domenica 23 luglio 2023

LA FESTA DELL'INSIGNIFICANZA Milan Kundera

 


  LA FESTA DELL'INSIGNIFICANZA

Milan Kundera 

Recensione

Non è un romanzo, ma un divertissement un po' gogoliano,  e da questo derivano varie conseguenze; i personaggi sono appena abbozzati, privi di individualità, sono marionette, create da un demiurgo, un maestro che talvolta si diverte a intervenire. Il mondo attuale è fatto di omologazione e insignificanza, ma siccome non si può rivoluzionare il mondo, meglio non prenderlo sul serio. Ed ecco quindi l'insignificanza vista come  un abito del quale ci si può vestire in ogni stagione, un leggero sussurro del quale ci si può innamorare, un luogo ricco di spazio nel quale ci si può rifugiare. Gli ambienti e le situazioni si adattano al tema del libro: cinico quanto umoristico, leggero quanto tagliente. 

PARTE PRIMA

GLI EROI SI PRESENTANO

Alain medita sull’ombelico

Era il mese di giugno, il sole del mattino spuntava dalle nuvole e Alain percorreva lentamente una via di Parigi. Osservava le ragazze, che mettevano tutte in mostra l’ombelico tra i pantaloni a vita molto bassa e la maglietta molto corta. Era affascinato; affascinato e persino turbato: come se il loro potere di seduzione non fosse più concentrato nelle cosce, nelle natiche o nel seno, ma in quel buchetto tondo situato al centro del corpo.


La cosa lo fece riflettere: Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nelle cosce, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: la lunghezza delle cosce è l’immagine metaforica del cammino, lungo e affascinante (per questo le cosce devono essere lunghe), che conduce alla realizzazione erotica; infatti, si disse Alain, anche in pieno coito la lunghezza delle cosce conferisce alla donna la magia romantica dell’inaccessibilità.


Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nelle natiche, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: brutalità; allegria; il cammino più breve verso il traguardo; traguardo tanto più eccitante perché duplice.


Se un uomo (o un’epoca) vede il centro della seduzione femminile nel seno, come descrivere e definire la peculiarità di tale orientamento erotico? Improvvisò una risposta: santificazione della donna; la Vergine Maria che allatta Gesù; il sesso maschile inginocchiato davanti alla nobile missione del sesso femminile.


Ma come definire l’erotismo di un uomo (o di un’epoca) che vede la seduzione femminile concentrata al centro del corpo, nell’ombelico?


Ramon passeggia nei giardini del Lussemburgo

All’incirca nello stesso momento in cui Alain rifletteva sulle diverse fonti della seduzione femminile, Ramon si trovava vicino al museo situato su un lato dei giardini del Lussemburgo, dove, ormai da più di un mese, erano esposti dei quadri di Chagall. Voleva vederli, ma già sapeva che non avrebbe avuto la forza di lasciarsi trasformare di buon grado in una parte dell’interminabile coda che avanzava lentamente verso la cassa; osservò la gente, i visi paralizzati dalla noia, immaginò le sale dove i corpi e le chiacchiere avrebbero coperto i quadri, sicché dopo un minuto si allontanò e imboccò la strada che attraversava il parco.


Qui, l’atmosfera era più gradevole; il genere umano sembrava meno numeroso e più libero: c’era chi correva, non perché avesse fretta, ma perché gli piaceva correre; c’era chi passeggiava mangiando un gelato; sul prato c’erano i seguaci di una scuola asiatica che eseguivano movimenti strani e lenti; più in là, in un immenso cerchio, c’erano le grandi statue bianche delle regine di Francia e ancora più in là, sul prato fra gli alberi, in ogni direzione, sculture di poeti, pittori, scienziati; si fermò davanti a un adolescente in bronzo dall’aria seducente che, con addosso solo corte mutande, gli offrì delle maschere che rappresentavano i volti di Balzac, Berlioz, Hugo, Dumas. Ramon non poté trattenere un sorriso e continuò la sua passeggiata in quel giardino degli uomini di genio che, modesti, circondati dalla cortese indifferenza dei passanti, dovevano sentirsi piacevolmente liberi; nessuno si fermava a osservarne i volti o a leggere le iscrizioni sui piedistalli. Di questa indifferenza Ramon si inebriava come di una pace che consola. A poco a poco, un ampio sorriso quasi felice gli apparve sul viso.


Alla fine il cancro non c’era

All’incirca nello stesso momento in cui Ramon rinunciava alla mostra di Chagall e decideva di passeggiare nel parco, D’Ardelo saliva le scale che portavano allo studio del suo medico. Quel giorno mancavano giusto tre settimane al suo compleanno. Da parecchi anni, ormai, aveva cominciato a odiarli, i compleanni. Per colpa dei numeri che si portavano dietro. Eppure non riusciva a snobbarli, perché in lui la felicità di essere festeggiato aveva la meglio sulla vergogna di invecchiare. Tanto più che questa volta la visita dal medico aggiungeva alla festa un colore nuovo. Oggi, infatti, doveva avere l’esito di tutti gli esami che gli avrebbero detto se i sintomi sospetti scoperti nel suo corpo erano o meno dovuti al cancro. Entrò nella sala d’attesa ripetendo fra sé e sé, con voce tremante, che di lì a tre settimane avrebbe festeggiato la sua nascita tanto lontana e insieme la sua morte tanto vicina; che avrebbe celebrato una duplice festa.


Ma non appena vide il viso sorridente del medico capì che la morte aveva disdetto l’invito. Il medico gli strinse fraternamente la mano. Le lacrime agli occhi, D’Ardelo non riuscì a pronunciare una sola parola.


Lo studio del medico si trovava in avenue de l’Observatoire, a circa duecento metri dai giardini del Lussemburgo. Siccome abitava in una stradina dall’altra parte del parco, D’Ardelo si avviò per riattraversarlo. La passeggiata nel verde rese il suo buonumore pressoché giocoso, soprattutto quando costeggiò il grande cerchio formato dalle statue delle antiche regine di Francia, tutte scolpite nel marmo bianco, a figura intera, in pose solenni che gli sembrarono buffe, se non allegre, come se quelle dame volessero plaudire alla notizia che aveva appena ricevuto. Incapace di dominarsi, le salutò due o tre volte alzando la mano e scoppiò a ridere.


Il fascino segreto di una grave malattia

Fu proprio da quelle parti, vicino alle regine di Francia, che Ramon incontrò D’Ardelo, il quale, fino all’anno prima, era suo collega in un istituto che non vale la pena menzionare. Si fermarono uno di fronte all’altro e, dopo i soliti convenevoli, D’Ardelo, con voce stranamente concitata, si mise a raccontare:


«Mio caro, lei conosce la Franck? Due giorni fa, il suo amato è morto».


Fece una pausa e nella memoria di Ramon affiorò il volto di una donna bella e famosa che aveva visto solo in fotografia.


«Un’agonia molto dolorosa» continuò D’Ardelo. «E lei l’ha vissuta al suo fianco. Oh, come ha sofferto!».


Affascinato, Ramon osservava il viso festoso intento a raccontargli una storia funebre.


«Si figuri che la sera del giorno in cui, al mattino, l’aveva tenuto morente fra le braccia, cenava con me e alcuni amici e, non ci crederà, era quasi allegra! La ammiravo! Che forza! Che amore per la vita! Con gli occhi ancora arrossati dal pianto, rideva! Eppure noi tutti sapevamo quanto lo aveva amato! Quanto deve aver sofferto! Quella donna è un portento!».


Esattamente come un quarto d’ora prima dal medico, gli occhi di D’Ardelo si riempirono di lacrime. Parlando della forza morale della Franck, pensava infatti a se stesso. Non aveva forse vissuto anche lui un mese intero in presenza della morte? La sua forza di carattere non aveva subito anch’essa una dura prova? Anche se era ormai un semplice ricordo, il cancro restava con lui come la luce di una lampadina che, misteriosamente, lo riempiva di meraviglia. Ma riuscì a dominare le sue sensazioni e assunse un tono più prosaico: «A proposito, se non mi sbaglio lei conosce qualcuno che organizza cocktail e che può occuparsi del cibo e di tutto il resto».


«In effetti, sì» disse Ramon.


E D’Ardelo: «Darò una festicciola per il mio compleanno».


Dopo le parole concitate sulla famosa Franck, il tono leggero dell’ultima frase consentì a Ramon di sorridere: «Vedo che la sua vita è felice».


Strano; questa frase non piacque a D’Ardelo. Come se quel tono troppo leggero avesse il potere di distruggere la singolare bellezza di un buonumore magicamente segnato dal pathos della morte, il cui ricordo non lo abbandonava, disse: «Sì, sto bene», e dopo una pausa aggiunse: «... anche se...».


Fece un’altra pausa, poi: «Sa, ho appena visto il mio medico».


L’imbarazzo sul viso del suo interlocutore gli piacque; prolungò il silenzio, sicché Ramon non poté che chiedere: «E allora? C’è qualche problema?».


«Qualcuno, sì».


Di nuovo D’Ardelo tacque, e di nuovo Ramon non poté che chiedere: «Che cosa le ha detto il medico?».


