RITORNO A ODISSEO
Di Maria Grazia Ciani
L’eroe dalla mente accorta: polymetis
L’uomo del lungo viaggio: polytropos
Il conquistatore di città: ptoliporthos
Oltre Itaca
«Dove stiamo dunque andando?» «Sempre verso casa» (Novalis, Enrico di Ofterdingen)
L’eroe dalla mente accorta: polymetis
Fin dagli inizi e per tutto il corso della loro storia i Greci hanno distinto l’intelligenza attiva ed esecutrice da quella inattiva e contemplante, definendo la prima con il termine metis, la seconda con il termine nous. L’intelligenza attiva, che prima di agire prevede e calcola, è per la sua stessa natura dotata di abilità e di prudenza, di astuzia e di pazienza. E molto astuto (polymetis), molto abile (polymechanos), molto paziente (polytlas) - qualità peraltro tipiche dei protagonisti delle fiabe - è, per definizione, Odisseo, personaggio omerico dalle radici antiche, che rinviano a stadi pre-greci, al mondo primitivo del folclore magico e delle saghe popolari1. Polymetis e polymechanos sono termini che in Omero indicano un’intensificazione della qualità, senza risvolti ambigui2. Sono doti attribuite a Odisseo fin dall’Iliade e trovano il loro riscontro esemplare nel decimo canto - il canto cosiddetto di Dolone -, in cui Odisseo e Diomede, affiancati nella spedizione notturna in campo troiano, si configurano come simboli di due nature diverse, l’una dotata - secondo la definizione di Apuleio nel De deo Socratis - di «consilium, mens, animus», l’altra di «auxilium, manus, gladius». Per un’impresa in cui la forza sola, e il coraggio e l’audacia, non bastano, l’apporto della metis è complemento necessario al buon esito dell’azione. Quando più tardi l’impresa si rivelerà al di là di ogni forza, soltanto la metis - soltanto Odisseo - potrà aver ragione dell’imprendibile Troia. Guerriero tra i guerrieri, l’Odisseo dell’Iliade tradisce tuttavia, nel confronto con gli altri eroi, una diversità che, se non lo emargina, certo lo contraddistingue. Sfuggono ai canoni dell’aristocrazia guerriera il suo tipo fisico, l’audacia sempre prudente e mai d’assalto, lo stesso genere di eloquenza: pratica, funzionale, mirata. Così come esula dalla concezione narratologica dell’Iliade, che tende a giustapporre una serie di episodi eroici, il fatto che le azioni di Odisseo sembrano far parte di un disegno, di un piano preordinato che riconduce tutto allo scopo finale, la conquista della Città. Ogni atto di Odisseo, infatti, non si esaurisce in se stesso ma si carica di significati, lascia dietro di sé una traccia, e alla fine le tracce si riuniscono per segnare un preciso itinerario. Odisseo appare come colui che riannoda i fili strappati, che sorveglia e garantisce gli esiti. Nei momenti cruciali, di crisi o di svolta nell’azione, suo è il gesto decisivo e determinante che corregge le deviazioni e imprime la nuova direzione agli eventi: Odisseo riconduce Criseide al padre e celebra, con un solenne sacrificio, la fine dell’ira di Apollo contro i Greci; Odisseo strappa lo scettro ad Agamennone per impedire d’autorità ai Greci di fuggire sulle navi; Odisseo fallisce la sua missione presso Achille per invitarlo a desistere dall’ira, ma subito dopo agisce in perfetta intesa con Diomede, quasi a indicare che l’impasse provocata dal ritiro del più forte degli eroi non è frattura irreparabile, che valore e saggezza, prudenza e audacia non sono inconciliabili3; Odisseo, infine, guida la regia della scena di riconciliazione tra Achille e Agamennone. Decisive e determinanti appaiono anche quelle imprese oblique e furtive, non tutte registrate dall’Iliade proprio perché non rientrano nel codice guerriero, ma raccolte e tramandate dai mitografi. L’Odisseo che nel decimo canto dell’Iliade rapisce i cavalli bianchi di Reso è anche quello che, secondo altre fonti, ruba dall’acropoli di Troia la statua di Atena e sottrae a Filottete l’arco di Eracle. Ma sono gesti che la leggenda nobilita, rendendoli necessari, indispensabili al compimento dell’impresa: solo con l’arco di Eracle, solo con i cavalli di Reso, solo con il sacro Palladio sarà possibile espugnare Troia. Le azioni di Odisseo sono tutte dirette a buon fine, l’uomo dalla mente accorta è davvero giusto e saggio. Non a caso, sempre nell’Iliade, la sua nave sta «nel mezzo», tra gli accampamenti di Achille e di Aiace, là dove sorgono i luoghi sacri delle assemblee e della giustizia e dove sono stati eretti gli altari degli dei4. nell’Iliade ancora, la metis di Odisseo si coniuga con quella di Nestore, che proietta nel presente tutta l’esperienza del passato e, rievocando, ammonisce e consiglia, per orientare al meglio le azioni da intraprendere. Ne consegue che tra il decano degli eroi e il re di Itaca vi è intesa e identità di obiettivi e di giudizi, vi è una affinità di sentimenti che sarà ribadita e confermata anche nell’Odissea. Ma, soprattutto, la metis di Odisseo eguaglia quella di Zeus, vigile, avveduta, mediatrice. «Pari a Zeus nella metis» () è l’Odisseo di Omero, e ciò conferma l’alto profilo della sua «astuzia», posta com’è sotto il segno della divinità massima, il dio della forma che non conosce, come altri dei, l’arte della seduzione e dell’inganno5. Il protagonista dell’Odissea non è, sostanzialmente, diverso dall’eroe dell’Iliade, né è diversa la qualità della sua metis. Unico è lo scopo del Viaggio, come lo era quello dell’Assedio: la conquista di una città, Itaca al