lunedì 31 luglio 2023

IL NIPOTE DI WITTGENSTEIN Thomas Bernhard



 IL NIPOTE DI WITTGENSTEIN Thomas Bernhard

Recensione

Ho letto ieri notte le 132 pagine di questo racconto semi-autobiografico. Devo dire che è molto faticoso leggerlo anche per le sue ripetitività maniacali.

È un libro dove Bernhard sopratutto manifesta in tutta la sua acida ironia, l’insofferenza, anche il rancore, nei confronti dell’Austria, di parte della cultura, dei medici, degli psichiatri, delle istituzioni. A volte è anche irritante. Tuttavia “Il nipote di Wittgenstein” è soprattutto un libro su come raccontare l’amicizia; un ritratto commovente di un amico, Paul Wittgenstein, appunto, esponente abbandonato nella sua follia da una tradizionale famiglia austriaca, ricca ma meschina. 

Bernhard è in questo libro (come in altri) esagerato, parzialissimo, rabbioso. La sua versione di Paul, il suo amico, è commovente e indimenticabile. È un racconto anche sulla paura della morte. Nell’osservare il decadimento di Paul, Thomas intravede i segni del suo tramonto. Anche lui ha paura della morte e della follia, della solitudine che si instaura nell’anima quando la malattia diventa una costante. Tutto in un flusso ininterrotto in cui si scontrano vita, morte, solitudine, follia e cinismo; in cui la malattia del corpo e dell’anima si confrontano.

     IL NIPOTE DI WITTGENSTEIN

Nel millenovecentosessantasette, nel Padiglione Hermann dell’Altura Baumgartner, una suora che vi svolgeva con solerzia infaticabile il suo lavoro di infermiera mi depose sul letto Perturbamento, il libro fresco di stampa che avevo scritto un anno prima a Bruxelles in rue de la Croix, ma io non ebbi neanche la forza di prendere in mano quel libro essendomi appena svegliato, erano passati solo pochi minuti, da un’anestesia totale durata parecchie ore che mi era stata praticata dagli stessi medici che mi avevano aperto il collo in modo da poter estrarre dalla gabbia toracica un tumore della grandezza di un pugno. Ricordo che c’era la guerra dei sei giorni e che in conseguenza del massiccio trattamento cortisonico al quale ero stato sottoposto mi era venuta la faccia da luna piena, come auspicato dai medici; e questi medici durante la loro visita quotidiana commentavano la mia faccia da luna piena in un modo e con parole di una tale comicità da fare ridere perfino me, che pure, stando alle loro stesse dichiarazioni, non avevo davanti che qualche settimana, nella migliore delle ipotesi qualche mese di vita. Nel Padiglione Hermann c’erano al pianoterra solo sette camere, e dentro queste camere tredici o quattordici pazienti che altro non aspettavano se non la morte. Ciabattavano su e giù per il corridoio avvolti nelle vestaglie di proprietà del reparto, e un giorno sparivano per sempre. Una volta la settimana compariva nel Padiglione Hermann il celebre professor Salzer, il luminare per eccellenza nel campo della chirurgia polmonare, sempre in guanti bianchi e con un’andatura che incuteva un immenso rispetto, accompagnato fin dentro alla sala operatoria, lui così alto ed elegante, da un nugolo di suore che gli frullavano intorno in un silenzio quasi perfetto. Questo celebre professor Salzer, da cui si facevano operare i pazienti di prima categoria che puntavano tutto sulla sua celebrità (al contrario di me, che mi ero fatto operare dal primario del mio reparto, un tipo tarchiato, figlio di contadini del Waldviertel), era uno zio del mio amico Paul, il quale a sua volta era nipote di quel filosofo il cui Tractatus logico-philosophicus è ben noto in tutto il mondo scientifico e più ancora in tutto il mondo pseudoscientifico, e proprio nel periodo in cui io ero ricoverato nel Padiglione Hermann il mio amico Paul era ricoverato, duecento metri più in là, nel Padiglione Ludwig, il quale però, a differenza del Padiglione Hermann, non apparteneva al reparto di pneumologia e dunque alla cosiddetta Altura Baumgartner, bensì al manicomio Arti Steinhof. Sul Wilhelminenberg, con la sua immensa estensione a ovest di Vienna, da decenni diviso in due parti, una, che era la mia zona, destinata appunto ai malati di polmoni e chiamata per brevità Altura Baumgartner, e una destinata invece ai malati di mente e nota in tutto il mondo come Am Steinhof, la più piccola come Altura Baumgartner, la più grande come Am Steinhof, ogni padiglione ha un nome proprio maschile. Era già grottesco il pensiero del mio amico Paul a due passi da me, nel Padiglione Ludwig. Quando vedevo il professor Salzer che puntava diritto, senza guardare né a destra né a sinistra, verso la sala operatoria, non potevo fare a meno di pensare che il mio amico Paul parlava continuamente di questo suo zio definendolo ora un genio ora un assassino, e guardando il professore che entrava nella sala operatoria oppure ne usciva, ecco, sta entrando un genio oppure un assassino, pensavo, ecco, sta uscendo un assassino oppure un genio. La rinomanza medica di cui egli godeva mi affascinava moltissimo. Avevo visto molti medici anche prima di soggiornare nel Padiglione Hermann, che è tuttora riservato alla chirurgia polmonare e si è specializzato nella cosiddetta chirurgia del cancro ai polmoni, e tutti questi medici, ai quali in definitiva mi ero abituato, li avevo altresì studiati, ma il professor Salzer, fin dal primo momento in cui l’ho visto, aveva messo in ombra tutti gli altri medici. Sotto nessun aspetto ero riuscito a capire in che cosa consistesse la sua straordinarietà, di lui sapevo soltanto da una parte che guardarlo e ammirarlo era la stessa cosa, dall’altra le voci che circolavano sul suo conto. A quanto pare il professor Salzer, a detta anche del mio amico Paul, è stato per molti anni un taumaturgo, si dice che pazienti privi ormai di qualsiasi speranza siano sopravvissuti per decenni all’intervento Salzer, mentre altri pazienti, come il mio amico Paul non si stancava di ripetere, gli siano morti, a quanto si dice, sotto i ferri imbizzarriti a causa di un repentino e inatteso il mutamento delle condizioni meteorologiche. Ma tant’è. Il professor Salzer, che è stato in effetti una celebrità mondiale e inoltre zio del mio amico Paul, proprio per questo non ha avuto il permesso di operarmi, perché il fascino che esercitava su di me era mostruoso e perché la sua incomparabile, mondiale celebrità nient’altro mi aveva messo addosso se non un inguaribile spavento, ragione per cui, tenendo conto altresì di ciò che avevo sentito dire dal mio amico Paul a proposito di suo zio, il professor Salzer, alla fine avevo optato per il piccolo, insignificante primario del Waldviertel e non per il luminare del primo distretto. E in effetti, durante le prime settimane del mio soggiorno nel Padiglione Hermann, avevo avuto più volte occasione di constatare che a non sopravvivere all’intervento chirurgico erano proprio i pazienti che aveva operato il professor Salzer, forse fu un periodo sfortunato per la celebrità mondiale, durante il quale com’è ovvio mi è venuta tutt’a un tratto paura di lui e ho dunque optato per il primario del Waldviertel, ciò che è stato sicuramente, come oggi mi rendo conto, la mia fortuna. Ma queste non sono altro che inutili elucubrazioni. Mentre io almeno una volta la settimana vedevo il professor Salzer, sia pure all’inizio solo attraverso una fessura della porta, il mio amico Paul, di cui in definitiva il professor Salzer era lo zio, non lo ha visto nemmeno una volta, mai lo ha visto in tutti i mesi che ha trascorso nel Padiglione Ludwig, benché, come so, il professor Salzer fosse al corrente che suo nipote era ricoverato nel Padiglione Ludwig e, così pensavo a quell’epoca, per lui, per il professor Salzer, sarebbe stato di sicuro uno scherzo fare quei quattro passi dal Padiglione Hermann al Padiglione Ludwig. Le ragioni che hanno trattenuto il professor Salzer dal recarsi a far visita a suo nipote Paul io non le conosco, può darsi che siano state ragioni veramente gravi, come pure non è escluso che solo pigrizia e quieto vivere gli abbiano impedito di andare a trovare suo nipote Paul, il quale, al contrario di me, che per la prima volta mi trovavo nel Padiglione Hermann, era stato più volte ricoverato nel Padiglione Ludwig. Negli ultimi vent’anni della sua vita, almeno due volte l’anno si era dovuto procedere al trasporto del mio amico Paul, sempre di punto in bianco e ogni volta in circostanze quanto mai atroci, nel manicomio Am Steinhofe, a intervalli sempre più brevi col passare degli anni, anche, con notevole frequenza, nel cosiddetto Ospedale Wagner-Jauregg vicino a Linz, dove egli veniva ricoverato ogni volta che la crisi lo aveva sorpreso nell’Alta Austria, dalle parti del Traunsee dove era nato e cresciuto e dove, sino alla fine dei suoi giorni, ha usufruito di un diritto di domicilio in una vecchia casa di contadini appartenente da sempre alla famiglia Wittgenstein. La sua malattia mentale, che può essere definita soltanto una cosiddetta malattia mentale, si era manifestata già molto tempo addietro, quando Paul aveva circa trentacinque anni. Non che di questa malattia lui stesso abbia detto gran che, ma partendo da tutto ciò che io so del mio amico non è difficile farsi un’idea di come si è sviluppata questa sua cosiddetta malattia mentale. Questa cosiddetta malattia mentale, che non è mai stata classificata con esattezza, era presente in Paul sin dall’infanzia. Già il neonato Paul era stato partorito come un malato mentale, con quella cosiddetta malattia mentale che lo ha poi dominato vita natural durante. Con questa sua cosiddetta malattia mentale Paul è vissuto fino alla morte con la massima naturalezza, così come gli altri vivono senza una simile malattia mentale. In relazione a questa sua cosiddetta malattia mentale, ci sono state testimonianze quanto mai deprimenti della sprovvedutezza dei medici e della scienza medica nel suo insieme. Questa sprovvedutezza dei medici e della loro scienza ha dato di questa cosiddetta malattia mentale di Paul le più diverse e allarmanti definizioni, ma mai quella giusta, naturalmente, perché nella sua dissennatezza la scienza medica non è stata in grado di farlo, e tutte le definizioni che di continuo la scienza medica ha dato riguardo a questa malattia mentale del mio amico si sono rivelate sbagliate o addirittura assurde, e di continuo una definizione smentiva l’altra nella maniera più vergognosa e al tempo stesso più deprimente. I cosiddetti psichiatri definivano la malattia del mio amico ora in un modo ora in un altro, senza mai avere il coraggio di ammettere che per questa, come per tutte le altre malattie, non esiste una definizione giusta, ma sempre e soltanto definizioni sbagliate, sempre e soltanto definizioni fuorvianti, perché gli psichiatri in definitiva, come tutti gli altri medici del resto, usano di continuo le loro definizioni cliniche sbagliate per rendersi più facile la vita, e insomma, da delinquenti quali sono, per dormire tra due guanciali. Ogni momento dicevano la parola maniaco e ogni momento la parola depressivo, e immancabilmente si trattava della parola sbagliata. Ogni momento (come tutti gli altri medici) cercavano riparo in un nuovo termine scientifico per proteggere e tutelare se stessi (ma non certo i pazienti!) Come tutti gli altri medici, anche gli psichiatri che avevano in cura Paul si trinceravano dietro il latino che a poco a poco diventava un baluardo invalicabile e impenetrabile che essi erigevano, come da secoli i loro predecessori, tra sé e i pazienti con l’intento esclusivo di camuffare la propria incompetenza e avvolgere in cortine fumogene la propria cialtroneria. Come muraglia in effetti invisibile ma più che mai impenetrabile, essi mettevano il latino tra sé e le loro vittime già all’inizio del trattamento, i cui metodi, come sappiamo, sono sempre e comunque disumani, criminosi e micidiali. Lo psichiatra è il più incompetente di tutti i medici e in ogni caso è più attirato dallo stupro che dalla scienza. Di niente in vita mia ho avuto più paura che di cadere in mano agli psichiatri, al cui confronto tutti gli altri medici, che pure in ultima analisi altro non portano se non sciagure, sono comunque assai meno pericolosi, perché nella nostra società gli psichiatri si sentono ancora molto solidali tra loro e quindi investiti di una sorta di immunità, e siccome io ho avuto l’opportunità di studiare per moltissimi anni i metodi terapeutici da loro adottati con totale assenza di scrupoli sul mio amico Paul, il timore che già prima nutrivo nei loro confronti è diventato un timore ancora più intenso. Gli psichiatri sono i veri e propri demoni della nostra epoca. In una maniera che più sfacciatamente inattaccabile non si può immaginare, senza legge né coscienza alcuna, essi coltivano i loro biechi affari tra il rusco e il brusco nel vero senso di questa espressione. Quando ormai io ero in grado di alzarmi dal letto e di raggiungere la finestra, e poi perfino il corridoio e, in compagnia di tutti gli altri candidati alla morte che si reggevano in piedi, di camminare su e giù da un capo all’altro del padiglione, un giorno finalmente uscii fuori, uscii dal Padiglione Hermann e subito tentai di raggiungere il Padiglione Ludwig. Ma poiché avevo presunto troppo dalle mie forze, già prima di arrivare al Padiglione Ernst mi dovetti fermare. Fui costretto a sedere sulla panchina avvitata al muro che si trovava lì, per tranquillizzarmi e riposare un poco perché altrimenti non sarei neanche riuscito a tornare da solo al Padiglione Hermann. Se i pazienti stanno in un letto per settimane o addirittura per mesi interi, quando poi finalmente sono in grado di alzarsi, è normale che sopravvalutino le loro forze e semplicemente facciano dei programmi troppo ambiziosi, ma una tale idiozia può riportarli indietro di parecchie settimane, e infatti molti pazienti a causa di un simile sconsiderato comportamento sono andati a cercarsi quella morte che grazie a un intervento chirurgico erano in precedenza riusciti a eludere. Benché io sia un malato abituale e per tutta la vita abbia avuto a che fare con malattie più o meno gravi o addirittura gravissime, e sempre, in ultima analisi, con cosiddette malattie incurabili, più volte, tuttavia, sono ricaduto nel dilettantismo riguardo alle malattie e ho commesso diverse imperdonabili sciocchezze. All’inizio soltanto qualche passo, quattro o cinque, poi dieci o undici, poi ancora tredici o quattordici, infine venti o trenta, è così che il malato dovrebbe comportarsi, non già alzarsi subito e uscir fuori e camminare, tutto ciò è perlopiù veramente micidiale. Ma il malato che per mesi interi è stato rinchiuso in una stanza d’ospedale, ad altro non anela in tutti quei mesi che a uscir fuori, e a un certo punto non se la sente più di aspettare il momento in cui avrà il permesso di lasciare la sua stanza di malato né, com’è ovvio, si accontenta dei quattro passi che riesce a fare in corridoio, no, quel malato esce, va all’aria aperta e in tal modo si uccide con le sue stesse mani. Ne muoiono in tanti perché usciti troppo presto e non perché l’arte medica abbia fallito. Tutto si può rimproverare ai medici, ma in fondo, com’è ovvio, per neghittosi che siano, e incoscienti, e perfino ottusi, essi non vogliono far altro che migliorare le condizioni dei loro pazienti, ma il paziente a sua volta deve collaborare, non può mandare in malora gli sforzi dei medici alzandosi dal letto troppo presto (oppure troppo tardi!) o uscendo troppo presto e andando troppo lontano. Io allora ero andato decisamente troppo lontano, già il Padiglione Ernst era troppo distante. Giunto al Padiglione Franz, sarei dovuto tornare indietro. Ma volevo a tutti i costi vedere il mio amico. Stremato e ansimante per la fatica, mi misi a sedere sulla panchina davanti al Padiglione Ernst e guardai attraverso i tronchi degli alberi il Padiglione Ludwig. Forse, così avevo pensato, essendo io un malato di polmoni e non un malato di mente, non mi avrebbero neanche fatto entrare nel Padiglione Ludwig. Ai malati di polmoni era rigorosamente vietato abbandonare il loro settore per recarsi nel settore dei malati di mente, e viceversa. È vero che alte cancellate si ergevano a separare i due settori l’uno dall’altro, ma queste cancellate erano in gran parte talmente arrugginite da non essere più abbastanza fitte, dappertutto c’erano grandi buchi attraverso i quali si poteva quanto meno sgusciare da un settore all’altro, e io ricordo che ogni giorno dei malati di mente si trovavano nel settore dei malati di polmoni e, viceversa, dei malati di polmoni si trovavano nel settore dei malati di mente, ma allora, quando provai per la prima volta a raggiungere il Padiglione Ludwig venendo dal Padiglione Hermann, allora non sapevo ancora niente di questo traffico quotidiano da un settore all’altro. I malati di mente che vedevo ogni giorno nel settore cosiddetto di pneumologia mi diventarono in seguito familiari, ogni sera dovevano essere catturati uno per uno dai guardiani, ficcati nelle camicie di forza, cacciati via con i manganelli dal settore di pneumologia e fatti rientrare, come io stesso avevo visto coi miei occhi, nel settore dei malati di mente, e tutto questo non succedeva mai senza urla pietose che mi perseguitavano fin dentro i miei sogni nel cuore della notte. I malati di polmoni lasciavano il loro settore per dirigersi verso il settore dei malati di mente per pura e semplice curiosità, perché ogni giorno speravano in un evento sensazionale che potesse distrarli dalla atrocità del loro quotidiano, un quotidiano che era fatto di noia mortale e di pensieri di morte ch’erano sempre gli stessi. E in effetti non mi sbagliavo, ricavavo un certo tornaconto ogni volta che lasciavo il settore di pneumologia per recarmi dai malati di mente, che dappertutto, da qualsiasi parte si trovassero e io li vedessi, facevano i loro numeri. Non è escluso che in futuro, in un altro scritto, io provi a dare una descrizione dello stato in cui si trovavano, e di cui sono stato testimone, i malati di mente di quel reparto. Adesso ero seduto sulla panchina del Padiglione Ernst e pensavo che avrei dovuto aspettare un’intera settimana prima di poter fare un secondo tentativo di raggiungere il Padiglione Ludwig, essendo chiaro che oggi come oggi non potevo far altro che tornare indietro nel Padiglione Hermann. Dalla panchina su cui ero seduto osservavo i piccoli scoiattoli che qua e là, nell’immenso parco, che dal punto in cui mi trovavo appariva addirittura sterminato, saltellavano su e giù per gli alberi e soprattutto sembravano dominati da un’unica passione: afferrare i fazzoletti di carta che i malati di polmoni gettavano dappertutto e di cui il terreno era cosparso, per poi ritornare sugli alberi correndo a precipizio. Con i loro fazzoletti di carta tra i denti, gli scoiattoli correvano dappertutto, da ogni angolo e in ogni direzione, fino a quando all’ora del crepuscolo non si riusciva a scorgere nient’altro che bianchi puntolini danzanti, i fazzoletti di carta che gli scoiattoli tenevano stretti tra i denti. Io ero lì seduto e mi godevo lo spettacolo al quale naturalmente agganciavo i pensieri che da questa osservazione nascevano spontanei. Era giugno, le finestre del padiglione erano aperte, e i pazienti, seguendo uno schema ritmico abbozzato e infine orchestrato con autentico genio contrappuntistico, tossivano fuori dalla finestra nella sera che stava calando. Io, poiché non volevo esasperare le infermiere mettendo a dura prova la loro pazienza, mi alzai dalla panchina e feci ritorno al Padiglione Hermann. Da che ho fatto l’operazione, pensavo, in effetti respiro meglio, anzi respiro benissimo, sento che il cuore è libero, eppure le mie prospettive non erano allegre, la parola cortisone e la terapia che a questa parola è legata incupivano i miei pensieri. Non me la sento comunque di sostenere che ero senza speranza dal mattino alla sera. Certo, mi svegliavo al mattino senza speranza e subito mi sforzavo di sottrarmi a questa disperazione e ad essa in effetti mi sottraevo fin verso mezzogiorno. Nel pomeriggio la disperazione ritornava, verso sera scompariva di nuovo, e di notte, quando mi svegliavo, era di nuovo lì più spietata che mai. Poiché i medici si erano comportati con i pazienti che io avevo visto morire esattamente come si comportavano con me, poiché avevano scambiato con loro le stesse parole e dunque gli stessi discorsi, e inoltre avevano scherzato con loro nello stesso modo, la mia strada, pensavo, non sarà molto diversa da quella percorsa da quei poveretti che la morte ha portato via.