Fu in quel momento che D’Ardelo vide negli occhi di Ramon il proprio viso come in uno specchio: il viso di un uomo ormai anziano, ma sempre bello, segnato da una tristezza che lo rendeva ancora più attraente; si disse che quell’uomo bello e triste avrebbe presto celebrato il suo compleanno e l’idea che aveva accarezzato prima di andare dal medico gli si riaffacciò alla mente, l’incantevole idea di una duplice festa che celebrasse insieme la nascita e la morte. Continuò a osservarsi negli occhi di Ramon, poi, con una voce molto calma e dolce, disse: «Cancro...».


Ramon balbettò qualcosa e, maldestramente, fraternamente, sfiorò con la mano il braccio di D’Ardelo: «Ma si può curare...».


«È troppo tardi, ahimè. Ma dimentichi quello che le ho appena detto, non ne parli con nessuno; e pensi piuttosto al mio cocktail. Bisogna vivere!» disse D’Ardelo e, prima di andarsene, alzò la mano in segno di saluto e quel gesto discreto, quasi timido, aveva un fascino inatteso che commosse Ramon.


Menzogna inspiegabile, inspiegabile riso

L’incontro dei due ex colleghi si concluse con quel bel gesto. Ma non posso eludere una domanda: Perché D’Ardelo aveva mentito?


Questa domanda, se la pose subito dopo lo stesso D’Ardelo e neppure lui seppe darsi una risposta. No, non si vergognava di aver mentito. A turbarlo era la sua incapacità di capire la ragione di quella menzogna. Di solito, quando si mente, è per ingannare qualcuno e ricavarne un vantaggio. Ma che cosa ci guadagnava a inventarsi un cancro? Stranamente, pensando all’insensatezza della sua menzogna, non poté trattenersi dal ridere. E anche quel riso gli risultava incomprensibile. Perché rideva? Trovava comico il suo comportamento? No. Il senso del comico, del resto, non era il suo forte. Molto semplicemente, senza sapere perché, il suo cancro immaginario lo rallegrava. Proseguì la passeggiata continuando a ridere. Rideva e si compiaceva del suo buonumore.


Ramon fa visita a Charles

Un’ora dopo l’incontro con D’Ardelo, Ramon era già a casa di Charles. «Ti porto un cocktail in regalo» disse.


«Bravo! Quest’anno ne avremo proprio bisogno» disse Charles invitando l’amico a sedersi a un tavolino di fronte a lui.


«Un regalo per te. E per Caliban. A proposito, dov’è?».


«Dove vuoi che sia? A casa, da sua moglie».


«Spero almeno che per i cocktail rimanga con te».


«Certo. I teatri continuano a fregarsene di lui».


Ramon vide sul tavolino un libro piuttosto voluminoso. Si chinò e non riuscì a nascondere la sua sorpresa: i Ricordi di Nikita Chruščëv. Perché?


«Me l’ha dato il nostro maestro».


«Ma che cosa ci avrà trovato di interessante, il nostro maestro?».


«Ha sottolineato per me alcuni paragrafi. Quel che ho letto era piuttosto divertente».


«Divertente?».


«La storia delle ventiquattro pernici».


«Che cosa?».


«La storia delle ventiquattro pernici. Non la conosci? Eppure è da quella che è cominciata la grande trasformazione del mondo!».


«La grande trasformazione del mondo? Niente di meno?».


«Niente di meno. Anche Caliban ne è convinto. Ma dimmi: di che cocktail si tratta e a casa di chi?».


Ramon gli spiegò tutto e Charles chiese: «E chi è questo D’Ardelo? Un idiota come tutti i miei clienti?».


«Certo».


«Di che genere è la sua stupidità?».


«La sua stupidità di che genere è...» ripeté Ramon, assorto; poi: «Conosci Quaquelique?».


La lezione di Ramon sull’uomo brillante e sull’uomo insignificante

«Il mio vecchio amico Quaquelique» continuò Ramon «è uno dei più grandi seduttori che abbia mai conosciuto. Una volta, sono stato a un grande ricevimento dove c’erano entrambi, lui e D’Ardelo. Non si conoscevano. Si trovavano nello stesso salone affollato per un puro caso e probabilmente D’Ardelo non si era neppure accorto della presenza del mio amico. C’erano parecchie belle donne e D’Ardelo ne va pazzo. Farebbe qualsiasi cosa perché si interessino a lui. Quella sera dalla sua bocca è uscito un fuoco d’artificio di arguzie».


«Insolente?».


«Al contrario. Le sue storielle sono sempre morali, ottimiste, corrette, ma al tempo stesso così eleganti nella loro formulazione, involute, difficili da capire che attirano l’attenzione senza suscitare reazioni immediate. Bisogna aspettare tre o quattro secondi prima che lui scoppi a ridere, poi pazientare ancora qualche secondo prima che gli altri ne afferrino il significato e si uniscano educatamente a lui. A quel punto, quando tutti si mettono a ridere – e ti pregherei di apprezzare la raffinatezza –, lui si fa serio; con aria distaccata, quasi annoiata, osserva gli altri e, segretamente, vanitosamente, si compiace del loro riso. Il comportamento di Quaquelique è del tutto opposto. Non che sia silenzioso. Quando è fra la gente, borbotta in continuazione qualcosa con quella sua voce fioca, che emette sibili più che parole, ma nulla di quel che dice attira l’attenzione».


Charles rise.


«Non ridere. Parlare senza attirare l’attenzione non è facile! Essere sempre presenti attraverso la parola ma restare inascoltati richiede del virtuosismo!».


«Il senso di questo virtuosismo mi sfugge».


«Il silenzio attira l’attenzione. Può intimidire. Renderti enigmatico. O sospetto. Ed è esattamente ciò che Quaquelique vuole evitare. Come durante il ricevimento di cui ti sto parlando. C’era una splendida signora da cui D’Ardelo era affascinato. Di tanto in tanto, Quaquelique si rivolgeva a lei con un’osservazione del tutto banale, priva di interesse, stupida, ma tanto più piacevole in quanto non richiedeva nessuna risposta intelligente, nessuna presenza di spirito. Dopo un po’, noto che Quaquelique è sparito. Incuriosito, osservo la signora. D’Ardelo aveva appena pronunciato una delle sue battute, sono seguiti cinque secondi di silenzio, poi lui è scoppiato a ridere e, dopo altri tre secondi, tutti l’hanno imitato. In quel momento, celandosi dietro il paravento del riso, la donna si è diretta verso l’uscita. D’Ardelo, lusingato dalla reazione che le sue battute hanno suscitato, prosegue nelle sue esibizioni verbali. Un po’ più tardi si accorge che la bella non c’è più. E poiché è all’oscuro dell’esistenza di un Quaquelique, non sa spiegarsene la scomparsa. Non ha capito niente, e ancora oggi non capisce niente del valore dell’insignificanza. Ecco cosa rispondo alla tua domanda sul genere di stupidità di D’Ardelo».


«L’inutilità di essere brillanti, sì, capisco».


«Ben più che l’inutilità. La dannosità. Quando un tipo brillante cerca di sedurre una donna, questa ha l’impressione di entrare in competizione. Anche lei si sente in dovere di brillare. Di non concedersi senza opporre resistenza. Mentre l’insignificanza la libera. La affranca dalle precauzioni. Non esige alcuna presenza di spirito. La rende spensierata e, per questo, più facilmente accessibile. Ma lasciamo stare. Con D’Ardelo, non avrai a che fare con un tipo insignificante ma con un Narciso. E bada al preciso significato della parola: un Narciso non è un orgoglioso. L’orgoglioso disprezza gli altri. Li sottovaluta. Il Narciso li sopravvaluta, poiché negli occhi di ogni uomo osserva la sua immagine e vuole renderla più bella. Si occupa dunque gentilmente di tutti i suoi specchi. Ed è quel che conta per voi due: è gentile. Per me, naturalmente, è soprattutto uno snob. Ma anche tra me e lui, qualcosa è cambiato. Ho saputo che è gravemente malato. Da quel momento, lo vedo con occhi diversi».


«Malato? Che cosa ha?».


«Cancro. La notizia mi ha rattristato al punto che ne sono rimasto stupito. Forse sta vivendo i suoi ultimi mesi».


Poi, dopo una pausa: «Mi ha commosso il modo in cui me ne ha parlato... molto laconico, persino pudico... senza esibizione di pathos, senza narcisismo. E d’improvviso, forse per la prima volta, ho provato per quello stronzo una vera simpatia... una vera simpatia...».


PARTE SECONDA

IL TEATRO DELLE MARIONETTE

 

Le ventiquattro pernici

Al termine di una giornata faticosa Stalin amava trattenersi ancora un po’ con i suoi collaboratori e riposarsi raccontando loro piccole storie della sua vita. Come questa, ad esempio:


Un giorno, ha deciso di andare a caccia. Indossa un vecchio eskimo, si mette gli sci, prende un lungo fucile e percorre tredici chilometri. A quel punto, vede davanti a sé delle pernici appollaiate su un albero. Si ferma e le conta. Ce ne sono ventiquattro. Ma che iella! Ha con sé solo dodici cartucce! Spara, ne uccide dodici, poi si gira, rifà i tredici chilometri fino a casa e prende altre dodici cartucce. Percorre di nuovo i tredici chilometri finché si ritrova davanti alle pernici sempre appollaiate sullo stesso albero. E finalmente le uccide tutte...


«Ti è piaciuta?» disse Charles a Caliban che rideva. «Se me l’avesse davvero raccontata Stalin, mi feliciterei con lui! Ma dove hai preso questa storia?».


«Il nostro maestro mi ha regalato il libro di Chruščëv, i Ricordi, pubblicato in Francia ormai una quarantina di anni fa.


