo.
- Dovresti metterti seduta, - dico, e l'aiuto a liberarsi del montone.
La faccio sedere sullo sgabello, verso l'acqua nel catino e comincio a lavarle i piedi. Per un po' sento le sue gambe rigide, poi si rilassano. La lavo lentamente, facendo la schiuma, afferrando la carne soda dei polpacci, manipolando ossa e tendini dei piedi, passando le dita tra le dita dei suoi piedi. Cambio posizione in modo da stare in ginocchio di lato e non di fronte a lei, cosicché tenendo ferma una gamba tra gomito
e fianco posso accarezzarle il piede con tutte e due le mani.
Mi perdo nel ritmo di quello che faccio. Quasi mi dimentico di lei. E' come un lasso di tempo vuoto: forse non sono nemmeno presente. Quando
ritorno in me le mie mani sono aperte, il piede è nel catino, la testa mi ciondola.
Asciugo il piede destro, passo dall'altra parte, spingo la gamba dei larghi mutandoni sopra il ginocchio e, lottando con la sonnolenza, comincio a lavare il piede sinistro.
- A volte questa stanza si
surriscalda, - dico. La pressione della sua gamba sul mio fianco non si
allenta. Continuo.
- Troverò delle fasce pulite per i tuoi piedi, - dico, - ma non ora -.
Spingo di lato il catino e le asciugo il piede. Mi rendo conto che cerca a fatica di alzarsi, ma ora, mi dico, deve
arrangiarsi da sola. Mi si chiudono gli occhi. Tenerli chiusi, assaporare quel torpore beato, mi procura un piacere intenso. Mi stendo
sul tappeto e un secondo dopo dormo. In piena notte mi sveglio rigido e infreddolito. Il camino è spento, la ragazza se n'è andata. La osservo mentre mangia. Mangia come una cieca, guardando lontano,
regolandosi col tatto. E' di buon appetito, l'appetito di una giovane e robusta contadina.
- Non è vero che ci vedi, - dico.
- Sì, ci vedo. Quando guardo dritto davanti a me non c'è niente, c'è... - (Strofina l'aria davanti a sé come se stesso pulendo un vetro).
- Una macchia, - dico io.
- C'è una macchia, ma ai lati vedo. L'occhio sinistro va meglio del destro. Come potrei andare in giro se non ci vedessi?
- Te l'hanno fatto loro?
- Sì.
- Che cosa ti hanno fatto?
Alza le spalle e non risponde. Il suo piatto è vuoto. Le metto ancora un po' della minestra di fagioli che le piace tanto. Mangia troppo in fretta, poi rutta nelle mani a coppa e sorride.
- I fagioli fanno scoreggiare, - dice.
La stanza è calda, in un angolo c'è il suo montone, con gli stivali sotto; addosso non ha che la camicia bianca e i
mutandoni. Quando non mi guarda sono solo una forma grigia che si muove in modo imprevedibile alla periferia del suo campo visivo. Quando mi guarda sono una macchia, una voce, un odore, un centro di energia che un giorno si addormenta mentre le lava i piedi e il giorno dopo le dà una minestra di fagioli e il giorno dopo ancora - non lo sa.
La faccio sedere, riempio il catino, le arrotolo i mutandoni sopra le ginocchia. Ora che ha tutti e due i piedi nell'acqua vedo che il sinistro è più torto verso l'interno del destro, che quando si tira su è costretta a poggiare sul bordo esterno dei piedi. Le caviglie sono grosse, gonfie, informi, la pelle cicatrizzata è viola.
Comincio a lavarla. Lei tira su i piedi per me, uno dopo l'altro. Impasto e massaggio gli alluci molli tra la morbida schiuma lattiginosa. Ben presto mi si chiudono gli occhi, la testa mi ciondola. A suo modo è inebriante.
Dopo comincio a lavarle le gambe. Per fare questo deve stare in piedi sul catino e appoggiarsi alle mie spalle. Le mie mani le scorrono Su e
giù per le gambe, dalla caviglia al ginocchio, avanti e indietro, stringono, sfregano, impastano. Ha le gambe corte e tarchiate, i polpacci forti. Qualche volta le mie dita finiscono dietro le sue ginocchia, inseguendo i tendini, premendo le cavità. Leggere come piume risalgono dietro le cosce. L'aiuto a salire sul letto e l'asciugo con un asciugamano caldo. Comincio a tagliarle e pulirle le unghie dei piedi, ma già mi sento
arrivare addosso le ondate di sonnolenza. Mi accorgo che mi ciondola la testa, che il corpo si piega in avanti intorpidito. Metto da parte con cura le forbici. Poi, tutto vestito, mi sdraio sul letto accanto a lei,
con la testa dalla parte dei suoi piedi. Le stringo le gambe fra le braccia, mi ci accuccio sopra con la testa e in un secondo mi addormento.
Mi sveglio che è buio. La lampada è spenta, c'è un odore di stoppino bruciato. Mi alzo e apro le tende. La ragazza è raggomitolata, con le ginocchia piegate sul petto. Quando la tocco geme e si rannicchia di più.
- Prendi freddo, - le dico, ma non sente niente.
Le metto addosso una coperta, poi un'altra. Prima di tutto c'è il rituale del lavaggio, per il quale adesso è nuda. Le lavo i piedi, come sempre, le gambe, il sedere. La mia mano insaponata risale tra le sue cosce ma, scopro, senza curiosità. Tira su le braccia quando le lavo le ascelle. Le lavo la pancia, il petto. Scanso i capelli per lavarle il collo, la gola. E paziente. La sciacquo
e l'asciugo. Si sdraia sul letto e io le strofino il corpo con olio di mandorle. Chiudo gli occhi e mi perdo nel ritmo di questo strofinare mentre nel
camino, pieno di ciocchi, il fuoco scoppietta dietro la grata. Non sento il desiderio di penetrare in questo corpo piccolo e tarchiato che adesso risplende illuminato dalle fiamme. E' da una settimana che non ci diciamo una parola. La nutro, le do un tetto, uso il suo corpo -
se è ciò che faccio - in questo modo strano. Ci sono stati momenti in cui si irrigidiva di fronte a certe intimità; ma adesso il suo corpo si
abbandona quando le strofino la faccia sulla pancia o le stringo i piedi tra le cosce. Si abbandona a tutto. Qualche volta scivola nel sonno
prima che io abbia finito. Dorme profondamente, come una bambina. Quanto a me, sotto il suo sguardo vuoto, nel chiuso calore della stanza,
mi spoglio senza imbarazzo, scopro le gambe magre, i genitali stanchi, la pancia, il torace flaccido da vecchio, la pelle da tacchino del collo. Mi sorprendo ad aggirarmi nudo senza pensarci, a volte rimango a godermi il fuoco nel camino dopo che lei si è addormentata, oppure mi
siedo a leggere in poltrona.
Ma il più delle volte, proprio mentre l'accarezzo, sono sopraffatto dal sonno, come tramortito, sprofondo nell'oblio scompostamente, steso sul suo corpo, e mi sveglio un'ora o due dopo, intontito, confuso, assetato.
Questi accessi di sonno senza sogni sono come la morte per me, o un incantesimo, un vuoto, fuori del tempo. Una sera, mentre le strofino la
testa con l'olio, le massaggio le tempie e la fronte, noto nell'angolo di un occhio una ruga grigiastra, come se sotto la palpebra fosse annidato un millepiedi, a pascolare.
- Che cos'è questo? - le chiedo sfiorando il millepiedi con l'unghia.
- E' dove mi hanno toccato, - dice, e scansa la mia mano.
- Ti fa male?
Lei scuote la testa.
- Fammi vedere.
Mi è sempre più chiaro che fino a che non avrò decifrato e capito i segni sul corpo di questa ragazza non potrò lasciarla. Non posso lasciarla. Le divarico le palpebre tra pollice e indice. Il millepiedi
finisce, decapitato, nell'angolo interno rosato della palpebra. Non ci sono altri segni, l'occhio è sano. Lo guardo bene. Devo credere che quando a sua volta mi guarda non vede niente, forse il mio piede, o qualche parte della stanza, un cerchio di luce indistinta, ma al centro, dove sto io, solo una macchia, un vuoto? Le passo lentamente la mano davanti al viso, fisso le sue pupille. Mi sembra che non si muovano. Non sbatte le palpebre, ma sorride: - Perché
lo fai? Pensi che non ci vedo? - Ha gli occhi marroni, così marroni da essere quasi neri.
Le sfioro la fronte con le labbra. - Che cosa ti hanno fatto? - mormoro.
Ho la lingua impastata, vacillo sulle gambe per la stanchezza. - Perché non me lo vuoi dire?
Scuote il capo. Sto per precipitare nell'oblio quando mi ricordo che le mie dita, scorrendo sul suo sedere, hanno sentito un immaginario intrecciarsi di solchi sotto la pelle.
- Niente è peggio di quello che
possiamo immaginare, - mormoro.
Non dà segno di avermi ascoltato. Scivolo sulla poltrona, tirandola giù con me, sbadigliando. «Dimmelo, -
le vorrei dire, - non me lo nascondere, il dolore è dolore, nient'altro», ma le parole mi sfuggono. Me la stringo contro, con le labbra sull'orecchio, cerco faticosamente di parlare; poi mi piomba addosso la notte.
L'ho liberata dalla vergogna di mendicare e l'ho sistemata nella cucina della caserma, come sguattera. «Dalla cucina al letto del magistrato sono solo sedici comodi gradini», così i soldati parlano delle
sguattere. Oppure, un'altra delle loro battute: «Qual è l'ultima cosa che fa il magistrato prima di uscire, la mattina? Chiude l'ultima
ragazza nel forno.» Più è piccola una città e più risuona di pettegolezzi. Non c'è niente di privato qui. Il pettegolezzo è l'aria che respiriamo.
Per una parte della giornata lava i piatti, pela le patate, aiuta a fare il pane e a preparare il solito porridge, la minestra e lo stufato che
mangiano i soldati. Oltre a lei c'è la vecchia che dirige la cucina almeno da quando io sono magistrato e due ragazze, la più giovane delle
quali l'anno scorso ha salito i sedici scalini una o due volte. In principio temo che le due si alleino contro di lei e invece no, fanno subito amicizia. Passando davanti alla porta della cucina, quando esco,
sento le loro voci, soffocate dal vapore caldo. Chiacchierano, ridono. Scopro in me, con un certo divertimento, una piccola morsa di gelosia.
- Ti pesa il lavoro? - le chiedo.
- Mi piacciono le altre ragazze, sono carine.
- Se non altro è meglio che chiedere l'elemosina, no?
- Sì.
Quando non dormono altrove, dormono tutte e tre in una piccola camera, tre porte dopo quella della cucina. La notte o la mattina presto, se la mando via, nel buio trova la strada per rientrare in quella stanza.
Certamente le sue amiche hanno chiacchierato di questi suoi convegni amorosi e i dettagli sono di pubblico dominio al mercato. Più uno è
vecchio e più la gente trova grotteschi i suoi accoppiamenti, come gli
spasmi di un animale che sta morendo. Non posso recitare la parte dell'uomo di ferro o di un santo vedovo. Risatine, battutacce, occhiate complici, fa tutto parte del prezzo che sono rassegnato a pagare.
- Ti piace vivere in città? - le chiedo cautamente.
- Sì, direi che mi piace. Ci sono più cose da fare.
- C'è qualcosa che ti manca?
- Mia sorella.
- Se vuoi veramente tornare a casa, - dico, - ti ci faccio portare.
- Portare dove? - dice.
E' stesa sul letto con le mani placidamente appoggiate sul petto. Sdraiato vicino a lei parlo a bassa voce. E' sempre a questo punto che qualcosa si rompe. E' a questo punto che la mia mano che le accarezza la pancia mi sembra una strana aragosta. L'impulso erotico, se di impulso erotico si trattava, si indebolisce; con una certa sorpresa mi vedo aggrappato a questa stolida ragazza, incapace di ricordare che cos'era che potevo desiderare in lei, furibondo con me stesso perché la desidero, ma anche perché non la desidero. Quanto a lei pare non far caso ai miei sbalzi d'umore. Le sue giornate seguono una routine di cui sembra contenta. Al mattino, quando esco, viene da me per spolverare e lavare il pavimento. Poi va ad aiutare in cucina per il pranzo. Il pomeriggio è libera. Dopo cena, una volta che le pentole e il pavimento sono stati lavati e il fuoco è stato spento,
lascia le sue compagne e sale le scale per venire da me. Si spoglia e si sdraia sul letto, in attesa delle mie inspiegabili attenzioni. Mi siedo vicino a lei e l'accarezzo, aspettando un impeto che non viene mai.
Oppure spengo la lampada e mi metto a letto con lei. Al buio ben presto mi dimentica e si addormenta. Così giaccio vicino a questo corpo giovane
e sano che nel sonno si risana sempre più, che tacitamente guarisce anche nei punti più irrimediabilmente danneggiati, gli occhi, i piedi,
fino a recuperare del tutto.
Torno indietro nel tempo, cercando di rintracciare un'immagine di com'era lei prima. Debbo pensare di averla vista il giorno in cui è
stata trascinata in città dai soldati con una corda al collo che la legava agli altri prigionieri barbari. So che il mio sguardo dev'essere passato su di lei, quando, insieme agli altri, si è seduta nel cortile della caserma in attesa di quello che sarebbe successo. Il mio sguardo
dev'essere passato su di lei, ma non ricordo quel passaggio. Quel giorno non era ancora segnata, ma devo credere che non era segnata, così come devo credere che un giorno dev'essere stata bambina, una bambinetta con
le treccine che rincorreva il suo agnellino in un universo in cui io, in qualche luogo lontano da quello, mi muovevo nel fiore degli anni. Per quanto mi sforzi la prima immagine continua ad essere quella della mendicante in ginocchio.
Non l'ho penetrata. Fin dall'inizio il mio desiderio non è andato in quella direzione, non è stato così diretto. L'idea di mettere il mio membro rinsecchito di vecchio in quella guaina calda, pulsante di sangue, mi fa pensare all'acido nel latte, alla cenere nel miele, al gesso nel pane. Quando guardo il suo corpo nudo e poi il mio non riesco
a credere di aver immaginato, un tempo, la forma umana come un fiore che ?s'irradiasse da un seme nei lombi. Questi nostri corpi, il suo e il mio, sono diffusi, gassosi, senza centro, per un momento si avvitano in un
vortice, poi si raggelano, pulsano altrove; ma spesso sono anche piatti, vuoti. Non so che fare con lei, non più di quanto una nuvola in cielo
sappia che fare con un'altra nuvola. La guardo mentre si spoglia, sperando di catturare nei suoi movimenti la
traccia di un'antica naturalezza. Ma perfino il gesto con cui si sfila la camicia, passandola sopra la testa e poi buttandola da una parte, è impacciato, difensivo, incerto, come se avesse paura di urtare contro ostacoli invisibili. Il volto ha l'espressione di chi si sente guardato.
Da un cacciatore ho comprato un cucciolo di volpe argentata. Ha pochi mesi, è appena svezzato, con i denti come una minuscola sega. Il primo giorno lei l'ha portato con sé in cucina, ma si è spaventato a morte per il fuoco e i rumori e così adesso me lo tengo in casa, dove sta sempre rintanato sotto i mobili. La notte qualche volta sento il ticchettio delle unghie sul pavimento di legno. Lappa il latte da un piattino e mangia briciole di carne cotta. Non si riesce ad abituarlo alla lettiera e le stanze cominciano a puzzare dei suoi escrementi, ma è troppo presto per lasciarlo libero nel cortile. Ogni tanto faccio venire su il nipote del cuoco perché s'infili dietro l'armadio e sotto le sedie a pulire.
- E' una creaturina deliziosa, - dico.
Lei si stringe nelle spalle
- Gli animali devono stare fuori.
- Vuoi che lo porti al lago e lo lasci libero?
- Non puoi, è troppo piccolo. Morirebbe di fame o in bocca ai cani.
Così il cucciolo rimane. A volte vedo il suo muso appuntito che sbuca da un angolo buio. Per il resto è solo un rumore nella notte e un penetrante tanfo di urina; aspetto che sia grande abbastanza per poterlo abbandonare.
- La gente dirà che tengo in casa due animali selvatici, una volpe e una ragazza.
Non capisce lo scherzo o comunque non le piace. Stringe le labbra e fissa ostinatamente la parete, so che sta cercando di sfidarmi. Provo una gran tenerezza per lei, ma che posso fare? Con la toga addosso o nudo davanti a lei, col cuore in mano, sono sempre lo stesso uomo.
- Mi dispiace, - dico, e le parole mi escono inerti dalle labbra. Allungo timidamente la mano, le accarezzo i capelli. - Ovviamente non è la
stessa cosa. Uno dopo l'altro chiamo i soldati che erano di guardia durante
l'interrogatorio dei prigionieri. Tutti mi riferiscono la stessa cosa: non hanno rivolto la parola ai prigionieri, era proibito entrare nella stanza dove si svolgevano gli interrogatori, non sono in grado di dirmi
cosa succedeva lì dentro. Ma dalla donna delle pulizie ottengo una descrizione della stanza. - Un tavolino e degli sgabelli, tre sgabelli,
e una stuoia in un angolo, non c'era altro... No, no, c'era il fuoco, un braciere. Svuotavo la cenere.
Ora che la vita è tornata alla normalità la stanza è di nuovo in uso. Su mia richiesta i quattro soldati che dormono lì portano i loro bauli in corridoio, ammonticchiano le stuoie, ci mettono sopra piatti e boccali, tolgono le corde del bucato. Entro nella stanza vuota e chiudo la porta.
