venerdì 27 aprile 2018



METROLAND
Julian Barnes 
Estratto
Capitolo primo
Il ligustro reciso ha ancora lo stesso profumo di mela acerba di quando avevo sedici anni; il suo persistere, però, è un’eccezione rara. A quell’età, tutto sembrava molto piú aperto all’analogia e alla metafora di quanto non lo sia adesso. Si poteva scegliere fra piú significati, piú interpretazioni, le verità disponibili erano varie e molteplici. Il simbolismo piú insistente. Ogni cosa risultava piú densa di contenuto.
Prendiamo il cappotto di mia madre, per esempio. Se l’era cucito da sé, su un manichino che alloggiava nel sottoscala e rivelava tutto e niente del corpo femminile (mi sono spiegato?) Il cappotto era double-face, un lato del colore rosso delle cassette postali, l’altro ad ampi scacchi bianchi e neri; il bavero, della stessa stoffa della fodera, offriva ciò che il modello definiva «un elemento di contrasto al collo» e faceva pendant con le ampie tasche quadrate esterne. Si trattava, me ne rendo conto solo adesso, di un raffinato lavoro di cucito; all’epoca era per me un indizio di quanto mia madre fosse incline alla doppiezza.
Ne ebbi la prova quell’anno che la famiglia si recò in vacanza alle isole del Canale. Le tasche del cappotto si rivelarono della stessa identica dimensione di un pacchetto da cento sigarette, e al ritorno mia madre attraversò la dogana a piedi, trasportando quattrocento Senior Service di contrabbando. Per associazione, mi sentii in colpa e galvanizzato allo stesso tempo, ma percepii anche l’intima consapevolezza di non essermi sbagliato sul suo conto.
Eppure da quel semplice cappotto si poteva dedurre molto altro ancora. Il colore, cosí come la struttura, aveva dei segreti. Una sera, mentre mia madre e io tornavamo a casa dalla stazione, le osservai il cappotto indossato dal lato rosso e notai che era diventato marrone. Guardai le labbra di mia madre e anche quelle erano marroni. E se avesse sfilato le mani dai guanti bianchi (al momento bianco sporco), le unghie – me lo sentivo –, anche quelle sarebbero state marroni. Circostanza comune ai giorni nostri, ma nei primi mesi di illuminazione al sodio arancione, la cosa era meravigliosamente disturbante. Arancio piú rosso dà marrone scuro. Solo in periferia, pensavo, sarebbe potuto accadere.
A scuola, il mattino dopo, andai a chiamare Toni prima dell’appello e prendendolo da parte gliene parlai. Era a lui che confidavo tutte le mie avversioni e gran parte dei miei entusiasmi.
– Persino lo spettro mandano a puttane, – gli dissi, quasi snervato dall’ennesimo affronto.
– Che cazzo dici?
Era inequivocabile a chi mi riferissi. Quando dicevo «loro», avevo in mente una massa indistinta di legislatori, moralisti, luminari dell’alta società e genitori dei sobborghi piú periferici. Ma quando era Toni a parlarne, si riferiva a omologhi del centro londinese. Non avevamo dubbi: erano esattamente lo stesso tipo di persone.
– I colori. I lampioni. Mandano a puttane i colori quando fa buio. Diventa tutto marrone, o arancione. Ti fa sembrare una creatura lunare.
All’epoca eravamo molto sensibili ai colori. Tutto era cominciato un’estate, in vacanza, quando mi ero portato Baudelaire da leggere sulla spiaggia. Se lo osservi attraverso una cannuccia, diceva, piuttosto che per ampi settori, l’azzurro del cielo sembra molto piú intenso. Mandai una cartolina a Toni per comunicargli la scoperta. Fu allora che cominciammo a interessarci ai colori: erano – impossibile negarlo – degli assoluti, saturazioni di valore aggiunto per i miscredenti. Non volevamo che dei burocrati mandassero tutto a puttane. Lo avevano già fatto con
«… la lingua…»
«… l’etica…»
«… il concetto di priorità…»
ma questi, in fin dei conti, potevano ancora essere ignorati. Potevamo procedere per la nostra strada senza scomporci piú di tanto. Ma se avessero messo mano ai colori? Non avremmo nemmeno piú potuto contare sulla possibilità di essere noi stessi. Il sodio avrebbe negrizzato i tratti medio-europei di Toni, la sua carnagione scura, le labbra carnose. Nell’immediato, la mia faccia anonimamente britannica e il mio naso a patata (ancora in trepidante attesa di fare il grande balzo nell’età adulta) erano piú al sicuro; ma non v’era dubbio che «loro» avrebbero architettato un piano diabolico per sfigurare anche me.
Vedete bene che in quei giorni ci preoccupavamo di grandi cose. E perché no? Esiste forse un’età piú appropriata per farlo? Non ci avreste certo sorpresi ad agitarci per le nostre carriere future, poiché sapevamo che, una volta cresciuti, lo stato avrebbe pagato persone come noi solo per esistere, perché ce ne andassimo in giro come tanti uomini sandwich a reclamizzare la vita. Al contrario cose come la purezza della lingua, la perfettibilità dell’individuo, la funzione dell’arte, oltre a una manciata di altri beni immateriali degni della lettera maiuscola – Amore, Verità, Autenticità… –, be’, quella era tutt’altra storia.
Il nostro fulgido idealismo si esprimeva in una naturale tendenza al piú disinvolto cinismo. Solo una robusta missione purificatrice era in grado di spiegare l’intensità e l’ardore con cui Toni e io ce ne sbattevamo degli altri. I motti che ritenevamo appropriati alla nostra causa erano: écraser l’infâme ed épater la bourgeoisie. Ammiravamo il gilet rouge di Gautier, l’aragosta di Nerval; la nostra Guerra civile spagnola era la bataille d’Hernani. Cantavamo all’unisono:
Le Belge est très civilisé;
Il est voleur, il est rusé;
Il est parfois syphilisé;
Il est donc très civilisé.
La rima finale ci mandava in visibilio, e ogni occasione era buona per insinuare quell’omofono fumoso nelle nostre altisonanti lezioni di conversazione francese. Prima di tutto occorreva che un’intrepida mezza calzetta esordisse con una semplice frase di irritante disapprovazione; il babbeo si sarebbe incasinato in qualcosa del tipo
– Je ne suis pas, mmm, d’accord avec ce qui, ce que? – (un’occhiata corrucciata al professore), – Barbarowski a, mmm, juste dit…
al che, ridendo sotto i baffi, un nostro sodale sarebbe intervenuto prima che il professore potesse riprendersi dallo sconforto in cui era sprofondato di fronte a cotanta imbecillità, con un
– Carrément, M’sieur, je crois pas que Phillips soit assez syphilisé pour bien comprendre ce que Barbarowski vient de proposer…
– e ogni volta la lasciavano passare.
Come si sarà capito, ci dedicavamo perlopiú al francese. Ne ammiravamo la lingua perché aveva suoni occlusivi e precisi, e ne ammiravamo la letteratura principalmente per la sua aggressività. Gli scrittori francesi erano sempre impegnati a farsi la guerra – mentre difendevano e purificavano la lingua, la epuravano di espressioni gergali, scrivevano dizionari prescrittivi, si facevano arrestare, ricevevano condanne per oscenità, vivevano da fieri parnassiani, si affannavano per accaparrarsi un posto all’Académie, complottavano per qualche premio letterario, si facevano esiliare. Eravamo stregati dal personaggio del duro sofisticato. Henry de Montherlant e Camus erano imperdibili; la foto sul «Paris Match» di Henry de mentre si allunga per afferrare una palla, foto che avevo fissato con il nastro adesivo dentro il mio armadietto, era oggetto di tanta venerazione quanta quella autografata che aveva Geoff Glass di June Ritchie in Una maniera d’amare.
Apparentemente non c’era nessun duro sofisticato nel nostro corso di inglese. Di certo nessun imperdibile. Johnson era un duro, ma decisamente non abbastanza raffinato ai nostri occhi: del resto, fino a poco prima della sua morte, non aveva neppure attraversato il Canale. Gente come Yeats, invece, era l’esatto opposto: raffinato, sí, ma sempre a perder tempo con le fate e compagnia bella. Come avrebbero mai reagito costoro se tutti i rossi del mondo fossero diventati marroni? Il primo se ne sarebbe a malapena accorto; l’altro ne sarebbe uscito sconvolto.
Estratto di: Julian, Barnes. “Metroland (L'Arcipelago Einaudi)