«Chruščëv cita la storia delle pernici così come Stalin l’ha raccontata alla sua piccola cerchia. A quanto scrive Chruščëv, però, nessuno ha avuto la tua reazione. Nessuno ha riso. Tutti, senza eccezione, trovavano assurdo quel che Stalin aveva raccontato ed erano disgustati di quella menzogna. Ma sono rimasti zitti e solo Chruščëv ha avuto il coraggio di dire a Stalin quello che pensava. Senti!».


Charles aprì il libro e lesse lentamente, a voce alta: «“Cosa? Vuoi farci credere che le pernici non avevano abbandonato il ramo?” dice Chruščëv.


«“Proprio così,” risponde Stalin “erano ancora appollaiate nello stesso posto”.


«Ma la faccenda non è finita, perché devi sapere che alla fine delle giornate di lavoro tutti andavano in bagno, una grande stanza che serviva anche da toilette. Immagina. Su una parete una lunga fila di orinatoi, sulla parete di fronte i lavandini. Orinatoi a forma di conchiglia, in ceramica, colorati, con ornamenti floreali. Nel clan di Stalin ognuno aveva il suo orinatoio personale, ideato e firmato da un artista diverso. Solo Stalin non l’aveva».


«E dove pisciava Stalin?».


«In un gabinetto solitario, dalla parte opposta dell’edificio; e poiché pisciava da solo, mai con i suoi collaboratori, alla toilette questi erano divinamente liberi e osavano finalmente dire ad alta voce tutto ciò che erano costretti a tacere in presenza del capo. In particolare il giorno in cui Stalin raccontava loro la storia delle ventiquattro pernici. Ti cito ancora Chruščëv: “... e mentre ci lavavamo le mani in bagno, vomitavamo disprezzo. Mentiva! Mentiva! Nessuno di noi aveva il minimo dubbio”».


«E chi era questo Chruščëv?».


«Qualche anno dopo la morte di Stalin è diventato il capo supremo dell’impero sovietico...».


Dopo una pausa Caliban disse: «In tutta questa storia l’unica cosa che mi sembra incredibile è che nessuno abbia capito che Stalin scherzava».


«Certo» disse Charles, e posò il libro sul tavolino. «Perché nessuno intorno a lui sapeva più che cosa fosse una storiella. E credo sia per questo che una nuova, grande epoca della Storia ha annunciato il suo arrivo».


Charles sogna una pièce per il teatro delle marionette

Nel mio vocabolario di miscredente, una sola parola è sacra: amicizia. Voglio bene ai quattro compagni che vi ho fatto conoscere. È per simpatia nei loro confronti che un giorno ho regalato a Charles il libro di Chruščëv, perché tutti si divertissero.


Tutti e quattro conoscevano ormai la storia delle ventiquattro pernici, compreso il magnifico finale alla toilette, quando un giorno Caliban si lamentò con Alain: «Ho incontrato la tua Madeleine. Le ho raccontato la storia delle pernici. Ma per lei era solo un aneddoto incomprensibile che parlava di un cacciatore! Forse conosceva vagamente il nome di Stalin, ma non capiva perché un cacciatore portasse quel nome...».


«Ha solo vent’anni» disse pacatamente Alain per difendere la sua ragazza.


«Se ho fatto bene i conti,» intervenne Charles «la tua Madeleine è nata circa quarant’anni dopo la morte di Stalin. Io, prima di nascere, ho dovuto aspettare che passassero diciassette anni dalla sua morte. E tu, Ramon, quando Stalin è morto...» fece una pausa per calcolare, poi, un po’ imbarazzato: «Dio mio, eri già al mondo...».


«Me ne vergogno, ma è vero».


«Se non mi sbaglio,» continuò Charles sempre rivolto a Ramon «tuo nonno ha firmato con altri intellettuali una petizione in favore di Stalin, il grande eroe del progresso».


«Sì» ammise Ramon.


«Tuo padre, immagino, era già un po’ scettico nei suoi confronti, la tua generazione ancora di più, e per la mia era diventato il peggiore dei criminali».


«Sì, è così» disse Ramon. «Nella vita le persone si incontrano, chiacchierano, discutono, litigano, senza rendersi conto che si rivolgono le une alle altre da lontano, ciascuna da un osservatorio situato in un luogo diverso del tempo».


Dopo una pausa, Charles disse: «Il tempo vola. Grazie a lui, anzitutto siamo vivi, il che significa: accusati e giudicati. Poi moriamo, restiamo ancora qualche anno con chi ci ha conosciuto, ma ben presto si verifica un altro cambiamento: i morti invecchiano, nessuno se ne ricorda più e spariscono nel nulla; solo alcuni, pochissimi, lasciano i loro nomi incisi nella memoria ma, privi di una testimonianza autentica, di un ricordo reale, si trasformano in marionette... Amici miei, sono affascinato dalla storia che Chruščëv racconta nei suoi Ricordi, e non riesco a liberarmi dal desiderio di ricavarne una pièce per il teatro delle marionette».


«Il teatro delle marionette? Non vuoi essere rappresentato alla Comédie-Française?» lo canzonò Caliban.


«No,» disse Charles «perché se la storia di Stalin e di Chruščëv fosse recitata da esseri umani sarebbe un inganno. Nessuno ha il diritto di far finta di ricostruire un’esistenza umana che non c’è più. Nessuno ha il diritto di creare un uomo da una marionetta».


La rivolta alla toilette

«I compagni di Stalin mi affascinano» continuò Charles. «Li immagino mentre gridano la loro rivolta alla toilette! Avevano tanto atteso il bel momento in cui avrebbero potuto finalmente dire ad alta voce ciò che pensavano. Ma c’era una cosa che non sospettavano neppure: Stalin li ha osservati e attendeva quel momento con la stessa impazienza! Il momento in cui tutta la sua cricca sarebbe andata alla toilette si era trasformato anche per lui in una delizia! Amici miei, lo vedo! Discretamente, in punta di piedi, percorre un lungo corridoio, poi accosta l’orecchio alla porta della toilette e ascolta. Gli eroi del Politbjuro gridano, pestano i piedi, lo maledicono, e lui li sente e ride. “Ha mentito! Ha mentito!” urla Chruščëv, la sua voce rimbomba, e Stalin, l’orecchio incollato alla porta, oh lo vedo, lo vedo, assapora l’indignazione morale del suo compagno, scoppia a ridere come un matto e non cerca nemmeno di attenuare il volume sonoro della sua risata, perché quelli che sono alla toilette urlano anche loro come matti e nel frastuono non possono sentirlo».


«Sì, ce l’hai già raccontato» disse Alain.


«Sì, lo so. Ma la cosa più importante, cioè la vera ragione per la quale a Stalin piacerà ripetersi e raccontare sempre la stessa storia delle ventiquattro pernici allo stesso piccolo uditorio, non ve l’ho ancora detta. Ed è qui che vedo l’intreccio principale della mia pièce».


«E qual era questa ragione?».


«Kalinin».


«Cosa?» domandò Caliban.


«Kalinin».


«Mai sentito questo nome».


Benché un po’ più giovane di Caliban, Alain, più colto, lo conosceva: «È di certo quello per cui hanno ribattezzato la famosa città tedesca dove Immanuel Kant aveva passato tutta la vita e che, oggi, si chiama Kaliningrad».


In quel momento dalla strada salì, forte e impaziente, il suono di un clacson.


«Devo andare» disse Alain. «Madeleine mi aspetta. Alla prossima!».


Madeleine lo aspettava in strada su una moto. Era la moto di Alain, ma se la dividevano.


La volta dopo, Charles tiene ai suoi amici una conferenza su Kalinin e sulla capitale della Prussia

«Fin dalle origini, la famosa città prussiana si chiamava Königsberg, cioè “la montagna del re”. Solo dopo l’ultima guerra è diventata Kaliningrad. “Grad” in russo vuol dire città. Dunque, la città di Kalinin. Il secolo al quale abbiamo avuto la fortuna di sopravvivere aveva la mania di ribattezzare. Hanno ribattezzato Caricyn Stalingrado, poi Stalingrado Volgograd. Hanno ribattezzato San Pietroburgo Pietrogrado, poi Pietrogrado Leningrado, e alla fine Leningrado San Pietroburgo. Hanno ribattezzato Chemnitz Karl-Marx-Stadt, poi Karl-Marx-Stadt Chemnitz. Hanno ribattezzato Königsberg Kaliningrad... ma attenzione: Kaliningrad non è stata e non sarà più ribattezzabile. La gloria di Kalinin ha eclissato tutte le altre glorie».


«Ma chi era?» domandò Caliban.


