mercoledì 3 luglio 2019


LA RAGAZZA DI BUBE
Carlo Cassola

A proposito di estremismo e condotta morale, ho riletto per riflettere ancora sul passaggio cruciale per la nostra democrazia, alla fine della seconda guerra mondiale. Stimolato da una riflessione di Italo Calvino che osservava  come non fosse  registrato nel romanzo il contrasto di fondo che ha caratterizzato la storia del partito comunista nel dopoguerra: il contrasto cioè tra il partito armato, votato all'estremismo, quale era uscito dalla Resistenza, e il partito «modernamente strumentato, da classe operaia egemone, capace di agire sul piano d'una democrazia avanzata». Ma Calvino non esprimeva  una condanna del romanzo, anzi rilevava che Cassola aveva inteso darci il romanzo di Mara, «cioè di come può attuarsi in un mondo estremista una condotta morale».”

LA RAGAZZA DI BUBE
Capitolo 1

  Mara sbadigliò. Era una bella noia essere costretta a stare in casa per colpa del fratello! Le venne in mente che avrebbe potuto lo stesso andarsene fuori: Vinicio si sarebbe messo a strillare, e la sera lo avrebbe raccontato "alla madre; ma lei avrebbe potuto sempre dire che non" era vero. E, dopo, gliele avrebbe anche date, a Vinicio.
  Le piacque talmente l'idea che le venne una gran voglia di farlo. Ma poi indugiò a guardarsi nello specchio ovale del cassettone. Si mise le mani sotto i capelli, per vedere come sarebbe stata se li avesse avuti gonfi. Il vetro era scheggiato per traverso, sì che non ci si poteva specchiar bene: la faccia non c'entrava tutta.
  Dopo qualche minuto, scese in cucina.
  «Dove vai?» le gridò dietro il fratello.
  «Sto qui. Uggioso.»
  «No, tu vai fuori» piagnucolò il fratello. Era incredibile la paura che aveva di restar solo.
  «Non vado fuori. Sto qui». Si era messa alla finestra.
  La finestra dava su uno spiazzo tra le case. In fondo lo spiazzo si restringeva in una specie di vicolo, che immetteva nell'unica strada del paese.
  Mauro era seduto sullo scalino della casa di fronte.
  «Ehi! Non ci sei andato a lavorare?» lo apostrofò Mara.
  Mauro non rispose. Si alzò pigramente e attraversò il piazzale. I calzoni gli scivolavano lungo i fianchi magri, e ogni poco era costretto a tirarseli su.
  «Vieni fuori» le disse.
  «Non posso. Devo guardare a Vinicio.»
  «Vengo io dentro.»
  «Nemmeno.»
  «E perché?.»
  «Mamma non vuole che tu venga quando sono sola.» Aveva risposto così senza pensarci, e un momento dopo ne era già pentita. La faccia di Mauro si era infatti aperta in un sorriso malizioso.
  «Lo so dov'è andata tua madre. A spigolare.»
  «No» mentì Mara. «È andata qui vicino e ora torna.»
  Mauro ridacchiò:
  «È andata a spigolare» ripeté. «Sicché prima di buio non torna. Vedi che puoi farmi entrare.»
  «Non voglio io.»
  «E io entro lo stesso.»
  «Non puoi. Ho messo il paletto.»
  Se Mauro si fosse dato la pena di provare, si sarebbe avvisto che la porta era solo accostata. Ma non lo fece; e Mara fu molto soddisfatta della sua furberia. «Lasciami entrare» la supplicò. «Ti piacerebbe, eh?» lo stuzzicò lei.
  Mauro stette zitto. Aveva una faccia larga, con l'attacco delle mascelle molto pronunciato; sopra il labbro gli cresceva una fitta peluria nera, ma le guance e il mento erano senza peli. I capelli li aveva sempre arruffati. «Hai paura?»
  «Di che dovrei aver paura?» si risentì lei.
  «Di me» e la sua faccia si allargò ancora di più in un sorriso compiaciuto. «Figuriamoci se ho paura di te.»
  «Allora aprimi.»
  «No.» E gli fece uno sberleffo.
  «Bene, tu intanto devi stare in casa mentre invece io me ne vado in giro» disse dopo un po' Mauro. «M'importa assai.»
  «Vado a trovare Annita.»
  «Vacci.»
  «Scommetto che ti dispiace.»
  «Povero scemo.»
  Mauro assunse l'aria di chi la sa lunga: «Voi donne fate finta di niente… ma poi vi rodete il fegato.»
 «sentiamo perché mi dovrebbe dispiacere?»
  «Perché Annita ti ha portato via l'amoroso.
  «Saresti tu il mio amoroso?» Mara scoppiò a ridere. «Io te, guarda, nemmeno ti vedo. Se tu sparissi, nemmeno me ne accorgerei.»
  «E a me, credi che me ne importi qualcosa di te?»
