domenica 31 ottobre 2021


 Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo

Ian Stewart
Il libro
Le equazioni sono la linfa della matematica, delle scienze e della tecnologia, in loro assenza il nostro mondo non esisterebbe cosí come lo conosciamo. Possono incutere timore o risultare enigmatiche, ma certo non possono essere ignorate. Ian Stewart dimostra che non bisogna essere degli scienziati per comprenderle e apprezzarne l'austera bellezza, questo perché ogni equazione ha un forte legame con la realtà, con il mondo che ci circonda. Le leggi della natura e molti segreti dell'Universo non sono spiegabili soltanto con l'ausilio delle parole: la storia dell'umanità e della sua conoscenza del mondo reale può essere raccontata, con precisione e in profondità, anche e soprattutto attraverso queste fondamentali diciassette equazioni, che dai tempi del teorema di Pitagora giungono a lambire le attuali, a volte «sconcertanti», teorie della fisica quantistica. La legge di gravitazione universale di Newton, il secondo principio della termodinamica, la relatività, lo strano mondo dei quanti dell'equazione di Schrödinger, la teoria del caos, la formula dell'andamento dei prezzi nel mercato finanziario... Sono diciassette modi con i quali gli uomini di scienza interpretano la realtà da oltre tremila anni.


Introduzione


    Perché tante equazioni?

  


  

    Le equazioni sono il fluido vitale, il sangue, della matematica, della scienza e della tecnologia. Se non esistessero le equazioni il nostro mondo non esisterebbe nella sua forma attuale. Le equazioni hanno però una sgradevole reputazione: fanno paura. Gli editori di Stephen Hawking gli avevano detto che ogni equazione inserita nel testo del suo libro Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo (1988) avrebbe dimezzato il numero delle copie vendute, ma non tennero poi rigidamente conto del loro consiglio e gli permisero di inserire la famosa E = mc2, anche se, tagliandola, si sarebbe venduta una decina di milioni di copie in piú. Sto dalla parte di Hawking. Le equazioni sono troppo importanti per nasconderle. Tuttavia anche gli editori di Hawking avevano ragione: le equazioni sono troppo «serie», hanno un’apparenza «accademica», «formale», sembrano complicate e anche quelli tra noi che amano la matematica possono provare una certa repulsione se sono bombardati da troppe equazioni.


    In questo mio libro, posso contare su una scusa. Esso tratta proprio di equazioni, quindi non posso evitare di inserirle, come non potrei evitare di usare la parola «montagna» se scrivessi un libro sull’alpinismo. Mi propongo di convincervi del ruolo essenziale che hanno avuto le equazioni nel formarsi del mondo in cui oggi viviamo, dal disegno delle prime mappe al sistema satellitare globale di navigazione, dalla nascita della musica all’invenzione della televisione, dalla scoperta dell’America all’esplorazione delle lune di Giove. Fortunatamente, non vi serve essere un progettista di razzi spaziali per apprezzare la poesia e la bellezza di un’importante e utile equazione.


    Ci sono due tipi di equazioni in matematica che, a prima vista, possono sembrare assai simili. Un tipo indica le relazioni tra varie quantità matematiche: il compito che ci si propone, con queste, è dimostrare che la relazione è vera. L’altro tipo fornisce informazioni su una quantità sconosciuta (incognita, come correntemente si dice: l’aggettivo assume valore di sostantivo); il compito del matematico è in questo caso risolvere l’equazione, trasformando in una quantità nota quella che era incognita. La distinzione non è sempre netta, perché talvolta la stessa equazione può essere usata in entrambi i modi, ma comunque si tratta di un’utile indicazione. Nel libro troverete esempi dei due tipi di equazioni.


    Le equazioni presenti nei testi di matematica «pura» sono in generale del primo tipo: esse rivelano l’esistenza di importanti e affascinanti schemi ricorrenti e regolari. Esse sono valide perché, ammesse le nostre ipotesi fondamentali sulla struttura logica della matematica, non possono esistere alternative a quanto le equazioni affermano. Il teorema di Pitagora, la cui equazione è espressa nel linguaggio della geometria, costituisce un esempio. Se si accettano le ipotesi di Euclide per la geometria, il teorema di Pitagora è esatto: «dice» la verità.


    Le equazioni usate in matematica e nella fisica matematica sono solitamente del secondo tipo. Esse illustrano, con simboli letterali o numerici, informazioni sul mondo reale e quasi sempre esprimono proprietà dell’universo che, in linea di principio, potrebbero essere state molto diverse. La legge di gravitazione universale di Newton fornisce un buon esempio. Ci indica come la forza di attrazione tra due corpi materiali dipenda dalle loro masse e da quanto è grande la distanza che le separa. Risolvendo le equazioni che risultano da questa legge possiamo dedurre come ruotano i pianeti, seguendo le proprie orbite, intorno al Sole, oppure come si possa progettare l’orbita di una sonda spaziale. Ma la legge di Newton non è un teorema matematico. È vera per ragioni dipendenti dalla fisica, cioè perché corrisponde alle osservazioni. La legge di gravità avrebbe potuto essere diversa. Ed effettivamente oggi lo è: la teoria della relatività generale di Einstein integra e «migliora» quella di Newton, specificando piú esattamente alcuni dati osservativi, senza tuttavia rendere incoerenti quelli per cui già sappiamo che la legge newtoniana «funziona».


    La direzione seguita dalla storia dell’uomo, nel suo svolgimento, è stata cambiata, piú e piú volte, da un’equazione. Le equazioni sono dotate di poteri nascosti; esse possono svelare i piú intimi segreti della natura. Non è però questo il procedimento tradizionale seguito dagli storici nel presentare organicamente l’ascesa e il declino delle civiltà. Re e regine, guerre e disastri naturali abbondano nei testi di storia, mentre le equazioni compaiono raramente. E la cosa non mi sembra giusta. Nell’era vittoriana, Michael Faraday, durante una riunione della Royal Society di Londra, stava dimostrando ai presenti la connessione tra i fenomeni magnetici e quelli elettrici. A quanto si dice, il primo ministro William Gladstone chiese se questo fatto avrebbe avuto una qualche conseguenza pratica. E la risposta di Faraday (in base a testimonianze la cui attendibilità è davvero molto scarsa; ma perché sciupare un aneddoto simpatico?) sarebbe stata: «Sí, signore, un giorno ci potrete mettere una tassa». Se Faraday ha detto sul serio questa frase, aveva ragione. James Clerk Maxwell riuscí a trasformare le prime osservazioni sperimentali e le leggi empiriche da esse dedotte su magnetismo ed elettricità in un insieme di quattro equazioni che descrivono quantitativamente l’elettromagnetismo. Tra le molte conseguenze di quelle equazioni si contano la radio, il radar e la televisione.


    Un’equazione trae la sua forza da un punto di partenza assai semplice. Essa ci dice che due calcoli, che appaiono formalmente differenti, hanno la stessa risposta. Il simbolo chiave che indica questa coincidenza è il segno di uguale: =. Le origini della maggior parte dei simboli usati in matematica si perdono nelle nebbie dell’Antichità, o, al contrario, sono cosí recenti che non si possono avere dubbi sulla loro provenienza. Il segno di uguale è inconsueto perché risale a circa 450 anni fa, e perché non ci limitiamo a conoscere il nome di chi l’ha inventato, ma sappiamo anche perché l’ha fatto. L’inventore è Robert Recorde, che l’ha proposto nel 1557, nel suo The Whetstone of Witte. Recorde ha utilizzato due segmenti paralleli per evitare la noiosa ripetizione della frase «è uguale a»; e ha scelto quel simbolo «perché non ci possono essere due cose piú uguali tra loro». La scelta di Recorde è stata valida. Il suo simbolo è in uso ormai da quattro secoli e mezzo.