«Un uomo» continuò Charles «senza alcun potere reale, un povero fantoccio innocente, e che tuttavia è stato a lungo presidente del soviet supremo e quindi, dal punto di vista del protocollo, il maggiore rappresentante dello Stato. Ho visto la sua foto: un vecchio attivista operaio con una barbetta a punta e una giacca mal cucita. Kalinin era già anziano e la prostata ingrossata lo costringeva ad andare a pisciare molto spesso. Lo stimolo a urinare era sempre così improvviso e impellente che doveva correre al cesso anche durante un pranzo ufficiale o nel bel mezzo del discorso che stava pronunciando davanti a un vasto pubblico. Alla fine si era fatto molto scaltro. Ancora oggi, tutta la Russia si ricorda della grande festa che si è tenuta per l’inaugurazione di un nuovo teatro dell’opera in una città dell’Ucraina, e durante la quale Kalinin ha pronunciato un lungo e solenne discorso. Era costretto a interromperlo ogni due minuti, e ogni volta, non appena si allontanava dal leggio, l’orchestra cominciava a suonare musica popolare e un gruppo di ballerine ucraine belle e bionde balzava in scena e si metteva a danzare. Di ritorno sul palco, Kalinin era sempre accolto dagli applausi; quando lo lasciava di nuovo, gli applausi echeggiavano ancora più entusiastici per accogliere l’arrivo delle bionde ballerine; e via via che la frequenza di partenze e ritorni si intensificava, gli applausi si facevano più lunghi, più forti, più cordiali, sicché la celebrazione ufficiale si è trasformata in un clamore festoso, folle, orgiastico, e del tutto nuovo per lo Stato sovietico.


«Ahimè, quando Kalinin, nei momenti di pausa, si ritrovava nella piccola cerchia dei suoi amici e compagni, nessuno era disposto ad applaudirne l’urina. Stalin raccontava i suoi aneddoti e Kalinin era troppo disciplinato per trovare il coraggio di importunarlo andando e venendo dalla toilette. Tanto più che Stalin, mentre raccontava, teneva lo sguardo fisso su di lui, su quel viso che diventava sempre più pallido e si contraeva in una smorfia. Il che incitava Stalin a rallentare ancora la narrazione, ad aggiungervi descrizioni, digressioni e a rimandarne l’epilogo sino al momento in cui, di colpo, il volto teso davanti a lui si rilassava, la smorfia spariva, l’espressione si placava e la testa era circondata da un’aureola di pace; solo allora, sapendo che Kalinin aveva perso ancora una volta la sua grande battaglia, Stalin si avviava spedito verso l’epilogo della storia, si alzava dal tavolo e, con un sorriso amichevole e lieto, poneva fine alla seduta. Anche gli altri si alzavano e guardavano maliziosamente il loro compagno che se ne stava impalato dietro il tavolo, o dietro una sedia, per nascondere i pantaloni bagnati».


Gli amici di Charles erano entusiasti di rivivere la scena e solo dopo una pausa Caliban ruppe quel silenzio divertito: «Ma tutto questo non spiega affatto perché Stalin abbia dato il nome del povero malato di prostata alla città tedesca dove ha vissuto per tutta la vita il famoso... il famoso...».


«Immanuel Kant» gli suggerì Alain.


Alain scopre la misconosciuta tenerezza di Stalin

Quando alla fine della settimana Alain rivide i suoi amici in un bistrot (o a casa di Charles, non ricordo), interruppe immediatamente le loro chiacchiere: «Vorrei dirvi che per me non è affatto inspiegabile che Stalin abbia dato il nome di Kalinin alla famosa città di Kant. Non so quali spiegazioni abbiate trovato voi, ma io ne ho una soltanto: Stalin provava per Kalinin un’eccezionale tenerezza».


La briosa sorpresa che lesse sul viso dei suoi amici gli piacque, e gli fu persino d’ispirazione: «Lo so, lo so... La parola tenerezza non si addice alla fama di Stalin, lo so, è il Lucifero del nostro secolo, lo so, la sua vita è stata piena di complotti, di tradimenti, di guerre, di incarcerazioni, di omicidi, di massacri. Non solo non lo nego, ma voglio anzi sottolinearlo, perché risulti il più possibile chiaro che in rapporto al peso immenso delle crudeltà che doveva subire, commettere e vivere, gli era impossibile disporre di un volume ugualmente immenso di compassione. La cosa avrebbe superato le possibilità umane! Per poter vivere la sua vita così com’era, non poteva che anestetizzare, quindi dimenticare completamente, la capacità di compatire. Ma davanti a Kalinin, in quelle brevi pause lontane dai massacri, in quei dolci momenti di riposo ciarliero, tutto cambiava: aveva a che fare con un dolore completamente diverso, un dolore lieve, concreto, individuale, comprensibile. Guardava il suo compagno sofferente e con piacevole stupore sentiva ridestarsi in lui un sentimento fragile, modesto, quasi ignoto e comunque dimenticato: l’amore per un uomo che soffre. Nella sua vita feroce, quel momento era una sorta di riposo. Nel cuore di Stalin la tenerezza aumentava allo stesso ritmo della pressione dell’urina nella vescica di Kalinin. La riscoperta di un sentimento che da tempo aveva smesso di provare era per lui di un’indicibile bellezza.


«Non c’è altra spiegazione» continuò Alain «a questa curiosa idea di ribattezzare Kaliningrad la città di Königsberg. È successo trent’anni prima che nascessi, eppure posso immaginare la situazione: finita la guerra, i russi hanno annesso al loro impero una famosa città tedesca e sono costretti a russificarla con un nome nuovo. E non con un nome qualsiasi! Bisogna ribattezzarla con un nome che sia noto in tutto il pianeta e il cui lustro metta a tacere i nemici! Di grandi nomi del genere i russi ne possiedono in abbondanza! Caterina la Grande! Puškin! Gogol’! Tolstoj! Per non parlare dei generali che hanno sconfitto Hitler e che, all’epoca, sono adulati ovunque! Come si spiega allora che Stalin abbia scelto il nome di una tale nullità? Che abbia preso una decisione così palesemente idiota? Le ragioni non possono essere che intime e segrete. E noi le conosciamo: pensa con tenerezza all’uomo che ha sofferto a causa sua, sotto i suoi occhi, e vuole ringraziarlo per la fedeltà, gratificarlo per la devozione. Se non mi sbaglio – Ramon, puoi correggermi! –, in questo breve momento della Storia Stalin è l’uomo di Stato più potente del mondo e lo sa. Di tutti i presidenti e i re, e la cosa suscita in lui una gioia maliziosa, è il solo che possa fregarsene della serietà dei grandi gesti politici cinicamente calcolati, il solo che possa permettersi di prendere una decisione assolutamente personale, capricciosa, irragionevole, meravigliosamente bizzarra, superbamente assurda».


Sul tavolo faceva bella mostra di sé una bottiglia di vino rosso aperta. Il bicchiere di Alain era già vuoto; se lo riempì e continuò: «Raccontandola ora davanti a voi, colgo in questa storia un senso ulteriore e più profondo». Bevve un sorso, poi disse: «Soffrire per non sporcarsi le mutande... Essere il martire della pulizia... Combattere l’urina che nasce, cresce, avanza, minaccia, attacca, uccide... Esiste forse un eroismo più prosaico e più umano? Me ne frego dei cosiddetti grandi uomini che con i loro nomi dominano le nostre vie. Sono diventati famosi grazie alle loro ambizioni, vanità, menzogne, crudeltà. Kalinin è il solo il cui nome resterà nella memoria in ricordo di una sofferenza che ogni essere umano ha conosciuto, in ricordo di una lotta disperata che non ha procurato infelicità a nessuno se non a lui stesso».


Terminò il suo discorso e tutti erano commossi

Dopo un momento di silenzio, Ramon disse: «Hai perfettamente ragione, Alain. Dopo la mia morte, voglio svegliarmi ogni dieci anni per verificare se Kaliningrad è sempre Kaliningrad. Finché sarà così, potrò sentirmi solidale con l’umanità e tornare nella tomba riconciliato con lei».

PARTE TERZA

ALAIN E CHARLES PENSANO SPESSO ALLE LORO MADRI


 

La prima volta che è stato colpito dal mistero dell’ombelico è quando ha visto sua madre per l’ultima volta

Rientrando lentamente a casa, Alain osservava le ragazze, che mettevano tutte in mostra l’ombelico tra i pantaloni a vita molto bassa e la maglietta molto corta. Come se il loro potere di seduzione non fosse più concentrato nelle cosce, nelle natiche o nel seno, ma in quel buchetto tondo situato al centro del corpo.


Mi ripeto? Comincio questo capitolo con le stesse parole che ho usato all’inizio del romanzo? Lo so. Ma anche se ho già parlato della passione di Alain per l’enigma dell’ombelico, non posso nascondere che questo enigma continua ad assorbirlo, così come voi siete assorbiti per mesi, se non per anni, dagli stessi problemi (di certo molto più insignificanti di quello che ossessiona Alain). Camminando per le strade, quindi, pensava spesso all’ombelico, senza alcun disagio nel ripetersi, e anzi con una strana ostinazione; l’ombelico, infatti, ridestava in lui un lontano ricordo: il ricordo dell’ultimo incontro con sua madre.


All’epoca aveva dieci anni. Lui e suo padre erano in vacanza da soli, in una villa presa in affitto, con giardino e piscina. Era la prima volta che, dopo un’assenza di parecchi anni, lei veniva a trovarli. Si era chiusa nella villa con l’ex marito. Nel raggio di un chilometro l’atmosfera si stava facendo opprimente. Quanto tempo era rimasta? Probabilmente non più di un’ora o due, mentre Alain cercava di divertirsi da solo in piscina. Ne era appena uscito, quando lei si è fermata per congedarsi. Era sola. Che cosa si sono detti? Non lo sa. Ricorda solo che era seduta su una sedia da giardino e che lui, con il costume ancora bagnato, era in piedi davanti a lei. Quello che si sono detti lo ha dimenticato, ma un momento gli si è impresso nella memoria, un momento concreto, registrato con precisione: seduta sulla sedia, lei ha guardato intensamente l’ombelico del figlio. Quello sguardo, continua a sentirlo sul ventre. Uno sguardo allora difficile da capire: gli sembrava esprimesse un’inesplicabile mescolanza di compassione e disprezzo; le labbra della madre avevano accennato un sorriso (sorriso di compassione e disprezzo), poi, senza alzarsi dalla sedia, si era chinata verso di lui e, con l’indice, gli aveva sfiorato l’ombelico. Subito dopo si era alzata, lo aveva baciato (l’ha baciato davvero? Probabilmente, ma non ne è sicuro) e se n’era andata. Non l’aveva mai più rivista.


