giovedì 13 luglio 2023

LIBRO DEL RISO E DELL'OBLIO - 1978 - Milan Kundera

  


LIBRO DEL RISO E DELL'OBLIO

- 1978 -

Milan Kundera 

Recensione
[...] Gli uomini gridano di voler creare un futuro migliore, ma non è vero. Il futuro è solo un vuoto indifferente che non interessa nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggere o ridipingere.[...]

La lotta dell'uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l'oblio. 

Pubblicato per la prima volta nel 1978, Il libro del riso e dell’oblio è indiscutibilmente un testo non di semplice lettura alcuni passaggi del quale potrebbero richiedere una rilettura per cogliere a fondo l’attualità di temi e di forme che i molti anni passati non hanno scalfito.

È certamente tra  i piu importanti libri  di Kundera.  E' stravolgente, rivoluzionario, totalmente insolito nella struttura (un romanzo a scatole cinesi), con l'aggiunta di tutta la forza poetica di Kundera, le sue riflessioni interessantissime, il suo stile elegante.

Capace di farci penetrare tra le pieghe di ciò che resta della “primavera di Praga”, di una svolta che era  stata possibile eppure fu  tradita, nella duplice accezione di “sabotata” e “trasmessa”, con la caratteristica sensibilità di Kundera.

Al di là e al di sopra delle vicende narrate si impone l’angoscia muta dei personaggi, chiusi nell’illusione di poter fare la differenza con le loro scelte, forse persino di poter scegliere. Consumati nel sogno patetico di tracciare una mappa della propria esistenza, di resistere allo disatro dell’oblio, di sollevare il velo del fantasma di ciò che avevano creduto di essere. Mentre in quello stesso momento sono assaliti dsl dubbio di non  essere mai esistiti.

LIBRO DEL RISO E DELL'OBLIO

Titolo originale Kniha smìchu a zapomnenì
Traduzione di Alessandra Mura

PARTE PRIMA: LE LETTERE PERDUTE

1
Nel febbraio del 1948 il dirigente comunista Klement Gottwald si affacciò al balcone di un palazzo barocco di Praga per parlare alle centinaia di cittadini che gremivano la piazza della Città Vecchia. Fu un momento storico per la Boemia. Un momento fatidico, come ce ne sono uno o due in un millennio.

Gottwald era circondato dai suoi compagni e proprio accanto a lui c'era Clementis. Cadeva la neve, faceva freddo e Gottwald era a capo scoperto. Clementis, premuroso, si tolse il berretto di pelliccia e lo mise sulla testa di Gottwald.

La sezione propaganda diffuse in centinaia di migliaia di copie la fotografia del balcone da cui Gottwald, con il berretto di pelliccia in testa e i compagni al suo fianco, parlava al popolo. Su quel balcone cominciò la storia della Cecoslovacchia comunista. Sui manifesti, nei libri di scuola e nei musei, ogni bambino conobbe quella foto.

Quattro anni dopo Clementis fu accusato di tradimento e impiccato. La sezione propaganda lo cancellò immediatamente dalla storia e, naturalmente, anche da tutte le fotografie. Da allora Gottwald su quel balcone è solo. Là dove c'era Clementis ora c'è il muro vuoto del palazzo. Di Clementis è rimasto unicamente il berretto sulla testa di Gottwald.

 

2
E' il 1971 e Mirek dice: la lotta dell'uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l'oblio.

In questo modo vuole giustificare ciò che i suoi amici definiscono imprudenza: Mirek tiene con cura un diario, conserva le lettere, stende i verbali di tutte le riunioni durante le quali si esamina la situazione e si decide come continuare ad agire. Spiega agli amici: Loro non fanno nulla che sia contro la costituzione. Nascondersi e avere sensi di colpa sarebbe l'inizio della sconfitta.

Una settimana prima, mentre lavorava con una squadra di muratori sul tetto di un edificio in costruzione, guardando in giù, aveva avuto un attacco di vertigini. Barcollando, si era aggrappato a una trave malferma, che aveva ceduto; poi l'avevano dovuto liberare da lì. In un primo momento la ferita sembrava grave, ma quando ebbe constatato che si trattava solo di una banale frattura del braccio, Mirek si era detto con soddisfazione che finalmente avrebbe avuto un paio di settimane libere per sistemare le faccende per le quali fino ad allora non aveva mai avuto tempo.

Nonostante tutto ha finito per condividere l'opinione degli amici più prudenti. E' vero che la costituzione garantisce la libertà di parola, ma le leggi puniscono tutto quello che può essere definito un atto sovversivo contro lo Stato. Non si può mai sapere quando lo Stato si metterà a urlare che questa o quella parola lo sovvertono. Così Mirek si è deciso a portare tutti i documenti compromettenti in un luogo sicuro.

Prima, però, vuole sistemare quella faccenda con Zdena. Ha cercato di telefonarle nella città in cui lei vive, ma non ci è riuscito. In questo modo ha perso quattro giorni. Soltanto ieri sera ha potuto parlarle. Lei ha promesso che lo aspetterà oggi, nel pomeriggio.

Il figlio di Mirek, un ragazzo di diciassette anni, aveva protestato: Mirek non poteva guidare con un braccio ingessato. E infatti guidava male. Il braccio rotto, appeso a una benda, gli ciondolava sul petto impotente e inutilizzabile. Per cambiare marcia doveva ogni volta lasciare il volante.

 

3
Venticinque anni prima aveva avuto un legame con Zdena e gli erano rimasti solo alcuni ricordi.

Una volta, durante un loro incontro, lei si asciugava gli occhi con il fazzoletto e tirava su col naso. Le aveva chiesto cosa avesse. Lei gli aveva spiegato che il giorno prima era morto un uomo di Stato russo, un certo Zdanov, Arbuzov o Masturbov. A giudicare dalla quantità di gocce lacrimali, la morte di quel Masturbov l'aveva commossa più della morte di suo padre.

Ma era veramente possibile che fosse successo? Non era per caso il suo odio di oggi a inventarsi quelle lacrime per Masturbov? No, era successo sicuramente. E' vero, però, che le circostanze immediate, che avevano reso quel pianto credibile e reale, oggi gli sfuggivano e il ricordo era diventato inverosimile come una caricatura.

Tutti i ricordi che aveva di lei erano di questo tipo: Tornavano insieme, in tram, dalla casa in cui avevano fatto l'amore per la prima volta. (Mirek si rendeva conto con particolare soddisfazione di avere completamente dimenticato i loro amplessi e di non riuscire a rievocarne neppure un solo istante). Lei era seduta in un angolo della panca, mentre il tram andava avanti a scossoni, e aveva il viso tetro, chiuso e incredibilmente vecchio. Quando le aveva domandato perché tacesse in quel modo, era venuto a sapere che non era soddisfatta di come avevano fatto l'amore. Diceva che lui l'aveva amata come un intellettuale.

Nel gergo politico di allora la parola intellettuale era un insulto. Significava una persona che non capisce la vita e si è allontanata dal popolo. Tutti i comunisti che all'epoca venivano impiccati da altri comunisti venivano gratificati con quell'ingiuria. Rispetto a chi stava ben saldo su questa terra, si diceva, loro volavano per aria. Per questo era giusto, in un certo senso, che l'esecuzione gli togliesse definitivamente la terra da sotto i piedi e che restassero appesi un po' più in alto.

Ma che cosa voleva dire Zdena, quando lo aveva accusato di fare l'amore come un intellettuale?

Per una ragione o per l'altra, non era rimasta soddisfatta di lui, e così come sapeva riempire il rapporto più irreale (il rapporto con lo sconosciuto Masturbov) del più concreto dei sentimenti (materializzato nelle lacrime), sapeva anche dare al più concreto degli atti un significato astratto e alla propria insoddisfazione una denominazione politica.

 

4
Guarda nello specchietto retrovisore e si accorge che dietro la sua c'è sempre la stessa macchina. Non ha mai dubitato di essere seguito, ma finora lo hanno sempre fatto con discrezione magistrale. Oggi, dunque, la situazione è radicalmente cambiata: vogliono che si accorga di loro.

A una ventina di chilometri da Praga, in mezzo ai campi, c'è una grande palizzata e, dietro, un'officina di autoriparazioni. Lì Mirek ha un buon conoscente e da lui vorrebbe farsi cambiare il motorino d'avviamento difettoso. Fermò la macchina davanti all'entrata bloccata da una sbarra a strisce bianche e rosse. Accanto c'era una vecchia grassa. Mirek aspettava che alzasse la sbarra, ma lei si limitava a osservarlo senza accennare a muoversi. Mirek suonò il clacson, ma la cosa non ebbe alcun effetto. Sporse la testa dal finestrino. La vecchia disse: Non l'hanno ancora arrestata?No, ancora non mi hanno arrestato rispose Mirek. Potrebbe alzare la sbarra?.

Lei lo guardò ancora, impassibile, per alcuni lunghi secondi, poi sbadigliò ed entrò nella guardiola. Lì si stravaccò dietro al tavolo e non lo guardò più.

Allora Mirek uscì dalla macchina, girò intorno alla sbarra ed entrò nell'officina a cercare il meccanico che conosceva. Quello tornò insieme a lui e alzò lui stesso la sbarra (la vecchia restava seduta nella guardiola, indifferente) perché Mirek potesse entrare nel cortile con la macchina.

Lo vedi, questo perché ti sei mostrato tante volte in televisione disse il meccanico. Adesso ti riconosce ogni donnetta.

E quella chi è? chiese Mirek.

Venne a sapere che l'invasione dell'esercito sovietico, che aveva occupato la Boemia ed esercitava ovunque la sua influenza, l'aveva risvegliata a una vita fuori del comune. Vedeva che le persone con una posizione superiore alla sua (e tutto il mondo aveva una posizione superiore alla sua) alla minima accusa venivano private di potere, posizione, lavoro e pane, e la cosa l'aveva eccitata: di sua iniziativa si era messa a denunciare la gente.

E com'è che fa ancora la portinaia? Non le hanno dato neanche un posto migliore?. Il meccanico sorrise: Non sa contare neppure fino a cinque. Non possono darle un posto migliore. Possono solo sancire il suo diritto alla delazione. E' tutta la loro ricompensa. Poi sollevò il cofano e si mise a esaminare il motore.

D'un tratto Mirek si accorse che a due passi da lui c'era un uomo. Si voltò a guardarlo: portava una giacca grigia, camicia bianca con cravatta e pantaloni marrone. Sul collo grasso e il viso gonfio ricadeva una capigliatura grigia e ondulata. Stava piantato lì e guardava il meccanico chino sotto il cofano sollevato.

Anche il meccanico dopo un attimo si accorse di lui, si tirò su e disse: Sta cercando qualcuno?.

L'uomo dal collo grasso e i capelli ondulati disse: No, non cerco nessuno.

Il meccanico si chinò di nuovo sul motore e disse: A Praga, in piazza San Venceslao, c'è uno che sta vomitando. Un tale gli passa accanto, lo guarda tristemente e scuote la testa: Se sapesse come la capisco....

 

5
L'assassinio di Allende ha rapidamente cancellato il ricordo dell'invasione russa in Boemia, il sanguinoso massacro nel Bangladesh ha fatto dimenticare Allende, la guerra nel deserto del Sinai ha soffocato il pianto del Bangladesh, il massacro in Cambogia ha fatto dimenticare il Sinai, e così via e così via, fino al più completo oblio di tutto da parte di tutti.

Nei tempi in cui la storia camminava ancora lentamente i suoi non copiosi eventi si potevano facilmente ricordare e creavano uno sfondo a tutti noto davanti al quale si svolgeva l'emozionante teatro delle private avventure umane. Oggi il tempo avanza a passi veloci. L'evento storico, dimenticato in una notte, brilla già l'indomani della rugiada della novità, così che nel racconto del narratore non costituisce più lo sfondo, ma una sorprendente avventura che si svolge sullo sfondo della ben nota banalità della vita privata.

Negli eventi storici nulla può essere considerato a priori come generalmente noto, e quindi sono obbligato a raccontare azioni avvenute pochi anni fa come se fossero vecchie di mille anni. Nel 1939 l'esercito tedesco invase la Boemia e lo Stato dei cechi cessò di esistere. Nel 1945 la Boemia fu invasa dall'esercito russo e il paese cominciò di nuovo a chiamarsi repubblica indipendente. La gente era entusiasta della Russia, che aveva cacciato i tedeschi dal paese, e poiché vedeva nel partito comunista ceco il suo braccio fedele, riversò su di esso la sua simpatia. Avvenne così che nel febbraio del 1948 i comunisti presero il potere non con spargimenti di sangue e violenze, ma accolti dal tripudio di quasi metà della popolazione. E state attenti: quella metà esultante era la più attiva, la più intelligente e la migliore.

Sì, obietterete voi, si capisce, i comunisti erano i più intelligenti. Avevano un programma di ampio respiro. Il progetto di un mondo completamente nuovo, in cui tutti avrebbero trovato il loro posto. Quelli che erano contro i comunisti non avevano nessun grande sogno, ma solo un paio di princìpi morali frusti e noiosi, con cui volevano cucire le toppe sui pantaloni strappati della situazione esistente. Non c'è dunque da meravigliarsi che quegli entusiasti, quei coraggiosi, abbiano facilmente avuto la meglio sui cauti, sui fautori del compromesso, e abbiano cominciato a realizzare rapidamente il loro sogno, l'idillio di giustizia per tutti.

Voglio sottolineare: idillio e per tutti, giacché tutti gli uomini, dai tempi dei tempi, sognano l'idillio, il giardino in cui cantano gli usignoli, una terra di armonia in cui il mondo non si erge contro gli uomini e l'uomo contro l'uomo, ma dove anzi il mondo e tutti gli uomini sono fatti della stessa materia e il fuoco che brilla nel cielo è lo stesso che arde nei cuori umani. Ogni persona, lì, è la nota di una meravigliosa fuga di Bach e chi non vuole esserlo resta solo un punto nero, inutile e privo di significato, che basta acchiappare e schiacciare tra le unghie come una pulce.

Subito, fin dall'inizio, alcune persone dichiararono di non essere portate per l'idillio e di volersene andare. Ma poiché l'idillio è per sua essenza un mondo per tutti, quelli che volevano emigrare si rivelarono negatori dell'idillio e invece che all'estero dovettero andarsene dietro le sbarre. Presto furono seguiti da altre migliaia e decine di migliaia di persone e infine anche da molti comunisti, come per esempio il ministro degli esteri Clementis, quello che un giorno aveva prestato a Gottwald il suo berretto. Sugli schermi cinematografici si tenevano per mano timidi innamorati, l'adulterio era severamente punito dai tribunali d'onore formati da semplici cittadini, gli usignoli cantavano e il corpo di Clementis dondolava come una campana che suonava a festa annunciando il nuovo mattino dell'umanità.

E allora quegli uomini giovani, intelligenti e radicali ebbero di colpo la strana sensazione di aver messo al mondo un'azione che aveva cominciato a vivere di vita propria, cessando di assomigliare alle loro idee e non curandosi più di coloro che l'avevano partorita. Quegli uomini giovani e intelligenti si misero allora a urlare contro la loro azione, cominciarono a chiamarla, a rimproverarla, a darle la caccia e a perseguitarla. Se dovessi scrivere un romanzo sulla generazione di quegli uomini dotati e radicali, lo intitolerei La caccia all'azione perduta.