  «E allora perché non te ne vai?»
  «Da dove me ne devo andare?»
  «Da sotto la mia finestra. Se non te ne importa, perché ci stai?»
  «Io sto dove mi pare.» Si frugò in tasca, tirò fuori un mozzicone, poi un fiammifero, e l'accese strofinandolo contro il muro.
  Tanto per far vedere che non stava lì per lei, le aveva voltato le spalle; allora Mara, spenzolandosi dal davanzale, gli tirò i capelli.
 «Ahi! stupida. Mi hai fatto male. Perché non mi lasci entrare in casa?»
  «Te l'ho detto perché.»
 «Ma non c'è nessuno che vede.»
  «Perché vuoi venire in casa?»
  «Per parlare.»
  «Si può parlare anche così.»
  «Ho da dirti una cosa. Un segreto.»
  «Dimmelo.»
  A un tratto il ragazzotto fece una faccia contrita: «Ti prometto che tengo le mani a posto.»
  «Sì, e io sono così stupida da credere alle tue promesse!» Si arrabbiò: «Mi avevi giurato che non le parlavi più, a Annita; e invece, l'altro giorno, ti ci ho visto insieme.»
  «Perché tu non mi dai più soddisfazione» rispose Mauro.
  «E lei invece te la dà, vero? Bella soddisfazione ci dev'essere, ad andare con quella. È anche guercia» e rise. Abbassò la voce: «Lo sai come dice mio padre? Le donne di quella famiglia… sono tutte svelte ad alzare le sottane» e tornò a ridere.
  Il ragazzo invece rimase serio. «Ti prego, fammi entrare» ripeté ostinato.
  «No.»
  «Un minuto solo.»
  Mara lo guardava ironica. Le piaceva eccitarlo coi discorsi, per lasciarlo poi insoddisfatto.
  A un tratto il ragazzo smise di supplicarla; si tirò su i calzoni, e disse con aria fiera: «È inutile che fai la schizzinosa con me; tanto quelle cose ce le hai fatte…»
  «Parla piano, stupido.»
  «Non è vero che ce le hai fatte?» ripeté lui a voce più bassa. «Quando? Io non me ne ricordo più.»
  «Bugiarda. Ancora l'anno scorso, di questa stagione…»
  «Sei tu bugiardo.»
  «Guarda: ti dico anche il posto: lì sotto il forno. O vorresti negare?»
  «Lo nego, sì, lo nego.»
  «Sei una bugiarda e una vigliacca.»
  «Tu sei un bugiardo e un vigliacco. Io le sottane non le ho alzate, se è questo che intenderesti dire.»
  «Ma mi hai sbottonato i calzoni» replicò il ragazzo.
  Mara non gli parlò più, smise anche di guardarlo. "Poteva essere morto", pensava con rabbia. Proprio la settimana avanti andava al campo insieme con una zia e a un'altra donna, e quest'ultima aveva messo il piede su una mina ed era saltata in aria. Anche la zia era rimasta ferita, ma leggermente, tanto che era già tornata dall'ospedale. E Mauro, nulla, nemmeno un graffio.
  "Quanto avrei pagato che ce l'avesse messo lui il piede sulla mina", si ripeteva Mara. Erano cresciuti insieme in quella specie di cortile, lei, Annita e Mauro; c'erano anche altri ragazzi, ma loro tre erano inseparabili. E ne avevano fatte di porcherie (le chiamavano proprio così: «le porcherie»). Annita già allora era una svergognata, che andava con tutti i ragazzi, mentre lei solo con Mauro. Una volta per la verità anche con un altro, ma per far rabbia a Mauro. Quelle comunque erano cose da ragazzi, chi gli dava importanza; le facevano tutte. Liliana magari no, ma perché era una stupida, sempre attaccata alle sottane della mamma.
  Il guaio era stato l'anno avanti, che ormai non erano più ragazzi, né lei né Mauro. Lui, che per anni nemmeno l'aveva guardata, a un tratto le s'era messo intorno, e ogni momento allungava le mani, quando la toccava davanti, quando di dietro; e Mara, schiaffi. Era un divertimento, perché lui quando era eccitato non era buono a reagire: si prendeva il ceffone, e zitto. Gliene aveva stampati in faccia con tutta la forza, da lasciarci l'impronta delle dita.
  Una sera, invece, che lei le aveva prese dalla madre, e si era rifugiata a piangere sotto il forno: era sopraggiunto Mauro, e si era messo a consolarla; poi aveva cominciato a farle le carezze, ma per bene, come un vero innamorato… "Era buio, nemmeno lo vedevo in faccia; sennò, non mi sarei lasciata abbracciare". Perché quel ragazzotto le era odioso, proprio, odioso. E a un tratto, nemmeno lei sapeva com'era stato… Certo, non si era fatta far niente; lui, da questo punto di vista, non aveva proprio di che vantarsi.