Una donna scende dall’auto

Una piccola auto percorre una strada lungo l’argine del fiume. La fredda atmosfera del mattino rende ancora più orfano questo paesaggio privo di attrattive, in un punto tra la fine di una periferia e la campagna, là dove le case si diradano e non si incontrano pedoni. L’auto si ferma sul ciglio della strada; ne scende una donna, giovane, piuttosto bella. Una strana circostanza: ha accostato la portiera con un gesto così noncurante che di certo l’auto non si è chiusa. Che cosa significa questa noncuranza così improbabile in un’epoca di ladri come la nostra? È così distratta?


No, non dà l’impressione di essere distratta, anzi, sul suo viso si può leggere una certa determinazione. Questa donna sa ciò che vuole. Questa donna è pura volontà. Cammina lungo la strada per una ventina di metri circa verso un ponte, un ponte stretto, che sovrasta l’acqua a una discreta altezza, un ponte destinato solo ai passanti. Lo imbocca e si dirige verso l’altra sponda, lontana un centinaio di metri. Si guarda intorno parecchie volte, non come una donna che qualcuno stia aspettando, ma per assicurarsi che nessuno la aspetti. A metà del ponte, si ferma. A prima vista pare che esiti, e invece no, non è esitazione, né la sua determinazione è d’improvviso venuta meno, al contrario, è il momento in cui intensifica la concentrazione, rende ancora più caparbia la volontà. La volontà? Per essere più precisi: l’odio. Sì, la sosta che sembrava un’esitazione è in effetti un appello all’odio affinché resti con lei, la sostenga, non l’abbandoni un solo istante.


Scavalca il parapetto e si butta di sotto. Al termine della caduta, è brutalmente colpita dalla durezza dell’acqua, paralizzata dal freddo, ma, dopo alcuni lunghi istanti, il suo viso riaffiora alla superficie, perché è una buona nuotatrice e tutti gli automatismi e le abitudini insorgono contro la volontà di morire. Immerge di nuovo la testa, si sforza di inalare acqua, di soffocare i polmoni. In quel momento, sente un grido. Un grido che viene dall’altra sponda. Qualcuno l’ha vista. Capisce che morire non sarà facile e che il suo peggiore nemico non sarà l’incontrollabile riflesso di buona nuotatrice, ma qualcuno con cui non aveva fatto i conti. Sarà costretta a lottare. Lottare per salvare la sua morte.


Lei uccide

Guarda in direzione del grido. Qualcuno si è gettato nel fiume. Riflette: chi sarà il più veloce, lei determinata a rimanere sott’acqua, a inalare acqua, ad annegare, o lui che si avvicina? Quando sarà semiannegata, con l’acqua nei polmoni, quindi indebolita, non sarà forse una preda ancor più facile per il suo salvatore? La trascinerà a riva, la adagerà a terra, spingerà l’acqua fuori dai polmoni, le farà la respirazione artificiale, chiamerà i pompieri, la polizia, e lei sarà salva e umiliata per sempre.


«Si fermi, si fermi!» grida l’uomo.


Tutto è cambiato: Anziché immergersi nell’acqua, lei alza la testa e respira profondamente per raccogliere le forze. Lui le sta già di fronte. È un giovane, un adolescente che vuole diventare famoso, avere una foto sui giornali, non fa che ripetere: «Si fermi, si fermi!». Già tende la mano verso di lei che, anziché evitarla, la afferra, la stringe e la tira verso il fondo del fiume. Grida ancora una volta «Si fermi!» come se fossero le uniche parole che sa pronunciare. Ma non le pronuncerà più; lei gli tiene il braccio, lo tira verso il basso, poi si stende completamente sulla schiena dell’adolescente in modo che la testa gli resti sott’acqua. Lui si difende, si dibatte, ha già inalato acqua, cerca di colpire la donna, ma questa resta allungata su di lui che non riesce più a sollevare la testa in cerca d’aria e che, dopo parecchi e lunghi, lunghissimi istanti, smette di agitarsi. Lei lo tiene così per un po’, sembra quasi che, stanca e tremante, si riposi sdraiata su di lui, poi, certa che l’uomo sotto di lei non si muoverà più, lo lascia e si gira nella direzione opposta rispetto alla sponda da cui lui è arrivato, per non serbare il minimo ricordo di ciò che è appena accaduto.


Ma come? Ha scordato la sua decisione? Perché non si annega, visto che colui che ha cercato di rubarle la morte non è più vivo? Perché, finalmente libera, non vuole più morire?


La vita inaspettatamente ritrovata è stata come uno choc che ha stroncato la sua determinazione; non ha più la forza di concentrare ogni energia nella morte; trema; di colpo priva di volontà, di vigore, nuota meccanicamente verso il luogo in cui ha lasciato l’auto.


Lei torna a casa

A poco a poco sente che la profondità dell’acqua diminuisce, appoggia i piedi sul fondo, si rialza; perde le scarpe nella melma e non ha la forza di cercarle; esce dall’acqua a piedi nudi e sale verso la strada.


Il mondo riscoperto le mostra un volto inospitale e ben presto l’angoscia la afferra: non ha la chiave dell’auto! Dov’è? La gonna è senza tasche. Andando verso la morte, l’uomo non si cura di ciò che ha lasciato lungo il cammino. Quando è scesa dall’auto, il futuro non esisteva più. Non aveva nulla da nascondere. Mentre ora, d’improvviso, bisogna nascondere tutto. Non lasciare alcuna traccia. L’angoscia si fa sempre più forte: dov’è la chiave? come arriverò a casa?


Eccola accanto all’auto, tira la portiera che, con suo grande stupore, si apre. La chiave la aspetta, abbandonata nel quadro. Siede al volante e posa i piedi nudi e bagnati sui pedali. Continua a tremare. Trema anche di freddo. La camicetta, la gonna sono inzuppate dell’acqua sporca del fiume e sgocciolano. Gira la chiave e riparte.


Colui che ha voluto imporle la vita è morto annegato. E colui che lei voleva uccidere nel suo ventre resta vivo. L’idea del suicidio è cancellata per sempre. Nessuna replica. Il ragazzo è morto, il feto è vivo, e lei farà di tutto perché nessuno scopra quel che è accaduto. Trema e la sua volontà si risveglia; pensa solo all’immediato futuro: come scendere dall’auto senza essere vista? Come sgusciare inosservata, con gli abiti bagnati, davanti alla guardiola del portinaio?


In quel momento Alain sentì, dolorosamente, un forte colpo alla spalla.


«Fa’ attenzione, imbecille!».


Si voltò e vide al suo fianco la figura di una ragazza che lo superava sul marciapiede a passo rapido ed energico.


«Mi scusi» le gridò (con voce flebile).


«Stronzo!» rispose la ragazza (con voce sonora) senza girarsi.


I chiediscusa

Solo nel suo monolocale, Alain si accorse che la spalla gli faceva ancora male e si disse che la ragazza che, due giorni prima, per strada, l’aveva urtato con tanta efficacia probabilmente l’aveva fatto apposta. Non poteva dimenticare la voce stridula con cui gli aveva dato dell’«imbecille» e risentiva il suo supplichevole «mi scusi», seguito dalla risposta «stronzo!». Ancora una volta, si era scusato per niente! Perché aveva sempre quello stupido riflesso di chiedere scusa? Il ricordo non voleva abbandonarlo e provò il bisogno di parlare con qualcuno. Telefonò a Madeleine. Non era a Parigi, il cellulare era spento. Compose allora il numero di Charles e non appena sentì la sua voce, si scusò: «Non arrabbiarti. Sono di pessimo umore. Ho bisogno di chiacchierare».


«Capiti al momento giusto. Anch’io sono di cattivo umore. Ma tu perché?».


«Perché sono arrabbiato con me stesso. Perché mai approfitto di ogni occasione per sentirmi colpevole?».


«Non è grave».


«Sentirsi o non sentirsi colpevole. Secondo me, il punto è proprio questo. La vita è una lotta di tutti contro tutti. È risaputo. Ma in una società più o meno civile come si svolge questa lotta? Non possiamo scagliarci gli uni contro gli altri non appena ci vediamo. In compenso, cerchiamo di buttare addosso agli altri l’ignominia del senso di colpa. Vincerà chi riuscirà a fare dell’altro un colpevole. Perderà chi ammetterà di aver torto. Sei in strada, immerso nei tuoi pensieri. Una ragazza che viene verso di te come non ci fosse che lei al mondo, senza guardare né a destra né a sinistra, cammina dritta per la sua strada. Vi urtate. Ed ecco il momento della verità. Chi strapazzerà l’altro, e chi si scuserà? È una situazione tipo: in realtà ciascuno dei due è al tempo stesso l’urtato e l’urtatore. Eppure, ci sono quelli che si considerano, immediatamente, spontaneamente, gli urtatori e dunque i colpevoli. E ce ne sono altri che si vedono sempre, immediatamente, spontaneamente, come gli urtati, quindi dalla parte della ragione, pronti ad accusare l’altro e a farlo punire. Tu, in una situazione del genere, ti scuseresti o accuseresti?».


