sabato 27 febbraio 2021

I RAGAZZI BURGESS Elisabeth Strout



 I RAGAZZI BURGESS 
Elisabeth Strout 
(Parte prima 1-8)

Prologo

Io e mia madre parlavamo molto spesso della famiglia Burgess. «I ragazzi Burgess», li chiamava lei. Ne parlavamo soprattutto al telefono, perché io abitavo a New York e lei nel Maine, ma anche quando andavo a trovarla e alloggiavo vicino a casa sua. Mia madre non era stata in molti hotel, perciò divenne una delle nostre abitudini preferite: sedere in camera, tra le pareti verdi con gli stencil di rose rosa, a parlare del passato, di quelli che avevano lasciato Shirley Falls e di quelli che erano rimasti. «Stavo pensando ai ragazzi Burgess», diceva lei, tirando indietro la tenda per guardare le betulle.

Aveva un debole per i ragazzi Burgess. Credo che fosse perché tutti e tre avevano sofferto pubblicamente, e anche perché tanti anni prima era stata la loro insegnante al quarto anno di catechismo. Erano i suoi prediletti. Jim, perché sentiva che perfino allora era già arrabbiato e si sforzava di controllare la sua rabbia, e Bob, perché aveva il cuore grande. Non era molto interessata a Susan. «Non era simpatica a nessuno, per quanto ne so», mi disse un giorno.

«Da piccola era carina», ricordai. «Tutta riccioli, con gli occhi grandi».

«E poi ha avuto quel figlio matto».

«Che cosa triste».

«Ce ne sono tante di cose tristi», rispose mia madre. A quell’epoca eravamo tutte e due vedove e, dopo parole come quelle, di solito cadeva il silenzio. Poi una di noi diceva di essere tanto contenta che Bob Burgess alla fine avesse trovato una brava moglie. Era la seconda moglie di Bob e speravamo fosse l’ultima; ed era un ministro del culto della Chiesa Unitariana. A mia madre gli unitariani non piacevano, li considerava atei che non volevano rimanere esclusi dalle gioie del Natale. Ma Margaret Estaver veniva dal Maine, perciò andava bene. «Bob avrebbe anche potuto scegliersi una newyorkese, dopo tanti anni che viveva lì. Guarda cos’è successo a Jim, che ha sposato quella snob del Connecticut», disse in un’altra occasione.

Naturalmente in passato avevamo parlato parecchio di Jim: di come aveva lasciato il Maine dopo essersi occupato dei casi di omicidio per l’ufficio del procuratore generale, di come avevamo sperato che si candidasse a governatore e del mistero della sua improvvisa decisione di non farlo; e poi, ovviamente, nell’anno del processo a Wally Packer, quando Jim compariva al telegiornale tutte le sere. Erano i primi tempi in cui venivano trasmessi i processi in televisione, e un anno dopo il caso O.J. Simpson avrebbe oscurato il ricordo del processo Packer, ma fino ad allora ci furono adoratori di Jim Burgess in tutto il paese che restarono stupefatti di fronte allo schermo quando riuscì a ottenere l’assoluzione per quel cantante soul dal volto gentile, la cui voce confidenziale («Toglimi dalle spalle questo peso, il peso del mio amore») aveva accompagnato la nostra generazione verso l’età adulta. Wally Packer, che secondo l’accusa aveva pagato qualcuno per ammazzare la fidanzata bianca. Jim riuscì a tenere il processo a Hartford, dove la questione razziale era molto importante, e la sua scelta dei membri della giuria fu definita brillante. Poi, con una pazienza eloquente e instancabile, si dedicò a descrivere quanto potesse essere ingannevole il tessuto che teneva insieme, o che in quel caso a suo dire nonteneva insieme, le componenti fondamentali del comportamento criminale: l’intenzione e l’azione. Sui quotidiani nazionali comparve una serie di vignette, una delle quali mostrava una donna che fissava il proprio soggiorno disordinato e una didascalia che diceva: «Se ho intenzione di riordinare il soggiorno, quand’è che diventerà ordinato?». I sondaggi indicavano che la maggior parte dell’opinione pubblica riteneva, come me e mia madre, che Wally Packer fosse colpevole. Ma Jim fece un lavoro incredibile che lo rese famoso. (Alcune riviste lo indicarono come uno degli uomini più sexy del 1993, e mia madre, che pure detestava anche il minimo accenno al sesso, non gli serbò rancore). Si diceva che O.J. Simpson lo volesse nel suo“Dream Team”. Si fece un gran parlare di questa storia in televisione, ma dato che la fazione pro-Burgess non rilasciò alcuna dichiarazione in proposito, il verdetto fu che Jim stava «dormendo sugli allori». Il processo Packer aveva fornito a me e mia madre un argomento di conversazione in un momento in cui non eravamo in buoni rapporti. Ma quel periodo ormai apparteneva al passato. Nel presente, quando me ne andai dal Maine le diedi un bacio e le dissi che le volevo bene. Lei mi rispose allo stesso modo.

Tornata a New York, una sera, mentre guardavo fuori dalla finestra del mio appartamento al ventiseiesimo piano, osservando il crepuscolo che cambiava la città e le luci che si accendevano come lucciole nella distesa di edifici che si estendeva di fronte a me, le telefonai. «Ti ricordi quando la madre di Bob lo aveva mandato dallo strizzacervelli? I bambini sparlavano di lui nel cortile della scuola. Dicevano: “Bobby Burgess va dal dottore dei matti”».

«I bambini sono tremendi», rispose mia madre. «Com’è vero Dio».

«È stato tanto tempo fa. A quell’epoca lassù nessuno andava dallo psichiatra».

«Le cose sono cambiate. I figli degli amici con cui vado a ballare sono tutti in cura dallo psicologo e, a quanto pare, prendono delle pillole. Devo dire che anche adesso la gente si guarda bene dal tenere la bocca chiusa su certe cose».

«Ti ricordi del padre dei Burgess?». Era una domanda che le avevo già rivolto. Lo facevamo spesso, avevamo l’abitudine di ripetere sempre le stesse cose.

«Certo. Era alto. Lavorava in fabbrica. Come caporeparto, credo. E poi lei è rimasta sola».

«E non si è mai più risposata».

«No, mai più», ripeté mia madre. «Non so quante possibilità avesse a quell’epoca. Con tre bambini piccoli. Jim, Bob e Sue».

La casa dei Burgess si trovava a un paio di chilometri dal centro della cittadina. Era piccola, ma quasi tutte le abitazioni di quella zona di Shirley Falls erano piccole, o comunque non grandi. Era una casa gialla, che sorgeva in cima a una collina, con un campo da un lato che in primavera era di un verde così vivido che ricordo di aver desiderato da bambina di essere una mucca, per poter ruminare tutto il giorno tra l’erba umida, tanto sembrava succulenta. Il campo accanto alla casa dei Burgess non aveva vacche, e nemmeno un orto, solo quella lieve aria da fattoria subito fuori città. Talvolta d’estate si vedeva la signora Burgess nei cortile davanti, che trascinava un tubo per innaffiare attorno a un cespuglio; ma dato che la casa era in cima a una collina la sua figura sembrava sempre minuscola e lontana, e lei non rispondeva mai al gesto di saluto di mio padre quando passavamo in macchina; immagino che fosse perché non lo vedeva.

La gente è convinta che le città di provincia siano tutto un ribollire di pettegolezzi, ma quando io ero bambina di rado sentivo gli adulti parlare delle altre famiglie, e la situazione dei Burgess fu assimilata come qualunque altra tragedia, come quella della povera Bunny Fogg, che era caduta dalle scale della cantina ed era rimasta lì tre giorni prima che la trovassero, o la signora Hammond, che si era ammalata di tumore al cervello proprio quando i suoi figli erano andati al college, o Annie Day, la pazza che a quasi vent’anni si tirava su il vestito di fronte ai ragazzi e ancora andava al liceo. Erano i bambini, e in particolare noi più piccoli, a comportarsi da pettegoli e da villani. I grandi erano molto severi quando ci punivano, e se un bambino in cortile si faceva sentire mentre diceva che Bobby Burgess «era quello che aveva ammazzato suo padre», oppure «quello che andava dal dottore dei matti», lo mandavano dal preside, telefonavano ai genitori e gli sequestravano la merenda durante l’intervallo. Non succedeva spesso.

Jim Burgess aveva dieci anni più di me, e la differenza di età lo faceva sembrare lontano, quasi fosse una celebrità; e in un certo senso lo era, già allora. Giocava a football ed era capoclasse. Aveva davvero un bell’aspetto con quei capelli scuri, ma era anche molto serio: mi ricordo che i suoi occhi non sorridevano mai. Bobby e Susan erano più giovani e ogni tanto facevano da babysitter a me e alle mie sorelle. Susan non ci prestava molta attenzione, però un giorno decise che stavamo ridendo di lei e ci tolse i biscotti a forma di animali che mia madre lasciava per noi quando usciva con mio padre. Una delle mie sorelle si chiuse in bagno per protesta e Susan le gridò che avrebbe chiamato la polizia. Poi non ricordo più cosa accadde, a parte il fatto che la polizia non venne, e al suo ritorno mia madre rimase sorpresa nel vedere che i biscotti erano ancora al loro posto. Qualche volta era Bobby a farci da babysitter e ci portava a turno in spalla. Capivi di essere aggrappata a una persona buona e gentile, perché continuava a girare la testa e a chiederti: «Tutto bene? Stai comoda?». Una volta una delle mie sorelle inciampò mentre correva nel vialetto e si sbucciò un ginocchio. Ci accorgemmo subito che Bobby ci era rimasto malissimo. La sua mano enorme lavò la ferita. «Ma che bambina coraggiosa! Vedrai che non ti sei fatta niente».

Da adulte le mie sorelle si trasferirono nel Massachusetts. Io invece andai a New York e i miei genitori non ne furono contenti: era il tradimento di una discendenza del New England che risaliva al 1600. I miei antenati erano stati un branco di attaccabrighe e ne avevano sopportate di tutti i colori, mi disse mio padre, ma non avevano mai messo piede nella fogna di New York. Sposai un newyorkese, un ebreo affabile e benestante, e questo esasperò la situazione. I miei genitori non venivano spesso a trovarci. Immagino che la città li spaventasse. Credo che mio marito ai loro occhi sembrasse uno straniero e che anche questo li spaventasse. E credo che pure i miei figli li spaventassero. Probabilmente li consideravano spavaldi e viziati, con le stanze perennemente in disordine, piene di giocattoli di plastica, e in seguito con il piercing al naso e i capelli blu e viola. E così quelli furono anni di rancore tra noi.

Ma quando mio marito morì nello stesso anno in cui il mio figlio più piccolo se ne andò al college, mia madre, che era a sua volta rimasta vedova l’anno precedente, venne a New York ad accarezzarmi la fronte, come faceva quando ero bambina e avevo l’influenza, e mi disse che le dispiaceva tanto che avessi perso padre e marito in un così breve arco di tempo. «Che cosa posso fare per te?».

Ero sdraiata sul divano. «Raccontami una storia», le risposi.

Lei si sedette sulla sedia accanto alla finestra. «Be’, vediamo un po’. Il marito di Susan Burgess l’ha lasciata e si è trasferito in Svezia; immagino che sentisse il richiamo dei suoi antenati, chissà. Te lo ricordi, veniva da New Sweden, una minuscola cittadina nel Nord, e si era spostato più a sud per andare all’università. Susan abita sempre a Shirley Falls, con il figlio».

«È ancora carina?», chiesi.

«Neanche un po’».

E così cominciò. Come un’acchiapparella che collegava mia madre a me, e me a Shirley Falls, frammenti di pettegolezzi, notizie e ricordi sulle vite dei ragazzi Burgess ci aiutavano. Raccontavamo e ripetevamo. Riferii nuovamente a mia madre di quella volta che avevo incontrato Helen Burgess, la moglie di Jim, all’epoca in cui abitavo vicino a loro nel quartiere di Park Slope, a Brooklyn: i Burgess si erano trasferiti lì da Hartford dopo il processo Packer e Jim aveva accettato un lavoro presso un grande studio legale di Manhattan.

Una sera io e mio marito ci ritrovammo a cena seduti vicino a Helen e a un suo amico in un caffè di Park Slope e, andando via, ci fermammo al loro tavolo. Avevo bevuto un po’ di vino - immagino sia stato per questo che mi fermai - e le dissi che venivo dalla stessa città in cui era cresciuto Jim. Sul volto di Helen accadde qualcosa che mi rimase impresso. Una rapida espressione di paura sembrò attraversarlo. Mi chiese come mi chiamavo e glielo dissi; poi aggiunse che Jim non le aveva mai fatto il mio nome. No, in realtà ero più giovane di lui, le spiegai. Lei sistemò il tovagliolo, scuotendolo appena, e rispose: «Sono anni che non vado lassù. Sono contenta di averti incontrata. Arrivederci».

Mia madre era convinta che quella sera Helen avrebbe anche potuto comportarsi in maniera più gentile. «Veniva da una famiglia ricca, non scordarlo. Probabilmente pensava di essere meglio di una del Maine». Ormai avevo imparato a non dar peso a quel genere di osservazioni; non mi infastidivo più per l’atteggiamento difensivo di mia madre e del suo Maine.

Ma dopo che il figlio di Susan Burgess fece quello che fece, e dopo che la sua storia finì sui giornali, perfino sul «New York Times», e anche in televisione, dissi a mia madre, al telefono: «Credo che scriverò la storia dei ragazzi Burgess».

«È una bella storia», approvò lei.

«La gente dirà che non è corretto scrivere di persone che conosco».

Quella sera mia madre era stanca. Sbadigliò. «Be’, in realtà non li conosci», mi rispose. «Nessuno conosce mai veramente qualcuno».



Libro primo

1

In un ventilato pomeriggio di ottobre nel quartiere di Park Slope a Brooklyn, New York, Helen Farber Burgess stava preparando i bagagli per le vacanze. Una grande valigia azzurra giaceva aperta sul letto e i vestiti scelti dal marito la sera prima erano ripiegati e impilati sulla chaise longue lì accanto. Il sole continuava a baluginare nella stanza, filtrando tra le nuvole in perenne movimento, facendo scintillare i pomelli della testiera del letto e accentuando l’azzurro della valigia. Helen camminava avanti e indietro tra lo spogliatoio (specchi enormi, carta da parati di crine di cavallo bianca, infissi neri attorno alle alte finestre) e la camera da letto, le cui porte finestre in quel momento erano chiuse, ma che quando faceva più caldo si aprivano su una veranda che dava sul giardino. Stava sperimentando quella sorta di paralisi mentale che l’assaliva ogni volta che preparava i bagagli per un viaggio, così l’improvviso squillo del telefono le diede sollievo. Quando lesse NUMERO PRIVATO sul display capì che si trattava o della moglie di un collega del marito (che lavorava in un prestigioso studio legale, i cui soci erano avvocati famosi), oppure di suo cognato Bob, il cui numero non compariva sull’elenco da anni, ma che non era affatto famoso e non lo sarebbe mai stato.

«Sono contenta che sia tu», disse Helen, estraendo una sciarpa colorata dal cassetto del comò, tenendola in mano e poi lasciandola cadere sul letto.

«Davvero?». La voce di Bob sembrava sorpresa.

«Avevo paura che fosse Dorothy». Helen si avvicinò alla finestra e guardò fuori, in giardino. Il susino si piegava al vento e le foglie gialle della dulcamara turbinavano sul prato.

«Perché non volevi che fosse Dorothy?».

«Perché ultimamente mi stanca», rispose Helen.

«Ma state andando in vacanza con loro per una settimana».

«Dieci giorni. Lo so».

Una breve pausa, poi Bob aggiunse: «Già», abbassando d’improvviso la voce in un tono di assoluta comprensione: era il suo punto di forza, pensava Helen, quella strana abilità di calarsi immediatamente nei panni di qualcun altro, per quei pochi secondi. Cosa che avrebbe dovuto fare di lui un buon marito, ma a quanto pareva non era stato così: la moglie di Bob lo aveva lasciato anni prima.

«Siamo già stati in vacanza con loro», gli ricordò Helen. «Andrà benissimo. Alan è proprio una brava persona. Noioso».

«Ed è anche il socio anziano dello studio», aggiunse Bob.

«Sì, anche». Helen pronunciò le parole in tono scherzoso. «Sarebbe stato un po’ complicato rispondere: “No, veramente questa volta preferiremmo andare da soli”.

Jim dice che in questo periodo la figlia maggiore, quella che va al liceo, sta combinando un sacco di guai e lo psicologo di famiglia ha suggerito a Dorothy e Alan di prendersi una vacanza. Non so per quale motivo uno debba “prendersi una vacanza” se la propria figlia si ficca nei guai, ma ecco cosa succede».

«Non lo so neanch’io», rispose Bob con sincerità. Poi aggiunse: «Helen, mi è appena successa una cosa».

Lei lo ascoltò, mentre piegava un paio di calzoni di lino. «Vieni da noi», lo interruppe. «Quando arriva Jim andiamo a cena al ristorante di fronte».

Dopo quella conversazione Helen ritrovò la risolutezza necessaria per fare i bagagli. La sciarpa colorata finì in valigia insieme a tre camicette di lino, tre paia di ballerine nere e la collana di corallo che Jim le aveva regalato l’anno prima. Seduta in terrazza con Dorothy davanti a un whiskey sour, in attesa che i mariti si facessero la doccia dopo una partita a golf, Helen avrebbe detto: «Bob è un tipo interessante». Magari avrebbe anche accennato all’incidente, al fatto che era stato Bob, quando aveva quattro anni, a giocare con la leva del cambio, facendo piombare la macchina addosso al padre e uccidendolo. L’uomo era sceso in fondo al vialetto, ai piedi della collina, per riparare la cassetta della posta, e aveva lasciato i tre bambini soli in macchina. Una cosa orribile. E di cui non si parlava mai. Jim gliel’aveva raccontata una volta sola in trent’anni. Ma Bob era un tipo ansioso, e a Helen piaceva proteggerlo.

«Sei davvero una santa», le avrebbe probabilmente detto Dorothy, appoggiata allo schienale della sedia, con gli occhi nascosti da un paio di enormi occhiali da sole.

Helen avrebbe scosso la testa. «Sono solo una persona che ha bisogno di sentirsi necessaria. E adesso che i ragazzi sono cresciuti…». No, non avrebbe nominato i ragazzi. Non quando la figlia degli Anglin si faceva bocciare agli esami, usciva tutte le sere e rimaneva in giro fino all’alba. Come avrebbero fatto a trascorrere dieci giorni insieme senza nominarli mai? Lo avrebbe chiesto a Jim.

Scese al piano di sotto ed entrò in cucina. «Puoi andare a casa, Ana», disse, rivolta alla domestica che stava raschiando le patate dolci con una spazzola di fibre vegetali. «Stasera mangiamo fuori».

***

Le nuvole autunnali, splendide nella loro oscurità screziata, vennero disperse dal vento, e ampie strisce di luce si riversarono sugli edifici della Settima Avenue. È qui che si trovavano i ristoranti cinesi, le cartolerie, le gioiellerie, gli alimentari con la frutta, la verdura e le file di fiori recisi. Bob Burgess li superò tutti e proseguì lungo il marciapiedi, diretto verso la casa del fratello.

Era un uomo alto, di cinquantun anni, ed ecco cosa aveva di speciale: era un tipo gradevole. Stare con lui dava la sensazione di trovarsi all’interno di un circolo intimo e ristretto. Se Bob fosse stato consapevole di questa sua caratteristica, forse la sua vita sarebbe stata diversa. Ma non lo sapeva, e il suo cuore era spesso attraversato da una vaga paura. E poi non era coerente. Il parere condiviso dai suoi amici era che magari in certe occasioni ti divertivi moltissimo con lui, ma che la volta successiva era assente. Questa cosa Bob la sapeva, perché glielo aveva fatto notare la sua ex moglie. Una volta Pam gli aveva detto che sembrava assente.

«Lo fa anche Jim», si giustificò Bob.

«Non stiamo parlando di Jim».

