lunedì 1 febbraio 2021

IL GIUNCO MORMORANTE Nina Berberova


IL GIUNCO MORMORANTE
 di Nina Berberova


 Di libertà e mistero nella terra di nessuno 

"L’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà del mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche soltanto un’ora al giorno, o una sera alla settimana, un giorno al mese; vive di questa sua vita libera e segreta da una sera (o da un giorno) all’altra, e queste ore hanno una loro continuità"
 “No man’s land”, così la scrittrice russa Nina Berberova definisce quella terra di nessuno che scorre parallelamente alla nostra vita ‘visibile’, quella sfera spazio-temporale di cui gli altri non sono a conoscenza, dove siamo totalmente padroni di noi stessi. In questa “no man’s land”, percepita da Berberova sin dalla giovinezza e concettualizzata nell’opera Il giunco mormorante (Mysljaščij trostnik, scritta nel 1958 e tradotta per Adelphi nel 1990 da Donatella Sant’Elia), gli uomini abbandonano con fermezza qualsiasi inibizione per essere colpiti da improvvise intuizioni – realizzazioni che James Joyce non esiterebbe nel definire vere e proprie epiphanies – ed inaspettatamente comprendere, scoprire. 
" In questa no man’s land, dove l’uomo vive nella libertà e nel mistero, possono accadere strane cose, si possono incontrare altri esseri simili, si può leggere e capire un libro con particolare intensità, o ascoltare musica in modo anch’esso inconsueto, oppure nel silenzio e nella solitudine può nascere il pensiero che in seguito ti cambierà la vita, che porterà alla rovina o alla salvezza"
  Mistero e libertà: due parole sulle quali Berberova insiste a più riprese. Quest’altra vita – di cui non tutti e non sempre avvertiamo il bisogno – si insinua allora nella smania di libertà in cui l’uomo riesce a percepirsi come singolo, fuori dall’ordinata inviolabilità del creato. Una disillusa voce narrante femminile tenta di opporsi alla sovranità dell’eccessiva coscienza, quella autentica e assoluta malattia dostoevskijana, e mostra al lettore come vivere in una “proprietà segreta” e lasciarsi trasportare dall’autenticità delle emozioni, dalla spontaneità dei desideri, dagli istinti più veri e dai ricordi remoti e gelosamente nascosti dall’invadenza e dall’importuna curiosità del mondo. A volte mi dicevo persino: forse hai pensato troppo in tutta la tua vita. Gli altri non pensano e vivono felici. Dài, per una volta concediti la libertà di non pensare La scrittrice tratteggia nell’arco di un breve, ma toccante ed intenso romanzo piccoli universi celati, in cui l’io narrante racconta e descrive con acuta lucidità i meccanismi dell’animo umano. La protagonista si auto-osserva e anatomizza con attenzione chirurgica il proprio mondo interiore per giungere ad uno straniamento da se stessa, ad uno sdoppiamento. Ne risulta una dimensione altra, assolutamente intima, diritto inalienabile di ciascun individuo nella quale non è necessario confrontarsi con la ‘realtà esterna’ se non per cercare conforto, placare l’arsura bevendo avidamente dal calice della sofferenza umana o, meglio, russa. Quanta sofferenza, qui, e quanta ce ne sarà ancora, non solo sofferenza in genere, ma sofferenza russa, quella nel cui alveo anch’io oggi mi trovo Come un giorno, guardando la buia Parigi del tempo di guerra, penso: quante sofferenze ci sono state qui, russe e del mondo intero, quanto patire; e ora c’è anche una goccia della mia sofferenza, piccolissima e grandissima Realtà esterna che, tuttavia, irrompe prepotentemente tra le pagine, facendo emergere attraverso un susseguirsi di “mentre” – rapide, seppur dettagliate inquadrature cinematografiche – una quasi incolmabile frattura tra la grande Storia mondiale e la storia dei singoli personaggi. Il giorno dell’occupazione di Parigi, mentre l’esercito tedesco la percorreva da nord-est verso sud-ovest, nel nostro appartamento la vita continuava – come del resto continuava in molti altri luoghi della città: qualche cinema era aperto, e la metropolitana non si fermò un solo istante. Fu una strana giornata, difficile da raffigurarsi Poi la vita riprese a scorrere rapida. E soltanto la mia no man’s land restò come era Per gli emigrati russi di cui la protagonista si fa portavoce, l’Europa della prima metà del Novecento è una ‘realtà esterna’ complessa ed intricata nella quale lo spazio e il tempo si confondono, offuscandosi, per lasciare il posto ad una terribile, implacabile nostalgia e ad un unico doloroso interrogativo: quando torneremo in Russia? Tre città – Parigi, Stoccolma e Venezia – si alternano in un reticolo letterario in cui lo scarto tra presente e passato viene annullato, appiattito. Lo scorrere del tempo viene deformato e persino i giorni della settimana assumono nomi altri scanditi da un’unica grande legge: quella della segreta intimità di due individui che condividono uno stesso impercettibile e misterioso frammento di terra. Ne avevamo parlato già all’inizio della nostra storia, avevamo ricordato il precetto: «onora il giorno del sabato; per sei giorni lavorerai e farai ogni opera tua; ma il settimo giorno è sabato…» prendilo a te stesso per te; e ognuno di noi due aveva questo «sabato» (lo stesso per entrambi), e per distinguerci dagli altri lo chiamavamo «martedì». «Diritto al martedì» dicevamo allora Una zona d’ombra abitata con coraggio e risolutezza dalla voce narrante che, caparbia, non scende a compromessi neppure quando la posta in gioco rappresenta per lei la vera ragione di vita. Un grido di affrancamento e riscatto, un’ultima dichiarazione di libertà ed estrema consapevolezza chiudono definitivamente dall’interno la porta della “no man’s land”, dove alcuna ingerenza verrà più tollerata. Come se non fosse mai realmente esistita, in un attimo svanisce Venezia e, assieme a lei, svanisce e si dissolve dagli indiscreti sguardi estranei il mondo segreto della protagonista. Il giunco pensante mormora, protesta. 

