domani
Introduzione
I testi qui riuniti, benché nati per la maggior parte in diverse circostanze particolari, sono stati tutti concepiti con l'idea che un giorno sarebbero stati legati gli uni agli altri in un unico libro-saggio, bilancio delle mie riflessioni sull'arte del romanzo.
(Devo sottolineare che non ho la minima ambizione di fare della teoria e che tutto il libro non è altro che la confessione di uno che fa della pratica? L'opera di ogni romanziere contiene implicitamente una visione della storia del romanzo., un'idea di che cos'è il romanzo; ed è proprio quest'idea, insita nei miei romanzi, che ho cercato di far parlare).
La denigrata eredità di Cervantes espone la mia concezione personale del romanzo europeo e apre questo “saggio in sette parti”.
Qualche anno fa, una rivista newyorkese, “The Paris Review”, chiese a Christian Salmon di intervistarmi su me stesso e sulle mie abitudini di scrittore. L'incontro si trasformò rapidamente in un dialogo sulle mie esperienze pratiche con l'arte del romanzo. Ne ho fatto due testi indipendenti, il primo dei quali, Dialogo sull'arte del romanzo, è diventato la seconda parte di questo libro.
In occasione della nuova edizione dei Sonnambules presso le edizioni Gallimard, desideroso di far scoprire Broch al pubblico francese, ho pubblicato sul “Nouvel Observateur” l'articolo Le testament des “Sonnambules”. Ho rinunciato ad inserirlo in questo libro in seguito alla pubblicazione dell'eccellente Introduction à Hermann Broch di Guy Scarpetta. Nondimeno, essendo I sonnambuli un libro per me imprescindibile che occupa, nella mia personale storia del romanzo, una posizione di primo piano, ho scritto, come terza parte, Note ispirate dai “Sonnambuli”, una serie di riflessioni le quali più che un'analisi di quest'opera, vogliono essere una dichiarazione di tutto quanto io devo, di tutto quanto noi dobbiamo, ad essa.
Il secondo colloquio con Christian Salmon, Dialogo sull'arte della composizione, tratta, prendendo spunto dai miei romanzi, dei problemi artistici, “artigianali”, del romanzo, e in particolare della sua architettura.
In qualche posto là dietro è il compendio delle mie riflessioni sui romanzi di Kafka.
Sessantasei parole raccoglie le parole-chiave che attraversano i miei romanzi, e le parole-chiave della mia estetica del romanzo.
Nella primavera del 1985, ho ricevuto il Premio Gerusalemme. Padre Marcel Dubois, domenicano e professore dell'Università di Gerusalemme, ha letto l'encomio in inglese con forte accento francese; io, con un forte accento ceco, in francese ho letto il mio discorso di ringraziamento, sapendo che avrebbe costituito l'ultima parte di questo libro, il punto di arrivo della mia riflessione sul romanzo e sull'Europa. Non avrei potuto leggerlo in un ambiente più europeo, più cordiale, più caro.
I
La denigrata eredità
di Cervantes
1
Nel 1935, tre anni prima di morire, Edmund Husserl tenne, a Vienna e a Praga, alcune famose conferenze sulla crisi dell'umanità europea. L'aggettivo “europeo” designava per lui quell'identità spirituale che si estende al di là dell'Europa geografica (all'America, per esempio) e che è nata con la filosofia greca classica. Questa, secondo lui, per la prima volta nella Storia, intese il mondo (il mondo nel suo insieme) come una questione da risolvere. Lo interrogava non per soddisfare questo o quel bisogno pratico, ma perché l'umanità era “pervasa dalla passione del conoscere”.
Così profonda sembrava a Husserl questa crisi, che egli si chiedeva se l'Europa fosse ancora in grado di sopravviverle. Le radici della crisi erano per lui situabili all'inizio dei Tempi moderni, in Galileo e in Descartes, nel carattere unilaterale delle scienze europee, che avevano ridotto il mondo a un semplice oggetto di esplorazione tecnica e matematica e avevano escluso dal loro orizzonte il mondo concreto della vita, die Lebenswelt, come egli diceva.
Il progresso scientifico aveva spinto l'uomo nei tunnel delle discipline specializzate. Più aumentava il suo sapere, più egli perdeva di vista tanto l'insieme del mondo quanto se stesso, affondando così in quello che Heidegger, discepolo di Husserl, chiamava, con una formula bella e quasi magica, “l'oblio dell'essere”.
Quello stesso uomo che Descartes aveva eretto un tempo a “signore e padrone della natura” diventa una semplice cosa per le forze (della tecnica, della politica, della Storia) che lo superano, lo travalicano, lo possiedono. Il suo essere concreto, il suo “mondo della vita” (die Lebenswelt) per queste forze non ha più nessun valore e nessun interesse: è eclissato, è già caduto nell'oblio.
2
Credo però che sarebbe ingenuo considerare la severità di questa visione dei Tempi moderni come una semplice condanna. Direi piuttosto che i due grandi filosofi hanno svelato l'ambiguità di un'epoca che è insieme degradazione e progresso e che, come tutto ciò che è umano, contiene il germe della sua fine nella sua stessa nascita. Tale ambiguità non avvilisce ai miei occhi gli ultimi quattro secoli della storia europea, ai quali anzi mi sento tanto più legato in quanto non sono un filosofo, ma un romanziere. Io penso, infatti, che fondatore dei Tempi moderni non sia solo Descartes, ma anche Cervantes.
Forse proprio di lui i due fenomenologi non hanno tenuto il dovuto con nel giudicare i Tempi moderni. Intendo dire: se è vero che la filosofia e le scienze hanno dimenticato l'essere dell'uomo, è tanto più evidente che con Cervantes ha preso forma una grande arte europea che altro non è se non l'esplorazione di questo essere dimenticato.
In effetti, tutti i grandi temi essenziali che Heidegger analizza da tutta la filosofia europea anteriore, sono stati svelati, mostrati, illuminati da quattro secoli di romanzo (quattro secoli di reincarnazione europea del romanzo). Nel modo che gli è proprio, secondo la logica che gli è propria, il romanzo ha scoperto, uno dopo l'altro, i diversi aspetti dell'esistenza: con i contemporanei di Cervantes, si chiede che cosa sia l'avventura; con Samuel Richardson, comincia ad esaminare “quello che accade dentro”, a svelare la vita segreta dei sentimenti; con Balzac, scopre come l'uomo sia radicato nella Storia; con Flaubert, esplora la terra fino ad allora incognita del quotidiano; con Tolstoj, studia l'intervento dell'irrazionale nelle decisioni e nei comportamenti umani. Il romanzo sonda il tempo: l'inafferrabile attimo passato con Marcel Proust; l'inafferrabile attimo presente con James Joyce. Interroga, con Thomas Mann, il ruolo dei miti che, venuti dal fondo dei tempi, guidano a distanza i nostri passi. E così via.
Con costanza e fedeltà, il romanzo accompagna l'uomo dall'inizio dei Tempi moderni. Esso, fin da allora, è pervaso dalla “passione del conoscere” (quella passione che Husserl considera come l'essenza della spiritualità europea), che l'ha spinto a scrutare la vita concreta dell'uomo e a proteggerla contro “l'oblio dell'essere”; che l'ha spinto a tenere il “mondo della vita” sotto una luce perpetua. In questo senso, capisco e condivido l'ostinazione con cui Hermann Broch ripeteva: la sola ragion d'essere di un romanzo è scoprire quello che solo un romanzo può scoprire. Il romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale. La conoscenza è la sola morale del romanzo.
E io aggiungo: il romanzo è opera dell'Europa; le sue scoperte, pur se realizzate in lingue diverse, appartengono all'Europa intera. La storia del romanzo europeo è la successione delle scoperte (e non la somma di quel che è stato scritto). Solo in questo contesto sovranazionale può essere colto e capito appieno il valore di un'opera (ossia la portata della sua scoperta).
3
Mentre Dio andava lentamente abbandonando il posto da cui aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, separato il bene dal male e dato un senso ad ogni cosa. Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. Questo, in assenza del Giudice supremo, apparve all'improvviso in una temibile ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relative, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moderni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello.
Intendere, come fa Descartes, l'io pensante come il fondamento di tutto, essere dunque soli di fronte all'universo, è un atteggiamento che Hegel, a giusto titolo, giudico eroico.
Intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dover affrontare, invece che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contraddicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi), possedere dunque come sola certezza la saggezza dell'incertezza, richiede una forza altrettanto grande.
Che cosa vuol dire il grande romanzo di Cervantes? Sull'argomento si è scritto molto. C'è chi pretende di vedere in questo romanzo la critica razionalista del fumoso idealismo di Don Chisciotte. Altri vi vedono l'esaltazione di questo stesso idealismo. Entrambe le interpretazioni sono sbagliate, perché vogliono trovare alla base del romanzo non un interrogativo, ma un assunto morale.
L'uomo sogna un mondo in cui il bene e il male siano nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esiste in lui il desiderio di giudicare prima di aver capito. Su questo desiderio sono fondate le religioni e le ideologie. Esse possono conciliarsi con il romanzo solo traducendo il suo linguaggio di relatività e di ambiguità nel loro discorso apodittico e dogmatico. Religioni e ideologie esigono che qualcuno abbia ragione: o Anna Karenina è vittima di un despota ottuso, o Karenin è vittima di una donna immorale; o K., innocente, è schiacciato da un tribunale ingiusto, o dietro il tribunale si nasconde la giustizia divina e K. è colpevole.
In questo “aut-aut” è racchiusa tutta l'incapacità di sopportare la sostanziale relatività delle cose umane, l'incapacità di guardare in faccia l'assenza del Giudice supremo. Ed è questa incapacità che rende la saggezza del romanzo (la saggezza dell'incertezza) difficile da accertare e da capire.
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Don Chisciotte partìper un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva entrarvi liberamente e tornare a casa quando voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato. L'inizio di Jacques le Fataliste sorprende i due eroi già in cammino: non sappiamo né da dove vengono, né dove vanno. Si trovano in un tempo che non ha né principio né fine, in uno spazio che non conosce frontiere, al centro di un'Europa per la quale il futuro non potrà mai finire.
Mezzo secolo dopo Diderot, in Balzac, il lontano orizzonte è scomparso come un paesaggio dietro a quegli edifici moderni che sono le istituzioni sociali: la polizia, la giustizia, il mondo della finanza e del crimine, l'esercito, lo Stato. Il tempo di Balzac non conosce più l'ozio beato di Cervantes o di Diderot. È ormai a bordo del treno che chiamiamo Storia. Salirvi è facile, il difficile è scenderne. Pure, questo treno non ha ancora nulla di spaventoso, anzi ha delle attrattive: a tutti i passeggeri promette avventure, e con esse onori e trionfi.
Più tardi ancora, per Emma Bovary, l'orizzonte si restringe fino a diventare una sorta di muro. Le avventure stanno dall'altra parte e la nostalgia è insopportabile. Nella noia della quotidianità, sogni e fantasticherie acquistano importanza.
L'infinito perduto del mondo esterno viene sostituito dall'infinito dell'anima. Fiorisce così la grande illusione dell'unicità insostituibile dell'individuo, una delle più belle illusioni europee.
Ma il sono dell'infinito dell'anima perde la sua magia nel momento in cui la Storia, o quel che ne è rimasto, forza sovrumana di una società onnipotente, s'impadronisce dell'uomo. Non gli promette più onori e trionfi, ma al massimo un posto di agrimensore. K. di fronte al tribunale, K. di fronte al castello, che cosa può fare? Molto poco. Può almeno sognare, come faceva Emma Bovary? No, la trappola in cui si trova è troppo terribile e assorbe come un aspiratore tutti i suoi pensieri e tutti i suoi sentimenti: può pensare soltanto al suo processo, al suo posto di agrimensore. L'infinito dell'anima, se mai esiste, è diventato un'appendice quasi inutile dell'uomo.
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Il cammino del romanzo si delinea come una storia parallela dei Tempi moderni. Se mi volto indietro per abbracciarlo con lo sguardo, mi sembra stranamente breve e chiuso. Non è Don Chisciotte stesso quello che, dopo un viaggio di tre secoli, torna al villaggio travestito da agrimensore? Lui che un tempo era partito per scegliersi le sue avventure, adesso, in questo villaggio sovrastato dal castello, non ha più scelta, l'avventura gli viene ordinata: un miserabile contenzioso con l'amministrazione a proposito di un errore nella sua pratica. Dopo tre secoli, che cosa è successo all'avventura, primo grande tema del romanzo? È diventata la parodia di se stessa? E questo che cosa vuol dire? Che il cammino del romanzo si chiude con un paradosso?
Certo, lo si potrebbe pensare. E non uno solo: di paradossi ce ne sono parecchi. Il buon soldato Švejk è forse l'ultimo grande romanzo popolare. Non è strano che questo romanzo comico sia al tempo stesso un romanzo comico sia al tempo stesso un romanzo di guerra ambientato nell'esercito e sul fronte? Che cosa è successo alla guerra e ai suoi orrori, se sono diventati argomenti su cui scherzare?
In Omero, in Tolstoj, la guerra possedeva un senso pienamente intelleggibile: ci si batteva per la bella Elena o per la Russia.
vejk e i suoi compagni si avviano al fronte senza sapere perché e, cosa ancora più sconcertante, senza preoccuparsene affatto.
Ma qual è allora il motore di una guerra, se non è né Elena né la patria? La semplice forza che vuole affermarsi come forza? Quella “volontà di volontà” di cui parlerà più tardi Heidegger? Ma non è stata dietro a tutte le guerre da sempre? Sì, certo. Questa volta, però, nel romanzo di Hašek, essa è priva di qualsivoglia argomentazione razionale. Nessuno, neppure quelli che la fabbricano, credono alle chiacchiere della propaganda. La forza è nuda, nuda come nei romanzi di Kafka. Il tribunale, infatti, non trarrà alcun vantaggio dall'esecuzione di K., così come il castello non otterrà vantaggi dal tormentare l'agrimensore. Perché la Germania ieri, e oggi la Russia, vogliono dominare il mondo? Per essere più ricche? Più felici? No. L'aggressività della forza è totalmente disinteressata, immotivata, la forza vuole solo il proprio volere; è l'irrazionale puro.
Kafka e Hašek ci mettono dunque di fronte a questo immenso paradosso: nel corso dei Tempi moderni, la ragione cartesiana ha corroso uno dopo l'altro tutti i valori ereditati dal Medioevo. Ma nel momento della vittoria totale della ragione sarà l'irrazionale puro (la forza che vuole solo il proprio volere) a impadronirsi della scena del mondo, perché non ci sarà più alcun sistema di valori comunemente accettato in grado di opporsi ad esso.
Questo paradosso, magistralmente messo in luce nei Sonnambuli di Hermann Broch, è uno di quelli che mi piacerebbe chiamare terminali. Ce ne sono altri. Per esempio: i Tempi moderni coltivavano il sogno di un'umanità che, divisa in varie civiltà separate, avrebbe trovato un giorno l'unità e con essa la pace eterna. Oggi, la storia del pianeta è giunta a costituire un tutto indivisibile, ma ciò che realizza e assicura questa unità così a lungo sognata è, ambulante e perpetua, la guerra.
L'unità dell'umanità significa: non c'è possibilità di fuga, in nessun posto e per nessuno.
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Le conferenze in cui Husserl parlò della crisi dell'Europa e prospettò la possibilità della scomparsa dell'umanità europea furono il suo testamento filosofico. Le tenne in due capitali dell'Europa centrale. Questa coincidenza è profondamente significativa: proprio in quella stessa Europa centrale, infatti, per la prima volta nel corso della sua storia moderna, l'Occidente poté assistere alla morte dell'Occidente, o, più precisamente, all'amputazione di una parte di sé, quando Varsavia, Budapest e Praga furono inghiottite dall'imperò russo. La causa di questa sventura fu la prima guerra mondiale, che, scatenata dall'imperò degli Asburgo, provocò la fine di questo stesso imperò e compromise per sempre l'equilibrio di un'Europa indebolita.
Ebbe così fine l'ultima età tranquilla, l'età in cui l'uomo aveva da combattere solo i mostri della propria anima, l'età di Joyce e di Proust. Nei romanzi di Kafka, di Hašek, di Musil, di Broch, il mostro viene dal di fuori e si chiama Storia; non assomiglia più al treno degli avventurieri; è impersonale, ingovernabile, incalcolabile, inintelligibile - e nessuno può sfuggirgli. È il momento (all'indomani della guerra del '14-'18) in cui la pleiade dei grandi romanzieri centroeuropei intravide, toccò con mano, colse, i paradossi terminali dei Tempi moderni.
Non bisogna però leggere i loro romanzi come una profezia sociale e politica, come un'anticipazione di Orwell! Quello che ci dice Orwell avrebbe potuto essere detto altrettanto bene (anzi, molto meglio) in un saggio o in un pamphlet.
Questi romanzieri scoprono, invece, “quello che solo un romanzo può scoprire”: mostrano come, nelle condizioni dei “paradossi terminali”, tutte le categorie esistenziali cambino improvvisamente di senso: che cos'è l'avventura se la libertà d'azione di un K. è totalmente illusoria? Che cos'è l'avvenire se gli intellettuali dell'Uomo senza qualità non hanno il benché minimo sospetto della guerra che, domani stesso, spazzerà via le loro vite? Che cos'è il delitto se lo Huguenau di Broch non solo non ha rimorsi, ma addirittura dimentica il delitto che ha commesso? E se l'unico grande romanzo comico di quest'epoca, quello di Hašek, ha come sfondo la guerra, che cos'è successo al comico? Dov'è la differenza fra privato e pubblico, se K. non viene mai lasciato solo, nemmeno nel suo letto d'amore, dai due inviati del castello? E che cos'è allora la solitudine? Un fardello, un'angoscia, una maledizione, come hanno voluto farci credere, o invece il valore più prezioso, continuamente schiacciato dalla collettività onnipresente?
I periodi della storia del romanzo sono assai lunghi (non hanno niente a che vedere con i febbrili cambiamenti delle mode) e sono caratterizzati dall'aspetto o dagli aspetti dell'essere che il romanzo pone in primo piano. Ad esempio, le possibilità insite nella scoperta flaubertiana della quotidianità furono pienamente sviluppate solo settant'anni più tardi, nella gigantesca opera di James Joyce. Il periodo inaugurato, cinquant'anni fa, dalla pleiade dei romanzieri centroeuropei (periodo dei paradossi terminali) mi sembra tutt'altro che concluso.
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Si parla molto, e da molto tempo, della fine del romanzo: ne hanno parlato, in particolare, i futuristi, i surrealisti, quasi tutte le avanguardie. Essi vedevano il romanzo sparire sulla via del progresso, vantaggio di un avvenire radicalmente nuovo, di un'arte che non avrebbe somigliato a niente di ciò che esisteva prima. Il romanzo sarebbe stato sepolto in nome della giustizia storica, così come la miseria, le classi dominanti, i vecchi modelli di automobili o i capelli a cilindro.
Ora, se Cervantes è fondatore dei Tempi moderni, la fine della sua eredità dovrebbe significare qualcosa di più che una semplice sostituzione nella storia delle forme letterarie; annuncerebbe la fine dei Tempi moderni. Ecco perché mi pare frivolo il sorriso beato con il quale vengono pronunciati i necrologi del romanzo. Frivolo, perché ho già visto e vissuto la morte del romanzo, la sua morte violenta (ad opera di proibizioni, della censura, della pressione ideologica), nel mondo dove ho passato gran parte della mia vita e che si suole chiamare totalitario. Fu chiaro, allora, che il romanzo era perituro; così come era perituro l'Occidente dei Tempi moderni.
In quanto modello di quel mondo, fondato sulla relatività e l'ambiguità delle umane cose, il romanzo è incompatibile con l'universo totalitario. Questa incompatibilità è più profonda di quella che separa un dissidente da un apparatèik, un combattente per i diritti dell'uomo da un torturatore, perché non è soltanto politica o morale, ma ontologica. Ossia: il mondo basato su una sola Verità e il mondo ambiguo e relativo del romanzo sono fatti di due materie diversissime l'una dall'altra. La Verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, l'interrogativo, ed è quindi inconciliabile con quello che chiamerei lo spirito del romanzo.
Ma non è forse vero che nella Russia comunista si pubblicano centinaia e migliaia di romanzi, con tirature altissime e con enorme successo? È vero, certo, ma questi romanzi non fanno progredire la conquista dell'essere. Non scoprono nessuna nuova particella dell'esistenza; si limitano a confermare il già detto; anzi,quello che si dice (quello che bisogna dire) sta la loro ragion d'essere, la loro gloria, l'utilità che hanno nella società a cui appartengono. Poiché non scoprono niente, non partecipano più a quella successione di scoperte che è per me la storia del romanzo; si situano al di fuori di questa storia, oppure: sono romanzi dopo la storia del romanzo.
È all'incirca mezzo secolo che la storia del romanzo si è fermata, nell'imperò del comunismo russo. Un avvenimento di portata enorme, se si pensa alla grandezza del romanzo russo da Gogol'a Belyj. La morte del romanzo non è quindi un'idea fantasiosa. È già avvenuta. E noi adesso sappiamo come muore il romanzo: non scompare, cade fuori dalla sua storia. La sua è una morte pacifica, inosservata, e non scandalizza nessuno.
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Ma se il romanzo sta arrivando alla fine del suo cammino, non è forse per sua logica interna? Non ha già sfruttato tutte le sue possibilità, tutte le sue conoscenze e tutte le sue forme? Ho sentito paragonare la sua storia alle miniere di carbone da gran tempo esaurite. Ma non somiglia piuttosto, questa storia, al cimitero delle occasioni perdute, dei richiami non ascoltati? Ci sono quattro richiami ai quali sono particolarmente sensibile.
Il richiamo del gioco. Tristram Shandy, di Laurence Sterne, e Jacques le Fataliste, di Denis Diderot, mi appaiono oggi i due più grandi romanzi del Settecento, concepiti entrambi come un gioco grandioso. Due vette della leggerezza che mai, né prima né dopo, sono state raggiunte. In seguito, il romanzo si lasciò impastoiare dall'imperativo della verosimiglianza, dal realismo dell'ambientazione, dal rigore della cronologia. Abbandonò le possibilità contenute in quei due capolavori, che sarebbero potute servire come base per un'evoluzione del romanzo diversa da quella che conosciamo (sì, perché si può immaginare anche un'altra storia del romanzo europeo...).
Il richiamo del sogno. La sonnecchiante immaginazione dell'Ottocento fu improvvisamente risvegliata da Frank Kafka, il quale raggiunse ciò che i surrealisti teorizzavano dopo di lui senza mai veramente realizzarlo: la fusione tra sogno e realtà. È questa, in effetti, una vecchia ambizione estetica del romanzo, già presentita da Novalis, ma che richiede l'arte di un'alchimia che soltanto Kafka arrivò a scoprire un centinaio di anni più tardi.
Questa enorme scoperta, più che il termine di un'evoluzione, è un'apertura inaspettata: sappiamo ora che il romanzo è il luogo in cui l'immaginazione può esplodere come in un sogno e che esso può affrancarsi dall'imperativo apparentemente ineluttabile della verosimiglianza.
Il richiamo del pensiero. Musil e Broch fecero entrare sulla scena del romanzo un'intelligenza sovrana e luminosa. Non per trasformare il romanzo in filosofia, ma per mobilitare sulla base del racconto tutti i mezzi, razionali e irrazionali, narrativi e meditativi, in grado di gettare luce sull'essere dell'uomo; di fare del romanzo la suprema sintesi intellettuale. La loro impresa porta dunque a compimento la storia del romanzo, o non è invece l'invito a un lungo viaggio?
Il richiamo del tempo. Il periodo dei paradossi terminali incita il romanziere a non limitare più la questione del tempo al problema proustiano della memoria personale, ma ad estenderla all'enigma del tempo collettivo, del tempo dell'Europa, di quest'Europa che si volge indietro a guardare il suo passato, a fare un bilancio, ad abbracciare la sua storia, come un vecchio che abbracci con un solo sguardo tutta la sua vita trascorsa. Da qui la voglia di oltrepassare i limiti temporali di una vita individuale nei quali il romanzo è stato fino ad allora rinchiuso, e di far entrare nel suo spazio diverse epoche storiche (Aragon e Fuentes ci hanno già provato).
Ma non voglio profetizzare le vie future del romanzo, delle quali non so nulla. Voglio dire solo questo: se il romanzo deve veramente scomparire, non è perché sia allo stremo delle forze, ma perché si trova in un mondo che non è più il suo.
9
L'unificazione della storia del pianeta, questo sogno umanista di cui Dio ha malignamente permesso la realizzazione, si accompagna a un processo di riduzione vertiginosa. Vero è che le termiti della riduzione rodono da sempre la vita umana: anche il più grande amore finisce per essere ridotto a uno scheletro di poveri ricordi. Ma il carattere della società moderna rinforza mostruosamente questa maledizione: la vita dell'uomo è ridotta alla sua funzione sociale; la storia di un popolo a pochi avvenimenti, a loro volta ridotti a un'interpretazione tendenziosa; la vita sociale è ridotta alla lotta politica, e questa al fronteggiarsi di due sole grandi potenze planetarie. L'uomo è preso in un vero e proprio turbine di riduzione, nel quale il “mondo della vita” di cui parlava Husserl fatalmente si offusca e l'essere cade nell'oblio.
Ora, se la ragion d'essere del romanzo è di tenere il “mondo della vita” sotto una luce perpetua e di proteggerci contro “l'oblio dell'essere”, l'esistenza del romanzo non è oggi più necessaria che mai?
Direi di sì. Ma, ahimè, anche il romanzo è roso dalle termiti della riduzione, le quali non riducono soltanto il senso del mondo ma anche il senso delle opere. Il romanzo (come tutta la cultura) si trova sempre di più nelle mani dei mass media; e questi, essendo agenti dell'unificazione della storia planetaria, amplificano e canalizzano il processo di riduzione; distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi comuni che si prestano a essere accettati dalla maggioranza, da tutti, dall'umanità intera. E poco importa che nei loro diversi organi affiorino i diversi interessi politici. Dietro a questa differenza di superficie regna uno spirito comune. Basta sfogliare i settimanali politici americani o europei, di sinistra o di destra che siano, dal “Time” allo “Spiegel”: hanno tutti la stessa visione della vita, che si riflette nell'identica organizzazione del sommario, nelle stesse rubriche, nelle stesse forme giornalistiche, lo stesso vocabolario e lo stesso stile, gli stessi gusti artistici e la stessa gerarchia fra ciò che ritengono importante e ciò che ritengono insignificante. Questo spirito comune dei mass media che si dissimula dietro la loro diversità politica è lo spirito del nostro tempo. E questo spirito mi sembra contrario allo spirito del romanzo.
Lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità. Ogni romanzo dice al lettore: “Le cose sono più complicate di quanto tu pensi”. È questa l'eterna verità del romanzo, sempre meno udibile, però, nel frastuono delle risposte semplici e rapide che precedono la domanda e la escludono. Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione. Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione Anna o ha ragione Karenin, e la vecchia saggezza di Cervantes, che ci parla della difficoltà di sapere e dell'inafferrabile verità sembra ingombrante e inutile.
Lo spirito del romanzo è lo spirito di continuità: ogni opera è la risposta alle opere che l'hanno preceduta, ogni opera contiene tutta l'esperienza anteriore del romanzo. Ma lo spirito del nostro tempo è concentrato sull'attualità, che è così espansiva, così ampia, da escludere il passato dal nostro orizzonte e ridurre il tempo al solo attimo presente. Preso in questo sistema, il romanzo non è più opera (cosa destinata a durare, a congiungere il passato all'avvenire), ma un'avvenire di attualità come tanti altri, un gesto senza domani.
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Ma allora, nel mondo “che non è più il suo”, il romanzo è destinato a scomparire? Lascerà sprofondare l'Europa nell'“oblio dell'essere”? E di esso non resterà nient'altro che il chiacchiericcio senza fine dei grafomani, nient'altro che romanzi dopo la storia del romanzo? Non lo so. Credo solo di sapere che il romanzo non può più viverre in pace con lo spirito del nostro tempo: se vuole continuare a scoprire quello che ancora non è stato scoperto, se vuole “progredire” ancora in quanto romanzo, può farlo solo andando contro il progresso del mondo.
L'avanguardia ha visto le cose altrimenti, era posseduta dall'ambizione di essere in armonia con l'avvenire. Gli artisti d'avanguardia hanno creato, è vero, opere coraggiose, difficili, provocatorie, impopolari, ma le hanno create con la certezza che “lo spirito del tempo” era con loro e che, domani, avrebbe dato loro ragione.
In passato, anch'io ho creduto che l'avvenire fosse il solo giudice competente delle nostre opere e delle nostre azioni. Poi ho capito che il flirt con l'avvenire è il peggiore dei conformismi, la vile adulazione del più forte. Perché l'avvenire è sempre più forte del presente. Sarà lui, infatti a giudicarli. E certo senza alcuna competenza.
Ma se l'avvenire non rappresenta ai miei occhi un valore, a che cosa tengo, allora?
A Dio? Alla patria? Al popolo? All'individuo?
La mia risposta è insieme ridicola e sincera: io non tengo a niente tranne che alla denigrata eredità di Cervantes.
II
DIALOGO SULL'ARTE
DEL ROMANZO
C.S.: Vorrei dedicare questa conversazione all'estetica dei suoi romanzi. Ma da dove cominciare?
M.K.: Dall'affermazione: i miei romanzi non sono psicologici. Più esattamente: si situano al di là dell'estetica del romanzo che si vuole chiamare psicologico.
C.S.: Ma i romanzi non sono tutti necessariamente psicologici? Non indagano cioè tutti l'enigma della psiche?
M.K.: Cerchiamo di essere più precisi: tutti i romanzi di tutti i tempi indagano l'enigma dell'io. Dal momento in cui si crea un essere immaginario, un personaggio, ci si trova automaticamente di fronte alla domanda: che cos'è l'io? In che modo lo su può cogliere? È una delle domande fondamentali sulle quali è fondato il romanzo in quanto tale. Dalle diverse risposte a questa domanda, se proprio si vuole, si potrebbero distinguere diverse tendenze e, forse, diversi periodi nella storia del romanzo. L'approccio psicologico, i primi narratori europei non sanno nemmeno cos'è. Boccaccio ci racconta semplicemente delle azioni e delle avventure. Eppure, dietro a tutte quelle storie divertenti, si avverte una certezza: attraverso l'azione l'uomo esce dall'universo ripetitivo del quotidiano dove tutti assomigliano a tutti, grazie all'azione egli si distingue dagli altri e diventa individuo. Come ha detto Dante: “In ogni azione, l'intenzione prima di colui che agisce è di rivelare la propria immagine”. In principio, l'azione è vista come l'autoritratto di colui che agisce.
