domenica 7 febbraio 2021

LA CONTROVITA Philip Roth



LA VITA NON CONSISTE NELL'O/O

"Il problema non consiste nell'o/o, nella scelta consapevole tra possibilità ugualmente difficili e incresciose: non è un o/o, ma un e/e/e/e/e e ancora e. La vita è composta di e: l'accidentale e l'immutabile, l'elusivo e l'afferrabile, il bizzarro e il prevedibile, l'attuale e il potenziale, tutte realtà che si moltiplicano, si aggrovigliano, si sovrappongono, entrano in collisione, si combinano tra loro... più il moltiplicarsi delle illusioni! Questo moltiplicato per questo, moltiplicato per questo, moltiplicato per questo...Possibile che un essere umano dotato di intelligenza non sia molto di più che un produttore di incomprensioni su larga scala?". Philip Roth "La Controvita"

Philip Roth
LA CONTROVITA.
Traduzione dall'inglese di Pier Francesco Paolini.
BOMPIANI.
Prima edizione Bompiani marzo 1988.
INDICE.
1. Basilea.
2. Giudea.
3. In volo.
4. Gloucestershire.
5. Cristianità. 
A mio padre ottantacinquenne.
BASILEA.
Sin da quando il medico curante, nel corso di un'ordinaria visita di controllo, aveva scoperto qualcosa di anormale nel suo elettrocardiogramma e lui, quindi, si era immediatamente sottoposto al cateterismo delle coronarie che rivelò l'entità del male, Henry si era adeguatamente curato con farmaci che gli avevano consentito di portar avanti il lavoro e la vita in famiglia esattamente come prima. Non lamentava neppure quel dolore al torace e quell'affanno che il medico si sarebbe aspettato di riscontrare in un paziente affetto da ostruzione arteriale così avanzata. Non aveva manifestato alcun sintomo, prima della visita rivelatrice dell'anomalia, e seguitò a non accusarne per un anno intero, finché non decise di farsi operare: nessun sintomo cioè, a parte un tremendo effetto collaterale delle medicine che controllavano la cardiopatia e riducevano, sensibilmente, il rischio di un infarto.
I guai cominciarono un paio di mesi dopo l'inizio della cura. "L'ho già sentito mille altre volte, " gli rispose il cardiologo, quando Henry gli telefonò per riferirgli quel che gli stava succedendo. Il medico, non oltre la quarantina come Henry e, al pari di lui, professionista di successo e uomo vigoroso, si mostrò estremamente comprensivo. Avrebbe cercato di ridurre la dose per far sì che il farmaco, un beta-bloccante, pur seguitando a tener a bada il disturbo coronarico e a ridurre l'ipertensione, non interferisse però con la funzione sessuale di Henry. Con un opportuno dosaggio si riesce a volte, disse, a stabilire un "compromesso".
Fecero esperimenti per sei mesi, dapprima variando le dosi poi, quando ciò non sortì alcun effetto, cambiando tipo di medicina. Inutile: non si svegliava più, la mattina, con il membro in erezione né aveva sufficiente potenza per avere rapporti con la moglie, Carol, o con l'assistente, Wendy, la quale era convinta di esser lei, e non la medicina, responsabile di quell'increscioso mutamento. Alla fine della giornata lavorativa, chiusa a chiave la porta dell'ambulatorio, abbassate le tapparelle, Wendy usava tutto il suo savoir-faire per eccitarlo, ma era fatica sprecata, e dura fatica per entrambi, e quando lui le disse che era inutile, e la pregò di smettere, e gli toccò addirittura aprirle le mascelle per scalzarla di là, lei rimase più che mai convinta che la colpa fosse sua. Una sera, quando lei, scoppiando in lacrime, gli disse che era solo questione di tempo, poi lui si sarebbe cercata un 'altra, Henry le diede uno schiaffo.
Fosse stato il gesto di un forsennato, in preda a frenesia d 'orgasmo, o la reazione di un bruto, Wendy si sarebbe mostrata, da par suo, accomodante; era, invece, una manifestazione non di estasi, bensì di estrema stanchezza di fronte alla cecità di lei. Non capiva, quella stupida ragazza! Del resto, neanche lui riusciva ancora a comprendere la confusione che cotanta perdita poteva procurare a una donna che lo adorava.
Immediatamente dopo, Henry fu sopraffatto dal rimorso. Tenendola fra le braccia, assicurò a Wendy, che ancora piangeva, ch'essa era virtualmente l'unica cui pensasse, ora, ogni giorno: anzi (sebbene questo non potesse dirglielo), se Wendy fosse andata a lavorare presso un altro dentista, lui non avrebbe dovuto rammentarsi ogni cinque minuti di quello che non poteva più avere. C'erano tuttavia momenti, durante le ore di lavoro, in cui Henry l'accarezzava di sfuggita o rimirava con l'antica bramosia le sue forme sotto il camice attillato, ma poi - ripensando a quelle pillole rosa per il cuore - ripiombava nella disperazione. Non tardarono a venirgli le più diaboliche fantasie sulla giovane donna che l'adorava e avrebbe fatto di tutto per ridonargli la perduta potenza e allora la immaginava posseduta, sotto i suoi occhi, da tre, quattro, cinque altri uomini.
Non riusciva a controllarle, quelle fantasie di Wendy e i cinque uomini senza volto, e tuttavia al cinema, con Carol, preferivano adesso abbassare le palpebre e riposare gli occhi finché le scene d'amore non fossero finite. Non sopportava i rotocalchi procaci a disposizione dei clienti dal suo barbiere. Doveva fare un duro sforzo su se stesso per non alzarsi da tavola se, durante una cena conviviale, uno dei commensali si metteva a raccontare una barzelletta spinta. Cominciò a provare le emozioni tipiche di una persona tutt'altro che attraente, un astioso disdegno puritano per gli uomini virili e per le donne appetitose intente ai loro giochi di seduzione erotica.
Il cardiologo, dopo avergli prescritto quel farmaco, gli aveva detto: "Dimentichi adesso il suo cuore, e viva. " Senonché lui non ci riusciva: cinque giorni alla settimana, dalle nove alle cinque, non poteva dimenticare Wendy.
Tornò dal dottore per avviare un serio discorso, riguardo a un intervento chirurgico. Il cardiologo aveva già sentito anche questo mille volte. Pazientemente, spiegò che non si era propensi a operare persone che non accusassero sintomi e in cui la malattia desse chiari segni di venir stabilizzata mediante farmaci. Se Henry avesse alla fine deciso di farsi operare, non sarebbe stato il primo lui a trovar ciò preferibile a un numero indefinito di anni privi d'attività sessuale; nondimeno, il medico gli consigliava decisamente di aspettare ancora e vedere in che modo il passaggio del tempo incidesse sul suo "adattamento". Sebbene Henry non fosse il peggior
candidato a un by-pass, l'ubicazione degli innesti necessari non faceva di lui neppure il candidato ideale. "Cosa significa questo?" domandò Henry. "Significa che questa operazione non è una cosa da ridere, nelle migliori delle circostanze, e le sue non sono proprio le migliori. C'è anche il caso di rimetterci la pelle, Henry. Si tenga quel che ha."
Tali parole lo spaventarono talmente che, tornando a casa, rammentò severamente a se stesso tutti coloro che per necessità vivono senza donne, e in circostanze assai più dure delle sue - uomini in prigione, uomini in guerra...- senonché di lì a poco ricominciò a pensare a Wendy, figurandosi ogni posizione in cui essa poteva essere infilzata dal pinco ritto che lui non aveva più, sbavando per lei come un ergastolano sognatore, solo privo di quel rapido rimedio selvaggio che mantiene semisano di mente un recluso. Rammentava 
a se stesso com'era vissuto felice senza donne, da ragazzo prepubere--era forse mai stato più contento e soddisfatto che negli anni quaranta, d 'estate, al mare? Immagina di avere ancora undici anni... Ma ciò non giovava più di quanto giovasse pensarsi incarcerato a Sing Sing. Rammentò allora a se stesso il terribile sregolamento che deriva da desideri incontrollati: le trame, le tresche, la brama, poi l'atto pazzamente impetuoso, il sognare senza requie dell'altra e, allorché una di queste ammalianti altre diviene finalmente l'amante clandestina, gli intrighi e l'ansietà e l'inganno. Ora lui poteva essere, invece, un marito fedele per Carol. Non avrebbe più dovuto mentire a sua moglie non avendo più nulla su cui mentire. Si sarebbero di nuovo goduti il loro semplice, onesto, fiducioso matrimonio com'era stato prima che Maria fosse comparsa, dieci anni addietro, nel suo gabinetto per farsi riparare una capsula. Era rimasto lì per lì tanto preso dal vestito verde di seta e dagli occhi turchese e dall'aria sofisticatamente europea di quella donna che a stento riuscì a parlarle del più e del meno, lui che di solito era così brillante con i clienti, e men che meno riuscì a fare il galante con lei allorché, seduta in poltrona, obbediente apriva e chiudeva la bocca. Dal puntiglioso riserbo con cui si trattarono a vicenda durante le quattro visite, Henry non avrebbe mai immaginato che, alla vigilia del suo ritorno a Basilea, dieci mesi dopo, Maria gli avrebbe detto: "Non avrei mai creduto di poter amare due uomini. " Né che il loro addio sarebbe stato tanto atroce--era stata un'esperienza così nuova per entrambi che avevano fatto dell'adulterio qualcosa di assolutamente virgineo. Non era mai passato per la mente a Henry, prima che arrivasse Maria a dirglielo, che un bell'uomo come lui poteva come niente portarsi a letto qualsiasi donna piacente della città. Lui era privo di vanità sessuale e molto timido, un uomo giovane ancora animato da quel senso del decoro di cui si era imbevuto, che aveva interiorizzato e mai posto in forse. Di
solito, più la donna era attraente, più ritirato e chiuso era Henry; al cospetto di una sconosciuta che trovasse particolarmente desiderabile si faceva rigidamente formale, perdendo ogni spontaneità, e spesso non riusciva neppure a presentarsi senza avvampare. Tale era stato da marito fedele: e proprio per questo era stato fedele. Adesso era condannato a esser di nuovo fedele.
Quanto ad adattarsi al farmaco, il peggio risultò essere l'adattamento stesso. Lo sconvolse constatare che poteva vivere senza sesso. Ci si riesce, lui ci riusciva, e questo lo faceva morire: proprio come una volta, a farlo morire, era l'esser incapace di farne senza. Adattarsi significava rassegnarsi a esser così, e lui rifiutava di essere a quel modo, e lo demoralizzava ulteriormente doversi abbassare all'eufemismo "a quel modo". Tuttavia, tanto bene procedeva l'adattamento che, otto o nove mesi dopo che il cardiologo l'aveva sollecitato a non precipitarsi in chirurgia prima di aver constatato l'effetto del passaggio del tempo, Henry non ricordava neanche più che cosa fosse un'erezione. Se ci provava, lo soccorrevano immagini tratte dai vecchi fumetti pornografici, dai blasfemi "libri caldi" che avevano rivelato ai ragazzi della sua generazione i segreti e i sottofondi della carne. Era angustiato da immagini mentali di cazzi spropositati e dalle fantasie di Wendy con altri uomini. La immaginava spompinarli. Immaginava se stesso a far pompini. Cominciò segretamente 
a idolatrare tutti gli uomini potenti come se
lui, come uomo, non contasse più nulla. Nonostante il suo bel viso bruno, I'alta statura e il fisico atletico, sembrava essersi trasformato da un giorno all'altro da trentenne in ottuagenario. Un sabato mattina, dopo aver detto a Carol che andava a far due passi in collina--"per stare un po' solo, " le aveva spiegato, asciuttamente--si recò invece in macchina a New York per parlare con Nathan. Non lo preavvertì per telefono, poiché voleva essere in grado, eventualmente, di ripensarci all'ultimo momento e far macchina indietro. Non erano più adolescenti, non erano più i tempi in cui, in camera da letto, si scambiavano esilaranti segreti; anzi, dopo la morte dei genitori non si comportavano neanche più come due fratelli. Però Henry aveva bisogno disperatamente di consultarsi con qualcuno. Tutto quello che Carol era capace di dirgli era che non ci pensasse neppure, di andare sotto i ferri, se ciò avesse comportato il benché minimo rischio di lasciar orfani di padre i loro tre figli. La malattia era sotto controllo e a trentanove anni egli era un uomo di grande successo, sotto ogni riguardo. Come poteva 
quella cosa, d'un tratto, contare così tanto, se erano ormai anni che di rado facevano l'amore con vera passione? Lei non si lagnava, è una cosa che capita a tutti--diceva--e non c'era alcun matrimonio che facesse, a quel che ne sapesse lei, eccezione. "Ma ho soltanto trentanove anni, " replicò Henry. "Anch'io, " diceva lei, cercando di aiutarlo mostrandosi sensata e sicura, "ma dopo diciotto anni non pretendo che il matrimonio sia ancora una torrida storia d'amore."
Era la cosa più crudele ch'egli potesse immaginare, una moglie che dice al marito: "A che ci serve il sesso, dopotutto?" La detestava per averlo detto, la prese tanto in odio che là per là decise di sentire Nathan. Odiava Carol, odiava Wendy e, se adesso fosse stata accanto a lui, avrebbe odiato anche Maria. Eppoi odiava gli uomini, gli uomini dall'enorme pinco ritto che si induriva solo a guardare Playboy.
Trovò un garage sulla Ottantesima Strada dove parcheggiò, e da una cabina pubblica telefonò a casa di Nathan, leggendo, mentre il telefono squillava, quel che era stato scribacchiato sui resti di una guida telefonica appesa a una catena: Vuoi venirmi in bocca? Melissa 879-0074. Riappese prima che Nathan rispondesse e fece l'879-0074. Rispose un uomo. "C'è Melissa?" chiese Henry e riattaccò. Poi rifece il numero di Nathan e contò venti squilli.
Non puoi lasciarli orfani di padre.
A casa di Nathan, si piazzò nell'atrio e gli scrisse un biglietto, che subito stracciò. In un albergo sulla Quinta Avenue, da un telefono pubblico, rifece l'879-0074. Nonostante il beta-bloccante che avrebbe dovuto impedire all'adrenalina di sovraccaricare il cuore, questo gli batteva come quello di una creatura selvaggia in scorreria (al dottore non sarebbe stato necessario lo stetoscopio per auscultarlo). 
Henry si afferrò il petto, contando alla rovescia, in attesa del colpo finale, finché una vocina che sembrava di bimba rispose:
"Pronto? "
"Melissa?"
"Quanti anni hai?"
"Chi parla?"
Riappese giusto in tempo. Altri cinque, dieci, quindici battiti, il respiro gli tornò regolare e il cuore somigliava ora più che altro a una ruota che gira a vuoto nel fango dov'è impantanata.
Sapeva di dover telefonare a Carol, per non farla stare in pensiero, invece si diresse verso Central Park, sull'altro lato della strada. Avrebbe dato un'ora a Nathan; se non fosse rincasato entro quel tempo, avrebbe lasciato perdere l'operazione e sarebbe tornato a casa. Non poteva lasciarli orfani di padre.
Imboccando il sottopassaggio dietro il museo, vide all'altra estremità un ragazzotto bianco sui diciassette anni, con una radio in equilibrio sulla spalla che attraversava la galleria su pattini a rotelle, pigramente. La radio a pieno volume trasmetteva Lay, lady, lay... lay across my big brass bed, cantata da Bob Dylan: Sdraiati, signora, sdraiati di traverso sul mio letto d'ottone... Proprio quel che
ci voleva per Henry. Quasi si fosse imbattuto per caso in un caro vecchio amico, il ragazzotto sorridente levò un pugno in aria e, passando accanto a Henry, gridò: "Potessero tornare gli anni sessanta, uomo!" La voce echeggiò cupa nella buia galleria e Henry, affabilmente, rispose: "Sono con te, amico. " Ma quando il ragazzotto fu passato oltre, non potendo più tener dentro tutto, scoppiò a piangere. Potessero tornare tutti quanti, pensò, gli anni sessanta, cinquanta, quaranta... Potessero tornare quelle estati sulle spiagge del New Jersey, il pane appena sfornato che profumava la panetteria negli scantinati dell'albergo Lorraine, la spiaggia dove vendevano i pesci appena pescati... Soffermandosi in quella galleria dietro il museo, riandò alle più innocenti memorie dei più innocenti mesi dei suoi anni innocenti, ricordi che nulla avevano di confidenziale ma erano estaticamente rievocati--e abbarbicati a lui come le scorie organiche che gli occludevano le arterie intorno al cuore. Il villino poco lontano dal pontile, con la piccola canna a lato, per lavarsi la sabbia dai piedi. Il chiosco con la pesa sotto i portici di Ashbury Park. Sua madre che si sporge dal davanzale, allorché attacca a piovere, e tira dentro i panni stesi. Aspettare, al crepuscolo, I'autobus per tornare a casa dopo il cinema, al sabato. Sì, l'uomo cui stava succedendo tutto questo era stato il ragazzo che aspettava il bus 14 insieme al fratello maggiore. Non riusciva a capacitarsene: tanto valeva cercar di capire la fisica delle particelle. D'altro canto, non riusciva a credere che l'uomo al quale tutto questo succedeva fosse lui stesso e che, qualsiasi cosa quell'uomo dovesse patire, doveva patirlo lui pure. Potesse tornare il passato, il futuro, potesse tornare il presente--ho solo trentanove anni!
Non ritornò da Nathan, quel giorno, a far finta che nulla di importante fosse intervenuto, fra loro, da quando erano i cocchi di papà e mamma. Durante il tragitto si era detto che doveva vederlo perché Nathan era il solo consanguineo che gli restava, laddove non c'era più--lo sapeva--una famiglia; la famiglia era finita, lacerata, disunita. A ciò aveva provveduto Nathan quando aveva coperto tutti loro di ridicolo in quel libro, e poi Henry aveva fatto il resto, a furia di selvagge accuse, dopo la morte del padre per infarto, in Florida. "L'hai ucciso tu, Nathan. Nessuno te lo dirà hanno troppa paura di te per dirlo. Ma l'hai ucciso tu, con quel libro. " No, confessare a Nathan quello che c'era stato fra lui e Wendy per tre anni sarebbe servito solo a rendere felice quel bastardo, a dargli ragione: e fornirgli argomento per un seguito a Carnovsky! Era stato già da idioti dirgli tutto, dieci anni prima, riguardo a Maria, riguardo ai soldi che le aveva dato e alla biancheria intima di lei che conservava in cassaforte... "Ma dovevo pur dirlo a qualcuno, sennò scoppiavo: e come potevo sapere, allora, che mio fratello campava sfruttando e distorcendo i segreti di famiglia? Non
mi commisererà per quel che patisco adesso, non mi starà neanche a sentire. 'Non voglio saperlo,' mi dirà dietro lo spioncino, senza neanche aprirmi il portone. 'Lo metterei in un libro e questo a te non andrebbe giù. ' E poi ci sarà una donna da lui: o una moglie che gli è ormai venuta a noia, in partenza, oppure una gruppettara letteraria in arrivo. O ambedue. Non potrei sopportarlo." Anziché tornare direttamente a casa, nel New Jersey, si recò da Wendy e la costrinse a far finta di essere una negretta dodicenne a nome Melissa. Ma benché lei acconsentisse--a essere negra, dodicenne, decenne, qualunque cosa lui le chiedesse--non andò diversamente. Henry pretese che, nuda, si mettesse carponi sul pavimento e, quando Wendy obbedì, la picchiò. Ma neanche questo giovò. Quella sua ridicola crudeltà, lungi dall'eccitarlo, lo ridusse alle lacrime per la seconda volta quel giorno. Wendy, depressa e disperata, gli carezzava una mano, mentre lui singhiozzava: "Non sono io, questo! Non sono fatto così, io!" "Oh, tesoro, " ella disse, seduta ai suoi piedi in reggicalze e mettendosi a piangere a sua volta, "devi farti operare, devi... sennò diventi matto." Era uscito di casa alle nove di mattina o poco più e non vi fece ritorno che alle sette o poco meno, quella sera. Temendo che fosse da qualche parte moribondo e solo--o già morto del tutto--alle sei Carol aveva avvertito la polizia chiedendo che cercassero l'auto di Henry: era uscito per recarsi a fare una passeggiata in collina, in mattinata, disse loro e li pregò di andare a controllare seguendo le tracce dell'automobile. Henry si allarmò quando seppe che sua moglie aveva avvertito la polizia: contava su di lei, sperava che non andasse in pezzi come Wendy, e invece, ecco, col suo comportamento lui aveva fatto perdere anche a Carol la tramontana.
Era tuttavia troppo intontito e mortificato per poter afferrare la natura della perdita subita da tutte le parti interessate. Quando Carol gli chiese perché mai non avesse telefonato che non tornava fino all'ora di cena, lui rispose accusatorio: "Perché sono impotente!" Quasi fosse colpa della moglie e non del farmaco. Colpa della moglie. Ne era sicuro. Dover restare con lei e assumersi le responsabilità dei figli, ecco la causa di tutto. Avessero divorziato dieci anni prima, avesse lasciato Carol e i tre figli per cominciare una nuova vita in Svizzera, non si sarebbe mai ammalato. Lo stress--dicono i medici--è fattore precipuo nel mal di cuore, e abbandonare Maria gli aveva procurato quell'intollerabile stress che adesso lo aveva ridotto in questo stato. Non c'era altra spiegazione di un simile morbo in un uomo altrimenti così giovane e sano. Era la conseguenza del non esser riuscito a trovare la spietata durez%a per prendersi quel che desiderava anziché arrendersi al senso del dovere. La malattia era la ricompensa per un padre, un marito e un figlio troppo ligi.
Languisci nello stesso posto per anni e anni, senza possibilità d'evasione, poi arriva una donna come Maria e, anziché mostrarti forte ed egoista, tu fai invece il buono e il bravo.
Il cardiologo gli tenne un discorsetto molto serio quando Henry si presentò per il successivo controllo. Gli rammentò che, da quando prendeva il beta-bloccante, il suo elettrocardiogramma denunciava una notevole diminuzione dell'anormalità che aveva primamente segnalato il disturbo. La pressione sanguigna era tranquillamente sotto controllo e, a differenza di tanti altri pazienti che non erano in grado di lavarsi i denti senza che lo sforzo provocasse angina, lui era invece capace di lavorare dalla mattina alla sera, stando in piedi, senza che si sentisse fiacco o gli mancasse il respiro. Gli fu di nuovo assicurato che, in caso di peggioramento, questo sarebbe stato quasi certamente molto graduale e l'elettrocardiogramma lo avrebbe rivelato per tempo, oppure ne avrebbe fatto la spia un mutamento nei sintomi. In tal caso si sarebbe ripresa in esame l'opzione chirurgica. Il cardiologo gli rammentò inoltre che poteva tirare avanti tranquillamente, con quel regime, per quindici o venti anni, allorché un'operazione di by-pass sarebbe stata, con ogni probabilità, una tecnica superata; gli predisse che dopo il 1990 si sarebbe stati in grado di correggere un blocco delle arterie con mezzi non chirurgici. Poteva anche darsi che il beta-bloccante venisse rimpiazzato tra non molto da un farmaco che non incidesse sul sistema nervoso centrale e non causasse, quindi, quell'increscioso inconveniente: un progresso del genere era inevitabile. Nel frattempo --glielo aveva già consigliato e non poteva quindi che ripetersi-Henry doveva, semplicemente, dimenticare il cuore e vivere la sua vita. "Lei deve vedere la cura nel suo contesto," disse il cardiologo, dando una leggera manata sulla scrivania.
Ed era tutto quel che c'era da dire.? Doveva adesso alzarsi e andare a casa? Cupo, Henry disse al cardiologo: "Ma non posso accettare lo scompenso sessuale. " Sua moglie conosceva la moglie del cardiologo, quindi non disse nulla riguardo a Maria o a Wendy o alle altre due frammezzo, né confidò cosa avesse significato, per lui, ognuna di loro. Disse soltanto: "E' la cosa più difficile che abbia mai dovuto affrontare."
"Quindi non ha avuto una vita tanto difficile, lei, dico bene?" Restò di stucco alla crudeltà di questa frase: dire una cosa simile a un uomo vulnerabile come lui! Adesso odiava anche il medico. Quella sera, dallo studio, telefonò di nuovo a Nathan, sua ultima consolazione superstite, e stavolta lo trovò in casa. A stento si trattenne dallo sciogliersi in lacrime quando disse al fratello di essere gravemente malato e gli chiese se poteva andare a trovarlo. Gli era impossibile continuare a vivere da solo con quella tremenda carenza.
Inutile dirlo, non erano queste le tremila parole che Carol si attendeva da Nathan Zuckerman, allorché aveva telefonato al cognato alla vigilia del funerale e, nonostante i trascorsi dissapori fra i due fratelli, gli aveva chiesto un necrologio. Né lo scrittore, Nathan, ignorava cosa si addicesse e cosa no, o cosa fosse indifferente alle convenzioni che governano siffatte occasioni; nondimeno una volta partito non c'era stato verso di fermarsi e così era rimasto alla scrivania gran parte della notte a ricostruire la storia di Henry, da quel poco che ne sapeva. Quando arrivò nel New Jersey, I'indomani mattina, raccontò a Carol più o meno la verità su quanto era accaduto. "Mi spiace, se contavi su di me," le disse, "ma tutto quello che mettevo sulla carta era sbagliato. Non funzionava e basta." Supponeva che lei ora supponesse che se uno scrittore professionista s'impantana e non sa cosa dire al funerale del fratello, ciò può solo dipendere o da emozioni irrimediabilmente ambigue o da una inveterata cattiva coscienza. Ebbene, era meno dannoso che Carol pensasse questo di lui che non pronunciare, davanti alla mesta assemblea di congiunti e amici, un discorso così grossolanamente inadeguato.
Tutto quel che Carol disse fu quello che diceva abitualmente: si rendeva conto; lo baciò persino, lei che non era mai stata la sua più sfegatata ammiratrice. "Non fa niente. Non stare a preoccuparti, per favore. Solo, non volevamo lasciarti fuori. I litigi non contano più nulla. E' tutto finito. Quel che conta, oggi, è che eravate fratelli."
Bene, bene. Ma, e le tremila parole? Il guaio era che parole come quelle, moralmente inadeguate a un funerale, erano proprio del tipo che più l'impegnavano. Henry era morto da meno di ventiquattr'ore quando quella narrazione cominciò a scottargli in tasca. Zuckerman avrebbe stentato molto a trascorrere la giornata senza vedere tutto ciò che accadeva come qualcosa di più, una continuazione non della vita ma del suo lavoro, o lavoro in fieri. Già non essendo riuscito a usare il cervello e a buttar giù alcuni ricordi d'infanzia conditi con qualche buon sentimento convenzionalmente consolatorio, ecco che aveva reso impossibile, a se stesso, prendere il proprio posto in mezzo agli altri, un brav'uomo di età matura che piange un fratello prematuramente scomparso: era invece di nuovo la pecora nera della famiglia. Entrando nella sinagoga con Carol e gli orfani pensò: "Questo mestiere distorce persino il dolore."
Sebbene la sinagoga fosse ampia, tutti i sedili erano occupati e assiepati ai lati e in fondo c'erano una trentina di adolescenti, giovani del posto i cui denti Henry aveva curato fin da quando erano bambini. I ragazzi guardavano stoicamente a terra e alcune delle ragazze già piangevano. In una delle ultime file, in maglione e gonna grigia, sedeva discretamente una esile bionda, fanciullescamente giovane, cui Zuckerman non avrebbe certo fatto caso se non l'avesse espressamente cercata; e che non avrebbe neppure riconosciuto, se non per via della foto che Henry si era portato dietro, alla seconda visita. "Questa foto," avvertì, "non le rende giustizia." Nondimeno Zuckerman la ammirò. "Molto graziosa. Mi metti invidia." Un'immodesta smorfietta da fratello minore lusingato non poté venir soppressa interamente, pur mentre Henry replicava: "No, no, non è affatto fotogenica. Non ci si rende conto, da qui, di com'è veramente
di persona." "Invece sì," disse Nathan, sorpreso e non al contempo del fatto che Wendy fosse bruttina. Maria, anche se non risultava stupenda dalle foto come Henry l'aveva descritta, era abbastanza attraente, nel suo genere, severamente teutonico, simmetrico. Invece questa scialba sorcetta... Insomma, Carol con i suoi riccioli neri e le lunghe ciglia appariva eroticamente più promettente. Era naturalmente con la foto di Wendy ancora in mano che Zuckerman avrebbe dovuto parlar chiaro e tondo a Henry, 
dirgli tutto quel che aveva in animo; magari era proprio per questo che il fratello aveva portato la foto di Wendy con sé, per dargli l'abbrivo, per udire Nathan dirgli: "Idiota! Somaro! Assolutamente no! Se non te la sei sentita di piantare Carol e scappare con Maria, una donna che amavi sul serio, non è proprio il caso che ora affronti una rischiosa operazione solo perché una sgrinfia, in studio, ti spompina ogni sera prima che torni a casa per la cena! Sono stato a sentirti perorare la causa dell'intervento chirurgico e, finora, non ho detto una parola: ma il mio verdetto è no!"
Dato però che allora Henry non era morto, bensì vivo - vivo e inviperito, perché a un uomo con le sue credenziali morali veniva negata quell'unica, lieve, innocua trasgressione, dato che avendo accettato il compromesso di Wendy laddove quello che aveva sognato e si era precluso era una rinascita in Europa, con una moglie europea, per diventare, a Basilea, un robusto, adulto americano senza pastoie, dentista espatriato--Zuckerman aveva seguito piuttosto un altro ragionamento: "Questa è la sua ribellione al patto che ha stipulato, lo sfogo della passione bruta che gli avanza. Non è certo venuto da me per sentirsi dire che la vita pone ostacoli e divieti e che non resta altro da fare che accettarli. E' qui per discutere la cosa in mia presenza, poiché lo non sono considerato certo un mostro di abnegazione: io, secondo la loro dottrina, sono lo scatenato, l'impulsivo, lo scavezzacollo della famiglia, a me la famiglia ha assegnato il ruolo dell'Es, mentre lui è il fratello esemplare. No, un incosciente matricolato non può, ora, assumere un tono paterno e dirgli, con dolcezza: Non hai bisogno di quello che pensi, ragazzo mio; lascia perdere la tua Wendy e soffrirai meno.' No, Wendy è la sua libertà e la sua virilità, anche se, ai miei occhi, sembra esser la noia fatta persona. E una brava ragazza, con la sua brava fissazione orale, la quale--lui ne è certo--non telefonerà mai alla moglie... Quindi, perché dovrebbe rinunciare a lei? Più guardo questa foto, più gli do ragione. Chiede in fondo così poco, il poverino!
Però ragioni assai diversamente accanto alla bara del tuo unico fratello, tanto vicino che, praticamente, potresti appoggiare la guancia al lucido legno di mogano. Quando Nathan compì l'inevitabile sforzo di immaginare Henry composto dentro il feretro, non vide, ridotto al silenzio, l'adultero evirato, sovreccitato, che non aveva voluto rassegnarsi all'impotenza, bensì un ragazzo di dieci anni, chiuso l' dentro in pigiama di flanella. Una vigilia d'Ognissanti, quand'erano piccoli, un bel pezzo dopo che Nathan aveva ricondotto a casa Henry, al termine della tradizionale, fanciullesca questua--trick or treat!, o il regalo del dispetto--in giro per tutto il quartiere e quando già da un pezzo tutti in casa erano andati a letto, Henry era sgusciato fuori della sua stanza e, discese le scale, infilata la porta, era uscito per strada dirigendosi verso l'incrocio di Chancellor Avenue a piedi scalzi, immerso nel sonno. Per miracolo un amico di famiglia passava di lì in auto e vide Henry mentre stava per scendere dal marciapiede, col semaforo rosso. L'uomo frenò, riconobbe nel bambino sotto il lampione il figlioletto di Victor Zuckerman, ed Henry fu riportato a casa sano e salvo. Pochi minuti dopo era sotto le coltri di nuovo. Fu una cosa da brivido, per lui, apprendere l'indomani quel che aveva combinato nel sonno e udire della strana coincidenza che lo aveva salvato; per anni, fino all'adolescenza--quando comincerà ad avere un concetto più spettacolare dell'eroismo personale, da corridore a ostacoli nella squadra d'atletica del liceo--avrà ripetuto a un centinaio di persone almeno la storia di quell'ardita escursione notturna dalla quale lui stesso era stato completamente assente. Ma adesso era invece nella bara, il ragazzo sonnambulo. Stavolta nessuno lo aveva riportato a casa e rimesso a letto, dopo ch'era uscito a vagare nel buio da solo, quasi non volesse credere che lo spasso di Halloween era finito. Ugualmente invasato, come in trance, in preda a una eccitante smargiasseria da Far West, ecco come era apparso a Nathan quando si presentò a casa sua, quel pomeriggio, subito dopo aver consultato il cardiochirurgo. 
Zuckerman restò sorpreso: mai avrebbe immaginato
che uno uscisse in quello stato dallo studio di un medico che ti ha comunicato come e quando intende tagliarti. Henry dispiegò sulla scrivania di Nathan quel che sembrava la pianta di un quadrifoglio autostradale. Era lo schizzo che il chirurgo aveva tracciato per mostrargli dove sarebbero avvenuti gli innesti. L'operazione non era, a sentire Henry, più rischiosa di una protesi dentaria. Sostituisce questa qui e questa qua, e poi le aggancia qui, poi scavalca queste tre piccoline che affluiscono in quella grande là dietro e questo è tutto. Il chirurgo, un famoso specialista di Manhattan di cui Zuckerman aveva controllato le referenze, disse a Henry che aveva eseguito quintupli by-pass dozzine di volte e che non era affatto preoccupato; era Henry che doveva fugare i propri dubbi e sottoporsi all'operazione con estrema fiducia in una riuscita felice al cento per cento. Sarebbe uscito di sotto i ferri con un sistema circolatorio nuovo di zecca: vasi non intasati che riforniscono di sangue un cuore ancora forte in sé e per sé come quello di un atleta, senza menomazioni di sorta. "E dopo non occorreranno medicine?" gli domandò Henry. "Lo deciderà il suo cardiologo," gli fu risposto; "probabilmente occorrerà qualcosa per una lieve ipertensione, ma niente di simile al farmaco massacrante che prende adesso." Zuckerman pensò che forse, dopo aver udito una prognosi così meravigliosa, Henry, trascinato dall'euforia, aveva fatto dono al cardiochirurgo di una foto patinata, con dedica, di Wendy in reggicalze. Sembrava infatti abbastanza su di giri per aver fatto una cosa del genere, quando gli si presentò; ma, probabilmente, è così che devi armarti per accingerti a una prova tanto spaventosa. Quando Henry aveva finalmente trovato il coraggio di smettere di chiedere rassicurazioni e si era alzato per prendere commiato, il fiducioso chirurgo lo aveva accompagnato alla porta. "Se lavoriamo insieme, noi due," gli disse nello stringergli la mano, "non prevedo alcun problema. Entro una settimana, dieci giorni, lei lascerà l'ospedale per far ritorno in seno alla famiglia, come nuovo." Ebbene, dal punto di vista di Zuckerman si sarebbe detto che Henry non aveva fatto una gran bella figura, sul tavolo operatorio. Quello che (qualunque cosa fosse) si pretendeva da lui, per assistere il chirurgo, gli era evidentemente scappato di mente. Può succedere questo quando sei privo di sensi. Il mio fratellino sonnambulo! Morto! Ci sei tu, lì, veramente? Un ragazzino ammodo e obbediente come te! Tutto questo per stare con Wendy una ventina di minuti, prima di correre a casa, dalla famiglia che amavi? O facevi lo spaccone con me? No, non può darsi che il tuo rifiuto di adattarti a una vita asessuata fosse quel che per te equivaleva all'eroismo poiché, semmai, era la tua capacità 
di repressione a darti diritto di aspirare alla fama. Dico sul serio. Contrariamente a quel che pensavi tu, io non fui mai tanto sdegnoso delle restrizioni entro le quali tu prosperavi e dei confini che tu rispettavi quanto lo eri tu delle eccessive libertà che credevi io mi prendessi. Ti confidasti con me perché eri convinto che avrei capito, io, i pompini di Wendy, e avevi ragione. Andava ben al di là del succoso piacere. Era il tuo goccio di esistenza teatrale, il tuo disordine, la tua evasione, il tuo rischio, la tua piccola insurrezione quotidiana contro tutte le tue asfissianti virtù: far porcherie con Wendy per venti minuti al giorno e poi tornare a casa la sera a goderti le gioie della ordinaria vita familiare. La bocca servile di Wendy ti dava il gusto dell'avventura spericolata. Dai tempi dei tempi, il mondo intero funziona a questo modo... e tuttavia dev'esserci dell'altro deve per forza esserci dell'altro! Come avrebbe potuto sennò un bravo ragazzo come te, col tuo feroce senso del dovere, dell'opportunità, finire in questa bara per amor di quella bocca?
E perché non t'ho fermato, io?
Zuckerman aveva preso posto in prima fila, di lato, accanto a Bill e Bea Goff, i genitori di Carol. Carol sedeva al centro della stessa fila, accanto alla madre; dall'altro lato aveva i figli: Ellen di undici anni, poi il maschio quattordicenne Leslie e infine Ruth di tredici anni. Ruth teneva il violino sulle ginocchia e guardava fisso il feretro. Gli altri due, annuendo muti quando Carol gli parlava, preferivano stare a capo chino. Ruth si accingeva a suonare, col violino, un pezzo che tanto piaceva a suo padre e alla fine delle esequie avrebbe preso la parola Carol. "Ho chiesto allo zio Nathan se voleva dire qualcosa lui, ma mi ha risposto che è troppo sconvolto, al momento. E' come inebetito dice--e lo capisco. Quello che terrò io," spiegò ai figli, "non sarà un necrologio vero e proprio. Dirò solo due parole su papà, qualcosa che voglio che sentano tutti. Niente frasi fiorite, ma parole che per me sono importanti. Poi lo accompagneremo al cimitero, solo i nonni, lo zio Nathan e noi quattro.
Gli diremo addio al cimitero, noi della famiglia, quindi torneremo qui per stare insieme con gli altri parenti e gli amici." Il ragazzo indossava un blazer dai bottoni dorati e un paio di stivaletti nuovi di cuoio e le ragazze, sebbene si fosse alla fine di settembre e il sole facesse i capricci, indossavano abiti leggeri, color pastello. Erano ragazzi alti, bruni, dai tratti sefarditi come il padre, dalle sopracciglia piuttosto imperiose per dei ragazzi così ingenui, così coccolati. Avevano tutti e tre begli occhi color caramello, un tantino più chiari e meno intensi di quelli di Henry: sei occhi esattamente uguali, liquidi e lustri di stupore e sgomento. Somigliavano a cerbiatti spaventati, presi in trappola, addomesticati, calzati e vestiti. Zuckerman era particolarmente attratto da Ruth, la mezzana, che diligentemente s'industriava di imitare la calma della madre nonostante l'entità della perdita. Leslie, il maschio, sembrava il più molle, il più femmine, il più prossimo a crollare, sebbene al momento di uscire per recarsi alla sinagoga avesse preso la madre in disparte e Zuckerman lo avesse sentito chiedere: "Ho una partita alle cinque, mamma. Posso andare a giocare? Ma se pensi che non sia il caso..." "Aspettiamo, Leslie," gli rispose Carol, ravviandogli lievemente i capelli sulla nuca con una mano, "e vediamo se, dopo, ne avrai ancora voglia."
Mentre la gente si assiepava in fondo alla sinagoga e si piazzavano sedie pieghevoli per far sedere qualche ritardatario anziano e non essendoci altro da fare che sedere in silenzio a pochi palmi dal feretro e decidere se guardarlo o no, Bill Goff cominciò a chiudere a pugno le dita e a dischiuderle, ritmicamente, come se la mano destra fosse una pompetta mediante la quale infondersi coraggio o drenare la paura. Non somigliava quasi più ormai all'agile, benvestito, accanito giocatore di golf che Zuckerman aveva conosciuto diciotto anni addietro e che, alle nozze di Henry, aveva danzato con le damigelle d'onore della sposa. Dianzi, quella mattina, quando Goff era venuto ad aprirgli la porta, Nathan non si era neppure reso conto, lì per lì, a chi stesse stringendo la mano. L'unica cosa in lui che non appariva sminuita era la gran chioma di capelli ondulati. In casa, rivolto malinconicamente alla moglie--e con un'aria appena appena offesa-Goff le aveva detto: "Povero me! Non mi ha nemmeno riconosciuto! Tanto sono cambiato."
La madre di Carol si appartò con le ragazze per aiutare Ellen a decidere quale vestito mettersi, Leslie tornò in camera a lustrarsi di nuovo gli stivali, e i due uomini uscirono a prendere una boccata d'aria. Dal patio guardarono Carol recidere i crisantemi che i figlioli avrebbero portato al cimitero.
Goff prese a dire a Nathan perché aveva dovuto vendere il suo negozio di scarpe ad Albany. "Erano cominciati ad arrivare i negri. Come potevo cacciarli via? Non è nella mia natura. Ma ai miei vecchi clienti cristiani, che si servivano da me da venti, venticinque anni, la cosa non andava a genio. Me lo dissero in faccia chiaro e tondo: 'Senti, Goff, non mi va di star qui ad aspettare mentre tu fai provare dieci paia di scarpe a un nigher. E poi non voglio i suoi scarti, io.' Quindi, a uno a uno, mi piantarono, i miei magnifici amici cristiani. Fu allora che ebbi il primo attacco. Perciò vendetti e mi ritirai pensando che il peggio fosse passato. Si metta tranquillo, mi aveva raccomandato il medico. E così tagliai corto. Un anno e mezzo dopo, in vacanza giù a Boca, mentre giocavo a golf, ebbi il secondo attacco. Al dottore ho dato sempre retta. Il secondo attacco fu peggiore del primo. E adesso questo colpo. Carol è una fortezza: pesa quarantacinque chili, ma ha la forza di un gigante. Era così quando morì il fratello. Perdemmo il gemello di Carol quando frequentava il secondo anno di giurisprudenza. Prima Eugene a ventitré anni, adesso Henry a trentanove." Di punto in bianco disse: "Che ho fatto?" e dalla tasca estrasse un flaconcino di plastica. "Pillole per l'angina," spiegò. "La mia nitroglicerina. 
Mi è saltato di nuovo il coperchio, mannaggia."
Mentre lamentava la perdita del negozio, della salute, del figlio, del genero, le sue mani, affondate nelle profonde tasche dei calzoni, facevano nervosamente tintinnare gli spiccioli e le chiavi. Ora, svuotata una tasca, prese a piluccare le pillolette bianche tra le monete, le chiavi e altri oggetti. Quando andò per riversarle dentro il flaconcino, però, una metà ne cadde in terra. Zuckerman si chinò a raccattarle, ma ogni qual volta Goff tentava di rimetterle dentro il flaconcino, ne lasciava cadere qualcuna. Alla fine ci rinunciò e tenne tutto nelle mani a coppa mentre Nathan prelevava le pillole a una a una e le infilava per lui nella boccetta.
Erano ancora intenti a questo quando Carol tornò dal giardino con i fiori e disse che era ora di muoversi. Guardò il padre con aria materna, sorridendogli dolcemente per calmarlo. La stessa operazione per la quale Henry era morto a trentanove anni attendeva anche lui, a sessantaquattro, se l'angina fosse peggiorata. "Ti senti bene?" lei gli chiese. "Benone, cocca," rispose lui, ma quando Carol distolse lo sguardo inghiottì una pillola di nitroglicerina. L'assolo di violino di Ruth fu introdotto dal rabbino. Questi era un uomo affabile, senza pretese, grande e grosso, dalla faccia quadrata, i capelli rossi, con occhiali montati in tartaruga, dalla voce pacata, melliflua: "La figlia di Carol ed Henry, la tredicenne Ruth, eseguirà ora il largo dall'opera Serse di Haendel," disse. "Quando ho fatto due chiacchiere con lei, ieri sera, Ruthie mi ha detto che, per suo padre, questa era la musica più consolante del mondo. Ora intende suonare questo pezzo in sua memoria."
Presso l'altare, Ruth si sistemò il violino sotto il mento, raddrizzò la schiena e guardò i presenti con aria, avresti detto, di sfida. Un attimo prima di sollevare l'archetto, si concesse una fugace occhiata al feretro e parve, allo zio, simile a una donna fatta sui trent'anni: in quell'attimo egli vide l'espressione che essa avrebbe avuto poi per tutta la vita, la grave faccia adulta che impedisce alla smarrita faccia infantile di andare in pezzi fra lacrime di rabbia.
Sebbene non ogni nota fosse impeccabilmente scandita, l'esecuzione 
fu intonata e tranquilla, lenta e solenne nel fraseggio e quando Ruthie finì ti saresti aspettato, voltandoti, di vedere seduto là il padre della giovane musicista, orgogliosamente sorridente. Carol si alzò a sua volta. Percorse il corridoio. La sua unica concessione alle convenzioni era una gonna nera di cotone. Il bordo però aveva per guarnizione un gaio motivo indiano ricamato in verde, scarlatto e arancione, e la blusa era d'un pallido color cedro dall'ampio collo a giogo che rivelava la prominenza delle clavicole nel suo busto delicato. Intorno al collo portava una collana di coralli che Henry aveva di nascosto comprato per lei a Parigi, dopo che lei l'aveva ammirata in una vetrina ma ne aveva trovato il prezzo ridicolmente alto. Anche la gonna gliel'aveva comprata lui, in un mercatino all'aperto di Albuquerque, quando si era recato là per un congresso.
Sebbene dei fili grigi avessero cominciato a screziare i suoi capelli alle tempie, Carol era così esile e vivace che a vederla salire i gradini dell'altare l'avresti presa per la sorella maggiore dei suoi figli. In Ruth era sembrato a Zuckerman di intravedere la donna che sarebbe in futuro divenuta; in Carol vide l'audace, frizzantemente graziosa studentessa adolescente che era stata, l'ambiziosa, decisa borsista che gli amici, ammirati, chiamavano non Carol ma J. C. (le sue iniziali) finché Henry non aveva posto fine a questo imponendo a tutti di usare il nome proprio. A quell'epoca, Henry aveva semiserio confidato a Nathan: "Non sarei certo riuscito a eccitarmi con una chiamata
J. C." D'altro canto, neanche con una chiamata Carol la lussuria non sarà mai uguale a quella suscitata da una Maria o da una Wendy.
Quando Carol raggiunse il leggio sull'altare, il padre estrasse di nuovo di tasca le pillole alla nitroglicerina e accidentalmente le sparse tutt'intorno per terra. Il largo di Haendel non lo aveva calmato come era solito fare invece con Henry. Nathan riuscì a infilare un braccio sotto il sedile e, a tastoni, a raccattare alcune pillole. Ne porse una a Goff e decise di tenersi le altre in tasca per il cimitero.
Mentre Carol parlava, Zuckerman di nuovo immaginò Henry in pigiama di flanella a pagliacci e trombette, lo vide maliziosamente origliare dal buio della bara, così come allora tendeva l'orecchio dal letto quando c'erano ospiti in casa, la porta socchiusa, per udire i discorsi dei grandi da basso. Zuckerman ripensava al tempo in cui nelle stanzette dei ragazzi non si sapeva assolutamente nulla di tentazioni erotiche o di scelte che sfidano la morte, quando la vita non era altro che un innocente passatempo e la felicità familiare sembrava eterna. Ingenuo Henry. 
Se avesse potuto udire quel che Carol stava dicendo, si sarebbe messo a ridere, a piangere, oppure avrebbe pensato, con sollievo: Così nessuno saprà mai nulla."