L'aria è ferma e fredda. Il lago già comincia a ghiacciare. Sono cadute le prime nevi. In lontananza sento i campanelli di una slitta. Chiudo gli occhi e mi sforzo di immaginare come dev'essere stata questa stanza
due mesi fa, durante la visita del colonnello; ma è difficile perdersi in questa fantasia con i quattro soldati che ciondolano fuori, si sfregano le mani, sbattono i piedi, mormorano, impazienti che me ne vada, col fiato caldo che forma piccole nuvolette nell'aria. Mi inginocchio per esaminare il pavimento. E' pulito, lo spazzano ogni giorno, come in tutte le stanze. Sopra il camino, sulla parete e sul soffitto, c'è della fuliggine; c'è anche un'impronta grande come la mia mano dove la fuliggine è stata strofinata sul muro. Per il resto le pareti sono vuote. Che segni sto cercando? Apro la porta e faccio cenno agli uomini che riportino dentro le loro cose.
Torno a fare domande per la seconda volta alle guardie che erano in servizio nel cortile:
- Ditemi esattamente quello che succedeva quando venivano interrogati i prigionieri. Ditemi quello che avete visto.
Il più alto, un ragazzo con la faccia lunga e l'aria sveglia che mi è sempre piaciuto, risponde.
- L'ufficiale...
- L'ufficiale di polizia?
-Si... l'ufficiale di polizia veniva nell'atrio dove stavano i prigionieri e ne indicava alcuni. Noi prendevamo quelli che aveva indicato e li portavamo all'interrogatorio, poi li riportavamo qui.
- Uno per volta?
- Non sempre, ogni tanto due.
- Sapete che uno dei prigionieri dopo è morto. Ve lo ricordate quel prigioniero? Sapete cosa gli hanno fatto?
- Abbiamo sentito dire che era impazzito e li aveva aggrediti.
-Si?
- Questo è quello che abbiamo sentito dire. Lo abbiamo riportato nello stanzone, dove tutti gli altri dormivano. Aveva un respiro strano, molto profondo e rapido. E' stata l'ultima volta che l'ho visto. Il giorno dopo era morto. - Continua, ti ascolto. Devi dirmi tutto quello che riesci a ricordare.
Il ragazzo ha l'aria tesa. Sono sicuro che gli è stato consigliato di
non parlare. - Quell'uomo è stato interrogato più a lungo degli altri.
L'ho visto seduto da solo in un angolo dopo il primo interrogatorio, si
teneva la testa -. Guarda incerto il compagno. - Non voleva mangiare
niente. Non aveva fame. La figlia ha cercato di fargli mangiare qualcosa
ma lui si è rifiutato.
- Che ne è stato della figlia?
- Anche lei è stata interrogata, ma non così a lungo.
- Continua.
Ma non ha più niente da dirmi.
- Stammi assentire, - dico: - tutti e due sappiamo chi è la figlia. E'
la ragazza che sta da me. Non è un segreto. Adesso continua: dimmi che
cosa è successo.
- Non lo so, signore! Non stavo sempre lì.- Si rivolge al compagno, che
continua a tacere. - Qualche volta si sentivano delle urla, credo che la
picchiassero, ma io non c'ero. Quando smontavo andavo via.
- Sai che adesso non riesce più a camminare bene? Le hanno rotto i
piedi. Le hanno fatto tutto questo davanti a quell'uomo, a suo padre?
- Sì, credo di sì.
- E sai che non ci vede più bene. Quando gliel'hanno fatto?
- Signore, c'erano tanti prigionieri di cui occuparsi, alcuni stavano
male! Sapevo che le avevano rotto i piedi, ma che era cieca l'ho saputo
solo molto tempo dopo. Non potevo farci niente, non volevo essere
coinvolto in una cosa che non capivo!
Il suo amico non ha niente da aggiungere. Li congedo. - Non abbiate
paura per avermi parlato, - dico.
Quella notte il sogno ritorna. Cammino faticosamente in una distesa di
neve infinita verso un gruppetto di piccole figure che giocano intorno a
un castello di neve. Quando mi avvicino i bambini sgusciano via o si
dissolvono nell'aria. Solo una figura rimane, una bambina col cappuccio
che mi volta le spalle. Le giro intorno, mentre continua ad aggiungere
neve facendola aderire a piccoli colpi alle pareti del castello, finché
riesco a sbirciare sotto il cappuccio. La faccia che vedo è vuota, senza
tratti; è la faccia di un embrione o di una minuscola balena; non è
proprio una faccia, ma una qualche altra parte del corpo umano, gonfia
sotto la pelle; è bianca, è la neve stessa. Allungo una moneta tra le dita intirizzite.
L'inverno è arrivato. Il vento soffia da nord e continuerà a soffiare
ininterrottamente per i prossimi quattro mesi. Alla finestra, con la
fronte appoggiata sul vetro freddo, lo sento fischiare nelle grondaie,
sollevare e scuotere continuamente una tegola sconnessa del tetto. Nella
piazza si rincorrono nugoli di polvere leggera, il sole sorge
galleggiando in un cielo arancione e tramonta rosso rame. Di tanto in
tanto tempeste di neve spruzzano la terra di bianco. E' l'assedio
dell'inverno.
I campi sono deserti, nessuno varca le mura della città salvo quei due o
tre che vivono di caccia. La parata bisettimanale della guarnigione è
stata sospesa e i soldati hanno il permesso di lasciare la caserma se
vogliono e di andare a vivere in città, poiché non hanno molto da fare
tranne bere e dormire. Quando cammino sui bastioni al mattino presto la
metà delle torri di guardia sono vuote e le sentinelle, inebetite dal
freddo e coperte di pelli, faticano ad alzare la mano e fare il saluto.
Potrebbero starsene tranquillamente nei loro letti. Per tutto l'inverno
l'Impero è al sicuro: lontani dai nostri occhi anche i barbari si
stringono attorno alle stufe e battono i denti per il freddo.
Quest'anno non abbiamo avuto barbari in città. In passato gruppetti di
nomadi venivano qui durante l'inverno, piantavano le loro tende intorno
alle mura e poi si dedicavano al baratto. Scambiavano lana, pelli,
feltro e articoli di cuoio con biancheria, té, zucchero, legumi, farina.
I loro lavori in cuoio sono molto apprezzati qui da noi, soprattutto i
resistenti stivali cuciti a mano. In passato ho incoraggiato il
commercio ma ho proibito che venissero pagati in denaro. Ho anche
cercato di impedire che frequentassero le taverne. L'ultima cosa che
voglio è vedere una comunità parassita crescere ai margini della città e
popolarla di vagabondi e mendicanti schiavi dell'alcol. Mi ha sempre
addolorato vedere quella gente cadere vittima dell'avidità dei
commercianti, i loro prodotti ceduti in cambio di carabattole, loro
stessi buttati sui marciapiedi, ubriachi. Non sopportavo di vedere così
confermata la litania di pregiudizi dei coloni, secondo cui i barbari
sono pigri, immorali, sporchi e stupidi. Se la civiltà ha portato con sé
la corruzione delle virtù barbare, e la creazione di una massa di
persone asservite al vizio, allora sono contro la civiltà, e sulla base
di questa convinzione ho regolato la condotta della mia amministrazione
(proprio io dico questo, io che adesso tengo in casa una barbara per il
mio piacere!)
Ma quest'anno una cortina è scesa lungo tutta la frontiera. Dai bastioni
ci sforziamo di guardare lontano, verso le pianure deserte. Per quanto
ne sappiamo, dall'altra parte occhi più acuti dei nostri ci guardano a
loro volta. Il commercio è finito. Da quando dalla capitale è arrivata
la notizia che bisognava fare tutto quanto fosse ritenuto necessario per
la salvaguardia dell'Impero, siamo tornati a un'epoca di incursioni e di
vigilanza armata. Non possiamo fare altro che lucidare le spade, stare
all'erta e aspettare. Passo il tempo con i miei vecchi svaghi. Leggo i classici, continuo a
catalogare le mie varie collezioni, raccolgo tutte le mappe disponibili
della regione desertica meridionale, e quando il vento non è proprio
gelido porto con me un gruppo di scavatori per liberare i siti già
scavati dalla sabbia che si rideposita continuamente; poi, una volta o
due a settimana, parto all'alba per andare a caccia di antilopi lungo il
lago.
Solo una generazione fa c'era una tale quantità di antilopi e di lepri
che i campi, nottetempo, dovevano essere presidiati da custodi con tanto
di cani per proteggere il grano appena nato. Ma per effetto dello
stanziamento, e soprattutto per via dei branchi di cani selvatici che le
cacciano, le antilopi si sono ritirate verso est e nord, lungo le anse
più remote del fiume e la sponda più estrema del lago. Oggi ogni
cacciatore sa che se vuole prendere qualcosa deve cavalcare almeno per
un'ora prima di potersi appostare.
Qualche volta, al mattino, se la giornata è bella, riesco ancora a
sentire la forza e l'agilità della mia piena virilità. Come un'ombra
allora scivolo da una macchia all'altra. Con gli stivali che ho
ingrassato per trent'anni, passo a guado ruscelli di acqua gelata. Sopra
la giacca ho la mia gigantesca pelle d'orso. Sulla barba mi si forma la
brina ma le mani sono calde nei guanti. La vista è acuta, l'udito fino,
fiuto l'aria come un bracco, in uno stato di pura esaltazione.
Oggi lascio il mio cavallo legato dove finisce la striscia di erba
palustre, sulla brulla sponda sud-occidentale del lago, e procedo a
piedi tra le canne. Il vento, gelido e secco, mi soffia dritto negli
occhi, il sole è sospeso come un'arancia su un orizzonte striato di
viola e di nero. Quasi immediatamente, per un assurdo colpo di fortuna,
m'imbatto in un'antilope d'acqua, un maschio con le corna fortemente
attorcigliate, col pelo ispido e lungo del manto invernale: sta lì, al
mio fianco, e vacilla quando si allunga verso l'alto per strappare le
fronde delle canne. Dalla mia posizione, a soli trenta passi, vedo il
mansueto movimento circolare della mascella, sento il tonfo degli
zoccoli, riesco perfino a scorgere le goccioline di brina che si
depositano sulla sua barbetta.
Ancora non ho studiato la situazione e tuttavia, quando l'antilope si
solleva, con le zampe anteriori piegate sul petto, alzo il fucile e
glielo punto alle spalle. Il mio movimento è stato lento e continuo, ma
forse il sole dev'essersi riflesso sulla canna del fucile, perché nel
riabbassarsi volta la testa e mi vede. Gli zoccoli toccano la terra
ghiacciata producendo un suono secco, leggero, la mascella s'arresta a
metà, e ci guardiamo.
Il battito cardiaco è regolare: evidentemente non m'importa se l'antilope muore.
Mastica ancora una volta, un solo colpo di mandibola, poi smette. Nel silenzio di quel chiaro mattino scopro un sentimento oscuro annidato ai confini della mia coscienza. Col maschio di antilope immobile, come sospeso davanti a me, sembra che ci sia tempo per tutto, tempo
addirittura per rivolgere lo sguardo dentro di me e capire cos'è che ha tolto alla caccia tutto il suo fascino: la sensazione che ormai non si
tratti più di una mattina di caccia, ma di una circostanza in cui o il fiero animale cadrà colpito a morte insanguinando la neve o il vecchio cacciatore sbaglierà il suo colpo; la sensazione che per tutta la durata di questo istante raggelato le stelle siano disposte in una configurazione in cui gli eventi non sono più quello che sono, ma significano altre cose. Resto lì, dietro il mio meschino riparo, nel
tentativo di scuotermi di dosso questa sensazione irritante e
misteriosa, finché la bestia non si volta e con un guizzo della coda e un breve tonfo degli zoccoli scompare tra le alte canne.
Mi aggiro ancora senza meta per un'ora prima di rientrare.
- Non ho mai avuto la sensazione di non vivere la mia vita alle mie condizioni, prima d'ora, - dico alla ragazza cercando di farle capire
quello che mi è successo. Discorsi come questi la agitano, la pressione che sembro farle per avere una risposta la infastidisce.
- Non capisco, - dice. Scuote la testa: - Non volevi abbatterla quell'antilope?
Per un po' rimaniamo tutti e due in silenzio.
- Se vuoi fare una cosa, la fai, - dice alla fine con fermezza. Si
sforza di essere chiara, ma forse quello che vuole dire è: «Se l'avessi voluto fare l'avresti fatto.» Nella lingua approssimativa con cui
comunichiamo non esistono sfumature. Noto che a lei piacciono i fatti, le asserzioni pragmatiche; non ama le stranezze, le domande, le
elucubrazioni. Siamo una coppia male assortita. Forse è così che vengono educati i bambini dei barbari: a vivere meccanicamente guidati dalla
saggezza che si trasmette di padre in figlio.
- E tu? - dico. - Tu fai sempre tutto quello che vuoi? - Sento che rischio di lasciarmi andare, di essere trascinato pericolosamente lontano dalle parole.
- Adesso sei qui a letto con me perché è quello che vuoi?
E' lì, sdraiata nuda sul letto, con la pelle spalmata d'olio che alla luce della fiamma manda bagliori d'oro verde. Ci sono momenti - come questo - in cui il desiderio che sento per lei, in genere così oscuro,
si accende e prende una forma che posso riconoscere. Muovo la mano, l'accarezzo, seguo il profilo del suo seno.
Non risponde alle mie parole, ma io continuo, tenendola stretta, a parlarle all'orecchio con voce roca, soffocata: - Vieni qui, dimmi perché sei qui.
- Perché non ho un altro posto dove andare.
- E io, perché ti voglio qui, io?
Si divincola dal mio abbraccio e infila il pugno chiuso tra il suo petto e il mio torace.
- Tu vuoi solo parlare, tutto il tempo, - protesta.
La semplicità del momento è svanita; ci separiamo e restiamo lì, fianco a fianco, in silenzio. Qual è l'uccello che ha il coraggio di cantare in
un rovo spinoso?
- Non dovresti andare a caccia se non ti piace.
Scuoto il capo. Non era questo il senso della storia, ma a che
servirebbe discutere? Sono come un maestro di scuola inetto, lì a manovrare il mio forcipe maieutico quando quello che dovrei fare invece
è riempirla con la verità.
Parla lei.
- Mi fai sempre la stessa domanda e allora adesso ti
rispondo. Era una forchetta, una specie di forchetta con due soli denti. E la punta dei denti era come una pallina arrotondata, smussata. La
mettevano sulla brace finché non diventava incandescente e poi ti toccavano con quell'arnese per bruciarti. Ho visto i segni lasciati nei punti dove hanno bruciato gli altri.
E' questa la domanda che le ho fatto? Vorrei protestare e invece sto zitto, scoraggiato.
- Ma non mi hanno bruciato. Avevano detto che mi avrebbero bruciato gli occhi ma non l'hanno fatto. L'uomo me l'ha solo messa molto vicina agli occhi e mi ha costretto a guardare. Mi tenevano le palpebre aperte a
forza. Ma io non avevo niente da dire. E' tutto qui.
- E' stato allora che mi si sono rovinati gli occhi. Dopo non riuscivo più a vedere bene. Al centro di ogni cosa c'era una macchia, vedevo solo i contorni. E' difficile spiegarlo.
- Ma adesso va meglio. L'occhio sinistro sta migliorando. Tutto qui.
Le prendo il viso tra le mani e guardo fissamente il centro morto dei suoi occhi, mi restituiscono lo sguardo solenne di un me stesso
sdoppiato in due riflessi gemelli.
- E questo? - chiedo sfiorando la cicatrice a forma di verme che ha nell'angolo dell'occhio.
- Quello non è niente. E' dove mi ha toccato il ferro. Ha fatto una piccola bruciatura. Non è una piaga -. Scansa le mie mani.
- Cosa provi per gli uomini che ti hanno fatto questo?
Ci pensa a lungo. Poi dice:
- Sono stanca di parlare.
Altre volte sento fitte di insofferenza per quel rituale da cui dipendo, l'olio da spalmare e i massaggi, la sonnolenza e la discesa nell'oblio. Non capisco più che razza di piacere io possa aver tratto da quel suo corpo ostinato e flemmatico, e arrivo perfino a scoprire dentro di me moti di orgoglio ferito. Allora mi chiudo in me stesso, divento irritabile; la ragazza mi gira le spalle e si addormenta.
In questo stato d'animo contrariato una sera vado al secondo piano della locanda. Mentre salgo su per le misere scale un uomo che non riconosco le scende di corsa, rialzandosi il bavero. Busso alla seconda porta sul
corridoio ed entro. La stanza è proprio come la ricordo. Il letto rifatto e in ordine, lo scaffale sopra il letto carico di ninnoli e giocattoli, due candele accese e una forte vampa di calore che emana dal grande tubo della stufa che corre lungo la parete; nell'aria c'è un sentore di fiori d'arancio. La ragazza è seduta davanti allo specchio. Sussulta quando entro, ma si alza con un sorriso e mi viene incontro, poi chiude a chiave la porta. Niente sembra più naturale che metterla seduta sul letto e cominciare a spogliarla. Scrollando appena le spalle
mi aiuta a denudare il suo bel corpicino.
- Quanto mi sei mancato! -
sospira.
- Che piacere essere di nuovo qui! - le sussurro. E che piacere sentire menzogne così lusinghiere!