Fermo sul bordo del marciapiedi ad aspettare il verde del semaforo, Bob avvertì un’ondata di gratitudine per la cognata, che gli aveva detto: «Quando arriva Jim andiamo a cena al ristorante di fronte». Era Jim che voleva vedere. Quello a cui aveva assistito poco prima, seduto accanto alla finestra del suo appartamento al quarto piano, quello che aveva sentito in casa dei vicini sotto di lui lo aveva scosso, e ora, mentre attraversava la strada e superava una caffetteria dove un gruppo di ragazzi sedeva su divani immersi in una penombra cavernosa, coi volti ipnotizzati dagli schermi dei computer portatili, Bob si sentì estraniato dal paesaggio familiare che stava percorrendo. Quasi non avesse trascorso metà della sua vita a New York, amandola come una persona, quasi non avesse mai lasciato le ampie distese di erba incolta, non avesse mai conosciuto né desiderato nient’altro che i cupi cieli del New England.

«Ha appena telefonato tua sorella», gli disse Helen, aprendogli il cancello ai piedi degli scalini d’ingresso del suo brownstone1. «Voleva parlare con Jim, mi è sembrata di malumore». Appese il cappotto di Bob nel guardaroba, si voltò e aggiunse: «Sì, lo so. È solo il suo tono di voce. Però, dico io, Susan mi ha sorriso una volta sola». Sedette sul divano, piegando sotto di sé le gambe fasciate nei collant neri. «Stavo cercando di imitare l’accento del Maine».

Bob si piazzò sulla sedia a dondolo. Le sue ginocchia si muovevano su e giù.

«Nessuno dovrebbe cercare di imitare l’accento del Maine di fronte a un abitante del Maine», continuò Helen. «Non so per quale motivo quelli del Sud siano più tolleranti su questo, però è così. Se provi a imitarli non ti danno la sensazione di riderti dietro. Bobby, come sei teso». Si allungò verso di lui, agitando una mano nell’aria. «Va bene. Puoi essere teso quanto ti pare, purché tu stia bene. Stai bene?».

La gentilezza aveva reso Bob debole per tutta la vita e in quel momento l’avvertì come una sensazione fisica, come se un fluido gli si stesse agitando nel petto. «Non proprio», ammise. «Però hai ragione sulla storia dell’accento del Maine. Anch’io m’infastidisco quando mi dicono: “Ehi, sei del Maine, non ci arrivereeei meeei!”».

«Lo so», fece Helen. «Adesso dimmi cos’è successo».

«Adriana e il fighetto hanno litigato un’altra volta».

«Aspetta», lo interruppe Helen. «Ah, già. La coppia che abita sotto di te. Hanno quello stupido cagnolino che non fa altro che abbaiare».

«Sì, loro».

«Va’ avanti», disse Helen, compiaciuta per aver ricordato quel dettaglio. «Aspetta un attimo. Devo proprio raccontarti cos’ho visto ieri sera al telegiornale. C’era un programma intitolato Ai veri uomini piacciono i cani piccoli. Hanno intervistato una serie di tizi, con l’aria un po’ da… scusa… frocetti, che tenevano in braccio questi cagnolini microscopici, con addosso degli impermeabili scozzesi e degli stivaletti di gomma, e io ho pensato: e questa sarebbe una notizia? C’è una guerra in corso in Iraq da quasi quattro anni, e questa la chiamano una notizia? È perché non hanno figli. È per questo che la gente veste i cani in quel modo. Oh, scusami tanto, Bob. Va’ avanti con la tua storia».

Helen prese un cuscino e lo accarezzò. Le si era arrossato il viso e Bob pensò che avesse una vampata di calore, perciò abbassò lo sguardo e iniziò a fissarsi le mani, per lasciarle un momento di intimità, senza rendersi conto che Helen era arrossita perché aveva parlato della gente che non aveva figli, proprio come Bob.

«Litigano», riprese Bob. «E quando succede, il fighetto, voglio dire, il marito, perché sono sposati, urla sempre la stessa frase. “Adriana, mi stai facendo impazzire, cazzo!”. All’infinito».

Helen scosse la testa. «Immagina come dev’essere vivere così. Vuoi un drink?». Si alzò, si avvicinò al mobile di mogano e versò del whiskey in un bicchiere di cristallo. Era una donna piccola di statura, dalle forme ancora armoniose sotto la gonna nera e il golfino beige.

Bob bevve metà del whiskey in un sorso. «Cioè», continuò e notò sul volto di Helen una nota di disappunto. Detestava quando lui diceva “cioè”, ma Bob se ne dimenticava sempre, e se n’era dimenticato anche in quel momento, limitandosi ad avvertire un presagio di fallimento. Non sarebbe stato capace di esprimere la tristezza di ciò che aveva visto. «Lei arriva a casa e cominciano a litigare. Lui le urla quella frase e poi porta fuori il cane. Ma questa volta, quando è uscito, lei ha chiamato la polizia. Non l’aveva mai fatto prima. Quando è tornato lo hanno arrestato. Ho sentito i poliziotti dirgli che la moglie aveva dichiarato che lui l’aveva picchiata e che le aveva buttato i vestiti giù dalla finestra. Per cui l’hanno arrestato. E lui era incredulo».

Helen aveva la faccia di una persona che non sapeva cosa dire.

«Questo tizio di bell’aspetto, molto elegante nel suo maglione con la zip, era lì che gridava: “Tesoro, non ti ho mai picchiata, siamo sposati da sette anni, cos’hai fatto? Tesoro, ti prego!”. Ma l’hanno ammanettato comunque e l’hanno portato giù in strada, in pieno giorno, fino all’auto di pattuglia. E adesso passerà la notte in galera». Bob si alzò dalla sedia a dondolo, si avvicinò al mobile e si versò dell’altro whiskey.

«È una storia molto triste», rispose Helen, delusa. Aveva sperato in qualcosa di più drammatico. «Ma avrebbe potuto pensarci prima. Prima di picchiarla».

«Non credo che l’abbia fatto». Bob tornò a sedersi sulla sedia a dondolo.

«Mi domando se continueranno a restare insieme», disse Helen, in tono riflessivo.

«Io non credo». Ora Bob si sentiva stanco.

«Che cosa ti ha turbato di più, Bobby?», gli chiese. «La fine di quel matrimonio, oppure l’arresto?». L’espressione sul viso di lui indicava che non aveva trovato sollievo, e questo la infastidiva come un fatto personale.

Bob si dondolò due o tre volte. «Tutto». Schioccò le dita. «È successo così, di colpo. Voglio dire, era una giornata come tutte le altre, Helen».

Helen sprimacciò il cuscino contro lo schienale del divano. «Se fai arrestare tuo marito, non so proprio come si possa definirla una giornata come tutte le altre».

Bob voltò la testa; oltre la grata della finestra scorse Jim avanzare sul marciapiedi, e a quella vista fu invaso da una lieve ondata di ansia: l’andatura spedita del fratello maggiore, il lungo cappotto, la spessa valigetta di cuoio. Si udì il rumore della chiave nella serratura.

«Ciao, tesoro», disse Helen. «C’è tuo fratello».

«Lo vedo». Jim si scrollò dalle spalle il cappotto e lo appese nel guardaroba dell’ingresso. Bob non aveva mai imparato ad appenderlo. «Cosa c’è che non va in te?», gli chiedeva Pam, sua moglie. «Cosa c’è, cosa c’è, cosa c’è?». Cosa c’era? Bob non lo sapeva. Ma ogni volta che varcava una porta, a meno che qualcuno non gli prendesse il cappotto, l’atto di appenderlo gli sembrava inutile e… be’, troppo difficile.

«Adesso vado», disse. «Ho una relazione da scrivere». Bob lavorava nella sezione processi d’appello della Legal Aid Society. Rileggeva le trascrizioni dei verbali dei processi di primo grado. C’era sempre un appello che richiedeva una relazione e sempre una relazione da stendere.

«Non essere sciocco», disse Helen. «Ti ho detto che andremo a cena qua di fronte».

«Via dalla mia sedia, cretino». Jim agitò una mano verso Bob. «Sono contento di vederti. Quanto tempo è passato? Quattro giorni?».

«Smettila, Jim. Oggi pomeriggio tuo fratello ha visto portar via in manette il vicino del piano di sotto».

«Guai nel dormitorio dell’università?».

«Jim, ti ho detto di smetterla».

«Mio fratello si sta solo comportando come al solito», fece Bob. Si spostò sul divano e Jim si accomodò sulla sedia a dondolo.

«Sentiamo». Jim incrociò le braccia. Era un uomo robusto, muscoloso, perciò quel gesto ricorrente lo faceva sembrare prepotente, ostile. Ascoltò senza muoversi. Poi si chinò per slacciarsi le scarpe. «Davvero le ha buttato i vestiti fuori dalla finestra?», chiese.

«Io non ho visto niente», rispose Bob.

«Le famiglie», replicò Jim. «Senza di loro il diritto penale perderebbe metà del suo giro d’affari. Helen, ti rendi conto che potresti chiamare la polizia adesso, accusarmi di averti picchiata, e loro mi arresterebbero e mi tratterrebbero per una notte?».

«Non ho intenzione di denunciarti alla polizia». Helen pronunciò quella frase in tono disinvolto. Si alzò e si sistemò la gonna in vita. «Ma se vuoi cambiarti, sbrigati. Ho fame».

Bob si chinò in avanti. «Jimmy, questa cosa mi ha sconvolto. Il fatto dell’arresto. Non so perché, però è così».

«Cresci», disse Jim. «Per la miseria. Cosa vuoi che faccia?». Si sfilò una scarpa e si massaggiò il piede. Poi aggiunse: «Se vuoi, faccio una telefonata stasera, per assicurarmi che stia bene. Il fighetto bianco in galera».

Proprio mentre Bob chiedeva: «Ti dispiacerebbe farlo, Jim?», nella stanza accanto squillò il telefono.

«Sarà tua sorella», commentò Helen. «Aveva già chiamato prima».

«Dille che non ci sono, Hellie». Jim si tolse il calzino e lo lanciò sul parquet. «Quand’è stata l’ultima volta che hai parlato con Susan?», domandò al fratello sfilandosi l’altra scarpa.

«Mesi fa», rispose Bob. «Te l’ho detto. Abbiamo litigato sui somali».

«Ma cosa diavolo ci fanno dei somalesi nel Maine?», chiese Helen, mentre si avviava verso la porta che dava sulla stanza accanto. Si voltò e aggiunse: «E per quale motivo qualcuno dovrebbe andare a Shirley Falls, se non in catene?».

Bob rimaneva sempre sorpreso quando Helen diceva così, come se la sua antipatia per il luogo di nascita dei Burgess non richiedesse neppure un briciolo di discrezione. Eppure Jim rispose: «Ma loro sono in catene. La povertà è una catena». Lanciò il secondo calzino verso il primo, facendolo atterrare su un angolo del tavolinetto dove restò a penzoloni.

«Susan ha detto che i somali stanno invadendo la città», continuò Bob. «Arrivano a frotte. Ha detto che tre anni fa c’era solo qualche famiglia mentre adesso sono duemila, e ogni volta che si guarda intorno ne vede scendere quaranta da un pullman. Le ho detto che si stava comportando da isterica e mi ha risposto che le donne vengono sempre accusate di comportarsi da isteriche e che riguardo ai somali non sapevo quello che dicevo, perché è una vita che non vado laggiù».

«Jim». Helen tornò in soggiorno. «Susan ti vuole parlare assolutamente. È sconvolta. Non ho potuto mentire. Le ho detto che eri appena arrivato. Scusami, tesoro».

Jim le accarezzò la spalla mentre usciva dal soggiorno. «Va bene».

Helen si chinò a raccogliere i calzini, e quel gesto spinse Bob a chiedersi se Pam non si sarebbe arrabbiata un po’ meno per i suoi, di calzini, se lui avesse almeno appeso il cappotto, come aveva fatto Jim.

Dopo un lungo silenzio sentirono Jim fare domande, a bassa voce. Non riuscivano a distinguere le parole. Seguirono un’altra lunga pausa, altre domande pronunciate a bassa voce, alcune osservazioni. E ancora non riuscirono a comprendere molto.

Helen si toccò il piccolo orecchino e sospirò. «Bevi un altro whiskey. Sembra che sarà una cosa lunga». Ma non riuscirono a rilassarsi. Bob si appoggiò allo schienale del divano e sbirciò fuori dalla finestra, osservando la gente che tornava a casa dal lavoro. Abitava a soli sei isolati di distanza, dall’altra parte della Settima Avenue, ma in questo isolato nessuno avrebbe fatto una battuta sui dormitori dell’università. In questo isolato abitavano solo persone adulte. In questo isolato c’erano banchieri, medici e giornalisti, che andavano in giro con una ventiquattrore e una stupefacente varietà di valigette nere, specialmente le donne. In questo quartiere i marciapiedi erano puliti e nei giardinetti davanti agli ingressi delle case la gente piantava siepi fiorite.

Appena sentirono Jim riagganciare Helen e Bob girarono la testa.

Jim si fermò sulla soglia del soggiorno, con la cravatta rossa allentata. «Non possiamo partire», disse. Helen raddrizzò la schiena. Jim si sfilò con violenza la cravatta e disse a Bob: «Nostro nipote sta per essere arrestato». Aveva il volto pallido, gli occhi si erano rimpiccioliti. Sedette sul divano e si prese la testa tra le mani. «Oddio. Potrebbe finire sui giornali. Il nipote di Jim Burgess accusato…».

«Ha ucciso qualcuno?», domandò Bob.

Jim alzò gli occhi. «Cosa c’è che non va in te?», chiese, proprio mentre Helen aggiungeva, cauta: «Magari una prostituta?».

Jim scosse bruscamente la testa, come se avesse dell’acqua nelle orecchie. Guardò Bob e rispose: «No, non ha ucciso nessuno». Guardò Helen e aggiunse: «No, la persona che non ha ucciso non era una prostituta». Poi alzò gli occhi al soffitto, li chiuse e disse: «Nostro nipote, Zachary Olson, ha lanciato una testa di maiale surgelata oltre la porta d’ingresso di una moschea. Durante la preghiera. Durante il Ramadan. Susan dice che Zach non sa nemmeno cosa sia il Ramadan, il che è perfettamente credibile, dato che nemmeno lei lo sapeva finché non l’ha letto sui giornali. La testa di maiale era piena di sangue che si stava sciogliendo. Ha macchiato il tappeto, e non hanno i soldi per comprarne uno nuovo. Dovranno pulirlo sette volte, così dice la legge divina. Ecco cos’èsuccesso, ragazzi».

Helen guardò Bob. Il suo volto si riempì di sgomento. «E per quale motivo una cosa del genere dovrebbe finire sui giornali, Jim?», chiese infine, a bassa voce.

«Lo capisci?», domandò Jim, a voce altrettanto bassa, voltandosi verso di lei. «È un crimine d’odio, Helen. È come se tu andassi a Borough Park, entrassi in una sinagoga di ebrei ortodossi e costringessi tutti a mangiare un arrosto di maiale al latte, prima di lasciarli uscire».

«Capisco», disse Helen. «È solo che non lo sapevo. Non sapevo questa cosa dei musulmani».

«Hanno intenzione di perseguire il crimine d’odio?», chiese Bob.

«Hanno intenzione di darci dentro, con tutto quello che hanno. Hanno già coinvolto l’FBI. L’ufficio del procuratore generale potrebbe intervenire e presentare un’accusa di violazione dei diritti civili. Susan ha detto che la notizia è stata data da un telegiornale nazionale, ma in questo momento è talmente sconvolta che è difficile capire se sia vero. A quanto pare un giornalista della CNN si trovava per caso in città, ha sentito la notizia sulle reti locali, si è innamorato della storia e l’ha diffusa a livello nazionale. Com’è possibile che qualcuno si trovi per caso a Shirley Falls?». Jim raccolse il telecomando, lo puntò verso lo schermo della TV e poi lo lasciò cadere accanto a sé sul divano. «Non voglio questa cosa in questo momento. Per la miseria, non la voglio». Si passò le mani sul viso, tra i capelli.

«Lo hanno trattenuto?», chiese Bob.

«Non l’hanno arrestato. Non sanno che è stato lui. Stanno cercando un giovane delinquente e si dà il caso che sia proprio quel piccolo idiota diciannovenne di Zach, il figlio di Susan».

«Quand’è successo?», chiese Bob.

«Due sere fa. Secondo Zach, il che significa secondo Susan, ha agito da solo, voleva fare uno “scherzo”».

«Uno scherzo?».

«Uno scherzo. No, scusa, uno “stupido scherzo”. Sto solo riferendo le parole di Susan, Bob. Scappa, e nessuno lo vede. Almeno in apparenza. Poi sente la notizia al telegiornale, si spaventa e quando Susan rientra dal lavoro le racconta tutto. Naturalmente Susan è uscita di testa. Le ho detto di portarlo subito alla polizia, che non è necessario che Zach rilasci una dichiarazione, però lei è troppo spaventata. Ha paura che gli faranno passare la notte in cella. Ha detto che non farà niente finché non arriverò io». Jim si lasciò andare contro lo schienale del divano, ma si raddrizzò immediatamente. «Mio Dio. Merda». Si alzò di scatto e cominciò a camminare avanti e indietro davanti alle finestre. «Il capo della polizia è Gerry O’Hare. Non ho mai sentito parlare di lui. Susan mi ha detto che al liceo uscivano insieme».

«L’ha mollata dopo soli due appuntamenti», commentò Bob.

«Bene. Forse allora sarà gentile con lei. Susan mi ha detto che magari lo chiamerà domattina e gli dirà che porterà Zach da lui appena arrivo io». Jim allungò una mano e diede un colpo al bracciolo del divano mentre gli passava accanto. Poi tornò a sedersi sulla sedia a dondolo.

«Gli ha trovato un avvocato?», chiese Bob.

«Sono io che devo trovarglielo».

«Non conosci nessuno nell’ufficio del procuratore generale?», domandò Helen. Si tolse un pelucco dai collant neri. «Dubito che lassù ci sia un grande avvicendamento di personale».

«Conosco il procuratore generale in persona», rispose Jim ad alta voce, dondolandosi avanti e indietro, con le mani strette attorno ai braccioli della sedia. «Eravamo tutti e due avvocati dell’accusa, anni fa. L’hai conosciuto anche tu, Helen, a un party di Natale. Si chiama Dick Hartley. Mi avevi detto che secondo te era un imbecille, e avevi ragione. No, non posso contattarlo, accidenti. Sta ficcando il naso in questo caso. Sarebbe un conflitto lampante. Nonché un suicidio strategico. Jim Burgess non può buttarsi dentro questa storia a rotta di collo, per Dio». Helen e Bob si scambiarono un’occhiata. Un attimo dopo Jim smise di dondolarsi e guardò Bob. «Ucciso una prostituta? Ma come ti è venuto in mente?».

Bob alzò una mano in un gesto di scusa. «Zach è un bel mistero, volevo dire solo questo. Sempre così silenzioso».

«Zach è solo un imbecille». Jim sollevò lo sguardo verso Helen. «Tesoro, mi dispiace».

«Sono io quella che ha pronunciato la parola “prostituta”», gli ricordò Helen. «Perciò non ti arrabbiare con Bob, anche perché ha ragione. Lo sai, Zach è sempre stato diverso dagli altri e, detto francamente, questo è proprio il genere di cose che succedono nel Maine: un tipo tranquillo che vive con la madre ammazza prostitute e le seppellisce in un campo di patate. E dato che Zach non l’ha fatto, non riesco a capire per quale motivo dovremmo rinunciare alla vacanza, proprio non lo capisco». Helen incrociò le gambe e si strinse le ginocchia con le mani. «Non capisco nemmeno per quale motivo si debba costituire. Trovagli un avvocato del Maine e lascia che ci pensi lui».

«Hellie, capisco che sei sconvolta», le rispose Jim, paziente. «Ma Susan è in uno stato pietoso. E comunque lo troverò, un avvocato del Maine. Però Zach si deve costituire perché…». Qui Jim fece una pausa e lasciò correre lo sguardo lungo la stanza. «Perché è stato lui. Questo è il primo motivo. E l’altro primo motivo è che se va subito da loro e gli dice: “Oh, sono stato proprio un imbecille”, probabilmente avranno la mano più leggera. Ma i Burgess non scappano. Non è questo che siamo. Noi non ci nascondiamo».

«Va bene», disse Helen. «D’accordo».

«Ho continuato a ripetere a Susan: lo incrimineranno, fisseranno la cauzione e poi lo rimanderanno dritto a casa. È un reato minore. Ma lei lo deve portare alla polizia. Gli sbirri sono sotto pressione per via di tutta l’attenzione dei media». Jim allargò le mani come se stesse stringendo di fronte a sé un pallone da basket. «La prima cosa da fare, subito, è contenere le notizie».