  «Io da te non mi sono fatta far niente» gli disse.
  Mauro ridacchiò:
  «Ma a me qualcosa m'hai fatto.»
  «Tanto non lo sa nessuno. Anche se lo vai a ridire, io dico che sei un bugiardo.»
  «La gente crede ai giovanotti, non alle ragazze.»
  «A un bugiardo come te non ci crede nessuno.»
  «Facciamo un patto. Io ti giuro che non lo ridico, ma te, adesso, mi fai entrare cinque minuti.»
  «Su che cosa lo giuri?»
  «Sulla Madonna. Anzi, guarda, su santa Lucia, che possa rimanere accecato se non mantengo il giuramento.»
  «Tu in testa ci hai le pigne, vedi» disse improvvisamente Mara. Gli rise in faccia e si tirò bruscamente indietro. Poi rimase ferma in ascolto.
  «Mara» chiamò il ragazzo. «Mara, senti. Dove sei andata?»
  Lei soffocava a stento le risate. «Ascoltami, Mara.»
  Chiamò e supplicò ancora per un poco, quindi lo sentì che si allontanava.
  Il pomeriggio del giorno dopo, Mara era di nuovo affacciata alla finestra di cucina. Guardava in fondo al vicolo, nel breve tratto di strada che era dato vedere, sperando che comparisse una macchina americana. Era stato così divertente i primi giorni dell'arrivo degli americani! Ce n'erano una quantità accampati sotto la canonica; arrivavano con le macchine in mezzo agli olivi, in un punto ci avevano anche spianato per giocarci col pallone. La sera erano sempre in giro per il paese, bussavano a tutte le porte chiedendo il vino: in cambio davano pacchetti di sigarette e roba in scatola.
  A lei avevano regalato tavolette di cioccolata, caramelle e biscotti. Le dicevano: «Signorina, bella signorina». Ma lei ne aveva paura e scappava. A un tratto, erano partiti; ne erano arrivati degli altri, ma c'erano rimasti due giorni soltanto; dopo di allora, passava ogni tanto qualche macchina, ed era tutto.
  Si sentì il rumore di una macchina. Ansava su per la salita breve ma ripida che immetteva in paese. Mara guardò ancora più intensamente da quella parte, sperando che fosse un camion americano.
  Non era americano. Era un camion civile, piccolo e sgangherato; c'erano sopra la rete di un letto, un materasso, un comò, una catasta di sedie, altri mobili. C'era anche un giovanotto, che saltò giù prima ancora che il camion si fermasse. Aveva uno zaino in spalla, e un fazzoletto rosso al collo.
  Benché un partigiano non fosse così interessante come un americano, Mara rimase a guardarlo. Lo vide parlare col conducente. Il camion ripartì. Il giovanotto si guardò intorno, come se non sapesse dove andare. Chiese qualcosa a una bimbetta, e questa gli rispose indicando proprio in direzione della loro casa.
  Il giovane venne diritto verso di lei. Si fermò sotto la finestra:
  «Sta qui Castellacci?»
  «Sì» rispose Mara. «Ma ora non c'è.»
  Di nuovo il giovane parve indeciso. Mordicchiandosi un dito, Mara lo osservava. Era magrolino, bruno, coi capelli lisci e i baffetti.
  «Dov'è?» fece a un tratto.
  «A Colle» rispose Mara.
  «Ma torna?»
  «E chi lo sa. Certe sere torna, e certe altre rimane a dormire a Colle.»
  «Allora era meglio se mi fermavo a Colle» disse il giovane, come parlando tra sé. «Lei chi è? La figlia?» Mara annuì. «Non c'è nessuno in casa?» Mara fece segno di no. «Io ero un compagno del povero Sante» disse a un tratto il giovane.
  Mara non rispose nulla. Le dava fastidio quando rammentavano il fratello.
  «Be', ormai che ci sono, lo aspetto» si decise bruscamente il giovane. Mara si scostò dalla finestra, ma senza andargli incontro.
  Il giovane entrò, salì i due scalini che immettevano in cucina, si sfilò lo zaino e lo appoggiò contro il muro. Poi si guardò intorno incerto; e, di nuovo, ebbe un'uscita brusca:
  «Sua madre c'è?»
  «No» rispose Mara. Continuava a osservarlo. Sembrava molto giovane, perché aveva la barba fatta solo sul mento. E nello stesso tempo aveva un aspetto serio, da uomo. Era tutto stracciato: una tasca della giacca era scucita; uno strappo su un pantalone gli metteva a nudo il ginocchio.
  Il giovane si guardò anche lui lo strappo:
  «Ha mica un po' di filo e un ago? Almeno, mentre aspetto, mi ricucio qui.» E aggiunse: «C'è da vergognarsi, a tornare a casa in queste condizioni.»