IL GIUNCO MORMORANTE

 

Est in arundineis  modulatio musica ripis 

E' armonia nelle onde marine,

nelle furiose dispute degli elementi.

Melodiosa musica, il fruscio

scorre tra i fluttuanti giunchi.

In tutto è un ordine inviolabile,

e piena consonanza è nel creato;

solo nell'illusoria libertà

ci sentiamo divisi da natura.

Di dove, come è nata la discordia?

Perchè nel coro universale l'anima

non canta come il mare, e il giunco

pensante mormora, protesta?

E dalla terra alle estreme stelle

non ha risposta fino ad oggi

il clamore della voce ne deserto,

il lamento dell'anima braccata?

Fëdor Tjutcev



Nella vita di ognuno esistono momenti – quando la porta sbattuta all’improvviso e senza alcun visibile motivo di colpo si riapre, quando lo spioncino chiuso un attimo fa viene di nuovo aperto, quando un brusco «no» che sembrava irrevocabile si muta in «forse» –, momenti in cui il mondo intorno a noi si trasfigura, e noi stessi ci riempiamo di speranza come di nuovo sangue. È stata concessa una proroga a qualcosa di ineluttabile, definitivo; il verdetto del giudice, del dottore, del console, è stato rinviato. Una voce ci avverte che non tutto è perduto. E con gambe tremanti e lacrime di gratitudine passiamo nel locale adiacente, dove ci pregano di «aspettare un poco» prima di spingerci nel baratro. Così accadde anche a me quella sera, quando accanto a Ejnar facevo la fila aspettando l’autobus che avrebbe portato all’aeroporto Le Bourget i passeggeri in partenza per Stoccolma. Lui partiva, io restavo. Tra la folla, nel buio crocevia parigino (era il 2 settembre 1939), alle nove di sera, non c’erano altri accompagnatori oltre me – li avevano fatti restare tutti nella sala con le nere tende già tirate. C’erano stati addii, abbracci, persino lacrime e, come sempre avviene, lo staccarsi di mani infantili da maniche, tasche. Ero uscita con Ejnar dalla porta girevole quasi macchinalmente. In una mano lui aveva una cartella gonfia, nell’altra un nécessaire di cuoio. Sul braccio destro portava un cappotto. La mia mano stringeva le sue dita sotto quel cappotto, sfiorando la fredda serratura del nécessaire. Di tanto in tanto Ejnar mi lanciava un’occhiata. Nella penombra il suo viso pareva estraneo, stanco, turbato, erano scomparsi quei duri contorni degli zigomi e del mento che io tanto amavo, negli occhi c’era inquietudine, la bocca era semiaperta. «È brutto» pensai, mentre sentivo che le lacrime stavano per sgorgarmi dagli occhi e non avrei avuto abbastanza voce per dirgli: «Non sapevo che fossi così brutto». Con in mano il biglietto e il passaporto, i passeggeri salivano sull’autobus. Ejnar si passò il cappotto sul braccio sinistro, io ritirai la mano per afferrare il nécessaire. Tese i documenti. «E voi?». Tacevo, avevo paura della mia voce: chiunque, guardandomi, avrebbe capito che non partivo per Stoccolma. «Volete fare un giro fino a Le Bourget?» mi chiese un impiegato in uniforme. «Io...». «Salite, non trattenete gli altri». Ancora oggi non riesco a credere a queste parole. Possibile che una cosa simile sia realmente accaduta? E perché proprio a me? Io non avevo chiesto nulla, e del resto a chi poteva venire in mente di chiedere una cosa del genere a un funzionario? Mi arrampicai sull’autobus e senza parlare (Ejnar avanti, io dietro di lui) andammo verso gli