«Ci vado io», disse Bob.

«Tu?», fece Jim. «Il signor “ho paura di volare”?».

«Prenderò la tua macchina. Partirò domattina presto. Voi due andate pure dove volete. Dov’è che andate?».

«A Saint Kitts», rispose Helen. «Jim, perché non lasci che ci vada Bob?».

«Perché…». Jim chiuse gli occhi e chinò la testa.

«Perché non sono capace di affrontare la situazione? È vero che lei preferisce te, però sul serio, Jimmy, ci vado io. Lo faccio volentieri». Bob avvertì un’improvvisa sensazione di ubriachezza, come se il whiskey che aveva bevuto prima iniziasse a fargli effetto.

Jim tenne gli occhi chiusi.

«Jim», disse Helen. «Hai bisogno di questa vacanza. Hai lavorato davvero troppo nell’ultimo periodo». Al suono di quel tono di urgenza nella voce di lei, Bob si sentì stringere il cuore da un’improvvisa solitudine: il legame tra Helen e Jim era forte e non doveva essere messo a repentaglio dalle richieste di una cognata che Helen, dopo tutti quegli anni, conosceva appena.

«Va bene», disse Jim. Alzò la testa e guardò Bob. «Ci vai tu. D’accordo».

Bob, seduto accanto al fratello, gli posò un braccio sulle spalle. «Siamo proprio una famiglia incasinata, vero, Jimmy?».

«Piantala», fece lui. «La smetti? Cristo onnipotente».

Bob tornò a casa lungo le strade buie. Quando fu vicino al palazzo dove abitava, dal marciapiedi vide che nell’appartamento sotto il suo il televisore era acceso.

Riusciva a malapena a distinguere il profilo di Adriana, seduta da sola davanti allo schermo. Possibile che non avesse nessuno con cui passare la serata? Avrebbe potuto bussare alla porta, chiederle se stava bene. Ma immaginò se stesso, l’uomo grande e grosso dai capelli grigi che abitava al piano di sopra, fermo sulla porta della casa di lei, e pensò che lei non avrebbe voluto questo. Salì le scale fino al suo appartamento, lasciò cadere a terra il cappotto e prese il telefono.

«Susie», disse. «Sono io».

Erano gemelli.

Jim aveva avuto il suo nome fin dall’inizio, ma Susie e Bob erano “i gemelli”. «Va’ a cercare i gemelli. Di’ ai gemelli di venire a mangiare. I gemelli hanno la varicella, i gemelli non riescono a dormire. Tra gemelli esiste un legame speciale». Il gesto delle dita incrociate. «Sono così».

«Uccidilo», stava dicendo ora Susan, al telefono. «Appendilo per le unghie dei piedi».

«Susan, calmati. È tuo figlio». Bob aveva acceso la lampada da tavolo ed era rimasto in piedi a fissare la strada.

«Sto parlando del rabbino. E di quella lesbicona del ministro del culto della Chiesa Unitariana. Hanno rilasciato una dichiarazione. “Questo gesto ha danneggiato non solo la città, ma l’intero Stato”. No, scusa. Volevo dire: “l’intera nazione”».

Bob si strofinò la nuca. «Allora, Susan. Perché Zach l’ha fatto?».

«Perché? Quando è stata l’ultima volta che hai cresciuto un figlio, Bob? Oh, lo so che dovrei avere un po’ di riguardo, che non dovrei parlare del tuo basso livello di spermatozoi o della loro assenza o di quel che è, e non l’ho mai fatto. Non ho mai detto una parola sul motivo per cui Pam se n’è andata, e cioè per poter fare dei figli con qualcun altro. Non riesco a credere che tu mi costringa a dire queste cose, quando sono io a essere nei guai».

Bob si allontanò dalla finestra. «Susan, hai qualcosa da prendere?».

«Tipo una pastiglia di cianuro?».

«Valium». Bob si sentì attraversare da una tristezza indicibile e s’incamminò verso la camera da letto col telefono in mano.

«Non lo prendo mai il Valium».

«Be’, è arrivato il momento di cominciare. Il tuo medico può farti la ricetta per telefono. Così stanotte riuscirai a dormire».

Susan non rispose e Bob capì che la sua tristezza era il desiderio della presenza di Jim. Perché la verità (e Jimmy lo sapeva) era che Bob non sapeva cosa fare. «Il ragazzo non è in pericolo», disse. «Nessuno gli farà del male. E nemmeno a te». Si sedette sul letto, poi si rialzò. No, non aveva proprio la minima idea di cosa fare. Quella notte non sarebbe riuscito a dormire: era certo che neppure prendendo un Valium, e ne aveva una buona scorta in casa, avrebbe chiuso occhio. Non con suo nipote nei guai, quella povera donna al piano di sotto che guardava la TV e quel fighetto bianco di suo marito in galera. E con Jimmy partito alla volta di qualche isola. Bob tornò nell’altra stanza e spense la lampada da tavolo.

«Lascia che ti chieda una cosa», stava dicendo sua sorella.

Nell’oscurità un autobus accostò al marciapiedi. Un’anziana donna nera guardava fuori dal finestrino, con un’espressione impassibile, mentre un uomo seduto in fondo muoveva la testa, forse con la musica in cuffia. Sembravano deliziosamente innocenti, e molto, molto lontani…

«Pensi che questo sia un film?», gli chiese la sorella. «Che Shirley Falls sia una città di selvaggi incivili e che i contadini si raduneranno in tribunale per chiedere la testa di Zach in cima a un bastone?».

«Di cosa stai parlando?».

«Grazie a Dio la mamma se n’è andata. Se fosse qui, morirebbe un’altra volta. Davvero». Susan stava piangendo.

«La faccenda si sgonfierà».

«Dio santo, come fai a dire una cosa simile? È in tutti i telegiornali…».

«Allora non guardarli», le disse Bob.

«Pensi che io sia matta?».

«Un po’. Almeno in questo momento».

«Questo sì che mi è di aiuto. Grazie tante. Te l’ha detto Jimmy che dentro la moschea un bambino alla vista della testa del maiale è svenuto per lo spavento? Si stava scongelando, perciò perdeva sangue. Lo so cosa stai pensando. Com’è possibile che un ragazzo infili una testa di maiale nel congelatore di sua madre senza che lei se ne accorga e poi faccia una cosa del genere? È questo che stai pensando, Bob, non negarlo. E mi fa impazzire. Proprio come hai detto tu un attimo fa».

«Susan, sei…».

«Quando hai un figlio, certe cose te le aspetti. In realtà non sai bene cosa potrebbe succedere. Pensi sempre a un incidente stradale. Alla ragazza sbagliata. Brutti voti a scuola, roba del genere. Non ti aspetti di avere a che fare con quelle moschee del cazzo, per la miseria».

«Verrò da te domani, Susan». Glielo aveva già detto appena le aveva telefonato. «Verrò con te alla polizia, insieme a Zach, e ti darò una mano a tenere sotto controllo la situazione. Non devi preoccuparti».

«Oh, certo che non mi preoccupo», rispose lei. «Buona notte».

Quanto si odiavano! Bob aprì la finestra, tirò fuori una sigaretta dal pacchetto e si versò del vino in un bicchiere per l’acqua; poi si sedette sulla sedia pieghevole di metallo accanto ai vetri. Dall’altra parte della strada, in alcuni appartamenti le luci erano accese. Proprio dentro la finestra di fronte era in corso uno spogliarello: si vedeva una ragazzina in camera da letto, che se ne andava in giro con addosso solo le mutandine. Per via della disposizione della stanza Bob non le vedeva il seno, solo la schiena nuda, ma rimase deliziato da quell’apparente disinvoltura. Eccola lì, come un campo ricoperto di fiordalisi a giugno.

Due finestre più in là c’era la coppia che trascorreva quasi tutto il tempo nella bella cucina bianca. In quel momento l’uomo stava frugando nella credenza: sembrava lui il cuoco di casa. A Bob non piaceva cucinare. Gli piaceva mangiare ma, come aveva sottolineato Pam, i cibi che preferiva erano quelli incolori di cui erano ghiotti i bambini, tipo il purè o i maccheroni al formaggio al forno. A New York la gente adorava mangiare. Il cibo era una faccenda importante. Era come l’arte. Essere uno chef a New York era come essere una rockstar.

Si versò altro vino e si sedette di nuovo davanti alla finestra. Vabbè, come diceva la gente di questi tempi.

Potevi essere uno chef, un barbone, potevi aver divorziato un fantastiliardo di volte, a nessuno importava niente in questa città. Potevi startene davanti alla finestra a ucciderti di sigarette. Potevi spaventare a morte tua moglie e finire in galera. Era un paradiso abitare lì. Susie non l’aveva mai capito. Povera Susie.

Bob si stava ubriacando.

Sentì la porta dell’appartamento al piano di sotto che si apriva e dei passi lungo le scale. Guardò fuori dalla finestra. Adriana era ferma sotto un lampione con un guinzaglio in mano, tremante, le spalle curve e il cane minuscolo fermo accanto a lei, anche lui tremante. «Oh, poveretti», disse Bob, a bassa voce. Nessuno, pensò nell’euforia alcolica, nessuno, da nessuna parte, aveva la minima idea.

***

A sei isolati di distanza Helen giaceva accanto al marito e lo ascoltava russare. Fuori dalla finestra, contro il nero cielo notturno, vedeva gli aerei diretti verso l’aeroporto La Guardia: uno ogni tre secondi se li contavi, come avevano fatto i suoi figli da piccoli; parevano tante stelle che continuavano ad arrivare, ad arrivare. Quella sera la casa le sembrava piena di vuoto, e ripensò ai suoi bambini addormentati nelle loro camere e a quanto le era sembrato protetto, il tranquillo galleggiare della notte. Pensò a Zachary, lassù nel Maine, ma erano anni che non lo vedeva e riusciva a raffigurarsi solo un bambino pallido e magro, che somigliava a un orfano. E poi non voleva pensare a lui, a una testa di maiale congelata o alla cognata depressa, perché capiva che quell’incidente stava già producendo uno strofinio irritante contro la stoffa sottile della sua famiglia, e in quel momento avvertì i lievi morsi dell’ansia che precedono l’insonnia.

Diede un colpetto sulla spalla a Jim. «Stai russando», gli disse.

«Scusa». Riusciva a risponderle anche senza svegliarsi. Si girò.

Con gli occhi spalancati, Helen sperò che le sue piante non morissero mentre loro erano via. Ana non era particolarmente brava con le piante. Era un sesto senso, o ce l’avevi o non ce l’avevi. Una volta, anni prima di assumerla, la famiglia Burgess era andata in vacanza e le vicine di casa lesbiche avevano lasciato morire le petunie color lavanda che riempivano i vasi appesi ai davanzali delle finestre di Helen. Helen aveva curato quelle piante ogni giorno, potando i fiori avvizziti e collosi, annaffiandole, dando loro il concime; somigliavano a graziosi geyser che irrompevano fuori dalle finestre sulla parte anteriore della casa, e la gente le notava passando. Helen spiegò alle due donne che le piante da fiore in estate richiedevano un’enorme quantità di attenzione, e loro le risposero di sì, che lo sapevano. Ma poi, al ritorno dalle vacanze, Helen le aveva trovate avvizzite sugli steli! Aveva pianto. Poco dopo le donne avevano traslocato e lei ne era stata felice. Non era più stata capace di essere gentile con loro, non con sincerità, dopo che le avevano ucciso le petunie. Le due lesbiche si chiamavano Linda e Laura. Linda La Grassa e La Laura Di Linda, così le avevano soprannominate in casa Burgess.

I Burgess abitavano nell’ultima villetta di una schiera di brownstone. Alla loro sinistra c’era un alto edificio in pietra, l’unico palazzo dell’isolato. Adesso era diventato una cooperativa. Linda e Laura abitavano nell’appartamento al pianoterra, ma poi avevano venduto a due funzionari di banca: Deborah So Tutto, soprannominata così per distinguerla dall’altra Debra dello stabile, quella che non sapeva tutto, e suo marito, William, un uomo così nervoso che al suo arrivo si era presentato come “Billiam”. A volte i ragazzi lo chiamavano così, ma Helen ripeteva loro che dovevano essere gentili con lui, perché anni prima era stato in Vietnam, e anche perché la moglie, Deborah So Tutto, era una tremenda rompiscatole, e Helen era convinta che fosse orribile vivere con lei. Non potevi uscire nel giardino sul retro senza che Deborah So Tutto uscisse nel suo, e in capo a due minuti ti avrebbe detto che le viole del pensiero che tu stavi sistemando non sarebbero durate su quel lato del giardino, che i gigli avrebbero avuto bisogno di più luce e i cespugli di lillà che avevi piantato sarebbero morti (com’era poi accaduto), perché il terreno era troppo povero di calcio.

Debra Non So Tutto, invece, era una donna molto dolce, alta e ansiosa; faceva la psichiatra, ed era un po’ svitata. Era una situazione triste: il marito la tradiva. Era stata Helen a scoprirlo. Un giorno, mentre era a casa da sola, aveva sentito attraverso le pareti una serie di terrificanti rumori di natura sessuale. Quando aveva sbirciato fuori dalla porta d’ingresso aveva visto il marito di Debra uscire sugli scalini, seguito da una donna ricciuta. Più tardi li aveva visti insieme in un bar della zona. E una volta aveva sentito Debra Non So Tutto chiedere al marito: «Perché stasera mi tormenti?». Perciò era vero che Debra Non So Tutto non sapeva tutto. Erano queste le ragioni per cui a Helen non sempre piaceva abitare in città. Jim urlava come un pazzo durante la stagione del campionato di basket. «Brutta testa di cazzo!», strillava davanti al televisore, e lei si preoccupava all’idea che i vicini potessero pensare che stava gridando contro di lei. Aveva preso in considerazione di accennare loro la cosa, con un tono divertito, ma poi aveva deciso che quando si trattava di sincerità meno si diceva e meglio era. Non che raccontasse bugie.

Però.

La sua mente continuava a turbinare. Cosa aveva dimenticato di mettere in valigia? Non voleva nemmeno immaginare di vestirsi per uscire a cena con gli Anglin e scoprire di non avere con sé le scarpe giuste, rovinando così il suo look. Sistemandosi la trapunta addosso si rese conto che la telefonata di Susan indugiava ancora dentro la casa, cupa, informe e maligna. Si alzò a sedere.

Ecco cosa succedeva quando non riuscivi a dormire e avevi in mente l’immagine della testa congelata di un maiale. Helen andò in bagno e trovò una pillola di sonnifero; la stanza era pulita e familiare. Tornata a letto, si avvicinò al marito, e dopo pochi minuti avvertì la lieve spinta del sonno, e si sentì tanto felice di non essere Deborah So Tutto, o Debra Non So Tutto, felice di essere Helen Farber Burgess, di avere dei figli, felice di essere felice della propria vita.

***

Ma che agitazione la mattina dopo!

Era uno di quei sabati in cui Park Slope si schiudeva in tutto il suo splendore: i bambini diretti al parco con il pallone da calcio dentro la sacca di rete e i padri che tenevano d’occhio i semafori e gli dicevano di affrettarsi; le giovani coppie che arrivavano nelle caffetterie dopo l’amore del mattino, con i capelli ancora umidi per la doccia; quelli che per la serata avevano in programma una cena e perciò si trovavano già nei pressi della Grand Army Plaza, in fondo al parco, a dare un’occhiata ai mercati dei contadini in cerca delle mele più belle, del pane e dei fiori recisi, con le braccia cariche di ceste e di girasoli avvolti in fogli di carta. Eppure, inframmezzate a tutto questo, si percepivano le tipiche difficoltà riscontrabili in tutto il paese, perfino in quel quartiere dove gli abitanti, per la maggior parte, davano la sensazione di trovarsi esattamente dove volevano essere. C’era la madre con la bambina che la supplicava di comprarle la Barbie per il suo compleanno, ma lei diceva di no, che le Barbie fanno diventare le bambine anoressiche. Sull’Ottava Strada c’era il patrigno depresso che si sforzava di insegnare al figliastro recalcitrante ad andare in bicicletta tenendolo per il portapacchi, mentre il piccolo, col volto pallido di paura, traballava e lo guardava con aria supplichevole, in cerca di approvazione. (La moglie dell’uomo stava finendo la chemio per un tumore al seno, perciò non c’erano vie d’uscita). Sulla Terza Strada una coppia litigava a causa del figlio adolescente, discutendo se fosse giusto permettergli di restare chiuso in camera in quella luminosa giornata autunnale. Questi segni di insoddisfazione erano dappertutto, e anche i Burgess avevano i loro problemi.

La macchina che avevano noleggiato per andare all’aeroporto non era arrivata. Avevano le valigie in strada e Helen ricevette istruzioni di restare lì, mentre Jim entrava e usciva di casa, parlando al cellulare con l’autonoleggio. Deborah So Tutto comparve sul marciapiedi e chiese dove fossero diretti in quella splendida giornata di sole, doveva essere bellissimo fare così tante vacanze. Helen fu costretta a rispondere: «Scusami, devo fare una telefonata», e tirò fuori il cellulare dalla borsetta fingendo di chiamare il figlio, il quale abitava in Arizona e a quell’ora di certo dormiva ancora profondamente. Ma Deborah So Tutto stava aspettando Billiam e Helen si ritrovò a dover simulare una conversazione telefonica, perché l’altra donna continuava a sorriderle. Finalmente comparve Billiam, e i due si allontanarono lungo il marciapiedi, tenendosi per mano, un gesto che a Helen parve da esibizionisti.

Nel frattempo Jim, che camminava avanti e indietro nell’atrio, si accorse che tutte e due le copie delle chiavi della loro macchina erano appese al portachiavi accanto alla porta: la sera prima Bob non le aveva prese! Come diavolo avrebbe fatto a guidare fino al Maine senza quelle maledette chiavi? Jim urlò la domanda a Helen mentre la raggiungeva sul marciapiedi e lei gli rispose a bassa voce che se avesse gridato così un’altra volta si sarebbe trasferita a Manhattan. Jim le fece dondolare le chiavi davanti alla faccia. «Come diavolo fa ad arrivare laggiù?», le sussurrò con ferocia.

«Se tu avessi dato a tuo fratello le chiavi di casa, non ci sarebbe stato nessun problema».

Un’auto di rappresentanza nera comparve dall’angolo e si avvicinò lentamente. Jim agitò un braccio sopra la testa, come se stesse nuotando all’indietro. Poi, finalmente, Helen si infilò nel sedile posteriore e si sistemò i capelli, mentre Jim chiamava Bob al cellulare. «Rispondi al telefono, Bob». Poi: «Cosa ti è successo? Ti sei appena svegliato? Dovresti già essere partito per il Maine. Cosa vuol dire che sei rimasto sveglio tutta la notte?». Jim si sporse in avanti e disse al conducente: «Si fermi all’angolo tra la Sesta e la Nona». Poi si appoggiò di nuovo allo schienale. «Be’, indovina un po’ cos’ho in mano? Provaci, cretino. Le chiavi della mia macchina, proprio così. Ascolta… Mi stai ascoltando? Charlie Tibbetts. L’avvocato per Zach. Ti riceverà lunedì mattina. Tanto puoi star lì fino a lunedì, non inventarti che non puoi. Al Legal Aid non gliene potrebbe fregare di meno. Charlie è fuori città per il fine settimana, ma ieri sera mi è venuto in mente il suo nome e gli ho telefonato. Dovrebbe essere l’uomo adatto. Un tipo in gamba. Tutto quel che devi fare nei prossimi due giorni è tenere sotto controllo la situazione, hai capito? Adesso scendi in strada, passeremo da te mentre andiamo all’aeroporto».

Helen premette il pulsante dell’abbassa cristalli elettrico e sporse il viso fuori, nell’aria fresca.

Jim le prese una mano. «Sarà fantastico, tesoro. Proprio come le coppie che si danno un sacco di arie nelle foto dei dépliant. Sarà bellissimo».

Bob era fermo fuori dal portone del palazzo, con addosso i calzoni di una tuta da ginnastica, una maglietta e un paio di calzini sporchi. «Ehi, cialtrone», gli gridò Jim. Gli lanciò le chiavi dal finestrino aperto e Bob le prese al volo.