    Il potere delle equazioni appare evidente se consideriamo le difficoltà che si incontrano nello stabilire, usando i soli strumenti della filosofia, la corrispondenza tra la matematica (un’invenzione creativa della mente dell’uomo) e una realtà fisica esterna. Le equazioni superano tali difficoltà: esse sono in grado di elaborare fondamentali schemi interpretativi per capire il mondo che è fuori di noi. Imparando ad apprezzare il valore delle equazioni e a leggere le storie che esse ci possono raccontare, possiamo scoprire la vitale importanza di alcune caratteristiche presenti in tutto ciò che ci circonda. Teoricamente potrebbero esistere anche altri modi per ottenere lo stesso risultato. Molte persone preferiscono servirsi delle parole invece che dei simboli; anche il linguaggio ci offre infatti il potere di far nostro e dominare (con descrizioni e interpretazioni) quanto esiste intorno a noi. Ma il verdetto espresso dalla scienza e dalla tecnologia su questo strumento è negativo: le parole sono troppo imprecise e troppo limitate per fornirci un percorso valido e sicuro fino alle piú intime caratteristiche della realtà. E sono troppo imbevute dei preconcetti tipici del punto di vista umano. Le parole da sole non possono darci visioni davvero approfondite del mondo reale.


    Le equazioni possono farlo. Esse sono state uno dei primi motori della civiltà umana per migliaia di anni. Durante tutto il corso della storia, le equazioni hanno continuato a controllare e orientare il cammino della società umana. Nascoste dietro la scena, senza dubbio, hanno sempre esercitato la loro influenza, non importa se fosse avvertibile oppure non lo fosse. Questa è la storia dell’ascesa dell’umanità, raccontata attraverso la storia di 17 equazioni.


Capitolo primo

La squaw e l’ippopotamo
Il teorema di Pitagora


Che cosa ci dice
?

Qual è la relazione tra le lunghezze dei tre lati di un triangolo rettangolo.

Perché è tanto importante?

Perché ci fornisce un essenziale legame tra la geometria e l’algebra, permettendoci di calcolare ed esprimere le distanze in termini di coppie di coordinate. Ha inoltre fornito i principî della trigonometria e della misurazione delle aree.

A che cosa serve?

Cartografia, calcolo delle rotte di navigazione e, in tempi piú recenti, le teorie della relatività speciale e generale, le piú efficienti teorie che descrivono lo spazio, il tempo e la gravitazione.

Chiedete a un qualsiasi studente di dire il nome di un famoso matematico e, ammettendo che ne ricordi soltanto uno, l’interrogato di solito sceglierà Pitagora. Se non lo farà, gli verrà di certo in mente Archimede. L’illustre Newton non sarà che al terzo posto, dopo queste due famose stelle del mondo antico. Archimede fu un gigante del lavoro intellettuale, e Pitagora probabilmente non lo fu, ma merita un riconoscimento maggiore di quello che solitamente gli si attribuisce, non tanto per ciò che ha realizzato quanto per il meccanismo che ha messo in moto.

Pitagora è nato all’incirca nel 570 a.C. a Samo, isola greca nella parte orientale dell’Egeo, presso la costa dell’attuale Turchia. Era filosofo e geometra, cioè si interessava di scienze naturali e di misurazioni. Il poco che conosciamo della sua vita ci viene da testi scritti piú tardi, la cui attendibilità, sul piano storico, è discutibile; gli avvenimenti essenziali della sua vita sono però riportati in modo corretto. Verso il 530 a.C. si trasferí a Crotone, colonia greca della costa orientale della Calabria, sullo Ionio. Qui fondò una scuola di carattere filosofico-religioso, da lui detta pitagorica. I pitagorici credevano che elemento fondamentale dell’universo fosse il numero. La fama attuale di Pitagora è legata al teorema cui si associa il suo nome. Ciò che esso afferma è stato insegnato ovunque, nel mondo, da piú di duemila anni e fa parte del sapere comune. In un film del 1958, Il principe del circo, che aveva come protagonista Danny Kaye, una delle canzoni incomincia con questa strofetta che diventa poi il ritornello:

 The square on the hypotenuseIl quadrato dell’ipotenusa
 of a right triangled’un triangolo rettangolo
 is equal toè uguale a
 the sum of the squaresla somma dei quadrati
 on the two adjacent sides[costruiti] sui due cateti.

E continua con vari giochi di parole sulla necessità di rispettare la geometria come si rispettano le regole grammaticali (per evitare ad esempio l’ambiguità dei participi), poi associa il famoso teorema a Einstein, a Newton e ai fratelli Wright; ai primi due viene persino attribuita l’esclamazione «Eureka!», che è invece di Archimede. Potete dedurne che le parole delle canzoni di questi film non brillavano per accuratezza nei dati storici ma, che volete?, questa era (ed è) Hollywood! Comunque (vedi cap. XIII) l’autore di questi versi (Johnny Mercer) ha fatto centro, almeno con Einstein, forse piú di quanto fosse in grado di capire.

Il teorema di Pitagora è anche presente in un noto gioco di parole, in inglese, per l’assonanza delle prime parole dell’enunciato, con «the squaw on the hippopotamus». Questa battuta ricorre ovunque in rete, ma è piú difficile di quanto si pensi individuarne la vera fonte1. Sul teorema esistono vignette umoristiche d’ogni tipo, ma anche magliette, che ne riportano lo schema, e un francobollo emesso dalla Grecia (fig. 1).

Figura 1.

Francobollo greco con un’immagine dimostrativa del teorema di Pitagora.

Malgrado tutta questa confusione intorno al teorema, non abbiamo alcuna idea sicura sul fatto che si possa sul serio attribuirne a Pitagora la dimostrazione. In effetti non sappiamo neppure se il teorema sia davvero «suo». Potrebbe benissimo essere stato scoperto da un qualche sottoposto di Pitagora, o da uno scriba babilonese o sumero. Pitagora però ne ha avuto il merito, e l’associazione del suo nome si è consolidata. Qualunque sia la sua origine, il teorema e le conseguenze che ne derivano hanno esercitato un influsso di proporzioni gigantesche sulla storia dell’umanità. Esse hanno letteralmente dato l’avvio al nostro mondo.

I greci non hanno espresso il teorema di Pitagora in forma di equazione con i simboli (e il significato di questi) che utilizziamo oggi. Questa espressione è venuta piú tardi, con lo sviluppo dell’algebra. Nell’Antichità il teorema era enunciato con parole e illustrato con lo schema geometrico. Ha raggiunto la sua formulazione piú rigorosa, insieme alla prima dimostrazione che sia stata conservata, negli scritti di Euclide di Alessandria. Intorno al 250 a.C. Euclide è diventato a tutti gli effetti il primo matematico «moderno» con i suoi famosi Elementi, il piú importante dei libri che siano mai stati scritti nel campo della matematica, fondamentale per l’influenza che ha esercitato su tutti gli studi successivi. Euclide ha trasformato la geometria in logica, enunciando esplicitamente i suoi assiomi e partendo da essi per fornire dimostrazioni sistematiche di tutti i suoi teoremi. Ha costruito un edificio concettuale le cui fondamenta sono costituite da punti, linee e circonferenze e il cui vertice corrisponde alla dimostrazione dell’esistenza dei solidi regolari, che sono precisamente cinque.

Una delle gemme della corona di Euclide è l’enunciato di quello che indichiamo come teorema di Pitagora. Si tratta della Proposizione 47 del Primo Libro degli Elementi. Nella traduzione di sir Thomas Heath, del 1908, la proposizione è: «Nei triangoli rettangoli il quadrato del lato che sottende l’angolo retto è uguale ai quadrati dei lati che comprendono l’angolo retto»2.

Nessun gioco di parole su ipotenusa e ippopotamo in questo testo. E non si dice neppure specificamente «la somma deiquadrati». Soltanto la dizione «che sottende», da intendere «opposto a», appare un po’ «difficile». In ogni caso il teorema di Pitagora risulta essere espressione di un’equazione, perché contiene la parola essenziale: «uguale».

Figura 2.

(a sinistra): La dimostrazione del teorema di Pitagora proposta da Euclide, nei suoi Elementi, richiede una complessa costruzione geometrica. (al centro e a destra): Un’altra dimostrazione, piú semplice, del teorema. I due quadrati maggiori hanno area uguale; i triangoli in grigio hanno aree uguali la cui somma è uguale a quella del quadrato bianco e alla somma dei due quadrati bianchi minori.