L'abbraccio, affondo in lei, mi perdo in lei che palpita, morbida come piume d'uccello. Il corpo dell'altra
chiuso, pesante, addormentato nel mio letto in una stanza lontana mi sembra incomprensibile. Preso da questi piaceri soavi mi chiedo che cosa mai mi abbia attratto verso quel corpo estraneo. Tra le mie braccia la ragazza trema, ansima, grida quando arriva all'orgasmo. Sorrido felice e, mentre scivolo in un languore sonnolento, mi rendo conto che non sono
neppure in grado di ricordare la faccia dell'altra. «Lei è incompleta!» mi dico. Anche se il pensiero subito svanisce, mi ci aggrappo. Ho una visione di lei con gli occhi chiusi, la faccia chiusa, ricoperta dalla pelle. Vuota, come un pugno sotto una parrucca nera, la faccia sembra spuntare dalla gola e dal corpo informe che c'è sotto, senza aperture, senza entrate. Sono scosso da brividi di repulsione tra le braccia della mia piccola donna-piuma, la stringo forte a me.
Quando a metà notte scivolo cautamente fuori dalle sue braccia lei si lamenta ma non si sveglia. Mi vesto al buio, chiudo la porta alle mie
spalle e trovo a tentoni la via delle scale, quindi corro a casa con la neve che mi scricchiola sotto i piedi e il vento gelido che mi trapassa la schiena. Accendo la candela e mi chino sulla forma della quale sembra che in qualche misura sia divenuto schiavo. Seguo con dita leggere i contorni del suo viso, la mascella squadrata, gli zigomi alti, la bocca larga. Le sfioro appena le palpebre. Sono sicuro che è sveglia anche se non si muove.
Chiudo gli occhi, respiro profondamente per calmare l'agitazione, e mi concentro tutto nel tentativo di vederla con la cieca punta delle dita.
E' carina? La ragazza che ho appena lasciato, la ragazza di cui forse (me ne rendo conto solo ora) lei sente l'odore addosso a me, è molto carina, non c'è dubbio: l'acuto piacere che mi dà è accentuato
dall'eleganza del suo piccolo corpo, dai suoi modi, dalla sua maniera di muoversi. Ma di questa qui non c'è nulla che possa dire con certezza.
Non sono in grado di stabilire un rapporto tra il suo essere donna e il mio desiderio. Non posso neppure dire con certezza se la desidero oppure no. Tutto il mio comportamento erotico è indiretto: le giro intorno,
toccandole il viso, carezzandole il corpo senza penetrarla e senza sentire il bisogno di farlo. Sono appena uscito dal letto di una donna
sulla quale, nell'anno in cui ci siamo frequentati, non ho mai, nemmeno per un momento, avuto bisogno di interrogarmi a proposito del desiderio che provavo per lei. Desiderarla voleva dire abbracciarla ed entrarle
dentro, penetrarne la superficie e smuoverne la quiete interna con una
tempesta di piacere e poi ritirarmi, abbandonarmi, e aspettare che il desiderio si affacciasse di nuovo. Ma con questa donna qui è come se non ci fosse un interno, solo una superficie sulla quale faccio avanti e indietro inutilmente, cercando un ingresso. E' così che si saranno sentiti i suoi torturatori quando andavano a caccia del suo segreto, qualunque esso fosse? Per la prima volta sento nei loro confronti una forma di arida pietà: com'è naturale sbagliare, credere che si possa bruciare o strappare o farsi strada nel corpo segreto dell'altro! La ragazza sta nel mio letto ma niente motiva il suo stare nel mio letto.
In un certo senso mi comporto come un amante: la spoglio, la lavo, la carezzo, le dormo accanto - ma potrei anche legarla a una sedia e frustarla, non sarebbe meno intimo.
Ma non mi sta succedendo quello che succede agli uomini di una certa età, uno spostamento progressivo dal libertinaggio ad azioni vendicative del loro desiderio impotente. Se si stesse compiendo una trasformazione del mio essere morale me ne renderei conto e non avrei nemmeno
intrapreso l'esperimento rassicurante di stasera. Sono l'uomo di sempre, ma il tempo si è spezzato, qualcosa mi è piombato in testa dal cielo, a
caso, dal nulla: questo corpo nel mio letto, un corpo di cui io sono responsabile, o così pare, altrimenti perché lo terrei qui? Per ora, o forse per sempre, sono semplicemente stregato. Sdraiarmi a letto vicino a lei e addormentarmi oppure avvolgerla in un lenzuolo e seppellirla sotto la neve, mi sembra identico. Eppure quando mi chino su di lei e le sfioro la fronte con la punta delle dita, sto attento a non far gocciolare la cera.
Non sono in grado di dire se abbia capito dove sono stato; ma la notte successiva, quando il ritmo del massaggio con l'olio mi culla e sono sul
punto di addormentarmi, sento la sua mano che ferma la mia, l'afferra e la guida giù tra le gambe. Per un po' lascio la mano lì contro il suo sesso, poi mi verso altro olio caldo sulle dita e comincio a carezzarla. Subito il suo corpo si tende, inarca la schiena ed è scossa da un tremito, poi scansa la mia mano. Continuo a strofinarle il corpo fino a
che anch'io sono rilassato e sopraffatto dal sonno.
Questo, che pure è stato il nostro atto di maggiore collaborazione fino ad ora, non mi eccita. Non mi avvicina di più alla ragazza, e del resto neppure a lei sembra aver fatto un grande effetto. La mattina dopo cerco il suo viso, è vuoto. Si veste e, inciampando, scende in cucina. Sono agitato. «Che cosa devo fare per smuoverti?» Sono queste le parole che mi frullano in testa in quel mormorio sotterraneo che ha preso il posto della conversazione. «Nessuno ti smuove?» E con un moto di orrore vedo la risposta che aspettavo da sempre: mi si offre nell'immagine di una faccia nascosta dietro due neri e vitrei occhi d'insetto che non rispondono al mio sguardo, ma solo rimandano il mio riflesso raddoppiato.
Scuoto la testa furibondo, incredulo. No, no, no! grido a me stesso. Sono io che mi inganno per vanità, io che immagino questi significati e
queste corrispondenze. Che razza di depravazione si sta impadronendo di me? Cerco segreti e risposte, non importa se assolutamente insensati,
come una vecchia che legge le foglie del té. Non c'è niente che colleghi me agli aguzzini, acquattati in attesa come scarafaggi in buie cantine.
Come posso pensare che un letto sia qualcosa di diverso da un letto, il corpo di una donna qualcosa di diverso da un luogo di delizie? Debbo
ribadire la mia distanza dal colonnello Joll! Non voglio scontare io i suoi crimini!
Comincio ad andare dalla ragazza della locanda regolarmente. Ci sono momenti, di giorno, nel mio ufficio, dietro l'aula del tribunale, in cui mi distraggo e vago con l'immaginazione, momenti in cui mi lascio
trascinare dalle fantasie erotiche. Accaldato e gonfio di eccitazione, indugio sul suo corpo come un ragazzino libidinoso, poi, riluttante, torno al lavoro e alle tediose carte, oppure vado alla finestra e guardo la strada. Ricordo i primi anni qui, quando la sera, al tramonto, mi aggiravo senza meta per i quartieri più malfamati, coprendomi la testa col mantello; a volte una moglie scontenta, appoggiata alla
porta-finestra, illuminata dal fuoco del camino acceso nella stanza, rispondeva al mio sguardo senza ritrarsi. Oppure rivolgevo la parola a due o tre ragazzine a passeggio, pagavo loro il gelato, e poi magari
riuscivo a trascinarne una nel granaio, su un letto di sacchi. Se c'era una cosa invidiabile in un incarico sulla frontiera, mi avevano detto gli amici, era proprio la libertà di costumi delle oasi, le lunghe sere estive con l'aria satura di profumi, le donne compiacenti con gli occhi a mandorla. Per anni ho sfoggiato l'aria ben pasciuta di un toro da monta. In seguito quella promiscuità si è trasformata, modulandosi in
relazioni più discrete con governanti e cameriere, a volte alloggiate nel mio appartamento ma per lo più giù in cucina, come sguattere, o con le ragazze della locanda. Poi ho scoperto di avere bisogno delle donne meno spesso; passavo più tempo a lavorare e a coltivare i miei hobby, l'archeologia, la cartografia.
Ma non era solo questo; a volte, nel bel mezzo dell'atto sessuale, mi capitava, e mi sconcertava, di perdere la strada, come un cantastorie
che perda il filo del suo racconto. Pensavo con ribrezzo alle immagini grottesche e ridicole di vecchi grassoni che muoiono, farfugliando scuse, tra le braccia delle loro amanti, perché il cuore troppo appesantito non ha retto; e tocca trascinarli fuori, lasciarli in un vicolo buio, per salvare la reputazione della casa. L'orgasmo cominciò allora a diventare remoto, inconsistente, una stranezza. Qualche volta mi fermavo, altre arrivavo fino in fondo meccanicamente. Per settimane e mesi mi rinchiudevo nella mia solitudine. Il piacere che mi davano il calore e la bellezza dei corpi femminili non mi aveva abbandonato, ma mi
si poneva un dilemma nuovo. Davvero volevo entrare in quelle meravigliose creature, rivendicarne il possesso? Il desiderio sembrava portare con sé un'ansia di distanza e separazione che era inutile
negare. Né mi riusciva sempre di capire come mai una parte del mio corpo, con i suoi irragionevoli desideri e le sue false promesse, dovesse essere privilegiata rispetto a ogni altra come canale del desiderio. Qualche volta il mio sesso mi sembrava un essere distinto da me, uno stupido parassita che mi viveva addosso, gonfiandosi e
ammosciandosi secondo i suoi appetiti, aggrappato alla mia carne con grinfie che non riuscivo a staccare. Perché ti devo portare a spasso da
una donna all'altra, domandavo, solo perché sei nato senza gambe? Che
differenza farebbe per te essere attaccato a un cane o a un gatto, invece che a me?
Eppure in altri momenti, e soprattutto l'anno scorso, con la ragazza che alla locanda chiamano «La Stella», ma che a me ha sempre fatto pensare a un uccello, ho sentito ancora una volta il vigore e la potenza dell'attrazione sessuale, ho nuotato nel suo corpo, di nuovo trascinato ai confini ultimi del piacere. Così mi sono detto: «E solo un problema di età, di cicli alterni di desiderio e di apatia in un corpo che lentamente si raffredda e muore. Da giovane bastava l'odore di una donna
a eccitarmi; ora evidentemente solo le più dolci, quelle più giovani e
fresche, hanno quel potere. Uno di questi giorni saranno i ragazzini a farmi quell'effetto.» Immaginavo con un certo disgusto gli ultimi anni che avrei dovuto trascorrere in quest'oasi dell'abbondanza.
Sono tre notti di fila che la vado a trovare nella sua stanzetta e le porto in regalo olio di cananga, dolci, un barattolo di uova di pesce
affumicato che le piace tanto mangiare quando è sola. Quando l'abbraccio chiude gli occhi ed è scossa da un tremito che sembra di piacere. L'amico che me l'aveva raccomandata, la prima volta, mi aveva parlato delle sue qualità:
- Recita, naturalmente, - aveva detto, - ma nel suo caso la differenza è che crede davvero nella parte che
recita -.
Quanto a me, credo che non m'importi. Affascinato dalla scena che fa, apro gli occhi nel pieno dei sussulti, dei tremiti, dei gemiti e risprofondo nel
fiume nero del mio piacere.
Passo tre giorni in preda a un languore sensuale, con le palpebre che mi pesano, leggermente eccitato, sognante. Torno a casa dopo mezzanotte e m'infilo a letto, senza fare caso alla forma ostinata che ho accanto. Se
al mattino mi sveglia il rumore che fa quando si prepara, fingo di dormire fino a che non se n'è andata.
Un giorno, passando per caso davanti alla porta della cucina, do un'occhiata dentro. Tra nuvole di vapore vedo una ragazza tarchiata seduta a un tavolo che prepara il cibo. «So chi è», penso con sorpresa,
eppure l'immagine che mi resta dentro mentre attraverso il cortile è quella della montagna di zucchine verdi sul tavolo, davanti a lei. Mi sforzo di spostare mentalmente l'attenzione da quel mucchio di zucchine
alle mani che le affettano e dalle mani alla faccia. Ma scopro in me una resistenza. Continuo a fissare sbalordito le zucchine e la luce che si
riflette sulla loro buccia bagnata. Il mio sguardo, come dotato di una volontà sua, non si muove. Così comincio a capire il senso di quello che
sto cercando di fare: voglio cancellare la ragazza. Mi rendo conto che
se prendessi in mano una matita e cercassi di disegnarne il volto non
saprei da che parte incominciare. E' davvero così priva di fisionomia?
Con uno sforzo mi concentro su di lei. Vedo una figura con un cappuccio
e un pesante cappotto sformato che si regge in piedi a malapena, curva
in avanti, con le gambe storte, appoggiata a dei bastoni. Che brutta, mi
dico. La mia bocca articola la parola brutta. Sono sorpreso io stesso,
ma non resisto: è brutta, brutta.
La quarta notte ritorno a casa di malumore, mi aggiro per le stanze
rumorosamente, senza far caso se la sveglio. La serata è andata male, la
corrente di rinnovato desiderio si è interrotta. Lancio gli stivali per
terra e mi arrampico sul letto con una gran voglia di litigare e di dare
la colpa a qualcuno, al tempo stesso vergognandomi del mio infantilismo.
Non riesco a capire che diavolo ci faccia questa donna nella mia vita.
Il pensiero delle strane estasi cui mi sono avvicinato grazie al suo
corpo incompleto mi riempie di una repulsione distaccata, come se avessi
passato le mie notti ad accoppiarmi con una bambola di paglia e cuoio.
Cosa avrò visto in lei? Cerco di ricordare com'era prima che i maestri
del dolore cominciassero a dispensarle le loro cure. E' impossibile che
il mio sguardo non l'abbia sfiorata seduta nel cortile con tutti gli
altri prigionieri barbari, il giorno in cui li hanno portati qui. Da
qualche parte, nel bozzolo del mio cervello, deve pur esserci quel
ricordo, lo so, ma non riesco a farlo emergere. Ricordo la donna col
neonato e perfino il neonato. Ricordo ogni particolare: il bordo
sfilacciato dello scialle di lana, la patina di sudore sotto le ciocche
dei capelli sottili del bambino. Ricordo le mani ossute dell'uomo che è
morto; credo che con uno sforzo potrei anche ricostruirne il viso. Ma
vicino a lui, dove dovrebbe stare la ragazza, c'è uno spazio, un vuoto.
La notte mi sveglio con la ragazza che mi scuote e l'eco di un flebile
gemito ancora nell'aria. - Gridavi nel sonno, - dice, - mi hai
svegliato.
- Che cosa gridavo?
Borbotta qualcosa e mi gira le spalle.
Poi mi sveglia ancora, dopo un po': - Gridavi.
Intontito e confuso, e anche arrabbiato, cerco di guardarmi dentro ma
vedo solo un vortice e al centro del vortice l'oblio.
- Un sogno? - mi chiede.
- Non ricordo nessun sogno.
E' possibile che sia tornato il sogno della bambina col cappuccio che
costruisce il castello di neve? Se fosse così dovrei avere ancora
addosso il sapore, l'odore o il bagliore residuo di quel sogno.
- C'è una cosa che ti devo chiedere, - le dico. - Ricordi quando vi
hanno portato qui nel cortile della caserma la prima volta? Le guardie
vi fecero mettere tutti seduti. Dov'eri seduta tu? Da che parte
guardavi?
Dalla finestra vedo strisce di nuvole correre rapide davanti alla luna.
Lei parla nel buio, accanto a me: - Ci hanno fatti sedere insieme,
all'ombra. Io ero vicino a mio padre.
Richiamo l'immagine del padre. In silenzio cerco di ricreare il caldo,
la polvere, il tanfo di tutti quei corpi stanchi. All'ombra del muro di
cinta della caserma scorro i prigionieri seduti, uno dopo l'altro, tutto
quello che riesco a ricordare. Metto insieme la donna col neonato, il
suo scialle di lana, il suo petto nudo. Il bambino piagnucola, lo sento
piangere, è troppo stanco per ciucciare. La madre, esausta, assetata, mi
guarda e si domanda se sono uno a cui chiedere aiuto. Dopo vengono due
forme confuse, confuse ma presenti: so che con uno sforzo, in parte
della memoria e in parte dell'immaginazione, posso riempirle con dei
tratti. Poi viene il padre della ragazza, con le sue mani nodose giunte
sulle gambe e il berretto calato sugli occhi, non alza la testa per
guardare. Ora passo allo spazio vicino a lui.
- Da che parte eri seduta rispetto a tuo padre?
- A destra.
Lo spazio alla destra dell'uomo resta vuoto. Con un doloroso sforzo di
concentrazione riesco a vedere perfino la ghiaia per terra e il muro
dietro di lui.
- Dimmi cosa facevi.
- Niente. Eravamo tutti tanto stanchi. Avevamo camminato da prima
dell'alba, fermandoci una volta sola a riposarci. Eravamo stanchi e
avevamo sete.
- E mi hai visto?
- Sì, tutti ti abbiamo visto.
Mi prendo le ginocchia tra le braccia e mi concentro. Lo spazio vicino
all'uomo resta vuoto, ma comincia a emergere la sensazione indefinita
della presenza della ragazza, come un'aura. Ora! mi sprono. Ora aprirò
gli occhi e lei sarà lì! Apro gli occhi. Nella luce incerta distinguo la
sua forma vicino a me. In un impeto di tenerezza allungo le dita per
toccarle i capelli, il viso. Nessun segno di vita. E' come carezzare
un'urna o un pallone, qualcosa che è solo superficie.
- Ho cercato di ricordare com'eri prima che tutto questo succedesse, -
dico. - Mi è difficile. E un peccato che tu non me lo possa dire -, Non
mi aspetto che protesti, e infatti non lo fa. E' arrivato un distaccamento di nuovi coscritti per prendere il posto di
quelli che hanno finito il servizio di leva di tre anni sulla frontiera
e sono pronti a tornare a casa. Il distaccamento è comandato da un
giovane ufficiale che entrerà a far parte del comando locale.