  Mara salì nella camera di sopra. Vinicio dormiva mezzo fuori del lenzuolo, con la faccia rossa sudata. Mara prese in un cassettino del comò un gomitolo di filo nero e una pezza in cui erano infilati gli aghi; si specchiò per qualche momento, e tornò abbasso.
  Lo trovò che s'era tolto la giacca. In camicia, sembrava anche più magro. Dalle maniche rimboccate sbucavano due avambracci sottili e senza muscoli.
  Senza parlare, Mara tese la mano per farsi dare la giacca.
  Il giovane si confuse.
  «Sono buono anche da me… Con la vita che s'è fatto, abbiamo imparato anche a rammendare.»
  Tuttavia le diede la giacca, e Mara andò nel vano della finestra e ricucì la tasca.
  «No, qui non importa» disse il giovane, quasi avesse ritegno a farsi mettere le mani addosso. Mara ridacchiò dentro di sé: era proprio un giovanottello timido. Gli fece segno di sedere e gli s'inginocchiò accanto: «Non abbia paura, non la buco» disse vedendo che istintivamente si tirava indietro.
  «È mica perché ho paura» fece il giovane, serio.
  «Ecco servito» disse Mara alzandosi. Anche al giovane venne fatto di alzarsi. Per un po' stettero in piedi l'una di fronte all'altro, lei guardandolo con disinvoltura, anzi con sfacciataggine, e lui che invece non sapeva da che parte guardare.
  Al solito, uscì dall'imbarazzo in modo brusco:
  «Me lo aveva detto Sante di lei. Ma credevo… voglio dire, non è che gli somiglia tanto.»
  «Non eravamo proprio fratelli» rispose Mara.
  «Cosa?»
  Ancora una volta le venne da ridere, ma si contenne:
  «Eravamo fratellastri» spiegò.
  «Ah» fece il giovane, aggrottando la fronte. Si rimise seduto e per darsi un contegno cominciò a tamburellare con le dita sul tavolo. Fischiettava, anche, ma in modo goffo, gonfiando esageratamente le gote e sporgendo troppo le labbra.
  Smise di colpo:
  «Sante e io eravamo come fratelli» disse. «Voi in che modo l'avete saputo?»
  «Venne un contadino di quelle parti» rispose Mara. Ne parlava con ripugnanza, perché le tornavano in mente le scene che c'erano state in casa… la madre che gridava al padre che la colpa era sua se a Sante gli era venuta quell'idea di andare tra i partigiani. Quanto a lei, non gliene era importato nulla; anzi, era contenta che ormai la camera di Sante era diventata sua, mentre prima le toccava dormire in cucina.
  Tornò per primo il padre. «Mamma dov'è?» chiese con malgarbo.
  «A spigolare» rispose Mara. E, vedendo che il padre faceva l'atto di salire in camera: «Guarda, c'è questo…» si scostò e indicò il giovane.
  Il padre si fermò, interdetto.
  «Ero un compagno di Sante» disse il giovane.
  «Ah» fece il padre. «Piacere, giovane. Sono contento…» Non trovava le parole. «E mamma?» ripeté voltandosi verso la figliola.
  «Te l'ho detto, è a spigolare.»
  «Ah, sì.» Sembrò rammentarsi di qualcosa: «E Vinicio? Ha sempre la febbre? Ma accendi, che non ci si vede un accidente.»
  «Non hanno ancora dato la luce» rispose Mara.
  «Ah.» Tornò a rivolgersi al giovane: «Accomodati. Fai come se fossi in casa tua. Dunque, tu eri con Sante…»
  «Anche quella volta a Montespertoli» rispose il giovane.
  «Ah.» E il padre si passò una mano sulla faccia nera di barba. «E dimmi: sei di queste parti?»
  «Di Volterra» rispose il giovane. «Ora sono in viaggio per tornare a casa. Potevo magari arrivare in serata; ma ho pensato, giacché ero sulla strada, di fermarmi a casa di…»
  «E hai fatto bene. Ti ho visto con tanto piacere. Questa è casa tua, figliolo. I compagni di Sante, per me sono come figlioli. Ora appena torna mamma si cena, e poi te ne vai a dormire. Lo mettiamo in camera di Sante» aggiunse rivolto a Mara. «Te, magari, puoi andare da zia.»
  «Ma io non voglio arrecare disturbo» si affrettò a dire il giovane. «Io posso adattarmi anche qui in cucina. Sono abituato a dormire in terra» aggiunse con un leggero sorriso.
  «Neanche per idea» fece il padre. «Te l'ho detto, qui devi far conto di essere a casa tua. Puoi restare tutto il tempo che vuoi. E, scusa la mia curiosità, giovane… Come ti chiami?»
  «Cappellini Arturo. Però m'hanno sempre chiamato Bube.»
  «Ma da partigiano, come ti chiamavi?»
  «Vendicatore» rispose il giovane.
  «Ah, sì. L'avevo sentito fare il tuo nome, da Sante… Vendicatore, appunto» ripeté come per convincersi che quel nome gli era noto.