Nel Padiglione Hermann i pazienti morivano senza dare nell’occhio, senza un grido, senza un’invocazione di aiuto, la maggior parte delle volte senza fare rumore. Di primo mattino si vedeva in corridoio il loro letto vuoto che subito veniva ricoperto con lenzuola fresche per il prossimo paziente. Le infermiere sorridevano quando noi passavamo accanto a loro, il nostro sapere non le turbava affatto. Perché, mi domandavo talvolta, perché io mi rifiuto di andare oltre lungo il cammino che mi è stato assegnato, perché non mi adeguo a questo cammino come tutti gli altri? A che scopo, al risveglio, a che scopo la fatica di non voler morire? Naturalmente ancora oggi mi chiedo spesso se non sarebbe stato meglio che mi fossi arreso, perché in tal caso avrei percorso il mio cammino in un tempo brevissimo, sarei morto nel giro di poche settimane, di questo sono certo al cento per cento. E invece non sono morto e sono vissuto e vivo tuttora. Il fatto che il mio amico Paul si trovasse nel Padiglione Ludwig nello stesso periodo in cui io mi trovavo nel Padiglione Hermann lo ritenni di buon auspicio, sebbene nei primi tempi della mia degenza nel Padiglione Hermann lui non sapesse affatto che io mi trovavo nel Padiglione Hermann, ma poi un giorno la cosa gli fu svelata da quella chiacchierona di Irina, la nostra comune amica che veniva in visita ora da me ora da lui. Io sapevo che già da molti anni il mio amico trascorreva allo Steinhof parecchie settimane o addirittura mesi, e che ogni volta ne era venuto fuori, e dunque, pensavo, ne verrò fuori anch’io, e benché il suo caso non potesse sotto nessun aspetto essere paragonato al mio, io mi ero messo in mente che sarei rimasto un paio di settimane o di mesi, e poi, come lui, ne sarei venuto fuori. E questa idea, tutto sommato, non è stata sbagliata. Dopo quattro mesi ero riuscito finalmente a lasciare l’Altura Baumgartner, insomma non ero morto come gli altri, e lui, Paul, era uscito da un pezzo. Sulla strada tra il Padiglione Ernst e il Padiglione Hermann i pensieri che andavo rimuginando erano tuttavia pensieri di morte, pur sempre e decisamente pensieri di morte. Non credevo di poter uscire vivo dal Padiglione Hermann, troppe cose avevo visto e udito nel Padiglione Hermann, e tutto sentivo dentro di me, tutto fuorché un barlume di speranza. Il crepuscolo non rendeva le cose più lievi, come si crede, ma anzi gravi e quasi insopportabili. L’infermiera di turno, alla quale non potei non raccontare quel che avevo fatto, mi spiegò com’era stato irresponsabile il mio comportamento, addirittura criminale nella sua stupidità, e io subito dopo mi buttai sul letto e di colpo mi addormentai.