«Divertitevi». Fece un unico cenno di saluto.

Helen rimase stupefatta dalla disinvoltura con cui Bob le aveva afferrate. «Buona fortuna, lassù», gli gridò.

L’auto girò l’angolo e scomparve alla vista e Bob si voltò verso casa sua. Da ragazzo era fuggito nei boschi per non guardare la macchina che portava via Jim, al college, e anche in quel momento avrebbe voluto scappare laggiù. Invece rimase fermo sul cemento spaccato vicino ai bidoni metallici della spazzatura e schegge di sole gli ferirono gli occhi mentre armeggiava con le chiavi di casa.

Anni prima, quando era appena arrivato in città, Bob andava da una psicoterapeuta di nome Eiaine. Era una donna robusta, dalle membra flaccide, e aveva la sua età di adesso, perciò allora gli era parsa molto vecchia. Bob si sdraiava di fronte alla sua benevola presenza, tormentando un buco nel bracciolo del divano di cuoio e lanciando occhiate ansiose al fico nell’angolo della stanza (una pianta che sarebbe parsa finta, se non fosse stato per il suo evidente e triste protendersi verso il minuscolo spicchio di luce che entrava dalla finestra e la sua capacità di far spuntare, nell’arco di sei anni, un’unica foglia nuova). Se in quel momento Eiaine si fosse trovata sul marciapiedi accanto a lui, gli avrebbe detto: «Bob, rimani nel presente». Perché, confusamente, Bob era consapevole di quello che gli stava accadendo mentre l’auto di suo fratello svoltava l’angolo, mentre lo abbandonava; confusamente, lo sapeva, ma (oh, povera Eiaine, ormai morta di un’orrenda malattia, eppure ci aveva provato tanto con lui, era stata così gentile) quella consapevolezza non gli serviva a nulla. La luce del sole lo mandò in frantumi.

Quando suo padre morì Bob aveva quattro anni, e di quel giorno ricordava solo il sole sul cofano dell’auto, il padre coperto da un lenzuolo e anche, per sempre, la voce infantile e accusatoria di Susan: «È tutta colpa tua, cretino».

Ora, fermo su quel marciapiedi di Brooklyn, New York, Bob rivide mentalmente suo fratello che gli lanciava le chiavi di casa, rivide la macchina scomparire, pensò al compito che lo aspettava e dentro di lui proruppe l’implorazione: «Jimmy, non andartene».

Adriana uscì dal portone.

2

Susan Olson abitava in una stretta casa su tre livelli non lontana dalla città. Dopo il divorzio, sette anni prima, aveva affittato le stanze dell’ultimo piano a un’anziana donna, la signora Drinkwater, che ormai andava e veniva con minore frequenza, non si lamentava mai della musica proveniente dalla stanza di Zach e pagava sempre l’affitto con puntualità. La sera prima del giorno in cui Zach si doveva costituire, Susan fu costretta a salire le scale, bussare alla porta dell’anziana donna e spiegarle cosa era successo. La signora Drinkwater fu sorprendentemente benevola. «Però», disse, seduta sulla sedia accanto alla piccola scrivania. Indossava una vestaglia di rayon rosa e aveva le calze abbassate appena sopra il ginocchio; i capelli grigi, puntati all’indietro con le mollette, le ricadevano però in gran parte sulle spalle. Quello era il suo aspetto abituale quando non era vestita per uscire, ovvero quasi sempre. Era sottile come un ramoscello.

«È necessario che lei lo sappia», disse Susan, sedendosi sul letto, «perché dopo quello che succederà domani è probabile che i giornalisti le vengano a chiedere che tipo è Zach».

La vecchia signora scosse lentamente la testa. «Be’, è silenzioso». Guardò Susan. Aveva enormi occhiali trifocali e, ovunque si posassero i suoi occhi, non si riusciva mai a fissarli direttamente; continuavano a vagare. «Non è mai stato maleducato con me», aggiunse.

«Non posso essere io a dirle come rispondere».

«È bello che suo fratello stia arrivando. È quello famoso?».

«No. Quello famoso è in vacanza con la moglie».

Seguì un lungo silenzio. Poi la signora Drinkwater disse: «E il padre di Zachary? Lo sa?».

«Gli ho mandato un’e-mail».

«Vive ancora in… Svezia?».

Susan annuì.

La signora Drinkwater guardò la piccola scrivania, poi la parete. «Mi domando come sia vivere in Svezia».

«Spero che riesca a prendere sonno», disse Susan. «Mi dispiace per tutto questo».

«Spero che lei riesca a dormire, mia cara. Ce l’ha un tranquillante?».

«Non ne prendo».

«Capisco».

Susan si alzò, si passò una mano sui capelli corti e si guardò intorno, come se sapesse di dover fare qualcosa ma non riuscisse a ricordare cosa.

«Buona notte, mia cara», disse la signora Drinkwater.

Susan scese al piano di sotto e bussò delicatamente alla porta di Zach. Era sdraiato sul letto, con delle enormi cuffie sulle orecchie. Susan si diede un colpetto sulle sue, per fargli capire di togliersele. Il portatile del figlio era posato sul letto, accanto a lui. «Hai paura?», gli chiese.

Lui annuì.

La stanza era quasi completamente buia. Era accesa solo una piccola lampada, sopra uno scaffale su cui erano ammassate pile di riviste. Sotto c’erano pochi libri sparsi. Gli scuri erano chiusi e le pareti, dipinte di nero qualche anno prima (un giorno Susan era tornata a casa dal lavoro e le aveva trovate così), erano prive di poster e fotografie.

«Hai avuto notizie da tuo padre?».

«No». Zach aveva la voce rauca e profonda.

«Gli ho chiesto di scriverti».

«Non voglio che tu glielo chieda».

«È tuo padre».

«Non dovrebbe scrivermi solo perché glielo chiedi tu».

Dopo una lunga pausa Susan rispose: «Cerca di dormire un po’».

Il giorno dopo, a mezzogiorno, preparò a Zach una zuppa di pomodoro in scatola e un sandwich tostato al formaggio. Lui chinò la testa sulla scodella e mangiò metà del sandwich con le mani dalle dita sottili, poi allontanò il piatto. Quando alzò gli occhi scuri verso di lei, per un attimo Susan rivide il bambino che era stato, prima che la sua goffaggine nei rapporti sociali si rivelasse appieno, prima che la sua inettitudine in qualunque sport lo ostacolasse inesorabilmente, prima che il suo naso si facesse adulto e spigoloso e le sopracciglia si trasformassero in un’unica linea scura; all’epoca in cui era sembrato solo un bambino timido e molto obbediente. Era sempre stato schizzinoso sul cibo.

«Va’ a farti la doccia», gli disse. «E mettiti dei vestiti decenti».

«Quali vestiti decenti?», le chiese lui.

«Una camicia, invece della maglietta. E niente jeans».

«Niente jeans?». Il tono non era di sfida, ma di preoccupazione.

«Va bene. Jeans, ma senza buchi».

Susan prese il telefono e chiamò la stazione di polizia. Gerry O’Hare c’era. Fu costretta a ripetere per tre volte il proprio nome prima che glielo passassero. Si era scritta quello che doveva dire. Aveva la bocca così secca che le labbra si erano appiccicate e dovette muoverle di più per far uscire le parole.

«Arrivo subito», concluse, alzando gli occhi dal foglio su cui aveva scritto il suo discorso. «Sto solo aspettando Bob». Riusciva a immaginare la grande mano di Gerry stretta attorno al telefono, il suo volto inespressivo. Aveva messo su parecchio peso nel corso degli anni. A volte, non molto spesso, entrava nel negozio di ottica del centro commerciale sull’altra riva del fiume dove lavorava Susan e restava lì ad aspettare che gli sistemassero gli occhiali. La salutò con un cenno del capo. Non fu né accomodante, né sgradevole; proprio come lei si era aspettata.

«Accidenti, Susan. Per come la vedo io, abbiamo un bel problema». La sua voce al telefono era stanca, professionale. «Una volta scoperto chi è stato, farei molto male a non mandare qualcuno a prenderlo. Mi farei parecchia pubblicità».

«Gerry», rispose Susan. «Per l’amor del cielo. Per favore, non mandare una macchina della polizia. Ti prego, non farlo».

«Ecco come la penso. Penso che questa conversazione non è mai avvenuta. Siamo vecchi amici. Ecco cosa siamo. Sono certo che ti vedrò qui presto. Prima della fine della giornata. Questo è quanto».

«Grazie», rispose Susan.

***

Bob viaggiava comodamente sulla macchina del fratello, che procedeva a ritmo costante sotto di lui. Ogni tanto oltre il parabrezza vedeva cartelli che indicavano outlet, o laghi, ma per il resto davanti a lui c’erano quasi sempre gli alberi del Connecticut, che si avvicinavano, gli sibilavano accanto e poi scomparivano. Il traffico si muoveva spedito, pervaso da un senso di comunità, come se i conducenti fossero tutti degli inquilini di quell’entità in rapidissimo movimento. L’immagine di Adriana gli affiorò alla mente. «Ho paura», gli aveva detto, ferma sul portone con indosso una tuta da ginnastica marrone, i capelli schiariti dai colpi di sole che si agitavano nella brezza. Una voce gutturale che Bob non aveva mai sentito, perché lei non gli aveva mai rivolto la parola prima di allora. Senza trucco sembrava molto più giovane; aveva gli zigomi pallidi e gli occhi verdi, cerchiati di rosso, erano grandi e interrogativi. Ma aveva le unghie mangiate, e quel dettaglio gli aveva spezzato il cuore. Bob pensò che poteva quasi essere sua figlia. Per anni aveva vissuto in compagnia delle ombre dei suoi non figli, che a tratti gli comparivano davanti. All’inizio poteva essere un bambino accanto a cui passava in un parco giochi, con i capelli gialli (proprio come quelli di Bob un tempo), che giocava esitante a campana. In seguito un adolescente, maschio o femmina non aveva importanza, fermo sul marciapiedi a ridere insieme a un amico. Negli ultimi tempi uno studente di Legge che faceva praticantato nel suo ufficio a volte rivelava una sfumatura espressiva che spingeva Bob a pensare: potrebbe essere mio figlio.

Aveva chiesto ad Adriana se avesse dei parenti in città.

I suoi genitori vivevano a Bensonhurst e amministravano condomini. Aveva scosso la testa, non era molto affezionata a loro. Lavorava a Manhattan come assistente in uno studio legale. Solo che non aveva idea di come avrebbe fatto a continuare, si sentiva così… e aveva fatto un gesto circolare accanto all’orecchio. Aveva le labbra pallide. «Il lavoro ti aiuterà», le aveva risposto Bob. «Ne sarai sorpresa».

«Ma non mi sentirò sempre così?», gli aveva chiesto lei.

«Oh, no, no». (Ma Bob lo sapeva: la fine di un matrimonio era un momento folle). «Andrà tutto bene», le aveva detto. Glielo aveva ripetuto, mentre il cagnolino tremante annusava il terreno; lei gli aveva rivolto la stessa domanda molte volte. Gli aveva detto che forse avrebbe perso il lavoro; una collega stava per rientrare dopo il congedo di maternità e lo studio legale era molto piccolo. Bob le aveva dato il nominativo di quello di Jim: era più grande e avevano spesso bisogno di personale, non doveva preoccuparsi. «La vita si aggiusta da sola», aveva aggiunto. «Lo credi davvero?», gli aveva chiesto lei, e lui aveva risposto di sì.

Gli edifici dipinti di rosa di Hartford gli passarono accanto e Bob fu costretto a rallentare e concentrarsi. Il traffico stava aumentando. Superò un camion, poi un altro camion superò lui. E quando finalmente entrò nel Massachusetts, i suoi pensieri, come se stessero aspettando solo quel momento, andarono a Pam. La sua amata ex moglie, la cui intelligenza e curiosità erano uguagliate solo dalla sua convinzione di non possedere né l’una nell’altra. Pam, che Bob aveva incontrato mentre attraversava il campus dell’Università del Maine più di trent’anni prima. Veniva dal Massachusetts, figlia unica di genitori anziani che, quando Bob li incontrò per la prima volta durante la cerimonia di laurea, sembravano stremati dalla loro caotica figlia (la madre era ancora viva, costretta a letto, in una casa di riposo non lontano da quell’uscita dell’autostrada, e non riconosceva più Pam, né avrebbe riconosciuto Bob se fosse andato a trovarla, cosa che lui aveva fatto in passato). Pam, che da giovane aveva una bella figura piena: una donna intensa, confusa, dalla risata pronta, che non faceva altro che piombare da un entusiasmo all’altro. Chi avrebbe potuto dire quale fosse l’ansia che l’agitava? Ricordò una sera, lei era ubriaca e ridente, poco dopo il loro trasferimento a New York, accucciata per fare pipì tra due auto parcheggiate nel West Village. «Viva il movimento di liberazione della donna!», aveva detto, sollevando il pugno in aria. «Diritti di pisciata uguali per tutti!». Pam, che era capace di imprecare come un marinaio. La sua adorata Pam.

E poi, nel vedere il cartello d’uscita per Sturbridge, la mente di Bob tornò all’immagine di sua nonna, che gli raccontava storie dei loro antenati inglesi, arrivati nel Maine dieci generazioni prima. Bob, sulla sua seggiolina da bambino: «Raccontami la parte sugli indiani». Oh, scotennavano la gente e avevano anche rapito una bambina. L’avevano portata in Canada, e il fratello, vestito di stracci, era andato a salvarla: ci aveva messo anni, però l’aveva riportata nella loro cittadina lungo la costa. A quei tempi, diceva la nonna, le donne facevano il sapone con la cenere. Curavano il mal d’orecchie con la camomilla. Un giorno gli aveva raccontato che i ladri venivano costretti ad attraversare a piedi la città. Se un uomo rubava un pesce gli facevano fare il giro dell’abitato col bottino in mano, e doveva gridare: «Ho rubato questo pesce e vi chiedo scusa!», mentre il banditore lo seguiva suonando il tamburo.

Quella storia pose fine all’interesse di Bob per i suoi antenati. Costringere la gente a camminare per la città gridando: «Ho rubato questo pesce e vi chiedo scusa!».

No. Fine.

Ed ecco che inizia il New Hampshire, con la rivendita di alcolici di proprietà dello Stato appena fuori dal casello e le nuvole autunnali basse nel cielo. Il New Hampshire, con il suo arcaico parlamento di centinaia di persone e ancora quella targa, «VIVI IN LIBERTÀ O MUORI». Il traffico era caotico e la gente lasciava la rotatoria per dirigersi verso la folta vegetazione delle White Mountains. Bob si fermò a prendere un caffè e chiamò la sorella. «Dove sei?», gli chiese lei. «Sto uscendo di testa. Non riesco a credere che tu sia così in ritardo».

«Oy, Susan. Arrivo presto».

Il sole stava già tramontando. Tornò in macchina e si lasciò alle spalle Portsmouth, ormai tirata a lucido da anni, come molte altre città costiere; tutto quel gran fervore di rinnovamento urbano era iniziato verso la fine degli anni Settanta, quando avevano ripristinato l’acciottolato delle strade, restaurato le vecchie case, reinstallato i lampioni dei tempi andati e aperto un gran numero di negozi di candele. Ma Bob ricordava i tempi in cui Portsmouth era ancora una stanca città portuale, e un profondo brivido di nostalgia lo attraversò mentre rievocava le strade spoglie, piene di buche, le ampie finestre di un grande magazzino scomparso ormai da tempo, dove le vetrine sembravano rinnovarsi solo nel passaggio tra estate e inverno e i manichini avevano un braccio perennemente alzato in un gesto di saluto e una borsetta appesa all’altro polso, rotto; una donna senz’occhi ferma accanto a un uomo senz’occhi dall’aria felice e un tubo per innaffiare ai piedi: certo che sorridevano proprio, quei manichini. Bob se ne ricordò, perché lui e Pam si erano fermati lì durante un viaggio in pullman per Boston: Pam, con la schiena resa curva dalla lordosi, avvolta nella gonna a portafoglio.

Un milione di anni fa.

«Rimani nel presente», gli avrebbe detto Eiaine, e così ora Bob stava andando a raggiungere l’antipatica Susan. La famiglia è sempre la famiglia, e sentiva la mancanza di Jimmy. La parte più antica e profonda di Bob era tornata.

***

Sedettero su una panca di cemento nell’atrio della stazione di polizia di Shirley Falls. Gerry O’Hare aveva fatto un cenno col capo a Bob, come se l’avesse visto l’ultima volta il giorno prima, anche se in realtà erano passati anni, e poi aveva condotto Zach oltre una porta chiusa, in una stanza per gli interrogatori. Un agente aveva portato a Bob e Susan il caffè in due bicchierini di carta; lo ringraziarono e accettarono, titubanti. «Zach ha degli amici?», chiese Bob quando furono soli. Formulò la domanda a bassa voce. Erano passati più di cinque anni dall’ultima volta che era stato a Shirley Falls e la vista del nipote, alto, magro, col volto inespressivo per la paura, lo aveva allarmato. E anche quella di sua sorella. Era magra, i capelli corti e ondulati quasi completamente grigi. Non aveva proprio nulla di femminile. Il volto dai lineamenti regolari sembrava molto più vecchio di quanto Bob si aspettasse, al punto che non riusciva a credere che loro due avessero la stessa età. (Gemelli!).

«Non lo so», rispose Susan. «Lavora come commesso da Walmart, riempie gli scaffali. A volte, molto di rado, va fino a West Annett a trovare un collega di lavoro. Ma nessuno viene mai a casa nostra». Un attimo dopo aggiunse: «Pensavo che ti avrebbero fatto entrare insieme a lui».

«Non ho l’autorizzazione per esercitare qui, Susan. Ne abbiamo già parlato». Bob si guardò dietro le spalle. «Quando l’hanno costruito questo posto?». Il vecchio dipartimento di polizia di Shirley Falls si trovava all’interno del municipio, un grosso edificio ampio in fondo al parco, e Bob lo ricordava come uno spazio aperto: entravi e c’erano dei poliziotti dietro una scrivania. Quello nuovo era diverso. C’era una piccola anticamera di fronte a due finestre oscurate e furono costretti a premere una specie di campanello per ottenere che qualcuno gli prestasse attenzione. Bob si sentiva colpevole per il solo fatto di trovarsi lì.

«Cinque anni fa, credo», rispose Susan, in tono vago. «Non lo so».

«Che bisogno avevano di una nuova stazione di polizia? Questo Stato si sta spopolando, diventa sempre più povero ogni giorno che passa, eppure non fa altro che costruire scuole e edifici pubblici».

«Bob. Non me ne importa. Sinceramente. Delle tue opinioni sul Maine. E poi in realtà la popolazione di questa città sta aumentando…». Susan abbassò la voce in un sussurro. «Perché ci sono loro».

Bob bevve il caffè. Non era un granché, ma lui non era particolarmente schizzinoso in fatto di caffè, o di vino, a differenza di molta gente. «Digli che pensavi che fosse solo uno stupido scherzo e lunedì avrai il tuo avvocato. Probabilmente cercheranno di farti dire di più, ma tu non farlo». Erano state le parole di Bob a Zachary.

Il ragazzo, molto più alto dell'ultima volta in cui l’aveva visto, magro e terrorizzato, si era limitato a fissarlo.

«Hai qualche idea sul motivo per cui l’ha fatto?». Bob si sforzò di porre la domanda in tono gentile.

«Nessuna». Dopo un attimo Susan aggiunse: «Ho pensato che magari gliel’avresti chiesto tu».

Quella frase allarmò Bob. Non sapeva come comportarsi con i ragazzi. Alcuni suoi amici avevano dei figli a cui era affezionato, e amava molto quelli di Jim, ma non averne ti rendeva diverso. E non aveva idea di come spiegarlo a Susan. «Si tiene in contatto col padre?», le chiese.

«Per e-mail. Qualche volta mi sembra… be’, non felice, ma un po’ meno infelice, e credo sia per quello che gli ha scritto Steve, però lui non me ne parla. Io e Steve non ci siamo più rivolti la parola da quando se n’è andato». Le guance di Susan presero colore. «Altre volte Zach è davvero giù di corda e credo che anche questo abbia a che fare con Steve, però, davvero, non lo so, Bob, d’accordo?». Tirò energicamente su col naso e se lo pizzicò.