posto di Troia. Sono mutate però le circostanze, che richiedono un uso molto più costante e articolato dell’intelligenza attiva contro insidie inaspettate, avversari sconosciuti, forze occulte. La scena muta di continuo e impone travestimenti, maschere, menzogne. Sopravvivere è un’arte che richiede abilità e prudenza, dissimulazione e audacia. Per risolvere i problemi pratici e le situazioni contingenti, la metis si serve dell’inganno, dei doloi - di cui Odisseo si dichiara esperto - come strumenti di un’azione guidata da saggezza e che ha come fine ultimo la salvezza personale. In tale contesto dolos è frutto naturale di metis e la sua applicazione non è viziata da alcun giudizio morale6. Lo scarto si definisce chiaramente nell’opposizione fra polymetis, epiteto esclusivo di Odisseo, e dolometis, il termine che connota, per contrasto, la cattiva metis di Egisto e Clitennestra, nei confronti dei quali la vendetta di Oreste si definisce legittima e serve da giustificazione anticipata alla strage dei Pretendenti, che sarà compiuta da Odisseo. Travestimenti e racconti bugiardi sono aspetti di altrettante metamorfosi, necessarie non solo alla sopravvivenza ma anche al mantenimento di un’identità costantemente minacciata. Come Proteo, Odisseo è costretto ad assumere tutte le forme, ma, come Proteo, anche lui è sostanzialmente «uomo che non mente» e «maestro di verità»7. Ancora e sempre, dunque, «pari a Zeus nella metis», anche se si muove sotto il segno di Atena, che sa trasformare la sapienza paterna, il consilium teoretico e perciò immutabile della divinità suprema, in saggezza pratica e tecnica. La figura di Hermes, invece, «il dio di tutte le strade e di tutte le sorprese», con i suoi tratti di ladro e di imbroglione e con la sua metis furbesca, è tenuta, volutamente, nell’ombra8. Tuttavia, il confine che separa la preveggenza dalla macchinazione, la prudenza dalla viltà, il calcolo dall’imbroglio, è sottile e appare precario anche in molti punti dell’Odissea, là dove emergono, nella personalità dell’eroe, quei tratti che sembrano rinviare alla tradizione precedente, alla figura del personaggio pre-ellenico che appartiene al folclore universale. Essere polymetis e famoso per gli inganni può assumere allora una valenza negativa che mina alla base il personaggio costruito da Omero. Subito dopo Omero, infatti, nello spazio che intercorre fra l’epica e la tragedia, fra il mondo degli eroi e quello dei sofisti, l’ombra invade tutti i campi in cui opera Odisseo, dall’universo dell’azione a quello della parola. Subito dopo Omero, egli si ritrova «odiato da tutti» come quel nonno Autolico la cui sospetta parentela era stata accuratamente censurata nell’Iliade9: ricade quindi nell’equivoco delle sue dubbie origini, dell’oscuro passato di furfante. Già «maestro di verità», diventa, a immagine dei sofisti, manipolatore di molte verità e, come tale, punto di riferimento obbligato di ogni situazione critica e conflittuale. Così, quando nel quinto secolo la crisi politica travolge Atene, la pubblica opinione condanna, insieme a Cleone e Alcibiade, anche Odisseo, eletto a simbolo di tutte le devastazioni prodotte dall’uso distorto e corrotto della parola, dall’esercizio determinato del raggiro e della frode10. Si esaltano invece, nelle figure di Aiace e Filottete, le vittime «pure», gli onesti e i giusti nei quali ogni cittadino ateniese si identifica. E l’eroe omerico - da leone trasformato in volpe - diventa il capro espiatorio di tutta una generazione tradita. La personalità che Omero aveva concepito unitaria, nella sua complessità, e monolitica, nonostante i travestimenti esteriori e l’uso sorvegliato dell’astuzia e della dissimulazione, si deteriora e si frantuma nella tradizione posteriore, coagulando intorno a sé le leggende meno edificanti, piegandosi alle più diverse manipolazioni. L’immagine dell’eroe omerico si degrada al punto da diventare irrecuperabile. Nel secondo secolo dopo Cristo, quando Filostrato vuole ridare un nome e un volto alla buona metis riabilitando, contro Platone, l’immagine egualmente degradata dei sofisti, dovrà resuscitare l’ombra di Palamede, il principe cretese le cui vicende si intrecciano con quelle di Odisseo in modo ambiguo e inquietante. Palamede, che prese parte alla spedizione contro Troia, era una sorta di alter ego di Odisseo, abile, ingegnoso, creativo: un personaggio destinato a emergere tra i principi guerrieri, a danno dell’eroe a lui più somigliante. Narrano i mitografi che Odisseo ordì contro di lui un complotto infame, per eliminarlo. Tra le colpe che la tradizione gli attribuisce, questa è senz’altro la più grave e non a caso Omero non vi accenna mai: sopprimere un compagno d’arme con l’inganno, per vili motivi, non era certo un gesto eroico, né rientrava in quel codice cavalleresco che l’Iliade celebra ed esalta. Nel dialogo intitolato Eroikos, Filostrato istituisce un aperto confronto fra Odisseo - uomo invidioso, maligno e dissimulatore e per di più guerriero di valore scarso - e un Palamede idealizzato nel quale non solo si assommano le virtù belliche di Aiace e di Achille, ma emergono anche la sapienza, l’abilità tecnica, la capacità inventiva, tutte le qualità positive della metis che in passato erano state patrimonio esclusivo di Odisseo. In questo confronto fra i due personaggi si misura il rovesciamento totale dell’Odisseo creato da Omero11.