Per gli scopi che intendevano perseguire nella matematica superiore, gli studiosi greci operavano con linee e superfici, invece che con i numeri. Quindi, Pitagora e i matematici greci dei secoli successivi decodificavano il teorema come l’indicazione di un’uguaglianza tra aree: «L’area di un quadrato costruito con il lato piú lungo di un triangolo rettangolo è la somma delle aree dei due quadrati costruiti con gli altri due lati». Il lato piú lungo è la famosa ipotenusa: il nome deriva dal greco ὑποτείνουσα («linea tesa sotto»), caratteristica che corrisponde al vero se si disegna il triangolo con l’orientamento appropriato (fig. 2, a sinistra).

Dopo un paio di migliaia di anni, il teorema di Pitagora è stato riproposto come un’equazione algebrica: a2 + b2 = c2, in cui c è la lunghezza dell’ipotenusa, a e b sono le lunghezze degli altri due lati (detti cateti, dal greco κάθετος, «linea perpendicolare») che comprendono l’angolo retto; il numero in esponente (2) indica che i valori devono essere elevati al quadrato, cioè alla potenza due. In algebra, elevare alla seconda, o al quadrato, indica la moltiplicazione del numero per se stesso; tutti sappiamo che l’area di un quadrato è data dalla moltiplicazione della lunghezza di un lato per quella (uguale) dell’altro lato. Dunque l’«equazione di Pitagora», come ho deciso di ri-nominarla qui, esprime la stessa realtà enunciata dalla Proposizione 47 di Euclide, se non si tiene conto di un certo fardello psicologico che richiederebbe una discussione sul modo di formulare, nell’Antichità, i concetti matematici fondamentali di area e numero, nella quale non intendo addentrarmi3.

L’equazione di Pitagora ha molte applicazioni e conseguenze. Essa vi permette di calcolare direttamente la lunghezza dell’ipotenusa, se sono date le lunghezze dei cateti. Ad esempio se a = 3 e b = 4, si potrà dedurre: c2 = a2 + b2 = 32 + 42 = 9 + 16 = 25, e dunque c = 5. Si tratta del ben noto triangolo 3-4-5, presente in tutti i testi scolastici di matematica, che è il piú semplice esempio di «terna pitagorica». Il successivo esempio di terna pitagorica primitiva (cioè non ottenibile semplicemente moltiplicando i tre numeri per uno stesso numero, ad esempio 6-8-10, oppure 9-12-15, e cosí via) è 5-12-13. Esistono infinite terne pitagoriche e i greci sapevano come costruirle tutte. Esse conservano un certo interesse nell’ambito della teoria dei numeri e anche negli ultimi decenni se ne sono scoperte alcune «nuove» caratteristiche.

Invece di partire da a e b per ottenere c, si può procedere in senso inverso, ottenendo ad esempio a, se sono noti b e c. Si possono risolvere anche altri problemi piú complessi, come vedremo presto.

Perché il teorema è vero? La prova fornita da Euclide è decisamente complicata e comporta il tracciamento di altri cinque segmenti oltre a quelli che delimitano i tre quadrati (fig. 2, a sinistra) e presuppone la dimostrazione di vari altri teoremi sulle equivalenze delle figure geometriche. Gli studenti del periodo vittoriano hanno attribuito a questo schema l’irriverente soprannome di «brache di Pitagora». Una dimostrazione piú diretta e intuitiva, anche se non elegantissima, si vale di quattro copie del triangolo rettangolo per fornire due soluzioni dello stesso gioco di incastri matematico (fig. 2, a destra). L’immagine è convincente, ma soddisfare con rigore logico i diversi passaggi del procedimento richiede un certo impegno. Ad esempio: come facciamo a esser certi che la figura, leggermente ruotata e inscritta nel quadrato maggiore (fig. 2, al centro), è proprio un quadrato?

Esistono interessanti prove del fatto che il famoso teorema fosse già noto molto prima di Pitagora. Una tavoletta babilonese d’argilla conservata al British Museum4 riporta, in caratteri cuneiformi, un problema matematico e una soluzione che possono essere trascritte cosí:

4 è la lunghezza e 5 la diagonale. Qual è l’ampiezza?

4 volte 4 è 16; 5 volte 5 è 25.

Togliere (sottrarre) 16 da 25, per ottenere 9.

Quale numero devo moltiplicare [per se stesso] per ottenere 9?

3 volte 3 è 9.

Perciò 3 è l’ampiezza.

È dunque evidente che i matematici babilonesi conoscevano il triangolo di lati 3-4-5 un migliaio di anni prima di Pitagora.

In un’altra tavoletta, sigla YBC 7289 della Collezione babilonese della Yale University (fig. 3, a sinistra), vediamo il diagramma di un quadrato di lato 30, alla cui diagonale sono associati i numeri 1, 24, 51, 10 e 42, 25, 35. Tenendo conto della numerazione sessagesimale (su base 60) dei matematici babilonesi, la prima serie indica in realtà la somma 1 + 24/60 + 51/602 + 10/603, che con la numerazione decimale dà 1,4142129. La radice quadrata di 2 () è approssimativamente 1,41421356. La seconda serie di numeri, nel sistema sessagesimale, dà il valore precedente moltiplicato per 30. Dunque i babilonesi sapevano che la lunghezza della diagonale di un quadrato è data da quella del suo lato moltiplicata per la radice quadrata di 2. Poiché vale l’equazione 12 + 12 = 2 = ()2, anche in questo caso siamo di fronte a un’applicazione del teorema di Pitagora.

Figura 3.

Tavolette babilonesi in caratteri cuneiformi che presentano calcoli relativi ad applicazioni del teorema di Pitagora. (a sinistra, YBC 7289, Collezione babilonese, Yale University; a destra, Collezione Plimpton 322, Columbia University).

Piú notevole, anche se piú enigmatica, la tavoletta della Collezione George Arthur Plimpton, conservata presso la Columbia University e contrassegnata con il numero 322 (fig. 3, a destra). Si tratta di una tavola con numeri disposti in quattro colonne e quindici righe. L’ultima colonna è semplicemente l’elenco numerico delle righe. Nel 1945, gli storici della scienza Otto Neugebauer e Abraham Sachs5 hanno rilevato che, in ogni riga, il quadrato del numero nella terza colonna (indichiamolo con c) diminuito del quadrato del numero (b), nella seconda colonna, è anch’esso un quadrato (a). Vale dunque, per i numeri nelle tre colonne, l’equazione a2 + b2 = c2: la tavoletta comprende dunque una serie di terne pitagoriche. O almeno è proprio cosí se si correggono quattro valori apparentemente inesatti. Tuttavia non è assolutamente certo che la tavoletta Plimpton 322 abbia davvero a che fare con le terne pitagoriche e, se anche si trattasse proprio di queste, potrebbe non essere altro che un comodo elenco di triangoli dei quali era facile calcolare l’area. Ed è possibile che siano stati riuniti nell’elenco soltanto per ottenere buone approssimazioni nel calcolo delle aree di altri triangoli o di altre figure, forse per valutare l’estensione di terreni.

Un’altra grande civiltà antica che ha lasciato molto materiale iconografico è quella egizia. Esistono prove di una visita in Egitto del giovane Pitagora e alcuni studiosi hanno ipotizzato che proprio là egli abbia imparato il «suo» teorema. I documenti superstiti della matematica egizia forniscono indizi insufficienti per sostenere questa ipotesi, ma si tratta di pochi esempi, che sono inoltre legati a problemi specifici. Si è spesso detto che, tipicamente in relazione alla costruzione delle piramidi, gli egizi tracciavano gli angoli retti partendo dal triangolo 3-4-5 e realizzando pezzi di corda con serie di 12 nodi disposti a intervalli tutti uguali: gli archeologi avrebbero rinvenuto esemplari di tali corde. In realtà nessuna di queste affermazioni sembra convincente. Un simile accorgimento tecnico non sarebbe stato abbastanza affidabile, considerando che la lunghezza di un pezzo di corda può variare a causa della trazione, e le distanze tra i nodi avrebbero dovuto essere rigorosamente invariabili, richiedendo quindi accurati e continui controlli. La precisione con cui sono costruite le piramidi di Giza è ben piú grande di quella che si sarebbe potuta ottenere con simili corde annodate. Sono stati per contro rinvenuti attrezzi assai piú affidabili, analoghi alle squadre dei carpentieri. Gli egittologi che si dedicano allo studio della matematica egizia non hanno mai trovato testi relativi all’uso delle corde a nodi per costruire il triangolo 3-4-5 e non si sono trovati esemplari di tali corde. Dunque, per quanto possa essere affascinante, questa storia va quasi certamente considerata come un mito.