«Ehi, non farti prendere dal panico». Bob si guardò intorno in cerca di un tovagliolo di carta o di un fazzolettino, ma non c’era niente. «Lo sai cosa direbbe Jimmy, vero? Direbbe che nel baseball non si piange».

«Che diavolo significa, Bobby?».

«Hai presente quel film sul baseball femminile. È una pietra miliare».

Susan si chinò per appoggiare il bicchiere del caffè sul pavimento sotto la panca. «Sì, se giochi a baseball. Ma mio figlio lì dentro sta per essere arrestato».

Una porta metallica si aprì e poi si chiuse con uno schianto. Un poliziotto, basso e con una spolveratina di nei scuri sul viso giovane, entrò nella stanza. «Tutto a posto. Adesso lo portano al penitenziario. Potete seguirlo. Lo schederanno, telefoneranno al funzionario addetto alle cauzioni e poi potrete riportarlo a casa».

«Grazie», risposero in coro i gemelli.

La luce del tardo pomeriggio stava svanendo e la città pareva cupa e grigia come il crepuscolo. Mentre seguivano l’auto della polizia riuscivano a malapena a distinguere la testa di Zach, seduto sul sedile posteriore. Imboccarono il ponte che conduceva alla prigione della contea. «Dove sono tutti quanti?», chiese Bob. «È sabato pomeriggio e la città è morta».

«Sono anni che lo è». Susan si sporse in avanti mentre guidava.

Bob lanciò un’occhiata verso una via laterale e vide un uomo dalla pelle scura camminare lentamente, con le mani nelle tasche del cappotto sbottonato, che sembrava troppo grande per lui. Sotto il cappotto indossava una lunga veste bianca che gli arrivava ai piedi. Sulla testa un berretto di stoffa dalla forma più o meno quadrata. «Guarda», disse Bob.

«Cosa?». Susan gli lanciò un’occhiata tagliente.

«È uno di loro?».

«Uno di loro? Mi sembri ritardato, Bob. Dopo tutti gli anni che hai vissuto a New York, non avevi ancora visto un negro?».

«Susan, rilassati».

«Rilassarmi. Grazie tante, non ci avevo pensato». Susan si fermò in un posto libero accanto all’auto della polizia, che era entrata in un ampio parcheggio situato dietro la prigione. Intravidero Zach in manette e, quando uscì dall’auto, sembrò perdere l’equilibrio, poi l’agente lo guidò verso l’edificio.

«Siamo dietro di te, amico», gli gridò Bob, aprendo la portiera. «Ti copriamo noi!».

«Bob, piantala», disse Susan.

«Ti copriamo noi», ripeté Bob.

Di nuovo si fermarono ad aspettare in una piccola anticamera. Una volta soltanto un uomo vestito di blu uscì per avvisarli che stavano schedando Zach, gli stavano prendendo le impronte digitali, e che avevano telefonato all’addetto alle cauzioni. Ci sarebbe voluto un po’ perché arrivasse, spiegò l’uomo. Quanto? Non lo sapeva. Perciò fratello e sorella se ne rimasero seduti. C’erano un bancomat e un distributore automatico. E, di nuovo, le finestre oscurate.

«Ci stanno tenendo d’occhio?», sussurrò Susan.

«Probabile».

Avevano il cappotto ancora indosso e lo sguardo fisso davanti a sé. Alla fine Bob domandò a bassa voce: «Che altro fa Zach a parte riempire gli scaffali?».

«Vuoi sapere se va in giro in macchina a rapinare la gente? Se è un maniaco della pornografia infantile? No, Bob è solo… Zach».

Bob si strinse nel cappotto. «Pensi che abbia dei legami con qualche gruppo di skinhead? Potere bianco, cose del genere?».

Susan lo guardò sorpresa, poi strinse gli occhi. «No». Un attimo dopo, in tono più dolce, aggiunse: «Penso che in realtà non abbia un vero legame con nessuno. Ma non è quel tipo di persona, Bob».

«Volevo solo esserne sicuro. Andrà tutto bene. Probabilmente per un po’ gli assegneranno dei lavori socialmente utili. O magari dovrà frequentare una serie di incontri sul multiculturalismo».

«Pensi che sia ancora in manette? È stato terribile vederlo così».

«Lo so», disse Bob. Ripensò al suo vicino, il fighetto bianco, portato via per strada allo stesso modo, e gli parve che fosse successo anni prima. Perfino il suo colloquio mattutino con Adriana era incredibile, tanto gli sembrava lontano. «Zach non è più in manette. È solo la procedura, portarlo qui sotto scorta».

«Alcuni ministri del culto vogliono organizzare una manifestazione», disse Susan, con voce stanca.

«Una manifestazione?». Bob si strofinò le mani sulle cosce. «Oy», aggiunse.

«Potresti piantarla di dire “Oy”?», rispose Susan, infuriata. «Perché lo dici?».

«Perché lavoro per il Legai Aid da vent’anni, Susan, e ho un sacco di colleghi ebrei, e tutti dicono “Oy”, perciò lo dico anch’io».

«Be’, suona finto. Tu non sei ebreo, Bob. Sei più bianco del bianco».

«Lo so», rispose Bob.

Restarono in silenzio per qualche istante. Poi lui aggiunse: «Quand’è questa manifestazione?».

«Non ne ho la minima idea».

Bob abbassò la testa e chiuse gli occhi.

Dopo qualche minuto Susan gli chiese: «Stai pregando oppure sei morto?».

Bob aprì gli occhi. «Ti ricordi della volta in cui abbiamo portato Zach e i figli di Jim a Sturbridge Village quando erano piccoli? Quelle donne così compiaciute che ti fanno da guida, che ai giorni nostri se ne vanno in giro con quegli stupidi cappelli che gli nascondono la testa? Sono un puritano che odia se stesso».

«Tu sei un pazzoide che odia se stesso», rispose Susan. Era agitata, continuava ad allungare il collo per sbirciare oltre la finestra oscurata dell’ingresso. «Perché ci mettono tanto?».

In effetti fu una lunga attesa. Rimasero lì ad aspettare per quasi tre ore. Bob uscì una volta per fumare una sigaretta. Il cielo si era fatto buio. Quando finalmente arrivò l’addetto alle cauzioni, la stanchezza di Bob somigliava a un grande cappotto bagnato che gli pesava addosso. Susan pagò i duecento dollari in banconote da venti e Zach uscì dalla porta, col volto bianco come un foglio di carta.

Mentre si preparavano ad andare, un uomo in uniforme disse: «Fuori c’è un fotografo».

«Come può essere?», chiese Susan, con la preoccupazione che le segnava la voce.

«Non ti agitare. Vieni, ragazzo». Bob condusse Zach verso la porta. «Tuo zio Jim adora i fotografi. Diventerà geloso se gli rubi il posto come star dei media in famiglia».

E Zach, forse perché aveva trovato la battuta divertente, forse perché la tensione della giornata stava per finire, sorrise a Bob mentre usciva dalla porta. Un lampo di luce improvviso li colpì nell’aria gelida.

3

Quel primo, dolce assalto di brezza tropicale aveva toccato Helen non appena si era aperta la portiera dell’aeroplano. Mentre aspettava che i bagagli fossero caricati in macchina si sentì immersa in quell’aria. Passarono accanto a case con fiori che si riversavano fuori dalle finestre, campi da golf verdi e ben curati e, di fronte all’albergo, c’era una fontana con un dolce zampillo d’acqua che si levava verso il cielo. Sul tavolo della loro camera c’era una fruttiera piena di limoni. «Jimmy, mi sento come una sposina», disse Helen.

«Che bello». Ma Jim era distratto.

Lei incrociò le braccia, toccandosi le spalle con le mani (il loro linguaggio gestuale privato, da molti anni), e suo marito fece un passo avanti.

Durante la notte Helen aveva avuto gli incubi. Vividi, terrificanti, e aveva lottato per svegliarsi, mentre il sole filtrava attraverso lo spiraglio delle lunghe tende. Jim stava uscendo per andare a giocare a golf. «Torna a dormire», le disse, baciandola. Quando Helen si svegliò di nuovo la felicità era tornata, scintillante come il sole che ora entrava a spicchi attraverso le tende. Restò distesa a letto, sopraffatta dalla felicità, strofinando una gamba contro il lenzuolo fresco e pensando ai suoi figli, tutti e tre al college, ormai. Gli avrebbe scritto un’e-mail: Miei cari angeli, papà sta giocando a golf e la vostra vecchia madre sta per andare a prendere un po’ di sole sulle caviglie cosparse di vene blu. Dorothy è depressa, proprio come temevo: papà dice che la figlia maggiore, Jessie (te la ricordi, Emily? Non ti è mai stata simpatica), sta dando parecchi problemi. Ma ieri sera a cena nessuno dei due ne ha parlato, perciò sono stata educata e non ho calcato troppo sui miei tesori. Invece abbiamo parlato di vostro cugino Zach (il seguito alla prossima!). Mi mancate tanto tanto tanto, tutti e tre.

Dorothy era ferma accanto alla piscina a leggere, con le lunghe gambe distese su una sdraio. «’Giorno», disse, senza alzare gli occhi.

Helen ne spostò un’altra per prendere meglio il sole. «Hai dormito bene, Dorothy?». Si sedette ed estrasse dalla borsa di paglia la crema solare e un libro. «Io ho avuto gli incubi».

Passò qualche attimo prima che Dorothy alzasse gli occhi dalla rivista. «Che peccato».

Helen si spalmò la crema sulle gambe e piazzò il libro accanto a sé. «Tanto perché tu lo sappia, non devi sentirti in colpa per aver mollato il club del libro».

«Non mi sento in colpa». Dorothy posò la rivista e guardò l’azzurro scintillante della piscina. Poi aggiunse, in tono meditabondo: «Ci sono un sacco di donne a New York che non sono stupide, finché non si ritrovano insieme: allora lo diventano. È una cosa che detesto». Lanciò un’occhiata a Helen. «Scusami».

«Non scusarti», disse Helen. «Sei libera di dire quello che vuoi».

Dorothy si morse le labbra e di nuovo si mise a fissare la distesa azzurra dell’acqua. «È molto gentile da parte tua, Helen», disse infine, «ma, per mia esperienza, in realtà la gente non vuole che tutti dicano quello che vogliono».

Helen restò in attesa.

«Gli psicologi non lo vogliono», proseguì Helen, sempre con lo sguardo fisso davanti a sé. «Ho detto al nostro terapeuta di famiglia che il ragazzo di Jessie mi faceva pena, ed è vero, perché lei lo controlla completamente. Lui mi ha guardato come se fossi la peggiore madre del mondo. E io ho pensato: Cristo, se non puoi dire la verità nell’ufficio di uno strizzacervelli, allora dove? A New York allevare figli è uno sport terribilmente competitivo. Feroce e sanguinoso». Dorothy bevve un lungo sorso d’acqua dal bicchiere di plastica e chiese: «Cosa ti hanno dato da leggere questo mese?».

Helen accarezzò il libro. «L’autrice è una donna che faceva la colf e adesso ha scritto un libro su tutto quello che ha scoperto mentre curiosava nelle case degli altri». Arrossì sotto il caldo. La donna aveva trovato manette, frustini, morsetti per capezzoli e altre cose di cui Helen prima ignorava l’esistenza.

«Non leggere quelle stupidaggini», disse Dorothy. «È questo che intendevo: le donne consigliano alle donne di leggere libri stupidi, quando là fuori c’è un mondo intero. Ecco, leggi questo articolo. Ha a che fare con i problemi di tua cognata, quelli di cui parlava Jim ieri sera». Protese il lungo braccio, raccolse una pagina di giornale posata sul tavolino di plastica accanto a lei e la porse a Helen. «Anche se, come ben sai, Jim ritiene che qualunque problema in realtà sia suo».

Helen frugò nella borsa di paglia. «Be’, le cose stanno così». Distolse gli occhi dalla borsa e alzò un dito. «Jim ha lasciato il Maine». Ne alzò un altro. «Bob ha lasciato il Maine». Ne alzò un terzo. «Il marito di Susan ha lasciato sia lei che il Maine». Riprese a frugare e trovò il burro di cacao. «Perciò Jim si sente responsabile. Prova un forte senso di responsabilità». Si passò lo stick sulle labbra.

«Vuoi dire di colpa».

Helen ci pensò su. «No», rispose. «Di responsabilità».

Dorothy voltò la pagina della rivista e non rispose. E così Helen, a cui sarebbe tanto piaciuto chiacchierare, che avvertiva bolle di loquacità salire dentro di sé, si sentì costretta a prendere in mano la pagina del giornale e a leggere l’articolo che le era stato assegnato. Il sole si faceva più caldo e sul labbro superiore le si formò una striscia di sudore, nonostante continuasse a passarci sopra un dito. «Mio Dio, Dorothy», disse a un certo punto, perché l’articolo era davvero inquietante. Eppure, aveva la sensazione che, se lo avesse messo da parte, Dorothy l’avrebbe considerata una donna stupida e superficiale, che non si curava affatto del mondo al di fuori del suo. Continuò a leggere.

L’articolo parlava dei campi profughi in Kenya. Chi c’era in quei campi? I somali. E chi lo sapeva? Non Helen. Be’, adesso lo sapeva. Adesso sapeva che alcune delle persone che ora abitavano a Shirley Falls, Maine, in precedenza avevano vissuto in condizioni spaventose, quasi incredibili. Strizzò gli occhi e lesse che per raccogliere la legna per il fuoco le donne erano costrette ad allontanarsi dal campo e correvano il pericolo di essere violentate dai banditi. Ad alcune di loro era successo, e più di una volta. Molti bambini erano morti di fame tra le braccia delle madri. Quelli che sopravvivevano non andavano a scuola. Le scuole non c’erano. Gli uomini masticavano tutto il giorno una varietà di foglie (il khat) che dava euforia, e le loro mogli (potevano averne fino a quattro ciascuno) erano costrette a far sopravvivere la famiglia con il pugno di riso e le poche gocce di olio da cucina che ricevevano ogni sei settimane dalle autorità. C’erano anche delle foto, naturalmente. Donne africane alte e magre, che tenevano in equilibrio sulla testa fascine di legna ed enormi taniche piene d’acqua; teli di plastica strappati e capanne di fango; un bambino malato con la faccia piena di mosche ronzanti. «È terribile», disse Helen. Dorothy annuì e continuò a leggere la sua rivista.

Era davvero terribile, e Helen sapeva che in teoria avrebbe dovuto sentirsi malissimo. Ma non riusciva a capire per quale motivo questa gente, che aveva camminato per giorni e giorni pur di allontanarsi dal proprio paese tormentato dalla violenza, dovesse arrivare in Kenya per finire preda di una povertà così infernale. Perché nessuno si occupava del problema? Helen se lo stava chiedendo. Ma soprattutto, non voleva leggere, e questo la faceva sentire una persona malvagia, e aveva appena iniziato una bella (e costosa) vacanza, e non voleva sentirsi malvagia.

Fatuma cammina tre ore per cercare la legna. Si muove sempre insieme alle altre donne, ma sanno di non essere al sicuro. “Sicuro” è una parola che qui non viene mai pronunciata.

E poi in Helen, col caldo che le picchiava addosso e il sole che urlava sopra la piscina azzurra e scintillante, si diffuse un’improvvisa e inattesa sensazione di smisurata indifferenza. Quella perdita - perché era una perdita non godersi il caldo, la buganvillea, vedere quella mattinata dissolversi, trasformarsi nella pura e semplice attesa del ritorno di Jim dal campo di golf - quella perdita era tale che di lì a un attimo le avrebbe causato una sensazione molto vicina all’angoscia, ma poi tornò a essere ciò che era prima: indifferenza. Però aveva prodotto un danno; si agitò sulla sdraio, incrociò le caviglie, perché in quel momento di quasi angoscia le parve di aver perso perfino i suoi figli; un breve lampo del pensiero la spinse a raffigurarsi in una casa di riposo, mentre i ragazzi ormai adulti venivano a farle visita con sbrigativa sollecitudine, e lei diceva: «Tutto scorre via così in fretta», e si riferiva alla vita, naturalmente; e poi a raffigurarsi l’espressione di compassione sui loro volti, mentre aspettavano che trascorresse un intervallo di tempo sufficiente perché se ne potessero andare, risucchiati via dall’urgenza delle loro vite. Non vorranno più stare con me, pensò, mentre quel momento dal sapore molto reale le si rigirava in testa. Non ci aveva mai pensato prima di allora.

Guardò le fronde di una palma che si agitavano dolcemente.

Era solo una storiella da mogli sciocche quella che le altre donne del suo gruppo di lettura le avevano raccontato quando si angosciava al pensiero di suo figlio, l’ultimogenito, che se ne andava all’Università in Arizona. Il nido vuoto è libertà, le avevano detto. Il nido vuoto rinvigorisce le donne. Sono gli uomini che cominciano a crollare. A cinquant’anni per gli uomini la vita è dura.

Helen chiuse gli occhi contro il bagliore del sole e rivide i figli che sguazzavano nella piscina di plastica del cortile di West Hartford, la pelle umida, pura, delle braccine e delle gambine mentre sgattaiolavano dentro e fuori. Li vide adolescenti, camminare con gli amici sui marciapiedi di Park Slope; avvertì di nuovo il contatto dei corpi rannicchiati accanto a lei sul divano, nelle sere in cui la famiglia si radunava per guardare in TV i programmi preferiti.

Aprì gli occhi. «Dorothy».

Dorothy voltò il viso e puntò verso di lei gli occhiali da sole scuri.

«Ho nostalgia dei miei figli», disse Helen.

Dorothy tornò alla rivista e rispose: «Sei una voce fuori dal coro, temo».

4

La cagnetta aspettava accanto alla porta, agitando ansiosa la coda: un pastore tedesco con una chiazza bianca sul mento. «Ehi, bastardina». Bob le accarezzò la testa ed entrò in casa. Dentro faceva un gran freddo. Zach, che non aveva detto una parola durante il tragitto di ritorno dalla prigione, salì immediatamente le scale. «Ehi, Zach», lo chiamò Bob. «Vieni a fare due chiacchiere con tuo zio».

«Lascialo in pace», rispose Susan, seguendo il figlio. Qualche minuto dopo ridiscese indossando un maglione con delle renne stampate davanti. «Non vuol mangiare. Lo hanno messo in cella, è ancora mezzo morto dalla paura».

«Ci parlo io», rispose Bob. Poi, proseguì, a voce più bassa: «Pensavo volessi che fossi io a parlare con lui».

«Dopo. Lasciarlo stare. Non gli piace parlare. Ne ha passate di tutti i colori». Susan aprì la porta della cucina e la cagna la seguì, con aria colpevole. Poi le versò dei croccantini in una scodella di latta e andò in soggiorno a sedersi sul divano. Bob la raggiunse e lei tirò fuori una borsa con il lavoro a maglia.

E così, eccoli lì.

Bob non sapeva proprio cosa fare. Jim lo avrebbe saputo. Jim aveva figli, Bob no. Jim prendeva in mano le situazioni, Bob no. Si sedette, con il cappotto ancora addosso, e si guardò intorno. C’erano peli di cane accumulati sul battiscopa.

«Hai qualcosa da bere, Susan?».

«Moxie».

«Nient’altro?».

«No».

E così erano in guerra, come sempre. Lui era prigioniero dentro il suo cappotto, stava gelando e non aveva niente da bere. Lei lo sapeva, e lo lasciava lì così. Susan non beveva mai, proprio come la madre. Probabilmente pensava che Bob fosse un alcolizzato e lui, da parte sua, riteneva di essere quasi un alcolizzato, ma non del tutto, ed era convinto che ci fosse un’enorme differenza tra le due condizioni.

Susan gli chiese se voleva mangiare. Probabilmente c’era una pizza surgelata. O magari una scatola di fagioli al forno, o degli hot dog.

«No». Bob non voleva la pizza surgelata di Susan, tantomeno i suoi fagioli in scatola.