L’uomo del lungo viaggio: polytropos
Un lungo cammino è quello che compie Odisseo per far ritorno in patria, dopo la guerra di Troia. Fra i tanti nostoi (viaggi di ritorno), il suo è il solo che unisca le componenti, entrambe narratologicamente gratificanti, di una peripezia straordinaria e di un avventuroso ed «eroico» lieto fine. Gli altri - dopo aver pagato il loro tributo ai difficili e precari percorsi della navigazione, come testimoniano ampiamente i resoconti di Menelao e di Nestore nell’Odissea stessa - si concludono per lo più tragicamente, oppure senza storia. Fra tutti, il ritorno di Agamennone si impone come paradigma esecrabile con il quale la vicenda di Odisseo viene messa continuamente a confronto. Benché profondamente diversa nella sostanza, l’Odissea è strutturalmente modellata sull’Iliade. Dieci anni di assedio per conquistare Troia, dieci anni di viaggio per riconquistare Itaca12. In entrambi i casi, uno stratagemma per conseguire la vittoria: il cavallo di legno e la gara dell’arco, ideati, con precisi scopi e perfetta rispondenza di intenzioni, il primo da Odisseo, la seconda da Penelope. Per dieci anni Odisseo vaga sul mare: il racconto dei suoi molti «errori» costituisce, insieme con la vendetta sui Proci, uno dei due temi portanti del poema. Entrambi fondamentali nell’economia della narrazione - così abilmente e attentamente costruita -, essi sembrano riflettere i due aspetti che in Odisseo convivono: l’antico protagonista di magiche avventure e il re guerriero che ritorna in patria. Il Viaggio, dunque, e la Vendetta. Il primo, nel suo aprirsi alla dimensione dell’irrazionale e del fantastico, appare in qualche modo anche arcaico rispetto alla Vendetta che, ricollegandosi all’ideologia aristocratica dell’Iliade, risponde a una concezione più tipicamente omerica. Nella ricezione posteriore del poema accade, invece, il contrario: arcaica appare la Vendetta - al pari dell’Iliade stessa, rispetto all’Odissea -, mentre il Viaggio recupera e moltiplica tutte le sue valenze favolose e seduttrici. Ma questo Viaggio di Odisseo, che in sé è portato a soddisfare l’immaginario collettivo configurandosi immediatamente come avventura ed evasione, ha invece una meta precisa e ben conosciuta e un itinerario che si qualifica sempre al negativo e si svolge perennemente al limite della catastrofe. L’«altrove» dell’Odissea precipita e sprofonda; il mondo degli inferi, Ade, è in scena per due volte, la stessa terra dei Feaci è paradiso ambiguo, forse un altro volto di Ade. Il Viaggio è come un lungo naufragio in cui l’unica terraferma - la sola realtà, il vero sogno - è Itaca. Per raggiungerla Odisseo si fa polytropos. Il termine, posto al primo verso del poema, è parola-chiave e, come tale, determinante. Ma l’incertezza sul suo significato è antica: da un lato la connotazione generica di «multiforme» che favorisce il sospetto di polivalenza e mutevolezza; dall’altro l’assimilazione a polyplanktos, col valore descrittivo di «colui che ha molto errato»13. Se però consideriamo nel loro insieme gli epiteti di Odisseo, non possiamo negare che, alle caratteristiche di polymetis e polytlas - qualità connaturate al personaggio fin dalle antiche origini - l’esperienza dell’impresa troiana aggiunge due connotazioni nuove: l’essere ptoliporthos, distruttore di città (o, come intendono alcuni, della Città, cioè di Troia), e, per immediata conseguenza, polytropos, «colui che ha errato tanto». È dunque questo il senso che si preferisce dare all’epiteto con cui Omero presenta il «suo» Odisseo, a patto però di intenderlo alla lettera, senza risvolti romantici: perché il viaggio di Odisseo non è avventura desiderata, ma pauroso travaglio, come ogni viaggio che introduca l’uomo antico - fino all’avvento di Alessandro Magno - negli spazi di un mondo ancora poco conosciuto, soprattutto quando lo mette in balia di un elemento estraneo e infido come il mare. «Il mare non fu mai amico dell’uomo… Non fedele verso alcuna razza, alla maniera della generosa terra… impenetrabile e senza cuore… ignora compassione, fede, legge, memoria». La lucida constatazione di Joseph Conrad - oltre a riflettere una certezza condivisa anche dai più appassionati uomini di mare - traduce un sentimento comune al popolo greco e presente tanto nell’Iliade quanto nell’Odissea: un atteggiamento diffuso che impedisce ogni tentativo di identificare Odisseo con i grandi protagonisti dei romanzi cari alla tradizione occidentale, con gli eroi di Conrad, di Melville, di Stevenson, di Mutis. I Greci non amano il mare, non si affezionano alle navi, detestano i pesci, di cui si nutrono solo in caso di estrema necessità14. «Passare le acque» è perifrasi mortale che rinvia alla barca di Caronte, traghettatrice delle anime dei morti. Ma nemmeno questo lugubre passaggio è concesso a chi rimane privo di sepoltura: sappiamo che la perdita del corpo mortale è ciò che il guerriero omerico - e l’uomo greco in generale - teme più della morte stessa. Perciò la «morte per acqua» - che impedisce in modo definitivo il recupero del corpo e con esso lo svolgersi dei riti che assegnano al defunto un luogo definito sulla terra, una collocazione precisa nella memoria, un permesso di transito per l’Ade - è la più desolata e aborrita delle morti15. Solo una pesante, inevitabile necessità spinge l’uomo greco ad alzare l’albero e sciogliere le vele. Saldamente legato alla terra, come quel tronco d’olivo inamovibile su cui ha inchiodato il suo letto nuziale, Odisseo è contrario a ogni mutamento. Non voleva, a suo tempo, lasciare Itaca per andare a Troia, non nutre illusioni sulla vita del guerriero16, la gloria non è all’apice dei suoi sogni. Finita la guerra (nella quale comunque egli si impegna al pari degli altri, non tanto nella esibizione personale e spettacolare del duello, nell’aristeia, quanto nel tessere tenacemente la trama che conduce al raggiungimento dello scopo finale), non ha altro desiderio se non quello di tornare. Né il viaggio di andata e la lunga vicenda dell’assedio e della conquista, né il viaggio di ritorno e i dieci anni di forzato vagabondaggio hanno il potere di trasformare l’uomo Odisseo, a cui le molteplici esperienze insegnano a esercitare al meglio le sue doti naturali -l’ingegno e la pazienza -, ma non ampliano gli orizzonti né aprono il cuore. Tutto si connota per lui - in rapporto alla sua isola, alla casa, alla famiglia -, come qualcosa di precario e transitorio: perché nessuna terra è Itaca, nessuna casa è la sua casa, nessuna donna è Penelope. Ogni viaggio ha un punto di partenza e un punto di arrivo, ma per Odisseo le mete coincidono, l’itinerario è un cerchio, da Itaca a Itaca; Troia stessa non è che una lunga tappa intermedia. Odisseo torna a Odisseo tanto più padrone della propria identità quanto più è costretto a nasconderla, ad annullarla17. Il suo non è dunque né un viaggio iniziatico, anche se lo schema su cui si basa ne riproduce comunque il modello, né un itinerario verso il Bene per la salvezza dell’anima, né un ripiegarsi in interiore homine per una più incisiva presa di coscienza. L’iniziazione di Odisseo si è già compiuta al tempo della prima adolescenza, in quella caccia sul monte Parnaso durante la quale ricevette la ferita il cui segno lo identifica e lo distingue. Quanto al cammino spirituale, non c’è ascesi nella peripezia di Odisseo e nulla nobilita i suoi cenci se non la ferma speranza di poterli scambiare alla fine con la porpora, riconquistando potere e regno. I suoi ideali sono rigorosamente terreni e l’immortalità che Calipso gli offre non ha alcun fascino per lui. Infine, se Odisseo si ripiega su se stesso, è solo per ritrovare intatto il suo mondo mai dimenticato, l’identità mai scalfita e incrinata dagli eventi18. Il viaggio di Odisseo è un itinerario di invenzione e di memoria che mescola abilmente la realtà e la fantasia, due mondi tra i quali l’eroe, protagonista e narratore insieme, si pone al limite e si muove con la stessa sorvegliata padronanza con cui sosterà sulla soglia della sua casa, a Itaca, passando e ripassando l’invisibile confine che separa le due identità presenti nella sua persona, il mendicante e il re19. E tra l’uno e l’altro mondo egli trapassa senza metamorfosi, immerso in quel sonno che lo aiuta a collegare con naturalezza i passaggi più ambigui e straordinari. È notte, infatti, quando Odisseo naufrago approda a Scheria e, subito dopo aver trovato un precario riparo, si addormenta; lo sveglierà la voce di Nausicaa che gioca con le ancelle: è giunto nel regno beato dei Feaci. È notte ancora quando Odisseo parte da Scheria. Salito sulla nave che viaggia senza guida, subito cade addormentato e al suo risveglio si ritrova a Itaca. Tra le due tappe, le due notti, i due sonni, si snodano i racconti di viaggio, sullo sfondo della terra incantata, così simile all’isola dei Beati, davanti al misterioso popolo dei traghettatori le cui navi solcano il mare avvolte nella nebbia e prive di nocchieri. Dalla notte dell’arrivo a Scheria all’alba del risveglio a Itaca trascorre un tempo indefinito: una, oppure mille notti, in quell’atmosfera fluida, oscillante fra reale e irreale, tra verità e leggenda, tipica delle favole e dei sogni20.