ultimi posti sul fondo e ci sedemmo. Mi passò un braccio intorno alle spalle, io rimasi immobile, addossata alla sua spalla, al suo petto: il petto largo e tranquillo in cui batteva il cuore di Ejnar, che io avevo a lungo ascoltato durante le mie ultime notti insonni. L’autobus si riempì lentamente; dal finestrino si vedeva l’andirivieni dei facchini che caricavano i bagagli sul tetto. Sopra le nostre teste risuonavano i loro passi, un tipo bruno corse verso un finestrino, chiese qualcosa, e dall’autobus una voce gli rispose in svedese. Uno col berretto bianco, l’autista, passò per il corridoio e contò sulle dita i presenti, saltando me. Misero in moto, la porta sbatté. Alcune persone corsero fuori dalla sala d’attesa agitando i fazzoletti, e lentamente l’autobus si mosse. Mi strinsi ancora più forte a Ejnar. «Adesso sei brutto» riuscii finalmente a dire, e all’improvviso mi venne voglia di ridere. Probabilmente lui pensò che piangessi e mi passò un dito sulle palpebre. Gli presi la mano e la serrai contro le mie labbra. Quei minuti mi erano stati regalati! mi era stata concessa una proroga! Un’ora soltanto, ma come sempre in quei momenti mi parve molto. La buia Parigi, la morta Parigi, quella notte era verde scuro e non nera; la città, e il cielo sopra la città, e il fiume, e quello che c’era all’interno dell’autobus, tutto era verde scuro, color bottiglia: i nostri volti, e quelli degli altri passeggeri, e il Grand Palais davanti al quale passavamo in quel momento, erano tinti di un unico colore, uno spesso vetro scuro ci aveva imprigionato – lui, me, la città. Quelle strade che entrambi conoscevamo così bene e che adesso ci correvano accanto appartenevano allo strano mondo verde scuro in cui io ed Ejnar eravamo insieme; e a questo punto fu chiaro che non ci eravamo detti molte cose nella fretta degli ultimi giorni, di quell’ultimo giorno in particolare; tanti discorsi erano rimasti in sospeso: su noi due e sul mondo, sulla guerra e sul futuro, quello del mondo e il nostro, e in generale era come se noi due non avessimo ancora cominciato nulla, mi parve che io e lui non avessimo e non avessimo mai avuto alcun passato, e del futuro non aveva neanche senso parlare – fantasmi davanti, fantasmi alle spalle, noi due stessi fantasmi, e tutto, intorno, è illusorio, e l’unica cosa reale è questa forza che ci separa: adesso sei qui, con me, adesso siamo insieme, e tra un’ora – tu non sei qui, tu sei solo, e io sono sola, e non c’è assolutamente più nulla di quanto ci univa, tranne forse il tuo pensare a me, il mio a te.
«Tu e Parigi» diceva Ejnar, ma io non ascoltavo quello che stava dicendo. «Promettimi...». Di cosa sta parlando? Sa che gli prometterò qualunque cosa mi chiederà. Forse anch’io dovrei dirgli: promettimi. Ma c’è ancora tempo. Più tardi.

    «Parigi, e tu, e tutto ciò che è stato» e di nuovo diceva qualcosa che la mia ragione non riusciva a comprendere, pur sapendo che doveva sforzarsi, che non ci sarebbe stata un’altra occasione – né domani, né dopodomani, forse neppure tra un anno. Più in là il mio sguardo non arrivava. La bottiglia di spesso vetro verde scuro in cui io ero finita (e da cui lui stava per uscire) non si sarebbe rotta così presto, sarebbero venuti i giorni 
     dell’autunno e dell’inverno, le nere notti di guerra, e in essi sarei stata sola.

