martedì 23 luglio 2019


C’era una volta Regalpetra, c’era una volta Leonardo Sciascia

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Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di novembre in cui Leonardo Sciascia ci ha lasciati, trent'anni in cui il paese, che lui ha così bene descritto, è profondamente cambiato, eppure nel profondo è sempre lo stesso: conformismo, mafie, divisione tra Nord e Sud, arroganza del potere, l'eterno fascismo italiano. Possibile? Per ricordare Sciascia abbiamo pensato di farlo raccontare da uno dei suoi amici, il fotografo Ferdinando Scianna, con le sue immagini e le sue parole, e di rivisitare i suoi libri con l'aiuto dei collaboratori di doppiozero, libri che continuano a essere letti, che tuttavia ancora molti non conoscono, libri che raccontano il nostro paese e la sua storia. Una scoperta per chi non li ha ancora letti e una riscoperta e un suggerimento a rileggerli per chi lo ha già fatto. La letteratura come fonte di conoscenza del mondo intorno a noi e di noi stessi. De te fabula narratur.

“Regalpetra, si capisce, non esiste: «ogni riferimento a fatti accaduti e a persone esistenti è puramente casuale». Esistono in Sicilia tanti paesi che a Regalpetra somigliano; ma Regalpetra non esiste”. L’antifrasi è smaccata. Tanto scoperta da non potere essere scambiata per ironia. C’è ironia talvolta, come figura del discorso, nelle pagine di Leonardo Sciascia ma dire che la sua penna fosse fondamentalmente ironica lo si potrebbe solo per ironia. Una dose supplementare ne domanderebbe sostenere che fu soprattutto caratterizzata da un tratto ironico la sua figura pubblica. L’una e l’altra, le si potrà trovare chiare, severe, risentite, sottili, eleganti, polemiche, inquietanti, sferzanti e così via. Ma, al fondo, ironiche no. Nemmeno umoristiche. C’era una fede, in Sciascia, non solo e banalmente nel rapporto tra realtà e parola, ma anche, di ritorno, tra parola e realtà che poneva al riparo la sua espressione dalla consapevolezza tragica della fallacia ineluttabile e della sconfortante inanità di tali rapporti.

Consapevolezza senza la quale non c’è ironia né umorismo. Che sia un luogo comune, quando si parla di Sciascia, tirare in ballo Luigi Pirandello? Un luogo comune autorizzato dallo stesso Sciascia.
Un luogo comune ineluttabile, del resto. All’ingrosso, si può infatti dire che tra i due ci fu un luogo in comune. Tanto ingombrante nella percezione dei più, da nascondere i molti luoghi, anche materiali, oltre che spirituali, le circostanze sociali e soprattutto il tempo, con la sua aria determinante, che Sciascia non condivideva, né avrebbe del resto potuto condividere con Pirandello. Formarsi in un modestissimo agio micro-borghese non era come farlo nell’agiatezza, per quanto periclitante, di una schiatta d’imprenditori, Caltanissetta non era Roma né Bonn, Giuseppe Granata non era Ernesto Monaci e così via: dati di fatto, morali e biografici, e fatti storici e culturali così ovviamente noti che continuarne il lungo elenco suonerebbe oltraggio alla cultura e all’intelligenza di chi legge. 
E ammesso, come sopra s’è detto, che tra Pirandello e Sciascia ci sia stato almeno un luogo in comune, questo luogo non fu certamente Regalpetra, anche perché niente che somigli a una Regalpetra è riferibile a Pirandello. Invece, sotto la penna di Sciascia e per scoperta antifrasi, Regalpetra non solo esisteva, ma era proprio e apertamente la sua Racalmuto. Pubblicato il libro nel 1956, ci fu in proposito anche l’affettuosa testimonianza dei compaesani, felici, persino i ritratti in modo non proprio elogiativo, di riconoscersi nello scritto del loro giovane maestro. Una Racalmuto solo appena un po’ celata dietro l’omaggio a Nino Savarese e alla sua Petra (ci si tornerà), che era però luogo mitico, allegorico e integralmente letterario. Tale la Regalpetra, la Petra reale (come si può dire traendo profitto da un’accidentale omonimia) di Sciascia?  

Sullo sfondo della Sicilia, Regalpetra era certamente una Racalmuto in figura. E dunque una metafora, si potrebbe sentire dire per via di un altro luogo comune, anch’esso saldissimo. Sciascia stesso lo fomentò infatti sull’intera sua opera, nella maturità. No, non come metafora, va allora precisato. Regalpetra come sineddoche. Prospettata quindi da una specola metonimica, non metaforica. La parte per il tutto, in modo lampante: “Esistono a Racalmuto i salinari; in tutta la Sicilia ci sono braccianti che campano 365 giorni, un lungo anno di pioggia e di sole, con 60.000 lire; ci sono bambini che vanno a servizio, vecchi che muoiono di fame, persone che lasciano come unico segno del loro passaggio sulla terra – diceva Brancati – un’affossatura nella poltrona di un circolo. La Sicilia è ancora una terra amara. Si fanno strade e case, anche Regalpetra conosce l’asfalto e le nuove case, ma in fondo la situazione dell’uomo non si può dire molti diversa da quella che era nell’anno in cui Filippo II firmava un privilegio che dava titolo di conti ai del Carretto e Regalpetra elevava a contea”. 
Metonimica e non metaforica toccava del resto di essere a un’opera in cui si trovano “la ricerca documentaria e addirittura la denuncia”: così una recensione a caldo di Pier Paolo Pasolini. E – sempre parole di Pasolini – le concretava “in forme ipotattiche, sia pure semplici e lucide: forme che non soltanto ordinano il conoscibile razionalmente (e fino a questo punto la richiesta marxista del nazionale-popolare è osservata) ma anche squisitamente: sopravvivendo in tale saggismo il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo”. Suona oggi buffo, questo minuscolo brano di prosa critica, non solo per l’inciso, ma soprattutto per esso. “Richiesta”, “marxista” e, correlativamente, “nazionale-popolare”, “osservata”: non c’è parola che vi ricorre che non meriterebbe un commento. Li si scioglie tutti qui in un sorriso: anche quanto a Pasolini, del resto, e non solo al Pasolini di allora, parlare di ironia si potrebbe solo per ironia. In una lettera privata i modi erano naturalmente meno trinariciuti e il poeta delle Ceneri di Gramsci aveva già scritto a Sciascia “ti ringrazio per il tuo bellissimo libro: ma veramente bellissimo. Non solo mi è piaciuto del piacere normale che danno le opere riuscite e necessarie, ma ha aumentato ancora, ed era già molta, la simpatia che avevo per te, fino a un vero, forte e commosso, senso di fraternità”.

Marcata dalla metonimia si può dire sia stata anche la vicenda della composizione di questa prima uscita di Sciascia sul palcoscenico della cultura letteraria nazionale. Tutto nacque da certe “Cronache scolastiche”. Tornato nella nativa Racalmuto dalla Caltanissetta degli studi e della maturazione di orientamenti politici e intellettuali, Sciascia vi faceva il maestro. Teneva frattanto in costante esercizio quella penna che, sin dall’adolescenza, gli aveva assicurato la considerazione degli insegnanti, il successo scolastico e alcune collaborazioni editoriali. Queste lo avevano già messo in contatto con importanti figure della cultura nazionale del Dopoguerra. 
Dalla riflessione sul suo lavoro, nel 1955 era venuto fuori uno scritto che tesseva narrativamente una materia documentaria, presentandola come viva testimonianza in prima persona. Aveva inviato le sue pagine a Italo Calvino, con la speranza che Einaudi ne facesse un volume dei Gettoni, la collana ideata e diretta da Elio Vittorini. L’esiguità impedì tale destinazione e così Calvino girò lo scritto a Nuovi argomenti, la rivista fondata un paio di anni prima da Alberto Carocci e da Alberto Moravia, che lo pubblicò subito. Lì lo lesse Vito Laterza che, battendo sul tempo un Vittorini divenuto frattanto anche lui vigile in proposito, suggerì a Sciascia di costruirci intorno un libro che trattasse, per quadri, della vita di un paese siciliano. 


A dire quanto un tema siffatto fosse percepito come esotico e potesse parere di conseguenza interessante nell’Italia culturale e della vita pubblica dei primi Cinquanta, basta un indizio linguistico minuscolo e apparentemente lontano, ma loquace. L’ENI di Enrico Mattei si stava affacciando in Sicilia, prospettando le rituali “magnifiche sorti e progressive” nella correlata propaganda nazionale e per la voce a commento di un reportage del cinegiornale dell’Istituto Luce gli abitanti dell’isola erano regolarmente “quelle genti”: caso esemplare dell’uso del dimostrativo come marca di distanziamento. Con la costruzione in Sicilia di impianti per la raffinazione del petrolio nord-africano e medio-orientale, si sarebbero aperte a “quelle genti” le vie del progresso e della modernità, diceva appunto il cinegiornale, alternando a scorci commiserevoli di qualche assolata Regalpetra immagini, altrettanto assolate, di fervidi lavori in corso.
Laterza seguì poi personalmente e indirizzò la composizione del libro sollecitato al giovane Sciascia, con modi che gli avrebbero assicurato la duratura gratitudine dello scrittore. Suggerì anche l’evocativo titolo. Accolse il toponimo di fantasia proposto dall’autore ma scartò le combinazioni con cui questi pensava di servirsene. Le parrocchie di Regalpetra giunse così in libreria nel volgere di un anno. A comporlo, intorno a “Cronache scolastiche”, l’amaro e sconsolato diario di un maestro davanti al lamentevole stato dei suoi ragazzi in un contesto di arretratezza sociale, economica e culturale, furono altre sette prose, che divennero otto nel 1963, per una nuova edizione. 

“La storia di Regalpetra”: dagli Arabi al Dopoguerra, con focalizzazione, in chiave accesamente anti-nobiliare, sulla lunga stagione di angherie imposte alla cittadina dalla famiglia del Carretto, nobilitata dagli Spagnoli; “Breve cronaca del regime”: su fasti e caduta del Fascismo, nell’esperienza di Sciascia, a Racalmuto e a Caltanissetta; “Il circolo della concordia”: una tipica istituzione della società paesana, palestra ideale per il bozzettismo del narratore; “Sindaci e commissari”: Regalpetra nelle turbolenze della Liberazione e del primo Dopoguerra, con gli intrallazzi e, tra prevaricazioni e attitudini malavitose, l’affermarsi dei partiti politici; “I parroci e l’arciprete”: per metonimia, la prosa che certamente innescò in Laterza l’idea del titolo complessivo, con figure e relativi aspri conflitti nella gestione della devozione popolare e degli orientamenti politici della cittadina; “I salinari”: lo scritto più apertamente sociale del libro, sulle condizioni dei lavoratori delle saline e sui correlati nella vita del borgo; “Diario elettorale”: la Democrazia cristiana e gli altri partiti, nella Sicilia e, in particolare, nell’Agrigentino di quegli anni. Come si diceva, aggiunta nel 1963, “La neve, il Natale”: la cittadina e, di nuovo, i ragazzi alla luce di una situazione meteorologica inusuale, per Regalpetra, e straniante, tale perciò da acuirne i tratti permanenti. 
Da esotici che erano allora, tutti temi oggi inattuali e resi ineluttabilmente tali da ciò che nei quasi settanta anni frattanto trascorsi è accaduto a Racalmuto, per metonimia (e quindi in Sicilia, in Italia, nel mondo). Generosamente inattuale suona anche la conclusione della premessa alla raccolta: a Regalpetra, scriveva Sciascia nel 1956, “è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta” (il corsivo è dell’autore). Sciascia morì, come si sa,  in perfetta coincidenza con la fine del suo secolo, il secolo breve. Di ciò che ne sarebbe seguito, vide solo qualche annuncio. Ma fece di certo in tempo a rendersi conto di quanto l’arrivo di un’ora di oggi, da lui sperato e invocato in gioventù, stava rivelandosi equivoco, se non pernicioso, a Regalpetra non meno che altrove. A maturare la difficile convinzione che l’ora di oggi, solo in modo diverso da quella di ieri, resta sempre e ovunque un’ora profondamente ingiusta e come si deve sempre essere preparati all’eventualità che quella di domani lo sia ancora di più.

E la mafia? Nelle Parrocchie di Regalpetra, la mafia c’è, ma ancora soltanto come basso ostinato. Di lì a poco, sarebbe invece divenuta Grundthema della produzione d’invenzione di Sciascia, cioè dei romanzi che ne avrebbero fatto una celebrità, ben al di là della cerchia dei letterati, con tutto ciò che forse di non interamente positivo, per lo scrittore, certo, non per l’uomo (o anche per l’uomo?), la celebrità avrebbe trascinato con sé.
La pubblicazione del suo primo libro consacrò comunque e immediatamente il giovane maestro di Racalmuto come figura di rilievo del panorama culturale e letterario nazionale. La lista già stilata (peraltro, qui necessariamente solo parziale) di chi manifestò interesse per l’opera sin dal suo stato embrionale e ne favorì, determinò e salutò la pubblicazione rende appunto superfluo recare ogni ulteriore spiegazione di tale repentina consacrazione. È d’altra parte fuor di dubbio Sciascia sapesse scrivere e sapesse farlo al di là dei temi sociali, morali, politici di cui, per fare ciò che meglio sapeva, fin da allora si votò, ma di cui, nella sua successiva vicenda di personalità pubblica, c’è da chiedersi se la sua penna non abbia talvolta finito invece per diventare ostaggio.

Come si sa, a Roland Barthes si deve, proprio a cavaliere tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, l’individuazione di una moderna dicotomia o, forse meglio, di una dicotomia che prese una configurazione particolarmente rilevante e meritevole di attenzione critica nel mondo moderno: quella tra l’écrivain e l’écrivant. L’uno “travaille sa parole et s’absorbe fonctionnellement dans ce travail”. All’attività di scrittura, l’altro pone invece “une fin (témoigner, expliquer, enseigner)”. L’uno scrive intransitivamente, l’altro transitivamente: così lo studioso francese ritenne di chiarire l’opposizione. Fece però un uso non ineccepibile della terminologia grammaticale. Meglio sarebbe stato se avesse detto tipico per l’écrivain l’uso marcato e assoluto di scrivere, per l’écrivant quello non marcato e non assoluto.
In Sciascia, le due figure convivevano ma l’écrivainprevalse di norma sopra l’écrivant. Così accadde fin dal suo primo libro. Di conseguenza, quel “po’ di fede nelle cose scritte” che (lo si diceva in esordio) Sciascia dichiarò allora con lampante litote di nutrire e nutrì per la sua vita intera non era forse isomorfa a quella che, per sua testimonianza, possedeva grandemente “la povera gente” di Regalpetra. Questa era infatti convinta che “un colpo vibratile ed esatto della penna bastasse a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso” e, con tale convinzione, poneva l’accento sullo scopo. Al di là dello scopo e in modo assoluto, “vibratile ed esatto” era tuttavia quanto stava gerarchicamente in primo piano dal punto di vista di Sciascia écrivain, a dire non solo come, ma anche cosa il colpo di penna veramente fosse o potesse aspirare a essere.

Si trattava peraltro del punto di vista di uno scrittore la lingua del quale era nata e s’era nutrita sui libri, fino a diventare robusta come appare sin dalla sua prima sortita. Lo si sa, lo si dice, ma forse si trascura il rilievo estetico e correlativamente morale di tale circostanza. Non poteva essere diversamente, allora, per un giovane siciliano la cui cultura e, in maniera correlata, il cui gusto, il cui sentimento della lingua s’erano formati ed erano cresciuti tra le due guerre novecentesche e rigorosamente tra Racalmuto e Caltanissetta. Di sé e della sua formazione nell’arte della lingua scritta, Sciascia l’avrebbe detto dieci anni dopo la pubblicazione delle Parrocchie di Regalpetra, nell’introduzione a una riedizione del quel suo libro d’esordio.