«Io di sicuro mi scuserei».


«Ah, poveretto, allora appartieni anche tu all’esercito dei chiediscusa. Pensi di poter ammansire l’altro con le tue scuse».


«Sì, certo».


«E ti sbagli. Chi si scusa si dichiara colpevole. E se ti dichiari colpevole, incoraggi l’altro a continuare a insultarti, a denunciarti, pubblicamente, fino alla morte. Sono le fatali conseguenze delle prime scuse».


«È vero. Non ci si deve scusare. Eppure, preferirei un mondo in cui tutti si scusassero, senza eccezione, inutilmente, esageratamente, per niente, in cui si profondessero in scuse...».


«Lo dici con un tono così triste» si stupì Alain.


«Da due ore non penso che a mia madre».


«Che succede?».


Gli angeli

«È malata. Ho paura che sia una cosa grave. Mi ha appena telefonato».


«Da Tarbes?».


«Sì».


«È sola?».


«Suo fratello è da lei. Ma è ancora più anziano. Vorrei prendere subito l’auto e andarci, ma è impossibile. Stasera ho un lavoro che non posso annullare. Un lavoro dei più stupidi. Ma domani ci vado...».


«Curioso. Penso spesso a tua madre».


«Ti piacerebbe. È buffa. Ormai cammina a fatica, ma ci divertiamo molto».


«È da lei che hai ereditato l’amore per le cose buffe?».


«Forse».


«Strano».


«Perché?».


«Da quello che mi hai sempre raccontato, la immaginavo come uscita da una poesia di Francis Jammes. In compagnia di animali malati e di vecchi contadini. In mezzo agli asini e agli angeli».


«Sì,» disse Charles «lei è così». Poi, dopo qualche istante: «Perché hai detto angeli?».


«Che cosa ti meraviglia?».


«Nella mia pièce...». Fece una pausa, poi: «Sai, la mia pièce per le marionette non è che uno scherzo, una sciocchezza, non la scrivo, la immagino soltanto, ma che ci posso fare se nient’altro mi diverte... Dunque, nell’ultimo atto di questa pièce, immagino un angelo».


«Un angelo? Perché?».


«Non lo so».


«E come va a finire la pièce?».


«Per il momento so solo che alla fine ci sarà un angelo».


«Che cos’è per te un angelo?».


«Non sono forte in teologia. Nella mia immaginazione l’angelo è legato soprattutto alla frase che si dice quando si vuole ringraziare qualcuno per la sua bontà: “Lei è un angelo”. A mia madre, la gente lo dice spesso. Per questo sono rimasto sorpreso quando mi hai detto che la vedevi in compagnia degli asini e degli angeli. Lei è così».


«Neanch’io sono forte in teologia. Ricordo solo che ci sono angeli che sono stati scacciati dal cielo».


«Sì. Gli angeli scacciati dal cielo» ripeté Charles.


«Che altro sappiamo sugli angeli? Che hanno la vita sottile...».


«In effetti, è difficile immaginare un angelo con la pancia».


«E che hanno le ali. E che sono bianchi. Bianchi. Senti, Charles, se non mi sbaglio, l’angelo non ha sesso. Questa, forse, è la chiave del suo candore».


«Forse».


«E della sua bontà».


«Forse».


Quindi, dopo un breve silenzio, Alain disse: «L’angelo ha un ombelico?».


«Perché?».


«Se l’angelo non ha sesso, non è nato dal ventre di una donna».


«No di certo».


«Quindi è senza ombelico».


«Sì, certo, senza ombelico...».


Alain pensò alla giovane donna che, sul bordo della piscina di una villa affittata per le vacanze, aveva sfiorato con l’indice l’ombelico di suo figlio di dieci anni e disse a Charles: «È strano. Anch’io, da un po’ di tempo, immagino di continuo mia madre... in ogni genere di situazione, possibile e impossibile...».


«Mio caro, smettiamola! Devo prepararmi per quel fottuto cocktail».



PARTE QUARTA

TUTTI SONO ALLA RICERCA DEL BUONUMORE

 

Caliban

Il vero mestiere di Caliban era quello di attore, e rappresentava allora per lui il senso della vita; questa professione era scritta nero su bianco sui suoi documenti e in quanto attore senza scrittura percepiva da tempo l’indennità di disoccupazione. L’ultima volta che lo si era visto in scena, vestiva i panni del selvaggio Calibano nella Tempesta di Shakespeare. La pelle coperta di una pomata scura, una parrucca nera in testa, gridava e saltellava come un pazzo. Gli amici erano rimasti così entusiasti della sua performance che avevano deciso di ricordarla chiamandolo con quel nome. Era passato ormai molto tempo. Da allora, i teatri esitavano a scritturarlo e l’indennità diminuiva di anno in anno, come del resto quella di migliaia di altri attori, ballerini e cantanti disoccupati.


A quel punto Charles, che si guadagnava da vivere organizzando cocktail per i privati, lo aveva assunto come cameriere. Caliban poté così guadagnare un po’ di soldi, ma in più, poiché era pur sempre un attore alla ricerca della sua missione perduta, vi vide al tempo stesso l’occasione di cambiare identità. Avendo idee estetiche un po’ ingenue (il suo santo patrono, il Calibano di Shakespeare, non era forse ingenuo anche lui?), pensava che la prestazione di un attore era tanto più eccezionale quanto più il personaggio che interpretava era lontano dalla vita reale. Insistette dunque per accompagnare Charles non in qualità di francese, ma come uno straniero in grado di parlare solo una lingua che nessun altro intorno a lui avrebbe saputo. Quando si trattò di trovare un nuovo paese natale, scelse, forse per via della carnagione leggermente olivastra, il Pakistan. Perché no? Non c’è nulla di più facile che scegliere un paese natale. Ma inventarne la lingua è tutt’altra faccenda.


Provate, improvvisando, a parlare una lingua fittizia anche solo per trenta secondi di seguito! Continuerete a ripetere le stesse sillabe e il vostro chiacchiericcio sarà ben presto smascherato come un’impostura. Inventare una lingua inesistente presuppone che le si sappia conferire una credibilità acustica: che si crei una fonetica specifica e non si pronunci una «a» o una «o» come le pronunciano i francesi; che si decida su quale sillaba delle parole cade regolarmente l’accento. È inoltre preferibile, per ottenere un effetto naturale, immaginare dietro a quei suoni assurdi un costrutto grammaticale e sapere quale parola è un verbo e quale un sostantivo. E, giacché si tratta di una coppia di amici, occorre definire il ruolo del braccio destro, il francese, cioè Charles: anche se non sa parlare il pakistano, deve conoscerne almeno qualche parola, in modo che i due possano, in caso di necessità, capirsi sull’essenziale senza pronunciare una sola parola francese.


Era stato difficile, ma buffo. Purtroppo, anche la più deliziosa delle buffonate non sfugge alla legge dell’invecchiamento. Se durante i primi cocktail i due amici si erano divertiti, da qualche tempo Caliban cominciava a sospettare che tutta quella laboriosa mistificazione non servisse a nulla: gli invitati non mostravano per lui il minimo interesse e, visto che il suo linguaggio era incomprensibile, nemmeno lo ascoltavano, limitandosi a semplici gesti per indicare quel che volevano mangiare e bere. Era diventato un attore senza pubblico.


Le giacche bianche e la giovane portoghese

Arrivarono all’appartamento di D’Ardelo due ore prima che il cocktail avesse inizio. «È il mio assistente, signora. È pakistano. Mi scuso, non sa una sola parola di francese» disse Charles, e Caliban si inchinò cerimoniosamente davanti alla signora D’Ardelo pronunciando qualche frase incomprensibile. L’indifferenza delicatamente blasé con cui la signora non gli prestò alcuna attenzione rafforzò in Caliban il senso di inutilità di quella lingua laboriosamente inventata e cominciò a invaderlo la malinconia.


Per fortuna, subito dopo quella delusione, intervenne a consolarlo un piccolo piacere: la domestica a cui la signora D’Ardelo ordinò di restare a disposizione dei due signori non riusciva a staccare gli occhi da un essere così esotico. Gli rivolse la parola più volte e quando capì che conosceva solo la propria lingua, sembrò dapprima turbata, poi stranamente a suo agio. Era infatti portoghese. Parlandole in pakistano, Caliban le offriva la rara opportunità di mettere da parte il francese, lingua che non le piaceva, e di usare a sua volta la lingua materna. La comunicazione in due lingue che non capivano li avvicinò.


Poi, un furgone si fermò davanti al palazzo e due inservienti portarono su tutto quello che Charles aveva ordinato, bottiglie di vino e di whisky, prosciutto, salame, pasticcini, e lo lasciarono in cucina. Aiutati dalla domestica, Charles e Caliban stesero un’immensa tovaglia su un lungo tavolo che si trovava nel salotto e vi disposero piatti, vassoi, bicchieri e bottiglie. Dopodiché, quando l’ora del cocktail si avvicinò, si ritirarono in una stanzetta che la signora D’Ardelo aveva loro destinato. Tirarono fuori da una valigia due giacche bianche e le indossarono. Non avevano bisogno dello specchio. Si guardarono e non poterono trattenere una risatina. Per loro era sempre un breve istante di piacere. Quasi dimenticavano che lavoravano per necessità, per avere di che vivere; vedendosi in quel candido travestimento, avevano l’impressione di divertirsi.