 

6
Il meccanico richiuse il cofano e Mirek gli chiese quanto gli doveva.

Un cavolo rispose il meccanico.

Mirek si siede al volante ed è commosso. Non ha nessuna voglia di continuare il viaggio. Preferirebbe restare lì col meccanico a raccontare barzellette. Il meccanico si chinò su di lui e gli diede una pacca sulle spalle. Poi si diresse verso la guardiola per alzare la sbarra.

Quando Mirek gli passò accanto, il meccanico, con un cenno della testa, gli indicò l'auto parcheggiata davanti all'ingresso dell'officina.

Chino davanti alla portiera aperta c'era l'uomo dal collo grasso e i capelli ondulati. Guardava Mirek. Anche il tipo che era seduto al volante osservava Mirek. Entrambi lo guardavano in modo insolente, spudorato, e Mirek, passando loro accanto, si sforzò di guardarli allo stesso modo.

Li superò e nello specchietto retrovisore vide che l'uomo si sedeva in macchina e l'auto faceva manovra per ricominciare a seguirlo.

Gli venne in mente che avrebbe dovuto portar via prima quelle carte compromettenti. Se lo avesse fatto subito, il primo giorno della sua assenza dal lavoro, senza aspettare di parlare con Zdena, forse avrebbe ancora potuto trasportarle senza pericolo. Ma non riusciva a pensare ad altro che al suo viaggio per andare a trovare Zdena. Ci pensava, per la verità, già da qualche anno. Dopo le ultime settimane però ha la sensazione di non poter rimandare ulteriormente, giacché il suo destino volge rapidamente al termine e lui deve fare di tutto perché sia bello e perfetto.

 

7
In quel lontano periodo in cui aveva rotto con Zdena (erano stati insieme quasi tre anni), era rimasto stordito da una sensazione di smisurata libertà e di colpo tutto aveva cominciato ad andargli bene. Poco dopo aveva sposato una donna la cui bellezza lo rendeva finalmente sicuro di sé. Poi la sua bella era morta e lui era rimasto solo con il figlio in una solitudine civettuola che gli attirava l'ammirazione, l'interesse e le cure premurose di molte altre donne.

Aveva avuto molto successo anche come scienziato ed era stato quel successo a salvarlo. Lo Stato aveva bisogno di lui e così lui poteva permettersi di essere caustico nei suoi confronti, anche nel periodo in cui quasi nessun altro ne aveva il coraggio. Man mano che quelli che inseguivano la propria azione acquistavano maggiore influenza, anche lui si mostrava sempre più spesso sugli schermi televisivi ed era diventato un personaggio famoso. Quando, dopo l'arrivo dei russi, si era rifiutato di rinnegare le proprie idee, era stato cacciato dal lavoro e circondato da poliziotti in borghese. Ma questo non lo aveva spezzato. Era innamorato del proprio destino e gli sembrava che persino quella marcia verso la rovina fosse bella e sublime.

Capitemi bene: non ho detto che era innamorato di sé, ma del proprio destino. Sono due cose completamente diverse. Era come se la sua vita fosse diventata autonoma e avesse all'improvviso interessi suoi che non coincidevano con quelli di Mirek. E' così che, secondo me, la vita si trasforma in destino. Il destino non muove neanche la punta di un dito per Mirek (per la sua felicità, la sua sicurezza, il suo buon umore e la sua salute), in compenso Mirek è pronto a fare di tutto per il proprio destino (per la sua grandezza, la sua limpidezza, la sua bellezza, il suo stile e il suo senso intelligibile). Si sente responsabile del suo destino, mentre il suo destino non si sente responsabile di lui.

Aveva con la sua vita lo stesso rapporto che uno scultore ha con la sua statua o uno scrittore con il suo romanzo. Tra i diritti inalienabili del romanziere c'è quello di rielaborare il proprio romanzo. Se non gli piace l'inizio, può cambiarlo o cancellarlo. Ma l'esistenza di Zdena negava a Mirek il diritto d'autore. Zdena si ostinava a restare nelle prime pagine del romanzo e non si lasciava cancellare.

 

8
Ma perché, poi, si vergogna tanto di lei?

La spiegazione più semplice è questa: Mirek è passato molto presto tra quelli che si sono messi all'inseguimento della propria azione, mentre Zdena è rimasta fedele al giardino in cui cantano gli usignoli. Negli ultimi tempi, addirittura, faceva parte di quel due per cento della nazione che aveva accolto con entusiasmo i carri armati russi.

Sì, è vero, ma non penso che questa spiegazione sia convincente. Se fosse stato solo perché Zdena aveva accolto con entusiasmo i carri armati russi, lui l'avrebbe attaccata pubblicamente e a gran voce e non avrebbe invece negato di conoscerla. Zdena si era resa colpevole nei suoi confronti di un fatto molto più grave. Era brutta.

Ma che cosa importava che fosse brutta, visto che non ci andava a letto da più di vent'anni?

Importava questo: anche da lontano, il grosso naso di Zdena gettava un'ombra sulla sua vita.

Qualche anno fa lui aveva un'amante bella. Questa, un giorno, era stata nella città di Zdena e ne era tornata disgustata: Scusa, ma come hai potuto stare con quella donna orribile?.

Lui aveva detto di conoscerla molto superficialmente e aveva recisamente negato di aver avuto una relazione con lei.

Infatti non ignorava questo grande segreto della vita: le donne non cercano gli uomini belli. Le donne cercano gli uomini che hanno avuto donne belle. Per questo avere un'amante brutta è un errore fatale. Mirek si sforzava di cancellare tutte le tracce di Zdena e poiché quelli che amavano gli usignoli lo odiavano ogni giorno di più, sperava che Zdena, tutta presa dalla sua carriera di funzionario di partito, lo dimenticasse rapidamente e volentieri.

Ma si sbagliava. Essa parlava di lui sempre, dappertutto e in ogni occasione. Quando una volta, per un caso disgraziato, l'aveva incontrata in società, lei aveva fatto di tutto per tirar fuori qualche ricordo da cui risultasse evidente che un tempo l'aveva conosciuto in modo intimo.

Lui era furioso.

Se la odi tanto quella donna, dimmi, perché ci sei stato insieme? gli aveva chiesto una volta un amico che la conosceva.

Mirek aveva cominciato a spiegargli che a quell'epoca lui era uno stupido ventenne e lei aveva sette anni più di lui. Era rispettata, ammirata, onnipotente! Conosceva tutti al comitato centrale. Lo aiutava, lo spingeva, lo presentava a persone influenti.

Ero un arrivista, accidenti! aveva urlato. Capisci, un giovane arrivista aggressivo! Per quello mi ci ero appiccicato e non mi fregava niente che fosse orrenda!.

 

9
Mirek non dice la verità. Anche se aveva pianto per la morte di Masturbov, venticinque anni prima Zdena non aveva nessuna relazione importante e non era in grado di promuovere né la propria carriera né quella di nessun altro.

Perché allora Mirek inventa questa storia? Perché mente?

Tiene il volante con una sola mano, nello specchietto retrovisore vede la macchina della polizia segreta e di colpo arrossisce. Gli è tornato in mente un ricordo assolutamente inatteso.

Quando, dopo che avevano fatto l'amore per la prima volta, lei lo aveva rimproverato di essersi comportato da intellettuale, lui aveva voluto, il giorno seguente, correggere quell'impressione manifestando una passione spontanea e sfrenata. No, non era vero che aveva dimenticato tutti i loro rapporti sessuali! Questo, per esempio, gli si presentava davanti agli occhi con assoluta chiarezza: Si muoveva sopra di lei con frenesia simulata ed emetteva un lungo suono ringhioso, come un cane quando lotta con la pantofola del padrone, e intanto guardava (alquanto meravigliato) lei che, sdraiata sotto di lui, restava assolutamente calma, silenziosa, quasi indifferente.

La macchina rimbombava tutta di quel ringhio vecchio di venticinque anni, del suono insopportabile della sua sottomissione e dei suoi sforzi servili, del suono della sua sollecitudine e della sua compiacenza, della sua ridicolaggine e della sua miseria.

Sì, è così: Mirek è pronto a proclamarsi arrivista pur di non dover riconoscere la verità: stava con una donna brutta perché non aveva abbastanza coraggio per andare con quelle belle. Credeva di non meritarsi nulla di meglio di Zdena. Quella debolezza, quella miseria, erano il segreto che lui nascondeva.

La macchina rimbombava tutta di quel furioso ringhio della passione, e quel ringhio lo convinceva che Zdena era solo un'immagine stregata che lui avrebbe voluto afferrare per distruggere in essa la propria odiata giovinezza.

Si fermò davanti alla casa di Zdena. La macchina che lo seguiva si fermò dietro di lui.

 

10
Gli avvenimenti storici, nella maggioranza dei casi, si assomigliano l'un l'altro senza alcuna originalità, ma a me sembra che in Boemia la storia abbia messo in scena una situazione mai sperimentata. Lì non è insorto, secondo la vecchia ricetta, un gruppo di persone (una classe, un popolo) contro un altro, lì le persone (una generazione di persone) si sono rivoltate contro la loro stessa giovinezza.

Hanno tentato di recuperare e domare la loro stessa azione, e per poco non ci sono riuscite. Negli anni Sessanta sono diventati sempre più influenti e all'inizio del 1968 la loro influenza era quasi incontrastata. Quest'ultimo periodo viene generalmente chiamato primavera di Praga: i guardiani dell'idillio dovettero smontare i microfoni dalle abitazioni private, le frontiere furono aperte e le note fuggivano dalla grande partitura di Bach per suonare ognuna per conto suo. Che festa fu, che carnevale!

La Russia, che va scrivendo una grande fuga per tutto il globo terrestre, non poteva tollerare che le note si disperdessero. Il 21 agosto 1968 mandò in Boemia un esercito di mezzo milione di uomini. Poco dopo lasciarono il paese quasi 120'000 cechi, e di quelli che restarono almeno 500'000 dovettero lasciare l'impiego per andare in officine sperdute nelle campagne, alle catene di montaggio di fabbriche di paese, al volante di camion, cioè in luoghi dove nessuno potesse più sentire la loro voce.

E perché neanche l'ombra di un brutto ricordo disturbasse il paese nel suo rinnovato idillio, bisognava anche annullare definitivamente la primavera di Praga e l'arrivo dei carri armati sovietici, questa macchia sulla bellezza della storia. Per questo oggi in Boemia nessuno commemora più l'anniversario del 21 agosto e i nomi di coloro che sono insorti contro la loro stessa giovinezza sono stati accuratamente cancellati dalla memoria del paese come un errore in un compito scolastico.

Anche Mirek è stato cancellato in questo modo. E' vero che adesso sta salendo le scale che portano all'appartamento di Zdena, ma si tratta solo di una macchia bianca, di un delimitato pezzetto di vuoto che si muove verso l'alto lungo la spirale della scala.

 

11
Siede di fronte a Zdena, il braccio appeso alla fascia. Zdena guarda da un'altra parte, sfugge i suoi occhi e parla a precipizio:

Non so perché sei venuto. Ma sono contenta che tu sia qui. Ho parlato con i compagni. E' assurdo che tu finisca i tuoi giorni a fare il manovale in un cantiere edile. Sono certa che il partito non ti ha ancora chiuso la porta in faccia. Sei ancora in tempo.

Lui le chiede che cosa deve fare.

Devi chiedere un colloquio. Tu stesso. Devi fare tu il primo passo.

Sa bene di cosa si tratta. Gli fanno sapere che ha ancora cinque minuti di tempo per proclamare a gran voce che sconfessa tutto quello che ha detto e fatto. Conosce questo tipo di commercio. Sono pronti a vendere a un uomo il futuro in cambio del suo passato. Lo costringeranno a parlare in televisione con voce abbattuta, a spiegare alla gente che si sbagliava quando parlava contro i russi e gli usignoli. Lo costringeranno a dare un calcio alla sua vita e a diventare un'ombra, un uomo senza passato, un attore senza parte, a trasformare in un'ombra anche la sua vita buttata via, anche quella parte abbandonata dall'attore. Così, trasformato in ombra, lo lasceranno vivere.

Guarda Zdena: perché parla in modo così precipitoso e insicuro? Perché guarda da un'altra parte e sfugge i suoi occhi?

E' fin troppo chiaro: gli ha preparato una trappola. Agisce per incarico del partito o della polizia. Ha il compito di convincerlo a capitolare.

 

12
Ma Mirek si sbaglia! Nessuno ha incaricato Zdena di trattare con lui. Ahimè, no! Nessuno dei potenti, ormai, accorderebbe a Mirek un colloquio, anche se lui li implorasse. E' troppo tardi.

E se Zdena lo esorta a fare qualcosa per migliorare la sua situazione e sostiene di parlare a nome di compagni delle alte sfere, è solo per un vano e confuso desiderio di aiutarlo. E se parla così a precipizio e sfugge i suoi occhi, non è perché tiene in mano una trappola aperta, ma perché ha le mani completamente vuote.

Ma Mirek l'ha mai capita veramente?

Ha sempre pensato che Zdena fosse freneticamente fedele al partito per fanatismo.

Non è vero. Era rimasta fedele al partito perché amava Mirek.

Quando lui l'aveva lasciata, lei non aveva desiderato altro che poter dimostrare che la fedeltà è un valore superiore a tutti gli altri. Voleva dimostrare che lui era infedele in tutto mentre lei era fedele in tutto. Quello che sembrava fanatismo politico era invece un pretesto, una parabola, un manifesto di fedeltà, il rimprovero cifrato di un amore deluso.

La immagino, una mattina d'agosto, svegliata da un terribile rumore di aerei. Era corsa in strada e persone sconvolte le avevano detto che l'esercito russo aveva invaso la Boemia. Era scoppiata in una risata isterica! I carri armati russi erano venuti a punire tutti gli infedeli! Finalmente avrebbe visto la rovina di Mirek! Finalmente lo avrebbe visto in ginocchio! Finalmente avrebbe potuto piegarsi su di lui come colei che sa che cos'è la fedeltà, e aiutarlo.

Mirek decise di interrompere brutalmente la conversazione che aveva preso una piega sbagliata.

Sai che una volta ti mandavo mucchi di lettere. Vorrei riaverle.

Lei alzò meravigliata la testa. Lettere?.

Sì, le mie lettere. Credo di avertene scritte almeno un centinaio, allora.

Sì, le tue lettere, capisco dice lei, e improvvisamente non evita più il suo sguardo ma lo fissa dritto negli occhi. Mirek ha la sgradevole sensazione che riesca a vedergli fino in fondo all'anima e sappia con precisione quello che lui vuole e perché lo vuole.

Le lettere, sì, le tue lettere ripete. Poco tempo fa le ho rilette. Mi sono chiesta com'è possibile che tu fossi capace di una simile esplosione di sentimenti.

E ripete ancora alcune volte quelle parole: esplosione di sentimenti, e non le pronuncia in fretta, a precipizio, ma lentamente e con estrema cautela, come se mirasse a un bersaglio che non vuole mancare, e non gli toglie gli occhi di dosso, come per capire se è riuscita a colpire quel bersaglio.