Quattro secoli dopo Boccaccio, Diderot è più scettico: il suo Jacques il fatalista seduce la fidanzata dell'amico, si ubriaca per la felicità, suo padre lo riempie di botte, passa di lì un reggimento, lui si arruola per ripicca, alla prima battaglia riceve una pallottola nel ginocchio, e rimane zoppo per la vita. Pensa di incominciare un'avventura amorosa, e invece stava andando incontro all'infermità. Non potrà mai riconoscersi nella sua azione. Fra l'azione e lui si apre una crepa. L'uomo vuole, attraverso l'azione, rivelare la propria immagine, ma quest'immagine non gli assomiglia. Il carattere paradossale dell'azione è una delle grandi scoperte del romanzo. Ma se l'io non può non essere colto nell'azione, dove e come lo si può cogliere? Arrivò così il momento in cui il romanzo, nella sua ricerca dell'io, dovette distogliersi dal mondo visibile dell'azione e volgersi a quello invisibile della vita interiore. A metà del Settecento, Richardson scopre la forma del romanzo fatto di lettere nelle quali i personaggi confessano i loro pensieri e sentimenti.
C.S.: È la nascita del romanzo psicologico?
M.K.: Il termine è, ovviamente, inesatto e approssimativo. Evitiamolo e usiamo una perifrasi: Richardson ha lanciato il romanzo sulla vita dell'esplorazione della vita interiore dell'uomo. Conosciamo i suoi grandi seguaci: il Goethe del Werther, Laclos, Constant, poi Stendhal e gli scrittori del suo secolo. L'apogeo di questa evoluzione si trova, mi sembra, in Proust e in Joyce. Joyce analizza qualcosa di ancor più inafferrabile del “tempo perduto” di Proust: l'attimo presente. Non c'è, in apparenza, nulla di più evidente, di più tangibile e palpabile dell'attimo presente. Eppure, esso ci sfugge in modo totale. La tristezza della vita è tutta qui. In un solo secondo, la nostra vita, il nostro udito, il nostro odorato registrano (consapevolmente o no) una massa di eventi, e la nostra testa è attraversata da uno stuolo di sensazioni e di idee. Ogni istante rappresenta un piccolo universo, irrimediabilmente dimenticato l'istante successivo. Ebbene, il grande microscopio di Joyce sa fermare, sa cogliere questo attimo fuggente e farcelo vedere. Ma la ricerca dell'io si chiude, ancora una volta, su un paradosso: quanto più potente è il microscopio che osserva l'io, tanto più l'io e la sua unicità ci sfuggono: sotto la grande lente joyciana che scompone l'anima in atomi, siamo tutti uguali. Ma se l'io e il suo carattere unico non possono essere colti nella vita interiore dell'uomo, dove e come li si può cogliere?
C.S.: Ma è poi possibile coglierli?
M.K.: No, certo. La ricerca dell'io si è sempre conclusa e si concluderà sempre in un paradossale inappagamento. Non dico in un fallimento. Perché il romanzo non può oltrepassare i limiti delle proprie possibilità, e l'aver messo in luce questi limiti è già una scoperta grandissima, un grandissimo successo cognitivo. Ciò nondimeno, dopo aver toccato il fondo che è implicito nell'esplorazione particolareggiata della vita interiore dell'io, i grandi romanzieri hanno incominciato a cercare, consciamente o inconsciamente, un nuovo orientamento. Si parla spesso della santissima trinità del romanzo moderno: Proust, Joyce, Kafka. Ora secondo me, questa trinità non esiste. Nella mia personale storia del romanzo, chi inaugura il nuovo orientamento è Kafka: orientamento post-proustiano. Il suo modo di concepire l'io è del tutto inaspettato. Che cosa fa di K. un essere unico? Non il suo aspetto fisico (non ne sappiamo niente), né la sua biografia (non la conosciamo), né il suo nome (non ce l'ha), né i suoi ricordi o le sue preferenze o i suoi complessi. Il suo comportamento? Il campo libero delle sue azioni è penosamente limitato. Il suo pensiero interiore? Certo, Kafka segue senza posa le riflessioni di K., ma queste si riferiscono esclusivamente alla situazione immediata: che cosa bisogna fare adesso, subito? andare all'interrogatorio o sottrarvisi? obbedire al richiamo del prete o no? Tutta la vita interiore di K. è assorbita dalla situazione in cui è intrappolato, e niente di quello che potrebbe andare al di là di questa situazione (i ricordi di K., le sue riflessioni metafisiche, le sue considerazioni sugli altri) ci viene mai rivelato che era motivo di continuo stupore. Ma non è questo che stupisce Kafka. Egli ? si chiede quali siano le motivazioni interne che determinano il comportamento dell'uomo. La sua domanda è radicalmente diversa: quali possibilità ha ancora l'uomo in un mondo in cui le determinazioni esterne sono diventate così schiaccianti che i moventi interni non hanno più nessun peso? Che cosa sarebbe cambiato, infatti, nel destino e nel comportamento di K., se egli avesse avuto delle pulsioni omosessuali o una dolorosa storia d'amore alle spalle? Niente.
C.S.: È quello che lei dice nell'Insostenibile leggerezza dell'essere: “Un romanzo non è una confessione dell'autore, ma un'esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato”. Ma che cosa vuol dire trappola?
M.K.: Che la vita sia un trappola è una cosa che abbiamo sempre saputo: siamo nati senza averlo chiesto, rinchiusi in un corpo che non abbiamo scelto e destinati a morire. Lo spazio del mondo, invece, offriva una permanente possibilità di evasione. Un soldato poteva disertare e cominciare un'altra vita in un paese vicino. Nel nostro secolo, il mondo si è improvvisamente richiuso su di noi. L'evento decisivo di questa trasformazione del mondo in trappola è stata indubbiamente la guerra del '14-'18, chiamata (per la prima volta nella Storia) guerra mondiale. Falsamente mondiale. Riguardava soltanto l'Europa, e per di più non tutta l'Europa. Ma l'aggettivo “mondiale” esprime tanto più eloquentemente la sensazione di orrore davanti al fatto che, ormai, nulla di quanto accede sul pianeta sarà mai più una faccenda locale, che tutte le catastrofi coinvolgono il mondo intero e che, di conseguenza, noi siamo sempre più determinati dall'esterno, da situazioni cui nessuno può sfuggire e che ci fanno sempre più simili gli uni agli altri.
Ma non vorrei essere frainteso. Il fatto che io situi al di là del cosiddetto romanzo psicologico non vuol dire che io intenda privare i miei personaggi di una vita interiore. Vuol dire solo che sono altri gli enigmi, altre le domande cui i miei romanzi cercano di rispondere innanzitutto. E non vuol dire nemmeno che io contesti i romanzi che subiscono il fascino della psicologia. Il cambiamento di situazione successivo a Proust mi riempie, anzi, di nostalgia. Con Proust, una bellezza immensa si allontana lentamente da noi. E per sempre. Gombrowicz ha avuto un'idea al tempo stesso comica e geniale: il peso del nostro io, dice, dipende dalla quantità di popolazione sul pianeta. Democrito, per esempio, rappresentava un quattrocentomilionesimo dell'umanità; Brahms un miliardesimo; Gombrowicz stesso un duemiliardesimo. Dal punto di vista di questa aritmetica, il peso dell'infinito proustiano, il peso di un io, della vita interiore di un io, diventa sempre più leggero. E in questa corsa verso la leggerezza, abbiamo superato un limite fatale.
C.S.: L' “insostenibile leggerezza” dell'io è la sua ossessione, Kundera, fin dai suoi primi scritti. Penso ad Amori ridicoli: per esempio al racconto Eduard e Dio. Dopo la prima notte d'amore con la giovane Alice, Eduard fu preso da uno strano malessere, decisivo per la sua storia: guardava la sua ragazza e gli sembrava che “le idee di Alice non fossero in realtà che qualcosa di incollato al suo destino, e che il suo destino non fosse che qualcosa di incollato al suo corpo, la vide come la mescolanza fortuita di un corpo, di idee e di una biografia, una mescolanza inorganica, arbitraria e labile”. E in un altro racconto, Il falso autostop, la ragazza, negli ultimi capoversi, è talmente turbata dall'incertezza della sua identità, che ripete fra i singhiozzi: “Io sono io, io sono io, io sono io...”.
M.K.: Nell'Insostenibile leggerezza dell'essere, Tereza si guarda allo specchio. Si domanda cosa accadrebbe se il naso le si allungasse di un millimetro al giorno. In quanto tempo il suo viso diventerebbe irriconoscibile? E se il suo viso non assomigliasse più a Tereza. Tereza sarebbe ancora Tereza? Dove comincia e dove finisce l'io? Come vede, non c'è nessuno stupore di fronte all'insondabile infinito dell'anima. C'è piuttosto uno stupore di fronte all'incertezza dell'io e della sua identità.
C.S.: Nei suoi romanzi c'è assenza totale di monologo interiore.
M.K.: Nella testa di Bloom, Joyce ha messo un microfono. Grazie a questo fantastico strumento di spionaggio che è il monologo interiore, abbiamo appreso moltissimo su quello che siamo. Personalmente però non saprei servirmi di questo microfono.
C.S.: Nell'Ulisse di Joyce, il monologo interiore attraversa tutto il romanzo, è la base della sua costruzione, il procedimento dominante. Nei suoi libri, Kundera, questo ruolo non ce l'ha la meditazione filosofica?
M.K.: La parola “filosofica” mi sembra impropria. La filosofia elabora il suo pensiero in uno spazio astratto, senza personaggi e senza situazioni.
C.S.: Lei inizia L'insostenibile leggerezza dell'essere con una riflessione sull'eterno ritorno di Nietzsche. Di che altro si tratta, se non di una meditazione filosofica elaborata in maniera astratta, senza personaggi e senza situazioni?
M.K.: Niente affatto! Quella riflessione introduce direttamente, fin dalla prima riga del romanzo, la situazione fondamentale di un personaggio, Tomáš; essa espone il suo problema: la leggerezza dell'esistenza nel mondo in cui non c'è eterno ritorno. Come vede, ci ritroviamo infine con la nostra domanda: che cosa c'è al di là del cosiddetto romanzo psicologico? In altre parole: qual è il modo non psicologico di cogliere l'io? Cogliere un io vuol dire, nei miei romanzi, cogliere l'essenza della sua problematica esistenziale. Cogliere il suo codice esistenziale. Scrivendo L'insostenibile leggerezza dell'essere, mi sono reso conto che il codice di questo o di quel personaggio è composto di un certo numero di parole-chiave. Per Tereza: il corpo, l'anima, la vertigine, la debolezza, l'idillio, il Paradiso. Per Tomáš: la leggerezza, la pesantezza. Nella parte intitolata “Le parole fraintese” esamino il codice esistenziale di Franz e quello di Sabina, analizzando diverse parole: la donna, la fedeltà, il tradimento, la musica, il buio, la luce, i cortei, la bellezza, la patria, il cimitero, la forza. Ognuna di queste parole ha un significato diverso nel codice esistenziale dell'altro. Certo, questo codice non è analizzabile in abstracto, si rivela progressivamente nell'azione, nelle situazioni. Prendiamo La vita è altrove, la terza parte: l'eroe, il timido Jaromil, è ancora vergine. Un giorno, mentre passeggia con la sua amica, lei ad un tratto gli posa la testa sulla spalla. Jaromil è al colmo della felicità ed è anche fisicamente eccitato. Io rifletto su questo miniavviamento e constato: “la più grande felicità conosciuta da Jaromil fino a quel momento era stata sentire la testa di una ragazza posata sulla propria spalla”. Prendendo le mosse da questa constatazione, cerco di cogliere l'erotismo di Jaromil: “La testa di una ragazza per lui significava più del corpo di una ragazza”. Il che non significa, come preciso, che il corpo gli fosse indifferente, ma che “non desiderava la nudità di un corpo di ragazza; desiderava un viso di ragazza illuminato dalla nudità del corpo. Non desiderava possedere un corpo di ragazza; desiderava un viso di ragazza il quale come prova d'amore gli facesse dono del corpo”. Cerco allora di dare un nome a questo atteggiamento. Scelgo la parola tenerezza. Ed esamino questa parola: che cos'è in realtà la tenerezza? Arrivo a una serie di risposte: “La tenerezza nasce nel momento in cui, rigettati sulla soglia dell'età adulta, ci si rende conto con angoscia dei vantaggi dell'infanzia, i vantaggi che da bambini non si potevano capire”. E poi: “La tenerezza è il terrore di fronte all'età adulta”. E ancora un'altra definizione: “La tenerezza è il tentativo di creare uno spazio artificiale in cui valga il patto di trattarsi l'un l'altro come bambini”. Come vede, io non mostro quello che accade nella testa di Jaromil, ma piuttosto quello che accade nella mia testa: osservo a lungo il mio Jaromil, e cerco di avvicinarmi, un passo dopo l'altro, al cuore del suo atteggiamento, per capirlo, per dargli un nome, per coglierlo.
Nell'Insostenibile leggerezza dell'essere, Tereza vive con Tomáš, ma il suo amore esige da lei una mobilitazione di tutte le sue forze e un giorno, improvvisamente, essa non ce la fa più, vuole tornare indietro, “in basso”, da dove era venuta. Io allora mi domando: che cosa succede? E trovo la risposta: è stata presa da una vertigine. Ma che cos'è la vertigine? Cerco la definizione e dico: “l'ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere”. Ma subito mi correggo, e preciso la definizione: “la vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancora più deboli, si vuole cadere in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso”. La vertigine è una delle chiavi per capire Tereza. Non è la chiave per capire me o per capire lei, Salmon. Eppure, sia lei che io conosciamo questo tipo di vertigine almeno come una nostra possibilità, come una delle possibilità dell'esistenza. Ho dovuto inventare Tereza, un “io sperimentale”, per capire questa possibilità, per capire la vertigine.
Ma io non mi limito a interrogare in questo modo solo le situazioni particolari: l'intero romanzo non è altro che una lunga interrogazione. L'interrogazione meditativa (meditazione interrogativa) è la base sulla quale sono costruiti tutti i miei romanzi. Limitiamoci a La vita è altrove. Inizialmente il titolo di questo romanzo era L'età lirica. L'ho cambiato all'ultimo momento spinto da amici che lo trovavano insipido e poco attraente. È stata una sciocchezza cedere. Perché mi piace moltissimo scegliere come titolo di un romanzo la sua categoria principale. Lo scherzo. Il libro del riso e dell'oblio. L'insostenibile leggerezza dell'essere. Perfino Amori ridicoli. Quest'ultimo titolo non va inteso nel senso: storie d'amore divertenti. L'idea dell'amore è sempre associata alla serietà. Amore ridicolo è la categoria dell'amore che manca di serietà. Nozione capitale per l'uomo moderno. Ma torniamo a La vita è altrove. Questo romanzo si fonda su alcune domande: che cos'è l'atteggiamento lirico? che cos'è la giovinezza in quanto età lirica? qual è il senso del matrimonio a tre lirismo-rivoluzione-giovinezza? E che cosa vuol dire essere un poeta? Ricordo di aver iniziato a scrivere il romanzo partendo, come ipotesi di lavoro, da questa definizione che avevo annotato su un taccuino: “Il poeta è un giovane che sua madre spinge a esibirsi di fronte al mondo nel quale lui non è capace di entrare”. Come vede, questa definizione non è ne sociologica, né estetica, né psicologica.
C.S.: È fenomenologica.
M.K.: L'aggettivo non mi dispiace, ma mi proibisco di usarlo. Ho troppa paura dei professori per i quali l'arte non è altro che un derivato delle correnti filosofiche e teoriche. Il romanzo conosce l'inconscio prima di Freud, la lotta di classe prima di Marx, pratica la fenomenologia (la ricerca dell'essenza delle situazioni umane) prima dei fenomenologi. Che stupende “descrizioni fenomenologiche” nell'opera di Proust, che non ha conosciuto nessun fenomenologo!
C.S.: Riassumiamo. Ci sono modi di cogliere l'io. Innanzitutto, attraverso l'azione. Poi, nella vita interiore. Lei, Kundera, afferma: l'io è determinato dall'essenza della sua problematica esistenziale. Questa posizione ha parecchie conseguenze nella sua opera. Per esempio, il suo accanimento a voler capire l'essenza delle situazioni sembra rendere superate tutte le tecniche di descrizione. Lei non dice quasi niente dell'aspetto fisico dei suoi personaggi. E poiché la ricerca delle motivazioni psicologiche le interessa meno dell'analisi delle situazioni, lei è anche assai reticente sul passato dei suoi personaggi. Il carattere troppo astratto di questo modo di raccontare non rischia di rendere meno vivi i suoi personaggi?
M.K.: Provi a fare la stessa domanda a Kafka o a Musil. A Musil del resto l'hanno fatta. Anche persone estremamente colte gli hanno rimproverato di non essere un vero romanziere. Walter Benjamin ammirava la sua intelligenza ma non la sua arte. Édouard Roditi trova che i suoi personaggi siano senza vita e gli propone Proust come esempio da seguire: quanto è viva e vera Madame Verdurin, dice, in confronto a Diotima! Il fatto è che due secoli di realismo psicologico hanno creato alcune norme quasi inviolabili: 1. bisogna dare il massimo di informazioni su un personaggio: sul suo aspetto fisico, sul suo modo di parlare e di comportarsi; 2. Bisogna informare il lettore sul passato di un personaggio, perché è lì che si trovano tutte le motivazioni del suo comportamento di adesso; 3. il personaggio deve avere una totale indipendenza, e ciò significa che l'autore e le sue considerazioni personali devono sparire per non disturbare il lettore che vuole cedere all'illusione e prendere la finzione per realtà. Ebbene, Musil ha rotto questo vecchio contratto fra il romanzo e il lettore. E con lui altri romanzieri. Che cosa sappiamo dell'aspetto fisico di Esch, il più grande personaggio di Broch? Niente. Tranne il fatto che aveva dei grossi denti. Che cosa sappiamo dell'infanzia di K. o di Švejk? E né Musil, né Broch, né Gombrowicz si fanno scrupolo di essere presenti nei loro romanzi con le loro riflessioni personali.
Il personaggio non è una simulazione di un essere vivente. È un essere immaginario. Un io sperimentale. Il romanzo si riallaccia cosi alle sue origini. Don Chisciotte è quasi impensabile come essere vivente. Eppure, quale personaggio è più vivo di lui nella nostra memoria?
Non mi fraintenda: non voglio affatto snobbare il lettore e il suo desiderio, ingenuo ma anche legittimo, di lasciarsi prendere dal mondo immaginario del romanzo e di confonderlo ogni tanto con la realtà. Ma non credo che la tecnica del realismo psicologico sia indispensabile per questo. Ho letto per la prima volta Il castello quando avevo quattordici anni. In quello stesso periodo ammiravo un giocatore di hockey su ghiaccio che abitava vicino a casa nostra. Ho immaginato K. con i suoi tratti. Ancora oggi lo vedo così. Ciò che intendo dire è che l'immaginazione del lettore completa automaticamente quella dell'autore. Tomáš è biondo o bruno? Suo padre era ricco o povero? Scegliete voi!
C.S.: Lei però non si attiene sempre a questa regola: nell'Insostenibile leggerezza dell'essere, se Tomáš non ha praticamente nessun passato, Tereza ci viene presentata non solo con la sua infanzia, ma anche con quella di sua madre!
M.K.: Nel romanzo lei troverà questa frase: “ho l'impressione che la sua vita non sia stata che un prolungamento della vita della madre, un po' come la corsa di una palla sul biliardo è il prolungamento del movimento del braccio del giocatore”. Se parlo della madre, quindi, non è per compilare un elenco di informazioni su Tereza, ma perché la madre è il suo tema principale, perché Tereza è il “prolungamento di sua madre” e ne soffre. Sappiamo anche che ha seni piccoli con “le areole attorno ai capezzoli troppo grandi e troppo scure”, come fossero state dipinte da “un pittore di paese che aveva voluto fare dell'erotismo per poveri”; questa informazione è indispensabile perché il corpo è un altro dei grandi temi di Tereza. Invece, per quel che riguarda suo marito Tomáš, non racconto niente della sua infanzia, niente di suo padre, di sua madre, della sua famiglia, e il suo corpo e il suo viso ci restano completamente ignoti, perché l'essenza della sua problematica esistenziale è radicata in altri temi. Questa assenza di informazioni non lo rende meno “vivo”. Perché render “vivo” un personaggio significa: andare fino in fondo alla sua problematica esistenziale. Significa cioè andare fino in fondo ad alcune situazioni, alcuni motivi, alcune parole, direi, di cui è fatto. Niente di più.
C.S.: La sua concezione del romanzo potrebbe quindi essere definita come una meditazione poetica sull'esistenza. Eppure, i suoi romanzi non sono stati sempre intesi in questo modo. Contengono molti avvenimenti politici che hanno alimentato un'interpretazione sociologica storica o ideologica. Come riesce a conciliare il suo interesse per la storia della società e la sua convinzione che il romanzo indaghi in primo luogo l'enigma dell'esistenza?
M.K.: Heidegger ha descritto l'esistenza con una notissima formula: in-der-Welt-sein, essere-nel-mondo. L'uomo non si rapporta al mondo come il soggetto all'oggetto, come l'occhio al quadro; e neppure come l'attore al palcoscenico. L'uomo e il mondo sono legati come la lumaca e il suo guscio: il mondo fa parte dell'uomo, è la sua dimensione e, a mano a mano che il mondo cambia, cambia anche l'esistenza (in-der-Welt-sein). Da Balzac in poi, il “Welt” del nostro essere ha un carattere storico e la vita dei personaggi si dispiega in uno spazio temporale segnato da certe date. Il romanzo, non potrà sbarazzarsi mai più dell'eredità di Balzac. Non vi sfugge nemmeno Gombrowicz, che pure inventa storie fantasiose, improbabili, e viola tutte le regole della verosimiglianza. I suoi romanzi sono ambientati in un tempo datato e totalmente storico. Ma non bisogna confondere due cose: da una parte, c'è il romanzo che indaga la dimensione storica dell'esistenza umana, dall'altra, il romanzo che è illustrazione di una situazione storica, descrizione di una società in un certo momento, storiografia romanzata.
Lei lo sa, tutti questi romanzi sulla Rivoluzione francese, su Maria Antonietta, o sulla guerra del '14-'18, sulla collettivizzazione in Unione Sovietica (pro o contro), o sull'anno 1984: sono romanzi divulgativi che traducono nel linguaggio del romanzo un sapere non romanzesco. Ebbene, io non mi stancherò mai di ripetere: la sola ragion d'essere del romanzo sta nel dire quello che solo il romanzo può dire.
C.S.: Ma il romanzo, che cosa può dire di specifico sulla Storia? Ossia: qual è il modo in cui lei, Kundera, tratta la Storia?
M.K.: Le esporrò alcuni miei princìpi.
Primo: Tratto tutte le circostanze storiche con la massima economia. Nei riguardi della Storia, mi comporto come lo scenografo che allestisce una scena astratta con pochi oggetti indispensabili all'azione.
Secondo principio: Delle circostanza storiche, prendo in considerazione unicamente quelle che creano per i miei personaggi una situazione esistenziale rivelatrice. Un esempio: nello Scherzo, Ludvík vede tutti i suoi amici e condiscepoli alzare la mano per votare, con la massima disinvoltura, il suo allontanamento dall'università e capovolgere così la sua vita. Ludvík è certo che sarebbero stati capaci, se necessario, di votare con la stessa disinvoltura la sua impiccagione. Di qui, la definizione che dà dell'uomo: un essere capace in qualunque situazione di mandare a morte il suo prossimo. L'esperienza antropologica fondamentale di Ludvík ha quindi radici storiche, ma la descrizione della Storia in se stessa (il ruolo del Partito, le radici politiche del terrore, l'organizzazione delle istituzioni sociali, ecc.) non mi interessa e lei non la troverò nei miei romanzi.
Terzo principio: La storiografia scrive la storia della società, non quella dell'uomo. Perciò gli avvenimenti storici di cui parlano i miei romanzi sono spesso quelli che la storiografia ha dimenticato. Un esempio: negli anni successivi all'invasione russa della Cecoslovacchia nel 1968, le persecuzioni furono precedute da massacri di cani, organizzati dalle autorità. Un episodio, questo, totalmente dimenticato e privo di importanza agli occhi di uno storico o di un politologo, ma di profondo significato antropologico! Mi è bastato questo episodio a suggerire il clima storico del Valzer degli addii. Un altro esempio: nel momento decisivo di La vita è altrove, la Storia interviene sotto forma di un paio di mutandoni assai poco eleganti: a quell'epoca, non si trovava altro. Di fronte alla più bella occasione erotica della sua vita, Jaromil, per paura di essere ridicolo con quelle mutande, non osa spogliarsi e scappa. L'ineleganza! Altra circostanza storica dimenticata, eppure così importante per chi doveva vivere in un regime comunista.
Ma il quarto principio si spinge ancor più lontano. Non solo la circostanza storica deve creare una situazione esistenziale nuova per il personaggio di un romanzo, ma la Storia deve essere capita e analizzata in se stessa come situazione esistenziale. Un esempio: nell'Insostenibile leggerezza dell'essere, Alexandr Dubèek, dopo essere stato arrestato dall'esercito, russo, sequestrato, imprigionato, minacciato, costretto a negoziare con Breznev, torna a Praga. Parla alla radio, ma non riesce a parlare, respira a fatica, fa pause lunghe e terribili a metà delle frasi. Questo episodio storico (d'altronde completamente dimenticato, poiché, due ore dopo, i tecnici della radio furono costretti a tagliare le penose pause del suo discorso) per me rivela la debolezza. La debolezza come categoria generalissima dell'esistenza: “Di fronte a una forza maggiore si è sempre deboli, anche quando si ha un corpo da atleta come Dubèek”. Tereza non può sopportare lo spettacolo di questa debolezza, che la ripugna e la umilia, e preferisce emigrare.
Ma, di fronte alle infedeltà di Tomá, Tereza è come Dubèek di fronte a Brenev: disarmata e debole. E sappiamo già che cos'è la vertigine: è l'essere ebbri della propria debolezza, è il desiderio invincibile di cadere. Tereza capisce improvvisamente “di appartenere ai deboli, al campo dei deboli, a una nazione di deboli, e che ad essi doveva essere fedele appunto perché erano deboli e boccheggiavano a metà delle frasi”. Ebbra di debolezza, Tereza lascia Tomáš e torna a Praga, nella “città dei deboli”. La situazione storica, qui, non è uno sfondo, un palcoscenico sul quale si svolgano le situazioni umane, ma è essa stessa una situazione umana, l'ingrandimento di una situazione esistenziale.
Nello stesso modo, la Primavera di Praga nel Libro del riso e dell'oblio non è descritta nella sua dimensione politico-storico-sociale, ma come una delle situazioni esistenziali fondamentali: l'uomo (una generazione di uomini) agisce (fa una rivoluzione) ma la sua azione gli sfugge, non gli obbedisce più (la rivoluzione infierisce, ammazza, distrugge), cosicché egli fa di tutto per riafferrare e domare questa azione disobbediente (la generazione fonda un movimento di opposizione riformatore), ma invano. Non si può mai riafferrare l'azione che ci è sfuggita.
C.S.: Il che ci ricorda la situazione di Jacques il fatalista, di cui lei parlava all'inizio.
M.K,: Ma questa volta si tratta di una situazione collettiva, storica.
C.S.: Per capire i suoi romanzi, è importante conoscere la storia della Cecoslovacchia?
M.K.: No. Tutto quello che bisogna saperne, lo dice il romanzo stesso.
C.S.: La lettura dei romanzi non presuppone alcuna conoscenza storica?
M.K.: Ciò che conta è la storia dell'Europa. Dall'anno mille fino ai giorni nostri questa storia è unica avventura comune. Ne facciamo tutti parte, e tutte le nostre azioni, individuali o nazionali, rivelano il loro significato decisivo solo se le si mette in relazione con essa. Io posso capire il Don Chisciotte senza conoscere la storia della Spagna. Non posso capirlo senza avere un'idea, anche solo generale, dell'avventura storica dell'Europa, per esempio dell'epoca della cavalleria, dell'amor cortese, del passaggio dal Medioevo ai Tempi moderni.
C.S.: In La vita è altrove, ogni fase della vita di Jaromil è messa a confronto con frammenti della biografia di Rimbaud, di Keats, di Lermotov, e così via. Il corteo del primo maggio a Praga si confonde con le manifestazioni studentesche del maggio '68 a Parigi. Lei crea così per il suo eroe un vasto palcoscenico che ingloba l'Europa intera. Il suo romanzo, però, si svolge a Praga. Culmina
nel momento del colpo di stato comunista del 1948.
M.K.: Per me, è il romanzo della rivoluzione europea in quanto tale, condensata.
C.S.: Rivoluzione europea, il colpo di stato del '48; Che per di più era importato da Mosca?
M.K.: Anche se inautentico, quel colpo di stato fu vissuto come una rivoluzione. Con tutta la sua retorica, le sue illusioni, i suoi riflessi, i suoi gesti, i suoi crimini, mi appare oggi come un condensato parodistico della tradizione rivoluzionaria europea. Come il prolungamento e il compimento grottesco dell'epoca delle rivoluzioni europee. Così come Jaromil, l'eroe di questo romanzo, “prolungamento” di Victor Hugo e di Rimbaud, è compimento grottesco della poesia europea. Jaroslav, nello Scherzo, prolunga la storia millenaria dell'arte popolare. Nell'epoca in cui questa arte sta scomparendo. Il dottor Havel, in Amori ridicoli, è un Don Giovanni nel momento in cui il dongiovannismo non è più possibile.
Franz, nell'Insostenibile leggerezza dell'essere è l'ultima eco melanconica della Grande Marcia della sinistra europea. E Tereza, in uno sperduto villaggio della Boemia, si tiene lontana non solo da tutta la vita pubblica del suo paese, ma “dalla strada sulla quale l'umanità, "signora e padrona della natura", prosegue la sua marcia in avanti”. Tutti questi personaggi portano a compimento non soltanto la loro storia personale, ma anche la storia sovrapersonale delle avventure europee.
C.S.: Questo vuol dire che i suoi romanzi si situano nell'ultimo atto dei Tempi moderni, che lei chiama il periodo dei paradossi terminali”.