Col pretesto di spiegare perché Regalpetra, presentò la cosa come una confessione collaterale ma tale da stupire qualcuno: “il nome del paese, Regalpetra, contiene due ragioni: la prima, che nelle antiche carte Racalmuto […] è segnata come Regalmuto; la seconda, che volevo in qualche modo rendere omaggio a Nino Savarese, autore dei Fatti di Petra. Di questa seconda ragione molti, forse, si meraviglieranno: ma a parte l’affezione che ho sempre avuto per l’opera di Savarese, e specialmente là dove tocca i miti e le storie della terra siciliana, debbo confessare che proprio sugli scrittori «rondisti» – Savarese, Cecchi, Barilli – ho imparato a scrivere. E per quanto i miei intendimenti siano maturati in tutt’altra direzione, anche intimamente restano in me tracce di un tale esercizio”. Un passo a suo modo esemplare, per esercitarsi pur se modicamente con la nozione freudiana di Verneinung. Soprattutto dove, in modo concessivo, vi si parla di “intendimenti [...] maturati in tutt’altra direzione”, rispetto agli scrittori rondisti, da parte di chi, svelando una colpa o una tabe, pare volersene dire un dì tocco ma ormai esente o guarito. Sarebbe difficile dire però in quale direzione diversa, quanto alla scrittura di Sciascia e quindi in ciò che concerne il suo essere écrivain. Ben al di là dei temi, forse non effimeri, ma certo transeunti, Le parrocchie di Regalpetra offre infatti ancora alla lettura, qui vivamente raccomandata, l’ormai raro godimento di una prosa letteraria di grande qualità.

martedì 9 luglio 2019



IL CASO REGGIO EMILIA
poca trasparenza e molti sospetti 

Un sano approccio garantista e il ricordo dei tanti processi mediatici poi finiti nel nulla dovrebbero indurre a esaminare con molta prudenza il caso di Reggio Emilia sulla presunta sottrazione di minori dalle proprie famiglie sulla base di finti abusi.
L’inchiesta “Angeli e Demoni”, coordinata dalla pm Valentina Salvi, ha portato all’adozione di misure cautelari per 18 persone e all’iscrizione nel registro degli indagati di altre (tra amministratori pubblici, assistenti sociali, psicoterapeuti e operatori socio-sanitari), accusate di aver lucrato sulla gestione degli affidi di bambini in Val d’Enza. Secondo quanto sostenuto dalla procura, ibambini venivano allontanati dalle proprie famiglie, sulla base di segnali di insofferenza che potessero lontanamente far pensare ad abusi, e trasferiti in una struttura pubblica (denominata “La Cura”, a Bibbiano) dove assistenti sociali e psicoterapeuti raccoglievano le ricostruzioni dei minori su quanto avvenuto cercando di condizionare la loro memoria con domande suggestive (in modo da creare finti ricordi) e persino falsificando le carte, in modo tale che emergessero abusi da parte dei familiari. Poi gli stessi operatori chiedevano al tribunale per i minori il decadimento della patria potestà e il collocamento dei bambini in affido retribuito ad amici e conoscenti (che ottenevano i contributi economici previsti per le famiglie affidatarie), per poi sottoporli anche a un percorso psicoterapeutico che faceva girare centinaia di migliaia di euro. Questo è l’impianto accusatorio rappresentato dalla procura.
Dopo il tradizionale clamore mediatico iniziale, alcuni aspetti dell’indagine sono stati ridimensionati. E’ stato precisato che non è stato fatto alcun uso di elettroshock sui bambini, come era stato inizialmente raccontato, e che inoltre il sindaco di Bibbiano del Pd – pesantemente attaccato dai partiti di opposizione, anche a livello nazionale – non ha niente a che fare con gli abusi ma è indagato per falso in atto pubblico. La cosa migliore da fare, dunque, è attendere la valutazione della magistratura e che la giustizia faccia il suo corso.
Lasciando da parte il caso di Reggio Emilia, però, occorre prendere atto di due importanti criticità che riguardano il mondo che ruota attorno al trattamento degli abusi sessuali su minori.
Da un lato, emerge la scarsa trasparenza di un settore che, tra assistenti sociali, gestori di case famiglia, cooperative, psicologi, famiglie affidatarie e periti dei tribunali dei minori, muove ogni anno centinaia di milioni di euro, con il rischio elevato che tra questi soggetti si vengano a instaurare rapporti di commistione (nel 2015 la onlus Finalmente Liberi calcolò che circa il 20 per cento dei giudici onorari minorili opera in conflitto d’interessi, essendo allo stesso tempo giudice e professionista con rapporti lavorativi proprio con le strutture che accolgono i minori allontanati dalle famiglie). Dall’altro lato, occorre prendere atto che su una materia così delicata, come quella della valutazione del quadro psicologico del minore vittima di presunto abuso sessuale, non vi è unanimità di pensiero tra gli operatori sulle metodologie da utilizzare.
La stragrande maggioranza della comunità scientifica (psicologi, psichiatri, neuropsichiatri infantili e criminologi) si rifà alla Carta di Noto, stilata nel 1996 e aggiornata nel 2002, che costituisce ormai un riferimento costante per la giurisprudenza e la dottrina. La Carta di Noto raccoglie le “linee guida per l’esame del minore in caso di abuso sessuale”, con l’obiettivo di “garantire l’attendibilità dei risultati degli accertamenti tecnici e la genuinità delle dichiarazioni, assicurando nel contempo al minore la protezione psicologica”. Il testo prevede un protocollo di intervento basato su alcuni principi molto rigorosi. Ne citiamo alcuni. La valutazione psicologica non può avere ad oggetto l’accertamento dei fatti per cui si procede, che spetta esclusivamente all’autorità giudiziaria. In caso di abuso intrafamiliare gli accertamenti devono essere estesi ai membri della famiglia, compresa la persona cui è attribuito il fatto, e ove necessario, al contesto sociale del minore. E' metodologicamente scorretto esprimere un parere senza avere esaminato il minore e gli adulti cui si fa riferimento. Si deve ricorrere in ogni caso possibile alla videoregistrazione, o quanto meno all’audioregistrazione, delle attività di acquisizione delle dichiarazioni e dei comportamenti del minore. Tale materiale, per essere utilizzato ai fini del giudizio, va messo a disposizione delle parti e del magistrato.
Qualora il minore sia stato sottoposto a test psicologici i protocolli e gli esiti della somministrazione devono essere prodotti integralmente e in originale. Nel colloquio con il minore occorre consentirgli di esprimere opinioni, esigenze e preoccupazioni, evitando domande e comportamenti che possano compromettere la spontaneità, la sincerità e la genuinità delle risposte. I sintomi di disagio che il minore manifesta non possono essere considerati di per sé come indicatori specifici di abuso sessuale, potendo derivare da conflittualità familiare o da altre cause, mentre la loro assenza non esclude di per sé l’abuso. Quando sia formulato un quesito o prospettata una questione relativa alla compatibilità tra quadro psicologico del minore e ipotesi di reato di violenza sessuale è necessario che l’esperto rappresenti, a chi gli conferisce l’incarico, che le attuali conoscenze in materia non consentono di individuare dei nessi di compatibilità o incompatibilità tra sintomi di disagio e supposti eventi traumatici. L’esperto, anche, se non richiesto, non deve esprimere sul punto della compatibilità né pareri né formulare alcuna conclusione.
C’è però un altro movimento di pensiero, di dimensioni decisamente più ridotte, che rifiuta le linee guida stabilite dalla Carta di Noto. E’ quello che fa riferimento al Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (Cismai). Il Cismai, nato nel 1993, è un’associazione privata a cui aderiscono centri e servizi che operano nel campo della prevenzione e del trattamento degli abusi su minori (anche pubblici, come Comuni e Asl) e professionisti come assistenti sociali, psicologi, neuropsichiatri ed educatori. Gli associati sono tenuti ad applicare la “Dichiarazione di consenso in tema di abuso sessuale”, che “fornisce linee guida per gli interventi degli operatori psico-socio-sanitari in relazione ai casi di abuso sessuale ai minori”. La Dichiarazione di consenso, aggiornata nel 2015, non è stata elaborata sulla base degli orientamenti condivisi dalla comunità scientifica, bensì da una commissione interna all’organizzazione stessa.
Basta leggere alcuni dei punti stabiliti dalla Dichiarazione di consenso del Cismai per capire come si sia di fronte a un approccio completamente diverso da quello della Carta di Noto. Nel documento si prescrive, sì, di evitare domande suggestive ai minori, ma si legge anche che l’abuso sessuale “è un fenomeno diffuso”, che tali esperienze “possono non comportare violenza esplicita o lesioni”, ma“possono avvenire senza contatto fisico e/o essere vissute come osservatori”. E ancora: “Trattandosi di esperienze frequenti ma che rimangono nella maggioranza nascoste e segrete, vanno sviluppate attenzione e competenze orientate al riconoscimento”; “all’abuso sessuale può conseguire una vasta gamma di sintomi cognitivi, emotivi, comportamentali e somatici aspecifici, che possono indurre la richiesta di una valutazione psicodiagnostica anche in assenza di rivelazioni”; “le conoscenze sessuali improprie e i comportamenti sessualizzati sono riconosciuti come indicatori con maggior grado di specificità, ed esigono approfondimento”; “la rivelazione è la conseguenza della presa di contatto consapevole con la propria esperienza traumatica”; “quanto più il bambino è stato danneggiato dall'abuso, tanto più può essere compromessa la sua capacità di ricordare e raccontare”; “la rivelazione va sempre raccolta e approfondita, anche se si presenta frammentaria, confusa, bizzarra”; “poiché quasi sempre il presunto perpetratore nega e mancano evidenze fisiche e testimonianze esterne, la valutazione è centrata in modo principale o esclusivo sul minore”; “non si hanno dati certi sulla quantità di falsi positivi, ma è comprovato che l’abuso sessuale è un fenomeno frequente e in grande prevalenza sommerso”; “in considerazione dell’alta frequenza dell’abuso sessuale, va posta ogni cura nell’evitare pregiudizi sulla probabilità di falso positivo e gli atteggiamenti conseguenti”.
Dalla lettura di questi punti (dai quali spicca anche l’assenza dell’obbligo di registrare le sedute con i minori), si comprende perché i sostenitori del Cismai abbiano sempre rigettato la Carta di Noto, definendola in passato, indirettamente, addirittura un protocollo in difesa dei pedofili. D’altronde nel 2013 era la stessa Cismai che, commentando i dati di una ricerca secondo cui solo una piccolissima parte dei procedimenti su presunti abusi sessuali a danni di minori si conclude con una condanna degli imputati, parlava di “sentenze sbilanciate a favore di chi abusa”, aggiungendo che “i pregiudizi e le maggiori risorse di cui godono gli adulti condizionano giustizia, forze dell’ordine, avvocati, e conducono, nella maggior parte dei casi, all’impunità”. In una lettera inviata la scorsa settimana a questo giornale, Gloria Soavi, Presidente Cismai, ha rivendicato la distanza del Cismai dalla carta di Noto ma ha specificato che “le nostre linee guida, non solo sull’abuso, si basano su documenti scientifici e seguono le norme delle Convenzioni internazionali per i diritti dei bambini e validate dall’Ispcan, di cui siamo partner italiani dal 2005, che è la più grande organizzazione internazionale che si occupa di maltrattamento e abuso”. Senza dunque voler fare dietrologie, ma mettendo semplicemente in fila i fatti, occorre ragionare sul significato che può avere il fatto che al Cismai fossero affiliati gli assistenti sociali al centro della celebre vicenda di Angela Lucanto (che ha ispirato anche una recente fiction televisiva con Sabrina Ferilli), una bambina di 7 anni che, nel 1995, venne allontanata dalla propria famiglia sulla base di pesanti accuse di molestie sessuali nei confronti del padre: al termine di un lungo calvario, il padre venne assolto e Angela tornò dalla sua famiglia dopo ben undici anni. E allo stesso modo, ma solo per fare qualche esempio, occorre prendere atto che al Cismai fossero affiliati molti degli psicologi e assistenti sociali protagonisti dell’inchiesta sulla presunta setta responsabile di abusi sessuali e riti satanici nella Bassa modenese tra il 1997 e il 1998: intere famiglie vennero distrutte prima che gran parte degli imputati venisse assolta e i giudici smontassero le indagini portate avanti da inquirenti, psicologi e assistenti sociali, orientate a costruire nei minori un “falso ricordo collettivo”.
E, ancora, occorre prendere atto che al Cismai fossero affiliati molti dei professionisti ai quali la procura di Tivoli affidò le perizie dell’indagine sui presunti abusi a Rignano Flaminio nel 2007, quando cinque persone vennero arrestate, accusate di abusi sessuali su minori e rappresentati sui giornali come “pedofili” e “orchi” prima di essere scagionate e assolte. Tra questi professionisti vi era lo psicoterapeuta Claudio Foti, oggi indagato in qualità di direttore scientifico della onlus Hansel e Gretel, al centro dell’inchiesta di Reggio Emilia. Nei giorni scorsi, in un’intervista al Fatto quotidiano (e in una lettera al Foglio) la presidente del Cismai, Gloria Savi, ha dichiarare “che da diversi anni il Cismai non ha tra i suoi soci il centro Hansel e Gretel”. La onlus di Foti è stata in realtà associata al Cismai nel 2015, quando la Dichiarazione di consenso, che indica le metodologie da utilizzare nell’ascoltare i minori, venne aggiornata e condivisa da tutti i soci del Cismai. Cercando, infatti, la pagina del sito del Cismai contenente l’elenco dei soci sul motore di ricerca Internet Archive (www.web.archive.org), che dal 1996 “fotografa” a cadenza regolare tutti i siti web del mondo, si scopre che in una “fotografia” del sito Cismai scattata il 17 novembre 2015, il nome del “Centro studi Hansel e Gretel Onlus” viene indicato nell’elenco delle oltre 250 associazioni aderenti al Cismai. La onlus, inoltre, viene indicata nell’elenco dei soci anche nel 2016 e nel 2017. In quegli anni, quindi la onlus Hansel e Gretel ha condiviso e applicato le metodologie indicate nella Dichiarazione di consenso del Cismai. D’altronde, il Cismai risulta anche tra i soggetti che hanno collaborato all’organizzazione di un convegno tenutosi il 10 e 11 ottobre 2018 a Bibbiano dedicato ai primi due anni di esperienza del centro “La Cura”, ora al centro dell’indagine di Reggio Emilia, in cui operavano gli operatori della onlus Hansel e Gretel. Al convegno intervenne con una relazione anche Gloria Soavi, presidente del Cismai.
Tutte queste coincidenze ovviamente non dimostrano nulla – né pretendono di dimostrare nulla – sul piano giudiziario, ma dovrebbero probabilmente costituire un motivo di riflessione generale, anche a livello ministeriale, sulla necessità di definire, una volta per tutte, un unico protocollo di intervento per gli operatori chiamati a valutare i casi di abusi su minori, fondato su criteri e metodologie condivise dalla comunità scientifica. “In sostanza – sostiene l’avvocato Cataldo Intrieri, che ha partecipato agli ultimi due aggiornamenti della Carta di Noto e come difensore ha spesso contestato le perizie degli esperti del Cismai – occorre arrivare anche nel settore delle perizie psicologiche ai criteri che regolano la valutazione giudiziaria del corretto operato dei medici: perizie e ctu collegiali, non affidate a un singolo psicologo, e rispetto dei protocolli condivisi dalla comunità scientifica, vale a dire Carta di Noto e Consensus di Roma del 2010. Non si tratta di applicare precetti rigidi, ma di condividere una comune cultura ispirata a razionalità scientifica, come impone la migliore giurisprudenza della Cassazione, in tema di prova scientifica. Se la disputa dovesse spostarsi nelle aule giudiziarie, sarà un’eccellente occasione per puntare il faro sia sulla scienza propugnata dalle varie realtà del Coordinamento che sulla ormai imponente casistica giudiziaria dei loro interventi negli uffici giudiziari di tutta Italia e per capire se esiste o no in Italia una qualche organizzazione che invece di raccogliere indizi per arrivare a una conclusione cerchi prima di tutto conferme a proprie intime convinzioni”.

lunedì 8 luglio 2019


IL POSTO DELLE FRAGOLE
Ingmar Bergman

Il percorso nella vecchiaia come (ri)scoperta della vita.