  Era entrata la madre. Il giovane si alzò di scatto. Per qualche istante rimasero tutti quanti zitti.
  «Mamma, questo era un compagno del nostro figliolo» disse il padre.
  La donna guardò con indifferenza il giovane, poi riprese a salire e sparì per le scale.
  «Eh» fece il padre scuotendo il capo. «Tu devi capire» disse rivolto al giovane «per una madre è un colpo troppo duro… Anche per me, s'intende, è stata dura. Ma, cosa vuoi? noi uomini sappiamo farcene una ragione.»
  «Per tutti è stata dura» disse il giovane. «Sante per me era come un fratello.»
  «Eh» fece il padre. «Purtroppo, nelle rivoluzioni, nelle guerre, non si può pretendere di arrivare in fondo tutti… Ogni causa esige i suoi caduti.»
  «Ecco la corrente» disse Mara, che dalla finestra aveva visto accendersi la luce nella casa di fronte.
  Al tasto trovò l'interruttore. La stanza s'illuminò fiocamente.
  «Oh, ora ci vediamo meglio in faccia» disse il padre soddisfatto. «Perbacco, sei più giovane di come m'eri sembrato… Quanti anni hai?»
  «Diciannove.»
  «Un anno meno del mio Sante» commentò il padre. «Avanti, dacci da bere» disse alla figliola. Mara aprì la credenza, prese il fiasco e due bicchieri e li posò sul tavolo. Il padre mescé facendo traboccare i bicchieri, e ne porse uno al giovane.
  «Alla salute» disse questi bevendo un piccolo sorso.
  «Alla tua, compagno» rispose il padre. Vuotò il bicchiere e se ne versò subito un altro. «Perché sei un compagno anche tu, no?»
  «Vorrei vedere» fece il giovane, con aria quasi offesa.
  «Io sono comunista da quando fu fondato il Partito. Vedi qui?» disse indicando una cicatrice sulla fronte. «È un segno di quando quei vigliacchi mi bastonarono, in tempo di elezioni, nel '24…»
  Seduta su uno sgabello, Mara aspettava che fosse pronta l'acqua per rigovernare. Rigovernare toccava sempre a lei, perché alla madre era un periodo che le faceva male mettere le mani nell'acqua. Quella sera poi non aveva nemmeno cenato e se n'era andata subito a letto.
  Bube e il padre erano rimasti a tavola a chiacchierare e a bere. Per la verità, chiacchierava e beveva soltanto il padre; e a un tratto, come gli accadeva sempre in questi casi, rimase con un discorso a mezzo; chiuse gli occhi, e abbassò il capo sul petto. Un momento dopo russava.
  Il giovane si voltò a guardarla, sconcertato.
  «Quello fa venire il mal di capo, da quanto chiacchiera» rispose Mara, e rise.
  «Mi stava parlando… delle cose del Partito» disse serio il giovane.
  «E lei ci provava gusto a starlo a sentire?»
  Il giovane fece una faccia meravigliata. «La politica, certo, non è fatta per le donne» disse dopo un po', con una sfumatura di disprezzo nella voce. «È una cosa che guarda noi uomini» e si batté in petto, per dare maggior forza all'affermazione. Si alzò, aprì lo zaino, cominciò a frugarci dentro. A un tratto Mara se lo vide davanti con una rivoltella.
  «Ma che le piglia?» fece spaventata. «La posi subito.» Bube sorrise:
  «Non abbia paura, è scarica.» Guardò la rivoltella con aria compiaciuta: «Questa qui, vede? ha già sistemato diversi conti. E non è mica finita.» Alzò la voce: «Cosa credevano? Che il nome di Vendicatore lo avessi preso per nulla?»
  Mara cominciò a rigovernare. Con la coda dell'occhio o vedeva che si dava di nuovo da fare intorno allo zaino. Da ultimo tirò fuori una pezza gialla: «Prenda, gliela regalo.» Aggiunse: «È stoffa di paracadute. Seta.»
  Mara si affrettò ad asciugarsi le mani, strofinandole contro il grembiule ruvido. Era proprio seta, e anche 0ande abbastanza da farci una camicetta.
  «Le piace?»
  «Certo che mi piace.»
  Il giovane sembrò soddisfatto. «Ah» fece stirandosi, «comincio proprio a non poterne più. È da stamani che sono in piedi.»
  «E Allora, perché non se ne va a dormire?»
  «Le tengo compagnia finché non ha finito. Anzi, guardi, mentre lei lava, io le asciugo, così fa prima.»
  Mara ogni tanto gli dava un'occhiata: le veniva da ridere, a vederlo che asciugava piatti e bicchieri con la sua solita espressione seria.
  Quando ebbe finito, si slacciò il grembiule e diede un urtone al padre, che si svegliò con gli occhi stralunati: «Che c'è?» disse.