    «...e in continuo pericolo,» diceva Ejnar, quasi leggendo nei miei pensieri, come sempre «e continuamente privata dello stretto necessario; promettimi...». E io, continuando a tenere la sua mano sulle labbra, sussurrai: «Ma certo».

    Ricordo che prima, molti anni prima, guardavo Parigi come da lontano, con un senso di distacco e freddezza: «quanta storia in questa città!» pensavo, oppure «quanta bellezza!» oppure «quanta natura!» (quanto cielo, uccelli, fiori). O ancora: «quanti monumenti e libri, e tombe e lapidi di marmo: “qui è vissuto il tale”». Ma adesso guardavo gli alberi del lungosenna che mi volavano incontro e pensavo: «quanta sofferenza, qui, e quanta ce ne sarà ancora, non solo sofferenza in genere, ma sofferenza russa, quella nel cui alveo anch’io oggi mi trovo – da Turgenev che soffriva in un appartamento di rue Douai, e Dostoevskij che pativa in un albergo di boulevard Saint-Michel, attraverso l’ormai dimenticato autore dei versi sul fiume che forma la curva più sinuosa, che qui si suicidò ancor prima dell’“altra” guerra (una volta ho visto la sua tomba, la lapide è intatta, ma un cespuglio di rose selvatiche l’ha completamente ricoperta), attraverso il 
     pittore smarritosi nelle capitali europee (qualcuno di voi ne ricorda ancora il nome?) che arrivò qui e si fermò, e diceva: “ti maledico, ma resto”, e poi inghiottì dei sonniferi, e, come talvolta accade, non gli fecero la lavanda gastrica – fino a me, alla mia piccolissima e grandissima sofferenza mentre l’autobus sale verso l’Opéra».

    «C’è una salita, la senti?» disse Ejnar. «Non me ne ero mai accorto, eppure conosco bene questi posti!».

    Tutto era morto. E solo ieri sera qui tutto rumoreggiava e sfavillava di luci, e la tenebra verde scuro era ancora una novità per le strade, gli edifici, il cielo e il selciato che per tanti anni avevo creduto colorati di lilla e malva.

    «Tutto è diverso oggi,» disse di nuovo, pianissimo «ti guardo, guardo dal finestrino, e non credo, capisci, non riesco a credere che tutto questo stia per finire».

    Mi guardò negli occhi e chiese sorridendo:

    «Che poesia c’è sull’argomento?».

    Mi prendeva in giro: diceva che in russo c’è immancabilmente una poesia per ogni caso della vita.

    «Una ce n’è già stata» dissi «quando l’autobus è partito. Ma non te la dirò».

    «No, devi dirmela!».

    «È stato quando ti ho detto che non sapevo quanto fossi brutto».

    Non dicemmo più nulla. E la Gare du Nord, verde scuro nel verde scuro del boulevard, restò dietro di noi.

    «Quando verrai a Stoccolma...»: era una delle favole che ogni tanto mi raccontava. Un’altra era: quando andremo in Brasile. La terza: quando torneremo in Russia. Non conosceva il russo, non era mai stato in Russia, aveva puro sangue svedese nelle vene, ma suo padre in gioventù aveva vissuto a Pietroburgo, parlava russo, e adesso, vedovo, aveva in casa una njanja russa capitata in modo per me assolutamente incomprensibile nella loro famiglia, con tanto di icone e samovar. In una fotografia che conoscevo bene lo si vedeva seduto in poltrona, paralizzato, magro, lungo – somigliava a re Gustavo –, e accanto a lui, un po’ più indietro, con un fazzoletto in testa e un grembiule ricamato, c’era la njanja russa, una donna corpulenta ma con un piccolo viso grinzoso, una mano sotto il mento, la schiena contro lo stipite della porta.

    «Quando verrai a Stoccolma» diceva Ejnar «e passeggerai nel parco reale, in una finestra del palazzo, sulla sinistra, in alto, vedrai un braccio che si muove, come di qualcuno che dirige 
     un’orchestra: è il nostro re che ricama».

    «E quando andremo in Brasile?».

    «Quando andremo in Brasile dovremo assolutamente informarci sui giacimenti diamantiferi che appartenevano al padre di mia madre. Un tempo rendevano molto, poi nulla più, e ora saranno completamente ricoperti di erbacce, da un pezzo nessuno ne ha più sentito parlare».