Ma Zuckerman sapeva tutto, s'intende, Zuckerman che non era poi tanto ingenuo. Che farne, di quelle tremila parole? Tradire la fiducia del fratello, divulgare le sue estreme confidenze, infliggere alla famiglia un colpo simile a quello che gliel'aveva in primo luogo alienata? La sera avanti, dopo aver ringraziato Carol per la sua cortesia e averle detto che si sarebbe messo subito a scrivere un necrologio, aveva scovato, fra i diari accatastati sugli armadietti-archivio, il quaderno in cui aveva trascritto un resoconto della storia di Henry con la sua paziente svizzera. Doveva proprio ora mettersi a saccheggiare quegli appunti che aveva misericordiosamente pressoché dimenticati--avevano essi atteso tutti questi anni un'ispirazione imprevista come questa?
Fra quelle pagine manoscritte c'erano--sparse qua e là-dozzine di brevi annotazioni su Henry e Maria e Carol: alcune non più lunghe d'un paio di righe, altre quasi d'una pagina. Prima di chiedersi cosa dire al funerale, Zuckerman, seduto allo scrittoio, aveva letto lentamente da cima a fondo quelle note, pensando, mentre sottolineava le frasi più promettenti: "Ecco, questo fu l'inizio della fine. Cominciò come un'avventura banalissima 
e tutt'altro che originale... All'inizio ci fu la scoperta del piacere carnale."
H. a mezzanotte. Dovevo telefonare a qualcuno. Dovevo dirlo a qualcuno, che amo quella donna. Ti secca... a quest'ora?" "No. Di' pure." "Io perlomeno ho te, cui raccontarlo. Lei invece non ha nessuno. Vorrei dirlo a tutti. Muoio, anzi, dalla voglia di dirlo a Carol. Vorrei tanto farle sapere quanto sono felice, felice da matti." "Carol può farne benissimo a meno, di questa confessione." "Me ne rendo conto. Ma seguito ad aver voglia di dirle: "Lo sai cos'ha detto oggi Maria? Lo sai cos'ha detto ieri sera la piccola Krystyna, mentre Maria le faceva il bagnetto?'"
"Mi sembra lontana, distante, così come mi sembravano distanti le colonnine del letto, nella nostra camera, quand'ero piccolo. Ricordi i pomelli in cima a quelle colonnine d'acero? Io per conciliarmi il sonno ero solito immaginare che fossero lontani lontani, finché lo erano davvero, e dovevo smettere poiché mi spaventavo da solo. Ebbene, ella sembrava lontana proprio a quel modo, come se non potessi allungare una mano e toccarla. Era sopra di me, ma distante, e ogni volta che veniva le dicevo: "Ancora? Ne vuoi ancora?' E lei faceva sì con la testa e ricominciava, rossa in faccia, a cavalcarmi, e io desideravo solo che lei godesse ancora, e ancora, e ancora... ma seguitavo a vederla lontana, distante."
"Dovresti vederla quant'è bella. Dovresti vedere questa stupenda donna bionda, con quei suoi occhi, sopra di me, in camiciola nera." Maria credeva di doversi recare a New York per trovare della biancheria intima nera; invece l'aveva poi trovata sul posto. Secondo H., avrebbe fatto meglio a recarsi comunque a New York.
Sabato, H. ha visto il marito di lei per la strada. Gli è sembrato una brava persona. Un bell'uomo robusto. Più grosso anche di H. Molto giocherellone con i figli. "Gliela farai vedere, quella biancheria nera?" "No." "Non te la metterai mai, quando stai con lui?" "No." "Soltanto per me." "Soltanto per te." A H. lui fa pena. Un'aria cosl fiduciosa, ha!
In una camera di motel, lui la guarda rivestirsi per tornare a casa.
H.: "Sei la mia puttana, vero?" Maria ride: "No. Non lo sono. Le puttane si fanno pagare."
H. ha del contante in portafogli per pagare il motel ecc., senza dover usare la carta di credito. Estrae due biglietti da cento dollari, nuovi di zecca, e glieli porge.
Lì per lì Maria non sa cosa dire. Poi, evidentemente, sì. "Li devi gettare per terra," gli dice. "Mi sa che è così che si usa."
Lui li lascia cadere. In camiciola di seta nera lei si china a raccattarli e li infila nella borsetta.
"Grazie. "
H. a me: "Pensai: 'Mio Dio, ci ho rimesso duecento dollari. E' una bella somma." Ma non dissi parola. Pensai: 'Li vale, duecento dollari, soltanto per vedere che effetto fa."' "Che effetto fa?"
"Non lo so ancora."
"Se li è tenuti i soldi?"
"Sì. Mi ha detto: 'Sei un matto."'
"Pare che anche lei voglia vedere che effetto fa."
"Tutt'e due, mi sa. Voglio dargliene altri."
Maria gli confida che una donna che aveva avuto una storia con suo marito prima che lei lo sposasse aveva confidato a un'amica: "Mai mi sono tanto annoiata in vita mia." Ma è un uomo stupendo con i figli. Ed è lui a tenerla a freno. "Sono un'impulsiva, io," dice Maria.
Maria dice che ogni qual volta non riesce a credere che H. sia reale e che la loro storia stia realmente accadendo, prende e sale su di sopra a guardare i due biglietti da cento dollari che tiene nascosti nel cassetto della biancheria intima. Ciò la convince.
H. si meraviglia di non provare sensi di colpa né tormenti per il fatto di essere così allegramente infedele a Carol. Ma come fa - si chiede - uno che tanto vuol essere buono - uno che è davvero buono - a far tranquillamente una porcheria del genere?
Carol parlava senza seguire degli appunti, ma non appena ebbe iniziato fu chiaro, a Zuckerman, che ogni parola era stata pensata, studiata e mandata a memoria, senza lasciare nulla al caso. Se mai Carol era apparsa misteriosa al cognato, questo mistero aveva eventualmente a che fare con qualcosa che si celava dietro la sua indole estremamente accomodante; egli non era mai stato in grado di calcolare precisamente quanto ingenua ella fosse e quel che adesso stava dicendo non giovava certo all'uopo. La storia che Carol aveva deciso di raccontare non era quella che aveva messo insieme lui pezzo per pezzo (e preferito --per ora--tenere per sé); l'infelicità di Henry aveva, nel ricordo di Zuckerman, un significato e una rilevanza del tutto diversi. Quella di Carol era la storia che si intendeva porre come la versione ufficialmente autorizzata, ed egli si chiese se - mentre la raccontava--Carol stessa ci credesse.
"C'è qualcosa nella morte di Henry," ella esordì, "che voglio che voi tutti, qui raccolti, sappiate. Voglio che lo sappiano i figli di Henry. Voglio che suo fratello lo sappia. Voglio che lo sappiano tutti coloro che gli hanno voluto bene. Potrà alleggerire - 
-credo--la durezza di questo terribile colpo, se non stamattina almeno in futuro, quando tutti saremo meno tramortiti. "Se così avesse deciso, Henry avrebbe potuto seguitare a vivere senza sottoporsi a quella tremenda operazione. E non fosse stato per quell'operazione a quest'ora sarebbe al lavoro nel suo studio e, tra poche ore, tornerebbe a casa da me e dai figlioli. Non è vero che l'intervento fosse indispensabile. Le medicine che i dottori gli avevano prescritto non appena diagnosticato il male erano sufficienti a tenere sotto controllo il disturbo cardiaco. Non soffriva dolori né correva pericolo immediato. Ma il farmaco aveva drasticamente influito su di lui come uomo e posto fine ai nostri rapporti fisici. E questo Henry non poteva accettarlo.
"Quando cominciò a prendere seriamente in esame l'intervento chirurgico, 
io lo scongiurai di non rischiare la vita al fine di salvare quel lato del nostro matrimonio, per quanto ne sentissi anch'io la mancanza. S'intende, mi mancavano il calore e la tenerezza e l'affetto intimo, ma con ciò ero venuta a patti. Ed eravamo per altri versi così felici, nella nostra vita insieme e con i nostri figli, che era impensabile, per me, che lui dovesse subire un'operazione che avrebbe potuto distruggere tutto. Ma Henry ci teneva tanto a che il nostro fosse un matrimonio completo che nulla l'avrebbe sgomentato.
"Come tutti sapete--come molti di voi mi hanno detto in queste ultime ventiquattr'ore--Henry era un perfezionista, non solo nel suo lavoro in cui era, come tutti sapete, un meticoloso artigiano, ma anche in tutti i suoi rapporti con le persone. Dava tutto, ai suoi pazienti, ai figli, a me, senza riserve. Era inconcepibile per un uomo così dinamico, così pieno di vita che, ancor giovane, dovesse trovarsi tanto crudelmente menomato. Devo confessarvi, cosa che a lui non ho mai confessato, che per quanto fossi contraria all'operazione a causa del rischio a volte mi chiedevo titubante se sarei riuscita a seguitare a essere una moglie affezionata e utile, sentendomi così tagliata fuori da lui. Nel corso di quest'ultimo anno, quand'era chiuso e incupito e depresso, talmente tormentato dalla sua menomazione da temere che il nostro matrimonio dovesse soffrire a causa della cosa sconcertante che era accaduta, io pensavo: 'Se solo avvenisse un miracolo!" Ma io non sono una che fa accadere i miracoli; io sono una che tende ad adattarsi a quello che c'è a disposizione, persino, temo, alle proprie imperfezioni. Ma Henry non accettava imperfezioni in sé, come non le accettava nel lavoro. Se io non avevo il coraggio di tentare con un miracolo, Henry invece ce l'aveva: aveva il coraggio--lo sappiamo tutti--di far fronte a qualsiasi cosa che la vita può richiedere a un uomo. "Non vi dirò che seguitare a vivere senza Henry sarà facile per noi. I figlioli sono spaventati da un futuro senza un padre affettuoso che li protegga e anche a me spaventa la mancanza di Henry al mio fianco. Mi ero abituata a lui, sapete. Tuttavia, mi infonde forza tenere presente che la sua vita non ha avuto una fine insensata. Cari amici, cari parenti, miei cari, carissimi figlioli, Henry è morto per recuperare la pienezza e la bellezza della vita coniugale. Era un uomo forte, coraggioso e affettuoso il quale voleva disperatamente che il vincolo della passione fra marito e moglie seguitasse a essere saldo, inscindibile. E carissimo Henry, dolce compagno, così sarà: il vincolo della passione fra questo marito e questa moglie resterà saldo finché io avrò vita."
Solo gli intimi, insieme al rabbino Geller, seguirono il carro funebre fino al cimitero. Carol non voleva che i figli prendessero posto a bordo di una di quelle limousine da corteo funebre, quindi li portò lei stessa con la giardinetta di famiglia, insieme ai Goff e a Nathan. La sepoltura avvenne in brevissimo tempo. Geller recitò la preghiera di rito e i figli deposero i crisantemi colti in giardino sul coperchio della bara. Carol chiese se qualcuno di loro volesse dire qualcosa. Nessuno rispose. Carol si rivolse al figlio maschio: "Leslie..." Questi esitò un momento, per prepararsi. "Volevo solo dire..." ma per la paura di scoppiare a piangere si interruppe. "Ellen..." chiese Carol, ma Ellen in lacrime, aggrappata alla mano della nonna, scosse la testa
in segno di diniego. "Ruth..." disse Carol. "Era il migliore dei padri," fece Ruth, a voce alta e chiara, "il migliore." "Va bene," concluse Carol e i due robusti addetti calarono il feretro. "Resto qualche minuto," disse Carol ai parenti; e rimase sola presso la tomba, mentre gli altri tornavano al parcheggio.
Carol e i figli si recano ad Albany per festeggiare l'anniversario dei genitori di lei. Per ragioni di lavoro H. non può andare con loro. Maria, parcheggiata l'auto a tre isolati di distanza, va a trovarlo a casa. Si presenta, come richiesto, in abito nero di jersey con biancheria intima nera. Ha portato con sé il suo disco prediletto. Annaffia le piante che Carol ha dimenticato di annaffiare prima di partire. Spicca anche le foglie secche. Poi a letto, amore anale.
Dopo le iniziali difficoltà estatici entrambi. H.: "E' così che io ti sposo, è così che io faccio di te mia moglie!" "Sì, e non lo sa nessuno, Henry! Non sono più vergine, ora, lì, e nessuno lo sa! Tutti mi credono buona e brava e rispettabile. Nessuno sa niente!" In bagno con lui, dopo, mentre si ravvia i capelli con la sua spazzola, lei vede il suo pigiama appeso alla porta e allunga una mano per toccarlo. ("Non mi ero reso conto, fino a quella sera, di quel che aveva fatto. A mia volta accarezzai il mio pigiama, per provare quel che aveva provato lei." Inoltre, Maria tolse dalla spazzola i propri capelli, affinché Carol non li scoprisse.) Sedendo con lei in soggiorno a luci spente H., affamato, mangiò un gelato enorme, mentre lei metteva su il disco che aveva portato. Maria: "Questo è il più bel movimento lento del 18esimo secolo." H. non ricorda cosa fosse: Haydn? Mozart "Non lo so," mi disse. "Non so niente di quel tipo di musica. Ma era bellissimo solo guardare lei ascoltarla." Maria: "Mi fa pensare all'università star seduta qui così, piena di te in ogni maniera, e niente altro al mondo." "Sei mia moglie, adesso," dice H. "la mia altra moglie." Mise su un disco di Mel Tormé per lei (doveva ballare con lei avendone l'occasione). Ballano incollati pancia a pancia, come lui ballava, ai liceo con Linda Mandel. Dorme solo, quella notte, nel letto macchiato di baby oil, con il vibratore non lavato sul guanciale accanto alla sua testa. Lo portò con sé al lavoro il giorno dopo. Lo nascose assieme a una copia della Svizzera di Fodor che aveva comprato per leggere e a una foto di lei. Inoltre, portò con sé i capelli tolti dalla spazzola. Tutto nella cassaforte. Le lenzuola le mise in un sacco di plastica nera che scaricò in un bidone per rifiuti alla Millburn Mall, a cinque chilometri dalla scena del loro matrimonio. Il Dostoevskij di Fodor.
Era un pomeriggio di fine settembre; dalla carezza fresca della brezza e dal lieve calore del sole e dal secco stormire non estivo degli alberi avresti facilmente indovinato il mese a occhi chiusi: fors'anche la settimana. Dovrebbe importare a un uomo, per quanto giovane e virile, di venir condannato al celibato a vita quando, ogni anno, finché camperà, ci saranno giornate d'autunno come questa da godere? Be', era una domanda da porsi a un vecchio dalla barba folta, amante di enigmi impossibili, laddove l'affabile Mark Geller era un rabbino, a giudizio di Zuckerman, di tutt'altra specie; quindi declinò l'invito di tornare a casa sulla macchina di Geller e attese con i bambini e i nonni presso il cancello del cimitero dove la giardinetta era parcheggiata. Ruth, dall'aria esausta, si avvicinò allo zio e gli prese una mano.
"Che c'è?" le chiese lui. "Ti senti poco bene?"
"Sto pensando che quando i compagni di scuola parleranno dei loro genitori, io potrò dire soltanto 'mia madre". "Potrai dire i tuoi genitori, al plurale, ogni qual volta parlerai del passato. Ne hai avuto per tredici anni. Nulla di ciò che hai fatto con Henry verrà mai cancellato. Lui sarà sempre tuo padre." "Papà ci portava due volte all'anno, da soli, senza la mamma, a far compere a New York. Era una festa per lui. Solo lui e noi bambini. Prima si andava per negozi e poi all'albergo Plaza a pranzare nel Cortile delle Palme, dove suonano il violino. Non molto bene, fra l'altro. Una volta in autunno e una volta a primavera, ogni anno. Adesso toccherà alla mamma fare quello che faceva papà. Dovrà fare il mestiere di entrambi."
"Non credi che ci riuscirà?"
"Senz'altro. Un giorno forse si risposerà. Le piace veramente esser sposata. Lo spero, che si risposi." Poi, con molta gravità, soggiunse subito: "Ma solo se troverà qualcuno che sia buono come lei con noi figli."
Attesero quasi una mezz'ora, prima che Carol, di buon passo, uscisse dal cimitero per riaccompagnarli a casa in macchina. Il cibo era stato imbandito, da un servizio rinfreschi del quartiere, sotto le tende da sole, nel patio, quando i partecipanti alle esequie si trovavano ancora dentro la sinagoga, e nelle sale a pianterreno erano state disposte qua e là sedie pieghevoli noleggiate dalle pompe funebri. Le ragazze della squadra di softball di Ruth, che avevano preso un pomeriggio di libertà dalla scuola per aiutare gli Zuckerman, sparecchiavano i piatti di cartone usati e riempivano i vassoi di portata, attingendo alle riserve in cucina. Zuckerman si mise a cercare Wendy.
Era stata proprio Wendy--temendo che Henry cominciasse a perdere il senno--a proporre per prima Nathan come confidente. Carol dal canto suo, convinta che Nathan non potesse più esercitare alcuna autorità sul fratello, aveva invece consigliato a Henry di rivolgersi a uno psicoterapeuta. E ogni sabato mattina--fino al sabato di quell'orrenda spedizione a New York Henry vi si era recato per un'ora, durante la quale parlava con estrema sincerità della sua passione per Wendy, fingendo 
però con il terapeuta che tale passione avesse per oggetto Carol, da lui descritta per l'occasione come la più giocosa, fantasiosa partner sessuale che un uomo potesse sperare di avere. Ciò provocava lunghe e profonde discussioni su un matrimonio che sembrava interessare enormemente il terapeuta ma deprimeva Henry ancor di più poiché era una crudele parodia del proprio rapporto coniugale. Per Carol, Nathan era all'oscuro della malattia del fratello fino al momento in cui aveva appreso della sua morte. Quindi, attenendosi scrupolosamente alle volontà di Henry, Nathan aveva fatto il tonto, quando Carol gli telefonò, atteggiamento assurdo che valse solo ad accrescere il suo sgomento e che gli rivelò chiaramente come Henry fosse incapace di prendere alcuna decisione, razionalmente, da quando il male era cominciato. Al cimitero, mentre i figli di Henry, presso la tomba, si sforzavano di parlare, Zuckerman aveva finalmente capito che il motivo per cui avrebbe dovuto dissuaderlo era che Henry desiderava venir dissuaso. Henry non si sarebbe mai immaginato che Nathan potesse tranquillamente accettare, come giustificazione di una operazione così rischiosa, l'inconsulta bramosìa di soddisfare quella stessa maniacale lussuria da lui (Nathan) descritta in maniera farsesca in Carnovsky. Henry si sarebbe aspettato che il fratello sbottasse a ridere. Naturale!
Era venuto dal New Jersey apposta per confessare al burlesco romanziere 
la ridicola assurdità del suo dilemma e invece si era trovato di fronte un fratello indulgente, sollecito a dargliela vinta, un fratello che non era più capace né di dare consiglio né di arrecare offesa. Era corso a casa di Nathan per sentirsi dire quanto insignificante fosse la bocca di Wendy in confronto ai doveri di un uomo maturo, cosciente, ordinato, e invece l'autore di satire sessuali era stato ad ascoltarlo seriamente. L'impotenza--aveva pensato allora Zuckerman--ha distorto la sua visione della vita, del più semplice e prevedibile suo corso. Fintanto che era potente, lui poteva sfidare e minacciare, sia pure per sport, la solidità del rapporto coniugale; fintanto che era potente c'era una sorta di intercapedine, nella sua vita, fra il lecito tran-tran e i tabù. Ma, privo di potenza, egli si sente condannato a una vita ferreamente prestabilita, in cui tutte le questioni sono risolte.
A render chiaro ciò nulla valeva meglio del modo in cui Henry era diventato l'amante di Wendy. Gliel'aveva raccontato lui stesso. A quanto pare, fin dal primo momento, quando lei si era presentata per un colloquio preliminare e lui aveva richiuso la porta alle sue spalle, ogni parola che si erano scambiati aveva fatto, virtualmente, da incentivo. "Salve," le aveva detto lui, nello stringerle la mano, "ho sentito cose meravigliose sul tuo conto dal dottor Wexler. E ora che ti guardo, mi pare che tu
sia quasi troppo in gamba. Sarai fonte di distrazione, tanto sei graziosa."
E lei, ridendo: "Sarà meglio che me ne vada, allora." Quello che aveva deliziato Henry non era tanto la rapidità con cui l'aveva messa a suo agio, quanto l'essersi sentito lui, subito, a proprio agio. Non succedeva sempre così. Nonostante la ben nota affabilità dei suoi rapporti con i pazienti, egli era ancora capace di comportarsi in modo ridicolmente formale con le persone che non conosceva, sia uomini che donne, al punto che nel corso di un colloquio nel suo studio con una persona in cerca di lavoro gli era parso sovente di essere lui quello che aspirava a farsi assumere. Ma un nonsoché di vulnerabile nell'aspetto di quella giovane donna--qualcosa di particolarmente stuzzicante nei suoi piccoli seni--lo aveva reso ardito, sebbene non fosse, quello, un momento propizio agli ardimenti.
Sia a casa che allo studio tutto stava procedendo così bene che un'avventura extraconiugale era quanto di meno potesse augurarsi. Eppure, proprio perché ogni cosa andava a gonfie vele, non riusciva a tener tirate le briglie a quella robusta, virile sicurezza di sé che, lo sapeva bene, stava appunto cercando uno sfogo. Era uno di quei giorni in cui Henry si sentiva come un divo dello schermo che recita chissà quale grandiosa vicenda. Perché reprimersi? Ce n'erano persino troppe di giornate in cui invece si sentiva un verme.
"Siediti," le disse. "Parlami di te e di quello che vuoi fare." "Quello che voglio fare?" Qualcuno doveva averle consigliato di ripetere la domanda dell'interlocutore, per darsi il tempo di pensare alla risposta giusta o ricordare quella preparata. "Vorrei fare un sacco di cose. Ho fatto già pratica nel gabinetto dentistico del dottor Wexler. E un uomo magnifico... un vero gentiluomo." "E' una brava persona," disse Henry, pensando intenzionalmente, 
per via di quell'eccesso di fiducia e forza, che prima o poi le avrebbe fatto vedere lui cosa vuol dire magnifico. "Ho imparato molte cose da lui in fatto di odontoiatria."
Egli l'incoraggiò gentilmente. "Dimmi quello che sai." "Quello che so? So che un dentista deve, prima cosa, scegliere il tipo di studio che vuole mandare avanti. E' un commercio, occorre quindi scegliere il mercato, ma al tempo stesso si ha a che fare con qualcosa di molto intimo. Si tratta della bocca della gente, di quel che ognuno prova al riguardo, di quel che prova riguardo al suo sorriso."
Le bocche sono un commercio, un affare, appunto--anche quella di lei--e tuttavia a parlarne a quel modo, a porte chiuse, con quella giovane, esile biondina in cerca di un impiego risultava una cosa tremendamente stimolante. Ricordò il timbro
della voce di Maria quando gli diceva quant'era magnifico il suo cazzo. "Ti infilo la mano dentro i pantaloni e resto sbigottita, tanto è grosso, e tondo, e duro." "Il controllo che ne hai," gli diceva, "il modo in cui lo fai durare... non c'è nessuno come te, Henry." Se Wendy gli si fosse avvicinata, adesso, e gli avesse infilato una mano dentro i pantaloni, avrebbe capito subito cosa intendeva Maria.
"La bocca," stava dicendo Wendy, "è realmente la cosa più personale che un dottore abbia a curare."
"Sei una delle poche persone che abbiano mai detto una cosa del genere," le disse Henry. "Te ne rendi conto?" Quando vide che l'adulazione le imporporava le gote, portò il discorso su un terreno assai più ambiguo, ben sapendo, tuttavia, che nessuno, se li avesse sentiti, avrebbe potuto legittimamente accusarlo di parlare con lei d'altro che dei suoi requisiti per quel posto di lavoro. Ma certo nessuno avrebbe potuto sentirli.
"La davi per scontata, la tua bocca, un anno fa?" le chiese. "In confronto a quello che ne penso adesso, sì. Beninteso,
mi sono sempre presa cura dei denti, ci ho sempre tenuto al sorriso. . . "
"Ci tieni a te stessa," disse Henry in tono d'approvazione. Sorridendo--ed era veramente un bel sorriso, distintivo di innocente, infantile abbandono--lei colse felice la palla al balzo. "Ci tengo a me stessa, sì, certo, ma non avrei mai immaginato che il lavoro del dentista comportasse tanta psicologia." Lo diceva per tenerlo a freno? Gli chiedeva educatamente di lasciar perdere la sua bocca? Forse non era tanto ingenua quanto pareva, ma ciò era ancora più eccitante. "Dimmi qualcosa, al riguardo," disse Henry.
"Be', come dicevo dianzi... Quel che provi riguardo al tuo sorriso è un riflesso di quel che provi nei tuoi stessi confronti, è quello che presenti di te agli altri. Ritengo che un'intera personalità possa svilupparsi intorno ai tuoi denti. In un gabinetto dentistico si ha a che fare con la persona intera, anche se sembra che si abbia a che fare soltanto con la bocca. In che modo soddisfare l'intera persona, compresa la bocca? E quando si parla di odontoiatria estetica si parla di vera e propria psicologia. Abbiamo avuto qualche problema, dal dottor Wexler, con persone che volevano che i denti falsi fossero bianchissimi, anche se gli altri denti non erano altrettanto bianchi. Bisogna far loro capire che i denti devono sembrare naturali. Devi dirgli: 'Le ci vuole un sorriso che si addica perfettamente a lei; non può scegliere dal campionario il sorriso perfetto e metterselo in bocca, eh, no."
"E ci vuole una bocca," soggiunse Henry, per aiutarla, "che
abbia l'aria di appartenere proprio a te."
"Assolutamente . "
"Ti prenderò a lavorare con me."
"Oh, che bello."
"Penso che c'intenderemo," disse Henry, ma prima che ciò assumesse un significato eccedente, si affrettò a illustrare alla giovane donna le proprie idee come se, mostrandosi perfettamente serio sull'odontoiatria, egli potesse in qualche modo impedirsi di essere troppo allusivo. Si sbagliava. "Perlopiù le persone, come ormai saprai, non pensano neppure che la bocca faccia parte del corpo. O che i denti ne facciano parte. Consciamente non lo pensano. La bocca è un buco e basta, non è niente. Perlopiù le persone, a differenza di te, non ti diranno mai cosa significa per loro la bocca. Se hanno paura del trapano è, tante volte, a causa di precedenti esperienze spaventose, ma soprattutto è per via di ciò che la bocca significa. Chiunque te la tocchi, è uno che invade o uno che aiuta. Levar loro dalla testa che chi lavora su di loro sia un invasore e convincerli invece che li aiuta, a buon fine, è quasi come avere un rapporto sessuale. Per la maggior parte della gente, la bocca è segreta, è il loro nascondiglio. Proprio come i genitali. Devi tener presente che, embrionicamente, la bocca è collegata agli organi genitali."
"L'ho studiato, questo."
"Davvero? Bene Allora ti renderai conto che le persone pretendono che si sia molto teneri con la loro bocca. La dolcezza è la cosa più importante da tenere presente. Con ogni tipo di persona. E, sorprendentemente, gli uomini sono più vulnerabili, specie se hanno perso dei denti, poiché la perdita di un dente per un uomo è un'esperienza molto dura. Il dente, per un uomo, è un piccolo pene."
"Non me n'ero resa conto," lei disse, ma non sembrava affatto offesa. "Be', che ne pensi, tu, delle capacità sessuali di un uomo senza denti? Cosa credi che lui pensi? Ho avuto qui un uomo molto eminente. Aveva perso tutti i denti e aveva un'amica giovanissima. Non voleva che lei sapesse che aveva la dentiera, poiché ciò avrebbe significato che lui era un vecchio e lei invece... aveva circa la tua età. Ventun anni?"
"Ventidue."
"Lei ventuno. Quindi, anziché mettergli una dentiera, gli feci un impianto. Così lui fu felice. E lei pure."
"Il dottor Wexler dice sempre che la soddisfazione è tanto maggiore quanto più rischiosa è la prova, il che spesso si traduce in un disastro."
Se l'era scopata, Wexler? Henry finora non si era mai spinto
al di là della civetteria con le assistenti, di qualsiasi età: non solo era contrario all'etica professionale, ma fonte di continua distrazione, in uno studio ben avviato, e poteva benissimo tradursi in un disastro per il dentista. Si rese subito conto che non
avrebbe mai dovuto assumerla; si era comportato troppo impulsivamente e adesso non faceva che peggiorare le cose con quel discorso sul mini-pene che gli stava procurando una enorme erezione. Tuttavia, dato che tutto congiurava in quel periodo a renderlo ardito, non riusciva a fermarsi. Al peggio, cosa poteva succedergli? Ardito come si sentiva non ne aveva idea. "La bocca, non devi scordarlo, è l'organo primario dell'esistenza..." E così via su questo tono, guardando arditamente, senza batter ciglio, quella di lei.
Nondimeno, passarono sei intere settimane prima che egli accantonasse i suoi dubbi, non solo di essersi spinto tanto oltre durante il colloquio preliminare, ma anche riguardo all'opportunità di tenerla ancora presso di sé in studio, nonostante il lavoro eccellente da lei svolto. Tutto quello che aveva detto sul conto di Wendy a Carol era vero, sebbene a lui apparisse come una trasparentissima razionalizzazione del motivo per cui l'aveva assunta.
"E' intelligente e attenta, è graziosa e si fa ben volere dalla gente, con cui comunica, e quindi mi è di enorme aiuto: grazie a lei, appena arrivo posso mettermi subito al lavoro. Questa ragazza," diceva a Carol più spesso di quanto non avrebbe dovuto durante quelle sei settimane, "mi fa risparmiare due, tre ore al giorno.
Poi una sera, dopo il lavoro, mentre Wendy puliva le vaschette e metteva tutto in ordine, come di consueto, lui le si piazzò davanti e, siccome non era più il caso di menare il can per l'aia, si mise a ridere. "Senti," le disse, "facciamo finta che tu sia l'assistente e io il dentista." "Ma io sono davvero l'assistente," disse Wendy. "Lo so," replicò lui, "e io sono davvero il dentista. Ma facciamo finta lo stesso." "E così," racconterà poi Henry a Nathan, "questo è quel che facemmo." "Tu hai recitato la parte del dentista," disse Zuckerman. "Mi sa di sì," disse Henry; "lei faceva finta di chiamarsi "Wendy" e io di chiamarmi 'dottor Zuckerman", e facevamo finta di trovarci nel mio
gabinetto dentistico. E poi facemmo finta di scopare, e scopammo." 
"Interessante, pare," commentò Zuckerman. "Lo fu, fu una cosa selvaggia, ci fece uscir pazzi, fu la cosa più strana che avessi mai fatto. Seguitammo per settimane, poi, a far finta così e lei badava a dire: 'Perché è tanto eccitante, dal momento che quel che fingiamo di essere è quello che siamo?" Dio, che stupendo! E lei, che calda!"
Ebbene, quegli svaghi, quel calore, erano acqua passata adesso, non ci si divertiva più a trasformare maliziosamente ciò -cheera in ciò-che-non-era, o ciò-che-avrebbe-potuto-essere in ciòche-era: adesso c'era solo il ferreo e triste ciò-che-è e questo-èquanto. Nulla un uomo di successo energico, alacre predilige più di una piccola Wendy a tempo perso, e nulla a una piccola Wendy potrebbe dar più gusto che chiamare il suo amante "dottor Z.": 
è giovane, ha voglia, si trova nel suo studio, lui è il principale, lei lo vede--in camice bianco--adorato da tutti, vede sua moglie portare i bambini a scuola e diventar grigia mentre lei ha un vitino da 50 centimetri... E' una pacchia per lei. Sì, quelle sessioni con Wendy erano state l'arte di Henry; quello studio da dentista, dopo l'orario di visita, il suo atelier; e la sua impotenza, pensò Zuckerman, fu come l'esaurirsi dell'estro in un artista. Gli venne di nuovo assegnato il compito dell'uomo serio e responsabile che, purtroppo, era ormai una routine dalla quale aveva bisogno di andare sempre più spesso e più a lungo in vacanza, se voleva sopravvivere. Era stato restituito al suo talento per il prosaico: precisamente quello in cui era stato ingabbiato per tutta la vita. Zuckerman aveva provato per lui tanta di quella pena che, stupidamente--stupidamente-non aveva fatto niente per fermarlo.
Giù in soggiorno si aprì un varco attraverso la folla, accettando le loro condoglianze, ascoltando certi loro ricordi, rispondendo a domande--dove viveva adesso, cosa stava scrivendo
--finché non ebbe raggiunto la cugina Essie, la sua parente prediletta e, un tempo, la roccaforte della famiglia. Sedeva su una poltroncina accanto al caminetto, con un bastone di traverso sulle ginocchia. Sei anni addietro, quando l'aveva vista per l'ultima volta ai funerali di suo padre in Florida, Essie aveva un nuovo marito al fianco--un anziano giocatore di bridge di nome Metz--ora defunto, che pesava una quindicina di chili meno di lei e non si appoggiava a un bastone. Essie era sempre stata, a memoria di Zuckerman, grande e grossa e vecchia, e adesso era ancor più grossa e più vecchia, ma tuttora--avresti detto--indistruttibile.
"Dunque hai perso tuo fratello," gli disse quando lui si sporse a baciarla. "Una volta vi portai, da bambini, al luna-park, insieme ai miei figli. A sei anni Henry era il ritratto di Wendell Willkie, col suo bravo ciuffo di capelli neri. Quel ragazzino ti adorava, allora."
Devono tornare a Basilea: Jurgen è stato trasferito in sede. Maria non riesce a smettere di piangere. "Tornerò a essere una brava moglie e una brava madre!" 
Fra sei settimane, a casa in Svizzera. Dove avrà solo quei 200 dollari
come prova di non aver sognato tutto.
" Davvero? "
"Cristo, non c'era verso che ti mollasse la mano." "Be', adesso ha mollato tutto. Noi siamo qui, in casa sua, ed Henry è al cimitero."
"Non parlarmi dei morti," disse Essie. "Mi guardo allo specchio la mattina, e ci vedo l'intera famiglia che mi guarda. Vedo la faccia di mia madre, vedo mia sorella, vedo mio fratello, vedo i morti vicini e lontani, tutti quanti nel mio brutto muso. Senti, parliamo un momento a quattr'occhi, io e te," e, dopo che lui l'ebbe aiutata ad alzarsi dalla poltroncina, Essie lo condusse 
fuori della stanza di soggiorno arrancando, procedendo come un grosso veicolo dall'asse spezzato. "Che c'è?" le chiese, quando furono nell'atrio
"Se tuo fratello è morto per andare a letto con sua moglie, allora a quest'ora è già in mezzo agli angeli, Nathan." "Ma lui è stato sempre il figliolo modello, Esther. Il migliore, il non plus ultra dei figli, il migliore dei padri che furono, sono e saranno... e, be', a quanto pare, anche il migliore di tutti i mariti."
"A quanto pare, lo schmuck più schmuck di tutti gli schmuck." "Ma i figli, la gente di casa... A papà gli verrebbe un colpo. Come farei a fare il dentista a Basilea?" "Perché devi proprio andare a stare a Basilea?" "Perché a lei piace, ecco perché. L'unica cosa - dice - che le ha reso South Orange tollerabile sono io. La Svizzera è la sua patria." "Ci sono posti peggiori della Svizzera." "Facile per te parlare." Quindi non parlo più, mi limito a ricordarla cavalcioni a lui in camiciola di seta nera lontana, lontana, come i pomelli della testiera del letto, quand'era bambino.
"Non è certo uno scherzo ritrovarsi impotente a trentanove anni," disse Zuckerman, "e ho motivo di credere che la sua fosse una condanna a vita."
"Anche al cimitero ci starà per sempre, però."
"Lui contava di farcela, Essie, di vivere ancora. Altrimenti non sarebbe andato sotto i ferri." "Tutto ciò per la cara mogliettina."
"Così dice la storia."
"Mi piacciono di più quelle che scrivi tu."
Maria gli dice che chi resta soffre ancora di più di chi parte. Per via di tutti i luoghi familiari.
Dietro di loro, mentre scendevano le scale, c'erano due uomini anziani che lui non vedeva da tanto tempo: Herbert Grossman, l'unico profugo europeo del clan, e Shimmy Kirsch, definito anni addietro dal padre di Nathan "cognato di Neanderthal", 
e probabilmente il più stupido di tutto il parentado. Ma siccome era anche il più ricco di tutti, c'era da domandarsi se la stupidità di Shimmy non fosse una dote; guardandolo sospettavi che la passione per la vita e la forza necessaria a prevalere fossero, in sostanza, alquanto stupide. Sebbene la mole fosse stata erosa dall'età e la faccia rugosa recasse i segni della diuturna fatica, egli era ancora più o meno la persona che Nathan ricordava dall'infanzia: un enorme, inattaccabile nulla, dedito al commercio all'ingrosso, uno di quei rapaci figli dei vecchi emigrati che non arretrano davanti ad alcunché pur essendo, per la fortuna della società, schiavi di atavici tabù. Per il padre di Zuckerman, il coscienzioso pedicure Victor, la vita era stata una tenace ascesa, su su dall'abisso della povertà paterna, non solo allo scopo di migliorare la propria sorte, ma anche di soccorrere i parenti in veste di messia della famiglia. Shimmy non aveva mai sentito il bisogno di tanta assidua abnegazione. Non che ambisse necessariamente a degradare se stesso, no: tutta la sua tenacia era stata impiegata per diventare quello che era per indole ed educazione, Shimmy Kirsch. Mai si era chiesto chi-sonoio, cosa-conto, dove-sono, né fregnacce del genere, mai aveva cercato scuse, mai provato un grammo di sfiducia in se stesso, né il menomo impulso alla distinzione spirituale; piuttosto, al pari di tanti della sua generazione usciti dai vecchi bassifondi ebraici di Newark, era uno che respirava lo spirito dell'opposizione pur restando completamente in armonia con gli usi e costumi della terra. Fin dai tempi in cui Nathan si era primamente innamorato dell'alfabeto e aspirava, compitando, a eccellere a scuola, codesti Shimmy avevano già cominciato a insinuare in lui il dubbio che il vero disadattato fosse lui, specie quando sentiva raccontare in che modo, tutt'altro che intelligente, essi riscuotevano successo e battevano la concorrenza. A differenza dell'encomiabile Victor Zuckerman che aveva frequentato le scuole serali per assurgere a dignità di professionista, quegli Shimmy, così squallidamente banali, così stereotipati, davano prova di tutta la spietata avidità del rinnegato, lacerando coi denti e staccando un bel tocco di carne dalla cruda culatta della vita e poi trascinandolo ovunque con sé, mentre il significato di ogni altra cosa impallidiva in confronto alla sanguinolenta vettovaglia nelle loro fauci. Non possedevano assolutamente alcuna saggezza; interamente saturi di sé, del tutto di sé immemori, non avevano nulla su cui regolarsi tranne i più elementari istinti umani, e tuttavia grazie soltanto a essi arrivavano maledettamente lontano. Anche loro facevano tragiche esperienze e subivano perdite e scacchi cocenti: venir bastonati a morte era tanto una loro specialità quanto bastonare gli altri. Fatto sta però che il dolore 
e il cordoglio non li hanno mai distolti, neanche per mezz'ora, dalla loro intenzione di vivere. Impervi com'erano al dubbio, ignari di sfumature, privi dell'ordinario senso della vanitas vanitatum o della disperazione che è di tutti i mortali, eri a volte indotto a considerarli inumani, e tuttavia erano uomini di cui era impossibile dire che fossero altro che umani: erano proprio ciò che umano realmente è. Mentre suo padre aspirava senza tregua a impersonare il meglio del genere umano, codesti Shimmy erano semplicemente la spina dorsale della razza umana. Shimmy e Grossman stavano discutendo di Israele, della politica estera israeliana. "Bombardarli, bisogna," disse Shimmy, piatto, "bombardare quegli arabi bastardi finché non gridano basta. Vogliono ancora tirarci per la barba? Noi moriamo, piuttosto! "
Essie, astuta, sagace, cosciente, una "sopravvivente" di tutt'altra pasta, allora gli disse: "Lo sai perché "do" a Israele?" Shimmy, indignato: "Tu? Tu non hai mai donato un soldo in vita tua."
"Lo sai perché?" le ripeté, rivolta a Grossman, che era una "spalla" assai migliore.
"Perché?" fece Grossman.
"Perché in Israele si raccontano le migliori barzellette sugli ebrei. Si sentono migliori barzellette antisemitiche a Tel Aviv che non persino in Collins Avenue."
Dopo cena, H. ritorna allo studio - ha da fare in laboratorio, dice a Carol - e passa la serata a leggere la Svizzera di Fodor, cercando di prendere una decisione. "La città di Basilea ha un'atmosfera tutta sua, in cui elementi tradizionali e residui del medioevo si mescolano, inaspettatamente con il moderno... Dietro e intorno ai suoi splendidi edifici antichi e bei palazzi nuovi, un dedalo di pittoresche viuzze e strade molto animate... Il vecchio si fonde impercettibilmente con il nuovo..." E lui pensa: "Che bella vittoria, se riuscissi a staccarmi da qui!"
"Ci sono stata tre anni fa, insieme a Metz," stava dicendo Essie. "Andiamo dall'aeroporto in taxi all'albergo. Il tassista, un israeliano, si volta e in inglese ci fa: 'Perché gli ebrei hanno il naso molto grosso?' 'Perché?' domando io. 'Perché l'aria è gratuita,' risponde. Là per là staccai un assegno da mille dollari per il Fondo ebraico."
"Ma dai!" le disse Shimmy. "Chi ti ha mai carpito un soldo?"
"Le ho chiesto se era disposta a lasciare Jurgen. Le dicessi prima io - mi ha risposto - se ero disposto a lasciare Carol."
Herbert Grossman, la cui ostinatamente lacrimosa concezione del mondo era l'unica sua costante, aveva frattanto cominciato a riferire a Zuckerman le ultime cattive notizie. La malinconia di Grossman era una cosa che faceva quasi impazzire il padre di Nathan non meno della stupidità di Shimmy; Grossman era probabilmente l'unica persona sul conto della quale Victor Zuckerman fosse stato alla fine indotto a dire: "Poveretto, è più forte di lui. Non può farci niente." Gli alcolizzati potevano farcela, gli adulteri potevano farci qualcosa, gli insonni, gli assassini, persino i balbuzienti potevano farcela: secondo Victor Zuckerman, chiunque poteva cambiare qualsiasi cosa in se stesso con la forza di volontà; ma Grossman, dato che era dovuto sfuggire a Hitler, sembrava non avere alcuna volontà. Non che, domenica dopo domenica, il dottor Victor Zuckerman non si adoprasse, da parte sua. Ottimisticamente, si alzava da tavola, dopo la lauta colazione, e annunciava ai familiari: "E' ora di telefonare a Herbert!" ma di lì a dieci minuti, eccolo di ritorno in cucina sconfitto, borbottando fra sé: "Poveretto, non può farci niente." Colpa di Hitler, non c'era nessun'altra spiegazione. Il dottor Zuckerman non riusciva altrimenti a capire uno che, semplicemente, "non c'era".
A Nathan, Herbert Grossman sembrava adesso, come allora, un profugo delicato e vulnerabile, un ebreo, per aggiornare la formula di Isaac Babel, con lo stimolatore al cuore e gli occhiali sul naso. "Tutti si preoccupano per Israele," stava dicendo Grossman ora a Nathan, "ma lo sai di che cosa mi preoccupo io? Qui, proprio qui. In America. Qualcosa di terribile sta avvenendo qui da noi. Lo sento, come in Polonia nel 1935. No, non l'antisemitismo. Verrà, quello, verrà. No, è la criminalità, è il disordine sociale, a preoccuparmi, è la paura della gente. Il denaro: tutto è in vendita, e questo, soltanto questo, conta. I giovani sono pieni di disperazione. La droga non è altro che disperazione. Nessuno avrebbe voglia di tanta euforia se non fosse profondamente disperato."
Telefona H. e, per mezz'ora, non mi parla che delle virtù di Carol. Carol è una donna delle cui grandi qualità si può rendere conto soltanto chi, come lui, le è vissuto per tanti anni accanto. "E' interessante, dinamica, curiosa percettiva..." Un lungo elenco. Un impressionante elenco.
"La sento, la paura, per le strade," disse Grossman "Non puoi neppure andare all'emporio. Esci per fare la spesa e, in pieno giorno, i negri ti saltano addosso e ti rubano tutto." Maria è partita. Un terribile lacrimoso scambio di regali d'addio. Dopo essersi consultato con il colto fratello maggiore, H. le ha regalato la raccolta in astuccio, delle Sinfonie londinesi di Haydn. Maria gli ha dato la sua camiciola di seta nera.
Quando Herbert Grossman chiese "Con permesso", per andare a mangiare un boccone, Essie confidò a Nathan: "La sua ultima moglie soffriva di diabete. Gli ha reso la vita infelice. Le hanno amputato le gambe, tutt'e due, poi è diventata cieca, però non la smetteva di rimbrottarlo dalla mattina alla sera." Quindi il superstite fratello Zuckerman trascorse il lungo pomeriggio ad aspettare Wendy--chissà se sarebbe comparsa mentre prestava ascolto agli anziani della tribù e andava rammentando certe pagine di diario che non sembravano, quando le aveva scritte, essere né più né meno che degli appunti, carichi di sventura, per un Tristano e Isotta.
Maria ha telefonato a H. in studio la vigilia di Natale. A lui il cuore aveva cominciato a dar martellate non appena gli avevano annunciato una chiamata dall'estero, e non smise se non un bel pezzo dopo i saluti. Maria voleva augurargli buon Natale, un felice Natale americano. Era stata molto dura per lei - gli disse - in quei sei mesi, ma Natale ora era d'aiuto. I figli erano tutti eccitati, e'erano i parenti di Jurgen, sarebbero stati sedici a tavola l'indomani. Anche la neve - gli disse - era un po' d'aiuto. Nevicava, o non ancora nel New Jersey? Gli seccava che lei gli telefonasse così, in studio? I figli stavano bene? E sua moglie? E lui? E il Natale, a lui, rendeva le cose più facili?
O non era più tanto dura? "Cosa le hai risposto?" gli chiesi io. H.: "Avevo paura di dire qualsiasi cosa. Avevo paura che mi sentisse qualcuno in studio. Andai in oca, suppongo. Le dissi che noi non lo festeggiamo, il Natale."
Poteva essere quella la ragione per cui l'aveva mollata: perché Maria osservava il Natale e noi no? Avresti detto che, fra gli ebrei atei e istruiti della generazione di Henry, una fuga d'amore con la shiksa, la donna non ebrea, avesse cessato ormai da anni di essere alto tradimento e che fosse, semmai, percepita come un finale romanzesco in una vicenda sentimentale. D'altro canto, il guaio era forse, per Henry, che dopo essere passato per tanto tempo per un uomo modello si era trovato ridicolmente prigioniero di quel brillante travestimento proprio nel momento in cui era destinato a mostrarsi qual era: un uomo assai meno ammirevole e assai più disperato di quanto non si immaginasse. Che cosa atroce, che cosa assurda se, mettiamo, la donna che aveva destato in lui il desiderio di vivere in modo diverso, che significava per lui una rottura con il passato, una rivolta contro il vecchio tenore di vita giunto ormai a un emozionale punto morto--in antitesi alla tesi che la vita sia una serie di doveri da eseguire puntualmente--se, mettiamo, quella donna dovesse ridursi a essere solo l'umiliante memoria della sua prima (e ultima) grande avventura perché lei osservava il Natale e noi no. Se Henry non si era sbagliato, riguardo alle origini della sua malattia, se questa era davvero il risultato dello stress di quella pesante sconfitta e di quegli ardui sensi di disprezzo per se stesso che a lungo lo tormentarono, accanitamente, dopo il ritorno di Maria a Basilea, allora, per bizzarro che paia, era stato proprio l'essere ebreo a ucciderlo.