Figura 4.

Carta del mondo del 1100 circa, disegnata dal cartografo arabo al-Idrīsī, detto al-Ṣiqillī (il Siciliano, nato a Ceuta). Essa è inserita nel Liber ad eorum delectationem qui terras peregrare studeant (in arabo Kitāb nuzhat al-mushtāq fī ikhtirāq al-āfāq), scritto da al-Idrīsī per Ruggero II re di Sicilia e noto perciò come Kitāb Rugiār (Libro di Ruggero). Il lavoro è stato completato intorno al 1154. Per riconoscere le sagome che vi compaiono e confrontarle con quelle della cartografia attuale, l’immagine va ruotata di 180°.

Se Pitagora potesse essere trasferito nel mondo d’oggi noterebbe non pochi cambiamenti. Nella sua epoca, le conoscenze mediche erano rudimentali, per l’illuminazione si usavano torce, e i mezzi di comunicazione piú veloci erano i messaggeri a cavallo o i segnali inviati con falò da una collina all’altra. Il mondo conosciuto comprendeva gran parte dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa, ma erano sconosciute le Americhe, l’Australia, le regioni artiche e l’Antartide. In molte culture si riteneva che il mondo fosse piatto: una sorta di disco o persino un quadrato con i lati paralleli alle direzioni dei punti cardinali. Malgrado le scoperte degli studiosi della Grecia classica, queste credenze si sono conservate a lungo ed erano ancora largamente diffuse nel Medioevo, sotto forma di mappe dell’orbis terræ (fig. 4).

Chi ha capito, per primo, che il mondo era sferico? Secondo Diogene Laerzio, biografo greco del II-III secolo d.C., è stato proprio Pitagora. Nell’ottavo libro delle sue Vite e dottrine dei piú illustri filosofi, vasta raccolta (in dieci libri) di citazioni e note biografiche, che costituisce una delle principali fonti di cui disponiamo sulle vite dei pensatori della Grecia antica, si legge: «Pitagora è stato il primo a dire che sono sferici il Cielo, l’Universo e la Terra, per quanto Teofrasto attribuisca questa scoperta a Parmenide, e Zenone a Esiodo». I greci dell’Antichità classica hanno spesso sostenuto che le piú importanti scoperte erano state compiute dai loro piú famosi precursori, indipendentemente da prove storicamente valide: dobbiamo dunque prendere questa affermazione a scatola chiusa, tuttavia è indiscutibile che, a partire dal V secolo a.C., tutti i filosofi e i matematici greci degni di rispetto consideravano sferica la Terra. L’idea sembra essersi sviluppata approssimativamente all’epoca di Pitagora e potrebbe essere stata proposta da uno dei suoi seguaci. Oppure potrebbe essere stata una nozione da tutti condivisa, dedotta dalla prova fornita dall’ombra, di forma circolare, della Terra sulla Luna durante un’eclissi lunare, o dall’analogia con la Luna, ovviamente sferica, se appare come un disco oscuro in un’eclissi di Sole.

Comunque, anche per i greci la Terra era il centro dell’Universo e ogni cosa ruotava intorno a essa. I viaggi per mare erano effettuati con la navigazione stimata: seguendo le coste e facendo il punto con l’osservazione delle stelle. L’equazione di Pitagora ha cambiato tutto. Ha guidato l’umanità lungo il cammino che ci ha portati alle attuali conoscenze della geografia del nostro pianeta e della posizione che esso occupa nel Sistema solare. Si è trattato di un fondamentale primo passo verso le tecniche geometriche necessarie per la cartografia, la navigazione, l’agrimensura. L’equazione ha anche fornito la chiave per stabilire l’importante correlazione tra geometria e algebra. Questo processo di sviluppo porta dall’Antichità direttamente alla teoria della relatività e alla cosmologia attuale (vedi cap. XIII). L’equazione di Pitagora ha aperto percorsi del tutto nuovi alle indagini dell’uomo, sia sul piano metaforico sia su quello letterale e pratico. Ci ha rivelato la forma del nostro mondo e il suo posto nell’universo.

Figura 5.

La trigonometria si basa sull’esame delle proprietà di un triangolo rettangolo.

Molti dei triangoli con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni non sono rettangoli, dunque può sembrare che le possibilità di applicazioni dirette del teorema siano limitate. È però vero che ogni triangolo può essere suddiviso in due triangoli rettangoli (vedi fig. 6) e ogni poligono è suddivisibile in triangoli. Quindi i triangoli rettangoli possono essere visti come elementi chiave di ogni figura; per mezzo di questi triangoli si può dimostrare che esiste un’utile relazione tra la forma di un triangolo qualsiasi, la lunghezza dei suoi lati e l’ampiezza dei suoi angoli interni. La parte della matematica che si basa su questa constatazione è la trigonometria (dal greco τρίγωνον, «triangolo», e μέτρον, «misura»: misurazione dei triangoli).



Figura 6.

Suddivisione di un triangolo qualsiasi in due triangoli rettangoli.

Il triangolo rettangolo è essenziale per definire le tipiche funzioni di questa disciplina: senocoseno e tangente. I nomi da noi usati derivano da quelli che i matematici arabi introdussero – trascrivendo con le regole della propria lingua – i termini proposti dai matematici indiani del IV e Vsecolo. (In particolare, la parola latina sinusderiva dal termine che vale «baia», «insenatura»). Nelle formule si usano le abbreviazioni (da considerare simboli): sin(spesso anche sen), costan (spesso anche tg). La storia di queste funzioni è complessa e la versione oggi correntemente usata è il risultato di un cammino tortuoso. Taglierò corto illustrando semplicemente le definizioni cui si è infine arrivati. Un triangolo rettangolo ha, ovviamente, un angolo retto; gli altri due angoli possono avere una qualunque ampiezza, purché la loro somma sia 90°, cioè sia pari a un altro angolo retto. A ogni angolo si possono associare tre funzioni, cioè strumenti (o regole) che permettono di calcolare specifici numeri associati alle ampiezze degli angoli. Utilizzando le lettere abc per indicare i tre lati del triangolo rettangolo della figura 5 e denominando Al’angolo tra l’ipotenusa e il piú lungo dei cateti, definiamo cosí le tre funzioni seno, coseno e tangente: sin A = a/c; cos A = b/c; tan A = a/b. I valori assunti da queste funzioni dipendono unicamente dall’ampiezza dell’angolo A perché tutti i triangoli rettangoli che hanno un angolo di ampiezza Apresentano gli stessi rapporti tra le lunghezze dei lati e differiscono soltanto per la scala.

È dunque possibile redigere tavole che danno i valori di seno, coseno e tangente per i diversi valori dell’ampiezza dell’angolo e utilizzarli per ottenere varie misure delle caratteristiche dei triangoli rettangoli. Una tipica applicazione era già diffusa in tempi molto antichi: il calcolo dell’altezza di una colonna partendo soltanto da misurazioni effettuabili al suolo. Supponiamo di aver rilevato che, per una distanza dalla base della colonna di 100 m, l’angolo misurabile tra il suolo e la linea secondo cui si vede la cima della colonna sia 22°. Poniamo il valore 22° come A nella figura 5, e assumendo quindi che a rappresenti l’altezza della colonna e b la sua distanza (100 m). La definizione della funzione tangente, ci dice che tan 22° = a/100 e dunque che a = 100 tan 22°.