sabato 21 aprile 2018


RICORDI: GITA A PARIGI 
Adriano Giudici
Il 21 aprile del 1968, cinquanta anni fa, partivo per Parigi per la gita scolastica di fine corso. Questa la cronaca di quella spedizione. E' un po' lungo, se avete pazienza ..."Andare a Parigi, a Londra, a Madrid o a Vienna? Beh, era questo il fondamentale problema che dovevano affrontare le classi quinta A, B e C: all’inizio del ‘68 c’era da organizzare la gita scolastica di fine corso. A, B, C, solo tre sezioni. I ragazzi erano pochi, ma soprattutto durante l’intero quinquennio c’era una selezione allucinante, una specie di decimazione che come minimo spazzava via una classe.  Al Caio Plinio era da tempo immemorabile che i quintini andavano a Parigi, sempre con generale soddisfazione. Alcuni di noi, prevalentemente le ragazze, presi dalla smania del cambiamento tipica di quegli anni, volevano andare altrove. Comunque i “parigini”, diversamente dagli altri, erano compatti.  Le  folies  bergères  ci attendevano e noi non ce le saremmo fatte scappare. A Parigi si doveva andare e a Parigi si andò.  Lire quarantacinquemila, escluse le escursioni e le distrazioni, era il costo complessivo. Una bella cifra, soprattutto per chi doveva far quadrare i conti con le mille lire settimanali.  Con il Natale ‘67, in vista di quella meta, iniziò un periodo di cinghia tipo economia di guerra: sospesi film, sale da ballo, fumo, panino nell’intervallo delle 11, gazzosa con il limone durante le partite pomeridiane di scala quaranta all’Ariston bar. Ma anche questi immani sacrifici non bastavano. Mi organizzai allora intensificando il traffico di Marlboro, Muratti e Kent (la Svizzera era vicina e con circa dieci viaggi potevo accantonare sino a cinquecento lire giornaliere).  Alla fine fui costretto a svendere la vecchia Maino. La consegna della bicicletta al rivenditore, che sono sicuro mi aveva preso per il primo dei tossicodipendenti, fu straziante come l’estrazione di un dente senza anestesia.  
Alla fine, con qualche prestito qua e là, la somma fu accantonata: Parigi arrivo!  Un piccolo bastone fra le ruote della nostra oliatissima e gioiosa macchina da guerra tentò di mettercelo il preside, il mitico professor Salvatore Grandi, detto lo zio. «Mi giunge voce - questo fu il suo esordio (forse istigato da don Titino) ai maschi di fronte a lui schierati nell’ufficio di presidenza - che alcuni di voi hanno travisato una sana e culturale iniziativa scolastica.  E da essa trarre occasione per accedere a locali dove femmine senza vergogna si spogliano per gli sguardi lubrici di uomini senza dignità! Mai la Scuola potrà essere usbergo di tanta abiezione! Mai potrà assecondare le vostre abbiette passioni!»  A questi tonitruenti anatemi doveva seguire l’impegno, sul nostro onore, di evitare frequentazioni meno che legittime. Con la mano destra alzata e la sinistra dietro la schiena (indice e mignolo tesi, anulare e medio piegati) ci impegnammo solennemente.  La via era libera, si poteva finalmente partire. Accompagnati dall’insegnante di educazione fisica, il professor Osiride Urbinati, detto Sisi, e da una insegnante della “B”, partimmo dalla stazione di Milano in vagone cuccette. Dopo un viaggio notturno fatto senza chiudere occhio, anche le coperte non ci aiutavano, erano rigide come stoccafissi: chissà quante volte erano andate su e giù tra Palermo e Parigi, arrivammo alla Gare de Lion alle sei della mattina del24 aprile 1968. L’atmosfera della città era strana, pre maggio francese. La prima cosa che di buon ora  mi colpì furono ovviamente le parigine: i filoni di pane sottobraccio a uomini e donne. E poi, nell’arco della giornata, i pittori agli angoli delle strade, i boulevard e la loro grandiosità, l’arco di Trionfo, la Gioconda, la tour Eiffel, insomma praticamente tutto.  La giornata, passata a battere la città in lungo e in largo, era comunque solo un doveroso impiccio in attesa della notte. Il piano era preciso. Far arrivare agli insegnanti segnali per poter rientrare al più presto in albergo.«Professore, abbiamo avuto una giornata impegnativa, domani ce ne aspetta un’altra altrettanto intensa; rientriamo che siamo stanchi».Ma che bravi. Ma che giudiziosi e assennati. Bene, si rientra, e sogni d’oro. Eravamo 15 maschi e 12 femmine. Queste ultime erano ovviamente poco interessate ai nostri propositi notturni. Gli altri avevano dato ampia disponibilità al peccaminoso progetto. Ebbene, alla fine (...sono stanco; che mal di testa; ho i soldi contati; ho alzato la mano destra e mi sono impegnato; ebbene si, sono omosessuale...tutto pur di tirarsi indietro) ci ritrovammo in quattro: io; l’Alberto, pivot della squadra di pallacanestro dell’istituto; l’Ivano, noto play boy; e il Martinez, l’intellettuale della compagnia. E via come uccelli liberi a conquistare il mondo, ma soprattutto Montmartre.
Chiuso il “Moulin rouge” (sembrava l’avessero fatto apposta) non ci restava che andare su e giù per la via, cercando di intuire quale fosse il locale con le “proposte” più interessanti. L’Erotika ci conquistò. Seduti a un tavolino sotto il palchetto a trenta centimetri da noi (più o meno come con lo schermo del cinema tanti anni prima, con le stesse trepidazioni, ma diverse attese...), guardavamo atterriti i prezzi scritti sulla lista delle consumazioni. Partiti dallo champagne, ci fermammo alla Pepsi solo perché di più non si poteva scendere: la lista era finita. Ma questi erano dettagli. Quello che importava era Francesca, pubblicizzata sul cartellone all’ingresso come il pezzo forte del locale. E Francesca arrivò. Ci guardò e, rimasta vestita solo di un sorriso, ci stregò: volevamo sposarla. Al pari di tutte le più belle cose, anche questa giunse al termine e venne il momento del rientro. Come tutta l’avventura, fino ad allora, era stata baldanzosa e chiassosa, ora era come pervasa da una dolce malinconia: silenzio che caratterizzava sia il nostro gruppo come le altre comitive scolastiche che avevano approfittato del ponte di aprile per le gite di fine corso. Tra di loro Licia, biondina veronese. Dove sei ora? Hai ancora quei grandi e luminosi occhi da diciottenne curiosa della vita? Chissà che ora tu non mi legga. Spero di si, per poterti dare quell’abbraccio e quei baci che allora non osai. Alla fine, lasciate alle nostre spalle Parigi, Francesca e Licia, ritornammo nella nostra piccola città: ci aspettava l’esame di stato, la vita".

mercoledì 18 aprile 2018


DENTI DI LEONE
"Tempi glaciali"
Fred Vargas
Einaudi
“I denti  di leone, pensò, sono i poveri della società dei fiori, nessuno li rispetta, vengono calpestati o dati da mangiare ai conigli. Mentre nessuno si sognerebbe di calpestare una rosa. E ancor meno di darla ai conigli. Tutti tacquero per un momento, divisi fra l’impazienza del nuovo giudice e il malumore del commissario.
– Io archivio, − annunciò Bourlin sospirando, come sconfitto fisicamente,
− a condizione che si tenti ancora di decifrare il segno che la donna ha
tracciato accanto alla vasca da bagno. Chiarissimo, molto deciso, ma
incomprensibile. È quello il suo ultimo messaggio.
– Ma inaccessibile.
– Chiamo Danglard. Forse lui saprà.
Però, rifletté Bourlin continuando a rimuginare lo stesso pensiero, i denti di
leone sono coriacei, mentre la rosa è sempre malaticcia.
– Il comandante Adrien Danglard? – intervenne un brigadiere. −
Dell’Anticrimine del tredicesimo arrondissement?
– Esatto. Sa cose che lei non imparerà nemmeno in trenta vite.
– Ma dietro di lui, − mormorò il brigadiere, − c’è il commissario
Adamsberg.
– E allora? – disse Bourlin alzandosi quasi maestosamente, con i pugni
appoggiati sul tavolo.[...]