Poi Charles si allontanò verso il salotto, lasciando a Caliban il compito di sistemare gli ultimi vassoi. Una ragazzina entrò con aria sicura in cucina e si rivolse alla domestica: «Non devi farti vedere in salotto neanche un secondo! Se i nostri invitati ti vedessero, scapperebbero via!». Poi, guardando le labbra della portoghese, scoppiò a ridere: «Dove hai scovato quel colore? Sembri un uccello africano! Un pappagallo del Burenbububu!» e ridendo uscì dalla cucina.


Gli occhi umidi, la portoghese disse a Caliban (in portoghese): «La signora è gentile! Ma sua figlia! Com’è cattiva! Lo ha detto perché lei le piace! Quando ci sono degli uomini, è sempre cattiva con me! Ci gode a umiliarmi davanti agli uomini!».


Non potendo ribattere nulla, Caliban le accarezzò i capelli. Lei alzò gli occhi verso di lui e disse (in francese): «Guardi, il mio rossetto le sembra davvero così brutto?».


Girava la testa a destra e a sinistra in modo che lui potesse vedere tutto l’arco delle sue labbra.


«No,» le disse (in pakistano) «il colore del suo rossetto va benissimo...».


Nella sua giacca bianca, Caliban appariva alla domestica ancora più sublime, ancora più irreale, e gli disse (in portoghese):


«Sono così felice che lei sia qui».


E lui, in un impeto di eloquenza (sempre in pakistano): «E non solo le sue labbra, ma il viso, il corpo, lei tutta intera, così come la vedo qui davanti a me, lei è bella, molto bella...».


«Oh come sono felice che lei sia qui» rispose la domestica (in portoghese).


La foto appesa al muro

Non solo per Caliban che non trova più divertente la sua mistificazione, ma per tutti i miei personaggi la serata è velata di tristezza: per Charles che aveva confidato ad Alain la paura che provava per la madre malata; per Alain, commosso da quell’amore filiale che lui non aveva mai vissuto; commosso, anche, dall’immagine di una vecchia di campagna che apparteneva a un mondo che gli era sconosciuto ma di cui, tanto più, aveva nostalgia. Purtroppo, proprio quando gli sarebbe piaciuto prolungare la conversazione, Charles andava di fretta e aveva dovuto riattaccare. Alain prese allora il cellulare per chiamare Madeleine. Ma il telefono squillò a lungo; invano. Come spesso in momenti simili, rivolse lo sguardo a una foto appesa al muro. Non c’erano foto nel suo appartamento; eccetto quella: il volto di una giovane donna; sua madre.


Qualche mese dopo la nascita di Alain, aveva lasciato il marito che, discreto com’era, non aveva mai parlato male di lei. Era un uomo sensibile e mite. Il bambino non capiva come una donna avesse potuto abbandonare un uomo così sensibile e mite e capiva ancor meno come avesse potuto abbandonare il figlio che, a sua volta (ne era consapevole), era sin dall’infanzia (se non sin dal concepimento) un essere sensibile e mite.


«Dove vive?» aveva allora chiesto a suo padre.


«Probabilmente in America».


«Come sarebbe a dire, “probabilmente”?».


«Non conosco il suo indirizzo».


«Ma è suo dovere dartelo».


«Non ha nessun dovere nei miei confronti».


«E nei miei? Non vuole avere mie notizie? Non vuole sapere cosa faccio? Non vuole sapere che penso a lei?».


Un giorno, il padre non si controllò più: «Visto che insisti, te lo dico: tua madre non ha mai voluto che tu nascessi. Non ha mai voluto vederti gironzolare qui, o sprofondato in quella poltrona dove ti senti così a tuo agio. Non ti voleva. Capisci, adesso?».


Il padre non era un tipo aggressivo. Ma, benché pieno di riserbo, non era riuscito a nascondere il suo sacrosanto dissenso nei confronti di una donna che voleva impedire a un essere umano di venire al mondo.


Ho già parlato dell’ultimo incontro di Alain con sua madre sul bordo della piscina di una villa affittata per le vacanze. All’epoca aveva dieci anni. Ne aveva sedici quando il padre era morto. Qualche giorno dopo i funerali, aveva staccato la foto di sua madre da un album di famiglia, l’aveva fatta incorniciare e poi appesa al muro. Perché nel suo appartamento non c’era nessuna foto di suo padre? Non lo so. Illogico? Certo. Ingiusto? Senza dubbio. Ma è così: alle pareti del suo appartamento era appesa una sola foto: quella di sua madre. Con la quale, ogni tanto, parlava:


Come si partorisce un chiediscusa

«Perché non hai abortito? Te lo ha impedito lui?».


Una voce dalla foto si rivolse a lui:


«Non lo saprai mai. Quelle che inventi sul mio conto sono solo favole. Ma mi piacciono, le tue favole. Anche quando hai fatto di me un’assassina che ha annegato un ragazzo nel fiume. Mi piaceva tutto. Continua, Alain. Racconta! Immagina! Ti ascolto».


E Alain immaginò: immaginò il padre sul corpo di sua madre. Prima del coito, lei lo ha avvertito: «Non ho preso la pillola, sta’ attento!». L’ha tranquillizzata. Lei fa quindi l’amore senza diffidenza, poi, quando vede sul volto dell’uomo affacciarsi e crescere il godimento, si mette a gridare: «Sta’ attento!» poi: «No! no! non voglio! non voglio!», ma il volto dell’uomo è sempre più paonazzo, paonazzo e ripugnante, lei respinge quel corpo appesantito che la stringe a sé, si dibatte, ma lui la abbraccia ancora più forte e lei di colpo capisce che a dominarlo non è l’accecamento dell’eccitazione, ma una volontà, volontà fredda e premeditata, mentre in lei, più che la volontà, domina l’odio, un odio tanto più feroce in quanto la battaglia è perduta.


Non era la prima volta che Alain immaginava il loro coito; quel coito lo ipnotizzava e gli faceva supporre che ogni essere umano ricalcava l’istante in cui era stato generato. Si mise in piedi davanti allo specchio e osservò il suo viso per individuarvi le tracce dell’odio duplice e simultaneo che lo aveva fatto nascere: l’odio dell’uomo e l’odio della donna nel momento dell’orgasmo dell’uomo; l’odio del mite e fisicamente forte unito all’odio della coraggiosa e fisicamente debole.


E si disse che il frutto di quel duplice odio non poteva essere che un chiediscusa: era mite e sensibile come suo padre; e sarebbe rimasto un intruso come l’aveva visto sua madre. Chi è al tempo stesso un intruso e un mite è condannato, con logica implacabile, a scusarsi tutta la vita.


Guardò il volto appeso al muro e di nuovo vide la donna che, sconfitta, i vestiti bagnati, entra nell’auto, sguscia inosservata davanti alla guardiola del portinaio, sale le scale e torna, a piedi nudi, nell’appartamento dove resterà finché l’intruso uscirà dal suo corpo. Poi, qualche mese dopo, abbandonerà entrambi.


Ramon arriva al cocktail di pessimo umore

Malgrado il sentimento di compassione che aveva provato alla fine del loro incontro ai giardini del Lussemburgo, Ramon non poteva cambiare il fatto che D’Ardelo apparteneva a una categoria di persone che non gli piaceva. Eppure avevano qualcosa in comune: il desiderio di impressionare gli altri; di sorprenderli con un’osservazione divertente; di conquistare una donna sotto i loro occhi. Solo che Ramon non era un Narciso. Il successo gli piaceva, ma nel contempo temeva di suscitare invidia; si compiaceva nell’essere ammirato, ma rifuggiva gli ammiratori. La sua discrezione si era trasformata in amore per la solitudine dopo che era rimasto ferito nella vita privata, ma soprattutto l’anno precedente, quando aveva dovuto unirsi al funesto esercito dei pensionati; le sue dichiarazioni non conformiste, che un tempo lo ringiovanivano, facevano ora di lui, malgrado l’ingannevole apparenza, un personaggio inattuale, fuori dal tempo, perciò vecchio.


Decise così di boicottare il cocktail al quale il suo ex collega (non ancora in pensione) lo aveva invitato e cambiò idea solo all’ultimo momento, quando Charles e Caliban gli giurarono che solo la sua presenza avrebbe reso sopportabile la sempre più barbosa missione di camerieri. Tuttavia arrivò molto tardi, parecchio tempo dopo che uno degli invitati aveva pronunciato il discorso in onore dell’ospite. L’appartamento era gremito. Non conoscendo nessuno, Ramon si diresse verso il lungo tavolo dietro al quale i suoi due amici offrivano le bevande. Per scacciare il cattivo umore, rivolse loro qualche parola cercando di imitare il balbettio pakistano. Caliban gli rispose con la versione autentica del medesimo balbettio.


