mercoledì 20 ottobre 2021

IL GRANDE RESET Ilaria Bifarini



IL GRANDE RESET

Ilaria Bifarini

Origini e deliri della teoria del Grande Reset (di S. Ventura)

Carlo Freccero, Italian English journalist and writer, Torino, Italy, 16th May 2015. (Photo by Leonardo Cendamo/Getty Images)
Carlo Freccero, Italian English journalist and writer, Torino, Italy, 16th May 2015. (Photo by Leonardo Cendamo/Getty Images)

Il Grande Reset è in via di attuazione. Così scrive Carlo Freccero in una lettera a La Stampa, dove spiega il suo sostegno alla raccolta di firme per un referendum abrogativo delle norme relative al Green Pass. L’espressione fu coniata dal Principe Carlo nel maggio 2020 per sintetizzare le riflessioni del World Economic Forum (WEF) dello stesso anno su nuove politiche globali per un capitalismo più sostenibile, alla luce dell’esperienza in corso della pandemia del Covid-19. Immediatamente, però, “The Great Reset” si è trasformato nell’ennesima teoria cospirazionista costruita e divulgata dalla composita galassia complottista che abita le nostre democrazie. QAnon in testaCome ha scritto lo studioso Sebastian Schuller “A partire da un breve videoclip nel quale il Primo ministro Justin Trudeau spiegava le linee del programma del WEF, nell’universo degli utenti Twitter si interpretavano i limitati piani di riforma del medesimo come la prova di una macchinazione mondiale comunista che apertamente dichiarava il suo obiettivo di eliminare il sistema capitalistico basato sulla libera impresa. A sua volta, questa lettura entrava nella mitologia di QAnon e diveniva un tema cruciale della estrema destra libertaria”. L’incontro di leader politici, religiosi, dei media, di organizzazioni non governative per discutere delle pericolose contraddizioni nel funzionamento del mondo globale, rese manifeste dalla pandemia, ha – in altre parole – rappresentato un’occasione troppo ghiotta per i complottisti delle varie latitudini. Un’occasione che non si sono lasciati scappare per disegnare una nuova cospirazione delle élite mondiali per controllare l’economia e la vita sociale globali e trasformarle secondo un modello ‘collettivista’.  Naturalmente, seguendo i medesimi schemi narrativi delle tante teorie complottiste che hanno visto la luce e si sono diffuse tra Sette, Otto e Novecento. 

Perché le teorie complottiste altro non sono che narrazioni, che non hanno bisogno di prove, ma semplicemente di segni, di parole pronunciate, di schegge di fatti. Tutti reinterpretati in modo funzionale alla storia che si racconta. Si tratterebbe di pure letteratura fantastica, utopica o distopica, se non fosse che quelle parole sono maledettamente performative, costruiscono mondi ai quali in tanti credono, per poi agire conseguentemente. Proprio qualche giorno fa il filosofo Giorgio Agamben ha immaginato la concretizzazione della resistenza alla “tirannide senza scrupoli” che ci governa e usa strumentalmente la pandemia, attraverso la creazione di una nuova forma di clandestinità “una società nella società, una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza”. Insomma, sia nel pensiero di Freccero sia in quello di Agamben il Green pass è quel segno che ci rivela ciò che chi detiene il potere ci nasconde: la bramosia di controllo tendenzialmente totale. “Dietro il Green Pass c’è molto di più” ha appunto scritto Freccero. Perché le teorie complottiste altro non sono che narrazioni, che non hanno bisogno di prove, ma semplicemente di segni, di parole pronunciate, di schegge di fatti. Tutti reinterpretati in modo funzionale alla storia che si racconta. Si tratterebbe di pure letteratura fantastica, utopica o distopica, se non fosse che quelle parole sono maledettamente performative, costruiscono mondi ai quali in tanti credono, per poi agire conseguentemente. Proprio qualche giorno fa il filosofo Giorgio Agamben ha immaginato la concretizzazione della resistenza alla “tirannide senza scrupoli” che ci governa e usa strumentalmente la pandemia, attraverso la creazione di una nuova forma di clandestinità “una società nella società, una comunità degli amici e dei vicini dentro la società dell’inimicizia e della distanza”. Insomma, sia nel pensiero di Freccero sia in quello di Agamben il Green pass è quel segno che ci rivela ciò che chi detiene il potere ci nasconde: la bramosia di controllo tendenzialmente totale. “Dietro il Green Pass c’è molto di più” ha appunto scritto Freccero. Ha ragione il direttore Massimo Giannini nella breve replica alla sua lettera, laddove afferma che non trova “alcun fondamento concreto nella realtà dei fatti” alla teoria del Grande Reset. È ovvio che non lo trovi: quel fondamento non esiste. Non vi è la benché minima prova che questo complotto sia in atto. Esistono solo reinterpretazioni, veri e propri slittamenti di significato, di una riflessione comune avviata a livello internazionale e che è stata sviluppata, ad esempio, nel volume di Klaus Schwab e Thierry Malleret: “Covid-19: The Great Reset”. Citato da Freccero nientemeno che come ‘prova’  del Gran Reset in atto. Un segno. Un segno che viene ‘montato’ insieme ad altri segni (il Green pass, ad esempio) per costruire la fiaba nera del complotto. Un grande disegno di conquista e dominio che – come ha ad esempio ben spiegato Alessandro Campi nei suoi scritti sul tema, ben distinguendo tra la natura metafisica dei complotti e la concretezza delle semplici congiure di cui è piena la storia – ancor prima che privo di ogni fondamento empirico, manca di ogni fondamento logico. Questo come altri complotti, infatti, presupporrebbe una vastità e complessità di accordi, dei livelli di segretezza, un’onnipotenza degli artefici della trama, una capacità di controllo sul mondo tali che può esistere solo nell’universo delle fiction.Però in tanti ci credono, perché come tanti psicologi hanno spiegato, il funzionamento della nostra mente ci induce ad aderire a spiegazioni soddisfacenti del mondo, soddisfacenti perché forniscono un senso (e l’uomo è alla continua e disperata ricerca di senso) e coinvolgono le nostre emozioni, specie quando esse scaturiscono dalle nostre frustrazioni.  Gli intellettuali possono inserirsi in modi diversi in questi processi. Possono tentare di introdurre elementi di razionalità nel discorso pubblico, ad esempio rimarcando la complessità dei fenomeni, il loro essere spesso esito di incroci casuali e anche inintenzionali. Senza necessariamente sminuire la dimensione emotiva e valoriale della partecipazione alla discussione collettiva, possono fornire e giustificare scale di valori compatibili con il funzionamento di una società liberale. Possono spiegare la complessità del vivere in comunità e l’inevitabile dialettica tra valori, che ci costringe sempre a interrogarci su come contemperarli, libertà e sicurezza in primis. E così via. Oppure possono cavalcare la paura, la rabbia, l’ostilità, la manichea divisione del mondo tra élite malvagie e popolo buono e bistrattato, tra poteri occulti e l’innocente uomo comune. In altri termini, possono cavalcare la deriva irrazionalista che sempre incombe sul sentire condiviso delle società, esattamente come fanno i tanti leader populisti di questa nostra epoca, miscelando appunto logiche populiste e logiche complottiste, le seconde consequenziali alle prime, nella misura in cui la macchinazione oscura è strumento delle élite per soggiogare il popolo. Quel popolo che non a caso Freccero richiama nella sua lettera, entità indefinibile, ma utile a chi vuole farsene portavoce, leader politico o intellettuale che sia. Gli intellettuali possono scegliere, dunque. E le loro scelte non sono prive di conseguenze per la collettività. Ognuno si assume le proprie responsabilità

IL GRANDE RESET 

Introduzione

CAPITOLO 1

LA TEORIA DELLO SHOCK PANDEMICO

Un disastro preannunciato

Il virus dell’austerity

Naomi Klein e lo Screen New Deal

Preparativi per Davos 2021

Il Grande Reset

Il “nuovo” capitalismo

CAPITOLO 2

DISTANZIAMENTO SOCIALE E SORVEGLIANZA

L’esperimento del lockdown

Il legame tra economia e salute

Effetti psicologici dell’isolamento

Il fenomeno dei suicidi

Il trade off tra sicurezza e libertà

Strumenti di sorveglianza di massa

Lo scenario lock step della Rockefeller Foundation

CAPITOLO 3

LA QUARTA RIVOLUZIONE (POST) INDUSTRIALE

La nuova onda d’urto digitale

E la terza rivoluzione industriale?

Poco smart molto home

Gig economy, l’economia dei lavoretti

Desertificazione commerciale e disuguaglianza

L’economia che non si ferma

Il consumismo ai tempi del Covid

Una visione ordoliberista

CAPITOLO 4

THE GREAT RESET

L’irruzione nel mainstream

Il Fondo Monetario vuole il lockdown

Distruzione e resilienza

Quali saranno i mercati del futuro?

La comunicazione e i testimonial

Dal capitalismo della sorveglianza al controllo di Stato

Visioni a confronto

CAPITOLO 5

UNA PANDEMIA DI DISOCCUPATI

Da crisi sanitaria a lavorativa

Il declino della forza lavoro globale

L’epoca post-lavoro

Il senso di inutilità
L’esperimento
Quale futuro?

COME RESTARE UMANI

La deriva transumanista

Biopolitica e potere

L’aspetto etico

Come sopravvivere al reset mentale

Introduzione

  Non c’è più spazio per complottisti e dietrologi, i piani prestabiliti per rimodellare radicalmente il sistema socioeconomico vengono oggi resi pubblici e divulgati dagli stessi canali istituzionali. Così per il Grande Reset, che non è una suggestione distopica partorita da menti influenzabili, ma il nome dell’incontro del prossimo Forum di Davos, che si terrà nella primavera prossima, nonché il titolo del libro pubblicato dal suo fondatore e della copertina dell’edizione di ottobre della rivista TIME. Un piano preciso, ufficiale e ben documentato, sul quale istituzioni internazionali, organizzazioni non governative, filantropi e grandi aziende private collaborano apertamente già da tempo, con l’obiettivo condiviso di “migliorare la condizione del mondo”. In questo saggio vengono scandagliate tutte le dichiarazioni di intenti, i progetti, le ricerche e le connessioni dei principali attori coinvolti, disvelando lo spirito comune da cui sono animati. Per avere una visione quanto più possibile realistica e veritiera, mi avvalgo unicamente di fonti ufficiali e comprovate, in modo da non cadere nella tentazione del sensazionalismo narrativo, sempre in agguato in chi racconta, e allo stesso tempo offrire una ricostruzione inattaccabile, a prova di fact checking.

Da sempre le crisi alimentano aspettative di palingenesi e rinascita di una nuova umanità, mondata dai peccati di un passato che si vuole cancellare. Le macchie del consumismo sfrenato e dell’iperglobalizzazione incontrollata, che hanno portato a un uso indiscriminato delle risorse del pianeta e a un livello di concentrazione di ricchezza degna dei tempi dei faraoni, pesano come macigni sulla storia moderna. Così l’avvento di un virus sconosciuto diffuso su scala globale viene accolto quasi come fosse un segnale messianico, tanto che alcuni parlano addirittura dell’inizio di una nuova era, con l’adozione di un calendario che prenda come anno zero quello della diffusione del coronavirus. Di certo la crisi attuale rappresenta un unicum nella storia moderna. Mai si era assistito al confinamento di intere popolazioni a scopo preventivo, senza distinzione tra malati e sani. Mai si era deciso di staccare l’interruttore del vorticoso apparato industriale moderno, abituato a sfornare prodotti, consumi e relazioni umane, in un’economia che dei momenti di socialità, dei viaggi e della collezione di esperienze e relazioni aveva fatto il suo cardine.

  Di fronte all’atavica paura della morte, materializzata da un virus nuovo che rappresenta l’ignoto, l’umanità si è dimostrata pronta a rinunciare a tutto, alla vita così come l’avevamo conosciuta sinora. In una sorta di meccanismo auto-avverante si sono realizzate profezie già da tempo circolanti e oggetto di diverse simulazioni sperimentali, per cui un evento catastrofico, un agente patogeno avrebbe colto tutti impreparati e costretto l’umanità intera a privazioni inconcepibili prima d’ora. Quale occasione migliore per instaurare un mondo nuovo, dove i mali del passato vengono estirpati e si instaura una rinnovata convivenza collettiva, basata sulla solidarietà reciproca?


  Senza dubbio la vasta letteratura e i movimenti di critica al modello neoliberista, cui anche io ho contribuito con i miei precedenti saggi, offrono materiale erosivo per affilare il colpo decisivo al sistema in essere.

 Ma quale modello di rinascita potrà generare dalle radici già marce di una crisi dettata dalla paura e dallo spettro immanente della morte? A seguito di uno shock, come di un evento bellico, il desiderio da parte della popolazione è istintivamente quello di tornare alla normalità, alla ricostruzione. Il Grande Reset propone invece di distruggere quanto è esistito finora, di dimenticare il passato così come lo abbiamo conosciuto, perché causa di un mondo “rotto”, non funzionante, che avrebbe ineluttabilmente portato alla rovina del genere umano. Una visione catastrofista e colpevolizzante, per la quale spetta all’uomo farsi carico di adeguarsi alla nuova normalità, senza indugio nel passato o legami con le vecchie abitudini.

  Il tema ci riporta al concetto di shock economy miltoniano, per cui le crisi, reali o percepite, sono strumenti utilizzati per implementare nel tessuto socio-economico cambiamenti fino ad allora impensabili. Ma questa volta la portata dirompente del piano progettato introduce stravolgimenti sul piano economico, sociale e addirittura antropologico. Non c’è alcuna promessa di crescita e maggior benessere economico, come era avvenuto finora, ma al contrario quella di ridurre e eliminare gran parte della attività produttive e ricreative esistenti per far posto a nuovi mercati, basati prevalentemente sulle ultime tecnologie e sull’industria farmaceutica. Grazie alle “nuove abitudini” introdotte dalle norme restrittive e di confinamento sociale, con lo smart working che diverrà una pratica consolidata, gli incontri e i momenti conviviali dal vivo sostituiti da quelli virtuali, si sta finalmente realizzando quella tanto agognata Quarta Rivoluzione Industriale, che stentava a prendere piede. Non si tratta semplicemente dell’evoluzione e della fiducia nel progresso della tecnica, che da sempre caratterizza la storia umana, ma piuttosto di una sua deriva. Da digitalizzazione e automazione capaci di affrancare l’uomo dalla fatica e permettere il superamento del problema della scarsità, siamo arrivati a concepire macchine programmate per riprodurre il pensiero umano. L’intelligenza artificiale apre scenari inediti e imprevedibili, con la sostituzione della persona non solo in ambito lavorativo ma anche nella vita privata. I suoi prodigi sono tali che è in grado di svolgere le professioni più disparate, non solo quelle manuali ma anche attività concettuali e complesse, dall’assistenza sanitaria al giornalismo. Immune allo stress e all’obsolescenza, la nuova intelligenza, frutto dell’uomo ma capace di surclassarlo, provocherà la scomparsa della maggior parte dei lavori tradizionali. Per la prima volta ci troveremo ad affrontare non più il problema dello sfruttamento lavorativo, ma quello del senso di inutilità da parte di una nuova massa di disoccupati. Nelle precedenti rivoluzioni industriali le vecchie professioni sono state rimpiazzate dalla creazione di nuovi lavori, ma nella Quarta, che di industriale ha ben poco, non sembrano profilarsi valide alternative. Il concetto di “nuova normalità” partorito dal terrore mediatico della dichiarata pandemia prevede la riduzione di rapporti sociali e dei momenti di incontro a favore di una vita più ritirata tra le mura domestiche. Oltre agli inevitabili scompensi psichici che simili abitudini arrecheranno – già ora si riscontra un aumento del consumo di psicofarmaci e delle forme patologiche di ansia e depressione – non si profila in tale scenario l’attivazione di un processo compensativo per la creazione di nuove occupazioni. La desertificazione industriale e sociale in atto brucia il terreno per la nascita di una società post lavoro liberata, che, come diceva Keynes, impari a godere dell’arte della vita.

  Per non incorrere in una visione fuorviante della rivoluzione in corso, è necessario rifuggire dalle trappole dello storytelling, che ragiona in termini dicotomici, secondo una logica binaria, proprio come quella di un computer. Da una parte una narrazione predominante, alimentata dai principali media, che si erge a verità assoluta e incontrastata, dispensa a chiunque osi contrastarla lo stigma di complottista e divulgatore di fake news, dall’altra, come naturale contrappeso, una minoranza che ricerca l’esistenza di accordi segreti e letture dietrologiche ovunque. La nuova era nella quale siamo stati catapultati è innovativa anche in questo aspetto: i progetti che un tempo venivano orditi segretamente oggi vengono divulgati apertamente dai principali fautori, che non hanno più bisogno di nascondere il proprio operato. Al contrario, coesi e spronati dalla crisi sanitaria globale, si autoproclamano redentori dell’umanità e guide per traghettarla verso un futuro già architettato e in attesa di un evento propulsore che ne accelerasse la realizzazione. Il fine, nei loro piani, è quello del raggiungimento di un bene superiore, dove al caos del passato seguirà l’ordine del futuro, con la realizzazione di una società più eguale, dove le differenze tra la popolazione sono appianate, ma condotta da un gruppo di “stakeholder” che si ergono a rappresentanti degli interessi della comunità mondiale. Elaborato da filantropi esperti in informatica e finanza, con il placet di multinazionali dal fatturato miliardario, nonché di istituzioni internazionali che hanno collezionato fallimenti nel loro lungo operato, il piano è solido e ben strutturato in tutte le sue variabili, tranne quella che afferisce all’aspetto più prettamente umano. Sembra programmato più per automi che per esseri umani: il suo esito rovinoso è assicurato, anzi persino previsto da una delle simulazioni, o meglio profezie auto-avveranti, già condotte[1].

  Conoscere la reale natura del Grande Reset in corso, che verrà perfezionato in primavera a Davos, permette di costruire la difesa e la resistenza necessarie per evitare un disastro già annunciato, dalle ripercussioni irreparabili sul piano sociale, economico e antropologico.

CAPITOLO 1


  LA TEORIA DELLO SHOCK PANDEMICO


  


  Un disastro preannunciato


  


  Il coronavirus sembra aver colto tutti di sorpresa, eppure lo sapevamo già, era un disastro annunciato. Ricerche pubblicate nei mesi precedenti la sua diffusione annunciavano chiaramente quello che sarebbe successo: il propagarsi di un’epidemia su scala globale e l’inadeguatezza della risposta dei vari sistemi sanitari nazionali.


  Nel settembre 2019 il Consiglio di monitoraggio della preparazione globale, braccio congiunto dell'OMS e della Banca mondiale, che annovera al suo interno personaggi autorevoli del mondo delle istituzioni e della sanità, tra cui Anthoni Fauci, pubblicava A world at risk [2] , uno studio in cui si ipotizzava il verificarsi di una pandemia causata da un agente patogeno altamente letale. L’ipotesi di questo scenario si basa sull’evidenza dei crescenti focolai di malattie infettive su scala globale; tra il 2011 e il 2018 l’OMS ha monitorato 1483 eventi epidemici in 172 Paesi. Secondo gli autori, la diffusione di malattie a tendenza epidemica, come influenza, sindrome respiratoria acuta grave (SARS), sindrome respiratoria mediorientale (MERS), Ebola, Zika, peste, febbre gialla e altre, lasciava facilmente presagire il realizzarsi di scenari pandemici. Il virus ipotizzato dagli esperti nel documento è però più pericoloso e letale di quello del Covid-19. Lo studio dimostrava come la sicurezza sanitaria nazionale risultasse fondamentalmente debole in tutto il mondo: nessun Paese sarebbe stato pienamente preparato ad affrontare epidemie o pandemie, poiché ognuno riscontrava importanti lacune in termini di prevenzione e contenimento della minaccia virale.


  Nel mese successivo, per sottolineare la necessità di una cooperazione globale pubblica e privata per contrastare gli impatti economici e sociali di gravi pandemie, la Johns Hopkins Center for Health Security, il World Economic Forum (o Forum di Davos) e la Bill & Melinda Gates Foundation hanno ospitato a New York un’esercitazione virtuale chiamata Event 201[3] in cui è stata simulata una pandemia globale di coronavirus, cui hanno partecipato 15 leader di multinazionali, dei governi e della sanità.


  Viene simulato lo scoppio di un nuovo coronavirus zoonotico trasmesso da pipistrelli a maiali a persone fino a diventare facilmente trasmissibile da persona a persona. L'agente patogeno e la malattia sono in gran parte modellati sulla SARS, ma è più trasmissibile in ambito comunitario da persone con sintomi lievi.


  La malattia si diffonde inizialmente negli allevamenti di suini in Brasile, per poi espandersi rapidamente negli ambienti sanitari. Quando arriva a propagarsi da persona a persona nei quartieri a basso reddito e densamente affollati di alcune città del Sud America, l’epidemia esplode. Attraverso i collegamenti aerei viene esportata in Portogallo, negli Stati Uniti e in Cina fino a raggiungere l’intero pianeta. I tentativi dei Paesi di contenere il contagio si rivelano fallimentari e la trasmissione del virus è fuori controllo.


  Nessun vaccino risulta disponibile nel primo anno e poiché l’intera popolazione umana è soggetta al virus, il numero cumulativo di casi aumenta esponenzialmente, raddoppiando ogni settimana, con conseguenze economiche e sociali devastanti.


  Dopo 18 mesi, con 65 milioni di morti, la pandemia inizia a rallentare, a causa della diminuzione del numero di persone suscettibili, ma continuerà a persistere fino a quando non sarà stato trovato un vaccino efficace o fino a quando l’80-90% della popolazione mondiale non sarà stata esposta al virus.


  Quando lo scenario immaginario è divenuto reale, l’istituto ha pubblicato una nota ufficiale. «Per essere chiari, il Centro per la sicurezza sanitaria e i partner non hanno fatto alcuna previsione durante la nostra simulazione. Per lo scenario, abbiamo configurato una pandemia fittizia di coronavirus, ma abbiamo dichiarato esplicitamente che non era una previsione. Al contrario, l’esercizio è servito a evidenziare le sfide di preparazione e risposta che potrebbero realisticamente sorgere durante una pandemia molto grave. Non prevediamo che l’epidemia di nCoV-2019 ucciderà 65 milioni di persone. Sebbene la nostra simulazione includesse un falso nuovo coronavirus, gli input che abbiamo utilizzato per rappresentare il potenziale impatto di quel virus fittizio non sono simili a nCoV-2019».[4]


  


  Il virus dell’austerity


  Con un tasso di letalità tra i più alti al mondo, inferiore solo a Messico e Iran, oltre il doppio rispetto a Russia e Germania[5], la crisi del coronavirus ha sgretolato il mito del nostro servizio sanitario pubblico, da sempre considerato un fiore all’occhiello e tra i migliori al mondo.