Il conquistatore di città: ptoliporthos
Quando conclude il Viaggio, Odisseo non ha ancora finito il suo cammino. Gli rimane da compiere un ultimo percorso, più breve ma non meno arduo, sul suolo stesso della sua patria, dove tutto gli è divenuto nemico e estraneo. È il cammino che lo porta dalla spiaggia di Itaca, dove lo hanno deposto i Feaci, alla capanna del fedele Eumeo, e dalla capanna di Eumeo alla soglia della sua casa, e ancora, dopo una lunga permanenza su questa soglia, al focolare della grande sala, dove avviene il primo riconoscimento da parte di Euriclea. La conquista del focolare rappresenta l’inizio del cammino ascendente di Odisseo, del suo riscatto; ed è significativo che proprio a questo punto si inserisca, insieme alla rievocazione della caccia iniziatica sul Parnaso, il ricordo di un altro episodio fondante: l’imposizione del nome a Odisseo, il suo «battesimo». Per quanto già confermata dal «segno» della cicatrice, è necessario che l’identità di Odisseo venga ribadita anche con la menzione di un rito che sottolinei, in un certo senso, la sua rinascita. È sempre Euriclea che racconta come Autolieo giunse a Itaca proprio quando il nipote, figlio dell’amata Anticlea, vide la luce; e come fu lei stessa a porlo sulle sue ginocchia, pregandolo di dargli un nome. La frase pronunciata allora da Autolieo: «Odisseo, questo sia il suo nome», segna ora la definitiva scomparsa di «Nessuno» e l’inizio della fase cruciale del poema: la vendetta e la riconquista del potere. Dalla Grecia partendo verso Troia, i re si fanno di necessità guerrieri; da Troia ritornando alle loro patrie, i guerrieri tornano a farsi re. È passato molto tempo, è tramontata un’era con le sue leggi e i suoi valori inderogabili, ma il mondo a cui tendono i reduci non è diverso, essi stessi non sono mutati affatto e il loro scopo è quello di ripristinare l’ordine antico secondo l’antica tradizione21. I fortunati ritorni di Menelao e di Nestore, che fanno da preludio beneaugurante al ritorno di Odisseo, rappresentano il modello ideale: una inevitabile, necessaria peripezia, molte ricchezze accumulate nel fortunoso viaggio, il vuoto di potere colmato senza mutamenti sostanziali e senza eccessivi traumi: la felice conclusione della spedizione nella Troade opposta alle infinite perdite, ai disastrosi naufragi, allo stato di anarchia provocato dalla lontananza. Di tutti i principi Achei coinvolti nell’impresa, molti sono morti a Troia e là sono sepolti, altri non sono riusciti a superare il mare; Agamennone, toccato il suolo di Micene, è caduto vittima di una congiura. E Odisseo, che pure è riuscito dopo molti travagli a raggiungere la patria, sembra condannato a ripercorrere le tappe del passato: ancora una volta si trova ad affrontare un assedio per conquistare una donna, una casa, una città. Ma questa volta la conquista non comporta saccheggio e distruzione, bensì restaurazione del potere e rifondazione autoritaria del dominio. Momento culminante è quindi la Vendetta, la strage dei Proci che segna la conclusione reale, e comunque l’acmé della storia22. In questo cammino verso la riconquista del suo regno, nella lotta contro coloro che, durante la lunga assenza, «vollero farsi re» (tale è l’accusa mossa ad Antinoo dal suo stesso compagno e amico Eurimaco), Odisseo è seguito dall’ombra di Agamennone. Se nell’Iliade il rapporto fra Agamennone e Achille costituisce uno dei fattori portanti dell’intera vicenda, non meno significativo è il legame che nell’Odissea si stabilisce fra il re di Itaca e il fantasma dell’Atride23. Duce contestato e discusso nell’Iliade, nell’Odissea Agamennone è l’emblema della dinastia usurpata, dell’antico potere abbattuto. È un simbolo negativo in cui tutta la vicenda troiana si riflette negativamente. L’ombra di Agamennone esige una vendetta che completa quella già compiuta da Oreste per vendicare il padre e il sovrano: è la vendetta per il guerriero ucciso con i suoi compagni quella che Agamennone reclama da Odisseo comparendo, anima ansiosa e dolente, in molti punti chiave del poema. Fin dal primo canto infatti Zeus ricorda il barbaro assassinio dell’Atride, esaltando il gesto di Oreste e l’uccisione dell’usurpatore Egisto (viene censurato, invece, il matricidio). Nel terzo canto Nestore accenna ancora alla vicenda e alla giusta punizione di Egisto. Nel quarto, Proteo apre uno spiraglio sulla drammatica scena del delitto, descrivendo nei particolari la morte dell’eroe e dei suoi compagni. Infine, nella prima discesa all’Ade, è l’ombra stessa di Agamennone a rievocare il suo assassinio, il massacro dei reduci, la morte di Cassandra. Ed è ancora Agamennone a ricordare la sua triste sorte nel canto finale, il ventiquattresimo, mentre davanti a lui passano le anime dei Proci e Anfimedonte gli narra la strage compiuta da Odisseo per vendicarsi. È un ampio disegno complessivo quello che si compie in quest’ultimo canto del poema che, dalla reggia di Itaca, libera finalmente e purificata dalla strage, ci trasporta all’improvviso e per la seconda volta nell’Ade riprendendo i fili di una storia interrotta con i funerali di Ettore nel ventiquattresimo canto dell’Iliade. Mentre sfilano le anime dei Proci appena uccisi -condotte dallo stesso Hermes che fu guida di Priamo alla tenda di Achille nella notte del Riscatto -, i due principi guerrieri, già nemici e opposti nell’Iliade, appaiono ora affiatati e concordi su un piano di reciproco rispetto, come al tempo dei giochi funebri in onore di Patroclo, ma con un senso di più alta e definitiva riconciliazione: Achille rende omaggio al condottiero dall’infelice destino e Agamennone rievoca la morte