Se allora. Col trascorrere delle ore pomeridiane, Nathan si sentiva via via sempre più tentato da un'idea che avrebbe prosciolto quei vecchi appunti dalla loro nuda e cruda fattualità per trasformarli in un rompicapo da risolversi con la fantasia. Mentre faceva pipì, al gabinetto del piano di sopra, pensò: "Metti che quel pomeriggio, quando lei si recò segretamente a casa sua, dopo che si furono uniti in matrimonio mediante la copula anale, si fosse svolta la scena seguente. Lui sta a guardarla, mentre lei si tira su i capelli, e li punta con le forcine, proprio in quella stanza, prima di fare la doccia insieme. Vedendolo in adorazione--vedendolo guardare, pieno di meraviglia, quella strana donna europea che incarna, simultaneamente, sia l'innocente domesticità che lo sfrenato erotismo--ella gli dice, sorridendo fiduciosa: 'Ho davvero un aspetto esteriormente ariano, io, con i capelli tirati su e la mascella in evidenza." 'E che c'è di male, in questo?" lui le chiede. 'Be', c'è un nonsoché, negli occhi ariani, che non è tanto attraente, come la Storia ha dimostrato." "Senti," le dice lui, 'non mettiamo di mezzo la Storia, contro di te..." No, non sono loro, si disse Zuckerman, e ridiscese le scale tornò in soggiorno, dove di Wendy non c'era ancora neppure l'ombra. D'altro canto però non occorreva che fossero "loro" davvero: potrebbe trattarsi di me, si disse. Di noi. Metti che anziché mio fratello, la cui esistenza era l'opposto speculare della mia, fossi io, invece, lo Zuckerman in preda a quei tormenti? Qual è il vero senso di quel dramma? Quale morale trarne? Potrebbe essere presa sottogamba da chicchessia? Se è vero che quei farmaci menomano buona parte degli uomini costretti a prenderli per vivere, allora dev'esserci proprio una bizzarra epidemìa di impotenza, in questo paese, le cui implicazioni sull'individuo nessuno prende in esame, né sulla stampa, né ai caffè, e men che meno nei romanzi...
In soggiorno qualcuno gli stava dicendo: "Sa, io tentai di conquistare suo fratello alla crionica.. Non che questo possa essere di qualche consolazione, ormia.
"Alla crionica? Davvero?"
"Non sapevo neppure, allora, che fosse malato. Sono Barry Shuskin. Sto cercando di far proseliti e mettere su un centro di crionica, qui nel New Jersey. Quando mi presentai a Henry, lui sbottò a ridere. Era un'idea troppo strampalata per un razionalista come lui. Nei suoi panni, io sarei stato di tutt'altro avviso. A trentanove anni non poter più scopare... questo sì che è strampalato!"
Shuskin era un cinquantenne giovanile: molto alto, calvo, col pizzetto nero e una dizione scandita, un uomo vigoroso che ha molte cose da dire, che Zuckerman lì per lì aveva scambiato per un avvocato, un esperto in liti, o magari un funzionario esecutivo di gran polso. Risultò essere invece un collega di Henry, un dentista che aveva lo studio nello stesso edificio, la cui specializzazione era impiantare denti, ancorare denti su misura alla mascella anziché applicare ponti o dentiere. Quando il lavoro relativo agli impianti era troppo complicato, o gli richiedeva troppo tempo, intralciando il suo normale lavoro di dentista generico, Henry lo passava a Shuskin, il quale era anche specializzato nel ricostruire la bocca alle vittime di incidenti o ai malati di cancro. "Lei s'intende di crionica?" domandò Shuskin, dopo essersi qualificato collega di Henry. "Dovrebbe. Dovrebbe iscriversi. C'è uno schedario. Gli iscritti ricevono opuscoli, riviste, libri, ogni sorta di documentazione. Adesso hanno inventato la maniera di congelare senza danneggiare le cellule. In questo modo viene sospesa l'animazione. Non muori, vieni messo
nella stiva, per un paio di secoli, se tutto va bene. Cioè fino a quando la scienza non avrà inventato la maniera di scongelare gli organismi crionati. E' possibile venir congelati, sospesi da ogni funzione e poi resuscitati. Le parti guaste vengono riparate o sostituite... Ed eccoti come nuovo, se non ancora meglio. Metti che sai di stare per morire, hai il cancro, il cancro sta per intaccarti gli organi vitali, ebbene, ti si offre una scelta. Ti metti in contatto con gli esperti in crionica, dici loro che vuoi essere risvegliato nel 22esimo secolo: datemi--gli dici--un'iperdose di morfina, al contempo drenatemi, profusatemi, e sospendetemi. Non sei morto. Neanche vivo: sei passato dalla vita al dopo-morte senza stadi intermedi. Il sangue, drenato, viene sostituito da una soluzione crionica, la quale impedisce che la cristallizzazione danneggi le cellule. Loro infilano il corpo surgelato in una sacca di plastica, la sacca l'inseriscono in un contenitore di acciaio inossidabile, che riempiono di azoto liquido. -130 °C. Il congelamento viene cinquantamila dollari, poi tu istituisci un fondo fiduciario per pagare la manutenzione. Costa niente, mille dollari l'anno, millecinquecento. Il guaio è che centri crionici ci sono solo in California e Florida... là dove la rapidità è tutto. Ecco perché io vado esplorando la possibilità di creare un'organizzazione non avente scopo di lucro, qui nel New Jersey, e fondare un centro di crionica per quelli che come me non vogliono morire. Nessuno ci farebbe soldi, tranne alcuni stipendiati aventi mansioni tecniche e di gestione del centro, ma non incarichi dirigenziali. Tanti mi direbbero: Cavolo, Barry, ci sto... Mettiamo su st'impresa e guadagnamo un sacco di soldi, e chi ci crede vada a farsi friggere." Ma io no, io non voglio smerdarmi con 'sto tipo di merda. Il mio intento è quello di mettere insieme un gruppo, dei soci, uomini che intendono preservarsi per un lontano futuro, gente che non ha la fissa del guadagno, il profitto come principio. Una cinquantina di soci. Magari si potrebbe arrivare a cinquemila. Ci sono tipi in gamba, molto energici, che si godono la vita e hanno molto potere e molta esperienza, i quali ritengono che è una cazzata andare sotto terra, o in fumo, perché dunque non farsi congelare?"
 45
In quella una donna prese Nathan per mano, una donnetta anziana, minuta, dagli occhi azzurri molto belli, gran petto, il viso pieno, tondo, allegro. "Sono la zia di Carol, la sorella di Bill Goff, da Albany. Ti faccio le mie condoglianze " Lasciando capire che si rendeva conto delle sue incombenze sentimentali, in quanto fratello del defunto, Shuskin si limitò nel tirarsi in disparte, a dire sottovoce a Zuckerman. "Mi lasci il suo indirizzo, prima di andar via."
"Dopo, dopo," disse Zuckerman. E Shuskin, che si godeva la vita, aveva un bel po' di energia e di esperienza e nessuna intenzione di farsi sotterrare o cremare--ché preferiva esser messo in frigo come una cotoletta d'abbacchio fino al 22esimo secolo, allorché destarsi, scongelato, e seguitare a essere se stesso per un altro miliardo di anni--lasciò Zuckerman alle condoglianze della zia di Carol, che ancora gli teneva stretta una mano. Shuskin l'eterno. E' questo il futuro, quando il frigo avrà rimpiazzato la fossa?
"E' una gran perdita," disse la donnetta a Zuckerman, "e si stenta a capacitarsene."
"Lo è, lo è."
"Molti sono rimasti di stucco a sentirla parlare così, sai."
"Alludi a Carol? Sul serio?"
"Capirai, pronunciare un discorso del genere al funerale di tuo marito! Io appartengo alla generazione di quelli che di certe cose non ne parlavano neanche in privato. Non tutti sentono la necessità di essere tanto espliciti e aperti su una faccenda così intima. Carol però è sempre stata una ragazza sorprendente e non mi ha affatto deluso, quest'oggi. La verità per lei è
sempre stata la verità, e nulla ha da nascondere."
"Io ho trovato bello quello che ha detto."
"S'intende. Tu sei un uomo istruito. Conosci la vita. Fammi un favore," bisbigliò. "Quando hai un minuto, dillo--questo
--al padre."
"Perché?"
"Perché se continua così si farà venire un altro infarto " Si trattenne ancora un'ora, fin quasi alle cinque, non tanto per tranquillizzare il signor Goff, la cui confusione era compito di Carol, quanto nella vaga speranza che Wendy si presentasse. Una brava ragazza, pensò: non vuole imporsi alla moglie e ai figli, anche se ignari della parte da lei svolta in questa vicenda. Aveva pensato a tutta prima che Wendy avesse una gran voglia di parlargli, essendo lui l'unica altra persona che sapeva perché le cose erano andate così e quel che lei doveva soffrire, ma forse era proprio perché Henry aveva raccontato ogni cosa a Nathan che Wendy si teneva alla larga: non sapeva se sarebbe stata redarguita da lui, o controinterrogata per motivi letterari, o magari perfidamente sedotta da quel fratello morboso, alla Riccardo terzo. Col passare dei minuti, si rendeva conto che se aspettava Wendy non era solo per vedere come lei si sarebbe comportata con Carol, né per rendersi conto de visu di qualche cosa nel suo aspetto che la foto non aveva rivelato, no: era un po' come aspettare che compaia una diva del cinema, o come vedere il papa di sfuggita.
Shuskin lo intercettò proprio quando andava per prendere il cappotto in camera (adesso) della vedova. Salirono insieme le scale e Zuckerman pensò: Strano, Henry non mi aveva mai accennato a questo suo visionario collega, questo specialista in impianti, strano che, nello stato in cui si trovava, non fosse neppure stato tentato dalla proposta. Ma probabilmente non era stato neppure a sentire. Il sogno di Henry non era quello di vivere, una volta scongelato, nel secondo millennio. Persino una vita a Basilea con Maria era roba da fantascienza, per lui. No, lui aveva chiesto, in confronto, molto meno: chiedeva di stare tranquillo e contento, vita natural durante, con Carol, Wendy e i figli. O quello, o tornare a essere il ragazzo undicenne nel villino di Jersey Shore con la canna vicino alla porta per lavarsi la sabbia dai piedi. Se Shuskin gli avesse detto che la scienza stava lavorando per un ritorno all'estate del 1948, lui si sarebbe magari iscritto.
"C'è un gruppo, a Los Angeles," gli stava dicendo Shuskin.
"Le manderò il loro bollettino. C'è gente molto in gamba. Filosofi. 
Scienziati. Ingegneri. Molti scrittori, anche. Però badi bene: poiché là da loro, in California, si ritiene che il corpo non abbia tanta importanza e che l'identità stia tutta nel cervello, cosa fanno? Ti tagliano la testa. Sanno che, per allora, avranno trovato la maniera di riattaccare le teste ai corpi, riallacciare le arterie, la spina dorsale e così via. Avranno risolto, per allora, i problemi di rigetto, immunologici, oppure saranno in grado di clonare nuovi corpi. Tutto è possibile. Quindi, surgelano solo le teste. Viene a costar meno che congelare e conservare l'intero corpo. Si fa più in fretta. Si riducono le spese di immagazzinaggio. 
Lo trovano seducente, questo, nei circoli intellettuali. Forse sedurrà anche lei, se mai si venisse a trovare nei panni di Henry. Io, per me, non ci tengo. Voglio che mi congelino tutto intero. Perché? Ma perché io, personalmente, credo che l'esperienza individuale sia legata ai ricordi di ogni singola cellula del corpo. Non si può separare la mente dal corpo. Corpo e mente son tutt'uno. Il corpo è la mente."
Non si discute su questo--pensò Zuckerman--non oggi, non qui. E dopo aver localizzato il suo cappotto sul grande letto matrimoniale che Henry aveva barattato con una bara scrisse il proprio indirizzo su un foglietto. "Semmai mi trovassi nei panni di Henry," disse, porgendolo a Shuskin.
"Ho detto 'se'? Mi scusi la finezza. Volevo dire 'quando'". Sebbene Henry fosse un po' più pesante, più muscoloso del fratello maggiore, avevano entrambi grosso modo la stessa taglia, la stessa corporatura, e questo forse spiega perché Carol lo tenne tanto a lungo stretto a sé quando scese da basso per prendere congedo. Fu per entrambi un momento di tale intensità emotiva che quasi quasi Nathan s'aspettava che la cognata gli dicesse: "So tutto di lei, Nathan. L'ho sempre saputo. Ma Henry sarebbe impazzito se glielo avessi detto. Anni fa, scoprii la sua storia con una paziente. Non riuscivo a crederci. I bambini erano piccoli, piccolissimi, e a me importava terribilmente, allora. Quando gli dissi che sapevo, lui perse la tramontana. Gli venne una crisi isterica. Pianse per giorni e giorni. Ogni sera, tornando dallo studio, mi implorava piangendo di perdonarlo, mi scongiurava in ginocchio di non cacciarlo via di casa, dava a se stesso i peggiori epiteti e ripeteva: Non mandarmi via! Non volevo certo rivederlo in quello stato un'altra volta. Ho sempre saputo di loro, di tutte, ma l'ho lasciato in pace, che facesse pure i suoi comodi, fuori di casa, purché in casa fosse sempre un bravo papà per i figli e un bravo marito per me." Ma fra le braccia di Zuckerman, stretta al suo petto, tutto quello che disse, con voce incrinata, fu: "Mi è stata di enorme aiuto la tua presenza qui."
Perciò lui non aveva motivo di rispondere: "Ecco quindi perché ti sei inventata quella storia," ma disse né più né meno quel che andava detto: "E' stato di aiuto per me essere fra voi tutti."
Al che Carol non rispose: "S'intende che è per questo che ho detto quel che ho detto. Quelle troie là a piangere come viti tagliate... a piangere per il loro uomo. Al diavolo!" ma disse invece: "Ha voluto dir molto, per i figlioli, averti qui. Avevano bisogno di te oggi. Sei stato molto caro con Ruth."
Nathan non domandò: "E hai lasciato che andasse sotto i ferri, pur sapendo per chi ci andava?" Disse: "Ruth è una ragazzina stupenda."
Carol replicò: "Le andrà tutto bene... come a noi tutti," e da brava gli diede un bacio d'addio, anziché dirgli: "Se voleva rischiare la vita per quella scema, quella servile sgualdrinella secca secca, affar suo, non mio," anziché dirgli: "Gli è stato bene, morire così dopo quello che mi ha fatto passare. Giustizia poetica. 
Possa marcire all'inferno, a sconto di tutti quei pompini serali!" O quel che aveva proclamato a tutti dall'altare era quello che realmente pensava, e dunque era una buona, coraggiosa, cieca, leale compagna ingannata da Henry fino all'ultimo, oppure era una donna più interessante di quanto Nathan non avesse mai supposto, un'accorta e persuasiva scrittrice di romanzi domestici, la quale aveva astutamente reinventato un bravo, ordinario, adultero umanista per farne un eroico martire del talamo nuziale.
Non sapeva realmente che pensarne finché, a casa, quella sera stessa, prima di sedersi alla scrivania a rileggere quelle tremila parole scritte sul taccuino la notte avanti--e per annotare le sue impressioni sul funerale--di nuovo tirò fuori il diario di dieci anni addietro e ne sfogliò le pagine finché non ebbe trovato quella che cercava: l'ultima annotazione relativa alla grande passione di Henry. Era sepolta in mezzo ad appunti riguardanti tutt'altre cose; ecco perché la sera prima gli era sfuggita.
Quella pagina recava una data di vari mesi successiva alla telefonata natalizia di Maria da Basilea, quando Henry cominciava a pensare che, se c'era qualcosa che poteva consolarlo in tanta disgrazia, era che perlomeno la tresca non era stata mai scoperta; a quell'epoca la debilitante depressione aveva finalmente cominciato a passare per lasciar posto all'umiliante percezione di ciò che la storia con Maria aveva così dolorosamente messo a nudo: il fatto che egli non era abbastanza rude da dar retta alle proprie voglie e, insieme, non abbastanza fine da trascenderle.
Carol va a prenderlo all'aeroporto di Newark, al suo ritorno da un congresso di odontoiatria a Cleveland. Lui si mette al volante, al parcheggio dell'aeroporto. E' notte e soffia un vento di burrasca, siamo alla fine dell'inverno. Carol, che è scoppiata d'un tratto in lacrime, si slaccia l'impermeabile foderato di alpaca e accende la lucetta. Sotto è nuda, a parte reggiseno, mutandine, reggicalze e calze nere. Lì per lì lui si eccita, ma poi nota l'etichetta del prezzo ancora attaccata al reggicalze e vede, in ciò, tutta la disperazione di quella sorprendente messinscena. Quel che vede non è una miniera di passione in Carol, da lui mai scoperta finora e che potrebbe finalmente cominciare a sfruttare, bensì la pateticità di quelle compere ovviamente fatte, quello stesso giorno, dalla prevedibile, sessualmente tutt'altro che avventurosa moglie, alla quale resterà sposato per il resto dei suoi giorni. La disperazione lo ammosciò, poi
lo fece andare in bestia: mai aveva provato tanta nostalgia per Maria! Come aveva potuto mollare quella donna? "Scopami!" grida Carol, e non in quell'incomprensibile tedesco-svizzero che tanto lo eccitava, bensì in semplice e chiaro inglese: "Fick me! Scopami, sennò muoio! Sono anni che non mi scopi come si scopa una donna!"
GIUDEA
Quando lo rintracciai, al suo giornale, lì per lì Shuki non riconobbe chi fosse al telefono, poi, quand'ebbe capito, si finse stupefatto. "Che ci fa un bravo ragazzo ebreo come te in un posto come questo?"
Ci vengo regolarmente ogni vent'anni per assicurarmi che tutto proceda bene."
"Be', procede tutto egregiamente," replicò Shuki. "Stiamo andando a puttane in sei modi diversi. E' troppo atroce persino per scherzarci su."
Ci si era incontrati diciotto anni addietro, nel 1960, durante la mia unica visita precedente in Israele. Siccome Istituzione superiore, il mio libro d'esordio, aveva suscitato polemiche--guadagnandosi sia un premio ebraico che le ire di molti rabbini-- 
ero stato invitato a Tel Aviv per partecipare a un pubblico dibattito fra scrittori ebrei americani e israeliani sul tema "L'ebreo nella letteratura".
Sebbene di pochi anni più vecchio di me, nel 1960 Shuki aveva già servito dieci anni nell'esercito, fino al grado di colonnello, ed era stato da poco nominato addetto stampa di Ben Gurion. Un giorno mi aveva condotto nell'ufficio del primo ministro per stringere la mano al "Gran Vecchio", avvenimento che, per quanto eccezionale, risultò meno istruttivo dell'incontro con il padre di Shuki, a pranzo, quel giorno stesso alla mensa della Knesset. "Potrai imparare qualcosa dall'incontro con un comune operaio israeliano," mi disse Shuki, "e, quanto a mio padre, gli piace venir qui a mangiare con i pezzi grossi." Beninteso, il motivo per cui gli piaceva pranzare alla Knesset era che suo figlio lavorava lì, adesso, per il suo idolo politico.
Il signor Elchanan, sui sessantacinque anni, era ancora impiegato come saldatore ad Haifa. Era emigrato in Palestina da
Odessa nel 1920, allorché la rivoluzione sovietica si andava rivelando 
più ostile agli ebrei di quanto i suoi fautori ebrei russi non avessero previsto. "Quando arrivai qui," mi disse, nel buon inglese dal pesante accento che aveva appreso sotto gli inglesi, quando la Palestina era un loro mandato, "ero già troppo vecchio per il movimento sionista: avevo venticinque anni." Non era forte, ma lo erano le sue mani: erano il centro, in lui, la cosa veramente eccezionale nel suo aspetto. Aveva miti occhi castani, gentili, ma per il resto i suoi tratti erano vaghi, ordinari, in un viso perfettamente rotondo. Non era alto come Shuki, anzi piuttosto basso, il suo mento non sporgeva eroicamente anzi era sfuggente, ed era un po' incurvato da una vita di lavoro in fabbrica. I capelli erano grigiastri. Non l'avresti neppure notato, a sedergli dirimpetto in autobus. Quant'era intelligente, quel modesto saldatore? Abbastanza, risposi a me stesso, da allevare ottimi figli--il fratello minore di Shuki era architetto a Tel
Aviv--e, s'intende, abbastanza intelligente per capire, nel 1920, che gli conveniva lasciare la Russia se desiderava restare socialista ed ebreo. In conversazione, sfoggiò la sua parte di energico umorismo e persino una sorta di giocosa fantasia poetica nel fornirmi dei ragguagli preliminari. Per me, non riuscivo a vedere in lui nient'altro che un "comune" operaio, ma d'altronde non ero suo figlio, io. Anzi, non era per nulla difficile pensare a lui come alla controparte israeliana di mio padre che a quell'epoca faceva ancora il pedicure nel New Jersey. Nonostante
la diversità di status professionale, sarebbero andati molto d'accordo, pensai. Forse era per questo che andavamo d'accordo così bene Shuki e io.
Stavamo cominciando la minestra, quando il signor Elchanan 
mi disse: "Sicché intendi restare."
"Io? E chi l'ha detto?"
"Cioè, non torni al tuo paese, vero?"
Shuki badava a rimestare minestra: era ovviamente una domanda che non lo stupiva.
Pensai lì per lì che scherzasse. "In America?" dissi sorridendo.
"Ci torno la settimana prossima."
"Non dire stupidaggini. Resterai qui." Depose il cucchiaio, si alzò e si portò sul mio lato del tavolo. Con una di quelle sue straordinarie mani mi sollevò per un braccio e mi guidò a una finestra della sala da pranzo da cui si scorgevano le mura della città vecchia di Gerusalemme. "Vedi quell'albero?" disse. "Quello è un albero ebreo. Vedi quell'uccello? E' un uccello ebreo.
Vedi, lassù? Una nuvola ebrea. Un ebreo non ha altro paese che questo." Dopodiché mi ricondusse al tavolo e potei riprendere a mangiare.
Shuki disse a suo padre, quando questi fu di nuovo seduto: "Credo che l'esperienza di Nathan gli faccia vedere le cose in modo diverso."
"Quale esperienza?" La voce era brusca, come non era stata con me. "Ha bisogno di noi, lui," e mi indicò, "ancor più che noi di lui."
"Ah, così," disse Shuki sottovoce, e seguitò a mangiare.
Per appassionato che fossi a ventisette anni, per quanto ostinatamente, doverosamente sincero fossi allora, non avevo alcuna voglia di dire al benintenzionato padre del mio amico che si sbagliava di grosso e quindi, per tutta risposta, mi limitai a stringermi nelle spalle.
"Vive in un museo!" disse Elchanan, con rabbia. Shuki annuì appena - anche questo doveva averlo già sentito--quindi suo padre si rivolse a me direttamente. "Vivi in un museo. Noi viviamo in un teatro ebreo, tu in un museo ebraico." "Raccontagli, Nathan, del tuo museo," mi disse Shuki. "Non aver paura. Con me discute fin da quando avevo cinque anni.
Sa incassare."
Quindi diedi retta a Shuki e, per il resto del pranzo, gli raccontai com'era il mio stile a venti-trent'anni--con i padri in specie--tutto, dilungandomi con estrema passione. Neppure io improvvisavo: erano deduzioni che avevo tratto per mio conto in quei giorni, il risultato di tre settimane di viaggi in una patria ebraica che non avrebbe potuto sembrarmi più remota. Per essere l'ebreo che ero, dissi al padre di Shuki, e cioè più o meno l'ebreo che volevo essere, non avevo bisogno di vivere in un paese ebraico, come lui non si sentiva obbligato--a quanto mi constava--a recarsi alla sinagoga a pregare tre volte al giorno. Il mio ambiente non era il deserto del Negev, né le colline della Galilea, né la piana costiera dell'antica Filiste; era bensì l'America industriale, l'America degli immigrati: Newark dov'ero cresciuto, Chicago dove avevo compiuto gli studi, e New York dove abitavo in un seminterrato del Lower East Side, fra poveri ucraini e portoricani. Il mio sacro testo non era la Bibbia, bensì romanzi tradotti dal russo, dal tedesco e dal francese nella lingua in cui cominciavo a scrivere e pubblicare opere di narrativa: non era la vasta gamma semantica dell'ebraico classico a eccitarmi, bensì il ritmo nervoso dell'inglese-americano. Non ero un ebreo superstite d'un campo nazista di sterminio alla ricerca di un rifugio sicuro e accogliente, né un ebreo socialista per il quale la fonte primaria dell'ingiustizia è la malvagità del capitale, né un nazionalista per il quale la coesione è una necessità politica ebraica, né un ebreo credente, un dotto ebreo, o un ebreo xenofobo che non sopporta la vicinanza dei goyim, dei non-ebrei. Ero bensì il nipote nato in America di un semplice mercante galiziano che, alla fine del secolo scorso, era per suo conto arrivato alla stessa profetica conclusione di Theodor Herzl:
che non c'era per lui e i suoi un futuro nell'Europa cristiana, che essi non potevano seguitare a essere se stessi colà senza incitare alla violenza sinistre forze contro le quali non avevano alcun mezzo di difesa. Ma, anziché battersi per salvare il popolo ebraico dalla distruzione fondando una patria in un remoto lembo dell'impero ottomano che era stato, un tempo, la Palestina biblica, loro avevano semplicemente provveduto a salvare la propria ebraica pelle. Nella misura in cui sionismo significa assumere in prima persona, anziché demandare ad altri, la responsabilità della propria sopravvivenza come ebrei, questa era la loro marca di sionismo. E aveva funzionato. A differenza di loro, io non ero cresciuto in uno snervante ambiente cattolico e contadino in cui l'odio contro gli ebrei poteva venir fomentato dal parroco del villaggio o dal locale latifondista; inoltre, e soprattutto, la pretesa dei miei nonni a un legittimo loro statuto politico non aveva dovuto venir avanzata nel bel mezzo di una estranea popolazione indigena che non sentiva alcun impegno a rispettare i biblici diritti degli ebrei né alcuna simpatia per ciò che un dio ebreo aveva detto in un libro ebraico in merito a ciò che costituisce in perpetuo il territorio ebraico. Sulla distanza, potevo persino sentirmi assai più sicuro io, come ebreo, nel mio paese che non il signor Elchanan, Shuki e i loro discendenti nel proprio.
Insistetti a dire che l'America non si riduce a ebrei e nonebrei, semplicemente, e che il maggior problema dell'ebreo americano non è l'antisemitismo. D'altro canto, dire che in realtà per gli ebrei il problema sono sempre i goyim può avere il timbro della verità: "Come si può respingere una tale asserzione, nel nostro secolo? E se domani l'America dovesse diventare un paese intollerante, superficiale, indecente, brutale, e voltare le spalle a tutti i valori americani, ebbene, essa avrebbe non solo il timbro della verità: diverrebbe verità." Ma--seguitai--sta di fatto che non si conosce alcuna società, nella storia, che abbia mai raggiunto quello stesso livello di tolleranza che l'America ha istituzionalizzato, o che abbia posto il pluralismo proprio al centro del sogno di se stessa, pubblicamente reclamizzato. Potevo solo sperare che la soluzione proposta da Yakov Elchanan per la sopravvivenza e l'indipendenza degli ebrei avesse altrettanto successo di quel "sionismo familiare", impolitico e privo di ideologia messo in atto dai miei nonni emigranti quando si recarono, alla fine del secolo, in America, un paese che non poneva in primo piano il concetto di esclusione.
"Sebbene non lo confessi a New York," dissi, "sono alquanto idealista riguardo all'America, forse allo stesso modo in cui Shuki è idealista riguardo a Israele."
Non so se il sorriso che vidi fosse segno che avevo fatto impressione su di lui. Dovrei averlo colpito, pensai: certo non ode discorsi simili dagli altri saldatori. In seguito, mi rammaricai persino di aver parlato troppo, temendo di aver demolito interamente le semplificazioni del vecchio sionista.
Ma lui seguitava a sorridere, anche quando si alzò in piedi, girò intorno al tavolino e di nuovo mi sollevò per un braccio e mi condusse a rimirare dalla finestra i suoi alberi ebrei e le strade, gli uccelli e le nuvole ebraiche. "Tante belle parole," mi disse alla fine, con un'ombra di ironia più chiaramente ebraica, per me, delle nuvole, "tante belle spiegazioni. Tanti pensieri profondi, Nathan. Mai, in vita mia, avevo visto un motivo migliore di te per non andarcene mai via da Gerusalemme. " Quelle furono le ultime parole poiché, prima ancora che avessi finito il dessert, Shuki mi condusse in fretta e furia su di sopra per il breve incontro, in programma per me, con un altro ometto tarchiato, in camicia a mezze maniche, che di persona mi parve ingannevolmente incoerente, come se il modellino di un carrarmato che notai fra le scartoffie e le foto di famiglia sulla sua scrivania non fosse altro che un giocattolo da lui fabbricato per un nipotino nella sua piccola officina.
Shuki disse al primo ministro che avevamo appena finito di pranzare con suo padre.
Ciò divertì Ben Gurion. "Dunque lei resta," mi disse. "Bene. 
Le faremo posto."
Un fotografo era già là, pronto a scattare una foto del padre fondatore di Israele insieme a Nathan Zuckerman. Io rido, in quella foto, perché Ben Gurion mi ha appena sussurrato: "Ricordi, 
non è per lei, questa, ma per i suoi genitori, per dar loro motivo di essere fieri di lei!"
Non si sbagliava: mio padre non avrebbe potuto essere più felice se si fosse trattato di una foto di me in divisa da scout che aiuto Mosè a discendere dal Sinai. Non era soltanto una gran bella foto, per mio padre, ma anche un'arma da usarsi però in primo luogo per dimostrare a se stesso che quello che i rabbini dicevano dal pulpito ai fedeli sul conto del mio odio verso me stesso ebreo non poteva assolutamente essere vero. In cornice, quella foto stette in mostra, finché i miei genitori vissero, sopra il televisore, in soggiorno, insieme a quella di mio fratello che riceve la laurea da dentista. Queste, per mio padre, erano le nostre maggiori imprese. E le sue.
Fatta la doccia e mangiato un boccone, mi recai dall'albergo al luogo fissato per l'appuntamento con Shuki: una panchina sul lungomare. Gli alberi di Natale erano già in mostra sul marciapiede davanti al negozio del nostro droghiere a Londra e, qualche sera prima, Maria e io avevamo condotto la sua figlioletta, Phoebe, a vedere le luminarie in Oxford Street; invece a Tel Aviv era una giornata di cielo sereno, luminosa, senza vento, e sulla spiaggia sottostante carne femminile si stava abbrustolendo al sole e alcuni bagnanti saltellavano fra le onde. Ricordai quello che Maria e io, in macchina con Phoebe, ci eravamo detti del mio primo Natale inglese e delle imminenti feste. "Non sono uno di quegli ebrei per i quali il Natale è una prova atroce," le avevo detto, "ma ti confesso che io non partecipo tanto alla festa quanto l'osservo, antropologicamente, da lontano." "Per me va benissimo," aveva replicato lei; "basta che spicchi cospicui assegni. E' tutta la partecipazione che a me occorre. Mentre sedevo lì, con la giacca sulle ginocchia e le maniche della camicia rimboccate, a guardare dei vecchietti che sulle 
panchine accanto leggevano il giornale, leccavano un gelato o semplicemente, 
a occhi chiusi, si lasciavano scaldare le ossa, ripensai a quando andavo in Florida, a trovare i miei, che si erano ritirati là: mio padre aveva ceduto il suo studio di pedicure e adesso dedicava interamente il suo tempo al quotidiano Times e al mezzobusto Walter Cronkite. Non c'erano, nei cantieri navali di Haifa, patrioti israeliani più ardenti di quelli che si riunivano intorno alla piscina di quel condominio di Miami, dopo
il trionfo della guerra dei Sei giorni. "Adesso," diceva mio padre, "ci penseranno su due volte prima di tirarci la barba!" Israele militante e trionfante era, per quegli anziani ebrei in pensione, il vendicatore di secoli e secoli di umiliante oppressione; lo stato fondato dagli ebrei all'indomani dell'Olocausto era divenuto per loro la tardiva risposta all'Olocausto stesso, non solo l'incarnazione dell'intrepida forza ebraica ma anche lo strumento della giusta collera e della fulminea rappresaglia. Fosse dipeso dal dottor Victor Zuckerman anziché dal generale Moshe Dayan --ministro della difesa d'Israele nel maggio 1967--fosse dipeso da alcuno dei simpatizzanti di mio padre a Miami anziché da Dayan, i carrarmati con la stella di David avrebbero seguitato a sferragliare, dopo l'armistizio, fino al Cairo, ad Amman e a Damasco, dopodiché gli arabi si sarebbero arresi senza condizioni come i tedeschi nel 1945, come fossero loro i tedeschi del 1945.
Tre anni dopo il '67 mio padre morì e così si è perso Menachem Begin. Peccato, ché neppure la fortezza di Ben Gurion, l'orgoglio di Golda Meir e il valore di Dayan, messi insieme, avrebbero potuto fornirgli quel profondo senso di rivalsa personale che tanti della sua generazione hanno trovato in un primo ministro d'Israele che, all'aspetto, potevi benissimo scambiare per un negoziante di tessuti. Persino l'inglese di Begin è giusto, somiglia più alla parlata dei loro genitori immigrati che non quello, che so, di Abba Eban, astuto portavoce degli ebrei presso i gentili. Alla fine, chi meglio dell'ebreo messo in caricatura da generazioni dopo generazioni di nemici spietati, l'ebreo ridicolizzato e disprezzato per il suo buffo accento e il suo brutto aspetto e le sue maniere aliene, può far capire a tutti chiaramente che quel che conta, adesso, non è quello che pensano i goyim bensì quello che fanno gli ebrei? L'unica persona che avrebbe potuto mandare ancor più in estasi mio padre, emanando un proclama per dire che la passività degli ebrei di fronte alla violenza era ormai una cosa del passato, sarebbe stato, come comandante supremo delle forze armate di Israele, un piccolo merciaio ambulante dalla lunga barba.
Fino al suo viaggio in Israele, otto mesi dopo l'operazione chirurgica di by-pass, mio fratello Henry non aveva mai mostrato alcun interesse per l'esistenza di questo paese né per il significato che potesse rivestire per lui una patria ebraica; e neanche quella visita era dovuta a un risveglio di coscienza ebraica né alla curiosità per le vestigia archeologiche della storia ebraica; era, semplicemente, una misura terapeutica. Sebbene si fosse ormai completamente ripreso, dopo l'intervento, a casa era ancora soggetto a fitte di terribile disperazione, e molte sere, lasciata a metà la cena coi familiari, si trascinava nello studio per buttarsi a dormire sul divano.
Il medico aveva preavvertito sia lui che la moglie in merito a codeste depressioni e Carol aveva preparato i figli. Persino uomini abbastanza giovani e sani, come Henry, da potersi rapidamente riprendere fisicamente dopo un'operazione di by-pass, soffrono spesso di ripercussioni emotive che a volte durano anche un anno. Nel suo caso fu chiaro fin dall'inizio che non sarebbe sfuggito ai peggiori postumi. Due volte, durante la settimana successiva all'intervento, lo si era dovuto trasferire al reparto rianimazione a causa di dolori al torace e aritmia, e quando, diciannove giorni dopo, era stato dimesso, era calato d'una decina di chili e aveva sì e no la forza di radersi in piedi davanti allo specchio. Non gli andava né di leggere né di guardare la televisione, non mangiava praticamente nulla e quando Ruth, la figlia
prediletta, al ritorno da scuola voleva suonargli il violino, lui la cacciava via. Si rifiutava persino di iniziare il corso di riabilitazione in una clinica specializzata, ma passava il tempo steso su una sdraio, in giardino, a guardare le piante di Carol e a piangere. Le lacrime, assicurava a tutti il medico, sono un fenomeno alquanto consueto, dopo una grave operazione chirurgica, ma a Henry le lacrime non passavano e dopo un po' nessuno sapeva più per che cosa piangesse. Se quando glielo chiedevano si dava la briga di rispondere, diceva semplicemente: "Mi guarda fisso in faccia." E Carol: "Chi? Dimmelo, tesoro, parliamone. Chi, che cosa, ti guarda fisso in faccia?" E lui, rabbioso: "E' la frase 'mi guarda fisso in faccia" a guardarmi fisso in faccia!" A tavola una sera, quando Carol, che cercava di mostrarsi allegra e balda, gli suggerì, ora che stava di nuovo fisicamente bene, di prender parte alla "rimpatriata" che Barry
Shuskin stava organizzando, le rispose che sapeva benissimo che lui non poteva sopportare Shuskin e si andò a rinchiudere in studio. Fu allora che Carol mi telefonò. Sebbene fosse nel giusto a ritenere che il nostro screzio si fosse pressoché sanato, pensava, erroneamente, che la riconciliazione fosse avvenuta in seguito alle visite che gli avevo fatto in ospedale, allorché andava e veniva dal reparto di rianimazione; non sapeva infatti che Henry mi era venuto a trovare a New York prima dell'operazione, quando non aveva nessun altro cui osasse confidare ciò che, in realtà, gli rendeva insopportabile la cura mediante farmaci.
Andai da lui in studio all'indomani della telefonata di sua moglie.
"Il sole, il mare, gli scogli... te la meriti, una vacanza," gli dissi, "dopo tutto quello che hai passato. Divagati, e lascia che lo svago porti via tutti i detriti."
"Sì, ma poi?"
"Poi torni. E cominci una nuova vita."
"Che cosa avrà di nuovo?"
"Passerà, Henry, questa tua depressione passerà. Più prima che poi, se ti tiri un po' su."
La sua voce sembrava incorporea quando mi disse: "Non ho il coraggio di cambiare."
Mi chiesi se alludesse alle donne. "Che razza di cambiamenti hai in mente?"
"Quello che mi guarda fisso in faccia."
"E cioè?"
"Che ne so! Non solo non ho il coraggio di affrontarlo, ma sono anche troppo stupido per saper di che si tratta." "Hai avuto il coraggio di andare sotto i ferri. Il coraggio di dire no al farmaco e affrontare il rischio dell'operazione." "E a che m'è giovato?"
"Adesso non prendi più farmaci, mi risulta, e sei sessualmente di nuovo te stesso."
"E con ciò?"
Quella sera, mentre lui stava a covare nello studio, Carol mi telefonò per dirmi che aver parlato con me gli aveva molto giovato e pregarmi di restare in contatto con lui. Sebbene il colloquio non mi fosse parso tanto utile, nondimeno gli telefonai di nuovo qualche giorno dopo, dopodiché, in effetti, lo vidi spesso nelle settimane seguenti, gli parlai come non avveniva dai tempi dell'università, ma ogni colloquio era, al pari dei precedenti, un giro vizioso, finché alla fine cedette, riguardo alla vacanza e, insieme a Shuskin e altri due amici, partì, con maschera e pinne. Secondo Carol, era stata la mia sollecitudine a fargli cambiare avviso, ma per me aveva semplicemente ceduto, così come si arrendeva a nostro padre, dopo una discussione per telefono, quand'era studente alla Cornell.
Una tappa, lungo il loro itinerario, era Eilat, città costiera all'estremità meridionale del Negev. Dopo tre giorni di immersioni nelle grotte di corallo, i suoi compagni partirono per Creta; Henry invece rimase in Israele, un po'--ma solo in parte
--anche a causa degli insopportabili, egomaniaci monologhi di Shuskin. Durante una gita a Gerusalemme si era allontanato dai compagni ed era tornato da solo nel quartiere di Mea She'arim, dove erano già stati in mattinata con la guida. Fu là, da solo, davanti a una finestra d'una scuola religiosa, che ebbe l'esperienza che mutò tutto quanto.
"Stavo seduto al sole presso quella vecchia cheder. L'aula era piena di bambini: ragazzini di otto, nove, dieci anni con zucchetto e payess, che recitavano in coro a gran voce la lezione. Quando li udii, provai un nonsoché dentro di me, un empito, e mi resi conto che alla radice della mia vita, proprio alla radice, io ero loro. Ero sempre stato loro. Bambini che salmodiavano a tutto spiano in ebraico: non riuscivo a capire una sola parola non riconoscevo un singolo suono, e tuttavia ascoltavo come se avessi trovato qualcosa che neppure sapevo di stare cercando. Restai tutta la settimana a Gerusalemme. Ogni mattina verso le undici mi recavo a quella cheder e mi sedevo sul davanzale di quella finestra e stavo ad ascoltare. Devi sapere che il luogo è tutt'altro che pittoresco. Anzi, è un quartiere orrendo. Ammassi di detriti fra le case, apparecchi fuori uso accatastati negli androni, nei cortili: il tutto abbastanza pulito, ma logoro squallido, arrugginito, tutto che casca a pezzi dovunque posi lo sguardo. E non un colore, non un fiore, non una foglia, non un filo d erba o una mano di pittura fresca, nulla di vivace o attraente, da nessuna parte, nulla che tenti di piacerti in alcun modo. Ogni cosa superficiale era stata sgombrata, bruciata, non importava, era banale. Nei cortili, biancheria appesa, rozzi, brutti capi di biancheria intima, niente che avesse a che fare col sesso, mutandoni di cent'anni fa. E le donne, le donne maritate: fazzoletti avvolti intorno alla testa capelli rasi a zero, e, per quanto giovani, assolutamente non avvenenti. Guardai, cercavo una donna almeno piacevole, ma non ne trovai alcuna. E anche i bambini: sgraziati, goffi, sciupati, pallidi, ragazzetti incolori, scialbi. I vecchi, in gran parte, mi sembravano nani, omini in lunghi pastrani neri con il naso che pareva copiato da una barzelletta antisemita. Non saprei come altrimenti descriverli. Solo che più squallida e brutta ogni cosa mi appariva, più mi prendeva: e più chiaro tutto diventava. Gironzolai per quei posti tutto un venerdì, a guardarli prepararsi per il sabato. Guardavo gli uomini recarsi al bagno pubblico con gli asciugatoi sottobraccio, e a me quegli asciugatoi sembravano altrettanti scialli da preghiera. Guardavo quegli esangui ragazzini affrettarsi a rincasare, uscire dal bagno pubblico strizzandosi i riccioli bagnati e poi correre a casa per il sabato. Dirimpetto a una bottega di barbiere stetti a guardare quegli ebrei ortodossi, in cappello e pastrano nero, andare a farsi tagliare i capelli. Il negozio era gremito, i capelli si ammucchiavano sotto i piedi della gente, nessuno si dava la briga di spazzarli via, e io non riuscivo a muovermi. Era soltanto un barbiere e io non riuscivo a staccarmi di là. Comprai una challah in una panetteria sotto il livello della strada, quasi una grotta, mi infilai fra la ressa e comprai una challah, che portai con me tutto il giorno in un sacchetto. Tornato in albergo, la estrassi dal sacchettino e la misi sul comò. Non la mangiai. La lasciai lì tutta la settimana: la lasciai sopra il comò e la guardavo, quasi fosse una scultura, qualcosa di prezioso che avessi rubato in un museo. Era sempre così, Nathan. Non riuscivo a smettere di guardare, tornavo di continuo nei medesimi posti. E fu allora che cominciai a capire che non ero mai stato alcunché, se non ebreo. Non lo sapevo, non ne avevo idea, per tutta la vita ero andato in senso inverso. Ed ecco che, mentre sedevo fuori della cheder e ascoltavo quei bambini, d'un tratto tutto questo apparteneva a me. Tutto il resto era superficiale, tutto il resto scomparve. Riesci a capire? Può darsi che non mi esprima bene, ma non m'importa dell'effetto che fa a te, o a chiunque altro. Non sono per caso un ebreo, non sono fra l'altro anche ebreo: sono ebreo fino in fondo, come quegli ebrei là. Tutto il resto non è niente. Ed è questo, questo, quello che mi guardava fisso da mesi! Il fatto che è questa la radice della mia vita!" Tutto ciò mi disse per telefono appena tornato, parlando rapidissimo, quasi in modo incomprensibile, come se non riuscisse altrimenti a comunicare quel che era intervenuto a render
importante di nuovo la sua vita, a restituirle la massima importanza, d'un tratto. In capo a una settimana, tuttavia, dato che nessuno fra quelli cui ripeteva la storia sembrava appassionarsi a quella sua identificazione con i bambini della cheder, dal momento che non riusciva a convincere nessuno, seriamente, che più orrendo era l'ambiente circostante, più lui si sentiva purificato, e poiché nessuno sembrava in grado di capacitarsi che è proprio nella perversità di tali conversioni che risiede il loro potere trasformante, il suo eccitato fervore si tramutò in amara delusione ed egli prese a sentirsi ancor più depresso di quando era partito.
Logorata e ormai a sua volta depressa, Carol telefonò al cardiologo per dirgli che la vacanza non aveva fatto effetto e che
Henry stava peggio. Il medico allora le ripeté quello che le aveva detto all'inizio: per alcuni pazienti i postumi emotivi possono essere ancora più gravosi dell'operazione stessa. "Va al lavoro ogni giorno," le rammentò; "nonostante gli episodi irrazionali, è in grado di applicarsi; e questo significa che, prima o poi, tornerà pienamente in forma e sarà di nuovo se stesso." E forse è quanto accadde tre settimane dopo allorché, a metà della giornata, dopo aver detto a Wendy di disdire gli appuntamenti del pomeriggio, si tolse il camice e uscì dallo studio. 
Prese un tassì e si fece portare dal New Jersey fino all'aeroporto di New York e, di là, telefonò a Carol per avvertirla della decisione presa e pregarla di salutare i figlioli. A parte il passaporto, che portava sempre appresso da giorni, spiccò il volo per Israele su un aereo della El Al senza nient'altro che i vestiti che aveva indosso e la carta di credito.
Da quel giorno erano trascorsi cinque mesi e lui non era ancora tornato.
xx
Shuki adesso insegnava storia europea contemporanea all'università e teneva una rubrica settimanale su un giornale di sinistra, ma, in confronto all'epoca in cui lavorava per il governo, vedeva relativamente poche persone, restava quasi sempre per suo conto e si recava all'estero a insegnare più spesso che poteva. Era stanco della politica, mi disse, come di tutti gli antichi divertimenti. "Non sono neanche più un grande peccatore," mi confessò. Aveva preso parte alla guerra del Kippur come ufficiale di complemento e nel Sinai aveva perso l'udito da un orecchio e quasi del tutto la vista da un occhio quando lo spostamento d'aria di una granata egiziana lo aveva scagliato
a cinque metri di distanza. Suo fratello, architetto da civile e ufficiale paracadutista della riserva, era stato preso prigioniero quando le alture di Golan erano state invase dai siriani. Dopo la ritirata del nemico lo trovarono, assieme agli altri del suo plotone, legato a un paletto conficcato in terra: erano stati tutti castrati, decapitati e il pene gli era stato ficcato nella bocca. Sparse intorno, sul campo di battaglia, c'erano collane fatte dei loro orecchi. Un mese dopo aver ricevuto questa notizia, il padre di Shuki era stato stroncato da un infarto.
Shuki mi raccontò tutto questo, senza scomporsi, mentre si destreggiava fra il traffico intenso e cercava un parcheggio, in una stradina laterale, non tanto lontano dai caffè del centro. Finalmente riuscì a incastrare la sua Volkswagen di sbieco, fra due auto, per metà sul marciapiede, davanti a un caseggiato. "Potevamo anche andarci a sedere, come due vecchietti, dirimpetto 
al mare tranquillo; ma l'altra volta, mi ricordo, preferivi sedere in via Dizengoff. Divoravi le ragazze con gli occhi, quasi le avessi scambiate per shiksa!"
"Davvero? Be', non sono mai stato tanto bravo a cogliere la differenza."