  Secondo la ricerca dell’agenzia Bloomberg[6], che ha valutato la salute della popolazione in 169 Paesi membri dell’Organizzazione mondiale della sanità sulla base di diversi fattori – come la speranza di vita, l’accesso alle cure, gli aspetti comportamentali della popolazione e quelli ambientali – nel 2019 l’Italia si attesterebbe al secondo posto della classifica, superata dalla Spagna e perdendo il primato assoluto che deteneva nel 2017. Questa posizione fa il paio con quella sull’aspettativa di vita alla nascita nel nostro Paese: 83,1 anni, al secondo posto nell’Unione europea, anche qui dopo la Spagna.


  Se compariamo i dati a quelli della ricerca condotta da OECD e UE[7], ci accorgiamo di come gli italiani abbiano abitudini di vita più virtuose, con un tasso di obesità che, seppur aumentato negli ultimi anni, si attesta all’11% rispetto a una media UE del 15%, e una tendenza al consumo regolare di alcool di gran lunga inferiore rispetto agli altri europei. Dunque, abbiamo abitudini di vita più sane, un clima favorevole e siamo meno soggetti a fattori di rischio: gran parte del risultato, per una volta possiamo dirlo, è merito nostro!


  Come spiega la ricerca, l’Italia presenta tra i tassi più bassi di mortalità prevenibile e trattabile d’Europa proprio grazie a una diffusione più limitata dei fattori di rischio e a una minore incidenza di questi problemi di salute.


  Ma cosa è accaduto in questi ultimi anni al nostro servizio sanitario pubblico?


  Nel periodo che va dal 2010 al 2019 il finanziamento statale è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro: tagli alle strutture ospedaliere, ai posti letto, al numero di personale medico. Per non parlare della ricerca, dove il nostro investimento è davvero irrisorio.


  Sotto il governo guidato da Mario Monti, tra il 2012 2013 sono stati promessi alla sanità 8 miliardi di euro mai arrivati, mentre con il successivo targato Enrico Letta ne sono mancati 8,4. Nel triennio 2015-2017 con il governo di Matteo Renzi non sono mai stati erogati al servizio sanitario nazionale 16,6 miliardi di euro, benché previsti. Stesso iter seguito da Paolo Gentiloni nel 2018 con un ammanco di 3,3 miliardi di euro e, infine, da Giuseppe Conte per 0,6 miliardi di euro[8].


  In termini assoluti il finanziamento pubblico in dieci anni è aumentato di appena 8,8 miliardi, non riuscendo neanche ad adeguarsi alla crescita, già bassa, del tasso d’inflazione.


  Tra il 2009 e il 2018 l’incremento percentuale della spesa sanitaria pubblica si è attestato al 10%, rispetto a una media OCSE del 37%, dato che avvicina l’Italia ai Paesi dell’Europa orientale, mentre aumenta il divario con Stati come la Francia e la Germania, la cui spesa sanitaria pro-capite è addirittura il doppio della nostra.


  L’emergenza coronavirus ha scoperchiato il vaso di Pandora: mancano medici, infermieri, posti letto, reparti... Sono le vittime dei tagli imposti dall’economia dell’austerity e del liberismo dissennato, che sacrificano la salute pubblica ai calcoli contabili.


  Ma l’Italia non è certo la sola ad aver subito processi di austerity a discapito dei servizi pubblici, che fanno parte del programma neoliberista applicato su scala universale. Dal 2011 al 2018 la Commissione ha chiesto per ben sessantatré volte agli Stati membri di tagliare le proprie spese sulla sanità o di privatizzare[9].


  Il sistema sanitario inglese, nato nel dopoguerra per garantire accesso alle cure universali e da sempre orgoglio britannico, è ormai stato smantellato dai tagli di risorse e di organico degli ultimi anni. Nel suo settantesimo anniversario, nel 2018, decine di migliaia di persone hanno marciato a Londra per chiedere la fine dei tagli del governo e l’incessante opera di privatizzazione del servizio sanitario, e si sono fermate fuori da Downing Street per chiedere le dimissioni dell’allora premier Theresa May.


  Lo sgretolamento della sanità inglese è una questione scottante per l’amministrazione britannica, di fronte alla quale lo stesso Boris Johnson sembra essere stato colto impreparato, costretto a fare retromarcia rispetto alle sue posizioni iniziali su come affrontare la diffusione del virus.


  In Francia la situazione non è certo migliore: la crisi degli ospedali pubblici era già prima del Covid una gatta da pelare per il presidente Emmanuel Macron. Dal 2009, secondo la Fédération Hospitalière de France, sono stati imposti al settore tagli per circa 9 miliardi di euro. Alcune settimane prima dell’annuncio della pandemia da parte dell’OMS e dell’adozione di misure di confinamento su scala globale, in Francia si erano svolte manifestazioni di protesta di medici e infermieri contro i tagli alla sanità pubblica, con 600 primari che si sono dimessi dalle loro funzioni[10]. Agnès Hartemann, primario di diabetologia dimissionario all’ospedale La Pitié Salpêtrière di Parigi, durante la protesta ha affermato: «Vogliamo incontrare il presidente, possiamo già fare una previsione: il nome di Emmanuel Macron sarà associato alla fine del servizio degli ospedali pubblici o alla loro salvezza».


  All’alba della dichiarata pandemia, nella maggior parte dei Paesi occidentali, i sistemi sanitari si trovavano a gestire un’accresciuta domanda di servizi da parte della popolazione in una cornice di restrizioni e tagli. In Europa, all’1 gennaio 2016, la popolazione sopra i 65 anni si attestava al 19,2 %, con un incremento del 2,4% rispetto al decennio precedente; l’Italia rappresenta il paese dell’Unione Europea con la più alta percentuale di over 65 (22,0%), seguita da Grecia e Germania. Quest’ultima è il Paese che si è trovato nelle condizioni migliori per affrontare la crisi, con una struttura ospedaliera più efficiente e una dotazione di terapie intensive adeguata, mentre in Italia la scarsa dotazione aveva mostrato di non reggere neanche all’impatto dell’influenza stagionale nel 2018.


  Tagliare sulla spesa sanitaria significa mettere a repentaglio la salute dei cittadini e la capacità della rete ospedaliera di affrontare serenamente uno stato d’emergenza. Così la psicosi collettiva si è impossessata di gran parte della popolazione mondiale ed è diventata la miccia di una bomba economica e sociale che rischia di diventare ben più letale del virus.


  


  Naomi Klein e lo Screen New Deal


  «Soltanto una crisi – reale o percepita – produce vero cambiamento... il politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile»[11]: è la celebre affermazione di Milton Friedman, padre del neoliberismo, che racchiude la logica della shock economy.


  Ci sono cambiamenti così radicali e destabilizzanti che, per essere imposti alla società senza che questa opponga resistenza, devono essere introdotti con immediatezza e tempestività: una situazione di forte crisi e disagio da parte della popolazione rappresenta la soluzione ideale perché vengano accettati.


  Dal colpo di stato di Pinochet in Cile nel ’73, dove le redini economiche del Paese vennero prese dai Chicago boys e dal loro maestro, Milton Friedman in persona, fino alla ricostruzione post tsunami in Thailandia, affidata ai grandi investitori internazionali, alle privatizzazioni selvagge nelle Tigri asiatiche durante la crisi finanziaria del 1997-1998, passando per le riforme improvvise e drastiche imposte alla Russia post sovietica, sono infiniti gli esempi di questa metodologia di potere, come ci racconta la scrittrice canadese Naomi Klein nel suo Shock Economy[12]. Se questi casi emblematici sono circoscritti su scala territoriale, oggi, con la dichiarazione della pandemia, stiamo assistendo all’inedita applicazione del metodo friedmaniano su scala planetaria.


  Jacques Attali, l’economista-statista-filantropo che ha lanciato Emmanuel Macron, già nel maggio 2009, quando a spaventare era la minaccia pandemica della suina, poi rivelatasi un falso e procurato allarme, dichiarava nella sua rubrica della rivista «L’Express»: «La storia ci insegna che l’umanità evolve significativamente soltanto quando ha realmente paura: allora essa inizialmente sviluppa meccanismi di difesa; a volte intollerabili (capri espiatori e totalitarismi); a volte futili (distrazione); a volte efficaci (terapeutici, che allontanano se necessario tutti i principi morali precedenti). Poi, una volta passata la crisi, trasforma questi meccanismi per renderli compatibili con la libertà individuale e iscriverli in una politica di salute democratica (...) la pandemia che sta iniziando potrebbe far scatenare una di queste paure strutturanti», facendo emergere «meglio di qualsiasi discorso umanitario o ecologico, la presa di coscienza della necessità di un altruismo, quanto meno interessato». Proseguiva affermando, con un certo disincantato cinismo che, pur essendo consapevole che la crisi della suina non sarebbe stata molto grave, non bisognava dimenticare, come per la crisi economica, di impararne la lezione, poiché una prossima crisi sarebbe stata inevitabile e suggeriva di mettere in atto meccanismi di prevenzione e di controllo. «Si dovrà per questo, organizzare: una polizia mondiale, un sistema mondiale di stoccaggio (delle risorse) e quindi una fiscalità mondiale. Si arriverebbe allora, molto più rapidamente di quanto avrebbe permesso la sola ragione economica, a mettere le basi di un vero governo mondiale (...) È del resto con la creazione dell’ospedale che è cominciata in Francia, al XVII secolo, la realizzazione di un vero e proprio Stato». Un grande visionario dei tempi che sarebbero arrivati.


  Nel dibattito sui risvolti socio-economici del coronavirus è intervenuto anche un veterano della politica internazionale, Henry Kissinger, secondo il quale «cambierà per sempre l’ordine mondiale, mi sento come nelle Ardenne nel ’44 (...) Gli Stati Uniti devono proteggere i propri cittadini dalla malattia e al contempo iniziare l’urgente lavoro di pianificazione di una nuova epoca. Traendo insegnamento dallo sviluppo del piano Marshall e del Progetto Manhattan, gli Usa sono obbligati a compiere uno sforzo maggiore. La sfida storica per i leader è gestire la crisi mentre si costruisce il futuro. Un fallimento potrebbe mandare il mondo a rotoli»[13] .


  In Italia Vittorio Colao, il leader per la task force per la cosiddetta fase due del governo Conte, ha affermato in un’intervista al Corriere che «non bisogna mai lasciarsi sfuggire una crisi, è l’occasione per rilanciare il Sistema Italia».


  Come approfondiremo più avanti, sono molte e autorevoli le menti che vedono nella pandemia un’occasione unica e imperdibile di cambiamento strutturale.


  In un suo editoriale Naomi Klein ha coniato l’espressione Screen New Deal per delineare lo scenario che si prospetta dopo la pandemia, un futuro in cui l’influsso della tecnologia nella vita delle persone sarà sempre più invasivo. L’esperienza del lockdown ha dato un’accelerazione senza precedenti a dinamiche che trasformeranno radicalmente la nostra vita sociale e lavorativa. A cambiare radicalmente – lo stiamo di fatto sperimentando – sono i nostri modelli di interazione: la prossimità con gli altri, la relazione, sta diventando sempre più un’eccezione che la regola del vivere comune. La trasformazione tecnologica agisce in ogni spazio della nostra vita pubblica e persino la nostra abitazione, per antonomasia luogo della vita privata, è stata trasformata dall’innovazione tecnologica in uno spazio di vita pubblica, ma senza contatto.


  L’aumento dello smart working, della teledidattica, delle consulenze mediche a distanza, delle consegne via robot comporterà uno scenario inedito, dalle conseguenze inimmaginabili non solo sul piano economico ma anche e soprattutto sul piano politico.


  La giornalista canadese riporta il discorso del governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, che in una conferenza ha annunciato, con toni entusiastici, che il presidente del consiglio di amministrazione di Google Eric Schmidt[14] dirigerà una commissione per ridisegnare la realtà post-Covid e del suo Stato. Si tratta di un piano ambizioso le cui priorità sono la telemedicina, l’apprendimento da remoto e la banda larga.


  A rimarcare la grande enfasi sull’integrazione permanente della tecnologia in ogni aspetto della vita dei cittadini, sullo sfondo del video, a indorare il messaggio, venivano proiettate un paio di ali d’angelo dorate.


  Proprio il giorno precedente, Cuomo aveva annunciato una partnership con la Bill and Melinda Gates Foundation per sviluppare un sistema educativo “smarter”, più intelligente, elogiando Gates e definendolo un visionario. In pieno stile friedmaniano, per il governatore americano la pandemia ha creato «un momento nella storia in cui possiamo effettivamente incorporare e promuovere le idee [di Gates] ... tutti questi edifici, tutte queste aule fisiche – perché con tutta la tecnologia che hai?».


  Secondo la Klein non è altro che il compimento di un disegno che già da tempo era stato pianificato e che ora sta prendendo forma compiuta: è lo Screen New Deal, un progetto basato su una visione del mondo molto più tecnologica di quanto abbiamo visto durante i disastri precedenti, una trasformazione epocale con effetti immediati e duraturi che coinvolgono la sfera educativa, antropologica, sociale, economica e politica e riguardano ogni individuo.


  Nel futuro le nostre case non saranno più spazi esclusivamente personali, ma saranno anche, attraverso la connettività digitale ad alta velocità, le nostre scuole, i nostri studi medici, le nostre palestre e, mette in guardia la Klein, se a stabilirlo sarà lo Stato, potranno divenire le nostre carceri. È vero che per molte persone quelle stesse case si stavano già trasformando in luoghi di lavoro ininterrotto e allo stesso tempo di intrattenimento già prima della pandemia, ma oggi tutte queste tendenze stanno subendo un’accelerazione e una diffusione inimmaginabili. Grazie al suo governatore e alle sue partnership miliardarie con i giganti della Silicon Valley, tra cui quella con Michael Bloomberg per il testing e il tracciamento, lo stato di New York sta diventando «lo scintillante showroom di questo cupo futuro».


  Già prima della minaccia del Covid-19, Schmidt aveva intrapreso una campagna di lobbying e pubbliche relazioni per richiedere aumenti cospicui della spesa pubblica da destinare alla ricerca sull’intelligenza artificiale e a infrastrutture tecnologiche come il 5G, portata avanti in qualità di presidente del Defense Innovation Board, ente che consiglia il dipartimento della Difesa americano sull’aumento dell’uso dell’intelligenza artificiale nelle forze armate, e come presidente della Commissione per la sicurezza nazionale sull’intelligenza artificiale (NSCAI), che fornisce consulenza al Congresso sui progressi nell’intelligenza artificiale, nell’apprendimento automatico e nelle tecnologie associate per la sicurezza nazionale ed economica degli Stati Uniti. Entrambi i consigli di amministrazione sono costituiti da alti dirigenti di aziende come Oracle, Amazon, Microsoft, Facebook e Google.


  A richiedere uno sforzo maggiore del governo nel settore dell’intelligenza artificiale è la situazione geopolitica attuale: la posizione dominante degli Stati Uniti nell’economia globale è sull’orlo del collasso, poiché i cinesi stanno competendo per diventare i principali innovatori del mondo e gli USA, secondo Smith, «non stanno giocando per vincere». Oggi le richieste per ingenti spese pubbliche per la ricerca e le infrastrutture ad alta tecnologia, i partenariati pubblico-privato per l’intelligenza artificiale e, pericolosissimo, l’allentamento delle norme a tutela della privacy vengono vendute alla popolazione come l’unica speranza possibile per far fronte al nuovo virus, che sarà presente anche negli anni a venire. Pochi giorni prima del lockdown dello stato di New York, Schmidt scriveva dalle colonne del «Wall Street Journal»: «Come altri americani, i tecnologi stanno cercando di fare la loro parte per supportare la risposta in prima linea alla pandemia (...). Ma ogni americano dovrebbe chiedersi dove vogliamo che sia la nazione quando la pandemia di Covid-19 sarà finita. In che modo le tecnologie emergenti utilizzate nell’attuale crisi possono spingerci verso un futuro migliore?».


  Tempi lontani anni luce dal discorso di John Kennedy.


  I progressi della tecnologia e dell’integrazione uomo-macchina non sono certo una novità introdotta dal Covid, ci trovavamo già davanti uno scenario futuro guidato da app e alimentato da piattaforme, venduto in nome della convenienza e dell’assenza di conflitti, città chiamate smart, intelligenti, che in realtà sono piene di sensori che sorvegliano i nostri spostamenti, lavori scomparsi con le nuove tecnologie e rimpiazzati con altri precari e privi di contatto umano. Ma se prima dell’introduzione di questo stato di eccezione permanente in molti nutrivano preoccupazioni e sollevavano dubbi sulla violazione della privacy, sulla telemedicina e la didattica a distanza, le auto senza conducenti alla cui programmazione è affidata la scelta di quale vita salvare, nel caso di un incidente, sulla minaccia alla democrazia per la ricchezza e il potere accumulati da poche grandi aziende tecnologiche, «quello era l’antico passato noto come febbraio». Oggi, a soli pochi mesi di distanza, siamo stati catapultati in una nuova era e molte di queste preoccupazioni sono state spazzate via da un’ondata di panico: stiamo assistendo alla materializzazione di una distopia venduta con un’opera di rebrandizazzione. In un contesto di paura perenne, in cui aleggia lo spettro della morte di massa, l’avvento di questa rivoluzione tecnologica invasiva viene presentato come unica via di salvezza.


  


  Preparativi per Davos 2021


  Nel mentre nel Vecchio Continente, il 3 giugno 2020 – per iniziativa del principe Carlo d’Inghilterra – si è svolto un summit del World Economic Forum (WEF), con la partecipazione, tra gli altri, del segretario generale delle Nazioni Unite e della direttrice del Fondo Monetario Internazionale


  Più conosciuto come forum di Davos, dal nome della cittadina svizzera della Alpi dove si svolge solitamente a gennaio, il consesso riunisce i principali esponenti internazionali del mondo della politica, degli affari, dello spettacolo e dei media, per definire le strategie future per guidare gli Stati e i mercati mondiali nella cornice della globalizzazione. Il World Economic Forum si prefigge l’alto obiettivo di «migliorare la condizione del mondo» e allo stesso tempo si dichiara imparziale e privo di vincoli di natura politica, ideologica o nazionale. Oltre alla sede svizzera, situata nella cittadina di Cologny, conta uffici regionali a New York e Pechino; dal 2012 ha assunto lo status di osservatore presso il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite. Oltre al celebre incontro di Davos, organizza ogni anno un meeting in Cina e negli Emirati Arabi Uniti e diversi incontri a livello regionale. Nella sua attività rientra anche la pubblicazione di documenti di studio e analisi sui temi della crescita economica, della finanza, della sostenibilità ambientale, dello sviluppo sociale e della salute.


  La fondazione è finanziata da numerose imprese, per lo più grandi banche d’affari, multinazionali, società leader nel proprio settore o Paese, che hanno un ruolo chiave nell’orientare lo sviluppo futuro. Con vari gradi di adesione, da partner semplice a partner strategico e associato, troviamo nomi come Blackrock, Goldman Sachs, JPMorgan, Accenture, UBS, Microsoft, Deutsche Bank, Facebook, Google, Alibaba, Bill & Melinda Gates Foundation, Astrazeneca, Bayer, Novartis, Huawey, Nestlè, Uber technology, China Railway. Difficile trovare un big che sia escluso.


  A preannunciare il tema per l’incontro di Davos del 2021 è stato il suo presidente e fondatore, Klaus Schwab, ingegnere ed economista tedesco. «È arrivato il momento di un grande reset del capitalismo» ha proclamato in video conferenza. «Tutti i Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, devono partecipare, e ogni industria, da quella del petrolio e del gas a quella tecnologica, deve essere trasformata (...) La pandemia ci ha mostrato quanto rapidamente possiamo effettuare cambiamenti radicali nel nostro stile di vita (...) e rappresenta una rara quanto stretta finestra di opportunità per riflettere, ripensare e riorganizzare il nostro mondo». Ancora una volta risuona forte l’eco della shock therapy di Friedman, sebbene, come vedremo, i guru del cambiamento prendano le distanze dal neoliberismo.


  Secondo quanto riportato nella sezione tematica dedicata al Grande Reset nel sito del WEF e in continuo aggiornamento[15], la crisi del Covid-19 e le perturbazioni politiche, economiche e sociali da essa causate stanno cambiando radicalmente il contesto tradizionale del processo decisionale. Le incongruenze, le inadeguatezze e le contraddizioni a livello sistemico – dalla salute alla finanza, dall’energia all’istruzione – sono più evidenti che mai in un clima globale di preoccupazione condivisa. I leader si troverebbero a un bivio storico, in cui da una parte devono gestire le pressioni a breve termine, dall’altra le incertezze di medio e lungo termine. Ma quella che stiamo vivendo rappresenta un’opportunità unica per plasmare la ripresa da parte di tutti quegli “stakeholder” che decidono lo stato futuro delle relazioni globali, la direzione delle economie nazionali, le priorità delle società, la natura dei modelli di business e la gestione del bene comune globale. Forte della vasta esperienza dei leader impegnati nelle comunità del


  Forum, l’iniziativa Great Reset secondo i suoi fautori dispone della conoscenza e degli strumenti necessari per costruire «un nuovo contratto sociale che onori la dignità di ogni essere umano».


  Sulla stessa linea l’intervento della direttrice del FMI[16], Kristalina Georgieva: «È di fondamentale importanza che questa crescita porti in futuro a un mondo più verde, più intelligente e più giusto. È possibile farlo. A condizione che ci concentriamo sugli elementi chiave di un recupero e agiamo ora. Non abbiamo bisogno di aspettare. Al FMI, vediamo alcune enormi opportunità». Per agganciare questo modello di crescita virtuoso i governi dovranno mettere in atto investimenti pubblici e incentivi privati che supportino una crescita a basse emissioni di carbonio e attenta al clima. Secondo la Georgieva molti di questi investimenti possono avviare una ripresa creatrice di nuovi posti di lavoro, in cui possono investire sia il settore pubblico che quello privato.