Isak Borg, il protagonista del film di Bergman Il posto delle fragole , vedovo e chiuso nel suo egoismo, che per un caso si ferma nella casa dove aveva vissuto da ragazzo e rivede la cugina Sara, «da lui amata in gioventù ma alla quale non aveva mai avuto il coraggio di dichiararsi, mentre raccoglie le fragole nel prato». Un episodio che porta all’illuminazione e a una progressiva riscoperta di sé. Da lì i ricordi prendono a intrecciarsi alla realtà, trasformando il viaggio verso Lund in una sorta di pellegrinaggio, in cui gli episodi, i sogni, gli incontri sono come tappe di un percorso catartico all’interno di se stesso dove potrà  intravedere i suoi fallimenti, il vuoto della sua solitudine e quella verità che sembrano volergli comunicare i suoi  incubi. La vecchiaia, l’infanzia, la giovinezza, l’esistenza di Dio, le occasioni perdute, la nostalgia, l’amore sono i temi intorno a cui si gioca ancora una volta la partita a scacchi tra la morte e la vita per il possesso di un’anima.

Il posto delle fragole
di Enrico Terrone
Sinossi
“I nostri rapporti con il prossimo si limitano per la maggior parte al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato a isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza troppe emozioni. Ho dedicato la mia esistenza al lavoro e di ciò non mi rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane quotidiano e finii con una profonda deferente passione per la scienza. Ho un figlio, anche lui medico, che vive a Lund. È sposato da anni ma non ha avuto bambini. Mia madre vive ancora ed è molto attiva e molto vivace, malgrado la sua tarda età. Mia moglie, Karin, è morta da diversi anni. Ho la fortuna di avere una buona governante. Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante, e questo fatto rende sovente la vita difficile sia a me sia alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg, ed ho settantotto anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale”. 
Questo (magnifico) monologo in voce over accompagna le immagini che precedono i titoli di testa. La sequenza successiva si risolve in un sogno (primo inserto soggettivo: l’incubo degli orologi senza lancette), carico di presagi di morte. Al risveglio Isak decide di partire da Stoccolma prima dell’alba, in automobile anziché in aereo. Nel viaggio lo accompagna la nuora Marianne, in crisi col marito. In mattinata i due si fermano presso una villa dove Isak rivive in sogno un episodio della propria adolescenza (secondo inserto: l’onomastico dello zio Aron) e ritrova, nel posto delle fragole, la cugina Sara di cui era innamorato. L’uomo è richiamato alla realtà dall’arrivo di una ragazza, anche lei di nome Sara, che gli chiede un passaggio sino a Lund, insieme a due suoi amici autostoppisti. 
Dopo pranzo, con Marianne alla guida, Isak si assopisce e inizia a sognare (terzo inserto: l’incubo dell’esame). Al risveglio, l’uomo confida la propria angoscia alla nuora, che a sua volta gli racconta della propria gravidanza e dei dissidi con il marito, che vorrebbe farla abortire (quarto inserto: il flashback di Marianne). Isak e Marianne arrivano nel pomeriggio a Lund, dove poi si svolge, in tutta la sua solennità, la cerimonia del giubileo professionale. La sera, Isak, già a letto, viene salutato da Evald e Marianne fra i quali sembra prospettarsi una riconciliazione. “Quando durante la giornata sono stato preoccupato e triste, per calmarmi di solito cerco di ripensare ai periodi felici dell’infanzia. E così feci anche quella sera”. Nell’addormentarsi Isak (quinto inserto: il lago) ritrova il posto delle fragole e la cugina Sara che lo accompagna attraverso il parco. Da un altura, egli potrà vedere da lontano i suoi genitori, il padre che sta pescando e la madre seduta vicino, e ricevere da loro un cenno di saluto. Il film si chiude sul primo piano di Isak che si rimbocca la coperta e cerca di dormire. 

L’affermazione del cinema di Bergman al di fuori dei confini della Svezia si compie nel 1957 con il successo internazionale de Il settimo sigillo. Nel febbraio del 1958 Il posto delle fragole vince l’Orso d’oro a Berlino. Jean Luc Godard, inviato dei Cahiers du cinéma e di lì a poco autore di Fino all’ultimo respiro, scrive alla redazione un telegramma: “Orso d’oro fine viaggio prova Ingmar più forte stop sceneggiatura fantastica racconta lampo coscienza Victor Sjöström abbagliato bellezza Bibi Andersson stop moltiplicate Heidegger per Giraudoux ottenete Bergman stop selezione Francia miserabile stop …”i. Con questi due capolavori, girati in rapida successione, Bergman si impone come il regista (per alcuni il primo, per altri il principale, per altri ancora l’unico) capace di innalzare il cinema al livello delle maggiori opere letterarie del secolo, rielaborandone i temi della soggettività, del tempo vissuto e della loro connessione con il linguaggio e con i simboli. Così Il posto delle fragole e il suo autore entrano nelle alte sfere del mito, dove tuttora, seppure un po’ impolverati, soggiornano. Sugli splendori (passati) e le miserie (attuali) della parola “mito” e sull’opportunità di servisene come categoria critica Orio Menoni ha scritto, su queste stesse pagineii, cose assolutamente condivisibili. Il mito, originariamente una finzione attraverso la quale si manifestavano verità profonde e ineffabili (si pensi al mito della caverna), si è trasformato, specie nel linguaggio radiotelevisivo, in un’eccedenza di verità utile a dissimulare un’impostura o un’esagerazione (si pensi all’inflazione dell’aggettivo “mitico”). Cercando di mediare fra questi due estremi, ridefiniamo il mito, in quanto categoria critica, come una commistione di verità e menzogna di fronte alla quale si impone il tentativo di operare delle distinzioni e di portare qualche chiarimento. Vorremmo allora provare a svelare i miti e i veli che, dal 1957 a oggi, hanno ricoperto (oltre che rivelato) Il posto delle fragole, contrapponendovi alcune questioni che sembrano restare vive e aperte riguardo al senso e al valore del film.
Il mito della genialità
“Con quel tipo di vita alle spalle non si può non diventare un genio. L’alternativa è finire a far sorrisini ebeti dietro le porte sprangate di una stanza, alle cui pareti lo Stato ha fatto applicare una spessa imbottitura”. La frase, riferita a Bergman, è di Woody Allen e rende bene la tendenza assai diffusa di voler risalire dal film alla vita del suo autore (“la vita alle spalle”), come se l’opera avesse per fine ultimo l’espressione del curriculum e delle vicissitudini di un individuo o peggio il culto della sua, possibilmente “maledetta”, personalità. Non si vuole negare che Bergman sia un genio, non fosse perché riconosciamo di non aver ben chiaro che cosa si intenda ormai con questa parola. Si vuol invece negare, o almeno mettere in dubbio, l’utilità di una serie di informazioni a partire dalle quali il mito de Il posto delle fragole come opera del genio si alimenta. La notizia che la sceneggiatura fu scritta da Bergman durante un ricovero presso l’ospedale Karolinska di Stoccolma nella primavera del 1957 sarebbe abbastanza innocua, per non dire insulsa, se non servisse a insinuare la sottile suggestione che l’artista in quel periodo non era completamente in sé, e che il film esprimerebbe quindi i tormenti della sua psiche malata. Poi si fa notare che il protagonista Eberhard Isak Borg ha le stesse iniziali del regista (Ernst Ingmar Bergman). Forzatamente l’età dei due è differente, ma anche qui c’è una spiegazione: gli anni di Isak sono gli stessi (78) che il suo interprete Sjöström aveva al momento delle riprese, mentre è suo figlio Evald ad avere la stessa età (38 anni) del regista di allora. Si aggiungono infine alcuni particolari in odore di cronaca rosa, tipo che all’epoca Bergman stava vivendo la conclusione del suo terzo matrimonio e aveva in corso un’intensa relazione sentimentale con la ventiduenne Bibi Andersson, l’interprete delle due Sara. Con questo spirito, il film è diventato una specie di diario intimo, e già questo è strano, ma la cosa veramente paradossale è che si può arrivare a convincersi che esso è un capolavoro proprio perché nasce come un diario. Naturalmente un approccio di questo tipo non è immune da vendette del destino: per anni si è sottolineato il fatto capitale che l’idea del film era venuta al regista in coincidenza di una visita alla casa estiva della propria nonna, salvo poi rimangiarsi tutto quando Bergman, vent’anni dopo, ha confessato che questo aneddoto era solo uno scherzo, suggerendo invece che nella figura di Borg potrebbero condensarsi il suo punto di vista e quello di suo padre. Parimenti, la scelta di Sjöström come interprete del ruolo principale viene spesso caricata di significati e considerata come un omaggio del giovane autore al suo regista prediletto, mentre lo stesso Bergman ha di recente ammesso che l’ingaggio di Sjöström gli venne suggerito dal produttore del film e che egli faticò non poco ad accettarlo. Tuttavia, al di là di queste deliziose beffe, il regista svedese ha contribuito in maniera rilevante alla creazione e alla celebrazione del proprio mito, in particolare con la pubblicazione di due scritti autobiograficiiii che campeggiano in testa a quasi tutte le bibliografie critiche anziché venire considerati, come sarebbe più logico, un’appendice della sua opera. L’imponenza di questi testi, tra le cui righe traspare talvolta la pretesa del regista di essere il primo se non l’unico esegeta dei propri film, potrebbe essere considerata come una delle cause del numero relativamente esiguo di testi veramente critici su Bergman e in particolare su Il posto delle fragole. Detto questo, non si vuole negare che in alcuni casi le interviste e le biografie possano essere di notevole interesse, e più avanti non mancheremo di servircene. Quando però si arriva ad anteporre il creatore, per quanto interessante e rispettabile, alla creazione, allora può darsi che si stia facendo del buon cristianesimo (e anche di questo avremo modo di parlare), ma di certo si sta facendo della cattiva critica.
Il mito dell’intertestualità
Se si guarda all’attività teatrale di Bergman nel periodo prossimo alle riprese de Il posto delle fragole, si può rilevare come molte delle opere messe in scena rimandino significativamente al film in gestazione. L’ultima regia, ad esempio, fu il Peer Gynt di Ibsen, storia di un eroe anziano che nell’imminenza della morte si interroga, attraverso una serie di viaggi e di incontri, sul senso del proprio passato. La costellazione di testi, non solo teatrali, all’interno della quale il film viene a collocarsi finisce per giocare un’ambigua funzione mitica, che agisce come un’arma a doppio taglio. Da un lato la nobiltà dei precursori contribuisce a far risplendere l’aura del genio: in virtù delle citazioni e delle ascendenze, sovente rivelate dallo stesso regista nei suoi scritti, Bergman sarebbe di volta in volta il nuovo Ibsen, il nuovo Strindberg, il nuovo Munch ecc. . D’altro canto, alcuni detrattori, che sono poi detrattori del cinema in quanto tale, fanno leva sui medesimi argomenti per sostenere che il regista non sarebbe altro che un epigono, un divulgatore tramite grande schermo, un assemblatore di “frammenti e detriti di esperienze già vissute dalle avanguardie letterario-artistiche del nostro secolo”iv. Rilevato come i due estremismi si elidano a vicenda, una carrellata delle opere che costituiscono il retroterra del film non è priva di valore, soprattutto per comprendere come il lavoro cinematografico di trascrizione e innesto possa produrre un senso supplementare, forse in realtà più essenziale di ogni presunta creazione pura.
Al centro degli interessi letterari di Bergman c’è la figura di Strindbergv: sia per la sua capacità di muoversi sullo scarto fra onirico e reale sia per l’analisi spietata del matrimonio come meccanismo perverso di attrazione e repulsione. Ne Il sogno si parla di un’esperienza infantile legata a una coppa di fragole selvatiche, di un incubo legato a un esame scolastico, di un dibattito semplicistico fra teologi e razionalisti e di una premiazione all’università. L’ultima opera di Strindberg, La grande strada, racconta il viaggio di un uomo che ripercorre i luoghi e i momenti decisivi della propria vita e si prepara a morire, incontrando una serie di figure emblematiche.
Lo stile visivo de Il posto delle fragole, nel suo alternare lugubri frangenti “espressionistici” a momenti realistici dominati dalla luce dell’estate svedese, è influenzato dall’opera dei due maggiori pittori scandinavi all’epoca della giovinezza del protagonista: Larsson e Munch. Entrambi erano amici di Strindberg e ne dipinsero un ritratto. Larsson è celebre per le sue rappresentazioni incantate della felicità della vita in famiglia nelle grandi dimore borghesi, dove un’illuminazione totale annulla qualunque ombra, quando invece la pittura di Munch, negli anni di fine Ottocento, è caratterizzata da toni cupi, morbosi, funesti. Nella sequenza della colazione in onore dello zio Aron, la posizione di Isak, in primo piano sulla destra dello schermo dando la schiena agli altri personaggi, rimanda alla struttura di alcuni quadri di Munch (in particolare Gelosia, 1895): il protagonista esprime una situazione di solitudine e di angoscia nei confronti della vita delle persone sullo sfondo che, nell’inquadratura di Bergman, si svolge in un’atmosfera edenica caratterizzata proprio dalla luminosità tipica di Larsson, dal bianco delle vesti e dell’arredamento.
Anche le ascendenze cinematografiche de Il posto delle fragole sono dislocabili in base alla duplicità costitutiva del film: l’oggettività delle sequenze al presente guarda alla lezione del neorealismo, mentre gli inserti onirici rimandano all’espressionismo tedesco e soprattutto al cinema muto svedese. La figura di Sjöström, interprete principale del film e principale regista di quella scuola, è decisiva. La potenza della sua “interpretazione” è tale da trasformare un uomo freddo e cupo in cerca di risveglio e riscatto in un saggio stoico capace di gettare in ogni istante uno sguardo critico e veritiero sulla propria vita. In altre parole, la recitazione di Sjöström introduce un forte elemento di continuità che entra in contraddizione con il percorso interiore previsto dalla sceneggiatura, tanto da far concludere a un recensore che “egli è così reale, sensibile, penetrante, così capace di ottenere simpatia in ogni modo, che la spiegazione di Bergman non ha affatto significato”vi. Maureen Turim, nel suo Flashback in Filmvii, riconosce l’importanza capitale del cinema di Sjöström e Stiller, l’altro grande regista del muto svedese, nello sviluppo della figura narrativa del flashback, che trova ne Il posto delle fragole una sorta di sublimazione e trasfigurazione. I punti cardinali del film sembrano quindi essere interni alla tradizione scandinava e in particolare a quella svedese. Appaiono invece meno fondati nella poetica del regista e più dovuti a libere associazioni dei critici altri riferimenti come quelli a Arthur Miller, Scott Fitzgerald e persino, a dimostrazione che la fantasia di certi critici non ha davvero nessun limite, Dickens: la sceneggiatura de Il carretto fantasma di Sjöström è tratta da un romanzo ispirato a Racconto di natale, per cui ci sarebbe una parentela (di quinto grado!) fra Isak Borg e il vecchio Scrooge.
Andrebbero infine considerati i rimandi, pressoché infiniti, agli altri film di Bergman. I film con cui il legame tematico sembra più stretto sono quelli più vicini nel tempo: il precedente (Il settimo sigillo) e il successivo (Alle soglie della vita). L’immagine centrale del primo è la celeberrima partita a scacchi fra il cavaliere e la morte, la cui scacchiera ritorna, in una delle prime inquadrature de Il posto delle fragole, nello studio di Isak Borg, che prima di andare a coricarsi vi indugia per qualche istante come per un ricordo o per un presagio. Poco dopo, l’incubo degli orologi senza lancette confermerà che la sfida è destinata a ripetersi. L’attore che vestiva i panni dello scudiero, Gunnar Björnstrand, ha ora il ruolo di Evald, il figlio nichilista che detesta la vita e chiede alla propria moglie di abortire. Max Von Sydow, il cavaliere che sfidava a scacchi la morte, è ora il benzinaio che racconta di quando Isak, giovane medico, fece nascere lui e suo fratello, e gli promette di battezzare col suo nome il figlio che la moglie porta in grembo. Bibi Andersson, che ne Il posto delle fragole interpreta le due Sara, ha quasi sempre incarnato, anche nei film più tardi e cupi come Persona, l’energia vitale, la semplicità e la bellezza della vita. Ne Il settimo sigillo, nel ruolo della moglie del giullare, offriva al cavaliere una coppa di fragole selvatiche, del cui “posto” Sara diventerà una sorta di dea protettrice. In Alle soglie della vita, che si svolge nel reparto maternità di un ospedale, l’attrice interpreta una ragazza incinta che vorrebbe abortire ma alla fine, pur disperando del proprio futuro di ragazza madre, decide di tenere il bambino. Una sua compagna di stanza ha invece dovuto abortire perché suo marito non desiderava un figlio: un destino uguale e contrario a quello di Marianne, che è interpretata dalla stessa attrice, Ingrid Thulin. Sebbene ci sia chi ritiene che qui “è presente con chiarezza l’elemento religioso”viii, la fertilità e la generazione attraverso il parto sembrano essere, nell’uno come nell’altro film, l’unico senso in cui si possa concepire la trascendenza della finitezza umana e il proseguimento della vita oltre la morte



CI SONO RICORDI

Estratto da  “La coscienza di Andrew.”
E.L. Doctorow
Mondadori.