Leggiamo, nelle tavole, che tan 22° vale 0,404 (accontentandoci di 3 decimali): ne possiamo dedurre che la colonna è alta 40,4 m.

Disponendo delle funzioni trigonometriche è immediato estendere le applicazioni dell’equazione di Pitagora ai triangoli che non hanno angoli retti. Nella figura 6 è dato uno di questi triangoli (detti genericamente scaleni: dal greco σκαληνός, «disuguale», «zoppicante») con l’angolo C e i tre lati abc. Dividiamo il triangolo nei due triangoli rettangoli indicati. Applicando due volte il teorema di Pitagora, e con qualche operazione algebrica6, si arriva all’uguaglianza: a2 + b2 – 2ab cos C = c2 che è formalmente uguale all’equazione di Pitagora con l’aggiunta del termine – 2ab cos C. Questo «teorema del coseno» ha le stesse applicazioni del teorema di Pitagora, mettendo in relazione la lunghezza del lato c con quelle dei lati a e b purché si disponga delle informazioni relative all’angolo C.

Il teorema del coseno è uno dei pilastri della trigonometria. Se conosciamo le lunghezze di due lati di un triangolo e l’ampiezza dell’angolo da essi compreso, possiamo utilizzare questi dati per ottenere la lunghezza del terzo lato. Altre equazioni ci daranno l’ampiezza dei restanti due angoli. Tutte queste equazioni possono in definitiva essere ricondotte a quelle note per i triangoli rettangoli.

Disponendo delle equazioni trigonometriche e di adatti strumenti di misurazione, possiamo realizzare rilievi topografici e redigere mappe molto affidabili. Non si tratta di un’idea nuova. Il papiro Rhind, conservato al British Museum, comprende una serie di calcoli matematici scritti da studiosi egizi e risale al 1650 a.C. Il filosofo greco Talete, vissuto tra il VII e il VIsecolo a.C., si serví delle sue conoscenze sulla geometria dei triangoli per stimare l’altezza delle piramidi di Giza. Erone di Alessandria ha descritto lo stesso procedimento nel 50 d.C. All’incirca nel 260 a.C., il matematico greco Eratostene aveva calcolato le dimensioni della Terra partendo dalla rilevazione dell’angolo tra la verticale e la direzione dei raggi del Sole a mezzogiorno in due località diverse: Alessandria e Syene (oggi Aswān) in Egitto, distanti 5000 stadi (circa 800 km). Una lunga serie di matematici ha tramandato le descrizioni di questi metodi sviluppandone anche altri e applicandoli in particolare alle misurazioni astronomiche, tra le quali appunto le dimensioni della Terra.

La cartografia si è sviluppata a partire dal 1533, anno in cui il cartografo olandese Gemma Frisio (Jemme Reinerszoon, detto Frisius, cioè «della Frisia», la parte settentrionale degli attuali Paesi Bassi; nato nel 1503, che si era laureato in medicina a Lovanio) spiegò, nel suo Libellus de Locorum describendorum Ratione, come utilizzare la trigonometria per tracciare carte precise e dettagliate. Nasceva cosí la geodesia, scienza della misurazione del pianeta Terra. Le notizie sull’esistenza di questo nuovo metodo si diffuse in tutta l’Europa e raggiunse l’astronomo danese Tyge Brahe, di nobile famiglia. Nel 1579 Tycho (cosí aveva latinizzato il suo nome) si serví dei procedimenti di Gemma Frisio per tracciare una dettagliata mappa dell’isola di Hven, dove sorgeva il palazzo, detto Uraniborg, in cui era collocato il suo osservatorio: l’isola gli era stata donata da Federico II re di Danimarca. Nel 1615 il matematico olandese Willebrord Snell van Royen (noto come Snellius) era andato oltre, sviluppando il metodo nello strumento matematico-geometrico che praticamente è tuttora in uso: la triangolazione. Alla superficie di cui si vuole misurare l’estensione viene idealmente sovrapposto un reticolato di triangoli. Misurando con grande precisione la lunghezza di un primo lato, la posizione dei punti che ne sono gli estremi e gli angoli adiacenti, si individuano, con il calcolo, i tre vertici del triangolo e le posizioni di qualunque particolare interessante al suo interno. Si procede nello stesso modo per tutti i triangoli della maglia. Snellius era riuscito a ricavare cosí la distanza tra due città, Alkmaar e Bergen op Zoom, utilizzando un reticolato di 33 triangoli. Aveva scelto queste due città olandesi perché si trovavano sullo stesso meridiano ed esattamente alla distanza di un grado di longitudine. Disponendo dunque di tale distanza, Snellius ha potuto calcolare la circonferenza della Terra e pubblicare, nel 1617, il risultato nel suo Eratosthenes Batavus. De Terræ ambitus vera quantitate. La precisione del risultato è del 4 per cento. Snellius aveva anche modificato leggermente le equazioni della trigonometria piana per tener conto della sfericità reale della Terra (passando dunque dal rilievo topografico a quello geodetico): un importante passo avanti per ottenere una cartografia piú affidabile per la navigazione.

La triangolazione è un procedimento che permette di calcolare indirettamente le distanze misurando angoli. Se infatti si deve effettuare un rilievo topografico di una certa superficie di terreno, che si tratti di un’area destinata alla costruzione di edifici oppure di un’intera regione, è assai piú semplice misurare angoli invece di distanze. La triangolazione ci consente di misurare un numero limitato di lunghezze, misurando però un grande numero di angoli: il resto delle misure può essere ottenuto con equazioni trigonometriche. Si procede individuando, come primo passo, un segmento (base di stazionamento) che collega due punti e misurandone, direttamente e con estrema precisione, la lunghezza. Si sceglie poi un punto ben evidente nella zona e visibile da entrambe le estremità della base di stazionamento e, traguardandolo da queste, si misurano gli angoli che le direzioni di osservazione formano con la base. Disponiamo ora di un triangolo di cui conosciamo un lato (la base di stazionamento) e i due angoli adiacenti, dunque, in modo inequivocabile, la forma e l’estensione. Utilizzando la trigonometria, ricaviamo la lunghezza degli altri due lati.

In realtà ora disponiamo di due nuove basi di stazionamento che sono i due lati appena ottenuti attraverso il calcolo. Dalle estremità di queste due basi possiamo misurare angoli secondo i quali si vedono altri due punti piú lontani e ricavarne le distanze. Si continua con questo procedimento costruendo un reticolato di triangoli che copre tutta la superficie da cartografare. All’interno dei vari triangoli si osserveranno le strutture e le caratteristiche piú evidenti e di particolare interesse come campanili, incroci di strade e cosí via. Il solito giochetto trigonometrico consente di individuarne l’esatta collocazione. Come tocco finale si può controllare l’accuratezza di tutta la rilevazione, misurando direttamente la lunghezza di uno degli ultimi lati del reticolato.

Figura 7.

Due assi cartesiani di un punto del piano e sue coordinate.

Alla fine del XVIII secolo, la triangolazione era utilizzata ormai abitualmente nei rilievi cartografici e geodetici. I lavori dell’Ordnance Survey of Great Britain hanno avuto inizio nel 1783: il completamento dell’impresa ha richiesto settant’anni. Le analoghe operazioni per il Great Trigonometric Survey of India, relativo alla mappatura del subcontinente indiano, si sono concluse nel 1801. Esse comprendevano le rilevazioni della catena dell’Himalaya e la determinazione dell’altezza dell’Everest. Nel XXI secolo, la maggior parte dei rilievi cartografici e geodetici si basa sull’impiego di fotografie satellitari e del gps (Global Positioning System). La triangolazione diretta non viene piú usata ma c’è ancora dietro le quinte, in tutti i metodi usati per dedurre le posizioni partendo dai dati forniti dai satelliti.