  «C'è che devi andare a letto. A smaltire il vino» e si mise a ridere. Si rivolse a Bube: «Allora, arrivederci; e… grazie del regalo.»
  «Ma le pare? Nulla, nulla» balbettò il giovane. Di colpo cambiò tono: «Avevo due pezze con me… una la porto a mia sorella, e l'altra, l'ho voluta dare alla sorella di Sante.»
  Alla finestra si affacciò una forma nera: «Sei tu? Ora scendo.»
  C'era la luna piena, che dava un risalto esagerato alle ombre. Si distinguevano nitidamente la vallata, e i profili delle colline al di là. E si udiva distintamente il canto dei grilli. A un tratto echeggiò l'urlo rauco della civetta: Mara si spaventò.
  La porta fu socchiusa: era Liliana, in camicia da notte, col candeliere in mano.
  «Come mai? E andata via la luce?»
  «Non lo sai che la levano sempre a quest'ora?»
  «Ma è molto tardi?»
  «Sì. Ormai credevo che non venissi più.»
  La camera di Liliana era piccola, col soffitto che spioveva. Ma almeno c'era tutto: il comodino, il cassettone l'armadio. Nella sua, invece, pensava Mara con rabbia, c'era soltanto un cantonale.
 Quando furono a letto, Liliana le chiese:
  «Chi è questo giovane?»
  «Un amico di Sante.»
  «Di dov'è, di Colle?»
  «No. Di Volterra» rispose Mara. L'insistenza della cugina le faceva pensare che si fosse messa in testa qualcosa. Subito si sentì in dovere di alimentare i suoi sospetti: «Pensa, doveva andare a casa, sono nove mesi che non vede la sua famiglia; ma prima, s'è voluto fermare da noi.»
  «Aveva da riportarvi della roba di Sante?»
  «No. La roba di Sante l'aveva riportata quel contadino. Lui è venuto… perché aveva da portare un regalo a me.» Liliana fece un movimento. «Ma perché tieni la candela accesa? Spengi. Si può parlare anche al buio.» Al buio le riusciva più facile dire le bugie.
  Dopo che ebbe spento la candela, Liliana rimase per un po' zitta e ferma; poi tornò ad agitarsi, e alla fine chiese:
  «Che regalo?»
  «Una pezza di seta, per farci una camicetta. Domani te la mostro.»
  «Ma tu quando lo avevi conosciuto?»
  Mara fu lì lì per inventare chissà che storia. Ma sapeva che Liliana non avrebbe mancato di venire a informarsi dalla madre; perciò disse: «No, io non lo conoscevo. Ma lui sì: mi aveva visto in fotografia». Questo del resto poteva esser vero, Sante s'era portato dietro una fotografia dei genitori, e c'era anche lei, ma figuriamoci, quando era ancora una bambina.
  «Come, in fotografia?» Ormai Liliana non cercava nemmeno più di nascondere la sua curiosità; e Mara dovette raccontarle per bene com'erano andate le cose. Dunque Sante aveva con sé una fotografia di lei: «Sai quella che mi son fatta l'anno passato». L'aveva mostrata a Bube, e Bube se l'era tenuta. Una volta poi che Sante era venuto a casa, Mara gli aveva detto: «Rendimi la fotografia». Sante allora aveva dovuto confessarle di averla data a un amico. «Io mi sono arrabbiata, figurati… Non volevo che una mia foto fosse finita in tasca a un giovanotto.» Liliana non fiatava. Finalmente disse: «E allora?»
  «E allora cosa?»
  «Che ti ha detto quando ti ha visto?»
  «Mi ha detto che ero come in fotografia. Anzi, meglio ancora che in fotografia. Ma io, figurati, l'ho trattato male; gli ho detto che non aveva il diritto di tenersi una mia foto, dal momento che non c'era nulla tra noi e nemmeno ci conoscevamo. E lui sai come mi ha risposto? "Signorina da quando ho visto la sua foto non ho fatto che pensare a lei". Poi mi ha dato la pezza in regalo, ma io non la volevo accettare.»
  «Però l'hai accettata» disse pronta Liliana.
  «Mica subito. Dopo cena, quando ci siamo riparlati. Lui mi ha detto che se non avessi accettato il suo regalo, gli avrei dato un dolore da morire… E allora, che dovevo fare? Ho accettato.»
  «Secondo me hai fatto male.»
  «E perché?»
  «Perché ti sei legata.»
 «Niente affatto. Io non ho detto mezza parola che glielo potesse lasciar credere.»
 «Insomma, faresti bene a pensarci due volte, prima di metterti con uno che in fin dei conti l'hai conosciuto soltanto oggi.»
 «E chi ha intenzione di mettercisi? Io, figurati, non è mica il solo giovanotto che mi sta dietro. Ora però basta, è tardi, dormiamo» e le voltò la schiena.