lunedì 16 aprile 2018


NELLE TENEBRE.
Anton Čechov
Novelle
Una mosca di media grandezza s'insinuò nel naso del sostituto procuratore, consigliere di Corte Gaghin. L'avesse punta la curiosità o, forse, vi fosse capitata per storditezza, fatto è che il naso non resse alla presenza d'un corpo estraneo e accennò a uno starnuto.
Gaghin starnutò, starnutò con sentimento, con un sibilo acuto e così forte che il letto sussultò e mandò un suono di molla agitata. La consorte di Gaghin, Maria Michàilovna, una bionda grossa e paffuta, sussultò anche lei e si destò. Ella guardò nelle tenebre, sospirò e si girò sull'altro fianco. Di li a un cinque minuti si girò ancora una volta, chiuse più stretti gli occhi, ma il sonno ormai non le ritornava. Dopo aver sospirato un po' ed essersi voltata da un fianco sull'altro, ella si sollevò, scavalcò il marito e, calzate le pianelle, andò alla finestra.
Fuori era buio. Si vedevan solo i profili degli alberi e gli scuri tetti delle rimesse. L'oriente era un tantino impallidito, ma anche quel pallore si accingevano a velarlo le nubi. Nell'aria, addormentata e avvolta nella caligine, stagnava la quiete. Taceva perfino il guardiano delle villette, che riceveva denaro per turbare con colpi la quiete notturna, taceva anche il re di quaglie, l'unico pennuto selvatico che non fuggisse la vicinanza dei villeggianti della capitale.
La quiete turbò Maria Michàilovna in persona. Stando alla finestra a guardar fuori, ella d'un tratto mandò un grido. Le era parso che dall'aiuola col gracile pioppo tosato s'insinuasse verso la casa una figura scura. Dapprima pensò che fosse una mucca o un cavallo, ma poi, stropicciatisi gli occhi, prese a distinguere chiaramente dei contorni umani.
Dopo di ciò le parve che la figura scura si fosse accostata alla finestra che si affacciava dalla cucina e, dopo aver sostato un po', evidentemente incerta, fosse salita con un piede sulla cornice e... scomparsa nel buio della finestra.
-Un ladro! , le balenò in testa; e un pallore mortale le si diffuse sul volto.
E in un lampo la sua immaginazione le disegnò il quadro che tanto paventano le villeggianti: un ladro s'introduce in cucina, dalla cucina in sala da pranzo... l'argenteria è nella credenza... più in là c'è la camera... un'accetta... una faccia da brigante... gli ori... Le ginocchia le si piegarono e un formicolio le corse per la schiena.
- Vassia! - ella prese a tirare il marito. - "Basile"! Vassili Prokofic'! Ah, Dio mio, è come morto! Svégliati, "Basile", te ne supplico!
- B-be'? - muggì il sostituto procuratore, tirandosi dentro l'aria ed emettendo suoni masticatori.
- Svegliati, per amor del Creatore! Da noi in cucina s'è cacciato un ladro! Sto alla finestra, guardo, e qualcuno entra dalla finestra.
Dalla cucina penetrerà in sala da pranzo... I cucchiai sono nella credenza! "Basile"! Da Mavra Jegòrovna l'anno scorso, s'introdussero pure così.
- Chi... chi vai cercando?
- Dio, non sente! Ma capisci dunque, pezzo di sasso, che ho visto or ora come da noi in cucina s'è introdotto un uomo! Pelagheia si spaventerà, e.. l'argenteria è nella credenza!
- Scempiaggini!
- "Basile", questo è intollerabile. Ti parlo d'un pericolo, e tu dormi e mugoli! Ma che vuoi? Vuoi che ci derubino e ci sgozzino?
Il sostituto procuratore si levò lentamente e sedette sul letto, facendo risonar l'aria di sbadigli.
- Il diavolo vi conosce, che razza di gente siete! borbottò. Possibile che perfin di notte non si abbia requie? Ti destano per bazzecole.
- Ma ti giuro, "Basile", ho visto come un uomo s'è rampicato sulla finestra!
- Ebbene che c'è? Si rampichi pure... Secondo tutta probabilità, da Pelagheia è venuto il suo pompiere.
- Che co-o-sa? Che hai detto?
- Ho detto che da Pelagheia sarà venuto il pompiere.
- Tanto peggio! - gridò Maria Michàilovna. - Quest'è peggio di un ladro! Non sopporterò in casa mia il cinismo!
- Ma che virtù, guarda un po'... Non sopporterò il cinismo... Ma forse che questo è cinismo? A che pro avventare senza senso parole forestiere? Questo, mammina mia, usa da tempo immemorabile, è consacrato dalla tradizione. E' pompiere appunto per andarsene colle cuoche.
- No, "Basile"! Vuol dire che non mi conosci! Io non posso tollerare il pensiero che in casa mia una tale... una simile cosa... Fa' il favore di andar sull'istante in cucina e ordinagli di filar via!
Sull'istante! E domani dirò a Pelagheia che non ardisca permettersi consimili azioni! Quando sarò morta, potrete permettere in casa vostra atti di cinismo, ma ora guardatevene bene. Favorite andare!
- Diavolo... - brontolò Gaghin con dispetto. - Su, ragiona col tuo microscopico cervello di donna; perché ci andrei?
- "Basile", io svengo!
Gaghin sputò, calzò le pantofole, sputò ancora una volta e si avviò in cucina. Era buio come in una botte tappata, e al sostituto procuratore toccò dirigersi a tentoni. Per via tastò l'uscio della camera dei bambini e destò la bambinaia.
- Vasilissa, - disse, - ieri avevi preso la mia veste da camera a pulire. Dov'è?
- L'ho data a pulire a Pelagheia, padrone.
- Che disordine è questo? Prendere prendete, e non mettete a posto...
Va' ora a girare senza veste da camera!
Entrato n cucina, si diresse verso il posto dove, su un baule, sotto un palchetto con casseruole, dormiva la cuoca.
- Pelagheia! - cominciò egli, palpando una spalla e spingendo. - Tu!
Pelagheia! Su, perché fingi? Non dormi mica! Chi è entrato or ora da te per la finestra?
- Uhm!... buongiorno! Entrato dalla finestra! Chi doveva entrare?
- Ma tu quel... è inutile confonder le carte! Di' dunque piuttosto al tuo birbo che se la squagli mentr'è sano e salvo. Senti? Qui non ha nulla da fare!
- Ma siete in senno, padrone? Buongiorno... Han trovato la sciocca...
Ti strapazzi tutto il santo giorno, correndo di qua e di là, non conosci requie, e ti vengon di notte con parole così. Tiri avanti a quattro rubli al mese con tè e zucchero a conto tuo, e tranne che queste parole, altr'onore non vedi da parte di nessuno... Sono stata da mercanti, ma un'onta simile non l'ho mai vista.
- Via, via... non c'è da pianger miseria! Che sul momento non ci sia più qui il tuo soldataccio! Senti?
- Fate peccato, padrone! - disse Pelagheia, e nella sua voce si sentirono le lacrime. - Signori istruiti... nobili, e punta di quella comprensione che, forse, con le nostre pene... con la nostra vita infelice... - Ella si mise a piangere. - Ci si può offendere, noi.
Non c'è chi ci difenda.
- Su, su... per me, sai, è tutt'uno! Mi ha mandato qui la padrona. Per me, fa' magari entrare un folletto dalla finestra, che non me n'importa.
Al sostituto procuratore restava solo da confessare di aver avuto torto nel far quell'interrogatorio, e tornarsene dalla consorte.
- Ascolta, Pelagheia, - disse, - hai preso la mia veste da camera per pulirla. Dov'è?
- Ah, padrone, scusate, ho dimenticato di mettervela sulla sedia. E' appesa accanto alla stufa, a un chiodino.
Gaghin cercò a tentoni la veste da camera accanto alla stufa, la indossò e lemme lemme filò nella stanza da letto.
Maria Michàilovna, uscito il marito, si era stesa sul letto e messa ad aspettare. Per un tre minuti era stata tranquilla, ma poi aveva cominciato a torturarla l'inquietudine. -Quanto ci mette a venire, però! , pensava. -Va bene, se là vi è quel... cinico, già, ma se c'e un ladro? .
E la sua immaginazione le aveva nuovamente disegnato un quadro: il marito entra nella cucina buia... un colpo col dorso della scure... muore, senza emettere un suono... una pozza di sangue...
Eran passati cinque minuti, cinque e mezzo, infine sei. Sulla fronte le spuntò un sudore freddo.
- "Basile"! - strillò. - "Basile"!
- Be', perché gridi? Sono qui... - ella udì la voce e i passi del marito. - Che forse ti si scanna?
Il sostituto procuratore si accostò al letto e sedette sulla sponda.
- Non c'è nessuno di là, - disse. - T'è parso di vedere, bel tipo che sei... Puoi tranquillarti; la tua scioccona, Pelagheia, è virtuosa al pari della sua padrona. Ma che paurosa sei! Ma che...
E il sostituto procuratore cominciò a stuzzicare sua moglie. Egli si era rasserenato, e non aveva più voglia di dormire.
- Che paurosa! - rideva. - Domani stesso va' dal dottore a curarti delle allucinazioni. Sei una psicopatica!
- Si sente un odor di catrame... - disse la moglie. - Di catrame o... qualcosa di simile, cipolle... "s'ci".
- Ma sì... Qualcosa di simile nell'aria... Non si ha voglia di dormire! Ecco che cosa, ora accendo la candela. Dove li abbiamo i fiammiferi? E a proposito, ti mostrerò la fotografia del procuratore della Corte d'appello. Ieri si accomiatò da noi e diede a ciascuno il suo ritratto. Con autografo.
Gaghin sfregò un fiammifero sul muro e accese la candela. Ma prima ch'egli avesse fatto un passo dal letto per andar a prendere la fotografia, dietro di lui risuonò un grido acuto, che lacerava l'anima. Voltatosi a guardare, scorse i due grandi occhi della moglie a lui rivolti e pieni di stupore, di sgomento, d'ira...
- Ti sei tolto in cucina la tua veste da camera? - domandò ella, facendosi smorta.
- Ebbene?
- Datti un'occhiata!
Il sostituto procuratore si guardò addosso e mandò un gemito. Sulle sue spalle, invece della veste da camera, ciondolava un cappotto da pompiere. Com'era capitato sulle sue spalle? Mentr'egli risolveva tale quesito la moglie disegnava nella propria immaginazione un nuovo quadro, orrendo, impossibile: buio, silenzio, bisbigli eccetera, eccetera...


IL GRASSO E IL MAGRO

Anton Pavlovic Cechov 
Racconti

A una stazione della linea ferroviaria di Nikolàev si incontrarono due amici: uno grasso e l'altro magro. Il grasso aveva allora allora pranzato alla stazione e le sue labbra, unte di burro, erano lucide come ciliege mature. Sentiva di Xères e di fleur d'orange. Il magro era allora allora sceso dal vagone ed era carico di valigie, di fagotti e di scatole. Sentiva di prosciutto e di fondi di caffè. Di dietro la sua schiena sbirciavano una donna magrolina con un lungo mento sua moglie e uno studente di ginnasio, alto, con un occhio socchiuso suo figlio.
«Porfirij!» esclamò il grasso, vedendo il magro. «Sei tu? Tesoro mio! Da quanti anni non ci vediamo!»
«Santi del Paradiso!» fece il magro pieno di meraviglia. «Miša! Il mio amico d'infanzia! Di dove sbuchi?»
Gli amici si abbracciarono tre volte e si scrutarono a vicenda negli occhi pieni di lacrime. Tutti e due erano piacevolmente sbalorditi.
«Mio caro!» cominciò il magro dopo gli abbracci. «Non me l'aspettavo davvero! Questa sì che è una sorpresa! Be', guardami un po' per benino! Sempre bello come prima! Sempre elegante e profumato! Ah, Dio mio! Ebbene, che fai? Sei ricco? Ammogliato? Io ho già moglie, come vedi... Ecco, questa è mia moglie, Luisa, nata Vantsenbach... luterana... E questo è mio figlio Nafanaìl, alunno della terza classe. Questo, Nafànja, è un amico d'infanzia! Al ginnasio abbiamo studiato insieme!»
Nafanaìl rifletté un po' e si levò il berretto.
«Abbiamo studiato insieme al ginnasio!» continuò il magro. «Ti ricordi come ti avevamo soprannominato? Ti chiamavamo Erostrato perché avevi bruciato con la sigaretta il diario di scuola; quanto a me, mi chiamavano Efialte perché mi piaceva far la spia. Oh, oh!... Eravamo bambini! Non aver paura, Nafànja! Fatti più vicina, Luisa... Questa è mia moglie, nata Vantsenbach... luterana.»
Nafanaìl rifletté un po' e si nascose dietro il padre.
«Be', come te la passi, caro?» domandò il grasso, guardando estasiato l'amico. «Sei impiegato? Hai fatto carriera?».
«Sono impiegato, mio caro! Già da due anni sono assessore collegiale e ho la croce di Santo Stanislao! Lo stipendio è misero... be', sia fatta la volontà di Dio! Mia moglie dà lezioni di musica, ed io nella mia vita privata fabbrico dei portasigari di legno! Splendidi portasigari! Li vendo un rublo l'uno. Per chi ne compra dieci o più, tu lo capisci, c'è uno sconto. Sbarchiamo il lunario. Sono stato impiegato, sai, al ministero, ma ora mi hanno trasferito qui come capufficio nella stessa amministrazione... Lavorerò qui. E tu come te la passi? M'immagino, sarai già consigliere di Stato? Eh?»
«No, mio caro, va un po' più in su» disse il grasso. «Sono già arrivato a consigliere segreto... Ho due stelle.»

Il magro a un tratto impallidì, restò di sasso, ma ben presto il suo viso si deformò da tutte le parti nel più ampio dei sorrisi; dal viso e dagli occhi pareva che sprizzasse faville. Tutta la sua persona si contrasse, si piegò, si fece piccola piccola... Le sue valigie, i suoi fagotti e le sue scatole si rimpicciolirono e si rattrappirono... Il lungo mento insieme!»

Nafanaìl rifletté un po' e si levò il berretto.

«Abbiamo studiato insieme al ginnasio!» continuò il magro. «Ti ricordi come ti avevamo soprannominato? Ti chiamavamo Erostrato perché avevi bruciato con la sigaretta il diario di scuola; quanto a me, mi chiamavano Efialte perché mi piaceva far la spia. Oh, oh!... Eravamo bambini! Non aver paura, Nafànja! Fatti più vicina, Luisa... Questa è mia moglie, nata Vantsenbach... luterana.»