e i grandiosi funerali di Achille a Troia, la pagina mancante dell’Iliade. Non è solo per un ultimo confronto di destini che Omero, alla fine dell’Odissea, riporta in primo piano le ombre dei due eroi. È per dimostrare che Odisseo ristabilisce l’ordine tra i morti oltre che tra i vivi, portando a termine i disegni incompiuti della sorte. Ha conquistato Troia realizzando il grande sogno di Achille; ha ucciso gli usurpatori del suo regno riscattando l’amaro ritorno di Agamennone. Su Odisseo conquistatore e vincitore e sulle ombre pacificate di Achille e di Agamennone si chiude, nell’ultimo canto dell’Odissea, anche l’Iliade24. Nel suo piegarsi alla sorte, adattandosi a ogni tipo di travestimento, senza mai subire reali e durature metamorfosi, Odisseo è il tipico eroe che si muove nella dimensione dell’evento. È nell’ambito del Viaggio che questa sua natura emerge maggiormente insieme alle tracce del personaggio primitivo, l’Odisseo mediterraneo, illusionistico e pittorico, colto sempre di profilo e mai centrato nella sua frontalità. Di fronte si pone solo Achille che impersona la forma in cui si traduce l’areté dei guerrieri25. Nell’atmosfera inquieta dell’evento Odisseo può essere solo «toccato» dalla forma: in alcuni dei suoi molteplici quanto effimeri travestimenti, oppure quando intervengono gli dei - Atena, Apollo - a riversare su di lui quella charis che gli conferisce una miracolosa e temporanea perfezione. È in questa veste tuttavia che Omero lo presenta nell’ultimo canto del poema, dove si celebra l’Odisseo guerriero e conquistatore. Ptoliporthos è epiteto eroico, già riferito nell’Iliade ad Achille e allo stesso Odisseo, ma nell’Odissea solo ed esclusivamente a Odisseo, con valore doppiamente allusivo: vale infatti per Troia al passato e per Itaca al presente, e richiama, con la figura del guerriero, anche l’antica «forma» dell’eroe. Quando depone l’arco dell’inganno, col quale ha sterminato i Proci, Odisseo indossa l’elmo e prende lancia e spada, poiché queste sono le sole armi con cui può ristabilire l’ordine secondo l’antica norma, quella del mondo aristocratico e agonale dell’Iliade26. Nel momento in cui torna guerriero e si prepara ad affrontare la lotta a viso aperto, Odisseo è, come Achille e Agamennone, indifferente all’evento e forte della funzione che gli è conferita dalla forma. Il linguaggio stesso, in quest’ultimo libro dell’Odissea, moltiplica le reminiscenze del lessico iliadico: affiora così la nostalgia che percorre tutto il canto, nostalgia del glorioso passato, del tempo luminoso degli eroi27. Ma la battaglia finale, che sigla il trionfo di Odisseo sui parenti dei Proci, segna anche un fondamentale punto di svolta. Il misero, vagamente grottesco manipolo che sostiene Odisseo non gli consente - non può consentirgli - una soluzione gloriosa, affidata al giudizio delle armi. Atena infatti interrompe lo scontro sul nascere: è tempo di mediazione, di patteggiamenti, di pace. L’ultimo canto dell’Odissea appare quindi sdoppiato in due distinte dimensioni, ciascuna delle quali assume valore emblematico. Il mondo degli eroi, che rivive nella solenne e amorosa rievocazione, è relegato nell’Ade, consegnato per sempre alla celebrazione e al ricordo. E sulla terra, nel piccolo modesto regno di Itaca, non è più tempo di battaglie eroiche. Ancora una volta Odisseo si pone al limite, mentre «chiude» il passato e «apre» la nuova era, di cui impersonerà, in futuro, tutte le contraddizioni. A Odisseo guerriero Omero impone le armi del-l’areté: a Troia egli combatte, come tutti gli eroi, con lancia e spada, e lancia e spada impugna anche nell’Odissea, se è necessario. I Proci però vengono uccisi a colpi di freccia, dopo una «prova» di straordinaria destrezza. E tuttavia Omero non raccoglie la tradizione che fa di Odisseo un arciere per eccellenza come Paride, o come Teucro, il fratellastro di Aiace28. L’arco con cui Odisseo uccide i Proci ha, come la lancia di Achille, una sua storia. Fu donato a Odisseo da Ifito, in un incontro occasionale, è un’arma di grandi dimensioni, poco maneggevole, che Odisseo conserva a Itaca e raramente adopera, per gare di destrezza, forse per la caccia. Non è arco da usare in battaglia e non ha mai lasciato l’isola. Durante la lunga assenza di Odisseo è rimasto nella stanza del tesoro, appeso a un chiodo e coperto di polvere29. Nessuno l’ha toccato mai, perché nessuno è in grado di tenderlo, così come nessuno a Troia era capace di impugnare la grande lancia di Achille. Arma eccezionale, è riservata a un evento eccezionale, l’uccisione dei Proci per la riconquista della città. Come la lancia di Achille, per brevi istanti anche quest’arma è eroica, ma, come il cavallo di legno, è strumento della metis che giunge dove la forza - da sola - non ha potere di arrivare. L’arco, il letto nuziale, Penelope, Telemaco: un’arma che non è da guerra, un olivo radicato nel cuore della casa, due persone che formano con l’assente un saldo nucleo familiare connotato da qualità identiche e interscambiabili: accortezza, abilità, pazienza. È questa la «casa» verso cui fermamente tende Odisseo e che, a sua volta, fermamente lo attende; la vigile attenzione dei familiari si unisce alla muta pazienza delle cose. E Argo definisce, con la sua morte, il tempo dell’attesa in quest’isola che non è adatta ad allevare cavalli per le battaglie. Quando Odisseo, toccato il suolo di Itaca, si presenta a Eumeo sotto le mentite spoglie di un avventuriero cretese e gli narra una sua vita inventata, dice fra l’altro: «Non amavo… il lavoro, né la casa dove crescono i figli, mi erano cari i remi e le navi, le guerre, le lance lucenti, le