 

13
Il braccio ingessato gli penzola sul petto e il viso gli brucia come se avesse ricevuto uno schiaffo.

Eh sì, le sue lettere dovevano essere atrocemente sentimentali. Doveva dimostrare a se stesso a tutti i costi che non erano la debolezza o la miseria che lo legavano a lei, ma l'amore! Solo una passione veramente smisurata avrebbe potuto giustificare il suo legame con una donna tanto brutta.

Mi scrivevi che ero la tua compagna di lotta, ricordi?.

Il viso di lui diventa, se possibile, ancora più rosso. Quella parola infinitamente ridicola: lotta. Qual era stata la loro lotta? Avevano partecipato a interminabili assemblee, avevano le piaghe sul sedere, ma nell'istante in cui si alzavano dalla sedia per esprimere qualche opinione molto radicale (bisogna colpire ancora più a fondo il nemico di classe, o qualche altra idea formulata con ancora maggiore intransigenza) avevano la sensazione di somigliare a personaggi di dipinti eroici: lui cade a terra, la pistola in pugno, il braccio insanguinato da una ferita, e lei, pure con la pistola in pugno, avanza là dove lui non è riuscito ad arrivare.

A quel tempo lui aveva ancora la pelle coperta da una tardiva acne giovanile e perché non si vedesse portava sul volto la maschera della rivolta. Raccontava a tutti di aver tagliato per sempre i ponti con il padre, un agricoltore. Diceva di aver sputato in faccia alla secolare tradizione contadina attaccata alla terra e alla proprietà. Descriveva la scena del litigio e del drammatico abbandono della casa paterna. Non c'era in tutto questo neanche un grammo di verità. Oggi, guardandosi indietro, trova solo leggende e menzogne.

Allora eri una persona diversa dice Zdena.

E lui si immaginava nell'atto di portar via il pacco delle sue lettere. Si ferma davanti al primo bidone per la spazzatura, prende con cautela le lettere tra due dita, come fosse carta imbrattata di merda, e le getta in mezzo alle altre immondizie.

 

14
A che ti servono quelle lettere? chiedeva lei. Perché le vuoi esattamente?.

Non poteva dirle che le voleva gettare in un bidone per la spazzatura. Assunse un tono malinconico e cominciò a raccontarle che era ormai arrivato a quell'età in cui uno comincia a guardarsi indietro.

(Era molto imbarazzato mentre lo diceva, gli sembrava che la sua favoletta non suonasse molto convincente e si vergognava).

Sì, si guarda indietro perché ha ormai dimenticato com'era da giovane. Sa di aver fallito. Per questo vorrebbe sapere da dove è partito, per poter capire meglio dove ha commesso l'errore. Per questo vuole tornare alla sua corrispondenza con Zdena, lì c'è il mistero della sua giovinezza, dei suoi inizi e delle sue radici.

Lei scosse la testa: Non te le ridarei mai.

Le prenderei solo in prestito mentì.

Lei continuò a scuotere la testa.

Mirek pensava che lì, in quella casa, da qualche parte, a pochi passi da lui, c'erano le sue lettere che lei poteva far leggere a chiunque, in qualsiasi momento. Gli sembrava insopportabile che un pezzo della sua vita fosse rimasto nelle mani di lei e aveva voglia di colpirla alla testa col pesante portacenere di vetro che stava tra di loro sul tavolino, e portarsi via le lettere. Invece, ricominciò a spiegarle che si stava guardando indietro e che voleva capire da dove era partito.

Zdena alzò gli occhi su di lui e lo zittì con lo sguardo: Non te le ridarei mai. Mai.

 

15
Quando uscì per accompagnarlo in strada, le due macchine erano parcheggiate davanti alla casa, una dietro l'altra. Gli sbirri stavano passeggiando sul marciapiede di fronte. Ora si fermarono e li guardarono.

Lui glieli indicò: Quei due signori mi hanno seguito per tutta la strada.

Davvero? disse lei incredula, e nella sua voce si poteva sentire un'ironia forzatamente accentuata. Adesso tutti ti perseguitano?.

Come può essere così cinica e venirgli a dire in faccia che i due uomini che li stanno fissando con ostentazione e insolenza sono solo passanti occasionali?

C'è solo una spiegazione. Sta facendo il loro gioco. Il gioco consiste nel fare finta che non esista nessuna polizia segreta e che nessuno sia perseguitato.

Nel frattempo gli sbirri avevano attraversato la strada e, raggiunta la loro vettura, vi erano saliti, sotto gli occhi di Mirek e Zdena.

Stammi bene disse Mirek, e non la guardò più. Si mise al volante. Nello specchietto vide che la macchina dei poliziotti partiva dietro la sua. Non vide Zdena. Non voleva vederla. Non voleva vederla mai più.

Per questo non poteva sapere che lei era rimasta ferma sul marciapiede e che l'aveva seguito a lungo con lo sguardo. Aveva un'espressione atterrita.

No, non era stato per cinismo che si era rifiutata di riconoscere negli uomini sul marciapiede di fronte dei poliziotti. Era stata presa dal panico per cose che erano più grandi di lei. Aveva voluto nascondere la verità a lui e a se stessa.

 

16
Tra la sua macchina e quella dei poliziotti comparve all'improvviso un'auto sportiva rossa guidata da un matto spericolato. Mirek premette l'acceleratore. Stavano giusto entrando in un paese. La strada faceva una curva. Mirek si rese conto che in quel momento i suoi segugi non potevano vederlo e si buttò in una stradina laterale. I freni stridettero e un ragazzino che stava per attraversare ebbe appena il tempo di fare un salto indietro. Nello specchietto retrovisore vide l'auto rossa che continuava per la strada principale. Ma la macchina dei segugi non compariva ancora. Riuscì a svoltare rapidamente in un'altra strada e a scomparire così definitivamente dalla loro vista.

Uscì dal paese per una strada che andava in tutt'altra direzione. Continuava a tenere d'occhio lo specchietto. Nessuno lo seguiva, la strada era vuota.

Si immaginò i poveri poliziotti che lo cercavano, spaventati all'idea dell'urlata del capo. Scoppiò a ridere forte. Rallentò e si mise a osservare il paesaggio. In realtà non aveva mai osservato il paesaggio. Andava in un posto sempre per sistemare una cosa o per discuterne un'altra, cosicché lo spazio del mondo era divenuto per lui qualcosa di negativo, una perdita di tempo, un ostacolo che frenava la sua attività.

A una certa distanza, davanti a lui, si abbassano lentamente due sbarre a strisce bianche e rosse. Si ferma.

Di colpo si sente infinitamente stanco. Perché è andato a trovarla? Perché voleva indietro quelle lettere?

Gli crolla addosso tutta l'assurdità, il ridicolo, la puerilità di quel suo viaggio. Non è stato un ragionamento o un interesse pratico a portarlo da lei, ma solo un desiderio incontrollabile. Il desiderio di spingere il braccio dentro il suo passato e colpirlo con un pugno. Il desiderio di raschiare via con il coltello l'immagine della sua giovinezza. Un desiderio frenetico, che non riesce assolutamente a dominare e che ormai rimarrà insoddisfatto.

Si sente infinitamente stanco. Ormai non riuscirà più a portar via da casa i documenti compromettenti. Gli stanno alle calcagna e non se lo lasceranno sfuggire. E' tardi. Sì, ormai è tardi per tutto.

Sentì da lontano il fischio di un treno. Davanti alla casa cantoniera c'era una donna con un fazzoletto rosso in testa. Passò lentamente il treno, un accelerato, da un finestrino si affacciò un contadino con la pipa e sputò. Poi si sentì il segnale e la donna con il fazzoletto rosso andò alle sbarre e girò la manovella. Le sbarre si sollevarono e Mirek mise in moto. Entrò in un villaggio, che non era altro che una strada interminabile, in fondo alla quale c'era la stazione: una costruzione piccola, bassa, bianca, con accanto uno steccato di legno attraverso il quale si vedevano i binari e le rotaie.

 

17
Le finestre della stazione sono ornate con vasi di begonie. Mirek ha fermato l'auto. E' seduto al volante e guarda la casa, la finestra, i fiori rossi. Da un tempo lontano e dimenticato affiora l'immagine di un'altra casa bianca con i davanzali rossi di fiori di begonia. E' un alberghetto di un paesino di montagna, e sono le vacanze estive. Alla finestra, tra i fiori, appare un grosso naso. E il ventenne Mirek guarda in su, verso quel naso, e sente dentro di sé un amore infinito.

Vorrebbe pigiare sull'acceleratore e sfuggire a quel ricordo. Ma questa volta io non mi lascio imbrogliare, e richiamo indietro il ricordo per trattenerlo un istante. Dunque, ripeto: alla finestra, tra le begonie, c'è il volto di Zdena con il suo enorme naso e Mirek sente dentro di sé un amore infinito.

E' possibile?

Sì. Perché no? Forse che un debole non può provare vero amore per una donna brutta?

Lui le racconta come si è rivoltato contro quel reazionario di suo padre, lei inveisce contro gli intellettuali, hanno le piaghe al sedere e si tengono per mano. Vanno alle assemblee, denunciano i concittadini, mentono e fanno l'amore. Lei piange la morte di Masturbov, lui ringhia come un cane rabbioso sopra il suo corpo, e non sanno vivere l'uno senza l'altra.

Voleva farla scomparire dalla fotografia della propria vita non perché non l'amava, ma proprio perché l'aveva amata. L'aveva cancellata, lei e il suo amore per lei, aveva raschiato la sua immagine per farla sparire come la sezione propaganda aveva fatto sparire Clementis dal balcone su cui Gottwald aveva pronunciato il suo storico discorso. Mirek riscrive la storia esattamente come il partito comunista, come tutti i partiti, come tutti i popoli, come l'uomo. Gli uomini gridano di voler creare un futuro migliore, ma non è vero. Il futuro è solo un vuoto indifferente che non interessa nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggere o ridipingere. Gli uomini vogliono essere padroni del futuro solo per poter cambiare il passato. Si battono per poter entrare nel laboratorio dove si ritoccano le fotografie, dove si riscrivono le biografie e la storia.

Quanto tempo era rimasto davanti a quella stazione?

E che cosa significava quella sosta?

Non significava nulla.

L'aveva cancellata subito dai suoi pensieri e in quel momento non sapeva più nulla della casetta bianca con le begonie. Viaggiava di nuovo veloce attraverso la campagna e non guardava più il paesaggio. Lo spazio del mondo, per lui, era di nuovo soltanto un ostacolo che frenava la sua attività.

 

18
L'auto che era riuscito a seminare era parcheggiata davanti alla sua casa. I due uomini erano poco distanti.

Fermò la macchina dietro la loro e uscì. Gli sorridevano quasi allegramente, come se la sua fuga fosse stata soltanto uno scherzo capriccioso che aveva offerto a tutti e tre un piacevole svago. Quando Mirek passò loro accanto, l'uomo dal collo grasso e i capelli grigi ondulati si mise a ridere e gli fece un cenno con la testa. Di fronte a quella confidenza che prometteva legami ancora più stretti per il futuro, Mirek ebbe un attimo di angoscia.

Col viso immobile, entrò nel portone. Girò la chiave nella porta dell'appartamento. Per prima cosa vide il figlio e il suo sguardo pieno di agitazione contenuta. Uno sconosciuto con gli occhiali si avvicinò a Mirek e dichiarò la propria identità: Vuole vedere il mandato del procuratore?.

 disse Mirek.

Nell'appartamento c'erano altri due sconosciuti. Uno stava accanto alla scrivania, sulla quale era stata ammucchiata una quantità di fogli, libri e quaderni. Prendeva quelle cose in mano una dopo l'altra, mentre il secondo uomo, seduto alla scrivania, scriveva quello che il primo gli dettava.

L'uomo con gli occhiali tirò fuori dal taschino della giacca un foglio piegato e lo diede a Mirek: Qui c'è il mandato del procuratore e lì indicò gli altri due stanno preparando l'elenco degli oggetti sequestrati.

Per terra erano sparsi fogli e libri, le ante dell'armadio erano spalancate, i mobili erano stati scostati dalle pareti. Il figlio si avvicinò a Mirek e gli disse: Sono arrivati cinque minuti dopo che tu eri uscito.

Gli uomini alla scrivania facevano l'elenco degli oggetti sequestrati: lettere degli amici di Mirek, documenti dei primi giorni dell'occupazione russa, testi che analizzavano la situazione politica, verbali delle riunioni e alcuni libri.

Non avete molto riguardo per i vostri amici disse l'uomo con gli occhiali, e indicò con un cenno del capo le cose sequestrate.

Lì non c'è nulla che sia contro la costituzione disse il figlio e Mirek sapeva che quelle parole erano sue, le parole di Mirek.

L'uomo con gli occhiali disse che sarebbe stato il tribunale a decidere che cosa era o non era contro la costituzione.

 

19
Quelli che sono emigrati (sono centoventimila), quelli che sono stati messi a tacere e cacciati dal posto di lavoro (sono mezzo milione) scompaiono come un corteo che si allontana nella nebbia, invisibile e dimenticato.

Ma il carcere, benché interamente circondato da mura, è un palcoscenico della storia splendidamente illuminato.

Mirek lo sa da tempo. Durante tutto quest'ultimo anno, l'idea del carcere lo ha irresistibilmente attratto. Allo stesso modo Flaubert doveva essere affascinato dal suicidio di Madame Bovary. No, non avrebbe saputo immaginare un finale migliore per il romanzo della sua vita.

Volevano cancellare dalla memoria centinaia di migliaia di vite perché restasse soltanto l'immacolato tempo di un idillio immacolato. Ma lui si poserà con tutto il suo corpo su quell'idillio come una macchia. Ci rimarrà, come il berretto di Clementis è rimasto sulla testa di Gottwald.

Fecero firmare a Mirek l'elenco degli oggetti sequestrati, poi chiesero a lui e a suo figlio di seguirli. Dopo un anno di detenzione preventiva ci fu il processo. Mirek fu condannato a sei anni, il figlio a due e una decina dei suoi amici ebbero da uno a sei anni di carcere.

 

PARTE SECONDA: LA MAMMA

1
Ci fu un periodo in cui Markéta non amava sua suocera. Era quando abitava in casa di lei con Karel (il suocero, allora, era ancora vivo) e si scontrava ogni giorno con la sua litigiosità e la sua suscettibilità. Non avevano resistito a lungo e se n'erano andati. Il loro motto a quel tempo era: il più lontano possibile dalla mamma. Si erano trasferiti in una città all'altro capo del paese e riuscivano così a vedere i genitori di Karel appena una volta all'anno.

Poi, un giorno, il padre di Karel era morto e la mamma era rimasta sola. L'avevano rivista al funerale, umile e misera, ed era parso loro che fosse più piccola di prima. Tutt'e due avevano in mente la stessa frase: mamma, non puoi stare da sola, vieni a vivere con noi.

La frase ronzava in testa a tutti e due, ma le loro labbra non si aprivano. Tanto più che il giorno dopo il funerale, durante una mesta passeggiata, la mamma, misera e minuta com'era, li aveva rimproverati con una veemenza che pareva loro fuori luogo per tutte le colpe che avevano accumulato nei suoi confronti. Niente potrà mai cambiarla aveva detto Karel a Markéta quando furono sul treno. E' triste, ma per me sarà sempre valido: lontano dalla mamma.