Nafanaìl rifletté un po' e si nascose dietro il padre.

«Be', come te la passi, caro?» domandò il grasso, guardando estasiato l'amico. «Sei impiegato? Hai fatto carriera?».

«Sono impiegato, mio caro! Già da due anni sono assessore collegiale e ho la croce di Santo Stanislao! Lo stipendio è misero... be', sia fatta la volontà di Dio! Mia moglie dà lezioni di musica, ed io nella mia vita privata fabbrico dei portasigari di legno! Splendidi portasigari! Li vendo un rublo l'uno. Per chi ne compra dieci o più, tu lo capisci, c'è uno sconto. Sbarchiamo il lunario. Sono stato impiegato, sai, al ministero, ma ora mi hanno trasferito qui come capufficio nella stessa amministrazione... Lavorerò qui. E tu come te la passi? M'immagino, sarai già consigliere di Stato? Eh?»

«No, mio caro, va un po' più in su» disse il grasso. «Sono già arrivato a consigliere segreto... Ho due stelle.»

Il magro a un tratto impallidì, restò di sasso, ma ben presto il suo viso si deformò da tutte le parti nel più ampio dei sorrisi; dal viso e dagli occhi pareva che sprizzasse faville. Tutta la sua persona si contrasse, si piegò, si fece piccola piccola... Le sue valigie, i suoi fagotti e le sue scatole si rimpicciolirono e si rattrappirono... Il lungo mento della moglie diventò ancora più lungo; Nafanaìl si mise sull'attenti e si abbottonò tutti i bottoni della divisa...


«Io, Eccellenza... Sono felicissimo! Era, si può dire, un amico d'infanzia e ora a un tratto è diventato una personalità. Ih, Ih!»

«Via, basta!» fece il grasso accigliandosi. «Perché questo tono? Noi siamo amici d'infanzia, perché questo cerimoniale?»

«Scusate... Vi pare...» e il magro ridacchiò, facendosi ancor più piccolo. «La graziosa attenzione di vostra Eccellenza... come un umore vivificante... Ecco, Eccellenza, questo e mio figlio Nafanaìl... mia moglie Luisa, luterana, in un certo qual modo...»

Il grasso avrebbe voluto rispondere qualche cosa, ma sul viso del magro era dipinta tanta reverenza, tanta dolcezza e tanta rispettosa acidità, che il consigliere segreto si sentì nauseato. Si staccò dal magro e gli porse la mano per congedarsi.

Il magro strinse tre dita, si inchinò con tutto il corpo e riprese a ridacchiare come un cinese: «Ih, ih, ih!» Sua moglie sorrise, Nafanaìl strisciò un piede per inchinarsi e lasciò cadere il berretto. Tutti e tre erano piacevolmente sbalorditi.

domenica 15 aprile 2018


FRAMMENTI DI RICORDI
Patrick  Modiano 
“L'orizzonte.”
"Frammenti di ricordi. ..la vita disseminata di bivi".....“Tutto ciò apparteneva a un lontano passato, ma poiché quelle brevi sequenze non erano legate al resto della sua vita, esse rimanevano in sospeso, in un eterno presente. Non avrebbe mai smesso di farsi domande in proposito, e non avrebbe mai avuto risposte. Per lui quei brandelli sarebbero stati sempre enigmatici. Aveva cominciato a compilare un elenco cercando comunque di individuare dei punti di riferimento: una data, un luogo preciso, un cognome con un’ortografia incerta. [...]. Tuttavia, man mano che risaliva il corso del tempo, a volte provava un rimorso: perché aveva scelto quella strada e non un’altra? Perché aveva lasciato che quel viso o quella figura con in testa una strana toque di pelliccia e che teneva un cagnolino al guinzaglio si perdesse nell’ignoto? Al pensiero di ciò che sarebbe potuto essere e non era stato, veniva colto da una vertigine.
Quei frammenti di ricordi corrispondevano agli anni in cui la tua vita è disseminata di bivi, in cui ti si aprono cosí tante strade da avere l’imbarazzo della scelta. Le parole di cui riempiva il taccuino gli evocavano l’articolo inerente la «materia oscura» che aveva mandato a una rivista di astronomia.”



SPEAK

Laurie Valse Anderson 


[...] I NOSTRI PROFESSORI SONO I MIGLIORI...
La mia professoressa d'inglese non ha la faccia. Ha i capelli spettinati e dritti come spaghetti che le cadono sulle spalle. I capelli sono neri dall'attaccatura alle orecchie e poi arancione fosforescente nelle punte ricce. Non riesco a stabilire se ha sfanculato il parrucchiere o se si sta trasformando in una farfalla monarca. La chiamerò DonnaPeli.
DonnaPeli perde venti minuti a fare l'appello perché non ci vede. Tiene la testa china sulla cattedra coi capelli che le cadono davanti alla faccia. Passa 
Passa il resto dell'ora a scrivere alla lavagna e a raccontare al muro del libro che dobbiamo leggere. Vuole che scriviamo tutti i giorni nei nostri diari, ma prometterà che non li leggerà. Io scrivo di quant'è strana.
Abbiamo un diario anche per storia e geografia. La scuola deve avere sconti speciali sui diari. Stiamo studiando la storia d'America per la nona volta in nove anni. Altro ripasso della l'aria geografica, una settimana sui nativi americani, Cristoforo Colombo in tempo per il Columbus Day e i pellegrini per il Giorno del Ringraziamento. Ogni anno dicono che arriveremo al presente, ma restiamo sempre incartati sulla Rivoluzione Industriale. In seconda media siamo arrivati alla prima guerra mondiale - e chi lo sapeva che c'era stata una guerra contro il mondo intero? Servirebbero altre vacanze per l'aggiornamento dei professori di storia e geografia.
Il mio professore di storia e geografia è il signor Neck, lo stesso tizio che mi ha urlato di sedermi all'auditorium. Si ricorda con affetto di me: «Ti tengo d'occhio. Siediti in prima fila».
Anche per me è un piacere rivederla, dico a bassa voce. Scommetto che soffre di stress post-traumatico. Sarà un reduce del Vietnam o dell'Iraq - una di quelle guerre trasmesse in tv.[...]