  Il processo di crescita che si vuole avviare sarà inoltre più smart, ossia più intelligente. «Sappiamo che l'economia digitale è il grande vincitore di questa crisi» afferma a nome del FMI, impegnandosi a sostenere investimenti che riducano il divario digitale, in collaborazione con la Banca mondiale e altre istituzioni.


  È necessario riflettere attentamente su come assicurare che il balzo della crescita e della redditività nel settore digitale porti a vantaggi condivisi nella società: la crescita dovrà essere infatti più equa, poiché si è consapevoli che, se lasciata a se stessa, questa pandemia aggraverà la disuguaglianza, come accaduto in passato.


  Secondo la Georgieva è il momento di fare un passo avanti, usare tutta la forza che abbiamo – che nel caso del FMI ammonta a un trilione di dollari – per voltare pagina, per garantire che a passare alla storia sia un Grande Reset e non una Grande Inversione (Reversal). La convinzione (presunzione?) è quella di creare un mondo migliore per tutti.


  Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, durante l’incontro ha ribadito che occorre costruire economie e «società più uguali, inclusive e sostenibili, che siano più resilienti davanti alle pandemie, al cambiamento climatico e a molte altre sfide».


  Il messaggio ambientalista è stato rafforzato dal principe Carlo, da sempre attivo su questo fronte: «Se c’è una lezione cruciale da imparare da questa crisi, è che dobbiamo mettere la natura al centro di quello che facciamo».


  Insomma, proclami pieni di entusiasmo e nobilissimi propositi da parte dei decision maker del pianeta.


  


  Il Grande Reset


  The Great Reset, il Grande Reset, sarà dunque lo slogan della nuova normalità, che sta prendendo forma in modo sempre più compiuto. In informatica il reset consiste nell’azzerare le operazioni svolte da un elaboratore per farlo ricominciare a funzionare correttamente. Resettare significa portare un dispositivo nelle stesse condizioni in cui si trovava prima di essere utilizzato, rimuovendo perciò tutti i file creati, i programmi installati e le personalizzazioni eseguite. Viene chiamato anche recovery, restore, ripristino delle impostazioni di fabbrica: serve, insomma, a riportare allo stato funzionale un dispositivo che presenta dei problemi. Secondo i piani dei protagonisti del Forum, non si tratterebbe quindi di un riavvio del sistema socio-economico globale, di una ripresa dal punto in cui siamo stati bloccati dall’avvento della pandemia, ma di resettare il sistema partendo da zero.


  A chiarire in cosa consisterà e dove ci porterà questo processo è lo stesso Klaus Schwab, che, insieme a Thierry Malleret[17], il mese successivo alla videoconferenza che preannunciava la svolta epocale di Davos, dava alla stampa il libro Covid-19: The Great Reset, per ora solo in inglese.


  Gli autori mettono subito in chiaro dalla prefazione che la crisi provocata dal coronavirus non ha paragoni, per la portata dei cambiamenti che ingenererà, nella storia moderna. Milioni di società rischiano di sparire e molte industrie hanno un futuro incerto. A emergere sarà una realtà totalmente nuova, dove nulla tornerà come prima.


  Il mondo che abbiamo conosciuto fino ai primi mesi del 2020 non esiste più, si è dissolto con la pandemia. Le conseguenze saranno talmente radicali che alcuni esperti fanno riferimento a un inedito sistema di datazione, dove lo spartiacque della nuova era è rappresentato dall’avvento della pandemia: BC (before coronavirus) e AC (after coronavirus), con una singolare corrispondenza letterale alla classificazione cristiana, come a segnare il definitivo passaggio da una visione religiosa a una biologica della storia dell’umanità. Di certo quella inaugurata dal Covid è una nuova epoca, che ci sorprenderà per la velocità e la radicalità dei cambiamenti. Ad affermarsi sarà una realtà inimmaginabile per gran parte della popolazione mondiale, ma di fatto consisterà in un reset dell’attuale capitalismo, che era stato già ideato e pianificato: la crisi sanitaria ha offerto quel necessario input senza il quale non sarebbe stato possibile realizzarlo in modo sostanziale e in tempi rapidi. Ancora una volta viene confermata la teoria dello shock pandemico di cui ci parla Naomi Klein.


  Sarà un cambiamento straordinario, in grado di ridisegnare il mondo e la vita umana, i cui unici confini sono segnati dalla nostra capacità limitata di immaginazione. Il risultato sarà un “nuovo ordine”, verso il quale Schwab nutre fiducia ed entusiasmo sconfinati. «L’era post-pandemia inaugurerà un periodo di massiccia ridistribuzione della ricchezza, dai ricchi ai poveri e dal capitale al lavoro», così equo e sostenibile che nessuno potrebbe voler tornare al vecchio modello economico.


  La pandemia avrebbe il merito di restituire ai governi l’importanza che avevano perso a causa dello strapotere dei mercati: le crisi acute infatti contribuiscono a rafforzare il potere dello Stato, è sempre stato così e non c’è motivo per cui dovrebbe essere diverso con la pandemia da Covid-19. La gravità della situazione, inoltre, esclude che uno shock esogeno di tale portata possa essere affrontato senza un intervento di potere centrale.


  Il modello che ha in mente il visionario svizzero si rifà a quello della Cina, che ha scalzato gli USA nel ruolo di assistenza e aiuto internazionale e, permeata dallo spirito del confucianesimo, anteporrebbe il senso del dovere e della solidarietà generazionale ai diritti individuali. Questa


  visione della vita sarebbe inoltre meritoria nell’assegnare un sommo valore al rispetto di regole che vanno a beneficio della comunità nel suo insieme, tra le quali rientrerebbe la rete di sorveglianza globale, necessaria per il contenimento della pandemia. Occorre dunque apprendere dai Paesi che sono stati più efficaci nell’affrontare la pandemia, in particolare le nazioni asiatiche, una grande lezione: la tecnologia in generale e il digitale in particolare sono un pilastro basilare. Pur essendo a conoscenza di tutti i pericoli della sorveglianza di massa, gli autori affermano ad ogni modo che «il genio della sorveglianza tecnologica non verrà rimesso nella bottiglia»: occorre guardare a una prospettiva di benessere collettivo cui sacrificare alcuni aspetti delle nostre vite come le abbiamo vissute finora, in vista di un disegno superiore.


  I due visionari non minimizzano neanche i devastanti effetti psicologici indotti nella popolazione dall’isolamento e dal clima costante di paura legato al lockdown, ma sono convinti che da questa esperienza nascerà un’accresciuta consapevolezza pubblica della gravità dei problemi che un capitalismo malato ha generato. Insomma, una visione ottimistica, ai limiti del profetico, che vede nel Grande Reset una palingenesi dell’umanità, sebbene per molti tratti possa sembrare una distopia.


  


  Il “nuovo” capitalismo


  Alcuni lettori, contagiati da tanto ottimismo[18], potrebbero presagire in questo reset del sistema un superamento definitivo del paradigma capitalistico, a favore di un modello economico che garantisca equità e sostenibilità, attraverso l’implementazione di strumenti sconosciuti prima d’ora. Ma qui la portata ideologica rivoluzionaria dell’ingegnere-economista svizzero vacilla, il suo Manifesto di Davos non propone alcuna alternativa al capitalismo, ma solo l’applicazione della variante, già esistente da tempo, dello stakeholder capitalism. Schwab è un sostenitore di questo modello da sempre («lo proposi per primo mezzo secolo fa») e invita a cogliere questo momento per assicurare che tale paradigma “rimanga” quello dominante, in Europa storicamente prevalente rispetto agli Stati Uniti.


  Si tratta di un modello di capitalismo in cui le imprese private rappresentano dei fiduciari (trustee) della società e sarebbero in grado di offrire la migliore risposta alle sfide sociali e ambientali attuali.


  Contrapposto allo shareholders capitalism, che mira ad accrescere il valore dell’investimento dell’azionista, questa forma di capitalismo privilegia gli interessi diretti degli stakeholder, ossia qualsiasi gruppo o individuo che possa esercitare un influsso o venga influenzato dal raggiungimento dello scopo dell’organizzazione[19]. All’interno di questa categoria possiamo ritrovare due sottogruppi: uno interno, di cui fanno parte azionisti, management e dipendenti, e uno esterno, il cui insieme è molto vasto, includendo fornitori, clienti, finanziatori, creditori, autorità pubbliche di governo e di regolazione, comunità locali, residenti di aree limitrofe, etc. La globalizzazione e lo sviluppo delle reti tecnologiche hanno reso sconfinata la portata di questa categoria, che non risponde a limiti geografici, ma include soggetti interconnessi tra loro per le ricadute su vasta scala degli interessi.


  Il dibattito sul ruolo e la responsabilità delle imprese nella società non è nuovo ed è stato oggetto di una vasta letteratura nel corso della storia. A rendere popolare lo shareholder capitalism, è stato negli anni ’70 il neoliberista premio Nobel Milton Friedman, secondo il quale l’unica responsabilità sociale di un’azienda consisterebbe nell’utilizzare le sue risorse e impegnarsi in attività per aumentare i suoi profitti, col solo limite di rimanere entro le regole del gioco, cioè di impegnarsi in una concorrenza libera, senza inganni o frodi.


  Invece, nel capitalismo degli stakeholder, tra i cui fautori annoveriamo un altro premio Nobel, l’economista Joseph Stiglitz, il principio di fondo è quello di creare valore tramite un processo di riallocazione verso i portatori di interessi di parte dei benefici economici dell’azienda: questo consentirebbe allo stesso tempo di mantenere alto il livello di competitività, ottimizzare la catena del valore esterno all’azienda, garantire le esigenze dei lavoratori e adeguare l’impresa alle politiche pubbliche. Ad agosto 2019 una dichiarazione a sostegno del capitalismo degli stakeholder è stata firmata da praticamente tutti i membri della Business Roundtable degli Stati Uniti, ossia il comitato degli amministratori delegati delle società più potenti d’America.


  Il ruolo che Schwab attribuisce alle grandi aziende è il pilastro del modello economico caldeggiato: «Le grandi compagnie – afferma – dovrebbero comprendere che loro stesse sono il principale stakeholder[20] del nostro comune futuro». Il Manifesto di Davos è stato aggiornato in tale direzione e i “business leaders” vengono incoronati come demiurghi del nuovo mondo.


  Durante il forum svizzero del gennaio 2020, Kevin Sneader, uno dei massimi rappresentanti di McKinsey & Company, multinazionale di consulenza strategica con fatturato miliardario, ha citato come riferimento per il “nuovo” modello di capitalismo l’economista settecentesco Adam Smith, ritenendo che «abbiamo perso un po’ la nostra strada nel dimenticarlo».


  Che l’economia classica, di cui Adam Smith è il fondatore, sia preferibile alle successive scuole, neoclassica prima e neoliberista poi, di cui Milton Friedman è il massimo esponente, siamo in molti a concordare. Tuttavia, fare riferimento a un economista del Settecento per il modello economico di un mondo completamente rinnovato, suona alquanto anacronistico.


  Probabilmente il percorso tracciato sarà quello indicato da Stiglitz, secondo il quale dopo il fallimento conclamato del neoliberismo «un programma progressista di riforme capitalistiche è la nostra migliore possibilità».


  Nel corso della storia dell’economia all’annosa questione di come superare il capitalismo non si è mai data una risposta soddisfacente, capace di offrire un’alternativa valida.[21]


  Vedremo nei prossimi capitoli come potrebbe realizzarsi il nuovo modello economico e quali sono gli scenari futuri per l’umanità.

CAPITOLO 2


  DISTANZIAMENTO SOCIALE E SORVEGLIANZA


  


  


  L’esperimento del lockdown


  


  Ci eravamo da poco abituati a “spread”, il famigerato differenziale tra tassi di interesse dei BTP decennali tedeschi e italiani, che per mesi ci ha terrorizzato con il suo andamento, che ecco un nuovo vocabolo inglese irrompere nelle nostre vite: lockdown. Stavolta non c’è stato dato il tempo di comprenderlo e metabolizzarlo, è entrato a gamba tesa nelle nostre case e lì ci ha lasciato chiusi, per oltre due mesi, riprendendo poi in modo più subdolo e celato.


  Ma cosa vuol dire lockdown? È un termine costituito dall’unione di due parole: lock, che significa ‘chiusura’, e down, ‘giù’. Nel caso in cui venga usato come verbo, to lockdown, il modo più appropriato per tradurlo nella nostra lingua è ‘blindare’, ‘bloccare’. Quarantena, è stata anche chiamata, ma oggi il termine è improprio perché la durata del confinamento ha superato di gran lunga i quaranta giorni, in particolare in Italia. Una misura di contenimento che ci riporta molto indietro nel tempo, a una forma ancestrale di gestione del rischio sanitario la cui efficacia nel nostro mondo del Ventunesimo secolo è quantomeno dubbia.


  Altro termine che ha fatto irruzione nel vocabolario civile in tempi non di guerra è coprifuoco[22], la stessa proibizione di andare in giro durante un conflitto bellico, oggi adottata durante l’orario notturno, senza un criterio razionale.


  E in effetti, le immagini delle nostre città durante i periodi di lockdown e nella fascia oraria del coprifuoco evocano lo stato bellico: strade deserte, ristoranti chiusi, città popolate da milioni di abitanti divenute luoghi fantasma. Un’atmosfera surreale, in cui l’uomo è stato sopraffatto.


  Superando i confini dell’immaginazione, è accaduto che nel XXI secolo un virus di tipo parainfluenzale, molto contagioso e piuttosto letale rispetto alla sua famiglia, ma che non ha nulla a che vedere con le grandi pestilenze del passato, sia stato combattuto con l’isolamento forzato, un metodo che risale all’antichità e alla superstizione, che non si riscontrava nei Paesi dell’Europa occidentale da secoli. A chi osava dissentire dalle imposizioni prescritte per il bene comune è stato riservato un trattamento punitivo severo ed esemplare, finalizzato a dissuadere la popolazione dalla ribellione all’autorevolezza dello scientismo scambiato per scienza. L’atteggiamento totalizzante di obbedienza ha ingenerato la nascita spontanea di delatori tra la popolazione e la piena adesione al nuovo culto sanitario, oggettivato attraverso il feticcio della mascherina, utilizzata da alcuni persino in luoghi all’aperto e isolati.


  L’idea di confinare i pazienti affetti da una malattia contagiosa risale all’Antico Testamento, quando si evoca la lebbra, una condizione che sfigura i pazienti, spaventosa e ritenuta fortemente contagiosa. L’isolamento dei malati era il modo migliore per proteggersi dopo la preghiera, mentre oggi anche il mondo religioso ha abbracciato questa pratica, rinnegando, per la prima volta nella storia, il potere curativo della fede e della preghiera.


  Fu soprattutto nel XIV secolo che vennero prese le prime misure per contenere le navi provenienti da aree infette dalla peste nera. Gli storici individuano il primo episodio di isolamento forzato nel porto di Ragusa in Croazia nel 1377. Le navi provenienti da zone con alti tassi di peste dovevano rimanere al largo per trenta giorni prima dell’attracco, chiunque fosse a bordo in buona salute alla fine del periodo di attesa si presumeva improbabile che diffondesse l’infezione ed era autorizzato a scendere a terra.


  Ma è a Venezia, dal 1423, che vediamo apparire l’organizzazione sistematica delle misure di contenimento di trenta e poi quaranta giorni e la parola “quarantena” da “quaranta”. La Serenissima subì sessantatré epidemie di peste dall’anno 600 al 1500 e la città, particolarmente coinvolta per l’importanza del suo commercio con l’Est, fece costruire il Lazzaretto Nuovo, destinato a ricevere le navi e i loro equipaggi dai porti sospettati di essere contagiati dalla peste.


  Nello stesso periodo il concetto di quarantena fu esteso a quello di un cordone sanitario, consistente nel bloccare l’accesso a una città o a un’area per proteggerla dall’ingresso di pazienti infetti. Così, nel villaggio francese di Luberon fu installato all’inizio del XVIII secolo un “muro della peste”, lungo 27 chilometri. Un metodo replicato anni dopo contro l’epidemia di colera che ha colpito l’Europa occidentale. In tempi più recenti, l’equipaggio della missione lunare di Neil Armstrong fu messo in quarantena al ritorno sulla Terra.


  La realtà dimostra che questi confinamenti forzati hanno un’efficacia alquanto dubbia[23] e al contrario rischiano di essere controproducenti: c’è sempre chi riesce a evadere e chiudere le persone che potrebbero essere infettate o avere una condizione asintomatica con quelle sane, aggrava solo la situazione e i rischi della sua diffusione, finendo per creare un brodo di coltura altamente esplosivo. Come conferma lo storico israeliano, autore di Home deus, Yuval Noah Harari, non è possibile prevenire le epidemie attraverso l’isolamento. «Se pensi davvero di isolarti a un livello tale da non essere esposto a epidemie esterne, be’, risalendo anche fino al Medioevo sappiamo che questa strategia non risulta sufficiente. Perché abbiamo avuto questo tipo di epidemie anche nel Medioevo e nemmeno in quel periodo è bastato isolarsi. È necessario tornare all’età della pietra per trovare le condizioni per cui isolarsi può essere davvero una soluzione possibile contro le epidemie, e nessuno evidentemente può farlo»[24].


  Eppure tale strumento ha riscosso in generale molto consenso tra la popolazione, poiché la esonera da ogni responsabilità decisionale. Il cittadino viene trattato come un eterno infante, con un paternalismo autoritario che, parafrasando Kant, lo mantiene in uno stato di perenne minorità[25], in cui la cieca obbedienza sostituisce l’analisi del reale pericolo e la conseguente scelta della condotta da assumere.


  Un approccio razionale e meno condizionato dal fattore emotivo avrebbe portato, alla luce dei dati ufficiali sul tasso di letalità e di complicazioni legate al contagio da coronavirus, ad applicare misure più prudenti e specifiche per i soggetti più vulnerabili, anziché restrizioni dogmatiche e indifferenziate per tutti, che hanno portato i più giovani, privati dell’ambiente scolastico e persino dell’attività ludica all’aria aperta, a pagare un sacrificio spropositato, a fronte di un fattore di rischio pressoché insignificante.


  Un gruppo di scienziati di tutto il mondo ha lanciato l’iniziativa Great Barrington Declaration, una petizione per chiedere alle autorità di rinunciare al lockdown e far sì che la popolazione sviluppi l’immunità di gregge contro il coronavirus. Avendo dimostrato che l’incidenza della mortalità da Covid-19 è più di mille volte superiore negli anziani e nei malati rispetto ai giovani, la soluzione proposta – e quella che a puro rigor di logica sosteniamo dall’inizio della diffusione del virus[26] – è quella della focused protection, una protezione mirata delle fasce più vulnerabili. Lasciar vivere normalmente coloro che presentano il minimo rischio di morte, ossia la parte di popolazione giovane e sana, creerebbe l’immunità al virus attraverso l’infezione naturale e proteggerebbe anche coloro che sono a più alto rischio. Secondo gli scienziati, infatti, con l’aumento dell’immunità nella popolazione il rischio di infezione per tutti, compresi i più vulnerabili, diminuirebbe, riducendo al minimo la mortalità. L’adozione di misure di confinamento e di restrizione, inoltre, stanno producendo effetti così devastanti sulla salute pubblica – dovuti ad esempio alla riduzione degli screening per il cancro, agli interventi per i problemi cardiovascolari, al peggioramento della salute mentale – che negli anni a venire si registrerà un aumento della mortalità, con la classe operaia e i membri più giovani della società come principali vittime.


  In Italia il virologo Guido Silvestri, tra gli altri, ha ammesso che è stato un errore chiudere le attività produttive e isolare la popolazione. Lo stesso Comitato tecnico scientifico aveva consigliato la chiusura di zone delimitate del Paese, particolarmente interessate dalla diffusione del virus, anziché l’applicazione del confinamento su scala nazionale, come si è saputo successivamente con la richiesta di desecretare gli atti.


  Ma il clima di terrore mediatico alimentato dai media mainstream e cavalcato dai politici continua a prevalere, offuscando il lume della ragione tra la popolazione. Da parte dei cittadini c’è stato addirittura un aumento del consenso verso i politici in seguito all’imposizione del duro confinamento, applicato a tutti senza distinzioni, secondo un principio di uguaglianza che nulla ha a che fare con l’equità e anzi ne è la sua negazione. Per dirla in modo platonico, «dare cose uguali a gente disuguale avrebbe per effetto la disuguaglianza»[27].


  Attraverso una comunicazione sensazionalistica, basata su immagini forti e cariche di dolore, l’individuo ha subito un lavaggio del cervello, si è trovato di colpo a convivere con il pensiero ossessivo e incombente della morte, che aveva sempre rifuggito attraverso l’iperattivismo lavorativo e sociale. L’immaginario collettivo è stato subissato da testimonianze provenienti dai reparti ospedalieri di pazienti morenti, familiari straziati, medici martiri ed eroicizzati, culminate con la rappresentazione ultima del trapasso, le bare, trasportate addirittura da convogli militari, simbolo dell’ordine precostituito che subentra al caos. L’effetto suggestione è stato potente, un panico collettivo si è impossessato dell’intera popolazione che, senza distinzione di età e di condizioni fisiche, si è abbandonata totalmente al verbo dei virologi della vulgata dominante, quella accreditata e amplificata dai media. Adottando una forma di superstizione per placare la propria angoscia, i cittadini hanno aderito alle disposizioni imposte e rispettato pedissequamente la reclusione domiciliare forzata, mettendo da parte persino le preoccupazioni economiche legate all’impossibilità di lavorare, nonostante tali misure si siano rivelate scarsamente efficaci.


  Per i governi il successo e l’apprezzamento da parte dell’elettorato per il lockdown rappresentano un precedente prezioso e una forte tentazione di tornare ad applicare questo metodo, rudimentale e antiscientifico, per mettere a tacere le controversie o uscirne il più tardi possibile. Tuttavia se durante la “prima ondata” la popolazione era quasi all’unanimità paralizzata dalla paura e pronta a subire ogni deprivazione imposta in modo quasi scaramantico, alle nuove chiusure imposte in autunno la popolazione ha reagito con vigorose proteste. La disperazione di chi aveva investito denaro per adeguare la propria attività commerciale alle nuove norme anti-contagio e la rabbia per la libertà troppo a lungo compressa sono esplose in manifestazioni popolari in tutto il mondo.