frecce: cose funeste che agli altri fanno paura. Ma a me erano care…»30. È, in termini rovesciati, l’affermazione di un ideale di vita, la riconferma di scelte salde e precise, la trasparente rivelazione di un semplice segreto. Come diceva Paul Claudel: «La racine de l’Odyssée c’est un olivier»31. Oltre Itaca Quando Odisseo ha sterminato i Proci, giustiziato il capraio traditore e le ancelle infedeli, quando ha purificato la sua casa e infine, indossate ancora una volta le armi del guerriero, ha sconfitto gli ultimi avversari e stabilito i patti della pace, noi sappiamo, lui stesso sa da tempo, che la vicenda non è ancora compiuta. Rimane l’ipotesi di un altro viaggio, quasi un voto da sciogliere, un ultimo percorso di espiazione prima che l’eroe possa dirsi definitivamente ritornato. E se pur riesci a scampare, tardi farai ritorno e male, su una nave non tua, dopo aver perduto tutti i compagni. Troverai, nella tua casa, sciagure, uomini tracotanti che ti divorano i beni, corteggiano la tua sposa divina, le offrono doni. Della loro violenza ti vendicherai, al tuo ritorno. Ma quando, nella tua casa, avrai ucciso i Pretendenti, con l’inganno o affrontandoli con le armi taglienti, prendi allora il remo e rimettiti in viaggio fino a che giungerai presso genti che non conoscono il mare, da uomini che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle prore dipinte di rosso, né gli agili remi che sono ali alle navi. Ti indicherò un chiaro segno, che non potrà sfuggirti: quando un altro viandante, incontrandoti, ti dirà che sulla spalla porti un ventilabro, pianta allora in terra il tuo agile remo, offri al dio Poseidone sacrifici perfetti - un montone, un toro, un verro che monta le scrofe - e fa ritorno a casa: qui offri sacre ecatombi agli dei immortali che possiedono il cielo infinito, a tutti, senza escludere alcuno. La morte verrà per te lontano dal mare, ti coglierà nella vecchiaia ricca di beni, e sarà dolce. Avrai, intorno a te, un popolo felice. Questa è la verità che ti dico. Posta al centro dell’Odissea, nell’undicesimo canto, ripresa e ripetuta prima della fine del poema, nel ventitreesimo, la profezia di Tiresia ha innescato una spirale senza fine nella leggenda occidentale di Odisseo, ha rafforzato il mito del viaggiatore e dell’errante, ha moltiplicato i viaggi e le peripezie, complicato in modo inverosimile i risvolti psicologici di un personaggio che Omero aveva concepito duttile solo all’apparenza. «I remi che sono ali alle navi»: da questa espressione omerica, una semplice anche se molto suggestiva metafora, nasce la famosa immagine dantesca «dei remi facemmo ali al folle volo»32. Da Dante in poi Ulisse è costretto a riprendere il mare all’infinito, condannato a un eterno ultimo viaggio, verso mete sempre più lontane e straordinarie, oltre ogni limite conosciuto, in uno slancio irrefrenabile che sempre più lo estrania e lo allontana dall’Odisseo omerico, anche se recupera e variamente rielabora i molteplici aspetti e le leggende legate al primitivo personaggio indoeuropeo. Questo Ulisse che, dopo il suo ritorno, riprende il mare, nel mare finisce per perdersi, senza più meta. Il suo percorso da circolare diventa rettilineo, privo di riferimenti, un’odissea senza Itaca33. Non è questa la fine che Tiresia pronostica a Odisseo, pur nella velata ambiguità del suo verbo profetico. Opposto è invece il significato del messaggio, che vuole scongiurare all’eroe la morte più temuta - la morte in mare -, assicurandogli una fine serena a Itaca, in mezzo alla sua gente e ai suoi beni34. L’ultimo breve viaggio si configura quindi come il compimento di un voto, per placare definitivamente Poseidone e per esorcizzare, insieme alla collera del dio, anche quella del suo elemento, il mare odiato e temuto, fonte di pene infinite35. Dimenticare il mare per sempre, e le navi dalle prore tinte di rosso, e i loro agili remi, questo è lo scopo dell’ultimo viaggio. Un percorso rituale e un gesto rituale per siglare un approdo definitivo, un ritorno senza rimpianti. Il remo - non più remo ma ventilabro - è un pezzo di legno piantato nella terra, saldo come un tronco d’olivo.
MARIA GRAZIA CIANI
Il testo greco seguito per la traduzione è quello dell’edizione oxoniense di Thomas W. Alien.
1 Il più ampio esame del concetto di metis è in M. Detienne-J.-P. Ver-nant, Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, trad. it. Bari, Laterza, 1977. Vedi anche C. Diano, Forma ed evento (Vicenza, Neri Pozza, 1952, 19673), Venezia, Marsilio, 1993, 19942.
2 Vedi B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, trad. it. Torino, Einaudi, 1963 (nel capitolo: L’uomo nella concezione di Omero).
3 Considerato atipico nella struttura del poema tanto da essere ritenuto spurio, questo decimo canto trova il suo significato e la sua ragione d’essere proprio nell’accostamento al nono, col quale fa pendant. Lo scacco che Odisseo subisce nel confronto con Achille è riscattato immediatamente dall’azione compiuta in sintonia con Diomede. Il furto dei cavalli di Reso è la risposta apotropaica agli infausti pronostici di Achille.
4 Vedi Iliade 8,222-25 e 11,5-8; 11,806-08.
5 Di seduzioni e inganni Zeus rimane vittima, alle insidie dell’intelligenza soccombe. La metis di cui diventa possessore (secondo il mito egli l’acquista quando diventa re e ingoia appunto Metis, figlia di Oceano) è una forma divina che esclude, oltre qualsiasi valenza pratica, anche ogni margine di ambiguità: tratti che caratterizzano invece, richiamandosi alla tradizione pre-ellenica, altre divinità, come Crono, Prometeo, Efesto e soprattutto Hermes. Cfr. Diano, Forma ed evento, cit.