Poi, un bicchiere di vino in mano, sempre di cattivo umore, aggirandosi fra gli sconosciuti, fu attirato dall’agitazione di un gruppetto di persone che si erano voltate verso la porta d’ingresso. Comparve una donna, longilinea, bella, sulla cinquantina. Il capo arrovesciato, si passò più volte la mano sotto i capelli, sollevandoli poi lasciandoli ricadere graziosamente, e offrì a tutti l’espressione voluttuosamente tragica del suo volto; nessuno fra gli invitati l’aveva mai incontrata, ma tutti la conoscevano dalle foto: la Franck. Si fermò davanti al lungo tavolo, si chinò e indicò a Caliban, con grave concentrazione, diversi panini di suo gradimento.


Il suo piatto fu ben presto pieno e Ramon pensò a quel che D’Ardelo gli aveva raccontato ai giardini del Lussemburgo: aveva appena perso il suo compagno e l’aveva amato così appassionatamente che, in virtù di un magico decreto celeste, quand’era morto la tristezza si era transustanziata in euforia e il desiderio di vita centuplicato. La osservava: metteva in bocca i panini e il volto era scosso dai movimenti energici della masticazione.


Quando la figlia di D’Ardelo (Ramon la conosceva di vista) notò la celebre longilinea, la sua bocca si arrestò (anche lei stava masticando qualcosa) e le gambe si misero a correre: «Mia cara!». Tentò di baciarla ma il piatto che la celebre donna teneva davanti al ventre glielo impedì.


«Mia cara» ripeté, mentre la Franck lavorava nella bocca una gran massa di pane e salame. Non potendo inghiottire tutto, si servì della lingua per spingere il boccone nello spazio tra i molari e la guancia; poi, a fatica, cercò di dire qualche parola alla ragazza che non capì nulla.


Ramon avanzò di due passi per osservarle da vicino. La giovane D’Ardelo inghiottì anche lei quello che aveva in bocca e dichiarò con voce sonora: «So tutto, so tutto! Ma noi non la lasceremo mai sola! Mai!».


La Franck, gli occhi fissi nel vuoto (Ramon capì che ignorava chi fosse colei che le stava parlando), trasferì una parte del boccone al centro della bocca, lo masticò, ne mandò giù la metà e disse: «L’essere umano è una solitudine».


«Oh, com’è giusto!» esclamò la giovane D’Ardelo.


«Una solitudine circondata da solitudini» aggiunse la Franck, quindi ingoiò il resto, si voltò e se ne andò altrove.


Senza che Ramon se ne rendesse conto, un sorriso lieve e divertito si disegnò sul suo viso.


Alain mette una bottiglia di armagnac in cima all’armadio

All’incirca nello stesso momento in cui un lieve sorriso rischiarava inaspettatamente il viso di Ramon, lo squillo del telefono interruppe le riflessioni di Alain sulla genesi di un chiediscusa. Seppe immediatamente che era Madeleine. Difficile capire come quei due potessero parlarsi sempre tanto a lungo e con tanto piacere pur avendo così pochi interessi in comune. Quando Ramon aveva spiegato la sua teoria sugli osservatòri, ciascuno situato in un punto diverso della Storia, dai quali la gente si parla senza riuscire a capirsi, Alain si era subito ricordato della sua amica: sapeva infatti, grazie a lei, che anche il dialogo tra due veri innamorati, se le loro date di nascita sono troppo distanti, non è che l’intreccio di due monologhi che conservano per ciascuno un’ampia parte di non compreso. Proprio per questo, ad esempio, non sapeva mai se Madeleine deformasse i nomi degli uomini famosi del passato perché non ne aveva mai sentito parlare o se invece li parodiasse di proposito, per far capire a tutti che non provava il minimo interesse per ciò che era accaduto prima che lei venisse al mondo. Alain non ne era imbarazzato. Lo divertiva stare con lei così com’era, e tanto più era contento dopo, quando si ritrovava nella solitudine del suo appartamento dove aveva appeso manifesti che riproducevano quadri di Bosch, di Gauguin (e di non so chi altro), che delimitavano per lui il suo mondo intimo.


Aveva sempre avuto la vaga idea che, se fosse nato una sessantina di anni prima, si sarebbe dedicato all’arte. Un’idea davvero vaga, poiché ignorava che cosa significasse oggi la parola artista. Un pittore riciclato in vetrinista? Un poeta? Esistono ancora i poeti? Quel che gli aveva fatto piacere, in quelle ultime settimane, era condividere la fantasia di Charles, la pièce per marionette, quel non senso che lo affascinava proprio perché non aveva alcun senso.


Ben consapevole del fatto che non avrebbe potuto guadagnarsi da vivere facendo quel che gli sarebbe piaciuto fare (ma sapeva quel che gli sarebbe piaciuto fare?), aveva scelto, dopo gli studi, un impiego in cui aveva dovuto far valere non la sua originalità, le idee, il talento, ma soltanto l’intelligenza, cioè quella capacità aritmeticamente misurabile che si distingue nei diversi individui solo dal punto di vista quantitativo, poiché c’è chi ne ha di più e chi di meno, e Alain di più, sicché era ben pagato e poteva comprarsi di tanto in tanto una bottiglia di armagnac. Qualche giorno prima ne aveva comprata una dopo aver notato sull’etichetta un’annata che coincideva con quella della sua nascita. Si era allora ripromesso di aprirla il giorno del suo compleanno per festeggiare con gli amici la sua gloria, la gloria del grandissimo poeta che, grazie all’umile venerazione della poesia, aveva giurato di non scrivere mai un solo verso.


Contento e quasi allegro dopo la lunga chiacchierata con Madeleine, salì su una sedia con la bottiglia di armagnac e la posò su un alto (altissimo) armadio. Poi si sedette sul parquet e, appoggiato al muro, la fissò con uno sguardo che lentamente la trasfigurava in regina.


Richiamo di Quaquelique al buonumore

Mentre Alain guardava la bottiglia in cima all’armadio, Ramon non smetteva di rimproverarsi di essere dove non voleva essere; tutta quella gente non gli piaceva e cercava soprattutto di evitare un incontro con D’Ardelo; in quel momento, lo vedeva a pochi metri, di fronte alla Franck che tentava di affascinare con la sua eloquenza; per allontanarsi, Ramon si rifugiò ancora una volta accanto al lungo tavolo dove Caliban stava versando del bordeaux nei bicchieri di tre convitati; a gesti e smorfie, faceva loro capire che era un vino di rara qualità. Conoscendo le buone maniere, i signori alzarono i bicchieri, li scaldarono a lungo nel palmo, trattennero un sorso in bocca, esibirono l’uno all’altro i volti su cui trasparì dapprima una grande concentrazione, poi una stupita ammirazione, e alla fine proclamarono ad alta voce la loro estasi. Tutto questo durò solo un minuto, finché quella festa del gusto fu brutalmente interrotta dalla loro conversazione e Ramon, che li osservava, ebbe l’impressione di assistere a un funerale in cui tre becchini seppellivano il gusto sublime del vino gettando sulla sua bara la terra delle ciance; ancora una volta un sorriso divertito gli si disegnò sul viso mentre nello stesso istante una voce debolissima, appena percettibile, più un sibilo che una parola, si faceva udire alle sue spalle: «Ramon! Che ci fai qui?».


Si voltò: «Quaquelique! Tu piuttosto, che ci fai qui?».


«Sono alla ricerca di una nuova ragazza» rispose, e il suo piccolo viso, superbamente privo di interesse, si fece radioso.


«Mio caro,» disse Ramon «sei uguale a quando ti ho conosciuto».


«Sai, la noia, non c’è nulla di peggio. Per questo cambio sempre ragazza. Altrimenti, niente buonumore!».


«Ah, il buonumore!» esclamò Ramon, come illuminato da quella parola. «Sì, l’hai detto! Il buonumore! È proprio questo il punto, solo questo! Ah, che piacere vederti! Qualche giorno fa, ho parlato di te ai miei amici, oh Quaqui, Quaqueli mio, devo dirti tante cose...». Nello stesso istante, vide a pochi passi il grazioso viso di una ragazza che conosceva; la cosa lo affascinò; come se quei due incontri fortuiti, magicamente legati dallo stesso lasso di tempo, lo caricassero di energia; l’eco della parola «buonumore» risuonava nella sua testa come un richiamo. «Scusami,» disse a Quaquelique «parleremo più tardi, ora... capisci...».


Quaquelique sorrise: «Certo che capisco! Vai, vai!».


«Sono molto felice di rivederla, Julie» disse Ramon alla ragazza. «È un secolo che non ci incontriamo».


«Colpa sua» rispose la ragazza, guardandolo con impertinenza negli occhi.


«Fino a questo momento ignoravo quale irragionevole ragione mi avesse condotto a questa festa sinistra. Finalmente lo so».


«E di colpo la festa sinistra non è più sinistra» disse ridendo Julie.


«Lei l’ha desinistrata» disse Ramon ridendo anche lui. «Ma che cosa l’ha portata qui?».


Lei indicò con un gesto un crocchio che circondava una vecchia (molto vecchia) celebrità accademica: «Ha sempre qualcosa da dire», poi, con un sorriso carico di promesse: «Sono impaziente di rivederla più tardi, stasera...».


Di ottimo umore, Ramon intravide Charles dietro il lungo tavolo, curiosamente assente, lo sguardo rivolto verso l’alto e fisso su un punto. Quella posizione lo incuriosì e si disse: che piacere non doversi occupare di quello che succede lassù, che piacere essere quaggiù; e guardò Julie che se ne andava; i movimenti del suo sedere lo salutavano e lo invitavano.


PARTE QUINTA

UNA PIUMETTA ONDEGGIA SOTTO IL SOFFITTO