"Io, per me, non ci tengo più tanto," disse Shuki. "E le ragazze non sono molto interessate a me, sono talmente grosso, adesso, che neppure mi vedono."
Anni addietro, dopo avermi fatto visitare Giaffa e Tel Aviv, una sera Shuki mi aveva condotto in un rumoroso caffè frequentato dai suoi amici giornalisti, dove eravamo rimasti alcune ore a giocare a scacchi prima di recarci nel quartiere a luci rosse, dove mi ero concesso, a mo' di chicca sociologica, una prostituta rumena, in via Yarkon. Adesso mi condusse in uno spoglio locale incolore con qualche flipper sul retro e nessuno seduto ai tavolini all'aperto, tranne un paio di soldati con le loro ragazze. Quando facemmo per sederci mi disse: "No, mettiti da
questa parte, così ti sento."
Sebbene non fosse diventato l'ippopotamo dell'autocaricatura, somigliava ben poco al bruno, smilzo, malizioso edonista che mi aveva guidato a via Yarkon diciott'anni prima: i capelli che allora gli crescevano folti e bruni e tenaci si erano srariti e ingrigiti, pettinati di traverso al cranio, e siccome la faccia gli si era notevolmente gonfiata, i tratti sembravano più grossolani Ma il cambiamento maggiore era nel sorriso, un sorriso che non aveva nulla a che fare con l'allegria, sebbene chiaramente egli amasse ancora venir rallegrato e sapesse rallegrare. Pensando alla morte del fratello--e al colpo fatale inferto al padre--mi trovai a paragonare quel suo sorriso a una benda sopra una ferita.
"Come va, a New York?" mi domandò.
"Non abito più a New York. Sono sposato a una inglese. Mi sono trasferito a Londra."
"Tu, in Inghilterra? Il ragazzo del New Jersey dalla linguaccia profana che scrive libri che agli ebrei piace tanto detestare... come fai a sopravvivere là? Come lo sopporti, il silenzio? Fui invitato, un paio d'anni fa, a tenere un ciclo di lezioni a Oxford. Ci rimasi sei mesi. A pranzo, qualsiasi cosa dicessi i commensali si limitavano a dire invariabilmente 'Oh, davvero?" "A te non è mai piaciuto chiacchierare del più e del meno." "Dici? No, non mi dà noia. E poi avevo bisogno di una vacanza, via da qui. Ogni problema ebraico che mai vi fu è incapsulato in questo paese. Basta vivere, in Israele, per stancarsi non devi far altro, e vai a letto esausto. Hai mai notato che gli ebrei gridano? Un solo orecchio è più che sufficiente. Qui tutto è o bianco o nero, tutti gridano, e tutti hanno sempre ragione. 
Qui gli estremi sono troppo grandi per un paese così piccolo. Oxford quindi fu un sollievo. 'Mi dica, mister Elchanan, come sta il suo cane? Non ce l'ho, un cane. 'Oh, davvero? I guai cominciarono quando rientrai. I parenti di mia moglie vengono da noi il venerdì sera a discutere di politica, e io non riesco mai a interloquire. In sei mesi, a Oxford, avevo appreso la buona educazione e le regole di un dialogo civile, e questo ti taglia fuori, completamente, da qualsiasi discussione, in "Non è cambiato nulla," dissi. "Si sentono ancora, le migliori barzellette antisemite, in un caffè di via Dizengoff." "E' l'unico motivo che rimane per vivere qui," disse Shuki.
"Dimmi di tua moglie inglese."
Gli raccontai come avevo conosciuto Maria a New York, poco più di un anno prima, quando, insieme al marito con il quale era ormai irreparabilmente in rotta, era venuta ad abitare sopra casa mia. "Hanno divorziato quattro mesi fa e noi ci siamo sposati e trasferiti in Inghilterra. La vita, là, è niente male. Non fosse per Israele, tutto a Londra sarebbe magnifico."
"S'. A Israele va il biasimo anche per il tenore di vita a Londra? Non mi stupisce."
"Ieri sera, a una cena, quando Maria disse dove ero in procinto di recarmi, mi accorsi di non essere il più benvisto dei commensali. Avresti magari pensato--giudicando dalle loro vacanze sui campi da sci della Svizzera, dalle ville che hanno in
Toscana e dalle BMW in garage--che quei bravi, liberali, privilegiati inglesi non vedessero tanto di buon occhio il socialismo rivoluzionario. Macché! Quando si tratta di Israele, sono i detti di Arafat che fanno testo."
"Certo. Così pure a Parigi. Israele è uno di quei posti che conosci molto meglio prima di capitarci."
"Erano tutti amici di Maria, più giovani di me, sulla trentina, gente della tivù, dell'editoria, un paio di giornalisti: tutti brillanti, uomini di successo. Fui messo alla sbarra: quanto a lungo potrà seguitare Israele a importare manodopera a buon mercato dal Nordafrica per fare i lavori più sporchi? E' risaputo, nella Londra bene, che gli ebrei orientali vengono portati in Israele per essere sfruttati come proletariato industriale. Colonialismo imperialista, sfruttamento capitalistico... il tutto dietro la facciata della democrazia israeliana e la finzione dell'unità nazionale ebraica. Questo è stato soltanto l'inizio." "E tu ti sei fatto paladino della nostra malvagità?"
"Non è stato necessario. Ha provveduto Maria."
Shuki si allarmò. "Non avrai sposato un'ebrea, Nathan?" "No, la mia fedina è pulita. Lei trova semplicemente le prese di posizione della sinistra alla moda molto, molto deprimenti. Ma quello che la mandò in bestia fu che la difesa di Israele dovesse ricadere, automaticamente, sulle spalle del nuovo marito. Maria non è il tipo bellicoso, quindi la sua veemenza mi sorprese. Così pure la loro. Le chiesi, tornando a casa, quanto è forte questo odio verso Israele in Inghilterra. La stampa-dice lei--ritiene che sia molto forte, e che è giusto sia così, ma, a suo parere, 'non è affatto vero'."
"Temo che si sbagli," disse Shuki. "Io stesso, in Inghilterra, ho avvertito una certa, diciamo, antipatia per noi: la propensione a pensare sempre, in qualsiasi circostanza, non tanto bene di noi. Fui intervistato, un giorno, dalla BBC. Eravamo in onda da due minuti, alla radio, quando l'intervistatore mi disse: Voi ebrei avete imparato molto da Auschwitz". "Cioè? domando io. 'A comportarvi da nazisti con gli arabi," disse lui." "Ammutolii. Sul continente, digrigno i denti e basta: l'antisemitismo, lì, è così penetrante e incancrenito che risulta decisamente bizantino. Ma nella civile Inghilterra, dove la gente parla così bene, è tanto educata, fui preso alla sprovvista. Non sono noto, qui, come il miglior imbonitore di questo paese, ma se avessi avuto una pistola gli avrei sparato."
A cena, la sera avanti, Maria era parsa disposta a impugnare lei stessa un'arma. Non l'avevo mai vista tanto combattiva, tanto indignata, neppure durante le trattative per il divorzio, allorché il marito pareva deciso a far naufragare il nostro matrimonio prima ancora che venisse celebrato costringendola a firmare un documento legale per garantire che Phoebe avrebbe avuto domicilio a Londra e non a New York. Se Maria avesse rifiutato, lui--minacciò - sarebbe ricorso in tribunale e chiesto che la figlia gli venisse affidata, adducendo l'adulterio di
lei a riprova che sua moglie non era una buona madre. Presumendo che io fossi restio a esiliarmi dall'America fino alla fine
del secolo per far comodo a lui e ai suoi diritti di visita alla figlia, Maria subito si figurò di dover tornare a Londra non sposata, sola con Phoebe, per essere colà oggetto delle sue prepotenze. Nessuno, ma nessuno, se la sentirebbe di mettersi sul piano delle ripicche, con lui. Se sarò sola e lui attaccherà, saranno guai per me." Ugualmente la spaventava il mio risentimento nel caso che, dopo aver accettato le condizioni del marito ed essermi trasferito in Inghilterra, io avessi trovato il distacco dalle mie fonti abituali nocivo al mio lavoro. Viveva nel timore di un altro marito in rotta, d'un tratto, con lei, dopo che aveva compiuto il passo irrevocabile di restare incinta La sgomentava tuttora ricordare la freddezza dell'ex marito verso di lei, dopo la nascita di Phoebe. "In qualsiasi momento fino ad allora," spiegò lei, "potrebbe aver detto, con imparzialità, senti, la nostra unione non funziona, per me. Se avesse detto così io gli avrei detto: d'accordo, non funziona, e, per penoso che sia, così è; quindi ne faremo qualcos'altro, ora, delle nostre vite. Ma perché questo non era riuscito a capirlo chiaramente se non dopo la nascita della bambina? Cioè, io avevo accettato tutte le limitazioni del nostro rapporto, altrimenti non avrei fatto un figlio. Io le accetto, le limitazioni. Me le aspetto. Tutti mi dicono che sono remissiva, sottomessa, solo perché riconosco quant'è ridicolo sbraitare contro quelle delusioni che sono semplicemente inevitabili. C'è una cosa di cui ogni donna ha bisogno, ed è un uomo cui dare la colpa. Io mi rifiuto. Per me, i difetti del nostro matrimonio non erano un trauma. Voglio dire, lui aveva alcune pessime qualità, ma ne aveva anche di ottime. No, quello che fu per me un trauma, dopo la nascita della bambina, furono i maltrattamenti, palesi e continui: sì, non mi aveva mai maltrattata così, prima che nascesse Phoebe. C'erano, questo sì, molte cose che a me non piacevano, ma erano particolari che si potevano guardare sia da un lato che dall'altro. Non così il comportamento scorretto. Ecco quanto, ecco che cosa avvenne. E se mi dovesse succedere di nuovo, non saprei che fare."
Le assicurai che non le sarebbe successo e le dissi di firmare quell'accordo. Non ero disposto a fargliela far franca e men che meno ero disposto a rinunciare a lei e, insieme a lei, al mio desiderio, a quarantaquattro anni, dopo tre matrimoni senza figli, di avere una casa, se non esattamente piena di rampolli, perlomeno con un bambino mio e con una giovane moglie della quale, sebbene lei definisse se stessa più volte "mentalmente molto pigra" e "intellettualmente chiusa" e "sessualmente timida", 
non mi ero mai stancato durante le centinaia di nostri pomeriggi segreti. Avevo atteso mesi prima di chiederle di lasciare il marito, sebbene già ci pensassi fin dalla prima volta che ci eravamo trovati a casa mia. Quando lei oppose testarda resistenza alla mia proposta, non riuscii a capire se fosse perché vedeva in me un altro maschio prepotente che semplicemente voleva averla vinta, oppure se realmente pensasse che io mi ero pericolosamente illuso.
"Mi sono innamorato di te," le dissi. E lei: "Sei troppo presente a te stesso per 'cascarci'. Sai," ragionò, distesa accanto a me sul mio letto, guardandomi, "se fossi realmente convinto della comica assurdità che sei tanto bravo a rappresentare nei libri, non prenderesti questa storia sul serio. Perché non consideri i nostri semplicemente degli incontri d'affari?" Quando le dissi che volevo un figlio, lei replicò: "Davvero vuoi dedicare un sacco di tempo a quel melodramma che è la vita di famiglia?" Quando le dissi che non ne avevo mai abbastanza di lei, rispose: "No, no, ho letto i tuoi libri: hai bisogno di una donna felina e tentatrice, tu, che dia una bella strapazzata alla tua libido. Hai bisogno di una donna che, quando si siede, assuma il giusto tipo di posizioni erotiche altamente stilizzate e io non sono decisamente quella adatta. Hai bisogno di un nuova esperienza e io sarei il solito tran-tran. Niente di spettacolare. Bensì lunghe noiose serate all'inglese davanti al fuoco con una donna sensata, cosciente, rispettabile. Più in là, avrai bisogno di ogni sorta di perversità polimorfe per tener desto il tuo interesse e a me soddisfa, come sai, la semplice penetrazione. Lo so che non va più di moda, ma a me non interessa succhiare gomiti e robe del genere, dico sul serio. Solo perché sono libera, di pomeriggio, per certi fini immorali, ti sei fatto un'idea sbagliata. Io non voglio sei uomini alla volta, per antiquato che ciò sia. Talvolta in passato, quando ero più giovane, ebbi fantasie su questa sorta di cose, ma gli uomini, nella realtà, raramente sono tanto carini da desiderarne più di uno alla volta. Non mi va di vestirmi da servotta per soddisfare il feticismo del grembialino a chicchessia. Non ho voglia di farmi legare o frustare e, quanto all'inculata, non mi ha mai dato tanto piacere. L'idea è eccitante ma fa pure male, quindi non potremmo fondare su queste basi un matrimonio. A dirla schietta, a me quello che realmente piace è curare i fiori e scribacchiare qualcosa, ogni tanto, ecco tutto." "Allora, come mai susciti in me pensieri erotici?" "Davvero? Di che genere? Dimmelo." "Li ho avuti tutta mattina, oggi." "Che facevamo?" "Assiduamente un sessantanove." "Oh, pensavo a qualcosa di più insolito. Questo non basterebbe, veramente." "Maria, come potrei essere tanto preso se tu
fossi davvero ordinaria come dici?" "Ti piaccio, credo, perché non ho i soliti vizi femminili. Molte donne che sembrano in gamba, lo so, sembrano anche molto feroci. Quel che ti piace in me è che ho l'aria in gamba senza essere feroce: una veramente comune e che non è disposta a prenderti a calci sui denti. Ma perché portarla oltre? Perché sposarmi e avere un figlio e adattarti come tutti gli altri a una vita da impostore?" "Perché ho deciso di rinunciare alla finzione artificiale di essere me stesso in favore della genuina, gratificante falsità di essere un altro. Sposami." "Dio, quando vuoi qualcosa metti paura." "Perché sto congiurando con te per evadere! Ti amo. Voglio vivere con te. Voglio avere un figlio." E lei: "Per favore, cerca di moderare le tue fantasie, in mia presenza. Credevo sul serio che fossi di più uomo di mondo."
Ma io seguitai a esternare quello che provavo, senza moderarmi, e con l'andar del tempo lei arrivò a credermi, o crollò di fronte alla mia insistenza - o entrambe le cose - dopodiché eccomi là a consigliarle di firmare un documento che in effetti mi avrebbe staccato dalla mia vita americana fintanto che Phoebe non fosse stata in età di votare. Naturalmente non era quello che avevo previsto e mi dava pensiero l'effetto che il trasferimento all'estero avrebbe prodotto sulla mia opera, ma una battaglia legale per stabilire a chi dovesse essere affidata la figlia sarebbe stata orribile per svariati motivi, e poi ero convinto che di lì a due-tre anni, placatosi il delirio da divorzio, con Phoebe già grandicella e l'ex marito di Maria rimaritato a sua volta e magari di nuovo padre, sarebbe stato possibile rivedere gli accordi stipulati. "E se non fosse possibile?" "Lo sarà," le dissi io; "abiteremo due o tre anni a Londra, lui si calmerà nel frattempo, poi tutto si sistemerà." "Dici? Succederà? Succede mai?
Tremo al pensiero di quel che avverrà quando le cose cominceranno 
a mettersi male, in Inghilterra, rispetto alle tue fantasie di vita familiare."
Quando Maria si mise a difendere Israele contro i nostri commensali, i quali parlavano come se spettasse a me rispondere dei presunti crimini di quel che chiamavano "l'agghiacciante sionismo", io mi chiesi se, a darle la carica, non fossero magari i timori che seguitava a nutrire che le cose potessero "mettersi male" per noi in Inghilterra, piuttosto che la reputazione dello stato ebraico. Difficile sennò capire come mai una che aborriva gli scontri frontali, che rifuggiva da qualsiasi situazione che obbligasse ad alzare la voce, si mettesse al centro di una discussione su un argomento che, prima, non l'aveva mai accalorata. L'avevo solo vista impegolarsi nei problemi degli ebrei, e nei problemi ebraici coi gentili, in un ambiente molto più ristretto e
intimo, cioè in camera da letto, nella mia casa di Manhattan, allorché mi aveva parlato dell'effetto che le faceva vivere in una "città ebraica".
"Mi piace parecchio, devo confessare," mi disse. "La vita è frizzante, qui. C'è in giro una più alta percentuale di persone interessanti. Mi piace come parlano. I gentili hanno i loro brevi, pallidi momenti di esuberanza, ma niente di simile. E' il modo in cui si parla quando si è brilli. E' come Virgilio. Quando attacca con il tono epico, sai che ti aspettano venticinque versi di latino seriamente difficile, tutti fuori tema. E poi il buon Anteo pregò il figlio di deporlo, dicendo: Figlio mio, pensa prima alla nostra famiglia, come quando... Questi maniacali a parte... ebbene, ecco New York e gli ebrei. Roba che dà alla testa. L'unica cosa che non mi piace è che sembrano troppo sbrigativi nel trovare in torto i gentili nel loro atteggiamento verso gli ebrei. Non ne sei immune neanche tu: trovi certe cose orrendamente antisemite, o magari moderatamente tali, quando invece non lo sono affatto. Non è del tutto ingiustificato, lo so, per gli ebrei, avere la pelle delicata a tale riguardo, nondimeno è irritante.
Oh, oh," soggiunse, "non dovrei dirtele, queste cose." E io: "No, seguita. Dirmi quello che sai che non dovresti dirmi è una delle tue accattivanti strategie." "Allora ti dirò un'altra cosa che mi irrita. Riguardo agli uomini ebrei." "Dai." "Le loro fantasie sulle shiksa. Non mi piace, questo. Non ti capisco. Magari m'inganno e tu sei l'uomo che l'ha inventato. Cioè, lo so che c'è un nonsoché di strano, qui, ma mi piace pensare che non conti poi troppo." "Quindi altri uomini ebrei ti desiderano, è questo che vuoi dire?" "Sono attratti da me perché non sono ebrea? A New York? Sì, certo. Assolutamente. Succede spesso, quando mio marito e io andiamo fuori." "Ma perché ti dovrebbe irritare?" "Poiché il sesso comporta già tante politiche, senza che ci si metta di mezzo anche la politica razziale." La corressi: "Non siamo una razza." "La questione è razziale però," insistette lei. "No. Apparteniamo alla stessa razza. Tu pensi agli eschimesi." "Non siamo della stessa razza. Almeno stando agli antropologi, o chi sia che misura queste cose. Ci sono i caucasici, i semiti... ci sono circa cinque diversi gruppi razziali. Non guardarmi così." "Non posso farci niente. Certe antipatiche superstizioni tendono sempre a venire a galla quando si parla di una 'razza' ebraica." "Vedi, stai per arrabbiarti con una gentile che ha detto cose errate sugli ebrei, a dimostrazione della mia tesi. Tutto quello che posso dirti è che tu appartieni a una razza diversa. Noi siamo, pare, più vicini agli indiani che non agli ebrei, in effetti. Parlo dei caucasici." "Ma anch'io sono caucasico, kiddo. Nel censimento, in USA, io vengo contato, bene o
male, fra i caucasici." "Davvero? Dunque sbaglio io? Oh, non mi rivolgerai più la parola, dopo questo. E sempre un errore essere franchi." "Vado pazzo per la tua franchezza." "Non durerà." "Niente dura, ma per adesso è vero." "Insomma, quello che dico - e non parlo adesso di te o della razza - è che non sono d'accordo con un sacco di uomini a New York che hanno l'aria di volermi dare a intendere che si tratta di una cosa personale, che mi trovano interessante come persona che, guarda caso, non è ebrea. Al contrario, si tratta di un tipo che hanno già incontrato, con cui hanno gradito andare a pranzo, e magari in altri posti, a far altre cose, soltanto perché era, appunto, quel tipo lì." A quel che risultò, se qualcuno, a quella cena, fu troppo precipitoso a trovare in difetto i gentili nel loro atteggiamento verso gli ebrei, fu proprio Maria. E in auto, rincasando, poiché non la smetteva di criticare la loro ipocrisia sulla questione del Medio Oriente, tornai ancora a chiedermi se tutta quell'indignazione non avesse qualcosa a che fare con la sua ansietà relativa al nostro futuro inglese. Ci potevo persino scorgere dei sintomi di quella remissività autodistruttiva che così crudelmente era stata sfruttata dall'ex marito non appena aveva cominciato a perdere interesse per lei.
Lo sportello dell'auto si era appena richiuso alle sue spalle, quando Maria mi disse: "Ti assicuro che, in questo paese, quelli che hanno un po' di buon senso, che hanno capacità di giudizio e di critica, a qualsiasi classe appartengano, non sono affatto antisraele. Cioè, costoro parlano di Israele ostentando un grande disgusto, ma l'uomo che comanda in Libia crede di poter volare, addirittura. E' semplicemente irreale, ti sembra, la loro selettiva disapprovazione? Costoro disapprovano selettivamente, con grande rigore, proprio chi è meno reprensibile." "Ti accade allora veramente questa cosa." "Arriva il momento in cui persino le donne ben educate perdono il controllo di sé. Lo so, mi secca alzare la voce, e non sempre necessariamente dico quello che penso, ma persino io mi arrabbio di gusto quando ho a che fare con persone offensive e stupide."
Dopo che ebbi riferito a Shuki il succo di quella discussione a tavola, la sera avanti a Londra, lui mi chiese: "Ed è anche bella, la tua temeraria paladina cristiana del nostro incorreggibile stato?"
"Si considera gentile, non cristiana." Nel portafogli trovai la foto polaroid scattata durante la festa per il secondo compleanno di Phoebe, poche settimane prima. Mostrava Maria che si china per aiutare la figlia a tagliare la torta: entrambe hanno gli stessi riccioli neri, viso ovale, occhi felini.
Osservando la foto, Shuki domandò: "Ha un lavoro?"
"Prima lavorava per una rivista; adesso scrive, narrativa." "Quindi è anche dotata. Molto attraente. Solo una donna inglese può avere quell'espressione in viso. Osservare ogni cosa senza nulla lasciar trasparire. Ha un'aria di grande serenità, Maria Zuckerman. Tranquilla senza sforzo: caratteristica, questa, per cui noi non andiamo certo famosi. La nostra specialità è essere senza sforzo ansiosi." Rigirò la foto e lesse ad alta voce quello che vi avevo scritto io dietro: " 'Maria, incinta di cinque mesi .
"Padre, finalmente, a quarantacinque anni," dissi.
"Capisco. Sposando questa donna e mettendo al mondo un figlio entrerai finalmente a far parte del mondo di tutti i giorni."
"Anche, può darsi."
"Il guaio è solo che, nel mondo di tutti i giorni, le ragazze non hanno questo aspetto. E se nascerà un maschio," domandò 
Shuki, "la tua sposa inglese consentirà a farlo circoncidere?"
"Chi dice che la circoncisione sia necessaria?"
"La Genesi, al capitolo 17."
"Shuki, io non ho mai dato completamente retta agli ordini della Bibbia."
"E chi mai? Tuttavia, è costume unificante fra gli ebrei, da gran tempo ormai. Sarà difficile, per te, credo, avere un figlio incirconciso. Nutrirai risentimento, temo, verso una moglie che ha voluto altrimenti."
"Vedremo."
Ridendo, mi restituì la foto. "Perché fingi di essere tanto staccato dai tuoi sentimenti ebraici? Nei tuoi libri, non fai altro che chiederti: di che cosa è mai fatto un ebreo? Mentre nella vita reale fingi di accontentarti di esser l'ultimo anello nella catena ebraica dell'essere."
"Ascrivilo all'anormalità della diaspora."
"Sì? Pensi che la diaspora sia abnorme? Vieni a vivere qui. Questa è la patria dell'anormalità ebraica. Peggio: adesso siamo noi gli ebrei dipendenti--dipendiamo dai vostri soldi, dalla vostra lobby ebraica, dagli emolumenti dello Zio Sam--mentre voialtri siete gli ebrei che conducono una vita interessante, tra le comodità, senza dover chiedere scusa a nessuno, senza vergogna, e perfettamente indipendenti. Quanto alla condanna di Israele nella Londra bene, la cosa può sconvolgere tua moglie ma, veramente, a te non dovrebbe dare noia, là. I segugi della virtù di sinistra non sono certo una novità. Sentirsi moralmente superiori agli irakeni o ai siriani non è poi tanto divertente, lascia quindi che quei signori si sentano superiori agli ebrei, se basta questo a rendergli bella la vita. Francamente, credo che l'antipatia degli inglesi per gli ebrei sia per nove decimi snobismo, comunque. Resta il fatto che nella diaspora un ebreo come te oggi vive sicuro, senza timori veri e propri di persecuzioni e violenze, mentre a noi tocca condurre quel tipo di esistenza in perpetuo pericolo che, venendo qui, volevamo lasciarci alle spalle. Ogni qual volta incontro voi intellettuali ebrei-americani con le vostre mogli non ebree e il vostro buon cervello ebraico, ben educati, disinvolti, pacati, capaci di ordinare il piatto giusto in un buon ristorante, di apprezzare il buon vino, di ascoltare cortesemente i pareri altrui, ecco che cosa penso esattamente: siamo noi, qui in Israele, gli ebrei messi nel ghetto, sospettosi, eccitabili, siamo noi insomma gli ebrei della diaspora mentre voi siete quelli che possiedono tutta quella fiducia e sicurezza, tutte quelle buone maniere che si acquistano quando ci si sente a casa propria dove si è."
"Solo per un israeliano," dissi, "può un intellettuale ebreoamericano somigliare a un francese charmant." "Cosa diavolo ci fai in un posto come questo?" domandò Shuki.
"Sono venuto a trovare mio fratello. E' tornato in Israele." "Hai un fratello che è emigrato in Israele? Che cos'è, un fanatico religioso?"
"No, un dentista affermato. O lo era. Adesso abita in un piccolo stanziamento di frontiera, in Cisgiordania. Impara l'ebraico, là." "Te l'inventi. Il fratello di Carnovsky in Cisgiordania? E' un'altra delle tue trovate umoristiche."
"Mia cognata vorrebbe tanto che lo fosse. No, Henry ha davvero piantato la moglie, i figli, l'amante, per venire qui in Israele
e diventare un autentico ebreo." "E perché gli sarebbe nata questa voglia?"
"Sono venuto apposta: per scoprirlo."
"Di che stanziamento si tratta?"
"Non lontano da Hebron, sui colli della Giudea. Si chiama
Agor. La moglie dice che ha trovato là un eroe: un uomo a nome 
Mordecai Lippman."
"Oh, davvero?"
"Conosci Lippman?"
"Nathan, non posso parlare di queste cose. Mi è troppo penoso. 
Dico sul serio. Tuo fratello è un seguace di Lippman?" "Carol mi racconta che quando Henry telefona ai figli non parla altro che di questo Lippman."
"Davvero? Ne è rimasto colpito a tal punto? Bene, quando vedi Henry dirgli di andare a visitare la prigione e ci troverà rinchiusi tanti piccoli banditi altrettanto affascinanti." "Intende restare là, ad Agor, anche dopo aver completato
il corso di ebraico, per via di Lippman."
"Magnifico! Lippman è uno che va a Hebron con la pistola al fianco, e dice agli arabi, al mercato, che arabi ed ebrei possono vivere felici fianco a fianco fintanto che gli ebrei staranno sopra. Non vede l'ora che qualcuno lanci una bottiglia molotov. 
Allora i suoi teppisti potranno sfogarsi."
"Carol mi ha accennato, infatti, alla pistola di Lippman. Henry ha raccontato tutto ai figli, al riguardo."
"S'intende. Henry deve trovare la cosa molto romantica," disse Shuki. "Gli ebreo-americani si eccitano con le pistole. Vedono ebrei che vanno in giro armati e si credono di essere in paradiso. Persone ragionevoli e civili, cui ripugnano il sangue e la violenza, arrivano qui dall'America, da turisti, vedono le pistole, vedono le barbe, e perdono il buonsenso. Le barbe rammentano 
loro la santa debolezza yiddish, le pistole li rassicurano dell'eroica forza ebraica. Questi ebrei non conoscono la storia, non conoscono l'ebraico, né la Bibbia, non conoscono l'Islam né il Medio Oriente, eppure, quando vedono quelle barbe e quelle pistole, si abbandonano a ogni sorta di emozione sentimentale che può derivare dalla realizzazione di un desiderio. Un vero e proprio pot-pourri di emozioni. Le fantasie che si fanno su questo paese mi danno la nausea. E quanto alle barbe, tuo fratello è eccitato tanto dalla religione quanto dagli esplosivi? Quei coloni, sai, sono i nostri grandi credenti messianici ebrei. La Bibbia è la loro bibbia, quegli idioti la pigliano sul serio. Te lo dico io, tutta la follia della razza umana poggia sulla santificazione di quel libro. Tutto quello che non va, qui da noi, si trova nei primi cinque libri del Vecchio Testamento. Estirpa il nemico, sacrifica tuo figlio, il deserto è tuo e di nessun altro, da qui all'Eufrate. Una pagina sì e una no, si contano i filistei rimasti sul terreno: ecco, questa è la saggezza della loro meravigliosa Torah. Se domani vai là, va' ad assistere alla funzione del venerdì sera e guardali leccare il culo a Dio, dirgli quant'è meraviglioso e dire a noialtri quanto sono meravigliosi loro, che svolgono il Suo lavoro, da eroici pionieri, nella Giudea biblica. Pionieri, sì! Di giorno fanno gli impiegati statali a Gerusalemme e la sera tornano in macchina, per l'ora di cena, nella Giudea biblica. Solo se mangia fegato di gallina a tocchetti presso la fonte biblica, solo se va a dormire in luoghi biblici, può un ebreo trovare il vero giudaismo. Ebbene, se desiderano proprio tanto dormire presso la fonte biblica perché è là che Abramo si allacciava i calzari, possono pure dormirci, là, sotto un governo arabo! Ti prego, non parlarmi di quello che combina 'sta gente! Mi fa diventar matto. Mi ci vorrà poi un anno intero, a Oxford."
"Parlami ancora dell'idolo di mio fratello."
"Lippman? Puzzano di fascismo, quelli come Lippman."
"Com'è, qui, questa puzza?"
"La stessa che altrove. La situazione è così complicata che sembra richiedere una soluzione semplice, ed è qui che entra in scena Lippman. Lui specula sull'insicurezza ebraica. Dice agli ebrei: 'Ce l'ho io, la soluzione del problema, e dopo non avrete più paura.' Beninteso, c'è tutta una storia, dietro a gente come lui. Mordecai Lippman non sbuca dal nulla. In ogni comunità ebraica c'è sempre stato qualcuno come lui. Cosa può fare, il rabbino, per le loro paure? Il rabbino somiglia a te, Nathan: il rabbino è alto, magro, introverso e ascetico, sta sempre chino sui suoi libri, e di solito è pure malaticcio. Non è uno che può vedersela con i goyim. Quindi in ogni comunità c'è un macellaio, un camionista, un facchino: costui è grande e grosso, scoppia di salute... Tu vai a letto con una, due, magari tre donne, lui va a letto con ventisette, e tutte allo stesso tempo. Lui si occupa della paura. Parte, di nottetempo, con l'altro macellaio, e al suo ritorno ci sono cento goyim di cui non devi più darti pensiero. Aveva pure un nome costui: lo shlayger, il fustigatore. L'unica differenza fra lo shlayger del Vecchio Mondo e Mordecai Lippman è che, a livello superficiale, il signor Lippman è molto profondo. Non ha solo una pistola ebraica, ha anche una bocca ebraica e persino qualche residuo di un cervello ebraico. C'è oggi tanto antagonismo fra arabi ed ebrei che persino un bambino capirebbe che la cosa migliore è tenerli lontani gli uni dagli altri; dunque Lippman va nell'araba Hebron con la pistola al fianco. Hebron! Questo stato non è certamente sorto perché gli ebrei tutelassero l'ordine a Nablus ed Hebron! Non era questo il concetto sionista! Senti, non mi faccio illusioni sugli arabi e non mi faccio illusioni sugli ebrei. Solo non mi va di vivere in un paese completamente impazzito! Ti eccita sentirmi parlare così, lo vedo. Mi invidi. Pensi: 'Cose da pazzi, da spericolati... che divertente!' Ma, credimi, a lungo andare persino la pazzia e la temerarietà diventano noiose, e allora sì che veramente c'è pericolo. La gente è spaventata, qui, da trentacinque anni: quando ci sarà un'altra guerra? Gli arabi possono perdere, e perdere, e perdere ancora. Noi possiamo perdere una volta sola. Tutto questo è vero. Ma qual è il risultato? Entra in scena Menachem Begin--e dopo Begin, a fil di logica, ecco un bandito come Mordecai Lippman--il quale dice agli ebrei: 'Ho la soluzione del problema della paura.' E peggio è Lippman, meglio
è. Ha ragione--dicono--questo è il mondo in cui viviamo. Se i sistemi umanitari non giovano, prova con la brutalità."
"Eppure al mio fratellino piace."
"Chiedi, allora, al fratellino: 'Quali sono le conseguenze di quest'uomo delizioso?' La distruzione del paese! Chi viene, adesso, a stabilirsi qui da noi? L'ebreo intellettuale? L'ebreo umanitario? Il bravo ebreo chic? No, non l'ebreo di Buenos Aires, né di Rio, né di Manhattan. Quelli che vengono dall'America sono o religiosi o pazzi o tutt'e due le cose. Questo posto è diventato l'Australia dell'ebreo-americano. A venirci, adesso, sono soltanto gli ebrei orientali e gli ebrei russi e i disadattati come tuo fratello o gli scavezzacolli in yarmulke di Brooklyn." "Mio fratello proviene da un suburbio signorile del New Jersey. Non puoi definirlo un disadattato. Il problema che l'ha condotto qui potrebbe essere, al contrario, il suo eccessivo adattamento alla vita comoda."
"Dunque cosa è venuto a cercare, qui? Il pericolo? Le tensioni? Altri guai? In tal caso, è proprio meshugge. Tu sei l'unico in gamba, tu, fra tutti, sei l'unico ebreo normale, uno che vive a Londra con la moglie inglese gentile, e che non intende darsi la briga di circoncidere suo figlio. Tu, che dici: vivo in questo mondo, in questa epoca, e cerco di cavarmela con quello che c'è. Questo dovrebbe essere il posto dove si viene per diventare un ebreo normale. E invece è diventata la prigione degli ebrei per eccellenza! Un luogo di ossessioni! E' diventato, questo posto, la culla di ogni tipo di pazzia che il genio ebraico possa escogitare! " Imbruniva quando tornammo alla macchina. Ad aspettarci, con la moglie e il figlioletto, c'era un uomo di taglia robusta sulla trentina, in pantalonacci chiari e maglietta bianca dalle maniche corte. La macchina di Shuki, parcheggiata di sbieco per metà sul marciapiede, senza volerlo impediva alla macchina di costui di uscire a marcia indietro. Quando ci vide accostarci alla Volkswagen, cominciò a sbraitare e agitare il pugno, e io pensai che fosse un arabo d'Israele. La sua furia era impressionante. Shuki alzò la voce a sua volta, ma non era furioso, e, mentre l'altro seguitava a urlare, minaccioso, facendosi sotto con un pugno chiuso, Shuki aprì lo sportello con la chiave e mi fece salire.
Gli chiesi, una volta partiti, in che lingua quel tizio lo aveva coperto di rimproveri: in arabo? in ebraico?
"In ebraico." Shuki rise. "Quell'uomo è un ebreo come te,
Nathan. In ebraico, si capisce, mi stava dicendo: 'Da non credere! Un altro somaro ashkenazi! Ogni ashkenazi che incontro è un somaro!' " "Da dove viene?"
"Non lo so. Da Tunisi, da Algeri, da Casablanca. Hai capito chi viene a stabilirsi qui, adesso? Ebrei dall'Etiopia. Tanto bramosi sono, questi bastardi alla Begin, di perpetuare la vecchia
mitologia, che cominciano a trascinare qui ebrei negri. Gente simpatica, affettuosa, buona d'animo, perlopiù contadini, parlano solo la lingua etiopica quando arrivano qui. Certi all'arrivo sono tanto malati che debbono esser subito portati in ospedale, direttamente dall'aeroporto, in barella. Perlopiù non sanno né leggere né scrivere. Bisogna insegnargli ad aprire e chiudere i rubinetti, a cosa serve il gabinetto, cosa sono le scale. Tecnologicamente, vivono nel XIII secolo. Ma entro un anno, te l'assicuro, saranno già israeliani, andranno reclamando a grandi urli i loro diritti e indiranno scioperi di protesta, dopodiché cominceranno a darmi del somaro ashkenazi per via di come parcheggio l'auto."
In albergo, Shuki si scusò se non poteva cenare con me ma non gli andava di lasciar sola la moglie la sera e lei non aveva voglia di compagnia. Era un brutto momento per lei. Il loro figlio diciottenne, Mati, dopo essersi rivelato a un concorso come uno dei migliori giovani pianisti del paese, era stato richiamato alle armi, per i tre anni di leva, e quindi non poteva esercitarsi regolarmente al pianoforte. Daniel Barenboim, dopo averlo ascoltato suonare, si era offerto d'aiutarlo ad andare a studiare in America, ma il ragazzo aveva deciso che non poteva lasciare il paese per soddisfare la sua ambizione mentre gli amici facevano regolarmente il servizio militare. Terminato il periodo di addestramento da recluta si sarebbe trovato la maniera di farlo esercitare al piano diverse volte la settimana, ma Shuki dubitava che ciò si sarebbe verificato. "Lui forse non ha più bisogno della nostra approvazione, ma della loro certamente sì. Mati non è tanto ostinato, eccetto che in casa, nell'ora riservata allo studio del pianoforte, non è il tipo da impuntarsi e dire: 'Secondo Daniel Barenboim è meglio che mi eserciti a suonare."'
"Tua moglie vorrebbe che andasse in America."
"Gli continua a ripetere che ha maggiori responsabilità verso la musica che non verso la fanteria. E lui, con quella sua bella voce sonora: 'Israele mi ha dato molto! Ci sto bene, qui. Devo compiere il mio dovere!' e lei esce completamente pazza. Cerco di intervenire ma non sono più persuasivo di uno dei padri dei tuoi romanzi. Ho persino pensato a te, durante una di queste scene. Non occorreva--pensai--darsi tante pene per creare uno stato ebraico, dove i nostri potessero smetterla di comportarsi come in un ghetto, per finire per essere uguale a un padre inefficiente in un romanzo di Zuckerman, un vero padre ebreo d'antico stampo che o li bacia, i figli, o li sgrida. Un altro padre ebreo privo di patria potestà contro il quale però il povero figlio ebreo deve, nondimeno, inscenare la sua ridicola ribellione." "Ciao, Shuki," gli dissi, stringendogli la mano.
"Ciao, Nathan. E non scordarti di tornare, fra altri vent'anni. Sono sicuro che, se Begin sarà ancora al potere, avrò per te notizie ancora più buone."
Dopo che Shuki se ne fu andato, decisi di farmi prenotare subito una camera a Gerusalemme, piuttosto che pernottare a Tel Aviv. Di lì mi sarei messo in contatto con Henry, per proporgli di cenare insieme, quella sera stessa. Se Shuki non aveva esagerato e quel Lippman era davvero lo shlayger da lui descritto, allora era possibilissimo che Henry fosse insieme suo discepolo e suo prigioniero; qualcosa di simile, insomma, a quello che Carol aveva in mente quando aveva detto che avere a che fare con un marito borghese trasformato in ebreo rinato era come avere un figlio aderente alla setta del reverendo Moon. Come poteva avviare una procedura di divorzio, chiedeva, se lui aveva realmente perduto la testa? Quando mi aveva telefonato a Londra era perché temeva di perdere il senno a sua volta e non sapeva a chi altri rivolgersi.
"Non voglio contrapporre alla sua irrazionalità la mia, non voglio agire precipitosamente, ma non lo sentirei più lontano da me se fosse morto sotto i ferri. Se mi ha scaricata per sempre, insieme allo studio dentistico e tutto il resto, ebbene, devo agire, non posso star qui ad aspettare come un'idiota che lui ritorni in sé. Senonché sono paralizzata--non riesco a capire --non riesco minimamente ad afferrare cos'è successo. E tu? Lo conosci da una vita. In certo qual modo i fratelli si conoscono a vicenda meglio di quanto non conoscano chiunque altro." "Il modo in cui si conoscono a vicenda, stando alla mia esperienza, è una sorta di deformazione di se stessi."
"Non può, Nathan, svicolare con te come svicola con me. Prima di fare qualsiasi passo, devo sapere se ha perso il senno o no.
Anch'io, pensai, dovevo saperlo. Il rapporto con Henry era il legame più elementare che mi restava e, per quanto scabrosa si fosse fatta la superficie dopo tanti anni di ruggine, quello che la telefonata di Carol suscitò in me fu il bisogno di prendermi cura non tanto del fratello adulto con le cui rampogne mi ero già scontrato, quanto del ragazzino in pigiama di flanella che diventava sonnambulo quand'era sovreccitato. Non che fosse soltanto il dovere fraterno a spronarmi, no, ero anche curioso riguardo a quella rapida e semplice conversione di un tipo che non è facilmente consentito agli scrittori, a meno che non desiderino commettere l'errore professionale di non essere indagatori. La vita di Henry non si manifestava più nella sua forma più pedestre, e io dovevo chiedere se il mutamento era avvenuto in modo tanto dissennato quanto Carol suggeriva dicendo che egli aveva perso il senno. Niente niente, non ci sarà stato più genio che follia in quella fuga? Per quanto priva di precedenti negli annali della soffocante vita familiare, non era forse quella fuga qualcosa di incontestabile, come non lo sarebbe mai stato se lui fosse scappato invece con una seducente paziente? Certo, il copione al quale aveva tentato di attenersi nella ribellione di dieci anni addietro era assai meno originale di questo. Nel giro di mezz'ora avevo pagato il conto e fatto i bagagli e mi trovavo a bordo di un tassì diretto verso l'interno. La periferia industriale di Tel Aviv stava già scomparendo nell'oscurità invernale quando svoltammo verso est, sulla strada che, fra agrumeti, porta a Gerusalemme. Non appena preso possesso di una camera d'albergo, telefonai ad Agor. La donna che mi rispose sembrava, lì per lì, convinta che non ci fosse nessuno di nome Henry Zuckerman. "L'americano!" dissi a gran voce. "L'americano... il dentista del New Jersey!" Lei allora sparì e non sapevo che pensare.
Mentre aspettavo che qualcuno tornasse all'apparecchio, ripensai al messaggio che avevo ricevuto dalla figlia tredicenne di Henry, Ruth, a Londra la sera avanti. La telefonata, a carico del destinatario, proveniva da casa di un'amica di Ruth. La mamma aveva detto che stavo andando in Israele a trovare suo padre e, sebbene non sapesse se faceva bene o no a telefonarmi --da una settimana rinviava di giorno in giorno--alla fine aveva deciso di pregarmi di dirgli da parte sua una cosa molto "confidenziale", che lei non era mai riuscita a dirgli di persona, durante le telefonate domenicali, anche perché c'erano sempre lì presenti il fratello maggiore Leslie e la sorella minore Ellen, e talvolta persino la madre, accanto all'apparecchio. Ma prima ci teneva a farmi sapere che non era d'accordo con sua madre nel ritenere "infantile" il comportamento del padre. "La mamma bada a dire, mi disse Ruth, "che non si può più contare su di lui, che lei non si fida, non accetta le sue ragioni e che, se vuole vederci, venga qui lui. Ci sarebbe in programma un nostro viaggio in Israele, per visitare il paese insieme a lui, durante le vacanze, ma non so se la mamma ci darà il permesso. E' molto severa con lui adesso, moltissimo. Soffre terribilmente e io la compatisco. Ma quello che ti prego di dire a papà da parte mia è che io lo capisco meglio di Leslie ed Ellen. No, lascia fuori Leslie ed Ellen: digli solo che io lo capisco." "Capisci cosa?" "Che lui è laggiù per imparare qualcosa: sta cercando di scoprire qualcosa. Non dico che capisco tutto ma penso che non sia ancora troppo vecchio per imparare, e che ne abbia il diritto." "Glielo dirò," promisi. E lei: "Non credi sia così? Che
ne pensi, tu, zio Nathan, di questa faccenda? Ti dispiace se te lo chiedo?" "Be'," le dissi, "credo di aver fatto anch'io cose simili." "Davvero?" "Cose cioè che appaiono "infantili" agli altri? sì. E forse proprio per il motivo che tu suggerisci: per scoprire qualcosa." "In un certo senso," disse Ruth, "lo ammiro persino. Ci vuol molto coraggio ad andare così lontano, no? Cioè, lui ha rinunciato a un sacco di cose." "Pare di sì. Hai paura che abbia anche rinunciato a te?" "No, io no. Ellen sì, ma io no. Ellen l'ha presa brutta. E' andata in oca... Ma tu non dirglielo, questo. Ha già tanti pensieri." "E tuo fratello?" "E più prepotente che mai, adesso è lui l'uomo di casa, mi spiego?" "Perfettamente, Ruth." "Be', non è che sia in gran forma, francamente. 
Sento la sua mancanza. Sono confusa, senza mio padre." "Vuoi che glielo dica, questo? Che ti senti confusa senza di lui." "Se pensi che sia opportuno, diglielo pure." Henry doveva trovarsi all'altro capo del paese--forse, mi dissi, a recitare le preghiere della sera--poiché ci vollero dieci minuti buoni prima che arrivasse all'apparecchio. Chissà, mi chiesi, se porta lo scialle da preghiera sulla testa. Non sapevo davvero che cosa aspettarmi da lui.
"Sono io," annunciai, "Caino che chiama Abele, Esaù che chiama Giacobbe, qui, nella terra di Canaan. Mi trovo all'albergo 
Re David. Sono appena arrivato da Londra."
"Non mi dire." Parolette sardoniche, seguite da una lunga pausa. "Sei venuto per la Chanukah?" domandò alla fine.
"Prima per la Chanukah e poi per vederti."
Una pausa ancora più lunga. "Dov'è Carol?"
"Sono solo."
"Cosa vuoi?"
"Pensavo di invitarti a cena qui a Gerusalemme. Magari ti rimediano un letto, in albergo, se vuoi trattenerti per la notte." Poiché seguì un altro lungo silenzio, temetti che avesse riagganciato. 
Ma infine mi disse: "Ho lezione stasera."
"Domani, allora? Vengo a prenderti in macchina." "Devo ammettere che è alquanto bizzarro che Carol abbia affidato a te il compito di venirmi a rammentare i miei doveri verso la famiglia."
"Non sono venuto qui per riportarti a casa vivo." "Non ci riusciresti," sbottò, "neanche volendo. So quel che faccio e non c'è niente da dire: la decisione è irrevocabile." "E dunque che danno potrei fare? Mi piacerebbe vedere "Questo è il colmo! Tu a Gerusalemme," disse lui.
' Mah, nessuno dei due era famoso nel New Jersey per la sua religiosità. "
"Cosa vuoi, Nathan?"
"Farti visita. Vedere come te la passi."
"E non c'è Carol con te?"
"Non gioco a 'sti giochi, lo sai. Né Carol né le guardie. Sono
venuto da Londra da solo." "Così, da un momento all'altro."
"Perché no?"
"E se io ti dicessi di tornartene tranquillamente a Londra come ne sei venuto?" "Perché dovresti dirmelo?"
"Perché non ho bisogno di nessuno che venga qui a controllare se sono squilibrato o meno. Perché ho già fornito adeguate spiegazioni. Perché...
Quando Henry attaccava questa solfa era chiaro, per me, che voleva vedermi.