Poi gli anni erano passati, e se era vero che la mamma non era affatto cambiata, forse era cambiata Markéta, perché d'un tratto le sembrava che tutti i torti che la suocera le aveva fatto fossero in realtà solo stupidaggini insignificanti, mentre il vero errore lo aveva commesso lei, dando un così eccessivo peso ai suoi rimbrotti. Un tempo considerava la suocera come un bambino considera un adulto, mentre adesso i ruoli erano invertiti: Markéta era adulta e, a così grande distanza, la mamma le sembrava piccola e indifesa come un bambino. Markéta provava per lei un'indulgente pazienza e aveva persino cominciato a scriverle regolarmente. La vecchia signora vi si era presto abituata, le rispondeva con puntualità e pretendeva da Markéta lettere sempre più frequenti, giacché, spiegava, erano la sola cosa che le permettesse di sopportare la solitudine.

Da qualche tempo la frase nata durante il funerale del padre di Karel aveva ricominciato a ronzare nella loro testa. E fu il figlio, di nuovo, a frenare l'accesso di bontà della nuora, sicché invece di dirle mamma, vieni a stare con noi, si limitarono a invitarla per una settimana.

Era Pasqua e il loro figlio, che aveva dieci anni, era partito per le vacanze. Alla fine della settimana, la domenica, doveva venire Eva. Erano disposti a passare con la mamma l'intera settimana, salvo la domenica. Le dissero: Starai da noi da sabato prossimo al sabato successivo. Domenica abbiamo un impegno. Andiamo in un posto. Non le dissero niente di più preciso, perché preferivano non parlare di Eva. Karel glielo ripeté altre due volte al telefono: Da sabato prossimo al sabato successivo. Domenica abbiamo un impegno, andiamo in un posto. E la mamma disse: Sì, figli miei, siete molto gentili, state tranquilli, me ne andrò quando vorrete. Mi basta sfuggire un poco alla solitudine.

Ma il sabato sera, quando Markéta le chiese a che ora voleva essere accompagnata alla stazione la mattina dopo, la mamma annunciò, brevemente e semplicemente, che sarebbe partita il lunedì. Markéta la guardò con sorpresa e lei proseguì: Karel mi ha detto che lunedì siete già impegnati, che dovete andare da qualche parte e che io devo partire lunedì mattina.

Markéta evidentemente avrebbe potuto dire mamma, ti stai sbagliando, è domani che andiamo via, ma non ne ebbe il coraggio. Non riuscì, così all'improvviso, a inventare il posto in cui dovevano andare. Si rese conto che avevano preparato la loro scusa in modo assai negligente, non disse nulla e accettò l'idea che la mamma sarebbe rimasta da loro anche la domenica. La rassicurava il pensiero che la camera del figlio, dove dormiva la suocera, era all'altro capo dell'appartamento e che la suocera non li avrebbe disturbati.

Ti prego, non essere cattivo raccomandò a Karel. Guardala, poverina. Mi si stringe il cuore.

 

2
Karel alzò le spalle, rassegnato. Markéta aveva ragione: la mamma era davvero cambiata. Era contenta di tutto, grata di tutto. Karel aveva aspettato invano il momento di uno di quei litigi senza ragione.

Un giorno, durante una passeggiata, lei aveva guardato lontano e aveva detto: Cos'è quel bel paesino bianco laggiù?. Non era un paesino, erano paracarri. Karel provò una gran pietà per sua madre che stava perdendo la vista.

Ma quel difetto agli occhi sembrava esprimere qualcosa di più essenziale: ciò che per loro era grande per lei era piccolo, dove loro vedevano paracarri lei vedeva case.

Non era, a dire il vero, un tratto del tutto nuovo. La differenza era che prima loro se ne indignavano. Una notte, per esempio, i carri armati di un paese vicino avevano invaso il loro paese. Era stato un tale colpo, un tale terrore, che nessuno per molto tempo era riuscito a pensare ad altro. Era agosto e nel loro giardino le pere erano mature. Una settimana prima la mamma aveva invitato il farmacista a venire a raccoglierle. Ma il farmacista non si era fatto vivo e non si era nemmeno scusato. La mamma non riusciva a perdonarglielo e questo mandava in bestia Karel e Markéta. La rimproveravano: tutti pensano ai carri armati e tu pensi alle pere. Poi se n'erano andati con il ricordo della sua piccineria.

Ma è poi vero che i carri armati sono più importanti delle pere? Man mano che il tempo passava, Karel si rendeva conto che la risposta a questa domanda non era così ovvia come gli era sempre sembrata e cominciava a provare una segreta simpatia per il punto di vista della mamma, che aveva in primo piano una grossa pera e da qualche parte, sullo sfondo, un carro armato piccolo come una coccinella che da un momento all'altro se ne sarebbe volato via e sarebbe scomparso allo sguardo. Eh sì, tutto sommato ha ragione la mamma: il carro armato è mortale e la pera è eterna.

Un tempo, la madre voleva sapere tutto del figlio e si arrabbiava quando lui le nascondeva qualcosa della propria vita. E così adesso, per farle piacere, le parlavano di quel che facevano, di quel che gli capitava, dei loro progetti. Ma ben presto si accorsero che la mamma li ascoltava più per cortesia che per altro e che interrompeva i loro racconti per parlare del suo cagnolino, affidato in sua assenza alle cure di una vicina.

Prima, Karel avrebbe giudicato questo atteggiamento egocentrico o meschino; ma adesso sapeva che non era così. Era passato più tempo di quanto non avessero pensato. La mamma aveva rinunciato al bastone da maresciallo della maternità ed era andata a vivere in un mondo diverso. Un'altra volta, durante una passeggiata, erano stati sorpresi da un temporale. La tenevano sottobraccio, uno per lato, dovevano letteralmente trasportarla, altrimenti il vento se la sarebbe portata via come una piuma. Karel sentiva con commozione quel peso da nulla sulla sua mano e capiva che la madre apparteneva a un regno di creature diverse: più piccole, più leggere, più facilmente trascinate dal vento.

 

3
Eva arrivò dopo pranzo. A prenderla alla stazione andò Markéta, perché considerava Eva amica sua. Markéta non amava le amiche di Karel. Con Eva però era un'altra cosa, perché l'aveva conosciuta lei prima di Karel.

Era stato circa sei anni prima. Lei e Karel erano in vacanza in una stazione termale. Un giorno sì e un giorno no lei andava alla sauna. Una volta che, grondante di sudore, sedeva con altre signore su una panca di legno, era entrata una ragazza alta, nuda. Pur non conoscendosi si erano sorrise e dopo un momento la ragazza le aveva rivolto la parola. Poiché era molto spontanea e Markéta le era stata riconoscente per quella manifestazione di simpatia, erano diventate rapidamente amiche.

Markéta era stata catturata dal fascino singolare di Eva: a cominciare da quel modo di rivolgerle la parola così, senza esitazione! Come se avessero avuto appuntamento lì alla sauna! E nel farlo non aveva perso tempo, come volevano le regole e le convenienze, con i soliti discorsi sulla sauna che fa bene alla salute e fa venire appetito, ma si era messa subito a parlare di sé, un po' come le persone che si conoscono attraverso un annuncio sul giornale e fin dalla prima lettera si sforzano di spiegare al loro futuro partner, con laconica densità, chi sono e cosa fanno.

Chi è Eva dunque, stando alle parole di Eva? Eva è un'allegra cacciatrice di uomini. Ma non va a caccia a scopo matrimoniale. Ci va nello stesso modo in cui gli uomini vanno a caccia di donne. Per lei l'amore non esiste, non ci sono altro che l'amicizia e la sensualità. E così ha una quantità di amici: gli uomini non temono che lei voglia sposarli e le donne non temono che voglia privarle di un marito. E poi, se mai si sposasse, suo marito sarebbe un amico al quale consentirebbe tutto e dal quale non pretenderebbe niente.

Dopo aver spiegato tutto questo a Markéta, aveva dichiarato che Markéta aveva una bella ossatura, cosa assai rara perché pochissime donne, a suo dire, avevano un corpo veramente bello. Questo elogio era venuto fuori con tanta naturalezza che Markéta ne aveva avuto più piacere che se a farglielo fosse stato un uomo. Quella ragazza le faceva girare la testa. Aveva la sensazione di essere entrata nel regno della sincerità e aveva dato appuntamento a Eva per due giorni dopo, alla stessa ora, lì alla sauna. Più tardi le aveva presentato Karel, il quale tuttavia, in quell'amicizia, aveva sempre fatto la parte del terzo.

A casa c'è la mamma di Karel le disse Markéta in tono di scusa uscendo dalla stazione. Ti presenterò come una mia cugina. Spero che non ti secchi.

Anzi disse Eva, e chiese a Markéta di darle qualche sommaria indicazione sulla sua famiglia.

 

4
La mamma non si era mai interessata granché alla famiglia della nuora, ma le parole cugina, nipote, zia e nipotina le riscaldavano il cuore: era la sfera rassicurante delle nozioni familiari.

E di nuovo aveva avuto conferma di ciò che già da tempo sapeva: suo figlio era un incorreggibile originale. Come avrebbe potuto disturbarli se restava da loro mentre c'era una parente? Poteva capire che volessero rimanere soli a chiacchierare. Ma che per questo la dovessero cacciare via un giorno prima, proprio non aveva senso. Per fortuna lei sapeva come prenderli. Aveva semplicemente deciso che si era sbagliata di giorno e si era quasi divertita quando la brava Markéta non era riuscita a dire che doveva andarsene la domenica mattina.

Sì, bisognava riconoscerlo, erano più gentili di una volta. Qualche anno prima, Karel le avrebbe ingiunto di andarsene senza tanti complimenti. Ieri, in effetti, con quella piccola astuzia, lei aveva reso un grande servizio al figlio e alla nuora. Per una volta almeno, non avrebbero dovuto rimproverarsi di averla rispedita un giorno prima alla sua solitudine.

Del resto, era molto contenta di aver conosciuto quella nuova parente. Era una ragazza molto carina. (Ed era incredibile come le ricordasse qualcuno. Ma chi?). Per due ore buone aveva dovuto rispondere alle sue domande. Come portava i capelli quando era giovane? Aveva la treccia. Già, si era ancora sotto la vecchia Austria-Ungheria. La capitale era Vienna. Il suo liceo era ceco e lei era una patriota. Tutt'a un tratto, le era venuta voglia di cantare loro qualcuna delle canzoni patriottiche che si cantavano allora. O di recitare qualche poesia! Certo, ne sapeva ancora parecchie a memoria. Proprio dopo la guerra (ma sì, si capisce, dopo la prima guerra mondiale, nel 1918, quando era stata fondata la Repubblica indipendente. Dio mio, la cugina non sapeva quando era stata proclamata la Repubblica!), la mamma aveva recitato una poesia durante una manifestazione solenne al liceo. Si celebrava la fine dell'Impero d'Austria. Si celebrava l'indipendenza! E di colpo, pensate un po', arrivata all'ultima strofa, aveva avuto un vuoto di memoria; impossibile ricordare il seguito. Taceva, il sudore le colava sulla fronte, credeva di morire dalla vergogna. E all'improvviso, contro ogni aspettativa, era scoppiato un grande applauso! Tutti avevano pensato che la poesia fosse finita, nessuno si era accorto che mancava l'ultima strofa! Ma la mamma era ugualmente disperata e per la vergogna era corsa a chiudersi nei gabinetti e il direttore in persona si era precipitato a cercarla e aveva bussato a lungo alla porta supplicandola di non piangere, di uscire, perché aveva avuto un grande successo.

La cugina rideva e la mamma la guardava con insistenza: Mi ricorda qualcuno, Dio mio, chi mai mi ricorda?.

Ma tu dopo la guerra non andavi già più al liceo aveva osservato Karel.

Lo saprò bene, se andavo o no al liceo!.

Ma se ti sei diplomata l'ultimo anno di guerra! Era ancora sotto l'Austria-Ungheria....

Lo saprò ben io quando mi sono diplomata ribatté irritata la mamma. Ma nel momento stesso in cui rispondeva, seppe che Karel non si sbagliava. Era vero, si era diplomata durante la guerra. E allora, da dove veniva quel ricordo della manifestazione dopo la guerra? Di colpo, la mamma esitò e tacque.

Nel breve silenzio, si sentì la voce di Markéta. Parlava con Eva e quel che diceva non riguardava né la recita della mamma né il 1918.

La mamma si sente abbandonata nei suoi ricordi, tradita da quell'improvvisa mancanza d'interesse e da quel venir meno della sua memoria.

Disse: Divertitevi, ragazzi, voi che siete giovani e avete tante cose da dirvi e in preda a un improvviso sconforto andò a rifugiarsi in camera del nipote.

 

5
Mentre Eva incalzava la mamma con le sue domande, Karel la guardava con commossa simpatia. La conosceva da dieci anni ed era sempre stata così. Spontanea, coraggiosa. Anche lui l'aveva conosciuta rapidamente (abitava ancora con Markéta in casa dei genitori), un po' come era accaduto a sua moglie qualche anno dopo. Un giorno aveva ricevuto in ufficio la lettera di una sconosciuta. Gli diceva di conoscerlo di vista e di aver deciso di scrivergli perché le convenzioni non avevano alcun senso per lei quando un uomo le piaceva. Karel le piaceva e lei era una donna cacciatrice. Una cacciatrice di esperienze indimenticabili. Non ammetteva l'amore. Soltanto l'amicizia e la sensualità. Alla lettera era acclusa la foto di una ragazza nuda in una posa provocante.

Karel dapprima aveva esitato a rispondere, pensando a uno scherzo. Ma alla fine la curiosità aveva vinto. Aveva scritto alla ragazza all'indirizzo indicato, invitandola nell'appartamento di un amico. Eva era arrivata, lunga, magra e malvestita. Aveva l'aria di un'adolescente cresciuta troppo in fretta e infilata nei vestiti della nonna. Si era seduta di fronte a lui e gli aveva spiegato che le convenzioni non avevano alcun senso per lei quando un uomo le piaceva. Che ammetteva soltanto l'amicizia e la sensualità. Sul suo volto si leggevano l'imbarazzo e lo sforzo e Karel provava per lei, in luogo del desiderio, una sorta di compassione fraterna. Ma poi si era detto che ogni cosa lasciata è persa: Fantastico, le aveva detto per confortarla due cacciatori che s'incontrano.

Erano le prime parole con le quali Karel interrompeva finalmente la precipitosa confessione della ragazza e di colpo Eva aveva ripreso coraggio, sollevata dal peso di una situazione che da circa un quarto d'ora stava sopportando da sola, eroicamente.

Karel le aveva detto che era bella nella fotografia che gli aveva mandato e le aveva chiesto (con provocante voce da cacciatore) se la eccitava farsi vedere nuda.

Sono un'esibizionista aveva detto lei con tono innocente, come se avesse confessato di essere anabattista.

Karel aveva detto che voleva vederla nuda.

Alzandosi, lei gli aveva chiesto se nell'appartamento c'era un giradischi.

Sì, il giradischi c'era, ma l'amico di Karel amava soltanto la musica classica: Bach, Vivaldi e le opere di Wagner. A Karel sarebbe parso strano se la ragazza si fosse spogliata al canto di Isotta. Anche Eva era scontenta di quei dischi. Non c'è niente di pop?. No, non c'era niente di pop. Non c'era scampo, Karel alla fine aveva dovuto mettere sul giradischi una suite di Bach. Si era seduto in un angolo della stanza per vedere bene la scena.