Ma sull’Altura Baumgartner non ero mai riuscito a dormire una notte intera, nel Padiglione Hermann dopo un’ora al massimo perlopiù mi svegliavo di soprassalto, o perché atterrito da un sogno che, come tutti i miei sogni, mi aveva condotto sul precipizio della mia esistenza, o per un rumore in corridoio provocato da un paziente di una stanza vicina che aveva urgente bisogno di aiuto o che stava morendo, o quando il mio vicino di letto adoperava il pappagallo, operazione che, sebbene più di una volta io gli avessi spiegato come dovesse eseguirla senza fare rumore, lui non faceva mai senza rumore, anzi col pappagallo andava a sbattere quasi sempre contro il mio comodino da notte metallico, e non una sola volta, ma parecchie volte, tanto che poi doveva sorbirsi immancabilmente una furiosa tirata da parte mia nella quale gli spiegavo per l’ennesima volta come avrebbe dovuto maneggiare il pappagallo in modo da non svegliarmi, ma tutto questo non serviva a niente; e così questo mio vicino svegliava ogni volta anche il suo vicino dell’altra parte, la parte della porta (il mio posto era dalla parte della finestra), il signor Immervoll, intendo, un poliziotto ch’era anche un giocatore appassionato di scassaquindici dal quale ho imparato lo scassaquindici, gioco a cui da allora fino a oggi non ho più potuto rinunciare, ciò che spesso mi porta sull’orlo della pazzia, o anzi del delirio, e in ogni modo, come ognuno ben sa, un paziente che dorme soltanto sotto l’effetto dei sonniferi e per di più si trova in un ospedale come quello sull’Altura Baumgartner dove sono ricoverati soltanto malati gravi e gravissimi, è chiaro che una volta svegliato non riesce più a riprendere sonno. Il mio vicino di letto era uno studente di teologia, figlio di una coppia di magistrati di Grinzing, anzi, per essere più esatti, dello Schreiberweg, e cioè di un quartiere tra i più distinti e lussuosi di Vienna, ed era un ragazzo educato male, viziato in modo indecente. Non gli era mai successo in vita sua di dover condividere una stanza con qualcuno e io fui il primo a richiamare la sua attenzione sul fatto che quando si sta in una stessa stanza con altre persone bisogna assolutamente avere un certo riguardo per queste persone, non c’era niente di più ovvio e normale, gli spiegai, proprio essendo lui uno studente di teologia. Ma quello non era certo un tipo al quale si potesse facilmente insegnare qualcosa, non subito almeno, lo studente di teologia era entrato nella stanza dopo di me, lui pure in condizioni disperate, come a me e come a tutti gli altri anche a lui era stata praticata un’incisione nel collo e gli era stato estratto un tumore e, a quanto si diceva, il poveretto per un pelo non era morto sotto i ferri, lo aveva operato il professor Salzer. Ma questo non vuol dire naturalmente che non sarebbe quasi morto anche sotto i ferri di un altro chirurgo. Magari fossimo tutti studenti di teologia, avevo pensato quando quel tipo era entrato nella stanza: le suore dell’ospedale lo viziavano in un modo ripugnante; e mentre viziavano lui in tutti i modi, con la stessa intensità trascuravano me e il poliziotto Immervoll. Tanto per fare un esempio, l’infermiera del turno di notte deponeva al mattino sul comodino del mio studente di teologia tutto ciò che di notte le era stato regalato dai pazienti, cioccolata, vino, ogni sorta di dolciumi che venivano dalla città, e sempre, beninteso, da pasticcerie di prim’ordine come Demel, Lehmann, dalla non meno celebre pasticceria Sluka accanto al Municipio, e inoltre gli faceva subito portare non una porzione, come voleva il regolamento e come toccava a noi due, ma due porzioni di zabaione, proprio lo zabaione che io amo ancora oggi più di ogni altra cosa al mondo e che al Padiglione Hermann veniva dato regolarmente, perché i pazienti del Padiglione Hermann erano sempre e soltanto dei moribondi, e lo zabaione al capezzale di un moribondo è sempre stato un classico. Ben presto però feci in modo che il mio studente di teologia perdesse molte delle sue cattive abitudini, ciò che peraltro mi valse la riconoscenza del suo vicino di letto, il poliziotto Immervoll, il quale non meno di me era esasperato dall’egoismo del nostro compagno di stanza che andava veramente al di là della nostra capacità di sopportazione. I malati cronici come me e come l’Immervoll si sono da molto tempo adattati alla parte che loro compete, che è quella delle persone discrete, accomodanti, che non si fanno notare, perché alla lunga solo questa parte rende sopportabile l’essere malati, l’indocilità, la maleducazione e la renitenza essendo qualità che man mano fiaccano l’organismo in un modo davvero micidiale e che dunque un malato cronico non si può permettere per molto tempo. Visto che in effetti il mio studente di teologia era in grado di alzarsi e di andare alla toilette, io un giorno gli proibii di usare il pappagallo. Subito incontrai l’opposizione delle infermiere del padiglione, che volentieri portavano fuori dalla stanza il pappagallo dello studente di teologia, ma io insistetti che lui si alzasse dal letto da solo e andasse fuori, in quanto non capivo proprio perché mai io e l’Immervoll dovessimo alzarci e andar fuori a orinare, mentre lui, lo studente di teologia, poteva farla nel letto e nel pappagallo, ciò che peraltro appestava l’aria già di per sé quasi irrespirabile. Alla fine la spuntai, lo studente di teologia del quale ho scordato il nome, credo che si chiamasse Walter ma non ne sono sicurissimo, andò da solo al gabinetto, le infermiere per parecchi giorni non mi degnarono di uno sguardo. Ma a me non importava niente. Aspettavo solo con impazienza il giorno in cui sarei davvero andato a trovare il mio amico Paul, gli avrei fatto finalmente una visita a sorpresa, ma dopo il fallimento del mio primo tentativo, quando già all’altezza del Padiglione Ernst ero stato costretto a rinunciare e a tornare indietro, dopo quello smacco vedevo il giorno della mia visita a Paul spostarsi in un futuro sempre più lontano. Io, sdraiato sul letto, guardavo fuori e avevo davanti a me sempre la stessa vista, l’immensa chioma di un pino gigante. Dietro di essa sorgeva e tramontava il sole, e a me per un’intera settimana mancò il coraggio di lasciare la mia stanza. Un giorno, finalmente, di ritorno da una visita al mio amico Paul, mi venne a trovare la nostra comune amica Irina, nella cui abitazione della Blumenstockgasse io avevo conosciuto Paul Wittgenstein: ero allora capitato nel bel mezzo di una discussione sulla Sinfonia Haffner eseguita dalla Filarmonica di Londra diretta da Schuricht, e non a caso mi ero subito sentito come un pesce nell’acqua: anch’io infatti, come i miei interlocutori, il giorno precedente ero andato ad ascoltare Schuricht che dirigeva questa sinfonia al Musikverein e ne avevo tratto l’impressione che mai, in tutta la mia esistenza musicale, avevo sentito un concerto più perfetto. Tutti e tre, io, Paul e la sua amica Irina, una donna assai dotata per la musica e, in generale, una delle più straordinarie intenditrici di arte che io abbia conosciuto, avevamo avuto la stessa predilezione per quel concerto. Nel corso di quella discussione, imperniata com’è ovvio su temi decisivi ma non fondamentali, temi che comunque non avevano colpito tutti e tre noi nella stessa maniera e con uguale intensità, si era spontaneamente sviluppata in poche ore, ma su solide basi, la mia amicizia per Paul. Per anni prima di allora lo avevo visto ogni tanto senza mai scambiare con lui nemmeno una parola, e ora nella Blumenstockgasse, su in alto al quarto piano di una casa senza ascensore dei primi del Novecento, la cosa era incominciata. In una stanza enorme, arredata con mobili semplici ma confortevoli, noi tre abbiamo parlato di Schuricht, il mio direttore d’orchestra preferito, e della Sinfonia Haffner, la mia sinfonia preferita, e di quel concerto, che è stato decisivo per la nostra amicizia, per ore e ore, fino al completo sfinimento. La passione di Paul Wittgenstein per la musica, una passione esclusiva e spietata che ha tra l’altro sempre caratterizzato anche la nostra amica Irina, aveva fatto sì che io mi sentissi immediatamente conquistato da lui, le sue conoscenze davvero straordinarie che riguardavano soprattutto le grandi composizioni orchestrali di Mozart e di Schumann, e mettendo fra parentesi il suo fanatismo per l’opera che comunque ben presto mi mise addosso un senso di disagio, fanatismo che a Vienna tutti conoscevano e paventavano essendo in effetti micidialmente morboso, come di lì a non molto emerse con chiarezza, la sua grande cultura, musicale ma anche artistica in genere, la quale si distingueva da quella di tutti gli altri per i confronti, ad esempio, pressoché incessanti e sempre puntuali che lui era in grado di stabilire tra brani musicali che aveva udito, concerti cui aveva assistito, virtuosi e orchestre che aveva studiato da vicino, confronti sempre perfettamente centrati, di questo mi resi conto quasi subito, tutto ciò mi spinse a riconoscere e ad accettare in Paul Wittgenstein il mio nuovo amico, un amico straordinario sotto ogni aspetto. La nostra comune amica Irina, che ha avuto un destino singolare e avventuroso almeno quanto quello di Paul Wittgenstein, e che per esempio ha avuto un tale numero di relazioni sentimentali e matrimoniali che per enumerarle tutte non basterebbero le dita di due mani, Irina è spesso venuta a trovarci su al Wilhelminenberg in quei giorni difficili, con il suo cardigan rosso lavorato a maglia e senza tenere in alcuna considerazione gli orari fissati per le visite si presentava ad un tratto su al Wilhelminenberg. Purtroppo, come dicevo, un giorno ha rivelato a Paul che io mi trovavo nel Padiglione Hermann e così mi ha guastato l’effetto sorpresa, ha guastato cioè il mio progetto di andare a far visita a Paul nel Padiglione Ludwig senza preavviso. È proprio a Irina, la quale è ora sposata con un cosiddetto musicologo con cui si è ritirata nell’idillio campagnolo del Burgenland, è a lei che io in sostanza sono debitore della mia amicizia con Paul. Conoscevo il mio amico già da due o tre anni quando sono arrivato al Padiglione Hermann, e non è a mio avviso una pura coincidenza il fatto che noi due, su al Wilhelminenberg, ci si sia ritrovati, nello stesso momento, per così dire al termine della vita. Ma non è che in questa circostanza io veda chissà quale mistero. Nel Padiglione Hermann, io ho il mio amico, pensavo, ho il mio amico nel Padiglione Ludwig, e quindi non sono solo. Ma in verità, anche in assenza di Paul, in quei giorni e settimane e mesi non sarei stato solo su all’Altura Baumgartner, perché avevo accanto a me la persona della mia vita, la persona che dopo la morte di mio nonno ha svolto a Vienna una parte per me determinante, l’amica della mia vita, l’amica della quale non basta dire che le devo moltissimo, perché da quando, sono ormai passati più di trent’anni, è apparsa al mio fianco, in realtà, siamo chiari, devo a lei tutto, o se non tutto quasi tutto. Senza di lei non sarei neppure più in vita e in ogni caso non sarei l’individuo che sono oggi, così pazzo e così infelice, eppure, come sempre succede, anche felice. Gli iniziati sanno bene tutto ciò che si cela dietro l’espressione persona della mia vita, l’unico e solo essere umano dal quale da più di trent’anni ho tratto e traggo la mia forza e, di continuo, la capacità di sopravvivere, da nessun altro essere umano se non da lei, è la pura e semplice verità. Questa donna, sotto ogni aspetto esemplare, sagace, che mai, in nessun momento decisivo mi ha piantato in asso, dalla quale negli ultimi trent’anni ho imparato quasi tutto, o almeno a capire quasi tutto, e dalla quale continuo tuttora a imparare le cose decisive o quanto meno ad afferrarle intuitivamente, questa donna a quel tempo veniva a trovarmi quasi ogni giorno e stava seduta per un po accanto al mio letto. Carica di libri e di giornali, quasi ogni giorno si trascinava a fatica in quell’afa tremenda su fino all’Altura Baumgartner, dove regnava un’atmosfera che si può supporre ben nota a chiunque. E pensare che allora la persona della mia vita aveva ormai settant’anni suonati. Ma anche oggi, così penso almeno, oggi che ne ha ottantasette, si comporterebbe esattamente alla stessa maniera. Ma non è lei, la persona della mia vita, la protagonista delle annotazioni che sto prendendo, per me, a proposito di Paul, e benché a quell’epoca, quando io ero immobilizzato sul Wilhelminenberg, isolato, espulso, rifiutato da tutti, lei abbia svolto la parte più importante nella mia vita, nella mia esistenza, ciò nonostante il protagonista di queste annotazioni è lui, il mio amico Paul che a quell’epoca era come me immobilizzato sul Wilhelminenberg, isolato, espulso, rifiutato da tutti, è lui la persona che ancora una volta voglio mettere a fuoco con queste annotazioni, con questi brandelli di ricordi che nel momento stesso in cui mettono in chiaro la situazione del mio amico, una situazione senza vie d’uscita, dovranno riportare alla mia memoria anche la situazione in cui io mi trovavo allora, una situazione parimenti senza vie di uscita, perché così come Paul era allora di nuovo capitato in uno dei vicoli ciechi della sua vita, anch’io ero capitato, o anzi, per essere più esatti, ero stato cacciato a viva forza in uno dei vicoli ciechi della mia vita. Proprio come Paul, questo devo dirlo, anch’io per l’ennesima volta avevo strapazzato la mia esistenza, l’avevo sopravvalutata, avevo presunto troppo da essa e dunque ne avevo abusato oltre il limite estremo. Proprio come Paul, anch’io per l’ennesima volta avevo abusato di me stesso andando al di là delle mie possibilità e di tutte le possibilità in genere con la stessa insana ferocia nei confronti di me stesso e di tutto che a suo tempo ha distrutto Paul e che un giorno, come è successo a Paul, distruggerà anche me, perché come Paul è andato a fondo per via della insana sopravvalutazione di se stesso e del mondo, così anch’io andrò a fondo prima o poi per la insana sopravvalutazione di me stesso e del mondo. Proprio come Paul, anch’io quella volta avevo ripreso conoscenza in un letto d’ospedale sul Wilhelminenberg, non essendo, ormai, che un prodotto quasi completamente distrutto di questa sopravvalutazione di me stesso e del mondo e, secondo una logica perfetta, Paul si trovava in manicomio e io nel tubercolosario, e quindi Paul nel Padiglione Ludwig e io nel Padiglione Hermann. Proprio come Paul per molti anni era quasi corso incontro alla morte nella sua pazzia, così anch’io ero quasi corso incontro alla morte nella mia pazzia. Proprio come la strada di Paul era stata di continuo interrotta per finire necessariamente in un manicomio, così la mia strada è stata di continuo interrotta per finire necessariamente in un tubercolosario. Proprio come per Paul l’avversione per se stesso e per il suo mondo raggiungeva periodicamente un vertice assoluto tanto che occorreva ricoverarlo in manicomio, così anche per me l’avversione per me stesso e per il mio mondo ha raggiunto di continuo un vertice assoluto tanto che molte volte sono stato ricoverato in un tubercolosario. Proprio come Paul, periodicamente e a intervalli sempre più brevi, come ognuno può facilmente immaginare, non sopportava più né se stesso né il mondo, così anch’io a intervalli sempre più brevi non ho più sopportato né me stesso né il mondo e, come Paul in manicomio, io, questo si può ben dirlo, sono tornato in me soltanto nel tubercolosario. Proprio come Paul è stato in definitiva periodicamente rovinato dagli psichiatri, i quali tuttavia lo hanno poi ogni volta rimesso in piedi facendo leva sulle sue stesse energie, così anch’io sono stato periodicamente rovinato dai tisiologi, i quali mi hanno poi ogni volta rimesso in piedi facendo leva sulle mie energie, proprio come i manicomi hanno in definitiva plasmato lui, così, devo dire, i sanatori hanno plasmato me, è così che io penso, e proprio come i pazzi hanno educato lui per lunghi periodi della sua vita, così i tisici hanno educato me, e come lui si è formato in definitiva nella comunità dei pazzi, così io mi sono formato nella comunità dei tisici, e la formazione in mezzo ai pazzi non è poi tanto diversa dalla formazione in mezzo ai tisici. Se a lui sono stati i pazzi a insegnare in maniera decisiva che cos’è la vita e che cos’è l’esistenza, a me la stessa cosa hanno insegnato i tisici in maniera altrettanto decisiva, come a lui la pazzia così a me la tisi, e Paul è diventato quel che si dice un pazzo perché, questo si può ben dirlo, un certo giorno ha perso il controllo, così come io sono diventato tisico perché parimenti un certo giorno ho perso il controllo. Paul è diventato pazzo perché di colpo si è ribellato contro tutto e tutti e a causa di questo è stato com’è ovvio messo fuori combattimento, esattamente come me che un certo giorno sono stato messo fuori combattimento perché proprio come lui mi sono ribellato contro tutto e tutti, solo che per la stessa ragione che ha fatto diventare tisico me lui invece è diventato pazzo. Ma Paul non è stato più pazzo di quanto io stesso lo sia, perché io non sono certo meno pazzo di Paul, lo sono almeno quanto lui, almeno altrettanto pazzo quanto la gente dice che sia stato Paul, solo che oltre che pazzo io sono anche diventato tisico. L’unica differenza tra Paul e me è che Paul si è lasciato completamente dominare dalla sua pazzia, si è calato, se così si può dire, nella sua pazzia e io invece no, io non mi sono mai lasciato dominare completamente dalla mia pazzia, peraltro non meno grande della sua; per tutta la vita io ho sfruttato la mia pazzia, l’ho dominata, al contrario di Paul che non ha mai dominato la sua pazzia io la mia pazzia l’ho sempre dominata e può darsi che proprio per questo motivo la mia pazzia sia perfino più pazza di quella di Paul. Paul non aveva altro che la sua pazzia ed è vissuto solamente di questa sua pazzia, io oltre alla pazzia ho avuto la tisi, e ho sfruttato entrambe, la pazzia non meno della tisi: di esse, da un giorno all’altro, ho fatto la. fonte della mia esistenza, in un batter d’occhio, per il resto della mia vita. Come Paul per decenni ha vissuto la parte del pazzo così io per decenni ho vissuto la parte del tisico, e come lui per decenni ha. fatto il pazzo così io per decenni ho fatto il tisico, e come lui ha sfruttato i pazzi per i suoi scopi così io ho sfruttato i tisici per i miei scopi. Come altri con grande costanza o per tutta la vita si sforzano di acquisire e di mettere al sicuro una fortuna più o meno grande, o un’arte più o meno elevata, per non parlare della grande arte, e fino all’ultimo giorno della loro vita con ogni mezzo e in ogni circostanza non esitano a sfruttare questa fortuna e quest’arte facendo di esse l’unico contenuto della loro esistenza, così Paul per tutta la vita ha tutelato gelosamente la sua pazzia, l’ha conservata per sé, l’ha sfruttata, e in ogni circostanza e con ogni mezzo ha fatto in modo che essa, la pazzia, diventasse il contenuto della sua esistenza, come del resto ho fatto io con la tisi e con la pazzia, perché davvero io ho fatto di esse, della tisi e della pazzia, quella che può essere chiamata la mia specialità. Ma come Paul col passare del tempo ha in verità trattato la sua pazzia in modo sempre più irriguardoso, così anch’io ho trattato la mia tisi, nonché la mia pazzia, in modo sempre più irriguardoso, e mentre, se così si può dire, Paul e io trattavamo le nostre malattie in modo sempre più irriguardoso, con la stessa mancanza di riguardi trattavamo altresì il nostro prossimo e a causa di ciò il nostro prossimo com’è ovvio ci ha trattato a sua volta con sempre meno riguardi, ed è così che sempre più frequentemente siamo finiti nei nostri rispettivi istituti, Paul nei manicomi e io nei tubercolosari. E mentre le altre volte eravamo finiti lontani l’uno dall’altro nei nostri rispettivi istituti, ad un tratto, nel millenovecentosessantasette, ci siamo ritrovati sul Wilhelminenberg nello stesso periodo, e lì sul Wilhelminenberg abbiamo approfondito la nostra amicizia. Se nel millenovecentosessantasette non fossimo entrambi finiti sul Wilhelminenberg, è probabile che non saremmo giunti a un simile approfondimento in fatto di amicizia. Dopo molti anni di forzata astinenza in fatto di amicizie, ad un tratto avevo di nuovo un amico, un amico vero che comprendeva le più folli acrobazie della mia mente davvero assai complicata e dunque niente affatto semplice, un amico che non aveva alcun timore di seguire passo passo le acrobazie più folli della mia mente, ciò che nessun’altra persona del mio ambiente è mai riuscita a fare perché a tutte queste persone è sempre mancata la voglia di farlo. Bastava che io accennassi, come si suol dire, a un tema qualsiasi, perché esso si sviluppasse nelle nostre menti nella direzione in cui doveva svilupparsi, e questo non solo in campo musicale, essendo la musica la sua e anche la mia suprema specialità, ma altresì in ogni altro campo. In tutta la mia vita non avevo mai conosciuto un essere umano che possedesse una più acuta capacità di osservazione o una più grande ricchezza intellettuale. Ma Paul queste ricchezze intellettuali le ha gettate ininterrottamente fuori dalla finestra, proprio come ha fatto con le sue ricchezze materiali, con l’unica differenza che mentre le sue ricchezze materiali erano state ben presto gettate tutte quante fuori dalla finestra e si erano perciò completamente esaurite, le sue ricchezze intellettuali si erano rivelate veramente inesauribili; Paul le gettava continuamente fuori dalla finestra e (nello stesso momento) quelle aumentavano, aumentavano sempre più, quante più ricchezze intellettuali lui gettava dalla finestra (della sua mente) tanto più esse si accrescevano, essendo in effetti la caratteristica di questi individui, inizialmente definiti pazzi e poi alienati mentali, quella di gettare incessantemente e sempre di più le loro ricchezze spirituali fuori dalla finestra (della loro mente), mentre queste ricchezze spirituali, con la stessa velocità con cui essi le gettano dalla finestra (della loro mente) si moltiplicano e si accrescono nella loro stessa mente. Sempre più essi gettano fuori dalla finestra (della loro mente) le ricchezze spirituali di cui sono in possesso e nello stesso tempo tali ricchezze diventano più grandi e, com’è ovvio, più minacciose, e alla fine, per quanto essi gettino fuori dalla finestra (della loro mente) le loro ricchezze spirituali, la loro mente non ce la fa più a star dietro all’accrescersi e ingorgarsi nella mente stessa di queste ricchezze spirituali, e allora la mente esplode. E così che la mente di Paul è esplosa, per il semplice fatto che lui non è più riuscito, via via, a gettare fuori dalla finestra (della sua mente) le ricchezze del suo spirito. Per lo stesso motivo è esplosa altresì la mente di Nietzsche. E così sono esplose in fin dei conti tutte le menti di quei pazzi di filosofi che col passare del tempo non ce l’hanno più fatta a gettare via le ricchezze del loro spirito. In queste menti, in definitiva, la ricchezza spirituale si forma e si sviluppa di continuo, e in effetti senza posa, con una velocità assai più grande e inesorabile di quella con cui essi riescono a gettarla fuori dalla finestra (della loro mente), e allora un certo giorno la loro mente esplode e loro sono morti. È così che un certo giorno anche la mente di Paul è esplosa e lui è morto. Noi due eravamo uguali, eppure completamente diversi. Per esempio i poveri destavano l’interesse di Paul e lo commuovevano, mentre io provavo interesse per i poveri ma non ne ero commosso perché in virtù del meccanismo che è proprio del mio pensiero non sono mai stato capace, né lo sono tuttora, di provare un’emozione del tipo di quella di Paul per questo tema vecchio come il mondo. Al Traunsee, una volta, Paul è scoppiato in lacrime davanti a un bambino accovacciato sulla riva del lago che in effetti, come io ho visto immediatamente, era stato piazzato lì da una madre astutissima con l’unico scopo, ripugnante quant’altri mai, di destare la cattiva coscienza dei passanti e intenerirli al punto da fargli aprire il portafoglio. A differenza di Paul, io non avevo visto soltanto il bambino sfruttato da quell’avida madre e la sua miseria, ma anche, un poco più indietro, accoccolata in un cespuglio, la madre di quel bambino sordidamente sfruttato che con laida efficienza affaristica contava un bel mucchio di banconote; Paul vide soltanto il bambino e la sua miseria, e non la madre seduta là dietro che contava il denaro, e lacrimando addirittura, e vergognandosi per così dire della propria esistenza, egli diede al bambino un biglietto da cento scellini; al contrario di me, che avevo una visione della scena nella sua interezza, Paul vide soltanto la parte superficiale della scena, l’indigenza estrema del bambino e la sua innocenza, e non la sordida madre sullo sfondo, non il perverso, miserabile sfruttamento del buon cuore, per così dire, del mio amico, sfruttamento di cui lui non poteva rendersi conto e che io invece non potevo fare a meno di vedere. È tipico di lui, del mio amico, che egli non abbia visto altro se non l’immagine superficiale del bambino sofferente e gli abbia dato quel biglietto da cento scellini, mentre io, che non avevo potuto fare a meno di vedere la scena in ogni particolare e in tutto il suo stomachevole cinismo, a quel bambino naturalmente non diedi nulla. Ed è tipico del nostro rapporto che io per proteggere l’amico mi sia tenuto per me la mia osservazione, e non gli abbia detto che dietro un cespuglio la madre, quell’essere infame, stava contando il denaro mentre il figlio veniva da lei costretto a recitare la commedia del dolore. Nella sua superficiale visione di quella scena io lasciai Paul tutto solo, lasciai che lacrimando desse al bambino il biglietto da cento scellini, e neanche in seguito gli aprii gli occhi sulla realtà di quella scena nella sua interezza. Più di una volta egli menzionò la scena del bambino sulla riva del Traunsee, più di una volta parlò con me del fatto di aver dato (in mia presenza) a un povero piccino abbandonato in riva al lago un biglietto da cento scellini, ma io non gli aprii mai gli occhi su quella scena nella sua interezza, e non gli dissi mai com’erano andate veramente le cose. Per quanto riguarda la miseria e la presunta miseria degli uomini (e dell’umanità in genere) Paul ha sempre visto soltanto la superficie, come vide la superficie, allora, della scena in riva al Traunsee, mai vide la scena nella sua interezza come me, e io penso che con ogni probabilità Paul si sia semplicemente rifiutato, per tutta la vita, intendo, di vedere le scene nella loro interezza e che si sia accontentato, per autoproteggersi, della superficie di ognuna di queste scene. Io invece, a mia volta per autoproteggermi, non mi sono mai accontentato della superficie (di una scena come quella) Questa è la differenza. Durante la prima metà della sua vita, Paul ha gettato per così dire molti milioni fuori dalla finestra nella convinzione di aiutare dei poveri derelitti (e in tal modo se stesso!), mentre in realtà e in verità tutti questi milioni non ha fatto altro che gettarli in pasto alla bassezza e alla indegnità più assolute, anche se, com’è ovvio, è proprio così che ha aiutato se stesso. Paul ha gettato il suo denaro per donarlo a individui supposti in miseria e degni di pietà fino a quando a lui stesso non è rimasto più niente. Fino al giorno in cui non ha potuto far altro che ricorrere in tutto e per tutto alla carità dei suoi parenti, che questa carità prima gliel’hanno fatta, ma poi, dopo pochissimo tempo, gliel’hanno tolta perché l’idea stessa di carità era per loro del tutto inconcepibile. Paul, fu questa la sua imperdonabile colpa, veniva da una delle tre o quattro famiglie più ricche dell’Austria, una famiglia i cui milioni durante la monarchia sembravano lievitare di anno in anno, ma poi la proclamazione della Repubblica condusse a un ristagno del patrimonio dei Wittgenstein. Più o meno nella convinzione di potere in tal modo lottare contro la povertà, Paul ha incominciato talmente presto a gettare fuori dalla finestra le sue sostanze che per la maggior parte della sua vita non gli è rimasto quasi niente, ed egli ha creduto, come del resto suo zio Ludwig, di dover gettare via i cosiddetti luridi milioni e darli al popolo pulito per poter salvare questo popolo pulito e se stesso. Paul camminava per le strade con dei fasci interi di biglietti da cento scellini nell’intento esclusivo di distribuire questi luridi fasci di biglietti da cento scellini tra il popolo pulito. Invece il suo denaro l’ha sempre distribuito più o meno soltanto a dei bambini del Traunsee come quello che ho sopra descritto. Tutti gli individui a cui Paul ha dato il suo denaro assomigliavano a quel bambino del Traunsee, dovunque Paul sia andato a cercarli per appioppargli il suo denaro al fine di soccorrerli ma anche per autogratificarsi. Per un breve periodo, quando lui ormai non aveva più nulla, i suoi lo hanno sostenuto, ma solo per un certo qual perverso senso dell’onore, mai per magnanimità e mai, in definitiva, perché la cosa era normale. Giacché anch’essi, questo va proprio detto, non vedevano soltanto la superficie della scena, ma la scena nella sua interezza e in tutta la sua atrocità. Per un secolo i Wittgenstein hanno prodotto armi e macchinari, e poi alla fine, per coronare il tutto, hanno prodotto Ludwig e Paul, il celebre, epocale filosofo e il pazzo, a Vienna almeno altrettanto celebre se non perfino più celebre dell’altro, quel pazzo di Paul che era filosofico tanto quanto suo zio Ludwig, come viceversa il filosofo Ludwig era pazzo esattamente come Paul: a uno, Ludwig, era stata la filosofia a dare la celebrità, all’altro, Paul, la pazzia. Uno, Ludwig, era forse più filosofico, l’altro, Paul, era forse più pazzo, ma oserei dire che del più filosofico dei Wittgenstein noi pensiamo che sia stato filosofo perché ha messo nero su bianco la sua filosofia e non la sua pazzia, e dell’altro, di Paul, che sia stato pazzo perché ha represso la sua filosofia e non l’ha resa pubblica per mettere in mostra soltanto la sua pazzia. Erano entrambi persone assolutamente straordinarie, nonché cervelli assolutamente straordinari, solo che uno ha messo in pubblico il suo cervello, l’altro lo ha messo in pratica. E qual è la differenza fra il cervello che è stato messo in pubblico e che di continuo sta per essere messo in pubblico e il cervello che è stato messo in pratica e che di continuo sta per essere messo in pratica? Eppure, naturalmente, se mai ne avesse pubblicati, gli scritti di Paul sarebbero stati del tutto diversi da quelli di Ludwig così come, ovviamente, Ludwig avrebbe messo in pratica la sua pazzia in un modo del tutto diverso da quello di Paul. Il nome Wittgenstein garantiva in ogni caso un livello alto, o meglio altissimo. Senza ombra di dubbio, Paul il pazzo ha raggiunto il livello di Ludwig il filosofo, e se uno dei due ha rappresentato di sicuro uno dei vertici della filosofia e della storia dello spirito umano, l’altro ha rappresentato di sicuro uno dei vertici nella storia della pazzia, ammesso che per filosofia in quanto tale, per spirito in quanto tale, nonché per pazzia noi si voglia intendere ciò che questi termini in effetti designano: dei concetti storici perversi. Benché nel Padiglione Hermann io mi trovassi a non più di duecento metri di distanza dal mio amico, ero tuttavia irrimediabilmente separato da lui e non c’era niente che io desiderassi con più intensità del momento in cui noi due ci saremmo finalmente ritrovati dopo tanti mesi, mesi durante i quali avevo sentito la mancanza della mente di Paul e poco c’era mancato che morissi asfissiato tra le centinaia e centinaia di menti tutto sommato, ahimè, completamente sterili, poiché, è inutile che ce lo nascondiamo, le menti che perlopiù ci sono accessibili non hanno per noi il benché minimo interesse, da esse non riceviamo di più che dalla compagnia di patate ipertrofiche piantate su poveri corpi macilenti che trascinano nei loro abiti di cattivo o pessimo gusto un’esistenza miserabile, ma indegna, purtroppo, di qualsiasi commiserazione. Ma verrà pure il giorno in cui finalmente potrò andare a trovare Paul, pensavo, e già mi annotavo ciò che avevo in mente di discutere con lui, tutti argomenti sui quali per così tanti mesi non avevo potuto parlare con nessuno. Semplicemente, per l’assenza di Paul, in tutto quel periodo non mi era stato possibile condurre una conversazione qualsivoglia né di musica, né di filosofia, né di politica, né di matematica. Quando sentivo che in me tutto era morto o quasi, una visita a Paul era sempre bastata per ridare vita, faccio solo un esempio, al mio pensiero musicale. Il povero Paul, pensavo, è rinchiuso nel Padiglione Ludwig, magari l’hanno perfino ficcato in una camicia di forza, proprio lui che invece vorrebbe tanto essere all’Opera. Paul era il più appassionato frequentatore del Teatro dell’Opera che Vienna abbia mai conosciuto, questo gli iniziati lo sanno bene. Era il fanatico dell’Opera per eccellenza, anche quando era ormai nella miseria più nera e in uno stato di estrema amarezza, peraltro inevitabile, si concedeva quotidianamente la sua serata all’Opera, quanto meno si procurava un posto in piedi, quando ormai era malato a morte resistette in piedi sei ore, per tutto il Tristano, e alla fine ebbe ancora la forza di prorompere in grida di bravo o in fischi così forti come mai nessuno ebbe a sentirne in quel Teatro sul Ring né prima né dopo di lui. Paventato era il suo influsso sulle prime dell’Opera. Il suo entusiasmo si scatenava qualche secondo prima degli altri, e quindi trascinava con sé tutto il teatro. E, viceversa, i suoi primi fischi bastavano a demolire le messe in scena più grandiose e sontuose, semplicemente perché lui voleva così, perché questo corrispondeva al suo estro del momento. Io posso decidere un successo ogni volta che voglio e se ci sono le premesse perché questo accada, e le premesse ci sono sempre, diceva, e parimenti posso decidere un insuccesso assoluto se ci sono le premesse perché questo accada, e le premesse ci sono sempre: basta che io sia il primo a gridare bravo o il primo a fischiare. Per decenni i viennesi non si sono accorti che era Paul, in realtà, l’artefice dei trionfi più memorabili al Teatro dell’Opera e parimenti dei fiaschi più clamorosi in quello stesso teatro, e i fiaschi decretati da lui si rivelavano di una radicalità che più devastante non sarebbe potuta essere. I suoi pro e i suoi contro all’Opera non avevano niente a che fare con l’obiettività, ma soltanto coi suoi estri, con le sue lune e con la sua pazzia. Molti direttori d’orchestra che Paul non poteva sopportare sono caduti a Vienna nella sua trappola, e lui, letteralmente con la bava alla bocca, li ha sommersi di fischi e contumelie. Solamente con Karajan, che lui odiava, non è riuscito nel suo intento. Karajan, il genio, era troppo grande perché Paul potesse anche soltanto molestarlo. Io ho osservato e studiato Karajan per decenni, ed egli è per me, accanto a Schuricht, che ho amato, il più importante direttore d’orchestra del secolo, sin dall’infanzia, devo dire, ho ammirato Karajan per esperienza personale, e l’ho sempre apprezzato moltissimo, come sempre lo hanno apprezzato tutti i musicisti che hanno lavorato con lui. Paul odiava Karajan con tutte le sue forze, ed essendo questo suo odio diventato un’abitudine diceva in continuazione che era solo un ciarlatano, mentre io, avendo visto per decenni come Karajan lavorava, lo consideravo semplicemente il primo al mondo di tutti i professionisti della musica, che quanto più diventava famoso tanto più migliorava, ciò che il mio amico, e con lui tutto il resto del mondo musicale, non ha mai voluto riconoscere. Sin dall’infanzia ho visto espandersi e perfezionarsi il genio di Karajan, sin da allora ho assistito a quasi tutte le prove dei concerti e delle opere che Karajan ha diretto a Salisburgo e a Vienna. I primi concerti che ho sentito in vita mia li ha diretti Karajan, e così le prime opere che ho ascoltato, sempre Karajan. Devo dire perciò che fin dall’inizio c’erano le migliori premesse per una positiva evoluzione dei miei studi musicali. Il nome di Karajan garantiva a priori uno scontro furibondo tra me e Paul, e fintanto che Paul è vissuto, non abbiamo mai smesso di litigare a proposito di Karajan. Ma né io con le mie prove in favore di Karajan sono mai riuscito a persuadere Paul del genio di Karajan, né Paul con le sue prove contro Karajan è mai riuscito a persuadere me della sua ciarlataneria. Fino al giorno della sua morte, e questo non turbava il sistema filosofico di Paul, l’opera è stata per lui, in un certo senso, ciò che al mondo c’è di più alto, mentre per me l’opera era già a quell’epoca una passione antica e ormai relegata più o meno sullo sfondo, un’arte che avevo amato e seguitavo ad amare, ma della quale da anni ero disposto a fare a meno. Per molti anni, quando aveva ancora tempo e denaro, Paul aveva viaggiato in lungo e in largo per il globo terrestre, da un Teatro dell’Opera all’altro, per proclamare poi ogni volta che il più grande di tutti era il Teatro dell’Opera di Vienna. Il Met è niente. Il Covent Garden è niente. La Scala è niente. Tutti erano niente se confrontati con Vienna. Ma naturalmente, diceva, anche l’Opera di Vienna è veramente buona soltanto una volta l’anno. Una volta l’anno è già qualcosa. Durante un viaggio durato tre anni che era stato una pazzia, Paul si era potuto permettere di far visita, uno dopo l’altro, a tutti i Teatri dell’Opera cosiddetti di fama mondiale. In tal modo aveva conosciuto tutti i direttori d’orchestra piuttosto grandi, grandi e veramente importanti, nonché i cantanti e le cantanti che questi direttori d’orchestra corteggiavano ma anche strapazzavano. In fondo, la mente di Paul era una mente d’opera e la sua stessa vita, che sempre di più e negli ultimi anni con estrema rapidità si era ridotta a un’esistenza atroce, era ormai un’opera, una grande opera, certo, con il suo regolamentare epilogo tragico. Al momento, una volta di più, questa sua opera veniva rappresentata allo Steinhof, e in particolare nel Padiglione Ludwig, che era uno dei più fatiscenti di tutto lo Steinhof, ciò che di lì a non molto avrei visto con i miei occhi. Ancora una volta il signor barone, come il mio amico veniva chiamato da tutti, aveva scambiato con la camicia di forza il frac bianco che, come so, si era fatto confezionare dalla sartoria Knize e che a mia insaputa, per così dire, indossava spessissimo durante la notte ancora negli ultimi anni della sua vita, preferibilmente nel cosiddetto Edenbar. Le cene al Sacher o all’Imperial, dove di tanto in tanto lo invitavano i suoi molti amici, non importa se aristocratici o meno, ma pur sempre benestanti, se non addirittura ricchi sfondati, le aveva ancora una volta scambiate con la ciotola di latta sul tavolone di marmo del Padiglione Ludwig, e gli eleganti calzini inglesi che indossava sotto le scarpe di Magli, di Rossetti o di Janko coi calzerotti bianchi di lana ruvida e le informi pantofole di feltro che al Padiglione Ludwig erano di rigore. E di nuovo, tanto per cambiare, gli avevano inflitto una serie di elettroshock di cui, una volta dimesso dallo Steinhof, mi fece un dettagliato resoconto, non privo peraltro di ironia e sarcasmo, che non trascurava tutto ciò che questi elettroshock avevano di efferato, di volgare, di mortificante, e dunque di disumano. Paul veniva internato nello Steinhof ogni volta che chi gli stava intorno non si sentiva più sicuro in sua compagnia, o se di notte ad un tratto minacciava di ammazzare tutti quanti e annunciava ai suoi stessi fratelli che, niente di meno, stava per strangolarli o per ucciderli a colpi di fucile, e veniva dimesso ogni volta che era completamente distrutto dai medici e dalla loro proverbiale megalomania, quando in lui niente o quasi niente si muoveva più, e quasi non poteva più sollevare la testa e men che mai alzare la voce. Allora si ritirava in riva al Traunsee dove, disseminate tra i boschi, la sua famiglia possiede ancora oggi parecchie proprietà in piccole meravigliose insenature e in valli sperdute e sopra le colline e in cima alle montagne, ville e cascinali di campagna, cosiddetti rifugi e casini di caccia dove ancora oggi i Wittgenstein si concedono qualche periodo di sospirato riposo dalle sgradevoli e complicate incombenze che sono legate all’acquisto della ricchezza. Il Padiglione Ludwig era al momento la sua residenza. E io ad un tratto cominciai a esitare e a domandarmi se da parte mia, e dunque da parte del Padiglione Hermann, fosse consigliabile stabilire un collegamento con il Padiglione Ludwig, se la cosa non potesse danneggiarci entrambi più che avvantaggiarci. Chi può mai dire, pensavo, in che stato si trova attualmente Paul, forse è in uno stato che può solo farmi del male, e in tal caso sarebbe certo meglio che io non mi facessi vivo per niente e dunque non stabilissi alcun collegamento tra il Padiglione Hermann e il Padiglione Ludwig. D’altra parte, pensavo anche, la mia comparsa nel Padiglione Ludwig, una comparsa per di più del tutto inattesa, potrebbe avere per il mio amico conseguenze devastanti. Insomma, tutt’a un tratto mi era venuta paura di un nostro incontro e pensavo di lasciar decidere alla nostra amica Irina sull’opportunità di un contatto tra il Padiglione Hermann e il Padiglione Ludwig. Ma poi rinunciai a questa idea perché non volevo che la nostra amica, per una decisione, quale che fosse, riguardante noi due, andasse incontro a qualche difficoltà. In ogni caso, pensavo, io in questo momento non ho la forza di andare fino al Padiglione Ludwig e all’idea di fare una visita al Padiglione Ludwig rinunciai completamente perché mi parve troppo assurda. In fin dei conti non posso neanche escludere che Paul capiti qui un bel giorno del tutto inopinatamente; non ci sarebbe da stupirsi, pensavo, perché quella chiacchierona della nostra amica gli ha ben detto che io mi trovo qui al Padiglione Hermann. E in effetti questa cosa la temevo. E se quello di punto in bianco mi si presenta qui, nel Padiglione Hermann, in questo reparto che ha un regime severissimo, più severo di ogni altro, un reparto che in effetti è votato alla morte, se si presenta qui nel suo abbigliamento da pazzo, con addosso le sue pantofole da pazzo, pensavo, la sua camicia da pazzo, la sua giacca da pazzo, i suoi calzoni da pazzo? Di questo avevo paura. Non avrei saputo come andargli incontro, come accoglierlo, come tenerlo a bada. Era più facile per lui fare una visita a me che viceversa, pensavo. Se solo riesce a muoversi in qualche modo, sarà lui il primo a venire da me. E in ogni caso, pensavo, se mi viene a trovare sarà una catastrofe. Scacciavo questo pensiero, cercavo in tutti i modi di allontanarlo da me e mi sforzavo di farmi venire in mente qualcosa di diverso, ma com’è ovvio non ci riuscivo. L’eventualità che Paul venisse a trovarmi era diventata per me un incubo. Avevo la sensazione che da un momento all’altro la porta si potesse aprire per far entrare Paul. Nella sua tenuta da pazzo. E con gli occhi dell’immaginazione vedevo come i guardiani lo scovavano, e lo ficcavano nella camicia di forza, e a colpi di manganello lo riportavano allo Steinhof, l’immagine era atroce e aveva messo radici dentro di me. È un tipo talmente imprudente, mi dicevo, che sarebbe capacissimo di passare strisciando sotto il cancello e arrivare di corsa al Padiglione Hermann e precipitarsi sul mio letto e abbracciarmi. Durante le sue crisi, come venivano chiamate, Paul si gettava tra le braccia di uno e lo abbracciava talmente forte che quello credeva di morire soffocato per via di quell’abbraccio, e lui intanto piangeva a calde lacrime sul petto di quello che stava abbracciando. Io temevo in effetti che all’improvviso lui potesse entrare come una furia nella mia stanza e, abbracciandomi, si gettasse sul mio petto piangendo a calde lacrime. Amavo Paul ma non volevo che mi abbracciasse in quel modo, detestavo la vista di quell’uomo di cinquantanove o sessantanni che si gettava su di me piangendo a calde lacrime. In questi frangenti tremava in tutto il corpo e biascicava parole incomprensibili. E la sua bocca schiumava, e si aggrappava con tutte le sue forze alle persone fino a quando queste, dopo non molto, non riuscendo più a sopportarlo erano costrette a liberarsi di lui con un violento strattone. È capitato spesso anche a me, sebbene la cosa mi dispiacesse molto, di doverlo respingere, ma non avevo davvero altra possibilità, lui mi avrebbe schiacciato. Negli ultimi anni queste sue crisi si aggravarono e ci voleva un grande spirito di sacrificio e una forza fisica quasi sovrumana per liberarsi dai suoi abbracci. era chiaro da tanto che era un uomo ammalato, intrinsecamente e mortalmente ammalato. Era solo una questione di tempo, un giorno o l’altro non ce l’avrebbe più fatta, sarebbe morto soffocato durante una delle sue crisi. Tu sei il mio amico, il mio solo e unico amico, l’unico essere umano che ho, biascicava a colui che teneva abbracciato, e quello, non sapendo come allentare la spasmodica presa, non riusciva in alcun modo a tranquillizzarlo. Io temevo questi abbracci e avevo paura che Paul mi apparisse tutt’a un tratto sulla porta per poi irrompere nella mia stanza. E invece non venne. Ogni giorno, o meglio ogni ora io temevo che lui facesse irruzione nella mia stanza, ma questo non accadde. Da Irina venni a sapere che giaceva come morto sul suo tavolaccio nel Padiglione Ludwig e che rifiutava qualsiasi tipo di cibo. In questo modo Paul perdeva completamente le forze, e i medici, dopo averlo distrutto, lo lasciavano in pace. Quando ormai era ridotto a una magrezza scheletrica, e neppure lontanamente era in grado di reggersi in piedi, i medici lo dimettevano. Allora egli partiva per il Traunsee con l’automobile di uno dei suoi fratelli oppure in taxi da solo, senza nessuno dei suoi fratelli, e lì si rintanava qualche giorno o qualche settimana nella proprietà dei Wittgenstein dove fino alla morte ha goduto di un diritto di domicilio sancito da un regolamentare e ben preciso contratto, si rintanava cioè in una casa di contadini vecchia di duecento anni situata su un pianoro tra Altmùnster e Traunkirchen dove una vecchia domestica, devota, fedele, rimasta per tutta la vita al servizio dei Wittgenstein, mandava avanti un piccolo podere destinato a soddisfare le private necessità dei Wittgenstein che passavano le loro vacanze in campagna. Edith, sua moglie, in questi casi rimaneva a Vienna. Sapeva che Paul si rimetteva in salute solo se non aveva nessuno intorno a sé, neanche lei che pure era sempre stata la persona più vicina a Paul, che in effetti l’ha amata fino alla morte. Sempre, quando era al Traunsee, lui veniva a trovarmi, non nei primi giorni, ma dopo, quando riprendeva il coraggio di andare tra la gente, quando non aveva più da temere gli sguardi sfrontati di chi va a caccia di sensazioni, quando gli ritornava la voglia di parlare con qualcuno o addirittura di filosofare. Allora compariva a Nathal e, se il tempo lo permetteva, seduto da solo in cortile con gli occhi chiusi, prima di tutto ascoltava un disco che io facevo suonare su al primo piano e che, con le finestre spalancate, si sentiva giù in cortile in maniera stupenda. Un Mozart, per piacere. Uno Strauss, per piacere. Un Beethoven, per piacere, diceva. Sapevo che dischi dovevo scegliere per metterlo nella giusta disposizione di spirito. Per ore e ore ascoltavamo insieme la musica di Mozart, la musica di Beethoven, senza dire una parola. Era una cosa che amavamo tutti e due. Una piccola cena preparata da me concludeva la giornata e io la sera lo riportavo in macchina a casa. Non potrò mai dimenticare le serate passate con lui a sentire musica senza dire una parola. Gli ci volevano due settimane, lo diceva lui stesso, per normalizzarsi. Rimaneva lì fino a quando la campagna gli dava sui nervi e allora voleva soltanto ritornare a Vienna. A Vienna per quattro o cinque mesi le cose funzionavano più o meno bene, poi, un giorno, si facevano di nuovo sentire i sintomi del suo male, e tutto ricominciava da capo. Durante i primi anni della nostra amicizia Paul beveva quasi ininterrottamente, accelerando com’è ovvio l’evoluzione della sua malattia. Quando smise di bere, in effetti senza far troppe storie, dapprima le sue condizioni peggiorarono in modo preoccupante, poi invece migliorarono notevolmente. Non bevve più neanche un goccio. Non c’è nessuno a cui l’alcool piacesse come a lui, lo champagne a fiumi che di mattina si scolava al Sacher era solo uno scherzo, un’abitudine quotidiana della quale non valeva la pena di parlare. All’Obenaus, un piccolo locale nella Weihburggasse, era capace di bere in una sola serata parecchi litri di vino bianco. La vendetta non tardò. Smise di bere, se non mi sbaglio, cinque o sei anni prima di morire. Se non l’avesse fatto, sarebbe morto probabilmente tre o quattro anni prima, ciò che a mio avviso sarebbe stato un immenso peccato. Poiché solo negli ultimi anni della sua vita Paul diventò un vero filosofo, fino ad allora era stato soltanto un gaudente della filosofia, ma in quanto tale era impareggiabile, non ho mai incontrato nessuno in vita mia che sapesse godere come lui, era questo che lo rendeva così amabile. Nel Padiglione Hermann e, in definitiva, in preda all’angoscia di morte, ho preso chiaramente coscienza della vera importanza del mio rapporto con l’amico Paul, che in verità è stato il rapporto più importante che io ho avuto con un individuo di sesso maschile, l’unico che ho sopportato per un periodo di tempo non brevissimo e al quale non avrei mai voluto rinunciare. Ed ecco che ad un tratto avevo paura per lui che da un giorno all’altro era entrato nel novero delle persone a me più vicine, la paura era quella di perderlo, e i modi potevano essere due: a causa della mia, oppure della sua morte, in quanto, come io stesso in fondo sentivo, in quelle settimane e in quei mesi io ero stato vicino alla mia morte nel Padiglione Hermann, come lui era stato vicino alla sua morte nel Padiglione Ludwig. Di colpo avevo nostalgia di lui, l’unico individuo di sesso maschile con cui in vita mia son riuscito ad avere una conversazione come si deve, un tema in comune, non importa di che natura e arduo finché si vuole, che ho potuto sviluppare. Da quanto tempo ormai mi mancano i nostri discorsi, quella sua capacità di ascoltare, di spiegare e nello stesso tempo di registrare, pensavo, quanti anni sono passati da quando discutevamo su Webern, su Schonberg, su Satie, sul Tristano e sul Flauto magico, sul Don Giovanni e sul Ratto dal Serraglio. Quanto tempo è passato da quando nel cortile di Nathal ascoltavamo la Sinfonia renana diretta da Schuricht? Solo ora che son qui, nel Padiglione Hermann, so quel che mi manca, so di che cosa sono stato privato per via di quest’ultima ricaduta, tutte cose di cui non posso fare a meno se voglio che la mia sia un’esistenza degna di questo nome. Certo, ho degli amici, i migliori amici del mondo, nessuno però che per sensibilità e ricchezza inventiva possa essere paragonato a Paul, pensavo, e da quel momento feci di tutto per ristabilire un contatto personale con il mio sventurato partner intellettuale. Quando entrambi saremo usciti di qui e di nuovo in buona salute, mi dicevo, voglio recuperare tutto quel che ho perduto durante la mia permanenza sull’Altura Baumgartner, avevo un bisogno inaudito di rimettere in pari, come si suol dire, la mia mente. Un numero sterminato di temi si erano ingorgati nella mia mente in attesa del mio interlocutore. Ma lui con ogni probabilità giaceva ancora nella sua camicia di forza, come la nostra amica Irina mi aveva riferito il giorno prima, su quel suo tavolaccio, e fissando ininterrottamente il soffitto della camerata che condivideva con altri ventiquattro pazienti rifiutava categoricamente qualsiasi tipo di nutrimento. Devo andare da lui al più presto, mi dicevo. In quelle settimane faceva un gran caldo, e Immervoll ne soffriva più di tutti. Aveva dovuto smettere di giocare a scassaquindici e dall’oggi al domani non era stato più in grado di reggersi in piedi. Il suo viso era di colpo franato, il naso all’improvviso diventato enorme, e tutto il suo volto reso inquietante e grottesco dagli zigomi sporgenti. La sua pelle era grigia e diafana, per la maggior parte del tempo giaceva nel letto completamente scoperto, senza alcun pudore, le gambe divaricate e ridotte a pelle e ossa. Non era più capace di prendersi da solo il pappagallo, e siccome ne aveva bisogno ogni momento e, com’è ovvio, le infermiere non potevano stazionare in permanenza nella nostra stanza, glielo davo io. Ma lui era ormai talmente maldestro che la faceva sempre di lato. Per quasi tutto il tempo, dalla sua bocca che teneva aperta usciva un liquido gialloverdastro che verso mezzogiorno aveva già sporcato il guanciale. E poi, a un tratto, cominciò a diffondere un odore caratteristico che io conoscevo bene: l’odore dei morenti. In quei giorni il nostro studente di teologia si era voltato più dalla mia parte che da quella di Immervoll, passava moltissimo tempo a leggere un libro di teologia, di altri libri, la mia impressione è questa, non ne aveva mai letti. Quando i suoi genitori venivano da Grinzing fin lì, si sedevano accanto a lui sul bordo del letto e cercavano di fargli capire più o meno una cosa sola, che a loro non restava al mondo nient’altro che lui, e che lui perciò non aveva il diritto di abbandonarli. In realtà, però, io non avevo affatto la sensazione che lo studente di teologia stesse per tirare le cuoia. A un certo punto, una notte, Immervoll fu portato in corridoio nel suo letto con le ruote e io non mi accorsi della sua morte perché stavo dormendo, e quando col mio grafico della temperatura di primo mattino mi diressi verso l’ambulatorio per controllare il mio peso, le lenzuola fresche erano già state stese sul letto di Immervoll in corridoio. Anch’io ero magro come uno scheletro, se si eccettua la faccia da luna piena e la pancia gonfia, ridotta ormai a una sfera disgustosa e insensibile che, la mia impressione era questa, da un momento all’altro sarebbe potuta scoppiare, e sulla quale si erano formate parecchie piccole fistole. Un giorno, sentendo alla radio del mio vicino, lo studente di teologia, la trasmissione di una corsa automobilistica che si svolgeva a Monza, ho pensato che il mio amico Paul, a parte la sua passione per la musica, ha avuto un’altra passione non meno intensa, quella per le corse automobilistiche. Lui stesso, nei primi anni della sua giovinezza, aveva partecipato a delle gare automobilistiche e contava tra i suoi amici migliori tutta una serie di campioni di questo sport che a me personalmente ha sempre fatto orrore perché non penso che esista al mondo niente di più abbrutente. Ma così era il mio amico: quasi niente gli era alieno. È inconcepibile che lo stesso individuo che ha detto a mio avviso le cose più intelligenti che si possano dire sui Quartetti di Beethoven, e che è stato l’unico a spiegarmi esattamente la Sinfonia Haffner facendo in modo che essa si rivelasse a me come un prodigio della matematica, ed è così che tuttora la sento, che quello stesso individuo sia stato altresì un fanatico di automobilismo il quale, lo so bene, sentiva il rumore di quei bolidi assassini che sfrecciano sui circuiti di gara come dolce musica per le sue orecchie. Per diverse estati di seguito i Wittgenstein, che erano e sono tuttora fanatici di automobilismo, hanno invitato nelle loro proprietà in riva al Traunsee i migliori piloti del mondo, e io stesso ricordo che su invito di Paul ho passato nella sua casa in collina sopra il Traunsee serate intere e mezze nottate con Jachie Stewart, per esempio, nonché con Graham Hill, un ragazzotto divertente, e anche con Jochen Rindt, quello che poco dopo è morto a Monza in un tremendo incidente. Adesso, a sessant’anni suonati, Paul naturalmente vedeva le cose sotto un altro aspetto, così aveva detto, e in effetti non poteva negare che nell’automobilismo ci fosse anche una componente di abbrutimento, che era per me, come sempre gli avevo detto, l’essenza stessa di quello sport. Eppure la Formula 1 lo affascinava in maniera talmente spiccata che quasi non era possibile passare un po’ di tempo in sua compagnia senza che a un certo punto lui si mettesse a parlare del suo amato automobilismo, Paul trovava sempre il modo di far sì che il discorso cadesse inopinatamente sull’automobilismo e poi com’è ovvio non riusciva a smettere, ciò che induceva il suo interlocutore a vagliare le diverse strategie capaci di distoglierlo dal tema dell’automobilismo che tutt’a un tratto aveva ripreso il suo imperio su di lui, essendo in effetti un’idea delirante che lo ha crudelmente perseguitato per tutta la vita. Due passioni ha avuto Paul, che sono state al tempo stesso le sue due malattie principali: la musica e l’automobilismo. Nella prima metà della sua vita l’automobilismo è stato tutto per lui, nella seconda metà la musica. E anche la vela. Ma come avrebbe, ora, trovato il tempo di esplicare queste sue passioni sportive? Quando l’ho conosciuto io, la passione di Paul per l’automobilismo era ormai qualcosa di meramente teorico, da molto tempo non aveva più preso parte a una corsa, come del resto aveva smesso di veleggiare. Di denaro suo non ne aveva più e i suoi parenti lo tenevano a stecchetto, anzi nel frattempo, siccome da anni la sua vita era dominata esclusivamente dalla depressione, lo avevano messo a lavorare in una compagnia di assicurazioni che si trovava sullo Schottenring, nel grattacielo chiamato Ringturm, dove dall’oggi al domani, non avendo ormai altra scelta, Paul era stato costretto a guadagnarsi uno stipendio trasferendo pratiche e redigendo distinte, un lavoretto da niente, insomma. Paul aveva una moglie e doveva pur pagare l’affitto della sua casa nella Stallburggasse, quasi di fronte al Maneggio spagnolo. E gli affitti del primo distretto sono i più alti in assoluto. Il signor barone, che fino a quel momento era stato libero come un fringuello, ora ogni mattina alle sette e mezzo doveva presentarsi in un ufficio nel quale niente gli fu risparmiato di tutto ciò che un simile ufficio può offrire. Eppure questo fatto non lo ha stroncato. Perlopiù ci si è anzi divertito e la sua fantasia fioriva ogni volta che gli veniva l’estro di raccontare e mettere in ridicolo qualcosa che era successo nella compagnia di assicurazioni cosiddetta metropolitana. Con queste storie e nient’altro era capace di intrattenere un gruppo di amici per un’intera serata, ed era contento, così diceva, di essere finalmente andato in mezzo al popolo, e di aver visto, gli era bastato un attimo, che cos’è il popolo, e quello che il popolo fa veramente. Io penso che i suoi parenti lo abbiano piazzato in quella compagnia di assicurazioni solo perché avevano un certo rapporto con il direttore dell’istituto, se non ci fosse stato questo particolare rapporto la compagnia di assicurazioni non lo avrebbe assunto, a un’età per di più, quasi sessant’anni, in cui non c’è società che assuma personale di quella categoria. Esser costretto a lavorare per guadagnarsi uno stipendio, per guadagnarsi come si suol dire la vita era stato per lui qualcosa di totalmente nuovo, e tutti avevano previsto che sarebbe fallito. E invece si sbagliavano, perché Paul, fino a poco prima di morire, quando proprio non era più nelle condizioni di muoversi, era sempre entrato puntualmente nell’ufficio della compagnia di assicurazioni sullo Schottenring, puntualmente era entrato e poi uscito, esattamente secondo le regole. Io sono sotto ogni aspetto un impiegato modello, mi aveva detto più volte, né io avevo mai dubitato della sua affermazione. Avevo conosciuto Edith, la sua seconda moglie, a Berlino, credo, prima o durante o dopo, ritengo, una serata all’Opera. Era la nipote di Giordano, il compositore dell’Andrea Chenier, e quasi tutti i suoi parenti vivevano in Italia, dove lei, per potersi rigenerare, andava ogni anno con Paul o senza Paul, ma perlopiù senza Paul, che era il suo terzo marito. Edith mi piaceva decisamente molto, per me era una gioia ogni volta che la incontravo a un tavolo del Braunerhof davanti a una tazza di caffè. Conversare con lei era sempre piacevolissimo e, a prescindere dal fatto che veniva da un’ottima famiglia, Edith era una donna assai più intelligente della media, anche di una media cosiddetta alta, e per di più era affascinante. Che inoltre vestisse con grande eleganza, in quanto moglie di Paul Wittgenstein, era semplicemente ovvio. Mai, neanche negli anni senza dubbio amarissimi in cui la malattia del marito si aggravava con inarrestabile rapidità fino a rendere prevedibile la sua morte, e cioè quando le crisi di Paul si susseguivano a intervalli sempre più brevi e lui passava più tempo allo Steinhof o all’Ospedale Wagner-Jauregg di Linz che a Vienna o in riva al Traunsee, mai ho sentito da Edith il più piccolo lamento, benché sapessi perfettamente tra quali inaudite difficoltà era costretta a barcamenarsi. Edith amava Paul e neanche per un minuto lo lasciò da solo, sebbene perlopiù vivesse separata da lui e non abbandonasse mai il loro piccolo appartamento dei primi del secolo nella Stallburggasse mentre Paul, suo marito, era ricoverato o allo Steinhof o all’Ospedale Wagner Jauregg di Linz, chiamato in passato semplicemente Niedernhart, e lì in una camicia di forza vegetava miseramente con altri malati simili a lui in una qualche terrificante camerata. Le sue crisi non venivano da un momento all’altro, ogni volta si annunciavano con parecchie settimane di anticipo quando a un tratto le sue mani cominciavano a tremare, quando, pur non riuscendo a concludere una sola proposizione, si metteva a parlare, parlava senza posa per ore e nessuno poteva interromperlo, quando ad un tratto la sua andatura diventava irregolare e camminando accanto a qualcuno dopo dieci o undici velocissimi passi ne faceva o tre o quattro o cinque particolarmente flemmatici, quando per la strada apostrofava la gente che non conosceva e senza un motivo comprensibile o, per esempio, verso le dieci della mattina ordinava al Sacher una bottiglia di champagne che poi non beveva e lasciava a scaldarsi sul tavolo. Ma queste non sono che inezie. Già più grave era quando scaraventava contro la parete tappezzata di seta l’intero vassoio della prima colazione che da poco gli era arrivata per mano di un cameriere a cui l’aveva richiesta. Un giorno, lo so per certo, al Petersplatz è salito su un taxi e ha detto soltanto la parola Parigi, al che l’autista, conoscendolo, l’ha veramente portato fino a Parigi dove una zia Wittgenstein che viveva lì ha dovuto pagargli la corsa. Anche da me a Nathal è venuto diverse volte col taxi, si è fermato una mezz’oretta, soltanto per vederti, come diceva, e poi è subito tornato a Vienna, e pensare ch’era un tragitto di duecentodieci chilometri, e dunque quattrocentoventi tra andata e ritorno. Quando di nuovo era. fatto, come diceva lui stesso, non riusciva a tenere neanche un bicchiere di vino, e ogni momento perdeva il controllo e scoppiava in lacrime. A chiunque lo incontrasse, si presentava sempre con abiti estremamente eleganti che gli erano stati lasciati in eredità o regalati da amici rispettivamente defunti o viventi, e per esempio alle dieci del mattino lo si trovava al Sacher con un completo bianco, alle undici e mezzo con un gessato grigio al Braunerhof, all’una e mezzo all’Ambassador con un abito nero e alle tre e mezzo del pomeriggio di nuovo al Sacher con un completo color giallo bruciato. Dovunque fosse o andasse, cantava non solo arie intere di Wagner, ma spesso addirittura mezzo Sigfrido o mezza Walkiria con la sua voce stridula. Per la strada apostrofava persone a lui del tutto sconosciute chiedendo se non erano d’accordo con lui che dopo Klemperer ascoltare musica era diventato assolutamente insopportabile. La maggior parte delle persone che lui apostrofava in questo modo non avevano mai sentito parlare di Klemperer in vita loro e non avevano idea di che cosa fosse la musica, ma questo non lo disturbava. Se gli veniva voglia, era capace di tenere in mezzo alla strada una conferenza su Stravinskij oppure su La donna senz’ombra, e di annunciare a tutti che al più presto avrebbe messo in scena La donna senz’ombra sul Traunsee scritturando i migliori musicisti del mondo. A parte le opere di Wagner, La donna senz’ombra era la sua opera preferita. In effetti aveva chiesto molte volte a cantanti celeberrimi di ambo i sessi quale sarebbe stato il compenso da loro richiesto per prodursi in una rappresentazione straordinaria de La donna senz’ombra sul Traunsee. Farò costruire un palcoscenico galleggiante, ha detto più volte, e i Filarmonici suoneranno su un’altra piattaforma galleggiante proprio sotto il Traunstein. La donna senz’ombra sembra inventata per il Traunsee, così lui, occorre rappresentarla fra Traunkirchen e il Traunstein. Per la morte di Klemperer il mio piano è andato in malora, diceva, con Böhm La donna senz’ombra mi fa venire il mal di pancia.