[...]Ci sono ricordi che portiamo dentro, che custodiamo gelosamente, che non vogliamo e non possiamo condividere. Ricordi che sono veri per noi, di cui siamo gelosi. “Riesco ancora a evocare le voci di mia madre e di mio padre dopo tanto tempo dalla loro morte. Riesco a sentirle distintamente anche se solo per un attimo fugace. Ciò che sento è la loro qualità morale. Il pragmatismo di mia madre. La triste evasività di mio padre. Nelle voci ricordate c’è la qualità morale dei morti. È quel che resta di loro che coincide ancora con loro, quel frammento di voce che restituisce una qualità morale sebbene della persona non ci sia più nient’altro.”[...] 


LA COSCIENZA DI ANDREW

                            I 
Posso dirle del mio amico Andrew, lo scienziato cognitivo. Ma non è una bella storia. Una sera si è presentato alla porta della sua ex moglie, Martha, con in braccio una bambina di pochi mesi. Perché Briony, l’incantevole giovane donna che aveva sposato dopo Martha, era morta. Di cosa? Ci arriveremo. Non ce la faccio da solo, disse Andrew con Martha che lo fissava dalla soglia. Si dà il caso che quella sera nevicasse e Martha era ipnotizzata dai fiocchi soffici, animati, che si posavano sulla visiera del berretto degli Yankees di Andrew. Era così, Martha, rapita dai dettagli marginali come se li stesse mettendo in musica. Persino nelle situazioni di normalità reagiva lentamente, guardandoti con quei grandi, mobili occhi sporgenti. Poi arrivava il sorriso, o il cenno di intesa, o il no con la testa. Dalla porta aperta, intanto, fluttuava all’esterno il tepore della casa, appannando gli occhiali di Andrew. E lui, dietro le lenti appannate, se ne stava impalato come un cieco sotto la neve, ed era privo di ogni volizione quando alla fine Martha protese le mani, prese con delicatezza dalle sue braccia la bambina infagottata, indietreggiò e gli chiuse la porta in faccia. Questo succedeva dove? Martha viveva a New Rochelle, un sobborgo di New York, in una zona di grandi ville di stile diverso –Tudor, Dutch colonial, neogreco –costruite per la maggior parte negli anni Venti e Trenta, edifici discosti dalla strada e circondati per lo più da alti, vecchi aceri norvegesi. Andrew corse alla macchina e tornò portando un seggiolino, una borsa da viaggio, due sacchetti di plastica con tutto l’occorrente per la bambina. Cominciò a picchiare sulla porta: Martha, Martha! Ha sei mesi, ha un nome, un certificato di nascita. Ce l’ho qui, apri la porta, ti prego Martha, non voglio abbandonare mia figlia, ho solo bisogno di un po’di aiuto, ho bisogno di aiuto! La porta si aprì e comparve il marito di Martha, un colosso. Posa quella roba, Andrew, disse. Andrew obbedì e il colossale marito di Martha gli rimise in braccio la bambina. Sei sempre stato un casinista, disse il colossale marito di Martha. Mi spiace che la tua giovane moglie sia morta ma immagino sia morta per qualche tuo stupido errore, una leggerezza al momento sbagliato, uno dei tuoi esperimenti mentali, delle tue famose distrazioni intellettuali. Qualcosa capace in ogni caso di ricordare a tutti noi il dono che hai di seminare sciagure. Andrew depose la bambina nel seggiolino poggiato per terra, sollevò il seggiolino con la bambina e si avviò lentamente verso la macchina, quasi perdendo l’equilibrio sul viottolo scivoloso. Allacciò la cintura di sicurezza attorno al seggiolino sul sedile posteriore, tornò alla casa, raccolse i sacchetti di plastica e la borsa e li rimise in macchina. Una volta sistemato tutto chiuse la portiera, si tirò su e girandosi si ritrovò Martha davanti, uno scialle avvolto intorno alle spalle. Va bene, disse Martha. [riflette] Continui... No, stavo pensando a una cosa che ho letto sulla patogenesi della schizofrenia e del disturbo bipolare. Prima o poi i neurobiologi ci arriveranno, con il loro sequenziamento genico, troveranno le differenze nel genoma –tutte queste stupide proteine associate alla teleologia. Gli assegneranno cifre e lettere, una lettera sforbiciata di qua, una cifra aggiunta di là e... ammirate, la malattia non è più! Quindi Doc, sono guai per lei che cura con le parole. Non ne sia troppo certo. Mi dia retta, finirà col sussidio di disoccupazione. Che altro possiamo fare noi mangiatori del frutto dell’albero della conoscenza se non biologizzarci? Espungere il dolore, estendere la vita. Volete un altro occhio, che so, dietro la nuca? Si può fare. Spostare il retto in un ginocchio? Nessun problema. Anche mettervi le ali se volete, sebbene il risultato più che un volo nel cielo sarebbero giganteschi saltelli, megafalcate radenti come su quei percorsi che sembrano scale mobili appiattite nei lunghi corridoi degli aeroporti. E chi ce lo dice che Dio questo non lo vuole, perfezionare il suo imperfetto, bacato concetto di vita come patologia incurabile? Siamo il suo piano B, la sua polizza assicurativa. Dio opera attraverso Darwin. Quindi Martha alla fine si prese la bambina? Penso anche a noi che ci decomponiamo nelle nostre bare marcescenti, e a come ci reincarniamo, ai nostri piccoli frammenti microgenetici risucchiati nell’intestino di un verme cieco che affiora in superficie neanche lui sa perché, e striscia nella terra fradicia di pioggia solo per morire sull’affilato becco di uno scricciolo. Ehi, è la mia carta d’identità vivente, il mio genoma in poltiglia quello che è appena stato cacato dal cielo ed è finito con un plop sul ramo di un albero, e che adesso penzola dal ramo come una benda umidiccia. Ammirate! Mi sono trasformato in sostanza nutritiva per un albero che lotta per la propria vita. È così, sa? Questi immobili, saldi organismi vascolari combattono silenziosamente per la propria esistenza come facciamo noi l’uno con l’altro, alberi che si contendono lo stesso sole, lo stesso suolo al quale si abbarbicano, e spargono i semi che diventeranno i loro nemici nella foresta, come i principi per i re loro padri negli antichi imperi. Ma non sono del tutto privi di moto. Col vento forte eseguono la loro danza della disperazione, gli alberi carichi di foglie che ondeggiano di qua e di là, gettando in alto le braccia nella foga impotente di essere ciò che sono... Eh, dall’antropomorfismo a sentire le voci il passo è breve. Lei sente le voci? Ah! Sapevo che avrei attirato la sua attenzione. In genere quando mi addormento. Anzi, so che sto per addormentarmi quando le sento. E quello mi sveglia. Non volevo parlargliene e invece ecco che gliene sto parlando. Che cosa dicono? Non so. Cose strane. Ma non è che le sento davvero. Cioè, sono indubbiamente voci, ma al tempo stesso senza suono. Voci senza suono. Già. È come se sentissi il significato delle parole che vengono pronunciate senza il sonoro. Sento il significato ma so che sono parole che vengono pronunciate. Di solito da personediverse. Chi sono queste persone? Non ne conosco nessuna. Una ragazza mi ha chiesto di fare l’amore con lei. Be’, è normale... gli uomini le sognano certe cose. È più di un sogno. Io poi non la conoscevo. Una ragazza con un vestitino leggero lungo fino alle caviglie. E le scarpe da running. Aveva un accenno di lentiggini sotto gli occhi, sembrava che la luce del sole le schiarisse il volto, anche se stava all’ombra. Talmente carina da spezzarti il cuore! Mi ha preso per mano. Be’, questo è più di una voce, di certo più di una voce senza suono. Secondo me succede che produco mentalmente un’immagine da associare al significato che sento... Bene, possiamo tornare a Andrew lo scienziato cognitivo? Faccio fatica a dirle che sento le voci senza suono anche da sveglio, nella mia vita quotidiana. Ma sì, perché non dovrei? C’è stata una mattina, per esempio, mentre andavo al lavoro, ero fermo al semaforo con il giornale e il caffè che avevo preso al deli. Stavo osservando il conto alla rovescia dei secondi del rosso. E una voce mi ha detto: Già che sei lì, perché non aggiusti la zanzariera della porta. Era molto, molto reale, talmente vicina a una vera voce sonora che mi sono girato per vedere chi avevo alle spalle. Solo che non c’era nessuno, ero da solo a quell’incrocio. E qual è stata l’immagine che ha prodotto sentendo quella frase? Era un’anziana. Ho messo me stesso sulla soglia della porta di servizio, nella sua cucina. Era un edificio rurale, una fattoria in rovina. Ho pensato che potesse essere nella Pennsylvania occidentale. Nel cortile c’era un vecchio camioncino con il cassone senza sponde. La donna indossava un grembiule scolorito. Ha alzato gli occhi dal lavandino, per niente sorpresa, e mi ha detto quella frase. Seduta al tavolo, una bambina stava disegnando con un pastello. Era la nipote della donna? Non lo sapevo. Mi ha guardato un attimo prima di tornare al disegno, poi con improvvisa violenza si è messa a scarabocchiarlo tutto: qualsiasi cosa avesse disegnato ora lo stava distruggendo. Lei per caso è l’uomo che chiama il suo amico Andrew, lo scienziato cognitivo che ha portato una bambina di pochi mesi a casa della ex moglie? Sì. E mi sta dicendo che ha sognato di fuggire e di ritrovarsi sulla porta di servizio di una fattoria in rovina non si sa dove? Allora. Non era un sogno, era una voce. Cerchi di stare un po’attento. Questa voce mi ha fatto provare la stessa sensazione di quando avevo sentito il bisogno di scappare dopo che la mia bambina avuta con Martha era morta e con lei la mia vita con Martha. Non mi importava dove sarei andato. Salgo sul primo pullman che vedo a Port Authority. Mi addormento, e al risveglio il pullman si sta inerpicando lungo le strade tortuose della Pennsylvania occidentale. Ci fermiamo davanti alla piccola agenzia di viaggi in uno di quei paesotti e scendo per fare due passi nella piazza: saranno state le due o le tre del mattino, era tutto chiuso di quello che c’era, un drugstore, un negozietto di cianfrusaglie, un corniciaio, un cinema, e a occupare un lato intero della piazza una specie di tribunale in stile neoromanico. Nel quadrato di erba secca ingiallita c’era una statua nero-verdastra di un uomo a cavallo all’epoca della Guerra di Secessione. Il tempo di tornare all’agenzia di viaggi e il pullman è sparito. Così mi avvio fuori dall’abitato, di là dai binari della ferrovia, oltrepassando alcuni magazzini, e due o tre chilometri dopo –ormai era l’alba –trovo questo edificio fatiscente, una fattoria in abbandono. Avevo fame. Entro nel cortile. Nessun segno di vita, così faccio il giro e arrivo alla porta-zanzariera. E ci sono queste due uguali a come me le ero inventate o pensavo di averle inventate, la bambina e la vecchia. E la vecchia è quella che aveva detto quella frase la mattina che stavo con il caffè e il giornale a Washington, in attesa del verde. Insomma mi sta dicendo di essere scappato e di essersi ritrovato proprio sulla stessa porta di servizio di una fatiscente fattoria della Pennsylvania che aveva precedentemente immaginato? No, maledizione. Non è questo che sostengo. Sono salito davvero sul pullman e il viaggio è stato esattamente come ho detto. Lo squallido paesotto, la fattoria diroccata. E quando sono arrivato all’edificio è vero che in cucina c’erano quelle due persone, la vecchia e la bambina coi pastelli. C’era anche un foglio di carta moschicida appeso al lampadario, nero di mosche appiccicate sopra. Perciò era tutto molto reale. Solo che nessuno mi ha chiesto di sistemare la porta. No? Sono stato io a offrirmi di aggiustarla. Ero stanco e avevo fame. Non vedevo uomini da nessuna parte. Ho pensato che in cambio di qualche lavoretto mi avrebbero permesso di lavarmi, mi avrebbero dato qualcosa da mangiare. Non volevo la carità. Così sorrido e dico: Buongiorno. Mi sono mezzo perso, ma vedo che la porta ha bisogno di essere riparata e penso di riuscire ad aggiustarla se mi offrite una tazza di caffè. Avevo notato che non si chiudeva bene, il cardine superiore veniva via dal telaio, la maglia della zanzariera era lenta. Come porta-zanzariera era del tutto inutile, motivo per cui avevano dovuto appendere la carta moschicida al cordino del lampadario. Vede perciò che non era stata una visione paranormale a condurmi in quel luogo. Ero salito su quel pullman e avevo visto la fattoria e quelle due persone e poi le avevo cancellate dalla mia mente fino a quella mattina a Washington, mentre ero in piedi all’incrocio in attesa che i secondi del rosso arrivassero a zero e ho sentito—All’epoca lavorava a Washington? —sì, come consulente del governo, ma non mi chieda a far cosa –e ho sentito la voce della vecchia dire più o meno quello che avevo detto io quando ero comparso sulla porta della sua cucina. Solo che nella sua voce le parole avevano un tono di riprovazione, tanto che l’effetto era: “Visto che non stai facendo niente, perché per una volta non ti rendi utile e aggiusti la zanzariera”. C’è una definizione per questo tipo di esperienza nel suo manuale, giusto? Sì. Ma non sono sicuro che stiamo parlando dello stesso tipo di esperienza. Anche noi abbiamo il nostro manuale, sa? Il suo campo è la mente, il mio è il cervello. Si incontreranno mai? La cosa importante di quel viaggio in
pullman è che ero arrivato ad avere la sensazione che qualsiasi cosa facessi avrebbe arrecato danno alle persone che amavo. Pensa di sapere cosa si prova, Mr Analista seduto sulla sua poltrona ergonomica? Non mi riusciva di capire per tempo cosa fare per evitare il disastro, come se a ogni mio comportamento dovesse per forza seguire qualcosa di terribile. Così sono salito su quel pullman, per scappare e basta, non mi importava altro. Volevo comprimere la mia vita, dedicarmi a sciocche minuzie quotidiane. Non che ci sia riuscito. Le sue parole ne furono l’evidente riprova. Le parole di chi? Del colossale marito di Martha. Quando Andrew varcò la porta d’ingresso vide il colossale marito di Martha che infilava cappotto e berretto e Martha che saliva le scale con la bambina tra le braccia, togliendole il cappuccio, aprendo la lampo della tutina imbottita. Andrew prese nota di una casa spaziosa e ben arredata, molto più elegante di quella in cui avevano vissuto lui e Martha da sposati. L’ingresso aveva un pavimento a parquet di legno scuro. Sulla sinistra intravide un confortevole soggiorno, con soffici divani e poltrone, il fuoco acceso nel camino, e sul muro sopra la mensola il ritratto di quello che gli parve uno zar russo in abito lungo con una croce ortodossa appesa al collo e una corona che somigliava a un copricapo ricamato. Alla sua destra, in uno studio tappezzato di libri, lo Steinway nero di Martha. La scalinata, rivestita da una passatoia rosso scuro con una bacchetta di ottone alla base di ogni gradino, disegnava una curva sinuosa insieme al corrimano, al quale Martha non si stava aggrappando mentre saliva con la bambina in braccio. Era in pantaloni. Andrew notò che aveva conservato la linea e si sorprese a rimarcare, come non faceva da anni, la forma e il vigore elastico del suo sedere. Il cappotto del colossale marito di Martha era di quelli con le spalle arrotondate, il collo a mantellina e le maniche svasate. Un modello che non portava più nessuno. Il berretto, un affarino sportivo indeformabile, era troppo piccolo per la testa del colossale marito di Martha. Disse Martha senza voltare il capo: Va’con lui, Andrew, con lo stesso tono di voce pacatamente imperativo che usava quando erano sposati. Andrew corse ad aprire la portiera del passeggero. Era gratitudine quella che provava mentre il colossale marito di Martha lo raggiungeva e si sistemava sul sedile. Partirono alla volta del pub preferito dal colossale marito di Martha, il quale lo indirizzava senza parlare, segnalando destra o sinistra agli incroci, grugnendo e indicando il parcheggio dopo che furono arrivati. Era un bar in un centro commerciale. Andrew si aspettava una conversazione, una qualche intesa reciproca –dopo tutto condividevano l’esperienza della stessa moglie –, ma una volta seduti al bancone con davanti i drink in alti bicchieri lavorati, e nonostante Andrew attendesse l’inizio della conversazione, il colossale marito di Martha non parlava. Così Andrew disse qualcosa del seguente tenore: Tutto quello che sei convinto di sapere su di me è vero. È vero che ho accidentalmente fatto morire la mia bambina avuta con Martha: le ho somministrato in buona fede il medicinale che ero convinto fosse stato prescritto dal nostro pediatra. Il farmacista aveva spedito il medicinale sbagliato e io non sono stato attento quanto avrei dovuto, avevo passato tutto il giorno sulla mia tesi in scienza cognitiva, ero stato ore in laboratorio oltre a riunioni al dipartimento eccetera, e ho diligentemente versato il medicinale nella sua piccola bocca con un contagocce. Per tutta la notte l’ho fatto ogni due ore, finché la bambina ha smesso di piangere ed era morta. Non mi ero accorto che fosse morta, pensavo avesse finalmente preso sonno. Ero stanco e mi sono coricato a mia volta, toccava a me restare alzato con la bambina malata perché Martha era esausta, aveva dato le sue lezioni di pianoforte tutto il giorno e l’uomo di casa, dopo tutto, ero io. A svegliarmi è stato l’urlo di Martha, un urlo non umano, il verso di un enorme animale selvatico con la zampa impigliata in una trappola d’acciaio, e forse nemmeno un animale dei nostri tempi, qualcosa di simile alla sua versione paleontologica. Disse il colossale marito di Martha, lo sguardo fisso sullo specchio blu dietro il bancone: Quando un animale si ritrova la zampa in una trappola lo sai cosa fa per liberarsi? Se la stacca a morsi. Ma resta menomato per sempre, incapace di provvedere a se stesso e condurre una vita normale. Ti riferisci a Martha, disse Andrew. Già. E così sono rimasto storpiato per sempre anch’io, avendo sposato per amore una donna irrimediabilmente ferita non più in grado di praticare la propria professione. Grazie a Sir Andrew l’Impostore. È questo che sono, Sir Andrew l’Impostore? Già, la cui gentile, bendisposta, generosa, affascinante inettitudine è il modus operandi del più letale dei killer. Facciamocene un altro. Quando Andrew prese il bicchiere per scolare rapidamente il drink, in modo da onorare il debito morale nei confronti del colossale marito di Martha ordinandone un altro, senza averne davvero voglia, il bicchiere gli scivolò di mano. Nel tentativo di recuperarlo agganciò la ciotola di arachidi con la manica della giacca, e nella smania dell’improvvisa necessità di raddrizzare due cose nello stesso momento le perse entrambe, con il bicchiere e il suo contenuto, cubetti di ghiaccio e spicchio di lime compresi, che seguirono la cascata di arachidi sulle ginocchia del colossale marito di Martha. Si sentì offeso da quello che disse? Il colossale marito di Martha. Si infuriò? No, lui è un cantante lirico. La lirica è l’arte delle emozioni incontrollate. Succede una cosa e quelli ci cantano su per ore. Ciò che disse, sebbene espresso in una voce da basso-baritono di grande e minacciosa risonanza zarista, era vero. Non potevo offendermi né infuriarmi, non solo perché era una cosa di me stesso che sapevo già, ma anche perché nel mio cervello c’è una cesura... e perciò l’onore, tra le altre virtù, è qualcosa con cui io non ho alcun legame. Non ce l’ho. Dentro di me, al fondo della mia anima, ammesso che l’anima esista, sono sostanzialmente indifferente a quello che ho fatto. Una pallida sfumatura di rammarico per bambine morte, per mogli morte, per gli incendi che ho appiccato mio malgrado, e nei miei sogni tutte queste sciagure potranno anche farmi fuggire in chissà quale luogo dove io non possa nuocere, ma nella vita di ogni giorno sono sordo al mio rimorso. Però dopo il terribile evento della morte della piccola salì su un pullman diretto verso la Pennsylvania occidentale. Non è così? O adesso sta dicendo che si è sognato tutto? No, quello che è successo davvero è come l’ho descritto. Be’, quindi nella vita di ogni giorno come nei sogni, non stava forse fuggendo? Questo non mi sembra essere sordi al proprio rimorso. Momenti del genere possono capitare ma non sono caratteristici, sono accidentali rispetto allo stato d’animo prevalente. Rimasugli del po’di umanità che posso aver avuto. Capisco. Perché la verità è che io scrollole spalle e tiro dritto. Affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene o nel male. Nelle profondità del mio essere, succeda quel che succeda, resto freddo, impenetrabile al rimpianto, al lutto, alla felicità, pur essendo capace di fingere talmente bene da ingannare persino me stesso. Sto cercando di dire che sono, alla fin fine, tremendamente insensibile. La mia anima giace in un profondo, immobile, meraviglioso, imperturbabile, calmo, freddo lago di silenzio. Ma no, non inganno me stesso. Un killer, ecco cosa sono. E, ciliegina sulla torta, sono incapace di punirmi, di togliermi la vita per la disperazione della rovina in cui ho gettato la vita delle persone, bambine inermi o donne che amo. Ed è questo che il colossale cantante lirico marito di Martha non riusciva a capire mentre mi condannava, magari con la speranza che avessi un’illuminazione e la facessi finita. [riflette] Naturalmente non lo farei mai. Insomma, però Martha aveva una bambina adesso, un surrogato della figlia che aveva perduto. Io non la vedevo da questa prospettiva. Non era mia intenzione consegnarle la bambina punto e basta. È solo che avevo bisogno di aiuto. Per un anno o due. Ero ancora sotto choc per la morte di Briony. Martha invece prese possesso della bimba come se fosse il legittimo genitore. Le diede fastidio? Non ero in condizione di eccepire. Devo farti il disegnino? Sei così duro di comprendonio? Avevo già ammazzato una bambina, volevi che ne ammazzassi un’altra? Comunque ci rincontreremo un giorno. Ha gli stessi occhi azzurri di Briony. Gli stessi colori chiari. Aveva ragione il colossale marito di Martha nel sostenere che lei fosse in qualche modo responsabile anche della morte di sua moglie? Non del tutto. Che significa? È stato indiretto... non un rapporto di causa-effetto. E allora come è andata? Si riferisce al parto? No, non mi riferisco a quello. Come è morta? Non voglio parlarne. [riflette] Posso dirti che, dopo aver ammazzato la bambina avuta da Martha, Andrew accettò una poco remunerativa cattedra di professore a contratto in un piccolo college statale del West di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare. Perché? Perché, secondo te? Perché era lontano. Perché dopo aver ottenuto il divorzio a Martha piaceva farsi trovare davanti al palazzo quando lui tornava a casa dal lavoro. Faceva un tiro di sigaretta, la buttava per terra, la schiacciava e se ne andava. Perciò agli occhi di lei la colpa era sua. Sua e soltanto sua. E di chi altri? Del farmacista, per esempio? Non pensaste di denunciarlo? Oddio, tu non hai idea, vero?, di come la realtà sociale si cancelli completamente in seguito a una cosa del genere. Il cervello frastornato dalla consapevolezza che ciò che hai fatto è irreversibile. Denunciare qualcuno? C’era forse riscatto in questo? Cosa ne avrei ricavato, denaro? Cristo, non so che parlo a fare con te. Denunciare qualcuno avrebbe forse riportato in vita la bambina? E chi avremmo dovuto denunciare? Il pediatra che aveva trasmesso la prescrizione per telefono? il farmacista che l’aveva evasa? il pony express che ci aveva consegnato il medicinale? Dov’è che c’era stato l’inghippo? Chi avremmo dovuto denunciare? Avrei potuto leggere l’etichetta. Avrei potuto denunciare me stesso. Ero stato io a somministrare il medicinale. Solo quello Martha vedeva, che ero stato io, indiscutibilmente, io e nessun altro.
E tu eri d’accordo. Certo. Ero stato io, punto e basta. Ed ecco allora Andrew in esilio volontario in questo college statale alle pendici di una catena montuosa detta dei Wasatch. All’inizio le montagne mi piacevano. Vi arrivai ai primi di settembre, un finale d’estate ancora caldo con tracce di vecchia neve invernale sulle cime. Mi fece capire in che mondo inumano viviamo. Te ne rendi conto quando esci dalla città. Agli americani piace scroccare un passaggio in quel mondo. Cos’è che stai dicendo? Scendere da una montagna con un paio di sci ai piedi – è una corsa gratis, per esempio. Cavalloni del mare, fiumi d’acqua bianca. Un vento cui tenersi aggrappati. Passaggi offerti dal pianeta. Tutti pronti a tua disposizione, puoi salire, scendere, o farti ammazzare.