Eva aveva tentato di muoversi a tempo, poi aveva detto che con quella musica era impossibile.

Lui aveva replicato duramente, alzando la voce: Spogliati e taci!.

La celestiale musica di Bach riempiva la stanza ed Eva, ubbidiente, continuava a far ondeggiare i fianchi. Con quella musica, che era tutto tranne che da ballo, la sua esibizione era particolarmente faticosa, e mentre lei si toglieva il maglione Karel pensava che la distanza che la separava dal momento di sfilarsi le mutandine doveva apparirle interminabile. Risuonavano le note del piano, Eva si dimenava in movimenti di danza e lasciava cadere gli indumenti uno dopo l'altro sul pavimento. Non guardava Karel. Era interamente concentrata su se stessa e sui propri gesti, come un violinista che suona a memoria un pezzo difficile e teme di distrarsi alzando gli occhi sul pubblico. Quando era rimasta completamente nuda, si era girata e, appoggiandosi con la fronte alla parete, si era infilata una mano fra le cosce. Karel si era già spogliato a sua volta e osservava in estasi la schiena tremante della ragazza che si masturbava. Era magnifico e si può ben capire come, da quel momento, egli si fosse sempre schierato dalla parte di Eva.

D'altronde, Eva era la sola donna che non fosse ferita dall'amore di Karel per Markéta. Tua moglie dovrebbe capire che tu l'ami, ma che sei un cacciatore e che la caccia non rappresenta alcun pericolo per lei. Ma nessuna donna lo capisce. No, non c'è donna che capisca gli uomini aveva aggiunto con tristezza, come se l'uomo incompreso fosse lei.

Poi aveva detto a Karel che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo.

 

6
La camera del nipote, dove la mamma si era ritirata, era appena sei metri più in là e separata soltanto da due sottili pareti. L'ombra della mamma era sempre tra loro e Markéta si sentiva oppressa.

Eva, per fortuna, era loquace. Non si vedevano da tanto tempo ed erano successe tante cose: Eva era andata ad abitare in un'altra città e, soprattutto, si era sposata con un uomo saggio, più anziano, che aveva trovato in lei un'amica impareggiabile giacché, come sappiamo, Eva è straordinariamente portata all'amicizia, mentre rifiuta l'amore con il suo contorno di egoismo e di isteria.

Inoltre, aveva un nuovo lavoro. Guadagnava abbastanza bene, ma non aveva un attimo di respiro. Il mattino dopo avrebbe già dovuto essere di ritorno.

Markéta si era spaventata: Ma come? A che ora vuoi partire?.

C'è un diretto alle cinque del mattino.

Dio mio, Eva, dovrai alzarti alle quattro! Che orrore!. E in quel momento Markéta provò, se non collera, per lo meno una certa amarezza per il fatto che la mamma di Karel era rimasta con loro. Eva, infatti, abitava lontano, aveva poco tempo e ciò nonostante aveva riservato quella domenica a Markéta, e Markéta non poteva dedicarsi a lei come avrebbe voluto perché il fantasma della mamma di Karel era sempre tra loro.

Markéta si fece di cattivo umore e poiché le contrarietà non vengono mai sole, il telefono si mise a suonare. Karel sollevò il ricevitore. La sua voce era esitante, c'era qualcosa di sospetto nelle sue risposte laconiche ed equivoche; Markéta ebbe l'impressione che scegliesse con prudenza le parole per dissimulare il senso delle frasi. Ne era certa, stava fissando un appuntamento con una donna.

Chi era? gli chiese. Karel rispose che era una collega di una città vicina che doveva venire la settimana prossima e voleva discutere con lui di qualcosa. Da quel momento Markéta non disse più una parola.

Era così gelosa?

Qualche anno prima, all'inizio del loro amore, lo era stata di certo. Ma gli anni sono passati e ciò che lei vive oggi come gelosia ormai non è che un'abitudine.

Diciamolo in un altro modo: Ogni relazione amorosa è basata su accordi non scritti che gli innamorati concludono imprudentemente durante le prime settimane del loro amore. Si muovono ancora in una specie di sogno, ma nello stesso tempo, senza rendersene conto, redigono da giuristi intransigenti le clausole dettagliate del loro contratto. Siate prudenti, amanti, in quei primi pericolosi giorni! Se portate la colazione a letto al vostro partner, dovrete portargliela per sempre, o sarete accusati di tradimento e disamore.

Fin dalle prime settimane, fra Karel e Markéta era stato deciso che Karel sarebbe stato infedele e che Markéta l'avrebbe accettato, ma che Markéta avrebbe avuto il diritto di essere la migliore mentre Karel si sarebbe sentito in colpa nei suoi confronti. Nessuno meglio di Markéta sapeva come fosse triste essere la migliore. Era la migliore, ma lo era soltanto in mancanza di meglio.

Markéta, è chiaro, sapeva benissimo dentro di sé che quella conversazione telefonica era insignificante. Ma non si trattava di quel che la conversazione era, bensì di ciò che essa rappresentava. Nella sua eloquente concisione, essa esprimeva l'intera situazione della sua vita: tutto ciò che Markéta fa, lo fa solo per Karel e a causa di Karel. Si prende cura di sua madre. Gli presenta la sua migliore amica. Gliela offre in regalo. Unicamente per lui e per il suo piacere. E perché fa tutto questo? Perché si dà tanto da fare? Perché come Sisifo spinge il suo masso? Qualsiasi cosa lei faccia, Karel è mentalmente assente. Fissa appuntamenti con altre donne e le sfugge di continuo.

Quando andava al liceo, Markéta era indomabile, ribelle, fin troppo piena di vita. Il suo vecchio professore di matematica si divertiva a stuzzicarla: A lei, Markéta, nessuno metterà le briglie! Compiango fin d'ora suo marito. Lei rideva con fierezza, quelle parole le sembravano di buon augurio. E di colpo, senza sapere come, si era ritrovata in tutt'altro ruolo, contro ogni sua aspettativa, volontà, inclinazione. Tutto per non essere stata in guardia durante quella settimana in cui, a sua insaputa, aveva steso il contratto.

No, essere sempre la migliore non la divertiva più. Di colpo, gli anni di matrimonio la opprimevano come un sacco troppo pesante.

 

7
Markéta era sempre più imbronciata e dal viso di Karel traspariva la collera. Eva fu presa dal panico. Si sentiva responsabile della loro felicità coniugale e chiacchierava freneticamente per dissipare le nubi che avevano invaso la stanza.

Ma il compito era superiore alle sue forze. Karel, irritato da un'ingiustizia che stavolta era fin troppo evidente, taceva con ostinazione. Markéta, non riuscendo a dominare la propria amarezza né a sopportare la collera del marito, si alzò per andare in cucina.

Eva tentò di convincere Karel a non guastare una serata che aspettavano da tanto tempo. Ma Karel era irremovibile: Così non si può più andare avanti. Comincio a essere stufo! Mi si accusa sempre di questo e di quello. Non ci sto più a sentirmi sempre in colpa! E per una sciocchezza simile! Una sciocchezza simile! No, no. Non la posso più vedere. Proprio non la posso più vedere. Girava in tondo, ripetendo in continuazione la stessa cosa e si rifiutava di ascoltare le supplichevoli intercessioni di Eva.

Eva finì dunque col lasciarlo solo per andare a raggiungere Markéta, la quale, rintanata in cucina, sapeva che era successo qualcosa che non doveva succedere. Eva tentò di dimostrarle che quella telefonata non giustificava assolutamente i suoi sospetti. Markéta, che stavolta sapeva dentro di sé di non aver ragione, rispose: Ma io non ce la faccio più a continuare. E' sempre così. Anno dopo anno, mese dopo mese, nient'altro che donne e menzogne. Comincio a essere stufa. Stufa. Ne ho abbastanza!.

Eva si rese conto che la moglie non era meno testarda del marito. E decise che la vaga intenzione con la quale era giunta e la cui onestà le era parsa dapprima discutibile era una buona intenzione. Se voleva aiutarli, non doveva aver paura di agire di propria iniziativa. Si amavano, ma avevano bisogno che qualcuno sollevasse il loro fardello. Che qualcuno li liberasse. Il progetto col quale era venuta non era dunque solo nel suo interesse (sì, senza dubbio rispondeva in primo luogo al suo interesse, e questo la angustiava un po', perché non aveva mai voluto comportarsi da egoista con gli amici), ma era anche nell'interesse di Markéta e di Karel.

Che cosa devo fare? le chiese Markéta.

Va' da lui. Digli di smettere il broncio.

Ma non lo posso più vedere. Proprio non posso.

Allora abbassa gli occhi. Sarà ancora più commovente.

 

8
La serata è salva. Markéta prende solennemente una bottiglia e la porge a Karel perché la stappi con un gesto grandioso, simile a quello dello starter delle Olimpiadi nell'atto di dare il via all'ultima corsa. Il vino scorre nei tre bicchieri ed Eva, con passo sinuoso, si avvicina al giradischi, sceglie un disco, poi a suon di musica (niente Bach, stavolta, ma Duke Ellington) continua a volteggiare per la stanza.

Credi che la mamma stia dormendo? chiese Markéta.

Forse sarebbe il caso di andare a darle la buonanotte consigliò Karel.

Se vai a darle la buonanotte, ricomincerà con le sue chiacchiere e perderemo un'altra ora. Lo sai che Eva deve alzarsi all'alba.

Markéta è del parere che di tempo ne hanno già perso troppo. Prende l'amica per mano e invece di andare dalla mamma va in bagno con Eva.

Karel rimane nella stanza, solo con la musica di Ellington. E' felice che le nubi del litigio si siano dissipate, ma non si aspetta più nulla dalla serata. Il piccolo incidente della telefonata gli ha bruscamente rivelato quel che si rifiutava di ammettere: era stanco, e non aveva più voglia di niente.

Parecchi anni prima Markéta gli aveva proposto di fare l'amore in tre, con lei e con un'amante di lui della quale era gelosa. Al momento aveva avuto un senso di vertigine, tanto quella proposta lo eccitava! Ma poi la serata non gli aveva procurato un gran piacere. Anzi, era stato uno sforzo spaventoso! Le due donne si baciavano e si abbracciavano davanti a lui, ma non cessavano per un solo istante di essere due rivali che si scrutavano attentamente per vedere a quale di loro egli si sarebbe maggiormente dedicato e con quale sarebbe stato più tenero. Karel aveva pesato con prudenza ogni parola, aveva misurato ogni carezza, agendo, più che da amante, da diplomatico, premuroso, pieno di riguardi, attento, equo e squisito. Comunque, era stato un fiasco. Prima, sul più bello, l'amante era scoppiata a piangere, poi Markéta si era chiusa in un silenzio impenetrabile.

Se fosse riuscito a credere che Markéta desiderava quelle piccole orge per pura sensualità - perché tra loro due era la peggiore - Karel le avrebbe certamente gradite. Ma essendo stato stabilito fin dall'inizio che il peggiore sarebbe stato lui, non vedeva in quelle dissolutezze che un doloroso sacrificio, un generoso sforzo da parte di lei per cedere alle sue tendenze poligamiche trasformandole in ingranaggi di un matrimonio felice. Era marchiato per sempre dalla vista della gelosia di Markéta, quella ferita che le aveva inferto nei primi tempi del loro amore. Quando la vedeva baciare un'altra donna, aveva voglia di mettersi in ginocchio per chiederle perdono.

Ma i giochi della dissolutezza sono forse un esercizio di penitenza?

Aveva dunque pensato che se l'amore a tre doveva essere una cosa allegra, era necessario che Markéta non avesse la sensazione di incontrare una rivale. Bisognava che portasse lei una sua amica che non conosceva Karel e non aveva alcun interesse per lui. Per questo aveva escogitato il trucco dell'incontro alla sauna fra Eva e Markéta. Il piano era riuscito: le due donne erano diventate amiche, alleate, complici che lo violentavano, giocavano con lui, si divertivano a sue spese e lo desideravano insieme. Karel sperava che Eva sarebbe riuscita a scacciare dalla mente di Markéta l'ansia dell'amore, e lui così sarebbe stato finalmente libero e avrebbe smesso di essere un accusato.

Ma ora si accorgeva che non c'era modo di cambiare quel che era stato stabilito anni prima. Markéta era sempre la stessa e lui era sempre l'accusato.

Ma allora, che senso aveva aver presentato Markéta a Eva? Perché aveva fatto l'amore con le due donne? Chiunque altro avrebbe fatto da tempo di Markéta una ragazza allegra, sensuale e felice. Chiunque tranne Karel. Si sentiva come Sisifo.

Come Sisifo? Non è stata Markéta che si è appena paragonata a Sisifo?

Sì, con gli anni, marito e moglie si erano trasformati in due gemelli, avevano lo stesso vocabolario, le stesse idee, lo stesso destino. Si facevano reciprocamente regalo di Eva, ciascuno per rendere felice l'altro. Tutti e due avevano l'impressione di spingere il masso. Erano stanchi tutti e due.

Karel sentiva il gorgoglio dell'acqua e le risate delle due donne nel bagno e si rese conto che non gli era mai riuscito di vivere come avrebbe voluto, avere le donne che desiderava e averle come desiderava averle. Aveva voglia di scappare via da qualche parte, dove poter costruire la propria storia da solo e a modo suo, al riparo da occhi amanti.

E in fondo, ciò a cui teneva non era tanto di costruirsi una storia, quanto semplicemente di restarsene solo.

 

9
Era stato un errore da parte di Markéta, resa poco perspicace dall'impazienza, non andare ad augurare la buonanotte alla mamma e supporre che stesse dormendo. Durante quella visita in casa del figlio, i pensieri si erano messi a girare più in fretta nella testa della mamma, e quella sera erano particolarmente agitati. Colpa di quella simpatica cugina che continuava a ricordarle qualcuno della sua giovinezza. Ma chi?

Alla fine le tornò in mente: Nora! Sì, in tutto e per tutto la stessa figura, lo stesso portamento di un corpo che va per il mondo su un bel paio di gambe lunghe.

A Nora facevano difetto la bontà e la modestia, e la mamma era stata più di una volta ferita dal suo comportamento. Ma adesso non ci pensava. Quel che contava, adesso, era aver ritrovato di colpo un frammento della sua giovinezza, un saluto che le giungeva da mezzo secolo di distanza. La rallegrava l'idea che tutto ciò che aveva vissuto era ancora con lei, la circondava nella sua solitudine, parlava con lei. Anche se non aveva mai amato Nora, era felice di averla incontrata di nuovo qui, tanto più che sembrava del tutto ammansita e incarnata da qualcuno che si mostrava pieno di rispetto nei suoi confronti.

Quando era stata colta da quell'idea, il suo impulso era stato di correre da loro. Ma si era dominata. Sapeva bene che se era ancora lì oggi era soltanto grazie a uno stratagemma, e che quei due sciocchi volevano stare soli con la cugina. Ebbene, si raccontassero pure i loro segreti. Lei, nella camera del nipote, non si annoiava di certo. Aveva il suo lavoro a maglia, aveva da leggere e soprattutto c'era sempre qualcosa che le occupava la mente. Karel le aveva confuso le idee. Sì, aveva ragione lui, era ovvio, il diploma l'aveva preso durante la guerra. Si era sbagliata. L'episodio della recita e di quell'ultima strofa dimenticata era successo almeno cinque anni prima. Era vero che il direttore era venuto a bussare alla porta dei gabinetti dove lei si era chiusa in lacrime. Ma allora aveva appena tredici anni e si trattava di una festa scolastica prima delle vacanze di Natale. Sul palco c'era un albero addobbato, i più piccoli avevano cantato i ritornelli di Natale, poi lei aveva recitato una breve poesia. All'ultima strofa aveva avuto un vuoto di memoria e non era riuscita a continuare.