Una volta andò da Knize, la migliore e più costosa sartoria di Vienna, e ordinò in un colpo solo due frac bianchi. Ma non appena i due completi furono pronti, mandò a dire alla ditta Knize che era davvero assurdo che gli mettessero a disposizione due frac bianchi dal momento che lui non ne aveva ordinato neanche uno nero, e se per caso la ditta Knize s’era messa in testa che lui fosse pazzo. Il fatto è che per diverse settimane Paul era andato molte volte da Knize con l’unico scopo di fare eseguire nuovi ritocchi a tutti e due i frac che aveva ordinato. Non solo per settimane, ma addirittura per mesi la ditta Knize era stata tormentata dalle richieste di Paul di correggere questo o quel difetto nei due frac che aveva ordinato, ma quando poi un giorno i due frac bianchi furono pronti, Paul contestò alla ditta Knize di aver ordinato da loro due frac bianchi, frac bianchi, io? Ma che si credono quelli, non sono mica pazzo da farmi confezionare su misura due frac bianchi, e per di più da loro, dalla ditta Knize! Armata di un pacco di prove, la ditta Knize pretese gli emolumenti che le erano dovuti e che però furono pagati dalla famiglia Wittgenstein, dato che Paul non aveva più un soldo. Naturalmente dopo questa faccenda Paul tornò allo Steinhof dritto filato. I suoi parenti preferivano saperlo lì piuttosto che in libertà, perché di questa libertà, come essi non potevano fare a meno di pensare, lui abusava in continuazione e in un modo assolutamente plateale. I suoi parenti lo detestavano sebbene — o meglio siccome — di tutti i prodotti dei Wittgenstein Paul era quello che io amavo di più. Era già grottesco che di colpo noi due ci si trovasse insieme sul Wilhelminenberg, il nostro colle del destino, io nel reparto di pneumologia che mi spettava, Paul nel reparto psichiatrico che gli spettava. Spessissimo lui provava a contare, servendosi delle dita, quante volte era già stato allo Steinhof e al Niedernhart, e cioè all’Ospedale Wagner-Jauregg, ma le dita di entrambe le mani non gli bastavano e dunque non riusciva mai a dirmi il numero esatto. Se nella prima metà della sua vita il denaro non ha avuto per Paul la minima importanza, perché in effetti, come del resto suo zio Ludwig, egli disponeva di denaro in quantità inaudita e, come a entrambi appariva, inesauribile, nella seconda metà della sua vita, quando ormai di denaro non ne aveva più, l’importanza del denaro diventò grandissima. Nella seconda metà della sua vita Paul si comportò per molti anni come se fosse la prima, ciò che com’è ovvio portò a gravissimi dissapori con i suoi parenti, nei confronti dei quali, quanto meno sotto il profilo giuridico, egli non aveva più alcun diritto da far valere. Quando il denaro finì, Paul non fece altro che tirar giù i quadri dalle pareti delle sue diverse case per venderli a poco prezzo a Vienna e a Gmunden a commercianti senza scrupoli. Anche la maggior parte dei suoi mobili più pregiati finirono quindi nei camion di cosiddetti rigattieri, gente avida e scaltra che aveva in mente soltanto di ottenere quei pezzi stupendi pagandoli quattro soldi. Fu così che per un cassettone di epoca giuseppina gli diedero l’equivalente in denaro di una bottiglia di champagne, e lui se la scolò tutta in compagnia del rigattiere che aveva comprato il suo cassettone. Alla fine della sua vita, Paul aveva il grande desiderio, che rese esplicito più di una volta, di riuscire ancora a prendere un treno e andare a Venezia per farsi finalmente una bella dormita al Gritti, ma ormai non c’era più tempo e il suo desiderio non fu realizzato. Sui periodi trascorsi allo Steinhof e all’Ospedale Wagner-Jauregg Paul mi ha raccontato cose incredibili che certo varrebbe la pena di riferire, ma non è questa la sede più adatta. I miei rapporti con i medici sono stati amichevoli fino a quando ho avuto i soldi, diceva, ma poi, quando finiscono i soldi, quelli ti trattano a pesci in faccia, così diceva sovente. Il signor barone veniva ficcato dagli infermieri in una gabbia, e cioè in un letto, come ce n’erano a centinaia, con le sbarre a tutti e quattro i lati e una specie di griglia in alto, e in questo letto era costretto a restare fino a quando era stroncato e dunque fatto fuori. Dopo diverse settimane di terapia shock, di terapia d’urto. Io avevo paura di rivedere Paul. E poi il giorno è venuto. Fra l’ora di pranzo e l’ora delle visite, quando nel Padiglione Hermann regna la quiete più assoluta, fui svegliato dalla mano di Paul posata sulla mia fronte. Paul era lì in piedi e mi domandò se poteva sedersi. Si mise a sedere sul mio letto e prima di tutto gli venne un fou rire perché tutt’a un tratto era sembrato anche a lui troppo comico che noi due ci trovassimo contemporaneamente sul Wilhelminenberg, tu nel posto che ti spetta, disse, e io nel posto che mi spetta. Non rimase che per poco tempo, ci lasciammo con il patto di rivederci più spesso, una volta sarei andato io fin da lui allo Steinhof, la volta dopo lui avrebbe raggiunto me sull’Altura Baumgartner, una volta avrei fatto io il tragitto dal Padiglione Hermann al Padiglione Ludwig, una volta lui dal Padiglione Ludwig al Padiglione Hermann. Ma solo una volta questo progetto è stato messo in pratica. Ci siamo incontrati a metà strada tra il Padiglione Hermann e il Padiglione Ludwig e ci siamo seduti su una panchina al limite estremo del settore di pneumologia. Grottesco! Grottesco! ha detto lui, e poi è scoppiato a piangere e non riusciva a smettere.