M.K.: Sia pure. Evitiamo però un malinteso. Quando ho scritto la storia di Havel in Amori ridicoli, non avevo nessuna intenzione di parlare di un Don Giovanni nell'epoca in cui termina l'avventura del dongiovannismo. Ho scritto una storia che mi sembrava divertente, e basta. Tutte le riflessioni sui paradossi terminali e così via non precedono i miei romanzi, bensì procedono da essi. È stato mentre scrivevo L'insostenibile leggerezza dell'essere che, ispirato dai miei personaggi, i quali, in un certo modo, si ritirano tutti dal mondo, ho pensato al destino della famosa formula di Descartes:
l'uomo, “signore e padrone della natura”. Dopo aver compiuto miracoli nelle scienze e nella tecnica, questo signore e padrone” si rende improvvisamente conto di non essere padrone di nulla e di
non essere signore né della natura (che si ritira a poco a poco dal pianeta), né della Storia (che gli è sfuggita di mano), né di se stesso (guidato com'è dalle forze irrazionali della sua anima). Ma se Dio se n'è andato e l'uomo non è più padrone, il padrone chi è? Il pianeta procede nel vuoto senza padrone alcuno. È appunto l'insostenibile leggerezza dell'essere.
C.S.: Ma non è un miraggio egocentrico, vedere nell'epoca presente il momento privilegiato, il più importante di tutti, e cioè il momento della fine; quante volte l'Europa ha creduto di vivere la sua fine, la sua apocalisse!
M.K.: A tutti i paradossi terminali, aggiunga anche quello della fine stessa. Quando un fenomeno annuncia, di lontano, la sua prossima scomparsa, siamo in molti a saperlo, ed eventualmente a dolercene. Ma quando l'agonia è vicina alla fine, guardiamo già altrove. La morte diventa invisibile. E già un bel po' che il fiume, l'usignolo, i sentieri che attraversano i prati, sono spariti dalla testa dell'uomo. Più nessuno ne ha bisogno. Quando la natura, domani, sparirà dal pianeta, chi se ne accorgerà? Dove sono i successori di Octavio Paz, di René Char? Dove sono più i grandi poeti? Sono spariti, oppure la loro voce è diventata inudibile? Che immenso cambiamento, in ogni caso, in questa nostra Europa, un tempo impensabile senza poeti! Ma se l'uomo ha perduto il bisogno di poesia, si accorgerà della sua scomparsa? La fine non è un'esplosione apocalittica. Nulla, forse, è più pacifico della fine.
C.S.: Ammettiamolo pure. Ma se qualcosa sta finendo, si può supporre che qualcos'altro stia incominciando.
M.K.: Certamente.
C.S.: Ma che cosa incomincia? Questo nei suoi romanzi non si vede. Di qui il dubbio che lei veda solo una metà della nostra situazione storica.
M.K.: Può darsi, ma non è poi così grave. In effetti, bisogna capire che cos'è il romanzo, Uno storico racconta avvenimenti realmente accaduti. Il delitto di Raskol'nikov, invece, non ha mai avuto luogo. Il romanzo non indaga la realtà, ma l'esistenza. E l'esistenza non è ciò che è avvenuto, l'esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l'uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace. I romanzieri disegnano la carta dell'esistenza scoprendo questa o quella possibilità umana. Ma, ancora una volta, esistere vuol dire: “essere-nel-mondo”. È necessario dunque intendere tanto il personaggio quanto il suo mondo come possibilità. In Kafka, tutto questo è evidente: il mondo kafkiano non assomiglia ad alcuna realtà nota, esso è una possibilità estrema e non realizzata del mondo umano. Vero è che questa possibilità traspare dietro al nostro mondo reale e sembra prefigurare il nostro avvenire. Ecco perché si parla della dimensione profetica di Kafka. Ma anche se non avessero niente di profetico, i suoi romanzi non perderebbero il loro valore, perché colgono una possibilità dell'esistenza (possibilità dell'uomo e del suo mondo) e ci fanno così vedere che cosa siamo, di che cosa siamo capaci.
C.S.: Ma i suoi romanzi, Kundera, sono ambientati in un mondo del tutto reale!
M.K.: Si ricordi I sonnambuli di Broch, una trilogia che abbraccia trent'anni della Storia europea. Per Broch, questa Storia è chiaramente definita come una perpetua disgregazione dei valori. I personaggi sono rinchiusi in questo processo come in una gabbia e devono trovare il comportamento adeguato a questa progressiva scomparsa dei valori comuni. Ovviamente, Broch era convinto della giustezza del suo giudizio storico: era convinto, in altre parole, che la possibilità del mondo che lui descrive fosse una possibilità realizzata. Ma proviamo a immaginare che si sia sbagliato, e che, parallelamente a questo processo di disgregazione, fosse in atto un altro processo, un'evoluzione positiva che Broch non era capace di vedere. Questo avrebbe mutato qualcosa nel valore dei Sonnambuli? No. Perché il processo di disgregazione dei valori è una possibilità indiscutibile del mondo umano. La sola cosa che importi è comprendere l'uomo gettato nel vortice di questo processo, capire i suoi gesti e i suoi comportamenti. Broch ha scoperto un territorio ignoto dell'esistenza. Territorio dell'esistenza vuol dire: possibilità dell'esistenza. Che questa possibilità si trasformi o no in realtà, è cosa secondaria.
C.S.: L'epoca dei paradossi terminali in cui si svolgono i suoi romanzi deve dunque essere intesa non come una realtà ma come una possibilità?
M.K.: Una possibilità dell'Europa. Una visione possibile dell'Europa. Una situazione possibile dell'uomo.
C.S.: Ma se lei tenta di cogliere una possibilità e non una realtà, perché allora prendere sul serio l'immagine che lei dà, per esempio, di Praga e degli avvenimenti che vi si sono svolti?
M.K.: Se l'autore considera una situazione storica come una possibilità inedita e rivelatrice del mondo umano, vorrà descriverla così com'è. Nondimeno, la fedeltà alla realtà storica è cosa secondaria nella valutazione del romanzo. Il romanziere non è né uno storico né un profeta: è un esploratore dell'esistenza.
III
NOTE ISPIRATE
DAI “SONNAMBULI”
LA COMPOSIZIONE
Trilogia composta di tre romanzi: Pasenow o il romanticismo; Esch o l'anarchia; Huguenau o il realismo. La vicenda di ogni romanzo si svolge quindici anni dopo quella del precedente: 1888; 1903; 1918. Nessuno dei tre è legato agli altri due da un rapporto di causalità. Ciascuno ha personaggi suoi ed è costruito in un modo suo che non assomiglia a quello degli altri due.
È vero che Pasenow (il protagonista del primo romanzo) ed Esch (il protagonista del secondo) si ritrovano sulla scena del terzo romanzo, e che Bertrand (un personaggio del primo romanzo) compare anche nel secondo romanzo. Tuttavia, la vicenda vissuta da Bertrand nel primo romanzo (con Pasenow, Ruzena, Elisabeth) è totalmente assente dal secondo romanzo, e il Pasenow del terzo romanzo non conserva il benché minimo ricordo della sua giovinezza (di cui tratta il primo romanzo).
Esiste dunque una differenza radicale fra I sonnambuli e gli altri grandi “affreschi” del Novecento (quelli di Proust, di Musil, di Thomas Mann, ecc.): ciò che determina, nell'opera di Broch, l'unità
dell'insieme non è né la continuità dell'azione, né quella della biografia (di un personaggio o di una famiglia). È un'altra cosa, meno visibile, meno facile da cogliere, segreta: è la continuità di uno stesso tema (quello dell'uomo di fronte al processo di disgregazione dei valori).
LE POSSIBILITÀ
Quali possibilità ha l'uomo nella trappola che è diventato il mondo?
Per rispondere, è necessario innanzitutto avere una certa idea di che cosa sia il mondo: avere cioè una ipotesi ontologica.
Il mondo secondo Kafka: l'universo burocratizzato. La burocrazia non come un fenomeno sociale fra tanti, ma come essenza del mondo.
Proprio qui sta la somiglianza (strana, inaspettata somiglianza) fra l'ermetico Kafka e il popolare Haek. Hašek (a differenza di ciò che farebbero uno scrittore realista, un critico sociale) non descrive l'esercito come un ambiente della società austroungarica, ma come la versione moderna del mondo. L'esercito di Hašek, allo stesso modo della giustizia di Kafka, non è che una immensa istituzione burocratizzata, un esercito-amministrazione in cui le antiche virtù militari (il coraggio, l'astuzia, la destrezza) non servono più a niente.
I burocrati militari di Hašek sono stupidi; così come è totalmente priva di avvedutezza la logica, pedante quanto assurda dei burocrati di Kafka. In Kafka, la stupidità, coperta da un manto di mistero, assume i caratteri di una parabola metafisica. È intimidatoria. Nelle sue macchinazioni, nelle sue inintelligibili parole, Josef K. farà di tutto per decifrare un senso. Perché, se è terribile essere condannato a morte, è semplicemente insopportabile essere condannato per niente, come un martire dell'insensatezza. K. acconsentirà quindi a riconoscersi colpevole e cercherà la sua colpa. Nell'ultimo capitolo, proteggerà i suoi due carnefici dall'attenzione dei poliziotti municipali (che avrebbero potuto salvarlo) e, pochi secondi prima di morire, si rimprovererà di non essere abbastanza forte da uccidersi da solo e risparmiare loro quello sporco lavoro.
Švejk è esattamente all'opposto di K. Imita il mondo che lo circonda (il mondo della stupidità) in modo tanto sistematico che è impossibile sapere se è veramente idiota o no. Se si adatta così facilmente (e con tanto piacere!) all'ordine costituito, non è perché vi trovi un senso, ma perché non vi trova senso alcuno. Si diverte, diverte gli altri e, in un crescendo di conformismo, trasforma il mondo in una sola, enorme facezia.
(Noi che abbiamo conosciuto la versione totalitaria, comunista, del mondo moderno, sappiamo che questi due atteggiamenti, apparentemente artificiali, letterari, eccessivi, sono invece ben reali; abbiamo vissuto nello spazio limitato da una parte dalla possibilità di K., dall'altra da quella di Švejk; ossia: nello spazio dove un polo è rappresentato da una identificazione col potere che arriva fino alla solidarietà della vittima col proprio carnefice, e l'altro dalla non accettazione del potere attraverso il rifiuto di prendere sul serio alcunché; ossia nello spazio che c'è fra l'assoluto della serietà - K. - e l'assoluto della non serietà - Švejk).
E nel caso di Broch? Qual è la sua ipotesi ontologica?
Il mondo è il processo di disgregazione dei valori (valori che derivano dal Medioevo), un processo che si dispiega lungo i quattro secoli dei Tempi moderni e ne costituisce l'essenza.
Quali sono le possibilità dell'uomo di fronte a questo processo?
Broch ne individua tre: la possibilità Pasenow, la possibilità Esch, la possibilità Hugueau.
LA POSSIBILITÀ PASENOW
Il fratello di Joachim Pasenow è morto in duello. Il padre dice: “È caduto per l'onore”. Queste parole rimarranno per sempre impresse nella memoria di Joachim.
Ma il suo amico Bertrand si meraviglia: com'è possibile che, nell'epoca dei treni e delle fabbriche, due uomini si mettano uno di fronte all'altro, impalati, con un braccio teso e una rivoltella in mano?
Al che Joachim pensa: Bertrand non ha alcun senso dell'onore.
E Bertrand continua: i sentimenti resistono all'evoluzione dei tempi. Sono un fondo indistruttibile di conservatorismo.
Un residuo atavico.
Ora, quello che caratterizza Joachim Pasenow è proprio l'attaccamento sentimentale ai valori ereditati, al loro residuo atavico.
Pasenow e introdotto dal motivo dell'uniforme. Ci fu un tempo, spiega il narratore, in cui la Chiesa, in quanto Giudice supremo, dominava l'uomo. L'abito del sacerdote era il segno del potere ultra-terreno, mentre l'uniforme dell'ufficiale, la toga del magistrato rappresentavano la dimensione profana. Col progressivo venir meno dell'influenza magica della Chiesa, l'uniforme sostituì l'abito sacerdotale e s'innalzò al livello dell'assoluto. L'uniforme è ciò che non scegliamo noi, ciò che ci viene assegnato; la certezza dell'universale di fronte alla precarietà dell'individuale. Quando i valori, un tempo così certi, sono messi in dubbio e si allontanano a testa bassa, chi non sa vivere senza di essi (senza fedeltà, senza famiglia, senza patria, senza disciplina, senza amore) si abbottona fino al collo dell'universalità della sua uniforme, come se quest'uniforme fosse l'ultimo vestigio della trascendenza capace di proteggerlo dal freddo di un avvenire in cui non ci sarà più niente da rispettare.
La vicenda di Pasenow culmina nella sua notte di nozze. Sua moglie, Elisabeth, non lo ama. Lui non vede nulla davanti a sé tranne l'avvenire del non amore. Si stende al fianco di lei senza spogliarsi.
“Per la posizione, la tunica dell'uniforme era andata un po' fuori posto, le falde, aprendosi, lasciavano vedere i pantaloni neri; e quando Joachim se ne accorse, si affrettò per coprirsi a rimetterle a posto. Aveva tirato su anche le gambe e, per non toccar la tela con le scarpe di vernice, si sforzava di tenere i piedi sulla sedia accanto al letto”.
LA POSSIBILITÀ ESCH
I valori che derivano dal tempo in cui la Chiesa dominava interamente l'uomo erano stati scossi già da lungo tempo, ma per Pasenow il loro contenuto era ancora chiaro. Egli non aveva dubbi su cosa fosse la sua patria, sapeva a chi doveva essere fedele e chi era il suo Dio.
Di fronte a Esch, i valori nascondono il loro volto. Ordine, fedeltà, sacrificio: parole che gli sono care, ma che cosa rappresentano, di fatto? A che cosa sacrificarsi? Quale ordine esigere? Lui proprio non lo sa.
Se un valore ha perso il suo contenuto concreto, che cosa ne resta? Nient'altro che una forma vuota; un imperativo senza risposta ma che esige tanto più rabbiosamente d'essere inteso ed obbedito.
Quanto meno Esch sa quello che vuole, con tanta più rabbia lo vuole.
Esch: il fanatismo dell'epoca senza Dio. Dal momento che tutti i valori sono nascosti, tutto può essere considerato un valore. La giustizia, l'ordine, Esch li cerca ora nella lotta sindacale, ora nella religione, oggi nel potere poliziesco, domani nel miraggio dell'America dove sogna di emigrare. Potrebbe essere un terrorista, ma anche un terrorista pentito che denuncia i compagni, il militante di un partito politico, il membro di una setta, ma anche un kamikaze pronto a sacrificare la propria vita. Nella sua modesta avventura sono contenute, smascherate, diagnosticate ed esibite in piena luce tutte le passioni che infuriano nella Storia sanguinosa del nostro secolo.
Esch è scontento del suo impiego, attacca briga, viene licenziato. Ha inizio così la sua vicenda. La causa di tutto il disordine che lo irrita è, secondo lui, un tale Nentwig, contabile. Dio solo sa perché proprio lui. Fatto sta che Esch ha deciso di andare a denunciarlo alla polizia. Non è forse suo dovere? Non è forse un favore da fare a tutti quelli che come lui aspirano alla giustizia e all'ordine?
Ma una sera, in un cabaret, Nentwig, che non sospetta nulla, lo invita cortesemente al suo tavolo e gli offre da bere. Disorientato, Esch si sforza di ricordare la colpa di Nentwig, ma “tutto s'era fatto così stranamente inafferrabile e sfumato, ch'egli avvertì subito l'assurdità di quel proposito, e con un certo impaccio prese confuso il suo bicchiere di vino”.
Davanti agli occhi di Esch, il mondo si divide in regno del Bene e regno del Male: purtroppo, però, tanto il Bene quanto il Male sono ugualmente impossibili da riconoscere (basta incontrare Nentwig, e uno non sa più chi è buono e chi è cattivo). In questo ballo in maschera che è il mondo, Bertrand sarà il solo Il solo a portare sul volto fino all'ultimo le stimmate del Male, perché la sua colpa è confutabile: è un omosessuale, un perturbatore dell'ordine divino. All'inizio del romanzo Esch è pronto a denunciare Nentwig, alla fine imbuca una denuncia scritta contro Bertrand.
LA POSSIBILITÀ HUGUENAU
Esch ha denunciato Bertrand. Huguenau denuncia Esch. Esch voleva salvare il mondo. Huguenau vuole salvare la propria carriera.
In un mondo privo di valori comuni, Huguenau, arrivista innocente, si sente meravigliosamente a suo agio. L'assenza di imperativi morali significa per lui la libertà, l'affrancamento.
E profondamente significativo che sia proprio lui, senza peraltro il benché minimo senso di colpa, ad assassinare Esch.
Perché “l'uomo membro di un gruppo etico minore annienta l'uomo del gruppo etico maggiore in via di dissolvimento e sempre il più sventurato assume la parte del carnefice nel processo di disgregazione dei valori; e il giorno in cui echeggiano le trombe del Giudizio, tocca all'uomo affrancato dal valore diventare carnefice di un mondo che ha condannato a se stesso”.
I Tempi moderni, pensa Broch, sono il ponte gettato tra il regno della fede irrazionale e il regno dell'irrazionale nel mondo senza fede. In fondo a questo ponte, si intravede la sagoma di un uomo: è Huguenau. Assassino contento, impossibile da colpevolizzare. La fine dei Tempi moderni nella sua versione euforica.
K., Švejk, Pasenow, Esch, Huguenau cinque possibilità fondamentali, cinque punti di riferimento senza i quali mi sembra impossibile disegnare la mappa esistenziale del nostro tempo.
SOTTO I CIELI DEI SECOLI
I pianeti che ruotano nei cieli dei Tempi moderni si riflettono, sempre in una costellazione specifica, nell'anima di un individuo; e attraverso questa costellazione si definisce la situazione di un personaggio, il senso del suo essere.
Broch parla di Esch e, improvvisamente, lo paragona a Lutero. Entrambi appartengono alla categoria (che Broch analizza lungamente) dei ribelli. “Esch è un ribelle come lo era Lutero”. Si è soliti cercare le radici di un personaggio nella sua infanzia. Le radici di Esch (la cui infanzia ci rimarrà ignota) sono in un altro secolo. Il passato di Esch è Lutero. Per riuscire a capire Pasenow, questo uomo in uniforme, Broch ha dovuto situarlo all'interno del lungo processo storico in cui l'uniforme profana prese il posto dell'abito sacerdotale; di colpo, sopra la testa di questo povero ufficiale, si accese, in tutta la sua ampiezza, la volta celeste dei Tempi moderni.
Per Broch, il personaggio non è visto come una unicità inimitabile e fugace, un attimo miracoloso destinato a scomparire, ma come un solido ponte gettato al di sopra del tempo, dove si incontrano Lutero ed Esch, il passato e il presente.
È per questo suo nuovo modo di vedere l'uomo (di vederlo sotto la volta celeste dei secoli), più che per la sua filosofia della Storia, che Broch mi sembra aver prefigurato, nei Sonnambuli, le future possibilità del romanzo.
In questa prospettiva brochiana, io leggo Doktor Faustus di Thomas Mann, un romanzo che non tratta solo della vita di un compositore chiamato Adrian Leverkuhn, ma anche di alcuni secoli di musica tedesca. Adrian non è soltanto un compositore, è il compositore che porta a compimento la storia della musica (la sua composizione più grande ha per titolo L'Apocalisse). E non è soltanto l'ultimo compositore (l'autore, appunto, dell'Apocalisse), è anche Faust. Thomas Mann, che ha davanti agli occhi la diabolicità del suo paese (scrive questo romanzo verso la fine della seconda guerra mondiale), pensa al patto che l'uomo mitico, incarnazione dello spirito tedesco, aveva stretto col diavolo. Tutta la storia del suo paese gli si presenta all'improvviso come un'unica avventura di un unico personaggio: di un unico Faust.
E ancora in una prospettiva brochiana leggo Terra nostra di Carlos Fuentes, in cui tutta la grande avventura ispanica (europea e americana) è colta in una incredibile deformazione onirica. Il principio di Broch, Esch è come Lutero, si trasforma in Fuentes in un principio più radicale: Esch è Lutero. Fuentes ci fornisce la chiave del suo metodo: “Ci vogliono molte vite per fare una sola persona”. La vecchia mitologia della reincarnazione si materializza in una tecnica romanzesca che fa di Terra nostra un immenso e bizzarro sogno, nel quale la Storia è fatta ed è percorsa sempre dagli stessi personaggi che incessantemente si reincarnano.
Quello stesso Ludovico che ha scoperto nel Messico un continente fino ad allora ignoto si troverà, alcuni secoli dopo, a Parigi, con quella stessa Celestina che, due secoli prima, era stata l'amante di Filippo II. E così via.
È nel momento della fine (fine di un amore, fine di una vita, fine di un'epoca) che il tempo passato all'improvviso si rivela come un tutto e assume una forma luminosamente chiara e compiuta. Il momento della fine, per Broch, è Huguenau; per Mann, è Hitler. Per Fuentes, è la mitica frontiera tra due millenni; da questo osservatorio immaginario, la Storia, questa anomalia europea, questa macchia sulla purezza del tempo, sembra già finita, sola, abbandonata e, di colpo, altrettanto modesta, altrettanto commovente, quanto una piccola storia individuale che domani sarà già stata dimenticata.
Se Lutero è Esch, infatti, la storia che porta da Lutero a Esch non è altro che la biografia di una sola persona: Il Martin Lutero-Esch. E tutta la Storia non è altro che la storia di pochi personaggi (un Faust, un Don Giovanni, un Don Chisciotte, un Esch) che hanno attraversato insieme i secoli dell'Europa.
AL DI LÀ DELLA CAUSALITÀ
Nella proprietà di Levin, si incontrano un uomo e una donna, due esseri solitari, melanconici. Si piacciono e, segretamente, desiderano unire le loro vite.
Non aspettano altro che l'occasione di essere soli un momento e di poterselo dire. Finalmente, un giorno, si trovano senza testimoni in un bosco dove sono andati a cercar funghi. Turbati, tacciono, sanno che è venuto il momento e che non bisogna lasciarselo sfuggire. Dopo un lungo silenzio, la donna, improvvisamente, “contro la sua volontà, quasi di sorpresa”, si mette a parlare di funghi.
Poi, c'è ancora silenzio, l'uomo cerca le parole per fare la sua dichiarazione, ma, invece di parlare d'amore, “colto da un impulso inaspettato”... parla di funghi anche lui. Sulla via del ritorno, continuano a parlare di funghi, impotenti e senza più speranza, perché mai, ora lo sanno, mai si parleranno d'amore.
Una volta a casa, L'uomo si dice che se non ha parlato d'amore è stato perché non poteva tradire il ricordo della moglie morta. Ma noi sappiamo benissimo che si tratta di una falsa ragione che lui invoca soltanto per consolarsi. Consolarsi? Sì. Perché ci si rassegna a perdere un amore se c'è una ragione, ma non ci si perdonerà mai di averlo perduto senza ragione alcuna.
Questo breve e bellissimo episodio racchiude come in una parabola uno dei più alti risultati di Anna Karenina: l'aver messo in luce l'aspetto a-causale, incalcolabile, se non addirittura misterioso, delle azioni umane.
Che cos'è l'agire: eterna domanda posta dal romanzo, la sua domanda, per così dire, costitutiva. Come nasce una decisione? Come si trasforma in azione e come si concatenano le azioni per diventare avventura?
Dalla materia estranea e caotica della vita i romanzieri del passato tentarono di estrarre il filo di una limpida razionalità nella loro ottica, l'azione è originata da un movente afferrabile dalla ragione e produce a sua volta un'altra azione. L'avventura è il concatenamento, luminosamente causale, delle azioni.
Werther ama la moglie del suo amico. Non può tradire l'amico, non può rinunciare al suo amore, dunque si uccide. Un suicidio trasparente come un'equazione matematica.
Ma Anna Karenina, perché si suicida?
L'uomo che invece di parlare d'amore ha parlato di funghi vuole credere che sia stato a causa del suo attaccamento alla moglie scomparsa. Le ragioni che potremmo trovare al gesto di Anna avrebbero lo stesso valore. È vero, la gente le dimostrava disprezzo, ma lei non avrebbe potuto disprezzarla a sua volta? Le si impediva di vedere suo figlio, ma era davvero una situazione senza appello e senza uscita? Vronskij si era già un po' distaccato, ma, nonostante tutto, non l'amava ancora?
E poi, Anna non è andata alla stazione per uccidersi. È andata a prendere Vronskij. Si butta sotto il treno senza aver preso la decisione di farlo. È piuttosto la decisione ad aver preso Anna. Ad averla sorpresa. Proprio come l'uomo che parlava di funghi, Anna agisce a causa di “un impulso inaspettato”. Il che non significa che il suo gesto sia privo di senso. Soltanto, questo senso si trova al di là della causalità afferrabile dalla ragione. Tolstoj ha dovuto usare (per la prima volta nella storia del romanzo) un monologo interiore quasi joyciano per rendere il tessuto sottile degli impulsi fugaci, delle sensazioni passeggere, delle riflessioni frammentarie, in modo da farci vedere il progresso dell'anima di Anna verso il suicidio.
Con Anna, siamo lontani da Werther, e siamo anche lontani da Kirillov. Questi si uccide a causa di interessi chiaramente definiti, di intrighi nettamente descritti. Il suo gesto, benché folle, è razionale, cosciente, meditato, premeditato. Il carattere di Kirillov si fonda interamente sulla sua strana filosofia del suicidio, e il suo gesto non è altro che il logicissimo prolungamento delle sue idee.
Dostoevskij coglie la follia della ragione che vuole testardamente andare fino in fondo alla sua stessa logica. Tolstoj esplora la regione che si trova all'estremo opposto: svela l'intervento nelle azioni umane dell'illogico e dell'irrazionale.
Ecco perché ho parlato di lui. Il riferimento a Tolstoj situa Broch nell'ambito di una delle grandi esplorazioni del romanzo europeo: l'esplorazione del ruolo dell'irrazionale nelle nostre decisioni, nella nostra vita.
LE CON-FUSIONI
Pasenow frequenta una puttana ceca di nome Ruzena, ma i genitori preparano il suo matrimonio con una ragazza del loro ambiente: Elisabeth. Pasenow non prova alcun amore per lei, eppure ne è attratto. A dire il vero, non è lei che lo attrae, ma tutto quello che essa rappresenta per lui.
Quando va a farle visita per la prima volta, le strade, i giardini, le case del quartiere in cui lei abita emanano “una grande sicurezza insulare”; la casa di Elisabeth lo accoglie con un'atmosfera di felicità, “un felice destino di dolce sicurezza, colmato dall'amicizia, fino a che l'amore sostituisca l'amicizia e nell'amicizia si spenga di nuovo l'amore”. Il valore che Pasenow desidera (l'amichevole sicurezza di una famiglia) gli si presenta prima ancora che egli veda colei che dovrà diventare (a sua insaputa e contro la sua natura) portatrice di tale valore.
Seduto nella chiesa del villaggio dov'è nato, Pasenow immagina, a occhi chiusi, la Sacra Famiglia su una nuvola d'argento e al centro, ineffabilmente bella, la Vergine Maria. Già da bambino, in quella stessa chiesa, egli si esaltava con la stessa immagine. A quell'epoca amava una serva polacca della fattoria di suo padre e, nelle sue fantasticherie, la confondeva con la Vergine, immaginandosi seduto su quelle belle ginocchia, le ginocchia della Vergine diventata serva.
Ebbene, quel giorno, a occhi chiusi, Pasenow vede di nuovo la Vergine e, di colpo, si accorge che ha i capelli biondi!
Sì, Maria ha i capelli di Elisabeth! Pasenow ne è sorpreso, impressionato! Gli sembra che, per mezzo di quella fantasticheria, Dio stesso gli faccia sapere che quella donna che lui non ama è in realtà il suo vero e unico amore.
La logica irrazionale è fondata sul meccanismo della con-fusione: Pasenow ha uno scarso senso della realtà; le cause degli avvenimenti gli sfuggono; non saprà mai ciò che si nasconde dietro lo sguardo degli altri; eppure, benché mascherato, il riconoscibile, a-causale, il mondo esterno non è muto: gli parla. E come nella famosa poesia di Baudelaire, in cui “de longs echos... se confondent”, in cui “les parfums, les couleurs et les sons se répondent”: una cosa assomiglia a un'altra, si confonde con essa (Elisabeth si confonde con la Vergine) e in tal modo, attraverso questa somiglianza, si spiega.
Esch è amante dell'assoluto. “Si ama una volta sola” è il suo motto, e poiché la signora Hentjen lo ama, e impossibile (secondo la logica di Esch) che abbia amato il suo defunto marito. Ne segue che questi abusava di lei e non poteva esser altro che un porco. Un porco come Bertrand. Perché i rappresentanti del male sono intercambiabili. Si con-fondono.
Sono solo manifestazioni diverse della stessa essenza. Nel momento in cui Esch sfiora con lo sguardo il ritratto del signor Hentjen appeso al muro, gli passa per la mente un'idea: andare subito a denunciare Bertrand alla polizia. Perché se Esch colpisce Bertrand, è come se colpisse il primo marito della signora Hentjen, è come se sbarazzasse anche noi, tutti noi, di una piccola porzione del male comune.
LE FORESTE DI SIMBOLI
Bisogna leggere I sonnambuli attentamente, lentamente, fermarsi sulle azioni insieme illogiche e comprensibili per vedere l'ordine nascosto, sotterraneo, sul quale si fondano le decisioni di un Pasenow, di una Ruzena, di un Esch. Questi personaggi non sono capaci di affrontare la realtà come una cosa concreta. Ai loro occhi, tutto diventa simbolo (Elisabeth, simbolo della quiete familiare, Bertrand, simbolo dell'inferno), e quando pensano di agire sulla realtà non fanno che reagire ai simboli.
Broch ci fa capire come, alla base di ogni comportamento, individuale o collettivo, ci sia il sistema delle con-fusioni, il sistema del pensiero simbolico. Basta esaminare la nostra stessa vita per vedere fino a che punto questo sistema irrazionale influenzi i nostri comportamenti, vincendo la riflessione della ragione: questo tale uomo, la cui passione per i pesci d'acquario mi ricorda un altro uomo che in passato fu la causa di una mia terribile sventura, susciterà sempre in me un'invincibile diffidenza...