  Liliana non osò più dir nulla, ma la sentì cambiare posizione parecchie volte. "Mangiati il fegato, vai", pensava Mara, lasciandosi scivolare soddisfatta nel sonno.

Capitolo 2
  Bube ricomparve il mese dopo. Era una mattina che facevano il pane: Mara aveva aiutato la madre a infornare, poi era tornata a casa. Ed ecco, davanti alla porta, con la sua solita aria indecisa, c'era Bube. «Buongiorno» disse. Subito dopo domandò del padre. «È a Colle.»
  Bube fece un gesto di disappunto: «Avevo proprio bisogno di vederlo… Stasera torna?»
  «Credo di sì.»
  «È che io non posso aspettare fino a stasera.» E Spiegò che era venuto in motocicletta con un amico, il quale aveva proseguito: «Siamo d'accordo che ripassa a prendermi dopo mangiato.»
  Entrarono in casa. Bube indossava lo stesso vestito blu dell'altra volta, però smacchiato e rassettato. Aveva anche qualcosa di diverso, nella faccia, nell'espressione…
  «Perché si è tagliato i baffi?»
  «Come? Ah, sì, è vero» e sorrise. «Erano un avanzo della vita alla macchia» aggiunse poi. «Tutti, alla macchia, c'eravamo fatti crescere i baffi… qualcuno anche la barba.»
  «Lei sta meglio senza.»
  «Eh» fece Bube, incerto.
  Rimasero in silenzio. Poi Mara ebbe un'idea:
  «Vado a mettermi la camicetta. Vedrà come mi sta bene.»
  «Che camicetta?»
  «Quella che mi son fatta con la pezza che mi ha regalato». E corse in camera. In un momento si levò il vestito, indossò la gonna e la camicetta, e si legò i capelli con un nastro celeste.
  Il giovane stava fumando. La guardò, ma non disse nulla. «Come mi sta?»
  «Bene» rispose Bube, asciutto.
  Mara sedette su uno sgabello. Per l'appunto aveva anche fame, ma le seccava mangiare in presenza di lui. Cos'era venuto a fare, se stava lì senza dire una parola?
  Cercò di avviare lei la conversazione:
  «A casa… ha trovato tutti bene?»
  «Sì» rispose Bube. «Mia madre, magari, non tanto bene. È a causa di tutti gli spaventi che s'è presa. Quei vigliacchi l'hanno tenuta in carcere un mese, perché non voleva dire dov'ero io.»
  «E… la sua fidanzata?» azzardò Mara.
  «Io non ce l'ho mica la fidanzata» rispose serio il giovane.
  «Non sarà magari fidanzato in casa… una ragazza però ce l'avrà anche lei. Tutti i giovanotti ce l'hanno.»
  «Io… non ho avuto il tempo di pensare a certe cose» rispose Bube. «L'anno scorso di questi tempi ero già alla macchia.»
  «Ma ora è un bel po' che è tornato a casa.»
  «Sì, ma cosa crede? Il giorno lavoro, e la sera vado in sezione. Nono mai un momento libero, nemmeno la domenica.»
  «Oggi però se l'è presa una giornata di libertà.»
  «Be', oggi… Era tanto che volevo venire a farle una visita» aggiunse improvvisamente. Si spaventò delle proprie parole: «Intendo dire che, trattandosi della sorella di Sante… Io non li dimentico, i compagni che sono morti» disse alzando il tono della voce. «Non sono come tanti, che a queste cose non ci pensano nemmeno più.»
  Ma lei aveva smesso di ascoltarlo: aveva saputo quello che le premeva sapere, le bastava così. Era tutta trionfante, dentro di sé. Ora Liliana non avrebbe più potuto mettere in dubbio che quel giovanotto s'era innamorato di lei subito a prima vista…
  «Mara! Ma dove ti sei cacciata?» Era la madre, che veniva a vedere che stava facendo la figliola.
  Dopo uscirono per andare alla bottega. Più che altro era una scusa escogitata da Mara per farsi vedere insieme con quel giovanotto forestiero.
  Ebbe fortuna: subito fuori della bottega, s'imbatté nella cugina.
  «Dove vai?» le chiese.
  «A casa» rispose Liliana. Se ne stava lì con aria seccata, fingendo di non accorgersi di Bube, che s'era fermato a due passi di distanza. «È vero che tuo padre è tornato a stare a Colle?»
  «No» rispose Mara. «Va su e giù con la bicicletta.»
  «Io avevo sentito dire che ci stava proprio fisso.»
  «Non è vero niente» ribatté Mara con vivacità. Le era parso che ci fosse qualche allusione maligna sotto. Già una volta infatti il padre aveva abbandonato la famiglia per andare a stare con un'altra donna.
  «E che ci va a fare a Colle?» insisté Liliana.
  «Lavora per conto dei comunisti» rispose Mara.
  «Ma quello non è un lavoro.»
  «Vedo che prende la paga, dunque è un lavoro.»