  


  Il legame tra economia e salute


  Il lockdown ovunque applicato è stato uno tsunami, che si è abbattuto sulle economie dei Paesi, spazzando via tutte quelle attività produttive e lavorative che non avessero la stazza dei giganti. Come approfondiremo più avanti, solo le grandi imprese e multinazionali sono state in grado di resistere, alcune riciclando la propria produzione in quella dei dispositivi medici e di prevenzione, dalle mascherine ai ventilatori polmonari, altre, quelle del web, aumentando addirittura i propri già lauti profitti. Di certo l’effetto paralizzante del periodo del lockdown totale, cui si aggiunge quello attuale, che di fatto è un lockdown sotto mentite spoglie, ha generato uno shock economico senza precedenti, andando a incidere sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta. Quando a essere colpita così duramente è l’economia reale, ossia il cuore del sistema, porre rimedio richiederebbe strumenti innovativi e straordinari, che al momento non sembrano profilarsi all’orizzonte, dove la cornice, sebbene caratterizzata da un nuovo sfondo decrescista e ambientalista, sembra essere sempre quella neoliberista.


  Il disastro socioeconomico in corso poteva essere evitato attraverso l’adozione di misure di contenimento mirate, secondo un piano di intervento che mettesse in condizioni di sicurezza gli anziani e le categorie più a rischio, come dimostra un interessante studio di Daron Acemoglu, docente di economia al MIT, tra i dieci economisti più citati al mondo, molto accreditato dalla politica. Attraverso un’analisi quantitativa, condotta insieme con altri colleghi, ha dimostrato come un lockdown mirato per fasce di età avrebbe portato alla migliore combinazione tra tutela della salute e dell’economia[28]. Eppure la voce dell’illustre accademico, di solito tenuta in grande considerazione, stavolta è caduta nel vuoto, come quella di tutti coloro che si sono discostati dal pensiero egemonico.


  Stessa proposta, quella di applicare misure differenziate per classi di rischio, è arrivata da parte della rivista economica più famosa al mondo, «The Economist»: anch’essa sorprendentemente ignorata. La corrente predominante di virologi, opinionisti, vip, giornalisti e politici, sotto l’egida a più tratti contradditoria dell’OMS, ha sposato una linea ortodossa e inflessibile, che durante il lockdown è stata sintetizzata nel perentorio slogan “restate a casa”. Non che ci volesse un concistoro di luminari della scienza per arrivare a una simile e spartana risoluzione!


  Probabilmente alcuni simpatizzanti del paradigma securitario storceranno il naso, controbattendo che parlare di questioni economiche è cinico di fronte al tema della morte, ché anche una sola vita salvata, a prescindere dall’età e dalle patologie pregresse, assume un valore inestimabile.


  Diventa a questo punto doveroso ribadire un concetto basilare, sebbene dovrebbe essere già scontato per tutti: il concetto di salute non può essere ridotto alla possibilità di contrarre o meno il Covid-19 ed eventualmente in forma lieve, la maggioranza, grave, una minoranza, o letale, percentuale molto contenuta rispetto ad altre malattie, come confermato dai dati ISS.


  Il benessere psico-fisico dell’individuo dipende da un insieme articolato di fattori, in cui l’aspetto relazionale, che durante il lockdown è stato troncato, e quello della stabilità economica e lavorativa rivestono un ruolo fondamentale. È sconvolgente come, a dimostrazione della ristrettezza di vedute e della mancanza di una visione olistica d’insieme, i virologi della vulgata dominante e i politici che hanno imposto simili restrizioni abbiano manifestato una totale incapacità di afferrare tale aspetto, trattando la popolazione come se non fosse costituita da essere umani, con bisogni e comportamenti che vanno oltre la pura sopravvivenza biologica, bensì da automi.


  L’economia, in quanto scienza sociale che si occupa dell’uomo e del suo benessere, e non mera contabilità o crematistica come vorrebbe ridurla una volgare interpretazione della materia, non può essere messa in disparte in nome dello scientismo autoritario e assiomatico. Nei talk show televisivi gli economisti sono stati rimpiazzati dai virologi, in un clima di generale medicalizzazione ideologica, mentre quei pochi che hanno continuato a essere invitati non si sono discostati dal diktat della nuova narrazione securitaria, che preferisce lo strumento dell’emotività a quello della ragione. Intanto la nostra economia ha riportato un crollo del Pil e un’impennata dei livelli di disoccupazione e povertà che, visto la situazione di partenza già compromessa, potrebbe essere il colpo di grazia definitivo, tanto da poterci far uscire dall’alveo dei Paesi del Primo Mondo. Una terzomondizzazione che vorremmo scongiurare in tutti i modi, ma che purtroppo avevamo già previsto come effetto di politiche economiche, in primis l’austerity, sperimentate già nel Terzo Mondo prima che da noi[29].


  Se ancora qualcuno volesse ostinarsi a ribadire il primato esclusivo e l’indipendenza della salute sull’economia, ebbene sia la teoria che l’evidenza empirica dimostrano l’esistenza di una relazione diretta tra Pil pro-capite e aspettativa di vita: maggiore è il benessere nazionale, maggiore è l’aspettativa di vita. I motivi sono facilmente intuibili per chiunque e a supporto esiste una vasta letteratura. Cosa accadrà alle nostre popolazioni, con una perdita del Pil annuo che in gran parte dei Paesi, il nostro in prima fila, è a due cifre? Un’economia segnata dalla crisi, dalla perdita di migliaia, milioni di posti di lavoro, quali garanzie di benessere può offrire ai cittadini, in termini di qualità della vita e di benessere psico-fisico?


  Durante il lockdown, inoltre, ma anche nel periodo successivo, la cura di patologie diffuse e altamente letali, come l’infarto e il cancro, principali cause di morte (rispettivamente 17,8 e 9,6 milioni di decessi nel mondo nel 2017, 217mila e 181mila solo in Italia) è passata in secondo piano per dare priorità ai pazienti del coronavirus e al rispetto del protocollo messo in atto.


  Forse, quando ormai sarà troppo tardi, ci renderemo conto che le raccomandazioni/imposizioni degli scientocrati erano sbagliate. Magari finiranno per fare ammenda anche loro, come è successo con diversi economisti e lo stesso FMI nel caso dell’operato della Troika in Grecia, ma anche stavolta sarà troppo tardi. Come rivelano i dati di Confindustria e Confesercenti, il tessuto economico del Paese sta morendo e la sua fine potrebbe essere irreversibile.


  Solo la Svezia si è sottratta alla logica liberticida ed economicida del lockdown, con risultati in termini di andamento dei contagi in linea con gli altri Paesi: se è vero infatti che il paese scandinavo presenta un tasso di densità demografico molto basso, è vero che la sua capitale, dove risiede circa un decimo della popolazione, è oltre il doppio di quella di Roma. Al contrario in Argentina, dove il governo ha imposto un lockdown ininterrotto, di circa otto mesi, morti e contagi hanno raggiunto livelli record e l’economia, già in difficoltà, è oggi allo stremo.


  


  Effetti psicologici dell’isolamento


  Pensare che l’essere umano viva in un’ottica di mera sopravvivenza biologica è una visione cieca, che rivela la dissociazione dell’attuale scienza, o come meglio designeremo nel corso del libro “scientismo”, dalla realtà e dalla sua complessità. L’isolamento coatto è una condizione del tutto innaturale per l’uomo, che per sua natura è un animale sociale e nella comunità trova sostegno e riconoscimento, ancora più importanti per le persone in condizioni di maggiore fragilità. Per la prima volta da quando ne abbiamo memoria, è stato impedito a milioni di cittadini di svolgere la propria funzione lavorativa, in particolare liberi professionisti e imprenditori hanno dovuto sospendere del tutto le proprie attività, con conseguenze devastanti sotto il profilo non solo economico, ma anche psichico.


  Le categorie più fragili, ancora una volta, sono state le più colpite.


  Durante il confinamento anziani lasciati in totale solitudine, privati dei loro legami affettivi, ingrossavano le file quotidiane davanti ai supermercati e alle farmacie, unici luoghi consentiti, pur di avere un contatto umano, la gran parte di loro priva anche degli strumenti per rifugiarsi nel web e nella vita virtuale come la gran parte della popolazione.


  Ragazzi e bambini, nativi digitali, ancora non schermati attraverso le esperienze della vita reale e il processo di maturità sono stati invece risucchiati dal mondo virtuale, aggravando spesso disagi e insicurezze. Un mondo che anziché proteggere nella sua bolla i giovani dai pericoli esterni, li espone sempre più a situazioni di pericolo, incontrollabili, come dimostrano i drammatici fatti di cronaca che riportano atti di autolesionismo da parte di adolescenti, culminati persino nel suicidio a causa di sfide, le cosiddette challenge, lanciate del web. È il caso di Jonathan Galindo, il personaggio misterioso che adesca i giovanissimi nella rete fino a spingerli al suicidio, come nell’episodio drammatico dell’undicenne di Napoli, che nei mesi scorsi si è tolto la vita per “seguire l’uomo col cappuccio”. Un fenomeno non nuovo, purtroppo; aveva già fatto clamore l’analogo gioco Blue Whale challenge, che pare abbia indotto alla morte diversi adolescenti, anche se gli organi di informazione preferiscono sorvolare o minimizzare per il timore di gesti emulativi.


  Durante il periodo del lockdown, i referenti del servizio di emergenza dedicato all’infanzia di Telefono Azzurro hanno riportato un aumento del 40% delle chiamate dei ragazzi che hanno raccontato di aver avuto pensieri suicidi o che hanno compiuto atti di autolesionismo. Bambini lasciati soli nei meandri della rete, senza momenti di aggregazione con i coetanei, come la scuola in primis, ma anche lo sport, il cinema, l’attività all’aperto nei parchi, pure questi proibiti come rigida misura di profilassi dal virus. Quelli più sfortunati sono rimasti soli a casa con l’orco, vittime di violenze domestiche: sempre secondo la testimonianza di Telefono Azzurro, le richieste di aiuto per casi di abuso e di violenza domestica durante il lockdown sono aumentate del 20%. A crescere sono state anche le segnalazioni di violenze verso le donne, con un +119% di chiamate al numero verde da marzo a giugno[30], effetto della convivenza forzata ininterrotta, senza vie di fuga.


  Le categorie più vulnerabili sono state abbandonate alla loro disperazione e i casi di disagio ed emarginazione sociale si sono aggravati, con un ricorso massiccio all’utilizzo di alcol e droghe e un’impennata di acquisti di psicofarmaci contro ansia e depressione.


  La salute mentale è una questione sottovalutata, spesso affrontata in modo sommario, soprattutto in un momento in cui tutta l’attenzione è concentrata solo sui contagi del nuovo virus. Era già stato stimato che nel 2030 le malattie della mente sarebbero arrivate al primo posto nel mondo, superando le malattie cardiovascolari. Secondo il presidente della Società Italiana di Psichiatria,


  considerando l’enorme aumento di casi riportato nel periodo del lockdown, non è escluso che questo sorpasso possa avvenire prima o non sia già avvenuto, mettendo a nudo tutte le carenze di cure e personale dedicate a questo delicato settore.


  A dispetto di una visione ingenua, forzatamente ottimistica e purificatrice, il coronavirus non ha operato nessun livellamento delle disuguaglianze, ma anzi le ha acuite. Interi nuclei familiari sono stati costretti in spazi domestici ridotti, soprattutto nelle grandi città, senza terrazzi o giardini, vero lusso per chi non aveva altra possibilità di fruire dell’aria aperta, ridotti a condividere un solo dispositivo per la connessione a internet, unico mezzo per il lavoro dei genitori e per la didattica a distanza dei bambini. Ancora una volta, inevitabilmente, le sofferenze maggiori sono state riscontrate dalle classi meno abbienti. Molti bambini sono rimasti esclusi dalla didattica online, e molti continuano a esserlo, per mancanza dei mezzi di connessione, con un pericolo crescente di abbandono scolastico, fenomeno che in Italia riguarda già il 14% dei ragazzi. Intanto i vip televisivi dalle proprie confortevoli abitazioni magnificavano la bellezza dello stare a casa, a godersi la serenità e la famiglia.


  Uno studio condotto negli Stati Uniti dalla Kaiser Family Foundation ha riscontrato come nella fascia di reddito inferiore ai 40mila dollari, un cittadino su quattro abbia riportato problemi psicologici legati alla pandemia, mentre per coloro che guadagnano oltre 90mila dollari la percentuale si riduce alla metà. Un’evidenza che si osserva in tutti i Paesi colpiti dalle rigide restrizioni messe in atto per contenere la diffusione della pandemia, che ha scatenato anche fenomeni diffusi di ipocondria, in alcuni casi persino letali.


  Durante il periodo del lockdown in Italia, nel silenzio dei media concentrati unicamente sull’infodemia, si sono verificate tragedie che hanno del paradossale, come quella di un signore di Pavia, ricoverato per una forma di broncopolmonite e in attesa del risultato del tampone per il coronavirus, che si è lanciato dal terzo piano dell’ospedale. A Salerno invece una donna, madre di due figli, in preda all’ossessione di poter essere contagiata dal misterioso virus, si è uccisa gettandosi dal balcone della sua abitazione. Più “fortunato” il 65enne di Lecce, salvato dall’intervento di un parente mentre tentava di togliersi la vita, convinto di essere positivo al famigerato virus, quando in realtà i suoi problemi erano legati alle corde vocali, come ha confermato l’esito negativo del tampone. Diversi casi si sono verificati anche tra il personale medico e infermieristico, assalito dal senso di colpa e dalla paura di aver contagiato i pazienti.


  Come racconta il poeta Ovidio nelle Metamorfosi: «si impiccarono, per uccidere le paure della morte con la mano della morte».


  A confermare il tragico fenomeno, Telefono Amico Italia nei primi sei mesi del 2020 ha ricevuto circa duemila richieste di aiuto da parte di persone attraversate da un pensiero suicida o preoccupate per il possibile suicidio di un proprio caro: oltre il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tale incremento trova spiegazione anche nella chiusura durante il periodo di lockdown degli ambulatori presso i quali i pazienti eseguono terapie psicologiche e psichiatriche. L’aver interrotto le visite ambulatoriali per prevenzione del coronavirus ha ridotto l’offerta di assistenza in questo reparto, così come in molti altri del settore sanitario.


  


  Il fenomeno dei suicidi


  Proprio la salute mentale, duramente messa alla prova dal periodo d’isolamento forzato, dal clima di psicosi collettiva permanente, frutto di un’informazione esasperata e allarmistica, nonché dall’incertezza sul futuro legata a una crisi economica senza precedenti nella nostra memoria, è indicata dalla letteratura scientifica tra i fattori di rischio più rilevanti nel fenomeno suicidario.


  Quest’anno l’Osservatorio suicidi per motivazioni economiche della Link Campus ha riportato 25 decessi e 21 tentati suicidi nelle settimane del lockdown, più della metà delle vittime è rappresentata da imprenditori. Un’impennata che risulta ancora più preoccupante se confrontata con i dati del 2019, in cui il numero delle vittime si assestava a 14 e il fenomeno dei suicidi registrava la prima battuta d’arresto dopo anni di costante crescita, come riporta il direttore dell’Osservatorio.


  In seguito alla crisi economica del 2008, di fatto mai superata in Italia, nel periodo compreso tra il 2012 e il 2018 sono stati registrati nel nostro Paese quasi mille suicidi legati a motivazioni economiche, nei primi anni soprattutto da parte di imprenditori, poi il fenomeno si è esteso ai disoccupati.


  Gli studi condotti sulla relazione tra la situazione economica di un Paese e il fenomeno suicidario sono numerosi e riportano evidenze incontrovertibili: esiste una forte correlazione tra recessione e andamento del tasso di suicidio, più marcata nei Paesi con un tasso di disoccupazione pre-crisi più basso.


  Analizzando, ad esempio, gli effetti della crisi economica asiatica, avvenuta tra il 1997 e il 1998, è stata riscontrata una correlazione con il tasso di suicidio, in particolare quello maschile, aumentato in modo evidente in Giappone, Hong Kong e Corea.


  Uno studio analogo è stato condotto in Europa, a seguito della crisi dei mutui subprime del 2008 che, nata Oltreoceano, proprio nel Vecchio Continente sembra essere stata più perniciosa, tanto che molti Paesi, tra cui il nostro, non ne sono ancora usciti, mentre si trovano ad affrontare uno shock economico mondiale ancora più travolgente, quello legato al coronavirus. Anche in questo caso è stato riscontrato un aumento del tasso di suicidi riconducibile a dinamiche economiche. Interessante è il focus sulla Grecia, il paese che più di tutti ha sofferto la crisi del 2008, con l’intervento della Troika che ha imposto misure durissime di austerity alla popolazione. Ebbene, proprio dal Paese ellenico, che in passato poteva vantare uno dei tassi di sucidi più bassi al mondo, proviene l’incremento più significativo, con una crescita del 56% tra il 2007 e il 2011 e del 35% tra il 2010 e il 2012ß1]. A seguito dei tagli draconiani apportati al settore della sanità dall’austerity, sono stati rilevati peggioramenti nello stato di salute generale della popolazione: il virus dell’HIV è aumentato di oltre il 50%, si è assistito a un’epidemia di malaria che non si riscontrava dal 1974 e a un aumento della mortalità infantile. È la conferma che di austerity si muore, come hanno dimostrato gran parte dei Paesi occidentali, in primis il nostro, di fronte all’emergenza coronavirus: i tagli alla sanità hanno reso inadeguata la risposta ospedaliera allo scoppio dell’epidemia, peraltro già prevista, con una dotazione di terapie intensive insufficiente ovunque, ad eccezione della Germania, dove il numero disponibile era già di sei volte quello dell’Italia.


  L’attenzione per i decessi con coronavirus non deve farci dimenticare che ogni anno nel mondo muoiono 800mila persone per suicidio, legato a sofferenze psicologiche, molte delle quali potrebbero essere salvate con maggiore sostegno sociale e attenzione verso di esse. Occorre ribadire che l’aspetto economico e quello sanitario sono complementari e non sostituti, entrambi imprescindibili per il benessere dell’umanità.


  Negli Stati Uniti uno studio condotto da due fondazioni[32] ha stimato che nel prossimo decennio si conteranno ben 75mila vittime legate alla crisi del coronavirus, classificate come “morti per disperazione”, comprendendo sia i suicidi che i decessi per abusi di sostanze stupefacenti, dovuti alle sofferenze indotte dal confinamento e ai contraccolpi di una crisi economica deflagrante.


  


  Il trade off tra sicurezza e libertà


  Con una comunicazione capillare e incisiva è stato inculcato il messaggio che rimanere a casa significasse sacrificare una parte della propria libertà individuale in nome del bene collettivo, quasi una forma sublime di altruismo. Si è rivelata una narrazione efficace, con forte presa sulla popolazione, che ha interiorizzato il concetto di sacrificio in chiave salvifica. Da un lato una fetta di popolazione che, per motivi di varia natura, si trovava già a vivere in una situazione di difficoltà personale, ha visto, più o meno consciamente, nella sospensione della routine quotidiana imposta dal lockdown una sorta di sollievo alla propria condizione, resa apparentemente uguale a quella di tutti gli altri. Dall’altro, le paure interiori più recondite dell’individuo sono state canalizzate verso il nuovo virus, che media e virologi hanno personificato, attraverso la diffusione di immagini strazianti, evocative di morte e dolore. La società del progresso della tecnica e della scienza ha creato nell’uomo aspettative di tipo prometeico, portandolo sempre più a dimenticare la propria natura terrena e ad anelare all’immortalità. È lo spirito che anima la corrente transumanista, che attraverso l’ibridazione con le macchine punta alla creazione di un superuomo, ma è anche l’inconscia e comune paura della morte, di accettare la propria condizione, da cui l’uomo non riesce a emanciparsi.


  È come se all’improvviso, dopo averne rifuggito il pensiero attraverso la saturazione dell’immaginario con impegni artefatti e diversivi, all’uomo venisse ricordata la natura fugace dell’esistenza. D’altronde, siamo nei tempi in cui la scienza è stata sostituita dallo scientismo, il pensiero dall’immagine e lo spirito critico da quello omologato: non c’è da sorprendersi che non ci sia spazio per le riflessioni esistenziali e filosofiche. Eppure la morte fa parte della vita e basterebbe pensare più spesso nell’ottica di essere mortali per godere maggiormente della vita e del tempo. Per dirla con Freud, «non faremmo bene ad assegnare alla morte un posto che le si addice e a prestare un’attenzione sempre maggiore al nostro atteggiamento inconscio nei confronti della morte, che invece siamo sempre occupati a reprimere? Ricordiamo il vecchio adagio: “si vis pacem, para bellum”. Sarebbe ora di modificarlo e di dire “si vis pacem, para mortem”. Se vuoi sopportare la vita impara ad accettare la morte»[33].


  Non è certo la prima pandemia di cui abbiamo conoscenza, senza scomodare la peste del XIV secolo o la terribile Spagnola, alla fine degli anni Cinquanta l’influenza asiatica ha ucciso circa due milioni di persone, eppure non si è mai reagito con un simile allarmismo biosicuritario. Nessuno in passato di fronte ad epidemie ben più gravi aveva mai dichiarato uno stato di emergenza come quello proclamato per il coronavirus.


  Il concetto di salute è stato ridotto al mero evitamento del contagio dal Covid-19, mettendo da parte la prevenzione e le misure di screening per patologie ben più letali[34], e soppiantando ogni altro valore della vita umana.


  Si è passati a una visione pan-medicalista dell’esistenza, in cui il valore supremo è attribuito alla preservazione di quella che il filosofo Giorgio Agamben chiama la «nuda vita», la pura esistenza biologica. In suo nome ci è stato chiesto di rinunciare a diritti e libertà fondamentali, accettando di vivere in uno stato di eccezione permanente. Come afferma il filosofo dissidente, criticato per le sue posizioni dagli stessi che in passato l’hanno osannato per gli indubbi meriti intellettuali, gli italiani hanno dimostrato di essere disposti a sacrificare qualunque cosa, il lavoro, le amicizie, gli affetti e persino le convinzioni religiose di fronte al pericolo di ammalarsi.


  A differenza di quanto propagandato dalla retorica arcobalenica dei canti sui balconi, l’attaccamento alla nuda vita e la paura di perderla non creano unione e solidarietà tra gli uomini, ma al contrario li accecano e separano[35]. Come nella pestilenza descritta da Manzoni, gli altri esseri umani rappresentano solo dei potenziali untori, che occorre a ogni costo evitare e da cui bisogna tenersi a distanza.