Il teorema di Pitagora è stato un elemento essenziale anche per l’invenzione della geometria analitica e in particolare del sistema delle coordinate. Si tratta di un accorgimento che permette di rappresentare le figure geometriche come insiemi di numeri, utilizzando linee (dette assi) a ognuna delle quali si associa appunto una sequenza di numeri, cioè una scala graduata. La versione piú diffusa di questo sistema di riferimento è quello delle coordinate cartesiane, cosí denominate in onore del matematico e filosofo francese René Descartes (dal proprio cognome aveva tratto la denominazione latina Cartesius). Pur non essendo il primo a occuparsene, Cartesio ha infatti fornito contributi pionieristici in questo settore. Tracciate su un foglio due linee: una orizzontale, indicata con x; l’altra verticale, indicata con y. Queste due linee, perpendicolari tra loro sono dette assi; il punto d’incontro è l’origine degli assi. Segnate, sui due assi, una serie di punti a distanze gradualmente crescenti a partire dall’origine, come i segni riportati su un righello; convenzionalmente si scelgono come positivi i valori a destra dell’origine, sull’asse orizzontale e, verso l’alto, sull’asse verticale; come negativi, i valori rispettivamente a sinistra e verso il basso. Ora possiamo individuare con precisione qualsiasi punto nel piano (cartesiano) P, associando a esso due numeri (x, genericamente detta ascissadel punto, e y, detta ordinata), che sono le sue coordinate. Tali numeri si ottengono tracciando le perpendicolari agli assi partendo dal punto (vedi fig. 7) e definiscono in modo completo e senza ambiguità (con il relativo segno + o –) la sua posizione nel piano rappresentato sul foglio.

I grandi matematici europei del XVII secolo, disponendo di questi strumenti, capirono che una linea (curva o retta) del piano corrisponde a un insieme di soluzioni di un’equazione in cui compaiono x e y. Ad esempio, l’equazione y = x corrisponde graficamente alla diagonale che decorre dall’origine verso destra e verso l’alto (nel settore del piano detto primo quadrante), perché ogni punto P (xy) appartiene a questa linea se, e soltanto se, y = x. In generale un’equazione lineare (nella quale cioè x e ycompaiono con l’esponente 1) della forma ax + by = c (dove ab e c sono costanti) corrisponde a una linea retta, e viceversa.

Quale equazione corrisponde a una circonferenza? Ecco dove entra in gioco l’equazione di Pitagora. Tutti i punti (xy) di una circonferenza devono avere una distanza costante r da un punto (il centro) che si può assumere come origine degli assi. Deve dunque essere soddisfatta l’equazione: r2 = x2+ y2 dalla quale possiamo ottenere

Considerando che l’insieme di tutti i punti del piano la cui distanza dall’origine degli assi è r costituiscono una circonferenza di raggio re centro coincidente con l’origine, l’equazione che abbiamo dedotto definisce matematicamente una circonferenza. In generale la circonferenza di raggio r e centro nel punto C (ab) è rappresentata dall’equazione (x – a)2 + (y – b)2 = r2 che permette anche di calcolare la distanza r tra due punti (ab) e (xy). Il teorema di Pitagora ci fornisce dunque due strumenti matematici essenziali: l’equazione della circonferenza e l’equazione che ci permette di calcolare la lunghezza di un segmento conoscendo le coordinate delle sue estremità.

Il teorema, estremamente importante per se stesso e per queste sue piú immediate applicazioni, ha conseguenze d’importanza anche piú grande per varie generalizzazioni. Qui tratterò soltanto di uno dei filoni di questi sviluppi per individuare le connessioni con la teoria della relatività (su cui torneremo nel cap. XIII).

La dimostrazione del teorema di Pitagora data negli Elementi di Euclide pone solidamente questa relazione nell’ambito della «geometria euclidea». Per molto tempo questa affermazione avrebbe potuto contenere la semplice dizione «geometria», perché si assumeva, sistematicamente, che la geometria di Euclide fosse la «vera» geometria dello spazio fisico. Un’assunzione ovvia, scontata. Come la maggior parte delle convinzioni ritenute ovvie, anche questa si è però rivelata falsa.

Euclide aveva dedotto tutti i suoi teoremi da un piccolo numero di assunti, che presentava come assiomi, o postulati: definizioni preliminari e nozioni generali, rispondenti al senso comune. Questo impianto di affermazioni era elegante, intuitivo, conciso, con una sola vistosa eccezione: il quinto assioma. Eccone l’enunciato:

Se una retta taglia altre due rette formando, dallo stesso lato, angoli interni la cui somma è minore di quella di due angoli retti, prolungando indefinitamente le due rette, queste si incontreranno dalla parte in cui la somma dei due angoli è minore di due angoli retti.

Sembra quasi uno scioglilingua, ma il senso di questa proprietà (solitamente detta «postulato delle parallele») si comprende meglio osservando la figura 8.



Figura 8.

Il postulato delle parallele di Euclide.

Per piú di mille anni i matematici hanno tentato di «aggiustare» quello che consideravano come un punto debole di tutta la geometria. Non stavano però cercando di ottenere soltanto la stessa definizione in modo piú semplice e piú intuitivo, anche se qualcuno è riuscito a inventare enunciati soddisfacenti in questo senso. Essi volevano sbarazzarsi una volta per tutte dello scomodo assioma, dandone una dimostrazione ineccepibile. Dopo parecchi secoli, i matematici hanno infine capito che esistevano geometrie alternative «non-euclidee», e implicitamente hanno dedotto che l’assioma era indimostrabile. Queste nuove geometrie erano, sul piano logico, altrettanto coerenti della geometria euclidea, di cui rispettavano tutti gli assiomi, con l’eccezione di quello delle parallele. Esse potevano essere interpretate come geometrie basate sulle geodetiche delle superfici curve. La geodetica è il cammino piú corto che congiunge due punti dati su una certa superficie con la linea piú corta appartenentealla superficie stessa. Il termine «geodesia» (dal greco γεωδαισία, «divisione della Terra») si applica alla disciplina che tratta della misurazione e della rappresentazione del «geoide» (cioè del solido – non una sfera – che ha la forma del nostro pianeta), ma anche dei fenomeni dinamici, gravitazionali ed elettromagnetici propri della Terra. Le definizioni caratterizzanti le geometrie non-euclidee davano un particolare rilievo al concetto di curvatura delle superfici (vedi fig. 9).

Figura 9.

Curvatura di una superficie. (a sinistra, curvatura nulla; al centro, curvatura positiva; a destra, curvatura negativa).

Il piano della geometria euclidea è piatto: ha curvatura nulla (spesso si dice anche «curvatura 0»). La superficie di una sfera ha in qualsiasi punto la stessa curvatura, che è, per convenzione, assunta come positiva: ogni punto di essa è circondato da una calotta sferica (una sorta di piccola cupola). È subito possibile una constatazione: le circonferenze massime (che hanno lo stesso raggio della sfera stessa) della superficie sferica si intersecano sempre in due punti e non in un solo punto come le rette di un piano secondo l’assioma della geometria euclidea. La geometria sferica presenta dunque un’importante modifica rispetto a quella euclidea perché assume che i due punti d’incontro (che sono antipodali, cioè sono alle estremità di un qualunque diametro della sfera) siano coincidenti. La superficie diventa un piano proiettivo (questa la denominazione adottata) e la geometria relativa è detta ellittica. Esiste anche una superficie di curvatura costante negativa. In ogni suo punto essa appare come una sorta di sella. Su una tale superficie due linee possono nonincontrarsi mai. Questa superficie è detta piano iperbolico e può essere rappresentata in vari modi non particolarmente complessi. Il modo piú semplice può forse essere quello di considerarlo come la parte interna di un disco circolare definendo «linea» un arco di cerchio che interseca il bordo del disco stesso secondo due angoli retti (vedi fig. 10).

Figura 10.

Modello del piano iperbolico rappresentato come disco. Le tre linee che passano per il punto P non intersecano la linea L.