Il sistema irrazionale domina con la stessa forza la vita politica: la Russia comunista ha vinto, insieme con l'ultima guerra mondiale, la guerra dei simboli: per almeno mezzo secolo, essa è riuscita a distribuire i simboli del Bene e del Male all'immenso esercito degli Esch, tanto avidi di valori quanto incapaci di distinguerli. Ecco perché, nella coscienza europea, il Gulag non potrà mai prendere il posto del nazismo come simbolo del Male assoluto. Ecco perché vi sono manifestazioni di massa spontanee contro la guerra nel Vietnam e non contro la guerra in Afghanistan. Vietnam, colonialismo, razzismo, imperialismo, fascismo, nazismo: sono tutte parole che si rispondono come i colori e i suoni nella poesia di Baudelaire, mentre la guerra in Afghanistan è, per così dire, simbolicamente muta, in ogni caso al di là del cerchio magico del Male assoluto, geyser di simboli.
Penso anche alle ecatombi che quotidianamente avvengono sulle strade, a questa morte orribile e al tempo stesso banale, e che non somiglia né al cancro né all'AIDS poiché, essendo opera non della natura ma dell'uomo, è una morte quasi volontaria. Com'è possibile che non ci lasci stupefatti, che non sconvolga la nostra vita, che non ci spinga a radicali riforme? No, non ci lascia stupefatti, perché, come Pasenow, abbiamo uno scarso senso del reale, e questa morte, che dissimula il suo volto sotto la maschera di una bella macchina, in realtà, nella sfera surreale dei simboli, rappresenta la vita; si confonde sorridente con la modernità, la libertà, l'avventura, così come Elisabeth si confondeva con la Vergine. La morte dei condannati alla pena capitale, benché infinitamente più rara, attira molto di più la nostra attenzione, ridesta le passioni: confondendosi con l'immagine del carnefice, questa morte ha un voltaggio simbolico ben più alto, ben più tetro e ripugnante. E, così via.
L'uomo è un bambino il quale - per citare ancora una volta la stessa poesia di Baudelaire - si è smarrito nelle “foreste di simboli”.
(Il criterio di maturità: La facoltà di resistere ai simboli. Ma l'umanità è sempre più giovane).
Il POLISTORICISMO
Parlando dei suoi romanzi, Broch rifiuta l'estetica del romanzo “psicologico”, contrapponendovi quello che egli chiama romanzo “gnoseologico” o “polistorico”. Mi pare che il secondo termine, in particolare, sia mal scelto e si presti a equivoci. Il “romanzo polistorico” nel senso esatto del termine è stato creato da Adalbert Stifter, compatriota di Broch e fondatore della prosa austriaca, con il suo romanzo Der Nachsommer (L'estate di san Martino) del 1857 (sì, proprio il grande anno di Madame Bovary). Questo romanzo è famoso, del resto, per essere stato incluso da Nietzsche fra i quattro più grandi libri della prosa tedesca. Per me, è appena leggibile: vi impariamo una quantità di cose sulla botanica, la zoologia, su tutte le forme di artigianato, sulla pittura e sull'architettura, ma l'uomo e le situazioni umane restano completamente ai margini di questa gigantesca enciclopedia edificante. Proprio a causa del suo “polistoricismo”, questo romanzo manca totalmente l'obiettivo della specialità del romanzo.
Con Broch, è tutt'altra cosa. Egli persegue “ciò che solo il romanzo può scoprire”. Sa però che la forma convenzionale (basata esclusivamente sull'avventura di un personaggio e paga del semplice racconto di tale avventura) limita il romanzo, riduce le sue capacità cognitive. Sa inoltre che il romanzo ha una straordinaria facoltà di inclusione: mentre la poesia o la filosofia non sono in grado di accogliere entro di sé il romanzo, il romanzo può accogliere tanto la poesia quanto la filosofia senza per questo perdere niente della sua identità, che è caratterizzata appunto (basti ricordare Rabelais e Cervantes) dalla tendenza ad abbracciare altri generi, ad assorbire il sapere filosofico e scientifico. Nell'ottica di Broch, la parola “polistorico” vuol dire allora: mobilitare tutti gli strumenti intellettuali e tutte le forme poetiche per far luce su “quello che solo il romanzo può scoprire”: l'essere dell'uomo.
Il che dovrà implicare, ovviamente, una trasformazione profonda della forma del romanzo.
IL NON-COMPIUTO
Mi permetterò ora di dire qualcosa di molto personale: l'ultimo romanzo dei Sonnambuli (Huguenau o il realismo), in cui la tendenza sintetica e la trasformazione della forma sono spinte all'estremo mi dà, oltre a un piacere ammirato, alcuni motivi di insoddisfazione:
- l'intenzione “polistorica”, esige una tecnica dell'ellissi che Broch non è riuscito a trovare; ne risente la chiarezza architettonica;
- i diversi elementi (versi, racconto, aforismi, reportage, saggio) rimangono giustapposti invece di fondersi in una vera unità “polifonica”;
- l'ottimo saggio sulla disgregazione dei valori, benché presentato come testo scritto da un personaggio, può essere facilmente inteso come ragionamento dell'autore, come la verità del romanzo, il suo compendio, la sua tesi, e alterare così l'indispensabile relatività dello spazio romanzesco.
Tutte le grandi opere (e appunto perché grandi) hanno in sé una parte di non-compiuto. Broch ci ispira non solo per tutto quello che ha portato a termine, ma anche per tutte le mete che si era prefisso, e che non è riuscito a raggiungere. Ciò che non è compiuto nella sua opera può farci capire la necessità: 1. di una nuova arte dello sfrondamento radicale (che permetta di abbracciare la complessità dell'esistenza nel mondo moderno senza perdere la chiarezza architettonica); 2. di una nuova arte del contrappunto romanzesco (capace di fondere in una sola musica la filosofia, il racconto e il sogno); 3. di un'arte del saggio specificamente romanzesco (che non pretenda cioè di essere portatore di un messaggio apodittico, ma resti ipotetico, ludico, o ironico).
I MODERNISMI
Di tutti i grandi romanzieri del nostro secolo, Broch è forse il meno noto. Non è difficile capire perché. Ha appena finito I sonnambuli che vede Hitler al potere e la vita culturale tedesca annientata; cinque anni più tardi, lascia l'Austria per l'America, dove resta fino alla morte. In tali condizioni, la sua opera priva del suo pubblico naturale, priva del contatto con una vita letteraria normale, non può più svolgere la propria azione nel suo tempo: quella di riunire intorno a sé una comunità di lettori, sostenitori ed estimatori, di creare una scuola, di influenzare altri scrittori. L'opera di Broch, come quella di Musil e di Gorbrowicz, fu scoperta (riscoperta) con grande ritardo (e dopo la morte dell'autore) da coloro che, come lo stesso Broch, erano mossi dall'amore per la forma nuova, coloro che, in altre parole, avevano un orientamento “modernista”. Ma il loro modernismo non assomigliava a quello di Broch. Non che fosse più arretrato, o più avanzato: era diverso nelle sue radici, nel suo atteggiamento verso il mondo moderno, nella sua estetica. Questa diversità è stata causa di un certo imbarazzo: Broch (come Musil, come Gombrowicz) è apparso come un grande innovatore che però non rispondeva all'immagine comune e convenzionale del modernismo (giacché, nella seconda metà di questo secolo, bisogna fare i conti con il modernismo delle norme codificate, il modernismo universitario, per così dire cattedratico).
Questo modernismo cattedratico esige, per esempio, la distruzione della forma-romanzo. Nell'ottica di Broch, le possibilità di tale forma sono tutt'altro che esaurite. Il modernismo cattedratico vuole che il romanzo si sbarazzi dell'artificio del personaggio, nel quale vede, in fin dei conti, solo una maschera che invano dissimula il volto dell'autore. Nei personaggi di Broch, l'io dell'autore non lascia traccia.
Il modernismo cattedratico ha messo al bando la nozione di totalità, quella stessa parola che Broch usa invece volentieri per dire: nell'epoca della eccessiva divisione del lavoro, della specializzazione sfrenata, il romanzo è una delle ultime postazioni dove l'uomo possa ancora mantenere un contatto con la vita nel suo insieme.
Secondo il modernismo cattedratico, il romanzo “moderno” è separato dal romanzo “tradizionale” (definizione, questa, sotto la quale sono state affastellate alla rinfusa tutte le fasi di quattro secoli di romanzo) da una frontiera insuperabile. Nell'ottica di Broch, il romanzo moderno continua la stessa indagine alla quale hanno partecipato tutti i grandi romanzieri da Cervantes in poi.
Dietro il modernismo cattedratico c'è un candido residuo di fede escatologica: una Storia finisce, un'altra (migliore) incomincia, fondata su basi interamente nuove. In Broch, c'è la melanconica consapevolezza che una Storia sta giungendo al termine in circostanze profondamente ostili all'evoluzione dell'arte e del romanzo in particolare.
IV
DIALOGO SULL'ARTE
DELLA COMPOSIZIONE
C.S.: inizierò questa conversazione con una citazione dal suo testo su Hermann Broch. Lei dice: “Tutte le grandi opere (e appunto perché grandi) hanno in sé una parte di non-compiuto Broch ci ispira non solo per tutto quello che ha portato a termine, ma anche per tutte le mete che si era prefisso e che non è riuscito a raggiungere. Ciò che non è compiuto nella sua opera può farci capire la necessità: 1, di una nuova arte dello sfrondamento radicale (che permetta di abbracciare la complessità dell'esistenza nel mondo moderno senza perdere la chiarezza architettonica); 2. di una nuova arte del contrappunto romanzesco (capace di fondere in una sola musica la filosofia, il racconto e il sogno); 3. di un'arte del saggio specificamente romanzesco (che non pretenda cioè di essere portatore di un messaggio apodittico, ma resti ipotetico, ludico, o ironico)”. In questi tre punti mi sembra di individuare il suo programma artistico. Cominciamo dal primo. Lo sfrondamento radicale.
M.K.: Cogliere la complessità dell'esistenza nel mondo moderno esige a mio parere una tecnica dell'ellissi, della condensazione. Altrimenti si rischia di cadere nella trappola di una lunghezza senza fine. L'uomo senza qualità è uno dei due o tre romanzi che amo di più. Ma non mi chieda di ammirare la sua immensa vastità incompiuta. Immagini un castello tanto grande da non potersi abbracciare con lo sguardo. Immagini un quartetto che duri nove ore. Ci sono limiti antropologici che non vanno oltrepassati, i limiti nella memoria, per esempio. Giunti al termine della lettura, si deve poter ancora ricordare l'inizio. Altrimenti il romanzo diventa informe, la sua “chiarezza architettonica” si offusca.
C.S.: Il libro del riso e dell'oblio è di sette parti. Se lei le avesse trattate in maniera meno ellittica, avrebbe potuto scrivere sette lunghi romanzi diversi.
M.K.: Ma se avessi scritto sette romanzi indipendenti, non avrei potuto sperare di cogliere “la complessità dell'esistenza nel mondo moderno” in un libro solo. L'arte dell'ellissi mi sembra dunque una
necessità.. Essa esige che si vada sempre direttamente all'essenza delle cose. In Questo senso, penso al compositore che ammiro appassionatamente fin dall'infanzia : Leoš Janácek. Uno dei grandissimi della musica moderna. Nell'epoca in cui Schönberg e Stravinskij scrivono ancora composizioni per grande orchestra, Janácek già si rende conto che una partitura per orchestra è schiacciata dal peso delle note inutili. La sua rivolta ha inizio proprio da questa volontà di sfrondamento. Vede, in ogni composizione musicale c'è molta tecnica: l'esposizione del tema, il suo sviluppo, le variazioni, il lavoro polifonico spesso assai automatizzato, i riempitivi di orchestrazione, le transizioni, ecc. Oggi si può scrivere musica col computer, ma nella testa dei musicisti il computer è sempre esistito: essi potevano addirittura scrivere una sonata senza una sola idea originale, limitandosi a sviluppare “ciberneticamente” le regole della composizione. L'imperativo di Janáèek era: distruggere il “computer”! Invece delle transizioni, una brutale giustapposizione, invece delle variazioni, la ripetizione, e andare sempre al cuore delle cose: solo la nota che dice qualcosa di essenziale ha diritto di esistere. Con il romanzo, succede più o meno lo stesso: anche il romanzo è impacciato dalla “tecnica”, dalle convenzioni che lavorano al posto dell'autore: presentare un personaggio, descrivere un ambiente, ma inquadrare l'azione in una situazione storica, riempire il tempo della vita dei personaggi con episodi inutili; ogni cambiamento di scena esige nuove presentazioni, nuove descrizioni, nuove spiegazioni. Il mio imperativo è “janacekiano”: sbarazzare il romanzo dall'automatismo della tecnica romanzesca, dal verbalismo romanzesco, renderlo denso.
C.S.: Lei parla, in secondo luogo, della “nuova arte del contrappunto romanzesco”. Questo, in Broch, non la soddisfa interamente.
M.K.: Prenda il terzo romanzo dei Sonnambuli. È composto di cinque elementi, di cinque “linee” intenzionalmente eterogenee: 1. il racconto romanzesco fondato sui tre personaggi principali della trilogia: Pasenow, Esch, Huguenau: 2. la novella intimista su Hanna Wendling; 3. Il reportage su un ospedale militare; 4, il racconto poetico (scritto parzialmente in versi) su una ragazza dell'Esercito della salvezza; 5, il saggio filosofico (scritto in un linguaggio scientifico) sulla disgregazione dei valori. Queste cinque linee, se prese una per una, sono magnifiche. Eppure, benché trattate simultaneamente, in una perpetua alternanza (ossia con una evidente intenzione “polifonica”), queste linee non sono unite, non formano un insieme indivisibile: in altri termini, l'intenzione polifonica rimane artisticamente non compiuta.
C.S.: Il termine polifonia applicato per metafora alla letteratura non porta a delle esigenze che il romanzo non può soddisfare?
M.K.: La polifonia musicale è lo sviluppo simultaneo di due o più voci (linee melodiche) le quali, pur essendo perfettamente legate, conservano la loro relativa indipendenza. La polifonia romanzesca? Diciamo innanzitutto qual è il suo opposto: la composizione unilineare. Ebbene, fin dall'inizio della sua storia, il romanzo tenta di sfuggire all'unilinearità e di aprire delle brecce nella narrazione continua di una storia. Cervantes racconta il viaggio linearissimo di Don Chisciotte. Ma durante questo viaggio, Don Chisciotte incontra altri personaggi che raccontano ciascuno la propria storia.
Nel primo volume ce ne sono quattro. Quattro brecce che consentono di uscire dalla trama lineare del romanzo.
C.S.: Ma questa non è polifonia!
M.K.: Perché non c'è simultaneità. Per usare la terminologia di Šklovskij, si tratta di racconti racchiusi nel romanzo come in una scatola. (Questo metodo dell'inscatolamento, lo si può trovare in molti romanzieri del Seicento e del Settecento. L'Ottocento ha elaborato un'altra maniera di superare la linearità, la maniera, appunto, che, in mancanza di meglio, possiamo chiamare polifonica.
Prendiamo I demoni. Se si analizza questo romanzo dal punto di vista puramente tecnico, si constata che è composto di tre linee che procedono simultaneamente e ognuna delle quali avrebbe potuto, a rigore, costituire un romanzo indipendente; 1. il romanzo ironico dell'amore fra la vecchia Stavrogina e Stepan Verchovenskij; 2. il romanzo romantico di Stavrogin e delle sue relazioni amorose; 3. il romanzo politico di un gruppo rivoluzionario. Dato che tutti i personaggi si conoscono fra loro, una fine tecnica di affabulazione ha potuto facilmente legare queste tre linee in un insieme unico e indivisibile. Confrontiamo ora con questa polifonia dostoevskiana quella di Broch. Essa va molto più lontano. Mentre le tre linee dei Demoni, sebbene diverse come carattere, sono dello stesso genere (tre storie romanzesche), in Broch i generi delle cinque linee sono radicalmente diversi: romanzo, novella, reportage, poesia, saggio. Questa integrazione dei generi non romanzeschi nella polifonia del romanzo costituisce l'innovazione rivoluzionaria di Broch.
C.S.: Lei pensa. però, che queste cinque linee non si fondano abbastanza. In effetti, Hanna Wendling non conosce Esch, la ragazza dell'Esercito della salvezza non saprà mai dell'esistenza di Hanna Wendling. Nessuna tecnica di affabulazione può dunque unire in un insieme unico queste cinque linee diverse che non si incontrano, che non si incrociano.
M.K.: La sola cosa che le leghi è un tema comune. Io trovo però che questa unione tematica sia perfettamente sufficiente. Il problema della discussione è altrove. Ricapitoliamo : nel romanzo di Broch, le cinque linee procedono simultaneamente, senza incontrarsi, unite da uno o da più temi. Io ho usato, per designare questo tipo di composizione, una parola presa in prestito alla musicologia: polifonia.
Vedrà che non è poi così inutile paragonare il romanzo alla musica. Uno dei principi fondamentali dei grandi polifonisti, infatti, era l'uguaglianza delle voci: nessuna voce doveva dominare, sulle altre, e nessuna doveva servire da semplice accompagnamento. Ora, quello che mi sembra un difetto del terzo romanzo dei Sonnambuli è che le cinque “voci” non sono uguali. La linea numero uno (il racconto “romanzesco” su Esch e Huguenau) occupa, quantitativamente parlando, molto più posto delle altre due linee e, soprattutto, è privilegiata qualitativamente essendo collegata, attraverso Esch e Pasenow, ai due romanzi precedenti. Essa attira quindi più attenzione e rischia di ridurre il ruolo delle altre quattro “linee” a un semplice “accompagnamento”. Un'altra cosa: se una fuga di Bach non può fare a meno di nessuna delle sue voci, si possono, invece, immaginare la novella su Hanna Wendling o il saggio sulla disgregazione dei valori come testi indipendenti la cui assenza non farebbe perdere al romanzo né il suo senso né la sua intelligibilità.
Ora, per me, le condizioni sine qua non del contrappunto romanzesco sono: 1. l'uguaglianza delle varie “linee”; 2. l'indivisibilità dell'insieme. Ricordo il giorno in cui ho finito la terza parte del Libro del riso e dell'oblio, intitolata “Gli angeli”.
Confesso che ero terribilmente fiero, sicurissimo di nuovo di costruire un testo è composto dei Seguenti elementi: 1. l'aneddoto su due studentesse e sulla loro levitazione; 2. il racconto autobiografico; 3. il saggio critico su un libro femminista ; 4. la favola sull'angelo e il diavolo; 5. il racconto su Éluard che vola sopra Praga. Questi elementi non possono esistere isolatamente, essi si chiariscono e si spiegano a vicenda esaminando un unico tema, un'unica domanda: “che cos'è un angelo?”. Solo questa domanda li unisce. La sesta parte, anch'essa intitolata “Gli angeli”, si compone: 1. del racconto onirico sulla morte di Tamina; 2. del racconto autobiografico della morte di mio padre; 3. di riflessioni musicologiche; 4. di riflessioni sull'oblio che devasta Praga. Qual è il rapporto fra mio padre e Tamina torturata dai bambini? E, per evocare una frase cara ai surrealisti, “l'incontro di una macchina da cucire e di un ombrello sul tavolo di dissezione” dello stesso tema. La polifonia romanzesca, molto più che tecnica, è poesia.
C.S.: Nell'Insostenibile leggerezza dell'essere il contrappunto è più discreto.
M.K.: Nella sesta parte il carattere polifonico è molto evidente: la storia del figlio di Stalin, una riflessione teologica, un avvenimento politico in Asia, la morte di Franz a Bangkok e il funerale di Tomáš in Boemia sono collegati da una domanda che è sempre la stessa: “che
s'è il Kitsch'”. Questa sezione polifonica è la chiave di volta di tutta la costruzione. Lì dentro c'è tutto il segreto dell'equilibrio architettonico.
C.S.: Quale segreto?
M.K.: Ce ne sono due. Primo: questa parte non è fondata sul canovaccio di una storia ma su quello di un saggio (il saggio sul Kitsch). In questo saggio sono inseriti frammenti della vita dei personaggi, come “esempi”, “situazioni da analizzare”. Apprendiamo così, “di passaggio” e in forma succinta, la fine della vita di Franz, di quella di Sabina, l'epilogo dei rapporti fra Tomáš e suo figlio. Questa ellissi ha alleggerito enormemente la costruzione. Secondo, lo spostamento cronologico: gli avvenimenti della sesta parte hanno luogo dopo gli avvenimenti della settima (e ultima) parte. Grazie a tale spostamento, l'ultima parte, nonostante il suo carattere idilliaco, è pervasa da una melanconia che deriva dalla nostra conoscenza dell'avvenire.
C.S.: Torniamo alle sue note sui Sonnambuli. Lei esprime qualche riserva a proposito del saggio sulla disgregazione dei valori. Secondo lei questo saggio, a causa del suo tono apodittico, del suo linguaggio scientifico, può imporsi come la chiave ideologica del romanzo, come la sua “Verità”, e trasformare tutta la trilogia dei Sonnambuli nella semplice illustrazione romanzata di una grande riflessione.
È per questo che lei parla della necessità di un'“arte del saggio specificamente romanzesco”
M.K.: Innanzitutto, una cosa è evidente: entrando a far parte del corpo del romanzo, la meditazione cambia essenza.
Al di fuori del romanzo, siamo nel campo delle affermazioni: ognuno è sicuro della sua parola - il politico, il filosofo, la portiera. Nel territorio del romanzo, non si fanno affermazioni: è il territorio del gioco e delle ipotesi. La meditazione romanzesca è quindi, per essenza, interrogativa, ipotetica.
C.S.: Ma perché un romanziere deve privarsi del diritto di esprimere nel suo romanzo la sua filosofia in modo diretto e affermativo?
M.K.: C'è una differenza fondamentale fra la maniera di pensare di un filosofo e quella di un romanziere. Si parla spesso della filosofia di Èechov, di Kafka, di Musil, ecc. Ma provi a tirar fuori da ciò che hanno scritto una filosofia coerente! Anche quando esprimono le loro idee in modo diretto, nei loro appunti, si tratta di esercizi di riflessione, di giochi, di paradossi, di improvvisazioni, piuttosto che dell'affermazione di un pensiero.
C.S.: Dostoevskij, però, nel Diario di un scrittore, fa affermazioni assai categoriche.
M.K.: Ma non sta in questo la grandezza nel suo pensiero. Se è un grande pensatore, lo è soltanto in quanto romanziere.
Ossia, perché sa creare nei suoi personaggi universi intellettuali straordinariamente ricchi e inediti. Molti hanno voluto vedere nei suoi personaggi la proiezione delle sue idee. In Satov, per esempio. Ma Dostoevskij ha preso le sue precauzioni. Fin dalla sua prima apparizione, Satov è dipinto abbastanza crudelmente: “era uno di quegli idealisti russi che, colpiti tutt'a un tratto da una qualche potente idea, ne vengono letteralmente schiacciati al primo impatto, a volte addirittura per sempre. Non hanno mai la forza di tenerle testa, ma ci credono appassionatamente, così che la loro vita trascorre poi tutta in preda agli ultimi spasimi, sotto il macigno che si è abbattuto su di loro e li ha già per metà sfracellati”. Quindi, anche se Dostoevskij ha proiettato in Satov le proprie idee, queste sono immediatamente relativizzate. Anche per Dostoevskij rimane valida la regola che la meditazione, dal momento in cui entra nel corpo del romanzo cambia essenza: un pensiero dogmatico diventa ipotetico. Cosa, questa, che sfugge ai filosofi allorché si cimentano con il romanzo Una sola eccezione: Diderot. Che meraviglia, il suo
Jacques Le Fataliste! Superata la frontiera del romanzo, questo serio enciclopedista si trasforma in pensatore ludico: non c'è una sola frase seria, nel suo romanzo, tutto è gioco. Ecco perché in Francia in questo libro è scandalosamente sottovalutato. Esso è infatti il concentrato di tutto quello che la Francia ha perduto e che si rifiuta di ritrovare. Oggi si preferiscono le idee alle opere. E Jacques le Fataliste è intraducibile nel linguaggio delle idee.
C.S.: Nello Scherzo Jaroslav espone una teoria musicologica. Si tratta, quindi, di una riflessione con chiaro carattere ipotetico. Ma nei suoi romanzi ci sono anche momenti in cui lei parla in prima persona.
M. K.: Anche se sono io che parlo la mia riflessione è legata a un personaggio. Io voglio pensare i comportamenti, il suo modo di vedere le cose, al posto suo è più profondamente di quanto potrebbe fare lui. La seconda parte dell'Insostenibile leggerezza dell'essere inizia con una lunga riflessione sui rapporti fra il corpo e l'anima. Certo, è l'autore che parla, ma tutto quello che dice è valido solo nel campo magnetico di un personaggio: Tereza. È la maniera di Tereza (quantunque mai formulata da lei stessa) di vedere le cose.
C.S.: Spesso, però, le sue meditazioni non sono collegate ad alcun personaggio: le riflessioni musicologiche nel Libro del riso e dell'oblio, per esempio, o le sue considerazioni sulla morte del figlio di Stalin nell'Insostenibile leggerezza dell'essere...
M.K.: È vero. Mi piace intervenire ogni tanto come autore, in prima persona. In tal caso, tutto dipende dal tono. Fin dalla prima parola, la mia riflessione ha un tono ludico, ironico, provocatorio, sperimentale o interrogativo. Tutta la sesta parte dell'Insostenibile leggerezza dell'essere (“La Grande Marcia”) è un saggio sul Kitsch la cui tesi principale è: “Il Kitsch è la negazione assoluta della merda”.
Tutta questa meditazione sul Kitsch ha per me un'importanza capitale, ci sono dietro una quantità di riflessioni, di esperienze, di studi, e c'è anche passione, ma il tono non è mai serio: è provocatorio. Questo messaggio è impensabile al di fuori del romanzo: e proprio quello che io chiamo un “saggio specificamente romanzesco”.
C.S.: Lei ha parlato del contrappunto romanzesco come unione della filosofia, del racconto e del sogno. Parliamo del sogno. La narrazione onirica occupa tutta la seconda parte di La vita è altrove, è alla base della sesta parte del Libro del riso e dell'oblio, e, sul filo dei sogni di Tereza, percorre L'insostenibile leggerezza dell'essere.
M.K.: La narrazione onirica; diciamo piuttosto: l'immaginazione, che, affrancata dal controllo della ragione e dall'assillo della verosimiglianza, penetra in paesaggi inaccessibili alla riflessione razionale. Il sogno è soltanto il modello di questa specie di immaginazione, che personalmente considero la più grande conquista dell'arte moderna. Ma come può il romanzo, che dev'essere, per definizione, un esame lucido dell'esistenza, accogliere l'immaginazione incontrollata? Come è possibile unire elementi così eterogenei? Ci vuole una vera alchimia! Credo che il primo ad aver pensato a questa alchimia sia stato Novalis. Nel primo tomo del suo romanzo Heinrich von Ofterdingen, Novalis ha inserito tre grandi sogni. Non si tratta di un'imitazione “realistica” dei sogni come se ne trovano in Tolstoj o in Thomas Mann. Si tratta di una grande poesia che si ispira alla “tecnica immaginativa” propria del sogno. Novalis, però, non era soddisfatto. Gli sembrava che quei tre sogni fossero come tre isole nel corpo del romanzo. Voleva dunque andare oltre e scrivere il secondo tomo del romanzo come una narrazione in cui sogno e realtà fossero legati, mescolati in modo tale da non poterli più distinguere. Ma questo secondo tomo non lo scrisse mai. Ci ha soltanto lasciato degli appunti in cui descrive la sua intenzione estetica. E questa intenzione fu realizzata, centoventi anni dopo da Franz Kafka. I romanzi di Kafka sono appunto la fusione totale fra sogno e realtà. A un tempo lo sguardo più lucido sul mondo moderno e l'immaginazione più sfrenata, Kafka rappresenta innanzitutto un'immensa rivoluzione estetica esempio, quell'incredibile capitolo del Castello in cui K. fa per la prima volta l'amore con Frieda. O quello in cui trasforma un'aula della scuola elementare in camera da letto per sé, Frieda e i due aiutanti. Prima di Kafka, una tale densità di immaginazione era impensabile. Ovviamente, sarebbe ridicolo volerlo imitare. Ma come Kafka (e come Novalis) io provo questo desiderio di far entrare il sogno, l'immaginazione, che è propria del sogno, nel romanzo. Il mio modo di farlo non è una “fusione tra sogno e realtà.”, ma un confronto polifonico. Il racconto “onirico” è una delle linee del contrappunto.
C.S.: Passiamo ad altro. Vorrei tornare al problema dell'unità di composizione. Lei ha definito Il libro del riso e dell'oblio “un romanzo in forma di variazioni”. Ma è ancora un romanzo, questo?
M.K.: Ciò che gli toglie l'apparenza di un romanzo è l'assenza di unità d'azione. Si fatica a immaginare un romanzo privo di tale unità. Perfino gli esperimenti del “nouveau roman” sono basati sull'unità d'azione (o di non azione). Sterne e Diderot si divertono a rendere questa unità estremamente fragile. Il viaggio di Jacques e del suo padrone occupa una minima parte del romanzo, non è che un pretesto comico per racchiudere altri aneddoti, racconti, riflessioni. Eppure questo pretesto, questa “scatola” è necessaria perché il romanzo venga percepito come romanzo, o almeno come una parodia di romanzo. Io credo però che quello che assicura la coerenza del romanzo sia qualcosa di più profondo: l'unità tematica. E d'altra parte è sempre stato così. Le tre linee narrative su cui si basa I demoni sono unite da una tecnica di affabulazione, ma soprattutto dallo stesso tema: quello dei demoni da cui è posseduto l'uomo quando perde Dio.
Questo tema viene considerato, in ciascuna delle tre linee narrative, da un diverso punto di vista, come una cosa riflessa in tre specchi diversi. Ed è proprio questa cosa (questa cosa astratta che io chiamo tema) a dare all'insieme del romanzo una coerenza interiore; la meno visibile, la più importante. Nel Libro del riso e dell'oblio, la coerenza dell'insieme è data unicamente dall'unità di alcuni temi (e motivi), con le loro variazioni. È un romanzo, questo? Io credo di sì. Il romanzo è una meditazione sull'esistenza vista attraverso personaggi immaginari.
C.S.: Se si accetta una definizione così ampia, anche il Decamerone può essere definito romanzo! Tutte le novelle sono unite dallo stesso tema dell'amore, e sono raccontate dagli stessi dieci narratori...
M.K.: Non spingerò la provocazione fino a dire che il Decamerone è un romanzo. Ciò non toglie che, nell'Europa moderna, questo libro sia uno dei primi tentativi di creare una grande composizione di prosa narrativa, e che in quanto tale esso faccia parte della storia del romanzo almeno come suo ispiratore e precursore. La storia del romanzo ha preso la strada che sappiamo. Avrebbe anche potuto prenderne un'altra. La forma del romanzo è libertà pressoché illimitata. Nel corso della sua storia, il romanzo non ne ha approfittato. Ha perso l'occasione di questa libertà. Molte possibilità formali sono rimaste inesplorate.