Avrebbe voluto dirle che nel resto del mondo non si viveva in quel modo, per niente, e che era quello il motivo per cui negli ultimi cinque anni non si era più fatto vivo: perché non riusciva a sopportarlo. Avrebbe voluto dirle che la gente, dopo una giornata stressante, tornava a casa, beveva un drink e preparava del cibo caldo. Accendeva i termosifoni, parlava e telefonava agli amici. I figli di Jim non facevano altro che correre su e giù per le scale: «Mamma, hai visto il mio maglione verde?». «Di’ a Emily di darmi quel phon!». «Papà, hai detto che potevo restare fuori fino alle undici!». Perfino Larry, il più silenzioso, rideva: «Zio Bob, ti ricordi quella barzelletta sugli indiani che mi avevi raccontato quando ero piccolissimo?». (A Sturbridge Village i figli di Jim si dimenavano per infilare le braccia e le gambe dentro ai buchi della gogna: una foto, una foto! Zachary, così magro che riusciva a infilare tutte e due le gambe nella feritoia di una caviglia, era silenzioso come un topolino).

«Andrà in prigione, Bob?». Susan smise di sferruzzare e lo guardò con un volto che all’improvviso sembrò tornare giovane.

«Ah, Susie». Bob tolse le mani di tasca e si chinò verso di lei. «Ne dubito. È un reato minore».

«Era talmente spaventato quando è uscito dalla camera di sicurezza. Non l’ho mai visto così. Credo che morirebbe se dovesse andare in prigione».

«Jim ha detto che Charlie Tibbetts è bravissimo. Andrà tutto bene, Susie».

La cagnetta entrò in soggiorno, ancora con aria colpevole, come se aver mangiato cibo per cani fosse un atto meritevole di bastonate. Si sdraiò e posò la testa sul piede di Susan. Bob non riusciva a ricordare di aver mai visto un cane tanto triste. Ricordò l’abbaiare del minuscolo cagnolino che abitava sotto di lui a New York. Si sforzò di pensare alla sua casa, ai suoi amici, al suo lavoro, ma nulla di tutto ciò sembrava reale. Guardò la sorella, che aveva ricominciato a sferruzzare, e le chiese: «Come va in negozio?». Susan faceva l’optometrista da anni, e Bob si rese conto di non sapere nemmeno se quell’impiego le piacesse.

Lei tirò leggermente il lavoro a maglia. «Noi della generazione del baby boom stiamo invecchiando, quindi ci sono sempre molti clienti. Vengono anche dei somalesi», aggiunse dopo un attimo. «Non molti, ma qualcuno sì».

«E come sono?», le chiese Bob.

Susan gli lanciò un’occhiata strana, come se la sua fosse una domanda trabocchetto. «Un po’ troppo sulle loro, secondo me. Diffidenti. Non prendono appuntamenti. Non sanno cos’è un oftalmometro, una volta una donna ha reagito come se le stessi facendo un incantesimo».

«Neanch’io so cos’è un oftalmometro».

«Non lo sa nessuno, Bob. Però gli altri sanno che non gli stai lanciando addosso un incantesimo». I ferri da maglia di Susan presero a muoversi più velocemente. «Ogni tanto provano a trattare sul prezzo, e la prima volta che mi è successo sono rimasta sconvolta. Poi ho sentito dire che è una loro abitudine, quella di contrattare. Niente carte di credito. Non credono nel concetto di credito. Anzi no, scusami, non credono nel concetto di interesse. Perciò pagano in contanti. Non so dove li prendano». Susan scosse la testa. «Senti, continuavano ad arrivare, erano sempre di più, e non c’erano abbastanza soldi. In realtà ce n’erano pochissimi, perciò il Comune è stato costretto a chiederli ai federali, e se pensi a come eravamo impreparati, Shirley Falls si è comportata davvero benissimo con loro. La presenza dei somalesi rappresenta per tutti i liberal della città una grande causa per cui battersi, che è proprio quello di cui hanno bisogno. Lo sai benissimo, anche tu sei un liberal: avete sempre bisogno di una causa». Susan smise di sferruzzare. Il suo volto, quando alzò lo sguardo, mostrava un sottile strato di stupore infantile, che di nuovo la fece sembrare giovane. «Posso dire una cosa?», chiese.

Bob alzò le sopracciglia.

«Quello che voglio dire, quello di cui mi sono accorta, e che mi lascia perplessa, è che c’è un sacco di gente in città che è felicissima di far sapere a tutti che sta aiutando i somalesi. Come i Prescott. Una volta avevano un negozio di scarpe su a South Market, probabilmente adesso ha chiuso, non lo so. Ma Carolyn Prescott e la nuora portano sempre le donne somalesi a far compere, e gli regalano frigoriferi e lavatrici, o batterie complete di pentole e padelle. Io mi chiedo, c’è qualcosa di sbagliato in me solo perché non voglio comprare un frigorifero a una donna somalese? Non che io abbia soldi, ma anche se li avessi». Susan lasciò vagare lo sguardo nel vuoto, poi riprese a sferruzzare. «Non ho nessuna voglia di trascinare in giro quelle donne a comprare loro questo e quello, per poi raccontare a tutti che l’ho fatto. Mi sento cinica, tutto qui». Incrociò le caviglie, poi continuò: «Ho un’amica, Charlene Bergeron, che ha avuto un tumore al seno, e tutti si sono offerti di darle una mano con i bambini e di accompagnarla in ospedale per le terapie. Ma poi, qualche anno dopo, il marito ha voluto il divorzio. E allora, puff. Zero. Niente. Nessuno si è fatto avanti per darle una mano. È una cosa che fa male, Bob. È stato lo stesso per me, quando Steve se n’è andato. Ero spaventata a morte. Non sapevo se sarei riuscita a tenermi la casa. Nessuno si è offerto di comprarmi un frigorifero. Nessuno si è offerto di comprarmi da mangiare. E io, davvero, mi sentivo morire, ero più sola di quanto non siano queste somalesi, ci scommetto. Sono piene di parenti che gli ronzano intorno».

«Oh, Susie. Mi dispiace».

«La gente è strana, tutto qui». Susan si strofinò il naso con il dorso della mano. «Alcuni dicono che è la stessa cosa di quando la città era piena di operai canadesi, che parlavano francese. Ma è diverso, perché quello che nessuno dice è che in realtà i somalesi non vogliono stare qui. Aspettano solo di tornare a casa. Non vogliono far parte del nostro paese. Per ora restano qui, in attesa, ma nel frattempo pensano che il nostro stile di vita faccia schifo, che sia orrendo e di cattivo gusto. Mi ferisce, davvero. E poi se ne stanno sempre tra di loro».

«Be’, Susie. Anche i franco-canadesi sono stati sempre tra di loro per anni».

«È diverso, Bob». Susan diede un altro strattone al lavoro a maglia. «E poi quelli non si chiamano più francocanadesi. Bisogna chiamarli franco-americani. Ai somalesi non piace essere paragonati a loro. Si credono completamente diversi. Non c’è confronto».

«Sono musulmani».

«Grazie tante, non me n’ero accorta», rispose Susan.

Quando Bob tornò dentro dopo aver fumato una sigaretta, la sorella stava tirando fuori degli hot dog dal congelatore. «Praticano la clitoridectomia». Riempì una pentola d’acqua.

«Oy, Susan».

«Oy sarai tu, accidenti. Ne vuoi uno?».

Lui si sedette al tavolo di cucina col cappotto addosso. «Ma qui è illegale», disse. «Da anni. E poi si chiamano somali, non somalesi».

Susan si voltò con la forchetta stretta al petto. «Lo sai, Bob, è per questo che voi liberal siete degli imbecilli. Scusami, però è vero. Qui ci sono delle bambine che sanguinano da morire, le portano all’ospedale perché perdono litri di sangue a scuola. Oppure le famiglie mettono da parte i soldi e le mandano in Africa apposta per quello».

«Non credi che dovremmo chiedere a Zach se ha fame?». Bob si strofinò la nuca.

«Gli porto uno di questi su in camera».

«La gente non dice più neanche “negro”, Susan, dovresti saperlo. E neanche “ritardato”. Sono tutte cose che dovresti sapere».

«Oh, Bob, per l’amor del cielo. Ti stavo prendendo in giro. Allungare il collo in quella maniera». Susan controllò la pentola sul fuoco e, dopo un attimo, disse: «Mi manca Jim. Senza offesa».

«Anch’io preferirei che fosse qui».

Susan si voltò, col viso arrossato dal vapore dell’acqua bollente. «Una volta, subito dopo il processo Packer, ero al centro commerciale e ho sentito una coppia che parlava di Jim. Dicevano che da avvocato dell’accusa aveva deciso di diventare avvocato difensore solo per assumersi un caso di alto profilo e far soldi. Mi sono sentita morire».

«Oh, Susan, sono solo degli idioti». Bob agitò la mano. «È un passaggio che gli avvocati fanno di continuo. E poi in realtà stava già lavorando come difensore quando era in quello studio di Hartford. Si tratta sempre di difendere qualcuno, che sia il popolo americano oppure l’imputato. Si è trovato quel caso tra le mani e ha fatto uno splendido lavoro. A prescindere dal fatto che la gente pensasse o meno che Wally era colpevole».

«Però io credo che quasi tutti quelli che si ricordano ancora di Jim gli vogliano bene», rispose Susan, in tono sincero. «Sono sempre entusiasti quando lo vedono in TV. Dicono che non ha mai l’aria del Signor So Tutto, ed è vero».

«In effetti è vero. Detesta comparire in televisione, tra l’altro. Lo fa solo perché glielo chiede lo studio. Durante il processo Packer credo che la pubblicità gli piacesse, ma non so se sia ancora così. Piace a Helen. Lo fa sempre sapere a tutti, quando Jim sta per andare in TV».

«Ah, Helen. Certo».

L’amore per Jim li univa. Bob ne approfittò per alzarsi e dirle che usciva a comprare qualcos’altro da mangiare. «Quel posto che vende spaghetti è ancora aperto?», chiese.

«Sì».

Le strade erano buie. Bob restava sempre sorpreso da quanto fosse scura la notte fuori città. Arrivò fino al piccolo supermercato e comprò due bottiglie di vino, perché in un supermercato del Maine è legale. Scelse quelle con i tappi a vite. Mentre guidava, e contrariamente a quanto si aspettava, faceva fatica a riconoscere i luoghi, e stette bene attento a non prendere la strada che portava verso la casa della sua infanzia. Dopo la morte della madre (parecchi anni prima, aveva perso il conto) non era mai più passato vicino a quella casa. Si fermò a uno stop, svoltò a destra e vide il vecchio cimitero. Alla sua sinistra c’erano dei caseggiati di legno alti quattro piani. Si stava avvicinando al centro. Passò dietro quello che una volta era stato il grande magazzino principale, Peck, prima che costruissero il centro commerciale sull’altra riva del fiume. Quando Bob era piccolo, gli abiti per la scuola glieli compravano lì, nel reparto bambini. Era un ricordo carico di vergogna e di acuto imbarazzo: il commesso che gli prendeva le misure per l’orlo dei pantaloni e che una volta gli aveva steso il metro a nastro lungo la gamba, fino al cavallo; maglioni a collo alto, rossi e blu marine, sua madre che annuiva. Ora l’edificio era vuoto, con le assi alle finestre. Passò vicino al luogo in cui una volta si trovava la stazione degli autobus, e dove all’epoca c’erano caffetterie, edicole e panetterie. Poi, all’improvviso comparve un nero che camminava sotto un lampione. Era alto e aggraziato, con un’ampia camicia sopra la quale forse indossava un gilet, Bob non riusciva a vederlo bene. Avvolta attorno alle spalle portava una sciarpa bianca e nera con le nappe. «Ehi, che bello», disse Bob, a bassa voce. «Eccone un altro». Eppure anche Bob Burgess, che abitava a New York da anni; proprio Bob, che per un breve periodo si era guadagnato da vivere difendendo criminali di qualunque colore e religione (finché lo stress dell’aula di tribunale non lo aveva costretto a ripiegare sui processi d’appello); Bob, che credeva nell’eccellenza della Costituzione e nei diritti del popolo, di tutti i popoli, alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità; proprio lui, Bob Burgess, quando l’uomo alto con la sciarpa con le nappe svoltò in una via laterale di Shirley Falls, pensò,solo per un brevissimo istante, ma lo pensò: speriamo che non diventino troppi.

Proseguì per un tratto, ed ecco la sagoma familiare di Antonio, il ristorante che faceva gli spaghetti, nascosto dietro il distributore di benzina. Bob si fermò nel parcheggio. Sulla porta a vetri di Antonio c’era un cartello a lettere arancioni. Bob guardò l’orologio sul cruscotto. Erano le nove di un sabato sera, eppure Antonio era chiuso. Svitò il tappo di una bottiglia di vino. Come avrebbe potuto descrivere ciò che provava; il diffondersi di un dolore così cocente da risultare quasi erotico, il desiderio, il silenzioso rantolo interiore, come se si trovasse di fronte a uno spettacolo di una bellezza inesprimibile; il desiderio di posare la testa sull’ampio grembo morbido della sua città, Shirley Falls.

Arrivò fino a un piccolo supermercato, comprò una confezione di fritto misto di pesce surgelato e lo portò da Susan.

***

Abdikarim Ahmed scese dal marciapiedi e camminò al centro della strada per non stare troppo vicino agli ingressi delle case, dove qualcuno poteva nascondersi nell’oscurità. Si avvicinò a quella di suo cugino e vide che di nuovo la lampadina sopra la porta era spenta. «Zio», lo chiamarono alcune voci, e Abdikarim entrò nell’appartamento, proseguendo nel corridoio fino alla sua stanza, dove le pareti erano coperte di tappeti persiani che aveva appeso Haweeya quando lui si era trasferito lì, mesi prima. Quei colori sembravano muoversi mentre Abdikarim si premeva con forza le dita sulla fronte. Era già abbastanza grave che l’uomo arrestato oggi fosse sconosciuto alla comunità. (Avevano dato per scontato che si trattasse di uno degli abitanti dei dintorni, uno di quelli che bevevano birra la mattina seduti sugli scalini di casa, avevano braccia robuste e coperte di tatuaggi e guidavano grossi camion dai paraurti coperti di adesivi con scritte come «POTERE BIANCO», O «STRANIERI ANDATE A CASA!»). Sì, era già abbastanza grave che quel Zachary Olson avesse un lavoro e abitasse in una bella casa con la madre, e che anche lei avesse un lavoro. Ma ciò che continuava a spaventare Abdikarim, che gli faceva rivoltare lo stomaco e pulsare la testa per il dolore, era quello che aveva visto la sera del fatto: i due poliziotti, arrivati poco dopo la telefonata dell'imam, si erano fermati dentro la moschea con le uniformi scure e le pistole alla cintura; si erano fermati, avevano abbassato gli occhi sulla testa di maiale e avevano riso. Poi avevano detto: «Molto bene, gente». Avevano riempito moduli, posto domande. Si erano fatti seri. Avevano scattato foto. Non tutti li avevano visti ridere. Ma ad Abdikarim, che era vicino a loro, madido di sudore sotto la veste da preghiera, non era sfuggito. Quella sera gli anziani gli avevano chiesto di descrivere, a beneficio di rabbi Goldman, ciò che aveva visto, perciò lui aveva recitato tutta la scena: i sorrisi, le parole dentro la radio portatile, lo scambio di sguardi tra i due poliziotti, la loro risata silenziosa. Rabbi Goldman aveva scosso la testa in un gesto addolorato.

Haweeya era ferma accanto alla porta e si toccava il naso. «Hai fame?», chiese, e Abdikarim le rispose che aveva già mangiato a casa di Ifo Noor. «Ci sono stati altri guai?», domandò lei a bassa voce. I suoi figli le corsero incontro lungo il corridoio e Haweeya posò le lunghe dita sulla testa del maschietto.

«No, è tutto come prima».

Lei annuì, gli orecchini oscillarono, e condusse i bambini in soggiorno. Li aveva tenuti in casa per quasi tutta la giornata, costringendoli nuovamente a imparare a memoria il loro albero genealogico, i nomi del bisnonno, del bis-bisnonno, e così via, sempre più indietro nel tempo; gli americani sembravano curarsi poco dei propri antenati. I somali erano capaci di ripercorrere all’indietro i nomi delle loro famiglie per molte generazioni, e Haweeya non voleva che i suoi figli perdessero quella capacità. Era stato difficile tenerli in casa per tutto il giorno. A nessuno piaceva restare così a lungo senza vedere il cielo. Ma, quando era arrivato a casa, Omad, che faceva l’interprete presso l’ospedale, aveva detto che sarebbero andati al parco. Omad e Haweeya erano in America da più tempo rispetto agli altri e non era tanto facile spaventarli. Erano sopravvissuti ai quartieri peggiori di Atlanta, dove la gente si drogava e andava a rubare nelle case; al confronto Shirley Falls era un bel posto, tranquillo. Perciò quel pomeriggio Haweeya, stanca per il digiuno e per la limpida aria autunnale, che le faceva colare il naso e prudere gli occhi, anche se non capiva il perché, aveva guardato i bambini che correvano dietro le foglie cadute. Il cielo era quasi azzurro.

Dopo aver pulito la cucina e lavato il pavimento, Haweeya tornò da Abdikarim. Provava un grande affetto per quell’uomo, arrivato a Shirley Falls un anno prima solo per scoprire che la moglie, Asha, che lo aveva preceduto insieme ai figli, non lo voleva più. Aveva preso i bambini e si era trasferita a Minneapolis. Quell’evento era una fonte di vergogna. Haweeya lo capiva, tutti lo capivano. Abdikarim dava la colpa all’America, che aveva insegnato ad Asha quella indipendenza sconsiderata, ma Haweeya riteneva che Asha, più giovane del marito di diversi anni, fosse nata per fare quello che voleva; certa gente era fatta così. Un ulteriore motivo di tristezza:

Asha era la madre dell’unico figlio maschio ancora vivo di Abdikarim. Di quelli nati dalle altre mogli, erano rimaste solo le femmine. Aveva perso delle persone care, come molti altri.

Adesso era seduto sul letto, con i pugni premuti contro il materasso. Haweeya si appoggiò allo stipite della porta. «Stasera ha chiamato Margaret Estaver. Mi ha detto di non preoccuparmi».

«Lo so, lo so». Abdikarim alzò una mano in un gesto che indicava futilità. «Secondo lei si tratta solo di un Wiil Waal, un ‘ragazzo pazzo’».

«Ayanna dice che lunedì non manda i bambini a scuola», sussurrò Haweeya, e subito dopo starnutì. «Omad le ha risposto che a scuola non sono meno al sicuro che negli altri posti, ma lei ha detto: “Come fanno a essere al sicuro in un posto dove gli danno calci e pugni ogni volta che l’insegnante si distrae?”».

Abdikarim annuì. Quella sera, da Ifo Noor, si era parlato della scuola e del fatto che, dopo la testa di maiale dentro la moschea, gli insegnanti avevano promesso di stare più attenti. «Tutti fanno promesse», aggiunse Abdikarim mentre si alzava. «Dormite in pace. E fate riparare quella lampadina».

«Domani ne compro una nuova. Vado al Walmart». Gli fece un sorriso scherzoso. «Sperando che il Wiil Waal non sia tornato a lavorare lì». Gli orecchini oscillavano mentre si allontanava.

Abdikarim si massaggiò la fronte. Quella sera, da Ifo Noor, rabbi Goldman si era seduto insieme agli anziani e aveva chiesto loro di mettere in pratica l’autentico messaggio di pace dell’islam. Era una cosa insultante. Certo che l’avrebbero fatto. Rabbi Goldman aveva detto che molti abitanti della città sostenevano il loro diritto a stare lì, e che dopo il Ramadan lo avrebbero dimostrato con una manifestazione. Gli anziani non volevano una manifestazione. Radunare una folla di gente non era un bene. Ma rabbi Goldman dal cuore grande aveva detto che avrebbe fatto del bene alla città. Del bene alla città! Ogni parola equivaleva a una bastonata, che ripeteva che quello non era il loro villaggio, la loro città, il loro paese.

Fermo accanto al suo letto, Abdikarim strinse gli occhi per la rabbia, perché dov’erano i rabbi Goldman d’America quando la maggiore delle sue figlie era scesa per la prima volta in vita sua da un aereo a Nashville, insieme ai suoi quattro bambini, senza nessuno ad accoglierli, e le scale mobili erano così spaventose che riuscivano solo a fissarle, mentre i passanti li scansavano di lato, ridendo e additandoli? Dov’erano i rabbi Goldman d’America quando una vicina aveva regalato ad Aamuun un aspirapolvere, e lei, che non sapeva cos’era, non l’aveva mai usato, e la vicina aveva raccontato in città che i somali erano gente ingrata? Dov’erano i rabbi Goldman e i ministri Estaver quando la piccola Kalila aveva creduto che il distributore di ketchup di Burger King fosse fatto per lavarsi le mani? E quando sua madre aveva visto il guaio che aveva combinato e le aveva dato uno schiaffo, e una donna si era avvicinata e le aveva detto che in America non si schiaffeggiano i bambini? Dov’era il rabbino in quel momento? Il rabbino non poteva capire.