Può sembrare che, mentre la geometria piana può essere non-euclidea, ciò non sia possibile per la geometria dello spazio. Infatti, se è vero che si può piegare una superficie piana associando a essa una terza dimensione, non è possibile piegare lo spaziotridimensionale, perché non esiste una quarta dimensione lungo la quale si riesca a effettuare tale «piegatura». Va però detto che questa osservazione è un po’ semplicistica. Ad esempio, si può usare, come modello tridimensionale approssimato di una superficie iperbolica, la parte rivolta verso l’interno di una superficie sferica. Le linee sono rappresentate da archi di circonferenze che incontrano i confini di tale superficie formando angoli retti e i piani sono parti della superficie sferica delimitati da linee che si incontrano formando angoli retti. Questa geometria è tri-dimensionale: soddisfa tutti gli assiomi di Euclide, con l’eccezione del quinto, e, purché se ne accettino le condizioni, può descrivere uno spazio curvo tri-dimensionale. Non è però «avvolta» intorno a qualcosa, con un certo raggio di curvatura né si deforma in una qualunque nuova direzione.

È semplicemente incurvata.

Con lo sviluppo di queste nuove geometrie si è avuto un cambiamento del punto di vista, con risultati che hanno incominciato a occupare il centro della scena, non tanto nel campo della matematica quanto in quello della fisica. Se lo spazio non doveva essere euclideo, quale forma doveva avere? Gli studiosi si resero conto di non sapere, in realtà, come rispondere. Nel 1813, Carl Friedrich Gauss, matematico e fisico tedesco, sapendo che in uno spazio curvo la somma degli angoli interni di un triangolo non è 180°, ha misurato gli angoli ai vertici del triangolo formato dalle cime di tre monti: il Brocken nello Harz (Germania settentrionale), l’Inselsberg in Turingia e lo Hohen Hagen presso Dransfeld, a sud-ovest di Gottinga. La somma di questi angoli superava i 180° di 15″ (secondi di grado). Se i suoi calcoli erano esatti, questo risultato indicava che lo spazio, anzi la superficie (almeno nella regione in cui era stata fatta la rilevazione), aveva una curvatura positiva. Tuttavia per eliminare con certezza gli errori nell’osservazione, occorre operare su un triangolo molto piú grande ed eseguire misurazioni ben piú accurate. Le osservazioni di Gauss non potevano, di fatto, essere considerate conclusive. Lo spazio poteva essere euclideo ma poteva anche non esserlo.

Ho precisato che lo spazio iperbolico tridimensionale è semplicemente incurvato: questa mia osservazione è legata a una nuova concezione della curvatura, che ci viene, essa pure, da Gauss. La superficie sferica ha una curvatura costante positiva, il piano iperbolico ha una curvatura costante negativa. Ma la curvatura di una generica superficie non deve necessariamente essere costante. Può presentare una curvatura piú forte in alcune zone e meno forte in altre. La curvatura può cambiare progressivamente e uniformemente da un luogo a un altro. Se la superficie è simile a quella di un osso per far giocare i cani, le parti alle estremità presentano due zone a curvatura positiva separate da una a curvatura negativa.

Gauss si applicò alla ricerca di una formula in grado di esprimere tutte le caratteristiche di una superficie in qualunque suo punto. Quando infine riuscí a scoprire un insieme di formule soddisfacenti e a pubblicarlo nel 1828 nelle sue Disquisitiones Generales Circa Superficies Curvas, indicò, in varie sezioni del testo, questi insiemi di equazioni come «egregi» o «fertilissimi teoremi». Ci si chiede che cosa fosse tanto notevole da apparire egregio o fertilissimo. Gauss era partito da un’interpretazione semplicistica della curvatura: si poteva inserire la superficie in uno spazio tridimensionale e calcolare quanto essa fosse «incurvata». La soluzione del problema che si era posto gli aveva fatto però comprendere che le caratteristiche dello spazio circostante non sono importanti. Non trovano posto nella formula. E dunque scriveva:

La formula (…) porta spontaneamente all’Egregium Theorema [la denominazione è stata assai presto adottata per indicare questo enunciato]: Se una superficie curva si piega secondo una qualunque altra superficie, la curvatura della superficie in singoli punti rimane invariata.

Con la frase «si piega secondo una qualunque altra superficie» («in quamcunque aliam superficiem explicatur») Gauss vuol dire «si avvolge intorno a…»

Prendete un foglio di carta, piatto, a curvatura 0. Avvolgetelo intorno a una bottiglia. Se la bottiglia è cilindrica, la carta si adatta perfettamente a questa forma senza formare pieghe, o deformarsi, o strapparsi. Il foglio si incurva, se ci atteniamo all’apparenza del visibile, ma si tratta di una curvatura banale, perché non ha cambiato in alcun modo la geometria della superficie di carta. L’operazione ha soltanto cambiato la relazione del foglio con lo spazio circostante. Disegnate un triangolo rettangolo sul foglio disteso su un piano e misurate la lunghezza dei lati; verificate questi dati con il teorema di Pitagora. Ora avvolgete il foglio attorno alla bottiglia. Le lunghezze dei lati, misurate sul foglio stesso, non cambiano. Il teorema di Pitagora è ancora valido.

Per contro la superficie di una sfera non ha curvatura nulla. Non è quindi possibile avvolgere un foglio di carta in modo che si adatti totalmente e perfettamente a questo solido, senza pieghe e senza stirarlo o strapparlo. La geometria su una sfera e su una superficie sferica è intrinsecamente diversa da quella di un piano. Ad esempio, se si assimila la Terra a una sfera, le porzioni di cerchi massimi corrispondenti all’Equatore e a due meridiani a 0° e a 90° di latitudine, a nord di questo, formano un triangolo che ha tre lati uguali e tre angoli retti. Dunque l’equazione di Pitagora non è soddisfatta.

Oggi indichiamo come «curvatura gaussiana» la curvatura intrinseca di una certa superficie. Gauss ha spiegato perché il concetto è importante con una brillante analogia, tuttora largamente utilizzata. Immaginate una formica confinata a muoversi su una certa superficie. Come può capire se la superficie è incurvata o se non lo è? Non può abbandonare la superficie per accertare se essa appare incurvata. Può tuttavia usare la formula di Gauss ed eseguire le adatte misurazioni, pur restando esclusivamente nell’ambito della superficie. Siamo esattamente nella stessa situazione della formica quando cerchiamo di immaginare quale sia la vera geometria del nostro spazio. Non possiamo uscirne. Prima però di imitare la formica effettuando misure, dobbiamo procurarci una formula che ci dia la curvatura di uno spazio tridimensionale. Gauss non disponeva di una tale formula, ma uno dei suoi allievi, con una punta di temerarietà, sostenne di averla.

Lo studente era Georg Bernhard Riemann, allora impegnato nel conseguimento del titolo indicato, nelle università tedesche, come abilitazione, corrispondente al gradino successivo del dottorato. Al tempo di Riemann tale qualifica significava che chi l’otteneva poteva richiedere agli altri studenti un compenso per le sue lezioni. Allora come oggi, per ottenere l’abilitazione era necessario presentare la propria ricerca in una lezione pubblica, che vale anche come un esame. Il candidato presenta vari argomenti e l’esaminatore, che nel caso di Riemann era Gauss, ne sceglie uno. Riemann, dotato di notevole talento matematico, aveva posto nell’elenco alcuni argomenti ben noti e spesso affrontati, ma in un momento di euforia, come per un improvviso eccesso di sangue al cervello, aveva aggiunto l’argomento «Sulle ipotesi che sono alla base della geometria». Gauss si era a lungo interessato proprio di questo tema e, naturalmente, lo scelse per l’esame di Riemann.

Riemann immediatamente si trovò a disagio nel dover presentare ai suoi esaminatori un argomento cosí importante e stimolante. Provava una cordiale avversione per l’impresa di parlare in pubblico e non aveva analizzato adeguatamente i problemi matematici della questione. Aveva appena qualche idea, molto vaga, per quanto affascinante, sulla curvatura dello spazio. E in un numero qualsiasi di dimensioni. Quel che Gauss aveva indicato in relazione a due dimensioni con il suo egregio teorema, nell’intenzione di Riemann doveva essere possibile e vero anche per un qualsiasi numero di dimensioni, a volontà. Ora doveva esibirsi, e subito. La lezione era imminente. Riemann era sotto pressione, quasi sul punto di avere un collasso nervoso, e il suo impegnativo lavoro quotidiano, come aiuto del collaboratore di Gauss, Wilhelm Eduard Weber negli esperimenti sui fenomeni elettrici, non forniva di certo un aiuto. A ben vedere forse lo fece, perché mentre indagava sulla relazione tra le interazioni, nel corso di queste ricerche quotidiane, Riemann aveva intuito che le caratteristiche di tali forze potevano essere poste in relazione con una curvatura. Procedendo nella direzione opposta, poteva utilizzare le procedure matematiche che descrivevano le forze per definire la curvatura, come era richiesto dal tema del suo esame.