Per molto tempo tutto il suo corpo è stato scosso dai singhiozzi. Io l’ho poi riaccompagnato al Padiglione Ludwig, davanti alla cui porta due infermieri già lo stavano aspettando. Con addosso un’immensa tristezza, sono tornato al Padiglione Hermann. Questo incontro sulla panchina, ci eravamo entrambi infilati le uniformi prescritte, io quella dei malati di polmoni, lui quella dei pazzi dello Steinhof, mi aveva fatto un’impressione profondissima. Dopo questo incontro ci saremmo potuti incontrare ancora, ma non ci siamo più incontrati perché non volevamo esporci di nuovo a questo affanno pressoché insopportabile, entrambi sentivamo che quell’unico incontro aveva reso impossibile ogni incontro ulteriore sul Wilhelminenberg, su questo non c’era stato bisogno di dire una sola parola. Quando poi non morii come mi avevano predetto, e anzi finalmente fui dimesso dal Padiglione Hermann e ritornai a Nathal, per un certo periodo non ebbi più notizie del mio amico. Normalizzarmi fu per me una fatica immane, a un nuovo lavoro non potevo ancora pensare, e tuttavia, mentre mi sforzavo di mettere ordine nella mia casa che si trovava in uno stato di notevole abbandono per la mia assenza, a poco a poco, mi dicevo, bisogna che a poco a poco ristabilisca le condizioni che un giorno mi permetteranno di riprendere un lavoro. Il malato che è stato per mesi assente da casa sua è uno per il quale, quando vi fa ritorno, tutto è diventato nuovo, estraneo, è uno che con grandissima fatica deve rifare a poco a poco amicizia con le cose, riappropriarsi delle cose, quali che siano, perché nel frattempo le ha davvero perdute e ora le deve ritrovare. E siccome il malato è sempre fondamentalmente abbandonato a se stesso, tutto ciò che di diverso viene detto in proposito non è nient’altro che aberrante menzogna, egli dovrà compiere degli sforzi sovrumani se vorrà riprendere la tela dal punto in cui l’aveva interrotta diversi mesi addietro o, com’è successo nel mio caso più di una volta, diversi anni addietro. Questo il sano non riesce a comprenderlo, il sano si spazientisce subito e a causa della sua impazienza rende più difficili al malato che è ritornato in famiglia proprio le cose che invece dovrebbe rendergli più facili. I sani non sono mai stati pazienti con i malati, come del resto i malati non lo sono mai stati con i sani, questo non bisogna dimenticarlo. Poiché in relazione a ogni cosa, il malato com’è ovvio è assai più esigente del sano, il quale, appunto perché è sano, non ha bisogno di essere altrettanto esigente. I malati non capiscono i sani come, viceversa, i sani non capiscono i malati, e molto spesso nasce tra sani e malati un conflitto mortale che il malato in definitiva non riesce ad affrontare, come del resto il sano, al quale è accaduto più volte di ammalarsi proprio in conseguenza di un simile conflitto. Non è facile avere a che fare con un malato che tutt’a un tratto si ritrova nel luogo dal quale mesi o anni prima la malattia lo aveva strappato, e bisogna considerare che strappandolo da lì lo aveva strappato da tutto e che perlopiù i sani non hanno affatto la volontà di aiutare i malati, in verità simulano continuamente di possedere virtù da buoni samaritani che invece non possiedono, non vogliono possedere e che, essendo virtù puramente simulate, non fanno che nuocere all’ammalato e non lo aiutano affatto. Il malato in effetti è sempre un uomo solo e l’aiuto che gli viene concesso dall’esterno si rivela quasi sempre, questo lo sappiamo bene, soltanto un impedimento o soltanto un disturbo. L’aiuto di cui il malato ha bisogno è qualcosa di veramente impalpabile, che i sani però non sono in grado di offrirgli. I sani, fingendo ipocritamente di aiutare gli ammalati e perseguendo in realtà il proprio tornaconto, fanno solo del male a questi ammalati e rendono loro più difficile tutto ciò che dovrebbero invece render loro più facile. Quelli che dovrebbero aiutare gli ammalati non li aiutano affatto e anzi li tormentano. Eppure, un malato che torna a casa da un ospedale non può davvero permettersi di essere tormentato. Se il malato mette l’accento sul fatto che invece di aiutarlo in verità lo si tormenta, le persone che fino a quel momento han fatto finta di aiutarlo cominceranno a dargli addosso senza pietà. Sarà accusato di arroganza, di egoismo senza confini, quando invece la sua è soltanto legittima difesa. La cordialità con cui il mondo dei sani accoglie il malato che ritorna in famiglia è soltanto un’apparente cordialità, così com’è apparente la sollecitudine e lo spirito di sacrificio dei sani nei confronti di questi ammalati; basta che una sola volta il malato metta davvero alla prova questa cordialità, questa sollecitudine, questo spirito di sacrificio, perché tutto ciò si riveli per quello che è, pura apparenza, disponibilità messa in mostra ipocritamente che il malato farebbe meglio a rifiutare senza alcuna esitazione. Ma naturalmente non c’è niente di più difficile della vera cordialità e della vera disponibilità e del vero spirito di sacrificio, e anche in questo campo il confine tra il vero e l’apparente non è facile da tracciare. Per molto tempo crediamo che si tratti di una cosa vera mentre invece non è stata che un’apparenza di fronte alla quale siamo stati ciechi a lungo. Non c’è ipocrisia più diffusa di quella del sano nei confronti del malato. I sani, in fondo, non vogliono avere più niente a che fare con i malati e non sono affatto contenti che i malati, sto parlando dei veri malati, e cioè dei malati gravi, esigano tutt’a un tratto di ritornare in buona salute, o almeno di normalizzarsi o almeno di migliorare le loro condizioni di salute. Il sano, se è una persona sincera, ammetterà che non vuole avere più niente a che fare con il malato, non vuole che nessuno gli rammenti la malattia e, attraverso la malattia, logicamente e forzatamente la morte. Il sano vuole stare per conto suo o tra quelli come lui, il sano in definitiva non tollera il malato. Anche per me è sempre stato difficile ritornare dal mondo dei malati al mondo dei sani. Nel periodo della malattia, e cioè nel frattempo, i sani avevano girato le spalle al malato, avevano manifestato nei suoi confronti un totale rifiuto dettato dal loro istinto di conservazione. Ed ecco che quello la cui malattia essi avevano digerito e di cui in definitiva non si occupavano assolutamente più, ecco che quello si ripresenta e reclama i suoi diritti. E allora com’è ovvio gli si fa immediatamente capire che lui di diritti non ne ha in realtà neanche uno. Gli ammalati, visti dai sani, non hanno diritti di sorta. Sto sempre parlando soltanto di malati gravi, di individui che come me e come Paul Wittgenstein hanno sofferto della stessa malattia vita natural durante. A causa della loro malattia i malati non sono altro che poveri interdetti affidati alla misericordia dei sani. A causa della sua malattia, il malato ha lasciato libero un posto che ora pretende di rioccupare. E questo è sempre per i sani assolutamente inaudito. Il malato che ritorna a casa ha dunque sempre la sensazione di irrompere all’improvviso in un mondo che con lui non vuole avere più niente a che fare. È un meccanismo universalmente noto: il malato va via, è lontano, e allora i sani si affrettano a occupare il suo posto e di fatto se ne appropriano, ma ecco che il malato, il quale non è morto come si supponeva, un bel giorno ritorna e pretende di rioccupare il suo posto, vuole riprenderne possesso, e questo fa infuriare i sani perché la ricomparsa di colui che essi avevano radiato li obbliga di nuovo a restringersi, il che è in assoluto contrasto con le loro intenzioni, e proprio per questo il malato dovrà compiere uno sforzo sovrumano per poter rioccupare il suo posto e riprenderne possesso. D’altra parte sappiamo anche come i malati gravi che ritornano a casa procedano con la massima irriguardosità nella loro ripresa di possesso. Talvolta essi hanno addirittura la forza di cacciar via i sani, di sbatterli fuori, perfino di ucciderli. Ma questi sono casi isolati, la situazione più normale è quella di cui abbiamo parlato poco fa: il malato che ritorna a casa sua non si aspetta altro da parte dei sani che di essere trattato con delicatezza e, in definitiva, ciò a cui invece va incontro regolarmente è soltanto la più smaccata ipocrisia che lui stesso intuisce perfettamente in virtù della sua proverbiale chiaroveggenza. Il malato, e cioè il malato grave che ritorna a casa sua, andrebbe trattato con estrema delicatezza. Ma proprio questo è il difficile, tanto che non succede quasi mai che un malato grave faccia ritorno a casa sua e sia trattato dai suoi con delicatezza. I sani gli danno subito la sensazione che in quella casa e dunque con loro lui non c’entra più niente e, pur dicendo che vogliono il contrario, tentano in ogni modo di allontanare da sé il povero malato che è ritornato a casa. Io, comunque, non ho avuto allora tutte queste difficoltà perché sono rientrato in una casa deserta. E Paul, che pure nel frattempo era stato dimesso, ritornò, per fortuna, da sua moglie Edith. In vita mia non ho quasi mai conosciuto una persona più generosa della moglie di Paul, che ha protetto e circondato d’amore il mio amico fino a quando lei stessa, circa sei mesi prima della morte di lui, è stata colpita da ictus e in conseguenza di ciò è rimasta semiparalizzata. Dopo una lunga permanenza in ospedale, per qualche mese la si è rivista spesso nel centro di Vienna, ma com’è ovvio non era più la stessa Edith di una volta. Ancora più timida di prima dell’ictus, sembrava dominata da un’unica preoccupazione, quella di fare i suoi acquisti nelle immediate vicinanze della sua abitazione e, siccome cucinare era diventato per lei troppo faticoso, di consumare il pasto di mezzogiorno nel ristorante del Grabem Hotel sulla Dorotheergasse, un locale che è sempre stato a buon mercato, ma in cui allora, diversamente da oggi, si mangiava benissimo. Dopo la morte dei due proprietari del Graben-Hotel, che possedevano all’epoca anche il Regina e il Royal, entrambi sono morti del morbo cosiddetto di Parkinson, in tutti e tre gli alberghi il cibo non è più stato commestibile, e io non ci metto più piede da moltissimo tempo, ciò che considero un vero peccato perché la sala da pranzo del Graben-Hotel era un posto di grande piacevolezza. Un certo giorno Edith morì, e Paul si ritrovò per così dire solo come un cane. Il suo crollo fu rapido. Ogni tanto l’aspetto esteriore era ancora quello di un tempo, ma ormai gli si leggeva la morte in faccia, come si suol dire, e lui stesso riconosceva che non aveva veramente più niente da perdere. Provò ad andare qualche volta ancora nel Salzkammergut per rimettersi in salute, ma non servì a niente. Sebbene quando Edith era in vita Paul l’avesse lasciata quasi sempre da sola nel loro appartamento sovrastante il Braunerhof, adesso che Edith era morta lui non poteva più vivere senza di lei. Dava l’impressione di un uomo perduto e in effetti da allora nessuno potè più aiutarlo. Io e altri amici l’abbiamo più volte portato con noi in trattoria per tirarlo su di morale, come si suol dire, ma senza alcun successo. Lui stesso dopo la morte della moglie invitò me e i miei amici un paio di volte al Sacher, dove come sempre ordinò champagne, ma con l’unico risultato di cadere in una depressione ancora più profonda. A Traunkirchen, dove negli ultimi anni, quando non era allo Steinhof o al Wagner-Jauregg (anche quel Wagner-Jauregg che aveva dato il nome al succitato ospedale psichiatrico era un suo parente), era andato parecchie volte con la sua Edith, adesso ci andava da solo, ma l’effetto di questi viaggi fu sempre assolutamente rovinoso. Riconoscibile da lontano nella sua disperazione, lo si vedeva camminare tutto affannato su e giù per la campagna dove ormai non trovava alcun ristoro. In una casa in cima alla collina tra Altmünster e Traunkirchen che per metà non era neanche sua, ma di uno dei suoi fratelli che viveva in Svizzera quasi tutto l’anno, Paul aveva alcune stanze in cui faceva un freddo tale che già al momento di varcarne la soglia uno aveva la sensazione che in breve tempo sarebbe morto assiderato. Inoltre erano appesi alle pareti, umide fino all’alto soffitto, quattro grandi, ripugnanti dipinti coperti di muffa dell’epoca di Klimt, e lì accanto un grande dipinto di Klimt stesso, dal quale, come da altri celebri pittori del suo tempo, quei fabbricanti di armi dei Wittgenstein si erano fatti ritrarre, perché in effetti tra i cosiddetti nuovi ricchi della fine dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento è stato di gran moda farsi fare dei ritratti con la scusa del mecenatismo. I Wittgenstein, in realtà, come tutti i loro simili, non avevano per l’arte il benché minimo interesse, e tuttavia volevano fare i mecenati. In un angolo della stanza c’era un pianoforte a coda Bosendorfer, sul quale si può ben immaginare che avessero suonato tutti i celebri virtuosi di quel tempo. Ma se in quella casa si gelava, ciò era dovuto soprattutto al fatto che nella grande stanza a pianterreno c’era una gigantesca stufa di ceramica che, essendo rotta da decenni, da decenni non scaldava più e il cui effetto, quindi, più che quello di una stufa era quello di una ghiacciaia. Non ho mai visto Paul e Edith se non seduti accanto a quella stufa, tutti imbacuccati in giacche di pelliccia. Nel cosiddetto Salzkammergut bisogna tenere acceso il riscaldamento fino a giugno inoltrato e poi ricominciare alla metà di agosto. E una regione fredda e inospitale che solo con una buona dose di perversa amabilità può essere definita zona di villeggiatura estiva. Il Salzkammergut è freddo, in realtà, inospitale, puro veleno per ogni creatura sensibile. Nel Salzkammergut tutti senza eccezione sono affetti da malattie reumatiche e in età avanzata diventano curvi e sciancati. Bisogna essere molto forti per poterci vivere. Splendido per due o tre giorni, il Salzkammergut è rovinoso per chiunque intenda rimanerci più a lungo. Paul amava il Salzkammergut perché quelli erano i luoghi della sua infanzia, ma ora il Salzkammergut lo deprimeva sempre di più. Ci veniva da Vienna nella speranza di migliorare la propria situazione, e invece nel Salzkammergut questa situazione non faceva che peggiorare. Il Salzkammergut non era altro per lui che un peso ancora più brutale sulla sua anima oltre che sul suo corpo. Le passeggiate che ho fatto in quel periodo in sua compagnia nella zona intorno ad Altmùnster non gli hanno giovato affatto, certo, c’è ancora stata tra noi qualche conversazione ideale, ma dopo la morte della sua Edith tutto di colpo ha perso prospettiva, e comunque è stato diverso, come spezzato. Quando rideva, il suo riso era forzato. A prescindere dalla morte di sua moglie, donna da lui molto amata, Paul aveva comunque raggiunto un’età in cui tutto di colpo diventa assai più difficile. Nella stanza dov’eravamo seduti c’era un’aria così umida e stagnante che a me, benché fuori brillasse il sole, sembrava di dover morire asfissiato da un momento all’altro. Capivo bene come mai di solito, anziché abitare in quella casa, Paul trascorresse con sua moglie la maggior parte del tempo in una piccola pensione sulla strada principale del paese. Lì almeno non dovevano farsi tutto da sé, e dopo i sessant’anni non c’è nessuno che si faccia volentieri tutto da sé, e in fondo Edith è morta a poco meno di ottant’anni. Con mio fratello e con me, lo ricordo bene, Paul fece ancora, benché fosse assurdo, un’ultima gita in barca a vela sul Traunsee. Lui, mortalmente ammalato, era entusiasta come un ragazzo di trovarsi nel suo elemento, mentre io stramaledivo i cavalloni e la gita in barca in generale. Mio fratello, in seguito, incoraggiò Paul a fare altre gite con lui in barca a vela, ma la cosa non fu più possibile. In realtà anche quella l’aveva fatta in condizioni di debolezza eccessiva. Se è vero che quella prima gita in barca a vela con me e con mio fratello aveva ancora avuto il potere di renderlo felice mentre volteggiava sul lago, è anche vero che non appena sbarcò sulla riva, quella stessa gita ebbe il potere di deprimerlo, poiché egli comprese con chiarezza che era stata la sua ultima gita. È l’ultima volta, diceva in quel periodo, lo diceva spessissimo, in ogni occasione, e anzi questa espressione diventò per lui un’abitudine. Se in casa mia c’erano degli amici, lui faceva con questi amici e con me delle passeggiate, malvolentieri ma le faceva. Neanch’io sono un amante delle passeggiate, è una vita che faccio passeggiate solo malvolentieri, tutte le passeggiate le ho sempre fatte malvolentieri, eppure con gli amici le passeggiate le faccio, e addirittura in modo tale che essi credono che io sia un camminatore appassionato, in quanto il mio modo di camminare è di una teatralità che lascia sbalorditi. In realtà io non sono assolutamente un camminatore, né sono un amico o un conoscitore della natura. Ma ogni volta che ci sono degli amici, io cammino con loro in modo tale che essi credono che sia un camminatore, e un amante della natura, e un conoscitore della natura. Io non conosco affatto la natura e anzi la detesto perché essa mi ammazza. Io vivo in mezzo alla natura solo perché i medici mi hanno detto che se voglio sopravvivere occorre che io viva in mezzo alla natura, per nessun altro motivo.