Lo invito a cenare con me alla locanda insieme a due suoi colleghi. La
serata scorre piacevolmente: il cibo è buono, il vino abbondante, il mio
ospite ha tante storie da raccontare sul viaggio che ha intrapreso in
una stagione difficile e in un territorio che gli è totalmente
sconosciuto. Sulla strada, mi dice, ha perso tre uomini: uno era uscito
dalla tenda di notte per andare a fare i suoi bisogni e non è più
tornato; due hanno disertato appena avvistata l'oasi, nascondendosi nel
folto delle canne. Piantagrane, li definisce, gente che non gli dispiace
di aver perduto. E del resto, non sono d'accordo con lui che disertare
da parte loro è stato un gesto di follia? Una follia, rispondo. Ha idea
da che parte siano andati? No, erano trattati bene, come tutti, ma
d'altro canto coi coscritti... Alza le spalle. Avrebbero fatto meglio a
disertare prima, suggerisco. Il territorio qui intorno è inospitale, se
non hanno ancora trovato un riparo sono uomini morti.
Parliamo dei barbari. E' sicuro, mi dice, di essere stato seguito a
distanza dai barbari per una parte del viaggio. Si trattava proprio di
barbari? domando. E di chi altro poteva trattarsi? ribatte. Anche i suoi
colleghi sono dello stesso parere.
Mi piace l'energia di questo giovanotto, la sua curiosità per il
contesto nuovo della frontiera. Il fatto che sia riuscito a portare i
suoi uomini fino qui in una stagione morta come questa è encomiabile.
Quando gli altri due, vista l'ora tarda, se ne vanno, insisto perché si
fermi. Rimaniamo a parlare e a bere fin dopo mezzanotte. Ascolto le
ultime notizie della capitale da cui manco da tanto. Gli parlo dei
luoghi ai quali penso con nostalgia: i parchi con i padiglioni dove le
orchestrine suonano per la gente a passeggio e dove in autunno le foglie
secche dei castagni frusciano sotto i piedi. Ricordo un ponte dal quale
si vede il riflesso della luna sull'acqua che s'increspa intorno alle
rocce sottostanti e prende la forma di un fiore di acacia.
- La voce che gira al comando generale, - mi racconta, - è che in
primavera ci sarà una massiccia offensiva contro i barbari, per
ricacciarli dalla frontiera sulle montagne.
Mi dispiace interrompere il flusso dei ricordi. Non voglio concludere la
serata con una scenata. Però rispondo: - Sono certo che si tratta solo
di voci. Non è possibile che vogliano veramente fare una cosa del
genere. Quelli che chiamiamo barbari in realtà sono nomadi, ogni anno
scendono dalla montagna in pianura. Non si lasceranno mai imbottigliare
sulle montagne!
Mi guarda con un'espressione strana. Per la prima volta questa sera
sento una barriera scendere tra noi, la barriera tra il militare e il civile. - Ma d'altra parte, - dice, - se vogliamo essere franchi, a
questo serve la guerra: a imporre una certa scelta a gente che
altrimenti non la farebbe -. Mi esamina col candore arrogante di un
giovane diplomato dell'Accademia militare. Sono certo che gli è venuta
in mente la storia, che ormai dev'essersi diffusa dappertutto, di come
ho rifiutato la mia cooperazione a un ufficiale della Terza Divisione.
Credo di sapere quello che vede davanti a sé: un piccolo amministratore
civile, sprofondato, dopo anni passati in questa zona depressa, nei
disgustosi usi degli indigeni, uno dalle idee superate, pronto a mettere
a repentaglio la sicurezza dell'Impero per un'incerta pace quotidiana.
Si sporge in avanti, con un'aria infantile e deferente, perplesso. Sono
sempre più sicuro che mi sta prendendo in giro. - Mi dica, signore, in
confidenza: di che cosa si lamentano questi barbari? Che vogliono da
noi?
Dovrei usare prudenza, ma non lo faccio. Dovrei sbadigliare, essere
evasivo, mettere fine alla serata, e invece mi sorprendo a rispondere
alla provocazione. (Quando imparerò a tenere a freno la lingua?)
- Vogliono che finiscano gli stanziamenti nella loro terra. Insomma,
vogliono riprendersela, la loro terra. Vogliono essere liberi come una
volta di muoversi con le greggi da un pascolo all'altro -. Farei ancora
in tempo a interrompere la lezione e invece sento il tono della mia voce
alterarsi e mi lascio trascinare, a malincuore, dalla rabbia che mi
avvelena. - Non dirò niente delle ultime incursioni contro di loro, del
tutto immotivate, e seguite da atti di spaventosa crudeltà, poiché era
in pericolo la sicurezza dell'Impero, o così mi si dice. Ci vorranno
anni per riparare ai danni fatti in quei pochi giorni. Ma lasciamo
stare, piuttosto vorrei parlarle di quello che trovo deprimente come
amministratore, anche in tempo di pace, anche quando i rapporti sulla
frontiera sono buoni. C'è un periodo dell'anno, lo saprà, in cui i
barbari vengono qui per commerciare. Be', vada a uno qualunque dei
banchi del mercato in quel periodo e mi dica chi è che viene truffato
sul peso, maltrattato, ingannato. Mi dica chi è che è costretto a
lasciare a casa le donne per paura che i soldati le insultino. Chi è che
finisce per terra ubriaco e chi è che lo prende a calci. E il disprezzo
per i barbari, un disprezzo esibito dall'ultimo dei contadini e degli
stallieri. Il disprezzo con cui io, magistrato, ho dovuto scontrarmi per
vent'anni. Come si fa a sradicare il disprezzo, soprattutto se è fondato
su particolari insignificanti come il diverso modo di stare a tavola o
una differenza nella forma della palpebra? Vuole che le dica che cosa
vorrei, a volte? Vorrei che questi barbari si sollevassero e ci dessero
una lezione, per insegnarci a rispettarli. Pensiamo a questo paese come
se fosse solo nostro, parte del nostro Impero: il nostro avamposto, il
nostro stanziamento, il nostro centro commerciale. Ma questa gente,
questi barbari non la vedono affatto così. Sono più di cento anni che
stiamo qui, abbiamo strappato terra al deserto, fatto opere di
irrigazione, seminato i campi; abbiamo costruito case solide e
circondato la nostra città di mura, ma per loro continuiamo a essere
stranieri di passaggio. Ci sono dei vecchi tra loro che ancora ricordano i racconti dei genitori su quest'oasi, su com'era un tempo: un posto ben
ombreggiato sulla sponda del lago, con pascoli ricchi perfino d'inverno.
E' così che continuano a parlarne, forse è così che la vedono ancora,
come se non fosse stato smosso nemmeno un briciolo di terra, come se non
fosse stato mai messo un mattone sopra l'altro. Sono sicuri che uno di
questi giorni metteremo le nostre cose sui carri e ce ne andremo per
tornare da dove siamo venuti, che le nostre case diventeranno rifugio di
topi e lucertole e le loro bestie verranno a pascolare nei campi
rigogliosi che abbiamo dissodato. Sorride? Vuole sapere una cosa? Stia a
sentire: l'acqua del lago, anno dopo anno, diventa più salata. La
spiegazione è semplice, ma adesso non importa. I barbari questo lo
sanno. Proprio in questo momento si stanno dicendo: «Bisogna solo avere
pazienza e uno di questi giorni le loro coltivazioni cominceranno ad
appassire per il sale, le provviste non basteranno più, dovranno
andarsene.» E questo che pensano, che ci sopravviveranno.
- Ma noi non ce ne andremo, - è la risposta tranquilla del giovane.
- Ne è così certo?
- Noi non ce ne andremo e dunque loro sbagliano. Anche se dovesse essere
necessario rifornire la base dall'esterno, non ce ne andremo. Perché
questi avamposti sul confine sono la prima linea di difesa dell'Impero.
Prima i barbari lo capiranno e meglio sarà.
Malgrado l'aria cordiale c'è in lui una rigidità di pensiero, forse
frutto dell'educazione militare. Sospiro. Non ho ottenuto niente
lasciandomi andare. I suoi peggiori sospetti saranno stati confermati:
sono un individuo di cui non ci si può fidare e ho una mentalità
superata. E poi, dopotutto, credo davvero alle cose che ho appena detto?
Davvero auspico il trionfo del modo di vivere dei barbari? Torpore
intellettuale, disordine, accettazione passiva della malattia e della
morte. Se dovessimo scomparire, i barbari passerebbero i loro pomeriggi
a scavare le nostre rovine? Conserverebbero nelle bacheche le nostre
schede del censimento e i libri mastri dei nostri mercanti di grano? Si
dedicherebbero a decifrare il testo delle nostre lettere d'amore? Tanta
indignazione nei confronti della strada che sta imboccando l'Impero non
si spiegherà forse solo col carattere scontroso di un vecchio che non
vuole vedersi sconvolgere gli ultimi anni di vita sulla frontiera? Cerco
di spostare la conversazione su temi più tranquilli, la caccia, i
cavalli, il tempo. Ma è tardi, il mio giovane amico vuole andare via e
io devo regolare il conto.
I bambini giocano di nuovo sulla neve. Tra di loro c'è la figura della
bambina incappucciata, che mi dà le spalle. A tratti, mentre avanzo
faticosamente verso di lei, la sua immagine viene cancellata dalla
cortina di neve che continua a cadere. I piedi affondano così
profondamente che riesco a malapena a sollevarli. Ogni passo è
un'eternità. Non ha mai nevicato così tanto nei miei sogni.
Mentre mi avvicino a fatica, i bambini interrompono il loro gioco per guardarmi. Voltano le facce serie e luminose verso di me e dalle loro
bocche il respiro esce in piccole nuvole. Cerco di sorridere, di
toccarli mentre procedo verso la bambina, ma il gelo mi blocca i
lineamenti, non riesco a sorridere, sembra che un foglio di ghiaccio mi
copra la bocca. Per strapparlo alzo una mano e scopro che è calzata da
uno spesso guanto, e le dita dentro il guanto sono congelate; quando mi
porto il guanto sul viso non sento niente. Muovendomi pesantemente
oltrepasso i bambini.
Ora comincio a vedere cosa sta facendo la bambina. Costruisce un forte
di neve, una città protetta da mura che riconosco in tutti i suoi
dettagli: i bastioni con le quattro torri di guardia, la porta con la
stanza del facchino, le strade e le case e il grosso quadrato della
caserma in un angolo. Che poi è proprio il punto dove mi trovo io! Ma la
piazza è vuota. Indico il centro della piazza. «Ci devi mettere la gente
lì!» vorrei dire. Dalle mie labbra non esce suono. E' come se in bocca
al posto della lingua ci fosse un pesce congelato. Eppure lei risponde.
Si mette in ginocchio sulla neve e volta la faccia incappucciata verso
di me. Ora ho paura che sarà una delusione, che la faccia che mi
mostrerà sarà ottusa, liscia, come un organo interno che non dev'essere
esposto alla luce. E invece no, è lei, lei come non l'ho vista mai. Una
bambina sorridente, con la luce che le risplende sui denti e sugli occhi
nerissimi. «Allora questo significa vedere!» mi dico. Vorrei parlarle
con la bocca impedita dal ghiaccio. «Come riesci a fare un così bel
lavoro con i guanti?» vorrei dirle.
Sorride gentilmente al mio farfugliare. Poi torna a lavorare al suo
forte nella neve.
Riemergo dal sogno tutto teso e infreddolito. Manca un'ora all'alba, il
fuoco è spento, ho il cranio insensibile per il freddo. La ragazza
accanto a me dorme tutta rannicchiata. Scendo dal letto e col mantello
addosso comincio a riaccendere il fuoco.
Il sogno ha messo le radici. Notte dopo notte torno alla bianca distesa
deserta della piazza, faticosamente arrancando verso la figura nel
centro, e ogni volta verifico che nella città che sta costruendo non c'è
vita.
Le chiedo delle sorelle. Ha due sorelle, la più piccola secondo lei è
«molto carina, ma un po' scervellata.» - Non vorresti rivedere le tue
sorelle? - le chiedo. La gaffe rimane nell'aria, grottesca, tra di noi.
Sorridiamo. - Certo, - risponde.
Le chiedo anche della prigione, del periodo in cui, senza che io lo
sapessi, viveva in questa città sotto la mia giurisdizione. - Sono stati
gentili con me quando hanno visto che ero stata lasciata indietro. Per
un certo periodo ho dormito alla locanda mentre i piedi pian piano
miglioravano. C'era un uomo che si occupava di me. Adesso se n'è andato.
Era uno stalliere -. Accenna anche all'uomo che le ha dato gli stivali
che portava la prima volta che l'ho vista. Le chiedo se c'erano altri uomini. - Sì, c'erano altri uomini. Non avevo scelta. Era così, per
forza.
Dopo quella conversazione i miei rapporti con i soldati semplici
diventano più tesi. Quando esco di casa per andare in tribunale, al
mattino, faccio una delle rare ispezioni. Sono sicuro che tra questi
uomini sull'attenti, con i loro fagotti vicino ai piedi, ce ne sono
alcuni che sono andati a letto con la ragazza. Non è che li immagini a
ridacchiare di nascosto. Al contrario, non li ho mai visti sostenere con
lo stesso stoicismo il vento gelido che spazza il cortile. Non hanno mai
tenuto un comportamento più rispettoso. Se potessero, lo so, mi
direbbero che siamo tutti uomini, che qualunque uomo può perdere la
testa per una donna. E nondimeno cerco di rientrare più tardi, alla
sera, per evitare la fila dei soldati davanti alla porta della cucina.
Ci arrivano notizie sui due disertori di cui mi ha parlato il tenente.
Un cacciatore li ha trovati morti assiderati in una povera capanna non
lontana dalla strada, a meno di trenta miglia da qui. Anche se
l'ufficiale vorrebbe lasciarli dove stanno («Trenta miglia per andare e
altrettante per tornare con questo tempo... un'esagerazione per uomini
che non sono più uomini, non pensa?»), lo persuado a mandare una
squadra. - Debbono avere il loro funerale, - gli dico. - E poi è
importante per il morale dei compagni. Non debbono pensare che anche a
loro possa succedere di morire nel deserto ed essere dimenticati. Tutto
quello che si può fare per alleviare il loro terrore di dover
abbandonare questa meravigliosa terra, va fatto. Dopotutto siamo stati
noi a esporli a questa condizione di pericolo -. Così la squadra parte e
due giorni dopo torna con i due cadaveri deformi, congelati, in un
carro. Continuo a trovare strano che degli uomini decidano di disertare
a centinaia di miglia da casa e ad appena un giorno di marcia dal calore
e dal cibo, ma non indago oltre. In piedi vicino alle tombe, nel
cimitero ghiacciato, mentre si svolgono gli ultimi riti e i loro
compagni più fortunati sono lì a capo scoperto, mi ripeto che,
insistendo sulle giuste onoranze funebri da prestare alle spoglie, cerco
di dimostrare a questi uomini che la morte non è annullamento, che
sopravviviamo nella memoria di coloro che ci hanno conosciuto. Ma è solo
per loro che ho voluto questa cerimonia? Non è forse un conforto per me?
Mi offro di scrivere ai genitori per informarli della disgrazia. - E'
più facile per un vecchio, - dico.
- Non ti piacerebbe fare qualcos'altro? - chiede.
Ha appoggiato il piede tra le mie gambe. Io sono altrove, perso nel
ritmo della frizione e del massaggio alla caviglia gonfia. La sua
domanda mi coglie di sorpresa. E' la prima volta che mi parla in modo
così pungente. Alzo le spalle e sorrido, cerco di scivolare di nuovo
nella mia trance, non lontano dal sonno e riluttante all'idea di esserne
tirato fuori.
Il piede si agita nelle mie mani, prende vita, mi tocca delicatamente
l'inguine. Apro gli occhi e vedo il suo corpo dorato e nudo sul letto. Sdraiata con le braccia intorno alla testa, mi guarda in quel suo modo
indiretto a cui ormai mi sono abituato, mettendo in mostra il petto sodo
e la pancia liscia, traboccante di giovane salute animalesca. Gli alluci
continuano a indagare, ma in questo vecchio, fiacco signore in ginocchio
davanti a lei, avvolto nella sua vestaglia color prugna, non trovano
risposta.
- Un'altra volta, - dico, indugiando stupidamente sulle parole. Per quel
che ne so è una menzogna, ma la pronuncio: - Un'altra volta, forse -.
Poi sposto la sua gamba, mi alzo e mi allungo vicino a lei. - I vecchi
non hanno virtù da difendere, quindi che posso dire? - E una battuta
fiacca, espressa male, e lei non la capisce. Mi apre la vestaglia e
comincia a carezzarmi. Dopo un po' scanso la sua mano.
- Vai con le altre, - sussurra. - Credi che non lo sappia?
Faccio un gesto perentorio per azzittirla.
- Tratti così anche loro? - mormora, e comincia a singhiozzare.
Sento una gran pena per lei, ma non c'è niente che possa fare. Però che
umiliazione per lei! Non può nemmeno uscire di casa senza barcollare e
annaspare quando si veste. E prigioniera quanto prima. Le accarezzo la
mano con affetto e sprofondo nella malinconia.
E' l'ultima notte che dormiamo nello stesso letto. Mi porto una branda
in salotto e dormo lì. L'intimità fisica tra di noi è finita. - Per ora,
- dico. - Fino alla fine dell'inverno. E' meglio così -. Lei accetta
questa scusa senza una parola. Quando torno a casa, la sera, mi porta il
té e si inginocchia vicino al vassoio per servirmi. Poi scende in
cucina. Un'ora dopo la sento salire su per le scale dietro la ragazza
col vassoio della cena. Mangiamo insieme. Dopo io mi ritiro nel mio
studio, oppure esco e riprendo le abitudini sociali che ho trascurato
per un po': gioco a scacchi a casa di amici, a carte con gli ufficiali
alla locanda. Vado anche a trovare la ragazza della locanda, una volta o
due, ma i sensi di colpa mi rovinano tutto. Quando rientro lei è sempre
addormentata e debbo camminare in punta di piedi come un marito
adultero.