sabato 14 aprile 2018


LA PANNE
Friedrich Dürrenmatt, 
Adelphi.
“Fatti assolutamente indipendenti erano stati collegati fra di loro, si era voluto contrabbandare nel tutto un disegno logico, eventi fortuiti erano stati presentati come cause di azioni che avrebbero potuto avere benissimo un decorso diverso, nel puro caso si era voluta vedere l’intenzione, nella sventatezza il proposito deliberato, sicché alla fine dall’interrogatorio era necessariamente saltato fuori un assassino, così come dal cilindro del mago salta fuori un coniglio”. 
FRIEDRICH DURRENMAT.
LA PANNE, UNA STORIA ANCORA POSSIBILE.
Un banale incidente costringe Alfredo Traps, rappresentante di articoli tessili, a fermarsi in un paese.
La panne non gli spiace, una notte fuori casa può sempre offrire un’avventura.
Ma la casa che lo ospita, quella di un vecchio giudice a riposo, non è quanto s’aspettava.
Infatti, invece di qualche compagnia femminile, il rappresentante trova quattro vecchietti, tutti ex uomini di legge, che gli spiegano il loro unico passatempo: rifare dei famosi processi storici come quello di Socrate, di Gesù, di Giovanna d’Arco.
Ma il gioco, aggiungono, diventava più bello con del materiale vivente.
E così Traps, tra una vecchia bottiglia di Bordeaux e un Réserve des Maréchaux, si ritrova in veste di imputato.
L’atmosfera diventa sempre più inquietante: il gioco scivola nella realtà per poi tornare gioco, in uno sfasamento continuo abilmente orchestrato dai quattro diabolici vecchietti.
Traps parla, si confessa: la sua vita banale sembra acquistare improvvisamente risvolti cruenti.
Il rappresentante di articoli tessili che sbadatamente sognava un’avventura si sente rivelato e si rivela attraverso un esercizio di raffinate sevizie mentali, dove la posta finale può sciogliersi in una risata generale o in una condanna alla forca.
Friedrich Dürrenmatt è nato nel 1921, e dal 1952 abita a Neuchatel.
Per alcuni anni è stato responsabile per i testi drammatici al teatro di Basilea, per il quale ha prodotto le sue riduzioni teatrali.
Tra i suoi numerosi drammi: La visita della vecchia signora (Feltrinelli, 1969), Il matrimonio del signor Mississippi (Einaudi, 1960) e I fisici (Einaudi, 1972).
Dürrenmatt è anche autore di numerosi radiodrammi, racconti e novelle.
Tra i suoi romanzi: La promessa (Feltrinelli, 1959), Il giudice e il suo boia (Feltri, nel 1960 ) e Il sospetto ( Feltrinelli, 1960 ).
Ci sono ancora delle storie possibili, storie per scrittori? Se uno non intende parlare di sé né romanticamente generalizzare, liricizzare il proprio io, se proprio non si sente obbligato a parlare con spietata sincerità delle proprie speranze e delle proprie sconfitte o del proprio modo di fare all’amore, come se l’assoluta veridicità ne facesse un caso universale e non invece, nella migliore delle ipotesi, un caso clinico, psicologico; se invece intende tirarsi da parte con discrezione, difendere cortesemente le proprie faccende private, ponendosi di fronte al proprio tema come uno scultore di fronte alla materia da cui vuole ricavare una statua, lavorandoci e sviluppandosi attraverso di esso, e voglia, come facevano una volta i classici, non lasciarsi prendere subito dalla disperazione, anche se non può certo negare l’assurdo che ovunque viene a galla, allora scrivere diventa un mestiere più difficile, più solitario ed anche più insensato.
Un bel voto in letteratura non ha alcuna importanza (chi non s’è preso un bel voto in letteratura e quanti libri raffazzonati non hanno avuto addirittura un premio!), mentre le istanze del giorno si fanno sempre più urgenti.
Ma anche qui ci troviamo di fronte ad un dilemma e ad una sfavorevole situazione di mercato.
Il semplice divertimento l’offre già la vita, alla sera c’è il cinema, nella terza pagina dei giornali c’è la poesia; per una spesa maggiore, ossia, sociologicamente parlando, nella categoria dalle cinquecento lire in su, si pretendono sfoghi del cuore, confessioni, assoluta sincerità appunto: bisogna saper fornire più alti valori, moralità, sentenze di facile applicazione, bisogna negare o affermare qualcosa, ora il cristianesimo, ora la disperazione di moda; insomma, letteratura bell’e buona.
Ma se l’autore persiste nel rifiutare ostinatamente di produrre roba del genere, poiché gli è sì ben chiaro che la ragione per cui scrive va cercata in lui stesso, nella sua coscienza e nel suo subcosciente, nel loro rapporto dosato caso per caso, nella sua fede e nei suoi dubbi, ma è anche del parere che queste cose non interessino affatto al pubblico, che sia sufficiente ciò che egli scrive, crea, rappresenta, che l’unico dovere dello scrittore sia di offrire una superficie allettante e basta, e lavorare con scrupolo soltanto all’abbellimento della superficie, e che per il resto si debba tenere la bocca chiusa, senza far commenti né pettegolezzi? Giunto a questa considerazione, s’arresterà perplesso e sgomento, è inevitabile.
Gli si affaccia il sospetto che non ci sia più nulla da raccontare, prende seriamente in considerazione la possibilità di cambiar mestiere; forse si possono scrivere ancora alcune frasi, ma poi si passa alla biologia per tener dietro almeno col pensiero a quest’esplosione di umanità, ai miliardi d’uomini in continuo aumento, agli uteri in incessante attività o ci si dà alla fisica, all’astronomia, per farci un’idea, spinti da un impulso all’ordine, dell’impalcatura da cui penzoliamo.
Il resto è tutta roba per i giornali illustrati, per il «Life», per il «Match», per il «Quick» o per
«Sie und Er»: il presidente sotto la IO tenda ad ossigeno, il buon Bulganin nel suo giardino, la principessa con quel diavolo del suo capitano, stelle del cinema e volti di gente piena di dollari, roba di facile smercio, non fai a tempo a parlarne ed è già fuori moda.
E accanto a tutto questo la vita di un uomo qualsiasi, occidentale nel mio caso, meglio, svizzero, brutto tempo e congiuntura, affanni e tormenti, sconvolgimenti per pasticci privati, senza alcun rapporto col resto del mondo, con ciò che avviene e non avviene, col dipanarsi delle necessità.
Il destino ha abbandonato la scena su cui si recita e se n’è andato a spiare dietro alle quinte, ha disertato la drammaturgia alla moda, e le malattie, le crisi, portate in primo piano si riducono tutte a banali incidenti.
Anche la guerra dipende dalla possibilità che i cervelli elettronici ne predicano il buon esito, ma si sa, è un caso che non s’avvererà mai, ammesso che le calcolatrici funzionino: matematicamente si possono ormai concepire solo delle sconfitte.
Guai però se qualcuno storpia un calcolo, se manomette un cervello elettronico! Eppure anche questo incidente sarebbe meno penoso della possibilità che una vite s’allenti, una bobina sia fuori posto, un manipolatore dia una reazione sbagliata, la fine del mondo per un corto circuito, per un contatto sbagliato.
Non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia; ci sono solo incidenti del traffico, dighe che crollano per errori di costruzione, l’esplosione di una fabbrica di bombe atomiche provocata da un assistente di laboratorio un po’
distratto, incubatrici mal condizionate.
Dentro questo mondo della panne ci porta la nostra strada, al cui margine polveroso, accanto ai cartelloni pubblicitari di scarpe Bally, di Studebaker, TT di gelati, accanto alle lapidi in memoria delle vittime del traffico, s’intravvedono ancora delle storie possibili, nel senso che il volto di un uomo qualunque sembra il volto di tutta l’umanità, una semplice sfortuna diventa involontariamente un fatto universale, si scorgono dei giudici, una giustizia, forse anche la grazia, che fa la sua apparizione per caso, riflessa nel monocolo di un ubriaco.
Un incidente, anche se di lieve entità, una panne anche qui: Alfredo Traps, così si chiama il nostro eroe, un uomo che si occupa di articoli tessili, anni quarantacinque, per niente corpulento ancora, di bella presenza, di modi abbastanza cortesi, benché tradiscano un certo sforzo (vi traspare qualcosa di primitivo, qualcosa che fa pensare ad un venditore ambulante), ebbene, questo nostro contemporaneo viaggiava con la sua Studebaker su una delle maggiori strade del nostro paese, già pensava di raggiungere la propria residenza, una grande città, quand’ecco che la macchina si rifiutò di funzionare.
Non c’era niente da fare: non andava più avanti.
Se ne stava lì, come abbandonata, con la sua bella carrozzeria rosso sangue, ai piedi di una collinetta su cui passava la strada.
A nord s’era formata una nuvola a cumulo, ad occidente splendeva ancora alto il sole, quasi come a mezzogiorno.
Traps fumò una sigaretta e poi fece quanto gli restava ormai da fare.
Il garagista che alla fine rimorchiò la Studebaker dichiarò che non poteva riparare il guasto, un difetto al condotto della benzina, prima del giorno dopo.
Non c’era modo di sapere se fosse veramente così né era prudente tentare di scoprirlo: siamo alla mercé dei meccanici come i nostri antenati un tempo erano alla mercé dei predoni e, ancor prima, delle divinità locali o dei demoni.
Troppo pigro per camminare una mezz oretta fino alla prossima stazione e per fare il viaggio un po’ complicato anche se breve fino a casa, da sua moglie, dai suoi bambini, tutti maschi, Traps decise di pernottare in paese.
Erano le sei di sera, faceva caldo, si era vicini al solstizio; il villaggio, al cui margine si trovava il garage, era ridente, con le sue case sparpagliate verso le colline boscose, con una collinetta su cui c’era la chiesa, la canonica ed un’antichissima quercia con i suoi potenti anelli e sostegni, tutto decoroso, pulito, perfino i letamai davanti alle case dei contadini erano ben ammucchiati e sagomati.
Di tanto in tanto si scorgeva una piccola fabbrica, qualche bettola, qualche locanda, di una delle quali Traps aveva sentito molto spesso parlar bene, ma le stanze erano occupate, le aveva richieste una riunione di coltivatori di bestiame minuto e al viaggiatore in articoli tessili indicarono una villa che di quando in quando ospitava dei forestieri.
Traps esitò.
C’era ancora la possibilità di tornarsene a casa con il treno, ma l’attirava la speranza di fare qualche conquista, perché nei villaggi c’erano delle ragazze, come recentemente a Grossbiestringen, che sapevano apprezzare la compagnia di viaggiatori in articoli tessili.
Rianimato da questo pensiero, si mise in cammino verso la villa.
Dalla chiesa giungeva il suono delle campane.
Trotterellando gli venivano incontro delle mucche, muggivano.
La villa, ad un piano, giaceva in mezzo ad un vasto giardino, i muri d’un bianco accecante, il tetto a terrazza e gli avvolgibili verdi, mezzo nascosta fra cespugli, fra faggi ed abeti, aiuole di fiori sul lato che dava sulla strada, rose dappertutto e fra le rose un omino attempato con un grembiule di pelle, probabilmente il padrone di casa, impegnato in qualche lavoretto di giardinaggio.