6 Occorre ricordare che in Omero dolos come metis sono qualità essenzialmente neutre, che si determinano in relazione alle azioni, conformemente al carattere dell’etica greca arcaica, che è «un’etica di situazione non di verità assolute ed eterne» (vedi Th. Cole, Sophia fra oralità e scrittura, in Tradizione e innovazione nella cultura greca da Omero all’età ellenistica. Scritti in onore di Bruno Gentili, a cura di R. Pretagostini, Roma, GEI, 1993, vol. II, pp. 573 ss.).
7 Diano, Forma ed evento, cit.
8 Diano, Forma ed evento, cit.
9 Autolico, padre di Anticlea e nonno materno di Odisseo, è figura quanto mai ambigua e problematica di traditore e furfante protetto da Hermes (Odissea 19,394 ss.). nell’Iliade è nominato proprio nel canto decimo - la notte delle spie -, in un contesto quindi estremamente congeniale alla polymetia di Odisseo; curiosamente però non viene messo in relazione con lui. La parentela è invece proclamata nell’Odissea dove Autolico presiede a due momenti fondamentali della vita del nipote Odisseo: l’imposizione del nome alla nascita e l’iniziazione durante la caccia sul Parnaso (là dove Odisseo viene «segnato» dalla famosa cicatrice). È dunque una presenza importante - e per questo inquietante - attraverso la quale Odisseo si colloca sotto il segno di Hermes, oltre che sotto quello di Atena. Il «lato Autolico» di Odisseo rappresenta l’aspetto più arcaico della sua personalità, quello che Omero cerca di rimuovere senza riuscirvi completamente (vedi W.B. Stanford, The Ulysses Theme. A Study in the Adaptability of a Traditional Hero, Oxford 1954). Vedi inoltre il commento a questa edizione: «L’uomo, cantami, dea» (§ 1) e Sotto il segno del dio (§ 13).
10 Cfr., fra tutti, Platone, Ippia minore 364 c.
11 Vedi Stanford, The Ulysses Theme, cit.; R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988. Vale la pena riportare il «ritratto» di Odisseo tramandatoci da Filostrato nell’Eroikos, quale esempio di profilo «basso» che, senza indulgere alla denigrazione volgare, è tuttavia esemplare di tutto il processo riduttivo subito dal personaggio e dal suo mito: «… era abilissimo nel parlare, ma era un dissimulatore, amava l’invidia e lodava la malignità, era sempre triste e come sovrappensiero, in guerra appariva più coraggioso di quanto non fosse in realtà, e non era esperto nell’armare un esercito o nel predisporre una battaglia navale o un assedio e neppure nel tirare l’asta o tendere l’arco. Le sue imprese furono molte, tuttavia nessuna degna di ammirazione, eccetto una, cioè l’impresa del cavallo vuoto che Epeo fabbricò con Atena, ma che Odisseo progettò… Venne a Troia nel pieno dell’età e tornò a Itaca ormai vecchio… era camuso, non alto, gli occhi svagati per i pensieri e i sospetti… Che tipo di uomo fosse l’uccisore e che tipo fosse l’ucciso e quanto Palamede fosse più sapiente e valoroso di Odisseo lo spiega a sufficienza Protesilao, che loda anche il lamento nell’opera di Euripide, quando il poeta nei versi del Palamede dice: “avete ucciso, avete ucciso, o Danai, il più sapiente, / l’usignolo delle muse che non faceva soffrire nessuno”, e ancora di più i versi successivi in cui dice che avevano agito obbedendo a un uomo astuto e impudente» (trad. di V. Ros
12 Per l’idea del doppio assedio e altre suggestioni vedi F. Ferrucci, L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi della narrazione, Milano, Bompiani, 1974, ora Milano, Mondadori, 1991. E inoltre G. Chiarini, Odisseo, Il labirinto marino, Roma, Kepos edizioni, 1991.
13 La questione è riassunta da S. West nel commento al primo canto dell’Odissea (vol. I, libri I-IV, Milano, Mondadori, Fondazione Valla, 1981, nota 1, p. 181). Vedi inoltre in questa edizione il commento: «L’uomo, cantami, dea» (§1).
14 L’atteggiamento dei Greci verso il mare è sottolineato, oltre che dagli studiosi di Omero in generale, anche da V. Propp, Le radici storiche dei racconti di fate, trad. it. Torino, Einaudi, 1949, e da W.H. Auden, Gl’irati flutti, trad. it. Venezia, Arsenale, 1987. Vedi anche Stanford, The Ulysses Theme, cit., e Chiarini, Odisseo, cit. Per un inquadramento più ampio vedi anche il datato ma sempre interessante saggio di A. Lesky, Thalatta. Der Weg der Griechen zum Meer, Wien 1947, nonché A. Momigliano, Sea Power in Greek Thought, in «Classical Review» 58, 1944, pp. 1-7.
15 Vedi Chiarini, Odisseo, cit.; S. Segatto, La morte per acqua negli epigrammi funerari dell’Antologia Palatina, Libro VII, diss. Padova 1992.
16 Iliade 14,85 ss. («a noi Zeus ha dato in sorte di dipanare il filo di dure battaglie, dalla giovinezza alla vecchiaia, fino a che ciascuno di noi muoia»).
17 Vedi sempre Stanford, The Ulysses Theme, cit., e P. Scarpi, La fuga e il ritorno. Storia e mitologia del viaggio, Venezia, Marsilio, 1992.
18 Il Viaggio, in tutta la gamma di variazioni possibili, è esaminato da Scarpi, La fuga e il ritorno, cit. Un’interpretazione singolare del percorso di Odisseo come itinerario in cui si riflette il modello del labirinto cretese è nel saggio citato di Chiarini, Odisseo. Il labirinto marino.
19 Vedi Odissea, vol. V (libri XVII-XX), introduzione e commento a cura di J. Russo, Milano, Mondadori, Fondazione Valla, p. 193, libro XVIII, ad v. 33. Vedi anche il commento alla presente edizione: Stare sulla soglia (§20).