Quando avevo visitato Israele nel 1960, la città vecchia era ancora oltre il confine. Dal mio albergo si scorgevano, oltre la stretta vallata, i soldati giordani armati di guardia sulle mura ma logicamente non mi ero recato presso quei ruderi del Tempio noti come il Muro del pianto. Ero curioso adesso di vedere se qualcosa di simile a quanto era successo a mio fratello potesse capitare pure a me--cogliermi di sorpresa e sopraffarmi-in quello che è il più sacro di tutti i luoghi ebraici. Quando ne avevo chiesto in portineria, mi era stato risposto che non mi sarei certo trovato solo, là, in qualsiasi ora. "Meglio andarci di notte," mi suggerì il portiere. "Non lo si scorda più finché si campa." Poiché non avevo nulla da fare fino all'indomani mattina, presi un tassì per il Muro del pianto.
Era più imponente di quanto mi aspettassi, forse perché i riflettori che davano un drammatico risalto a quelle enormi antiche pietre sembravano al contempo illuminare i più pungenti temi della storia: Caducità, Durata, Distruzione, Speranza. Il Muro era asimmetricamente incorniciato da un paio di minareti sorgenti dal sacro recinto arabo retrostante e da due cùpole di moschea, d'oro la maggiore e la minore d'argento, poste là come a sottilmente squilibrare la pittoresca composizione. Persino la luna piena, tanto alta e remota da evitare un eccesso di kitsch, sembrava, accanto a quelle cupole stagliantisi contro il cielo, ingegnosamente decorativa in tono minore. La stupenda notte orientale che faceva da sfondo rendeva la piazza del Muro del pianto simile a un grande teatro all'aperto, pronto per la rappresentazione di un'opera lirica, sfarzosamente epica, le cui comparse si vedevano aggirarsi a caso qua e là, alcune già in costume da sacerdoti e le altre ancora in abiti civili, senza barba. Appressandomi al Muro dal vecchio quartiere ebraico, dovetti superare una barriera di controllo in cima a una lunga scalinata. Un soldato sefardita di mezz'età, trasandato, in divisa da fatica, frugava nelle sporte e nelle borse dei turisti prima di lasciarli passare. Ai piedi delle scale, in pose rilassate, appoggiati sui gomiti, tanto immemori della Divina Presenza quanto della folla di visitatori, c'erano quattro altri soldati israeliani, assai giovani, uno dei quali, pensai, avrebbe potuto essere il figlio di Shuki che aveva marinato il pianoforte. Al pari della guardia alla barriera, anch'essi sembravano aver improvvisato una divisa attingendo a una caterva di vecchi indumenti in un negozio di eccedenze militari. Mi rammentarono gli hippy che vedevo intorno alla Bethesda Fountain in Central Park ai tempi della guerra nel Vietnam, tranne che quei ragazzi vestiti di cenci kaki avevano a tracolla armi automatiche. Un tramezzo di pietra divideva chi era venuto piamente a pregare presso il Muro da quelli circolanti nella piazza. Presso la barriera, su un tavolino, c'erano yarmulke di cartone, in una scatola, per i visitatori maschi sprovvisti di copricapi; le donne pregavano per loro conto, nel settore a esse riservato. Due ebrei ortodossi sostavano--ce l'avessero messi, o si fossero piazzati di loro iniziativa--accanto al tavolino. Il più anziano, magro e curvo, con una barba da libro di fiabe e un bastone, sedeva sulla panca di pietra parallela al Muro; l'altro, probabilmente più giovane di me, era un uomo corpulento in pastrano lungo, nero, dalla faccia pesante e dalla rigida barba a foggia di badile. Stava in piedi accanto all'altro e gli parlava con grande intensità, però non appena mi fui messo una yarmulke in testa rivolse di colpo l'attenzione su di me e mi salutò: "Shalom. 
Shalom aleichem." "Shalom," replicai.
"Faccio una colletta. Beneficenza." "Anch'io," aggiunse il vecchio.
"Ah sì? Beneficenza a chi?"
"Ai poveri," rispose quello con la barba a badile.
Infilai una mano in tasca e ne estrassi tutti gli spiccioli, monete israeliane e inglesi. A me sembrava una donazione abbastanza generosa data la nebulosa qualità della filantropia da lui rappresentata. Costui invece mi lanciò in cambio uno sguardo che dovetti ammirare per la sua fine miscela espressiva di incredulità e disprezzo. "Non ha soldi di carta?" domandò. "Un paio di dollari."
Poiché la mia pignoleria circa le sue "credenziali" mi apparve d'un tratto assai buffa, date le circostanze, e anche perché l'accattonaggio degli schnorer vecchia maniera è assai più accattivante, umanamente, di una "colletta" autorizzata, rispettabile, 
a fini umanitari, mi misi a ridere. "Signori miei," dissi, "amici..." Ma l'uomo dalla barba a badile mi stava già mostrando, un po' come un sipario che cala alla fine della recita, il dorso del suo ampio pastrano nero e già aveva ripreso a parlare a mitraglia, in yiddish, con il vecchio seduto. Non ci aveva messo molto a decidere che non valeva la pena di perder tempo con un ebreo taccagno come me.
In piedi presso il Muro, ciascuno per suo conto, alcuni oscillando rapidamente e ritmicamente annuendo nel recitare le preghiere, altri immobili tranne che per il rapido moto delle labbra, c'erano diciassette dei dodici milioni di ebrei di questo mondo in comunicazione con il Re dell'Universo. A me sembrava che comunicassero soltanto con le pietre, nei cui anfratti stavano appollaiati dei piccioni, sei o sette metri al disopra delle loro teste. Pensai (poiché sono predisposto a pensare): "Se c'è un Dio che svolge un ruolo del nostro mondo, io mi ci gioco tutt'e due gli occhi..." Nondimeno non potevo non sentirmi preso alla vista di quell'adorazione della pietra, poiché essa esemplificava per me l'aspetto più atrocemente retrogrado dell'animo umano. La pietra è quel che ci vuole, pensai: cosa potrebbe esserci infatti di più insensibile? Persino la nuvola che solcava il cielo, la "nuvola ebrea" del defunto padre di Shuki, appariva meno indifferente alla nostra breve e incerta esistenza. Credo che mi sarei sentito meno distaccato da diciassette ebrei che lo ammettessero apertamente di star parlando a delle pietre, che non da quei diciassette là convinti di inviare telex al creatore direttamente; fossi stato sicuro che essi erano convinti di rivolgersi alla pietra, soltanto alla pietra, avrei potuto persino unirmi a loro. Leccare il culo a Dio, l'aveva chiamato Shuki, con più disgusto di quanto fossi capace io. Io rammentai semplicemente la mia antipatia di sempre per simili riti.
Mi avvicinai al Muro per vedere meglio e, da pochi passi di distanza, scorsi un uomo di mezz'età, benvestito, con una valigetta monogrammata ai piedi, imprimere, al termine delle orazioni, due morbidi baci sulla pietra, baci quali mia madre avrebbe potuto depormi sulla fronte, da ragazzo, quand'ero a letto con la febbre. I polpastrelli di una mano restarono ancora teneramente posati sulla pietra, dopo che egli l'ebbe baciata. S'intende, venir tanto inteneriti da una pietra quanto lo è una madre dal figliolo malato non significa, necessariamente, granché. Tu puoi andare in giro a baciare tutti i muri del mondo, e tutte le croci, e i femori e le tibie di tutti i santi martiri macellati dagli infedeli da che mondo è mondo, e poi, di ritorno al tuo ufficio, comportarti da gran figlio di puttana con i tuoi dipendenti e, in casa, da stronzo con i familiari. La storia locale non dimostra certo che il superamento degli ordinari difetti umani, lasciamo stare poi le inclinazioni realmente viziose, viene favorito da atti pietosi e pii compiuti a Gerusalemme. Nondimeno, in quel momento, persino io mi lasciai un tantino trascinare e sarei stato disposto a concedere che quanto veniva eseguito davanti a me con tanta commovente dolcezza non fosse del tutto inutile. D'altro canto, potevo sbagliarmi.
Non lontano, un'arcata immetteva in un vasto locale cavernoso dove, attraverso una grata illuminata nel pavimento di pietra, si vedeva che c'era ancor più Muro del pianto sottoterra che non sopra (una volta il tempio era quello sotterraneo). Una trentina di metri quadrati, lì, erano stati separati dal resto del vasto locale, mediante tramezzi, a formare una specie di sala non grande che, a parte il soffitto affumicato, a volta, e le pietre del Muro del secondo tempio, aveva un che di simile alla modesta sinagoga di quartiere dove io, a dieci anni, andavo a lezione di ebraico. L'arca della Torah avrebbe potuto esser stata costruita, a mo' di saggio di fine anno, da una scolaresca di apprendisti falegnami: non aveva assolutamente nulla di sacro. Sugli scaffali a muro, davanti all'arca, erano accatastati alla rinfusa logori libri di preghiera--saranno stati duecentomila--e, sparse a caso qua e là, una dozzina di ammaccate sedie di plastica. Ma a rammentarmi la sinagoga dell'infanzia non erano tanto gli arredi quanto i fedeli. In un angolo c'era un chazan accompagnato da due adolescenti in abbigliamento chassidico che salmodiavano a intermittenza con grande fervore mentre il chazan intonava un rude lamento con voce baritonale: per il resto i fedeli sembravano solo marginalmente impegnati nel rito liturgico. Era più o meno come in Schley Street a Newark, a quel che ricordavo: alcuni si voltavano di continuo per vedere se qualcosa di più piccante si verificasse altrove, mentre altri avevano tutta l'aria di attendere l'imminente arrivo di qualche parente o amico. Altri ancora, infine, sembrava che stessero, in modo saltuario, contando i presenti.
Stavo sgattaiolando dentro, rasentando gli scaffali--per osservare la scena da dietro le quinte, senza essere invadente--
quando mi si accostò un giovane chassid, che indossava con distinzione un lungo pastrano di raso e aveva in testa un cappello nuovo, lucido, di velluto nero immacolato dalla bassa cupola e dalla larga tesa imponente. Il suo pallore era tuttavia allarmante, di un colorito che distava un soffio appena dall'obitorio. Le dita affusolate con cui mi batté sulla spalla suggerivano qualcosa di eroticamente subdolo da una parte e, dall'altra, un che di tormentosamente delicato, la mano della fragile donzella come pure dell'osceno fantasma. Mi stava invitando, senza parole, a
prendere un libro e unirmi alla minyan. Quando bisbigliai "no", mi rispose, in un inglese cupo, dal forte accento straniero: "Venga. 
Abbiamo bisogno di lei, signore."
Scossi la testa proprio mentre il chazan, con un lugubre lamento che suonò come terribile rampogna, pronunciò il nome del Signore: "Adonoi!"
Imperturbabile, il giovane chassid ripeté: "Venga." E indicò, oltre il tramezzo, quel che sembrava più un magazzino vuoto che non una casa di preghiera, un locale di quelli che un intraprendente imprenditore di New York si affretterebbe a trasformare in sauna, in campi da tennis, in bagni turchi e in piscina: il Circolo del tennis ed Health club al Muro del pianto.
Anche là c'erano dei fedeli, seduti con i loro libri di preghiera, piamente, a pochi palmi dal Muro. Sporti in avanti, gomiti sulle ginocchia, facevano pensare a poveracci in lunga e vana attesa in un ufficio di collocamento, o alla previdenza sociale. Non bastavano le luci di alcuni riflettori, posti in basso, a rendere il luogo accogliente o congeniale. La religione non potrebbe essere più disadorna di così. A quegli ebrei non occorreva altro che il Muro.
Collettivamente, emettevano un tenue mormorio che sembrava il ronzio d'api industriose--api geneticamente incaricate di pregare per l'alveare.
Il giovane chassid elegante attendeva ancora, paziente, al mio fianco.
"Non posso far niente per aiutarvi," sussurrai.
"Solo un minuto, signore."
Non si poteva dire che insistesse. In certo qual modo, non sembrava neanche importargliene. Dallo sguardo fisso dei suoi occhi e dalla voce piatta, senza energia, avrei anche potuto dedurre, in un altro contesto, che fosse un tantino deficiente, ma in quel luogo tentavo di essere un generoso tollerante relativista culturale: mi sforzavo assai più di quanto non si sforzasse lui.
"Mi spiace," dissi. "Ma questo è quanto."
"Di dove è? Degli Stati Uniti? Ha ricevuto la bar mitzvah?" Distolsi lo sguardo.
"Venga," disse quello.
"La prego, basta così."
"Ma lei è un ebreo che ha ricevuto la bar mitzvah." Eccoci qua. Un ebreo si accinge a spiegare a un altro ebreo che lui è un tipo diverso: fonte, questa situazione, di duecentomila barzellette, per non parlare di innumeri opere letterarie. "Non sono osservante," gli dissi. "Non partecipo alle preghiere." "Perché è venuto qui?" Ma di nuovo aveva l'aria che non gliene importasse veramente. Cominciavo a dubitare che capisse 
il proprio inglese, lasciamo stare il mio.
"Per vedere il Muro del tempio antico," risposi. "Per vedere ebrei che partecipano alla preghiera. Sono un turista."
"Ha avuto un'istruzione religiosa?"
"Non da prendersi sul serio."
"La compatisco." Così piatto che fu come se mi dicesse che ore erano.
"Sì? Le dispiace per me?"
"I laici non sanno per che cosa vivono."
"Capisco come a lei possa sembrare così." "I laici però stanno tornando a noi. Certi ebrei anche peggiori di lei."
"Davvero? E quanto peggiori?"
"Non mi va neanche di dirglielo."
"Di che si tratta? Droga? Sesso? Soldi?"
"Peggio. Venga, signore. Io sarò mitzvah, signore." Se interpretavo correttamente la sua insistenza, la mia laicità non rappresentava, ai suoi occhi, che un ridicolo errore Non valeva neanche la pena di scaldarsi, al riguardo. Che io non fossi religioso, pio, era solo dovuto a un malinteso.
Mentre io cercavo di intuire cosa pensasse lui, mi resi conto che non potevo indovinare quel che gli passava per la mente più di quanto lui non potesse arguire quel che passava per la mia. Dubito, anzi, che ci si provasse. "Mi lasci in pace, okay?" "Venga," ripeté lui.
"Per favore, che gliene importa se io prego o no?" Non gli dissi--poiché non lo ritenevo opportuno, lì--che in realtà consideravo la preghiera al disotto della mia dignità. "Mi lasci stare qui 
a guardare, semplicemente."
"Di dove, negli Stati Uniti, Brooklyn? California?"
"E lei di dove è?"
"Di dove? Sono ebreo, io. Venga."
"Senta, io non critico la sua osservanza, o la sua tenuta, o il suo aspetto, non mi curo nemmeno delle sue insinuazioni riguardo ai miei demeriti, perché dunque lei si risente tanto come se io la offendessi?" Non che avesse l'aria offesa, veramente, ma tentavo di portare la nostra conversazione su un piano più elevato.
"Signore, lei è circonciso?"
"Vuole che le mostri una foto?"
"Sua moglie è una shiksa," egli annunciò d'un tratto.
"Non era tanto difficile arguirlo quanto lei vorrebbe far credere," dissi. Ma su quella faccia esangue non si leggeva né divertimento né comprensione: solo un paio di occhi imperterriti
puntati blandamente sulla mia ridicola resistenza. "Tutte e quattro le mie mogli, tutte shiksa" gli dissi.
"Perché?"
"Perché io sono un ebreo di questo tipo, Mac." "Venga," ripeté, muovendosi, per farmi capire che era ora di smetterla di fare lo stupido.
"Senta, si trovi un altro al posto mio, d'accordo?" Ma siccome non capiva esattamente la mia parlata, oppure perché intendeva molestarmi e cacciarmi via, da reprobo qual ero, da quel sacro luogo, o magari perché voleva riparare l'errore da me commesso quando avevo lasciato l'ovile, oppure semplicemente perché gli occorreva un altro pio ebreo a questo mondo, come a un assetato occorre un bicchier d'acqua, fatto sta che non voleva mollarmi. Stava là e ripeteva: "Venga." E io, altrettanto testardo, restavo al mio posto. Non stavo commettendo alcuna infrazione di norme religiose e mi rifiutavo sia di obbedirgli che di scappar via come un intruso. Chissà anzi che non mi fossi sbagliato, all'inizio, nel giudicarlo un po' deficiente; a pensarci su meglio, chi non aveva tutte le rotelle a posto doveva essere, invece, quello con quattro mogli non ebree. Ero uscito da meno di un minuto da quella caverna e stavo dando un'ultima occhiata alla piazza e ai minareti, quando qualcuno mi gridò: "E' lei!"
Di fronte a me c'era un giovane alto, dalla barba rada e incolta, che sembrava sul punto di gettarmi le braccia al collo. Stava ansando, o per l'eccitazione o per avermi raggiunto di corsa, non saprei. E rideva, a raffiche di giubilo ed euforia.
Mai incontrato qualcuno tanto solleticato dalla vista del sottoscritto.
"E' proprio lei! Qui! Magnifico! Ho letto tutti i suoi libri!
Lei ha scritto della mia famiglia! Dei Lustig di West Orange! In Istruzione superiore! Sono proprio loro! Io sono il più grande ammiratore che lei abbia al mondo! Sentimenti misti è il suo romanzo migliore, meglio persino di Carnovsky! Come mai ha in testa una yarrnulke di cartone? Dovrebbe portare una bella kipa ricamata, come la mia!"
Mi mostrò il suo zucchetto--trattenuto da una molletta sul cucuzzolo della testa--quasi fosse stato progettato apposta per lui da una modista di Parigi. Era sui venticinque anni, un giovane americano alto, dai capelli bruni, un bel ragazzotto in tuta da podista di cotone grigio, scarpe rosse da corsa, e la kipa ricamata. Segnava il passo, pur mentre parlava, saltellando sulle punte dei piedi, agitando le braccia come quelle di un pugile all'inizio della prima ripresa. Non sapevo come regolarmi.
"Dunque, sei un Lustig di West Orange," gli dissi.
"Sono Jimmy Ben-Joseph, Nathan! Lei ha un magnifico aspetto. 
Le foto sui suoi libri non le rendono giustizia. E un bellissimo uomo! Si è sposato da poco! Ha una nuova moglie! La numero 
quattro! Speriamo che funzioni, stavolta!" Mi misi a ridere. "Come mai sai tutto questo?"
"Sono il suo più grande ammiratore. So tutto su di lei. Scrivo anch'io. Ho scritto i Cinque Libri di Jimmy!"
"Non li ho letti."
"Non sono stati ancora pubblicati. Cosa fa qui, Nathan?"
"Visito i luoghi, e tu?"
"Stavo pregando che arrivasse lei. Stavo qui, al Muro del pianto, a pregare che lei arrivasse, ed è arrivato!"
"Okay, ora calmati, Jim."
Non riuscivo ancora a capire se fosse mezzo matto o completamente pazzo, o soltanto ribollente di energie, un ragazzo lontano da casa, un po' fanatico, che fa il buffone e si diverte un mondo. Ma siccome cominciavo a sospettare che fosse un po' di tutto questo, mi avviai verso la barriera e il tavolino ove avevo prelevato la yartnulke. Oltre i cancelli, sull'altro lato del piazzale, c'erano diversi tassì in attesa. Ne avrei preso uno per tornare all'albergo. Per simpatici che possano a volte riuscire quelli come Jimmy, essi danno, di solito, il meglio di sé nei primi tre minuti. Ne avevo attratti altri, in passato.
Lui non si mise esattamente a camminare con me, quando mi avviai, ma saltellando sulle punte, mi precedette di due passi, a marcia indietro. "Sono studente alla diaspora Yeshivah," mi spiegò.
"Non sapevo nemmeno che esistesse."
"Mai sentito nominare la diaspora Yeshivah? Si trova in cima al colle di Sion, lassù. Dovrebbe venirla a visitare. Anzi, venire per restarci. La diaspora Yeshivah è fatta apposta per quelli come lei. Da troppo tempo lei è lontano dal popolo ebraico!"
"Così mi dicono tutti. E tu, quanto intendi restarci?"
"Qui in Eretz Yisrael? Il resto dei miei giorni!"
"Da quanto tempo ci sei?"
"Da quasi due settimane."
Incastonati in quel viso sorprendentemente piccolo, dall'ossatura delicata, ulteriormente miniaturizzato da una stretta cornice di barba novella, i suoi occhi sembravano ancora in preda al travaglio della creazione, tremule bolle precarie in cima a una rovente eruzione.
"Sei in stato di sovreccitazione, Jimmy."
"Altroché! Sono su di giri, volo alto come un aquilone."
"Jimmy il Luftyid, l'ebreo d'alto volo."
"E lei? Cos'è lei, Nathan? Lo sa?"
"Io? A quanto pare un ebreo a terra. Dove hai fatto l'università, Jim?" "Alla Lafayette. A Easton, in Pennsylvania. Habitat di Larry Holmes. Ho studiato recitazione e giornalismo. Ma adesso sono tornato in seno al popolo ebraico. Non dovrebbe restarne estraneo, Nathan. Sarebbe un magnifico ebreo." Ridevo di nuovo; e lui pure. "Di', sei solo qui," gli chiesi,
"o con la tua ragazza?"
"No, macché ragazze. Il rabbino Greenspan mi troverà una moglie. Voglio otto figli. Solo una donna di qui può capirlo. Voglio una fidanzata religiosa. Crescete e moltiplicatevi." "Be', hai un nuovo nome, ti sta crescendo una barba nuova, il rabbino Greenspan ti sta cercando moglie... e abiti in cima al colle di Sion, la montagna di re David. A quanto pare è tutto a posto."
Sul tavolo presso la barriera--dove non c'era più nessuno adesso a far la questua per i poveri, semmai c'era stato - rimisi la yarrnulke nella scatola. Quando gli porsi la mano, Jimmy la prese, ma non per accomiatarsi, bensì per tenerla affettuosamente stretta fra le sue.
"Dove va? L'accompagno. Le mostrerò il colle di Sion, Nathan. 
Le presenterò il rabbino Greenspan."
"Ci ho già moglie--la numero quattro. Devo scappare," dissi, staccandomi da lui. "Shalom."
"Ma," mi gridò dietro, riprendendo a segnare vigorosamente il passo, "lo ha capito perché io l'amo e la rispetto così tanto?"
"No, veramente."
"Per come lei scrive del baseball. Per quelli che sono i suoi sentimenti riguardo al baseball! E' questo che manca, qui. Come possono esserci ebrei senza baseball? Lo chiedo al rabbino Greenspan ma lui non capisce. No, finché non ci sarà il baseball, in Israele, il Messia non verrà. Voglio giocare, Nathan, nella squadra dei Giganti di Gerusalemme, io!"
Salutandolo a cenni--e pensando chissà che sollievo sarà, per i Lustig di West Orange, ora che Jimmy è qui in Eretz Yisrael, e di lui si dà pensiero il rabbino Greenspan--gli gridai:
"Vai avanti così!"
"Senz'altro, se lo dice lei, Nathan!" e sotto la luce dei riflettori cominciò d'un tratto a correre - dapprima a marcia indietro, poi voltando a destra, e con la delicata faccia barbata di fresco volta in su, come per seguire la traiettoria d'una palla alta, proveniente dal vecchio quartiere ebraico, si diresse di nuovo verso il Muro del pianto, senza badare a chi o che cosa potesse intralciargli la strada. E con voce penetrante, che doveva esser molto apprezzata alla Società filodrammatica del college Lafayette, si mise a urlare: "Ben-Joseph non ce la fa--potrebbe non farcela--e sarebbe una tragedia per il Gerusalemme!" Poi,
a un metro dal Muro--e dai fedeli presso il Muro--Jimmy spiccò un balzo, spericolatamente, il lungo braccio sinistro teso in alto, al di sopra della kipa ricamata, si levò a mezz'aria. "Ben Joseph afferra la palla!" gridò, mentre alcuni degli oranti si voltavano indignati, a guardare chi fosse il disturbatore. Ma gli
altri, la maggior parte, erano tanto infervorati a pregare che neppure si voltarono; "Ben-Joseph afferra la palla!" egli gridò di nuovo, tenendo l'immaginaria palla nel cavo dell'immaginario guantone da baseball, e saltando ora a piè pari, dopo la fulminea presa al volo. "La partita è finita!" urlava Jimmy. "La stagione è finita! I Giganti di Gerusalemme hanno vinto il campionato! Il Messia sta arrivando!"
Venerdì mattina, dopo colazione, un tassì mi portò ad Agor, un viaggio di 45 minuti per bianche colline sassose a sud-est di Gerusalemme. Il tassista, un ebreo yemenita che capiva a malapena un po' d'inglese, ascoltava la radio guidando. A una ventina di minuti dalla città incontrammo un posto di blocco, sorvegliato da un paio di soldati con fucili: consisteva semplicemente d'un cavalletto, intorno al quale il tassista girò per proseguire la corsa tranquillamente. I soldati non sembravano intenzionati a fermare nessuno, neppure gli arabi con targhe della Cisgiordania. Un soldato scamiciato stava a prendere il sole sdraiato sulla proda del fosso; mentre l'altro, pure senza camicia, batteva il tempo col piede ascoltando una radiolina, seduto su una seggiola sul ciglio della strada. Ripensando ai soldati ciondoloni presso il Muro del pianto dissi, senza alcun motivo, tranne forse quello di udire la mia voce: "Un esercito che se la piglia comoda, il vostro. '
Il tassista annuì ed estrasse un portafogli di tasca. Rovistando con una mano, trovò una foto e me la mostrò: l'istantanea di un giovane soldato che, in ginocchio, guarda verso l'obiettivo, un ragazzo dall'aria intensa con grandi occhi scuri e, a giudicare dalla divisa stirata di fresco, il membro meglio vestito delle forze di difesa d'Israele. Tiene in mano l'arma come uno che sa usarla bene. "Mio figlio," disse il tassista.
"Molto simpatico," dissi io.
"Morto."
"Oh, mi dispiace."
"Uno tira una bomba. Lui non c'è più. Né le scarpe né niente. "
"Quanti anni aveva?" domandai, restituendo la foto. "Quanti anni, povero ragazzo?"
"Ucciso," rispose lui. "Non bene. Non lo rivedrò mai più, mio figlio."
Più oltre, a un centinaio di metri dalla strada tortuosa, incontrammo un accampamento beduino, in una vallicella fra due colli sassosi. La lunga tenda, marrone scuro, pezzata di nero, da distante più che un'abitazione sembrava una sfilza di vecchi cenci stesi a sciorinare al sole. A un certo punto ci dovemmo fermare perché un gregge di pecore, guidato da un ometto coi baffi, attraversava la strada. Era un pastore beduino che indossava un vecchio vestito marrone e, se mi rammentò Charlie Chaplin, non fu soltanto a causa del suo aspetto ma anche dell'apparente inanità della sua fatica: cosa trovassero da mangiare le pecore in quelle aride colline era un mistero per me.
Il tassista indicò uno stanziamento in cima alla collina successiva. Era Agor, il paese di Henry. C'era un alto recinto metallico sormontato da fili spinati, ma il cancello era aperto e la garitta della guardia deserta. Il tassì svoltò e imboccò una stradína in salita. Giungemmo a una baracca di lamiera ondulata. Un uomo con la fiamma ossidrica stava lavorando a un lungo tavolo, all'aperto, e dall'interno del capannone si udiva battere un martello.
Scesi dall'auto. "Sto cercando Henry Zuckerman." Quello attese che dicessi altro.
"Henry Zuckerman," ripetei. "Il dentista americano."
"Hanoch?"
"Henry," dissi. Poi: "Sì, certo--Hanoch."
Pensai: "Hanoch Zuckerman--Maria Zuckerman--il mondo è pieno di nuovi Zuckerman."
L'uomo indicò una fila di piccoli edifici in cemento armato, in cima alla stradina. Non c'era nient'altro, lassù: una collina brulla, polverosa, dove non cresceva niente. L'unica persona che si vedesse in giro era quell'uomo con la fiamma ossidrica, un individuo basso e muscoloso, con occhiali dalla montatura di latta e uno zucchetto sui capelli a spazzola. "Là," disse, brusco. 
"La scuola è lassù."
Dal capannone uscì una giovane donna robusta in tuta, con in testa un basco marrone. "Salve!" disse, sorridendomi. "Sono 
Daphna. Chi cerchi?"
Parlava con accento di New York e mi rammentò le ragazze cordiali che vedevo ballare, al suono di canzoni popolari ebraiche, alla Hillel House quando ero matricola a Chicago e andavo vagando la sera, le prime solitarie settimane, a cercar da scopare. Non mi sono mai avvicinato più di così, al sionismo, e quello costituì il massimo del mio "impegno ebraico" all'università. Quanto a Henry, il suo impegno consisteva nel giocare a pallacanestro per la confraternita ebraica, all'università Cornell.
"Hanoch Zuckerman," le risposi.
"E' alla ulpan. La scuola d'ebraico."
"Sei americana?"
La domanda l'offese. "Sono ebrea," mi rispose.
"Capisco. Dal tuo accento, direi che sei nativa di New York." "Sono ebrea di nascita," disse e, evidentemente satolla di me tornò dentro il capannone, dove i colpi di martello ripresero Henry/Hanoch era uno dei quindici studenti raccolti a semi cerchio intorno alla sedia dell'insegnante. Gli studenti stavano o seduti o sdraiati sulla terra brulla e perlopiù, come Henry, scrivevano su un quaderno mentre la maestra parlava in ebraico. Henry era il più vecchio--di almeno quindici anni--e forse era persino più anziano della maestra. A parte lui, sembrava un raduno di ragazzi alla scuola estiva che si godono la lezione al sole. I ragazzi, molti dei quali si facevano crescere la barba, portavano tutti vecchi jeans; anche le ragazze portavano jeans, perlopiù, tranne due o tre in gonna di cotone e blusa senza maniche: erano abbronzate e si vedeva che non si depilavano più sotto le ascelle. Il minareto di un villaggio arabo era chiaramente visibile appiè del colle, e tuttavia l'ulpan di Agor in dicembre avrebbe potuto essere benissimo Middlebury o Yale, un centro linguistico universitario in luglio.
Alcuni bottoni della camicia di flanella di Henry erano slacciati e si vedeva, sul suo torace, la cicatrice dell'operazione di by-pass. Dopo cinque mesi su quei torridi colli desertici somigliava al figlio del mio tassista yemenita; sembrava più il fratello di quel soldatino morto che non mio fratello. A vederlo così in forma e abbronzato, in calzoni corti e sandali, ripensai alle estati della nostra gioventù e a quel villino preso in affitto a Jersey Shore: ripensai a lui che mi seguiva, allora, dovunque andassi con gli amici: alla spiaggia, lungo il pontile di notte, dappertutto Henry ci veniva dietro, come la nostra adorante mascotte. Strano vedere ora quel secondogenito, che aveva sempre aspirato a emulare quelli più grandi di lui, tornato a scuola a quarant'anni. Ancor più strano, trovarlo in quella scuola lì, in cima a un colle donde si scorgeva il mar Morto e, più oltre, le montagne tutte crepacci di un regno desertico.
Pensai: "Sua figlia Ruthie ha ragione: lui è qui per imparare qualcosa, e non soltanto l'ebraico. Io ho fatto cose simili, lui no, mai prima d'ora; e questa è la sua occasione. La prima e forse l'ultima per lui. Non fare il fratello maggiore: non beccarlo dov'è vulnerabile, dove sempre sarà vulnerabile." "Lo ammiro," aveva detto Ruth, e anch'io in quel momento lo ammirai: anche perché la cosa era così bizzarra, infantile come Carol pensava che fosse, magari. Quando lo vidi là, in calzoncini corti, frammezzo a quei ragazzi, intento a scrivere su un quaderno, pensai che avrei dovuto girare sui tacchi e tornarmene a casa. Ruthie aveva ragione su tutto: aveva rinunciato a un bel po' di cose, per farsi tabula rasa così. Lascialo fare.
L'insegnante venne a stringermi la mano. "Sono Ronit." Al pari della donna di nome Daphna, giù al capannone, portava un basco scuro e parlava inglese americano: una bella donna, snella, dalle gambe e braccia lunghe, sulla trentina, dal naso prominente, ben cesellato, il pesante viso cosparso di efelidi, e scuri occhi intelligenti ancora fiduciosamente sfavillanti di precocità infantile. Non commisi stavolta l'errore di dirle che il suo accento 
era quello di una americana cresciuta a New York. Mi limitai a dire ciao.
"Hanoch ci ha detto iersera che saresti venuto. Devi restare, a festeggiare lo Shabbat. Abbiamo da ospitarti," disse Ronit. "Non sarà l'albergo Re David, ma credo che ci starai comodo. Siediti, unisciti a noi--sarebbe magnifico, se parlassi alla scolaresca."
"Ho solo voluto farmi vedere da Henry. Non voglio interrompere 
la lezione. Faccio un giro qui intorno finché non sarà finita. "
Da dove sedeva nel semicerchio di studenti, Henry alzò una mano. Sorridendo, sebbene con un'ombra di quel timido imbarazzo che non aveva mai superato con l'età, mi disse "Ciao", e anche questo mi rammentò la nostra infanzia, i tempi in cui, io che facevo parte dei grandi, lo vedevo passare, pel corridoio della scuola elementare, con i piccoli, per andare in palestra o al laboratorio o nell'aula di musica. "Ehi," gli sussurravano, "tuo fratello," e Henry mi lanciava sottovoce una specie di latrato: "Ciao," quindi rientrava nei ranghi, quasi come un animaletto che si rintana. Se l'era cavata brillantemente, a scuola, negli sport, poi nella professione, eppure aveva sempre avuto quel certo impaccio, quell'avversione a porsi in evidenza, il che ostacolava la realizzazione del suo sogno insopprimibile--risalente alle fantasie della puerizia--non soltanto di eccellere ma di essere un eroe più unico che raro. L'ammirazione che gli aveva dapprima fatto idolatrare ogni mia parola, e il risentimento che poi intervenne a scolorire, ancor prima ch'io pubblicassi Carnovsky, il naturale affetto derivante dal nostro legame infantile, si era nutrito, pare, della convinzione--ch'egli seguitò ad avere anche da grande, quando avrebbe dovuto saperla più lunga ch'io appartenessi a quella élite narcisistica che ha la capacità di pavoneggiarsi in pubblico e goderne, senza ambigui sensi di colpa.
"Per favore," disse Ronit, ridendo. "Mica capita spesso di accalappiare uno come te, in cima a un colle della Giudea!" Fece
cenno a uno dei ragazzi di andare a prendere una sedia di legno pieghevole e offrirmela. "Chiunque sia tanto pazzo da venire qui ad Agor," disse agli studenti, "noi lo mettiamo subito al lavoro " Cogliendo l'imbeccata da quel suo tono di scherzosa canzonatura, guardai Henry e mi strinsi nelle spalle con finta costernazione. Lui colse l'idea e scherzosamente ribatté: "Ti sopporteremo, se tu ci sopporti." Trasformai mentalmente il plurale in singolare e, ottenuto così il nullaosta del fratello nel cui rifugio mi trovavo--sia rifugio dal passato in comune con me sia da tutto ciò che aveva espurgato dalla propria vita--mi sedetti di fronte alla scolaresca.
La prima domanda fu posta da un ragazzo che parlava anche lui con accento americano. Forse erano tutti ebrei oriundi americani. 
"Conosce l'ebraico?" mi chiese.
"Tutto quello che so, di ebraico, sono le due parole che appresi 
per prime al Talmud Torah nel 1943." "E quali sono queste parole?" domandò Ronit.
"Una è yeled."
"Ragazzo. Benissimo," fece lei. "E l'altra?" "Yaldaw," dissi io.
Gli scolari risero.
" Yaldaw," disse Ronit, ridendo anche lei divertita dalla mia cattiva pronuncia. E mi corresse: "Yalda. Ragazza. Anche mio nonno lituano pronunciava yaldaw." "Yalda," ripetei io.
E lei, rivolta agli scolari: "Ora che pronuncia yalda correttamente possiamo cominciare a divertirci." Risero tutti di nuovo.
"Scusi," disse un ragazzo, sul cui mento spuntavano i primi peli di una barbetta, "ma chi è lei? Chi è costui?" domandò rivolto a Ronit. Non si divertiva affatto, quel ragazzo; avrà avuto sì e no diciassette anni, aveva il viso ancora non formato ma il corpo già grande e grosso come quello di un muratore. Dall'accento, era anche lui di New York. Portava la yarmulke spillata a una testa di folti capelli scuri, ribelli.
"Diglielo, per favore," disse Ronit a me, "chi sei." Indicai quello ch'essi chiamavano Hanoch e dissi: "Suo fratello."
"E con ciò?" disse il ragazzo, implacabile, arrabbiandosi.
"Perché dovremmo interrompere lo studio per starlo a sentire?" Un gemito teatrale si levò dagli scolari, e una ragazza, distesa in terra con la graziosa faccia puntellata fra le mani, disse, con voce comicamente calcolata a far capire che stavano insieme da troppo tempo e che, ormai, qualcuno cominciava a far diventare pazzi gli altri: "E' uno scrittore, lui, Jerry, ecco
perché."
"Quali sono le sue impressioni su Israele?" mi chiese una ragazza dall'accento britannico. Se non tutti americani, erano tutti di lingua madre inglese.
Sebbene mi trovassi in Israele da meno di ventiquattr'ore, alcune prime impressioni molto forti si erano già formate in me, a cominciare da Shuki, impressioni alimentate da quel poco che avevo appreso sul fratello trucidato, sulla moglie avvilita e su quel giovane pianista patriottico che adesso era sotto le armi. E naturalmente non avevo dimenticato il litigio per strada con il sefardita ai cui occhi Shuki Elchanan non era altro che un somaro ashkenazi; né potevo scordare il padre yemenita che mi aveva portato in tassì lì ad Agor, il quale, senza avere un linguaggio in comune con me per esprimersi tranne quello del dolore profondo, nondimeno, con eloquenza sacco-vanzettiana, mi aveva ermeticamente raccontato come suo figlio era stato cancellato dal mondo; né avevo dimenticato il fanatico di baseball campione dei Giganti di Gerusalemme, che aveva segnato un punto prezioso presso il Muro del pianto, con una spericolata home run: sarà un caso anomalo, questo Jimmy Ben-Joseph di West Orange, nel New Jersey, sarà un fricco, lui, oppure--come sostiene Shuki--questo paese sta diventando qualcosa come un'Australia americano-ebraica? Insomma, dozzine di tronche impressioni in contrasto fra loro già mi stuzzicavano, reclamando di venir capite, ma mi parve opportuno tenerle per me, fintanto che non avessi tratto delle somme. Non vedevo di certo alcun motivo per offendere qualcuno, ad Agor, riferendo le mie poco spirituali avventure presso il Muro del pianto. Che il Muro sia quel che è era chiaro persino a me. Non avrei mai pensato di negare la realtà di quell'enigma di pietre silenti ma gli incontri della sera avanti mi avevano dato la sensazione di avere, lo, un ruolo da comprimario - da "spalla", in quanto ebreo della diaspora in una qualche messinscena locale di teatro ebraico da strada, e non sapevo se una tale descrizione sarebbe stata compresa, lì, nello spirito corrispondente alle mie intenzioni. "Impressioni?" dissi. "Sono appena arrivato. Non ne ho ancora nessuna." "Era sionista da giovane?"
"Non ci fu mai abbastanza ebraico, yiddish e antisemitismo nella mia vita, da giovane, per far di me un sionista."
"Questo è il suo primo viaggio?"
"No. Fui qui vent'anni fa."
"Poi non è più tornato?"
Il modo in cui due giovani studenti risero a questa domanda mi indusse a chiedermi se non avessero voglia, anche loro, di far su i bagagli e tornarsene a casa. "Le cose non mi ci hanno riportato."
"Le cose"," disse il ragazzo grande e grosso che, indignato, aveva chiesto perché mi si dovesse star a sentire. "Non è voluto tornare, ecco quanto."
"Israele non era al centro dei miei pensieri, no." "Ma sarà andato, però, in altri paesi che non erano, fra virgolette, al centro."
Capii che poteva diventare, quello, se già non lo era, un dialogo ancor meno soddisfacente di quello che avevo avuto con il giovane chassid al Muro del pianto.
"Come può un ebreo," domandò lui, "visitare una sola volta la patria del suo popolo e poi, per venti anni, non..." L'interruppi prima che attaccasse veramente: "E' facile. E non sono io il solo."
"Mi chiedo, ecco, cosa c'è che non va in 'sta persona, sionista o no.
"Niente," dissi, piatto.
"E non si sgomenta, lei, al pensiero che il mondo intero vorrebbe vederlo annientato, questo paese?"
Alcune ragazze cominciarono a dimenarsi, a disagio di fronte a tanta aggressività, ma Ronit si sporse in avanti ansiosa di udire la mia risposta. Chissà, mi chiesi, se non sia in atto una congiura, qui--fra quel ragazzo e Ronit--includendo magari anche Hanoch.
"E' questo, che il mondo vorrebbe?" domandai, e intanto pensavo: anche se non c'è nessun complotto, se dovessi accettare l'invito a pernottare qui, domani sarebbe certo uno dei sabati più irrequieti della mia vita.
"Chi verserebbe una lacrima?" replicò il ragazzo. "Di certo, non un ebreo che, per vent'anni, nonostante i pericoli corsi dal popolo ebraico..."
"Senti," gli dissi, "confesso di non aver mai avuto il giusto spirito di casta e capisco il tuo parere su quelli come me: non mi è ignoto, infatti, un tale fanatismo."
Al che, quello balzò in piedi, furioso, puntando un dito. "Chiedo scusa! Che vuol dire fanatico? Anteporre il proprio egoismo al sionismo, questo sì che è da fanatici! Anteporre il tornaconto personale e il piacere personale alla sopravvivenza del popolo ebraico, questo è fanatismo! Chi è il fanatico, allora? L'ebreo della diaspora. Con tutto che i goyim gli fanno capire che, a loro, non gliene frega niente della sopravvivenza degli ebrei, l'ebreo della diaspora bada a crederli amici! E' convinto che nel loro paese lui stia al sicuro, e goda parità di diritti. Quello sì che è fanatico! Quell'ebreo che non impara mai niente! L'ebreo che se ne frega dello stato ebraico e della terra ebraica e della sopravvivenza del popolo ebreo. Fanaticamente ignorante, fanaticamente 
illuso, fanaticamente pieno di vergogna!"
Anch'io mi alzai, voltando la schiena a Jerry e compagni Henry e lo andiamo a fare due passi," dissi a Ronit. "Sono venuto, veramente, per parlare con lui."
Gli occhi di Ronit luccicavano ancora di appassionata curiosità. Jerry ha detto la sua--tu hai diritto adesso a una replica.
Era troppo da diffidenti credere che tanta ingenuità fosse finta e che lei mi pigliasse in giro? "Rinuncio a questo diritto," dissi E' giovane, spiegò lei.
"Io no."
"Ma i tuoi pensieri, per la scolaresca, sarebbero affascinanti. Molti di loro provengono da famiglie assimilazioniste. Il fatto che gli ebrei americani, che moltissimi ebrei nel mondo intero, non abbiano colto l'occasione di tornare a Sion è, per loro una fonte di continuo rovello interiore. Se tu..."
"Preferisco di no."
"Solo qualche parola sull'assimilazione..." Scossi il capo.
"L'assimilazione e i matrimoni misti," seguitò Ronit, "stanno dando luogo, in America, a un nuovo Olocausto: sul serio un Olocausto spirituale è in atto là, ed è una cosa non meno mortale di qualsiasi minaccia degli arabi allo stato di Israele Quello che Hitler non è riuscito a portare a termine nei lager lo stanno completando gli ebrei americani in camera da letto a proprio danno. Il 65 per cento degli studenti universitari ebrei americani sposano non-ebrei: il 65 per cento, dico, va perduto per sempre per il popolo ebraico! Prima ci fu lo sterminio duro adesso abbiamo lo sterminio morbido. E' per questo che i giovani studiano l'ebraico qui ad Agor: per sfuggire all'oblio, all'estinzione degli ebrei che ha luogo in America, per tenersi lontani da quei luoghi, nel tuo paese, dove gli ebrei stanno attuando un suicidio spirituale collettivo." "Capisco," fu tutto quello che risposi
"E non vuoi parlar loro di questo, per qualche minuto soltanto, fino all'ora di pranzo?"
"Non credo che le mie credenziali mi qualifichino per parlare di questo. Sono io stesso sposato con una non-ebrea " "Tanto meglio," ella disse, con un caldo sorriso. "Potranno parlare loro a te."
"No, no, grazie, è per parlare con Henry che sono venuto
Non lo vedevo da mesi."
Ronit mi prese sottobraccio, quando mi avviai, come un'amica cui dispiace vederti andar via. Sembrava che le fossi simpatico, nonostante le mie cattive credenziali; forse mio fratello fungeva da avvocato. "Però resterai per lo Shabbat," disse Ronit. "Mio marito è dovuto andare a Betlemme, oggi, ma desidera vederti, stasera. Ci tiene. Tu e Hanoch verrete a cena da noi."
"Vedremo come si mettono le cose."
"No, no, verrete senz'altro. Henry te l'avrà detto: sono diventati grandi amici, lui e mio marito. Si somigliano molto: due
uomini forti e appassionati."
Suo marito era Mordecai Lippman.
Fin dal momento in cui ci avviammo lungo il sentiero in pendìo che portava alle due lunghe strade non selciate che costituivano il quartiere residenziale di Agor, Henry cominciò a mettere in chiaro che non ci saremmo seduti da qualche parte all'ombra per ingaggiare una profonda discussione al fine di stabilire se aveva fatto bene o no a cogliere l'occasione per tornare a Sion. Non era più tanto cordiale quanto m'era sembrato allorché ero comparso poco prima davanti alla scolaresca. Anzi, non appena soli, si fece lagnoso. Non aveva intenzione, mi disse, di sentirsi sgridare da me e non avrebbe tollerato un mio tentativo di contestare la sua decisione o indagarne i motivi. Avrebbe parlato di Agor, se ci tenevo a sapere cosa quel luogo significasse, avrebbe parlato del fenomeno degli stanziamenti, sue radici e sua ideologia, e di quello che i coloni erano decisi a ottenere, avrebbe parlato dei mutamenti avvenuti nel paese da quando Begin era al potere, ma, quanto a quel rovistare nell'anima, quel rovello psicanalitico di stile americano in cui i personaggi dei miei romanzi si crogiolavano per pagine e pagine, ebbene, quella era per lui una forma di morboso esibizionismo e infantile autodrammatizzazione che, per fortuna, apparteneva al "passato narcisistico". La vecchia vita piena di problemi personali, astorici, gli sembrava adesso, in modo imbarazzante, disgustosamente e indicibilmente meschina.
Nel parlarmi così, si era riscaldato più di quanto i concetti espressi non richiedessero, tanto più che io non avevo finora aperto bocca. Era uno di quei discorsi che uno prepara per ore e li declama a se stesso a letto quando non riesce a dormire. I sorrisi, su alla ulpan, erano per la comitiva. Henry era di nuovo adesso, I'uomo malfidente con cui avevo parlato al telefono la sera avanti.
"D'accordo," dissi. "Niente psicanalisi."
Ancora all'offensiva, lui disse: "E non fare il condiscendente, con me." "E tu non denigrare i miei personaggi che si crogiolano. Inoltre, non direi che la condiscendenza sia stata, almeno quest'oggi, 
il mio cavallo di battaglia. Non mi sono mostrato condiscendente neanche con quel ragazzino tuo compagno di classe. Mi ha aggredito, quel cazzoncello, in pieno giorno." Qui Si usa così, Si parla franco: prendere o lasciare. E non fare sarcasmi di merda sul mio nome."
"Calma. Chiunque può chiamarti come gli pare, per quel che mi concerne."