C.S.: Ma, a parte Il libro del riso e dell'oblio, anche i suoi romanzi sono fondati sull'unità d'azione, pur se un po' allentata.
M.K.: Da sempre costruisco i miei romanzi su due livelli: al primo livello, creo la storia romanzesca; al di sopra di questa, sviluppo alcuni temi. I temi vengono ininterrottamente elaborati nella e dalla storia romanzesca. Laddove il romanzo abbandona i suoi temi e si accontenta di raccontare la storia, diventa piatto. Un tema, invece, può essere sviluppato da solo, al di fuori della storia. Questo modo di affrontare un tema io lo chiamo digressione. Digressione vuol dire: abbandonare per un momento la storia romanzesca. Tutta la riflessione sui Kitsch nell'Insostenibile leggerezza dell'essere, per esempio, è una digressione: io abbandono la storia romanzesca per affrontare il mio tema (il Kitsch) direttamente. Considerata da questo punto di vista, la digressione non indebolisce bensì rinforza la disciplina della composizione. Dal tema, io distinguo il motivo, un elemento del tema o della storia che ricorre più volte nel corso del romanzo, in un contesto sempre diverso. Per esempio: il motivo del quartetto di Beethoven che dalla vita di Tereza passa nelle riflessioni di Tomáš e attraversa anche i diversi temi: quello della pesantezza, quello del Kitsch; oppure il motivo della bombetta di Sabina, che è presente nelle scene Sabina-Tomáš, Sabina-Tereza, Sabina-Franz, e che espone anche il tema delle parole fraintese”.
C.S.: Ma che cosa intende esattamente con la parola tema?
M.K.: Un tema è un interrogativo esistenziale, sempre più mi rendo conto che un tale interrogativo è in definitiva, l'esame di parole particolari, di parole-tema. Il che mi porta a insistere: il romanzo è fondato Innanzitutto su alcune parole fondamentali. È come la “serie delle note” in Schönberg. Nel Libro del riso e dell'oblio, la “serie” è la seguente: l'oblio, il riso, gli angeli, la litost, la frontiera. Queste cinque parole principali, nel corso del romanzo, sono analizzate, studiate, definite, ridefinite, e trasformate così in categorie dell'esistenza.
Il romanzo è costruito su queste poche categorie, come una casa su dei pilastri. I pilastri dell'Insostenibile leggerezza dell'essere: la pesantezza, la leggerezza, l'anima, il corpo, la Grande Marcia, la merda, il Kitsch, la compassione, la vertigine, la forza, la debolezza.
C.S.: Fermiamoci per un momento sul disegno architettonico dei suoi romanzi. Tutti, tranne uno, sono divisi in sette parti.
M.K.: Quando ho finito di scrivere Lo scherzo, non avevo alcuna ragione di meravigliarmi che avesse sette parti. Poi ho scritto La vita è altrove. Il romanzo era quasi finito aveva sei parti, non era soddisfatto. La storia mi sembrava piatta. Improvvisamente mi è venuta l'idea di inserire una vicenda che accadesse tre anni dopo la morte dell'eroe (ossia al di là del tempo del romanzo). È la penultima parte, la sesta: “Il quarantenne”. Di colpo, tutto fu perfetto. Più tardi mi sono reso conto che questa sesta parte corrispondeva alla sesta parte dello Scherzo (“Kostka”), che introduce anch'essa nel romanzo un personaggio esterno, e apre nel muro del romanzo una finestra segreta. La prima stesura di Amori ridicoli comprendeva dieci racconti. Quando ho messo a punto la stesura definitiva, ne ho eliminati tre; l'insieme è diventato estremamente coerente, tanto da prefigurare la composizione del Libro del riso e dell'oblio: gli stessi temi (in particolare quello della mistificazione) legano in un insieme unico sette racconti, due dei quali, il quarto e il sesto, sono inoltre “agganciati” l'uno all'altro dalla presenza dello stessi protagonista: il dottor Havel. La cosa si ripete nel Libro del riso e dell'oblio, dove la quarta e la sesta parte sono collegate dallo stesso personaggio: Tamina. Quando ho scritto L'insostenibile leggerezza dell'essere, volevo ad ogni costo spezzare la fatalità del numero sette. Il romanzo era stato da lungo tempo concepito su un canovaccio di sei parti. Ma la prima continuava a sembrarmi informe. Alla fine, ho capito che questa parte era fatta in realtà di due parti, simili a due gemelle siamesi che, per mezzo di un delicato intervento chirurgico, bisogna separare. Se racconto tutto questo, è per dire che non si tratta né di un mio civettare superstizioso con un numero magico, né di un calcolo razionale, ma di un imperativo profondo, inconscio, incomprensibile, di un archetipo della forma al quale non posso sottrarmi. I miei romanzi sono varianti della stessa architettura fondata sul numero sette.
C.S.: Fin dove arriva quest'ordine matematico?
M.K.: Prenda Lo scherzo. Questo romanzo è raccontato da quattro personaggi: Ludvík, Jaroslav, Kostka e Helena. Il monologo di Ludvík occupa 2/3 del libro, i monologhi degli altri ne occupano, insieme, 1/3 (Jaroslav 1/6, Kostka 1/9, Helena 1/18). Questa struttura matematica determina quello che chiamerei l'illuminazione dei personaggi. Ludvík è in piena luce, illuminato tanto dall'interno (dal suo proprio monologo) quanto dall'esterno (tutti gli altri monologhi costruiscono il suo ritratto). Jaroslav occupa col suo monologo un sesto del libro, e il suo autoritratto è corretto dall'esterno dal monologo di Ludvík. E così via, Ciascun personaggio è illuminato da una diversa intensità di luce e in un modo differente. Lucie, uno dei personaggi più importanti, non ha un monologo suo, ed è illuminata soltanto dall'esterno dai monologhi di Ludvík e di Kostka. L'assenza di illuminazione interna le conferisce un carattere misterioso e inafferrabile. Essa si trova, per così dire, dall'altra parte del vetro, non la si può toccare.
C.S.: Questa struttura matematica è premeditata?
M.K.: No. Tutto questo io l'ho scoperto, dopo la pubblicazione dello Scherzo a Praga, grazie all'articolo di un critico letterario ceco: La geometria dello “Scherzo”.Un testo rivelatore per me. In altre parole, questo “ordine matematico” s'impone in modo affatto naturale come una necessità della forma, e non ha bisogno di calcoli.
C.S.: È da questo che deriva la sua mania dei numeri? In tutti i suoi romanzi, le parti e i capitoli sono numerati.
M.K.: La divisione del romanzo in parti, delle parti in capitoli, dei capitoli in capoversi, in altre parole l'articolazione del romanzo, io voglio che sia di una estrema chiarezza. Ciascuna delle sette parti è un tutto concluso in se. Ciascuna e caratterizzata dal suo particolare modo narrativo. Vediamo un esempio; La vita è altrove. Prima parte: narrazione “continua” (ossia con un rapporto causale fra un capitolo e l'altro); seconda parte: narrazione onirica; terza parte: narrazione discontinua (ossia senza nessun trasporto causale fra un capitolo e l'altro); quarta parte: narrazione polifonica; quinta parte: narrazione continua; sesta parte: narrazione continua; settima parte: narrazione polifonica. Ciascuna ha una sua prospettiva (è raccontata cioè dal punto di vista di un diverso io immaginario). Ciascuna ha una sua durata: l'ordine di durata nello Scherzo: brevissima; brevissima; lunga; breve; lunga; breve; lunga. In La vita è altrove l'ordine è inverso: lunga; breve; lunga; breve; lunga; breve; lunga; brevissima; brevissima.. Ecco perché insisto con i miei editori perché i numeri siano messi in evidenza e i capitoli nettamente separati. (La soluzione ideale quella di Gallimar: ogni capitolo comincia a pagina nuova). Mi permetta di paragonare ancora una volta il romanzo alla musica.
Una parte è un movimento. I capitoli sono battute. Queste battute sono brevi, o lunghe, o di una durata molto irregolare. E veniamo così al problema del tempo. Ogni parte dei miei romanzi potrebbe portare un'indicazione musicale: moderato, presto, adagio, e così via.
C.S.: Il tempo è dunque determinato dal rapporto fra la durata di una parte e il numero di capitoli che essa contiene?
M.K.: Osserviamo da questo punto di vista La vita è altrove:
Prima parte: 11 capitoli per 71 pagine; moderato
Seconda parte: 14 capitoli per 31 pagine allegretto
Terza parte: 28 capitoli per 82 pagine; allegro
Quarta parte: 25 capitoli per 30 pagine; prestissimo
Quinta parte: 11 capitoli per 96 pagine; moderato
Sesta parte: 17 capitoli per 26 pagine; adagio
Settima parte: 23 capitoli per 28 pagine; presto.
Come vede, la quinta parte ha 96 pagine e solo 11 capitoli: un corso tranquillo, lento; un moderato. La quarta parte ha 25 capitoli per 30 pagine! Questa dà un'impressione di grande rapidità: un prestissimo.
C.S.: La sesta parte ha 17 capitoli per 26 pagine. Il che significa, se ho capito bene, che ha una scansione piuttosto veloce. Eppure, lei la definisce un adagio!
M.K.: Perché il tempo è determinato anche da qualcos'altro: dal rapporto fra la durata di una parte e il tempo “reale” dell'avvenimento che vi è raccontato. La quinta parte, “Il poeta è geloso”, rappresenta un intero anno di vita, mentre la sesta parte, “Il quarantenne”, tratta solo di poche ore. La brevità dei capitoli ha dunque in questo caso la funzione di rallentare il tempo, di fissare un solo grande momento... Io trovo estremamente importanti i contrasti dei tempi! Spesso, per me, sono già presenti nella prima idea che mi faccio del mio romanzo, assai prima di cominciare a scriverlo. Questa sesta parte di La vita e altrove, un adagio (atmosfera di pace e di compassione), è seguita dalla settima, un presto (atmosfera eccitata e crudele). In questo contrasto finale ho voluto concentrare tutta la potenza emozionale del romanzo. Il caso dell'Insostenibile leggerezza dell'essere e esattamente l'opposto. Qui, fin da quando ho iniziato a scrivere, Sapevo che l'ultima parte sarebbe stata un pianissimo e adagio (“Il sorriso di Karenin”: atmosfera calma, melanconica, con pochi avvenimenti) e che doveva essere preceduta da un'altra, un fortissimo prestissimo (“La Grande Marcia”: atmosfera brutale, cinica, con molti avvenimenti).
C.S.: Il cambiamento di tempo implica allora anche il cambiamento di atmosfera emozionale.
M.K.: Un'altra grande lezione della musica. Ogni brano di una composizione musicale agisce su di noi, che lo si voglia o no, attraverso un'espressione emozionale. L'ordine dei movimenti di una sinfonia o di una sonata è sempre stato determinato dalla regola non scritta dell'alternanza di movimenti lenti e movimenti rapidi, il che significava quasi automaticamente: movimenti tristi e movimenti allegri. Questi contrasti emozionali diventati in breve tempo un sinistro stereotipo che solo i più grandi sono riusciti (e neppure sempre) a evitare. Ecco perché ammiro, per portare un esempio arcinoto, quella sonata di Chopin il cui terzo movimento è la marcia funebre. Che cosa si poteva ancora dire dopo questo grande addio? Concludere la sonata, com'è consueto, con un rondò vivace? Nemmeno Beethoven sfugge a questo Stereotipo quando, nella sonata op. 26, fa seguire alla marcia funebre (che anche qui è il terzo movimento) un finale allegro. Nel caso della sonata di Chopin, il quarto movimento è quanto mai strano: un pianissimo rapido, breve, senza alcuna melodia, assolutamente asentimentale: un temporale in lontananza, un rumore sordo ad annunciare il definitivo oblio. L'accostamento di questi due movimenti (sentimentale-asentimentale) fa venire un nodo alla gola. E assolutamente originale. Ne parlo perché sia chiaro che comporre un romanzo consiste proprio nel giustapporre spazi emozionali diversi, e in questo sta, a mio parere, l'arte più sottile di un romanziere.
C.S.: La sua educazione musicale ha avuto molta influenza sulla sua scrittura?
M.K.: Fino a venticinque anni ero attratto molto più dalla musica che dalla letteratura. La mia cosa migliore di allora fu una composizione per quattro strumenti: pianoforte, viola, clarinetto e batteria.
Essa prefigurava in modo quasi caricaturale l'architettura dei miei romanzi, la cui futura esistenza, a quell'epoca, neanche sospettavo. Questa Composizione per quattro strumenti è divisa, si figuri un po', in sette parti! Come accade nei miei romanzi, l'insieme è costituito di part formalmente molto eterogenee (jazz; parodia dia di un valzer; fuga; corale; ecc.), ciascuna con una orchestrazione diversa (pianoforte, viola; pianoforte solo; viola, clarinetto, batteria; ecc.). Questa diversità formale è equilibrata da un una fortissima unità telematica: dall'inizio alla fine, vengono elaborati solo due temi: A e B. Le ultime tre parti sono basate su una polifonia che a quell'epoca mi sembrò molto originale: l'evoluzione simultanea di due temi diversi ed emozionalmente contraddittori; nell'ultima parte, per esempio, mentre un registratore ripete il terzo movimento (il tema A, concepito come un corale solenne per clarinetto, viola e pianoforte), la batteria e la tromba (il clarinettista doveva infatti sostituire il clarinetto con una tromba) intervenivano con una variazione (in stile “barbaro”) del tema B. E qui c'è ancora una rassomiglianza curiosa: nella sesta parte compare per una sola volta un tema nuovo, C, proprio come il Kostka dello Scherzo o il quarantenne di La vita è altrove. Se racconto tutto questo è per mostrare che la forma di un romanzo, la sua “struttura matematica” non è qualcosa di calcolato; è un imperativo inconscio, un'ossessione. In passato, mi è accaduto finanche di pensare che questa forma da cui sono ossessionato fosse una sorta di definizione algebrica della mia propria persona, ma un giorno, qualche anno fa, esaminando più attentamente il quartetto op. 131 di Beethoven, ho dovuto abbandonare questa concezione narcisistica e soggettiva della forma. Osservi:
Primo movimento; lento; forma di fuga; 7,21 minuti
Secondo movimento: veloce; forma inclassificabile; 3,26 minuti.
Terzo movimento: lento; semplice esposizione di un solo tema; 0,51 minuti.
Quarto movimento: lento e veloce; forma di variazioni; 13,48 minuti
Quinto movimento: molto veloce; scherzo; 5,35 minuti
Sesto movimento: molto lento; semplice esposizione di un solo tema; 1,58 minuti.
Settimo movimento: veloce; forma-sonata; 6,30 minuti.
Beethoven è forse il più grande architetto della musica post-bachiana. Egli ha ereditato la sonata concepita come un ciclo di quattro movimenti, spesso accostati in modo abbastanza arbitrario, il
primo dei quali (scritto nella forma-sonata) aveva sempre un'importanza maggiore rispetto ai seguenti (scritti in forma di rondò, di minuetto, ecc.). Tutta l'evoluzione artistica di Beethoven è contrassegnata dalla volontà di trasformare questo raggruppamento in una vera unità.
Sicché, nelle sonate per pianoforte, egli sposta a poco a poco il centro di gravità dal primo all'ultimo movimento, riduce spesso la sonata a due sole parti (a volte separate da un movimento-interludio, come nel caso delle sonate op. 27 n. 2 e op. 53, a volte direttamente giustapposte, come nella sonata op. 111), elabora gli stessi temi nei diversi movimenti, e così via. Al tempo stesso, però, egli cerca di introdurre in questa unità il massimo di diversità formale. Più volte inserisce nelle sue sonate una grande fuga, segno questo di straordinario coraggio, giacché, in una sonata, la fuga doveva Sembrare allora tanto eterogenea quanto il saggio sulla disgregazione dei valori nel romanzo di Broch. Il quartetto op. 131 è il vertice della perfezione architettonica.Vorrei attirare l'attenzione su un solo dettaglio del quale abbiamo già parlato: la diversità delle durate. Il terzo movimento è quindici volte più breve del movimento seguente! E sono proprio i due movimenti così stranamente brevi (il terzo e il sesto) a connettere, a tenere insieme queste sette parti così diverse! Se queste sette parti fossero tutte pressappoco della stessa durata, l'unità verrebbe meno. Perché? Non so spiegarlo. È così. Sette parti di identica durata sarebbero come sette grossi armadi messi uno accanto all'altro. A questo proposito, un altro esempio: il primo disco della mia vita fu il concerto di Bach per quattro pianoforti, trascritto da un concerto di Vivaldi. Avevo appena dieci anni, e rimasi assolutamente affascinato dal secondo movimento, un largo. Ma che cosa c'è di tanto straordinario in questo movimento? La forma è A-B-A. Tema a: un dialogo semplicissimo fra un clarinetto e l'orchestra - 70 secondi. Tema B: i quattro pianoforti, senza orchestra, nessuna melodia, una semplice successione di accordi, uno specchio d'acqua immobile - 105 secondi. E poi, la ripresa del tema A, ma soltanto una o due battute - 10 secondi! Si immagini questo largo composto solo di due parti: A - B. Senza quei 10 secondi della ripresa, non starebbe in piedi. Oppure si immagini il tema A ripreso interamente: 70 secondi - 105 secondi - 70 secondi. Che tediosa simmetria. E infatti la simmetria dello schema (A - B -A) aveva bisogno di essere compensata dall'asimmetria radicale delle durate! Quello che mi aveva incantato da bambino, in questo largo, era dunque la bellezza delle proporzioni. Una bellezza matematica. 70 - 105 - 10; ossia:
10 x 7
10 x 7 - 15 x 7 - _________
7
ossia:
2
2 - 3 - _________
7
Ma lasciamo stare.
C.S.: Lei non ha parlato quasi per nulla del Valzer degli addii.
M.K.: Eppure è il romanzo che in un certo senso mi è più caro. Come Amori Ridicoli, l'ho scritto con più divertimento, con più piacere degli altri. In un altro stato d'animo. Anche molto più in fretta.
C.S.: Ha solo cinque parti.
M.K.: Si fonda su un archetipo formale del tutto diverso da quello degli altri miei romanzi. È assolutamente omogeneo, senza digressioni, composto di una sola materia, raccontato con lo stesso
tempo, è molto teatrale, stilizzato, basato sulla forma del vaudeville. In Amori ridicoli, si può leggere il racconto Il simposio, il cui titolo è un'allusione parodistica al Simposio di Platone. Lunghe discussioni sull'amore. Ebbene, questo Simposio è composto in tutto e per tutto come Il valzer degli addii: vaudeville in cinque atti.
C.S.: Che cosa significa per lei la parola “vaudeville”?
M.K.: Una forma in cui ha enorme importanza l'intreccio, con tutto il suo apparato di coincidenze inattese e esagerate. Labiche. Non c'è niente che sia diventato più sospetto, in un romanzo, più ridicolo, desueto, di cattivo gusto, dell'intreccio con i suoi eccessi da vaudeville. Da Flaubert in poi, i romanzieri tentano di cancellare gli artifici dell'intreccio, sicché il romanzo diventa spesso più grigio della più grigia delle vite. Eppure i primi romanzieri non avevano tanti scrupoli di fronte all'improbabile. Nel primo libro del Don Chisciotte, c'è un'osteria, da qualche parte in mezzo alla Spagna, in cui tutti, per puro caso, si incontrano: Don Chisciotte, Sancio Panza, il barbiere e il curato loro amici, e poi Cardenio, un giovane cui un certo Don Fernando ha rubato la fidanzata Lucinda, ma ben presto anche Dorotea, la fidanzata abbandonata di quello stesso Don Fernando, e più tardi Don Fernando in persona con Lucinda, poi un ufficiale evaso dalla prigione dei mori, e poi suo fratello che lo cerca da anni, e poi ancora sua figlia Clara, e l'amante di Clara che la sta inseguendo, inseguito a sua volta dai servitori del proprio padre... Un'accumulazione di coincidenze e di incontri completamente improbabili. Ma non bisogna considerarla un'ingenuità o una goffaggine da parte di Cervantes. I romanzi di allora non avevano ancora concluso con il lettore il patto nella verosimiglianza. Non volevano simulare il reale, volevano divertire, sorprendere, stupire, ammaliare. Erano ludici, e appunto in questo stava il loro virtuosismo. L'inizio dell'Ottocento segna un cambiamento enorme nella storia del romanzo. Direi quasi uno choc. L'imperativo dell'imitazione del reale rende di colpo ridicola l'osteria di Cervantes. Il Novecento si ribella spesso contro l'eredità dell'Ottocento. E tutta via un ritorno puro e semplice all'osteria di Cervantes non è più possibile. Tra quell'osteria e noi si è frapposta l'esperienza del realismo ottocentesco, sicché il gioco delle coincidenze improbabili non può più essere innocente. Diventa o intenzionalmente comico, ironico, parodistico (nelle Caves du Vatican, per esempio, o in Ferdydurke), oppure fantastico, onirico. Come avviene nel primo romanzo di Kafka: America. Si legga il primo capitolo, con l'incontro totalmente inverosimile fra Karl Rossmann e suo zio: e come un ricordo nostalgico dell'osteria di Cervantes. Ma qui le circostanze inverosimili (addirittura impossibili) sono evocate con una tale minuzia, con una
tale illusione di realtà, che si ha l'impressione di entrare in un mondo che, pur essendo inverosimile è più reale della realtà. Ricordiamocelo bene: Kafka è entrato nel suo primo universo “surreale” (nella sua prima “fusione tra realtà e sogno”) passando per l'osteria di Cervantes, per la porta del vaudeville.
C.S.: La parola “vaudeville” suggerisce l'idea di un “divertissement”.
M.K.: Al principio, il grande romanzo europeo era un divertissement e tutti i veri romanzieri rimpiangono quell'epoca! Il divertissement del resto non esclude affatto la gravità. Nel Valzer degli addii ci si chiede: merita l'uomo di vivere su questa terra, o non bisogna “liberare il pianeta dalle grinfie dell'uomo”? Unire l'estrema gravità della domanda all'estrema leggerezza della forma: questa è da sempre la mia ambizione. E non si tratta di un ambizione puramente artistica. L'unione di una forma frivola e di un argomento grave svela i nostri drammi (quelli che si svolgono nei nostri letti come quelli che recitiamo sul grande palcoscenico della Storia) in tutta la loro terribile insignificanza.
C.S.: Ci sono dunque due forme archetipiche nei suoi romanzi: 1. la composizione polifonica che unisce gli elementi eterogenei in un'architettura fondata sul numero sette; 2. La composizione del tipo vaudeville, omogenea, sfiora l'inverosimile.
M. K.: Accarezzo Sempre il sogno di una grande e inaspettata infedeltà Ma per momento non sono riuscito a sottrarmi alla bigamia di queste due forme.
V
IN QUALCHE POSTO LÁ DIETRO
I poeti non inventano le poesie
la poesia è in qualche posto là dietro
è là da moltissimo tempo
il poeta non fa che scoprirla.
JAN SKÁCEL
1
Il mio amico Josef kvorecký racconta in un suo libro questa storia realmente accaduta :
Un ingegnere praghese è invitato a un convegno scientifico a Londra. Ci va, partecipa alla discussione e rientra a Praga. Qualche ora dopo il suo ritorno, nel suo ufficio, prende il “Rudé Pravo”, il quotidiano ufficiale del Partito, e legge: Un ingegnere ceco, delegato a un convegno a Londra, dopo aver fatto alla stampa occidentale una dichiarazione in cui calunniava la patria socialista, ha deciso di restare in Occidente.
Un'emigrazione illegale, con in più l'aggravante di una simile dichiarazione, non è mica uno scherzo. Vale una ventina d'anni di galera. Il nostro ingegnere non crede ai suoi occhi. Ma non c'è alcun
dubbio: l'articolo parla di lui. Arriva in ufficio la sua segretaria, che, come lo vede, esclama atterrita: Mio Dio, è tornato! È una follia; ha letto quello che hanno scritto su di lei?
L'ingegnere ha visto la paura negli occhi della segretaria. Che cosa può fare? Si precipita alla redazione del “Rudé Pravo”. Trova il redattore responsabile. Questi si scusa, effettivamente è una faccenda molto spiacevole, ma lui, il redattore, non c'entra, ha ricevuto il testo direttamente dal Ministero degli Interni. L'ingegnere va allora al Ministero. Qui gli dicono che sì, certamente si tratta di un errore, ma che loro, al Ministero, non c'entrano, hanno ricevuto il rapporto sull'ingegnere dai servizi segreti dell'ambasciata di Londra. L'ingegnere chiede una smentita. Eh no, gli rispondono,
una smentita è fuori questione, ma stia pure tranquillo, non può succedergli nulla.
L'ingegnere però non è tranquillo. Anzi, ben presto si rende conto di essere strettamente sorvegliato, di avere il telefono sotto controllo, di essere seguito per strada. Non riesce più a dormire, ha degli incubi fino al giorno in cui, non potendo più sopportare una tale tensione, corre molti rischi veri per uscire illegalmente dal paese. E così diventa sul serio un emigrato.
2
La storia che ho appena raccontato è una di quelle che saranno definite senza esitazione kafkiane. Questo termine, tratto da un'opera d'arte, determinato solo dalle immagini di un romanziere, appare come il solo denominatore comune di situazioni (sia letterarie sia reali) che nessun'altra parola permette di cogliere nella loro essenza e delle quali né la politologia, né la sociologia, né la psicologia riescono a darci la chiave.
Ma che cosa è dunque la kafkianità?
Proviamo a descriverne qualche aspetto:
Primo :
L'ingegnere si trova davanti a un potere che ha il carattere di un labirinto interminabile. Non arriverà mai in fondo ai suoi corridoi senza fine e non riuscirà mai a trovare chi ha pronunciato la sentenza fatale. È dunque nella stessa situazione di Josef K. di fronte al tribunale o dell'agrimensore K. di fronte al castello. Sono tutti e tre dentro a un mondo il quale non è altro che una sola immensa istituzione labirintica a cui non possono sfuggire e che non riescono a capire.
Prima di Kafka, i romanzieri hanno spesso denunciato le istituzioni come arene in cui si scontrano interessi personali e sociali diversi. Per Kafka, l'istituzione è un meccanismo che obbedisce a leggi proprie, leggi che sono state programmate non si sa più né quando né da chi, leggi che non hanno niente a che vedere con gli interessi umani e che sono dunque inintelligibili.
Secondo:
Nel capitolo V del Castello, il sindaco del villaggio spiega dettagliatamente a K. la lunga storia della sua pratica. Riassumiamola: una decina d'anni prima, il sindaco riceve dal castello la richiesta di assumere al villaggio un agrimensore. La risposta scritta del sindaco è negativa (non c'è nessun bisogno di agrimensori), ma va a finire per sbaglio in un altro ufficio e così, grazie al sottilissimo gioco dei malintesi burocratici andati avanti per anni, un giorno, per inavvertenza, viene effettivamente inoltrato un invito a K., proprio nel momento in cui tutti gli uffici competenti stanno già liquidando la vecchia richiesta ormai superata. Dopo un lungo viaggio, K. è dunque arrivato al villaggio per errore. Ma c'è di più: dal momento che non esiste per lui nessun altro mondo possibile all'infuori di questo castello con il suo villaggio, tutta la sua esistenza non è altro che un errore. Nel mondo kafkiano, la pratica burocratica assomiglia all'idea platonica. Essa rappresenta la vera realtà, mentre l'esistenza fisica dell'uomo è soltanto il riflesso proiettato sullo schermo delle illusioni. In effetti, tanto l'agrimensore K. quanto l'ingegnere praghese non sono che le ombre delle loro schede, anzi, sono ancora meno di questo: sono le ombre di un errore in una pratica, e cioè ombre che non hanno nemmeno diritto alla loro esistenza di ombre.
Ma se la vita dell'uomo non è che un'ombra e se la vera realtà è altrove, nell'inaccessibile, nell'inumano e nel sovrumano, si è di colpo nella teologia. E infatti i primi esegeti di Kafka hanno letto i suoi romanzi come una parabola religiosa.
Questa interpretazione mi sembra sbagliata (perché vede un'allegoria la dove Kafka ha colto situazioni concrete della vita umana), eppure rivelatrice: dovunque il potere si deifichi, esso produce automaticamente la propria teologia; dovunque si comporti come Dio, suscita nei propri confronti sentimenti religiosi; il metodo può essere descritta con un linguaggio teologico.
Kafka non ha scritto allegorie religiose, ma la kafkianità (nella realtà e nella finzione letteraria) è inseparabile dal suo aspetto teologico (o meglio: pseudoteologico).
Terzo:
Raskol'nikov non riesce a sopportare il peso della sua colpevolezza e, per trovare la pace, accetta volontariamente la punizione. È la ben nota situazione della colpa che cerca il castigo.
In Kafka, questa logica è capovolta. Colui che è punito non conosce la causa della punizione. L'assurdità del castigo è talmente insopportabile che, per trovare la pace, l'accusato vuole trovare una giustificazione alla pena che gli viene inflitta: Il castigo cerca la colpa.
L'ingegnere praghese è punito con una stretta sorveglianza da parte della polizia. Questo castigo reclama il delitto che non era stato commesso, e l'ingegnere che è stato accusato di aver emigrato finisce per emigrare sul serio. Il castigo ha infine trovato la colpa.
Non sapendo di che cosa lo si accusi, K., nel capitolo VII del Processo, decide di esaminare tutta la sua vita, tutto il suo passato, fin nei minimi dettagli. La macchina dell'“autocolpevolizzazione” si è messa in moto. L'accusato cerca la sua colpa.
Un giorno, Amalia riceve una lettera volgarissima da un funzionario del castello. Indignata, la strappa. Il castello non ha neanche bisogno di condannare il comportamento temerario di Amalia.
La paura (quella stessa paura che l'ingegnere ha letto negli occhi della sua segretaria) agisce da sola. Senza alcun ordine, senza alcun segno percettibile da parte del castello, tutti evitano la famiglia di Amalia come fosse appestata.
Il padre di Amalia vuole difendere la sua famiglia. Ma c'è una difficoltà: non solo l'autore della sentenza è introvabile, ma la sentenza stessa non esiste! Per poter fare appello, per chiedere la grazia, sarebbe stato necessario essere prima accusati! Il padre implora il castello di proclamare il delitto. Non basta dunque dire che il castigo cerca la colpa. In questo mondo pseudoteologico, il punito supplica che lo si riconosca colpevole!