Nel 1854 Riemann tenne la sua lezione, che fu accolta con vivo interesse; e non dobbiamo stupircene. Incominciò infatti definendo la proprietà che indicava come «varietà». Formalmente una «varietà» è specificata da un sistema di piú coordinate e da una formula che fornisce la distanza tra due punti vicini: oggi questa formula e i relativi operatori matematici sono indicati come «metrica riemanniana». Il momento di massimo interesse della lezione di Riemann si ebbe con la presentazione di una formula che generalizzava l’egregio teorema di Gauss: essa definiva la curvatura di una varietà in funzione dei soli termini della sua metrica. E proprio qui la storia diventa del tutto circolare, come il serpente Uroboro (dal greco ὐροβóρος) che si morde la coda, perché la metrica in questione contiene evidenti resti del teorema di Pitagora.

Supponiamo, ad esempio, che la varietà abbia tre dimensioni e ammettiamo che un punto P sia individuato dalle tre coordinate xyz, che sia cioè P (xyz) e che un altro punto vicino abbia coordinate x + dxy + dyz + dz(dove «d» indica «una piccola porzione di»). Nello spazio euclideo, a curvatura 0, la distanza ds tra questi due punti soddisfa l’equazione ds2 = dx2 + dy2 + dz2 come vuole il teorema di Pitagora limitatamente a punti che siano vicini. Se lo spazio è curvo, con una curvatura che varia da punto a punto, la formula analoga, cioè la relativa metrica, diventa

ds2 = Xdx2 + Ydy2 + Zdz2 + 2Udxdy + 2Vdxdz + 2Wdydz

In questa equazione XYZUVWpossono dipendere da xy e z. Può sembrare un po’ complicata, ma come l’equazione di Pitagora, questa filastrocca comprende somme di termini quadratici (e di termini a essi strettamente correlati come il prodotto di quantità quali dxdy, equivalenti a una potenza 2), con qualche fronzolo in piú. I fattori 2 compaiono perché la formula può essere espressa e condensata in uno schema a tre colonne e tre righe, o matrice:

in cui XYZ compaiono una sola volta, mentre UVW compaiono due volte. Lo schema è simmetrico rispetto alla diagonale principale (dal termine in alto a sinistra a quello in basso a destra); nel lessico della geometria differenziale esso è un tensore simmetrico. La generalizzazione di Riemann del teorema egregio di Gauss è una formula che esprime la curvatura della varietà, in ogni punto dato, per mezzo di questo tensore. Nel caso speciale in cui il teorema di Pitagora è applicabile, la curvatura risulta essere nulla. Perciò la validità del teorema di Pitagora in una certa situazione che ci si presenta costituisce la prova dell’assenza di curvatura.

Come la formula di Gauss, l’espressione di Riemann per la curvatura dipende soltanto dalla metrica della varietà. Una formica confinata in questa varietà potrebbe constatarne la metrica effettuando misure su minuscoli triangoli e calcolando la curvatura. La curvatura è una proprietà intrinseca di una certa varietà topologica, indipendente da qualsiasi spazio circostante. In effetti la metrica è sufficiente a determinare la geometria, e dunque non è richiesta la presenza di uno spazio circostante; in particolare noi, formiche umane, possiamo chiederci quale sia la forma del nostro vasto e misterioso universo e sperare di ottenere una risposta effettuando osservazioni che non ci obbligano a uscire dall’universo stesso. Ed è bene che sia cosí, perché comunque non potremmo farlo.

Riemann ha scoperto la sua formula che definisce la geometria partendo dalle forze di cui si possono osservare gli effetti. Cinquant’anni piú tardi, Einstein rimuginò nella sua testa l’idea di Riemann, utilizzando la geometria per descrivere le forze gravitazionali con la propria teoria della relatività generale e fornendo l’ispirazione per ipotesi nuove sulla forma dell’universo (vedi cap. XIII). La successione di eventi che abbiamo citato è straordinaria. L’equazione di Pitagora ha preso forma per la prima volta circa 3500 anni fa per consentire la misurazione di appezzamenti di terreno agricolo. L’estensione di questa relazione a triangoli non rettangoli, e dai triangoli alle superfici sferiche, ci ha permesso di cartografare i continenti dove viviamo e di misurare le dimensioni del nostro pianeta. E una sua generalizzazione davvero notevole ci permette di valutare le dimensioni dell’universo. Grandi idee hanno spesso inizi apparentemente di piccolo peso.





1DGWE0LLSThe Penguin Book of Curious and Interesting Mathematics, cita questa breve versione del gioco di parole. Un capo indiano [d’America] ha tre mogli che stanno per avere un figlio. Una è distesa su una pelle di bisonte, un’altra su una pelle d’orso, la terza su una pelle d’ippopotamo. A tempo debito la prima partorisce un maschietto, la seconda una bambina, la terza una copia di gemelli maschio e femmina dimostrando dunque il famoso teorema che dice: «La ‘squaw sull’ippopotamo’ è uguale alla somma [dei figli] delle altre due squaw sulle pelli degli altri animali». La storiella risale almeno agli anni cinquanta del secolo scorso, quando venne inserita nella serie di trasmissioni My Word, condotta per la Bbc dai due popolari autori di commedie e sketch Frank Muir e Denis Norden.

2. Nella traduzione italiana dovuta a Niccolò Fontana, detto Tartaglia, e pubblicata a Venezia nel 1565, leggiamo: «Propositione 47. In ogni triangolo rettangolo, lo quadrato che uien descritto dal lato opposito all’angolo retto, dutto in se medesimo, è equale alli duoi quadrati che uengono descritti delli altri duoi lati» (N.d.T.).

3. Non è inutile far notare che è essenziale, nella relazione, la presenza delle «quantità elevate al quadrato» e non necessariamente la costruzionegeometrica dei quadrati (poligoni con quattro angoli retti e quattro lati uguali) sui tre lati. Considerando che tutte le aree dei poligoni regolari sono esprimibili con relazioni nelle quali è sempre presente, come fattore, la seconda potenza della lunghezza del lato, il teorema potrebbe essere enunciato facendo genericamente riferimento alle aree dei poligoni(purché regolari) costruiti sui tre lati. Nel caso del triangolo equilatero, la relazione sarebbe:

cioè πa2/2 + πb2/2 = πc2/2 (N.d.T.).

4Pythagoras’s theorem in Babylonian mathematics, in www-history.mcs.st-and.ac.uk/HistTopics/Babylonian_Pythagoras.html, citato senza fonti.

5AJSACHSAGOETZE e OENEUGEBAUERMathematical Cuneiform Texts, American Oriental Society, New Haven 1945.

6. (La figura 6 è qui ripetuta, per comodità). Suddivisione di un triangolo qualsiasi in due triangoli rettangoli.

Il segmento verticale h, perpendicolare al lato b, lo taglia in due segmenti. La trigonometria ci dice che il segmento a sinistra ha lunghezza a cos C, l’altro ha lunghezza b – a cos C. Applicando il teorema di Pitagora possiamo scrivere:

a2 = h2 + (a cos C)2

c2 = h2 + (b – a cos C)2

cioè

a2 – h2 = a2 cos2 C

c2 – h2 = (b – a cos C)2 = b2 – 2ab cos C + a2 cos2C

Sottraendo la prima equazione dalla seconda, i termini non desiderati h2 e a2 cos2 C si eliminano e otteniamo: c2 – a2 = b2 – 2a · b · cos C da cui deriva a2 + b2 – 2ab cos C = c2, che è l’equazione che volevamo dimostrare.