20 Vedi commento: Racconti di mare e di costa (§ 12).
21 L’evoluzione del pensiero politico in Omero, dalla ribellione di Achille ad Agamennone alla vendetta di Odisseo e lo sterminio dei Proci, è uno dei percorsi del densissimo saggio di M. Bonanni, Il cerchio e la piramide. L’epica omerica e le origini del politico, Bologna, Il Mulino, 1992. Da una diversa prospettiva - sempre in rapporto alla «restaurazione» compiuta da Odisseo - vedi G.A. Samonà, Gli itinerari sacri dell’aedo. Ricerca storico-religiosa sui cantori omerici, Roma, Bulzoni, 1982, e Chiarini, Odisseo, cit.
22 Vedi M. Fernandez-Galiano e A. Heubeck, Introduzione e commento a Odissea, vol. VI (libri XXI-XXIV), Milano, Mondadori, Fondazione Valla, 1986. Una struttura analoga sorregge la costruzione dei due poemi; come l’Iliade anche l’Odissea ha nel canto ventiduesimo il suo punto cruciale: lo scempio del cadavere di Ettore corrisponde alla strage dei Pretendenti; seguono poi, in entrambi i poemi, i canti della catarsi e della tregua: i giochi funebri in onore di Patroclo e la purificazione della reggia fatta da Odisseo (canto XXIII), la sospensione della guerra per i funerali di Ettore e il più duraturo patto di pace stabilito da Odisseo (canto XXIV).
23 Al ruolo di Agamennone, già sottolineato dagli studiosi di Omero, dedica ampio spazio Bonanni, Il cerchio e la piramide, cit.
24 La narrazione dell’Iliade, interrotta con la morte e i funerali di Ettore, trova il suo compimento nell’Odissea attraverso brevi scorci che nessuna ricostruzione posteriore riuscirà mai a eguagliare: ventitré versi, nell’ottavo canto, per narrare, in modo asciutto e disadorno, la storia del cavallo di legno; due flash, altrettanto brevi, nel quarto e nell’undicesimo, per illuminare l’interno del cavallo, con i guerrieri in agguato; e il lungo sguardo volto all’indietro per riunire insieme, nel ventiquattresimo, la morte di Achille e il ritorno di Odisseo.
25 Cfr. Diano, Forma ed evento, cit.
26 A colpi di lancia vengono finiti anche gli ultimi dei Proci, dopo che le frecce ne hanno abbattuto la maggior parte. Non è da escludere che questo frettoloso recupero delle armi da guerra nella parte finale della Vendetta -con le successive scene di reminiscenza iliadica - serva da tramite per la parte conclusiva, quando avrà luogo il breve scontro «epico» che segna il definitivo reinsediamento di Odisseo.
27 Se vogliamo approfondire i preziosi indizi offerti dall’uso linguistico scopriamo che, passando dall’Iliade all’Odissea, si opera un singolare mutamento nell’ambito degli epiteti riservati a Odisseo: i più noti, come poly-metis e polymechanos, che nell’Iliade connotano il solo Odisseo distinguendolo dagli altri eroi, nell’Odissea si irrigidiscono nella fissità della formula, mentre si moltiplicano gli appellativi più comuni e tipici degli eroi dell’Iliade: amymon, megaletor, antitheos, dios, phaidimos, dioghenes (nobile, generoso, illustre, splendido, divino…). Attraverso di essi la nostalgia degli eroi sembra percorrere tutta l’Odissea.
28 Sfidato dai giovani Feaci nelle gare di destrezza (canto VIII), Odisseo replica dicendo: «So maneggiare l’arco ben levigato… Filottete soltanto mi superava quando, in terra troiana, noi Achei tiravamo con l’arco». Ma questa affermazione, situata in un contesto il cui scopo è quello di sottolineare una generica supremazia in campo sportivo - «In tutte le gare, per quante ve ne siano fra gli uomini, in tutte valgo qualcosa» -, non basta a consacrarlo arciere, nonostante il confronto con Filottete.
29 Vedi M. Fernandez-Galiano, Introduzione ai libri XXI-XXII dell’Odissea (vol. VI, cit., p. XI ss.). Vedi inoltre il commento alla presente edizione: I presagi e la caccia (§ 15), La gara dell’arco (§ 21).
30 Odissea 14,222-27.
31 Per un esame più ampio e dettagliato dell’albero di olivo in relazione a Odisseo, come simbolo di salvezza e di sopravvivenza, cfr. G. Germain, Genèse de l’Odyssée, Paris, Presses Univ. de France, 1954. (Vedi anche C. Segal, The Phaeacians and the Symbolism of Odysseus’ Return, in «Arion» 1, 1962; A. Bonnafé, L’olivier dans l’Odyssée et le fourré de Parnasse…, in «Quaderni di storia» 21, 1985).
32 Sulle «varianti» di questa metafora in campo greco, vedi, fra l’altro, B. Marzullo, I sofismi di Prometeo, Firenze, La Nuova Italia, 1993, p. 265 e nota 60.
33 L’Ulisse della tradizione occidentale ha una storia infinita che si perde in mille variazioni. Il primo che ha cercato di tracciarla è W.B. Stanford nel suo The Ulysses Theme che rimane ancora un fondamentale punto di riferimento. In tempi più recenti P. Boitani ha ripreso le fila delle metamorfosi di Ulisse nelle letterature europee, della lunga fruizione e della fecondità poetica del suo mito (L’ombra di Ulisse. Figure di un mito, Bologna, Il Mulino, 1992). Sull’Ulisse dantesco è ritornata ancora M. Corti per un riesame originale del Canto di Ulisse e della creazione poetica: Percorsi dell’invenzione. Il linguaggio poetico e Dante, Torino, Einaudi, 1993. Vedi infine C. Magris, Itaca e oltre, Milano, Garzanti, 1991, pp. 44 ss.
34 La morte in giovane età, per un alto ideale, è «dolce» e «bella», secondo l’ormai classica definizione di Jean-Pierre Vernant. Ma nella tradizione delle favole, l’eroe che muore giovane è anche colui che fallisce lo scopo, che non è abbastanza maturo per affrontare la vita. La necessità della guerra nobilita, nell’Iliade, la morte del guerriero; ma per Odisseo, protagonista dell’avventurosa favola del reduce, la «belle mort» è quella che lo attende in tarda età, al naturale compimento della vita, una fine in rapporto alla quale ogni altra - la morte in mare, la morte accidentale, la morte con le armi in pugno nel tentativo di riconquistare il regno - si configura come fallimento e «oltraggio» estremo. 35 Vedi Odissea, vol. III (libri IX-XII), Introduzione e commento a cura di A. Heubeck, Milano, Mondadori, Fondazione Valla, 1983, pp. 271-73.