La mamma si vergognava della sua memoria. Che cosa poteva dire a Karel? Doveva ammettere di essersi sbagliata? In ogni caso la consideravano una vecchia. Erano gentili, è vero, ma non le sfuggiva che la trattavano come una bambina, con una specie di indulgenza che non le piaceva affatto. Se adesso avesse dato completamente ragione a Karel ammettendo di aver confuso uno spettacolo natalizio di bambini con una manifestazione politica, loro sarebbero cresciuti di qualche altro centimetro e lei si sarebbe sentita ancora più piccola. No, no. Non gli avrebbe dato questa soddisfazione.

Avrebbe detto che sì, era vero, la poesia l'aveva recitata a una cerimonia dopo la guerra. Si era già diplomata, ma il direttore si era ricordato della sua ex allieva perché era la più brava in recitazione e le aveva chiesto di venire a recitare una poesia. Era un grande onore! Ma lei lo meritava! Era una patriota! Non avevano idea, loro, di che cos'era stato il dopoguerra, la caduta dell'Austria-Ungheria! Che gioia! Quelle canzoni, quelle bandiere! E di nuovo aveva una gran voglia di precipitarsi dal figlio e dalla nuora per parlare del mondo della sua giovinezza.

E poi, adesso, si sentiva quasi obbligata ad andare di là. Perché era vero che aveva promesso loro di non disturbarli, ma questa era solo mezza verità. L'altra mezza era che Karel non aveva capito come lei avesse potuto partecipare dopo la guerra a una manifestazione solenne al liceo. La mamma era una vecchia signora e ogni tanto la memoria non la sorreggeva. Sul momento non era riuscita a spiegare la faccenda al figlio, ma adesso che, finalmente, si era ricordata come erano andate esattamente le cose, non poteva certo far finta di aver dimenticato la sua domanda. Sarebbe stato poco carino. Sarebbe andata da lui (in fin dei conti non potevano avere niente di così importante da dirsi, quei tre) e si sarebbe scusata: non voleva disturbarli, e di sicuro non sarebbe tornata se Karel non le avesse chiesto come aveva fatto a partecipare a una manifestazione solenne al liceo quando era già diplomata.

A questo punto sentì che una porta veniva aperta e richiusa. Si avvicinò con l'orecchio alla parete. Sentì due voci femminili, poi di nuovo una porta che si apriva. Poi una risata e dell'acqua che scorreva. Si disse che le due ragazze stavano già preparandosi per la notte. Doveva dunque decidersi ad andare, se voleva chiacchierare ancora un poco con quei tre.

 

10
L'ingresso della mamma fu per Karel una mano tesagli da un dio gioviale e sorridente. Arrivava al momento giusto proprio perché aveva scelto il momento sbagliato. Non doveva accampare scuse. Karel le pose subito con calore una serie di domande: che cosa aveva fatto tutto il pomeriggio, non si era per caso sentita un po' triste, perché non si era unita a loro.

La mamma gli spiegò che i giovani avevano sempre un sacco di cose da dirsi e che le persone anziane dovevano ricordarsene e cercare di non disturbarli.

Già si sentivano le due ragazze avvicinarsi ridendo alla porta. Eva entrò per prima, vestita con una maglietta blu scuro che le arrivava esattamente dove finiva il cespuglio dei peli. Alla vista della mamma si spaurì, ma non poteva più tornare indietro, non poteva fare altro che sorriderle e avanzare nella stanza verso la poltrona dove nascondere al più presto la sua nudità mal dissimulata.

Karel sapeva che subito dopo sarebbe entrata Markéta e sospettava che fosse in abito da sera, che nel loro linguaggio comune significava solamente un giro di perle intorno al collo e una sciarpa di velluto scarlatto alla vita. Sapeva che avrebbe dovuto intervenire per impedirle di entrare e risparmiare quel colpo a sua madre. Ma che poteva fare? Doveva forse gridare non entrare? Oppure svelta, vestiti, c'è mamma? Forse ci sarebbe stato qualche mezzo più sottile per trattenere Markéta, ma Karel ebbe a disposizione per riflettere soltanto uno o due secondi, durante i quali non gli venne nessuna idea. Era anzi invaso da una specie di torpore euforico che gli toglieva qualsiasi presenza di spirito. Non fece niente, e così Markéta comparve sulla soglia ed era effettivamente nuda, con le perle al collo e la sciarpa intorno alla vita.

E proprio in quell'istante la madre si girò verso Eva per dirle con un sorriso affabile: Vorrete certo andare a dormire e non vorrei farvi fare tardi. Eva, che aveva visto Markéta con la coda dell'occhio, rispose di no, e quasi lo gridò, come se avesse voluto coprire con la voce il corpo dell'amica la quale, capita finalmente la situazione, indietreggiò verso il corridoio.

Quando, dopo un momento, tornò, avvolta in un lungo accappatoio, la mamma ripeté quello che aveva appena detto a Eva: Markéta, non vorrei farvi fare tardi. Certamente volevate andare a dormire.

Markéta stava per dire sì, ma Karel scosse allegramente la testa: Ma no, mamma, siamo felici che tu stia con noi. E la mamma poté finalmente raccontare la storia della recita solenne dopo la prima guerra mondiale, al tempo della caduta dell'Austria-Ungheria, quando il direttore aveva chiesto alla sua ex allieva di venire a recitare una poesia patriottica.

Le due giovani donne non sentivano quel che la madre stava raccontando, ma Karel l'ascoltava con interesse. Voglio precisare questa affermazione: La storia della strofa dimenticata non lo interessava affatto. L'aveva sentita parecchie volte e ogni volta l'aveva scordata. Quel che lo interessava non era la storia raccontata dalla mamma, ma la mamma che raccontava la storia. La mamma e il suo mondo, simile a una grossa pera sulla quale un carro armato russo si era posato come una coccinella. La porta dei gabinetti, alla quale bussava la mano amichevole del direttore, era in primo piano e dietro quella porta l'avida impazienza delle due giovani donne era appena visibile.

Era questo che piaceva tanto a Karel. Guardava Eva e Markéta con vero diletto. La loro nudità palpitava d'impazienza sotto la maglietta e l'accappatoio. E lui ne ricavava maggior gusto a fare altre domande sul direttore, sul liceo, sulla prima guerra mondiale, e alla fine chiese alla mamma di recitare per loro la poesia patriottica di cui aveva dimenticato l'ultima strofa.

La mamma, dopo aver riflettuto un attimo, cominciò con estrema concentrazione a dire la poesia che aveva recitato alla festa scolastica quando aveva tredici anni. E non era una poesia patriottica, erano dei versi sull'albero di Natale e la stella di Betlemme, ma nessuno fece caso a questo dettaglio, neppure lei. Pensava a una cosa sola: si sarebbe ricordata dell'ultima strofa? E se ne ricordò. La stella di Betlemme fiammeggiava e i tre re giunsero alla stalla. La mamma era emozionatissima per questo successo, rideva e scuoteva la testa.

Eva batté le mani. Guardandola, la mamma ricordò la cosa più importante, quella per cui era venuta: Karel, sai chi mi ricorda vostra cugina? Nora.

 

11
Karel guardava Eva e non poteva credere ai suoi orecchi: Nora? La signora Nora?.

Ricordava bene, dagli anni dell'infanzia, quell'amica della mamma. Era una donna di una bellezza strepitosa, alta, con un viso superbo da regina. A Karel non piaceva perché era fiera e inaccessibile, e tuttavia non riusciva mai a staccare gli occhi da lei. Dio mio, che somiglianza poteva esserci fra quella donna e la gioviale Eva?

Ma sì rispose la mamma. Nora! Guardala! La figura alta! E quel modo di camminare! E quel viso!.

Alzati Eva! disse Karel.

Eva aveva paura ad alzarsi perché non era sicura che la maglietta le coprisse a sufficienza il pube. Ma Karel insisteva tanto che alla fine dovette obbedire. Si alzò e, tenendo le braccia ben aderenti al corpo, tirò discretamente verso il basso la maglietta. Karel la osservava intensamente e tutt'a un tratto ebbe l'impressione che assomigliasse davvero a Nora. Era una somiglianza lontana e difficilmente afferrabile, appariva solo a brevi lampi che subito si spegnevano, ma Karel avrebbe voluto prolungarli perché attraverso Eva desiderava vedere la bella signora Nora, a lungo, senza fine.

Girati di schiena! ordinò.

Eva esitava a girarsi su se stessa, perché non smetteva un secondo di pensare che era nuda sotto la maglietta. Ma Karel insisteva, benché la mamma protestasse: Non vorrai che la signorina faccia un esercizio come un soldato!.

Karel si ostinava: No, no, voglio che si volti. Ed Eva, alla fine, obbedì.

Non dobbiamo dimenticare che la mamma ci vedeva poco. Scambiava dei paracarri per un paesino, confondeva Eva con Nora. Ma bastava socchiudere gli occhi e anche Karel avrebbe potuto scambiare dei paracarri per delle case. Non aveva, per tutta la settimana, invidiato a sua madre quella prospettiva? Chiuse a metà le palpebre ed ebbe davanti agli occhi, al posto di Eva, una bellezza d'altri tempi.

Ne aveva serbato un ricordo indimenticabile e segreto. Aveva circa quattro anni, la mamma e la signora Nora erano con lui in una città termale (quale? non ne aveva la minima idea) e lui le doveva aspettare nello spogliatoio deserto. Aspettava pazientemente, solo, fra gli abiti femminili sparsi. Poi era entrata una donna nuda, nello spogliatoio, alta e splendida, si era girata voltando la schiena al bambino e si era sporta verso l'attaccapanni a muro dal quale pendeva il suo accappatoio. Era Nora.

L'immagine di quel corpo nudo, proteso, visto di schiena, non si era mai cancellata dalla sua memoria. Era piccolissimo, vedeva quel corpo dal basso, con una prospettiva da formica, come se oggi avesse guardato, alzando la testa, una statua alta cinque metri. Gli stava vicinissimo, eppure era infinitamente lontano. Doppiamente lontano. Nello spazio e nel tempo. Quel corpo si levava altissimo sopra di lui ed era per di più separato da lui da un incalcolabile numero di anni. Quella doppia distanza dava la vertigine al bambino di quattro anni. E adesso Karel provava di nuovo la stessa vertigine, con immensa intensità.

Guardava Eva (sempre voltata di schiena) e vedeva la signora Nora. C'era fra loro una distanza di due metri e di un paio di minuti.

Mamma, disse sei stata davvero gentile a venire a chiacchierare con noi. Ma adesso le ragazze vorranno andare a dormire.

La mamma uscì, umile e docile, e subito egli raccontò alle due donne il ricordo che aveva serbato della signora Nora. Si inginocchiò davanti a Eva e di nuovo la fece girare su se stessa per vederla di schiena e per seguire con gli occhi le tracce dello sguardo del bambino d'allora.

La stanchezza svanì di colpo. La tirò a terra. Eva giaceva sul ventre, lui si accovacciò ai suoi piedi, lasciò scorrere lo sguardo lungo le gambe fino al sedere, poi si gettò su di lei e la prese.

Aveva l'impressione che quel balzo sopra il corpo di lei fosse un balzo attraverso un tempo smisurato, il balzo del bambino che giunge di slancio dall'infanzia alla virilità. E poi, mentre si muoveva su di lei, avanti e indietro, gli sembrava di descrivere senza sosta lo stesso movimento, dall'infanzia all'età adulta e viceversa, e ancora una volta dal bimbetto che guardava, impotente, un gigantesco corpo di donna all'uomo che stringe quel corpo e lo domina. Quel movimento, che misura in genere non più di quindici centimetri, era lungo quanto tre decenni.

Le due donne si adeguavano alla sua frenesia e lui passò dalla signora Nora a Markéta, poi di nuovo alla signora Nora e così via. Andò avanti per molto tempo, e poi ebbe bisogno di un po' di riposo. Si sentiva meravigliosamente bene, si sentiva forte come non si era mai sentito. Stava adagiato su una poltrona e contemplava davanti a sé le due donne distese sull'ampio divano. In quel breve istante di riposo non aveva davanti agli occhi la signora Nora, ma le sue due vecchie amiche, le testimoni della sua vita, Markéta ed Eva, e pensava a se stesso come a un grande giocatore di scacchi che ha trionfato contro due avversari su due diverse scacchiere. Quel paragone gli piaceva immensamente e non poté trattenersi dal proclamarlo a gran voce: Sono Bobby Fischer, sono Bobby Fischer gridava ridendo.

 

12
Mentre Karel urlava che lui era Bobby Fischer (il quale, più o meno in quel periodo, aveva vinto in Islanda il campionato del mondo di scacchi), Eva e Markéta erano distese strette l'una all'altra sul divano ed Eva sussurrava all'orecchio dell'amica: D'accordo?.

Markéta rispose che era d'accordo e premette le labbra contro le labbra di Eva.

Un'ora prima, mentre erano insieme nel bagno, Eva le aveva chiesto (questa era l'intenzione con la quale era giunta e la cui onestà le era parsa dubbia), come contraccambio, di andare un giorno a casa sua. L'avrebbe invitata volentieri insieme a Karel, ma sia Karel che suo marito erano gelosi e non sopportavano la presenza di un altro uomo.

Markéta, al momento, aveva pensato che non poteva accettare e si era limitata a ridere. Ma pochi minuti dopo, nella stanza dove le parole della madre di Karel le sfioravano appena l'orecchio, la proposta di Eva si era fatta tanto più ossessiva quanto le era parsa a tutta prima inaccettabile. Lo spettro del marito di Eva era con loro.

E più tardi, quando Karel aveva cominciato a urlare che aveva quattro anni e si era messo ginocchioni per guardare Eva dal basso, le era parso che avesse veramente quattro anni, che fosse fuggito davanti a lei nella propria infanzia e che loro due fossero rimaste sole, sole con il suo corpo straordinariamente funzionante, così meccanicamente robusto che sembrava impersonale, svuotato, tale da poterci immaginare dentro qualsiasi anima. Persino l'anima del marito di Eva, quell'uomo perfettamente sconosciuto, privo di volto e di aspetto.

Markéta si lasciava amare da quel meccanico corpo maschile, poi guardava lo stesso corpo gettarsi fra le gambe di Eva, ma si sforzava di non vedere il viso, per poter pensare che fosse il corpo di uno sconosciuto. Era un ballo in maschera. Karel aveva messo a Eva la maschera di Nora e si era infilato una maschera da bambino e Markéta gli aveva tolto la testa dal corpo. Era un corpo d'uomo senza testa. Karel era scomparso, ed ecco avveniva il miracolo: Markéta era libera e felice!

E' forse mia intenzione confermare con queste parole il dubbio di Karel, il quale sospettava che le loro piccole orge casalinghe fossero state per Markéta fino a quel momento solo sacrificio e sofferenza?