mercoledì 3 luglio 2019


LA RAGAZZA DI BUBE
Carlo Cassola

A proposito di estremismo e condotta morale, ho riletto per riflettere ancora sul passaggio cruciale per la nostra democrazia, alla fine della seconda guerra mondiale. Stimolato da una riflessione di Italo Calvino che osservava  come non fosse  registrato nel romanzo il contrasto di fondo che ha caratterizzato la storia del partito comunista nel dopoguerra: il contrasto cioè tra il partito armato, votato all'estremismo, quale era uscito dalla Resistenza, e il partito «modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace di agire sul piano d'una democrazia avanzata». Ma Calvino non esprimeva  una condanna del romanzo, anzi rilevava che Cassola aveva inteso darci il romanzo di Mara, «cioè di come può attuarsi in un mondo estremista una condotta morale».”

LA RAGAZZA DI BUBE
Capitolo 1

  Mara sbadigliò. Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e la sera lo avrebbe raccontato "alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non" era vero. E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio.
  Le piacque talmente l'idea che le venne una gran voglia di farlo. Ma poi indugiò a guardarsi nello specchio ovale del cassettone. Si mise le mani sotto i capelli, per vedere come sarebbe stata se li avesse avuti gonfi. Il vetro era scheggiato per traverso, sì che non ci si poteva specchiar bene: la faccia non c'entrava tutta.
  Dopo qualche minuto, scese in cucina.
  «Dove vai?» le gridò dietro il fratello.
  «Sto qui. Uggioso.»
  «No, tu vai fuori» piagnucolò il fratello. Era incredibile la paura che aveva di restar solo.
  «Non vado fuori. Sto qui». Si era messa alla finestra.
  La finestra dava su uno spiazzo tra le case. In fondo lo spiazzo si restringeva in una specie di vicolo, che immetteva nell'unica strada del paese.
  Mauro era seduto sullo scalino della casa di fronte.
  «Ehi! Non ci sei andato a lavorare?» lo apostrofò Mara.
  Mauro non rispose. Si alzò pigramente e attraversò il piazzale. I calzoni gli scivolavano lungo i fianchi magri, e ogni poco era costretto a tirarseli su.
  «Vieni fuori» le disse.
  «Non posso. Devo guardare a Vinicio.»
  «Vengo io dentro.»
  «Nemmeno.»
  «E perché?.»
  «Mamma non vuole che tu venga quando sono sola.» Aveva risposto così senza pensarci, e un momento dopo ne era già pentita. La faccia di Mauro si era infatti aperta in un sorriso malizioso.
  «Lo so dov'è andata tua madre. A spigolare.»
  «No» mentì Mara. «È andata qui vicino e ora torna.»
  Mauro ridacchiò:
  «È andata a spigolare» ripeté. «Sicché prima di buio non torna. Vedi che puoi farmi entrare.»
  «Non voglio io.»
  «E io entro lo stesso.»
  «Non puoi. Ho messo il paletto.»
  Se Mauro si fosse dato la pena di provare, si sarebbe avvisto che la porta era solo accostata. Ma non lo fece; e Mara fu molto soddisfatta della sua furberia. «Lasciami entrare» la supplicò. «Ti piacerebbe, eh?» lo stuzzicò lei.
  Mauro stette zitto. Aveva una faccia larga, con l'attacco delle mascelle molto pronunciato; sopra il labbro gli cresceva una fitta peluria nera, ma le guance e il mento erano senza peli. I capelli li aveva sempre arruffati. «Hai paura?»
  «Di che dovrei aver paura?» si risentì lei.
  «Di me» e la sua faccia si allargò ancora di più in un sorriso compiaciuto. «Figuriamoci se ho paura di te.»
  «Allora aprimi.»
  «No.» E gli fece uno sberleffo.
  «Bene, tu intanto devi stare in casa mentre invece io me ne vado in giro» disse dopo un po' Mauro. «M'importa assai.»
  «Vado a trovare Annita.»
  «Vacci.»
  «Scommetto che ti dispiace.»
  «Povero scemo.»
  Mauro assunse l'aria di chi la sa lunga: «Voi donne fate finta di niente… ma poi vi rodete il fegato.»
 «sentiamo perché mi dovrebbe dispiacere?»
  «Perché Annita ti ha portato via l'amoroso.
  «Saresti tu il mio amoroso?» Mara scoppiò a ridere. «Io te, guarda, nemmeno ti vedo. Se tu sparissi, nemmeno me ne accorgerei.»
  «E a me, credi che me ne importi qualcosa di te?»
  «E allora perché non te ne vai?»
  «Da dove me ne devo andare?»
  «Da sotto la mia finestra. Se non te ne importa, perché ci stai?»
  «Io sto dove mi pare.» Si frugò in tasca, tirò fuori un mozzicone, poi un fiammifero, e l'accese strofinandolo contro il muro.
  Tanto per far vedere che non stava lì per lei, le aveva voltato le spalle; allora Mara, spenzolandosi dal davanzale, gli tirò i capelli.
 «Ahi! stupida. Mi hai fatto male. Perché non mi lasci entrare in casa?»
  «Te l'ho detto perché.»
 «Ma non c'è nessuno che vede.»
  «Perché vuoi venire in casa?»
  «Per parlare.»
  «Si può parlare anche così.»
  «Ho da dirti una cosa. Un segreto.»
  «Dimmelo.»
  A un tratto il ragazzotto fece una faccia contrita: «Ti prometto che tengo le mani a posto.»
  «Sì, e io sono così stupida da credere alle tue promesse!» Si arrabbiò: «Mi avevi giurato che non le parlavi più, a Annita; e invece, l'altro giorno, ti ci ho visto insieme.»
  «Perché tu non mi dai più soddisfazione» rispose Mauro.
  «E lei invece te la dà, vero? Bella soddisfazione ci dev'essere, ad andare con quella. È anche guercia» e rise. Abbassò la voce: «Lo sai come dice mio padre? Le donne di quella famiglia… sono tutte svelte ad alzare le sottane» e tornò a ridere.
  Il ragazzo invece rimase serio. «Ti prego, fammi entrare» ripeté ostinato.
  «No.»
  «Un minuto solo.»
  Mara lo guardava ironica. Le piaceva eccitarlo coi discorsi, per lasciarlo poi insoddisfatto.
  A un tratto il ragazzo smise di supplicarla; si tirò su i calzoni, e disse con aria fiera: «È inutile che fai la schizzinosa con me; tanto quelle cose ce le hai fatte…»
  «Parla piano, stupido.»
  «Non è vero che ce le hai fatte?» ripeté lui a voce più bassa. «Quando? Io non me ne ricordo più.»
  «Bugiarda. Ancora l'anno scorso, di questa stagione…»
  «Sei tu bugiardo.»
  «Guarda: ti dico anche il posto: lì sotto il forno. O vorresti negare?»
  «Lo nego, sì, lo nego.»
  «Sei una bugiarda e una vigliacca.»
  «Tu sei un bugiardo e un vigliacco. Io le sottane non le ho alzate, se è questo che intenderesti dire.»
  «Ma mi hai sbottonato i calzoni» replicò il ragazzo.
  Mara non gli parlò più, smise anche di guardarlo. "Poteva essere morto", pensava con rabbia. Proprio la settimana avanti andava al campo insieme con una zia e a un'altra donna, e quest'ultima aveva messo il piede su una mina ed era saltata in aria. Anche la zia era rimasta ferita, ma leggermente, tanto che era già tornata dall'ospedale. E Mauro, nulla, nemmeno un graffio.
  "Quanto avrei pagato che ce l'avesse messo lui il piede sulla mina", si ripeteva Mara. Erano cresciuti insieme in quella specie di cortile, lei, Annita e Mauro; c'erano anche altri ragazzi, ma loro tre erano inseparabili. E ne avevano fatte di porcherie (le chiamavano proprio così: «le porcherie»). Annita già allora era una svergognata, che andava con tutti i ragazzi, mentre lei solo con Mauro. Una volta per la verità anche con un altro, ma per far rabbia a Mauro. Quelle comunque erano cose da ragazzi, chi gli dava importanza; le facevano tutte. Liliana magari no, ma perché era una stupida, sempre attaccata alle sottane della mamma.
  Il guaio era stato l'anno avanti, che ormai non erano più ragazzi, né lei né Mauro. Lui, che per anni nemmeno l'aveva guardata, a un tratto le s'era messo intorno, e ogni momento allungava le mani, quando la toccava davanti, quando di dietro; e Mara, schiaffi. Era un divertimento, perché lui quando era eccitato non era buono a reagire: si prendeva il ceffone, e zitto. Gliene aveva stampati in faccia con tutta la forza, da lasciarci l'impronta delle dita.
  Una sera, invece, che lei le aveva prese dalla madre, e si era rifugiata a piangere sotto il forno: era sopraggiunto Mauro, e si era messo a consolarla; poi aveva cominciato a farle le carezze, ma per bene, come un vero innamorato… "Era buio, nemmeno lo vedevo in faccia; sennò, non mi sarei lasciata abbracciare". Perché quel ragazzotto le era odioso, proprio, odioso. E a un tratto, nemmeno lei sapeva com'era stato… Certo, non si era fatta far niente; lui, da questo punto di vista, non aveva proprio di che vantarsi.
  «Io da te non mi sono fatta far niente» gli disse.
  Mauro ridacchiò:
  «Ma a me qualcosa m'hai fatto.»
  «Tanto non lo sa nessuno. Anche se lo vai a ridire, io dico che sei un bugiardo.»
  «La gente crede ai giovanotti, non alle ragazze.»
  «A un bugiardo come te non ci crede nessuno.»
  «Facciamo un patto. Io ti giuro che non lo ridico, ma te, adesso, mi fai entrare cinque minuti.»
  «Su che cosa lo giuri?»
  «Sulla Madonna. Anzi, guarda, su santa Lucia, che possa rimanere accecato se non mantengo il giuramento.»
  «Tu in testa ci hai le pigne, vedi» disse improvvisamente Mara. Gli rise in faccia e si tirò bruscamente indietro. Poi rimase ferma in ascolto.
  «Mara» chiamò il ragazzo. «Mara, senti. Dove sei andata?»
  Lei soffocava a stento le risate. «Ascoltami, Mara.»
  Chiamò e supplicò ancora per un poco, quindi lo sentì che si allontanava.
  Il pomeriggio del giorno dopo, Mara era di nuovo affacciata alla finestra di cucina. Guardava in fondo al vicolo, nel breve tratto di strada che era dato vedere, sperando che comparisse una macchina americana. Era stato così divertente i primi giorni dell'arrivo degli americani! Ce n'erano una quantità accampati sotto la canonica; arrivavano con le macchine in mezzo agli olivi, in un punto ci avevano anche spianato per giocarci col pallone. La sera erano sempre in giro per il paese, bussavano a tutte le porte chiedendo il vino: in cambio davano pacchetti di sigarette e roba in scatola.
  A lei avevano regalato tavolette di cioccolata, caramelle e biscotti. Le dicevano: «Signorina, bella signorina». Ma lei ne aveva paura e scappava. A un tratto, erano partiti; ne erano arrivati degli altri, ma c'erano rimasti due giorni soltanto; dopo di allora, passava ogni tanto qualche macchina, ed era tutto.
  Si sentì il rumore di una macchina. Ansava su per la salita breve ma ripida che immetteva in paese. Mara guardò ancora più intensamente da quella parte, sperando che fosse un camion americano.
  Non era americano. Era un camion civile, piccolo e sgangherato; c'erano sopra la rete di un letto, un materasso, un comò, una catasta di sedie, altri mobili. C'era anche un giovanotto, che saltò giù prima ancora che il camion si fermasse. Aveva uno zaino in spalla, e un fazzoletto rosso al collo.
  Benché un partigiano non fosse così interessante come un americano, Mara rimase a guardarlo. Lo vide parlare col conducente. Il camion ripartì. Il giovanotto si guardò intorno, come se non sapesse dove andare. Chiese qualcosa a una bimbetta, e questa gli rispose indicando proprio in direzione della loro casa.
  Il giovane venne diritto verso di lei. Si fermò sotto la finestra:
  «Sta qui Castellacci?»
  «Sì» rispose Mara. «Ma ora non c'è.»
  Di nuovo il giovane parve indeciso. Mordicchiandosi un dito, Mara lo osservava. Era magrolino, bruno, coi capelli lisci e i baffetti.
  «Dov'è?» fece a un tratto.
  «A Colle» rispose Mara.
  «Ma torna?»
  «E chi lo sa. Certe sere torna, e certe altre rimane a dormire a Colle.»
  «Allora era meglio se mi fermavo a Colle» disse il giovane, come parlando tra sé. «Lei chi è? La figlia?» Mara annuì. «Non c'è nessuno in casa?» Mara fece segno di no. «Io ero un compagno del povero Sante» disse a un tratto il giovane.
  Mara non rispose nulla. Le dava fastidio quando rammentavano il fratello.
  «Be', ormai che ci sono, lo aspetto» si decise bruscamente il giovane. Mara si scostò dalla finestra, ma senza andargli incontro.
  Il giovane entrò, salì i due scalini che immettevano in cucina, si sfilò lo zaino e lo appoggiò contro il muro. Poi si guardò intorno incerto; e, di nuovo, ebbe un'uscita brusca:
  «Sua madre c'è?»
  «No» rispose Mara. Continuava a osservarlo. Sembrava molto giovane, perché aveva la barba fatta solo sul mento. E nello stesso tempo aveva un aspetto serio, da uomo. Era tutto stracciato: una tasca della giacca era scucita; uno strappo su un pantalone gli metteva a nudo il ginocchio.
  Il giovane si guardò anche lui lo strappo:
  «Ha mica un po' di filo e un ago? Almeno, mentre aspetto, mi ricucio qui.» E aggiunse: «C'è da vergognarsi, a tornare a casa in queste condizioni.»
  Mara salì nella camera di sopra. Vinicio dormiva mezzo fuori del lenzuolo, con la faccia rossa sudata. Mara prese in un cassettino del comò un gomitolo di filo nero e una pezza in cui erano infilati gli aghi; si specchiò per qualche momento, e tornò abbasso.