Si adatta senza protestare al nuovo corso. Mi dico che dev'essere
l'educazione dei barbari a renderla così sottomessa. Ma che ne so io di
come i barbari educano i loro figli? Quella che definisco sottomissione
magari è solo indifferenza. Che gliene importa a una mendicante, a una
ragazzina orfana di padre, se io dormo per conto mio oppure no, fintanto
che ha un tetto sopra la testa e abbastanza cibo in pancia? Finora però
mi piaceva pensare che lei mi vedesse come un uomo in preda alla
passione, per quanto perversa, che in quei trattenuti silenzi che sono
tanta parte del nostro rapporto non potesse non sentire il mio sguardo
insistere su di lei col peso di un corpo. Preferisco non soffermarmi
sulla possibilità che l'educazione che i barbari danno alle loro figlie
non sia accettare ogni capriccio del maschio, compreso quello di ignorarle, ma vedere la passione sessuale, nel cavallo o nella capra,
nell'uomo o nella donna, come un semplice fatto della vita, chiaro nei
modi come negli scopi. Cosicché le azioni confuse di uno straniero di
una certa età che la prende per strada e se la mette in casa, per
baciarle i piedi un giorno e tiranneggiarla l'altro, spalmarla di oli
esotici oppure ignorarla, passare tutta la notte tra le sue braccia
oppure andarsene di malumore a dormire per conto suo, non possano
apparirle altro che dimostrazioni di impotenza, di indecisione, di
alienazione dai suoi stessi desideri. Mentre io non ho mai smesso di
vederla come un corpo menomato, ferito, danneggiato, lei forse nel
frattempo si è abituata a quel suo nuovo corpo imperfetto, è diventata
quel corpo, e non si sente più deforme, non più di quanto un gatto si
senta deforme perché ha gli artigli invece delle dita. Farei bene a
prendere sul serio tutte queste considerazioni. Più ordinaria di quanto
mi piaccia pensarla, può essere che anche lei a sua volta mi trovi
ordinario.
Capitolo terzo
Al mattino l'aria è piena di palpiti di ali, gli uccelli arrivano dal
sud, volteggiano a grandi cerchi sul lago e poi si posano sulle salate
lingue di terra palustre. Quando il vento s'acquieta la cacofonia dei
loro rauchi versi, gridi, strida e schiamazzi ci arriva come il brusio
di una città rivale sull'acqua: oche selvatiche e granaiole, codoni,
fischioni, germani reali, alzavole e pesciaiole.
L'arrivo dei primi uccelli acquatici migratori conferma i segni
precedenti, quell'accenno di calore nuovo nel vento, la trasparenza
vitrea del lago ghiacciato. La primavera è alle porte, uno di questi
giorni sarà tempo di seminare.
Intanto è la stagione delle trappole. Prima dell'alba gruppi di
cacciatori si mettono in marcia alla volta del lago per tendere le reti.
A metà mattina sono di ritorno con un grosso bottino: uccelli col collo
spezzato, appesi per le zampe legate a lunghi pali, o chiusi vivi dentro
gabbie di legno stracolme, che gridano per l'offesa e si calpestano.
Qualche volta, rannicchiato in silenzio in mezzo a loro, c'è anche un
grande e silenzioso cigno canoro. La cornucopia della natura: per
qualche settimana tutti mangeranno bene.
Prima di poter partire devo stilare due documenti. Il primo diretto al
governatore provinciale. «Per riparare in parte ad alcuni danni prodotti
dalle incursioni della Terza Divisione, - scrivo, - e per ristabilire,
per quanto possibile, i buoni rapporti pregressi, mi appresto a fare una
breve spedizione tra i barbari.» Firmo e appongo il sigillo alla
lettera.
Come debba essere il secondo documento ancora non lo so. Un testamento?
Una confessione? Una storia di trent'anni sulla frontiera? Passo un
giorno intero in preda a una specie di trance, seduto alla mia scrivania
davanti al foglio bianco, e aspetto che mi vengano le parole. Un altro
giorno passa allo stesso modo. Al terzo mi arrendo, metto via i fogli e
mi dedico ai preparativi per la partenza. Mi sembra giusto che un uomo
che non sa cosa fare con la donna che ha nel letto non sappia cosa
scrivere.
Per accompagnarmi ho scelto tre uomini. Due sono giovani coscritti che
mi sono stati assegnati come attendenti. Il terzo è un uomo più vecchio,
nato da queste parti, cacciatore e mercante di cavalli, che pagherò di
tasca mia. Li convoco tutti insieme la sera prima della partenza. - Lo
so, questo non è un buon periodo per viaggiare, - dico loro. - E una
stagione infida, la coda dell'inverno; e la primavera deve ancora
arrivare. Ma se aspettiamo non raggiungeremo i barbari prima che
migrino. Non mi fanno domande.
Alla ragazza dico solo: - Ti riporto dalla tua gente, o comunque il più
vicino possibile, visto che oramai è dispersa. Non dà segni di gioia. Le
metto vicino la pesante pelliccia che le ho comprato per il viaggio, con
un cappuccio di coniglio ricamato secondo l'uso indigeno, i guanti e gli
stivali nuovi.
Ora che ho deciso dormo meglio e riesco perfino a trovare in me qualcosa
che somiglia alla felicità.
Partiamo il 3 marzo, scortati oltre la porta della città e per la strada
che costeggia il lago da una truppa di ragazzini e di cani. Superato
l'acquedotto, quando imbocchiamo la strada lungo il fiume, seguendo il
sentiero a destra, che nessuno usa mai tranne i cacciatori e gli
uccellatori, la nostra scorta comincia a ridursi, finché rimangono solo
due ragazzini ostinati che ci trotterellano dietro, ognuno deciso a non
cedere prima dell'altro.
Il sole è sorto, ma non riscalda. Il vento che spazza il lago ci frusta
facendoci lacrimare. Procediamo in fila indiana: quattro uomini, una
donna, quattro animali da soma, e i cavalli che continuamente
indietreggiano per il vento e continuamente debbono essere spronati.
Lasciamo dietro di noi la città fortificata, i campi deserti e alla fine
anche i ragazzini ansimanti.
Il mio piano è di seguire il sentiero fino a che non avremo aggirato la
sponda meridionale del lago, tagliare quindi a nord-ovest attraverso il
deserto, diretti alle valli montane dove svernano i nomadi del nord. E
una strada poco battuta, perché i nomadi, quando migrano con le loro
greggi, seguono il vecchio letto del fiume in un ampio giro verso est e
verso sud. Comunque riduce il viaggio da sei settimane a una o due. Io
stesso non l'ho mai fatta.
Così per i primi tre giorni arranchiamo verso sudest. Alla nostra destra
si apre una pianura a terrazze erosa dal vento, che in lontananza si fonde con le nubi di polvere rossa e con un torbido cielo giallo. A
sinistra abbiamo la palude piatta, strisce di canneti e il lago con al
centro il ghiaccio che ancora non si è sciolto. Il vento che ci soffia
sopra gela il fiato in bocca, cosicché invece di cavalcare per lunghi
tratti preferiamo camminare al riparo dei cavalli. La ragazza si è
avvolta la faccia con molti giri di sciarpa e accucciata sulla sella
segue ciecamente la sua guida.
Due cavalli da soma sono stati caricati con la legna, che però va
conservata per il deserto. A un certo punto, mezzo sepolto dalla sabbia,
troviamo un cespuglio di tamerici, lo tagliamo per usarlo come
combustibile. Per il resto dobbiamo accontentarci dei fasci di canne
secche. Io e la ragazza dormiamo vicini nella stessa tenda, avvolti
nelle nostre pellicce per difenderci dal freddo.
In questi primi giorni di viaggio mangiamo bene. Abbiamo portato carne
salata, farina, fagioli, frutta secca, e poi ci sono gli uccelli
selvatici da cacciare. Ma dobbiamo stare attenti con l'acqua. L'acqua
della palude, poco profonda nelle insenature meridionali, non si può
bere perché è troppo salata. Uno degli uomini deve addentrarsi nel lago
di venti o trenta passi, con l'acqua che gli arriva fino ai polpacci,
per riempire le borracce di pelle, meglio se con blocchi di ghiaccio. Ma
anche l'acqua che si ottiene dai pezzi di ghiaccio squagliato è così
amara e salata che si riesce a utilizzare solo per preparare un té rosso
molto forte. Ogni anno il lago diventa più salmastro, man mano che il
fiume ne erode le sponde e vi riversa sale e allume. Poiché il lago non
ha sbocco il contenuto minerale delle sue acque va sempre più
aumentando, in particolare a sud, dove a seconda della stagione i banchi
di sabbia isolano alcuni tratti d'acqua dal resto. Dopo la piena estiva
i pescatori trovano carpe morte che galleggiano nelle pozze d'acqua a
pancia in su. Dicono che già non si trova più il pesce persico. Che ne
sarà della colonia se il lago si trasforma in un mare morto?
Dopo un giorno di té salato tutti, tranne la ragazza, cominciano ad
avere la diarrea. Io sono quello che sta peggio. Soffro l'umiliazione
delle soste frequenti, di svestirmi e rivestirmi con le dita gelate al
riparo di un cavallo mentre gli altri aspettano. Cerco di bere il meno
possibile, a tal punto che la mia mente comincia a produrre immagini che
mi tormentano: una botte piena accanto a un pozzo, con l'acqua che
trabocca dal mestolo; candida neve. Andare ogni tanto a caccia e a
donne, i miei occasionali esercizi di virilità, finora mi hanno impedito
di capire fino a che punto il mio corpo sia diventato debole. Dopo le
lunghe marce mi fanno male le ossa e quando cala la sera sono così
stanco che non ho nemmeno fame. Continuo a camminare a fatica, fino a
che letteralmente non sono più in grado di mettere un piede davanti
all'altro; allora mi arrampico in sella, mi arrotolo dentro il mantello
e faccio segno a uno degli uomini perché si metta alla guida. Il vento
non si calma mai. Ci ulula addosso spazzando il ghiaccio, dal nulla
furiosamente andando verso il nulla, e vela il cielo di una nuvola di
polvere rossa. Dalla sabbia non c'è difesa, ci penetra nelle vesti,
sotto la pelle, nei bagagli.
Quando mangiamo ci impasta la lingua, ci scricchiola sotto i denti, ci
costringe a sputare spesso. Si direbbe che viviamo nella polvere invece
che nell'aria. Nuotiamo nella polvere come i pesci nuotano nell'acqua.
La ragazza non si lamenta. Mangia bene, non si ammala, la notte dorme
profondamente arrotolandosi a palla, in un freddo così mostruoso che
sarei pronto ad abbracciare un cane per un po' di conforto. Una volta
guardando in su vedo che cavalca addormentata, il viso disteso come
quello di un neonato.
Il terzo giorno il bordo della palude comincia a piegare verso nord,
vuol dire che abbiamo aggirato il lago. Piantiamo le tende presto e
approfittiamo delle ultime ore di luce per raccogliere ogni pezzetto di
legno per il fuoco, mentre i cavalli pascolano per l'ultima volta sulla
magra terra palustre. Poi all'alba del quarto giorno cominciamo la
traversata del vecchio letto del lago, che si estende ancora per
quaranta miglia oltre le paludi.
La terra è più desolata che mai. Niente cresce su questo salato fondo di
lago che in alcuni punti s'inarca e forma delle gobbe, esagoni
cristallini dal bordo frastagliato larghi un piede. Ed è anche
pericoloso: attraversando una distesa insolitamente liscia il cavallo
che è in testa all'improvviso rompe la crosta e sprofonda fino al petto
nella melma verde, e l'uomo che lo porta rimane un attimo attonito prima
di sprofondare a sua volta. Ci precipitiamo a tirarli su, la crosta
salina si scheggia sotto gli zoccoli del cavallo, il buco si allarga, un
tanfo di salmastro pervade tutto. Non ci siamo ancora lasciati il lago
alle spalle, ce ne rendiamo conto adesso, continua anche qui, a volte
sotto una coltre profonda decine di centimetri, a volte sotto una
fragile lastra salina. Da quant'è che il sole non risplende più su
queste acque morte? Accendiamo il fuoco su un pezzo di terra più ferma
per riscaldare l'uomo, che è scosso dai brividi, e far asciugare i suoi
vestiti. Scuote la testa. - Ho sempre sentito dire «Attento ai tratti di
terra verde», ma non avevo mai visto succedere niente del genere, -
dice. E' lui la nostra guida, l'unico tra noi che si sia mai spinto a
est del lago. Dopo l'incidente sproniamo ancora di più i cavalli, per
allontanarci al più presto dal lago morto, terrorizzati all'idea di
perderci in un fluido più gelido del ghiaccio, minerale, sotterraneo,
senz'aria. A testa bassa, procediamo nel vento che ci gonfia le giacche,
prendiamo il sentiero dalla crosta salina più accidentata, evitando i
tratti più lisci. Nel fiume di polvere che corre maestoso nel cielo
brilla un sole arancio che non scalda niente. Quando cala la sera
conficchiamo i pioli delle tende nelle spaccature della crosta salina,
dura come roccia; consumiamo una quantità esagerata della legna raccolta
per il fuoco e come marinai preghiamo che appaia la terraferma.
Il quinto giorno ci lasciamo alle spalle il letto del lago e
attraversiamo una striscia di morbida terra salina che ben presto lascia
il posto alla sabbia e poi alle rocce. Ci rianimiamo tutti, perfino i
cavalli che per giorni non hanno avuto altro da mangiare che qualche manciata di semi di lino e un secchio di acqua salmastra. Le loro
condizioni peggiorano a vista d'occhio.
Gli uomini non si lamentano. La carne fresca sta finendo ma rimangono
quella salata e i fagioli secchi, e ci sono ancora tanta farina e tanto
té, viveri fondamentali per il viaggio. Ad ogni sosta prepariamo il té e
le frittelle che, affamati come siamo, ci sembrano deliziose. Gli uomini
cucinano. Vergognandosi della ragazza, non sapendo bene quale sia la sua
posizione e soprattutto non capendo perché la stiamo riportando dai
barbari, le rivolgono a malapena la parola e così non le chiedono aiuto
per cucinare. Io non la sprono, spero che l'imbarazzo diminuisca col
passare dei giorni. Ho scelto questi uomini perché sono forti, onesti e
animati da buona volontà. Mi seguono allegramente, per quanto possibile
in queste condizioni, anche se ormai la bella armatura laccata che i due
giovani soldati portavano quando abbiamo varcato le porte del forte è
ridotta a un fagotto sui cavalli da soma, e la sabbia riempie le guaine
delle loro spade.
Le distese sabbiose cominciano a modularsi in un paesaggio di dune. La
marcia è rallentata dalla necessità di inerpicarsi su per il fianco
delle colline sabbiose. E' il terreno peggiore per i cavalli, che
procedono pochi centimetri alla volta, con gli zoccoli che affondano
nella sabbia. Guardo la guida, che si stringe nelle spalle: - Vanno
avanti così per miglia, ma dobbiamo attraversarle, non c'è altro modo -.
In cima a una duna mi riparo gli occhi con la mano e guardo: davanti a
me nient'altro che turbini di sabbia.
Quella sera uno dei cavalli da soma si rifiuta di mangiare. Il mattino
successivo, malgrado la frusta, non si alza. Ridistribuiamo il carico e
buttiamo via un po' della legna. Mentre gli altri si avviano io resto
indietro. Giurerei che la bestia sa che cosa sta per succedere. Alla
vista del coltello rovescia gli occhi all'indietro. Scalpita, col sangue
che zampilla dalla gola, libera gli zoccoli dalla sabbia e trotta via,
qualche metro giù per la duna, sottovento, e poi stramazza. Ho sentito
dire che i barbari in condizioni disperate succhiano il sangue dalle
vene dei loro cavalli. Dovremo forse rimpiangere questo sangue così
prodigalmente profuso sulla sabbia?
Il settimo giorno, con le dune finalmente alle nostre spalle,
avvistiamo, sull'uniforme sfondo grigio-bruno del paesaggio desertico,
una striscia di grigio più scuro. Avvicinandoci vediamo che si estende a
destra e a sinistra per miglia. Ci sono perfino le ombre nere di alberi
striminziti. Siamo fortunati, dice la guida, qui troveremo l'acqua.
Siamo capitati sul letto di un'antica laguna. Canne morte, bianche come
fantasmi e fragili come vetro, popolano quelle che un tempo erano le sue
sponde. Gli alberi sono pioppi, anche loro morti da un pezzo, da quando,
anni e anni fa, le loro radici non sono più riuscite a pescare l'acqua
sotterranea che andava ritirandosi.
Liberiamo i cavalli dal carico e cominciamo a scavare. A due piedi di profondità compare l'umida argilla blu. Scavando ancora troviamo altra
sabbia, quindi altra argilla molto viscosa. Quando arriviamo a una
profondità di sette piedi, col cuore in gola e un ronzio nelle orecchie,
sono costretto a rinunciare al mio turno con la vanga. Gli altri tre
uomini continuano a scavare tirando fuori la terra dalla buca con un
grande telo da tenda legato agli angoli.
A dieci piedi sgorga l'acqua. E' dolce, non c'è traccia di sale; ci
sorridiamo entusiasti, ma l'acqua si raccoglie con lentezza e i lati
della buca vanno ininterrottamente liberati della terra che continua a
franare dentro. E' quasi sera quando riusciamo a svuotare le ultime
pelli dall'acqua salmastra del lago per riempirle con questa. Al
crepuscolo caliamo la botte nella buca e facciamo bere i cavalli.