No, sarebbe una semplificazione eccessiva. Markéta desiderava realmente, con il corpo e con i sensi, le donne che considerava amanti di Karel. E anche con la testa le desiderava; verificando la profezia del vecchio professore di matematica, voleva - almeno nei limiti del funesto contratto - mostrarsi intraprendente, gioiosa e sbalordire Karel.

Solo che, non appena si ritrovava nuda con loro sull'ampio divano, ogni fantasia sensuale spariva dalla sua mente e bastava la vista del marito per riconsegnarla al suo ruolo, il ruolo della migliore alla quale veniva fatto del male. Persino quando era con Eva, alla quale voleva bene e della quale non era gelosa, la presenza dell'uomo troppo amato pesava in modo opprimente su di lei, soffocando il piacere dei sensi.

Nel momento in cui eliminò dal corpo di Karel la testa, avvertì il contatto ignoto e inebriante della libertà. Quell'anonimato dei corpi era il paradiso, improvvisamente scoperto. Con singolare voluttà, Markéta espelleva da se stessa la propria anima ferita e troppo vigile, si trasformava in semplice corpo privo di memoria e di passato e proprio per questo più avido e ricettivo. Accarezzava con tenerezza il viso di Eva mentre il corpo senza testa si muoveva su di lei con vigore.

Ma ecco che il corpo senza testa interruppe i propri movimenti e, con una voce che ricordava sgradevolmente Karel, proferì una frase di inverosimile stupidità: Sono Bobby Fischer! Sono Bobby Fischer!.

Fu come se la sveglia l'avesse destata da un sogno. E proprio allora, mentre si stringeva all'amica (così come un dormiglione, svegliato, si stringe al cuscino per nascondersi alla torbida luce del giorno), Eva le chiese d'accordo? e lei fece segno di sì, che era d'accordo, e premette le labbra contro le labbra di Eva. L'aveva sempre amata, ma oggi, per la prima volta, l'amava con tutti i sensi, per quello che era, per il suo corpo e la sua pelle, e si inebriava di quell'amore carnale come di una rivelazione improvvisa.

Dopo, restarono distese una accanto all'altra, prone con il sedere leggermente sollevato, e Markéta sentiva sulla pelle che quel corpo straordinariamente vigoroso aveva messo un'altra volta gli occhi su di loro e che da un momento all'altro avrebbe ricominciato a fare l'amore. Si sforzò di non sentire la voce che affermava di avere davanti agli occhi la bella signora Nora, si sforzò di essere solo un corpo che non ascolta, che si stringe a una dolce amica e a un uomo senza volto.

Quando tutto fu finito, l'amica s'addormentò in un secondo. Markéta le invidiava quel sonno animale, voleva aspirare quel sonno con le labbra, assopirsi al suo ritmo. Si strinse a lei e chiuse gli occhi per ingannare Karel il quale, pensando che le due donne si fossero addormentate, andò a coricarsi nella stanza accanto.

Alle quattro e mezzo del mattino, Markéta aprì la porta della camera. Lui la guardò, mezzo addormentato.

Dormi, a Eva ci penso io gli disse lei e lo baciò teneramente. Karel si voltò dall'altra parte e si riaddormentò di colpo.

In macchina, Eva chiese ancora una volta: Siamo d'accordo?.

Markéta non era più così decisa come la sera prima. Sì, avrebbe voluto lasciarsi alle spalle le vecchie clausole non scritte. Voleva smettere di essere la migliore. Ma come farlo senza distruggere l'amore? Come farlo, se continuava ad amare tanto Karel?

Non aver paura disse Eva. Non si accorgerà di nulla. Fra voi due è stabilito una volta per sempre che sei tu ad avere dei sospetti e non lui. Davvero, non devi avere il minimo timore che lui sospetti qualcosa.

 

13
Eva sonnecchia nello scompartimento sobbalzante. Markéta è tornata dalla stazione e si è già riaddormentata (dovrà alzarsi fra un'ora e prepararsi per andare al lavoro), e adesso tocca a Karel accompagnare la mamma alla stazione. E' la mattina dei treni. Ancora poche ore (ma in quel momento marito e moglie saranno già al lavoro) e il loro figlio scenderà sulla banchina per mettere a questo racconto il punto finale.

Karel è ancora pieno della bellezza della notte. Sa perfettamente che su due o tremila atti d'amore (quante volte ha fatto l'amore nella sua vita?), due o tre soltanto sono davvero essenziali e indimenticabili, mentre gli altri non sono che ritorni, imitazioni, ripetizioni o evocazioni. E Karel sa che l'amore di quella notte è uno di quei due o tre grandi atti d'amore e ne prova una sorta di immensa gratitudine.

Accompagna la mamma alla stazione in macchina e lei non smette un secondo di parlare.

Che cosa dice?

Prima di tutto lo ringrazia: si è trovata bene in casa del figlio e della nuora.

Poi lo rimprovera: hanno molti torti nei suoi confronti. Quando viveva ancora in casa sua con Markéta, lui era impaziente con lei, era scortese, indifferente, e lei ne aveva sofferto molto. Sì, stavolta, lo riconosceva, erano stati molto carini, molto diversi da prima. Sì, erano cambiati. Ma perché era dovuto passare tanto tempo?

Karel ascolta quella lunga litania di rimproveri (la conosce a memoria), ma non prova per questo la minima irritazione. Guarda la mamma con la coda dell'occhio e di nuovo si stupisce di quanto sia piccola. Come se tutta la sua vita fosse un processo di graduale rimpicciolimento.

Ma che cos'è, esattamente, questo rimpicciolimento?

E' il rimpicciolimento reale dell'uomo che abbandona le proprie dimensioni di adulto e intraprende il lungo viaggio attraverso la vecchiaia e la morte, verso il lontano orizzonte dove non c'è che un nulla senza dimensioni?

Oppure questo rimpicciolimento è solo un'illusione ottica, dovuta al fatto che la mamma si allontana, è altrove, e lui la vede dunque da una grande distanza e gli appare come un agnellino, una bambola, una farfalla?

Quando la mamma interruppe per un attimo la litania dei rimproveri, Karel le disse: Che cosa ne è adesso, della signora Nora?.

E' vecchia, ormai. E' quasi cieca.

La vedi, qualche volta?.

Ma come, non sai niente? disse offesa la mamma. Le due donne avevano smesso di vedersi da molto tempo, si erano lasciate dopo un amaro litigio e non si sarebbero più riconciliate. Karel avrebbe dovuto saperlo.

E tu non sai dove siamo stati in vacanza insieme a lei, quando io ero piccolo?.

Ma certo che lo so! disse la mamma e fece il nome di una cittadina termale della Boemia. Karel la conosceva bene, ma non aveva mai saputo che fosse proprio lì lo spogliatoio nel quale aveva visto la signora Nora nuda.

Adesso aveva davanti agli occhi il paesaggio dolcemente ondulato di quella cittadina termale, il portico in legno con le colonne scolpite e tutt'intorno le colline coperte di prati dove pascolavano le pecore facendo suonare i campanelli. In questo paesaggio inseriva col pensiero (come l'autore di un collage inserisce in un'incisione un'altra incisione ritagliata) il corpo nudo della signora Nora e gli venne in mente che la bellezza è una scintilla che scocca quando, all'improvviso, attraverso la distanza degli anni, si incontrano due diverse età. Che la bellezza è l'abolizione della cronologia e la rivolta contro il tempo.

Karel traboccava di quella bellezza e di gratitudine per essa. Poi, di punto in bianco, disse: Mamma, Markéta e io abbiamo pensato che forse, in fin dei conti, ti piacerebbe vivere con noi. Non è difficile cambiare l'appartamento con un altro un po' più grande.

La mamma gli accarezzò la mano: Sei molto caro, Karel. Molto caro. Sono felice che tu me lo dica. Ma sai, il mio cagnolino ha le sue abitudini, là. E mi sono fatta delle amiche tra le vicine.

Poi salgono sul treno e Karel sceglie un posto per la mamma. Gli scompartimenti gli sembrano tutti troppo affollati e scomodi. Alla fine, la fa sedere in prima classe e corre a cercare il controllore per pagare il supplemento. E quando ha il portafoglio in mano, prende un biglietto da cento corone e lo posa nella mano della mamma, come fosse una bambina mandata lontano, nel vasto mondo, e la mamma prende il biglietto senza stupirsi, con assoluta naturalezza, come una scolaretta abituata al fatto che gli adulti, di tanto in tanto, le passano un po' di denaro.

Poi il treno parte, la mamma è al finestrino, Karel è sulla banchina e le fa cenno con la mano a lungo, a lungo, fino all'ultimo momento.

 

PARTE TERZA: GLI ANGELI

1
Il rinoceronte è una commedia di Eugène Ionesco i cui personaggi, posseduti dal desiderio di essere uno uguale all'altro, si trasformano uno dopo l'altro in rinoceronti. Gabrielle e Michelle, due giovani americane, stavano studiando questa commedia in un corso estivo per studenti stranieri, in una cittadina della costa mediterranea. Erano le allieve preferite di Madame Raphaël, la loro insegnante, perché la guardavano sempre attente, e annotavano con cura ogni sua osservazione. Oggi, l'insegnante aveva chiesto alle due ragazze di preparare insieme, per la prossima volta, una relazione sulla commedia.

Non capisco bene come si debba interpretare il fatto che tutti si trasformino in rinoceronti disse Gabrielle.

Bisogna interpretarlo come un simbolo le spiegò Michelle.

Giusto disse Gabrielle. La letteratura è fatta di segni.

Il rinoceronte è innanzitutto un segno disse Michelle.

Sì, ma anche ammettendo che non si trasformino in veri rinoceronti, ma in segni, perché quel segno lì e non un altro?.

Già, il problema è proprio questo disse tristemente Michelle, e le due ragazze, che stavano tornando al loro pensionato, rimasero a lungo senza parlare.

Fu Gabrielle a rompere il silenzio: Non potrebbe essere un simbolo fallico?.

Che cosa? chiese Michelle.

Il corno rispose Gabrielle.

E' vero! esclamò Michelle; ma poi ebbe un'esitazione. Ma perché si trasformerebbero tutti in un simbolo fallico? Uomini e donne?.

Le due ragazze, che trotterellavano verso il pensionato, tacquero nuovamente.

Ho un'idea disse a un tratto Michelle.

Quale? chiese con curiosità Gabrielle.

E poi, è una cosa che Madame Raphaël ha più o meno suggerito aggiunse Michelle tenendo Gabrielle sulla corda.

Allora, che cos'è? Dimmelo insistette impaziente Gabrielle.

L'autore ha voluto creare un effetto comico!.

L'idea enunciata dall'amica conquistò a tal punto Gabrielle, che questa concentrandosi completamente su quel che le passava per la testa, finì col dimenticarsi delle gambe e rallentò il passo. Le due ragazze erano ormai quasi ferme.

Stai dicendo che il simbolo del rinoceronte deve creare un effetto comico? chiese Gabrielle.

Michelle sorrideva col sorriso orgoglioso di chi ha fatto una scoperta: .

Le due ragazze si guardarono, incantate dalla propria audacia e gli angoli della loro bocca fremevano di orgoglio. Poi, all'improvviso, emisero dei suoni acuti, brevi, spezzati che è molto difficile descrivere a parole.

 

2
Riso? C'è forse ancora qualcuno che si interessa al riso? Voglio dire il riso vero, che non ha niente a che fare con lo scherzo, con la beffa e col ridicolo. Riso, godimento immenso e delizioso, godimento totale...

Dicevo a mia sorella, o lei diceva a me, dài, giochiamo a ridere? Ci si stendeva una accanto all'altra su un letto e si cominciava. All'inizio naturalmente era per finta. Un riso forzato. Un riso ridicolo. Un riso così ridicolo che ci veniva da ridere. Poi veniva il riso vero, un riso pieno, e ci portava a un'immensa liberazione. Un riso prorompente, rinnovato, ondeggiante, esplosioni di risa, magnifiche, superbe e pazze... Ridevamo all'infinito del riso del nostro riso... Oh riso! Riso del godimento, godimento del riso; ridere significa vivere così profondamente...

Il testo che ho citato è tratto da un libro che si intitola Parola di donna. E' stato scritto nel 1974 da una delle appassionate femministe che hanno segnato in modo così significativo il clima del nostro tempo. E' un manifesto mistico della gioia. Contro il desiderio sessuale del maschio, consacrato ai fugaci istanti dell'erezione e dunque, fatalmente, alleato della violenza, dell'annientamento, della distruzione, l'autrice esalta, quale polo opposto e positivo, la gioia della donna, il piacere, il godimento: in una sola parola francese, la jouissance, che è dolce, onnipresente e continua. Per la donna, purché non si sia estraniata dalla propria essenza, tutto è un piacere, anche mangiare, bere, orinare, defecare, toccare, udire o semplicemente esserci. Questa enunciazione di delizie si protrae nel libro come una bella litania. Vivere è felicità: vedere, udire, bere, mangiare, orinare, defecare, immergersi nell'acqua e osservare il cielo, ridere e piangere. E se il coito è bello, lo è perché assomma in sé tutti i piaceri: il tatto, la vista, l'udito, la parola, l'odorato, ma anche il bere, il mangiare, il defecare, il conoscere e il danzare. Anche allattare è godimento, e partorire è un piacere, e la mestruazione una gioia: quell'umido e quasi dolce fluire del sangue, quella tiepida saliva del ventre, quel latte misterioso, quel dolore, che ha il sapore bruciante della felicità.

Solo un imbecille potrebbe sorridere di questo manifesto della gioia. Ogni mistica è eccesso. Il mistico non deve aver paura del ridicolo se vuole arrivare fino in fondo, in fondo all'umiltà, o in fondo al piacere. Simile a santa Teresa che sorrideva nella sua agonia, santa Annie Leclerc (così si chiama l'autrice del libro dal quale ho tratto le citazioni) afferma che la morte è un frammento di gioia e che solo il maschio la teme, perché è miseramente attaccato al suo piccolo io e al suo piccolo potere.

In alto, come fosse la volta del tempio della felicità, echeggia il riso, estasi dolce della felicità, culmine estremo del godimento. Riso del godimento, godimento del riso. Non c'è il minimo dubbio, questo riso non ha niente a che fare con lo scherzo, con la beffa e col ridicolo. Le due sorelle distese sul letto non ridono per qualcosa di concreto, il loro riso non ha oggetto, è l'espressione dell'essere che gioisce perché è. Così come con il lamento ci si incatena all'attimo presente del proprio corpo che soffre (e si è totalmente al di fuori del passato e del futuro), anche in questo riso estatico non si hanno né ricordi né desideri, ma si grida all'attimo presente del mondo e non si vuole conoscere nient'altro.

Ricorderete certo questa scena vista in decine di brutti film: un ragazzo e una ragazza si tengono per mano e corrono in un bel paesaggio primaverile (o estivo). Corrono, corrono, corrono e ridono. Le risa dei due corridori devono annunciare al mondo intero e agli spettatori di tutti i cinema: siamo felici, siamo contenti di essere al mondo, siamo d'accordo con l'essere! E' una scena stupida, uno stereotipo, e tuttavia esprime un atteggiamento umano fondamentale: il riso serio, il riso al di là dello scherzo.