E naturalmente il rabbino, al sicuro a casa sua in compagnia della moglie preoccupata, non poteva capire che, mentre Abdikarim ricadeva pesantemente a sedere sul letto, non era la paura il sentimento che si levava in lui con maggior forza, ma il dispiegarsi del ricordo della vergogna di quella sera, quando si era infilato in bocca un pezzo di mufa e aveva provato il feroce, furtivo piacere di quel sapore. Nei campi profughi era costantemente affamato: la compagnia di quel bisogno continuo, estenuante, era come quella di una moglie. E adesso che era lì, era atrocemente doloroso accorgersi dell’avidità animale che provava ancora nei riguardi del cibo; era una cosa che lo degradava. Mangiare, defecare, dormire, erano tutti bisogni naturali. Il lusso di quella naturalezza era stato loro sottratto tanto tempo prima.

Tastando la stoffa del copriletto, mormorò: «Astaghfirullah», ‘chiedo perdono’, perché la violenza nella sua terra natale gli pareva una colpa del suo stesso popolo, che non aveva vissuto l’autentica esistenza dell’islam. Chiuse gli occhi e recitò l’ultima Alhamdulilah della giornata. Grazie, Allah. Tutto il bene veniva da Allah. Il male veniva dagli uomini che permettevano al germoglio della malvagità di crescere nei loro cuori. Ma per quale motivo fosse così, quel male senza limiti, come un tumore maligno, era la domanda in cui Abdikarim si imbatteva sempre. E la risposta era sempre la stessa: non lo sapeva.

***

Quella prima notte Bob dormì sul divano con tutti i vestiti addosso, perfino con il cappotto, tanto faceva freddo. Fu solo quando la luce cominciò a filtrare oltre gli scuri della finestra che finalmente si appisolò per svegliarsi con Susan che urlava: «Sì che ci vai, a lavorare. Sei stato tu a fare una cosa tanto stupida! E adesso, per la miseria, vai a guadagnarti i duecento dollari che ho speso per farti rilasciare. Vai!». Bob sentì Zach mormorare qualcosa, la porta sul retro chiudersi, e pochi attimi dopo una macchina allontanarsi.

Susan comparve e lanciò un giornale verso di lui. Atterrò sul pavimento, accanto al divano. «Congratulazioni», disse.

Bob abbassò gli occhi. In prima pagina c’era una grande foto di Zach che usciva dalla prigione, sorridendo. Il titolo diceva: “Non c’è niente da ridere”.

«Oy!», esclamò Bob, lottando per mettersi a sedere.

«Sto andando al lavoro». Susan gli gridò quella frase dalla cucina. Bob sentì sbattere gli sportelli della credenza. Poi sentì sbattere la porta posteriore e la macchina che partiva.

Rimase seduto, immobile, solo i suoi occhi vagavano per la stanza. Gli scuri alle finestre avevano il colore delle uova sode. La carta da parati era di una tinta simile, con un motivo di uccelli dal becco lungo che scendevano in picchiata, sottili e azzurri. C’era una credenza di legno con una serie di numeri di «Selezione dal Reader’s Digest» sullo scaffale in cima. All’angolo c’era una sedia a dondolo con i braccioli talmente consumati da avere degli strappi nell’imbottitura. Nulla in quella stanza sembrava pensato per offrire un po’ di comodità, e Bob si sentiva scomodo.

Un movimento in cima alle scale gli causò un brivido di paura. Prima vide le pantofole di spugna rosa, poi l’anziana donna magra che gli puntava addosso gli enormi occhiali. «Cosa ci fa seduto lì col cappotto addosso?», gli chiese.

«Sto gelando», rispose Bob. La signora Drinkwater giunse in fondo alle scale e si fermò con una mano sulla ringhiera. Si guardò intorno. «In questa casa si gela sempre».

Bob esitò, poi le disse: «Se ha freddo, dovrebbe dirlo a Susan».

La vecchia signora andò a sedersi sulla sedia a dondolo. Si sistemò gli enormi occhiali con una nocca ossuta. «Non mi va di lamentarmi. Susan non ha molti soldi, sa. Sono anni che non le danno un aumento da quell’ottico. E la benzina costa tantissimo!». Agitò una mano sopra la testa. «Misericordia!».

Bob raccolse il giornale dal pavimento e lo posò accanto a sé sul divano. La foto di Zach lo fissò, sorridente, e Bob la capovolse.

«Ne hanno parlato al telegiornale», disse la signora Drinkwater.

Bob annuì. «Sono al lavoro, tutti e due».

«Oh, lo so, caro. Sono scesa a prendere il giornale. La domenica lo lascia sempre qui per me».

Bob si sporse e glielo passò; la donna rimase seduta sulla sedia, col quotidiano sulle ginocchia.

«Senta, ma Susan gli grida contro spesso?», chiese Bob.

La signora Drinkwater si guardò di nuovo intorno e Bob pensò che non gli avrebbe risposto. «Tempo fa, sì. Quando mi sono trasferita qui». Incrociò le gambe lasciando oscillare una caviglia su e giù. Le pantofole erano enormi. «Naturalmente a quell’epoca il marito se n’era appena andato». Scosse lentamente la testa. «Per quanto ne so, il ragazzo non ha mai fatto niente di male. È un ragazzo solitario, vero?».

«Lo è sempre stato, credo. Zach mi è sempre sembrato… be’, fragile… emotivamente. O magari solo immaturo. Qualcosa del genere».

«Credi sempre che i tuoi figli saranno uguali a quelli del catalogo di Sears». La signora Drinkwater fece dondolare il piede con più forza. «Ma non lo sono. Anche se devo ammettere che Zachary sembra più solitario di tanti altri. Cioè, voglio dire, piange».

«Piange?».

«A volte lo sento, nella sua camera. Anche prima di questa faccenda della testa di maiale. Mi sembra di essere una pettegola, ma lei è lo zio. Cerco di farmi gli affari miei».

«E Susan non lo sente?».

«Non lo so, caro».

La cagnetta si avvicinò a Bob e gli posò il lungo naso in grembo. Bob le accarezzò il pelo ruvido della testa, poi diede un colpetto col piede sul pavimento, per farla sdraiare. «Zach ha degli amici?».

«Non ne ho mai visto nessuno venire in questa casa».

«Susan sostiene che era da solo quando ha lanciato la testa di maiale».

«Forse è vero». La signora Drinkwater si aggiustò gli enormi occhiali. «Però ci sono molti altri a cui sarebbe piaciuto farlo. Non tutti gradiscono la presenza di questa gente, dei somalesi. Io non mi preoccupo. Però si vestono con tutta quella roba strana». La signora Drinkwater aprì una mano di fronte al viso. «Si vedono spuntare solo gli occhi». Si guardò intorno. «Mi chiedo se sia vero quello che dicono, che tengono i polli vivi nella credenza. Misericordia, sembra proprio strano».

Bob si alzò e cercò a tastoni il cellulare nella tasca del cappotto. «Vado fuori a fumare una sigaretta. Se vuole scusarmi».

«Ma certo, caro».

Fermo sotto un acero norvegese le cui foglie gialle si inarcavano sopra di lui, Bob si accese una sigaretta e sbirciò il telefono.

5

In piedi in mezzo alla stanza con la pelle lucida scottata dal sole, Jim stava mostrando a Helen per quale motivo la sua partita di golf era stata un successo. «Sta tutto nel polso, guarda». Piegò appena le ginocchia, fletté i polsi e fece oscillare un’invisibile mazza da golf. «Hai visto, Helen? Hai visto cos’ho fatto col polso?».

Lei rispose di sì, lo aveva visto.

«È stato splendido. Perfino quel coglione del dottore è stato costretto a darmi ragione. Veniva dal Texas. Piccolo, schifoso nano testa di cazzo. Non sapeva nemmeno cos’è il tè del Texas. Così gliel’ho spiegato». Jim puntò l’indice verso Helen. «Gli ho detto: “È quello che usate voialtri per ammazzare la gente, da quando avete smesso di friggerla più in fretta delle patatine. Tiopental sodico, pancuronio, cloruro di potassio”. Non ha detto una parola. Coglione. Aveva solo quel sorrisetto in faccia». Jim si passò una mano sulla fronte, poi si mise in posizione per un altro finto colpo di mazza. Dietro di lui la porta a vetri del patio era mezza aperta e Helen passò davanti al marito e alla fruttiera con i limoni sul tavolo per chiuderla. «Hai visto? Ottimo!», continuò Jim, asciugandosi la faccia con la maglietta da golf. «Gli ho detto: “Se voialtri credete nella pena di morte, un indicatore prima facie del fatto che la società civile è stata corrotta dalla barbarie, perché almeno non vi degnate di addestrare i vostri boia neanderthaliani a somministrare il tè del Texas nella maniera corretta? Invece di limitarsi a piantare aghi nei muscoli e lasciare l’ultimo povero sfigato appena giustiziato sul lettino…”. Lo sai qual è la sua specializzazione? È un dermatologo. Fa i lifting. Alliscia i sederi. Vado sotto la doccia».

«Jim, ha telefonato Bob».

Jim si fermò a metà strada verso il bagno e si voltò.

«Zach è tornato a lavoro. La cauzione è stata fissata a duecento dollari. Anche Susan era al lavoro. Ci vorrà qualche settimana prima della lettura dei capi di imputazione e Bob ha detto che Charlie Tibbetts farà in modo che si riduca tutto a una multa. Almeno credo. Mi dispiace, ma quella parte non l’ho capita». Helen fece il gesto di aprire il cassetto del comò, per mostrare a Jim i regalini che aveva comprato per i ragazzi.

«È così che fanno lassù», disse Jim. «Preparano un calendario. Zach dovrà comparire in tribunale?».

«Non lo so. Non credo».

«Come ti è sembrato Bob?».

«Mi è sembrato… Bob».

«Che cosa vuol dire “Mi è sembrato Bob”?».

A quel tono di voce Helen chiuse il cassetto e si voltò a guardarlo. «Come, cosa vuol dire? Mi hai chiesto come mi è sembrato. Mi è sembrato Bob. Il solito Bob».

«Tesoro, così inizi a farmi impazzire. Sto cercando di capire cosa diavolo sta succedendo in quel buco d’inferno, e dire che ti è sembrato Bob non mi aiuta. Ti è parso allegro? Serio?».

«Per favore, non farmi l’interrogatorio. Tu eri fuori a divertirti sul campo da golf. Io sono rimasta bloccata qui con la vecchia, scontrosa Dorothy, che mi ha costretta a leggere un articolo sui campi profughi del Kenya; non è divertente come giocare a golf. E poi è stato il mio cellulare a squillare, hai presente, la Quinta di Beethoven che mi hanno impostato i ragazzi come suoneria per Bob, perciò sapevo che era lui, e sono stata costretta a parlargli come se fossi la tua segretaria, perché sapeva benissimo che non era il caso di disturbarti».

Jim si sedette sul letto e si mise a fissare il tappeto. Helen riconobbe quello sguardo. Erano sposati da tanti anni. Jimmy si arrabbiava molto di rado con lei, e Helen apprezzava quell’atteggiamento, perché l’aveva sempre considerato un segno di rispetto. Ma quando aveva l’aria di chi si sta sforzando di essere ragionevole di fronte a un comportamento stupido, allora per lei diventava dura da sopportare.

Si sforzò di buttarla sul ridere. «Va bene, questa la puoi cancellare. Non è pertinente». La sua voce non suonava scherzosa. «È irrilevante», aggiunse.

Jim continuava a fissare il tappeto. Alla fine disse: «Ti ha chiesto o no di dirmi di richiamarlo?».

«No».

Jim si voltò a guardarla. «Mi basta sapere questo». Si alzò e si avviò verso il bagno. «Mi faccio una doccia. Mi dispiace che tu sia rimasta bloccata con la scontrosa Dorothy. Dorothy non mi è mai piaciuta».

«Stai scherzando? E allora per quale motivo siamo qui con loro?».

«È la moglie del socio anziano, Helen». La porta del bagno si chiuse e, in capo a un minuto, si udì lo scroscio della doccia.

A cena sedettero fuori e guardarono il sole che tramontava sull’acqua. Helen indossava una camicetta di lino bianco, pantaloni a tre quarti neri e ballerine. Alan sorrise e disse: «Voi due ragazze siete molto carine stasera. Cosa avete in mente di fare domani?». Era seduto di fronte a Dorothy e continuava ad accarezzarle il braccio. Aveva la mano coperta di lentiggini. E anche la testa, quasi completamente calva.

Helen disse: «Domani, mentre voi due giocate a golf, io e Dorothy pensavamo di provare a fare colazione al Lemon Drop».

«Ottimo». Alan annuì.

Helen si toccò un orecchino e pensò: “Essere donna fa schifo”. Poi: “No, non è vero”. Sorseggiò il suo whiskey sour. «Vuoi assaggiare il mio whiskey sour?», chiese a Jim.

Jim scosse la testa. Aveva lo sguardo fisso sul tavolo, e sembrava molto lontano.

«E così abbiamo smesso di bere, eh, Jim?», chiese Dorothy.

«Jim non beve quasi mai, credevo lo sapessi», rispose Helen.

«Hai paura di perdere il controllo?», domandò Dorothy, e Helen avvertì una puntura di rabbia, come quella di un ago. Ma Dorothy aggiunse: «Guarda un po’», e indicò. Accanto a loro un colibrì infilò il lungo becco nella corolla di un fiore. «Che carino». Dorothy si sporse in avanti, puntando le mani sui braccioli della sedia. Helen sentì Jim stringerle un ginocchio sotto il tavolo e lei sporse appena le labbra, nel breve accenno di un bacio. Poi i quattro cenarono tranquillamente tra il sommesso tintinnio dell’argenteria e Helen, dopo un secondo whiskey sour, raccontò perfino la storia della sera in cui aveva danzato su un tavolo in una sala da bowling dopo il processo a Wally Packer. Aveva infilato uno strike dopo l’altro, era stato incredibile! E poi aveva bevuto troppa birra e aveva ballato sul tavolo.

«Be’, mi dispiace molto di essermela persa», disse Dorothy.

Alan guardò Helen con un’espressione di vacua cordialità che sembrò protrarsi un po’ troppo a lungo. Allungò una mano e toccò delicatamente la sua. «Jim è un uomo fortunato», disse.

«Ci puoi scommettere», rispose Jim.


 

6

Per Bob era stata interminabile, l’immensa giornata vuota in cui aveva aspettato che Jim lo richiamasse. Qualcun altro avrebbe fatto qualcosa, se ne rendeva conto. Qualcun altro sarebbe andato al supermercato e avrebbe fatto trovare la cena pronta per il ritorno di Zach e Susan. Oppure avrebbe guidato fino alla costa, per ammirare le onde. O in montagna a fare un’escursione. Ma Bob, a parte le gite sul porticato posteriore a fumare, era rimasto nel soggiorno della sorella a leggere distrattamente il «Reader’s Digest» e poi a sfogliare una rivista femminile. Prima di allora non ne aveva mai letta una e lo rattristarono gli articoli su come ravvivare la vita sessuale con tuo marito dopo tanti anni di matrimonio (sorprenderlo con della biancheria intima sexy) e su come perdere peso al lavoro o sugli esercizi per rassodare le cosce flaccide.

Susan tornò a casa e disse: «Non mi aspettavo di vederti qui. Dopo il casino che sei riuscito a combinare col giornale».

«Be’, sono venuto per dare una mano». Bob posò la rivista.

«Come ti ho detto, non mi aspettavo di trovarti qui». Susan aprì la porta al cane e si tolse il cappotto.

«Domani devo vedere Charlie Tibbetts, lo sai».

«Mi ha telefonato», rispose Susan. «Non arriverà in città prima del pomeriggio. È stato trattenuto».

«Va bene», rispose Bob. «Allora lo vedrò domani pomeriggio».

Quando Zach varcò la soglia, Bob si alzò in piedi. «Vieni qui, Zachary. Vieni a fare due chiacchiere con il tuo vecchio zio. Dimmi com’è andata oggi».

Zach si fermò. Sembrava pallido e spaventato. I capelli rasati gli facevano risaltare le orecchie, che apparivano estremamente vulnerabili, mentre il viso spigoloso era quello di un adulto. «Uhm. Magari dopo». Salì nella sua stanza e di nuovo Susan gli portò la cena. Questa volta Bob rimase in cucina a bere vino da una tazzina da caffè e a mangiare pizza surgelata riscaldata nel microonde. Aveva dimenticato quanto cenava presto certa gente nel Maine; erano solo le cinque e mezzo. Per tutta la sera Bobby e Susan guardarono la TV in silenzio, con Susan che teneva in mano il telecomando e cambiava canale ogni volta che trasmettevano un notiziario. Il telefono non squillò mai e alle otto Susan andò a dormire. Bob uscì sul porticato posteriore a fumare, poi tornò dentro e finì la seconda bottiglia di vino. Non aveva sonno. Prese un sonnifero, poi un altro. Di nuovo trascorse la notte sul divano, col cappotto addosso, e di nuovo fu una brutta notte.

Si svegliò col rumore degli sportelli della credenza, e la luce del mattino penetrava con forza dagli scuri. Avvertì la nausea provocata da un sonno indotto dai farmaci e interrotto troppo presto, e con essa venne il pensiero che il giorno prima sua sorella, mentre era in preda alla rabbia, fosse stata così simile alla madre, la quale, quando erano piccoli, andava soggetta ad accessi di furia e strepiti (mai diretti contro Bob, ma contro il cane, contro un barattolo di burro d’arachidi che era rotolato giù dal bancone e si era rotto, oppure, il più delle volte, contro Susan, che non teneva la schiena dritta, non aveva stirato bene una maglietta, non aveva pulito la sua stanza).

«Susan…». Aveva la lingua impastata.

Lei si fermò sulla porta della cucina. «Zach è già andato a lavorare. Io sto per uscire, devo solo fare la doccia».

Bob le fece un ironico saluto militare, si alzò e cercò le chiavi dell’auto.

Guidò con cautela, quasi fosse reduce da una malattia che lo aveva costretto in casa per settimane. Visto dal parabrezza il mondo sembrava molto lontano. Si fermò a un distributore di benzina che aveva anche un piccolo supermercato. Una volta dentro gli riversò davanti agli occhi un assortimento talmente variegato (occhiali da sole impolverati, pile, lucchetti con le relative chiavi, caramelle) che lui fu investito da un’ondata di confusione, ed ebbe quasi paura. Dietro il bancone c’era una giovane donna dalla pelle scura e dai grandi occhi neri. Nella sua mente instupidita a Bob sembrava fuori posto, come se fosse arrivata dall’India, ma non proprio. In un piccolo supermercato di Shirley Falls il commesso sarà sempre un bianco, quasi sempre sovrappeso; questo era ciò che la mente gli diceva di aspettarsi. Invece, lì dentro sembrava di essere in una minuscola istantanea di New York, dove il commesso avrebbe potuto essere chiunque. Ma quella giovane donna dagli occhi scuri lo stava fissando senza il minimo accenno di benvenuto, e Bob si sentì un intruso. Vagabondò stupidamente tra le corsie, talmente consapevole della diffidenza di lei da provare la sensazione di aver sgraffignato qualcosa, anche se non aveva mai rubato nulla da un negozio in tutta la sua vita. «Ehm, il caffè?», chiese, e lei gli indicò la macchinetta. Bob riempì un bicchiere di polistirolo, trovò una confezione di ciambelle ricoperte di zucchero a velo e poi vide sul pavimento i quotidiani del giorno prima: c’era suo nipote che gli sorrideva. Emise un gemito sommesso. Passò davanti al frigorifero e vide alcune bottiglie di vino; si fermò e ne prese una che tintinnò contro le altre mentre la tirava fuori per infilarsela sotto il braccio. Sperava di non trattenersi dopo aver parlato con Charlie Tibbetts nel pomeriggio, ma nell’eventualità di essere di nuovo bloccato a casa con Susan si sentiva meglio al pensiero di avere del vino. Posò la bottiglia sul bancone insieme al caffè e alle ciambelle e chiese le sigarette. La giovane commessa non lo guardò. Né quando fece cadere il pacchetto sul bancone, né quando gli disse quanto le doveva. In silenzio, gli fece scivolare davanti un sacchetto di carta e Bob capì che avrebbe dovuto riempirselo da solo.