"Ancora non capisci. Lascia stare me, al diavolo me. Me è uno che mi sono scordato. Me non esiste più, qui. Non c'è tempo per me, non c'è bisogno di me: qui conta la Giudea e basta." Il suo programma era di andare a pranzo a Hebron, la città araba, a venti minuti di macchina se si prendeva una scorciatoia fra le colline. Potevamo usare l'auto di Lippman Mordecai e quattro altri coloni erano andati in camion a Betlemme Erano scoppiati, colà, nelle ultime settimane, dei disordini fra gli arabi del posto e gli ebrei di un piccolo stanziamento di recente fondato su un colle fuori della cittadina. Due giorni addietro, erano stati scagliati dei sassi contro uno scuolabus carico di bambini dello stanziamento, sicché coloni d'ogni parte della Giudea e della Samaria, organizzati e guidati da Mordecai Lippman, erano andati a distribuire volantini al mercato di Betlemme. Se non fossi venuto io, Henry avrebbe marinato la scuola per andare con loro.
"Cosa dicono quei volantini?" domandai
"Dicono: 'Perché non cercate di vivere in pace con noi? Non vogliamo farvi alcun male. Solo pochi fra voi sono estremisti violenti. Per il resto siete amanti della pace e credete, come noi che ebrei e arabi possono vivere in armonia.' Questo è il concetto generale."
"Il concetto generale sembra alquanto benigno. Come devono interpretarlo gli arabi"
"Alla lettera: non vogliamo far loro alcun male."
Non "me", "noi". Il "me" di Henry era andato a farsi friggere. Passeremo pel paese: è giù di qua. Vedrai come gli arabi che lo vogliono possono vivere in pace, a fianco a fianco, a distanza di poche centinaia di metri. Loro vengono da noi a comprare le uova. Le galline troppo vecchie per fare uova, gliele vendiamo per quattro soldi. Questo luogo può esser la patria di tutti. Ma se la violenza contro gli scolaretti ebrei continuasse, verrebbero prese misure atte a fermarla. L'esercito potrebbe piombar là domani stesso, estirpare i facinorosi, e le sassaiole cesserebbero entro cinque minuti. Ma no, niente. Loro tirano pietre persino ai soldati. E se il soldato non reagisce, lo sai cosa pensano gli arabi? Ti prendono per schmuck--e tu sei uno
schmuck. In qualsiasi altro posto, in Medio Oriente, tiri un sasso 
a un soldato, che succede? Ti spara. Invece lì a Betlemme hanno scoperto che puoi tirare sassate ai soldati d'Israele e quelli non ti sparano. Non fanno niente. Ed è qui che cominciano i guai. Non perché noi siamo crudeli ma perché loro hanno scoperto che siamo deboli. Tocca fare, qui, delle cose non tanto gradevoli. Non rispettano le buone maniere, e non rispettano la debolezza. Gli arabi rispettano solo il potere." Non "me" ma "noi", non le buone maniere ma il potere. Attesi presso la ammaccata Ford parcheggiata sulla strada di terra battuta accanto alla casa di Lippman, una di quelle case in cemento armato che, da distante, sembravano scatolette o bunker. Da vicino, stentavi a credere che la vita lì dentro potesse essere assai lontana dallo stadio embrionale dello sviluppo umano. Ogni cosa, incluso il mucchio di terriccio di recente scaricato in ciascuno dei sassosi, aridi giardini, denunciava un mondo agli inizi. Due, forse anche tre di quelle dimore avrebbero potuto venir stipate senza difficoltà nello scantinato della vasta casa in legno di cedro e cristallo costruita da Henry anni addietro su un colle boscoso di South Orange.
Quando uscì dalla casa di Lippman, Henry aveva le chiavi dell'auto in una mano e nell'altra una pistola. La mise nel vano del cruscotto e avviò il motore.
"Cerco," gli dissi, "di prendere le cose per il loro verso, ma occorre un riserbo sovrumano per non fare un commento di quelli che ti mandano in bestia. Nondimeno, è alquanto sorprendente, per me, fare un giro in macchina con te e una pistola. "
"Lo so. Non è così che siamo stati allevati. Ma non è una malvagia idea, portarsi la pistola, quando si va a Hebron. Se incappi in una dimostrazione, se ti circondano l'automobile e cominciano a tirare sassi, perlomeno hai un certo potere contrattuale. Senti, vedrai un sacco di cose che ti stupiranno. Stupiscono anche me. Lo sai cos'è che mi stupisce ancor più di quello che son riuscito a fare qui in cinque mesi? Quel che avevo imparato a fare, là, in quarant'anni. A fare e a essere. Rabbrividisco quando penso a com'ero. Mi guardo alle spalle e non riesco a crederci. Mi viene il voltastomaco. Mi vien voglia di andarmi a nascondere, quando penso al motivo per cui sono finito qui."
"Cioè?"
"Lo sai bene, c'eri anche tu. Hai sentito. Lo sai per quale motivo ho rischiato la vita. Perché mi son fatto operare. Per chi. Per quella ragazzina secca secca, allo studio. Ecco per che cosa ero pronto a morire. Ecco per che cosa vivevo." "Cioè, era una parte della tua vita. Perché no? Perdere la potenza sessuale a trentanove anni non è un'esperienza da poco, non è ordinaria amministrazione. La vita è stata dura con te " "Non capisci. Sto parlando della mia piccineria. Parlo di quanto c'era di grottesco nella mia vita "
Fu solo diverse ore più tardi--dopo essere stati al mercato di Hebron e nel vicino uliveto, dove sono le tombe dei martiri ebrei, e poi al sepolcreto dei patriarchi, che riuscii a farlo parlare ancora della vita grottesca da lui abbandonata. Stavamo pranzando all'aperto, sul terrazzo di una piccola trattoria alle porte di Hebron. La famiglia araba che gestiva il locale non avrebbe potuto essere più accogliente; anzi, il trattore, nel ricevere le ordinazioni in inglese, diede a Henry del "dottore" con fare rispettoso. Era ormai tardi e, a parte due giovani coniugi arabi coi loro bambini a un tavolo d'angolo, non c'era alcun altro avventore. Henry, per mettersi comodo, appese la giacca alla spalliera della seggiola, la pistola in tasca. In tasca l'aveva portata durante il nostro giro per Hebron. Nel mercato affollato, mi indicava, da cicerone, l'abbondanza di frutta, verdura, polli, dolciumi, mentre io non facevo che pensare a quella pistola e al famoso principio di Cechov, per cui una pistola appesa al muro nel primo atto dovrà sparare all'atto terzo. Mi chiedevo a che atto ci trovassimo, per non dire in che commedia--o tragedia --dramma o farsa. Non ero neanche sicuro che la pistola fosse strettamente necessaria, forse Henry non voleva che porre in risalto nella maniera più drastica quant'era lontano, lui, dal bravo ragazzo ebreo ch'era stato in America: la pistola era dunque il simbolo stupefacente del complesso di scelte mediante le quali egli si sbarazzava dell'antica vergogna. "Qui ci sono gli arabi," mi aveva detto al mercato, "e dov'è il giogo? Vedi un giogo sul collo a qualcuno? Vedi un soldato che minaccia chicchessia? Non vedi neanche l'ombra di un soldato. No, vedi soltanto un prospero bazar orientale. E perché questo? Per via della brutale occupazione militare?"
L'unico segno di presenza militare che avessi visto era una piccola installazione a un centinaio di metri dal mercato, dove Henry aveva lasciato la macchina. Di là dai cancelli, dei soldati israeliani pigliavano a calci un pallone nello spiazzo dov'eran parcheggiati i camion, ma, come Henry aveva sottolineato, non c'erano militari al mercato, solo bancarellari arabi, compratori arabi, dozzine di bambini arabi, qualche adolescente arabo tutt'altro che cordiale, un bel po' di polvere, vari muli, alcuni mendicanti e i due figli del dottor Victor Zuckerman, Nathan e Hanoch, quest'ultimo con una pistola carica indosso, le cui implicazioni avevano cominciato ad ossessionare il fratello. E se quello cui spara fossi io? Se fosse questa l'atroce sorpresa dell'atto terzo? I dissapori fra gli Zuckerman sfociano nel sangue, come se la nostra famiglia fosse quella di Agamennone?
A pranzo attaccai con quel che non poteva considerarsi né una rimostranza né una sfida, dato il suo entusiasmo per l'antichità di un muro che aveva voluto mostrarmi presso la Grotta Machpelah. Quanto era sacro, gli chiesi, quel muro per lui? "Metti che tutto sia come affermi," dissi. "A Hebron Abramo innalzò la sua tenda. Nella grotta di Machpelah lui e Sara furono sepolti, e dopo di loro Isacco, Giacobbe e le loro mogli. E' qui che re David regnò prima di entrare in Gerusalemme. Che cos'ha tutto questo a che fare con te?"
"E' qui che si fonda la pretesa," egli disse. "Questo è quanto. Non è a caso, sai, che noi siamo chiamati Jews, giudei, e questo luogo si chiama Giudea: deve pur esserci una relazione, fra queste due cose. Noi siamo giudei, questa è la Giudea, e nel cuore della Giudea c'è la città di Abramo, Hebron." "Ciò lascia irrisolto l'enigma dell'identificazione di Henry
Zuckerman con la città di Abramo."
"Non capisci. E' qui che gli ebrei ebbero inizio, non a Tel
Aviv ma qui. Se qualcosa è territorialismo, se alcunché è colonialismo, lo è Tel Aviv, lo è HaiíJ. Questo è giudaismo, questo e sionismo, qui, proprio qui dove stiamo pranzando!"
"In altre parole, non è cominciato tutto in quella casa di Hunterdon 
Street dove abitavano i nonni. Non è cominciato con la nonna in ginocchio che lustra i pavimenti e il nonno che puzza di sigaro. Gli ebrei non hanno avuto inizio a Newarkl".
"Il celebre dono della satira riduttiva."
"Dici? Può darsi che quello che hai sviluppato in questi cinque mesi denoti il dono dell'esagerazione."
"Non credo che la parte svolta dalla Bibbia ebraica nella storia del mondo debba molto a me e alle mie illusioni." "Pensavo piuttosto alla parte che hai assegnato, pare, a te stesso nell'epica tribale. Preghi, anche?" "Non è argomento di discussione, questo."
"Dunque preghi."
Seccato dalla mia insistenza, domandò: "Che c'è di male nella preghiera? C'è forse qualcosa di male?"
"Quand'è che preghi?"
"Prima di addormentarmi."
"Cosa dici?"
"Quello che gli ebrei dicono da migliaia di anni. Recito lo
Shema Yisrael."
"E alla mattina--tefillin?"
"Un giorno, forse. Non ancora."
"E osservi il sabato."
"Senti, mi rendo conto che qui siamo fuori del tuo elemento. 
Mi rendo conto che, ascoltando questo, non provo altro che
il divertito sdegno dell'ebreo alla moda, "obiettivo", post-assimilato. 
Mi rendo conto che sei troppo 'illuminato' per credere in
Dio e che tutto ciò è chiaramente, per te, uno scherzo."
"Non esser tanto sicuro riguardo a ciò che per me è uno scherzo. Se ho delle domande da farti, alle quali vorrei che tu rispondessi, è perché sei mesi fa avevo un fratello ben diverso." "E facevo la vita di Riley--la vita del beato riccone--nel
New Jersey."
"Suvvia, Henry, non c'è una cosa come 'la vita di Riley' né nel New Jersey né da alcun'altra parte. L'America è anche un luogo dove si muore, dove si fallisce, dove la vita è interessante e tesa, e mai priva di conflitti."
"Ma la mia vita era pur sempre la vita di Riley. In America, il massacro del giudaismo di tuo fratello non avrebbe potuto essere più completo."
"Massacro? Dove l'hai presa, 'sta parola? Vivevi, tu, come quelli del tuo ambiente. Accettavi il patto sociale in vigore." "Tranne che questo patto era abnorme, completamente." Normale e abnorme: in Israele da ventiquattr'ore, ed ecco di nuovo questa contrapposizione.
"Come mai m'è venuto il mal di cuore?" mi chiese Henry.
"Cinque arterie coronarie occluse in un uomo sotto i quarant'anni. Che sorta di stress credi che l'abbia causato? Lo stress di una vita 'normale'?"
"Carol per moglie, dentista di professione, la casa a South Orange, figli perbene che frequentano scuole private... l'amichetta per soprammercato. Se non è normalità questa..." "Tutto per i goyim. Si camuffa ogni caratteristica ebraica, la si nasconde dietro la rispettabilità goy. Tutto viene da loro, tutto si fa per loro."
"Henr, cammino per Hebron e li vedo, loro, che imperversano. Ch'io ricordi, intorno a casa tua non vedevo altro che ebrei abbienti, come te, e nessuno in giro armato di pistola." "Ma certo: abbienti, prosperi, comodi, ebrei ellenizzati-ebrei galut--senza un ambiente in cui poter essere ebrei." "E credi sia stato questo a farti ammalare? L'ellenizzazione"? Non ha mica rovinato, mi pare, la vita ad Aristotele. Che diavolo vuol dire, poi?"
"Ellenizzato--edonisticizzato--egomaniacalizzato. La mia intera esistenza era la malattia. M'è andata bene, che mi s'è ammalato solo il cuore. Malato di autodistorsione, autocontorcimento, malato di autodissimulazione: immerso fino alle palle degli occhi nell'insignificanza."
Prima era la vita di Riley, ora non era altro che una malattia.
"Tutto questo, provavi?"
"Io? Ero tanto convenzionalizzato che non provavo nulla. Wendy. Perfetto. Ti 'shtuppi" I'infermiera. Pompini in studio, travolgente passione d'una vita completamente superficiale. Prima, ancora meglio: Basilea. Classico. Il maschio ebreo che idolatra la shiksa; che sogna la Svizzera con la shiksa del suo cuore.
Il sogno d'evasione originale dell'ebreo."
Mentre parlava, io pensavo: storie in cui la gente trasforma la propria vita, vite in cui la gente trasforma la propria storia. Nel New Jersey, lui addebitava lo stress sfociato nella malattia cardiaca all'umiliante mancanza di coraggio che gli aveva impedito di lasciare South Orange per Basilea; qui in Giudea la sua diagnosi è tutta l'opposto: attribuisce la malattia alle insidiose tensioni determinate dall'anormalità della diaspora che si manifestano esemplarmente nel "sogno originale d'evasione dell'ebreo... 
Fuggire in Svizzera con la shiksa del cuore."
Mentre tornavamo ad Agor onde esser là in tempo per prepararsi allo Shabbat, tentai di stabilire se Henry, non certo cresciuto in una Vienna del Nuovo Mondo, potesse effettivamente aver assimilato un'autoanalisi che a me sembrava consistere in luoghi comuni desunti da un manuale fin-de-siècle sull'ideologia sionista e che non aveva nulla a che fare con lui. Quando mai Henry Zuckerman, cresciuto in seno all'ambizioso ceto medio ebraico, laureato come tanti bravi ragazzi ebrei alla Cornell, sposato a una donna fedele e comprensiva, ebrea laica al pari di lui, annidato in un attraente suburbio signorile, ebraico; un ebreo che non aveva mai conosciuto le intimidazioni dell'antisemitismo; quando mai costui aveva preso in considerazione le aspettative di coloro che adesso chiamava con dileggio "i goyim"? Se, nella vita precedente, aveva compiuto imprese per "far vedere chi era lui" a qualcuno paurosamente forte e sottilmente minaccioso, non credo, certo, che avesse in mente l'onnipotente goy. La sua rivolta contro le grottesche deformazioni dello spirito subite dal galut, dall'ebreo esule, non era forse una tardiva ribellione contro l'idea di virilità imposta, a un figlio docile e coscienzioso, da un padre dogmatico, ultraconvenzionale? In tal caso, onde rovesciare le diuturne aspettative paterne, egli s era fatto schiavo di una possente autorità ebraica assai più rigida e soggiogante di quella che persino l'onnipresente Victor Zuckerman mai avrebbe avuto il coraggio di impersonare. Può darsi però che la via per arrivare a capire la sua pistola fosse più semplice di così. Di tutto quel che aveva detto a pranzo l'unica parola che mi era suonata veramente convinta era Wendy' . Due volte, in poche ore, aveva accennato alla sua assistente di studio, in tono di incredulità e rammarico perché
era per lei che aveva rischiato la vita. Forse, pensai, sta facendo penitenza. Certo, studiare ebraico in una ulpan fra i colli desertici della Giudea costituiva una forma piuttosto novella di castigo per essere assolto dal peccato d'adulterio; ma d'altronde non aveva, lui, scelto anche di subire la più rischiosa delle chirurgie al fine di godersi Wendy mezz'ora al giorno? Forse questo non era altro che l'adeguatamente assurdo dénouement di quel bizzarro sovraccarico dramma.
Oppure tutta la faccenda era una copertura, per l'abbandono del tetto coniugale? Oggi chiunque può dire: "Temo che fra noi sia finita, ho trovato il vero amore." Per mio fratello, invece-per il figlio migliore di nostro padre--non c'era modo e maniera di rompere un matrimonio nel 1978, se non in nome del giudaismo: "Non è da ebrei venire qui, Henry, per diventare ebreo. E' da ebrei pensare che, per poter piantare Carol, I'unica scusa sia venire qui." Ma non glielo dissi, no, dal momento che aveva quella pistola carica.
Ero ossessionato da quella pistola.
In cima al colle, alle porte di Agor, Henry fermò la macchina sul ciglio della .rada e uscì per guardare il panorama. Nel crepuscolo, il paesino arabo appiè dello stanziamento ebraico non appariva affatto brullo e tetro come pochi minuti prima, quando ne percorrevamo la strada principale deserta. Il tramonto dava un che di pittoresco persino a quell'agglomerato di tuguri. Quanto al paesaggio circostante, capivi, specialmente in quella luce, come si potesse aver l'impressione che fosse stato creato in sette giorni soltanto, laddove in Inghilterra diresti che la campagna è opera di un Dio che sia tornato tre o quattro volte a migliorare la sua creazione per renderla perfettamente abitabile da uomini e bestie d'ogni sorta. La Giudea invece era stata fatta e lasciata così; quella regione avrebbe potuto essere su una luna in cui gli ebrei fossero stati sadicamente esiliati dai loro peggiori nemici, piuttosto che il luogo che essi appassionatamente consideravano loro e di nessun altro dai tempi dei tempi. Quello che Henry trova in questo paesaggio--pensai--è il correlativo del se stesso ch'egli oggi preferirebbe sentirsi: l'indomito e rozzo pioniere con la pistola al fianco.
S'intende, lui poteva pensare lo stesso di me, cioè di uno che è andato a vivere in un paese dove ogni cosa è al suo posto, dove il paesaggio è stato coltivato tanto a lungo e la densità della popolazione è tanto elevata che la natura non reclamerà mai né l'uno né l'altra, di nuovo; uno che vive nell'ambiente ideale per chi cerca l'ordine domestico e, già in là con gli anni, aspira a rinnovare la propria vita, in misura modesta ma soddisfacente. Invece in quel paesaggio appena abbozzato, quasi oltremondano, che al tramonto faceva pensare teatralmente a un Significato Fuori del Tempo, uno poteva pure immaginare per sé una palingenesi smisurata, su vastissima scala, un rinnovamento su scala leggendaria, la scala dell'eroismo mitico
Stavo per dirgli qualcosa di conciliante, qualcosa sulla spettacolare austerità di quel mare di basse colline sassose e sull'influenza trasformatoria che doveva esercitare sull'animo di un nuovo venuto, quando Henry disse: "Ridono, gli arabi, perché noi costruiamo quassù. D'inverno si è esposti al vento e al gelo in estate al sole e alla calura, mentre laggiù loro sono protetti dal maltempo peggiore. Ma," soggiunse, indicando il sud con un gesto, chi controlla questa collina controlla il Negev." Poi indicò verso ovest, dove i colli avevano sedici diverse sfumature di violetto e il sole stava morendo. "Si può bombardare Gerusalemme, da quassù," mi disse Henry, mentr'io pensavo: Wendy, Carol, nostro padre, i suoi figlioli.
L'aspetto esteriore stesso di Lippman sembrava perorare la causa dello scontro frontale. I suoi occhi a mandorla, distanziati, un po' protuberanti, sebbene d'un soave colore azzurro, proclamavano senza mezzi termini: ALTOLA'; il naso gli era stato sfranto da qualcosa--o meglio da qualcuno--che avesse tentato invano di dare l'altolà a lui. Una gamba gli era stata maciullata durante la guerra del '67 quando, comandante di parà, aveva perso due terzi della sua compagnia nella battaglia per la conquista di Gerusalemme in mano ai giordani. (Henry mi aveva descritto, con impressionanti dettagli militari, I'assalto al "Colle delle Munizioni", mentre si tornava da Hebron.) A causa della ferita Lippman camminava come se, a ogni passo, stesse per saltarti addosso: poi il torso lentamente affondava entro la gamba menomata e lui sembrava uno che si sta squagliando. Faceva pensare a una tenda da circo che sta per afflosciarsi una volta tolto il palo centrale di sostegno. Aspettavo ii tonfo, ma lui niente, seguitava ad avanzare. Era più basso sia di Henry sia di me, tuttavia la sua faccia aveva quella sardonica mobilità che Si acquista a furia di guardare nobilmente dall'alto in basso l'illusa umanità, dal cucuzzolo della Dura Verità. Quand'era rientrato, in polverosi stivaletti militari e una vecchia sudicia giubba da campagna, da Betlemme, dove i coloni da lui organizzati avevano distribuito volantini al mercato, sembrava uno che torna dalla linea del fuoco. Fa apposta, pensai, a darsi quest'aria da combattente; tranne che non aveva elmetto o, piuttosto, a proteggerlo era lo zucchetto, un kipa ricamato, che galleggiava sui suoi capelli come un battellino di salvataggio. Quei capelli erano un altro dramma: il tipo di capelli per i quali il nemico ti agguanta la testa, dopo averla spiccata dal busto: un groviglio di sconvolti crini, già d'un canuto patriarcale, benché Lippman non potesse aver superato di molto la cinquantina. A me sembrò, fin dal primo momento che lo vidi, simile a un maestoso Harpo Marx: Harpo nei panni di Annibale ma, come non avrei tardato a scoprire, tutt'altro che muto.
La tavola era leggiadramente apparecchiata, con tovaglia bianca di pizzo. Si trovava in una piccola stanza di soggiorno, attigua alla cucina, foderata fino al soffitto di scaffali gremiti di libri. Si doveva essere in otto a cena: Lippman, sua moglie (e maestra d'ebraico) Ronit, e i loro due figli, una femmina di otto e un maschio di quindici anni (il quale era già un provetto tiratore e faceva ginnastica ogni giorno per accedere a un corso speciale per guastatori quando fosse andato sotto le armi di lì a tre anni) e poi i vicini di casa, che avevo già incontrato al mio arrivo: il metallurgico, a nome Buki, e sua moglie Daphna, la donna che mi aveva detto di essere ebrea "per nascita"; e infine i due Zuckerman.
Lippman, dopo fatta la doccia, si era vestito per l'occasione esattamente come Henry e il metallurgico: camicia chiara di bucato e pantaloni di cotone scuro. Ronit e Daphna, che durante il giorno portavano il basco, avevano adesso i capelli raccolti in bianchi fazzoletti, e anch'esse si erano messe abiti freschi per la festa del sabato. Gli uomini portavano zucchetti di velluto: a me ne fu cerimoniosamente consegnato uno appena entrato in casa. Mentre si attendevano i vicini, e mentre Henry giocava come un bravo zio con i figli dei Lippman, Lippman scovò per me, fra i suoi libri, traduzioni tedesche da Dante, Shakespeare e Cervantes, libri che eran stati portati lì da Berlino, negli anni trenta, quando i suoi genitori erano scappati in Palestina. Anche se il suo uditorio era formato da una sola persona, lui non lesinava effetti oratori, con la sfacciataggine di un qualche leggendario avvocato nelle cui arringhe si alternano astutamente dei reboanti crescendo e degli insinuanti diminuendo allo scopo di agitare le emozioni dei giurati.
"Quando frequentavo il ginnasio-liceo nella Germania nazista, avrei mai potuto immaginare che un giorno mi sarei trovato, con la mia famigliola, in casa mia nella Giudea, a celebrare insieme lo Shabbat? Chi avrebbe mai creduto possibile una cosa simile sotto il nazismo? Ebrei in Giudea? Ebrei di nuovo a Hebron? Dicono lo stesso, oggi, a Tel Aviv. Se gli ebrei osassero stabilirsi in Giudea, la terra cesserebbe di ruotare sul suo asse. Ma ha smesso, la terra di ruotare sul suo asse? Ha smesso forse di ruotare intorno al sole poiché gli ebrei sono tornati a vivere nella loro patria biblica? Nulla è impossibile. L'ebreo deve solo decidere una cosa: cosa vuole; dopodiché si darà da fare per averla. 
Non può essere stanco, non può battere la fiacca, non può andare a piagnucolare in giro a dire: 'Dategli tutto quello che vogliono, agli arabi, purché non ci diano noia." Poiché gli arabi piglieranno quello che gli si dà, ma poi seguiteranno a farci la guerra, e invece di meno fastidi, ce ne saranno di più. Hanoch mi ha detto che tu eri a Tel Aviv. Hai avuto modo di parlare alle nostre anime belle--tutti quei cari e buoni che voglion essere umanitari a tutti i costi? Umanitari! Hanno paura di ciò che, per sopravvivere in una giungla, è necessario. Questa è una giungla, con lupi tutt'intorno! Abbiamo gente debole, qui, rammolliti, che preferiscono chiamarla 'moralità ebraica", la loro vigliaccheria. Ebbene, li si lasci praticare la loro moralità ebraica e ci porteranno alla rovina. Poi, te l'assicuro, il mondo sentenzierà che gli ebrei l'hanno voluta, di nuovo, sono di nuovo colpevoli- -colpevoli di un secondo Olocausto come già lo furono del primo. Ma non ve ne saranno più, di Olocausti. Non siamo venuti qui a scavare fosse. Ne abbiamo avuti abbastanza, di cimiteri. Siamo venuti qui per vivere, non per morire. Con chi hai parlato, a Tel Aviv?"
"Con un amico. Shuki Elchanan."
"Il nostro grande giornalista intellettuale. S'intende. Tutte ad uso e consumo dell'Occidente, le cose che scrive quel pennivendolo. Ogni sua parola è veleno. Qualunque cosa scriva, tiene un occhio su Parigi e l'altro su New York. Lo sai qual è la mia speranza? Il mio sogno supremo? Di metter su, in questo stanziamento, quando ne avremo i mezzi, emulando il museo delle cere di Madame Tussaud, un Museo dell'Odio degli Ebrei Verso Se Stessi. Temo solo che non avremo abbastanza spazio per le statue di tutti i vari Shuki Elchanan che sanno solo condannare Israele e versar lacrime per gli arabi. Patiscono tutte le pene, costoro, patiscono tutte le pene, e poi cedono: non solo vogliono non vincere, non soltanto preferiscono perdere, vogliono soprattutto perdere alla maniera giusta, da ebrei! Un ebreo che perora la causa degli arabi! Lo sai cosa ne pensa l'arabo di costui? 'E' un pazzo o un traditore? Cosa c'è che non funziona, in quell'uomo?' Pensano che sia un segno di tradimento, e dicono: "Perché dovrebbe perorare la nostra causa? Noi non peroriamo mica la sua!" A Damasco, neppure un mentecatto si sognerebbe di immedesimarsi negli ebrei. L'Islam non è una civiltà dedita al dubbio, come quella dell'ebreo ellenizzato. L'ebreo dà sempre la colpa a se stesso, per quello che avviene al Cairo. Biasima se stesso per quello che succede a Bagdad. Ma a Bagdad, credi a me, non danno mica la colpa a se stessi per quello che succede a Gerusalemme. La loro non è una cultura del dubbio, ma una cultura della certezza. L'Islam non è appestato 
da anime belle che vogliono essere certe di non fare mai le cose sbagliate; l'Islam vuole una cosa soltanto: vincere, trionfare, estirpare il cancro di Israele dal corpo dell'Islam. Il signor Shuki Elchanan è uno che vive in un Medio Oriente che, purtroppo, non esiste. Il signor Shuki Elchanan vuole che noi si firmi un pezzo di carta e si restituisca tutto? No! Sarà la storia, sarà la realtà a fare il futuro, non saranno dei pezzi di carta! Questo è il Medio Oriente, questi sono gli arabi: i pezzi di carta non servono. Non si possono fare patti sulla carta con gli arabi. Oggi a Betlemme un arabo mi diceva che sogna di tornare a Giaffa, lui, un giorno. I siriani lo hanno convinto: tieni duro, bada a tirare sassi agli scuolabus ebraici, e tutto quanto un giorno sarà tuo: tornerai al tuo paesino vicino a Giaffa, e avrai tutto quello che desideri, per giunta. Questo mi diceva, quell'uomo: che tornerà, anche se gli ci vorranno i duemila anni che ci sono voluti agli ebrei. E lo sai cosa gli ho detto, io? Gli ho detto: 'Lo rispetto, l'arabo che rivuole Giaffa". Gli fo: 'Non rinunciare al tuo sogno; sogna Giaffa, dài; e un giorno, appena potrai, anche se ci saranno cento pezzi di carta, me la toglierai con la forza." Perché non è così umanitario, questo arabo che tira sassate a Betlemme, come il tuo signor Shuki Elchanan che scrive articoli a Tel Aviv per uso e consumo dell'Occidente. L'arabo attende finché è convinto che siamo deboli, poi straccia il pezzo di carta e attacca. Mi dispiace, se t'ho deluso, ma non ho, io, pensierini garbati come quelli del signor Shuki Elchanan e di tutti gli ebrei ellenizzati di Tel Aviv, con idee europee. Il signor Shuki Elchanan ha paura di esser lui a comandare, lui a far da padrone. Perché? Perché vuole l'approvazione del goy. A me invece non interessa l'approvazione del goy: a me preme la sopravvivenza degli ebrei. E se il prezzo da pagare è una cattiva nomea, sia pure. Lo paghiamo comunque, ed è migliore del prezzo che di solito paghiamo in aggiunta." Tutto ciò, solo a mo' di aperitivo per il pasto del sabato. 
Frattanto, mi mostrava orgogliosamente i preziosi capolavori rilegati in pelle raccolti a Berlino da suo nonno, celebre filologo finito in camera a gas a Auschwitz.
A tavola, con risonante voce baritonale, una voce piacevole e pastosa che sembrava coltivata e la cui eccellenza non fu del tutto una sorpresa, Lippman cantò il canto di benvenuto alla regina del sabato, e tutti si unirono a lui tranne me. La ricordavo vagamente, quella melodia, ma le parole, dopo trentacinque anni, le avevo dimenticate. Henry sembrava particolarmente affezionato al figlio di Lippman, Yehuda: si sorridevano a vicenda, mentre cantavano, come se fra loro ci fosse un'intesa, riguardo alla canzone, o alla serata, oppure alla mia presenza a
tavola. Molti anni addietro scambiavo io, siffatti sorrisi, con Henry. Quanto alla figlia ottenne, era tanto ammaliata dal fatto che io non cantavo, che il padre dovette ammonirla con un dito affinché la smettesse di borbottare e cantasse a voce spiegata con gli altri.
Il mio silenzio doveva, certo, riuscirle inesplicabile. Ma se lei Si meravigliava che Hanoch avesse un fratello come me, ancor più mi stupivo io di avere un fratello come Hanoch. Non riuscivo proprio a capacitarmi di quel mutamento, così antitetico a quella che io, e tutti gli altri, consideravamo l'essenza, enricita di Henry. C è realmente qualcosa di irriducibilmente ebraico in lui, ch'egli ha scoperto in fondo a sé, o ha soltanto sviluppato, dopo l'operazione, un gusto per il surrogato della vita? Subisce una tremenda operazione chirurgica per restaurare la sua potenza sessuale e diviene, in conseguenza di essa, un ebreo coi fiocchi; gli hanno spaccato il torace, l'hanno tenuto sotto i ferri per sette ore, allacciato a una macchina che respira per lui, che gli pompa il sangue nelle vene, gli hanno sostituito alcune arterie con vene prelevate dalla sua gamba, e, in conseguenza di ciò, finisce in Israele. Non capisco. Ciò sembra conferire un nuovo significato al vecchio adagio che col cuore non Si scherza. Quale scopo si cela in quel che adesso egli chiama "ebreo"--o "ebreo" è qualcosa dietro al quale lui adesso si nasconde? Qui--mi dice--si sente essenziale, di casa, inserito: ma non è più probabile che quel che ha trovato sia il mezzo, incontestabile, per evadere dalla vita chiusa di prima? Chi non è stato tentato da un'evasione del genere? Eppure, pochissimi l'hanno messa in atto. Neanche Henry c'era riuscito, quando il suo piano di fuga era intitolato "Basilea": occorreva che fosse denominato "Giudea", perché andasse a buon fine. In tal caso, che luminosa nomenclatura! Mosè contro gli egizi, Giuda Maccabeo contro i greci, Bar Kochba contro i romani e oggi, nella nostra era, Hanoch di Giudea contro Henry del New Jersey!
E tuttavia neppure una parola di rimorso--neppure una parola-su Carol e i figlioli. Stupefacente. Sebbene telefoni ai figli ogni domenica, e spera che vengano a trovarlo per la Pasqua ebraica, nondimeno non ha dato, a me, alcun segno di sentirsi impastoiato dai sentimenti di padre e di marito. E riguardo alla mia nuova vita a Londra, alla mia rinascita, che ha suscitato il vivo interesse di Shuki Elchanan, lui non mi ha chiesto niente. Sembra aver ripudiato totalmente la sua vita di prima, tutti noialtri, tutto quello che ha passato, e chi si comporta così--pensai--deve esser preso sul serio. Non solo queste persone si qualificano come veri convertiti ma, per un po' almeno, si comportano da criminali: nei confronti di quelli che hanno abbandonato, e persino nei confronti di se stessi e magari anche di quelli con cui hanno stipulato i nuovi patti--e questa sincera conversione non può esser facilmente liquidata, così come è difficile capirla. Ascoltando la voce del suo mentore levarsi, nel canto, al di sopra delle altre, io pensai: "Quale che sia il groviglio dei suoi motivi, certo non è stato il nulla ad attrarlo. "
Seguì una seconda canzone, una melodia più lirica e nostalgica della precedente, e la voce dominante adesso era quella di Ronit, una voce di soprano fervida, da canto popolare. Cantando per il sabato, Ronit appariva soddisfatta della sua sorte, contenta quanto può esserlo una donna, gli occhi le brillavano d'amore per una vita scevra di timori servili, deferenza, diplomazia, apprensione, alienazione, autocompatimento, autosatira, autosfiducia, depressione, clownerie, amarezza, nervosismo, introspezione, ipercritiche, permalosità eccessiva, ansietà sociale, assimilazione sociale: un tenore di vita insomma scevro di ogni "anormalità" ebraica, di quelle singolarità e scissioni interne di cui si scorgono tracce in quasi tutti gli ebrei simpatici da me conosciuti.
Lippman benedisse il vino con parole ebraiche familiari persino a me e, mentre ne sorseggiavo, pensai: "Sarà mica una messinscena? Metti che non si tratti di quella appassionata ingenuità, ch'è sempre stata il suo forte, bensì di una recita, cinicamente, diabolicamente calcolata? Metti che Henry si sia dato alla causa ebraica senza credere una parola? Può darsi che sia diventato interessante a tal punto?"
"E," disse Lippman, abbassando il bicchiere, parlando con voce tenue, consolante, delicata, "questo è quanto: è tutto." Si rivolgeva a me. "Ecco qua. Il significato di questo paese in sintesi. Questo è un luogo ove nessuno deve chiedere scusa se porta uno zucchetto in testa e se canta un paio di canzoni con i familiari e gli amici prima di cena la sera di venerdì. A tal punto, è semplice."
Sorridendo al suo sorriso, dissi: "Ah, sì?"
Indicò, tutto fiero, la bella e giovane moglie. "Chiedilo a lei.
Chiedilo a Ronit. I suoi genitori non erano neppure ebrei religiosi. 
Erano ebrei etnici e basta: come i tuoi, a quel che mi dice Hanoch, nel New Jersey. I suoi a Pelham, ma fa lo stesso. Ronit non lo sapeva neanche, che cos'è la religione. E tuttavia in America non si sentiva a suo agio, da nessuna parte: né a Pelham, né a Ann Arbor, né a Boston... non si sentiva di casa da nessuna parte. Poi nel '67 udì alla radio che c'era una guerra, allora prese l'aereo e venne a dare una mano. Lavorava in un ospedale. Ha visto ogni cosa. Il peggio. Finita la guerra, rimase. 
La storia è tutta qui. Vengono qui, si accorgono che non debbono piÙ chiedere scusa, e restano. Solo le anime belle hanno bisogno dell'approvazione del goy, vogliono che di loro si parli bene a Parigi e Londra e New York. Per me è incredibile che ci siano ancora degli ebrei, persino qui--nel paese dove sono padroni--i quali vivono solo per meritarsi il sorriso del goy, per sentirsi dire dal goy che hanno ragione. Sadat venne qui, tempo fa, ricorderai, e sorrideva, e loro urlavano dalla gioia per le strade, quegli ebrei. Il nemico mi sorride! Il nemico ci ama, dopotutto! Oh, l'ebreo si precipita a perdonare. Muore dalla voglia che il goy gli lanci almeno un sorrisetto. Ne ha un bisogno disperato, di quel sorriso. Ma l'arabo è bravissimo a sorridere e mentire insieme. E' bravo anche a tirare sassate-fintantoché nessuno lo ferma. Ma ti dirò una cosa, Nathan Zuckerman: 
se non li ferma nessuno, li fermo io. E se all'esercito non gli sta bene, che vengano e mi sparino. Ho letto gli scritti del Mahatma Gandhi e di Henry David Thoreau, e se l'esercito ebraico vuole sparare su un colono ebreo, nella Giudea biblica, sotto gli occhi dell'arabo, faccia pure: che l'arabo assista a questa follia ebraica. Se il governo vuol comportarsi da inglese, noi ci comporteremo da ebrei. Praticheremo la disobbedienza civile, creeremo stanziamenti illegali, e venga pure l'esercito ebraico a fermarci! Io lo sfido, questo governo ebraico, sfido qualsiasi governo ebraico, a tentare di sloggiarci con la forza. Quanto agli arabi, tornerò a Betlemme ogni giorno: gliel'ho detto questo, al loro capo, a tutti loro l'ho detto, nella loro lingua, perché mi capissero bene, dimodoché non ci fossero dubbi circa le mie intenzioni: verrò qui con la mia gente, resterò qui con la mia gente, finché l'arabo non la smetterà di tirare sassi agli ebrei. Non illuderti, Nathan Zuckerman di Londra, di Newark, di New York: quelli non tirano sassate agli israeliani. Non tirano sassate a dei pazzi della 'Riva Occidentale". Tirano sassi agli ebrei. Ogni sassata è una sassata antisemitica. Per questo deve finire!"
Fece una pausa drammatica, in attesa di una risposta. Disse soltanto: "Buona fortuna," ma bastarono queste due parole a ispirargli una romanza ancor più appassionata.
"Non abbiamo bisogno della fortuna! E' Dio che ci protegge! 
Basta che non cediamo terreno e al resto provvede Iddio.
Noi siamo strumenti di Dio! Stiamo costruendo la Terra di Israele! Vedi quest'uomo?" disse, indicando il metallurgico. "Buki viveva a Haifa come un re. Guarda l'auto che guida: è una Lancia! 
Eppure è venuto, con la moglie, a vivere fra noi. Per edificare Israele. Per amore della Terra di Israele! Non siamo, noi, ebrei che amano la sconfitta. Siamo gente che spera! Dimmi, quando sono stati meglio di così, gli ebrei, pur con tutti i loro problemi? Basta solo non cedere terreno, e se l'esercito vuol spararci addosso, faccia pure! Non siamo delle rose delicate, noi. Siamo qui per restarci. Certo, a Tel Aviv, nei caffè, all'università, al giornale, il bravo ebreo umanitario non lo può sopportare, questo. Vuoi che ti dica perché? Credo che sia geloso dei perdenti. Guardalo, quant'è mesto, il perdente, guardalo là godersi la sconfitta, che aria mesta che ha, quant'è commovente, così indifeso e inerme! Dovrei esser io a commuovere, invece, poiché sono triste sul serio, e disperato, e perduto: sono io quello che merita di perdere, non l'arabo--come osa rubarmi la mia commovente malinconia, la mia mollezza ebraica! Se questa è una partita alla quale uno solo può vincere--e le regole le hanno stabilite gli arabi, non noi, sono stati loro a dettarle--se qualcuno deve perdere, vuole perdere lui. E quando perde, perde amaramente. Se non è amara, non è una sconfitta. Chiedilo a noi, siamo esperti in materia. Il perdente è virtuoso, il vincitore è malvagio. Va bene," disse, pacatamente, da uomo perfettamente ragionevole, "lo accetto. Accetto che siamo noi i malvagi vincitori per i prossimi duemila anni. Trascorsi i quali, nel 3978, si indirà un referendum: che cosa preferiamo? L'ebreo deciderà democraticamente se preferisce l'onta di vincere oppure l'onore di perdere. E sarà la maggioranza a scegliere, e qualunque sarà la risposta, io l'accetterò, nel 3978. Ma, nel frattempo, noi non cediamo terreno."
"Sono andato in Norvegia," mi disse, a questo punto, Buki, il metallurgico. "Per affari ci sono andato. Mi trovo dunque in Norvegia per affari e su un muro leggo: 'Abbasso Israele". Allora penso: 'Che mai gli ha fatto Israele alla Norvegia?' Lo so che Israele è un paese terribile, ma vi sono paesi ancor più terribili. Ci sono tantissimi paesi terribili: perché Israele è il più terribile, eh? Perché non ci sta scritto sui muri, in Norvegia, 'Abbasso la Russia', 'Abbasso il Cile', 'Abbasso la Libia", eh? Perché Hitler non ha ammazzato sei milioni di libici? Cammino per le strade, in Norvegia, e penso: magari li avesse ammazzati. Così, qui scriverebbero sui muri 'Abbasso la Libia", e lascerebbero in pace Israele." Quegli occhi castano scuri, fissi sui miei, sembravano incastonati di sghembo nella testa a causa di una cicatrice, lunga e frastagliata, sulla fronte. Il suo inglese era esitante, ma lo stesso scaturiva fluente ed energico, come se avesse appreso la lingua tutto d'un fiato il giorno avanti. "Perché, signore, in tutto il mondo odiano Menachem Begin?" mi chiese. "Per via della politica? In Bolivia, in Cina, in Scandinavia cosa gliene importa della politica di Begin? Lo odiano per via del suo naso!"
Lippman interloquì. "La demonizzazione," mi disse, "non finirà mai. Cominciò nel medioevo come demonizzazione del giudeo; oggi si demonizza lo stato ebraico. Ma è sempre la stessa solfa: è sempre l'ebreo a commettere il crimine. Noi non accettiamo Cristo, noi rifiutiamo Maometto, noi commettiamo delitti rituali, noi controlliamo la tratta degli schiavi bianchi, noi miriamo ad avvelenare il sangue degli ariani mediante rapporti sessuali, e adesso abbiamo superato ogni limite, ora abbiamo commesso colpe mostruose, le peggiori che la stampa mondiale abbia mai conosciuto, ai danni dell'innocente, pacifico arabo. L'ebreo è un problema. Si starebbe tutti magnificamente, senza di lui." "E in America questo accadrà," mi disse Buki. "Senza dubbio." "Che cosa accadrà?" domandai.
"In America ci sarà la grande invasione: di latino-americani, di portoricani, di gente che fugge dalla povertà e dalle rivoluzioni. E ai cristiani bianchi ciò non piacerà. I cristiani bianchi si rivolteranno contro lo sporco forestiero. E quando il cristiano bianco si rivolta contro lo sporco forestiero, il primo sporco forestiero con cui se la prende è l'ebreo."
"Non auspichiamo affatto una catastrofe del genere," spiegò Lippman. "Ne abbiamo abbastanza, di catastrofi. Ma a meno che non si faccia qualcosa di straordinario per fermarla, la catastrofe si abbatterà: fra il martello del pio cristiano americano bianco e l'incudine dello sporco forestiero, l'ebreo d'America verrà schiacciato--a meno che non venga prima assassinato dai negri, i negri che nei ghetti già arrotano i coltelli." L'interruppi. "E come effettueranno, i negri, questo assassinio?" domandai. "Con o senza l'aiuto del governo federale?" "Non aver paura," disse Lippman, "il goy americano li lascerà scatenarsi al momento opportuno. Non v'è nulla che al goy americano piacerebbe di più che far piazza pulita degli ebrei negli Stati Uniti. Prima," mi informò Lippman, "permettono ai negri arrabbiati di scaricare il loro odio sugli ebrei, e dopo sistemano i negri. E senza gli ebrei ficcanaso che denunciano la violazione dei diritti civili dei negri. Così avverrà il Grande Pogrom Americano grazie al quale sarà restaurata la purezza bianca americana. Ridicolo, dici? Pensi che sia il ridicolo incubo di un ebreo paranoico? Ma io non sono soltanto un ebreo paranoico. Ricordi? Ich bin ein Berliner, anch'io. E non per opportunismo, come quello del vostro giovane, bello, eroico presidente allorché annunciò che era uno dei loro, a tutti quei giubilanti ex nazisti, prima di restar vittima, purtroppo, del suo incubo paranoico. Io ci sono nato, a Berlino, Nathan Zuckerman, nato e cresciuto fra i sani, ragionevoli, precisi, logici e non-paranoici ebrei tedeschi che sono, adesso, una montagna di cenere."
"Prego soltanto," disse Buki, "che l'ebreo si accorga in tempo di questa imminente catastrofe. Perché, se se ne accorge, allora le navi verranno. In America vi sono giovani religiosi, ed anche laici come suo fratello, che sono stufi marci di una vita senza scopo. Qui in Giudea c'è uno scopo, c'è un significato, quindi vengono. Qui c'è un Dio ch'è presente nelle nostre vite. Ma le gran masse degli ebrei d'America, loro no, loro non vengono, non verranno mai, a meno che non ci sia una crisi. Quando scoppierà la crisi, comunque scoppi, qualunque sia, le navi salperanno di nuovo; e noi non saremo più tre milioni soltanto. Saremo allora dieci milioni e la situazione verrà alquanto corretta. Tre milioni di ebrei, gli arabi pensano di poterli 
uccidere. Ma non potranno ucciderne dieci milioni tanto facilmente."
"E dove," domandai a tutti loro, "li mettete dieci milioni di abitanti?"
La risposta di Lippman fu estatica. "Giudea! Samaria! Gaza! 
Nella Terra di Israele donata da Dio al popolo ebraico!" "Davvero credete," domandai, "che questo avverrà? Ebrei americani che si imbarcano, a milioni, per sfuggire a una persecuzione che sarà la conseguenza di una invasione di ispanici negli Stati Uniti? In seguito a una rivolta negra, fomentata e protetta da funzionari bianchi, per eliminare gli ebrei?" I "Non oggi," disse Buki, "non domani, ma, sì, temo che avverrà. Non fosse stato Hitler, saremmo già dieci milioni. Avremmo figli e nipoti di quei sei milioni. Ma Hitler ha avuto successo. Io prego soltanto che gli ebrei lascino l'America prima dell'avvento di un secondo Hitler."
Mi rivolsi a Henry, che mangiava in silenzio come i figli di Lippman. "E' quel che provavi vivendo in America? Sentivi che una tale catastrofe era imminente?"
"Be', no," egli disse, timidamente. "Veramente, no... Ma
che sapevo, io? Cosa vedevo?"
"Non sei mica nato in un rifugio antiaereo," gli ribattei spazientito. 
"Non sei vissuto in un buco sottoterra."
"No, dici?" fece lui, avvampando. "Non esserne tanto sicuro... 
Ma non soggiunse altro.