Di fatto tutto io amo fuorché la natura, perché la natura mi rende inquieto e perché ho sperimentato sul mio corpo e sulla mia anima la malvagità e l’inesorabilità della natura, e siccome non riesco a contemplare le bellezze della natura se non unitamente alla sua malvagità e inesorabilità, io temo la natura e la evito quanto più mi è possibile. Sono un essere cittadino, io, e la natura me la sciroppo, me la sciroppo e basta, la verità è questa. Io vivo mio malgrado in campagna, quella campagna che grosso modo mi è soltanto ostile. E anche Paul, naturalmente, era un essere cittadino dalla testa ai piedi che come me in mezzo alla natura si sentiva ben presto totalmente stremato. Una volta avevo urgente bisogno della Neue Zürcher Zeitung, volevo leggere un saggio sulla Zaide di Mozart che era stato annunciato nella Neue Zürcher Zeitung e siccome, di questo ero convinto, la Neue Zürcher Zeitung la potevo trovare solamente a Salisburgo e cioè a ottanta chilometri da dove mi trovavo, per avere la Neue Zürcher Zeitung ho preso la macchina di una mia amica e sono partito con lei e con Paul alla volta di Salisburgo, la cosiddetta città del Festival di fama mondiale. A Salisburgo però non ho trovato la Neue Zürcher Zeitung. Allora mi è venuta l’idea di andare a prendere la Neue Zürcher Zeitung a Bad Reichenhall e dunque siamo arrivati fino a Bad Reichenhall, la stazione termale di fama mondiale. Ma poiché neanche a Bad Reichenhall ho trovato la Neue Zürcher Zeitung, tutti e tre insieme, più o meno profondamente delusi, abbiamo deciso di ripartire per Nathal. Ma poco prima di arrivare a Nathal, Paul ha sostenuto a un tratto che dovevamo raggiungere Bad Hall, altra stazione termale di fama mondiale dove certamente avremmo trovato la Neue Zürcher Zeitung e dunque il saggio sulla Zaide, e così in effetti siamo andati in macchina fino a Bad Hall che dista da Nathal ottanta chilometri. Ma neanche a Bad Hall abbiamo trovato la Neue Zürcher Zeitung. E poiché Steyr non è che a un passo da Bad Hall, venti chilometri, siamo passati anche da Steyr, ma neanche a Steyr abbiamo trovato la Neue Zürcher Zeitung. Poi abbiamo deciso di tentare la sorte a Wels, ma neanche a Wels abbiamo trovato la Neue Zürcher Zeitung. In tutto abbiamo percorso in macchina trecentocinquanta chilometri con l’unico intento di trovare la Neue Zürcher Zeitung che alla fine non siamo riusciti ad avere. Allora, completamente esausti, come ognuno può immaginare, siamo entrati in un ristorante di Wels per mangiare un boccone e distenderci un attimo, perché la caccia alla Neue Zürcher Zeitung ci aveva portati al limite estremo delle nostre risorse psichiche. Sotto diversi aspetti, mi viene in mente adesso nel ripensare alla vicenda della Neue Zürcher Zeitung, Paul e io ci somigliavamo abbastanza. Se non fossimo stati così totalmente esausti, saremmo certamente andati fino a Linz e fino a Passau, forse addirittura fino a Regensburg e a Monaco di Baviera, e in fin dei conti non avremmo avuto particolari problemi a comprare la Neue Zürcher Zeitung a Zurigo, semplicemente perché a Zurigo, così penso almeno, l’avremmo di sicuro trovata.