Rimase seduto in macchina, con la bocca riscaldata dal caffè. Lo zucchero a velo delle ciambelle gli cadde sul cappotto e, quando tentò di scuoterlo via, lasciò delle strisce bianche. Mentre faceva retromarcia, con la tazza del caffè nell’apposito scomparto accanto alla leva del cambio, si rese conto di percepire un rumore e vi fu un breve buco temporale al rallentatore prima che capisse che quello che aveva udito era un urlo umano. Spense il motore dell’auto, che sobbalzò.

Gli parve di essere rimasto un’eternità a trafficare con la portiera prima di riuscire a scendere.

Una donna con una lunga veste rossa e una sciarpa velata che le copriva la testa e gran parte del viso era ferma dietro l’auto e gli gridava in una lingua che Bob non capiva. Agitava le braccia, poi allungò una mano e diede un colpo alla macchina. Bob avanzò verso di lei e la donna riprese ad agitare le braccia. A Bob sembrava che stesse succedendo tutto al rallentatore, nel silenzio. Vide che dietro la donna ce n’era un’altra, vestita allo stesso modo ma con colori più scuri, che muoveva la bocca, gridandogli contro; notò che aveva lunghi denti gialli.

«Sta bene?». Bob stava urlando. Le donne stavano urlando. Fu assalito dall’improvvisa sensazione di non riuscire a respirare e si sforzò di farlo capire alle altre due portandosi le mani al petto. Ed ecco comparire anche la commessa del supermercato, che aveva afferrato la mano della prima donna e le parlava nella lingua che Bob non capiva; solo allora si rese conto che la commessa doveva essere somala. La donna si voltò verso di lui e disse: «Hai cercato di investirla con la macchina. Vattene via, pazzo!».

«Non è vero», rispose Bob. «L’ho urtata?». Gli mancava il fiato. «L’ospedale è…». Indicò la direzione.

Le donne parlavano tra loro, in una serie di suoni rapidi e sconosciuti.

La commessa aggiunse: «Non andrà all’ospedale. Vattene».

«Non posso andarmene», rispose Bob, impotente. «Devo andare alla polizia a denunciare l’accaduto».

La commessa alzò la voce. «Perché alla polizia? Sono tuoi amici?».

«Ma se l’ho investita…».

«Non l’hai investita. Ci hai solo provato. Vattene».

«Ma c’è stato un incidente. Come si chiama?». Entrò in macchina per cercare della carta. Quando ne uscì le due donne dalle vesti e dalle sciarpe lunghe stavano correndo lungo la strada.

La commessa era tornata dentro il supermercato. «Vattene», gridò oltre la porta a vetri.

«Non l’avevo vista». Bob scrollò le spalle e alzò le mani.

Si udì il rumore del catenaccio che si chiudeva. «Vattene!», gridò di nuovo la commessa.

Guidando molto lentamente Bob tornò da Susan. Udì lo scroscio della doccia. Quando la sorella scese le scale in accappatoio, strofinandosi un asciugamano sui capelli, Bob disse, ancora senza fiato, fissando Susan che ricambiava lo sguardo: «Senti, dobbiamo telefonare a Jim».

7

Helen sedeva nel patio della stanza d’albergo con una tazza di caffè in mano. Dal basso arrivava il mormorio della fontana e, ovunque guardasse, i caprifogli ricoprivano le terrazze. Allungò i piedi nudi dentro una macchia di sole e agitò le dita. La colazione al Lemon Drop era stata annullata poco prima. Poco prima Alan aveva telefonato per dirle che Dorothy aveva deciso di trascorrere la mattinata in albergo, a riposare, e che lei non doveva offendersi. Helen non si era offesa. Aveva ordinato la colazione in camera e aveva mangiato la frutta, lo yogurt e il panino in preda a una felicità cristallina. Jim avrebbe fatto solo nove buche, non sarebbe rimasto via per molto. E poi sarebbero stati insieme; avvertì la dolce pressione del desiderio in attesa dentro di lei.

«Grazie mille», disse al cameriere gentile che le rispose quando chiamò per dire che potevano portar via il vassoio. Prese la borsa di paglia e scese nell’atrio, fermandosi al negozio di souvenir per comprare una rivista di gossip di quelle che aveva l’abitudine di leggere con le figlie, rannicchiate insieme sul divano a contemplare gli abiti delle stelle del cinema. «Oh, questo mi piace moltissimo!», esclamava Emily indicandolo, e Margot sospirava: «Ma guarda questo. È proooprio bello». Helen comprò anche una rivista femminile, perché lo strillo di copertina recitava “Le gioie del nido vuoto”. «Grazie mille», disse alla donna dietro al bancone, e uscì, avviandosi lungo il sentiero tra gli alberi fioriti e i giardini rocciosi che portava alla spiaggia, per mettere le caviglie al sole.

Guardarsi spesso negli occhi, consigliava l’articolo, era molto importante in un rapporto che invecchiava. Scrivere un’e-mail sexy. Farsi complimenti. Il malumore era contagioso. Helen chiuse gli occhi dietro gli occhiali da sole e lasciò vagare i pensieri ai giorni del processo Packer. Quello che non aveva mai confidato a nessuno era che quei mesi le avevano fatto capire cosa significasse essere la First Lady. Bisognava essere pronte a uno scatto fotografico in qualunque momento. Si era sempre impegnata a costruirsi un’immagine. Helen l’aveva capito. Era stata molto brava in quel compito. Il fatto che alcuni amici nella loro cerchia di West Hartford fossero diventati freddi con lei non l’aveva turbata. Credeva con tutta se stessa nella difesa di Jim nei riguardi di Wally, e nel diritto di Wally a quella difesa. In ogni foto che le avevano scattato insieme a Jim, al ristorante, all’aeroporto, nell’atto di scendere da un taxi, Helen sentiva di aver toccato la nota giusta, con la sua scelta di tailleur, abiti da cocktail, calzoni sportivi. Quello che avrebbe potuto facilmente essere definito un circo acquistava solennità grazie alla dignità mostrata da Jim e Helen Burgess. Lo avvertiva allora, e lo credeva anche ora, nel ricordo.

E l’eccitazione! Helen piegò le caviglie. Le notti trascorse a parlare con Jim, dopo che i ragazzi erano andati a dormire; a riepilogare quello che era successo in tribunale durante la giornata. Lui le chiedeva la sua opinione, e lei gliela dava. Erano soci, erano complici. Tutti dicevano che doveva essere un bello stress per un matrimonio, un processo così clamoroso, e Jim e Helen dovevano stare bene attenti a non scoppiare a ridere, a non lasciar capire che era proprio il contrario, davvero, proprio il contrario. Si stirò e aprì gli occhi. Era lei l’unica donna della vita di Jim, la sola. Quante volte glielo aveva sussurrato all’orecchio negli ultimi trent’anni? Raccolse le sue cose e si avviò verso l’albergo. Accanto al campo da croquet l’acqua di un ruscello scorreva dolce sopra un mucchietto di sassi. Una coppia (la donna indossava una lunga gonna bianca e una camicetta azzurro chiaro) stava giocando e si udì lo schiocco sommesso di una palla che rotolava sul campo. Agli ospiti che si aggiravano tra i sentieri il cielo azzurro sembrava sussurrare, insieme alle cascate di fiori tropicali: «E adesso siate felici. Siate felici, siate felici». Helen pensò: «Lo sarò, grazie».

Lo sentì prima di entrare nella stanza. «Cazzo, Bob, sei da ricovero!». Suo marito continuava a ripeterlo. «Sei da ricovero, cazzo! Un incompetente da ricovero!». Helen infilò la chiave nella toppa e disse: «Jim, smettila».

In piedi accanto al letto, si girò verso di lei, col volto di un rosso acceso, e agitò una mano verso il basso, in un gesto che faceva pensare che l’avrebbe picchiata, se fosse stata più vicina. «Cazzo, Bob, sei da ricovero! Un incompetente da ricovero!». Chiazze scure di sudore dai contorni irregolari macchiavano la maglietta azzurra da golf, e altre gocce gli scorrevano lungo il viso. Ricominciò a urlare al telefono.

Helen sedette di fronte alla fruttiera con i limoni. Di colpo, aveva la bocca secca. Guardò il marito lanciare il telefono sul letto, continuando a urlare: «Da ricovero! Mio Dio, Bob è da ricovero!». Il frammento di un ricordo le sfrecciò nella mente: Bob che raccontava del suo vicino, che continuava a urlare sempre la stessa frase alla moglie. «Mi stai facendo impazzire, cazzo!». Non era questo che diceva? Prima che lo portassero via in manette. E Helen era sposata con un uomo così.

Una strana calma scese su di lei. «C’è una fruttiera con dei limoni proprio di fronte a me», pensò, «eppure sembra che l’idea che si tratti di una fruttiera piena di limoni non riesca proprio a entrarmi nella mente». E la sua mente le rispose: «Cosa vuoi che faccia, Helen?». «Stai calma», disse Helen alla mente.

Jim si stava dando dei pugni contro il palmo dell’altra mano. Continuò a camminare in cerchio, mentre Helen restava seduta, senza muoversi. Alla fine disse: «Vuoi sapere cos’è successo?».

Helen gli rispose: «Non voglio che tu gridi mai più in questo modo. È questo che voglio. Se lo farai ancora, uscirò di qui e prenderò da sola il primo aereo per New York».

Jim si sedette sul letto e si asciugò il viso con il bordo della maglietta. Con voce ferma e nitida le raccontò che per un pelo Bob non aveva investito una donna somala. Che per colpa di Bob la faccia sorridente di Zach era finita sulla prima pagina del giornale. Che Bob non ci aveva nemmeno parlato, con Zach. Che Bob si rifiutava di salire di nuovo su una macchina, che sarebbe tornato a New York in aereo e avrebbe lasciato la loro auto nel Maine, e che quando lui gli aveva chiesto: «E come diavolo pensi che la macchina possa tornare indietro?», il fratello gli aveva risposto: «Non lo so, ma io non ho intenzione di guidarla, non mi metterò mai più al volante di un’auto e stasera prenderò un volo per tornare a casa, e quel Tibbetts dovrà fare il suo lavoro senza di me». «Bob è da ricovero, cazzo», disse Jim, a bassa voce.

«Bob è uno che è rimasto traumatizzato all’età di quattro anni», disse Helen. «Sono davvero sorpresa, e anche disgustata, che tu non riesca a capire il motivo per cui non vuole mettersi al volante in questo momento». Poi aggiunse: «Però è stato estremamente stupido da parte sua finire addosso a una donna somalese».

«Somala».

«Cosa?».

«Somala. Non somalese».

Helen si protese verso di lui. «Mi stai correggendo in un momento del genere?».

«Oh, tesoro». Jim chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì; sembrò un gesto di insofferenza. «Bob ha rovinato tutto e se ci toccherà andare lassù ad aggiustare le cose, è meglio che tu sappia come si chiamano».

«Non ho intenzione di andare lassù».

«Voglio che tu venga con me».

Helen provò un’improvvisa, immensa invidia per la coppia che giocava a croquet, per la lunga gonna bianca della donna che si sollevava sotto la brezza. Rivide se stessa in quella stanza poche ore prima, in attesa di Jim, del modo in cui l’avrebbe guardata…

Jim non la guardò. Fissava la finestra e, osservandolo di profilo, Helen vide la luce riflettersi nell’azzurro dei suoi occhi. Il suo viso parve crollare. «Lo sai cosa mi ha detto Bob quando sono riuscito a ottenere l’assoluzione per Wally?». Si voltò per un attimo verso Helen, poi tornò a fissare la finestra. «Mi ha detto: “Jim, sei stato grande. Hai fatto un lavoro splendido. Ma hai sottratto a quell’uomo il suo destino”».

Il sole batteva orizzontale nella stanza. Helen guardò la fruttiera con i limoni, le riviste che la cameriera aveva disposto a ventaglio sul tavolo. Guardò suo marito, ancora seduto sul bordo del letto, chino in avanti, e vide la maglietta da golf umida e sgualcita. Stava per tendere le braccia verso di lui e dirgli: «Oh, tesoro, cerchiamo di rilassarci, cerchiamo di divertirci ancora un po’, finché siamo qui». Ma quando si voltò verso di lei, Jim sembrava in preda a una tale serie di contorsioni, che Helen pensò che, se fosse passata accanto a quell’uomo sul marciapiedi, probabilmente non l’avrebbe riconosciuto. Lasciò cadere le braccia sui fianchi.

Jim si alzò in piedi. «Mi ha detto così, Helen». Il suo viso la fissò con un’espressione innaturale, implorante. Incrociò le braccia, toccandosi le spalle con le mani (il loro linguaggio gestuale privato, da molti anni), e Helen, forse perché non ci riuscì, forse perché non volle (non seppe mai quale delle due), non si alzò per andare da lui.

8

Era assolutamente vero: Bob era inutile. Sedeva sul divano di Susan senza muoversi. «Sei sempre stato inutile», gli aveva gridato lei prima di andarsene. La povera cagna arrivò e gli infilò il nasone sotto il ginocchio. «Va tutto bene», mormorò Bob, e quella si sdraiò ai suoi piedi. L’orologio gli diceva che era metà mattina. Si avviò con cautela verso il porticato sul retro, sedette sui gradini e si accese una sigaretta. Le gambe non smettevano di tremare. Una folata di vento trasportò le foglie gialle dell’acero norvegese prima a terra, poi sul porticato. Bob spense la sigaretta fuori, tra le foglie in movimento, le schiacciò col piede, mentre la gamba gli tremava ancora, e se ne accese un’altra. Un’auto rallentò accanto al vialetto e si accostò al marciapiedi.

Era una macchina piccola, non era nuova e aveva l’assetto basso. La donna dietro il volante pareva alta e quando aprì la portiera dovette darsi una bella spinta per uscire. Aveva più o meno l’età di Bob e gli occhiali le scivolarono giù lungo il naso. I capelli, una serie di sfumature diverse di biondo scuro, erano raccolti disordinatamente all’indietro da una molletta e aveva un cappotto lungo, di un tessuto bianco e nero che somigliava al tweed. Emanava quell’aria di familiarità che Bob avvertiva a volte quando vedeva gente del Maine.

«Ciao», gli disse. Si aggiustò gli occhiali sul naso e si avvicinò. «Mi chiamo Margaret Estaver. Sei lo zio di Zachary? No, no, non ti alzare». Con grande sorpresa di Bob si sedette accanto a lui sui gradini.

Bob spense la sigaretta e le tese la mano. Lei gliela strinse, sebbene fosse un gesto goffo, seduti lì com’erano, l’uno accanto all’altra. «Sei un’amica di Susan?», le chiese.

«Mi piacerebbe. Sono il ministro del culto della Chiesa Unitariana. Margaret Estaver», ripeté il suo nome.

«Susan è al lavoro».

Margaret Estaver annuì, come fosse una notizia che si aspettava. «Be’, immagino che non mi voglia vedere comunque, però ho pensato… Ho pensato di fare lo stesso una scappata. Probabilmente è sconvolta».

«Sì. È vero». Bob stava cercando un’altra sigaretta. «Ti dispiace… Scusami…».

Lei agitò una mano. «Una volta fumavo anch’io».

Bob si accese la sigaretta, sollevò le ginocchia e ci posò sopra i gomiti, per non farle vedere che gli tremavano le gambe. Soffiò il fumo lontano da lei.

«L’ho capito chiaramente proprio stamattina», disse Margaret Estaver. «Ho pensato: “Dovrei andare da Zachary e da sua madre per esprimere loro la mia solidarietà”».

Lui la guardò, socchiudendo gli occhi. Il volto di lei era soffuso di vivacità. «Be’, ho combinato un altro casino», confessò Bob. «C’è una donna somala convinta che abbia cercato di investirla».

«Ho sentito».

«Davvero? Di già?». La paura tornò a ruggirgli dentro. «Non l’ho fatto apposta. Davvero».

«Certo che no».

«Ho telefonato alla polizia per denunciare l’accaduto. Ho parlato con un agente che era un mio compagno di liceo. Non Gerry O’Hare, anche lui con me al liceo, ma Tom Levesque; era di servizio in stazione quando ho chiamato. Mi ha detto di non preoccuparmi». (In realtà Tom Levesque gli aveva detto che i somali erano tutti matti da legare. «Non ci pensare. Sono tutti isterici. Non ci pensare»).

Margaret Estaver allungò le gambe e incrociò le caviglie. Portava zoccoli blu aperti dietro e calzini verde scuro. Quell’immagine si posò lentamente sugli occhi di Bob mentre l’ascoltava.

«La donna ha detto che non le sei andato addosso, ci hai solo provato. Non ha intenzione di denunciarti, perciò la cosa finisce qui. Molta gente della comunità somala non si fida delle autorità, come puoi immaginare. E naturalmente in questo momento sono tutti ipersensibili».

A Bob tremavano ancora le gambe. Gli tremava perfino la mano mentre si portava la sigaretta alla bocca.

La voce di Margaret proseguì. «Ho sentito che da un po’ di anni Susan sta crescendo Zachary da sola. Anche mia madre l’ha fatto, e non è divertente, lo so. Molte donne somale crescono i figli senza un padre. Ma di solito ne hanno tanti, e hanno anche delle sorelle, o delle zie. Susan mi sembra molto sola».

«È vero».

Margaret annuì.

«Mi ha detto che ci sarà una manifestazione».

Margaret annuì di nuovo. «Tra qualche settimana, dopo il Ramadan. Una manifestazione a sostegno della tolleranza. Nel parco. Siamo lo Stato più bianco del paese, immagino che tu questo lo sappia». Margaret fece un lieve sospiro, alzò le ginocchia e, piegandosi in avanti, se le circondò con le braccia: un gesto sbarazzino e naturale che sorprese Bob. Margaret girò la testa e lo guardò. «Come puoi immaginare siamo un po’ indietro sul tema differenze culturali». La sua voce aveva un leggero accento del Maine, un’asciutta ironia che Bob riconobbe.

«Be’, Zachary non è un mostro, però è un ragazzo triste», disse. «Su questo non c’è dubbio. Tu hai figli?».

«No».

È lesbica. Donne ministri del culto. Era la voce di Jim, nella sua testa.

«Nemmeno io». Bob spense la sigaretta. «Però ne avrei voluti».

«Anch’io, sempre. Mi aspettavo di averne».

Imbarazzante. La voce sarcastica di Jim.

Margaret aggiunse, con uno slancio di energia nella voce: «Non voglio che Susan pensi che la manifestazione sia contro di lei, o contro Zachary. Sono un po’ preoccupata dal modo in cui molta gente di chiesa sta mescolando le cose, il voler essere “contro”. Contro la violenza, contro l’intolleranza nei riguardi delle differenze religiose. In questo hanno ragione. Ma c’è già la legge che condanna. I ministri del culto dovrebbero risollevare gli animi. Far sentire la loro voce, naturalmente. Ma risollevare gli animi. È banale, vero?».

Banale.

«Io non credo che sia banale», disse Bob.

Margaret Estaver si alzò e a Bob venne in mente la parola “traboccante” mentre la osservava, con i capelli in disordine e il grande cappotto. Si alzò anche lui. Lei era alta, ma lui era ancora più alto, e vide la ricrescita grigia dei capelli striati di biondo, mentre chinava la testa per frugarsi in borsa. Gli diede un biglietto da visita. «Davvero», disse. «Puoi chiamarmi quando vuoi».

Bob rimase fermo a lungo sui gradini del porticato. Poi rientrò e si sedette nel soggiorno gelido. Pensò alla signora Drinkwater che aveva detto che Zach piangeva. Pensò a Susan, che urlava. E pensò che non avrebbe dovuto andarsene. Ma l’oscurità lo avvolse. Sei un incompetente da ricovero.

Quando l’uomo al telefono gli disse quanto gli sarebbe costato prendere un taxi da Shirley Falls fino all’aeroporto di Portland, Bob rispose che non gliene importava. «Il più presto possibile», aggiunse. «La porta sul retro. Io aspetto lì».