  Lo trovò che s'era tolto la giacca. In camicia, sembrava anche più magro. Dalle maniche rimboccate sbucavano due avambracci sottili e senza muscoli.
  Senza parlare, Mara tese la mano per farsi dare la giacca.
  Il giovane si confuse.
  «Sono buono anche da me… Con la vita che s'è fatto, abbiamo imparato anche a rammendare.»
  Tuttavia le diede la giacca, e Mara andò nel vano della finestra e ricucì la tasca.
  «No, qui non importa» disse il giovane, quasi avesse ritegno a farsi mettere le mani addosso. Mara ridacchiò dentro di sé: era proprio un giovanottello timido. Gli fece segno di sedere e gli s'inginocchiò accanto: «Non abbia paura, non la buco» disse vedendo che istintivamente si tirava indietro.
  «È mica perché ho paura» fece il giovane, serio.
  «Ecco servito» disse Mara alzandosi. Anche al giovane venne fatto di alzarsi. Per un po' stettero in piedi l'una di fronte all'altro, lei guardandolo con disinvoltura, anzi con sfacciataggine, e lui che invece non sapeva da che parte guardare.
  Al solito, uscì dall'imbarazzo in modo brusco:
  «Me lo aveva detto Sante di lei. Ma credevo… voglio dire, non è che gli somiglia tanto.»
  «Non eravamo proprio fratelli» rispose Mara.
  «Cosa?»
  Ancora una volta le venne da ridere, ma si contenne:
  «Eravamo fratellastri» spiegò.
  «Ah» fece il giovane, aggrottando la fronte. Si rimise seduto e per darsi un contegno cominciò a tamburellare con le dita sul tavolo. Fischiettava, anche, ma in modo goffo, gonfiando esageratamente le gote e sporgendo troppo le labbra.
  Smise di colpo:
  «Sante e io eravamo come fratelli» disse. «Voi in che modo l'avete saputo?»
  «Venne un contadino di quelle parti» rispose Mara. Ne parlava con ripugnanza, perché le tornavano in mente le scene che c'erano state in casa… la madre che gridava al padre che la colpa era sua se a Sante gli era venuta quell'idea di andare tra i partigiani. Quanto a lei, non gliene era importato nulla; anzi, era contenta che ormai la camera di Sante era diventata sua, mentre prima le toccava dormire in cucina.
  Tornò per primo il padre. «Mamma dov'è?» chiese con malgarbo.
  «A spigolare» rispose Mara. E, vedendo che il padre faceva l'atto di salire in camera: «Guarda, c'è questo…» si scostò e indicò il giovane.
  Il padre si fermò, interdetto.
  «Ero un compagno di Sante» disse il giovane.
  «Ah» fece il padre. «Piacere, giovane. Sono contento…» Non trovava le parole. «E mamma?» ripeté voltandosi verso la figliola.
  «Te l'ho detto, è a spigolare.»
  «Ah, sì.» Sembrò rammentarsi di qualcosa: «E Vinicio? Ha sempre la febbre? Ma accendi, che non ci si vede un accidente.»
  «Non hanno ancora dato la luce» rispose Mara.
  «Ah.» Tornò a rivolgersi al giovane: «Accomodati. Fai come se fossi in casa tua. Dunque, tu eri con Sante…»
  «Anche quella volta a Montespertoli» rispose il giovane.
  «Ah.» E il padre si passò una mano sulla faccia nera di barba. «E dimmi: sei di queste parti?»
  «Di Volterra» rispose il giovane. «Ora sono in viaggio per tornare a casa. Potevo magari arrivare in serata; ma ho pensato, giacché ero sulla strada, di fermarmi a casa di…»
  «E hai fatto bene. Ti ho visto con tanto piacere. Questa è casa tua, figliolo. I compagni di Sante, per me sono come figlioli. Ora appena torna mamma si cena, e poi te ne vai a dormire. Lo mettiamo in camera di Sante» aggiunse rivolto a Mara. «Te, magari, puoi andare da zia.»
  «Ma io non voglio arrecare disturbo» si affrettò a dire il giovane. «Io posso adattarmi anche qui in cucina. Sono abituato a dormire in terra» aggiunse con un leggero sorriso.
  «Neanche per idea» fece il padre. «Te l'ho detto, qui devi far conto di essere a casa tua. Puoi restare tutto il tempo che vuoi. E, scusa la mia curiosità, giovane… Come ti chiami?»
  «Cappellini Arturo. Però m'hanno sempre chiamato Bube.»
  «Ma da partigiano, come ti chiamavi?»
  «Vendicatore» rispose il giovane.
  «Ah, sì. L'avevo sentito fare il tuo nome, da Sante… Vendicatore, appunto» ripeté come per convincersi che quel nome gli era noto.
  Era entrata la madre. Il giovane si alzò di scatto. Per qualche istante rimasero tutti quanti zitti.
  «Mamma, questo era un compagno del nostro figliolo» disse il padre.
  La donna guardò con indifferenza il giovane, poi riprese a salire e sparì per le scale.
  «Eh» fece il padre scuotendo il capo. «Tu devi capire» disse rivolto al giovane «per una madre è un colpo troppo duro… Anche per me, s'intende, è stata dura. Ma, cosa vuoi? noi uomini sappiamo farcene una ragione.»
  «Per tutti è stata dura» disse il giovane. «Sante per me era come un fratello.»
  «Eh» fece il padre. «Purtroppo, nelle rivoluzioni, nelle guerre, non si può pretendere di arrivare in fondo tutti… Ogni causa esige i suoi caduti.»
  «Ecco la corrente» disse Mara, che dalla finestra aveva visto accendersi la luce nella casa di fronte.
  Al tasto trovò l'interruttore. La stanza s'illuminò fiocamente.
  «Oh, ora ci vediamo meglio in faccia» disse il padre soddisfatto. «Perbacco, sei più giovane di come m'eri sembrato… Quanti anni hai?»
  «Diciannove.»
  «Un anno meno del mio Sante» commentò il padre. «Avanti, dacci da bere» disse alla figliola. Mara aprì la credenza, prese il fiasco e due bicchieri e li posò sul tavolo. Il padre mescé facendo traboccare i bicchieri, e ne porse uno al giovane.
  «Alla salute» disse questi bevendo un piccolo sorso.
  «Alla tua, compagno» rispose il padre. Vuotò il bicchiere e se ne versò subito un altro. «Perché sei un compagno anche tu, no?»
  «Vorrei vedere» fece il giovane, con aria quasi offesa.
  «Io sono comunista da quando fu fondato il Partito. Vedi qui?» disse indicando una cicatrice sulla fronte. «È un segno di quando quei vigliacchi mi bastonarono, in tempo di elezioni, nel '24…»
  Seduta su uno sgabello, Mara aspettava che fosse pronta l'acqua per rigovernare. Rigovernare toccava sempre a lei, perché alla madre era un periodo che le faceva male mettere le mani nell'acqua. Quella sera poi non aveva nemmeno cenato e se n'era andata subito a letto.
  Bube e il padre erano rimasti a tavola a chiacchierare e a bere. Per la verità, chiacchierava e beveva soltanto il padre; e a un tratto, come gli accadeva sempre in questi casi, rimase con un discorso a mezzo; chiuse gli occhi, e abbassò il capo sul petto. Un momento dopo russava.
  Il giovane si voltò a guardarla, sconcertato.
  «Quello fa venire il mal di capo, da quanto chiacchiera» rispose Mara, e rise.
  «Mi stava parlando… delle cose del Partito» disse serio il giovane.
  «E lei ci provava gusto a starlo a sentire?»
  Il giovane fece una faccia meravigliata. «La politica, certo, non è fatta per le donne» disse dopo un po', con una sfumatura di disprezzo nella voce. «È una cosa che guarda noi uomini» e si batté in petto, per dare maggior forza all'affermazione. Si alzò, aprì lo zaino, cominciò a frugarci dentro. A un tratto Mara se lo vide davanti con una rivoltella.
  «Ma che le piglia?» fece spaventata. «La posi subito.» Bube sorrise:
  «Non abbia paura, è scarica.» Guardò la rivoltella con aria compiaciuta: «Questa qui, vede? ha già sistemato diversi conti. E non è mica finita.» Alzò la voce: «Cosa credevano? Che il nome di Vendicatore lo avessi preso per nulla?»
  Mara cominciò a rigovernare. Con la coda dell'occhio o vedeva che si dava di nuovo da fare intorno allo zaino. Da ultimo tirò fuori una pezza gialla: «Prenda, gliela regalo.» Aggiunse: «È stoffa di paracadute. Seta.»
  Mara si affrettò ad asciugarsi le mani, strofinandole contro il grembiule ruvido. Era proprio seta, e anche 0ande abbastanza da farci una camicetta.
  «Le piace?»
  «Certo che mi piace.»
  Il giovane sembrò soddisfatto. «Ah» fece stirandosi, «comincio proprio a non poterne più. È da stamani che sono in piedi.»
  «E Allora, perché non se ne va a dormire?»
  «Le tengo compagnia finché non ha finito. Anzi, guardi, mentre lei lava, io le asciugo, così fa prima.»
  Mara ogni tanto gli dava un'occhiata: le veniva da ridere, a vederlo che asciugava piatti e bicchieri con la sua solita espressione seria.
  Quando ebbe finito, si slacciò il grembiule e diede un urtone al padre, che si svegliò con gli occhi stralunati: «Che c'è?» disse.
  «C'è che devi andare a letto. A smaltire il vino» e si mise a ridere. Si rivolse a Bube: «Allora, arrivederci; e… grazie del regalo.»
  «Ma le pare? Nulla, nulla» balbettò il giovane. Di colpo cambiò tono: «Avevo due pezze con me… una la porto a mia sorella, e l'altra, l'ho voluta dare alla sorella di Sante.»
  Alla finestra si affacciò una forma nera: «Sei tu? Ora scendo.»
  C'era la luna piena, che dava un risalto esagerato alle ombre. Si distinguevano nitidamente la vallata, e i profili delle colline al di là. E si udiva distintamente il canto dei grilli. A un tratto echeggiò l'urlo rauco della civetta: Mara si spaventò.
  La porta fu socchiusa: era Liliana, in camicia da notte, col candeliere in mano.
  «Come mai? E andata via la luce?»
  «Non lo sai che la levano sempre a quest'ora?»
  «Ma è molto tardi?»
  «Sì. Ormai credevo che non venissi più.»
  La camera di Liliana era piccola, col soffitto che spioveva. Ma almeno c'era tutto: il comodino, il cassettone l'armadio. Nella sua, invece, pensava Mara con rabbia, c'era soltanto un cantonale.
 Quando furono a letto, Liliana le chiese:
  «Chi è questo giovane?»
  «Un amico di Sante.»
  «Di dov'è, di Colle?»
  «No. Di Volterra» rispose Mara. L'insistenza della cugina le faceva pensare che si fosse messa in testa qualcosa. Subito si sentì in dovere di alimentare i suoi sospetti: «Pensa, doveva andare a casa, sono nove mesi che non vede la sua famiglia; ma prima, s'è voluto fermare da noi.»
  «Aveva da riportarvi della roba di Sante?»
  «No. La roba di Sante l'aveva riportata quel contadino. Lui è venuto… perché aveva da portare un regalo a me.» Liliana fece un movimento. «Ma perché tieni la candela accesa? Spengi. Si può parlare anche al buio.» Al buio le riusciva più facile dire le bugie.
  Dopo che ebbe spento la candela, Liliana rimase per un po' zitta e ferma; poi tornò ad agitarsi, e alla fine chiese:
  «Che regalo?»
  «Una pezza di seta, per farci una camicetta. Domani te la mostro.»
  «Ma tu quando lo avevi conosciuto?»
  Mara fu lì lì per inventare chissà che storia. Ma sapeva che Liliana non avrebbe mancato di venire a informarsi dalla madre; perciò disse: «No, io non lo conoscevo. Ma lui sì: mi aveva visto in fotografia». Questo del resto poteva esser vero, Sante s'era portato dietro una fotografia dei genitori, e c'era anche lei, ma figuriamoci, quando era ancora una bambina.
  «Come, in fotografia?» Ormai Liliana non cercava nemmeno più di nascondere la sua curiosità; e Mara dovette raccontarle per bene com'erano andate le cose. Dunque Sante aveva con sé una fotografia di lei: «Sai quella che mi son fatta l'anno passato». L'aveva mostrata a Bube, e Bube se l'era tenuta. Una volta poi che Sante era venuto a casa, Mara gli aveva detto: «Rendimi la fotografia». Sante allora aveva dovuto confessarle di averla data a un amico. «Io mi sono arrabbiata, figurati… Non volevo che una mia foto fosse finita in tasca a un giovanotto.» Liliana non fiatava. Finalmente disse: «E allora?»
  «E allora cosa?»
  «Che ti ha detto quando ti ha visto?»
  «Mi ha detto che ero come in fotografia. Anzi, meglio ancora che in fotografia. Ma io, figurati, l'ho trattato male; gli ho detto che non aveva il diritto di tenersi una mia foto, dal momento che non c'era nulla tra noi e nemmeno ci conoscevamo. E lui sai come mi ha risposto? "Signorina da quando ho visto la sua foto non ho fatto che pensare a lei". Poi mi ha dato la pezza in regalo, ma io non la volevo accettare.»
  «Però l'hai accettata» disse pronta Liliana.
  «Mica subito. Dopo cena, quando ci siamo riparlati. Lui mi ha detto che se non avessi accettato il suo regalo, gli avrei dato un dolore da morire… E allora, che dovevo fare? Ho accettato.»
  «Secondo me hai fatto male.»
  «E perché?»
  «Perché ti sei legata.»
 «Niente affatto. Io non ho detto mezza parola che glielo potesse lasciar credere.»
 «Insomma, faresti bene a pensarci due volte, prima di metterti con uno che in fin dei conti l'hai conosciuto soltanto oggi.»
 «E chi ha intenzione di mettercisi? Io, figurati, non è mica il solo giovanotto che mi sta dietro. Ora però basta, è tardi, dormiamo» e le voltò la schiena.
  Liliana non osò più dir nulla, ma la sentì cambiare posizione parecchie volte. "Mangiati il fegato, vai", pensava Mara, lasciandosi scivolare soddisfatta nel sonno.