Succede spesso che un praghese di oggi, se caduto in disgrazia, non riesca a trovare il benché minimo impiego. Chiede, invano, un attestato che dichiari la sua colpevolezza e che rechi la proibizione di dargli un lavoro. La sentenza è introvabile. E poiché a Praga il lavoro e un dovere prescritto dalla legge, il nostro praghese finisce per essere accusato di parassitismo: è colpevole, cioè, di sottrarsi al lavoro. Il castigo trova la colpa.
Quarto :
La storia dell'ingegnere praghese ha tutto l'aspetto di una storiella, di una barzelletta: fa ridere.
Due signori (due signori qualsiasi) sorprendono un mattino Josef K. nel suo letto, gli comunicano che è in arresto e mangiano la sua colazione. K., funzionario disciplinato, invece di metterli alla porta, si difende a lungo davanti a loro, in camicia da notte. Quando Kafka lesse ai suoi amici il primo capitolo del Processo, tutti risero, compreso l'autore.
Philip Roth sogna un film tratto dal Castello, con Groucho Marx nella parte dell'agrimensore K. e Chico e Harpo in quelle degli aiutanti. Sì, ha perfettamente ragione: il comico è inseparabile dall'essenza stessa della kafkianità.
Ma è un ben misero sollievo, per l'ingegnere, il sapere che la sua storia è comica. Egli si trova rinchiuso nella barzelletta della propria vita come un pesce in un acquario; e la cosa non lo diverte affatto.
Perché una barzelletta e divertente se per chi è davanti all'acquario; la kafkianità, invece, ci fa entrare nelle viscere di una barzelletta, dentro l'orrore del comico.
Nel mondo della kafkianità, il comico non rappresenta un contrappunto del tragico (il tragicomico), come avviene in Shakespeare; non è lì per rendere più sopportabile il tragico grazie alla leggerezza del tono; non accompagna il tragico, no, lo distrugge sul nascere, privando così le vittime della sola consolazione in cui possano ancora sperare: quella che si trova nella grandezza (vera o supposta) della tragedia. L'ingegnere ha perduto la sua patria e tutto l'uditorio ride.
3
Ci sono dei periodi nella storia moderna in cui la vita somiglia ai romanzi di Kafka.
Quante volte, quando vivevo ancora a Praga, ho sentito designare la segreteria del Partito (un edificio brutto e piuttosto moderno) con la parola “castello”.
Quante volte ho sentito chiamare il numero due del Partito (un certo compagno Hendrych) con il soprannome di Klamm (tanto più ben scelto in quanto klam in ceco significa “miraggio” o “imbroglio”).
Il poeta A., grande personalità comunista, fu messo in carcere, negli Anni Cinquanta, in seguito a un processo stalinista. In cella scrisse una raccolta di poesie in cui si dichiarava fedele al comunismo: nonostante tutti gli orrori che aveva dovuto subire. Non era vigliaccheria, la sua. Il poeta vedeva nella propria fedeltà (fedeltà ai suoi carnefici) il segno della propria virtù, della propria rettitudine. I praghesi che sono venuti a conoscenza di questa raccolta l'hanno soprannominata con bella ironia: La gratitudine di Josef K.
Le immagini, le situazioni, addirittura certe frasi prese dai romanzi di Kafka, facevano parte della vita di Praga. Col che si sarebbe tentati di concludere: le immagini di Kafka sono vive a Praga perché sono un'anticipazione della società totalitaria.
Quest'affermazione, però, ha bisogno di essere corretta: la kafkianità non è una nozione sociologica o politologia. Si è cercato di leggere i romanzi di Kafka come una critica della società industriale, dello sfruttamento, dell'alienazione, della morale borghese: del capitalismo,
insomma. Ma nell'universo di Kafka non si trova quasi nulla di quello che costituisce il capitalismo: né il denaro e il suo potere, né il commercio, né la proprietà privata e i proprietari, né la lotta di classe.
E neppure corrisponde, la kafkianità, alla definizione del totalitarismo. Nei romanzi di Kafka non ci sono né il partito, né l'ideologia e il suo linguaggio, né la politica, né la polizia, né l'esercito.
Sembra dunque che la kafkianità rappresenti piuttosto una possibilità elementare dell'uomo e del suo mondo, possibilità storicamente non determinata, che accompagna quasi eternamente l'uomo.
Ma questa precisazione non ha eliminato il nostro interrogativo: Com'è possibile che a Praga i romanzi di Kafka si confondano con la vita, e com'è possibile che a Parigi gli stessi romanzi vengano visti come l'espressione ermetica del mondo esclusivamente soggettivo dell'autore? Significa forse che quella virtualità dell'uomo e del suo mondo che chiamiamo kafkiana si trasforma più facilmente in destini concreti a Praga che a Parigi?
Ci sono, nella storia moderna, delle tendenze che producono kafkianità sul vasto piano sociale: la progressiva concentrazione del potere che tende a divinizzare se stesso; la burocratizzazione dell'attività sociale che trasforma tutte le istituzioni in labirinti interminabili; la conseguente spersonalizzazione dell'individuo.
Gli Stati totalitari, in quanto concentrazione estrema di queste tendenze, hanno messo in evidenza gli stretti rapporti che esistono fra i romanzi di Kafka e la vita reale. Ma se in Occidente non si è capaci di vedere questa relazione, non è solo perché la società detta democratica e meno kafkiana di quella della Praga odierna. È anche, mi sembra, perché qui si perde, fatalmente, il senso della realtà.
Anche la società democratica, infatti, conosce il processo che spersonalizza e burocraticizza; il pianeta intero è diventato il palcoscenico di questo processo.
I romanzi di Kafka ne sono un'iperbole onirica e immaginaria; lo Stato totalitario ne è un'iperbole prosaica e materiale.
Ma come mai Kafka è stato il primo romanziere a cogliere queste tendenze, che pure si sono manifestate sulla scena della Storia, in tutta la loro chiarezza e brutalità, soltanto dopo la sua morte?
4
Se non ci si lascia ingannare da mistificazioni e da leggende, non si trova alcuna traccia significativa degli interessi politici di Franz Kafka; in questo senso, egli si distingueva da tutti i suoi amici praghesi, da Max Brod, da Franz Werfel, da Egon Erwin Kisch, come pure da tutte le avanguardie che, pretendendo di conoscere il senso della Storia, si compiacevano di evocare il volto del futuro.
Come mai, allora, non le loro opere, ma quelle del loro solitario compagno, introverso e concentrato sulla propria vita e sulla propria arte, sono oggi leggibili come una profezia sociopolitica, e proprio per questo sono proibite in una vasta parte del pianeta?
Ho pensato a questo mistero un giorno in cui ero stato testimone di un piccolo episodio in casa di una vecchia amica.
Essa era stata arrestata, durante i processi stalinisti di Praga del 1951, e condannata per delitti che non aveva commesso. Centinaia di comunisti, del resto, si sono trovati, a quell'epoca, nella sua stessa situazione. Tutti si erano sempre totalmente identificati con il Partito. Quando questo diventa tutt'a un tratto il loro accusatore, accettarono, al pari di Josef K., “di esaminare tutta la loro vita passata fin nei minimi dettagli” per trovare la colpa nascosta e, alla fine, confessare delitti immaginari. La mia amica riuscì a salvarsi perché, grazie al suo straordinario coraggio, si rifiutò, a differenza dei suoi compagni, a differenza del poeta A., di mettersi alla “ricerca della sua colpa. Essendosi rifiutata di aiutare i suoi carnefici, diventò inutilizzabile per lo spettacolo del processo finale. Così, invece di essere impiccata, fu solo condannata all'ergastolo. In capo a quindici anni, fu completamente riabilitata e scarcerata.
Al momento del suo arresto, suo figlio aveva un anno. Quando uscì di prigione, essa ritrovò dunque il figlio ormai sedicenne, ed ebbe la gioia di vivere con lui in una modesta solitudine a due. Non sorprende che nella madre nascesse un attaccamento appassionato per il figlio.
Questi aveva già ventisei anni quando, un giorno, andai a trovarli. La madre stava piangendo, offesa e ferita. Il motivo era quanto mai insignificante: il figlio si era alzato troppo tardi quel mattino, o qualcosa del genere. Le dissi: “Perché te la prendi per questa sciocchezza? Ti sembra che valga la pena di piangere? Esageri!”.
Invece della madre, mi rispose il figlio: “No, mia madre non esagera. Mia madre è una donna eccellente e coraggiosa. Ha saputo resistere quando tutti cedevano. Vuole che io diventi un uomo onesto. È vero, mi sono alzato tardi, ma ciò che mia madre mi rimprovera è qualcosa di più profondo. È il mio atteggiamento. Il mio atteggiamento egoista. Io voglio diventare come mi vuole mia madre. E glielo prometto davanti a te”. Quello che il Partito non era mai riuscito a fare con la madre, la madre era riuscita a farlo con il figlio. L'aveva costretto a identificarsi con un'accusa assurda, ad andare a “cercare la sua colpa”, a fare una confessione pubblica. Io guardavo stupefatto, quella scena di miniprocesso stalinista, e all'improvviso capii che meccanismi psicologici che funzionano all'interno dei grandi avvenimenti storici (e che sembrano incredibili e inumani) sono identici a quelli che determinano le situazioni private (banalissime e umanissime).
5
La famosa lettera che Kafka scrisse al padre e che non spedì mai è la prova del fatto che proprio dalla famiglia, dal rapporto fra il bambino e il potere deificato dei genitori, Kafka ha tratto la sua conoscenza della tecnica della colpevolizzazione che è diventata uno dei grandi temi dei suoi romanzi. Nel racconto La condanna, strettamente legato all'esperienza familiare dell'autore, un padre accusa suo figlio e gli ordina di annegarsi. Il figlio accetta la sua finta colpevolezza, e va a gettarsi nel fiume con la stessa docilità con cui, più tardi, il suo successore Josef K., accusato da una misteriosa organizzazione, andrà a farsi uccidere. La somiglianza fra le due accuse, le due colpevolizzazioni e le due esecuzioni svela la continuità che, nell'opera di Kafka, unisce l'intimo “totalitarismo” familiare a quello delle sue grandi visioni sociali.
La società totalitaria, soprattutto nelle sue versioni estreme, tende ad abolire la frontiera tra pubblico e privato; il potere, che diventa sempre più opaco, esige che la vita dei cittadini sia il più trasparente possibile. Questo ideale di vita senza segreti corrisponde a quello di una famiglia esemplare: un cittadino non ha il diritto di dissimulare alcunché di fronte al Partito o allo Stato così come un bambino non ha diritto ad avere segreti per suo padre o sua madre. Le società totalitarie, nella loro propaganda, ostentano un sorriso idilliaco: vogliono apparire come una “sola grande famiglia”.
Si dice molto spesso che i romanzi di Kafka esprimono il desiderio appassionato della comunità e del contatto umano; sembra che quell'essere sradicato che è K. non abbia che uno scopo: superare la maledizione della sua solitudine. Ebbene, questa spiegazione è non soltanto un luogo comune, una riduzione del senso, ma un fraintendimento.
L'agrimensore K. non cerca di conquistare la gente e il loro calore, non vuole diventare “uomo fra gli uomini” come l'Oreste sartriano; vuole essere accettato non da una comunità, ma da un'istituzione. Per riuscirci deve pagare caro: deve rinunciare alla sua solitudine. Ed è proprio questo il suo inferno: non è mai solo, i due aiutanti mandati dal castello lo seguono continuamente. Essi assistono al suo primo atto d'amore con Frieda, seduti sul banco di mescita, al di sopra degli amanti, e, da quel momento in poi, non lasciano più il loro letto.
Non la maledizione della solitudine, ma la solitudine violata, questa è l'ossessione di Kafka!
Karl Rossmann è disturbato continuamente da tutti: gli vendono il vestito; gli tolgono la sola fotografia dei genitori che possieda; nel dormitorio, accanto al suo letto, alcuni ragazzi fanno a pugni e, di tanto in tanto, gli cadono addosso; Robinson e Delamarche, due vagabondi, lo costringono a vivere insieme con loro, sicché i sospiri della grossa Brunelda rimbombano nel suo sonno.
Anche la storia di Josef K. ha inizio con la violazione dell'intimità: due signori sconosciuti vengono ad arrestarlo nel suo letto. Da quel giorno, non sarà mai più solo: il tribunale lo seguirà, lo spierà e gli parlerà; la sua vita privata sparirà a poco a poco, inghiottita dalla misteriosa organizzazione che lo perseguita.
Le anime liriche che amano predicare l'abolizione del segreto e la trasparenza della vita privata non si rendono conto del meccanismo che mettono in moto. Il punto di partenza del totalitarismo assomiglia a quello del Processo: verranno a sorprendervi nel vostro letto. Ci verranno come amavano fare vostro padre e vostra madre.
Ci si chiede spesso se i romanzi di Kafka siano la proiezione dei conflitti più personali e privati dell'autore oppure la descrizione della “macchina sociale” oggettiva.
La kafkianità non si limita né alla sfera intima né alla sfera pubblica; le ingloba entrambe, il pubblico è lo specchio del privato, il privato riflette il pubblico.
6
Quando parlavo delle pratiche microsociali che producono la kafkianità, pensavo non soltanto alla famiglia, ma anche all'organizzazione in cui Kafka ha trascorso tutta la sua vita di adulto: l'ufficio. Gli eroi di Kafka vengono spesso interpretati come una proiezione allegorica dell'intellettuale, ma Gregor Samsa non ha niente dell'intellettuale. Quando si sveglia trasformato in scarafaggio, la sua preoccupazione è una sola: come farà, in questo suo nuovo stato, ad arrivare a tempo in ufficio? Nella sua testa non c'è altro che l'obbedienza e la disciplina cui l'ha abituato il suo lavoro: è un impiegato, un funzionario, e tutti i personaggi di Kafka lo sono; funzionario inteso non come tipo sociale (così invece l'avrebbe inteso uno Zola), ma come possibilità umana, maniera elementare d'essere.
Nel mondo burocratico del funzionario, primo, non ci sono né iniziativa, né invenzione, né libertà d'azione; ci sono soltanto ordini e regole: è il mondo dell'obbedienza.
Secondo, il funzionario esegue una piccola parte della grande azione amministrativa della quale gli sfuggono lo scopo e l'ampiezza: è il mondo in cui i gesti sono diventati meccanici e la gente non conosce più il senso di quello che fa.
Terzo, il funzionario ha a che fare unicamente con anonimi e con pratiche: è il mondo dell'astrattezza.
Ambientare un romanzo in questo mondo dell'obbedienza, della meccanicità e dell'astrattezza, in cui la sola avventura umana consiste nell'andare da un ufficio all'altro, sembra contrario all'essenza stessa della poesia epica. Di qui la domanda: Come è riuscito, Kafka, a trasformare questa grigiastra materia antipoetica in romanzi affascinanti?
Possiamo trovare la risposta in una lettera a Milena: “L'ufficio non è un'istituzione stupida: secondo me appartiene al mondo del fantastico piuttosto che a quello della stupidità”. Questa frase racchiude uno dei più grandi segreti di Kafka. Egli ha saputo vedere quello che nessun altro ha visto: non soltanto l'importanza capitale del fenomeno burocratico per l'uomo, per la sua condizione e per il suo avvenire, ma anche (ed è quello che più ci sorprende) la virtualità poetica insita nel carattere fantomatico degli uffici.
Ma che cosa significa: l'ufficio appartiene al mondo del fantastico?
L'ingegnere praghese lo capirebbe subito: un errore nella sua pratica lo ha proiettato a Londra; sicché lui ha vagato per Praga, autentico fantasma, alla ricerca del corpo perduto, mentre agli uffici in cui si recava gli apparivano come un labirinto interminabile uscito da una mitologia sconosciuta.
Grazie al fantastico che egli ha saputo vedere nel mondo burocratico, Kafka è riuscito in un'impresa che prima di lui sembrava impossibile: trasformare una materia profondamente antipoetica, la società burocratizzata al massimo grado, in grande poesia di romanzo; trasformare una storia estremamente banale, quella di un uomo che non riesce ad ottenere il posto che gli è stato promesso (perché è questa la storia del Castello), in mito, in epopea, in bellezza mai veduta.
Dopo aver esteso l'ufficio alle dimensioni gigantesche di un universo, Kafka è arrivato, senza sospettarlo nemmeno, a quell'immagine che ci affascina per la sua somiglianza con la società da lui mai conosciuta e che è quella della Praga d'oggi.
In realtà, uno Stato totalitario non è altro che un unica, immensa amministrazione: dal momento che tutto il lavoro è statalizzato, tutti, qualunque mestiere facciano, sono diventati degli impiegati.
Un operaio non è più operaio, un giudice non è più giudice, un negoziante non è più negoziante, un parroco non è più parroco: sono tutti funzionari dello Stato. “Appartengono al tribunale” dice il prete a Josef K. nella cattedrale. Gli avvocati stessi, nel romanzo di Kafka, sono al servizio del tribunale. Un praghese di oggi non se ne meraviglia affatto. Lui stesso non sarebbe difeso meglio di K.
Come gli avvocati di K., anche i suoi avvocati, ma a quello del tribunale.
7
In un ciclo di cento quartine che, con semplicità quasi infantile, indagano su quanto esiste di più grave e di più complesso, il grande poeta ceco scrive:
I poeti non inventano le poesie
la poesia è in qualche posto là dietro
è là da moltissimo tempo
il poeta non fa che scoprirla.
Scrivere significa dunque per il poeta abbattere un muro dietro il quale si nasconde nell'ombra qualcosa di immutabile (“la poesia”). Ecco perché (grazie a questo disvelamento sorprendente e improvviso) “la poesia” ci si offre innanzitutto come abbagliamento.
La prima volta che ho letto Il castello avevo quattordici anni, e mai più questo libro mi incanterà come allora, sebbene mi fosse incomprensibile, a quell'epoca, tutta la vasta conoscenza che esso contiene (tutta la portata reale della kafkianità): ne fui abbagliato.
In seguito, i miei occhi si sono assuefatti alla luce di questa “poesia” e ho cominciato a vedere in ciò che mi aveva abbagliato il mio vissuto personale; e tuttavia la luce persisteva.
Immutabile, “la poesia” ci aspetta, dice Jan Skácel, “da moltissimo tempo”. Ma, nel mondo del cambiamento perpetuo, l'immutabile non è pura illusione?
No. Ogni situazione è propria dell'uomo e non può contenere che ciò che è in lui; si può dunque immaginare che essa esista (insieme con tutta la sua metafisica) “da moltissimo tempo” in quanto possibilità umana.
Ma allora, che cosa rappresenta la Storia (il non-immutabile) per il poeta il poeta?
Agli occhi del poeta la Storia si trova, cosa strana, in una posizione parallela a quella del poeta stesso: la Storia si trova, inventa, scopre. Mediante situazioni inedite, essa svela ciò che l'uomo è, ciò che è in lui “da moltissimo tempo”, e quelle che sono le sue possibilità.
Se la “poesia” e già “là”, sarebbe illogico accordare al poeta la capacità di prevedere: no, egli “si limita a scoprire” una possibilità umana (quella “poesia” che “è là da moltissimo tempo”) che anche la Storia, un. giorno scoprirà.
Kafka non è stato un profeta. Ha soltanto visto quel che era “là dietro”. Non sapeva che la sua visione era anche una previsione. Non aveva intenzione di smascherare un sistema sociale. Ha messo in luce i meccanismi che conosceva attraverso la pratica intima e microsociale dell'uomo, non sospettando affatto che l'evoluzione ulteriore della Storia li avrebbe messi in moto sul suo vasto palcoscenico.
Lo sguardo ipnotico del potere, la ricerca disperata della propria colpa, l'esclusione e l'angoscia di essere esclusi, la condanna al conformismo, il carattere fantomatico del reale e la realtà magica della pratica amministrativa, la violazione continua della vita intima e così via: tutti questi esperimenti che la Storia ha eseguito sull'uomo nelle sue immense provette, Kafka li ha eseguiti (qualche anno prima) nei suoi romanzi.
L'incontro dell'universo reale degli Stati totalitari e del “poema” di Kafka conserverà sempre qualcosa di misterioso, a testimonianza che l'azione del poeta è, per sua stessa essenza, incalcolabile; e paradossale: l'enorme portata sociale, politica, “profetica” dei romanzi di Kafka sta proprio nel loro “non-impegno”, ossia nella loro totale autonomia da qualsivoglia programma politico, concezione ideologica o prognosi futurologica.
Se infatti, invece di cercare “la poesia” nascosta “in qualche posto là dietro”, il poeta si “impegna” a servire una verità già nota (che si offre da se e che è “là davanti”), egli rinuncia con ciò stesso alla missione che è propria del fare poesia. E poco importa che la verità preconcetta si chiami rivoluzione o dissidenza, fede cristiana o ateismo, che sia più o meno giusta; il poeta che si mette al servizio di una verità altra da quella che è da scoprire (che è abbagliamento) è un falso poeta.
Se tengo così ardentemente all'eredità di Kafka, se la difendo come mia eredità personale, non è perché io consideri utile imitare l'inimitabile (e scoprire ancora una volta la kafkianità), ma per questo formidabile esempio di autonomia radicale del romanzo (della poesia che e il romanzo). Grazie a tale autonomia, Franz Kafka ha detto sulla nostra condizione umana (così come si rivela nel nostro secolo) ciò che nessuna riflessione sociologica o politologica potrà mai dirci.
VI
SESSANTAQUATTRO PAROLE
Nel 1968 e 1969 Lo scherzo fu tradotto in tutte e lingue occidentali. Ma che sorprese! In Francia, il traduttore riscrisse il romanzo ornamentando il mio stile. In Inghilterra, l'editore tagliò tutti i brani di riflessione, eliminò i capitoli musicologici, cambiò l'ordirne delle parti, ricompose il romanzo. Un altro paese. Incontro il mio traduttore: non conosce una sola parola di ceco. “Come ha fatto a tradurre?”, Risponde: “Col cuore”, e mi mostra una mia foto che tiene nel portafogli. Era così simpatico che per un attimo ho creduto che davvero si potesse tradurre grazie a una telepatia del cuore. Naturalmente la cosa era più semplice: aveva tradotto dal rifacimento francese, come fece anche il traduttore argentino. Un altro paese: la traduzione è dal ceco. Apro il libro a caso e capito sul monologo di Helena. Le lunghe frasi del mio romanzo occupano ciascuna un intero capoverso sono spezzettate in una moltitudine di frasi semplici... Lo choc causatomi dalle traduzioni dello Scherzo mi ha segnato per sempre. In seguito, per fortuna, ho incontrato traduttori fedeli. Ma anche altri, ahimè, meno fedeli... Eppure, per me che non ho praticamente più il pubblico ceco le traduzioni rappresentano tutto. È per questo che qualche anno fa mi sono deciso a mettere finalmente in ordine nelle edizioni straniere dei miei libri. Non è stata un'impresa senza conflitti e fatiche: la lettura, il controllo, la revisione dei miei romanzi, vecchi e nuovi, nelle tre o quattro lingue straniere che sono in grado di leggere hanno interamente occupato tutto un periodo della mia vita...
Lo scrittore che si sforza di sorvegliare le traduzioni dei suoi romanzi corre dietro alle innumerevoli parole come un pastore dietro alle innumerevoli parole come una pastore dietro a un gregge di pecore brade; triste figura ai propri occhi, ridicola agli occhi degli altri. Ho il sospetto che il mio amico Pierre Nora, direttore della rivista “Le Débat”, si sia reso ben conto dell'aspetto tristemente comico della mia esistenza di pastore. Un giorno, con mal dissimulata compassione, mi ha detto. “Lascia un po' perdere questi tuoi tormenti e scrivi invece qualcosa per me. Le traduzioni ti hanno costretto a riflettere su ciascuna delle tue parole. E allora scrivi il tuo dizionario personale. Il dizionario dei tuoi romanzi. Le tue parole-chiave, le tue parole-problema, le tue parole-amore...”
Eccolo qui.
AFORISMA. Dalla parola greca aphorismos, che significa “definizione”. Aforisma: forma poetica della definizione. (Si veda DEFINIZIONE).
ATTACCAPANNI. Oggetto magico. Ludík lo vede nel momento in cui sta cercando Helena e crede che si sia suicidata: “un'asta di metallo, poggiata su tre piedi, che in alto si allargava, come sotto, in tre bracci metallici: non essendovi appeso alcun soprabito, stava lì abbandonato e umano; la sua nudità di ferro e quei bracci ridicolmente allungati mi mettevano angoscia”. E più avanti: “... il magro attaccapanni metallico sollevava in alto le braccia , come arrendendosi senza condizioni”. Ho sognato di mettere sulla copertina dello Scherzo l'immagine di un attaccapanni.
BELLEZZA (e conoscenza). (Quelli che dicono con Broch che la conoscenza è la sola morale del romanzo sono traditi dall'aura metallica della parola “conoscenza” troppo compromessa dai suoi
legami con le scienze. Bisogna dunque aggiungere: tutti gli aspetti dell'esistenza scoperti dal romanzo sono scoperti come bellezza. I primi romanzieri scoprirono l'avventura. Dobbiamo ringraziare loro se troviamo bella l'avventura in quanto tale e se ne siamo innamorati. Kafka ha descritto la situazione dell'uomo tragicamente intrappolato. Un tempo i kafkologi si dilungavano a discutere se il loro autore ci accordava o no una speranza. No, nessuna speranza. Dell'altro. Anche questa situazione invivibile, Kafka la scopre come una strana. nera bellezza. Bellezza, l'ultima vittoria possibile dell'uomo che non ha più speranza. Bellezza nell'arte: luce improvvisamente accesa del mai detto. Questa luce che irradia dai grandi romanzi non può venir attenuata dal tempo perché, essendo l'esistenza umana continuamente dimenticata dall'uomo, le scoperte dei romanzieri, per vecchie che siano, non potranno mai finire di stupirci.
BÊTISE
Dalla traduzione francese del Libro del riso e dell'oblio: “Circa un anno prima della morte di papà, facevo con lui la nostra solita passeggiata ... Più la gente era triste, più gli altoparlanti suonavano per loro ... Papà si fermò, alzò gli occhi all'apparecchio dal quale veniva il rumore e io capii che voleva confidarmi qualcosa di molto importante. Disse lentamente e con fatica; "La bêtise della musica"”.
Il mio traduttore francese ed io avevamo inizialmente deciso per “l'idiozia della musica!”. Ma idiozia è una parola aggressiva, emotiva, ingiuriosa. Bisogna dire: la bêtise. È una constatazione esatta, non emotiva, spiegata del resto dalle frasi che seguono le parole di mio padre: “Credo che volesse dirmi che esiste uno stato originario della musica, uno stato che precede la storia, uno stato anteriore al primo interrogarsi, alla prima riflessione, al primo trastullarsi con un motivo o un tema. In questo stato primordiale della musica (la musica senza pensiero) si riflette la bêtise consustanziale all'essere umano”.
Vi sono lingue nelle quali la parola bêtise è traducibile solo con parole aggressive: cretineria, stupidità, imbecillità, e simili. Come se la bêtise fosse qualcosa di eccezionale, un difetto, un'anormalità, e non “lo stato consustanziale all'essere umano”.
BRUTTO
Dopo le molte infedeltà del marito, i molti episodi sgradevoli con poliziotti, Tereza dice; “Praga è diventata brutta”. Alcuni traduttori vogliono sostituire la parola brutto con le parole “orribile” o “insopportabile”. Sembra loro illogico reagire a una situazione morale con un giudizio estetico. Ma la parola brutto è insostituibile: l'onnipresente bruttezza del mondo moderno, misericordiosamente velata dall'assuefazione, riappare brutalmente alla nostra prima anche minima angoscia.
CAPPELLO. Oggetto magico. Ricordo un sogno: un ragazzo di dieci anni è arriva a uno stagno, ha in testa un gran cappello nero. Si getta in acqua. Lo traggono a riva, annegato. In testa ha sempre quel cappello nero.
CARATTERI. Si pubblicano libri con caratteri sempre più piccoli. Immagino la fine della letteratura: a poco a poco, senza che nessuno se ne accorga, i caratteri rimpiccioliranno fino a diventare completamente invisibili.
CECOSLOVACCHIA. Io non uso mai la parola Cecoslovacchia nei miei romanzi: benché lì in genere sia ambientata l'azione. Questa parola composta è troppo giovane (è nata nel 1918), non ha radici nel tempo, non ha bellezza, e tradisce il carattere composto e troppo giovane (non provato dal tempo) della cosa denominata. Se si può, al limite, fondare uno Stato su una parola così poco solida, non si può fondare su di essa un romanzo. È per questo motivo che, per designare il paese dei miei personaggi, uso sempre l'antica parola Boemia. Dal punto di vista della geografa politica non è un uso esatto (i miei traduttori si ribellano spesso), ma dal punto di vista della poesia è la sola denominazione possibile.
COLLABORAZIONISTA. Le situazioni storiche sempre nuove svelano le possibilità costanti dell'uomo e ci permettono di dar loro un nome. Così, la parola collaborare ha conquistato, nel corso della guerra contro il nazismo, un senso nuovo: essere volontariamente al servizio di un potere immondo. Che nozione fondamentale! Come ha potuto l'umanità farne a meno fino al 1944? Una volta trovata questa parola, ci si rende sempre più conto che l'attività dell'uomo ha il carattere di un collaborazionismo. Tutti quelli che esaltano il frastuono dei mass media, il sorriso imbecille della pubblicità, l'oblio della natura, l'indiscrezione innalzata al rango di virtù, li si deve chiamare: collaborazionisti della modernità.
COMICO. Offrendoci la bella illusione della grandezza umana, il tragico ci consola. Il comico è più crudele: ci rivela brutalmente l'insignificanza di tutte le cose. Suppongo che tutte le cose umane contengano il loro aspetto comico che, in alcuni casi, è riconosciuto, ammesso, sfruttato, in altri casi, velato. I veri genii del comico non sono coloro che ci fanno ridere di più, ma coloro che svelano una zona sconosciuta del comico. La Storia è sempre stata considerata come un territorio rigorosamente serio. Ebbene, esiste il comico sconosciuto della Storia. Così come esiste il comico (difficile da accettare) della sessualità.
CREPUSCOLO (e velocipedista). “... velocipedista (questa parola gli sembrava bella come il crepuscolo)...”, (La vita è altrove). Questi due sostantivi mi sembrano magici perché vengono da così lontano. Crepusculum, la parola cara a Ovidio. Velocipede, la parola che ci arriva dai lontani e ingenui inizi dell'Età tecnica.