Mi resi conto che mi lasciava agli altri due. Pensai: è questo il ruolo che ha deciso di recitare? Quello del buon ebreo, mentre io faccio l'ebreo cattivo? In tal caso, si è procurato i giusti comprimari.
Dissi a Buki: "Lei descrive la situazione degli ebrei in America come se noi vivessimo sotto un vulcano. A me sembra che lei senta talmente il bisogno di altri milioni di ebrei che è incline a immaginare questa emigrazione di massa in modo alquanto irrealistico. Quand'è stato in America l'ultima volta?"
"Daphna è cresciuta a New Rochelle," disse lui, indicando la moglie.
"E quando alzava gli occhi, a New Rochelle," chiesi a lei,
"vedeva un vulcano?"
A differenza di Henry, non era riluttante a dir la sua, lei; anzi, aspettava il suo turno, non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso, da quando ero rimasto zitto mentre loro cantavano. La sua era la sola animosità che percepivo. Gli altri stavano istruendo uno sciocco, lei invece affrontava un nemico, come il giovane Jerry, quello che se l'era presa con me alla ulpan, la mattina.
"Lascia che ti faccia una domanda," disse Daphna, in risposta alla mia. "Sei amico di Norman Mailer?"
"Entrambi scriviamo libri."
"Lascia che ti faccia una domanda sul tuo collega Mailer. Perché s'interessa tanto di delitti e criminali e assassini? Quando studiavo all'università, il nostro professore di lettere ci diede da leggere alcuni libri di Mailer: libri di un ebreo che non può smetterla di pensare a delitti e criminali e assassini. Certe volte quando ripenso all'ingenuità e innocenza di quella scolaresca e alle stupidaggini, alle idiozie che si dicevano là, mi domando: 'Perché mai non chiesi, allora: "Se questo ebreo è tanto "trascinato dalla violenza, perché non se ne va in Israele?" Perché?
Lo domando a te, Nathan Zuckerman. Se ci tiene a capire l'esperienza di chi uccide, perché non viene qui come mio marito? Mio marito ha ucciso gente in quattro guerre, ma non perché trova eccitante l'idea dell'assassinio. Crede anzi che sia un'idea orribile. Non è anzi neanche un'idea. Egli uccide per proteggere un piccolo paese, per difendere una nazione in guerra: uccide affinché i suoi figli possano un giorno condurre una vita pacifica. Non ha la testa piena di immaginari ammazzamenti e avventure intellettualmente perverse--ha fatto tremende esperienze, da brav'uomo, uccidendo persone in carne e ossa nel Sinai e sulle alture di Golan e alla frontiera giordana! Non per ottenere fama personale, scrivendo libri di successo, ma per impedire la distruzione del popolo ebraico!" "E a me cosa vuoi domandare?" le chiesi.
"Ti chiedo perché mai la morbosa rabbia diasporica di questo genio viene esaltata sulla rivista Time mentre il nostro rifiuto di venir estirpati ad opera dei nostri nemici dalla nostra terra atavica viene, dalla stessa rivista, definito mostruosa aggressione ebraica. Ecco cosa ti chiedo."
"Non sono qui per conto di Time o di chiunque altro. Son venuto a trovare mio fratello."
"Ma non sei una persona qualsiasi, tu," replicò lei, con sarcasmo. 
"Sei un famoso romanziere, anche tu; un romanziere
--oltretutto--che ha scritto sugli ebrei."
"Sarebbe arduo credere, sedendo a questa tavola, in questo stanziamento, che vi sia altro su cui scrivere," dissi. "Immaginare la violenza, lo sfogo violento nel bruto, immaginare individui dediti alla violenza, non significa mica sposarne la causa. Non v'è alcuna ipocrisia, nessun tirarsi indietro, in uno scrittore che non si mette a fare delle cose alle quali ha pur pensato, in ogni orrendo dettaglio. L'unica ritirata è indietreggiare da quello che si sa."
"Quindi," disse Lippman, "noi non siamo--vuoi dire--tanto simpatici quanto voi scrittori ebreo-americani."
"Non è affatto questo, che intendo dire."
"Ma è vero," disse lui, sorridendo
"Dico che vedere i romanzi come li vede Daphna significa guardarli da un punto di vista molto specializzato. Vi dico che non è obbligatorio che un romanziere vada in giro a esibire personalmente i suoi temi. Non sto parlando di chi è più simpatico: la simpatia è ancor più deleteria negli scrittori che in altre persone. Rispondo, semplicemente, a un'osservazione molto rozza."
"Rozza? Sì, è vero. Noi non siamo anime belle, non siamo intellettuali umanitari con la mentalità del galut. Non siamo gente raffinata e non sappiamo sorridere educatamente. Quello che dice Daphna è che noi non possiamo permetterci il lusso di far fantasie di violenza e di forza. L'ebreo al volante dello scuolabus contro il quale gli arabi tirano sassate non sogna la violenza, se la trova di fronte, la deve combattere. Noi non sogniamo la forza siamo una forza. Non abbiamo paura di dominare per sopravvivere; insomma, per quanto sgradevole suoni, non abbiamo paura di essere i padroni. Non intendiamo schiacciare l'arabo: semplicemente non gli consentiamo di schiacciare noi. A differenza delle anime belle che abitano a Tel Aviv, io non ho la fobia degli arabi. Io posso vivere accanto a loro, e ci vivo. Io so anche parlargli nella loro lingua. Ma se l'arabo lancia una granata a mano nella casa dove dorme mio figlio, io non replico con una fantasia di violenza, di quelle che tutti amano tanto nei libri e nei film. Non me ne sto comodamente seduto in un cinema, io; non sono uno che recita in un film di Hollywood; non sono un romanziere ebreo-americano, io, che si defila e da distante si appropria della realtà a scopi letterari. No! io sono uno che risponde alla violenza del nemico con la propria violenza, e me ne frego dell'approvazione del settimanale Time. I giornalisti si sono stufati degli ebrei che fanno fiorire il deserto; la cosa gli è venuta a noia. Si sono stufati degli ebrei che vengono attaccati di sorpresa e, nondimeno, vincono tutte le guerre. Anche questo si è fatto noioso. Preferiscono adesso l'avido ebreo arraffone che varca i confini, i limiti: ed ecco l'arabo nel ruolo del Buon Selvaggio contro l'ebreo degenerato, colonialista, capitalista. Adesso il giornalista si eccita quando il terrorista arabo lo conduce nel suo campo-profughi e, con squisita ospitalità araba, gli offre una tazza di caffè, presenti tutti i combattenti per la libertà, e, allora, lui si crede di vivere pericolosamente bevendo il caffè con uno squisito rivoluzionario che gli rivolge sguardi sfavillanti, che beve il caffè con lui, che gli assicura che i suoi eroici guerriglieri ricacceranno i predoni sionisti in mare. Molto più eccitante che bere borscht con un ebreo dal grosso naso. "
"I cattivi ebrei," disse Daphna, "fanno più notizia. Ma non occorre dirlo, questo, a Nathan Zuckerman e Norman Mailer. I cattivi ebrei fanno vendere i giornali, come pure i libri."
Che tesoro, pensai, ma la ignorai, lasciando Mailer a proteggere Mailer e considerando che io avevo già difeso me stesso, su questa questione, altrove.
"Dimmi," disse Lippman, "può l'ebreo far alcunché che non puzzi di ebreità? Ci sono goyim per i quali puzziamo perché ci guardano dall'alto in basso, e ci sono goyim per i quali puzziamo perché ci guardano dal basso in alto. Eppoi ci sono i goyim che ci guardano sia dall'alto sia dal basso--e questi sono i più arrabbiati. Non se ne vede la fine. Prima trovavano repellente lo spirito di clan ebraico, poi consideravano assurdo e ridicolo il fenomeno dell'assimilazione ebraica, adesso trovano inaccettabile e ingiustificata l'indipendenza ebraica. Prima era la passività ebraica a disgustarli, era il mite ebreo, l'ebreo accomodante, l'ebreo che andava al macello docile come una pecora --ora quello che trovano disgustoso, anzi addirittura maligno è l'ebreo forte e militante. Prima era la malaticcia debolezza ebraica ad essere aborrita dai robusti ariani, fragili ebrei debolucci di corpo che prestano soldi e studiano libri--ora quel che disgusta è l'uomo forte ebreo che sa usare la forza e non ha paura di esercitare il potere. Prima erano gli ebrei cosmopoliti senza fissa dimora a essere strani ed alieni, e malfidi--ora alieni sono gli ebrei che hanno l'arroganza di credere di poter determinare il proprio destino al pari di chiunque altro, in una loro patria. Senti, l'arabo può restare qui e io restare qui e possiamo vivere in perfetta armonia. Lui può fare le esperienze che gli piacciono, vivere qui come gli pare e avere tutto quello che desidera-
-tranne che non avrà uno stato. Se vuole averlo, se non può farne a meno, allora può trasferirsi in uno stato arabo e fare là questa esperienza. Può scegliere fra quindici stati arabi molti dei quali non distano da qui più di un'ora di macchina La patria araba è vasta, enorme, mentre lo stato di Israele non è che un bruscolo sul mappamondo. Ci sta sette volte, Israele nell'Illinois, ma è questo l'unico posto, nel mondo intero, dove un ebreo possa avere uno stato e farne esperienza, ed ecco perché non cediamo terreno!" La cena era terminata.
Henry mi condusse, per una delle due lunghe strade residenziali, nella casa dove avrei pernottato, in assenza dei proprietari, ch'erano andati a passare il sabato a Gerusalemme. Giù nel villaggio arabo ardevano ancora alcune luci e, su una collina lontana, simile a un rosso occhio sbarrato, quel che un tempo sarebbe stato qui percepito come una sfida alla collera dell'Onnipotente, si scorgeva il faro-radar di una base lanciamissili Uno dei missili, eroicamente puntato in posizione di lancio non era affatto mimetizzato e, andando a Hebron, lo avevamo visto chiaramente. 
"La prossima guerra," aveva detto Henry, indicando quella base in cima al colle, "durerà cinque minuti." Il missile israeliano da noi visto era mirato sulla città di Damasco, al fine di dissuadere i siriani, mi disse Henry, da lanciare il loro missile mirato su Haifa. A parte quel rosso sinistro segnale, le tenebre intorno erano tanto vaste che Agor mi parve, per un momento, illuminata com'era, l'avanguardia di una nuova civiltà ebraica evolventesi nello spazio cosmico, eroicamente, da cui Tel Aviv e tutte le anime belle decadenti distavano quanto la più fioca delle stelle.
Se non avevo nulla da dire pel momento a Henry era perché, dopo quel seminario di Lippman, il linguaggio non sembrava più essere il mio terreno. Non ero esattamente straniero alle dispute, io, ma mai, in vita mia, mi ero sentito tanto chiuso, in un mondo tanto contenzioso, dove la discussione è incessante e si deve essere sempre o pro o contro, dove bisogna prender posizione e propugnare una tesi, il tutto reso enfatico dall'indignazione e dalla rabbia.
Né la mia flagellazione con parole era finita con la cena. Per altre due ore, attorniato da quelle edizioni tedesche dei capolavori europei, mentre Ronit serviva, soddisfatta, tè e pasticcini, Lippman seguitò a fustigare. Cercai di accertare se la sua retorica non venisse un po' fomentata dalla mia discutibile posizione fra gli ebrei--dalla mia posizione presunta equivoca riguardo agli ebrei, cui Daphna aveva alluso sdegnosamente--oppure se stesse deliberatamente esagerando per darmi un'idea di ciò che aveva confuso mio fratello, specie nel caso che avessi intenzione di riportare nella diaspora quella sua preziosa preda, 
il dentista ch'era stato un modello di ebreo assimilato e affermato, sul quale viceversa lui e Iddio avevano progetti diversi. Di tanto in tanto mi dicevo: "Vaffanculo, Zuckerman, perché non dici schietto e netto ciò che pensi, dal momento che questi bastardi dicono chiaro quel che pensano loro?" Ma la mia strategia con Lippman era di restar praticamente muto. Se questa è una strategia. Dopo cena, a lui avrò magari fatto l'effetto di uno che cerca di salvarsi stando zitto, ma fatto sta che ero surclassato.
Neanche Henry aveva nulla da dire. Dapprima pensai che fosse perché si sentiva vendicato da Lippman, spalleggiato da Buki e Daphna, e non avesse alcuna voglia di ammorbidire il colpo. Poi mi chiesi se la mia presenza non lo avesse costretto, forse per la prima volta da quando era succube di Lippman, a giudicare il suo mentore ammazzasette da un punto di vista alquanto estraneo all'etica di Agor. Forse era per questo che si era chiuso come un bambino quando gli avevo chiesto se lui avesse, in America, la sensazione di vivere sotto un vulcano. Forse a quel punto lì pensava la stessa cosa che Muhammed Ali aveva confessato-per quanto coraggioso fosse--di aver pensato alla tredicesima ripresa del terribile suo terzo combattimento con Frazier: 
"Che ci faccio, io, qui?"
Mentre camminavamo per la strada non selciata dello stanziamento, soli soletti come Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla luna, quando vi piantarono la bandiera americana--come un giocattolo fra la polvere lunare--mi venne da pensare che Henry non desiderasse che di essere riportato a casa, fin da quando gli avevo telefonato da Gerusalemme; che avesse smarrito la strada ma si vergognasse di ammetterlo, non volendo umiliarsi di fronte a uno la CUI ammirazione contava per lui quasi quanto la benedizione che era riuscito, con tanta fatica, a carpire a nostro padre. Invece (forse) gli era toccato farsi forza dicendo a se stesso pressappoco così: "Si vada pure avanti a questo modo, per la strada sbagliata. La vita è un'avventura in cui ognuno si smarrisce: era ora che me ne accorgessi anch'io!" Non ritengo che questo equivalga a dar troppa importanza al mio mestiere ma, certo, chi dedica la vita a scrivere libri, intraprende un'avventura che lo espone a dure prove e in cui non sa mai dove Si trova a meno che non abbia smarrito la strada Perder la strada poteva in effetti costituire per Henry una necessità vitale, verso la quale tendeva a tentoni durante la convalescenza, quando aveva parlato fra le lacrime di qualcosa di innominabile, una scelta necessaria alla quale però lui era cieco, un atto al tempo stesso misterioso e evidente in sé e per se, che, non appena lo avesse scoperto e compiuto, lo avrebbe liberato da quella perplessa depressione. In tal caso, allora, non erano le sue radici che egli aveva scoperto, sedendo sul davanzale della cheder a Mea She'arim; non era l'indissolubile vincolo che lo legava alla vita ebraica europea tradizionale ch'egli aveva sentito nelle litanie di quei bambini ortodossi che a gran voce mandavano a mente la lezione; ma era bensì l'occasione di venir sradicato, di dipartirsi dal sentiero contrassegnato con il suo nome fin dal giorno in cui era nato e di poter così disertare, astutamente, travestito da ebreo. Israele in luogo del New Jersey, il sionismo al posto di Wendy, per esser certo che mai più Si sarebbe sentito legato alla vecchia, soffocante, strangolante maniera.
Metti che avesse ragione Carol e che Henry fosse pazzo. Non più pazzo di Ben-Joseph, l'autore dei Cinque Libri di Jimmy, ma neanche meno pazzo, non tanto. A prendere in esame la sua decisione da ogni lato, la possibilità che, per dirla con Carol, gli avesse dato di volta il cervello andava presa, anch'essa, in considerazione. Forse non si era mai veramente ripreso dal crollo isterico subito allorché aveva innanzi a sé la prospettiva di una vita da impotente, a causa dei farmaci. Può darsi che fosse proprio alla ritrovata potenza sessuale ch'egli avesse voltato le spalle, scappando di casa, nel timore di chissà quale nuova calamità, quale castigo che, stavolta, lo avrebbe completamente distrutto, ove avesse di nuovo cercato la salvazione in qualcosa di tanto antisociale quanto la propria erezione. Sta scappando come un pazzo--pensai--dalla follia del sesso, dall'intollerabile disordine che consegue alle conquiste virili e dall'indegnità dei sotterfugi, dei tradimenti, da quella rallegrante anarchia che travolge chiunque si abbandona, sia pure di tanto in tanto, alle voglie carnali sfrenate. Qui, nel seno di Abramo, lontano da moglie e figli, può esser di nuovo un marito modello, o magari soltanto un figliolo modello.
La verità è che, nonostante i miei persistenti sforzi, non sapevo ancora, al termine di quella giornata, come intendere il rapporto di mio fratello con Agor e con i suoi amici di Agor, ideologicamente tenuti a vedere in ogni ebreo non soltanto un potenziale israeliano ma anche la vittima predestinata di una orrenda, imminente catastrofe antisemita, qualora avesse tentato di condurre una vita normale da qualsiasi altra parte. Per il momento rinunciai a lambiccarmi il cervello alla ricerca di adeguati motivi che rendessero, ai miei occhi, la sua metamorfosi meno implausibile, meno simile a una parodia di sé. Ripensai allora all'ultima volta che eravamo stati assieme a tu per tu, in un luogo non meno buio di Agor alle undici di notte: ripensai cioè ai primi anni quaranta, prima che nostro padre comprasse
la casa unifamiliare presso il parco, quando eravamo piccoli e condividevamo la camera da letto sul retro dell'appartamento sito in Lyons Avenue, e, lì, giocavamo nell'oscurità, non più lontani l'uno dall'altro, fisicamente, di quanto fossimo ora, camminando per Agor, allorché l'unico barlume proveniva dal quadrante della radio Emerson sul comodino, frammezzo ai due letti. Ricordai che, ogni qual volta si apriva cigolando quella porta, all'inizio di un nuovo agghiacciante episodio di Inner Sanctum, Henry saltava fuori delle coltri e chiedeva di venire accanto a me. Allora io, fingendo indifferenza alla sua infantile codardia, sollevavo le coperte e lo invitavo a infilarcisi sotto. Quando avrebbero potuto due ragazzi essere più vicini, più contenti? "Lippman," avrei dovuto dirgli, nel prendere commiato, "anche se quello che mi hai detto fosse vero al cento per cento, resta il fatto che, nella nostra famiglia, la memoria collettiva non risale al vitello d'oro e al roveto ardente, bensì a Duffy's Tavern e ai programmi radio come Can You Top This. Forse gli ebrei hanno inizio in Giudea, ma Henry no, assolutamente. Lui ha inizio dal cinema Roosevelt dove davano due film il sabato, ha inizio dallo Studio Ruppert dove si andava a veder giocare i Newark Bears, gli Orsi di Newark. Non è un inizio altrettanto epico, ma questo è quanto. Perché non lo lasci andar via, mio fratello?"
Ma, e se lui davvero non desiderasse andarsene via? E io veramente volevo che lui lo volesse? Non era forse pretto sentimentalismo liberal--non ero forse io la peggiore delle anime belle a preferire un fratello razionale, emigrato in Israele per giusti motivi, per incontrarvi le persone giuste, e fare e pensare tutte cose corrette? Se non sentimentale, era certo una cosa poco professionale. Ché, a osservarla dal punto di vista del romanziere, quella era di gran lunga la più provocante di tutte le incarnazioni di Henry, se non proprio la più convincente: cioè, era quella che avrei potuto meglio sfruttare. Bisognava tener conto anche dei miei moventi. Non ero là solo in veste di fratello. "Non hai menzionato i figli," dissi, quando eravamo quasi in fondo alla strada.
La sua risposta fu brusca, sulla difensiva: "E con ciò?" "Si direbbe che tu abbia assunto un atteggiamento altezzoso, nei loro riguardi: più consono alla mia reputazione che alla tua. "
"Senti, non toccare questo tasto, con me. Non sei il tipo da tirare in ballo i miei figli, tu. Verranno a trovarmi per Pasqua. E' deciso. Visiteranno questi luoghi, e se ne innamoreranno. E sarà il nostro punto di partenza."
"Pensi che sceglieranno di venir a vivere qui anche loro?"
"Te l'ho detto di non rompermi le balle. Ti sei sposato tre volte e, a quanto mi consta, li hai scaricati nel cesso tutti, i tuoi figli."
"Forse sì, forse no, ma non occorre essere padre per porre la domanda giusta. Quando hanno cessato, i tuoi figli, di aver alcun significato per te?"
Ciò lo fece arrabbiare vieppiù. "Chi l'ha detto che è così?" "Mi hai parlato, a Hebron, della tua vecchia vita come di una cosa insignificante. Allora ho cominciato a chiedermi come possono, tre figli, esser lasciati fuori quando un padre tira le somme sul significato o meno della vita. Non sto cercando di farti sentire in colpa: sto solo cercando di scoprire se, veramente, hai preso in considerazione ogni aspetto della cosa." "Certo che sì: mille volte al giorno! S'intende che ho nostalgia di loro. Ma verranno qui a Pasqua e vedranno quel che ci faccio, qui, e di che si tratta e, sì, chissà, potrebbero anche capire che è questa la loro patria."
"Ruthie m'ha telefonato, prima che partissi da Londra," gli dissi.
"Ah, sì?"
"Sapeva che venivo qui a trovarti. Mi ha pregato di dirti una cosa.
"Ci parlo ogni domenica, con lei. Che c'è?"
"E' presente la madre quando parli con lei la domenica, e lei si sente impacciata, non può dirti tutto. E' una ragazza in gamba, Henry: a tredici anni non è più una bambina, ragiona come una grande. Mi ha detto: 'E' andato là per imparare, lui. Sta cercando di scoprire qualcosa. Non è ancora troppo vecchio per imparare e credo che ne abbia il diritto.'"
Lì per lì, Henry non rispose nulla, e quando parlò piangeva.
"Così ha detto?"
"E ha detto anche: 'Mi sento confusa senza mio padre." "Ebbene," replicò lui, d'un tratto disperato, e simile a un ragazzino di dieci anni, "anch'io sono confuso senza di loro."
"Lo supponevo. Ho voluto soltanto riferirti il messaggio."
"Be', grazie," disse lui, "grazie."
Aprì il portoncino, che non era chiuso a chiave, ed accese la luce: entrammo in una casetta, piccola, quadrata, in cemento armato, identica a quella dei Lippman, tranne che era arredata con maggior verve regionalistica. Il soggiorno qui non era dominato dai libri, ma da un paio di enormi quadri espressionistici, ritratti di due personaggi biblici, a me ignoti, profeti o patriarchi che fossero. C'era un arazzo appeso a una parete e, lungo un'altra, degli scaffali, gremiti di vasetti in terracotta e pietre, pietruzze. Quelle antiche terrecotte eran state raccolte dal marito, archeologo presso l'università ebraica, e l'arazzo, recante un motivo orientale, era stato disegnato dalla moglie, che lavorava presso una fabbrica tessile in un vicino centro. I quadri, densamente incrostati di vivaci arancioni e rossi-sangue ed eseguiti a violente pennellate, erano opera di un noto artista della zona. Un suo acquerello, raffigurante il mercato dei cammelli a Gerusalemme, era stato mandato da Henry in regalo ai suoi figli. Per far contento Henry ristetti a lungo davanti a quei quadri esternando più ammirazione di quanta non ne provassi. Il suo entusiasmo era forse genuino e, tuttavia, il discorso che imbastì intorno alla struttura circolare dei dipinti mi suonò artificiale. Sembrava, d'un tratto, durar troppa fatica per convincermi che mi sbagliavo, se pensavo che la sua euforia cominciasse a smosciarsi.
Un corridoio di pochi metri separava il soggiorno da una camera da letto ancor più piccola di quella che, da ragazzi, condividevamo. Vi erano due lettini, ma non uguali ai nostri dalle testiere d'acero, le cui stecche fingevamo fossero le palizzate d'un fortino assediato dagli apaches: quelle lì erano brande pieghevoli, collocate fianco a fianco. Henry accese una luce per mostrarmi il gabinetto e mi disse arrivederci all'indomani. Lui dormiva in un dormitorio con i giovani colleghi, in cima al colle. "Perché non rinunci per una notte ai piaceri della vita in comune? Dormi qui."
"No, no," disse lui.
In soggiorno gli dissi: "Henry, siediti."
"Un minutino," ma, quando fu seduto sul sofà sotto i dipinti, sembrava un bambino smarrito--uno dei suoi figli, anzi-un bambino che attende su una panchina al posto di polizia che qualche persona cara venga a riprenderlo, ma al contempo si sentiva quattro volte più vecchio e, se possibile, più tormentato ancora di quei due patriarchi alla parete, le cui speranze di palingenesi ebraica e trasformazione etica sembravano esser andate irreparabilmente infrante.
Poiché non sono, e non sarò mai, scevro di affetto per lui, a vederlo così malinconico provai l'impulso di rassicurarlo e dirgli che non aveva commesso uno stupido errore; semmai lo sbaglio era stato mio, a impicciarmi e render lui vulnerabile a ogni incertezza. L'ultima cosa di cui ha bisogno, pensai, è di sentirsi sminuito a confronto con un'altra personalità più forte della sua. Questo è stato il Leitmotiv della sua vita, infatti. Perché non concedergli dunque il beneficio del dubbio? Se n'è andato perché non ne poteva più. Aveva capito. "L'imperativo è: fallo subito!" ed era partito per Israele. Tutto qua. La definisca una missione altamente morale, se gli piace come suona. Vuole avere, di punto in bianco, una meta elevata: sia pure. La letteratura russa è piena di siffatti animi nobili, dalle bizzarre, eroiche aspirazioni; forse ce ne sono più nella letteratura russa che non nella vita reale. Bene, che trabocchi pure di motivi alla Myskin. E se tutto si risolverà in una bolla di sapone, affari patetici suoi, non miei... Però, e se invece desiderasse disperatamente di venir via da Agor e tornare dai figli, e, sì, tornare dalla moglie? Se volesse che la sua aggressività, scatenatasi ad Agor, venisse di nuovo imbrigliata dalle antiche abitudini borghesi? Metti che si sia reso conto che la sola Ruthie è più "significativa" di qualsiasi cosa che potrà trovare in Israele? Metti che si senta sovrimpegnato in un'impresa disperata? Per quanto ostenti sicurezza, per quanto porti in giro una pistola, a me sembra che si senta più in trappola qui che nel New Jersey, impegolato e distrutto. Ero partito dicendo a me stesso: "Non rimbeccarlo, non pungerlo dov'è più vulnerabile, dov'è sempre stato vulnerabile." Ma, quando la vulnerabilità è dappertutto, che fare? Era ormai troppo tardi per chiudere il discorso. Quei due sono fratelli-pensai--diversi fra loro quanto si vuole, ma l'uno si misura sull'altro ormai da tanto di quel tempo ch'è impensabile come l'uno possa fregarsene del giudizio dell'altro. Questi due uomini sono ragazzi che sono fratelli--questi due ragazzi sono fratelli che sono uomini--questi fratelli sono uomini che sono ragazzi - quindi le discrepanze sono inconciliabili: il fatto stesso che esistono è una sfida.
"Quindi, questo è il tuo ambiente," gli dissi, sedendomi di rimpetto a lui.
Mi rispose, solennemente, già sulla difensiva: "Hai conosciuto alcune delle persone di qui, sì."
"I suoi nemici devon vedere in Lippman un avversario formidabile." "Infatti. "
"Cosa ti attrae, in lui?" domandai, convinto che non mi avrebbe risposto. "Quell'uomo è l'incarnazione della potenza." Proprio perché non lo era?
"Che c'è in lui che non va?" ribatté lui.
"Non ho detto che qualcosa non va, in lui. Non si tratta di quello ch'io penso di Lippman, si tratta del fascino ch'egli esercita su di te. Vorrei sapere cosa ti lega a lui.
"Perché lo ammiro? Perché credo che abbia ragione."
"Su cosa?"
"E' giusto quello che chiede per Israele ed è corretta la valutazione dei mezzi per raggiungere lo scopo "
"Può darsi. Ma dimmi: chi ti ricorda?" gii chiesi. "Qualcuno che conosciamo?"
"Oh, no, per favore. Riserba la psicanalisi per il grosso pubblico americano." Stancamente, soggiunse: "Risparmiami."
"Be', senti, io lo vedo così. Gratta il bullo aggressivo, gratta l'istrione, gratta il parlatore coatto... e cosa trovi? Per me, stasera, avremmo potuto riessere a Newark, seduti al tavolo in cucina, con papà che conciona sull'eterna, storica lotta fra il goy
"Dimmi, è possibile o no--almeno al di fuori dei tuoi romanzi-che tu adotti un quadro di riferimento un tantino più vasto della nostra cucina a Newark?"
"Quella cucina di Newark è la fonte di tutte le tue memorie ebraiche, Henry. Siamo stati allevati in certo modo, noi due. In Lippman tu ci vedi papà--ma privo di quella segreta deferenza per il goy, del timore dei sarcasmi del goy. E' papà, ma un papà di sogno, elevato alla centesima potenza, ingigantito. Eppoi Lippman ti dà il permesso di non essere tanto buono e caro. Un sollievo dev'essere, per te, dopo tanti anni: essere un buon figliolo ebreo senza essere perbenino, essere al tempo stesso ebreo e scavezzacollo. Questo è avere tutto. Non c'erano ebrei di tal fatta nel nostro quartiere. Gli ebrei duri che si incontravano agli sposalizi e ai bar mitzvah erano, perlopiù, bottegai, quindi posso capirlo, il fascino di Lippman, ma non è, niente niente, che strafai un tantino, in fatto di giustificabile aggressività?" "Perché, dimmi, per tutta la vita, hai sempre banalizzato ogni cosa che faccio? Perché non psicanalizzi questo? Perché mai, mi domando, le mie aspirazioni non possono essere valide quanto le tue?"
"Scusa, ma essere scettico sulle pistole fa parte della mia natura. Sono tanto scettico sulle pistole quanto sulle ideologie di chi le impugna.
"Beato te. Fortunato te. Virtuoso te. Umanitario te. Sei scettico praticamente su tutto."
"Henry, quando la finirai di fare l'apprendista fanatico e ti rimetterai a fare il dentista?"
"Dovrei darti un cazzotto sul naso, per questo."
"Perché non mi fai saltare le cervella con quella pistola?" gli domandai, adesso ch'era disarmato. "Non dovrebbe riuscirti difficile, 
dato che sei scevro di conflitti interni e di dubbi. Senti, io sono per l'autenticità, ma ammiro molto anche l'umanissimo dono della recitazione. Può darsi che sia proprio questa l'unica cosa autentica che noi facciamo."
"Quando parlo con te, mi fai sempre sentire, via via, più sciocco e più ridicolo. Perché credi che ciò avvenga, Nathan?" "E' così? Meno male che non ci siamo parlati tanto spesso e che ognuno di noi è andato per la sua strada."
Non succede mai, ma mai, che tu abbia ad apprezzare o lodare qualcosa che io ho fatto. Perché credi, Nathan, che sia
così?"
"Ma non è il caso adesso. Trovo colossale quello che hai fatto. Non lo metto in non cale. Uno scambio di esistenze così-è come dopo una grande guerra, lo scambio dei prigionieri. Non minimizzo l'entità di questa cosa. Non sarei qui, sennò. Tu cerchi di non darlo a vedere, ma io mi rendo conto che ti costa moltissimo. Stai pagando un caro prezzo, specie per quanto concerne i figlioli. E indiscutibile che tu disapprovi il modo in cui vivevi prima. Non lo prendo di sottogamba, questo. Non penso ad altro, da quando ti ho rivisto. Solo mi chiedo: per cambiare alcune cose, dovevi proprio cambiare tutto? Alludo a quella che i costruttori di missili chiamano 'velocità di fuga': il trucco consiste nel lasciare l'atmosfera senza andare al di là del bersaglio." "Senti..." disse lui, e balzò in piedi, quasi stesse per pigliarmi pel collo. "Sei un uomo molto intelligente, Nathan, sei molto sottile, ma hai un grosso difetto: l'unico mondo che esiste per te è il mondo della psicologia. E' quello il tuo revolver. Prendi la mira e spara: e mi hai sempre sparato addosso, per tutta la vita. 'Henry, fa' questo per compiacere mamma o papà," 'Henry, fa' quest'altro per far piacere a Carol," o per dare un dispiacere a Carol, o alla mamma, o a papà. E via di questo passo. Non si tratta mai di Henry come individuo autonomo, si tratta sempre di Henry sul punto di trasformarsi in un cliché: mio fratello lo stereotipo. E magari una volta era così, forse ero davvero uno che tendeva allo stereotipo, forse è questa la causa di tanta infelicità che provavo, a casa. Probabilmente pensi che i modi da me scelti per la mia 'ribellione' siano soltanto stereotipati. Ma purtroppo per te io non sono uno che ha soltanto dei semplici e sciocchi motivi. Per tutta la vita mi sei stato sopra, come uno che ti marca durante una partita di pallacanestro. Uno che non ti lascia mai effettuare un lancio. Ogni palla che lancio, la blocchi. C'è sempre una spiegazione riduttiva di ogni mio comportamento. I tuoi fottuti pensieri mi infestano come vermi. Ogni cosa ch'io faccio è prevedibile, ogni cosa ch'io faccio manca di profondità, in confronto a quello che fai tu, se non altro. 'Lanci quella palla, Henry, soltanto perché vuoi fare canestro." Ma che acume! Lascia che ti dica una cosa, però: non potresti spiegare quello che ho fatto con dei motivi più di quanto io non possa spiegare quello che hai fatto tu. Al di là di tutte le tue profondità, al di là dei principi freudiani che tu applichi alla vita di ognuno, c'è un altro mondo, un mondo più vasto, un mondo dove c'è l'ideologia, c'è la politica, c'è la storia: un mondo di cose, ben più vasto di quella cucina di Newark! Ci sei capitato, stasera: un mondo definito dall'azione, dal potere, dove non conta un corno compiacere la mamma o il papà! Per
te non c'è altro che la fuga dalla madre, la fuga dal padre... Perché non consideri verso che cosa sono scappato? Tutti scappano: i nostri nonni sono scappati in America--per fuggir via dai loro genitori? No, per fuggire dalla storia. Qui la si fa, la storia. C'è un mondo intero, al di là della palude edipica, Nathan, dove quello che conta non è cosa te lo fa fare bensì quello che fai: non quello che gli ebrei decadenti come te pensano, ma quello che gli ebrei come quelli di qui fanno. Ebrei che non ridono e non fanno ridere, ebrei che hanno ben altre risorse che la loro interiore ilarità. Qui essi hanno un mondo esteriore, un paesaggio, un paese, una nazione! Questo non è un vacuo gioco intellettuale! Questo non è un esercizio per cervelli divorziati dalla realtà! Questo non è come scrivere un romanzo, Nathan! Qui, le persone non si rimenano qua e là dalla mattina alla sera come i tuoi fottuti personaggi a chiedersi che mai succede all'interno del loro cranio, se andare o no dallo psicanalista--qui si combatte, si lotta, qui ti preoccupi per quello che succede a Damasco! A contare non è la mamma, non è il papà, né la cucina di Newark, non sono le stronzate di cui scrivi--qui, conta chi comanda nella Giudea!"
E se ne uscì dalla porta, furioso, prima che potesse lasciarsi convincere a tornare a casa.
IN VOLO
Non appena slacciate le cinture di sicurezza, un gruppetto di ebrei religiosi formarono una minyan in fondo al corridoio. Non riuscivo a sentirli per via del rombo dei motori, ma alla luce solare che si riversava dentro da un oblò presso l'uscita di sicurezza, vedevo a quale strabiliante velocità pregavano. Il tempo era più rapido di quello d'un Capriccio di Paganini e avresti detto che loro intento fosse di pregare a velocità supersonica: la preghiera stessa sembrava una gara di resistenza fisica. Arduo immaginare un altro dramma umano così intimo e frenetico messo in scena altrettanto spudoratamente su un mezzo di trasporto pubblico. Se due passeggeri si fossero spogliati e, in preda ad altrettanto impudico fervore, si fossero messi a far l'amore nel corridoio, non mi sarei sentito meno voyeur, a starli a guardare.
C'erano parecchi ebrei ortodossi, in classe turistica; accanto a me, però, sedeva un comune ebreo americano come me, piccoletto, sui trentacinque anni, ben rasato e con occhiali in tartaruga, il quale alternava alla lettura del Jerusalem Post--giornale israeliano in lingua inglese--occhiate curiose agli oranti, le cui teste andavano a scatti su e giù in quello sprazzo di vivida luce. Dopo un po', costui mi chiese, in tono di voce cordiale: 
"E' stato da turista, in Israele, o per affari?"
"Soltanto una visita."
"Ebbene," disse, mettendo via il giornale, "che effetto le ha fatto quel che ha visto?"
"Prego?"
"Che cosa ha provato? Si è commosso? Si è sentito orgoglioso?" Avevo mio fratello per la mente, ancora, quindi, anziché dar retta al mio vicino--quel che andava cercando era chiaro-gli dissi: "Non la seguo," e tirai fuori dalla valigetta penna e taccuino. Avevo bisogno di scrivere subito a Henry
"Lei è ebreo," egli disse, sorridendo
"Sì."
"Ebbene, non ha provato alcuna stretta al cuore nel vedere quello che hanno fatto?"
"Non ho cuore."
"Ma ha visto gli agrumeti? Gli ebrei hanno fama di pessimi agricoltori e, invece, eccoli là: miglia e miglia di terre coltivate.
Non immagina quello che ho provato, io, vedendo quelle fattorie. Gli ebrei agricoltori! Mi hanno condotto a una base aerea... Non riuscivo a credere ai miei occhi! Possibile che niente la abbia commosso?"
Io pensai, mentre lo ascoltavo, che se il suo nonno galiziano avesse potuto compiere un viaggio turistico dal regno dei morti a Chicago, Los Angeles o New York, avrebbe espresso analoghi sentimenti, e con uguale stupore: "Gli ebrei non hanno fama d'essere americani e, invece, eccoli là: milioni e milioni di ebrei americani! Non si può immaginare, quello che ho provato, a vederli così americani, all'aspetto!"
Come spiegare questo complesso d'inferiorità dell'ebreo americano, di fronte al sionismo militante che arditamente pretende il brevetto dell'autotrasformazione ebraica, se non dell'ardimento stesso?
"Senta," gli dissi, "non so rispondere a queste domande." "Lo sa a quali non sapevo rispondere io? Di continuo volevano che gli spiegassi perché mai gli ebrei americani seguitano a vivere nella diaspora: ebbene, non sapevo che cosa rispondere. 
Dopo tutto quello che avevo visto, non sapevo cosa dire. Chi lo sa? Chi può spiegarlo? Nessuno, forse." Poveretto. Si direbbe che è stato ossessionato da 'sta cosa magari gli è toccato stare sulla difensiva, notte e giorno, data la sua identità artificiale e la sua posizione totalmente alienata.
Gli avranno detto: "Non pensi alla sopravvivenza degli ebrei?
Non pensi alla sicurezza degli ebrei? Non pensi alla storia ebraica?
Fossi un bravo ebreo, verresti a stare in Israele, ebreo in una
società ebraica." Gli avranno detto: "L'unico posto al mondo ch'è ebraico e solo ebraico è Israele"--e lui? troppo spaventato, troppo moralmente complessato per riconoscere, men che meno ammettere, ch'era proprio quella una delle ragioni per cui non intendeva stabilirsi in Israele.
"Perché è così?" mi stava chiedendo, ed era commovente, a questo punto, la sua inermità di fronte a tale interrogativo.
"Perché gli ebrei seguitano a vivere nella diaspora?"
Non m'andava di sbarazzarmi con due parole d'un uomo evidentemente in preda a grave confusione, ma neanche m'andava di discorrere con lui, e non ero dell'umore giusto per discutere particolareggiatamente. Mi ripromettevo di farlo con Henry. La cosa migliore era dargli una risposta che lo facesse pensare. "Perché gli piace," gli risposi allora e cambiai posto. Qualche fila più indietro potevo concentrarmi, indisturbato, su quello che avrei detto, semmai, a Henry riguardo alla meraviglia della sua nuova esistenza.
Ora, presso l'oblò, alla mia sinistra sedeva un giovane dalla folta barba, in abito nero e camicia bianca, senza cravatta, dal colletto abbottonato. Stava leggendo un libro di preghiere ebraico e mangiava un dolcetto. Mi parve strano quell'abbinamento, ma d'altronde una mente laica e maldisposta è poco adatta a giudicare cosa distingue la pietas dall'irriverenza.
Posai la valigetta in terra--la sua stava aperta sopra il sedile frammezzo a noi--e cominciai a scrivere una lettera a Henry. 
Non mi venne di getto, come del resto nulla mi vien mai.
Fu, piuttosto, come usare un contagocce per estinguere un incendio. Scrissi e corressi per circa due ore, adoprandomi coscientemente per imbrigliare il cavillante fratel maggiore che badava a strafare nelle prime stesure. "Vuoi ch'io veda soltanto la realtà politica. Ebbene, la vedo. Ma vedo anche te. Anche tu sei una realtà." Cancellai questa ed altre consimili frasi, scrivendo e riscrivendo, finché non mi avvicinai, per quanto possibile, a vedere le cose dal suo punto di vista, non tanto per giungere a una riconciliazione, ch'era fuori questione e che neppure desideravamo più, né io né lui, quanto per poterci accomiatare senza ch'io urtassi i suoi sentimenti e causassi più danni di quanti ne avevo causati in quel nostro ultimo faccia a faccia. Sebbene non potessi, per me, credere ch'egli fosse in Israele per restarci --i figli sarebbero andati a trovarlo per Pasqua e vederli, pensavo, potrebbe cambiare ogni cosa--gli scrissi come se presupponessi irrevocabile la sua decisione. Se è questo quel che vuol credere lui, lo crederò pur io.
In volo con la El Al
11 dicembre 1978
Caro Henry,
dopo aver passato al setaccio, diffidenti, l'uno i motivi dell'altro, dopo esserci svalutati a vicenda, a che punto siamo, tu e io? Me lo chiedo fin da quando son salito su questo aereo. Tu sei diventato un attivista ebreo, un uomo politicamente impegnato, animato da convinzioni ideologiche, uno che studia l'antica lingua tribale e vive severamente lontano dalla famiglia, dagli averi e dalla professione, su un colle sassoso della Giudea biblica. Io son diventato (se t'interessa saperlo) un marito borghese, uno che vive a Londra in casa propria e, a quarantacinque anni, sono in procinto di diventare padre per la prima volta, sposato stavolta a un'inglese laureata a Oxford, nata in seno a una casta privilegiata che decretò per lei un'educazione assai dissimile dalla nostra - come ti direbbe lei stessa - e non molto simile a quella di qualsiasi altro, nei secoli recenti. Tu hai una patria, un popolo, un retaggio, una pistola, un nemico, un mentore - un mentore molto energico. Io, niente di tutto ciò. Ho una moglie inglese incinta. Viaggiando in direzioni opposte, siamo arrivati nell'età di mezzo a situarci in due posizioni che sono equidistanti dal nostro comune inizio. La morale che traggo da ciò, confermata dal nostro duello dialogico di venerdì sera quando stupidamente ti chiesi perché allora non mi sparavi, è che la famiglia è finita per sempre. La nostra piccola nazione è lacerata, a brandelli. Non avrei mai creduto di vedere questo giorno. Tanto, lo ammetto, per curiosità di scrittore quanto per un senso di dovere genetico, mi stillo il cervello da quarantott'ore cercando di capire la ragione per cui hai cambiato vita, laddove, in realtà, non è difficile capirlo. Stufo delle aspettative altrui, delle altrui opinioni, tanto stanco del tuo aspetto rispettabile quanto del tuo lato nascosto, in un periodo della vita dove le robe vecchie sono seccumi, ecco arrivare questa rabbia dall'estero, il colore, la potenza, la passione di essa, nonché certe questioni che stanno scuotendo il mondo. Tutti i dissensi presenti nell'animo ebraico vengon messi in mostra, ogni giorno, alla Knesset. Perché avresti dovuto resistere? Chi sei tu per lasciarti frenare? D'accordo. Quanto a Lippman, ho un debole anch'io per codesti istrioni. Certo, loro le tirano fuori, le cose, dal regno dell'introspezione! Lippman a me sembra uno per cui secoli di antipatia e diffidenza e oppressione son diventati uno stradivarius sul quale lui, selvaggiamente, suona da solista ebreo virtuoso. Le sue tirate possiedono una strana carica di realismo e, pur mentre le si rifiuta, ci si chiede se ciò avvenga perché quello che dice è sbagliato o perché dice cose indicibili. Ti ho chiesto, con eccessiva impazienza, se la tua identità andava plasmata dalla terrificante potenza di una immaginazione più ricca di realtà della tua, ma avrei dovuto conoscerla da me, la risposta. Come può mai darsi diversamente? La proditoria immaginazione è la creatrice di ognuno di noi: ci si inventa a vicenda, ciascuno è frutto di un incantesimo altrui ed evoca tutti gli altri per incanto. Siamo gli uni gli autori degli altri. Guarda il posto che adesso vuoi chiamare patria: un intero paese che immagina se stesso, che si chiede: "Che diavolo è 'sta faccenda di essere ebrei?"
- gente che perde un figlio, che perde un braccio o una gamba, che perde questo o quello, per dare una risposta concreta. "Che cos'è in primo luogo un ebreo?" E' una domanda cui si è sempre dovuto dare una risposta: la parola "ebreo" non è stata creata come è stata creata una pietra, nel mondo:
una qualche voce umana una volta ha detto "giudeo", indicando qualcuno, e questo è stato l'inizio di qualcosa che non ha poi più avuto fine.
Un altro luogo famoso per inventare (o reinventare) l'ebreo fu la Germania sotto Hitler. Fortunatamente per noi due, c'eran stati prima di allora i nostri nonni - come giustamente mi hai rammentato venerdì sera - i quali, incongruamente, si chiedevano, sotto i baffi, se l'ebreo fosse uno destinato per forza alla distruzione in Galizia. Pensa a tutto ciò che ci hanno risparmiato, a parte salvarci la pelle, pensa all'audace, inventiva genialità dei poveri cosiddetti greenhoms, sprovveduti emigranti che varcarono l'Atlantico per stabilirsi in America. Ed ecco, adesso, per il timore di un altro Hitler e di un nuovo gran macello di ebrei, ecco questo violinista virtuoso di Agor, il cui ideale, acceso dai crematori nazisti, è quello di ripristinare la preminenza spirituale ebraica spazzando via ogni svantaggioso tabù morale. Devo dirti che ci sono stati dei momenti, venerdì sera, in cui mi sembrava che fossero gli ebrei residenti ad Agor a vergognarsi veramente della storia ebraica, a non poter tollerare quello che gli ebrei sono stati, a sentirsi in imbarazzo per quello che sono diventati e a dar prova di quello schifo per le "anormalità" della diaspora che si riscontra anche nel classico antisemita da essi aborrito. Come lo chiameresti, mi domando, un museo delle cere in cui venissero effigiati quei tuoi amici che hanno in sprezzante disdegno ogni ebreo introspettivo dalle pacifiche inclinazioni e dagli ideali umanistici se non il Museo dell'Odio degli Ebrei per Se Stessi? Veramente credi, Henry, che nella contesa a chi immagina meglio gli ebrei dovrebbero essere i Lippman a vincere? Trovo ancora arduo credere, nonostante quanto mi hai detto, che il tuo fiorente sionismo sia il risultato di una emergenza ebraica a te occorsa in America. Non oserei mai biasimare il sionista la cui decisione di emigrare in Israele sia nata dalla convinzione di sottrarsi cosi a un pericoloso o menomante antisemitismo. Si trattasse, nel tuo caso, di minaccia antisemitica, o di isolamento culturale, o persino di un senso di colpa individuale, per quanto irrazionale fosse, riguardo all'Olocausto, ci sarebbe poco da mettere in forse. Senonché, guarda un po', sono convinto che, se tu sei stato schifato o deformato da alcunché, a schifarti o deformarti non è stato il ghetto, la mentalità del ghetto, né è stato il goy e la minaccia da esso rappresentata.