  Con un atteggiamento fobico di tipo ipocondriaco, la protezione dal virus e dal suo rischio di mortalità, sebbene i dati ufficiali confermino essere molto contenuto, è divenuta l’unica ragione di vita di milioni di cittadini, indifferenti all’attentato alla democrazia e all’economicidio in corso, i cui effetti saranno devastanti per il presente e ancor più per il futuro delle nuove generazioni, le più danneggiate da questa dissennata gestione epidemica.


  La medicina ha preso il posto della politica e della morale, della spiritualità e della civiltà. Anche il concetto di felicità è stato stravolto: stiamo assistendo a una completa inversione rispetto ad almeno venticinque secoli di civiltà in cui abbiamo considerato la salute come un mezzo, certamente molto prezioso, ma ad ogni modo strumentale per raggiungere l’obiettivo supremo che da sempre è la felicità[36].. Abbiamo abdicato a tutto ciò non in un’ottica di reale emergenza e temporaneità, ma in una repentina assuefazione allo stato di eccezione come “nuova normalità”, per usare un’espressione tanto in voga nel prospettare scenari futuri. “Nulla sarà più come prima”, ci ripete la grancassa mediatica e politica; eppure anche dopo una guerra si torna allo stato di normalità che caratterizza la vita dell’individuo. Il perseverare delle misure emergenziali invece, anche di fronte alle evidenze della curabilità dalla malattia e della sua prevalente forma asintomatica o paucisintomatica in oltre il 90% della popolazione, fa presagire l’inesorabile inizio di una nuova era.


  Il paradigma securitario in chiave sanitaria è divenuto improvvisamente un dogma indiscusso su scala universale. Da sempre l’uomo è disposto a barattare un po’ di libertà in cambio della promessa di sicurezza, ma mai si era assistito, in assenza di un conflitto bellico, a tanta remissiva accondiscendenza da parte dell’intero mondo occidentale a una tale erosione del concetto stesso di democrazia. Intere popolazioni sono state soggiogate da una promessa vaga di protezione dal virus, non comprovata scientificamente in alcun modo, ma perseguita attraverso l’imposizione dell’isolamento, un metodo arcaico e grossolano, capace però di sollecitare quell’innato spirito di sacrificio umano che tanto condiziona le nostre vite. Come in ambito economico il principio dell’austerity è stato applicato in Paesi già in crisi, nonostante sia non solo inefficace ma anche deleterio, così i virologi, che altro non sono che la variante sanitaria del neoliberismo, chiedono rinunce a una popolazione impaurita e disposta alla perdita delle proprie libertà. Facendo leva su quell’atavico senso di colpa che è alla base degli inganni sociali ed economici protratti nella storia[37], si è imposto all’opinione pubblica un nuovo ordine narrativo, che si inscrive nella coscienza collettiva, rimodellandola a nuove prescrizioni.


  Unico tra gli esseri viventi, l’uomo ha una predisposizione innata e inconfessabile per il sacrificio, una sorta di forma masochistica di godimento, dietro la quale si nascondono altre pulsioni. È il fantasma sacrificale[38], che ritroviamo nei precetti della religione e nelle forme di culto animistico, in cui venivano offerte vite animali o umane alle divinità. Si manifesta in una pulsione incontrollata verso il sacrificio, che trova nell’adesione a pratiche punitive una forma di piacere e di liberazione da un senso di colpa atavico e immanente. L’uomo è l’unico tra gli esseri animali ad essere spinto da questo impulso, mentre il regno della natura è mosso dal puro istinto di sopravvivenza. Libero dal peso oneroso di disporre della propria libertà, il soggetto si affida alla guida di un padrone –incarnato dalla figura di un leader o da un pensiero dogmatico – e trasforma il sacrificio in una forma masochistica di godimento.


  Esiste una vasta letteratura filosofica, sociologica e psicoanalitica sull’angoscia della libertà e la servitù volontaria, da Spinoza a Kierkegaard, da Étienne de La Boétie a Lacan. Sebbene l’argomento sia molto edificante, ci limitiamo in questa sede, per non digredire troppo dal nostro tema principale, ad analizzare come l’attitudine al sacrificio renda comportamenti e ordinamenti privi di qualsiasi razionale ben accetti dalla popolazione. Il grande potere persuasivo delle politiche che impongono condotte sacrificali, risiede nella forza libidica e nel piacere perverso che da esse scaturisce.


  I cittadini si auto-convincono di operare per il bene collettivo, mentre in realtà appagano i loro desideri masochistici inconfessati. La condizione del loro soddisfacimento però è che il sacrificio venga condiviso da tutti: se io sono schiavo anche tu devi esserlo, perché questa è l’unica condizione possibile. Da qui l’odio verso chi, per indole o a seguito di un processo di emancipazione verso la consapevolezza, è libero e non si conforma.


  Durante il periodo di quarantena a oltranza, la pratica sacrificale è divenuta una liturgia alla quale nessuno poteva sottrarsi. Si è creato spontaneamente, come è sempre accaduto nei regimi totalitari nel corso della storia, un esercito di delatori, che si è dedicato alla caccia al runner e a chiunque osasse dissentire dal nuovo ordine stabilito, a prescindere dalla effettiva pericolosità del comportamento messo in atto[39].


  Deludendo ogni ideale di rapporto virtuoso tra Stato e cittadino, si è instaurato tra i due soggetti una relazione di paternalismo autoritario, in cui il primo ha imposto regole ferree e inappellabili e il secondo si è comportato come un bambino soggiogato, ma subito pronto a disobbedire appena il controllo viene allentato. Come sempre, quando non si instaura fiducia condivisa, l’adesione alle norme avviene solo per timore referenziale, ma senza nessuna assunzione di consapevolezza e responsabilizzazione da parte di chi adempie.


  I risvolti sociali e antropologici della gestione del coronavirus sono del tutto inediti nella storia moderna. A differenza di un conflitto bellico, il nemico non è più identificabile e tangibile, ma invisibile e ubiquo, occorre dunque diffidare dell’Altro, ognuno è un potenziale nemico. Inoltre, a conclusione di una guerra, si vive nella prospettiva della ricostruzione e della crescita, in un clima di entusiasmo, mentre oggi il ripristino dello status quo ante è bandito, considerato responsabile della diffusione del virus e non più sostenibile, tanto che si punta con sempre maggiore insistenza alla decrescita, dai risvolti tutt’altro che felici. Verosimilmente dalle ceneri non nascerà nulla, ma rimarrà piuttosto una desertificazione, un disboscamento che lascia nello sconcerto del vuoto.


  


  Strumenti di sorveglianza di massa


  Se in Italia e nel resto dell’Occidente sono state numerose e forti le manifestazioni di protesta contro il nuovo ordine sanitario, sebbene i media ci diano conto solo di quelle più eclatanti che non possono essere nascoste, dall’Asia invece sono arrivati esempi di totale noncuranza per il rispetto delle libertà individuali, in un continente che per storia e cultura è molto distante dal nostro, nonostante sia sempre più nutrita la corrente di chi ambisce all’adozione di un tale modello. Proprio in Cina è avvenuto il primo esperimento di confinamento della popolazione, seppur limitato a una regione, per quanto popolosa, dell’intero Paese, da noi emulato e applicato su scala nazionale.


  In Cina, e in tanti altri Paesi, la pandemia ha comportato l’implementazione di diversi dispositivi al fine di monitorare la popolazione, per tenere a casa le persone o per monitorarle in caso di spostamento: telecamere, monitoraggio dei cellulari e sviluppo di dispositivi di controllo altamente tecnologici sono alcuni dei mezzi messi in campo.


  Il riconoscimento facciale, che già negli ultimi anni aveva fatto passi da gigante, ha avuto un ulteriore sviluppo, divenendo uno strumento molto richiesto dai governi di tutto il mondo e assai redditizio per le società che operano nel settore delle tecnologie abilitanti, come i Big data, l’intelligenza artificiale e la cyber security.


  Le applicazioni sul controllo a distanza stanno fiorendo e diffondendosi ovunque, dalla Corea del Sud alla Polonia, passando per l’Italia, ed è altamente probabile che il Covid-19 sancirà, o abbia già sancito, l’inizio di una rivoluzione nel mercato dei prodotti di sorveglianza, con tutte le conseguenze sulle libertà e sul diritto alla riservatezza dei cittadini.


  Come spiega Yuval Harari in un editoriale sul «Financial Times»[40], uno dei pericoli dell’attuale epidemia è che potrà giustificare misure estreme di controllo, che sopravvivranno anche passata la crisi, in particolare il riconoscimento biometrico, un sistema di monitoraggio continuo di un’intera popolazione per segnali biometrici, accettato al fine di proteggere persone da future epidemie. «Una cosa che può anche costituire le basi per un regime totalitario estremo. Stiamo affrontando un enorme problema di sorveglianza e privacy nella nostra epoca. Penso che vedremo una grande battaglia tra privacy e salute. E probabilmente ne conseguirà che le persone non avranno alcuna privacy in nome della loro protezione dalla diffusione di epidemie.»


  La tecnologia ha l’indubbio vantaggio di essere molto efficace per monitorare la popolazione e scoprire, ad esempio, lo scoppio di una nuova malattia sul nascere, contenerla, seguire tutte le persone infette e conoscerne esattamente movimenti e azioni. «Ma questo tipo di sistema di sorveglianza può quindi essere utilizzato per monitorare molte altre cose, cosa pensano le persone, cosa provano... E se non stiamo attenti, questa epidemia può giustificare lo sviluppo accelerato dei regimi totalitari.»


  Non solo la Cina, ma anche gli altri stati asiatici fanno un massiccio ricorso alla sorveglianza digitale e considerano i Big data come uno strumento fondamentale per arginare l’epidemia. In Corea del Sud le videocamere di sorveglianza sono installate ovunque, in ogni edificio, ufficio o negozio: è praticamente impossibile sfuggire al loro occhio ubiquo. Insieme ai dati del cellulare, permettono la ricostruzione integrale degli spostamenti di una persona contagiata. A Wuhan sono state formate migliaia di squadre di investigazione digitale che cercano e tracciano potenziali contagiati solo sulla base di dati tecnologici.


  Nel continente asiatico la coscienza critica nei confronti della sorveglianza digitale è pressoché inesistente e persino in Paesi liberali come il Giappone o la Corea del Sud viene prestata scarsa attenzione alla protezione dei dati o alla privacy, nessuno si oppone alla raccolta delle informazioni personali da parte delle autorità. La digitalizzazione è una sorta di ebbrezza collettiva.


  Questa diversa disposizione va interpretata in chiave culturale: in Asia, a differenza che in Occidente, prevale il collettivismo. Ma attenzione a non cadere nella grossolana retorica per la quale il collettivismo coinciderebbe con l’altruismo, mentre l’individualismo con l’egoismo[41]. L’Oriente non è certo esente dalla predisposizione all’egoismo e alla corsa all’arricchimento personale, anzi, in Paesi come la Cina, che si trovano nella curva ascendente dello sviluppo capitalistico, queste inclinazioni possono essere persino più spiccate e manifeste che in Occidente. A cambiare è la diversa attitudine dei cittadini all’autoritarismo di Stato, per cui gli strumenti introdotto per la gestione della pandemia vengono accettati come ordinari e non eccezionali.


  Già dai primi anni Novanta il partito comunista cinese avviò una campagna di controllo della propria popolazione sulle tecnologie informatiche, per evitare che venisse esposta a fonti non controllate di informazione esterne. Tra gli strumenti più distopici messi in atto c’è il Grande Firewall Cinese, termine ironico coniato dalla rivista Wired nel 1997 e utilizzato dai media internazionali, inclusi gli stessi cinesi, per indicare il Golden Shield Project, il progetto di censura e di sorveglianza gestito dal Ministero di pubblica sicurezza, che blocca tutti i dati in entrata provenienti dai Paesi stranieri considerati come potenziale minaccia o offesa al Partito. Questo potente sistema di censura governativa si è andato evolvendo fino a includere strumenti sempre più sofisticati di intelligenza artificiale e machine learning. Oltre alla video-sorveglianza, il governo di Pechino opera attraverso l’aggregazione di dati biometrici, non solo usando volti umani, ma anche campioni di dna, registrazioni audio, impronte digitali e analisi del sangue, dati spesso acquisiti attraverso l’imposizione di app sui telefoni cellulari.


  La Cina inoltre è una cashless society dove i pagamenti online sono all’ordine del giorno. Perché uscire con il portafoglio, quando il cellulare è il tuo “salvadanaio”? Alipay o Wechat sono le app che vengono utilizzate anche per ogni transazione, persino i templi o i mendicanti hanno i propri dispositivi per ricevere offerte o elemosina.


  Sarebbe ottuso confinare l’autoritarismo digitale cinese a un mero problema politico interno. La sfida globale lanciata da Pechino per la conquista del mercato tecnologico non si gioca più solo sul piano economico, ma rientra in un piano espansionistico più ampio.


  L’impegno profuso dal Partito comunista nel supportare gli sforzi dell’innovazione nelle telecomunicazioni, e in particolare nelle reti di nuova generazione (5G), ha messo le aziende cinesi nelle migliori condizioni commerciali per competere su tutti i mercati della filiera. Huawei è oggi il primo produttore al mondo di smartphone, davanti ad Apple e Samsung, grazie agli aiuti governativi. Senza la concorrenza di Facebook e Whatsapp, bloccati dal governo cinese, Tencent e Alibaba hanno potuto imporsi sul territorio nazionale e sul suo enorme mercato, potenziando – e spesso diversificando, come nel caso di WeChat – la propria proposta internazionale.


  TikTok, WeChat, Huawei, Alibaba, Badoo e altre realtà digitali che solo fino a qualche anno fa venivano percepite come imitazioni scadenti degli omologhi occidentali, oggi sono viste come delle eccellenze. Grazie alla combinazione di cospicui investimenti economici governativi e alla regolamentazione protezionistica che ha permesso loro di fronteggiare la concorrenza occidentale sul mercato interno, i prodotti cinesi hanno conquistato i mercati emergenti non ancora penetrati dalle imprese occidentali e dall’elevato potenziale. I successi commerciali sul libero mercato hanno spalancato la strada alla riproduzione all’estero di un modello tecnologico di stampo autoritario e disinteressato ai diritti della privacy personale, aprendo scenari particolarmente pericolosi in Paesi, come quelli africani, dove prevalgono governi dittatoriali e manca il rispetto per i diritti umani. La Cina esporta sistemi di sorveglianza che utilizzano l’intelligenza artificiale[42] in oltre sessanta Paesi, strumenti spesso utilizzati dai governi per smantellare l’opposizione, monitorare le minoranze – come fanno i cinesi con gli iuguri – e creare l’infrastruttura necessaria alla sorveglianza civile e politica.


  Nello Zimbabwe, il governo nazionale ha ingaggiato la startup cinese CloudWalk per condurre un programma di sorveglianza di massa basato sul riconoscimento facciale. Nelle Mauritius, la cinese Huawei garantirà l’installazione di oltre 4.000 telecamere per le forze di polizia, mentre in Kenya fornirà la consulenza per il piano governativo sulle tecnologie dell’informazione. Anche Uzbekistan, Kyrgyzstan, Ecuador e Pakistan si sono rivolti alle imprese del Dragone per progetti analoghi. In Venezuela, il governo di Nicolas Maduro si è affidato alla società cinese ZTE per mettere in atto una vasta operazione di controllo sociale e profilazione della cittadinanza.


  


  Biopotere e Panopticon


  Lo scenario che abbiamo davanti è piuttosto inquietante, una società compressa tra uno stato di polizia da una parte e la propria isteria della sopravvivenza biologica dall’altra.


  La questione ci rimanda al concetto di biopotere elaborato dal filosofo francese Foucault, inteso come «governo del vivente», una forma di potere subdola, che regola il sociale dall’interno, assorbendolo e riarticolandolo. Il biopotere non si limita ad assoggettare i corpi attraverso un regime dispotico imposto dall’alto, come di fatto sta accadendo, ma genera soggettività, comportamenti, stili di vita, che si innervano profondamente nella nostra essenza e le infondono l’attitudine alla servitù volontaria. Come una monade telecomandata, l’individuo aderisce ai dispositivi di comando spontaneamente, come se provenissero dalla sua stessa volontà e dal suo desiderio.


  Massimamente esemplificato dalla situazione odierna, il governo del vivente è quello delle continue eccezioni, della pura contingenza, il potere non si definisce in base alla sua capacità di repressione, ma attraverso pratiche sociali come la tecnologia e la burocrazia, forme di controllo interiorizzate, con le quali il potere transita attraverso il soggetto e la sua essenza biologica.


  Nei suoi studi sui sistemi punitivi e penitenziari, Michel Foucault si sofferma su uno in particolare, il Panopticon. Ideato dal filosofo inglese Bentham, consiste in una costruzione ad anello, divisa in celle con due finestre, di cui una si affaccia verso la torre centrale e l’altra verso l’esterno, in modo tale da permettere alla luce di attraversare le celle e rendere i detenuti ben visibili e controllati da una torre collocata al centro in cui si trovano le guardie. I prigionieri sono costantemente osservati, ma non hanno la possibilità di osservare: l’effetto realizzato dal Panopticon è quello di indurre nel detenuto uno stato cosciente e perpetuo di assoggettamento, che rappresenta le dinamiche del potere, visibile, immanente e allo stesso tempo inverificabile. Ogni detenuto avrà costantemente davanti a sé la torre dalla quale viene controllato, ma allo stesso tempo non potrà mai avere la certezza che ci sia qualcuno a controllarlo.


  Oggi il Panopticon è una prigione digitale, il suo funzionamento è guidato da algoritmi, ma come il sistema carcerario di Foucault mette in atto incessanti procedure «di fissazione, ripartizione, registrazione» degli uomini e lo fa attraverso i Big data. Superando il processo di reificazione marxiana con il quale l’uomo era stato ridotto a cosa, gadget, oggetto del suo consumo, oggi è in atto la sua datificazione, la riduzione a mero dato. In una forma inedita, il capitalismo si


  reinventa e al volto caleidoscopico del consumismo finalizzato ad accrescere il capitale ne sostituisce uno più austero e dirigista, dove assume sempre maggiore importanza il potere esercitato attraverso il controllo.


  Un esempio sconcertante del nuovo Panopticon digitale arriva ancora una volta dalla Cina. È il sistema di credito sociale cinese, un programma nazionale basato sulla tecnologia e sulla sorveglianza ispirato al cosiddetto “sincerity management model”, un modello di gestione manageriale della collettività che «permette a chi è affidabile di vagare ovunque sotto il cielo, rendendo difficile per chi è stato screditato di fare un solo passo».


  Il sistema punisce le trasgressioni, che possono includere l’appartenenza o il sostegno a organizzazioni non riconosciute dal governo, atteggiamenti di critica eccessiva al partito, il mancato o ritardato pagamento dei debiti, ma anche suonare il clacson, non pulire il marciapiede di fronte al proprio negozio o la propria casa, non essere diligenti nella raccolta differenziata: in pratica tutti quei comportamenti ritenuti illegali o inaccettabili dal governo di Pechino.


  Le punizioni possono essere severe e includere il divieto di lasciare il paese, di utilizzare i mezzi pubblici, il check-in negli alberghi, l’assunzione di ruoli lavorativi di elevata visibilità, ma anche connessioni internet più lente e la stigmatizzazione sociale sotto forma di iscrizione in blacklist pubbliche. Allo stesso tempo è concesso rimediare e guadagnare punti, attraverso donazioni di beneficenza, assistenza agli anziani, volontariato per il Partito e altri comportamenti sociali ritenuti virtuosi ed encomiabili.


  In vigore dal 2014, il sistema di credito sociale è in fase di perfezionamento e proprio per l’anno del Covid, il 2020, avrebbe dovuto evolversi in un unico rating a livello nazionale per tutti i cittadini cinesi. Attualmente, alcune disposizioni del sistema di credito sociale sono in vigore a livello nazionale, mentre altre sono locali, con circa 40 progetti pilota gestiti da giganti tecnologici come Alibaba e Tencent. Il Governo cinese ha disposto due liste a livello nazionale, consultabili sul website governativo Credit China, una blacklist, per coloro che hanno commesso violazioni, e una redlist, la versione cinese della comune whitelist, per i cittadini più virtuosi. Il pubblico ludibrio è parte del sistema di credito sociale cinese. Immagini di persone inserite in blacklist sono state mostrate in video su Tik Tok, o localizzati su mappe pubbliche di WeChat.


  Il sistema del credito sociale non riguarda solo i cittadini, ma anche le aziende, dove vengono presi in considerazione la condotta finanziaria, il rispetto di norme a tutela dei lavoratori o dell’ambiente ed eventuali frodi o episodi corruttivi. Il funzionamento è sostanzialmente lo stesso: le aziende virtuose vengono premiate con agevolazioni in termini di prestiti ed appalti, mentre quelle che non rispettano tali criteri vengono punite con maggiori tasse ed ispezioni.


  Analogamente a quanto riprodotto in una puntata della serie distopica BlackMirror[43], il controllo sociale entra in ogni aspetto della vita e ne architetta la trama, anche nella scelta delle relazioni: frequentare persone che hanno un rating sociale basso può compromettere anche il proprio punteggio. Se una parte della popolazione cinese non è neanche consapevole dell’esistenza di tale sistema, molti cittadini mostrano apprezzamento, come rivela l’alto grado di consenso registrato dai sondaggi.


  Di fronte a certi scenari indubbiamente distopici, da qualunque angolatura si vogliano osservare, mai come in questo momento storico la difesa dei diritti alla privacy e all’anonimato, nonché le richieste di trasparenza sulle decisioni a livello di gestione pubblica diventano prioritarie per evitare che si giunga troppo tardi ad accorgerci che gli strumenti dispiegati sul campo sono ben più pericolosi e invasivi di quanto pensassimo.


  Lo scenario lock step della Rockefeller Foundation


  Nel maggio 2010 la Rockefeller Foundation, in collaborazione con il Global Business Network, ha pubblicato il rapporto “Scenari per il futuro della tecnologia e dello sviluppo internazionale”. Secondo gli autori se per decenni la tecnologia ha cambiato radicalmente la vita degli individui in tutto il mondo, per il futuro non c’è un’unica strada, si prospettano molte possibilità, alcune positive altre meno, alcune note e altre inconoscibili. Tutto ciò che pensiamo di poter anticipare su come la tecnologia e lo sviluppo internazionale interagiranno e si intrecceranno nei prossimi venti anni e oltre è ancora da immaginare. La Fondazione Rockefeller, in veste di soggetto filantropico, sente di dover rispondere a questa sfida, ampliando e approfondendo la comprensione della gamma di possibilità che abbiamo davanti.