DEFINIZIONE. La trama meditativa del romanzo è sorretta dall'armatura di alcune parole astratte. Se non voglio cadere nel vago dove tutti credono di capire tutto senza capire nulla, devo non solo scegliere queste parole con estrema precisione, ma continuamente definirle e ridefinirle. (Si vedano BÊTISE, DESTINO, FRONTIERA, GIOVINEZZA, LEGGEREZZA, LIRISMO, TRADIRE).
Un romanzo, mi sembra, spesso non è che un lungo inseguimento di alcune definizioni sfuggenti.
DESTINO. Viene il momento in cui l'immagine della nostra vita si separa dalla vita stessa, diventa indipendente e, a poco a poco, comincia a dominarci. Già nello Scherzo: “...non esisteva alcuna forza in grado di mutare l'immagine della mia persona posta in chissà quale sala suprema dove si decidono i destini umani; capii che quell'immagine (pur non somigliandomi in nulla) era di gran lunga più reale di quanto lo fossi io stesso; che non era affatto la mia ombra, ma ero io invece l'ombra di quell'immagine; che non era possibile accusarla di non somigliarmi, perché il colpevole di quella non somiglianza ero io...”
E nel Libro del riso e dell'oblio: “Il destino non muove neanche la punta di un dito per Mirek (per la sua felicità, la sua sicurezza, il suo buon umore e la sua salute), in compenso Mirek è pronto a fare di tutto per il proprio destino (per la sua grandezza, la sua chiarezza, il suo stile e il suo senso intelligibile). Si sente responsabile del suo destino, mentre il suo destino non si sente responsabile di lui”.
A differenza di Mirek, il personaggio edonista del quarantenne (La vita è altrove) ci tiene al suo “idilliaco non destino”. (Si veda IDILLIO). Un edonista, infatti, si oppone alla trasformazione della propria vita in destino. Il destino ci vampirizza, ci pesa, è come una palla di ferro legata alle caviglie. (Il quarantenne, sia detto per inciso, è, di tutti i miei personaggi, quello che mi è più vicino).
ECCITAZIONE. E non piacere, godimento, sentimento, passione. L'eccitazione è il fondamento dell'erotismo, il suo enigma più profondo, la sua parola-chiave.
ELITISMO. La parola “élitisme” compare in Francia solo nel 1967, la parola “élitiste” solo nel 1968. Per la prima volta nella storia, la lingua stessa getta sulla nozione di élite una luce di negatività, se non addirittura di disprezzo.
La propaganda ufficiale dei paesi comunisti ha cominciato nello stesso momento a fustigare l'elitismo e gli elitisti. Con queste parole essa prendeva di mira non i grandi imprenditori, gli sportivi famosi o gli uomini politici, bensì esclusivamente l'élite culturale, filosofi, scrittori, professori d'università, storici, uomini di cinema e di teatro.
Stupefacente sincronia! C'è da pensare che in tutta quanta l'Europa l'élite culturale stia cedendo il posto ad altre élites. Là, all'élite dell'apparato poliziesco. Qui, all'élite dell'apparato massmediatico. Sono nuove élites che nessuno accuserà mai di elitismo. Sicché la parola elitismo cadrà presto nell'oblio. (Si veda EUROPA).
EUROPA. Nel Medioevo l'unità europea poggiava sulla religione comune. Nell'epoca dei Tempi moderni cedette il posto alla cultura (alla creazione culturale) che diventò la realizzazione dei valori supremi attraverso i quali gli europei si riconoscevano, si definivano. Oggi, la cultura cede il posto a sua volta. Ma a che cosa e a chi? Qual è l'àmbito nel quale si realizzeranno dei valori supremi in grado di unire l'Europa? Le conquiste tecniche? Il mercato? La politica con l'ideale della democrazia, con il principio della tolleranza? Ma questa tolleranza, se non protegge più nessuna creazione ricca e nessun pensiero forte, non diventa vuota e inutile? Oppure questa rinuncia della cultura la si può intendere come una sorta di liberazione alla quale abbandonarsi con euforia? Io non lo so. Credo solo di sapere che la cultura ha già ceduto il suo posto.
Così, l'immagine dell'identità europea si allontana nel passato. Europeo: colui che ha nostalgia dell'Europa.
EUROPA CENTRALE· Il Seicento: l'immensa forza del barocco impone a questa regione, multinazionale e, pertanto, policentrica, dalle frontiere mobili e indefinibili, una certa unità culturale. L'ombra attardata del cattolicesimo barocco si prolunga nel Settecento, nessun Voltaire, nessun Fielding. Nella gerarchia delle arti, il primo posto lo occupa la musica.
Dopo Haydn (e fino a Schönberg e a Bartók) Il centro di gravità della musica europea si trova qui. L'Ottocento: alcuni grandi poeti ma nessun Flaubert; lo spirito Biedermeier: il velo dell'idillio gettato sulla realtà. Nel Novecento, la rivolta. Le menti più grandi (Freud, i romanzieri) rivalorizzano quello che per secoli è stato misconosciuto e sconosciuto: la razionale lucidità demistificatrice; il senso della realtà; il romanzo. La loro rivolta è esattamente contraria a quella del modernismo francese, antirazionalista, antirealista, lirico; (Questo provocherà un bel po' di equivoci). La pleiade dei grandi romanzieri centroeuropei: Kafka, Hašek, Musil, Broch, Gombrowicz; la loro avversione per il romanticismo; il loro amore per il romanzo pre-balzachiano e per lo spirito libertino (Broch vede nel Kitsch una cospirazione del puritanesino monogamo contro il secolo dei Lumi), la loro diffidenza verso la Storia e l'esaltazione dell'avvenire; il loro modernismo lontano dalle illusioni dell'avanguardia.
La distruzione dell'Imperò, e poi, dopo il 1945, l'emarginazione culturale dell'Austria e la non esistenza politica degli altri paesi fanno dell'Europa centrale lo specchio premonitore del destino possibile di tutta l'Europa, il laboratorio del crepuscolo.
EUROPA CENTRALE (ed Europa). Nel testo di una presentazione l'editore vuole situare Broch in un contesto decisamente centroeuropeo: Hofmannsthal, Svevo. Broch protesta. Se lo si vuole paragonare a qualcuno, allora che sia a Gide e a Joyce! Voleva in tal modo rinnegare la sua “centroeuropeità”? No, voleva solo dire che i contesti nazionali, regionali, non servono a niente quando si tratta di cogliere il significato e il valore di un'opera.
FRONTIERA. “Bastava così poco, così infinitamente poco per trovarsi al di là del confine oltre il quale nulla aveva più senso; l'amore. le convinzioni, la fede, la storia. Tutto il mistero della vita umana è nel fatto che essa si svolge in prossimità immediata, persino a contatto diretto con questo confine, che ne è separata non da chilometri, ma da un millimetro appena...” (Il Libro del riso e dell'oblio).
GIOVINEZZA. “Fui preso da un'ondata di rabbia verso la mia età di allora, verso la mia stupida età lirica...” (Lo scherzo).
GRAFOMANIA. Non è la mania “di scrivere lettere, diari, cronache di famiglia (cioè scrivere per sé o per le persone a noi più vicine), ma di scrivere libri (cioè avere un pubblico di lettori sconosciuti)” (Il Libro del riso e dell'oblio). Non è la mania di creare una forma, bensì quella di imporre il proprio io agli altri. La versione più grottesca della volontà di potenza.
IDEE. Il disgusto che provo per coloro che riducono un'opera alle sue idee. L'orrore che ho di essere trascinato in quello che e chiamato “dibattito di idee”. Lo scoramento che mi suscita l'epoca obnubilata dalle idee, indifferente alle opere.
IDILLIO. Parola raramente usata in Francia, ma che era un concetto importante per Hegel, Goethe, Schiller: lo stato del mondo prima del primo conflitto; oppure, al di fuori dei conflitti; oppure, con conflitti che non sono altro che malintesi, e quindi falsi conflitti. “Anche se la sua vita erotica era estremamente varia, il quarantenne in fondo era un idilliaco...” (La vita è altrove). Il desiderio di conciliare l'avventura erotica con l'idillio è l'essenza stessa dell'edonismo - e la ragione della sua impossibilità.
IMMAGINAZIONE. Che cos'ha voluto dire con la storia di Tamina sull'isola dei bambini? mi viene chiesto. Questa storia è stata dapprima un sogno che mi ha affascinato, che ho sognato poi in stato di veglia, e che ho ampliato e approfondito scrivendola. Il suo significato? Se si vuole, un'immagine onirica di un futuro infantocratico. (Si veda INFANTOCRAZIA).
Tuttavia, questo significato non ha preceduto il sogno, è il sogno che ha preceduto il significato. Bisogna dunque leggere questo racconto lasciandosi trasportare dall'immaginazione. Soprattutto non come un rebus da decifrare. È a forza di voler decifrare che i kafkologi hanno ucciso Kafka.
INESPERIENZA- Titolo inizialmente previsto per L'insostenibile leggerezza dell'essere:“Il pianeta dell'inesperienza”. L'inesperienza come una qualità della condizione umana. Si nasce una volta per tutte, non si potrà mai ricominciare un'altra vita con le esperienze della vita precedente. Si esce dall'infanzia senza sapere che cosa sia la giovinezza, ci si sposa senza sapere che cosa sia l'essere sposati, e anche quando si entra nella vecchiaia non si sa dove si va: i vecchi sono bambini innocenti della loro vecchiaia. In questo senso, la terra dell'uomo è il pianeta dell'inesperienza.
INFANTOCRAZIA. “Un motociclista percorreva a tutta velocità la strada vuota, braccia e gambe ad O, e risaliva la prospettiva con un fragore di tuono; il suo viso rifletteva la serietà di un bambino che dà la massima importanza ai propri urli” (Musil, L'uomo senza qualità). La serietà di un bambino: il viso dell'Età tecnica. L'infantocrazia: l'ideale dell'infanzia imposto all'umanità.
INTERVISTA. Sia maledetto lo scrittore che per primo ha permesso ha un giornalista di riprodurre liberamente le sue parole! Egli ha dato il via a un processo inevitabilmente destinato a condurre alla scomparsa dello scrittore stesso. E tuttavia il dialogo (forma letteraria maggiore) mi piace moltissimo, e sono stato soddisfatto di molte conversazioni studiate, composte, redatte d'accordo con me.
Ahimè, l'intervista, così come la si pratica in genere non ha niente a che fare col dialogo: 1. l'intervistatore vi fa domande interessanti per lui, prive di interesse per voi; 2. delle vostre risposte utilizza solo quelle che fanno al caso suo; 3. Le traduce ne1 suo linguaggio, nel suo modo di pensare. Imitando il giornalismo americano, non si degnerà nemmeno di farvi approvare ciò che vi ha fatto dire.
L'intervista viene pubblicata. Voi vi consolate: la dimenticheranno presto. Macché: la citeranno! Persino gli universitari più scrupolosi non distinguono più tra le parole scritte e firmate da uno scrittore e le sue parole riferite da altri. (Precedente storico: Conversazioni con Kafka di Gustav Janouch, mistificazione che, per i kafkologi, è una fonte inesauribile di citazioni). Nel giugno 1985 ho preso una decisione definitiva: mai più interviste. Con l'eccezione dei dialoghi, trascritti in collaborazione con me, e accompagnati dal mio copyright, tutte le mie parole riferite devono considerarsi, a partire da quella data, come dei falsi.
IRONIA. Chi ha ragione e chi ha torto? Emma Bovary è insopportabile? Oppure coraggiosa e commovente? E Werther? Sensibile e nobile? Oppure un sentimentale aggressivo, innamorato di se stesso? Più si legge il romanzo con attenzione, più la risposta diventa impossibile perché, per definizione, il romanzo è l'arte ironica: la sua “verità” è nascosta, non pronunciata, non-pronunciabile. “Si ricordi, Razumov, che le donne, i bambini e i rivoluzionari aborrono l'ironia, negazione di tutti gli istinti generosi, di ogni fede, di ogni dedizione, di ogni azione!” fa dire Joseph Conrad a una rivoluzionaria russa in Sotto gli occhi dell'Occidente.
L'ironia irrita. Non perché si faccia beffe o attacchi, ma perché ci priva delle certezze svelando il mondo come ambiguità. Leonardo Sciascia: “Nulla è più difficile da capire, più indecifrabile, dell'ironia”. Inutile voler rendere “difficile” un romanzo con affettazioni di stile; ogni romanzo degno di questo nome, per limpido che sia, è sufficientemente difficile a causa della sua ironia.
KITSCH. Quando scrivevo L'insostenibile leggerezza dell'essere ero un po' preoccupato di aver fatto della parola “Kitsch” una delle parole portanti del romanzo. Fino a poco tempo fa, infatti, questa parola era quasi sconosciuta in Francia, oppure conosciuta in un senso molto impoverito. Nella versione francese del celebre saggio di Hermann Broch, la parola “Kitsch” viene tradotta con “art de pacotille” Un fraintendimento, perché Broch dimostra che il Kitsch è ben altro che una semplice opera di cattivo gusto.
Esiste l'atteggiamento Kitsch. Il comportamento Kitsch. Il bisogno di Kitsch dell'uomo-Kitsch (Kitschnremsch): è il bisogno di guardarsi allo specchio della menzogna che abbellisce e di riconoscervisi con commossa soddisfazione. Per Broch il Kitsch è legato storicamente al romanticismo sentimentale dell'Ottocento. E poiché in Germania e nell'Europa centrale l'Ottocento fu assai più romantico (e assai meno realistico) che altrove, è appunto là che è fiorito a dismisura il Kitsch, è nata la parola Kitsch, tuttora di uso corrente. A Praga abbiamo visto nel Kitsch il nemico principale dell'arte. Non così in Francia. Qui all'arte vera viene contrapposto il divertimento. Alla grande arte, l'arte leggera, minore. Quanto a me, io non ho mai storto il naso davanti ai gialli di Agatha Christie! Mentre Èajkovskij, Rachmaninov, Horowitz al pianoforte, i grandi film hollywoodiani, Kramer contro Kramer, Il dottor Zivago (ah, povero Pasternak!), queste sono le cose che detesto, profondamente, sinceramente. E mi irrita sempre più lo spirito del Kitsch presente nelle opere di forma cosiddetta modernista. (Aggiungo: l'avversione che Nietzsche provava per le “belle parole” e i “manti da parata” di Victor Hugo era il disgusto del Kitsch avanti lettera).
LEGGEREZZA. Trovo l'insostenibile leggerezza dell'essere già nello Scherzo: “Camminavo sulle pietre polverose del selciato e sentivo la pesante leggerezza del vuoto che si stendeva sulla mia vita”.
E in La vita e altrove: “A volte Jaromil faceva sogni spaventosi: sognava che doveva sollevare un oggetto molto leggero, una tazza da tè, un cucchiaio, una piuma, e che non ce la faceva, era tanto più debole quanto più leggero era l'oggetto, e soccombeva sotto la sua leggerezza. E nel Valzer degli addii: “Raskol'nikov aveva vissuto il suo delitto come una tragedia e aveva finito per soccombere sotto il peso della sua azione. E Jakub si meraviglia che la sua azione sia così leggera, che non lo prostri, che non gli pesi affatto. E si chiede se questa leggerezza non sia ben più terrorizzante dei sentimenti isterici dell'eroe russo”.
E nel Libro del riso e dell'oblio: “Questa sacca vuota nello stomaco è appunto quelsta insopportabile assenza di pesantezza. E come un estremo può in qualsiasi momento cambiarsi nel suo contrario, così la leggerezza portata al massimo è diventata la spaventoso pesantezza della leggerezza e Tamina sa che non riuscirà a sopportarla un secondo di più.
È stato rileggendo le traduzioni di tutti i miei libri che mi sono accorto, con sgomento, di queste ripetizioni! Poi mi sono consolato: tutti i romanzieri, forse, non scrivono che una sorta di tema (il primo romanzo) con variazioni.
LIBRO. Mille volte ho sentito dire alla radio o alla televisione: “...comme je le dis dans mon livre...” (“come dico nel mio libro”). La sillaba li è pronunciata molto lunga e almeno un'ottava più alta della sillaba precedente:
Quando la stessa persona dice: “...comme c'est l'usage dans ma ville” (“come si usa nella mia città”), l'intervallo tra la sillaba ma e ville è solo di una quarta:
- “Il mio libro” - l'ascensore fonetico dell'autocompiacimento. (Si veda GRAFOMANIA).
LIRICO. Nell'Insostenibile leggerezza dell'essere si parla di due tipi di donnaioli: donnaioli lirici (che cercano in ogni donna il loro ideale) e donnaioli epici (che cercano nelle donne l'infinita diversità del mondo femminile). Questo corrisponde alla distinzione classica tra lirico ed epico (e drammatico), distinzione che apparve solo alla fine del Settecento in Germania e che è stata magistralmente descritta nell'Estetica di Hegel: la lirica è l'espressione della soggettività che si confessa; l'epica viene dalla passione di impadronirsi dell'oggettività del mondo. Per me, lirico ed epico superano l'ambito, estetico, rappresentano due possibili atteggiamenti dell'uomo verso se stesso, il mondo, gli altri (l'età lirica = l'età della giovinezza). Ahimè, questa concezione di lirico ed epico è così poco familiare ai francesi che sono stati costretti ad acconsentire che nella traduzione francese il donnaiolo lirico diventasse il baiseur romantique e il donnaiolo epico il baiseur libertin. La soluzione migliore, che però mi ha un po' rattristato.
LIRISMO (e rivoluzione). “Il lirismo è ebbrezza, e l'uomo si ubriaca per potersi fondere più facilmente col mondo. La rivoluzione non vuole essere studiata e osservata, vuole che ci si fonda con lei; in questo senso è lirica e il lirismo le è necessario” (La vita è altrove). “Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro si danzava.
Ah no, non una danza macabra. Lì danzava l'innocenza! L'innocenza col suo sorriso insanguinato” (La vita è altrove).
LITANIA. Ripetizione: principio della composizione musicale. Litania: parola diventata musica. Vorrei che il romanzo, nei suoi brani riflessivi, si trasformasse qualche volta in canto. Ecco un brano di litania nello Scherzo, composto sulla parola mondo:
“... e io mi sentivo a casa dentro quelle canzoni, mi sentivo uscito da loro, mi sembrava che il loro mondo fosse il mio marchio originario, il mio mondo che io avevo tradito ma che tanto più era il mio mondo (perché la voce più supplichevole è quella del nostro mondo verso il quale ci siamo resi colpevoli); capivo anche, però, che quel mio mondo non era di questa terra (ma che mondo è mai allora, se non è di questa terra!), che quella che stavamo cantando e suonando lì non era che un ricordo, un monumento, la sopravvivenza simbolica di qualcosa che non c'era più e sentii il suolo di quel mondo mancarmi sotto i piedi, mi sentii sprofondare col clarinetto alle labbra, sprofondare giù nel profondo degli anni, nel profondo dei secoli, in una profondità sterminata e mi dicevo con stupore che il mio unico mondo era proprio quello sprofondare, quella caduta indagatrice e avida, e mi abbandonavo a essa, provando una dolce vertigine”.
Nella prima edizione francese, tutte le ripetizioni erano state sostituite da sinonimi sembrava di essere a casa dentro quei versi, di essere uscito da loro, che la loro entità fosse il mio segno originario, il mio focolare che, per aver subito il mio abbandono, mi apparteneva ancora di più (perché il lamento più straziante si alza dal nido al quale abbiamo fatto torto); e d 'altronde capivo anche che esso non era di questo mondo (ma di quale dimora si tratta, se non si trova quaggiù?), che la carne delle nostre canzoni e delle nostre melodie non aveva altro spessore che quello del ricordo, monumento, sopravvivenza immaginata di una realtà favolosa che non esiste più e io sentivo sotto i miei piedi venir meno le fondamenta di quel focolare, mi sentivo scivolare, col clarinetto sulle labbra, precipitato nel baratro degli anni, dei secoli, in un abisso senza fondo e mi dicevo, stordito, che quella discesa era il mio unico rifugio, quella caduta indagatrice, avida, e quindi dovevo abbandonarmi tutto alla voluttà della mia vertigine”.
I sinonimi hanno distrutto non solo la melodia del testo ma anche la chiarezza del senso. (Si veda RIPETIZIONI).
MASCHILISTA (e misogino). Il maschilista adora la femminilità e desidera dominare ciò che adora. Esaltando la femminilità archetipica della donna dominata (la sua maternità, la sua fecondità, la sua debolezza, il suo carattere casalingo, la sua sentimentalità, ecc.), egli esalta la propria virilità. Il misogino, invece, ha orrore della femminilità, sfugge le donne troppo donne. L'ideale del maschilista: la famiglia. L'ideale del misogino: celibe con molte amanti; oppure: sposato con una donna amata e senza figli.
MEDITAZIONE. Tre possibilità elementari del romanziere: racconta una storia (Fielding), descrive una storia (Flaubert), pensa una storia (Musil). La descrizione romanzesca nell'Ottocento era in armonia con lo spirito (positivista, scientifico) dell'epoca. Nel Novecento, fondare un romanzo su una continua meditazione va contro lo spirito dell'epoca, che ha completamente perso il gusto di pensare.
MERCI. Perché questa parola francese ha una sonorità così dura? È convincente solo quando è ironica. Dite qualcosa di offensivo a qualcuno e lui vi risponde “Merci”. Ma l'espressione entro la quale questa parola ha il suo senso più pieno è: Essere alla mercè. Essere consegnato alla mercè.
[METAFORA. Non le amo se sono solo un ornamento. E non penso solo a cliché tipo “il tappeto verde di un prato”, ma anche, per esempio, a Rilke: “Il riso stillava dalla loro bocca come da ferite purulente”. Oppure: “Già la sua preghiera si sfoglia e spunta dalla sua bocca come un arboscello morto” (I quaderni di Malte Laurids Brigge). (Nel rifiutare programmaticamente le metafore, Kafka, mi sembra, si opponeva consapevolmente e personalmente a Rilke). La metafora mi pare invece insostituibile come mezzo per afferrare, in una rivelazione improvvisa, l'inafferrabile essenza delle cose, delle situazioni, dei personaggi. La metafora-definizione. Per esempio, in Broch, quella dell'atteggiamento esistenziale di Esch: “Desiderava la chiarezza senza equivoci: voleva creare un mondo di una semplicità così chiara da poter legare la propria solitudine a quella chiarezza come a un palo di ferro” (I sonnambuli). La mia regola: pochissime metafore in un romanzo; ma queste poche devono essere i suoi punti culminanti.]
MISOGINO. Ciascuno di noi ha di fronte, fin dai suoi primi giorni, una madre e un padre, una femminilità e una virilità. È dunque segnato da un rapporto armonico o disarmonico con ciascuno di questi due archetipi. I ginofobi (misogini) non si trovano solo tra gli uomini, ma anche tra le donne, ed esistono tanto i ginofobi quanto gli androfobi (coloro che, uomini o donne, vivono in disarmonia con l'archetipo dell'uomo). Questi atteggiamenti sono possibilità diverse e completamente legittime della condizione umana.
Il manicheismo femminista non si è mai posto la questione dell'androfobia e ha trasformato la misoginia in semplice insulto. Si è cosi eluso il contenuto psicologico di questa nozione, il solo che sia interessante.
MISTIFICAZIONE. Neologismo, in sé divertente (derivato dalla parola mistero), comparso in Francia nel Settecento nell'ambito del pensiero libertino per designare inganni di portata esclusivamente comica. Diderot ha quarantasette anni quando mette in atto una beffa straordinaria facendo credere al marchese de Croismare che una giovane religiosa sventurata implora la sua protezione. Per parecchi mesi scrive al marchese, commosso, lettere firmate da questa donna inesistente. La religieuse - frutto di una mistificazione: una ragione di più per amare Diderot e il suo secolo. Mistificazione: la maniera attiva di non prendere sul serio il mondo.
MODERNO (arte moderna; mondo moderno). C'è l'arte moderna che, con estasi lirica, si identifica con il mondo moderno. Apollinaire. L'esaltazione della tecnica, il fascino dell'avvenire. Con e dopo di lui: Majakovski, Léger, i futuristi, le avanguardie. Ma all'estremo opposto di Apollinaire è Kafka. Il mondo moderno come un labirinto dove l'uomo si smarrisce. Il modernismo antilirico, aritiromantico, scettico, critico. Con e dopo Kafka: Musil, Broch, Gombrowicz, Beckett, Ionesco, Fellini... A mano a mano che si affonda nell'avvenire, l'eredità del “modernismo antimoderno” acquista grandezza.
MODERNO (essere moderni). “Nuova, nuova, nuova, è la stella del comunismo e fuori di essa non esiste modernità” scrisse intorno al 1920 il grande romanziere d'avanguardia ceco Vladislav Vancura. Tutta la sua generazione correva al partito comunista per non perdere l'occasione di essere moderna. Il declino storico del partito comunista è stato suggellato nel momento in cui esso si e trovato dovunque “fuori della modernità”. Perché “si deve essere assolutamente moderni”, ha ordinato Rimbaud. Il desiderio di essere moderni è un archetipo, ossia un imperativo irrazionale, profondamente radicato in noi, una forma insistente dal contenuto mutevole e indeterminato: è moderno ciò che si dichiara moderno ed è accettato come tale. Mamma Lejeune in Ferdydurke esibisce come un segno di modernità “il suo passo disinvolto per dirigersi verso il gabinetto, dove un tempo si andava di nascosto”.
Ferdydurke di Gombrowicz: la più clamorosa demitificazione dell'archetipo del moderno.
NON-ESSERE. “...la morte dolcemente azzurrina come il non essere” (Il libro del riso e dell'oblio). Non si può dire: “azzurra come il nulla”, perché il nulla non è azzurrino. La prova che il nulla e il non essere sono due cose affatto diverse.
NON-PENSIERO. Non lo si può tradurre con “assenza di pensiero”. L'assenza di pensiero designa una non-realtà, la figa da una realtà. Non si può dire di un'assenza di pensiero che è aggressiva o che avanza. Il non-pensiero, invece, designa una realtà, una forza; posso quindi dire: il non-pensiero dilagante; il non-pensiero dei luoghi comuni, il non-pensiero massmediatico; ecc.
OBLIO. “La lotta dell'uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l'oblio”. Questa frase del Libro del riso e dell'oblio, pronunciata da un personaggio, Mirek, è spesso citata come il messaggio del romanzo. Il fatto è che il lettore in un romanzo riconosce per prima cosa il “già noto”. Il “già noto” di questo romanzo è il famoso tema di Orwell: l'oblio imposto da un potere totalitario.
Ma l'originalità del racconto su Mirek io l'ho vista da tutt'altra parte. Questo Mirek che, con tutte le sue forze, combatte per non essere dimenticato (insieme con i suoi amici e la loro lotta politica), fa al tempo stesso l'impossibile per far dimenticare l'altro (la sua ex amante, di cui si vergogna”. Prima di diventare un problema politico, la volontà di oblio è un problema antropologico: da sempre l'uomo conosce il desiderio di riscrivere la propria biografia, di cambiare il passato, di cancellare le tracce, le proprie e quelle degli altri. La volontà di oblio è ben altro che una semplice tentazione di imbrogliare. Sabina non ha alcun motivo per nascondere alcunché, eppure è spinta dal desiderio irrazionale di farsi dimenticare. L'oblio: insieme ingiustizia assoluta e consolazione assoluta. L'esame che il romanzo fa del tema dell'oblio è senza fine e senza conclusione.
OCTAVIO. Sono occupato a compilare questo dizionarietto, quando il terribile terremoto scuote il centro del Messico, dove vivono Octavio Paz e sua moglie Marie-Jo. Nove giorni senza loro notizie. Il 27 settembre, una telefonata: il messaggio di Octavio. Stappo una bottiglia alla sua salute. E del suo caro, caro nome faccio la quarantaquattresima di queste sessantasei parole.
OPERA. “La strada dall'abbozzo all'opera la si fa in ginocchio”. Non posso dimenticare questo verso di Vladimir Holan. E mi rifiuto di mettere sullo stesso piano le lettere a Felice Il castello.
OPUS. Eccellente abitudine dei musicisti. Danno un numero d'opus solo alle composizioni che riconoscono come “valide”. Non numerano le opere che appartengono alla loro immaturità, a un'occasione passeggera, o che servono da esercizio. Un Beethoven non numerato: per esempio le Variazioni a Salieri, è veramente debole, ma non ne siamo delusi: il compositore stesso ci ha messo in guardia. Domanda fondamentale per ogni artista: da che opera comincia la sua opera “valida”? Janáèek ha trovato la sua originalità solo dopo i quarantacinque anni. Soffro quando sento le poche composizioni rimaste del suo periodo precedente. Prima di morire Debussy distrusse tutti gli abbozzi, tutto quello che aveva lasciato incompiuto. Il minimo che un autore può fare per le sue opere: spazzare il terreno circostante.
OSCENITÀ. In una lingua straniera si usano le parole oscene ma non le si sente come tali. La parola oscena, pronunciata con un accento straniero, diventa comica. Difficoltà di essere osceni con una donna straniera. Oscenità: la radice più profonda che ci avvince alla nostra patria.
[PSEUDONIMO. Io Sogno un mondo nel quale gli scrittori saranno obbligati per legge a mantenere segreta la loro identità e a usare pseudonimi. Tre vantaggi: limitazione radicale della grafomania diminuzione dell'aggressività nella vita letteraria, scomparsa dell'interpretazione biografica di un opera.]
RIFACIMENTO. Interviste, conversazioni, opinioni riferite. Adattamenti, trascrizioni, per il cinema, per la televisione. Il rifacimento come spirito dell'epoca. “Un giorno tutta la cultura passata sarà completamente riscritta e completamente dimenticata dietro il suo rifacimento”.
“Che periscano tutti coloro che si permettono di riscrivere ciò che era scritto! Che siano impalati ed arsi a fuoco lento! Che siano castrati, che gli si mozzino le orecchie!” (il Padrone in Jacques e il suo padrone).
[RIFLESSIONE. La cosa più difficile da tradurre: non Il dialogo, la descrizione, bensì i brani riflessivi. Se ne deve mantenere l'esattezza assoluta (ogni infedeltà semantica rende falsa la riflessione), ma al tempo stesso anche la bellezza. La bellezza della riflessione si rivela nelle forme poetiche della riflessione. Ne conosco tre: 1) l'aforisma, 2) la litania 3) la metafora. (Si vedano AFORISMA, LITANIA, METAFORA).]
RIPETIZIONI. Nabokov fa notare che all'inizio di Anna Karenina, nel testo russo, la parola “casa” compare otto volte in sei frasi e che questa ripetizione è un deliberato artificio da parte dell'autore. Tuttavia nella traduzione francese la parola “casa”, compare solo una volta, nella traduzione ceca non più di due volte.