Capitolo 2
  Bube ricomparve il mese dopo. Era una mattina che facevano il pane: Mara aveva aiutato la madre a infornare, poi era tornata a casa. Ed ecco, davanti alla porta, con la sua solita aria indecisa, c'era Bube. «Buongiorno» disse. Subito dopo domandò del padre. «È a Colle.»
  Bube fece un gesto di disappunto: «Avevo proprio bisogno di vederlo… Stasera torna?»
  «Credo di sì.»
  «È che io non posso aspettare fino a stasera.» E Spiegò che era venuto in motocicletta con un amico, il quale aveva proseguito: «Siamo d'accordo che ripassa a prendermi dopo mangiato.»
  Entrarono in casa. Bube indossava lo stesso vestito blu dell'altra volta, però smacchiato e rassettato. Aveva anche qualcosa di diverso, nella faccia, nell'espressione…
  «Perché si è tagliato i baffi?»
  «Come? Ah, sì, è vero» e sorrise. «Erano un avanzo della vita alla macchia» aggiunse poi. «Tutti, alla macchia, c'eravamo fatti crescere i baffi… qualcuno anche la barba.»
  «Lei sta meglio senza.»
  «Eh» fece Bube, incerto.
  Rimasero in silenzio. Poi Mara ebbe un'idea:
  «Vado a mettermi la camicetta. Vedrà come mi sta bene.»
  «Che camicetta?»
  «Quella che mi son fatta con la pezza che mi ha regalato». E corse in camera. In un momento si levò il vestito, indossò la gonna e la camicetta, e si legò i capelli con un nastro celeste.
  Il giovane stava fumando. La guardò, ma non disse nulla. «Come mi sta?»
  «Bene» rispose Bube, asciutto.
  Mara sedette su uno sgabello. Per l'appunto aveva anche fame, ma le seccava mangiare in presenza di lui. Cos'era venuto a fare, se stava lì senza dire una parola?
  Cercò di avviare lei la conversazione:
  «A casa… ha trovato tutti bene?»
  «Sì» rispose Bube. «Mia madre, magari, non tanto bene. È a causa di tutti gli spaventi che s'è presa. Quei vigliacchi l'hanno tenuta in carcere un mese, perché non voleva dire dov'ero io.»
  «E… la sua fidanzata?» azzardò Mara.
  «Io non ce l'ho mica la fidanzata» rispose serio il giovane.
  «Non sarà magari fidanzato in casa… una ragazza però ce l'avrà anche lei. Tutti i giovanotti ce l'hanno.»
  «Io… non ho avuto il tempo di pensare a certe cose» rispose Bube. «L'anno scorso di questi tempi ero già alla macchia.»
  «Ma ora è un bel po' che è tornato a casa.»
  «Sì, ma cosa crede? Il giorno lavoro, e la sera vado in sezione. Nono mai un momento libero, nemmeno la domenica.»
  «Oggi però se l'è presa una giornata di libertà.»
  «Be', oggi… Era tanto che volevo venire a farle una visita» aggiunse improvvisamente. Si spaventò delle proprie parole: «Intendo dire che, trattandosi della sorella di Sante… Io non li dimentico, i compagni che sono morti» disse alzando il tono della voce. «Non sono come tanti, che a queste cose non ci pensano nemmeno più.»
  Ma lei aveva smesso di ascoltarlo: aveva saputo quello che le premeva sapere, le bastava così. Era tutta trionfante, dentro di sé. Ora Liliana non avrebbe più potuto mettere in dubbio che quel giovanotto s'era innamorato di lei subito a prima vista…
  «Mara! Ma dove ti sei cacciata?» Era la madre, che veniva a vedere che stava facendo la figliola.
  Dopo uscirono per andare alla bottega. Più che altro era una scusa escogitata da Mara per farsi vedere insieme con quel giovanotto forestiero.
  Ebbe fortuna: subito fuori della bottega, s'imbatté nella cugina.
  «Dove vai?» le chiese.
  «A casa» rispose Liliana. Se ne stava lì con aria seccata, fingendo di non accorgersi di Bube, che s'era fermato a due passi di distanza. «È vero che tuo padre è tornato a stare a Colle?»
  «No» rispose Mara. «Va su e giù con la bicicletta.»
  «Io avevo sentito dire che ci stava proprio fisso.»
  «Non è vero niente» ribatté Mara con vivacità. Le era parso che ci fosse qualche allusione maligna sotto. Già una volta infatti il padre aveva abbandonato la famiglia per andare a stare con un'altra donna.
  «E che ci va a fare a Colle?» insisté Liliana.
  «Lavora per conto dei comunisti» rispose Mara.
  «Ma quello non è un lavoro.»
  «Vedo che prende la paga, dunque è un lavoro.»
  «Mica come quello che fa mio padre.»
  «E perché? Il muratore, è forse un mestiere meglio degli altri?»
  «Per lo meno, ai muratori il lavoro non gli manca mai. Tuo padre, invece, è stato a casa anche un anno di seguito. E poi, mio padre non è mica più muratore.»
  «E cos'è, allora?»
  «Capomastro» rispose Liliana. Mara non seppe come replicare, anche perché non conosceva bene il significato della parola. «Sai? Ora che deve cominciare un lavoro a Colle, si porterà dietro Mauro.»
  «Mauro?» fece Mara ridendo. «Ha una bella voglia di lavorare, quello.»
  «Voglia o non voglia, bisogna bene che cominci. Sai? Sua madre è venuta a raccomandarsi a mio padre, perché lo mettesse al lavoro.»
  «E cos'è diventato tuo padre, per mettere gli altri al lavoro? Il padrone di una fabbrica?»
  «Capomastro, non te l'ho detto che è capomastro? Lo sai o no chi sono i capimastri?»
  «Certo che lo so» si affrettò a rispondere Mara.
  «E allora perché ti meravigli se mette la gente al lavoro? Potrebbe assumere anche tuo padre» aggiunse dopo un po'. «Certo, bisognerebbe che smettesse di bere.»
  «Mio padre non ha bisogno del tuo per trovar lavoro; ce l'ha già, come te lo devo dire?»
  «Quello della politica non è un lavoro» ripeté testarda la cugina. «Be', ora devo andare.»
  «Dove? Aspetta un minuto.»
  «No. Ho da fare in casa, e poi, vedo che sei in compagnia.»
  «Già. Sono in compagnia. E questo ti dà fastidio, vero?» Liliana diventò rossa: «E perché dovrebbe darmi fastidio?»
  «Come se non ti conoscessi, bella mia.»
  «Non capisco quello che vuoi dire. Ciao, devo andare.» Mara la trattenne prendendola per un braccio:
  «Vorresti farmi credere che non te ne importa niente se ho un giovanotto che mi sta dietro… mentre te non t'ha mai guardato nessuno?»
  «Per questo, cara, ti sbagli: io ne avrei potuti avere anche dieci, di giovanotti. Ma non sono mica come te, che si attacca al primo venuto.»
  «Lui non è il primo venuto.»
  «Ma se è la seconda volta che lo vedi! A ogni modo, come dice il proverbio? contenta te, contenti tutti. Ciao, cara; rallegramenti e auguri.»
  «Ciao, smorfiosa.» Ma Liliana finse di non avere inteso e se ne andò impettita.
  In tutto quel tempo Bube se n'era stato da una parte, e quando aveva sentito che parlavano di lui si era allontanato un altro po'. Mara cominciò a dirgliene di tutti i colori sul conto della cugina: «Quella strega Ha un anno più di me, e non c'è stato ancora un cane che l'abbia guardata. Per questo crepa d'invidia. Ha visto che faccia ha fatto quando ci ha incontrato?»
  L'imbarazzo del giovane si accrebbe. Ma a interrompere Mara venne lo scampanio di mezzogiorno.
  «Oh, com'è tardi; dobbiamo andare a casa.»
  Bube si mise in agitazione:
  «Vado a vedere se fanno servizio di trattoria» disse indicando la bottega.
  Mara replicò che ormai avevano preparato anche per lui; e Bube, dopo aver fatto un po' di complimenti, si lasciò convincere.
  Il desinare fu silenzioso. Bube era più impacciato che mai, e anche a Mara seccava di parlare in presenza della madre. Questa rivolse la parola a Bube una volta soltanto, per chiedergli se a Volterra si trovava il sale. Bube rispose di sì, e assicurò che si sarebbe incaricato di fargliene avere un pacchetto.
  La madre da quel momento fu più gentile con lui, e dopo mangiato, vedendolo che sbadigliava, gli disse di andarsi a stendere sul letto.
  Rimasta sola, Mara rigovernò, poi si mise seduta e prese a rosicchiarsi le unghie. Di solito, appena finito di rigovernare scappava fuori: le prime ore del pomeriggio, erano le sole in cui fosse libera. Ma ora che c'era Bube in casa, non aveva certo voglia di andar fuori.
  Bube: non le piaceva troppo quel nome. "Lo chiamerò Arturo", e le venne da ridere, al ricordo di una sconcezza che diceva sempre Mauro a proposito del nome Arturo. "Gli inventerò un nome. Lo chiamerò… Bruno. Bruno è un bel nome, e poi a lui gli sta bene, perché è bruno davvero. Invece ci sono di quelli che sono biondi, e si chiamano Bruno. A me per esempio se m'avessero chiamato Bruna, mi sarebbe stato male".
  Era abituata a fantasticare, e a fare lunghi discorsi da sola. Nelle sere d'inverno, quando se ne stava rannicchiata sul palco sopra il focolare, quante cose le venivano in mente.
  A volte pensava quanto era disgraziata, a essere nata in una famiglia come quella, col padre che era uno scansafatiche e si era fatto mettere anche in prigione. E con la madre, che voleva bene soltanto a Sante. E invidiava Liliana, che almeno era figlia unica, e le attenzioni dei genitori erano tutte per lei.
  Ma, da un po' di tempo, non invidiava più né Liliana, né nessun'altra ragazza del paese. Le sembrava, per cominciare, di essere la più bella. Anche se i capelli le stavano ritti sulla testa a mazzetti, che non c'era verso di tenerli a posto. Semmai, si rammaricava di aver poche forme. Andava in continuazione da Liliana, che aveva uno specchio grande, dove ci si poteva vedere per intero: stava lì delle mezz'ore a spiare ansiosa se il petto le s'era fatto più pieno, se le erano venuti un po' più di fianchi. E, a seconda della risposta dello specchio, diventava gaia oppure triste. Camminando, dimenava il sedere, come aveva visto fare alle attrici, le rare domeniche che era andata al cinema a Colle. Se tornava dal campo con una fascina, era capace di allungare la strada, pur di passare per il paese: perché sapeva che un peso in bilico sulla testa fa più flessuosa la figura.
  Di essere vestita male, le importava fino a un certo punto; ma avrebbe pagato chissà che cosa per avere un paio di scarpe coi tacchi alti. Un giorno che si provava quelle di Liliana, l'aveva vista la zia, ed era andata su tutte le furie. «Che gliele hai date a fare?» aveva gridato alla figliola. «Non lo sai che la roba sua ognuno se la deve tenere per sé?»
  «Ma io me l'ero messe solo un momento, per vedere come stavo» si era giustificata Mara. E la zia: «Tanto tu le scarpe coi tacchi alti non sei destinata a portarle. Tu non sei mica nelle condizioni di Liliana, che può aspirare anche a un capomastro, o a un fattore: tu, bisogna che ti contenti di un giornaliero. E ringrazia Dio se lo trovi, perché chi vuoi che s'imparenti con una famiglia come la tua?». «La mia famiglia non ha proprio niente di meno delle altre» aveva ribattuto lei. «Già, come se non si sapesse che tua madre quando era ragazza ha avuto un figlio da un uomo sposato! E che tuo padre rubava e l'hanno messo in prigione!»
  «Ma lei non si era lasciata smontare: «M'importa assai di quello che hanno fatto mio padre e mia madre. I giovanotti mica guardano alla famiglia, guardano com'è una ragazza. E io, se proprio lo vuoi sapere, sono fatta cinquanta volte meglio della tua figliola». E se n'era andata con un'alzata di spalle.
  Era sicura di sé, delle proprie risorse: aveva un'illimitata fiducia nella sua bellezza e nella sua furberia…
  Ma quanto dormiva quello là. Aveva detto che il suo amico sarebbe ripassato nel pomeriggio presto, dunque non ci sarebbe stato più tempo di parlare! E invece, avevano ancora tante cose da dirsi! O meglio, era lui che avrebbe dovuto dire qualcosa…
  "Bisogna che lo svegli." Bussò piano; non ebbe risposta. Rimase un momento incerta, poi spinse adagio la porta. La camera era immersa nella penombra, perché Bube aveva accostato gli scuri. A poco a poco, distinse meglio gli oggetti: le scarpe erano in terra, messe una vicino all'altra; la giacca appesa alla spalliera della seggiola. Si avvicinò al letto: Bube dormiva supino, con un braccio ripiegato, l'altro disteso. Era bello, con la massa oscura dei capelli, la fronte leggermente aggrottata, la bocca semiaperta. Ebbe voglia di baciarlo, più ancora, di stendersi accanto a lui e abbracciarlo stretto. Si era così intenerita, che gli occhi le s'erano velati: ormai non lo vedeva più che attraverso una nebbia…