    «Sei sicuro che siano in Brasile, e non in Rhodesia?».

    «Così ha detto mio fratello».

    «E quando torneremo in Russia?».

    «In Russia dovremo andarci per la njanja. È di Kurgany, un villaggio della volost’ di Lukin, nel distretto di Ves’egonsk. Bisogna portarcela, a volte soffre di una terribile nostalgia».

    «Adesso le volosti non esistono più».

    «Distretto di Ves’egonsk, governatorato di Tver’».

    «E neanche i distretti, diglielo».

    «Cosa c’è, allora?».

    «Province, regioni, repubbliche».

    «Va bene, glielo dirò».

    E l’ampia e diritta strada che ci portava fuori città correva sotto le nostre ruote, e anche il tempo correva, incontro e oltre noi.

    Nord-est. Già da tempo, non so perché, lo sento come una direzione di sventura, 
     minacciosa, funesta. Sarebbe ora di capirne il motivo. Un aereo vola a nord-est e sparisce. Nessuna notizia da nord-est. Il nemico arriva da nord-est. Qualcuno è andato a nord-est e non si è più visto. Basta! Ferma i miei pensieri, ti prego, da sola non ci riesco. Parliamo del Brasile, parliamo della Rhodesia. Oppure parliamo della guerra.

    «È iniziata stamattina».

    «Soltanto stamattina, possibile? A me sembra che duri già da tanto tempo».

    Le sue mani, le mie – e tutte e quattro si aggrappano una all’altra. Non serve comunque a nulla. Serve soltanto finché stiamo insieme su quest’autobus traballante. Sono rimasti ancora venti minuti, forse diciotto.

    Folle di reclute camminavano nel buio; l’autobus le superò inclinandosi fortemente da un lato, così forte che finii con tutto il corpo su quello di Ejnar, e di nuovo ci guardammo.

    «Non mi dimenticherai?» chiese ad un tratto.

    «Domanda sconveniente, non ti assomiglia».

    «Lo prometti?».

    «Lo prometto. Che cos’altro devo promettere?».

    «Tutto ciò che vuoi. Prendo tutto».

    Mi strinse forte a sé. Non parlammo più. 
     Dall’autobus non mi lasciarono scendere. Io serrai il mio viso al vetro, come scrivevano un tempo nei romanzi:

    «La contessa giaceva semisdraiata sul sofà e il conte serrava la fronte infuocata al freddo vetro...».

    Lampioni azzurri come enormi veilleuses nella notte verde scuro. Non sarà un regno sottomarino? Non ci avrà sommersi tutti? Ejnar, posato a terra il nécessaire, mi saluta con la mano – è l’ultimo, tutti sono già entrati nell’ampia porta.

    «Ejnar!», corro verso l’uscita per scendere, raggiungere quella porta e gridargli: «Ejnar! Addio! Sii felice sulla terraferma, qui noi stiamo andando a fondo, Ejnar, andiamo a fondo, e annegheremo, e se pure sopravviveremo non saremo più noi, non saremo più gli stessi...». Ma la porta dell’autobus è chiusa dall’esterno, hanno fatto finta di non vedermi, e non c’è nessuno intorno. Mi siedo sul primo sedile che capita, di nuovo guardo dal finestrino: niente, nessuno. Finché non arriva l’autista, lo stesso che ha contato i passeggeri sulle dita e saltato me. Non dice nulla, mette in moto, volta con prudenza, traccia un cerchio, e calmi e tranquilli torniamo indietro. Apro il finestrino, rumore di vento fra i capelli, la macchia lontana della città, verde scuro con riflessi color oliva, si fa più vicina. 
     Un lungo spasmo nel petto, le lacrime mi sgorgano dagli occhi, ma io le fermo, è come se mi fermassi tutta, e sto immobile, e guardo a quanto è successo. Ma la realtà del passato e del presente è tutta deformata, mostruosamente appiattita, nel quadro manca qualcosa, e qualcosa è di troppo. Il vento fruscia nei capelli, ed ecco che già mi corre incontro la torre di guardia, ecco anche l’incrocio di poco fa. Presto sfileranno sotto i miei occhi le stesse strade, gli stessi edifici, presto questo viaggio irreale (a cui nessuno crederà, a cui io stessa non credo) avrà fine. Lo spioncino si richiuderà, la porta sbatterà schiacciando la viva carne di qualcuno, e la vita riprenderà il suo corso come un fiume verde scuro.
 E folle di reclute continuano a camminare nel buio.