Traps si presentò e chiese ospitalità.
- Professione? - chiese il vecchio, che s’era avvicinato alla siepe fumando un Brissago e che, piccolo com’era, superava di poco l’altezza del cancello.
- Sono occupato nell’industria tessile.
Il vecchio squadrò attentamente Traps sbirciando come fanno i presbiti, al di sopra d’un paio di lenti senza cerchiatura: - Certamente, il signore può pernottare qui.
Traps s’informò del prezzo.
Il vecchio rispose che non era solito chiedere un compenso, era solo, suo figlio viveva negli Stati Uniti, di lui si occupava una governante, la signorina Simonetta, e perciò era contento di ospitare ogni tanto qualcuno.
IL viaggiatore in articoli tessili ringraziò.
Era commosso per l’ospitalità e notò che in campagna gli usi e costumi degli antenati non erano ancora del tutto scomparsi.
Il cancello fu aperto.
Traps si guardò intorno Vialetti di ghiaia, prato all’inglese, grandi zone d’ombra ed altre in pieno sole.
Aspettava dei signori per quella sera, disse il vecchio quando giunsero vicino ai fiori, e intanto potava qua e là il roseto.
Sarebbero venuti degli amici che abitavano nei dintorni, alcuni nel villaggio, altri più lontano, verso le colline, pensionati come lui, attratti in quel villaggio dalla mitezza del clima e dal fatto che qui il fohn non si faceva sentire, vecchi soli al mondo, vedovi, avidi di qualcosa di nuovo, di vivo, di fresco, ed era perciò un piacere per lui poter invitare il signor Traps a cena e alla successiva serata fra uomini.
Il rappresentante di articoli tessili ebbe un attimo di perplessità.
Veramente egli avrebbe voluto cenare al villaggio, in quella famosa trattoria, appunto, ma non osò rifiutare l’invito.
Si sentiva obbligato.
Aveva pur accettato di pernottare gratuitamente.
Non voleva far la figura del cittadino scortese.
Accettò dunque di buon grado.
Il padrone di casa lo condusse al primo piano.
Una camera graziosa.
Acqua corrente, un bel letto ampio, un tavolino, una comoda poltrona, un quadro di Hodier alla parete, vecchi libri rilegati in pelle nello scaffale.
Il rappresentante di tessili aprì la sua valigetta, si lavò, si fece la barba, si avvolse in una nube di acqua di Colonia, s’affacciò alla finestra, accese una sigaretta.
Il gran disco del sole scivolava giù dietro le colline, investiva con gli ultimi raggi i faggi del giardino.
Traps fece un calcolo rapido ed approssimativo degli affari conclusi in giornata, la commissione della società Rotacher, niente male, le difficoltà con Wildholz, il cinque per cento pretendeva, quella canaglia, una volta o l’altra gli tiro il collo, pensò.
Poi s’affacciarono i ricordi.
Cose d’ogni giorno, disordinate, un tentativo di adulterio all’Hotel Touring, il problema se comperare o no al più piccolo, il prediletto, un trenino elettrico, la cortesia, anzi il dovere di telefonare alla moglie per avvisarla della sua involontaria sosta.
Ma non telefonò.
Come già tante altre volte.
Lei era abituata e comunque non gli avrebbe creduto.
Sbadigliò, si concesse un’altra sigaretta.
Scorse così tre vecchi signori venire per il vialetto di ghiaia, due a braccetto e uno, grasso, calvo, dietro a loro.
Saluti, strette di mano, abbracci, discorsi sulle rose.
Traps si allontanò dalla finestra e andò verso lo scaffale.
A leggere i titoli c’era da aspettarsi una serata noiosa: Hotzendorff: Il reato d’omicidio e la pena di morte, Savigny: Sistema dell’odierno diritto romano, Ernst David Holle: Il procedimento dell’interrogatorio.
Il rappresentante di tessili capì.
Il suo ospite era un giurista, forse un ex avvocato.
Si preparò a dare delle lunghe spiegazioni, che cosa ne capiva mai uno studioso della vita reale, niente, erano le leggi a conformarsi alla vita e non viceversa.
C’era inoltre da temere che si parlasse di arte o di cose simili, dove lui avrebbe fatto facilmente una cattiva figura, certo, ma se non fosse stato impegnato nella lotta per gli affari, sarebbe stato anche lui al corrente di problemi più alti.
Perciò scese di malavoglia al piano inferiore dove ci si era messi a sedere nella veranda aperta ed ancora illuminata dal sole, mentre la governante, una donna robusta, preparava la tavola nella vicina sala da pranzo.
Rimase tuttavia allibito quando vide la compagnia che l’attendeva.
Fu felice dunque che gli venisse incontro per primo il padrone di casa, con un’aria un po’
fatua, i pochi capelli accuratamente spazzolati e un’ampia finanziera addosso.
Diede il benvenuto a Traps.
Con un breve discorso.
Così Traps ebbe modo di nascondere il proprio stupore, mormorò che il piacere era tutto suo, s’inchinò, freddo, distaccato, si diede l’aria di un uomo di mondo esperto di tessili e intanto pensava con malinconia che s’era fermato nel villaggio per scovarsi una bella ragazza.
Non gli era riuscito.
Ora era lì davanti a tre vecchioni che non avevano nulla da invidiare allo strano padrone di casa.
Come immensi corvi riempivano quel vasto salotto estivo con i mobili di vimini e le tendine leggere, vecchissimi, unti e bisunti, trasandati, benché le loro finanziere, come Traps notò immediatamente, fossero della migliore qualità, a prescindere dal vecchio calvo (di nome Pilet, anni settantasette, come dichiarò il padrone di casa facendo le presentazioni), che se ne stava seduto impettito e severo su uno sgabello estremamente scomodo, benché ci fossero tutt’intorno parecchie comode sedie, in una posizione eccessivamente corretta, con un garofano bianco all’occhiello, occupato a lisciarsi incessantemente i baffi neri e folti, pensionato anche lui, evidentemente, forse un ex sagrestano o uno spazzacamino o forse un macchinista, divenuto benestante grazie ad un colpo di fortuna.
Tanto più malandati apparivano gli altri due.
Uno (di nome Kummer, anni ottantadue), ancora più grasso di Pilet, smisurato, come composto di cuscinetti di grasso, se ne stava seduto in una sedia a dondolo, con il viso d’un rosso acceso, con un enorme naso da beone ed un’aria gioviale negli occhi spalancati dietro le lenti dorate ed inoltre, certamente per distrazione, una camicia da notte sotto il vestito nero e le tasche piene di giornali e di carte, mentre l’altro (il signor Zorn, anni ottantasei), lungo e magro, con un monocolo incastrato davanti all’occhio sinistro, vari sfregi sul volto, il naso adunco, una gran criniera di capelli bianchissimi, la bocca infossata, un’apparizione d’altri tempi insomma, aveva il panciotto mal abbottonato e calzini di differente colore.
- Un Campari? - chiese il padrone di casa.
- Volentieri, - rispose Traps e si sedette in una poltrona, mentre il vecchio magro ed allampanato lo osservava con interesse attraverso il monocolo: - Il signor Traps parteciperà al nostro giuoco, non è vero? - Ma senz’altro.
I giuochi mi divertono.
I vecchi sorrisero dondolando la testa.
- Il nostro giuoco forse è un po’ strano, - fece osservare prudentemente, quasi con esitazione, l’ospite - Alla sera noi torniamo ad esercitare per giuoco le nostre professioni d’un tempo.
I vecchi sorrisero di nuovo, cortesemente, discretamente.
Traps si stupì.
Com’era questa faccenda? - Ebbene, - precisò il padrone di casa, - io un tempo ero giudice, il signor Zorn pubblico ministero ed il signor Kummer avvocato, e così giochiamo al tribunale.
- Capisco, - disse il signor Traps e l’idea gli sembrò passabile.
Forse la serata non era ancora perduta.
L’ospite guardò Traps con aria grave.
Generalmente, spiegò in tono bonario, si rifacevano i famosi processi storici, il processo di Socrate, il processo di Gesù, il processo di Giovanna d’Arco, il processo Dreyfus, recentemente l’incendio del Reichstag e una volta avevano dichiarato irresponsabile Federico di Prussia.
Traps si meravigliò: - Fate questo giuoco ogni sera ? Il giudice annuì.
Ma naturalmente, spiegò poi, il giuoco diventava più bello se si giocava con del materiale vivente, il che aveva portato molto spesso a situazioni particolarmente interessanti; proprio due giorni prima un parlamentare che aveva tenuto in paese un discorso elettorale ed aveva perduto l’ultimo treno, era stato condannato a quattordici anni di carcere per ricatto e corruzione.
- Un tribunale severo, - osservò divertito Traps.
- Una questione d’onore, - dissero raggianti i vegliardi.
Quale parte sarebbe toccata a lui, dunque? Di nuovo sorrisi, quasi risate.
Il giudice, il pubblico ministero e l’avvocato difensore c’erano già, e poi erano delle cariche che presupponevano una certa conoscenza della materia e delle regole del giuoco, disse il padrone, solo il posto di imputato era ancora libero, ma il signor Traps non era affatto costretto, e ci teneva a sottolinearlo ancora una volta, a prendere parte al giuoco.
La proposta dei vegliardi divertì il viaggiatore in prodotti tessili.
La serata era salva.
Non sarebbe stata una serata intellettuale e noiosa, prometteva di diventare allegra.
Era un uomo semplice, di non troppa perspicacia e di non grande attitudine per l’attività intellettuale, un uomo d’affari, smaliziato quanto occorreva, che nel suo ramo d’attività badava al sodo, e a cui inoltre piaceva mangiare e bere ed era particolarmente portato verso divertimenti e piaceri d’una certa consistenza.
Disse che partecipava al giuoco, era un piacere per lui prendere il posto vacante di imputato.
Bravo, gracchiò il pubblico ministero ed applaudì, così deve parlare un galantuomo, questo sì che si chiamava coraggio.
Il viaggiatore in prodotti tessili chiese con curiosità quale reato gli si imputasse.
Era un punto di scarsa importanza, rispose il pubblico ministero, pulendosi il monocolo, un reato si finiva sempre per trovarlo.
Tutti risero.
Il signor Kummer si alzò. - Venga, signor Traps, gli disse in tono quasi paterno, -
dobbiamo assaggiare il Porto che bevono qui; è vecchio e lei lo deve conoscere.
Condusse Traps nella sala da pranzo.
La grande tavola rotonda era preparata come per le grandi occasioni.
Vecchie sedie dagli alti schienali, quadri antichi alle pareti, tutta roba fuori moda, solida, dalla veranda si sentivano conversare i vecchioni, dalla finestra entravano gli ultimi raggi di sole, giungeva il cinguettio degli uccelli; su un tavolino c’erano delle bottiglie, altre ancora sul caminetto, quelle di Bordeaux dentro una piccola cesta.
L’avvocato difensore versò con molta prudenza ed un po’ tremando da una bottiglia di Porto in due bicchierini, li riempì fino all’orlo, brindò con il viaggiatore in articoli tessili, alla sua salute, prudentemente, toccando appena i bicchierini pieni del prezioso liquore.
Traps assaggiò. - Eccellente, - disse.
- Io sono il suo avvocato difensore, signor Traps, disse il signor Kummer.
- Perciò brindiamo alla nostra amicizia - Alla nostra amicizia! Sarebbe stato meglio, disse l’avvocato avvicinandosi a Traps con la sua faccia rossastra, con il suo naso da beone e con il suo pince-nez, sicché il suo pancione una massa flaccida e schifosa, sfiorava l’imputato, sarebbe stato meglio che il signore gli confidasse subito il suo crimine.