  Per sensibilizzare l’attenzione verso la necessità di riflettere e considerare il futuro in modo differente, lo studio utilizza lo strumento degli scenari che, viene specificato, non consistono in previsioni, ma piuttosto in ipotesi ponderate in grado di immaginare e simulare diverse strategie per essere più preparati per il futuro o, più ambiziosamente, per plasmarlo.


  L’elemento su cui si focalizza la ricerca è il progresso tecnologico e il suo ruolo nel superare gli ostacoli verso la stabilità e la giusta crescita nel mondo dei prossimi 15-20 anni.


  Vengono prospettati quattro scenari – Lock Step, Clever Together, Hack Attack e Smart Scramble – che ipotizzano il verificarsi di catastrofi naturali e altre configurazioni apocalittiche. Il primo è uno scenario pandemico, impressionante per la somiglianza rispetto a quanto stiamo vivendo oggi, sebbene nessuno prima d’ora avrebbe potuto neanche ipotizzare un simile contesto. Questa la distopica narrazione, perfettamente calzante con la realtà odierna:


  «Nel 2012, la pandemia che il mondo aspettava da anni è finalmente arrivata. Diversamente dal H1N1 del 2009, questo nuovo ceppo di influenza, portato dalle anatre selvagge, è stato estremamente violento e letale. Persino le nazioni meglio preparate alla pandemia sono state rapidamente travolte, quando il virus ha invaso il mondo, contagiando circa il 20% della popolazione globale, e uccidendo 8 milioni di persone in soli sette mesi, in maggioranza giovani adulti sani. La pandemia ha avuto anche un effetto letale sulle economie: il movimento internazionale, sia di persone che di beni, si è improvvisamente bloccato, indebolendo industrie come quella del turismo, ed interrompendo le catene globali di rifornimento. Persino a livello locale, negozi e uffici normalmente pieni di attività sono rimasti improvvisamente vuoti. La pandemia ha colpito tutto il mondo, ma ha fatto vittime in maniera sproporzionata soprattutto in Africa, nel Sud Est Asiatico e in America Centrale, dove il virus si è sparso con la rapidità del fuoco in assenza di protocolli ufficiali per contenerlo. Ma persino nei Paesi più sviluppati il contenimento è stato un grosso problema. La politica iniziale degli Stati Uniti di “scoraggiare vivamente” i cittadini dal viaggiare in aereo si è dimostrata letale per la sua troppa indulgenza, ed ha accelerato la diffusione del virus, non solo negli Stati Uniti ma anche oltre frontiera. Nonostante tutto, alcuni Paesi se la sono cavata meglio, in particolare la Cina: la rapida imposizione da parte del governo cinese di una quarantena obbligatoria per tutti i suoi cittadini, accompagnata dalla chiusura ermetica istantanea di tutte le sue frontiere ha salvato milioni di vite, fermando la diffusione del virus molto prima che in altri Paesi, e permettendo in seguito un più rapido recupero.»


  Proprio dalla Cina è nato l’esempio del lockdown, del confinamento dell’intera popolazione per fini preventivi, esperimento del tutto inedito e inconcepibile per l’Occidente prima d’ora.


  «Il governo cinese non è stato l’unico a prendere misure estreme per proteggere i propri cittadini dal rischio del contagio. Durante la pandemia, diversi leader nazionali hanno fatto pesare la propria autorità e hanno imposto regole e restrizioni severissime, dall’obbligo di portare mascherine al controllo della temperatura corporea all’ingresso di spazi comuni come le stazioni o i supermercati. Anche dopo la fine della pandemia, questo controllo autoritario sui cittadini e sulle loro attività è continuato, e si è addirittura intensificato. Al fine di proteggersi dalla diffusione dei crescenti problemi globali – dalle pandemie al terrorismo transnazionale, dalle crisi ambientali all’aumento della povertà – diversi leader nel mondo hanno stretto ancora più fortemente il pugno del potere.»


  In effetti, mentre la Cina ha condotto un unico lockdown limitato a una regione, altri Paesi lo hanno applicato all’intero territorio nazionale e ripetuto in più fasi, con l’estendersi delle restrizioni senza un termine.


  «Inizialmente il concetto di un mondo più controllato aveva ricevuto grande accettazione ed approvazione. I cittadini erano disposti a cedere parte della propria indipendenza e della propria privacy a governi più paternalistici, in cambio di maggiore sicurezza e stabilità. I cittadini erano più tolleranti e perfino desiderosi di ricevere direzione e controllo dall’alto, e i leader nazionali ebbero così mano libera nell’imporre l’ordine nel modo in cui preferivano.»


  Esattamente quello che si è avverato, con un gradimento iniziale per l’operato dei governi da parte della popolazione, che si è sentita paternalisticamente protetta.


  «Nei Paesi più sviluppati questa accresciuta forma di controllo si concretizzò in vari modi: identità biometrica per tutti i cittadini, ad esempio, unita a regole più severe per le industrie ritenute vitali per l’interesse nazionale. In molti Paesi sviluppati questa cooperazione forzata, insieme a nuove regolamentazioni ed accordi, ha portato lentamente a restaurare l’ordine, e – cosa molto importante – la crescita economica. Nel mondo in via di sviluppo invece le cose sono andate molto diversamente. L’autorità dall’alto ha assunto diverse forme in Paesi differenti, a seconda del calibro, delle capacità e delle intenzioni dei loro leader.»


  È quanto sta accadendo in Cina, dove il controllo biotecnologico è diventato ancora più pervasivo, con sensori biometrici ovunque, in grado di verificare e segnalare in tempo reale ogni trasgressione delle norme anti-contagio da parte della popolazione, persino il mancato utilizzo della mascherina. Il Dragone è l’unica potenza economica con Pil in crescita, anche se l’incidenza della propaganda governativa sulla comunicazione dei dati ingenera qualche lecita perplessità. Altri Paesi, come l’Argentina, pur avendo applicato un lockdown a oltranza, mostrano risultati fallimentari sia sul piano sanitario che economico.


  Il documento prosegue spiegando come il divario tecnologico fra i Paesi avanzati e quelli in via di sviluppo si sia allargato, nonché la chiusura nazionalistica e le ritorsioni tra i vari Paesi.


  Colpisce per il contenuto evocativo e profetico il finale della simulazione dello scenario Lock Step:


  «Intorno al 2025 la gente cominciava a mal tollerare questo pesante controllo dall’alto, nel quale erano sempre i leader a fare le scelte per tutti. Dovunque gli interessi nazionali si scontrassero con quelli individuali nascevano conflitti. Sporadiche proteste diventarono sempre più organizzate e coordinate, man mano che i giovani, scoraggiati nell’aver visto le proprie possibilità svanire nel nulla – soprattutto nei Paesi in via di sviluppo – sollevavano disordini civili. Nel 2026 una protesta popolare in Nigeria abbatté il governo, accusato di nepotismo e di corruzione. Persino coloro che apprezzavano la maggiore stabilità e prevedibilità di questo mondo iniziarono a sentirsi a disagio, imbrigliati dall’enorme quantità di regole e limitati dai confini nazionali. Si sentiva nell’aria che prima o poi qualcosa avrebbe inevitabilmente sconvolto il rigoroso ordine per stabilire il quale i governi del mondo avevano così duramente lavorato.»


  Chiare avvisaglie di insofferenza popolare alla gestione della pandemia da Covid19 che stiamo vivendo si sono manifestate in tutto il mondo – a esclusione forse della Cina, dove il governo preferisce non far trapelare il dissenso all’esterno, più concentrato ad alimentare la narrazione della rinascita – senza distinzione tra Paesi in via di sviluppo e non. Al contrario qui la rappresentazione della ricerca sembra essere fallace rispetto alla realtà che stiamo vivendo, poiché proprio il Sud del Mondo pare aver tollerato maggiormente le restrizioni (vedi Argentina) o comunque risulta meno afflitto dalla pandemia, come nel caso del continente africano, in cui non sembra esserci alcuna emergenza rispetto all’Occidente. A prescindere dal livello di benessere della popolazione, un governo autoritario, basato sulla coercizione e il permanere di norme liberticide, non può che sfociare in un disordine più grande, capace di travolgere inevitabilmente l’intero sistema. Vista la straordinaria preveggenza della ricerca, sarebbe utile che fosse tenuta in considerazione dai governi nella decisione di proseguire con l’attuale strategia di contenimento pandemico, che coincide proprio con quella immaginata.

CAPITOLO 3


  LA QUARTA RIVOLUZIONE (POST) INDUSTRIALE


  


  La nuova onda d’urto digitale


  


  Dopo la digressione di carattere filosofico-sociologico fatta nel capitolo precedente, essenziale per comprendere il complesso scenario entro il quale siamo stati di colpo proiettati, torniamo a Schwab e alla sua visione della “nuova normalità”, condivisa dai più influenti esponenti del mondo istituzionale, economico e politico.


  Nella sua attività di saggista, nel 2016 ha pubblicato, col solito anticipo rispetto ai tempi, un’opera che traccia le linee guida della governance globale per gestire i cambiamenti introdotti dalle nuove tecnologie non solo in ambito lavorativo, ma in tutti gli aspetti della vita umana. Si chiama Governare la quarta rivoluzione industriale[44] e l’introduzione è di Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft, attore chiave nel processo di digitalizzazione globale, che spiega come la sua azienda stia investendo molto sulla cosiddetta realtà mista, puntando a realizzare la migliore forma di interazione uomo-macchina, in modo che «il mondo digitale e quello virtuale diventino un tutt’uno».


  Ciò che si prospetta, spiega Schwab, non è un semplice perfezionamento delle tecnologie odierne, ma un’onda d’urto rivoluzionaria, capace di modificare non solo le abilità percettive e organizzative dell’uomo, ma persino i suoi comportamenti.


  «Siamo sull’orlo di una rivoluzione tecnologica che cambierà radicalmente il modo in cui viviamo, lavoriamo e ci relazioniamo gli uni con gli altri. Per scala, portata e complessità, la trasformazione sarà diversa da qualsiasi cosa l’umanità abbia mai sperimentato prima.» Per avere un termine di paragone dell’impatto che essa genererà, «la quarta rivoluzione industriale segna un nuovo capitolo nello sviluppo umano, la cui importanza è pari a quella delle guerre mondiali».


  Ma come cambierà effettivamente la nostra vita e quali saranno i benefici apportati?


  «Le possibilità di miliardi di persone connesse tramite dispositivi mobili, con una potenza di elaborazione, capacità di archiviazione e accesso alla conoscenza senza precedenti, sono illimitate. E queste possibilità saranno moltiplicate dalle scoperte tecnologiche emergenti in campi come l’intelligenza artificiale, la robotica, l’Internet delle cose, i veicoli autonomi, la stampa 3-D, la nanotecnologia, la biotecnologia, la scienza dei materiali, lo stoccaggio di energia e il calcolo quantistico. (...) Le tecnologie di fabbricazione digitale, nel frattempo, interagiscono quotidianamente con il mondo biologico. Ingegneri, designer e architetti stanno combinando design computazionale, produzione additiva, ingegneria dei materiali e biologia sintetica per aprire la strada a una simbiosi tra i microrganismi, i nostri corpi, i prodotti che consumiamo e persino gli edifici in cui abitiamo».


  Come si evince da questo passaggio, ci troviamo di fronte a un processo innovativo che percorre un doppio binario, delle tecnologie informatiche e di quelle biologiche, che imporrà una nuova riflessione sul concetto stesso di essere umano. Si tratta di un cambio di paradigma sul piano ontologico, per cui le tecnologie non verranno più considerate come agenti esogeni né meri strumenti utilizzati dall’uomo a suo uso e piacimento: al contrario queste si interconnetteranno e influenzeranno le nostre esistenze, «a volte in modo subdolo a volte in maniera palese».


  In questa nuova fase dell’era della nostra società, il confine tra il mondo fisico e quello digitale diventa intangibile. L’obiettivo è accrescere le capacità dell’uomo nel processo decisionale, rincorrendo il mito dell’uomo “aumentato”, ossia con capacità fisiche, intellettuali e creative superiori a quelle di cui la natura lo ha dotato[45].


  L’intelligenza artificiale viene riconosciuta come uno strumento prezioso messo a servizio della collettività, al fine di creare macchine con capacità di ragionamento sempre più simili a quelle dell’essere umano. Un ruolo centrale è giocato dalla velocità di connessione, con l’introduzione della quinta generazione di connettività internet, il cosiddetto 5G, più veloce e stabile, avviato nel 2019 e al quale il mercato sta lavorando alacremente.


  Per mezzo della tecnologia digitale e allo scambio di dati e informazioni con il cosiddetto internet delle cose tutti gli oggetti saranno collegati tra loro, in una logica di connessione perenne alla rete. Le auto senza conducente, che già rappresentano una realtà, potrebbero diventare la nuova normalità, così come la telemedicina, che con le norme anti-Covid sta avendo grande impulso, e persino lavori come il giornalismo potrebbero venire sostituiti da macchine più performanti.


  Poiché di industriale nel senso comune del termine questa onda rivoluzionaria ha ben pochi connotati, aggiungiamo per completezza il suffisso post.


  È difficile in questa sede prevedere con precisione lo scenario futuro, occorrerebbe una conoscenza immensa e specialistica dell’attuale panorama tecnologico, complesso e in rapidissima evoluzione. Possiamo però comprendere e assumere consapevolezza della direzione in cui stiamo andando.


  E la terza rivoluzione industriale?


  Iniziata alla fine del diciottesimo secolo, la Prima Rivoluzione Industriale attraverso l’utilizzo del vapore ha portato alla creazione della nuova industria tessile e degli stabilimenti meccanizzati: i lavori che prima venivano eseguiti nelle case dei singoli tessitori furono raggruppati in un singolo impianto, portando alla nascita del moderno concetto di fabbrica.


  Più di un secolo dopo, agli inizi del Novecento, grazie all’energia elettrica arrivò la Seconda rivoluzione industriale; Henry Ford perfezionò la catena di montaggio per le sue automobili, aprendo la strada alla produzione di massa.


  Entrambe cambiarono radicalmente la vita di centinaia di milioni di persone in poco tempo, favorendo l’urbanizzazione e condizioni di vita migliori.


  Se sulla data di inizio delle prime due Rivoluzione esiste un certo consenso nella letteratura, riguardo alla Terza e alla sua collocazione storica esistono posizioni divergenti. Il suo avvento è segnato dalla forte spinta all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione dei metodi produttivi nei Paesi sviluppati occidentali del Primo mondo a partire dal secondo Dopoguerra. Mentre la fabbrica del passato prevedeva la produzione di un’enorme quantità di beni in serie, tutti uguali tra loro, le nuove tecnologie hanno portato alla produzione di oggetti personalizzati in grado di soddisfare le richieste dei singoli acquirenti.


  In un’edizione dell’aprile del 2012, sulla copertina dell’«Economist» veniva rappresentato un uomo seduto a una scrivania, intento a lavorare con tastiera e mouse, collegati non a un computer, ma a un intero stabilimento industriale in miniatura, dal quale uscivano automobili, aeroplani e utensili. L’immagine era una rappresentazione della Terza Rivoluzione Industriale in atto. Veniva elogiato l’utilizzo di nuovi materiali, più leggeri, resistenti e duraturi, come la fibra di carbonio, l’adozione delle nanotecnologie e altri sistemi capaci di sfruttare la genetica per creare molecole o microrganismi per aumentare l’autonomia delle batterie. Per le fabbriche si auspicava l’avvento di stabilimenti silenziosi, automatizzati e con maggiore capacità produttiva, catene di montaggio in cui non sarebbero più serviti operai dediti a lavori routinari. Una rivoluzione in sostanza basata su tre cardini, la digitalizzazione delle tecnologie, una produzione snella capace di minimizzare gli sprechi (lean manufacturing) e la fabbrica automatica integrata. Sebbene pubblicato meno di dieci anni fa, questo articolo ci appare oggi come qualcosa di superato, proiettati come siamo alla sfera della robotizzazione dei servizi piuttosto che della produzione e alla compenetrazione tra mondo digitale e reale nelle nostre case più che nelle fabbriche.


  Tra i più celebri studiosi e fautori della Terza Rivoluzione industriale c’è senza dubbio Jeremy Rifkin, personaggio di riferimento della Green economy e autore di numerosi bestseller. Nel 2011 ha pubblicato “La terza rivoluzione industriale: come il potere laterale sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo” (Mondadori), dove dichiara la fine dell’era del carbonio e il passaggio alle risorse rinnovabili, in seguito all’esaurimento dei principali combustibili fossili e del petrolio e alle ormai obsolete tecnologie da essa alimentate. Supportata dall’impiego di un’internet delle energie, la Terza Rivoluzione Industriale consisterebbe in una nuova Era energetica, in cui ogni cittadino, da casa, dall’ufficio o da qualsiasi altro edificio potrà produrre energia da utilizzare in proprio o da condividere nel sistema cui è collegato tutto il mondo. Prendendo a riferimento il modello di internet, il futuro del sistema energetico sarà distributivo e collaborativo, al contrario dell’attuale, centralizzato e gerarchico. Questo concetto di Terza Rivoluzione si fonda sostanzialmente su cinque pilastri: il passaggio alle energie rinnovabili, la conversione degli edifici in centrali produttive, l’utilizzo dell’idrogeno e di altre tecnologie per immagazzinare energia, l’adozione di tecnologia smart grid[46] – o rete intelligente – e il passaggio a mezzi di trasporto non più alimentati da combustibili fossili.


  Si tratta di fatto di una rivoluzione ecologica, in cui attraverso il processo di digitalizzazione si crea un super sistema, nel quale confluiscono l’Internet della Comunicazione digitalizzata, l’Internet dell’Energia e l’Internet dei Trasporti e della Logistica. Per portarla a maturazione occorre gestire la confluenza di tali processi, adottando nuove forme di impresa, più collaborative e reticolari e preparando poi la strada per la Quarta che, secondo Rifkin «non si verificherà in modo brusco ma avverrà, invece, nell’arco di trenta o quarant’anni». Egli ritiene, infatti, che questa fase sia appena iniziata e debba ancora mostrare pienamente tutte le sue potenzialità, mentre le novità che caratterizzerebbero la successiva rivoluzione sarebbero già in atto da qualche decennio ma devono ancora sostenere le tappe che porteranno alla completa trasformazione dello scenario produttivo. In effetti, se guardiamo allo stato attuale delle imprese, almeno quelle di medie dimensioni, notiamo come l’analisi di Rifkin risulti realistica.


  Di parere decisamente discordante è il fondatore del Forum di Davos, per il quale «ci sono tre ragioni per le quali le trasformazioni odierne rappresentano non solo un prolungamento della Terza Rivoluzione Industriale ma piuttosto l’arrivo di una Quarta e distinta rivoluzione: velocità, portata e impatto sui sistemi. La velocità delle scoperte attuali non ha precedenti storici. Se confrontata con le precedenti rivoluzioni industriali, la Quarta si sta evolvendo a un ritmo esponenziale piuttosto che lineare. Inoltre, sta sconvolgendo quasi tutti i settori in ogni paese. E l’ampiezza e la profondità di questi cambiamenti annunciano la trasformazione di interi sistemi di produzione, gestione e governance».


  Sulle fondamenta della Terza Rivoluzione Industriale, saremmo già nel pieno della Quarta, che introduce il cosiddetto cibersistema (cyber physical system), cioè un intreccio stretto di nuove tecnologie dove si integrano e interagiscono le sfere fisiche, digitali e biologiche. A rafforzare questa nuova classificazione ha contribuito l’iniziativa tedesca, che nel 2011 ha lanciato il programma Industrie 4.0, codificando il numero quattro come simbolo della fase industriale in atto.


  Non sappiamo se sia più veritiera la posizione dell’ingegnere-economista tedesco o dell’attivista statunitense contro il cambiamento climatico, ma ciò che emerge è che se le grandi rivoluzioni economiche del passato sembravano rispettare una cadenza centenaria, permettendo alla società e all’essere umano di adeguarsi al nuovo habitat, il mondo di oggi ha cambiato marcia. Siamo di fronte a un nuovo sovvertimento del modello organizzativo e valoriale della società, mentre cercavamo ancora una fase di assestamento. La nuova onda rivoluzionaria, grazie alla crisi del Covid e all’introduzione del distanziamento sociale perpetuo, ha avuto quella carica propulsiva necessaria per la sua esplosione.


  Come ha affermato con toni entusiastici Satya Nadella: «Abbiamo assistito a due anni di trasformazione digitale in due mesi». Obbligati a stare in casa, i lavoratori hanno fatto ricorso allo smart working (o meglio sarebbe chiamarlo home working), le riunioni attraverso piattaforme virtuali sono divenute la nuova modalità di interazione, bambini e ragazzi sono passati dalla didattica in aula a quella a distanza e i consumatori hanno abbandonato gli acquisti nei negozi fisici a favore di quelli on line, con la sola eccezione per i beni di prima necessità.


  Così è successo che piattaforme come Zoom, Microsoft Teams, Google Classroom e il sito polifunzionale cinese Tencent sono diventati il luogo di incontro di milioni di persone, offrendo un’anticipazione di quella che sarà la tanto preannunciata “nuova normalità”.


  


  Poco smart molto home


  Grazie al lockdown e all’emergenza ingenerata dal Covid è stato definitivamente sdoganato lo smart working, da tanto tempo decantato e sempre difficile da introdurre; anche se in realtà sarebbe più corretto chiamarlo home working, dato che l’abitazione privata si è trasformata in ufficio. Si tratta di una soluzione sotto molti punti di vista ottimizzante, che permette al lavoratore di guadagnare tempo morto negli spostamenti, da poter dedicare ai propri hobby e alla famiglia, e al datore di lavoro di risparmiare sui costi dell’immobile, sul pagamento degli straordinari e sulle utenze. Altri benefici tangibili consistono poi nella riduzione del traffico urbano, la scelta di poter vivere fuori città o di tornare nel proprio paese di origine, con un considerevole risparmio economico e un aumento percepito della qualità della vita per molti lavoratori.


  Una modalità apparentemente ottimale di lavoro, vantaggiosa per l’ambiente e per la vita familiare, ma che a ben guardare nasconde numerosi rischi per il sistema economico, da quello sempre più imminente di una grande bolla immobiliare, dovuta allo spopolamento delle aree urbane, che potrebbe travolgere un’economia fortemente debilitata, all’ingente perdita di fatturato, con conseguenti licenziamenti e chiusure, nel settore della ristorazione legato agli uffici.