Siccome in tutti i posti che ho testé citato e dove in quel giorno ci siamo recati non abbiamo trovato la Neue Zürcher Zeitung perché in essi quel giornale non si trova neppure nei mesi estivi, non posso dire altro se non che i posti succitati sono dei miserabili posti di merda che meritano nella maniera più assoluta questo epiteto sconveniente. Se non un epiteto ancora più merdoso. Ed è allora che ho capito sino in fondo che un intellettuale non può vivere in un posto nel quale non si trovi la Neue Zürcher Zeitung. E pensare che la Neue Zürcher Zeitung la si trova tutto l’anno perfino in Spagna e in Portogallo e in Marocco, dappertutto la si trova, in ogni piccolo paese, basta che ci sia anche un solo, minuscolo albergo. E da noi no, invece! E allora, per il fatto che non avevamo trovato la Neue Zürcher Zeitung in tutti quei posti che si danno tanta importanza, Salisburgo compresa, ci è venuta una furia tremenda contro l’Austria, questo paese così arretrato, tronfio, grossolano, e nello stesso tempo afflitto da disgustosa megalomania. Dovremmo sempre fermarci solamente in posti dove uno possa almeno trovare la Neue Zürcher Zeitung, dissi io, e Paul fu d’accordo con me al cento per cento.


Ma allora in Austria non ci resta che Vienna, disse lui, perché in tutte le altre città che danno a intendere che in esse si trovi la Neue Zürcher Zeitung, questo giornale in verità non si trova. Non ogni giorno, comunque, e soprattutto non lo si trova quando più se ne sente la necessità e l’urgenza. A tutt’oggi, mi viene ora in mente, non mi è ancora capitato di trovare quel saggio sulla Zaide. È chiaro che il saggio l’ho scordato da tempo e che com’è ovvio sono sopravvissuto anche senza averlo letto. In quel momento però ero convinto di doverlo leggere al più presto. E Paul ha appoggiato la mia pretesa di ottenere a tutti i costi quel saggio, o meglio mi ha addirittura spinto alla ricerca di quel saggio, e cioè della Neue Zürcher Zeitung, attraverso metà dell’Alta Austria e fino in Baviera. Tutto questo, sottolineo, in una macchina scoperta che ci ha procurato un tenace raffreddore che è poi durato diverse settimane. E che soprattutto per parecchio tempo ha inchiodato, come si suol dire, Paul in un letto. Ho fatto con lui passeggiate di ore e ore lungo la riva del Traun che, partendo dalla cosiddetta diga di ritenuta sopra Steyrermühl, a due chilometri di distanza da casa mia, è un vero e proprio parco, sebbene ancora per poco, come so, per il pelo sullo stomaco e l’avidità di denaro dei suoi proprietari che l’hanno già fatto dividere in piccoli lotti, ed è un parco unico nel suo genere, che si estende per tredici chilometri fino al Traunsee costeggiando il vivaio di trote che il celebre signor Ritz ha definito il più importante del mondo. In quella che vien chiamata una dolce penombra, avvolti dalla meravigliosa frescura che saliva dal fiume, riprendemmo come se niente fosse le nostre conversazioni di un tempo, e ciò che adesso ovviamente interessava Paul, in piena conformità con la sua evoluzione, non era più la grande opera lirica, ma la cosiddetta musica da camera. Si era come ritratto anche intellettualmente dai grandi Teatri dell’Opera. Anziché di Saljapin e di Gobbi, di Di Stefano e della Simionato, egli parlava adesso di Thibaud e di Casals e della loro arte. Dei quartetti Julliard e Amadeus, e del Trio di Trieste che amava tanto. Di quello che fa Arturo Benedetti Michelangeli in contrasto con Pollini, Rubinstein in contrasto con Arrau e Horowitz, eccetera eccetera. Paul era adesso, come si suol dire, segnato dalla morte. Io l’ho conosciuto per più di dieci anni e in tutto quel tempo Paul è sempre stato mortalmente ammalato e segnato dalla morte. Sul Wilhelminenberg, come ho già detto, avevamo in silenzio suggellato per sempre la nostra amicizia seduti sulla panchina dove lui aveva detto soltanto grottesco, grottesco. Adesso era difficile immaginare che solo tredici o quattordici anni prima, per seguire una donna che amava, una soprano americana che aveva cantato nelle parti della Regina della notte e di Zerbinetta in quasi tutti i grandi teatri lirici del mondo, Paul era andato anche lui in giro per il mondo e alla fine però aveva rinunciato a quella donna e si era dovuto accontentare di vagheggiarla. Era impossibile immaginare che in un tempo neanche tanto lontano Paul aveva potuto frequentare i più celebri autodromi d’Europa, lui stesso prendere parte a gare automobilistiche ed essere un velista di prima grandezza. Al giorno d’oggi era impossibile immaginare che mai, per decenni e decenni, nemmeno per una notte, Paul era andato a letto prima delle tre o delle quattro del mattino perché passava quasi tutta la notte nei bar più celebri d’Europa. E così pure che una volta era stato scritturato come ballerino professionista in una pubblica sala da ballo, a dispetto di ogni regola e principio dei Wittgenstein. Che entrava e usciva con estrema disinvoltura e un’aria da padrone dai migliori alberghi di tutta Europa, la vecchia ma poi anche la nuova Europa. E impossibile al giorno d’oggi era anche immaginare che proprio lui era stato l’uomo che aveva sottolineato con le sue grida e i suoi fischi i momenti più alti e le cadute più clamorose del Teatro dell’Opera di Vienna. Tutto ciò che Paul ha sperimentato nel corso della vita era diventato impossibile da immaginare nei suoi ultimi, tristissimi anni. A Nathal, seduto accanto a me sul muretto del cortile nell’ora del crepuscolo, calcolava tra sé quante volte era stato a Parigi, quante volte a Londra e quante volte a Roma, quante migliaia di bottiglie di champagne aveva bevuto, quante donne aveva sedotto e quanti libri poteva aver letto. Poiché questa esistenza che appare superficiale l’ha vissuta un uomo che non era superficiale affatto, anzi tutt’altro. Non c’era argomento, si può dire, in relazione al quale egli avesse mai dimostrato la benché minima difficoltà a seguire o a continuare un mio pensiero, al contrario spesso era stato lui a mettere in imbarazzo me perfino negli ambiti di mia precipua competenza e nei quali ero convinto di muovermi come un pesce nell’acqua; spesso, insomma, mi dava dei punti sul mio terreno. Molto spesso, così ho pensato, lui è il filosofo, non io, lui è il matematico, non io, lui è l’esperto, non io. A parte il fatto che in campo musicale non c’era quasi niente che non fosse immediatamente presente al suo spirito e che non fosse, se non altro, occasione e pretesto per un interessante dibattito. E inoltre, come se non bastasse, possedeva una capacità straordinaria di coordinare tutto ciò che attiene a questa disciplina sotto il profilo intellettuale e artistico in genere. D’altra parte tutto era Paul fuorché un conversatore, e men che meno un parolaio, in un mondo che sembrerebbe invece fatto soltanto di conversatori e di parolai. Un giorno, forse sotto l’influsso di qualcosa che lui mi aveva raccontato a proposito della sua vita, e i suoi racconti erano assolutamente fuori del comune, io gli diedi il suggerimento di mettere per scritto e di non permettere che col passare del tempo si perdessero nel nulla tutte quelle cose che lui era venuto raccontandomi con un sostrato filosofico, per così dire, veramente solidissimo. Ma mi ci vollero degli anni a persuaderlo della opportunità di mettere per scritto le sue esperienze e le sue avventure, che chiunque in effetti troverebbe interessanti. Per far questo, disse, doveva prima comprarsi una risma di carta e poi allontanarsi dal suo ambiente, e cioè dalle grinfie di tutto quel suo stupido parentado che era nemico dello spirito e dell’arte, nonché, naturalmente, da tutti quegli alloggi che i Wittgenstein avevano costruito in odio allo spirito e all’arte, e prendere una stanza da qualche parte che fosse adatta allo scopo e in cui nessuno potesse scovarlo. Fu così che andò a stare in una piccola locanda fuori Traunkirchen. Ma dopo il primo tentativo aveva già rinunciato. In seguito, all’improvviso, un anno prima di morire, decise in effetti di assumere una segretaria per dettarle quella che lui chiamava la sua curiosa esistenza. Tuttavia, non foss’altro per il fatto che negli ultimi anni della sua vita i mezzi finanziari a sua disposizione erano scarsissimi, questo tentativo com’è ovvio fallì più o meno miseramente. A questa segretaria, come so da lei stessa oltre che da Paul, egli aveva promesso un patrimonio se lei si fosse fatta dettare da lui la sua curiosa esistenza, una ricchezza immensa le avrebbe dato Paul, in quanto si era detto persuaso che le sue povere memorie, così lui, sarebbero state in tutto il mondo un successo inaudito. Comunque dieci o quindici pagine è riuscito a metterle insieme. In fondo è possibile che Paul non avesse torto quando sosteneva che nel caso in cui avesse scritto le sue memorie, queste avrebbero avuto un successo inaudito, sto citando le sue parole, e infatti si può ben supporre che un libro del genere sarebbe stato un successo inaudito perché non ho dubbi che Paul avrebbe scritto veramente quel che si dice un libro unico, ma il fatto è che Paul non era il tipo da vivere completamente isolato per un anno almeno con l’intento di portare a termine un simile progetto. I Wittgenstein, quando si trattava dei loro affari, hanno sempre pensato con i milioni come unità di misura, ed è quindi più che naturale che anche Paul, la pecora nera della famiglia, pensasse ai milioni in relazione alle memorie che avrebbe potuto dettare e poi dare alle stampe. Scriverò più o meno trecento pagine, diceva, e trovare un editore non sarà difficile. Pensava che ci avrei pensato io a portare il suo manoscritto all’editore giusto. La sua sarebbe stata una biografia filosofica da cima a fondo, niente fandonie, come lui stesso si esprimeva. In effetti io lo vedevo spessissimo mentre teneva sotto braccio dei fogli su cui già aveva scritto qualcosa, ed è del tutto verosimile che abbia scritto di più di quanto ci è rimasto, è perfino possibile che durante uno dei suoi attacchi, assai frequenti peraltro, abbia distrutto lui stesso parti cospicue di un manoscritto in uno stato, stato mentale, intendo, di radicale autocritica, e anzi, per come io l’ho conosciuto, è proprio questa l’ipotesi che ritengo più plausibile. Come pure è verosimile che le cose scritte da Paul siano invece andate perdute in tutt’altra maniera, una maniera per così dire antiartistica e antifilosofica che le ha, come si suol dire, tolte di mezzo. Perché è difficile figurarsi che per almeno due anni di seguito Paul si sia occupato sempre e soltanto delle stesse dieci o undici pagine che si portava dietro dappertutto, sia a Vienna sia in riva al Traunsee. Ma chi potrà mai dirci quel che è successo davvero? Nella cerchia degli amici, così diceva Paul quando gli capitava di essere di nuovo informa, era lui lo scrittore migliore, assai migliore di me, poiché di me pensava, pur ammirandomi, che non potevo neanche paragonarmi a lui, ero stato, questo sì, il suo modello, per l’arte letteraria e per il filosofare, ma lui era andato ben oltre, oltre me e oltre i miei pensieri, da molto tempo si era reso autonomo e mi aveva superato. Quando avesse pubblicato il suo libro, il mondo letterario, così lui, non sarebbe più stato capace di riaversi dallo stupore. Verso la fine della vita, e dunque in una situazione di angoscia per tutti quelli che scrivono, siccome senza dubbio gli riusciva più facile che scrivere in prosa, egli compose, con la mano sinistra, per così dire, parecchie poesie in rima di una assurdità e comicità veramente irresistibili. Lui stesso soleva leggere a voce alta, davanti a chi non importa, in genere poco prima di essere per l’ennesima volta ricoverato in uno dei suoi manicomi, la più lunga di queste sue burle in rima. Esiste un cosiddetto nastro registrato di questa poesia che ha per protagonisti lui stesso e il Faust di Goethe, e chiunque lo ascolti ne ricava un divertimento supremo ma anche un profondissimo turbamento. Potrei ora sciorinare, ma non intendo farlo, una serie di aneddoti su Paul, ne conosco a centinaia, anzi a migliaia di cui Paul è stato il protagonista, aneddoti celebri nella cosiddetta alta società viennese che è stata la sua società e che notoriamente si nutre da secoli di aneddoti e nient’altro. Irrequieto, costantemente con i nervi a fior di pelle, Paul era un uomo continuamente incontrollato. Era anche un meditativo, tenace nel filosofare, tenace nell’accusare. Osservatore incredibilmente esercitato il cui metodo di osservazione si è col tempo trasformato in una vera arte, guardava tutto e tutti con grandissima spietatezza e aveva dunque costantemente degli ottimi motivi per lanciare le sue accuse. Niente e nessuno sfuggiva alle sue accuse. Le persone che capitavano sotto il suo sguardo non venivano risparmiate se non per un tempo brevissimo, ben presto attiravano su di sé un sospetto e venivano da lui incolpate di un delitto o almeno di una mancanza, e fustigate con parole che sono le stesse parole che uso anch’io quando insorgo e quando mi difendo, quando sono costretto a dare battaglia contro il mondo e la sua sfrontatezza se non voglio soccombere, se non voglio essere annientato dal mondo. D’estate la terrazza del Sacher era il nostro luogo d’incontro abituale, era lì che passavamo la maggior parte del nostro tempo a lanciare accuse. Qualsiasi cosa o persona ci capitasse davanti agli occhi, noi l’accusavamo. Passavamo ore e ore sulla terrazza del Sacher ad accusare cose e persone. Seduti davanti a una tazza di caffè, non facevamo che accusare l’universo mondo dalla testa ai piedi. Seduti sulla terrazza del Sacher, mettevamo in moto il nostro ben rodato meccanismo accusatorio dietro il culo dell’Opera, come diceva Paul, perché chi è seduto sulla terrazza davanti al Sacher e guarda dritto di fronte a sé vede il lato posteriore dell’Opera. Definizioni come culo dell’Opera gli davano soddisfazione benché sapesse perfettamente che con quel termine non indicava nient’altro che la parte posteriore del Teatro sul Ring da lui amato come niente al mondo e dal quale, per vari decenni, aveva tratto più o meno tutto ciò che gli occorreva per sopravvivere. Per ore e ore stavamo seduti sulla terrazza del Sacher a osservare la gente che passeggiava avanti e indietro. In effetti ancora oggi non conosco praticamente spasso più grande (a Vienna) che star seduto d’estate sulla terrazza del Sacher a osservare l’andirivieni della gente. E siccome in generale non conosco spasso più grande che osservare la gente, osservarla mentre sono seduto sulla terrazza del Sacher è un piacere particolarmente raffinato che Paul ha condiviso molte volte con me. Ai fini delle nostre osservazioni, il signor barone ed io avevamo scelto un angolino particolarmente propizio da dove potevamo vedere tutto ciò che volevamo vedere senza che nessuno ci vedesse a sua volta. Quando passeggiavo con lui nel cosiddetto centro storico della città, mi stupivo nel vedere quanti erano i conoscenti di Paul e con quanti di questi conoscenti egli aveva altresì dei legami di parentela. Della sua famiglia non parlava quasi mai, e quelle rare volte solo per dire che lui in fondo con la sua famiglia non voleva avere più niente a che fare, come del resto la famiglia non voleva avere più niente a che fare con lui. Di tanto in tanto nominava la sua nonna ebrea che per suicidarsi si è gettata dalla finestra della sua casa prospiciente il Neue Markt, e sua zia Irmina che in epoca nazista era stata una cosiddetta dirigente delle massaie rurali del Reich e che anch’io ho conosciuto essendo andato diverse volte nella sua casa in collina proprio sopra il Traunsee. Quando Paul diceva i miei fratelli era come se dicesse i miei torturatori, solamente di una sorella che viveva a Salisburgo parlava con affetto. Si era sempre sentito minacciato e abbandonato dalla sua famiglia della quale aveva sempre detto che era una famiglia nemica dell’arte e dello spirito, e soffocata dai suoi stessi milioni. Ma in fin dei conti era stata quella famiglia ad aver messo al mondo Ludwig e Paul. Ed era stata ancora quella famiglia che aveva respinto sia Ludwig sia Paul nel momento in cui le era parso più opportuno. Seduto in compagnia del mio amico sul muretto del cortile di casa mia a Nathal, che cammino straordinario, pensavo, ha fatto Paul per oltre settant’anni. Fortunato e protetto come di più non si può, pensavo, è cresciuto in un’Austria dalle risorse per così dire inesauribili, ha frequentato naturalmente il celebre Theresianum, ma poi si è scelto con piena consapevolezza una strada sua, opposta a quella della famiglia, si è buttato dietro le spalle quelli che a una considerazione superficiale sono stati i valori tipici della famiglia Wittgenstein, ricchezza, cioè, fortuna e protezione, per cercare la propria salvezza in una esistenza per così dire intellettuale. Paul aveva, penso proprio che si possa dirlo, precocemente tagliato i ponti, esattamente come suo zio Ludwig decine di anni prima, e si era quindi lasciato alle spalle tutto ciò che in fin dei conti aveva fatto di loro, di lui ma anche di suo zio, ciò che essi in effetti sono stati e in tal modo era diventato un’onta per la famiglia come già prima era successo a suo zio Ludwig. Mentre Ludwig era diventato un’onta perché filosofo, Paul diventò un’onta perché pazzo, e non è affatto detto che il filosofo possa essere chiamato filosofo soltanto se, come Ludwig, mette per scritto e pubblica la sua filosofia, egli è definibile come filosofo anche se non ha mai pubblicato niente di ciò che è andato filosofando, e dunque anche se non ha mai scritto né pubblicato una riga. La pubblicazione non fa altro che rendere perspicuo qualcosa e creare un certo rumore intorno a questo qualcosa che è stato reso perspicuo e che, se non venisse pubblicato, non potrebbe essere perspicuo né fare alcun rumore. Ludwig era il divulgatore per eccellenza (della sua filosofia), Paul il non divulgatore per eccellenza (della sua filosofia), e come Ludwig è stato in ultima analisi il divulgatore nato (della sua filosofia), così Paul è stato il non divulgatore nato (della sua filosofia) Eppure sia l’uno sia l’altro sono stati, ciascuno a modo suo, dei grandi pensatori, sempre stimolanti, eccentrici e sovvertitori a tal punto che la loro epoca, e non solo quella, può essere fiera di loro. Naturalmente è un peccato che Paul non ci abbia lasciato come Ludwig prove scritte, stampate, e dunque accessibili al pubblico della sua filosofia, mentre di suo zio Ludwig di queste prove ne abbiamo a iosa, in mano e nella nostra mente. Ma stabilire un confronto fra Ludwig e Paul è del tutto insensato. Io con Paul non ho mai parlato di Ludwig, e men che meno della sua filosofia. Solo di tanto in tanto, e piuttosto inopinatamente, Paul mi diceva: Tu conosci certamente mio zio Ludwig. Non una parola di più. Mai, neanche una sola volta, abbiamo menzionato il Tractatus nelle nostre conversazioni. Una volta però, una volta soltanto, Paul mi disse che suo zio Ludwig era il più pazzo di tutta la famiglia. Non sembra anche a te una vera perversione un multimilionario che fa il maestro in un piccolo villaggio"? mi domandò Paul. Ancora oggi non saprei dire quale fu la vera relazione che Paul stabilì con suo zio Ludwig. È un argomento sul quale non ho mai interrogato Paul. Ignoro perfino se lui e suo zio si siano mai visti in faccia. So soltanto che Paul ha sempre difeso suo zio Ludwig quando la famiglia Wittgenstein gli ha dato addosso, o quando addirittura si è fatta beffe del filosofo Ludwig Wittgenstein che, a quanto io so, è stato sempre, vita natural durante, motivo di imbarazzo per la sua famiglia. Ludwig Wittgenstein, non meno di Paul Wittgenstein, è sempre stato agli occhi dei suoi familiari un matto patentato di cui gli stranieri, avvezzi da sempre a dare ascolto a ogni balordaggine, hanno decretato la grandezza. Con divertita sufficienza e scuotendo il capo essi sostenevano che il mondo si era fatto infinocchiare dal loro matto di famiglia e che gli inglesi lo avevano reso celebre decidendo di punto in bianco che era un gigante dello spirito. I Wittgenstein, nella loro protervia, hanno sempre rifiutato il loro filosofo e anzi lo hanno penalizzato fino ai giorni nostri con il loro disprezzo. Ancora oggi, come del resto in Paul, essi non vedono in Ludwig nient’altro che un traditore. Così come hanno fatto per Paul, anche per Ludwig hanno deciso l’espulsione. Come si sono vergognati di Paul fino a quando questi non ha tirato le cuoia, così fino a oggi si sono vergognati di Ludwig, la verità è questa, e neppure la fama che Ludwig si è conquistato nel frattempo è riuscita a intaccare il loro persistente disprezzo per il filosofo, in un paese, tra l’altro, in cui Ludwig Wittgenstein non conta in realtà quasi niente e dove ancora oggi non lo conosce quasi nessuno. I viennesi, la verità è questa, non hanno a tutt’oggi riconosciuto nemmeno Sigmund Freud, neanche di Freud hanno preso veramente coscienza, e questo è un fatto che va ascritto alla loro perfidia. La stessa cosa si può dire a proposito di Wittgenstein. L’espressione mio zio Ludwig era sempre pronunciata con il più grande rispetto da Paul che tuttavia non si arrischiò mai a svilupparla e preferì, segnato com’era dallo stesso destino di suo zio, non spingersi oltre. In verità, il suo rapporto con quello zio che in Inghilterra è diventato un grand’uomo non mi è mai stato chiaro. La mia relazione con Paul, che ha avuto inizio nella stanza della Blumenstockgasse dove abitava la nostra comune amica Irina è stata com’è ovvio una relazione difficile, un amicizia non priva di quotidiani ripensamenti e quotidiane riprese, e col passare del tempo si è dimostrata estremamente faticosa, sebbene continuamente cementata dai suoi alti, dai suoi bassi, nonché dalle sue prove di amicizia. Mi viene ora in mente, tanto per fare un esempio, la parte avuta da Paul durante il cosiddetto conferimento a me del Premio Grillparzer. Come lui sia stato l’unico, se si eccettua la persona della mia vita, a capire fino in fondo la scaltra insensatezza dell’intera faccenda e abbia dato di quella grottesca cerimonia la giusta definizione: una perfidia genuinamente austriaca. Ricordo che per l’assegnazione di questo premio all’Accademia delle Scienze mi sono comprato un abito nuovo in quanto mi ero convinto che solo con un abito nuovo avrei potuto varcare la soglia dell’Accademia delle Scienze, e allora, in compagnia della persona della mia vita, sono entrato in un negozio di confezioni del Kohlmarkt dove ho scelto un abito adatto, che ho provato e poi tenuto addosso. Il mio abito nuovo era grigio, grigio antracite, e io pensavo che con quel nuovo abito grigio antracite avrei potuto fare meglio la mia parte all’Accademia delle Scienze che non con l’abito che indossavo prima. Ancora alla mattina del giorno in cui mi fu conferito il premio, consideravo il conferimento di questo premio un avvenimento importante. Cadeva in quel giorno il centesimo anniversario della morte di Grillparzer, e a me sembrava un evento sensazionale che proprio nel centesimo anniversario della morte di Grillparzer io venissi insignito del Premio Grillparzer. Ma guarda, pensavo, i miei compatrioti austriaci, che fino a oggi mi hanno sempre trattato come una pezza da piedi, ora mi fanno addirittura l’onore di attribuirmi il Premio Grillparzer, e mentre pensavo questo ero davvero convinto di aver raggiunto una vetta. Probabilmente la mattina di quel giorno le mani mi tremavano e forse anche la fronte mi scottava. Il fatto che gli austriaci, i quali fino ad allora mi avevano soltanto o ignorato o coperto di ingiurie, di punto in bianco mi conferissero adesso il loro premio più prestigioso equivaleva ai miei occhi a una definitiva riparazione. Non senza fierezza, dopo essere uscito dal negozio di confezioni con addosso il mio abito nuovo, attraversai il Kohlmarkt per raggiungere l’Accademia delle Scienze, mai in vita mia ho attraversato il Kohlmarkt, ho percorso il Graben e sono passato davanti al monumento di Gutenberg con tanta euforia. Ero euforico, certo, ma non posso dire che nell’abito nuovo mi sentivo a mio agio. È sempre un errore comprare un capo di vestiario sotto la vigilanza, per così dire, e in compagnia di qualcuno, e infatti, avendo ancora una volta commesso questo errore, l’abito nuovo mi andava troppo stretto. Però questo abito mi deve star bene, pensavo, e intanto ero arrivato davanti all’Accademia delle Scienze con la persona della mia vita e con Paul. Se prescindo dal denaro che recano, le premiazioni sono quanto di più insopportabile esista sulla faccia della terra, questa esperienza l’avevo già fatta in Germania, e lungi dall’esaltare la persona come pensavo quando ancora non avevo ricevuto il mio primo premio, esse mortificano la persona, e in modo tra l’altro che non potrebbe essere più degradante. Solo perché pensavo costantemente al denaro che mi avrebbero portato, sono riuscito a tollerare le premiazioni, solo per questo motivo sono entrato in tanti antichi palazzi municipali e in tutte quelle sale di ricevimento di pessimo gusto. Fino a quarant’anni. Fino ad allora mi sono in effetti sottoposto all’umiliazione di ricevere dei premi. Fino a quarant’anni. Mi sono lasciato cagare in testa nei municipi e nelle sale di ricevimento, perché il conferimento di un premio è solamente cacca, cacca che ti arriva in testa. Accettare il conferimento di un premio altro non significa che lasciarsi cagare in testa perché in cambio si è ottenuta una certa somma di denaro. Io ho sempre vissuto le premiazioni come l’umiliazione più grande che si possa immaginare, non certo come qualcosa di esaltante. Perché un premio viene conferito sempre e soltanto da persone incompetenti che hanno una gran voglia di cagare in testa a qualcuno e che in effetti cagano abbondantemente in testa a colui che accetta un premio dalle loro mani. Ed essi hanno tutti i diritti di cagare in testa a questa persona che è stata così abietta e spregevole da accettare quel premio dalle loro mani. Solo in caso di estrema necessità, quando la vita e la sussistenza sono in pericolo, e comunque non oltre i quarant’anni, uno ha il diritto di accettare onorificenze o premi di qualsiasi genere, non importa se legati o no a una somma di denaro. Io ho accettato i miei premi benché non mi trovassi in condizioni di estrema necessità e quando la mia vita e la mia sussistenza non erano in pericolo, e perciò sono diventato un essere abietto e spregevole, e dunque ripugnante nel senso più vero di questa parola. Eppure, mentre mi stavo recando alla cerimonia di assegnazione del Premio Grillparzer, pensavo che questa volta tutto era diverso. Al Premio Grillparzer non è legato un assegno. L’Accademia delle Scienze è qualcosa, pensavo, e così pure il suo premio, questo pensavo sulla strada che mi portava all’Accademia delle Scienze. E quando noi tre, la persona della mia vita, Paul e io arrivammo davanti all’Accademia delle Scienze, pensavo che quel premio facesse eccezione perché il suo nome è Premio Grillparzer e perché viene conferito dall’Accademia delle Scienze. E in effetti lungo la strada che mi portava all’Accademia delle Scienze pensavo che con ogni probabilità sarei stato ricevuto secondo le regole della buona creanza, già davanti, pensavo, all’Accademia delle Scienze, con il rispetto che mi era dovuto. Ma nessuno venne ad accogliermi. Dopo un’attesa con i miei di un buon quarto d’ora nella sala d’ingresso dell’Accademia delle Scienze senza che nessuno mi riconoscesse e men che mai mi accogliesse, sebbene sia io sia i miei non avessimo cessato neanche per un istante di guardarci intorno, nessuno in realtà si era accorto della mia presenza e la gente già affluiva numerosa da ogni direzione per prendere posto nella sala ormai gremita della premiazione, d’accordo, pensai, faccio una cosa semplicissima, entro con i miei nella sala della premiazione come gli altri che già sono entrati. E subito mi era venuta l’idea di sedermi proprio al centro della sala dove vedevo ancora qualche posto libero, e così feci, infatti, e con i miei ci accomodammo. Nel momento in cui ci mettemmo a sedere, la sala della premiazione era già piena zeppa, e perfino la signora ministro occupava il posto che le era stato assegnato in prima fila subito sotto la pedana. I musicisti della Filarmonica già pizzicavano nervosamente i loro strumenti e il presidente dell’Accademia delle Scienze, che si chiamava Hunger 1 correva agitatissimo avanti e indietro sulla pedana, ma nessuno tranne me e i miei sapeva per quale motivo la cerimonia non poteva incominciare. Parecchi membri dell’Accademia correvano avanti e indietro sulla pedana cercando con gli occhi il protagonista della cerimonia. Perfino la signora ministro si era voltata e faceva girare lo sguardo da una parte all’altra della sala. Ad un tratto un signore che si trovava sulla pedana vide che io ero seduto proprio al centro della sala e allora bisbigliò qualcosa all’orecchio del presidente Hunger e poi, lasciata la pedana, si diresse verso di me. Non fu facile per lui farsi strada fino a me che mi trovavo nel centro della sala, proprio in mezzo a una fila occupata interamente da altre persone. Tutti quelli che sedevano in questa fila furono costretti ad alzarsi in piedi, ciò che fecero con riluttanza e, come potei notare, lanciandomi sguardi di fuoco. Io pensai che avevo avuto davvero una perfida idea a volermi accomodare proprio lì, nel centro della sala, perché il signore che stava venendo verso di me, un membro dell’Accademia delle Scienze naturalmente, non riuscì a raggiungermi se non con grande fatica.