Nel frattempo, vista l'abbondanza di legno di pioppo, gli uomini hanno
scavato due piccoli forni di argilla, uno a ridosso dell'altro; sopra vi
hanno acceso un gran fuoco per farli asciugare. Quando il fuoco si
esaurisce, raccolgono le braci e le mettono nei forni per cuocere il
pane. La ragazza guarda, appoggiata ai suoi bastoni in fondo ai quali ho
legato dei dischi di legno perché non affondino nella sabbia.
Nell'atmosfera di allegro cameratismo che si è creata grazie alla
giornata positiva e alla prospettiva di un intero giorno di riposo, le
chiacchiere corrono. Scherzando con lei gli uomini fanno i primi passi
amichevoli: - Vieni qui con noi ad assaggiare il pane che sanno fare i
maschi! - Lei sorride sollevando il mento con un movimento che forse io
solo riconosco come il tentativo di vedere. Cautamente si siede accanto
a loro al calore dei forni.
Me ne sto lontano, nell'apertura della mia tenda, al riparo dal vento,
alla luce di una lampada a olio dalla fiammella tremolante. Scrivo il
diario della giornata trascorsa ma al tempo stesso ascolto. Scherzano
nel dialetto misto della frontiera e a lei non mancano certo le parole.
Sono sorpreso dalla sua disinvoltura: è sveglia, sicura di sé. Scopro
perfino in me una sorta di orgoglio: non è una puttanella qualunque che
sta con un vecchio, è una giovane donna intelligente e attraente! Forse
se fin dall'inizio avessi usato con lei questo gergo vivace e scherzoso
ci saremmo avvicinati di più. Invece di tenerla allegra, come un idiota
l'ho oppressa con la mia cupezza. Davvero il mondo dovrebbe essere dei
teatranti! Futile amarezza, vana malinconia, vuoti rimpianti! Spengo la
lampada e resto a guardare il fuoco col mento appoggiato sul pugno;
sento il mio stomaco che gorgoglia.
Esausto, mi addormento. Emergo appena dal sonno quando lei scivola
accanto a me sollevando il lembo della pesante pelle d'orso. «I bambini
sentono freddo di notte», è quello che penso nella mia confusione, e la
circondo con un braccio, riaddormentandomi. Forse per un po' dormo
ancora profondamente. Poi, perfettamente sveglio, sento la sua mano
insinuarmisi sotto le vesti. Mi lecca un orecchio. Sono scosso da un
piacevole brivido di eccitazione, sbadiglio, mi stiracchio e sorrido nel
buio. La sua mano trova quel che stava cercando. «E ora? - penso. - E se
morissimo nel mezzo del deserto? Almeno cerchiamo di non morire tesi e disperati!» Sotto la camicia è nuda. Mi sollevo e mi metto sopra di lei:
è calda, turgida, pronta per me. Un minuto cancella cinque mesi di
insensata esitazione, vengo risucchiato nel facile oblio dei sensi.
Al risveglio ho la mente così vuota che il terrore mi attanaglia. Solo
con uno sforzo di volontà riesco a ritrovarmi nel tempo e nello spazio:
in un letto, una tenda, una notte, un mondo, un corpo disteso. Anche se
le sto addosso col peso di un bue morto, lei dorme lo stesso, e mi
abbraccia mollemente. Mi libero dall'abbraccio, sistemo la coperta e
cerco di ricompormi. Nemmeno per un attimo immagino di poter smontare le
tende l'indomani, tornare all'oasi e organizzarmi per vivere i miei
ultimi anni nell'assolata villa del magistrato, con una giovane moglie,
dormendo placidamente al suo fianco, dandole dei figli, assistendo al
trascorrere delle stagioni. Non mi sgomenta pensare che se non avesse
trascorso la serata con i ragazzi attorno al fuoco da campo molto
probabilmente non avrebbe sentito nessun bisogno di me. Forse la verità
è che quando la stringevo tra le braccia, era uno di quei giovani che
abbracciava. Osservo con scrupolo l'effetto che questo pensiero suscita
in me: neppure un tuffo al cuore, non mi sento ferito. Dorme, la mia
mano scorre sulla sua pancia liscia, le carezza le cosce. E' fatta, sono
contento. Al tempo stesso sono pronto a scommettere che non sarebbe
successo se non mancassero pochi giorni alla nostra separazione. E poi,
se devo dire la verità, il piacere che ho trovato in lei, quello di cui
ancora rimane traccia sensibile nel palmo della mia mano, non arriva in
profondità. Il cuore non ha un sussulto, il sangue non mi pulsa con più
violenza nelle vene, se la sua mano mi sfiora. Non sto con lei per il
rapimento dei sensi che mi promette o produce, ma per ragioni diverse
che continuano a sfuggirmi, come sempre. Certo devo ammettere che a
letto, al buio, i segni che le torture hanno lasciato su di lei, i piedi
torti, gli occhi quasi ciechi, sono presto dimenticati. Allora posso
dire che è la donna tutta intera che voglio, che il piacere che mi viene
da lei sarà incompleto finché quei segni non saranno del tutto scomparsi
e lei non sarà tornata alla sua integrità, o non sono piuttosto (non
sono stupido, lasciatemi dire queste cose) proprio quei segni che mi
hanno attratto verso di lei? Segni che mi deludono perché non arrivano
abbastanza a fondo? Troppo o troppo poco: è lei che voglio o le tracce
di una storia scritta sul suo corpo? Resto a lungo disteso a fissare
l'oscurità senza fondo, anche se so che il tetto della tenda è a solo un
braccio di distanza. Nessun pensiero, nessuna definizione, per quanto
contraddittoria, dell'origine del mio desiderio sembra turbarmi. «Devo
essere stanco, - penso. - Oppure qualsiasi cosa possa essere formulata è
perciò stesso falsa.» Le mie labbra si muovono componendo e ricomponendo
le parole. «O forse la verità è che solo quello che non è stato
formulato va vissuto fino in fondo.» Osservo quest'ultima proposizione
senza individuare in me nessuna reazione di assenso, né di dissenso. Le
parole diventano sempre più opache ai miei occhi; presto perdono ogni
significato. Sospiro alla fine di un lungo giorno, nel mezzo di una
lunga notte. Poi mi volto verso la ragazza, l'abbraccio, l'attraggo a me
e la stringo forte. Ronfa nel sonno, dove ben presto la raggiungo.
L'ottavo giorno riposiamo, perché i cavalli ormai sono davvero ridotti male. Masticano affamati la fibra insipida delle canne secche. Si
riempiono le pance d'acqua e fanno grandi peti. Abbiamo dato loro gli
ultimi semi di lino e anche un po' del nostro pane. Se nel giro di un
giorno o due non troviamo qualche pascolo moriranno.
Ci lasciamo alle spalle il pozzo e la montagnola di terra che abbiamo
scavato. Proseguiamo verso nord. Camminiamo tutti, tranne la ragazza.
Abbiamo abbandonato tutto quello che potevamo abbandonare per
alleggerire il carico dei cavalli; ma poiché non possiamo sopravvivere
senza il fuoco, ancora portano grandi cataste di legna.
- Quanto manca alle montagne? - chiedo alla guida.
- Un giorno. Due. Difficile dirlo. Non ho mai preso questa strada prima
d'ora -. E' andato a caccia lungo la sponda orientale del lago e ha
costeggiato la periferia del deserto, ma non ha mai avuto motivo di
attraversarlo. Aspetto, dandogli modo di dirmi cosa pensa, ma resta
imperturbabile, non crede che siamo in pericolo. - Forse ancora due
giorni per avvistare le montagne e un altro per raggiungerle -. Strizza
gli occhi, scrutando la bruna foschia che vela l'orizzonte. Non chiede
cosa faremo una volta arrivati sulle montagne.
Giungiamo alla fine di questo deserto rosso e sassoso e saliamo su per
una serie di balze rocciose, fino a un primo altopiano, dove cominciamo
a incontrare le rade dune di malconcia erba invernale. Le bestie ci si
buttano con furore, è un grande sollievo vederle mangiare.
Mi sveglio con un sussulto in piena notte, con l'orribile sensazione che
qualcosa non vada. La ragazza è seduta accanto a me: - Che cos'è? -
chiede.
- Ascolta. Si è calmato il vento.
Scalza, avvolta in una pelliccia, striscia dietro di me fuori dalla
tenda. Cade una neve leggera. La terra è una serena distesa bianca sotto
la luna piena, coperta da un velo di nebbia. L'aiuto ad alzarsi in piedi
e resto li, abbracciato a lei, a guardare il vuoto da cui cadono i
fiocchi di neve in un silenzio reso palpabile da una settimana di vento
incessante. Gli uomini della seconda tenda si uniscono a noi. Ci
guardiamo, sorridendoci con aria ebete. - Ecco la primavera, - dico, - è
l'ultima neve dell'anno -. Gli altri annuiscono. Un cavallo che si
scuote la neve di dosso ci fa sobbalzare.
Nel calore della tenda, al riparo dalla neve, faccio di nuovo l'amore
con lei. Passiva, mi lascia fare. Quando cominciamo sono sicuro che è il
momento giusto, l'abbraccio carico di piacere e di fierezza, ma a metà
perdo il contatto con lei e tutto si spegne, scioccamente. E' chiaro che
le mie previsioni non sono infallibili, ma comunque continuo a sentire
una gran tenerezza per questa ragazza che ora, bruscamente, si
addormenta nell'incavo del mio braccio. Sarà per un'altra volta, e comunque, seppure non dovesse essere, non credo che me ne importi.
Una voce chiama dall'apertura della tenda: - Signore, si svegli!
Sono confuso e ho la sensazione di aver dormito troppo. E' questa gran
calma, mi dico: è come se ci fossimo placati per via della bonaccia.
Emergo dalla tenda nella luce del sole. - Guardi, signore! - mi dice
l'uomo che mi ha svegliato, indicando a nord-est. - Sulla nostra strada
si prepara il maltempo.
Una gigantesca onda nera corre contro di noi sopra la distesa innevata.
E' ancora lontana diverse miglia, ma la vediamo divorare la terra al suo
passaggio man mano che si avvicina. Il suo bordo superiore si perde
nelle nuvole bige. - La tempesta! - grido. Non ho mai visto niente di
così spaventoso. Gli uomini si affrettano a smontare le tende. - Portate
i cavalli al riparo, legateli qui, nel centro! - Arrivano le prime
raffiche di vento, la neve comincia a turbinarci intorno.
La ragazza è accanto a me, appoggiata ai bastoni. - Lo vedi? - le
chiedo. Scruta nel suo modo curioso e annuisce. Gli uomini si mettono al
lavoro e smontano la seconda tenda. - La neve non era un buon segno,
allora! - Lei non mi risponde. So che dovrei aiutarla, ma non riesco a
scollare gli occhi da quella muraglia nera che si precipita ruggendo
contro di noi, alla velocità di un cavallo al galoppo. Si leva il vento
e ci fa vacillare; abbiamo di nuovo nelle orecchie quell'ululato
familiare.
Mi scuoto. - Svelti, svelti! - grido, battendo le mani. Un uomo s'è
inginocchiato a riavvolgere le tende, arrotolare i feltri, mettere via
le coperte; gli altri due portano al riparo i cavalli. - Siediti, -
grido alla ragazza, e mi precipito ad aiutare gli altri. La muraglia che
avanza non è più nera, ma un caos turbinante di sabbia, di neve e di
polvere. Poi all'improvviso il vento si alza ululando, mi strappa il
cappello, la tempesta ci colpisce. Vengo buttato a terra, non dal vento,
ma da un cavallo che si stacca dagli altri e brancola, le orecchie
appiattite, gli occhi roteanti. - Prendetelo! - urlo. La mia voce è un
mormorio, io stesso non riesco a sentirla. Il cavallo ci scompare
davanti agli occhi, come un fantasma. Nello stesso momento la tenda vola
via, volteggia nel cielo trascinata in alto da un turbine. Mi butto
sulle coperte arrotolate, tenendole giù, gemendo di disperazione e di
rabbia. Poi, a quattro zampe, trascinando le coperte, mi sposto
faticosamente verso di lei. E come nuotare controcorrente. Ho gli occhi,
il naso, la bocca pieni di sabbia che mi soffoca.
La ragazza è appoggiata con le braccia tese come ali al collo di due
cavalli. Sembra che stia parlando con loro. Gli animali, malgrado
abbiano gli occhi pieni di furia, stanno fermi.
- E' volata via la nostra tenda! - le grido nell'orecchio, agitando un
braccio verso il cielo. Si volta: la faccia, sotto il cappuccio, è
avvolta in una sciarpa nera, anche gli occhi sono coperti. - Non abbiamo
più la tenda, - grido di nuovo. Annuisce.
Per cinque ore restiamo stretti dietro i cavalli e le cataste di legna
mentre il vento ci frusta buttandoci addosso neve, ghiaccio, pioggia,
sabbia, pietrisco. Il freddo ci penetra dolorosamente nelle ossa. Il
fianco dei cavalli esposto al vento è ricoperto di ghiaccio. Ci
stringiamo tutti insieme, uomini e animali, per riscaldarci e tenere
duro.
Poi a mezzogiorno cala il vento. E' come se da qualche parte fosse stato
chiuso un portone. Le orecchie ci fischiano nell'improvvisa quiete.
Dovremmo muovere gli arti intirizziti, pulirci, caricare gli animali,
qualunque cosa pur di far scorrere il sangue nelle vene, ma non vogliamo
altro che rimanere un po' pia a lungo nel nostro nido. Sinistra
letargia! Le parole mi raschiano la gola: - Forza ragazzi, carichiamo i
cavalli!
Montagnole di sabbia indicano la posizione dei nostri bagagli sparsi.
Cerchiamo sottovento ma non c'è traccia della tenda volata via. Aiutiamo
i cavalli malconci a rialzarsi e li carichiamo. Il freddo della tempesta
è niente rispetto a quello che viene dopo, che ci avvolge come un
lenzuolo di ghiaccio. Il respiro ci si gela in bocca, tremiamo nei
nostri stivali. Dopo tre passi incerti, a zig zag, il cavallo di testa
si piega sulle zampe posteriori. Lo liberiamo dal carico di legna e lo
tiriamo su con l'aiuto di un bastone, lo frustiamo. Mi maledico ancora
una volta per essermi imbarcato in una spedizione così dura, con una
guida incerta, in una stagione infida.
Decimo giorno: aria più tiepida, cielo più sereno, vento più mite.
Marciamo pesantemente nel paesaggio piatto quando la guida lancia un
grido indicando un punto. «Le montagne!» penso con un tuffo al cuore. E
invece no, non sono le montagne che ha visto. Le macchie che indica, in
lontananza, sono uomini, uomini a cavallo. Mi rivolgo alla ragazza di
cui conduco il malconcio cavallo: - Siamo quasi arrivati, - dico. - C'è
gente laggiù, presto sapremo chi sono -. Il peso che mi gravava addosso
da giorni si fa più lieve. Corro verso la testa della carovana e
indirizzo la marcia verso quelle tre figure lontane.
Andiamo avanti di buon passo per mezz'ora prima di renderci conto che
non ci stiamo avvicinando. Si muovono insieme a noi. «Non reagiscono»,
mi dico, e mi chiedo se non sia il caso di accendere un fuoco. Ma quando
ci fermiamo anche le tre macchie lontane sembrano fermarsi. Quando
ricominciamo a marciare, ricominciano anche loro. «Sono solo un riflesso
nostro? Un miraggio?» Non riusciamo ad avvicinarci. Da quanto tempo ci
seguono? Oppure procedono e credono, forse, che siamo noi a seguirli?
- Basta, non ha senso inseguirli, - dico agli uomini. - Vediamo
piuttosto se accettano di farsi avvicinare da uno solo di noi -. Allora monto sul cavallo della ragazza e mi avvio verso quegli stranieri da solo. Per un po' non si muovono, stanno là, guardano e aspettano. Poi
ricominciano a ritrarsi, lucenti, verso il margine estremo della nuvola
di polvere. Sprono il cavallo, inutilmente: non riesce a fare di meglio
che procedere a malapena sbandando qua e là. Smetto di inseguirli,
smonto da cavallo e aspetto che gli altri mi raggiungano.
Per non affaticare troppo gli animali abbiamo via via ridotto le nostre
tappe. Quel pomeriggio non facciamo più di sei miglia su quella terra
piatta e dura. Davanti a noi, sempre visibili ma lontani, procedono
anche i tre cavalieri. Decidiamo di accamparci. Lasciamo che i cavalli
pascolino per un'ora, nutrendosi dell'erba stenta che possono trovare,
poi li raduniamo vicino alla tenda, li leghiamo e mettiamo un soldato di
guardia. Cala la notte, le stelle compaiono nel cielo offuscato.
Restiamo ancora un poco intorno al fuoco a goderci il calore,
assaporando il riposo delle membra doloranti, riluttanti all'idea di
stiparci tutti nell'unica tenda. A nord giurerei di aver visto tremolare
un altro fuoco, ma quando cerco di farlo vedere agli altri la notte è
una cortina fitta, nera, impenetrabile.
I tre uomini propongono di dormire all'aperto e di fare la guardia a
turno. Sono commosso. - Fra qualche giorno, - dico, - quando farà un po'
più caldo -. Dormiamo male, quattro corpi stipati in una tenda per due.
La ragazza, vergognandosi, si mette nel punto più esterno.
Mi alzo prima dell'alba e comincio a scrutare verso nord. Quando il rosa
e il viola del sole nascente iniziano a fondersi nell'oro le macchie
riappaiono nella pianura deserta, non più tre, ma otto, nove, dieci,
forse dodici.