  Tutti i maggiori gruppi bancari hanno promosso piani di smart working prolungati fino, almeno, a metà del 2021 (sul futuro non è ancora dato sapere). Twitter, azienda icona dell’innovazione, è stata una delle prime a offrire ai dipendenti che vogliano proseguire lo smart working la possibilità di farlo e allo stesso modo tutte le grandi aziende digitali, da Facebook a Google, hanno lasciato gli uffici vuoti. Addirittura in alcuni casi, come Pinterest a San Francisco, si è preferito pagare penali molto elevate, fino a 90 milioni di multa, pur di cancellare contratti di affitto appena stipulati. A pagarne le spese ovviamente sono tutti quei centri urbani prosperati grazie al mondo degli uffici, di cui New York e San Francisco rappresentano l’emblema in Usa, come Milano e Roma in Italia. Il lavoro d’ufficio alimenta un vastissimo indotto, dalla ristorazione ai negozi di vario genere che godono della vicinanza ai centri di lavoro, all’abbigliamento, che in un mondo di monadi che vivono isolate diventa secondario. Chi non va in ufficio non compra e risparmia, oppure compra on line a discapito dei negozi fisici.


  Per non parlare del settore del business travel, dei viaggi di lavoro, legato a conferenze, riunioni, eventi fieristici, ecc.: l’indotto ha dimensioni e reti davvero ingenti.


  Ma non solo. Se per le aziende, che hanno mostrato grande entusiasmo per questa nuova modalità di lavoro, i benefici sono sostanziali, dal risparmio degli affitti, dell’elettricità, della manutenzione, delle infrastrutture informatiche, delle spese per le pulizie e tutta una serie di altre voci di costo, per quanto riguarda invece il lavoratore, occorre fare meglio i conti.


  A fronte di un evidente risparmio sui trasporti, bisogna valutare le maggiori spese legate ai consumi di elettricità, acqua, riscaldamento, aria condizionata e utenze varie. Inoltre, poiché in molti casi le aziende, soprattutto quelle piccole, non provvedono a fornire gli strumenti necessari per operare da remoto, sarà onere del lavoratore dotarsi di tutto il necessario, compresa una postazione adeguata, che risponda a criteri ergonomici e non crei danni legati alla postura scorretta e prolungata. Così come sarà suo compito occuparsi di aspetti professionali che in ufficio sono affidati a personale apposito, dalla manutenzione del personal computer ai problemi di rete, nonché provvedere alla pulizia del proprio ambiente di lavoro. Molte famiglie poi non dispongono degli spazi abitativi e degli strumenti necessari, spesso da dividere con i figli che esercitano la didattica a distanza. Proprio in considerazione di tali fattori, alcuni Paesi, tra cui Olanda, Germania e Regno Unito, stanno valutando di incrementare anziché abbassare la retribuzione di chi lavora da remoto.


  Se in un’ottica meramente economica diventa necessario operare una riorganizzazione e riprogrammazione del lavoro, sul piano umano la rottura introdotta dallo smart working è ancora più insanabile.


  Può l’uomo, animale sociale per antonomasia, rinunciare alle relazioni lavorative (anche se non sempre idilliache, per una serie di fattori, spesso di natura organizzativa e mala gestione dirigenziale) che lo inseriscono in una rete, una comunità con più attori? Cosa ne è del confronto e della proliferazione di nuove idee? Chi vive in situazioni di totale solitudine, sarà privato dell’unico contatto umano?


  La risposta a questi interrogativi dipende da quanto la crisi, reale e percepita, durerà ancora.


  Da un punto di vista della prestazione lavorativa la situazione è disomogenea e non generalizzabile. Da una parte molti lavoratori si trovano a svolgere un carico di attività superiore, senza gli inevitabili e naturali “tempi morti” delle pause e dell’interazione tra colleghi. Lavorare da casa significa dedicarsi unicamente alla propria attività, senza delineare più un confine tra vita privata e lavorativa, mentre la propria abitazione si trasforma in ufficio permanente.


  D’altra parte non possiamo negare l’esistenza di quelli che il sociologo David Graeber ha chiamato bullshit job, lavori inutili, privi di senso, non finalizzati alla produzione ma fini a se stessi e che trasmettono un senso d’inutilità, più o meno consapevole, nella persona che li svolge. Non solo alcuni tra i famigerati dipendenti della pubblica amministrazione, ma anche consulenti per le risorse umane, coordinatori delle comunicazioni, avvocati societari e, in generale, tutte quelle attività che richiedono una presenza di rappresentanza[47]. Una sorta di vergogna del sistema capitalistico, che si è sempre cercato di sottacere, consapevoli del fatto che intervenire su tali inefficienze e contraddizioni comporterebbe la perdita di posti di lavoro, oltre alla non meno disdicevole presa di coscienza da parte di alcuni dell’inutilità della propria attività. Ora, ai tempi dello smart working, in cui la presenza fisica sul luogo di lavoro non è più richiesta, molti di questi lavori inutili da un punto di vista strettamente produttivo, ma comunque fonti di reddito e di sostentamento per chi li svolge, verranno a galla, e non si esclude la loro soppressione.


  D’altro canto, non sono pochi i casi in cui, senza il controllo del tempo da parte del datore di lavoro, la produttività diventa difficile da calcolare o perde addirittura di senso. Il lavoratore acquisisce il controllo del proprio tempo e, disponendo dei mezzi di produzione a casa, sarà proiettato sempre più come un imprenditore anziché un comune dipendente e cercherà di massimizzare il proprio profitto.


  In un certo senso con lo smart working il datore di lavoro, almeno per i lavori che possono essere svolti da remoto o con strumenti propri, perde il totale controllo dei mezzi di produzione e in quest’ottica potrebbe generare una potenziale rottura col sistema capitalista odierno.


  In realtà si tratta di un’emancipazione illusoria, che amplifica il processo di precarizzazione e atomizzazione del lavoro. Ogni individuo ambisce a trasformarsi in imprenditore di se stesso, secondo la mai consunta retorica del self made man, ma con l’attuale situazione di incertezza e crisi permanente della domanda, le prospettive di successo imprenditoriale si rivelano davvero scarse, la concorrenza e l’innovazione dal basso sono soffocate dai monopoli settoriali delle multinazionali.


  


  Gig economy, l’economia dei lavoretti


  Il fenomeno appena descritto rappresenta il nuovo volto del capitalismo, la gig economy, la cosiddetta economia dei lavoretti, quei lavori occasionali e a chiamata offerti dalle piattaforme digitali. Un esempio su tutti è quello della consegna del cibo a domicilio, tramite i servizi di delivery, che rappresenta un enorme business in incessante crescita. Ai tempi del lockdown e del coprifuoco, le nostre città deserte di sera pullulano di riders che sfrecciano in tutte le direzioni.


  Ma non solo, il lavoro a chiamata riguarda molte altre attività, come quella grafica, di sviluppo web, data entry, ecc. Se una volta venivano considerati lavoretti per arrotondare, oggi rappresentano sempre più una fonte di sostentamento primaria per molti lavoratori, messi in concorrenza perpetua tra loro, valutati in base ai feedback degli utenti e al rating conquistato. La gig economy diffonde un approccio al lavoro e uno stile di vita assolutamente conformi e funzionali allo spirito della nuova Rivoluzione Industriale. Nata con la digitalizzazione, si è diffusa capillarmente con la crisi del 2008, spingendo sempre più persone a cercare opportunità occupazionali offerte da siti, app e piattaforme web, quale completamento del processo precarizzazione e atomizzazione del lavoro già avviata negli anni Settanta con il tramonto del keynesismo e l’affermarsi del neoliberismo.


  Flessibili nel modo più assoluto, oltre il concetto di precariato, i gig workers mettono la loro vita in servizio permanente, rincorrendo il mito sempreverde dell’uomo imprenditore di se stesso, liberi di lavorare quando vogliono, sebbene a cottimo.


  La rete diventa la Grande Fabbrica e le piattaforme digitali i nuovi mezzi di produzione che, sotto la maschera dell’auto-imprenditorialità, nascondono l’ulteriore sfruttamento del lavoratore. Il datore di lavoro diventa la piattaforma, la cui proprietà però non è del lavoratore né della collettività, ma appartiene a un padrone invisibile, che trae profitto da migliaia, milioni di individui che gravitano intorno a un algoritmo, con l’illusione di essere indipendenti. A differenza dell’alienazione marxiana del lavoro proletario, il capitale e chi lo detiene sono divenuti invisibili, manca ogni legame e coscienza di classe, sentendo anzi il lavoratore di appartenere alla stessa categoria del proprietario della fabbrica. Quello attuale è un esercito di lavoratori schiavi degli algoritmi a loro insaputa.


  


  Desertificazione commerciale e disuguaglianza


  Secondo la fotografia scattata da Confesercenti a inizio dell’autunno 2020, in Italia 90mila imprese tra hotel, bed and breakfast, negozi, bar, ristoranti hanno chiuso i battenti, mentre 600mila risultavano a rischio se la situazione nei prossimi mesi si fosse aggravata, come di fatto è avvenuto. Mezzo milione di imprese si dichiaravano già pronte a tagliare posti di lavoro, a tempo indeterminato e non.


  Nonostante gli aiuti introdotti dallo Stato, alla fine dell’anno le famiglie si troveranno a perdere una media di 1.257 euro, anche se non tutte le tipologie di lavoratori sono colpite allo stesso modo: a soffrire maggiormente sono i redditi da lavoro autonomo e dei dipendenti privati, che registrano flessioni rispettivamente del 13% (-40 miliardi) e dell’11% (-62 miliardi), per una perdita totale di oltre 100 miliardi di euro.


  Di fronte all’instabilità e alla preoccupazione per il futuro, gli italiani hanno risposto con la nota indole della formichina, con un aumento della prudenza e del risparmio anche da parte di chi ha mantenuto inalterati i propri redditi, generando effetti devastanti sul fronte della domanda.


  Già a partire dalla crisi economica del 2008 e dalla diffusione dell’e-commerce, la chiusura degli esercenti rappresentava una tendenza consolidata, mentre gli acquisti in rete, che oggi hanno avuto la definitiva consacrazione con le restrizioni, in soli dieci anni sono raddoppiati. Negli ultimi anni a registrare la maggiore crescita era stato il settore della ristorazione, su cui hanno investito molti giovani, oggi messo in ginocchio dalle misure anti contagio.


  Le nuove abitudini di vita indotte non fanno altro che dare un’ulteriore accelerazione a un processo già avviato: la sempre maggiore difficoltà delle piccole imprese a resistere alla concorrenza dei colossi. D’altronde la demonizzazione delle dimensioni ridotte e il mito del gigantismo in ambito economico non sono una novità, le aziende di piccole dimensioni rappresentano da sempre un nemico, o meglio un fallimento, per l’ideologia neoliberista. L’Italia è il Paese che fino a oggi aveva più resistito al processo di omologazione industriale, che vede le grandi catene e le multinazionali protagoniste indiscusse del mercato, conservando il suo tessuto di piccole e medie imprese, spesso a conduzione familiare. Secondo i dati del 2019 le Pmi[48] italiane rappresentano il 92% delle imprese attive sul territorio e impiegano l’82% dei lavoratori, con un fatturato complessivo di 2mila miliardi di euro. Un universo variegato, dove troviamo eccellenze nazionali, frutto di tradizione ed esperienza tramandate tra le generazioni e invidiate in tutto il mondo. Queste realtà vengono da tempo tacciate di “nanismo” e la loro entità viene considerata il principale ostacolo a un aumento della produttività e dell’innovazione nella nostra economia. È un vecchio tormentone quando si parla di arretratezza del sistema industriale italiano, tanto che al suo discorso di insediamento l’ex presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, senza mezzi termini, affermava: «piccolo non è bello». La dimensione ridotta è considerata accettabile solo nella fase iniziale della vita di un’impresa, la cosiddetta fase di start up, dopodiché dovrà inseguire il modello di crescita e sviluppo delle grandi imprese. Già, perché «l’industria del futuro richiede dimensioni adeguate», continuava, e «crescere deve diventare la nostra ossessione».


  In quest’ottica possiamo comprendere meglio la scarsa attenzione rivolta al settore della ristorazione e del commercio da parte dei governi nazionali, non solo il nostro. Mentre il coronavirus piega l’economia reale e i giganti dell’e-commerce fagocitano definitivamente il settore della vendita al dettaglio, l’universo sul quale è stato costruito il nostro modello di sviluppo sta velocemente estinguendosi.


  Se commercianti e liberi professionisti hanno riportato perdite irrecuperabili alle proprie attività, alcune delle quali non riusciranno più a riaprire, ci sono loro, i grandi vincitori economici di questa crisi, colossi del web la cui capitalizzazione raggiunge cifre pari a quelle dei Pil di interi Stati. A riportare maggiori utili sono stati, in ordine, oltre al solito Amazon (che per ora continua a tener testa al minaccioso concorrente cinese AliBaba), Microsoft, che in un solo giorno ha visto triplicare gli utenti della sua app di videochiamate Teams, e Tesla, capitanata da Elon Musk, unico in verità tra i grandi magnati a opporsi al lockdown. Hanno registrato affari d’oro anche la piattaforma di comunicazione Zoom e la cinese Tencent, attiva nel comparto delle chat e dei giochi online, che durante il lockdown ha tenuto impegnati centinaia di milioni di giovani e non. A vincere, ancora una volta, è stata l’economia digitale a scapito di quella reale, i giganti a scapito dei piccoli, i più ricchi a scapito dei più poveri, con un ulteriore acuirsi di una già insostenibile disuguaglianza.


  Intanto, per sopravvivere, le aziende che hanno potuto hanno dirottato la produzione verso il nuovo fiorente business. Già, perché non siamo passati a un’economia ecologista e ascetica, ma abbiamo solo modificato i consumi. Molte imprese del tessile si sono riciclate nella produzione di mascherine e tute mediche, mentre la cosmetica ha virato verso i gel disinfettanti; e ancora, ventilatori polmonari, caschi, barriere in plexiglass, nuovi banchi scolastici... L’iperproduzione e il turboconsumismo dannosi per l’ambiente non si sono certo fermati, anzi, hanno persino registrato un’impennata, se pensiamo solo ai milioni, miliardi di mascherine monouso che vengono utilizzate ogni giorno e che stanno già invadendo i nostri mari.


  La Fiat Chrysler (FCA) ha stipulato un contratto di fornitura di ben 27 milioni di mascherine al giorno col governo italiano. Considerando che la società di Elkann guida anche Gedi, il gruppo editoriale che ha unito «La Stampa», «la Repubblica», «Il Secolo XIX», quotidiani locali, l’«Espresso» e diverse radio nazionali, è alquanto improbabile che sia super partes nella comunicazione e non avalli la narrazione catastrofista prevalente.


  


  L’economia che non si ferma


  Mentre milioni di persone in tutto il mondo hanno perso il lavoro e sono scivolate nella soglia di povertà, un ristretto gruppo di paperoni ha visto crescere le proprie già cospicue ricchezze.


  Come emerge da un rapporto della banca svizzera Ubs, da aprile a luglio 2020 gli ultra miliardari hanno aumentato il proprio reddito del 27,5%, portando la loro ricchezza a 10,2 trilioni di dollari, superando il precedente picco di 8,9 trilioni di dollari registrato a fine 2017. Anche il numero dei super ricchi è salito, raggiungendo il record di 2.189, rispetto ai 2.158 del 2017.


  A incrementare ulteriormente i loro patrimoni stellari ha inciso molto la scommessa sulla ripresa dei mercati azionari, che hanno toccato il loro punto più basso durante il lockdown di marzo e aprile per poi rimbalzare, compensando gran parte delle perdite. Come spiega al «The Guardian» Josef Stadler, manager di Ubs, i miliardari sono stati abili a trarre vantaggi dalla crisi: «non solo hanno cavalcato la tempesta al ribasso, ma hanno anche guadagnato sul rialzo».


  E proprio la banca svizzera Ubs ha visto salire il suo utile netto su base annua addirittura del 99%. L’apporto alla crescita è derivato principalmente dalla divisione investment banking, che ha registrato un aumento dell’utile ante imposte del 268% «grazie a un picco negli scambi sui mercati azionari che ha più che compensato il calo dell’attività di consulenza», come spiega in una nota. Il patrimonio di Jeff Bezos è passato da 113 miliardi di dollari a marzo 2019 a 180 miliardi di dollari. Anche la ricchezza personale di Bill Gates, fondatore di Microsoft e oggi filantropo impegnato in prima linea sulla gestione del Covid, è cresciuta, passando da 98 a 114 miliardi di dollari, così come quello di Mark Zuckerberg, che sale da 55 a 98 miliardi in poco più di un anno. Tendenza più che positiva anche per Warren Buffet, il cui patrimonio passa da 68 a 80 miliardi di dollari, per Larry Ellison, per Steve Ballmer e per Elon Musk, fondatore di Tesla.


  E in Cina? I super ricchi del Dragone hanno guadagnato 1.500 miliardi di dollari durante la pandemia. Secondo il rapporto Hurun, un istituto di ricerca con sede a Shanghai, famoso per la sua lista annuale di super miliardari, i paperoni cinesi negli ultimi cinque mesi hanno accumulato più ricchezza degli ultimi cinque anni messi insieme, grazie al boom dell’e-commerce e a quello dei giochi online. Ad agosto i cinesi entrati ex novo nel club dei super-ricchi sono stati 257 per un totale di 878 persone, pronti al sorpasso con gli Usa che a inizio dell’anno annoveravano nel club 626 membri. Jack Ma, il fondatore del colosso dell’e-commerce Alibaba, è ancora una volta in cima alla lista: la sua ricchezza è salita del 45% a 58,8 miliardi dollari, grazie ai mega-incassi che le aziende dello shopping online hanno fatto con il lockdown. Al secondo posto c’è Pony Ma (57,4 miliardi), capo del gigante del gioco online e proprietario di WeChat, il quale ha incrementato il suo patrimonio del 50%, nonostante le preoccupazioni per le prospettive statunitensi, dopo che la sua azienda è stata messa da Washington nella lista nera a causa dei timori per la sicurezza nazionale Usa. Wang Xing, fondatore dell’app di consegna del cibo Meituan, ha quadruplicato la sua ricchezza ed è balzato al tredicesimo posto nella lista con 25 miliardi di dollari, mentre Richard Liu, il fondatore della piattaforma di shopping online JD.com, ha raddoppiato i suoi soldi attestandosi a 23,5 miliardi di dollari. Anche gli imprenditori sanitari sono saliti in classifica sulla scia della pandemia, con Jiang Rensheng, fondatore della casa farmaceutica produttrice di vaccini Zhifei, che ha triplicato il suo patrimonio a 19,9 miliardi di dollari.


  Secondo il capo ricercatore del rapporto Hurun «il mondo non ha mai visto tanta ricchezza creata in un solo anno».


  L’aumento costante della concentrazione di redditi e della disuguaglianza è una tendenza in atto da tempo, caratteristica del sistema neoliberista. A partire dal 2010 fino allo scorso anno, infatti, la ricchezza privata è cresciuta complessivamente del 6,2%, con un'accelerazione rispetto alla crescita del 4,5% che si era registrata dal 2000 al 2009[49]. Nel 2019 le persone più ricche del mondo avevano registrato una crescita del proprio patrimonio personale del 9,6% rispetto all’anno precedente, fino a raggiungere i 226mila miliardi di dollari. Si tratta dell’aumento dei redditi personali più significativo da un decennio a questa parte. Secondo gli esperti della UBS, la concentrazione della ricchezza oggi è di nuovo ai livelli del 1905, quando negli Stati Uniti famiglie come Carnegie, Rockefeller e Vanderbilt controllavano vastissime fortune. Al tempo a dominare erano petrolio e acciaio, oggi c’è l’industria del digitale e della farmaceutica.


  Non fa eccezione l’Italia, nono Paese al mondo per patrimoni finanziari, dove le 400mila persone più ricche possiedono 5mila miliardi di euro e non sembrano temere gli effetti del lockdown, anche se la peculiarità del nostro tessuto industriale, come abbiamo visto, espone a una maggiore vulnerabilità.


  I massicci interventi di governi e banche centrali hanno sostenuto i valori degli asset finanziari, che per la quasi totalità sono proprio in mano alle persone più abbienti: la crisi sembra aver finito per avvantaggiare ulteriormente i big della Terra.


  Già nel 2018, in un’intervista su «Il Sole 24 ore», il Premio Nobel per l’economia Michael Spence alla richiesta di un parere sulle tanto demonizzate questioni che secondo il mainstream sarebbero alla base della deriva socioeconomica, ossia le pulsioni antiscientifiche, le barriere commerciali, i sovranismi, ecc. risponde che, pur trattandosi di fattori senza dubbio pericolosi, «c’è un modo leggermente diverso di guardare a tutto questo: il mondo andava riconfigurato, c’era bisogno di fare dei passi indietro perché eravamo su un sentiero che per la gente non funzionava. Ciò a cui stiamo assistendo è questa ritirata. È disordinata, certo. Potrebbe costarci la Wto. L’Eurozona potrebbe uscirne trasformata. Un altro modo di guardare a questa sorta di deglobalizzazione è che non è il caso di essere troppo pessimisti. Stiamo riportando in equilibrio un grande sistema. Non perché qualcuno abbia necessariamente commesso degli errori imperdonabili, ma perché nel frattempo abbiamo imparato un sacco di cose».


  Ancora una volta ritroviamo confermata la teoria del Grande Reset, di una trasformazione totale che porterebbe a una palingenesi dell’umanità, partorita dalla mente di chi si sente insignito di una visione illuminata del bene del mondo.


  Di fatto con la crisi del Covid si sta assistendo realmente a una sostanziale deglobalizzazione nel settore del commercio internazionale, che mostra chiari segnali di rallentamento. La pandemia ha rafforzato la tendenza discendente del commercio, che stava già scontando un notevole arretramento in conseguenza della crisi del 2008.


  Per contro, come conferma un paper pubblicato dall’autorevole centro di ricerca economica NBER, non si intravede alcuna frenata per l’altra faccia della globalizzazione, quella finanziaria, che, pur rappresentando la controparte dello sviluppo del commercio internazionale, visto che a un movimento di merci corrisponde necessariamente un movimento di denaro, vive e prospera di vita propria.


  Le crisi possono sicuramente cambiare le rotte lungo le quali viaggiano i capitali, ma non smettono di farli circolare, alimentati dalla montagna di debiti e crediti di cui è composto il mercato finanziario internazionale.