  Bube aprì gli occhi. Rimase così per qualche secondo; bruscamente balzò a sedere: «Che c'è?» disse. La guardava con gli occhi sbarrati; poi, riconoscendola e rendendosi conto dov'era, spianò la fronte e le sorrise.
  Per un po' rimasero a guardarsi, e Mara si aspettava che egli l'attirasse a sé e la baciasse. Ma la faccia di lui si ricompose nell'espressione abituale: «Ho dormito molto? Dev'essere tardi» e si affrettò a guardare l'orologio. «Sono le tre e mezzo; il mio amico avrebbe dovuto essere già qui.»
  Svelto scese dal letto, aprì gli scuri; si mise le scarpe, tirò fuori un pettine e si diede una ravviata davanti allo specchio. Sopra il cantonale c'era anche quella fotografia formato cartolina che Mara s'era fatta l'anno prima a Colle: una delle poche spesucce che aveva potuto permettersi coi soldi guadagnati alla coglitura delle olive. Bube la prese in mano; senza dir niente la rimise a posto, infilò la giacca e uscì dalla stanza. Mara, delusa, lo seguì in cucina.
  «Doveva essere già qui» ripeté Bube. «Non gli sarà mica successo qualcosa?» Si affacciò sulla porta a guardare verso la strada: «Eppure gli ho spiegato bene dove doveva venirmi a riprendere» fece voltandosi un momento verso di lei. «Non vorrei che avesse tirato di lungo» aggiunse di lì a un po'.
  «Io non ho sentito passare nessuna moto» disse Mara.
  Egli risalì i gradini e sedette sulla panca. Accese una sigaretta. Via via che il tempo passava, si faceva sempre più nervoso; si alzava, si rimetteva seduto; e a Mara le prese una stizza tale che non vedeva l'ora che se ne andasse.
  «Oh, finalmente» disse Bube balzando in piedi. Si era inteso il rumore di una motocicletta; sparì per un poco, quindi si risentì vicinissimo. Bube era corso alla finestra: «Vengo subito» gridò. «Allora… arrivederci» fece rivolto a Mara.
  Sulla porta, si voltò ancora indietro:
  «Mi saluti suo padre. Gli dica che m'è dispiaciuto di non averlo trovato.»
  Mara non rispose nulla. E fu soltanto la curiosità di vedere com'era l'amico di Bube che la fece andare alla finestra a guardarli partire.
  Bube mantenne la promessa fatta alla madre. Pochi giorni dopo, si presentò Carlino col pacchetto del sale. Carlino era un sensale di Volterra, che capitava spesso a Monteguidi. Era un bell'uomo, alto, robusto, coi capelli castani ondulati, i baffi arricciati, e gli occhi chiari. Estate e inverno, indossava un vestito di fustagno, e in testa portava un cappello verde peloso, con una piuma di fagiano infilata nel nastro.
  C'era la madre in casa, Carlino le consegnò il pacchetto, bevve il bicchiere di vino che gli era stato offerto; e in un momento in cui la donna gli voltava le spalle, tirò fuori una lettera ripiegata in due e la porse a Mara.
  Mara scappò su nel granaio. Tremava per l'emozione mentre apriva la busta; nello stesso tempo, le veniva da ridere.
  Lo scritto riempiva mezza facciata: «Cara Mara, per il latore della presente invio il sale a sua madre e a lei queste mie righe. Spero di avere occasione di tornare presto a rivedere lei e famiglia. Se non le porta incomodo, sarei contento di ricevere una sua foto. Saluti, Bube».
  Dopo averci riflettuto un po', Mara andò alla bottega a comprare un foglio e una busta. Prese la penna e il calamaio nella credenza di cucina e scrisse la lettera sul cantonale in camera sua: «Caro Bube, grazie del gentile pensiero di avermi mandato a salutare. Io e famiglia stiamo bene, e così spero di lei e famiglia. Se vuole avere una mia foto, prima me ne faccia pervenire una di lei. Saluti, Mara».
  Chiuse la lettera e andò alla ricerca di Carlino. Lo trovò davanti alla bottega, in mezzo a gente del paese. Come guardò dalla sua parte, gli fece un cenno. Egli mostrò di aver capito, ma rimase a chiacchierare coi paesani. Finalmente li lasciò, indirizzandosi verso la stradetta di fianco alla bottega. Mara dopo un po' gli andò dietro facendo finta di niente. Lo vide che orinava contro la siepe; aspettò che avesse fatto, poi svelta gli si avvicinò e gli diede la lettera.
  Una settimana dopo, le arrivò un'altra lettera di Bube, tramite il solito messaggero, che stavolta non si arrischiò a venire in casa, ma le fece un leggero fischio dal cortile. Come lei uscì, egli s'incamminò girando l'angolo. Mara lo raggiunse, prese la lettera e fece per tornarsene indietro.
  «Bube mi ha detto che aspetta una risposta.»
  Mara corse in camera, aprì la busta, ma non c'era nessuna lettera, solo la fotografia di lui vestito da partigiano, col fazzoletto al collo e la rivoltella bene in vista sul fianco. Dietro ci aveva scritto: «A Mara, Bube». Mara la confrontò con la sua, non c'era paragone, quella di Bube era piccola e anche un po' sfuocata, mentre la sua era stata fatta nello studio di un fotografo, inoltre lei era venuta benissimo, con l'incarnato lucido e i capelli ondulati Le era stato perfino detto che in quella fotografia sembrava una Madonna.
  Alla fine, si decise a privarsene; tanto, ne aveva un'altra copia. Ma non ci fece la dedica.
  «Se deve continuare un pezzo, bisogna che ci mettiamo d'accordo» disse l'uomo. «Io un piacere a Bube glielo faccio volentieri… e anche a lei, signorina. Ma bisognerebbe trovare un posto dove vederci.»
  Mara ci pensò un momento:
  «Qui dietro casa» disse. «Sotto il forno, lì siamo al sicuro.»
  «Allora, senta come si fa: io vengo il martedì: lei, verso quest'ora, stia attenta alla finestra. Se mi vede passare, vuol dire che vado ad aspettarla al forno.»
  Il martedì seguente, infatti, fecero in quel modo. Si scambiarono le lettere. L'uomo, ora che erano al riparo da sguardi indiscreti, non aveva più fretta di separarsi da lei.
  «Ma aspetti un momento! Ha una settimana per leggere quella lettera. Ha tempo di impararla a memoria.»
  Mara fece di nuovo l'atto di andar via; quello la trattenne per un braccio: «Perché scappa? Non la mangio mica». Mara rimase, soggiogata dal suo sguardo dolce, dalla sua voce carezzevole. «Volevo farle una domanda, signorina… È molto che lo conosce, Bube?»
  «Saranno… due mesi.»
  «E non ha avuto paura a mettersi con lui?» Rise piano: «Scommetto che in tutta Volterra non c'è una ragazza che avrebbe avuto il coraggio di mettersi con Bube».
  Mara alzò le spalle:
  «M'importa assai» disse. Lo guardò ironica: «Si può sapere perché mi fa questi discorsi?».
  «Io voglio solo farle del bene, ragazza mia» e le sfioro la guancia con una carezza.
  «Tenga le mani a posto.»
  «Lei fraintende le mie intenzioni… non lo sa che sono un uomo sposato? e che ho una figlia grande quasi quanto lei? E poi, non mi azzarderei mai a dar fastidio alla ragazza di Bube. Brrr» aggiunse facendo una smorfia di paura, quasi che il solo nome bastasse a spaventarlo.
  Passò una settimana, ne passarono due, e Carlino non si era fatto più rivedere. Ed ecco, una mattina, sentì fischiettare. Lei era in sottana, si stava lavando in cucina Si vestì in fretta, e corse al forno. Ma non c'era Carlino c'era Bube. «Ah… sei tu.»
  «Sì, sono con Carlino.»
  «E perché non sei venuto in casa?»
  «Volevo parlarti, prima.»
  «Be', parla, allora.»
  «Prima di tutto, volevo dirti che vado a stabilirmi a San Donato.»
  «Dove?»
  «A San Donato. Vicino a Firenze.»
  «E come mai?»
  «Be', a Volterra… non mi ci trovavo più bene. Figurati che l'altra settimana il maresciallo pretendeva di mettermi in prigione… Poi, s'intende, c'è stata una protesta, e mi ha dovuto rilasciare.»
  «E perché ti voleva mettere in prigione?»
  «Per niente. Perché avevo picchiato un fascista» aggiunse improvvisamente. «Così, ho deciso di tornare a San Donato, dove i compagni mi aspettano.»
  Mara s'insospettì:
  «Non ti aspetta mica qualche ragazza?» Bube fece una faccia sorpresa:
  «Ma che dici? Io là non conosco nessuna ragazza… In paese proprio ci sono stato due giorni soltanto, dopo che arrivarono gli americani.»
  «Uhm» fece Mara, poco persuasa.
  «Carlino mi porta fino a Colle; di lì cercherò un mezzo per arrivare a Firenze, e poi, da Firenze a San Donato… Ma mi stai a sentire?»
  «Non sono mica sorda» rispose Mara sgarbatamente.
  «Ora, come si fa? Perché bisogna assolutamente che veda tuo padre. Dov'è, a Colle?» Mara fece segno di sì. «Andrò a cercarlo in sezione» concluse Bube. Le venne un dubbio: «Perché devi vedere mio padre?»
  «Per dirgli di noi, no?»
  «E che bisogno c'è?»
  «Come, che bisogno c'è? Io le cose di nascosto mica le voglio fare. A casa mia l'ho già detto, e ora, bisogna dirlo anche ai tuoi.»
  «Ma neanche per sogno» rispose Mara. Lei era abituata a come andavano le cose lì in paese, che i giovanotti facevano all'amore con le ragazze per anni, prima di fidanzarsi in casa. E poi, si ribellava all'idea che i suoi dovessero entrarci per qualcosa in una faccenda che riguardava lei sola.
  «Vorresti seguitare così, a scriverci e a vederci di sotterfugio?»
  «E che male c'è?»
  «Io non voglio ingannare la tua famiglia» dichiarò Bube. «Sante era il mio migliore amico… sarebbe stato il primo a cui l'avrei detto, se fosse stato vivo.»
  «Uff» si spazientì Mara. Fu sul punto di mandarlo al diavolo; di dirgli che le restituisse la fotografia, e le lettere, perché non aveva più nessuna intenzione di mettersi con lui.
  «Senti, non c'è tempo da perdere: Carlino è là che aspetta, bisogna che vada.»
  «E allora vai, corri» fece Mara ironica.
  «Sì, è meglio» rispose lui senza capire. «Dunque… ti saluto.»
  «Ciao.»
  Egli rimase un attimo incerto:
  «Ci vogliamo dare un bacio? Sai, si potrebbe stare anche del tempo senza vederci.»
  Mara non rispose niente, e lui, senza abbracciarla, si sporse e le posò un momento la bocca sulle labbra.
  - Ciao, - disse ancora.
  "Ma guarda un po' che razza di modi" pensava Mara. "Fidanzati; ma è matto, quello".
  L'aveva talmente indispettita il modo di fare di Bube, che scacciò la sua immagine e non pensò più a lui per tutto il giorno.
  Il padre quella sera arrivò tardi: loro avevano già cenato e messo a letto Vinicio.
  «Buonasera» disse allegro. Si rivolse a Mara: «Brava, figliola». Lei era così lontana dal pensiero di Bube che attribuì quelle parole al vino. «Datemi cena, donne». Sedette sulla panca, si versò un mezzo bicchiere e lo bevve d'un fiato. Fregandosi le mani, guardava Mara che gli riempiva la scodella: «Allora, figliola, cosa mi dici? Sei contenta, no? Anche io sono contento. Sì, sono contento» aggiunse alzando la voce e con un tono che voleva essere solenne «sono contento che mia figlia si sia fidanzata con un compagno e amico del povero Sante.»
  "Ma guarda un po': quell'imbecille c'è andato davvero a parlargli". Ma non ebbe il tempo ché la madre la scostò con violenza:
  «Che ha fatto tua figlia?»
  «Come, non te l'ha detto? S'è fidanzata con Bube. Cioè, Bube è venuto a chiedere il mio permesso… e io gliel'ho dato, perché lo stimo un giovane onesto… perché è un compagno, e perché lui e Sante…»
  «Lascia stare Sante. Sante, tu, non lo devi nemmeno nominare». S'era puntata con le braccia sul tavolo e si sporgeva verso il marito fissandolo con odio. «Quella è figlia tua, può fidanzarsi anche col diavolo. Ma qui in casa non ce lo deve portare. Hai capito?» gridò rivolta alla figliola. «Portalo nei campi, portalo nei fossi, portalo dove ti pare! Ma qui in casa no, non ce lo voglio. Non voglio più vederlo, quella brutta faccia di delinquente!»
  Mara fissava l'impiantito, poi alzò gli occhi per guardare la madre, che dopo la sfuriata s'era rimessa alle sue faccende. Ebbe voglia di dir qualcosa; ma non le riuscì. A un tratto corse in camera, si buttò sul letto, schiacciò la faccia contro il guanciale e scoppiò in singhiozzi.