Con un bastone e una camicia di lino bianco preparo una specie di
bandiera e cavalco verso gli stranieri. Il vento è calato e l'aria è
tersa; mentre cavalco conto: dodici figure minuscole sul fianco di una
collina e oltre, molto oltre, l'accenno vago e spettrale del blu delle
montagne. Poi, mentre continuo a osservarle, le figure riprendono a
muoversi. Sono disposte in fila indiana e come formiche salgono su per
l'altura. Arrivate in cima si fermano. Una nuvola di polvere le oscura,
poi riappare il profilo dei dodici uomini a cavallo, stagliati contro il
cielo. Con la bandiera che mi frusta le spalle continuo a cavalcare
verso di loro, fissando la cima, eppure mi sfugge il momento in cui
svaniscono di nuovo.
- E' meglio ignorarli, - dico ai miei uomini. Ricarichiamo le bestie e riprendiamo la marcia verso i monti. Per quanto il carico si faccia ogni
giorno più leggero siamo comunque costretti, a malincuore, a frustare i
cavalli sfiniti.
La ragazza sanguina, è arrivato per lei quel periodo del mese. Non può
nasconderlo, non ha nessuna possibilità di privacy, non un cespuglio
dietro al quale nascondersi. E agitata e anche gli uomini lo sono. E' la
solita vecchia storia: il sangue mestruale porta sfortuna, al raccolto
come alla caccia, e ai cavalli. Gli uomini s'incupiscono, non la vogliono vicino agli animali, cosa impossibile, non vogliono che tocchi il loro cibo. Piena di vergogna, lei se ne sta in disparte tutto il
giorno e non ci raggiunge nemmeno per la cena. Quando ho finito di
mangiare porto una ciotola di fagioli e di gnocchi di farina nella tenda
dove se ne sta da sola.
- Non dovresti servirmi, - mi dice, - e io non dovrei nemmeno stare qui
nella tenda, ma non ho nessun posto dove andare -. Non critica la sua
esclusione.
- Non ti preoccupare, - le dico accarezzandole una guancia, e mi siedo
per un po' a farle compagnia mentre mangia.
Inutile cercare di costringere gli uomini a dormire nella tenda insieme
a lei. Dormono fuori, tengono il fuoco acceso e si alternano alla
guardia. Al mattino, per tranquillizzarli, officio una piccola cerimonia
di purificazione con la ragazza (perché anch'io, avendo dormito con lei,
sono impuro): traccio una linea sulla sabbia con uno stecco, poi mi lavo
le mani e le lavo anche a lei. Quindi le faccio varcare la linea
tracciata e la reintroduco nel campo. - Domani dovrai fare la stessa
cosa, - mi bisbiglia. Siamo in viaggio da dodici giorni, dodici giorni
in cui siamo diventati molto più intimi che in mesi di convivenza nello
stesso appartamento.
Siamo giunti ai piedi della collina. In lontananza, davanti a noi, gli
strani cavalieri risalgono il corso serpeggiante di un torrente secco.
Abbiamo abbandonato ogni tentativo di raggiungerli. Sappiamo che, anche
se ci seguono, in verità ci stanno facendo strada.
Il terreno diventa sempre più roccioso e noi procediamo sempre più
lentamente. Quando ci dobbiamo fermare, o per un momento perdiamo di
vista gli stranieri nascosti da un'ansa del torrente, non abbiamo più
paura che svaniscano.
Infine superiamo un crinale, sproniamo in ogni modo i cavalli, ce la
mettiamo tutta e, all'improvviso, li raggiungiamo. Emergono da dietro le
rocce, dietro una gola nascosta; montano pony malmessi, sono in dodici o
anche più, vestiti di pelli di montone, con grossi mantelli e cappucci.
Hanno la pelle scura, indurita dal vento, gli occhi obliqui; eccoli qui,
sono loro, i barbari in carne e ossa, nel loro territorio. Sono
abbastanza vicino a loro da sentirne l'odore: sudore di cavallo, fumo,
pelli semiconciate. Uno di loro mi punta sul petto un moschetto lungo
quanto un uomo con un poggiacanna fissato all'altezza della bocca da
fuoco. Mi si ferma il cuore in petto. - No, - bisbiglio e, con cautela,
lascio le redini che stringevo, per mostrare le mani vuote. Poi con
altrettanta lentezza mi giro, riprendo le redini e, inciampando e
scivolando per la scarpata, porto il cavallo una trentina di passi più
in basso, ai piedi dell'altura, dove mi aspettano i miei compagni.
I barbari, sopra di noi, si stagliano contro il cielo. Il battito del
mio cuore, gli zoccoli dei cavalli, l'ululare del vento. Nient'altro.
Abbiamo oltrepassato i confini dell'Impero. Non è uno scherzo.
Aiuto la ragazza a smontare da cavallo. - Ascoltami bene, - le dico: -
ora ti accompagno lassù da loro, e tu ci parli. Portati i bastoni,
perché si scivola e non c'è altro modo di salire fin là. Quando ci avrai
parlato potrai decidere cosa fare. Se vuoi andare con loro, se sono
disposti a riportarti a casa, seguili pure. Se invece vuoi ritornare con
noi, torni con noi. Hai capito? Non voglio forzarti in nessun modo.
Annuisce. E molto nervosa.
Le circondo le spalle col braccio e l'aiuto a salire su per la scarpata.
I barbari non si muovono. Tre imbracciano i moschetti a canna lunga, gli
altri portano gli archi corti che già conosco. Quando arriviamo in cima
indietreggiano leggermente.
- Li vedi? - chiedo ansimante.
Piega la testa in quel suo strano inspiegabile modo. - Non bene, - dice.
- Cieca, come si dice cieca?
Me lo dice. Mi rivolgo ai barbari. - Cieca, - dico, toccandomi le
palpebre. Non reagiscono. Il fucile, con la canna poggiata tra le
orecchie del pony, è sempre puntato contro di me. Il suo proprietario mi
guarda con occhi brillanti, allegri. Un silenzio interminabile.
- Parlagli, - dico alla ragazza. - Spiegagli perché siamo qui,
raccontagli la tua storia. Digli la verità.
Lei mi guarda in tralice e accenna un sorriso. - Davvero vuoi che gli
dica la verità?
- La verità. Che altro c'è da dire? Continua a sorridere, scuote la
testa e tace.
- Digli quello che vuoi. Solo, ora che ti ho portato fin dove mi è stato
possibile arrivare, voglio chiederti apertamente di tornare in città con
me. Di tua volontà -. Le stringo un braccio: - Mi capisci? E' questo che
voglio.
- Perché? - La parola le scivola con mortale dolcezza dalle labbra. Sa
che mi confonde, che mi ha sempre confuso, fin dall'inizio. L'uomo col
fucile avanza verso di noi, ci arriva quasi addosso. Lei scuote la
testa. - No, non voglio tornare in quel posto.
Mi affretto giù per la scarpata. - Accendete il fuoco, preparate il té,
ci fermiamo qui, - dico agli uomini. Dall'alto mi giunge, interrotta a
tratti dal vento, la morbida cascata di parole della ragazza. Sta in
piedi, appoggiata ai bastoni, e gli uomini, scesi da cavallo, le si sono
stretti intorno. Non capisco nemmeno una parola. «Che peccato, - mi
dico, - in tutte quelle lunghe sere vuote avrebbe potuto insegnarmi la sua lingua! Troppo tardi, ormai.»
Dalla sacca della sella tiro fuori i due piatti d'argento che mi sono
portato dietro per tutto il deserto. Estraggo dal suo involto il rotolo
di seta. - Vorrei che li prendessi, - dico. Guido la sua mano, perché
senta la morbidezza della seta, la cesellatura dei piatti, con gli
intrecci di pesci e foglie. Ho portato anche il suo piccolo fagotto. Non
so cosa contenga. Lo poggio a terra. - Ti porteranno fino a casa?
Annuisce. - Lui dice che ci arriveremo verso metà estate. Dice anche che
vuole un cavallo, per me.
- Digli che ci aspetta una strada lunga e dura. I nostri cavalli sono
ridotti male, come può vedere lui stesso. Chiedigli anzi se sono
disposti a venderci qualcuno dei loro cavalli. Digli che paghiamo in
argento.
Traduce al vecchio, mentre io aspetto. Gli altri sono scesi da cavallo,
ma lui è ancora in sella, con l'enorme vecchio fucile a tracolla sulla
schiena. Staffe, borchie, fibbie: niente è di metallo. Tutto è di osso o
di legno indurito sul fuoco, cucito con budella, tenuto insieme da lacci
di cuoio. Sono vestiti di lana e pelli di animali, nutriti fin
dall'infanzia a carne e latte. Non conoscono la morbidezza del cotone,
la tenerezza del grano e della frutta: sono stati cacciati dagli
altopiani, spinti su per le montagne, dall'avanzata dell'Impero. Prima
d'ora non avevo mai incontrato questi uomini del nord sul loro
territorio, in condizioni di parità. I barbari che conosco sono quelli
che vengono all'oasi per barattare le loro merci, i pochi che si
accampano lungo il fiume e quei poveretti catturati da Joll. Che
occasione - ma al tempo stesso che vergogna - essere qui oggi! Un giorno
i miei successori collezioneranno gli oggetti prodotti da questa gente -
punte di frecce, manici intagliati di coltelli, piatti di legno - e li
metteranno in mostra accanto alle mie uova di uccello e alle iscrizioni
delle mie misteriose tavolette. Ed eccomi qui a cercare di costruire un
ponte tra gli uomini del futuro e quelli del passato, a restituire con
tante scuse un corpo che abbiamo prosciugato. Un intermediario, insomma.
Uno sciacallo dell'Impero, nei panni dell'agnello.
- Dice di no.
Tiro fuori dalla sacca una delle piccole barre d'argento e la mostro al
barbaro. - Digli che questa è per un cavallo.
L'uomo si china, prende la barra luccicante, la mordicchia con cura.
Quindi la fa scomparire sotto la pelliccia.
- Dice di no. L'argento lo prende al posto del cavallo che ti lascia.
Non porta via il mio cavallo e al suo posto prende l'argento.
Sto per sbottare, ma a che servirebbe litigare? Lei va via. Se ne è già
quasi andata. E l'ultima volta che posso guardarla in faccia, analizzare le reazioni del mio cuore, cercare di capire chi è veramente. Dopo, lo
so, comincerò a ricrearla, utilizzando il repertorio dei ricordi,
secondo i miei discutibili desideri. Le tocco la guancia, le prendo la
mano. Su quest'arida collina, a metà mattina, non trovo traccia in me di
quel sonnolento erotismo che per notti e notti mi ha spinto verso il suo
corpo, e neppure dell'affettuoso cameratismo nato durante il viaggio.
Solo un gran vuoto, e la desolazione che debba esserci quel gran vuoto.
Quando le stringo più forte la mano non reagisce. Vedo fin troppo
chiaramente quello che vedo: una ragazza tarchiata, con la bocca larga e
la frangia, che guarda il cielo dietro di me, una straniera venuta da
luoghi sconosciuti che ora se ne torna a casa dopo un periodo tutt'altro
che felice. - Addio, - dico. - Addio, - dice. La sua voce è smorta, come
la mia. Mi avvio giù per la collina. Quando arrivo in fondo le hanno già
tolto i bastoni e la stanno aiutando a montare su un pony.
Per quel che si può affermare con ragionevole certezza, è arrivata la
primavera. L'aria è profumata e l'erba verde comincia a spuntare qua e
là, davanti a noi volano rincorrendosi a frotte le quaglie del deserto.
Se fossimo partiti adesso invece di due settimane fa saremmo andati più
spediti e non avremmo rischiato la vita. E però chissà se avremmo avuto
la stessa fortuna, chissà se avremmo trovato i barbari? Proprio ora, in
questo preciso momento, ne sono certo, stanno piegando le tende,
caricano i carri e radunano le greggi per la migrazione di primavera.
Non è stato un errore rischiare, anche se so che gli uomini mi criticano
per questo. («Trascinarci fin qui d'inverno, - immagino che dicano. -
Non avremmo dovuto accettare!» E chissà cosa penseranno, adesso che si
sono resi conto di non aver preso parte a una spedizione diplomatica
presso i barbari, come avevo detto, ma di aver solo scortato una donna,
una prigioniera barbara abbandonata, una persona di nessun conto, la
puttana del magistrato).
Cerchiamo di ripercorrere il più possibile la stessa strada fatta
all'andata, orientandoci con la posizione delle stelle che avevo
accuratamente trascritto. Abbiamo il vento alle spalle e l'aria è più
tiepida. Il carico dei cavalli è più leggero e sappiamo dove ci
troviamo. Non c'è motivo per non procedere spediti. Ma già alla prima
tappa c'è un contrattempo. Mi chiamano vicino al fuoco, dove un giovane
soldato se ne sta seduto con aria disperata, il viso tra le mani. Si è
tolto gli stivali e ha liberato i piedi dalle fasce.
- Guardi un po' quel piede, signore! - dice la guida. Il piede destro è
rosso e gonfio. - Che è successo?
- chiedo al ragazzo. Solleva il piede e mi mostra un calcagno incrostato
di sangue e di pus. Dalle fasce da piede sporche viene un odore di carne
imputridita.
- Da quant'è che hai il piede ridotto in quello stato? - urlo. Si copre
il viso. - Perché non hai detto niente? Non avevo forse dato ordine a
tutti di tenere i piedi puliti e cambiare le fasce a giorni alterni e di
lavarle? Di mettere l'unguento sulle vesciche e di fasciarle? C'era una ragione se ho dato quegli ordini. E adesso, come prosegui col piede in
quelle condizioni?
Tace. - Non voleva farci perdere tempo, - mormora il suo amico.
- Non voleva farci perdere tempo e ora dovremo riportarlo in lettiga! -
grido. - Fate bollire dell'acqua. Che si lavi quel piede e se lo fasci.
Come prevedevo la mattina dopo, quando cercano di aiutarlo a infilare lo
stivale, il ragazzo non riesce a dissimulare il forte dolore. Col piede
fasciato e infilato in un sacchetto riesce a zoppicare nei tratti di
strada più facili, ma per il resto deve andare a cavallo.
Quando questo viaggio finirà saremo felici tutti. Non ci sopportiamo
più.
Il quarto giorno arriviamo al letto della laguna morta e lo seguiamo per
parecchie miglia a sud-est prima di arrivare al posto dove avevamo
trovato l'acqua, con i tronchi mozzi di pioppo. Lì ci fermiamo un giorno
intero per raccogliere le forze per il tratto più duro. Friggiamo le
frittelle e facciamo bollire gli ultimi fagioli rimasti.
Me ne sto in disparte. Gli uomini parlano a bassa voce e smettono quando
mi avvicino. Tutta l'eccitazione iniziale è scomparsa e non solo perché
il momento culminante si è rivelato deludente - un breve incontro nel
deserto per poi riaffrontare lo stesso tragitto - ma perché la presenza
della donna aveva creato tra gli uomini una sorta di gara a sfondo
sessuale, una fraterna rivalità che ora si è trasformata in irritazione,
soprattutto nei miei confronti perché li ho trascinati in questa assurda
spedizione, nei confronti dei cavalli perché recalcitrano, nei confronti
del compagno col piede ferito perché rallenta la marcia, nei confronti
dei pesanti bagagli che devono portare e infine addirittura nei
confronti di se stessi. Decido, a mo' di esempio, di mettere il mio
sacco a pelo fuori, sotto le stelle, vicino al fuoco. Preferisco il
freddo dell'aria aperta al caldo soffocante di una tenda dove dormono
quattro uomini di pessimo umore. La notte successiva nessuno propone di
piantare la tenda e dormiamo tutti fuori.
Il settimo giorno procediamo sulla distesa salmastra. Perdiamo un altro
cavallo. Gli uomini, stanchi di fagioli e gallette, chiedono di poterlo
macellare e mangiare. Do il permesso ma non mi unisco a loro. - Io vado
avanti con i cavalli, - dico. Che si godano il loro banchetto. Non
voglio impedirgli di immaginare che sia mia la gola che tagliano, mie le
viscere che strappano, mie le ossa che rompono. Forse dopo saranno più
bendisposti.
Penso con nostalgia alla solita routine delle mie giornate di normale
lavoro, quando s'avvicina l'estate, con le lunghe sieste piene di sogni
e le conversazioni con gli amici al tramonto, sotto il noce, con i
camerieri che portano il té e le limonate e le appetibili ragazze che ci
passeggiano davanti nella piazza a gruppi di due o tre nei loro vestiti più belli. Solo qualche giorno è passato da quando ho salutato
quell'altra e già quasi non ne ricordo il viso. E' divenuto opaco,
impermeabile, come se stesse ricoprendosi di un guscio. Avanzando a
fatica su questa distesa di sale mi sorprendo a pensare con stupore di
aver potuto amare una creatura di un regno così remoto. Ora non desidero
altro che vivere la mia vita in pace in un mondo a me familiare, morire
nel mio letto e essere accompagnato alla tomba da vecchi amici.