E chiaro, pensai in quel momento, che qui tranne questo signore non ti ha riconosciuto proprio nessuno. Adesso, dato che il signore era arrivato fino a me, tutti mi guardavano, e come mi guardavano! Coi loro sguardi pieni di astio sembrava che mi volessero trafiggere.


Un’accademia che mi dà il suo premio senza neanche conoscermi e che, soltanto perché io non mi sono fatto riconoscere, mi lancia sguardi pieni di astio quasi a volermi trafiggere, un’accademia cosiffatta avrebbe meritato che io mi comportassi in maniera ancora più perfida. Finalmente il signore richiamò per così dire la mia attenzione sul fatto che il posto che mi spettava non era quello in cui mi trovavo, bensì in prima fila, accanto alla signora ministro, e che facessi il piacere, perciò, di andare subito in prima fila e di mettermi a sedere accanto alla signora ministro. Io non diedi retta a questo signore perché lui mi aveva rivolto il suo invito con un tono così arrogante, spiacevole, e in fondo così disgustosamente sicuro della mia cieca ubbidienza, che io, per non perdere il rispetto di me stesso, dovetti rifiutarmi di uscire con lui dalla fila per raggiungere la pedana. Che venisse da me il signor Hunger in persona, dissi. Non una persona qualsiasi doveva chiedermi di raggiungere la pedana, protestai, se proprio volevano che io mi alzassi, doveva chiedermelo il presidente dell’Accademia delle Scienze in persona. Insomma, mi era venuta una grandissima voglia di alzarmi in piedi e di lasciare senza premio l’Accademia delle Scienze. Ma invece rimasi seduto. Mi ero chiuso da solo nella gabbia. Avevo fatto dell’Accademia delle Scienze la mia gabbia. Non avevo vie d’uscita. Alla fine il presidente dell’Accademia venne da me, e allora io raggiunsi la pedana col presidente dell’Accademia e mi misi a sedere accanto alla signora ministro. Proprio nel momento in cui mi misi a sedere accanto alla signora ministro, il mio amico Paul non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una risata che mise a soqquadro tutta la sala e durò fino a quando l’Orchestra da camera della Filarmonica incominciò a suonare. Ci furono un paio di discorsi su Grillparzer e qualche parolina su di me, tra una cosa e l’altra gli oratori parlarono per un’ora, e dunque, come sempre in queste circostanze, per troppo tempo e dicendo com’è ovvio soltanto scempiaggini. Durante i loro discorsi la signora ministro dormiva, anzi, come potei sentire distintamente, russava, e non si svegliò se non quando l’Orchestra da camera della Filarmonica riprese a suonare. Quando la cerimonia fu terminata, la gente si affollò sulla pedana attorniando la signora ministro e il presidente Hunger. A me, invece, nessuno badava più. Siccome non avevo subito lasciato con i miei la sala della premiazione, feci ancora in tempo a sentire che la signora ministro di punto in bianco esclamava: Ma insomma, dov’è finito lo scrittorello? A questo punto ne ebbi veramente abbastanza e lasciai l’Accademia delle Scienze più in fretta che potei. Non prendere un soldo e in più farsi cagare in testa mi sembrò in quel momento assolutamente intollerabile. Andai fuori di corsa, quasi dovetti trascinare i miei, e ancora ho nelle orecchie le parole che Paul mi disse quando fummo per strada: Hai permesso che quella gente ti adoperasse! Ti hanno cagato in testa! E vero, pensai, ti hanno cagato in testa. Oggi, ancora una volta, ti hanno cagato in testa, come sempre ti è successo in passato. Ma tu, pensai, hai lasciato che ti cagassero in testa e per di più nell’Accademia delle Scienze di Vienna. Prima di raggiungere il Sacher in compagnia dei miei per digerire davanti a un succulento Tafelspitz l’aberrante procedura di quella premiazione, passai nel negozio di confezioni sul Kohlmarkt dove prima della cerimonia mi ero comprato il mio abito nuovo. L’abito mi stava troppo stretto e ne volevo uno nuovo, dissi nel negozio, e lo dissi con una tale sfrontata perentorietà che i commessi non osarono replicare una sola parola e subito mi permisero di scegliere un altro abito. Ne provai due o tre che da solo mi tirai giù dagli armadi, e mi decisi per quello in cui stavo più comodo. Lo tenni addosso, pagai una piccola differenza, e non appena fui di nuovo per strada pensai che di lì a non molto un’altra persona avrebbe indossato lo stesso abito con il quale io mi ero presentato al cosiddetto conferimento del Premio Grillparzer all’Accademia delle Scienze, e con quell’abito addosso, la cosa mi divertiva, sarebbe andato in giro per Vienna.