Non sei il tipo tu da accettare acriticamente il cliché tanto in auge ad Agor degli ebrei americani che si godono i lussi della società dei consumi, con un occhio guardingo sulla teppaglia mangia-ebrei - o, peggio, immemori di questa incombente minaccia - e, al contempo, ribollenti, dentro di sé, di vergogna e di odio per se stessi. E' più probabile che ribolliscano di amore per se stessi, sicuri di sé e del proprio successo. E può darsi che questo sia un evento storico mondiale analogo a quello che tu vivi e che fa storia in Israele. Non è detto che si faccia storia alla stessa maniera in cui un muratore fa una casa: si può svolgere un ruolo nella storia senza che esso sia ovvio, e neppure cosciente. Può darsi che affermandoti nella sfera sociale, in un luogo civile e tranquillo come South Orange, più o meno dimentico delle tue origini ebraiche pur restando identificabilmente (e volontariamente) ebreo, tu "facessi della storia ebraica" non meno sorprendente della loro, pur senza magari saperlo ogni momento, e senza bisogno di dirlo. Anche tu stavi nel tempo e nella cultura a tua insaputa o meno. Ebrei che odiano se stessi? L'America, Henry, è piena di non-ebrei che odiano se stessi, a quel che mi consta: il nostro è un paese pieno di messicani che vorrebbero passare per texani, di texani che amerebbero essere scambiati per newyorkesi, eppoi ci sono tantissimi anglosassoni protestanti bianchi del Middle West che, credici oppure no, ci tengono a parlare e agire e pensare come ebrei. Dividere l'America in ebrei e goy vuol dire non aver capito niente, poiché l'America non è come se l'immaginano gli ideologi di Agor. Né il cliché surriferito vale, come metafora, per descrivere la vita di persone responsabili come te, in America: una vita piena di conflitti e tensioni e valida come quella di chiunque altro, ben diversa -ai miei occhi - dalla vita di Riley, la vita pacchia, bensì vita, punto e basta.
Ripensaci, a quanta "insignificanza" sei disposto a concedere alla loro dogmatica sfida sionista. Fra parentesi, non ti avevo mai sentito usare la parola goy con una tal aria di autorità intellettuale. Mi ricordo che da studente andavo in giro a Chicago a parlare di Lumpenproletariat come se ciò attestasse la vastità della mia comprensione della società americana. Quando vedevo quegli stronzi che bazzicavano i caffè di Clark Street, mi dava gusto borbottare Lumpenproletariat. Mi pareva di sapere qualcosa. Francamente credo che tu abbia imparato di più "sul goy" dalla tua amante svizzera di quanto non imparerai mai ad Agor. Anzi, potresti insegnargli tu qualcosa. Provaci, uno di questi venerdì. Raccontagli come te la spassavi, durante la tresca. Sarebbe istruttivo per chiunque e renderebbe il goy un po' meno astratto. A me sembra che il tuo legame con il sionismo abbia ben poco a che fare con il sentirti più profondamente ebreo o con l'esserti scoperto minacciato sdegnato o psicologicamente incatenato dall'antisemitismo nel New Jersey il che non rende l'impresa meno "autentica". La rende anzi assolutamente classica. Il sionismo, a quel che mi risulta, nacque non solo dal profondo sogno ebraico di sfuggire ai pericoli dell'isolamento e alla crudeltà dell'ingiustizia sociale e della persecuzione, ma anche dal ben conscio desiderio di svestirsi virtualmente di ogni cosa che ormai appariva, tanto ai sionisti quanto ai cristiani europei, tipicamente ebraica nei comportamenti: per invertire la forma stessa dell'esistenza ebraica. Era una specie di favoloso utopismo, un manifesto per la trasformazione umana tanto estremo - e, all'inizio, tanto implausibile - quant'altri mai ne furono concepiti. Un ebreo sarebbe diventato, volendo, una diversa persona. Ai primi tempi, dopo la nascita di Israele, quest'idea piacque quasi a tutti, tranne agli arabi. In tutto il mondo si tifava per gli ebrei: forza! disebreatevi nella vostra piccola patria. Ecco perché secondo me Israele fu, per un po', universalmente acclamato: non più ebrei ebraici, magnifico!
A ogni modo, che tu sia "mesmerizzato" da quel laboratorio sionista di ebraismo sperimentale chiamato "Israele" non è un gran mistero visto in questa luce. Mordecai Lippman impersona, ai tuoi occhi, la forza di volontà tesa a ricreare la realtà. Manco a dirlo, anche il potere della pistola come ricreatrice di realtà ha il suo fascino.
Caro Hanoch (per invocare il nome di quell'anti-Henry che tu sei deciso a disseppellire sui colli di Giudea), spero che tu non resti ucciso nel tentativo. Se era la debolezza che ritenevi essere il nemico mentre eri in esilio a South Orange, adesso, nella terra avita, il nemico potrebbe essere un eccesso di forza. Non va minimizzato: non tutti a quarant'anni avrebbero il coraggio di trattare se stessi come materia grezza, di abbandonare una comoda vita in famiglia divenuta loro estranea, e affrontare i disagi del profugo. Nessuno va lontano come te e, stando almeno alle apparenze, se la cava così bene, e subito, contando soltanto sull'ostinazione o l'audacia o la pazzia. Una immensa voglia di palingenesi, di autorinnovamento (o, per dirla con Carol, di autosabotaggio) non può venir soddisfatta delicatamente: richiede muscoli robusti.
Nonostante la snervante devozione a Lippman e alla sua carismatica vitalità, tu mi sembri in sostanza più libero e più indipendente di quanto non ritenessi possibile. Se è vero che pativi intollerabili limitazioni e vivevi in antitesi con te stesso, tormentosamente, ebbene, per quel che ne so, hai fatto un saggio uso della tua forza e tutto quello che io dico è irrilevante. Forse è giusto che tu sia finito costì; può darsi che fosse quello che ci voleva per te, da sempre: un métier combattivo e sentirti libero da sensi di colpa. Chi sa che, fra un paio d'anni, le cose non cambino per te, e avrai motivi, per vivere costì, che mi sembreranno a te più congeniali - se ci parleremo ancora - e questi saranno, anzi, maggiormente simili a quelli che io mi figuro siano le ragioni per le quali la gente in genere abita colà, o, comunque, alle ragioni che io, per me, non considero, guarda, affatto meno serie o significative di quelle che ti animano adesso.
Certo il sionismo è più complesso e non si riduce a mero ardimento ebraico dacché, dopotutto, gli ebrei che agiscono arditamente non sono meramente israeliani o sionisti. Normale/abnorme, forte/debole, noi/io, simpatia/antipatia: manca una dicotomia, sulla quale mi hai poco parlato: ebraico/inglese. Cost ad Agor di antisemitismo si parla, di orgoglio ebraico si parla, di potere ebraico si parla, ma non ho sentito te e i tuoi amici parlare dell'aspetto linguistico ebraico, the Hebrew aspect, e dell'enorme realtà culturale che esso rappresenta. Forse a me vien fatto di pensarci perché sono uno scrittore, sebbene francamente mi meraviglierei se non ci pensasse nessuno, poiché è alla fin fine l'ebraico più che l'eroismo ciò di cui tu ti sei circondato, proprio come, se fossi andato a stare a Parigi, sarebbe con il francese che tu costruiresti la tua esperienza e il tuo pensiero. Nell'esporre i tuoi motivi per vivere costì, mi sorprende che tu non batta tanto sul tema della cultura che vai acquisendo quanto su quello della virilità che scaturisce dall'orgoglio, dall'azione e dal potere. O forse ci arriverai solo allorché comincerai a provare nostalgia per la lingua e per la società che hai, ai miei occhi, ciecamente abbandonate.
A dirti la verità, ti avessi incontrato per le vie di Tel Aviv con una donna sottobraccio e mi avessi detto: "Amo il sole e gli odori di qui e la falafel e l'ebraico e voglio vivere da dentista in un mondo di tutti ebrei, dove si parla ebraico," non me la sarei sentita di contestarti in alcun modo. Tutto ciò che corrisponde al mio concetto di normalità - l'avrei capito assai più facilmente che non il tentativo, da parte tua, di rinserrarti entro un pezzo di Storia, nel quale al postutto non ti ritrovi, entro un ideale, entro un impegno che sarà stato magari cogente per quelli che ci sono cresciuti insieme, che costruirono un paese allorché non avevano più alcuna speranza, alcun futuro, e non c'erano, per loro, altro che difficoltà - un ideale che era, senza dubbio, brillante, ingegnoso, coraggioso e vigoroso nel suo periodo storico - ma che, veramente, non mi sembra tanto cogente e valido per te.
Nel frattempo, a rischio di imitare la mamma quando tu andavi a esercitarti nella corsa a ostacoli, al liceo, ti raccomando di stare attento, per amor di Dio. Non vorrei venire costì, la prossima volta, a prelevare i tuoi miseri resti. Il tuo unico fratello, Nathan
PS Vedi, dalla firma, che non mi son dato la briga di cambiar nome, ma in Inghilterra andrò alla ricerca del mio anti-me-stesso, portando gli antichi documenti di identità, travestito da N.Z.
Dopodiché annotai sul taccuino tutto quel che ricordavo del colloquio della sera avanti con Carol. Fra Israele e il New Jersey ci sono sette ore di differenza e quindi mentre io stavo per mettermi a letto, lei si accingeva a preparare la cena, quando le telefonai per ragguagliarla sul marito. Da quando Henry era scomparso cinque mesi addietro, Carol aveva subito anch'essa una notevole trasformazione: aveva smesso di far la "brava". Quella donna estremamente docile e accomodante, che a me era sempre parsa un po' enigmatica, adesso si era armata di cinismo, necessario per rimediare al colpo basso ricevuto, nonché dell'odio occorrente per sanare la ferita. Ne conseguiva che per la prima volta in vita mia sentivo, adesso, una sorta di potere, di energia in lei (oltre che un certo fascino di donna), e mi chiesi a cosa sarei potuto approdare insistendo a fungere da paciere domestico. Non eran tutti più felici in collera? Senz'altro erano più interessanti. Si è ingiusti con la rabbia. Può essere vivacizzante e divertente assai.
"Ho passato la giornata di venerdì con lui, ad Agor, e poi sono rimasto là a dormire. Non ho potuto chiamare un tassì per telefono, l'indomani, perché sono tutti religiosi, là: nessuno entra, nessuno esce, al sabato, quindi nessuno poteva portarmi. E così sono rimasto. Non l'avevo mai visto più in salute, Carol.
Ha un gran bell'aspetto, se vuoi saperlo."
"E fa tutte quelle cose ebraiche?"
"Qualcosa. Soprattutto, impara la lingua ebraica. Ci si dedica molto. La sua decisione--dice--è irrevocabile, e non tornerà a casa. E' in uno stato d'animo molto ribelle. Non ci vedo un'oncia di rimorso, in lui, né alcuna nostalgia vera e propria. Nessun tentennamento, a dirla schietta. Sarà solo euforia, magari. 
E' ancora nella fase euforica."
"Euforia, la chiami? Una troietta israeliana me l'ha portato via... non è questa la storia vera? C'è una soldatessa, nella sua vita, ne sono sicura, con le belle tettine e il mitra." "Ci avrei scommesso anch'io. Invece no, niente donne."
"Ha una moglie, 'sto Lippman, che lui si scopa?" "Lippman è un gigante agli occhi di Henry--non credo che gli metterebbe mai le corna. Il sesso è una 'cosa superficiale" e lui ha eliminato ogni superficialità. Ha scoperto in sé lo spirito aggressivo, con l'aiuto di Lippman. Ha visto il potere. Ha scoperto il dinamismo. Ha scoperto aspirazioni più nobili, intenti più puri. Ho paura che adesso sia Henry il fratello anticonvenzionale, il figlio testardo. Ha bisogno di una scena più vasta per la sua anima."
"E lo trova 'grande', quel paesino di merda, quello schifo di posto in mezzo al deserto?"
"Deserto biblico, però."
"Non mi dirai che si tratta di Dio, niente niente?"
"Anche a me pare bizzarro. Non ho idea, come gli sia venuto in mente."
"Io sì. Vivevate in un piccolo ghetto, voi due, quand'eravate ragazzini, con quel pazzo di vostro padre. E lui è tornato alle radici di quella follia. E' quella stessa pazzia, che ha preso una diversa direzione."
"Non l'avevi mai trovato pazzo, finora."
"L'ho sempre pensato invece, che fosse matto. Se vuoi saper la verità, vi ho sempre trovati tutti un po' tocchi. Tu te la sei cavata meglio. Non te ne sei mai dato pensiero: hai riversato la pazzia nei libri, e sei diventato ricco. Hai tratto profitto dalla pazzia, ma essa fa pur sempre parte del patrimonio di famiglia, specie sull'argomento 'ebrei". Henry è uno Zuckerman pazzo a tardiva fioritura."
"Danne la spiegazione che ti pare, sta di fatto che non ha l'aria del pazzo né parla come un pazzo, e non ha perso del tutto contatto con la vita. Non vede l'ora di rivedere i figli, a
Pasqua. "
"Tranne che non ce li mando. Non voglio immischiarli. Mai
voluto. Sennò, avrei sposato un rabbino. Non voglio 'ste robe, non mi interessano, né credo che interessino a lui."
"Lui è convinto che i figli andranno là, per la Pasqua ebraica."
"Invita anche me, o solo i figli?"
"I figli soltanto, a quel che ho capito. Credevo che il viaggio fosse organizzato e tutto."
"Non li lascio andare, da soli. Se è stato tanto matto, lui, da fare quel che ha fatto, è anche pazzo abbastanza per trattenerli e trasformare Leslie in un mostruoso bigotto, coi riccioli sul collo e la faccia bianca come un morto. Men che meno gli mando le bambine, che magari gli fa radere i capelli e le marita al macellaio."
"Ti ho dato credo una falsa idea, dicendoti che di là, al sabato, neppure si telefona. Non è la religione a ispirarlo, bensì il luogo: la Giudea. Gli dà un più serio senso di se stesso, aver le radici della religione ebraica tutt'intorno a sé." "Quali radici? Di là, s'è sradicato duemila anni fa. A quel che ne so io, le sue radici sono nel New Jersey. Che sciocchezze!" "Fa' come ti pare, s'intende. Ma se i figlioli venissero qui per Pasqua, potrebbe riaprirsi un canale fra voi due. Oggi, Henry riversa tutto il suo senso del dovere nella causa ebraica, ma, alla vista dei figli, potrebbe cambiar tutto. Finora, ci ha tutti esclusi dal suo idealismo ebraico, ma, al loro apparire, potremmo arrivare a scoprire se si tratta veramente di un mutamento rivoluzionario oppure una semplice rivolta, transitoria. L'ultimo grosso sfogo di gioventù. Più o meno si riduce alla stessa cosa: il desiderio di approfondire la vita. Il desiderio sembra alquanto genuino, ma i mezzi, lo ammetto, mi paiono estremamente inadeguati. Per adesso è come se intendesse vendicarsi di tutto ciò che una volta, ne è convinto, lo bloccava e ostacolava. Vuol rifarsi. Ma prima o poi l'euforia si smorzerà e la vista dei figli potrebbe anzi portare a una riconciliazione con te. Se tu la vuoi, "I miei figli detesterebbero quel posto, quell'ambiente. Sono stati allevati, da me--da lui--a rifiutare tutto ciò che si riferisce alla religione, a qualsiasi dogma religioso. Se lui vuole battere la testa per terra e levare lamenti, faccia pure, ma i figlioli rimangono qui. E se lui vuole vederli, che venga qui."
"Ma se cominciasse a ricredersi, lo riprenderesti?"
"Se ritrovasse il senno? Certo che lo riprenderei. I figlioli reggono, ma non è mica una pacchia neanche per loro. Sono stravolti. Ne sentono la mancanza. Non direi che sono confusi, perché sono estremamente intelligenti. Sanno esattamente cosa sta succedendo." "Sì? E cioè?"
"Pensano che abbia un esaurimento nervoso. Hanno solo paura che mi prenda anche a me."
"Ti prenderà?"
"Se mi sequestra i figli, sì. Se la pazzia seguiterà ancora a lungo, forse."
"Secondo me è tutta una conseguenza di quella maledetta operazione."
"Anche secondo me. Si aggrappa a Dio, o alle festuche, o a quel che capita, per via della paura di morire. Una sorta di amuleto magico, una sorta di scaramanzia per far sì che non capiti di nuovo. Penitenza. Oh, è tremendo. Non ha alcun senso.
Chi l'avrebbe mai detto?"
"Semmai a Pasqua tu riuscissi..."
"Quand'è la Pasqua ebraica? Non so neppure quando cade, Nathan. Non l'osserviamo, noi. Mai, neanche quando stavo coi miei genitori. Persino mio padre, che aveva un negozio di scarpe, era immune da queste cose. Non glien'importava della Pasqua ebraica, la sua passione era il golf, il che lo situa, direi, tremila gradini più in alto di quello stupido di suo genero, sulla scala dell'evoluzione. Religione! Non è che fanatismo e superstizione e non porta che guerre e morte! Sciocchezze medioevali. Se demolissero tutte le chiese e le sinagoghe per farci campi da golf, il mondo sarebbe migliore!"
"Ti dico solo che, se vuoi che torni in futuro, dovresti accontentarlo per 'sta faccenda di Pasqua."
"Ma non voglio che torni, se è pazzo a questo modo. Non voglio passare la vita insieme a un ebreo pazzo. Per tua madre poteva andar bene, ma per me no."
"Potresti dirgli: 'Senti, puoi essere ebreo anche nel New
Jersey. " '
"Con me, no--non può."
"Ma dopotutto hai sposato un ebreo. E lui un'ebrea." "No. Ho sposato un bell'uomo alto, atletico, molto dolce, molto sincero, un uomo cosciente, un bravo dentista. Non ho sposato un ebreo."
"Non sapevo la pensassi così."
"Dubito che tu abbia capito mai niente di me. Ero solo la mogliettina scema di Henry, io, per te. Certo, pro forma, sono ebrea--ma chi ci ha mai manco pensato? Si può essere certe cose solo pro forma. Ma Henry ha grattato e grattato la superficie, finché ci ha perso il senno. Io, per me, semplicemente, non voglio aver nulla a che fare con quelle fregnacce, roba da gente bigotta, ristretta, superstiziosa. E men che meno voglio che i miei figli vi abbiano a che fare."
"Quindi, per poter tornare a casa, Henry dovrà essere tanto 'inebreo' quanto te."
"Appunto. Senza riccioli sul collo e senza zucchetto. Mica ho studiato letteratura francese, all'università, perché lui potesse andare in giro in zucchetto. Dove vorrebbe mandarmi, adesso, su in galleria, con le altre donne? Non le tollero, queste cose. E più la gente le piglia sul serio, più a me fanno schifo. Sono rivoltanti meschinerie, da menti ristrette. E piene di sussiego. 
Non mi lascio mettere in trappola."
"Sia come sia, se vuoi riunire la famiglia, un sistema potrebbe essere quello di dirgli: 'Vieni e continua i tuoi studi di ebraico qui, continua qui a studiare la Torah..."'
"Studia la Torah?"
"La sera. Per diventare un autentico ebreo. Autentico è l'aggettivo: in Israele può essere un autentico ebreo e tutto, intorno 
a lui, ha un senso. In America, a essere ebreo, si sentiva artificiale." "Ah, sì? Artificiale! Be', io lo trovavo in gamba. Idem le sue amichette. Senti, ci abitano milioni di ebrei, a New York--sono tutti artificiali? Non mi ci raccapezzo. Voglio vivere da essere umano, io. Non mi va certo di essere un'ebrea autentica. Se è quello che lui vuole, allora noi due non abbiamo più niente da dirci."
"Quindi, solo perché tuo marito vuol essere ebreo, tu lasci che si sfasci la famiglia."
"Cristo, non metterti tu, adesso, a fare la predica sulla famiglia. O sull'Essere Ebrei. No: è perché mio marito, che è americano, che io credevo appartenesse alla mia generazione, alla mia epoca, libero da tutte quelle remore, ha fatto un passo da gigante all'indietro nel tempo, è per questo che si sfascia la famiglia, ecco perché. Quanto ai figli, la loro vita è qui, qui stanno i loro amici, qui le loro scuole, le loro future università. Non hanno lo spirito pionieristico di Henry, non hanno avuto per padre uno come il padre di Henry, e non andranno nella patria biblica per Pasqua, e nemmeno in una sinagoga di qui. Niente sinagoghe, per questa famiglia! Non si mangiano cibi kosher in questa casa. Non potrei assolutamente vivere una simile vita. Che si fotta, che resti dov'è, se è l'autentico giudaismo che vuole, che resti là e si trovi un'altra autentica ebrea con cui vivere e che mettano su, insieme, una casa con un piccolo tabernacolo dove celebrare le loro feste religiose. Qui è assolutamente fuori questione: nessuno andrà in giro per 'sta casa a suonare la tromba della redenzione ebraica!"
Eravamo a metà strada da Londra quando finii di scrivere, e il giovane accanto a me era ancora immerso nel suo libro di preghiere. Carte di caramelle erano sparse sul sedile fra noi e il sudore colava a rivoli sotto la larga tesa del suo cappello. Non c'erano vuoti d'aria, l'aereo era ben aerato, la temperatura mite, e allora mi domandai, come mia madre--come sua madre --ma non gli farà male mangiar tutti quei dolciumi? Sotto il cappello e la barba mi pareva somigliasse a qualcuno di mia conoscenza: magari uno insieme al quale ero cresciuto nel New
Jersey. D'altronde, lo stesso avevo pensato, nei giorni precedenti, di diverse persone che avevo viste: al caffè, in via Dizengoff, e di nuovo nei pressi dell'albergo in attesa d'un tassì, certi connotati archetipicamente ebraici che scorgevo sul viso di questo o quell'israeliano mi rammentavano qualcuno che in America avrebbe potuto essere un parente prossimo se non il medesimo ebreo in una nuova incarnazione.
Prima di riporre il taccuino nella valigetta, rilessi quel che avevo scritto a Henry. Ma perché non lo lasci in pace, poverino? mi chiesi. Questa lettera è proprio quel che gli ci vuole!
La useranno per esercitarsi al tirassegno, ad Agor. Ma non l'avevo forse scritta per me stesso, per mio uso e consumo, al fine di rendere interessante ciò che a lui non riusciva? Mi parve, ripensando alle ultime quarantott'ore, che con Henry io fossi in presenza di uno che sognava superficialmente un sogno profondo. Ripetutamente avevo tentato, mentre ero con lui, di dare a quella sua fuga dai ristretti confini della vita un alto significato, ma alla fine, nonostante la sua determinazione a rinnovarsi, mi appariva tanto ingenuo e tanto poco interessante quanto era sempre stato. Persino ad Agor, in quella ressa ebraica, lui riusciva a restare perfettamente comune, mentre invece io avevo sperato-e proprio per questo forse avevo intrapreso il viaggio-di trovare che, libero per la prima volta in vita sua dalla protezione delle responsabilità familiari, egli fosse diventato qualcosa di meno esplicabile e di più originale che... che non Henry. Ma era come aspettarsi che la vicina di casa, che sospetti tradisca il marito, si riveli a te come Emma Bovary e, per giunta, nel francese di Flaubert. Le persone non si presentano agli scrittori come personaggi letterari a tutto tondo: in genere ti offrono assai poco su cui lavorare e, dopo l'impatto della prima impressione, non sono quasi più di alcun aiuto. La maggior parte
delle persone (a cominciare dal romanziere: se stesso, i suoi parenti, più o meno tutti quelli che conosce) sono tutt'altro che originali e suo compito è quello di farli apparire altrimenti. Non è facile. Se Henry doveva risultare interessante, toccava renderlo tale a me.
Mi restava da scrivere un'altra lettera, fin tanto che gli eventi dei giorni scorsi fossero ancora freschi nella mente, in risposta a una lettera di Shuki che mi era stata recapitata a mano all'albergo, poco prima della partenza. L'avevo letta sul tassì che mi
portava all'aeroporto e ora, avendo tempo e modo di concentrarmi, la tirai fuori dalla valigetta per rileggerla con calma, tenendo presenti quei pochi ebrei che avevo incontrato in quelle 72 ore, ricordando come ciascuno di essi mi si era prospettato --e come ciascuno aveva prospettato il paese. Non avevo visto praticamente nulla della realtà di Israele, ma cominciavo a farmi un'idea di quello che rappresentava agli occhi di alcuni suoi abitanti. Ero arrivato in Israele più o meno freddo, per vedere che ci facesse, lì, mio fratello, e quel che Shuki voleva dimostrarmi era che, alla partenza, ero altrettanto freddo: le faville viste ad Agor potevano non significare tutto quel che credevo volessero dire. Ed era più importante di quanto non mi fossi finora reso conto, per me, non essere fuorviato. Shuki mi rammentava, a quarantacinque anni--sia pure con molto rispetto ed estrema gentilezza--quello che mi era stato detto come scrittore (per primo da mio padre, in effetti) fin da quando avevo cominciato a pubblicare i primi racconti: che gli ebrei non sono fatti apposta per divertire me, o per intrattenere i miei lettori, e men che meno se stessi. Mi si raccomandava di tener presente la gravità della situazione prima di farne una commedia e metter gli ebrei in falsa evidenza. Mi veniva rammentato che ogni parola che io scrivo sugli ebrei è potenzialmente un'arma contro di noi, una bomba nell'arsenale dei nostri nemici, e che, grazie in gran parte a me, anzi, tutti sono oggi disposti a dar ascolto a ogni sorta di tesi farsesche, burlesche sugli ebrei che non rispecchiano minimamente quella realtà da cui siamo minacciati. Tutto quello cui riuscivo a pensare, rileggendo lentamente la sorprendente lettera di Shuki, era che al proprio destino non si sfugge. A me non mancheranno mai quei grossi tabù fra le cui fauci ho dovuto inserire il mio tipo di talento. "Questo rimprovero," pensai, "mi seguirà fino alla tomba. E forse, se han ragione quelli al Muro del pianto, anche oltre."
Ramat Gan
10 dicembre 1978
Caro Nathan, sto qui a casa e mi preoccupo per te su ad Agor. Quel che mi dà pensiero è che anche tu ti innamori di Mordecai Lippman. Quel che temo è che anche tu venga fuorviato dalla sua vivacità e che lo scambi per un personaggio più interessante di quanto non sia. Gli ebrei vivaci, del resto, non sono assenti dai tuoi romanzi, né Lippman sarebbe il primo nostro delinquente a deliziare la tua fantasia. Bisognerebbe essere ciechi per non riconoscere il fascino che esercita su te l'autoesagerazione degli ebrei e l'attrattiva che ha per te un ebreo sfrenato, in antitesi alla tua relativa indifferenza, come romanziere, nei confronti dei nostri pensatori razionali, i nostri modelli ebraici di dolcezza e di luminosità. Le persone che ti piacciono e che ammiri veramente ti risultano meno affascinanti, mentre tutto ciò che v'è di ironico nella tua tipicamente ironica e strettamente autodisciplinata natura ebraica è sproporzionatamente sollecitato dallo spettacolo di ciò che moralmente ti repelle e, in antitesi a te stesso, ti ammalia l'ebreo senza remore, eccessivo, la cui vita è tutt'altro che una ben difesa impostura, un'abile mascherata, e il cui talento non va verso la dialettica come il tuo, bensì verso l'apocalisse. Quel che mi dà pensiero è che tu veda in Lippman e nella sua schiera una sorta di irresistibile circo equestre ebraico, un grosso spettacolo, e quel che ispira moralmente un malconsigliato Zuckerman risulti, per l'altro fratello, spassoso, dal momento che questi è uno scrittore incline a esplorare gravi, persino gravissimi argomenti, attraverso le loro possibilità comiche. Quel che fa di te un ebreo normale, Nathan, è il modo in cui sei attratto dalla anormalità ebraica.
Nel caso che Lippman ti riesca tanto attraente da indurti a scrivere su di lui, ti prego di tener presente quanto segue: a) Lippman non è un personaggio tanto interessante quanto di primo acchito potrebbe esserti sembrato: vai di un palmo al di là della tirata e lui risulta essere un mentecatto qualsiasi, un somaro, un ciarlatano unidimensionale, ripetitivo, prevedibilmente disonesto ecc.; 
b) Lippman da solo è fuorviante, non è la società, sta ai marginidella società; per l'estraneo, la polemica è il marchio di fabbrica della nostra società, e poiché lui è un gran polemista, uno di quelli che devon propinarti l'intera ideologia tutt'assieme tutte le volte, potrebbe apparirti come la personificazione stessa di Israele. In realtà è un paranoico periferico, la voce più estremistica e fanatica che questa situazione possa generare, e sebbene egli possa arrecare più danno di un senatore Joseph MacCarthy, abbiamo di fronte un fenomeno analogo, uno psicopatico profondamente alienato, estraneo al buon senso del paese e assolutamente marginale rispetto alla vita quotidiana comune (della quale non hai veduto niente, fra parentesi); 
c) c'è insomma qualcos'altro, in questo paese, oltre a quello che senti dire ad Agor da Lippman, e magari oltre a quello che hai udito da me a Tel Aviv (altro personaggio periferico, il sottoscritto: il pazzoide periferico, logorato dalle proprie lamentele); 
ricorda, se prenderai per argomento di un libro la sua polemica o la mia - che scherzerai su un argomento per il quale c'è chi muore. Dei giovani muoiono qui, infatti, per quello su cui noi discutiamo. Mio fratello è morto per esso, mio figlio potrebbe morirne - non è escluso - per non parlare di altri ragazzi. E muoiono perché sono agganciati a qualche cosa che va ben al di là delle minacciose buffonate di Lippman.
Qui non è l'Inghilterra, dove uno straniero può passarci una vita senza capirne nulla. Persino nel giro di un'ora tu capti nitide impressioni in un paese come questo dove tutti danno sfogo alle loro opinioni ai quattro venti e pubblicamente si discute con febbrile accanimento di politica... Ma non lasciarti fuorviare. In palio c'è una faccenda seria e, per quanto tedioso e implacabile possa essere il mio disgusto per tante di quelle cose che qui avvengono da anni, per quanto poco io seguiti ad aderire a un sionismo della marca di quello di mio padre, le mie collere sono pur sempre dettate da una mia ineluttabile identificazione con Israele e la sua lotta; mi sento responsabile verso questo paese: una responsabilità, la mia, che in te non sarà innata, ma in me sì.
Anche la delusione è un segno che, del tuo paese, ti importa. Ma a preoccuparmi non è che tu rechi affronto al mio orgoglio nazionale; bensì, che, se e quando scriverai della tua visita ad Agor, il lettore medio di Nathan Zuckerman tenderà a identificare Israele con Lippman. Checché tu abbia a scrivere, Lippman ne uscirà fuori più forte di chiunque altro e il lettore medio ricorderà lui meglio di chiunque altro e penserà che lui sia Israele. Lippman è brutto, Lippman è estremista equivale a: Israele è brutto, gli israeliani sono estremisti: questa voce fanatica è la voce del paese. E ciò potrebbe fare gravi danni.
Io non valuto il pericolo come lo valutano ad Agor, ma questo non vuol dire che pericolo non ci sia. Anche se a mio giudizio il pericolo maggiore è costituito da Agor stessa, v'è pur sempre un pericolo esterno non meno reale, che potrebbe risultare assai più orrendo. Non dico questo rancorosamente: non accuso tutti quanti i non-ebrei di esser contro di noi - questa è la tesi di Lippman - ma abbiamo bensì implacabili detrattori che ci disprezzano:
tu ne hai avuti per commensali l'altra sera a Londra, io sono stato intervistato da un altro, alla BBC. Ce n'è tanti che scrivono sui giornali di tutta Europa. Tu puoi renderti conto, quando ti trovi faccia a faccia con Lippman, che costui è un bugiardo, un fanatico, un figlio di puttana di destra che perverte quei principi umanitari sui quali lo stato di Israele si fonda, ma, per loro, tu in Lippman presenti il sozzo cuore del sionismo, il vero volto dello stato ebraico che loro implacabilmente descrivono al mondo come sciovinista, militante, aggressivo e assetato di potere. Inoltre potranno dire: un ebreo lo dice e, una volta tanto, è la verità. La faccenda, Nathan, è seria: abbiamo dei nemici con cui siamo costantemente in guerra e, sebbene più forti di loro, non siamo invincibili. Queste guerre, in cui sono in palio le vite dei nostri figli, ci riempiono di un senso di morte, tutto il tempo. Viviamo come uno che riceve continuamente punture di spillo, sicché non è tanto la nostra vita a essere in pericolo, quanto la nostra sanità mentale. La nostra salute mentale e i nostri figli.
Prima di metterti allo scrittoio per divertire l'America con Lippman, pensa un momento a quello che ora ti racconto: una storia vivace, forse troppo, ma esemplare.
Nel 1973, se gli arabi avessero attaccato il giorno di Rosh Hashanah anziché il giorno di Yom Kippur, le cose si sarebbero messe davvero male. A Yom Kippur stanno quasi tutti a casa. Non si esce, non si va da nessuna parte: a molti di noi non garba, ma si sta a casa lo stesso, è la cosa più semplice. Quindi, quando gli arabi attaccarono quel giorno, sebbene non stessimo in guardia - per eccesso di fiducia, per arroganza, per non aver intuito le intenzioni altrui - quando scattò l'allarme, tutti si era in casa. Bastava, quindi salutare i familiari. Non c'era nessuno per le strade, si poteva viaggiare veloci, portare rapidamente i carrarmati al fronte, tutto fu facile. Se avessero attaccato una settimana prima, se le loro spie avessero avuto l'intelligenza di consigliargli di attaccare il giorno di Rosh Hashanah, giornata festiva meno solenne, allorché una metà degli abitanti si trova altrove - decine di migliaia di persone in gita nei Sinai, a Sharm el Sheikh, gente del sud spostata a nord e viceversa, tutti con famiglia appresso - ebbene, se avessero attaccato quel giorno, ognuno avrebbe dovuto riportare a casa i familiari prima di raggiungere il proprio reparto, le strade sarebbero state intasate, un fuggi fuggi in ogni direzione, non si sarebbero potuti far affluire gli automezzi pesanti e corazzati rapidamente al fronte, allora sì, ci saremmo trovati davvero nei pasticci. Gli arabi sarebbero penetrati in profondità, sarebbe stato il caos. Non dico che saremmo stati vinti, ma ci saremmo trovati nel sangue fino ai ginocchi, con le case distrutte, i figlioli attaccati nei loro rifugi - sarebbe stato orrendo. Ti faccio osservare questo non per spezzare una lancia in favore del modo di pensare militarista, per cui la sopravvivenza di Israele è sempre in gioco, ma per dimostrare che moltissime cose sono illusorie.
Passiamo ad altro. Virtualmente, tutto ciò che ci occorre oggi, dobbiamo procurarcelo all'estero. Alludo a quelle cose che, se non le avessimo, i paesi arabi non ci tollererebbero neanche per un minuto (e vi includo il plutonio). Ciò che tiene gli arabi a bada non proviene dalle nostre risorse naturali, ma dall'estero, da tasche altrui. Come ti dicevo l'altr'ieri, per lo più proviene dagli Stati Uniti: quello che il vostro presidente stanzia e cui il vostro parlamento dà il nullaosta. Quello che abbiamo proviene dalle tasche degli americani: una parte di ogni dollaro versato al fisco serve ad armare gli ebrei. E perché mai l'americano del Kansas dovrebbe sborsar soldi per gli ebrei? La parte avversa cerca, di continuo, di farci mancare la terra sotto i piedi, di erodere questi sostegni, e la loro tesi fa nuovi proseliti, di continuo. Lascia solo che Begin faccia altre fesserie e, vedrai, si arriverà al punto che nessuno, in USA, si sentirà più in dovere di sborsare tre miliardi di dollari l'anno per tenere i giudei ben armati. Per seguitare a sganciare dollari, I'americano ha bisogno di credere che l'israeliano è più o meno simile a lui, una brava persona che ha i suoi stessi bisogni materiali. E non è Mordecai Lippman, questo israeliano. E se l'americano non vede in Lippman e seguaci quegli ebrei per i quali è disposto a sborsare dollari, non so proprio dargli torto. Lippman potrà anche incantare uno scrittore ebreo dalla vena satirica, ma chi è che, nel Kansas, intende aiutare un tipo simile con i propri sudati quattrini? A proposito, non hai ancora incontrato la controparte araba di Lippman, e non sei stato investito dalla sua retorica selvaggia. Ad Agor avrai certo sentito Lippman parlare degli arabi e dire che noi dobbiamo governarli, ma, se non hai sentito gli arabi parlare di governo, se non li hai visti governare, ebbene, da scrittore satirico, pregustati un festino ancor più prelibato. Gli ebrei delirano e sparano fregnacce, d'accordo, ma, per quanto divertente trovi Lippman il delirio arabo e le fregnacce arabe son qualcosa di molto notevole, e i tipi che le diffondono non sono meno trucidi. Una settimana in Siria, e potresti scrivere satire per sempre. Non lasciarti sviare dall'odiosità di Lippman: la sua controparte araba è uguale se non peggiore. Soprattutto, non sviare l'americano del Kansas. La cosa è troppo maledettamente complicata. Spero che tu non scorga, di quanto ti dico, soltanto il lato comico, ma ne veda anche la gravità. Il lato comico è evidente: Shuki il Patriota e l'imbonitore: I'invito alla solidarietà ebrea, alla responsabilità ebraica, da parte di quello stesso che ti fece da cicerone nel quartiere a luci rosse di Tel Aviv. E va bene, sono un fricco, ridicolmente contorto: irrimediabilmente distorto dalla dura situazione attuale, al pari di chiunque altro qui. Ma c'è un altro personaggio che e, ancora di più, pane per i tuoi denti. Scrivi pure, a cuor leggero, di un lsraeliano malcontento come me, politicamente impotente, moralmente lacerato, e stufo marcio di essere arrabbiato con tutti quanti. Ma sta' attento, quando dipingi Lippman.
Shuki
PS Mi rendo conto che ti sei già scontrato su questo argomento con ebrei americani. Non avresti potuto scrivere i libri che hai scritto se non ti fossi sentito più sicuro di te, più padrone della materia di quanto non lo fossero coloro che poi ti avrebbero attaccato. Gli ebrei americani stanno sulla difensiva: in certo senso il giudaismo americano è star sulla difensiva. Mi è sempre parso, dal mio punto di vista israeliano, che questo star sulla difensiva sia una sorta di religione laica. Eppure, eccomi qua, a superare persino i tuoi più severi critici. "Come puoi tradirci così?" Ci risiamo. Ci sono ebrei in pericolo da una parte, ebrei vulnerabili al vilipendio ed esposti, a causa di esso, a tremende conseguenze, e, dall'altra, c'è lo scrittore ebreo, pericoloso, potenzialmente distruttivo, propenso a vilipendere e rovinare tutto. E questo scrittore non è un qualsiasi scrittore ebraico, ma - poiché tu sei incline a far dell'ironia, dell'umorismo, su cose in cui uno dovrebbe essere o pro o contro e siccome, paradossalmente, tu hai il dono ebraico di render le cose ridicole o assurde, compresa, ahimè, la suddetta vulnerabilità degli ebrei - si dà spesso il caso che sia proprio tu il suddetto. A quel simposio del 1960, qui in Israele tu fosti aspramente contestato da un cittadino israeliano oriundo statunitense che, levatosi a parlare dalla platea, ti accusò di essere, nei tuoi romanzi e racconti, cieco agli orrori della carneficina hitleriana- vent'anni dopo, finalmente ritorni e ti senti far la predica, da me, riguardo a quei tre miliardi di dollari l'anno che l'America ci largisce e senza i quali ci troveremmo in forte svantaggio. Prima i sei milioni, adesso i tre miliardi: no, non c'è mai fine.
Le esortazioni alla cautela, i calcoli politici, i timori subliminali di una incombente catastrofe: tutte queste angosce ebraiche sono qualcosa da cui i tuoi contemporanei americani non ebrei sono immuni. Be', peggio per loro. In una società come la tua, in cui gli illustri romanzieri hanno scarsa rilevanza sociale quali che siano gli onori loro tributati, per quanto rumoreggino, per quanti quattrini facciano, potrebbe esser persino rallegrante constatare che le conseguenze di quel che tu scrivi sono reali, ti piaccia oppure no.
In volo con la El Al
11 dicembre 1978
Caro Shuki, smettila di darmi dell'ebreo normale. Non esiste un animale simile, e perché dovrebbe esistere? Come potrebbe, il frutto della storia ebraica, essere la normalità? Io sono abnorme quanto te. Io rappresento, nell'età di mezzo una delle forme più strane e insidiose che l'anormalità può assumere. Vengo subito al punto: non è mica detto che, a mettere una pulce nell'orecchio ai parlamentari americani circa l'opportunità di quei tre miliardi di dollari, sarebbe Lippman, o non piuttosto tu. E' Lippman, dopotutto, a presentarsi come un patriota senza equivoci, come un credente devoto, dalla morale chiara e non ambigua, dalla retorica appassionata, virtuosa e facilmente comprensibile, e per il quale l'agenda ideologica di una nazione non è affatto oggetto di sarcasmi e commenti sardonici. I tipi alla Lippman riscuotono molto successo i n America, passano per normali, vengono persino eletti presidente qualche volta, laddove i tipi come te non vengono neppure citati in parlamento. Quanto al contribuente medio, potrebbe non trovare un giornalista ipercritico, dissidente, incline al paradosso storico, caustico nel giudicare un paese in cui lui si identifica, tanto comprensivo quanto lo trovo io - né è affatto probabile che lo preferisca a un generale Patton ebreo la cui monomaniacale devozione alla causa nazionalistica più gretta potrebbe non essere tanto estranea alla mentalità del Kansas quanto tu credi. Non è che scrivendo di Shuki El-chanan piuttosto che di Mordecai Lippman gioverei a Israele, in parlamento o nell'elettorato, ed è irrealistico da parte tua pensarlo. Può anche darsi che sia irrealistico pensare che, se trattassi di Agor in un romanzo, questo altererebbe, agli occhi dei parlamentari, la storia ebraica. Per fortuna, o per disgrazia, della storia ebraica, il parlamento americano non si rifà ai romanzi per calcolare e dividere i tributi; la concezione che del mondo ha il 99 per cento della popolazione, al parlamento e altrove, conta molto di più...
A questo punto notai che il giovane seduto accanto a me aveva deposto il libro di preghiere in grembo e si era accasciato come se stentasse a respirare, e sudava più di prima. Magari - pensai-gli è preso un attacco epilettico, oppure un infarto, quindi, tralasciando di scrivere a Shuki--quella poco convinta difesa da una colpa non ancora commessa--mi sporsi e gli chiesi: 
"Si sente male? Scusi... ha bisogno di aiuto?"
"Come va, Nathan?"
"Prego?"
Sollevandosi di un tantino la tesa del cappello sulla fronte,
sussurrò: "Non volevo disturbare un genio al lavoro."
"Mio Dio," dissi, "sei tu."
"Sì, io, altroché."
I roteanti occhi neri e l'accento del New Jersey: era Jimmy.
"Jimmy Ben-Joseph," dissi, "della diaspora Yeshivah."
"Una volta."
"Ti senti bene?"
"Sono un po' sotto pressione, al momento," mi confidò. Si sporse di lato. "Sai mantenere un segreto?" E all'orecchio mi bisbigliò: "Intendo dirottare questo aereo."
"Sì? Da solo?"
"No, insieme a te," sussurrò lui. "Tu gli metti paura con la bomba a mano, io prendo il comando con la pistola."
"Perché ti sei travestito, Jim?"
"Perché, così non ti perquisiscono mica come gli altri passeggeri." Mi prese una mano e se la portò alla tasca della giacca. Sentii, sotto la stoffa, un oggetto duro, ovale, dalla superficie scanalata.
Come poteva essere? Le misure di sorveglianza all'aeroporto di Tel Aviv sono rigorosissime. Aprono tutti i bagagli, uno alla volta, e i poliziotti in borghese non si peritano di frugare fra i panni sporchi. Segue un lungo interrogatorio. A me, una giovane donna dai modi bruschi chiese dov'ero stato in Israele e dove ero diretto e, siccome le mie risposte l'avevano messa in sospetto, tornò a frugare una seconda volta nella mia valigia, dopodiché chiamò un collega. Costui mi interrogò ancor meno educatamente. Volle sapere dove fossi stato, durante il mio breve soggiorno. Erano tanto curiosi, riguardo alla mia gita a Hebron e alle persone da me colà incontrate, che mi pentii di averlo menzionato. Solo dopo ch'ebbi ripetuto a lui quel che avevo già detto a lei riguardo a Henry e alla ulpa di Agor--e spiegato di nuovo come era andato da Gerusalemme ad Agor e ritorno--solo dopo che i due ebbero parlottato fra loro in ebraico mentr'io stavo ad aspettare davanti alla valigia aperta, il cui contenuto era stato due volte messo a soqquadro, mi fu consentito di procedere fino al bancone dove si consegnano i bagagli per l'imbarco. Insomma, la mia valigia fu perquisita tre volte, prima
di lasciarmi accedere alla sala d'attesa. Al pari degli altri passeggeri venni frugato per tutto il corpo, dalle ascelle alle caviglie, quindi dovetti passare attraverso un apparecchio elettronico che rivela i metalli. Una volta entrati in sala d'aspetto, tutte le porte vengono sbarrate mentre si attende che inizino le operazioni di imbarco. A causa di questi meticolosi controlli, i passeggeri devono arrivare all'aeroporto di Tel Aviv due ore prima della partenza.
Quel che Jimmy aveva in tasca, doveva essere un giocattolo.
Magari, un souvenir, l'oggetto che avevo tastato: una pietra, una palla, un oggetto d'arte popolare, sennò. Avrebbe potuto essere qualsiasi cosa.
"Ci siamo dentro insieme, Nathan."
"Dici?"
"Non aver paura: non danneggerà la tua immagine. Se tutto va liscio e se facciamo notizia da prima pagina, sarà la rigenerazione degli ebrei, e un fiore all'occhiello per te. Tutti vedranno quanto ti sta a cuore, veramente, la causa ebraica. L'opinione pubblica mondiale si ricrederà, su Israele. Ecco qua." Tirò fuori un foglio di tasca, lo dispiegò, e me lo porse: era una pagina di quaderno, strappata malamente, scritta con una biro senza quasi più inchiostro. Jimmy mi indicò che dovevo tenere il foglio in grembo, mentre lo leggevo.
SCORDARE I RICORDI!
Chiedo al governo israeliano l'immediata chiusura e lo smantellamento dello Yad Vashem, il Museo di Gerusalemme e il Salone della Rimembranza delI'Olocausto. 
Chiedo questo in nome del futuro ebraico. IL FUTURO EBRAICO
E' ADESSO. Dobbiamo lasciarci per sempre alle spalle la persecuzione. Mai più dovremo pronunciare la parola "nazista", bensì cancellarla per sempre dalla memoria. Non siamo più un popolo ferito, coperto di schifose cicatrici. Abbiamo vagato per quasi quarant'anni nel deserto del nostro grande dolore.
E' giunto il momento di smetter di rendere omaggio a quel mostro con i nostri Parchi della Rimembranza! D'ora in poi e per sempre il suo nome cesserà di essere associato all'illesa e indomita Terra di Israele!
ISRAELE NON HA BISOGNO Dl ALCUN HITLER PER IL DIRITTO Dl ESSERE ISRAELE!
GLI EBREI NON HANNO BISOGNO DEI NAZISTI PER ESSERE IL GRANDE POPOLO EBRAICO!
SIONISMO SENZA AUSCHWITZ!
GIUDAISMO SENZA VITTIME
LL PASSATO E' PASSATO! NOI VIVIAMO