Nello stesso libro: ogni volta che Tolstoj scrive “skazal” (“disse”), nella traduzione trovo proferì, ribatté, riprese, esclamò, concluse, ecc. I traduttori vanno pazzi per i sinonimi. (Io rifiuto la nozione stessa di sinonimo: ogni parola ha il suo proprio significato ed è semanticamente insostituibile). Pascal: “Quando in un discorso si trovano parole ripetute e allorché si cerca di correggerle le si trova così appropriate che si guasterebbe il discorso, bisogna lasciarle, sono il suo contrassegno. [La ricchezza del vocabolario non è di per sé un valore: in Hemingway è la ristrettezza del vocabolario, la ripetizione delle stesse parole dello stesso capoverso che determina la melodia e la bellezza del suo stile.] La raffinatezza ludica della ripetizione nel primo capoverso di uno degli esempi più belli di prosa francese: “Amavo perdutamente la Contessa di...; avevo vent'anni, ed ero ingenuo; lei mi ingannò, io mi arrabbiai, lei mi lasciò. Ero ingenuo, la rimpiansi; avevo vent'anni, mi perdonò: e poiché avevo vent'anni, poiché ero ingenuo, ancora ingannato, ma non più lasciato, mi credevo l'amante più amato, e quindi il più felice degli uomini...(Vivant Denon, Point de lendemain).(Si veda LITANIA).
RISO (europeo). Per Rabelais, l'allegria e il comico erano ancora una cosa sola. Nel Settecento, lo humour di Sterne e Diderot è un ricordo affettuoso e nostalgico dell'allegria rabeliasiana. Nell'Ottocento, Gogol'è un umorista melanconico : “Se si osserva attentamente e a lungo la storia buffa, essa diventa sempre più triste” dice. L'Europa ha osservato la storia buffa della propria esistenza per così tanto tempo che, nel Novecento, l'allegra epopea di Rabelais si è trasformata nella commedia disperata di Ionesco, che dice: “Ci sono poche cose che separano l'orribile dal comico”. La storia europea del riso si chiude così.
RITMO. Mi fa orrore sentire il battito del mio cuore, mi ricorda incessantemente che il tempo della mia vita è contato. Per questo ho sempre visto nelle barre che si susseguono in una partitura qualcosa di macabro. Ma i più grandi maestri del ritmo hanno saputo far tacere questa regolarità monotona e prevedibile e trasformare la loro musica in una piccola isola di “tempo fuori del tempo”. I grandi polifonisti: il pensiero contrappuntistico, orizzontale, indebolisce l'importanza della battuta. Beethoven: nel suo ultimo periodo le battute si distinguono appena, tanto è complicato il ritmo, soprattutto nei movimenti lenti. La mia ammirazione per Olivier Messiaen: con la sua tecnica di piccoli valori ritmici aggiunti o sottratti, egli inventa una struttura temporale imprevedibile e incalcolabile. Luogo comune il genio del ritmo si manifesta attraverso la regolarità rumorosamente sottolineata. Errore. Il rintronante primitivismo ritmico del rock: il battito del cuore è amplificato, perché l'uomo non dimentichi per un solo secondo il suo avanzare verso la morte.
ROMANZIERE (e scrittore). Rileggo il breve saggio di Sartre Qu'est-ce qu'écrire?. Non una volta usa le parole romanzo, romanziere. Non parla che di scrittore di prosa. Distinzione giusta. Lo scrittore ha delle idee originali e una voce inimitabile. Può servirsi di qualsiasi forma (compreso il romanzo) e tutto ciò che scrive, essendo contrassegnato dal suo pensiero, esposto dalla sua voce, fa parte della sua opera. Rousseau, Goethe, Chateaubriand, Gide, Malraux, Camus, Montherlant.
Il romanziere non dà grande importanza alle proprie idee. È uno scopritore che, a tentoni, si sforza di svelare un aspetto sconosciuto dell'esistenza. Non è affascinato dalla propria voce, ma da una forma che insegue, e solo le forme che rispondono alle esigenze del suo sogno fanno parte della sua opera. Fielding, Sterne, Flaubert, Proust, Faulkner, Céline, Calvino.
Lo scrittore si iscrive sulla carta spirituale del suo tempo, della sua nazione, su quella della storia delle idee.
Il solo contesto in cui si possa cogliere il valore di un romanzo è quello della storia del romanzo europeo. Il romanziere non deve render conto a nessuno, tranne che a Cervantes.
ROMANZIERE (e la sua vita). Al romanziere Karel Capek viene chiesto perché non scrive poesie. Risposta: “Perché detesto parlare di me”. Herman Broch, riferendosi a se stesso, a Musil, a Kafka: “Nessuno di noi tre ha una vera biografia”. Il che non vuol dire che la loro vita fosse povera di avvenimenti. Bensì che non era destinata ad essere distinta, ad essere pubblica, a diventare bio-grafia. “Odio mettere il naso nella preziosa vita dei grandi scrittori e mai biografo solleverà il velo della mia vita privata” dice Nabokov. E Faulkner desidera “essere annullato come uomo, eliminato dalla storia, non lasciare su di essa alcuna traccia, nient'altro che libri stampati” (Si osservi bene: libri e stampati, ossia niente manoscritti incompiuti, niente diari, niente lettere). Secondo una metafora di Kafka, il romanziere demolisce la casa della sua vita per costruire, con i mattoni, un'altra casa: quella del suo romanzo. I biografi di un romanziere disfanno quindi ciò che il romanziere ha fatto, rifatto ciò che egli ha disfatto. Il loro lavoro, puramente negativo, non può far luce né sul valore né sul significato di un romanzo; al massimo può identificare qualche mattone. Nel momento in cui Kafka attira più attenzione di Josef K., il processo della morte postuma di Kafka è incominciato.
ROMANZO. La grande forma della prosa in cui l'autore, attraverso degli io sperimentali (i personaggi), esamina fino in fondo alcuni grandi temi dell'esistenza.
ROMANZO (e poesia). 1857: il più grande anno del secolo. Les Fleurs du mal: la poesia lirica scopre il suo proprio terreno, la sua essenza. Madame Bovary: per la prima volta un romanzo è pronto ad assumere le più alte esigenze della poesia (l'intenzione di “cercare sopra ogni cosa la bellezza”; l'importanza di ogni singola parola; l'intensa melodia del testo: l'imperativo dell'originalità applicato a ogni particolare). A partire dal 1857, la storia del romanzo sarà quella del “romanzo diventato poesia”. Ma assumere le esigenze della poesia è ben altra cosa che liricizzare il romanzo (rinunciare alla sua essenziale ironia, allontanarsi dal mondo esterno, trasformare il romanzo in confessione personale, sovraccaricarlo di ornamenti). I più grandi tra i “romanzieri diventati poeti” sono violentemente antilirici: Flaubert, Joyce, Kafka, Gombrowicz.
Romanzo = poesia antilirica.
ROMANZO (europeo). La storia (l'evoluzione unita e continua del romanzo (di tutto ciò che viene chiamato romanzo) noi esiste. Ci sono soltanto diverse storie del romanzo: deL romanzo cinese, greco-romano, giapponese, medioevale, ecc. Il romanzo che io chiamo europeo si forma nel Sud dell'Europa all'alba dei Tempi moderni e rappresenta un'entità storica in sé che, più tardi, allargherà il suo spazio oltre i confini dell'Europa geografica (in particolare nelle due Americhe). Per la ricchezza delle sue forme, per l'intensità vertiginosamente concentrata della sua evoluzione, per il suo ruolo sociale, il romanzo europeo (così come la musica europea) non ha eguali in nessun'altra civiltà.
SCORRERE. In una lettera, Chopin descrive il suo soggiorno in Inghilterra. Suona nei salotti e le signore esprimono il loro incanto sempre con la stessa frase: “Ah, com'è bello! Scorre come l'acqua!”. Chopin si irritava, come mi irrito io quando sento lodare con la stessa formula una traduzione: “Scorre bene”. I partigiani della traduzione “che scorre bene” obiettano spesso ai miei traduttori: “Ma in tedesco (inglese, spagnolo, ecc.) non si dice così!”. Io rispondo: “Ma non si dice così neanche in ceco!”. Roberto Calasso, il mio carissimo editore italiano, ripete che una buona traduzione la si riconosce non dalla sua scorrevolezza, ma da tutte quelle formule insolite e originali (che non si dicono) che il traduttore ha avuto il coraggio di conservare e a di difendere. Perfino l'inusitatezza della punteggiatura. Una volta ho lasciato un editore solo perché cercava di cambiare i miei punti e virgola in virgole.
SOVIETICO. Io non uso questo aggettivo Unione delle repubbliche socialiste sovietiche: “Quattro parole, quattro menzogne” (Castoriadis). Il popolo sovietico: paravento lessicale dietro al quale si devono dimenticare tutte le nazioni russificate dell'Imperò. Il termine “sovietico” conviene non solo al nazionalismo aggressivo della Grande Russia comunista, ma anche alla nostalgia nazionale dei dissidenti. Esso permette loro di credere che, per un atto di magia, la Russia (la vera Russia) sia assente dallo Stato detto sovietico e perduri come essenza intatta, immacolata, al sicuro da ogni accusa. La coscienza tedesca: traumatizzata colpevolizzata dopo l'epoca nazista; Thomas Mann: la spietata messa in discussione dello spirito germanico. La maturità della cultura polacca: Gombrowicz che gioiosamente violenta la “polacchità”.
Impensabile per i russi violentare la “russità”, essenza immacolata. Nessun Mann, nessun Gombrowicz, tra di loro.
SPIRITOSO
Una cosa è essere spiritosi, altra cosa è fare gli spiritosi. Il traduttore francese dello Scherzo: “Portavano un costume d'Eva” (invece di “erano nude.”); “L'armonium emetteva borborigmi” (imvece di suoni). Il traduttore americano manifesta la stessa volontà di essere divertente. Aaron Asher, mio editore e grande amico, attento a ogni parola, legge le bozze e mi telefona: “Elimino tutte le amusing words!”
TEMPI MODERNI. L'avvento dei Tempi moderni. Il momento chiave della storia dell'Europa. Dio diventa Deus absconditus e l'uomo il fondamento di ogni cosa. Nasce l'individualismo europeo e con esso una nuova situazione dell'arte, della cultura, della scienza. Trovo difficoltà a tradurre questa espressione in America. Se si scrive modern times, l'americano capisce: l'epoca contemporanea, il nostro secolo. L'ignoranza della nozione di Tempi moderni in America rivela fino in fondo la spaccatura tra i due continenti. In Europa viviamo la fine dei Tempi moderni; la fine dell'individualismo: la fine dell'arte concepita come espressione di una originalità personale insostituibile; la fine che annuncia l'epoca di una uniformità senza pari. Questa sensazione di fine l'America, che non ha vissuto la nascita dei Tempi moderni e che di essi è solo l'ereditiera tardiva, non la sente.
L'America conosce altri criteri di ciò che è il principio e di ciò che è la fine.
TRADIRE. “Ma che cos'è questo tradire? Tradire significa uscire dai ranghi.Tradire significa uscire dai ranghi e partire verso l'ignoto. Sabina non conosceva niente di più bello che partire verso l'ignoto” (L'insostenibile leggerreza dell'essere).
TRASPARENZA. Nel linguaggio politico e giornalistico questa parola significa: svelare la vita degli individui allo sguardo pubblico. Il che ci rimanda ad André Breton e al suo desiderio di vivere in una casa di vetro sotto gli occhi di tutti. La casa di vetro: un'antica utopia e al tempo stesso uno degli aspetti più spaventosi della vita moderna. Regola: più gli affari dello Stato sono opachi, più devono essere trasparenti gli affari dell'individuo; la burocrazia, pur rappresentando una cosa pubblica, è anonima, segreta, in codice, inintelligibile, mentre l'uomo privato è obbligato a svelare la sua salute, le sue finanze, la sua situazione familiare e, se così ha deciso il verdetto dei mass media, non troverà più, nell'amore, nella malattia o nella morte, un solo istante di intimità. Il desiderio di violare l'intimità altrui è una forma ancestrale di aggressività che, oggigiorno, è istituzionalizzata (la burocrazia con le sue schede, la stampa coi suoi reporter), moralmente giustificata (il diritto all'informazione diventato il primo dei diritti dell'uomo) e poeticizzata (con questa bella parola: trasparenza).
UNIFORME (uni-forme). “Poiché la realtà consiste nell'uniformità del calcolo traducibile in piani, è necessario che l'uomo entri anche lui nell'uniformità, se vuole restare in contatto con la realtà. Un uomo senza uniforme oggigiorno dà già l'impressione di irrealtà, come un corpo estraneo nel nostro mondo” (Heidegger, Il superamento della metafisica). L'agrimensore K. non è alla ricerca di una fraternità, bensì alla ricerca disperata di una uni-forme. Senza questa uni-forme, senza l'uniforme di impiegato, egli non ha il “contatto con la realtà”, dà l'impressione di irrealtà”. Kafka fu il primo (prima di Heidegger) a cogliere questo mutamento di situazione: ieri, è stato ancora possibile vedere nella pluriformità, nel sottrarsi all'uniforme, un ideale, una fortuna, una vittoria; domani, la perdita dell'uniforme rappresenterà una sventura assoluta, un'esclusione dall'umanità Dopo Kafka, grazie alle grandi macchine che calcolano e pianificano la vita, l'uniformizzazione del mondo ha fatto passi da gigante. Ma quando un fenomeno diventa generale, quotidiano, onnipresente, non lo si distingue più. Nell'euforia della sua vita uni-forme, la gente non vede più l'uniforme che ha indosso.
VALORE. Lo strutturalismo degli Anni Sessanta ha messo tra parentesi la questione del valore. Eppure il fondatore dell'estetica strutturalista dice: “Solo la supposizione del valore estetico oggettivo dà un senso all'evoluzione storica dell'arte” (Jan Mukaøovsky, La funzione, la norma e il valore estetico in quanto fatti sociali, Praga, 1934). Interrogare un valore estetico vuol dire: cercare di circoscrivere e definire le scoperte, le innovazioni, la luce nuova che un'opera getta sul mondo umano. Solo l'opera riconosciuta come valore (l'opera di cui viene colta e definita la novità) può diventare parte dell'“evoluzione storica dell'arte”, che non è un semplice seguito di fatti, ma un perseguire dei valori. Se si accantona la questione del valore e ci si accontenta di una descrizione (tematica, sociologica, formalistica) di un'opera (di un periodo storico, di una cultura, ecc.), se si mette il segno di uguale tra tutte le culture e tutte le attività culturali (Bach e il rock, i fumetti e Proust), se la critica d'arte (meditazione sul valore) non trova più spazio per esprimersi, l'“evoluzione storica dell'arte” annebbierà il proprio senso, si sfascerà, diventerà un immenso e assurdo deposito di opere.
VECCHIAIA. “Il vecchio saggio osservava la folla dei ragazzi rumoreggianti e all'improvviso capì di essere il solo lì dentro a possedere il privilegio della libertà, perché era vecchio; solo quando è vecchio l'uomo può ignorare l'opinione del branco, l'opinione del pubblico e del futuro. Egli è solo con la sua morte vicina e la morte non ha orecchie né occhi, lui non ha bisogno di piacerle; può dire e fare quello che gli va di dire e di fare”
(La vita è altrove). Rembrandt e Picasso. Bruckner e Janácek. Il Bach dell'Arte della fuga.
VITA (con la v maiuscola). Paul Éluard, nel pamphlet dei surrealisti Un cadavre (1924), apostrofa la spoglia di Anatole France: “I tuoi simili, cadavere, noi non li amiamo...”, ecc. Più interessante di questo calcio a una bara mi sembra la giustificazione che segue: “Ciò che posso più immaginare senza che mi salgano le lacrime agli occhi, la Vita, appare ancora oggi in certe piccole cose da nulla alle quali solo la tenerezza ormai fa da sostegno. Lo scetticismo, l'ironia, la vigliaccheria, France, lo spirito francese, che cosa sono? Una grande folata di oblio mi trascina lontano da tutto ciò. E se non avessi mai letto nulla, mai visto nulla, di ciò che disonora la Vita?”.
Allo scetticismo e all'ironia Éluard ha contrapposto: le piccole cose da nulla, le lacrime agli occhi, la tenerezza, l'onore della Vita, sì, della Vita con la maiuscola!
Dietro al gesto spettacolarmente non conformista, lo spirito del Kitsch più vieto.
VII
DISCORSO DI GERUSALEMME
Il ROMANZO E L'EUROPA
È frutto non del caso, mi sembra, bensì di una lunga tradizione, che il premio più importante assegnato da Israele sia destinato alla letteratura internazionale.
Perché proprio le grandi personalità ebree, allontanate dalla loro terra d'origine, innalzate al di sopra delle passioni nazionaliste, hanno sempre mostrato una sensibilità eccezionale per un'Europa sovranazionale, un'Europa intesa non come territorio, ma come cultura. Se gli ebrei, anche dopo essere stati tragicamente delusi dall'Europa, sono rimasti fedeli a questo cosmopolitismo europeo, Israele, la loro piccola patria infine ritrovata, appare ai miei occhi come il vero cuore dell'Europa, uno strano cuore posto fuori del corpo.
Con grande emozione ricevo oggi il premio che porta il nome di Gerusalemme e l'impronta di questo grande spirito cosmopolita ebraico lo ricevo come romanziere. Romanziere, sottolineo, e non scrittore. Il romanziere, dice Flaubert, è colui che vuole scomparire dietro la propria opera. Scomparire dietro la propria opera significa rinunciare al ruolo di uomo pubblico. Non è cosa facile oggi, quando tutto ciò che ha anche solo un briciolo di importanza deve passare per la scena insopportabilmente illuminata dei mass media, i quali, contrariamente al proposito di Flaubert, fanno scomparire l'opera dietro l'immagine del suo autore. In una tale situazione, cui nessuno può sfuggire del tutto, l'osservazione di Flaubert mi appare quasi come un avvertimento: accettando il ruolo di uomo pubblico, il romanziere mette in pericolo la propria Opera, che rischia di essere considerata alla stregua di una semplice appendice dei suoi gesti, delle sue dichiarazioni, delle sue prese di posizione. Ora, il romanziere non è il portavoce di nessuno, anzi, mi spingerò fino a dire che non è nemmeno il portavoce delle proprie idee. Quando Tolstoj delineò la prima versione di Anna Karenina, Anna era una donna assai antipatica e la sua tragica fine era pienamente giustificata e meritata. La versione definitiva del romanzo è ben diversa, ma io non credo che nel frattempo Tolstoj avesse cambiato le sue idee morali: direi piuttosto che, durante la stesura del romanzo, egli ascoltò una voce che non era quella, delle sue convinzioni morali personali.
Ascoltava quella che mi piacerebbe chiamare la saggezza del romanzo. Tutti i veri romanzieri prestano orecchio a questa saggezza sovrapersonale, e ciò spiega come mai i grandi romanzi siano sempre un po' più intelligenti dei loro autori. I romanzieri che sono più intelligenti delle loro opere dovrebbero cambiare mestiere.
Ma che cos'e questa saggezza, che cos'è il romanzo? Dice un bellissimo proverbio ebraico: L'uomo pensa, Dio ride. Prendendo spunto da questa massima, mi piace immaginare che François Rabelais abbia udito un giorno la risata di Dio, e che sia nata così l'idea del primo grande romanzo europeo. Mi diverte pensare che l'arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio.
Ma perché Dio ride guardando l'uomo che pensa? Perché l'uomo pensa e la verità gli sfugge. Perché più gli uomini pensano, più il pensiero dell'uno si allontana dal pensiero dell'altro. E infine perché l'uomo non è mai ciò che pensa di essere. E appunto all'alba dei Tempi moderni si manifesta questa situazione fondamentale dell'uomo, uscito dal Medioevo: Don Chisciotte pensa, Sancio pensa, e ad entrambi sfugge non solo verità del mondo, ma la verità del loro stesso io. I primi romanzieri europei hanno colto appieno questa nuova situazione dell'uomo e su di essa hanno fondato la nuova arte: l'arte del romanzo.
François Rabelais ha inventato un gran numero di neologismi che sono poi entrati nella lingua francese e in altre lingue, ma una di queste parole è caduta nell'oblio, ed è un peccato. È la parola agélaste, che viene dal greco e significa: colui che non ride, che non ha il senso dello humour. Rabelais detestava gli agelasti. Gli facevano paura. Si lamentava che gli agelasti fossero stati così “duri con lui” da spingerlo quasi a smettere di scrivere, e per sempre.
Non c'è pace possibile fra il romanziere e l'agelasta. Non avendo mai udito la risata di Dio, gli agelasti sono convinti che la verità sia evidente, che tutti gli uomini debbano pensare la stessa cosa e che loro stessi siano esattamente ciò che pensano di essere. Ma l'uomo diventa individuo proprio quando perde la certezza della verità e il consenso unanime degli altri.
Il romanzo è il paradiso immaginario degli individui. È il territorio in cui nessuno possiede la verità, né Anna né Karenin, ma in cui tutti hanno diritto ad essere capiti, Karenin non meno di Anna.
Nel terzo libro di Gargantua e Pantagruel, Panurge, il primo grande personaggio romanzesco che l'Europa abbia conosciuto, è tormentato dal problema: sposarsi o non sposarsi? Va a consultare medici, veggenti, professori, poeti, filosofi, i quali a loro volta citano Ippocrate, Aristotele, Omero, Eraclito, Platone. Ma, dopo queste vaste ricerche erudite, che occupano tutto il libro, Panurge continua a non sapere se deve o non deve sposarsi. Anche noi lettori non lo sappiamo, ma in compenso abbiamo esplorato da tutti i possibili punti di vista la situazione, insieme comica ed elementare, di colui che non sa se deve o non deve sposarsi.
L'erudizione di Rabelais, per quanto grande, ha dunque un senso ben diverso da quella di Descartes. La saggezza del romanzo differisce da quella della filosofia. Il romanzo è nato non dallo spirito teorico ma dallo spirito dello humour. Uno degli sbagli dell'Europa è di non aver mai capito l'arte più europea, il romanzo; né il suo spirito, né le sue immense conoscenze e scoperte, né l'autonomia della sua storia.
L'arte ispirata dalla risata di Dio non dipende, per sua essenza, dalle certezze ideologiche, ma anzi le contraddice. Come Penelope, essa disfa, nel corso della notte, la trama che teologi, filosofi, scienziati, hanno tessuto durante il giorno.
In questi ultimi tempi è invalsa l'abitudine di parlar male del Settecento, e si è arrivati a questo cliché: la sciagura rappresentata dal totalitarismo russo è opera dell'Europa, in particolare del razionalismo ateo del secolo dei Lumi, della sua fede nell'onnipotenza della ragione. Non mi sento competente per polemizzare con coloro che fanno di Voltaire il responsabile dei gulag. Mi sento invece competente per dire: il Settecento non è soltanto il secolo di Rousseau, di Voltaire, di Holbach, ma anche (e forse soprattutto!) il secolo di Fielding, di Sterne, di Goethe, di Laclos.
Fra tutti i romanzi di quell'epoca, il mio preferito è Tristram Shandy di Laurence Sterne. Uno strano romanzo. Sterne lo apre con la rievocazione della notte in cui Tristram fu concepito, ma ha appena incominciato a parlarne che viene sedotto da un'altra idea, e questa, per libera associazione, richiama un'altra riflessione, poi un altro aneddoto, cosicché a una digressione ne segue un'altra e Tristram, l'eroe del libro, viene dimenticato per un buon centinaio di pagine. Questa maniera stravagante di costruire il romanzo potrebbe sembrare un semplice gioco formale. Ma, nell'arte, la forma è sempre qualcosa di più di una forma.
Ogni romanzo, che lo voglia o no, propone una risposta alla domanda: che cos'è l'esistenza umana e dove sta la sua poesia? I contemporanei di Sterne, Fielding per esempio, hanno saputo gustare soprattutto il fascino straordinario dell'azione e dell'avventura. Diversa è la risposta sottintesa nel romanzo di Sterne: per lui la poesia non sta nell'azione, ma nell'interruzione dell'azione.
Forse qui, indirettamente, si è avviato un grande dialogo fra il romanzo e la filosofia. Il razionalismo del Settecento si fonda sulla famosa frase di Leibniz: nihil est sine ratione. Nulla di ciò che esiste è senza ragione. Spinta da questa convinzione, la scienza si accanisce a esaminare il perché di ogni cosa, col risultato che tutto ciò che esiste sembra spiegabile, dunque calcolabile. L'uomo cui preme che la sua vita abbia un senso rinuncia a qualunque gesto che non abbia una sua causa e un suo scopo. Tutte le biografie sono scritte in questo modo. La vita appare una luminosa traiettoria di cause, di effetti, di fallimenti e di successi, e l'uomo fissando lo sguardo impaziente sul concatenamento causale dei suoi atti, accelera ancor di più la sua folle corsa verso la morte.
Di fronte a questa riduzione del mondo alla successione causale degli avvenimenti, il romanzo di Sterne, con la sua sola forma, dichiara: la poesia non è nell'azione, ma là dove l'azione si ferma; là dove si spezza il ponte fra una causa e un effetto, e dove il pensiero vagabonda in una libertà dolce e oziosa. La poesia dell'esistenza, dice il romanzo di Sterne, è nella digressione. È nell'incalcolabile. È agli antipodi della causalità. È sine ratione, senza ragione. È agli antipodi della frase di Leibniz.
Non si può quindi giudicare lo spirito di un secolo esclusivamente sulla base delle sue idee, dei suoi concetti teorici, senza prendere in considerazione l'arte, e in particolare il romanzo. L'Ottocento ha inventato la locomotiva, e Hegel era sicuro di aver colto lo spirito stesso della Storia universale. Flaubert ha scoperto la bêtise. Oso dire che è questa la massima scoperta di un secolo così fiero della sua ragione scientifica.
Certo, anche prima di Flaubert non si dubitava affatto dell'esistenza della bêtise, ma la si intendeva in un modo un po' diverso: la si considerava una semplice assenza di conoscenza, un difetto rimediabile con l'istruzione. Ora, nei romanzi di Flaubert, la bêtise è una dimensione inseparabile dall'esistenza umana. Essa accompagna la povera Emna per tutta la vita, fino al suo letto d'amore e fino al suo letto di morte, sul quale due temibili agelasti, Homais e Bournisien, continueranno scambiarsi le loro scempiaggini come una sorta di orazione funebre. Ma ciò che più colpisce, ciò che scandalizza nella visione flaubertiana della bêtise è questo: la bêtise non cede davanti alla scienza, alla tecnica, al progresso, alla modernità, anzi, con il progresso, progredisce anch'essa!
Con maligna passione, Flaubert collezionava le formule stereotipate che sentiva pronunciare intorno a sé da quelli che volevano apparire intelligenti e aggiornati. Ne ricavò un famoso Dizionario dei luoghi comuni. Serviamoci di questo titolo e diciamo: la bêtise moderna non significa ignoranza, bensì il non-pensiero dei luoghi comuni. La scoperta flaubertiana è più importante per il futuro del mondo che non le idee più sconvolgenti di Marx o di Freud. Perché è possibile immaginare il futuro senza la lotta di classe o senza la psicoanalisi, ma non lo si può immaginare senza l'ascesa irresistibile dei luoghi comuni, i quali, iscritti nei computer, diffusi dai mass media, rischiano di diventare in breve tempo una forza che schiaccerà ogni pensiero originale e individuale e soffocherà così l'essenza della cultura europea dei Tempi moderni.
Un'ottantina d'anni dopo che Flaubert aveva immaginato la sua Emma Bovary, negli Anni Trenta del nostro secolo, un altro grande romanziere, Hermann Broch, parlerà dello sforzo eroico del romanzo moderno che si oppone alla marea del Kitsch ma è destinato a esserne sopraffatto. La parola Kitsch designa l'atteggiamento di chi vuole piacere ad ogni costo e al maggior numero di persone. Per piacere, bisogna confermare quello che tutti vogliono sentir dire, bisogna confermare quello che tutti vogliono sentir dire, bisogna mettersi al servizio dei luoghi comuni. Il Kitsch è la traduzione della bêtise dei luoghi comuni nel linguaggio della bellezza e dell'emozione. Ci strappa lacrime di intenerimento su noi stessi, sulle banalità che pensiamo e sentiamo. Oggi, dopo cinquant'anni, la frase di Broch è ancora più vera. Data la necessità imperativa di piacere e di ottenere così l'attenzione del maggior numero di persone, l'estetica del Kitsch; e a mano a mano che i mass media avvolgono e infiltrano tutta la nostra vita, il Kitsch diventa la nostra estetica e la nostra morale quotidiana. Fino a non molto tempo fa, l'essere moderni significava una rivolta non conformista contro i luoghi comuni e il Kitsch. Oggi la modernità si confonde con l'immensa vitalità dei mass media, ed essere moderni significa uno sforzo accanito per essere aggiornati per essere conformisti, per essere ancor più conformisti dei più conformisti. La modernità ha indossato la veste del Kitsch.
Gli agelasti, il non-pensiero dei luoghi comuni, il Kitsch: un solo nemico a tre teste dell'arte nata come eco della risata di Dio e che ha saputo creare quell'affascinante spazio immaginario in cui nessuno possiede la verità e in cui ciascuno ha diritto ad essere capito. Questo spazio immaginario è nato con l'Europa moderna, è l'immagine dell'Europa o, almeno, il nostro sogno dell'Europa, sogno tante volte tradito e tuttavia abbastanza forte da unirci tutti in una fraternità che
va ben oltre i confini del nostro piccolo continente. Ma noi sappiamo che il mondo in cui l'individuo è rispettato (il mondo immaginario del romanzo, e quello reale dell'Europa) è fragile e caduco.
Schiere di agelasti si profilano minacciose all'orizzonte. E proprio in questo tempo di guerra non dichiarata e permanente, e in questa città dal destino così drammatico e crudele, io ho deciso, di parlare soltanto del romanzo. Avrete certamente capito che non si tratta, da parte mia, di una forma di fuga di fronte ai cosiddetti problemi seri. Se infatti la cultura europea mi sembra oggi minacciata, se essa è minacciata dall'esterno e dall'interno in ciò che ha di più prezioso, il rispetto per l'individuo, il rispetto per il suo pensiero originale e per il suo diritto a una vita privata inviolabile, allora, mi pare, questa essenza preziosa dello spirito europeo è deposta come in uno scrigno d'argento nella storia del romanzo, nella saggezza del romanzo. A questa saggezza ho voluto, nel mio discorso di ringraziamento, rendere omaggio. Ma è tempo che io mi fermi. Stavo per dimenticare che Dio ride quando mi vede pensare.