Tutte le chiese, tutti i fabbricanti di biancheria, tutti i generali, tutti i partiti politici sono d'accordo su questo riso e tutti si precipitano a piazzare l'immagine dei due che corrono ridendo sui manifesti che fanno propaganda alla loro religione, ai loro prodotti, alla loro ideologia, al loro popolo, al loro sesso e al loro detersivo.

E' appunto di questo riso che ridono Michelle e Gabrielle. Escono da una cartoleria, si tengono per mano e con la mano libera fanno dondolare ciascuna un pacchettino con dentro della carta colorata, della colla e degli elastici.

Madame Raphaël sarà entusiasta, vedrai dice Gabrielle e nello stesso tempo emette dei suoni acuti e spezzati. Michelle è d'accordo con lei e le risponde con suoni simili.

 

3
Poco dopo che i russi ebbero occupato il mio paese, nel 1968, mi cacciarono dal mio lavoro (come migliaia e migliaia di altri cechi) e fu proibito a tutti di offrirmi un altro impiego. Allora, venivano a trovarmi alcuni giovani amici, troppo giovani per essere già sulle liste dei russi e che potevano quindi rimanere nelle redazioni, nelle scuole, negli studi cinematografici. Questi bravi e giovani amici, che non tradirò mai, mi proposero di scrivere firmando col loro nome commedie per la radio, per la televisione e per il teatro, articoli, corrispondenze, sceneggiature per film, perché potessi guadagnarmi da vivere. In parte approfittai di quei lavori, ma perlopiù li rifiutavo, un po' perché non riuscivo a fare tutto ciò che mi proponevano, ma anche perché era pericoloso. Non per me: per loro. La polizia segreta voleva ridurci alla fame, alla miseria, costringerci a capitolare e a pentirci pubblicamente. Per questo sorvegliava con cura le pietose scappatoie attraverso le quali cercavamo di sfuggire all'accerchiamento, e puniva duramente chi ci regalava il proprio nome.

Fra questi generosi donatori c'era una ragazza che si chiamava R' (non ho nulla da nascondere, in questo caso, giacché tutto è stato scoperto). Questa ragazza timida, fine e intelligente era redattrice di una rivista per i giovani che aveva una tiratura enorme. Poiché la rivista, in quel periodo, era costretta a pubblicare un incredibile numero di articoli politici indigesti che cantavano le lodi del popolo russo fratello, la redazione cercava un modo per attirare l'attenzione della massa. Aveva dunque deciso di discostarsi in via eccezionale dalla purezza dell'ideologia marxista e di creare una rubrica di astrologia.

Durante quegli anni vissuti da escluso feci migliaia di oroscopi. Se il grande Jaroslav Ha¬sek era stato commerciante di cani (vendeva molti cani rubati e faceva passare una quantità di bastardi per esemplari di razza), perché io non avrei dovuto fare l'astrologo? Tempo prima, alcuni amici mi avevano spedito da Parigi tutti i trattati di astrologia di André Barbault, il cui nome è fieramente seguito dal titolo di Président du Centre international d'astrologie e io, contraffacendo la mia calligrafia, avevo scritto a penna sulla prima pagina di ciascuno: à Milan Kundera avec admiration, André Barbault. Lasciavo i libri con la dedica posati con discrezione su un tavolo e ai miei clienti praghesi sbalorditi spiegavo che per alcuni mesi, a Parigi, ero stato assistente dell'illustre Barbault.

Quando R' mi chiese di tenere clandestinamente la rubrica di astrologia del suo settimanale, accettai con entusiasmo e le consigliai di annunciare alla redazione che l'autore dei testi era un brillante fisico nucleare che non voleva rivelare il suo nome per paura di essere deriso dai colleghi. L'iniziativa mi sembrava doppiamente protetta: dallo studioso che non esisteva e dal suo pseudonimo.

Scrissi dunque, sotto un nome immaginario, un lungo e bell'articolo sull'astrologia e poi, ogni mese, un testo breve e abbastanza insulso sui diversi segni, disegnando io stesso vignette del Toro, dell'Ariete, della Vergine, dei Pesci. Il guadagno era irrisorio e la cosa in sé non era né allegra né degna di nota. Ciò che era divertente, in tutta questa faccenda, era la mia esistenza, l'esistenza di un uomo espulso dalla storia, dai manuali di letteratura e dall'elenco del telefono, un uomo morto che tornava alla vita in una stupefacente reincarnazione per predicare a centinaia di migliaia di giovani socialisti la grande verità dell'astrologia.

Un giorno R' mi annunciò che il suo caporedattore era stato conquistato dall'astrologo e voleva che gli facesse l'oroscopo. La cosa mi affascinava. Il caporedattore era stato imposto dai russi e aveva passato metà della sua vita ai corsi di marxismo-leninismo a Praga e a Mosca.

Si vergognava un po', quando me l'ha chiesto spiegava R' sorridendo. Vorrebbe che non si sapesse in giro che crede a queste superstizioni da medioevo. Ma è tremendamente tentato.

Va bene dissi, ed ero contento. Conoscevo il caporedattore. Oltre a essere il capo di R', era membro della commissione superiore del partito addetta ai quadri e aveva rovinato l'esistenza di molti miei amici.

Vuole conservare un totale anonimato. Le darò la sua data di nascita, ma dovrà ignorare che si tratta di lui.

Tanto meglio! mi rallegrai.

Le darà cento corone per il suo oroscopo.

Cento corone? Cosa crede, quel tirchio!” dissi ridendo. Dovette darmene mille. Riempii dieci pagine descrivendo il suo carattere e tratteggiando il suo passato (sul quale ero abbastanza informato) e il suo futuro. Ci lavorai una settimana intera, consultandomi dettagliatamente con R'. Con un oroscopo, in effetti, si può influenzare a meraviglia, anzi dirigere, il comportamento delle persone. Si può facilmente raccomandare loro certi comportamenti, distoglierli da altri e condurli all'umiltà con sottili allusioni a catastrofi future.


Quando rividi R', qualche tempo dopo, ridemmo molto. Lei sosteneva che il caporedattore era migliorato da quando aveva letto l'oroscopo. Urlava meno. Cominciava a temere la propria severità, contro la quale l'oroscopo lo metteva in guardia, cercava di valorizzare al massimo il briciolo di bontà di cui era capace e nel suo sguardo, che fissava spesso nel vuoto, si poteva scorgere la tristezza di un uomo il quale è venuto a sapere che le stelle gli promettono per il futuro solo sofferenza.


 


4

(Sui due tipi di riso)


Considerare il diavolo un partigiano del Male e l'angelo un combattente del Bene significa accettare la demagogia degli angeli. La faccenda, in realtà, è più complessa.


Gli angeli sono partigiani non del Bene, ma della creazione divina. Il diavolo, invece, è colui che nega al mondo divino un senso razionale.


Come si sa, angeli e demoni si spartiscono il dominio del mondo. Tuttavia, per il bene del mondo non occorre che gli angeli abbiano il sopravvento sui demoni (come credevo quando ero bambino), ma che i poteri degli uni e degli altri siano all'incirca in equilibrio. Se nel mondo c'è un eccesso di senso incontestabile (dominio degli angeli), l'uomo soccombe sotto il suo peso. Se il mondo perde tutto il suo senso (dominio dei demoni), è altrettanto impossibile vivere.


Le cose che vengono private di colpo del loro senso presunto, del posto assegnato loro nel preteso ordine delle cose (un marxista formatosi a Mosca che crede agli oroscopi), provocano in noi il riso. All'origine, il riso appartiene dunque al diavolo. Vi è in esso qualcosa di malvagio (le cose si rivelano di colpo diverse da come volevano far credere di essere), ma anche una parte di benefico sollievo (le cose sono più leggere di come apparivano, ci lasciano vivere più liberamente, smettono di opprimerci con la loro austera serietà).


Quando l'angelo udì per la prima volta il riso del maligno, restò sbalordito. Accadde durante un banchetto, la sala era gremita e i presenti furono conquistati uno dopo l'altro dal riso del diavolo, che era contagioso. L'angelo capiva benissimo che quel riso era diretto contro Dio e contro la dignità della sua opera. Sapeva di dover reagire subito, in un modo o nell'altro, ma si sentiva debole e inerme. Non riuscendo a inventare niente di nuovo, scimmiottò il suo rivale. Aperta la bocca, emise un suono intermittente, spezzato, alle frequenze più alte del suo registro vocale (più o meno lo stesso suono emesso, in una via della cittadina sulla costa, da Michelle e Gabrielle), ma dandogli il significato opposto: Mentre il riso del diavolo alludeva all'assurdità delle cose, l'angelo, col suo grido, voleva rallegrarsi che tutto, quaggiù, fosse ordinato con ragione, ben concepito, bello, buono e pieno di senso.


Così, l'angelo e il diavolo si fronteggiavano e, mostrandosi l'un l'altro la bocca spalancata, emettevano all'incirca lo stesso suono, ma ciascuno esprimeva col suo clamore cose radicalmente opposte. E il diavolo guardava l'angelo ridere e rideva ancora di più, ancora meglio e con più gusto, perché l'angelo che rideva era infinitamente comico.


Un riso ridicolo è un fallimento. Ciò non toglie che gli angeli abbiano ottenuto comunque un risultato. Ci hanno ingannati tutti con un'impostura semantica. Per indicare sia la loro imitazione del riso, sia il riso originale (quello del diavolo), c'è una parola sola. Ormai non ci rendiamo nemmeno più conto che la stessa manifestazione esteriore nasconde due atteggiamenti interiori assolutamente opposti. Esistono due tipi di riso e noi non abbiamo parole per distinguerli l'uno dall'altro.

5

In un settimanale illustrato c'era questa fotografia: una fila di uomini in uniforme, col fucile in spalla e sulla testa un elmetto completo di visiera protettrice in plexiglas, hanno lo sguardo rivolto verso un gruppetto di giovani in jeans e maglietta che si tengono per mano e fanno un girotondo sotto i loro occhi.


E', con ogni evidenza, una pausa prima dello scontro con la polizia che protegge una centrale nucleare, un campo d'addestramento militare, la segreteria di qualche partito politico o le finestre di un'ambasciata. I giovani hanno approfittato di questo tempo morto per mettersi in cerchio e, accompagnandosi con un semplice ritornello popolare, fanno due passi sul posto, un passo avanti, levano in alto prima una gamba e poi l'altra.


Credo di capirli: hanno l'impressione che il cerchio che descrivono sul suolo sia un cerchio magico che li unisce come un anello. E il loro petto si gonfia di un intenso sentimento di innocenza: non sono uniti, come un gruppo di soldati o una squadra di fascisti, dalla marcia, ma, come dei fanciulli, dalla danza. Vogliono sputare in faccia ai poliziotti la loro innocenza.


Così li ha visti anche il fotografo, che ha messo in rilievo questo contrasto eloquente: da un lato la polizia nell'unità falsa (imposta, comandata) dei ranghi, dall'altro i giovani nell'unità vera (sincera e naturale) del cerchio; da una parte la polizia nella tetra attività dell'appostamento, dall'altra i ragazzi nella gioia del gioco.


La danza in cerchio è magica e ci parla dalle profondità millenarie della memoria umana. Madame Raphaël, l'insegnante, ha ritagliato dalla rivista questa foto e la guarda sognante. Vorrebbe anche lei danzare in un cerchio simile. Per tutta la vita ha cercato un cerchio di persone alle quali dare la mano per fare un girotondo, l'ha cercato prima nella chiesa metodista (suo padre era un fanatico religioso), poi nel partito comunista, poi nel partito trockista, poi nel partito trockista dissidente, poi nel movimento contro l'aborto (il bambino ha diritto alla vita!), poi nel movimento per la legalizzazione dell'aborto (la donna ha diritto al suo corpo!), l'ha cercato tra i marxisti, gli psicoanalisti, gli strutturalisti, l'ha cercato in Lenin, nel buddhismo Zen, in Mao Tze-tung, fra gli adepti dello Yoga, nella scuola del nouveau roman, nel teatro di Brecht, nel teatro della crudeltà e infine vuole essere in perfetta armonia almeno con i suoi allievi, vuole formare un tutt'uno con loro, il che significa che li obbliga a pensare e a dire le stesse cose che pensa e dice lei, perché siano con lei un solo corpo e una sola anima, un solo cerchio e una sola danza.


Adesso le sue allieve sono nella loro stanza, al pensionato. Sono chine sul testo di Ionesco Il rinoceronte e Michelle sta leggendo ad alta voce:


“Il logico, al signore anziano: Prenda un pezzo di carta, faccia il calcolo. Se si tolgono due zampe ai due gatti, quante zampe resteranno a ciascun gatto?


“Il signore anziano al logico: Ci sono diverse soluzioni possibili. Un gatto potrebbe avere quattro zampe e l'altro due. Potrebbe esserci un gatto a cinque zampe e un altro gatto con una zampa sola. Dato che togliamo due zampe su otto, potremmo anche avere un gatto a sei zampe e uno completamente senza”.


Michelle interruppe la lettura: “Non capisco come si possano togliere le zampe a un gatto. Non vuole mica tagliargliele?”.


“Michelle!” esclamò Gabrielle.


“E non capisco nemmeno come un gatto possa avere sei zampe”.


“Michelle!” esclamò di nuovo Gabrielle.


“Che c'è?” chiese Michelle.


“Hai già dimenticato? Eppure l'hai detto tu stessa”.


“Che cosa?” chiese di nuovo Michelle.


“Questo dialogo vuole certamente creare un effetto comico”.


“Hai ragione” disse Michelle e guardò con gioia Gabrielle.


Le due ragazze si guardavano negli occhi, gli angoli della loro bocca fremevano di orgoglio, e infine emisero un suono breve e spezzato nei toni più alti della loro voce. E poi ancora un suono simile e ancora un altro. “Un riso forzato. Un riso ridicolo. Un riso così ridicolo che non potevano fare a meno di riderne. Poi venne il riso vero, un riso pieno, e le portò a un'immensa liberazione. Un riso prorompente, rinnovato, incalzante, scatenato, esplosioni di risa, magnifiche, superbe e pazze. Ridevano del loro riso fino all'infinito del loro riso. Oh riso! Riso del godimento, godimento del riso...”


E da qualche parte, Madame Raphaël, da sola, vagava per le strade della cittadina sulla costa mediterranea. Tutt'a un tratto alzò la testa, come se da lontano le fosse giunto il frammento di una melodia fluttuante nella brezza leggera, o come se un remoto profumo avesse colpito il suo olfatto. Si fermò e udì dentro l'anima il grido del vuoto che si ribellava e voleva essere colmato. Le sembrava che da qualche parte, non lontano da lei, si agitasse la fiamma del grande riso, che forse da qualche parte lì vicino qualcuno si tenesse per mano e danzasse in cerchio...


Rimase così per un attimo, si guardò intorno nervosamente ed ecco che di colpo quella musica misteriosa tacque (Michelle e Gabrielle avevano smesso di ridere, tutt'a un tratto avevano un'aria annoiata, davanti a loro si stendeva una lunga notte senza amore) e Madame Raphaël, stranamente tormentata e insoddisfatta, tornò a casa lungo le calde strade della cittadina sulla costa.

non si vedevano più, si vedevano solo tre paia di scarpe che stavano passando attraverso il buco nel soffitto e che scomparivano a loro volta, mentre dall'alto giungeva alle orecchie degli allievi impietriti un riso che si allontanava, il riso splendente di tre arcangeli.


 


9

Il mio incontro con R'