Scorgiamo le torri che si stagliano contro il cielo a dieci miglia di
distanza. Siamo ancora sul sentiero a sud del lago quando l'ocra delle
mura comincia a staccarsi dallo sfondo grigio del deserto. Lancio
un'occhiata agli uomini dietro di me. Hanno affrettato il passo,
nascondono a fatica l'eccitazione. Sono tre settimane che non ci laviamo
e non ci cambiamo; puzziamo, abbiamo la pelle secca e nera per il vento
e il sole. Siamo esausti, ma marciamo come soldati, perfino il ragazzo
col piede ferito ci zoppica accanto col petto in fuori. Poteva andare
peggio. Forse sarebbe potuta andare meglio, ma poteva anche andare
peggio. Perfino i cavalli, con il ventre gonfio per l'erba di palude,
sembrano rianimarsi. Nei campi cominciano a spuntare i germogli
primaverili. Ci giunge il suono lontano di trombe, un drappello di
cavalieri esce dalle porte della città per accoglierci, il sole
risplende sugli elmi. Sembriamo spaventapasseri, sarebbe stato meglio se
avessi detto agli uomini di indossare l'armatura per queste ultime
miglia. Guardo i cavalieri che trottano verso di noi, aspettandomi che
da un momento all'altro si lancino al galoppo, sparino in aria salve di
fucile e comincino a gridare. Il loro atteggiamento invece si direbbe
efficiente, non hanno per niente l'aria di un drappello che venga a
darci il benvenuto. Comincio a rendermi conto che il corteo non è
seguito da bambini trotterellanti. Si dividono in due squadre e ci
circondano. Non riconosco neppure un volto, hanno sguardi duri, non
rispondono alle mie domande e ci scortano attraverso la porta aperta,
come prigionieri. Solo quando sbuchiamo nella piazza e vediamo le tende
e sentiamo il clamore, solo allora capiamo: è arrivato l'esercito. La
campagna annunciata contro i barbari è in atto.
CAPITOLO QUARTO.
Un uomo siede alla mia scrivania, nel mio ufficio dietro il tribunale.
Non l'ho mai visto prima, ma i gradi sulla camicia azzurra mi dicono che
è della Terza Divisione della Guardia civile. Accanto al gomito ha una
pila di cartelle marroni chiuse da nastri rosa, ne tiene una aperta
davanti. Riconosco quelle cartelle, sono i registri di cinquant'anni di
tasse e tributi. E mai possibile che le stia esaminando? Che cosa cerca?
Parlo:
- Posso esserle di aiuto?
Mi ignora, e quanto ai due rigidi soldati che mi scortano, potrebbero
anche essere di legno. Non penso nemmeno a protestare. Dopo le settimane
passate nel deserto non mi riesce difficile tacere. E poi provo una vaga esultanza all'idea che la falsa amicizia tra me e la Terza Divisione
stia per concludersi.
- Posso parlare con il colonnello Joll? - La butto lì. Non ho idea se
Joll sia tornato.
Non mi risponde, continua a fare finta di leggere i documenti. E' un
bell'uomo, coi denti bianchi e regolari e grandi occhi celesti. Ma è
vanitoso, penso. Me lo immagino seduto sul letto accanto a una donna:
gonfia i muscoli e gode della sua ammirazione. Insomma, il tipo d'uomo
che usa il suo corpo come una macchina, ignorandone i ritmi naturali.
Quando, tra un attimo, mi guarderà, lo farà da dietro quella sua bella
faccia impassibile, con quei suoi occhi chiari, come un attore dietro
una maschera.
Alza lo sguardo dalla pagina. Proprio come pensavo.
- Dov'è stato? - mi chiede.
- Sono stato via per un lungo viaggio. Mi spiace non essermi trovato qui
quando lei è arrivato, per offrirle ospitalità. Ma ora che sono
rientrato, quel che è mio è suo.
Dai gradi sulla camicia azzurra, vedo che è sottufficiale. Un
sottufficiale della Terza Divisione. Che vuol dire? Così a naso: cinque
anni passati a prendere a calci e a botte la gente, disprezzo per la
polizia regolare e per i regolari processi di legge, odio per i modi
civili come i miei. Ma forse lo sto giudicando ingiustamente; è tanto
che manco dalla capitale.
- Lei ha proditoriamente complottato col nemico, - mi dice.
Finalmente! «Proditoriamente complottato»: parla come un libro stampato.
- Siamo in tempo di pace, qui, - dico, - non abbiamo nemici -. Una
pausa. - A meno che non mi sbagli,
- dico, - a meno che non siamo noi il nemico.
Non sono sicuro che mi capisca. - Gli indigeni sono in guerra con noi, -
mi dice. Dubito che abbia mai visto un barbaro in vita sua. - Perché ha
complottato con loro? Chi l'ha autorizzata a lasciare il suo posto?
Scrollo le spalle di fronte alla provocazione. - E una faccenda
personale, - dico, - su questo deve fidarsi della mia parola. Non ho
intenzione di discuterne. Riconosco solo che il posto di magistrato di
un distretto non può essere abbandonato come quello di un portiere.
Cammino con una certa baldanza mentre le due guardie mi scortano in
prigione. - Spero che mi permetterete di lavarmi, - dico. Mi ignorano.
Non importa. Conosco la ragione della mia esultanza: la mia alleanza con i custodi
dell'Impero è finita. Mi sono messo contro, il legame è spezzato, sono
un uomo libero. Chi non sorriderebbe? E tuttavia, che pericolosa
allegria! Non dev'essere tanto facile la salvezza. E poi su che
principio si basa la mia opposizione? Non sarà forse solo una reazione
alla vista di uno dei nuovi barbari che usurpa la mia scrivania e fruga
tra le mie carte? E quanto alla libertà che sto per buttare via, che
valore ha per me? Mi sono davvero goduto la libertà totale di
quest'ultimo anno, in cui, come non mai in passato, la mia vita è stata
solo mia, da decidere momento per momento? Per esempio, la libertà di
fare quello che volevo della ragazza, di farne una moglie, una
concubina, una figlia, una schiava, o tutte queste cose insieme, o
niente di tutto ciò, a mio piacimento, perché non avevo nessun dovere
nei suoi confronti se non quello che di volta in volta sentivo? Chi non
accoglierebbe con gioia la reclusione come liberazione da quella
opprimente libertà? Nella mia opposizione non c'è niente di eroico,
questo non devo dimenticarlo neppure per un momento.
E la stanza della caserma che l'anno scorso hanno usato per gli
interrogatori. Resto da una parte mentre portano via i materassi e le
coperte dei soldati che ci dormivano e li ammucchiano sulla porta. I
miei tre uomini, ancora sporchi e tutti stracciati, emergono dalla
cucina e mi fissano. - Che state mangiando? - grido.
- Portatemi qualcosa prima che mi chiudano dentro!
- Uno di loro viene di corsa con la sua farinata di miglio macinato. -
La prenda, - mi dice. Le guardie mi fanno cenno di entrare. - Un momento
solo, - dico, - lasciate che mi porti le coperte, poi non vi darò più
noia -. Aspettano mentre io, godendomi un raggio di sole, divoro la
farinata come un morto di fame. Il ragazzo col piede ferito mi si
avvicina con una tazza di té, sorridendo. - Grazie, - dico. - Non
preoccuparti, non ti faranno niente, tu eseguivi solo gli ordini -. Con
le mie coperte e la mia vecchia pelle d'orso sotto il braccio entro
nella cella. Le macchie di fuliggine sono ancora sul muro dove prima
c'era il braciere. La porta si chiude e piomba il buio.
Dormo tutto il giorno e tutta la notte, a malapena disturbato dal rumore
dei picconi dall'altra parte del muro, dietro la mia testa, dal lontano
sferragliare delle carriole e dalle grida degli operai. Nel sogno sono
di nuovo nel deserto e arranco faticosamente nello spazio infinito verso
una meta oscura. Sospiro e mi inumidisco le labbra: - Cos'è questo
rumore? - chiedo alla guardia che mi porta da mangiare. Stanno buttando
giù le case costruite lungo il muro meridionale della caserma, mi dice:
amplieranno la caserma e costruiranno delle vere e proprie celle. - Ah,
giusto, - dico, - era ora che il nero fiore della civiltà sbocciasse -.
Non capisce.
Non ci sono finestre, solo un buco in alto sulla parete. Ma dopo un
giorno o due i miei occhi si sono adattati all'oscurità e debbo
schermarli con la mano, mattina e sera, quando spalancano la porta per
darmi da mangiare. L'ora migliore è la mattina presto, quando mi sveglio
e resto steso ad ascoltare il canto dei primi uccelli e guardo il
quadrato in alto sulla parete, in attesa dell'istante in cui l'oscurità
cederà il posto alla prima luce grigio tortora.
Mi danno le stesse razioni che danno ai soldati comuni. Ogni due giorni
il cancello della caserma viene chiuso per un'ora e io posso uscire per
lavarmi e camminare. Dall'altra parte del cancello ci sono sempre tante
facce assiepate a bocca aperta di fronte allo spettacolo della caduta di
uno che è stato potente. Tante di quelle facce le riconosco, ma nessuno
mi saluta.
Di notte, quando tutto si ferma, escono gli scarafaggi in
perlustrazione. Sento, o forse l'immagino, lo scatto corneo delle loro
ali, lo zampettio veloce sul pavimento. Sono attratti dall'odore del
secchio nell'angolo, dalle briciole di cibo sparse a terra e certamente
anche da questa montagna di carne che emana i suoi diversi odori di vita
e disfacimento. Una notte mi sveglia il passaggio leggero, come di una
piuma, di uno di loro sulla gola. Da quel momento in poi mi sveglio
spesso di scatto durante la notte, con la sensazione di un solletico,
cerco di liberarmi dalle loro antenne che mi saggiano le labbra, gli
occhi. E così che cominciano le ossessioni: attenzione.
Fisso tutto il giorno le pareti spoglie, incapace di credere che
l'impronta di tutto il dolore, di tutta la degradazione che hanno
racchiuso non si materializzi a uno sguardo attento. Oppure chiudo gli
occhi e cerco di affinare l'udito per captare il suono lievissimo delle
grida di tutti quelli che hanno sofferto qui e che ancora devono
riecheggiare tra queste mura. Prego che un giorno queste mura vengano
finalmente abbattute e l'inquieta eco possa essere finalmente liberata,
anche se è difficile ignorare il suono così vicino dei mattoni messi uno
sull'altro.
Aspetto con ansia l'ora della passeggiata, quando posso sentire il vento
sul viso e la terra sotto i piedi, vedere altre facce e ascoltare la
conversazione degli uomini. Dopo due giorni di solitudine le mie labbra
sono flosce e inutili e la mia voce risuona strana alle mie stesse
orecchie. Davvero l'uomo non è stato fatto per vivere solo! Costruisco
le mie giornate assurdamente attorno alle ore del pasto. M'ingozzo come
un cane. Una vita bestiale mi sta trasformando in una bestia.
E tuttavia è solo nei giorni vuoti, quando sono abbandonato
completamente a me stesso, che riesco a concentrarmi profondamente
sull'evocazione dei fantasmi racchiusi tra queste mura, fantasmi di
uomini e donne che, dopo essere stati qui dentro, non volevano più
mangiare e non erano più in grado di camminare senza aiuto.
Da qualche parte c'è sempre un bambino che viene picchiato. Penso a una
che malgrado la sua età era ancora bambina, una che è stata portata qui
dentro e torturata davanti agli occhi del padre, che ha assistito all'umiliazione del padre e ha visto che lui sapeva che lei vedeva.
O forse, arrivati a quel punto, lei già non ci vedeva più bene e doveva
aiutarsi a capire con altri mezzi: il tono che aveva preso la voce del
padre quando li implorava di smettere, per esempio.
Arrivo sempre a un punto in cui mi rifiuto di immaginare i particolari
di quello che è successo qui dentro.
Da quel momento lei non ha più avuto padre. Suo padre era annichilito,
era un uomo morto. Dev'essere stato allora, quando lei si è staccata da
lui, che lui si è avventato addosso ai suoi aguzzini, se c'è qualcosa di
vero nella storia che raccontano, e li ha graffiati come una bestia
selvaggia, finché non l'hanno bastonato a morte.
Per ore, a occhi chiusi, sto seduto per terra al centro della stanza,
nella tenue luce del giorno, e cerco di evocare l'immagine di quell'uomo
che ricordo a malapena. Tutto quello che riesco a vedere è una figura di
nome padre che potrebbe essere la figura di qualunque padre conscio che
sua figlia viene picchiata e non la può proteggere. Non può fare il suo
dovere nei confronti di una persona amata. E sa che per questo non sarà
mai perdonato. Questa consapevolezza di padre, questa consapevolezza
della condanna è troppo per lui, non la può sopportare. Non meraviglia
allora che abbia desiderato morire.
Ho dato alla ragazza la mia protezione, offrendomi, nel mio modo
equivoco, di farle da padre. Ma sono arrivato troppo tardi, quando lei
aveva smesso di credere nei padri. Volevo fare quel che era giusto,
riparare al male che le era stato fatto, non negherò questo dignitoso
impulso, sia pure mescolato ad altre, più discutibili motivazioni: ci
dev'essere sempre uno spazio per fare penitenza e offrire riparazione. E
però questo non toglie che non avrei mai dovuto permettere di aprire le
porte della città per far entrare gente convinta che esistano
considerazioni più importanti di quelle dettate dalla dignità. Le hanno
mostrato il padre nudo e l'hanno fatto farfugliare davanti a lei per il
dolore. L'hanno torturata di fronte a lui e lui non ha potuto fare
niente per impedirlo (quel giorno l'ho passato a sfogliare le mie
pratiche in ufficio). Dopo, lei non è stata più pienamente umana,
sorella di tutti noi. Certi affetti erano morti, certi moti del cuore
non erano più possibili. Anch'io, se resto abbastanza tra queste mura
con i fantasmi non solo della ragazza e di suo padre, ma anche dell'uomo
che perfino sotto la lampada non si toglieva quei cerchietti scuri dagli
occhi e di quel suo scagnozzo che aveva il compito di tenere acceso il
braciere, anch'io sarò contagiato e mi trasformerò in un essere che non
crede in niente.
Così continuo a volteggiare e a girare intorno alla figura irriducibile
della ragazza, gettandole addosso una rete di significati dopo l'altra.
Lei, appoggiata ai suoi due bastoni, guarda vagamente verso l'alto. Cosa
vede? Le ali protettrici di un albatro custode, o la sagoma nera di un
corvo vigliacco, che ha paura di colpire finché la sua preda ancora
Pag 69respira?
Anche se le guardie hanno l'ordine di non rivolgermi la parola, non è
difficile mettere insieme una storia coerente dai brani di conversazione
che sento quando esco in cortile. Ultimamente non si parla d'altro che
dell'incendio lungo il fiume. Cinque giorni fa era solo una macchia più
scura sulla nebbia, a nord-ovest. Da allora ha camminato lungo il corso
del fiume, spegnendosi a tratti ma poi riaccendendosi sempre e ora è ben
visibile dalla città come un cupo sudario sul delta, laddove il fiume si
butta nel lago.
Posso immaginare quel che è successo. Qualcuno deve aver deciso che le
rive del fiume offrivano troppo riparo ai barbari e che il fronte
fluviale sarebbe stato molto più facile da difendere eliminando la
vegetazione sulle dune. Così hanno appiccato il fuoco. Col vento che
soffiava da nord le fiamme si sono propagate per tutta la bassa valle.
Ne ho visti altri di incendi così. Il fuoco corre tra le canne e i
pioppi bruciano come torce. Gli animali abbastanza veloci, come
l'antilope, le lepri, i gatti, scappano. Stormi di uccelli volano via
terrorizzati. Tutto il resto muore. Ma sono talmente tanti i tratti
spogli lungo il fiume che il fuoco raramente si propaga. Dunque in
questo caso è chiaro che ci dev'essere stata una squadra di uomini a
seguire il fuoco, a controllarne l'avanzata. Non si preoccupano del
fatto che una volta bruciata la vegetazione il vento comincia a
corrodere il suolo e il deserto avanza. E' così che la forza di
spedizione contro i barbari si prepara alla sua campagna: distrugge la
terra, devasta il nostro patrimonio.
Gli scaffali sono stati svuotati, spolverati e lucidati. Il piano della
scrivania brilla per quant'è lucido ed è tutto sgombro, salvo per un
piattino con dentro biglie di vari colori. La stanza è immacolata. In un
angolo, su un tavolino, un vaso di fiori di ibisco profuma l'aria. Per
terra c'è un tappeto nuovo. Il mio ufficio non è mai stato così bello.
Sto lì ad aspettare con la guardia accanto, indosso gli stessi vestiti
con cui ho viaggiato e la biancheria che ho lavato un paio di volte; ma
la giacca ancora puzza di fumo per i fuochi di campo. Guardo il gioco
della luce sui fiori di mandorlo fuori dalla finestra e sono contento.
Dopo una lunga attesa arriva, butta un fascio di fogli sulla scrivania e
si siede. Mi fissa senza parlare. Sta cercando, anche se in modo un po'
troppo teatrale, di intimidirmi. L'attenta riorganizzazione del mio
ufficio dal disordine e dalla polvere a questo perfetto e spoglio
nitore, la lenta disinvoltura con cui attraversa la stanza, la contenuta
insolenza con cui mi fissa, tutto questo ha un senso: non solo farmi
capire che è lui che comanda (e come potrei contestarlo?) ma anche che
sa come ci si comporta in un ufficio, sa perfino introdurvi una nota di
funzionale eleganza. Perché mi ritiene degno di tanto sfoggio? Perché,
malgrado i miei abiti sporchi e la barba incolta, sono pur sempre uno di
una vecchia famiglia, per quanto caduto in basso e spregevolmente
degradato? Ha paura forse che gli rida in faccia se non si arma di un
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certo decoro, scopiazzato, non ne dubito, dall'attenta osservazione
degli uffici dei suoi superiori della Terza Divisione? Non mi crederà se gli dico che non importa. Devo stare attento a non sorridere.
Si schiarisce la gola. - Le leggerò qualcosa dalle deposizioni che abbiamo raccolto, magistrato, - dice, - così potrà rendersi conto della gravità delle accuse contro di lei -. Fa un cenno e la guardia lascia la
stanza.