  In futuro potremo assistere a una riduzione delle merci – da valutare meglio nel medio periodo, considerando il nuovo consumismo da dispositivi sanitari – ma di certo non a quella dei capitali.


  


  Il consumismo ai tempi del Covid


  Con buona pace dei decrescisti e degli ecologisti più radicali l’eccesso di consumo, increscioso male del capitalismo e frutto della cultura di massa, non si è fermato neanche durante l’era Covid, fatta di lockdown yo-yo e coprifuochi. Pilastro portante dell’economia moderna, il consumismo si basa sulla continua creazione e soddisfazione di bisogni indotti, sfruttando la conoscenza della psicologia umana per trasformare in desideri materiali gli impulsi inconsci[50]. Il mercato è in grado di intercettare e reificare le emozioni del consumatore, che nell’era Covid coincidono con paura e angoscia. Esempio plastico è l’aumento degli psicofarmaci per lenire ansia e depressione, disturbi indotti da un’infodemia che non ha lasciato immune nessuno. A marzo, il mese in cui è iniziato il lockdown, le vendite di tranquillanti in farmacia sono cresciute del 17% rispetto al marzo del 2019, quelle degli antidepressivi e degli stabilizzatori dell’umore sono salite del 13,8%, analogo incremento per gli ipnotici e i sedativi, persino l’acquisto di antipsicotici è incrementato del 10% sull’anno precedente[51]. Ma non solo, lo stesso mercato dell’informazione, che in questi mesi ha dato una priorità assoluta al tema della pandemia, diventando di fatto monotematico – al punto da rendere difficile liberarsi da ansia e angoscia per chi voglia mantenere un approccio più equilibrato e razionale – ha riscontrato benefici. A novembre John Elkann ha dichiarato che il Gruppo Gedi ha raddoppiato in un anno gli abbonamenti digitali, con utenti sempre più dipendenti dalla concitazione per i nuovi casi di contagi e per le dichiarazioni dei virologi, che di fatto non hanno indicato nessuna cura oltre all’isolamento. La produzione delle mascherine monouso obbligatorie, di cui la stessa FCA degli Elkann è produttrice, ha raggiunto livelli esorbitanti e creato un mercato sconfinato, di cui presto l’ambiente ci chiederà il conto.


  A New York è nato il primo negozio dedicato interamente al Covid, CV19Essentiale. Si trova nel quartiere Midtown Manhattan e vende qualsiasi prodotto possa avere una funzione di profilassi e asepsi: mascherine, disinfettanti, termometri, termoscanner, purificatori d’aria, ossigeno, sterilizzatori per smartphone e persino lampade che uccidono i germi, vitamine, termal screening ultra professionali, wc anti-Covid e quanto altro si possa immaginare. Nonostante i prezzi non proprio abbordabili è molto frequentato, come lo è il sito web. Dai 68 dollari per lo sterilizzatore per smartphone, ai 118 per il purificatore d’aria portatile, si possono acquistare lampade ammazzagermi a 150 dollari fino a spendere 400 dollari per un sistema automatico e touchless di ricambio pellicola copri water.


  Brian Solis, considerato uno dei massimi opinionisti ed esperti mondiali di new media, antropologo digitale “evangelista” dell’innovazione globale presso Salesforce, multinazionale attiva nelle tecnologie della Quarta Rivoluzione industriale, ha rivelato come la dichiarata pandemia avrebbe dato vita a una nuova tipologia di consumatori, di grande interesse per il marketing e l’industria di produzione, ribattezzata generazione Novel, o N. Si tratta di un segmento di clienti emergente, che acquista on line ed è galvanizzato dagli effetti del Covid, emotivamente stressato, guidato dalla paura, dall’ansia e dalla preoccupazione. Le aziende dovranno concentrarsi sulla generazione N, per intercettare in che modo l’uso crescente e accelerato della tecnologia da parte dei consumatori influisca sulle loro preferenze, sui loro comportamenti e sulla routine. Queste intuizioni saranno fondamentali per guidare il brand, il prodotto e le strategie di mercato a essere più tempestive, pertinenti ed empatiche.


  L’analisi dei dati dimostra che sono nati nuovi comportamenti tra gli utenti che prima del Covid si erano mostrati lenti o restii ad adottare il digitale in tutti gli aspetti della vita. Allo stesso tempo, i nativi digitali e gli “early adopter” si sono trovati ben preparati a vivere, lavorare, apprendere e fare acquisti da remoto durante le chiusure. Prima della pandemia le tendenze del web mobile e dei social stavano plasmando un nuovo segmento di clienti, in continua crescita e sempre attivo, “Generazione C (Connesso)”, al centro dell’innovazione e del marketing da parte delle aziende digitali negli ultimi dieci anni. Ora assistiamo alla sua trasformazione in una fase evoluta del consumismo, la Generazione N, un cluster in via di sviluppo composto da quei clienti che erano precedentemente iperconnessi e da quelli che ora stanno rapidamente diventando digitalizzati.


  La nuova frontiera del marketing, la psicografica, permette a un’azienda, e in generale a una qualsiasi organizzazione guidata dai dati, di influenzare il momento decisionale del consumatore, superando la tradizionale classificazione dei cluster dei consumatori per provenienza, razza, età e focalizzandosi sulle caratteristiche cognitive, psicologiche ed emozionali.


  Con l’attenzione dei media tutta rivolta al numero delle vittime, ai tassi di infezione, alla chiusura di attività e alla disoccupazione, la generazione N è contrassegnata da un potente marker emotivo, fatto di paura per la propria salute, per quella degli altri e per le conseguenze sull’economia e sul proprio lavoro. Si tratta di individui che pensano, sentono e prendono decisioni in modo diverso, ma che sommati insieme rappresentano un consumatore connesso, le cui decisioni sono guidate da fattori di stress, sentimenti e conseguenze di una pandemia globale. Data la natura prolungata delle restrizioni e dell’isolamento, le abitudini e i valori dei consumatori non solo si stanno formando, ma è anche probabile che si mantengano: studi di marketing hanno dimostrato che, in media, occorrono 66 giorni perché i nuovi comportamenti diventino automatici.


  L’analisi delle tendenze odierne è in grado di definire come sarà la prossima normalità. Il coinvolgimento senza contatto è il nuovo standard per il coinvolgimento.


  Da metà marzo, la società di consulenza McKinsey ha condotto sondaggi sui consumatori in tutto il mondo per comprendere l’impatto di Covid-19 sul sentimento dei consumatori e sul comportamento dichiarato[52].


  In Italia i consumatori sono preoccupati per l’impatto economico della pandemia e per quanto durerà la situazione, stanno diventando più consapevoli nelle loro spese e cercano modi per risparmiare. In linea con altri Paesi, eccetto la Cina il cui livello di partenza era già molto elevato, il 30% dei consumatori passerà al consumo on line anche dopo la pandemia. Nella media degli altri Paesi europei, non sono ottimisti che possa esserci una rapida ripresa economica, credono che le abitudini di vita cambieranno ancora per lungo tempo, ma l’impatto sarà meno negativo per le finanze personali. Si assisterà a una crescente penetrazione della modalità di acquisto e fruizione tramite internet anche dopo il Covid (peraltro da sempre più fronti arrivano previsioni di ripetuti scenari pandemici quasi come nuova normalità) con una significativa fetta della popolazione che acquisterà quasi esclusivamente on line. Circa il 70% dei consumatori italiani ha cambiato abitudini di acquisto, in termini di differenti marchi, negozi e modalità e la maggior parte intende mantenerle. È stata fatta poi un’accurata mappatura dei comportamenti online più incentivati dalla crisi e quanto è possibile che essi verranno mantenuti anche dopo. Tra questi spiccano come emergenti e destinati a radicarsi l’esercizio fisico attraverso app e tutorial in rete, nato per sopperire alla chiusura delle palestre e dei centri sportivi, ma anche la telemedicina (che come abbiamo visto riceverà un forte impulso dall’intelligenza artificiale) sia fisica che mentale ha un potenziale di attecchimento molto alto in Italia, più che in altri Paesi, così come l’apprendimento da remoto per adulti. Bassa rimane invece la disponibilità degli italiani ad accettare per il futuro la didattica a distanza per i propri figli e verso le videoconferenze di lavoro che oggi sostituiscono quelle in presenza. È interessante notare come questa mappatura abbia prodotto risultati molto diversi tra di loro all’interno della stessa Europa, dove a Paesi come l’Italia e la Francia, dichiaratamente contrari a proseguire la didattica a distanza per i propri figli, corrispondano altri molto più inclini ad adottare tale tendenza per il futuro, come la Germania e l’Inghilterra.


  In generale, a essere sdoganata per l’avvenire, è senz’altro l’attività fisica da casa, con l’abitazione privata che rischia di diventare sempre di più luogo di svolgimento di ogni attività umana, da quella lavorativa a quella ricreativa, a detrimento della socializzazione e della convivialità. Spopolano anche gli sport influencer dopo l’era dei fashion blogger, oggi un po’ in affanno dal momento in cui è quasi annullata la socialità, ma la selfiemania non muore di certo e anche la vita virtuale in cui l’individuo è sostituito dall’avatar di se stesso ha bisogno dei suoi gadget distintivi.


  


  Una visione ordoliberista


  Nella visione del fondatore del Forum di Davos, il futuro dell’umanità si prospetta luminoso: «Come le rivoluzioni che l’hanno preceduta, la Quarta Rivoluzione Industriale ha il potenziale per aumentare i livelli di reddito globale e migliorare la qualità della vita per le popolazioni di tutto il mondo». Elenca una serie di benefici finora realmente raggiunti: «A oggi, coloro che ne hanno tratto il massimo vantaggio sono stati i consumatori in grado di permettersi di accedere al mondo digitale; la tecnologia ha reso possibili nuovi prodotti e servizi che aumentano l’efficienza e il piacere della nostra vita personale. Ordinare un taxi, prenotare un volo, acquistare un prodotto, effettuare un pagamento, ascoltare musica, guardare un film o giocare: ora è possibile eseguire tutte queste operazioni da remoto». In effetti, la diffusione di internet e lo sviluppo delle piattaforme digitali ha consentito a tutti una maggiore facilità di accesso al consumo e alla fruizione diffusa di beni una volta considerati di lusso, ora accessibili anche ai più indigenti, grazie a un combinato di fattori, come la riduzione dei costi della manodopera, della qualità dei prodotti e della finanziarizzazione delle nostre vite. Temi ben noti ai lettori, su cui mi sono soffermata nei saggi precedenti e che perciò in questo nuovo discorso daremo per scontati.


  «Allo stesso tempo» ammette Schwab «come hanno sottolineato gli economisti Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, la rivoluzione potrebbe produrre una maggiore disuguaglianza, in particolare nel suo potenziale di perturbare i mercati del lavoro. Poiché l’automazione sostituisce il lavoro nell’intera economia, lo spostamento netto dei lavoratori dalle macchine potrebbe esacerbare il divario tra rendimenti del capitale e rendimenti del lavoro». Ma il suo pragmatismo dura poco e subito il nostro torna nell’etere del pensiero utopico, con un possibilismo concettuale che caratterizza la sua intera narrazione: «D’altra parte, è anche possibile che lo spostamento di lavoratori mediante la tecnologia, nel complesso, si tradurrà in un aumento netto di posti di lavoro sicuri e gratificanti». Previsione alquanto inverosimile, soprattutto ai tempi del distanziamento sociale e dell’autoisolamento come stile di vita: di certo è un rischio che si gioca sulla vita di milioni di individui. Già nel 2017 due economisti di Oxford avevano stimato come metà dei posti di lavoro esistenti verrà distrutta entro il 2033 a causa dell’informatizzazione[53]. Con la spinta propulsiva indotta dalla gestione della pandemia, la nefasta profezia potrebbe realizzarsi prima e portare a un aumento ulteriore della disuguaglianza, in un mondo in cui il digital divide sarà sempre più discriminante e la concentrazione di ricchezza sempre maggiore, a fronte di una povertà diffusa.


  «Non possiamo prevedere a questo punto quale scenario potrebbe emergere e la storia suggerisce che il risultato sarà probabilmente una combinazione dei due. Tuttavia», prosegue Schwab col suo inscalfibile ottimismo «sono convinto di una cosa: che in futuro il talento, più del capitale, rappresenterà il fattore critico della produzione». Il talento cui fa riferimento, probabilmente, sarà quello tanto magnificato dell’imprenditore di se stessi, che ha portato alla creazione di milioni di gig worker che vivono di espedienti.


  Poi, come al solito, non essendo certo uno sprovveduto, va oltre nella sua analisi e corregge il tiro: «Ciò darà origine a un mercato del lavoro sempre più segregato in segmenti bassa qualificazione/bassa retribuzione e alta qualificazione/alta retribuzione, che a sua volta porterà a un aumento delle tensioni sociali», ben conscio che «oltre ad essere una preoccupazione economica chiave, la disuguaglianza rappresenta la più grande preoccupazione sociale associata alla quarta rivoluzione industriale». E ancora, «questo aiuta a spiegare perché così tanti lavoratori


  sono disillusi e temono che i propri redditi reali e quelli dei loro figli continuino a ristagnare. [...] Un’economia che vincendo prende tutto e che offre solo un accesso limitato alla classe media è una ricetta per il malessere democratico e la disillusione».


  Il tema della disuguaglianza viene preso in considerazione, ma non vengono offerte soluzioni pratiche. D’altronde, come abbiamo visto, la tendenza già consolidata da tempo è quella di una sempre maggiore polarizzazione della società, tra chi detiene il capitale e le competenze per inserirsi in un mondo del lavoro ipertecnologico e chi farà lavori di bassa manovalanza, che non possono essere svolti dalle macchine. Rimarrà un’enorme fetta di disoccupati, che non saranno neanche nelle condizioni di ricercare un lavoro.


  Schwab però non sembra preoccuparsene troppo e prosegue la sua narrazione esaltando i benefici offerti dai progressi della tecnologia, che andrebbero dalla «lavanderia allo shopping, dalle faccende domestiche al parcheggio, dai massaggi ai viaggi».


  Quale sarà il modello di governance per gestire questo nuovo ordine tecnologico?


  Quello del capitalismo degli stakeholder, in cui il governo lavora di concerto con le grandi banche d’affari, le mega aziende della tecnologia e le piattaforme digitali per il bene collettivo sovranazionale. Ne verrà fuori una nuova forma di democrazia e di partecipazione alla politica da parte dei cittadini. «Mentre i mondi fisico, digitale e biologico continuano a convergere» spiega «le nuove tecnologie e piattaforme consentiranno sempre più ai cittadini di interagire con i governi, esprimere le loro opinioni, coordinare i loro sforzi e persino eludere la supervisione delle autorità pubbliche. Allo stesso tempo, i governi acquisiranno nuovi poteri tecnologici per aumentare il loro controllo sulle popolazioni, sulla base di sistemi di sorveglianza pervasivi e la capacità di controllare le infrastrutture digitali».


  Un nuovo mondo, che non è altro che il prodotto della perfetta integrazione funzionale tra sviluppo tecnologico e neoliberismo, dove quest’ultimo, nonostante l’inganno lessicale, di liberale ha davvero poco, se non la libertà di accesso al consumo tramite la rete. Come sottolineato dall’ingegnere-economista svizzero – la cui formazione personale rispecchia perfettamente la propria visione del mondo – attraverso la tecnologia lo Stato eserciterà il potere e il controllo, garantendo l’ordine grazie all’intesa con i giganti aziendali, veri protagonisti nello scacchiere globale. Saranno loro a garantire un ordine mondiale, di concerto con attori sovranazionali e facendo da raccordo tra gli Stati.


  Di fatto è l’evoluzione del sistema economico ordoliberista, in cui il mercato e la concorrenza sono un pilastro imprescindibile, ma non la concorrenza astratta, accademica, che prevede la competizione di una miriade di operatori in un contesto di libero accesso al mercato; la partita si svolge tra pochi operatori, accumulatori di grandi capitali, che deflazionano il lavoro e si avvalgono di tecnologie sempre più invasive, in un mercato dove le istituzioni statali diventano i guardiani che decidono se il giocatore sia degno di entrare in campo oppure no. Dunque, un mercato elitario, non accessibile a tutti, ma solo a chi ha il peso e il potere per farne parte, un club esclusivo per pochi eletti, che competono tramite rapporti di forza.


  Il neoliberismo realmente esistente, a differenza di quello ideologico puro, non è favorevole come afferma alla libertà dei mercati: esso, al contrario, promuove il predominio delle imprese giganti nell’ambito della vita pubblica[54].


  Col suo consueto approccio dualistico e ambiguo, Schwab riflette sull’impatto antropologico ed etico della Quarta Rivoluzione (post) Industriale. Dapprima mostra tutto il suo sconfinato entusiasmo per il futuro che la tecnologia offrirà all’umanità: «La quarta rivoluzione industriale, infine, cambierà non solo ciò che facciamo ma anche ciò che siamo. Influirà sulla nostra identità e su tutte le questioni a essa associate: il nostro senso della privacy, le nostre nozioni di proprietà, i nostri modelli di consumo, il tempo che dedichiamo al lavoro e al tempo libero e il modo in cui sviluppiamo le nostre carriere, coltiviamo le nostre capacità, incontriamo persone e coltiviamo le relazioni. Sta già cambiando la nostra salute e sta portando a un sé quantificato, e prima di quanto pensiamo potrà portare a un aumento umano. La lista è infinita perché vincolata solo dalla nostra immaginazione».


  Poi, ancora una volta, sembra destarsi fugacemente dal suo stato ipnotico e riflette: «Sono un grande appassionato e uno dei primi ad adottare la tecnologia, ma a volte mi chiedo se l’inesorabile integrazione della tecnologia nelle nostre vite possa diminuire alcune delle nostre capacità umane per eccellenza, come la compassione e la cooperazione. Il nostro rapporto con i nostri smartphone ne è un esempio. La connessione costante può privarci di una delle risorse più importanti della vita: il tempo per fare una pausa, riflettere e impegnarci in una conversazione significativa».


  Di fatto la mente umana ha bisogno di staccare la spina da una connessione perenne a internet e, allo stesso, dovrebbe preservare la capacità, conquistata dall’uomo attraverso l’evoluzione, di impegnarsi in attività che richiedono concentrazione prolungata e il cosiddetto pensiero lento, consapevole, a differenza di quello veloce[55], istintivo impiegato nell’utilizzo dello smartphone e delle sue applicazioni. È come se il nostro cervello stesse ormai regredendo a quello dell’homo erectus cacciatore, che viveva in uno stato di allerta continua per la mole di stimoli esterni da gestire. Assuefatti come siamo alla semplificazione tecnologica, ci stiamo disabituando al ragionamento, allo studio e, in ultima istanza, stiamo perdendo la nostra più grande risorsa, quella di pensare in modo indipendente, ci limitiamo ad aderire acriticamente a narrazioni preconfezionate e propagandate attraverso la cassa di risonanza mediatica.


  Per venire fuori da questa impasse, Schwab usa una tecnica molto consolidata ed efficace, dirotta la responsabilità sul singolo individuo, che sarebbe il vero artefice del futuro e della direzione che prenderà il progresso tecnologico.


  «Né la tecnologia né le rotture che ne derivano sono una forza esogena sulla quale gli esseri umani non hanno alcun controllo. Tutti noi siamo responsabili di guidarne l’evoluzione, nelle decisioni che prendiamo quotidianamente come cittadini, consumatori e investitori. Dobbiamo quindi cogliere l’opportunità e il potere di cui disponiamo per plasmare la Quarta Rivoluzione Industriale e indirizzarla verso un futuro che rifletta i nostri obiettivi e valori comuni».


  Ci rimane piuttosto difficile comprendere come l’individuo abbia tanto margine di azione, schiacciato come è da una tecnocrazia immanente, in cui solo i giganti e le rappresentanze sovranazionali hanno potere decisionale. Sarà improbabile per i nuovi gig worker e per i cittadini in generale, che attraverso la rete e gli smartphone esercitano ogni attività quotidiana, poter separare il mondo virtuale da quello reale. Il ricorso da parte dei governi per il contenimento del virus a misure quali lockdown e coprifuochi, non fanno che proiettare l’individuo in una dimensione sempre più dissociata dalla realtà fisica e inseparabile da quella virtuale.


  Schwab non ignora il rischio, anzi ne è consapevole: «Nella sua forma più pessimistica e disumanizzata, la Quarta Rivoluzione Industriale può effettivamente avere il potenziale per robotizzare l’umanità e quindi privarci del nostro cuore e della nostra anima» tuttavia, prosegue «come complemento alle parti migliori della natura umana – creatività, empatia, amministrazione – può anche elevare l’umanità a una nuova coscienza collettiva e morale basata su un senso


  comune del destino. Spetta a tutti noi assicurarci che quest’ultima prevalga».


  Nessuno è in grado di prevedere con infallibile certezza il futuro, tuttavia la posta in gioco è elevatissima, si tratta di una sorta di esperimento d’ingegneria sociale, in cui gli essere umani rappresentano delle cavie da laboratorio.


  La Quarta Rivoluzione industriale è un progetto di biopolitica già ben definito prima della crisi legata al Covid-19. Nessuno nega l’esistenza del nuovo virus e la sua letalità, seppure bassa e circoscritta quasi esclusivamente a una determinata fascia di età e individui pluripatologici, ma le misure adottate dai governi forniscono il carburante necessario per accendere la miccia del Grande Reset. Non vogliamo neanche contraddire, non avendo le prove controfattuali, la buona fede di agire per un fine superiore di benessere collettivo da parte dei suoi fautori, nonostante risponda inevitabilmente a una visione soggettiva, che non può assurgere a verità assoluta e universale cui l’umanità intera deve conformarsi. Ciò che ci lascia perplessi è come l’individuo comune potrà accettare un simile stravolgimento, che penetra fin nella sua anima, nell’essenza della natura umana, e devia la direzione di secoli, millenni di civilizzazione. Passata questa emergenza epidemica –che ci auspichiamo non diventi la nuova condizione di vita, visto che da più parti si annuncia l’avvento di nuove pandemie – la natura umana spingerà inevitabilmente per tornare alla normalità, liberando la sua forza verso la vita, oggi sospesa in una bolla di paura, che se compressa troppo a lungo potrà esplodere con effetti imprevedibili.


  Come può una ristretta cerchia di individui, corrispondenti agli stakeholder di maggior peso e ai filantropi miliardari che hanno costruito il loro successo grazie alle ricchezze accumulate, farsi interprete delle esigenze dell’umanità intera e decidere per il suo futuro, riscrivendo una nuova etica?.

Capitolo 4