Così avrebbe potuto garantire che il processo sarebbe andato bene.
La situazione non era certo pericolosa, ma neanche da sottovalutare, c’era da temere il pubblico ministero, magro ed allampanato, ed ancora in pieno possesso delle sue facoltà mentali e inoltre lo stesso padrone di casa era purtroppo portato alla severità e forse addirittura alla pedanteria che con la vecchiaia - aveva ottantasette anni - s’era acuita.
Tuttavia era riuscito, come avvocato difensore, a risolvere la maggior parte dei casi o almeno ad evitare le conseguenze peggiori.
Solo una volta, per un assassinio per rapina, non c’era stato nulla da fare.
Ma questa volta, nel caso di Traps, un delitto per rapina era senz’altro da escludere, oppure no? Traps disse ridendo che purtroppo non aveva commesso nessun delitto.
Poi aggiunse: - Prosit! - Lo confessi a me, - lo incoraggiò l’avvocato difensore, - lei non ha motivo di vergognarsi.
Conosco la vita, non mi meraviglio più di nulla.
Quanti destini mi sono passati accanto, quanti abissi mi si sono spalancati davanti agli occhi! Gli dispiaceva proprio, disse il viaggiatore in articoli tessili con un sorriso di compiacenza, lui era un imputato che non aveva commesso nessun reato, d’altra parte era compito del pubblico ministero trovargliene uno, lo aveva detto lui stesso, e su questo punto lo voleva prendere in parola.
Un giuoco era un giuoco.
Era anzi curioso di vedere cosa ne sarebbe saltato fuori.
Ci sarebbe stato un vero interrogatorio? - Certamente! - Me ne rallegro proprio!
L’avvocato difensore fece una faccia seria.
- Si sente innocente, signor Traps? Il viaggiatore in prodotti tessili rise: - In tutto e per tutto, - e il discorso gli sembrò estremamente divertente.
Il difensore si pulì gli occhiali a molla. - Si metta bene in testa, giovanotto, innocente o no, è una questione di tattica! ~ da pazzi, a dir poco, voler essere innocenti davanti al nostro tribunale, al contrario, é molto più intelligente incolparsi subito di un reato, per esempio di un reato particolarmente vantaggioso per i commercianti: di frode.
Già durante l’interrogatorio poi può risultare che l’imputato esagera, che non ha commesso una vera e propria frode, ma ha ritoccato soltanto alcuni dati, a scopo di propaganda, come succede spesso in commercio.
La via dalla colpa all’innocenza è sì difficile, ma non impossibile, mentre è un’impresa addirittura disperata voler conservare la propria innocenza ed il risultato non può essere che disastroso.
Lei vuole perdere dove invece potrebbe averla vinta.
Più tardi sarà costretto non a scegliersi una colpa, ma a lasciarsela attribuire.
Il viaggiatore in articoli tessili si strinse nelle spalle divertito e protestò che gli dispiaceva di non poter essere utile, ma non sapeva davvero di aver commesso un misfatto che lo ponesse in contrasto con la legge.
Il difensore si rimise gli occhiali.
Con Traps sarebbe stata una gran fatica, disse pensieroso, non ci sarebbe stato risparmio di colpi. - Ma soprattutto, - disse concludendo il colloquio, - rifletta prima di parlare, non chiacchieri a vanvera, altrimenti lei corre il rischio di vedersi condannato di punto in bianco a molti anni di prigione senza poterci fare nulla.
Poi entrarono gli altri.
Sedettero intorno alla tavola rotonda.
Una simpatica tavolata, parole scherzose.
Dapprima furono portati in tavola diversi tipi di antipasto, affettato, uova alla russa, lumache, brodo di tartaruga L’atmosfera era eccellente, si mangiava contenti, si beveva senza imbarazzo.
- Bene, - gracchiò il pubblico ministero, - signor imputato, che cosa ha da proporci? Mi auguro che si tratti di un bell’omicidio in piena regola.
L’avvocato difensore protestò: - IL mio cliente è un imputato senza reato, una rarità, per così dire, nel mondo giudiziario.
Sostiene di essere innocente.
- Innocente? - si meravigliò il pubblico ministero.
Le cicatrici gli si fecero rosse, il monocolo per poco non gli cadde nel piatto, penzolò qua e là sospeso ad una cordicella nera.
Il minuscolo giudice, che stava sminuzzando del pane nella minestra, si fermò, guardò con aria di rimprovero il viaggiatore in articoli tessili, scosse la testa; anche il vecchio calvo e silenzioso dal garofano bianco all’occhiello lo guardò stupito.
Regnava un silenzio angoscioso.
Non si sentiva più il rumore delle forchette e dei cucchiai, non si sentiva più né sbuffare né bere succhiando.
Solo Simonetta ridacchiava in fondo alla sala.
- Dobbiamo esaminare il suo caso, - disse alla fine il pubblico ministero dominandosi. -
Ciò che non può esistere, non esiste.
- Coraggio, dunque, - rise Traps, - sono a vostra disposizione.
Con il pesce c’era del vino, un Neuchatel leggero e frizzante. - Allora, - disse il pubblico ministero tagliando la trota, - vediamo un po’ .
Sposato? - Da undici anni.
- Bambini? —Quattro.
- Professione? - Ramo tessili.
- Viaggiatore di commercio caro signor Traps? - Rappresentante generale.
- Bene.
Ha avuto una panne? - Per caso.
La prima da un anno a questa parte.
-Eunannofa? - Be’, allora avevo ancora la macchina vecchia, spiegò Traps . - Una Citroen 1939, ma adesso possiedo una Studebaker fuoriserie rosso sangue.
- Studebaker? Interessante, interessante! E da poco tempo? Prima, immagino, non era ancora rappresentante generale, vero? - Ero un semplice, comune commesso viaggiatore in articoli tessili.
- Il miracolo economico! - annuì il pubblico ministero.
Vicino a Traps sedeva il difensore. - Stia attento! gli sussurrò.
Il viaggiatore in articoli tessili, anzi, il rappresentante generale, come possiamo dire d’ora innanzi, cominciò ad occuparsi con particolare attenzione della sua bistecca alla tartara, vi spremette sopra del limone, era una sua ricetta, un po’ di cognac, paprica e sale.
Non aveva mai mangiato così bene, disse raggiante, aveva sempre creduto che non vi fosse nulla di più divertente per lui delle serate al Club della Cuccagna, mentre questa serata fra uomini lo divertiva ancora di più - Ah, - constatò il pubblico ministero, - lei è socio del Club della Cuccagna.
E il suo nomignolo com’é? - Marchese di Casanova.
- Magnifico! - gracchiò il pubblico ministero, soddisfatto come se quella notizia fosse di notevole importanza e con il monocolo di nuovo al suo posto.
- è un piacere per tutti noi sentirglielo dire.
E lecito pensare che fra il suo nomignolo e la sua vita privata vi sia qualche rapporto, mio caro? - Attento! - gli sibilò il difensore.
- Solo entro certi limiti, - rispose Traps. - Se ho avuto qualche piccola avventura extramatrimoniale, è avvenuto per caso e senza ambizioni da parte mia.
Voleva essere così gentile di raccontare per sommi capi la sua vita ai convitati? gli chiese il giudice, versandosi ancora del Neuchatel.
Dato che avevano deciso di sottoporre ad un processo il carissimo ospite nonché peccatore e di mandarlo in galera per molti anni, bisognava pur sapere qualcosa di più, di più intimo di lui, storie di donne, possibilmente salate e pepate.
- Racconti, racconti! - lo invitarono i vegliardi ridacchiando.
Una volta avevano avuto a tavola un lenone che aveva raccontato loro le storie più appassionanti e gli episodi più piccanti del suo mestiere e con tutto ciò se l’era cavata con soli quattro anni di prigione.
- Be’, che cosa potrei raccontarvi? - disse Traps ridendo con loro. - Faccio la solita vita, ogni giorno, signori, voglio dirvelo subito.
Salute! - Salute! Il rappresentante generale alzò il bicchiere, fissò commosso gli occhi stupiti ed incantati dei quattro vegliardi che lo scrutavano come fosse un boccone prelibato, poi brindarono.
Fuori il sole era finalmente tramontato e s’era spento anche il chiasso indiavolato degli uccelli, ma il paesaggio era ancora in piena luce, i giardini, i tetti rossi fra gli alberi, le colline boscose, e all’orizzonte le prime montagne, qualche ghiacciaio, un’atmosfera di pace, il silenzio della campagna, un solenne senso di felicità, di benedizione divina, di armonia cosmica.
Aveva avuto una giovinezza assai difficile, raccontò Traps, mentre Simonetta cambiava i piatti e metteva in tavola una gigantesca scodella fumante.
Champignons à la créme.
Suo padre era operaio di fabbrica, un proletario, preda delle false dottrine di Marx e di Engels, un uomo amareggiato, triste, che non s’era mai preoccupato del suo unico figlio, la madre era una lavandaia prematuramente sfiorita.
- Solo le elementari, solo le elementari ho potuto frequentare! - dichiarò con le lacrime agli occhi, amareggiato e nello stesso tempo commosso ripensando al suo miserabile passato, mentre si brindava con Réserve des Maréchaux.
- Strano, strano, - disse il pubblico ministero. - Solo le elementari.
Ma lei si è fatto strada, caro Traps, non è vero? - Proprio così! - si vantò costui, eccitato dal Maréchaux, stimolato dalla compagnia di amici, dal solenne, divino panorama al di là delle finestre. - Proprio così! Ancora dieci anni fa non ero che un povero venditore ambulante e passavo di casa in casa con la mia valigetta.
Un lavoro pesante, lunghe camminate, di notte dormivo nei fienili o in locande di dubbia fama.
Ho cominciato dalla gavetta, proprio dalla gavetta.
Ed ora, signori, se vedessero il mio conto in banca! Non faccio per vantarmi, ma c’è qualcuno di voi che possiede una Studebaker? - Sia più prudente! - gli sussurrò il difensore preoccupato.
- E come vi è arrivato? - gli chiese il pubblico ministero.
Il difensore lo ammonì di stare attento e di non parlare troppo.
Aveva assunto la rappresentanza esclusiva dell’« Eféstion» per tutto il nostro continente, dichiarò Traps lanciando uno sguardo di trionfo.
Solo la Spagna ed i Balcani erano in mani altrui.
Efesto era un dio greco, disse ridacchiando il minuscolo giudice, riempiendosi il piatto di funghi, un eccellente cesellatore che aveva catturato la dea dell’amore ed il suo cicisbeo Marte, dio della guerra, con una rete così invisibile e finemente ordita che gli altri dei si rallegrarono infinitamente per questa cattura.
Ma che cosa significasse Eféstion di cui l’egregio Traps aveva assunto la rappresentanza esclusiva, era per lui un linguaggio velato.
- Eppure lei ci è arrivato vicino, egregio ospite e giudice, - disse ridendo Traps. - Lei stesso l’ha detto: velato, ed ha pure detto che questo dio greco, a me sconosciuto, che porta quasi lo stesso nome del mio articolo, aveva intessuto una rete finissima ed invisibile.
Se oggi esiste il Nylon, il Perlon, il Myrlon, tessuti sintetici, di cui questo alto consesso ha certamente sentito parlare, così esiste anche l’Eféstion, il re dei tessuti sintetici, assolutamente resistente, trasparente, particolarmente indicato per sofferenti di malattie reumatiche, utilizzabile sia nell’industria sia nella moda, sia per la pace sia per la guerra.
Un tessuto perfetto per paracadute e nello stesso tempo il materiale più piccante per camicie da notte per belle donne, come posso assicurare in seguito a ricerche personali.
- Sentite, sentite, - gracidavano i vegliardi, - ricerche personali, questa è buona -; intanto Simonetta cambiava di nuovo i piatti e metteva in tavola un arrosto di rognone di vitello.
- Un pranzo coi fiocchi! - disse raggiante il rappresentante generale.
- Ho piacere, - disse il pubblico ministero, - che lei sappia apprezzare e a buona ragione un pranzo del genere.
Ci vengono portati in tavola cibi della migliore qualità, con grande abbondanza, un menu che sembra del secolo scorso quando gli uomini avevano ancora il coraggio di mangiare.
Viva Simonetta! Viva il nostro anfitrione! E lui, questo vecchio gnomo goloso, che fa le spese, mentre al vino ci pensa Pilet, come oste della trattoria all’Orso nel villaggio vicino.
Viva anche Pilet! Ma come stanno le cose con lei, mio bravo Traps? Indaghiamo ancora sul suo caso! La sua vita ora la conosciamo, è stato un vero piacere per noi farcene un’idea; anche la sua attività ci è ora perfettamente chiara.
C’è ancora un punto, di scarsa importanza, del resto, che non è stato ancora chiarito: come è arrivato ad una posizione tanto lucrativa? Soltanto con il suo ingegno, con la sua ferrea energia? - Attenzione! - gli sibilò il difensore. -
Ora viene il pericolo! Non era stato tanto facile, rispose Traps ed intanto guardava avidamente il giudice che cominciava a trinciare l’arrosto, prima aveva dovuto mettere fuori combattimento Gygax ed era stata una bella fatica.
- Gygax, chi è costui? - Il mio ex principale.
- Bisognava soffiargli il posto, intende dire? - Bisognava toglierlo di mezzo, per dirla come si parla nel mio mestiere, - disse Traps e si servì della salsa.
- Signori, permettano una parola sincera.
Il mondo degli affari è un mondo crudele, oggi tu la fai a me, domani io a te, chi vuol fare il gentiluomo, mi dispiace, ma va a finir male.
Ora faccio soldi a palate, ma sgobbo come dieci elefanti, ogni giorno mi faccio i miei seicento chilometri con la mia Studebaker.
Certo, non ho agito molto lealmente, quando si trattò di prendere Gygax per il collo e di dargli una coltellata, ma io dovevo pur farmi strada, che potevo farci, gli affari sono affari.
Il pubblico ministero alzò gli occhi dall’arrosto di rognone e guardò Traps allibito. -
Toglierlo di mezzo, prenderlo per il collo, dargli una coltellata, sono espressioni piuttosto dure, caro Traps.
Il rappresentante generale rise: - Certo, bisogna intenderle solo in senso figurato.
- Il signor Gygax sta bene, egregio amico? —E morto l’anno scorso.
- Lei è pazzo da legare! - gli sibilò il difensore eccitato. - Lei è diventato matto! - L’anno scorso, - disse il pubblico ministero in tono di compianto.
- Mi dispiace davvero.
Quanti anni aveva? - Cinquantadue.
- Giovanissimo.
E di che è morto ? - Di una malattia che non ricordo.
- Dopo che lei aveva avuto il suo posto? - Poco prima.
- Bene, per il momento non ho bisogno di sapere di più, - disse il pubblico ministero. - Siamo fortunati, davvero fortunati.
Abbiamo scovato un morto e questa è la cosa principale, in fondo.
Risero tutti.
Perfino Pilet, il vecchio calvo che mangiava compunto, pedantemente, imperturbabile, ingoiando porzioni immense, alzò gli occhi.
- Magnifico! - disse e si accarezzò i baffi neri.
Poi tacque e continuò a mangiare.
Il pubblico ministero alzò solennemente il bicchiere. - Signori, - disse, -
brindiamo a questa nostra scoperta con Pichon-Longueville 1933.
Un buon Bordeaux per un buon giuoco! Brindarono di nuovo, uno alla salute dell’altro.
- Perdiana, signori! - esclamò stupefatto il rappresentante generale, vuotando d’un fiato il bicchiere di Pichon e porgendolo di nuovo al giudice, - ma è un vino formidabile! Si era fatto buio ed i volti dei commensali si riconoscevano appena.
Nel vano della finestra si indovinavano le prime stelle.
La governante accese tre grandi pesanti candelabri che proiettarono sulle pareti l’ombra della tavolata, simile al meraviglioso calice di un fantastico fiore.
Un’atmosfera di familiarità, di cordialità e di comune simpatia; ci si sentiva liberi da convenzioni, dalle regole del galateo.
- Sembra una favola! - disse stupefatto Traps.
Il difensore si asciugò con la salvietta il sudore dalla fronte. - La vera favola, caro Traps, - disse, - è lei.
Non mi è mai capitato un imputato che abbia fatto con tanta tranquillità delle dichiarazioni tanto imprudenti.
Traps rise: - Niente paura, caro vicino! Quando incomincerà l’interrogatorio, non perderò la testa.
Silenzio di tomba nella stanza, come poc’anzi.
Non si sentiva più né masticare né trincare.
- Disgraziato! - gemette il difensore. - Che vuol dire: quando comincerà l’interrogatorio? - Be’, - disse il rappresentante generale, riempiendosi il piatto d’insalata, - non vorrà dire che è già incominciato? I vegliardi sorrisero di compiacimento, scaltri com’erano, si resero conto dell’equivoco, alla fine belarono di gioia.
Il vecchio calvo e silenzioso ridacchiò: - Non se n’è accorto, non se n’è accorto! Traps restò perplesso, allibito, quell’allegria monellesca gli sembrò sospetta, un’impressione che però naturalmente scomparve presto, tanto che egli si unì alle risate degli altri: - Signori, mi vogliano scusare, - disse, - ma immaginavo che il giuoco fosse più solenne, più dignitoso, più da aula di tribunale.
- Carissimo signor Traps, - gli spiegò il giudice, - la sua faccia costernata è impagabile.
Il nostro modo di fare un processo le sembra strano e fin troppo allegro, mi sembra.
Tuttavia, carissimo amico, noi quattro, seduti attorno a questo tavoIo, siamo in pensione e ci siamo liberati dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi e di tutta quella robaccia che opprime le nostre aule di tribunale.
Noi giudichiamo senza alcun riguardo alla meschinità dei codici e dei paragrafi.
- Un bel coraggio, - replicò Traps con la lingua già pesante, - un bel coraggio.
Signori, è davvero una cosa che incute rispetto.
Senza paragrafi, è un’idea ardita.
Il difensore si alzò cerimoniosamente.
Andava a prendere una boccata d’aria, annunziò, prima che si giungesse al pollo e al resto, una passeggiatina salutare e una sigaretta era proprio quello che ci voleva, ed invitava Traps ad accompagnarlo.
Uscirono dalla veranda e s’incamminarono nella notte che era finalmente scesa, calda e maestosa.
Dalle finestre della sala da pranzo uscivano delle fasce di luce dorata che s’allungavano sul prato fino all’aiuola delle rose.
Il cielo era pieno di stelle, senza luna, gli alberi formavano una macchia scura e fra gli alberi s’intravedevano appena i vialetti di ghiaia.
Si erano presi a braccetto.
Ambedue erano già appesantiti dal gran bere, traballavano e barcollavano, si sforzavano di camminare diritti e fumavano sigarette, Parisiennes, puntini rossi nell’oscurità.
- Dio mio ! - disse Traps, respirando profondamente, - che scherzo mi stanno preparando là dentro, - e indicò le finestre illuminate in cui proprio in quel momento si scorgeva la massiccia silhouette della governante. - Divertente, davvero divertente! - Caro amico, -
disse il difensore vacillando ed appoggiandosi a Traps, - prima di ritornare in casa e di incominciare ad occuparci del pollo, mi permetta di dirle una parola, una parola seria, di cui lei dovrebbe far tesoro.
Lei mi è simpatico, giovanotto, lei mi fa tenerezza, voglio parlarle come un padre: siamo sulla strada buona per perdere in pieno il nostro processo! - Che disdetta! - esclamò Traps e intanto guidava con prudenza l’avvocato difensore lungo il viale intorno alla massa nera e sferica di un cespuglio.
Poi giunsero ad uno stagno, imbroccarono un sedile di pietra, si sedettero.
Nell’acqua si rispecchiavano le stelle, dal lago saliva un vento fresco.
Dal villaggio giungeva il suono di una fisarmonica, canti, ora si udiva anche un coro alpino che celebrava il congresso dei coltivatori di bestiame minuto.
- Lei deve fare ogni sforzo possibile, - lo esortò il difensore. - Importanti bastioni sono già nelle mani del nemico; il defunto Gygax, inutilmente ricomparso a causa delle sue chiacchiere, ci minaccia, la situazione è paurosa, un difensore con poca pratica abbandonerebbe le armi, ma io, sfruttando con tenacia tutte le possibilità che ci rimangono ancora e contando soprattutto sulla massima prudenza e disciplina da parte sua, saprò salvare l’essenziale.
Traps rise.
Dichiarò che era un giuoco di società davvero molto comico, che doveva essere senz’altro introdotto nella prossima riunione del Club della Cuccagna.
- Non è vero? - si rallegrò il difensore, - ci si sente rinascere.
Mi sentivo finito, caro amico mio, quando dovetti ritirarmi in pensione e godermi all’improvviso senza un’occupazione, senza la mia antica professione, gli ultimi anni in questo piccolo villaggio.
Che cosa succede qui? Il fohn non si fa sentire ed è tutto.
Clima salutare? E ridicolo, senza un’occupazione intellettuale.
Il pubblico ministero era moribondo, per il nostro caro ospite si temeva il cancro.
Pilet soffriva di diabete, a me dava noia la pressione.
Questo era il risultato della pensione.
Una vita da cani.
Di quando in quando ci si trovava insieme, ci si sedeva intorno ad un tavolo, si parlava con nostalgia delle nostre carriere, dei nostri successi, era quella l’unica nostra gioia.
Allora al procuratore venne l’idea di fare questo giuoco; il giudice mise a disposizione la sua casa, io il mio patrimonio (sì, perché io sono scapolo ed essendo stato per anni e anni l’avvocato dei ricchi ho finito per mettere da parte una bella sommetta, mio caro, è quasi incredibile come si dimostri munifico con il suo difensore un brigante dell’alta finanza che è riuscito ad evitare la galera, è una generosità che confina con la prodigalità) e così questo giuoco divenne per noi la fonte d’eterna giovinezza.
Gli ormoni, lo stomaco, il pancreas tornarono a funzionare, la noia sparì, tornò l’energia, l’aspetto giovanile, l’elasticità e l’appetito; guardi un po’ ! - e qui egli eseguì nonostante la pancia alcuni esercizi ginnici, come Traps poté intravedere nell’oscurità. - Noi giochiamo con gli ospiti del giudice, - continuò il difensore dopo essersi nuovamente seduto, - che fungono da imputati; sono ora venditori ambulanti, ora turisti di passaggio, due mesi fa ci capitò di condannare a vent’anni di carcere perfino un generale tedesco.
Passava di qui per caso con la moglie, e solo la mia arte valse a salvarlo dalla forca.
- Una produzione davvero grandiosa! - disse stupito Traps. - Ma mi pare che non sia esatto parlare di forca, lei esagera un po’ , egregio signor avvocato, la pena di morte è stata abolita.
- Nella giustizia statale, - rettificò il difensore, - ma qui noi abbiamo a che fare con una giustizia privata e l’abbiamo ripristinata.

Proprio la possibilità della pena di morte rende il nostro giuoco così emozionante ed originale.[...]