  «Mica come quello che fa mio padre.»
  «E perché? Il muratore, è forse un mestiere meglio degli altri?»
  «Per lo meno, ai muratori il lavoro non gli manca mai. Tuo padre, invece, è stato a casa anche un anno di seguito. E poi, mio padre non è mica più muratore.»
  «E cos'è, allora?»
  «Capomastro» rispose Liliana. Mara non seppe come replicare, anche perché non conosceva bene il significato della parola. «Sai? Ora che deve cominciare un lavoro a Colle, si porterà dietro Mauro.»
  «Mauro?» fece Mara ridendo. «Ha una bella voglia di lavorare, quello.»
  «Voglia o non voglia, bisogna bene che cominci. Sai? Sua madre è venuta a raccomandarsi a mio padre, perché lo mettesse al lavoro.»
  «E cos'è diventato tuo padre, per mettere gli altri al lavoro? Il padrone di una fabbrica?»
  «Capomastro, non te l'ho detto che è capomastro? Lo sai o no chi sono i capimastri?»
  «Certo che lo so» si affrettò a rispondere Mara.
  «E allora perché ti meravigli se mette la gente al lavoro? Potrebbe assumere anche tuo padre» aggiunse dopo un po'. «Certo, bisognerebbe che smettesse di bere.»
  «Mio padre non ha bisogno del tuo per trovar lavoro; ce l'ha già, come te lo devo dire?»
  «Quello della politica non è un lavoro» ripeté testarda la cugina. «Be', ora devo andare.»
  «Dove? Aspetta un minuto.»
  «No. Ho da fare in casa, e poi, vedo che sei in compagnia.»
  «Già. Sono in compagnia. E questo ti dà fastidio, vero?» Liliana diventò rossa: «E perché dovrebbe darmi fastidio?»
  «Come se non ti conoscessi, bella mia.»
  «Non capisco quello che vuoi dire. Ciao, devo andare.» Mara la trattenne prendendola per un braccio:
  «Vorresti farmi credere che non te ne importa niente se ho un giovanotto che mi sta dietro… mentre te non t'ha mai guardato nessuno?»
  «Per questo, cara, ti sbagli: io ne avrei potuti avere anche dieci, di giovanotti. Ma non sono mica come te, che si attacca al primo venuto.»
  «Lui non è il primo venuto.»
  «Ma se è la seconda volta che lo vedi! A ogni modo, come dice il proverbio? contenta te, contenti tutti. Ciao, cara; rallegramenti e auguri.»
  «Ciao, smorfiosa.» Ma Liliana finse di non avere inteso e se ne andò impettita.
  In tutto quel tempo Bube se n'era stato da una parte, e quando aveva sentito che parlavano di lui si era allontanato un altro po'. Mara cominciò a dirgliene di tutti i colori sul conto della cugina: «Quella strega Ha un anno più di me, e non c'è stato ancora un cane che l'abbia guardata. Per questo crepa d'invidia. Ha visto che faccia ha fatto quando ci ha incontrato?»
  L'imbarazzo del giovane si accrebbe. Ma a interrompere Mara venne lo scampanio di mezzogiorno.
  «Oh, com'è tardi; dobbiamo andare a casa.»
  Bube si mise in agitazione:
  «Vado a vedere se fanno servizio di trattoria» disse indicando la bottega.
  Mara replicò che ormai avevano preparato anche per lui; e Bube, dopo aver fatto un po' di complimenti, si lasciò convincere.
  Il desinare fu silenzioso. Bube era più impacciato che mai, e anche a Mara seccava di parlare in presenza della madre. Questa rivolse la parola a Bube una volta soltanto, per chiedergli se a Volterra si trovava il sale. Bube rispose di sì, e assicurò che si sarebbe incaricato di fargliene avere un pacchetto.
  La madre da quel momento fu più gentile con lui, e dopo mangiato, vedendolo che sbadigliava, gli disse di andarsi a stendere sul letto.
  Rimasta sola, Mara rigovernò, poi si mise seduta e prese a rosicchiarsi le unghie. Di solito, appena finito di rigovernare scappava fuori: le prime ore del pomeriggio, erano le sole in cui fosse libera. Ma ora che c'era Bube in casa, non aveva certo voglia di andar fuori.
  Bube: non le piaceva troppo quel nome. "Lo chiamerò Arturo", e le venne da ridere, al ricordo di una sconcezza che diceva sempre Mauro a proposito del nome Arturo. "Gli inventerò un nome. Lo chiamerò… Bruno. Bruno è un bel nome, e poi a lui gli sta bene, perché è bruno davvero. Invece ci sono di quelli che sono biondi, e si chiamano Bruno. A me per esempio se m'avessero chiamato Bruna, mi sarebbe stato male".
  Era abituata a fantasticare, e a fare lunghi discorsi da sola. Nelle sere d'inverno, quando se ne stava rannicchiata sul palco sopra il focolare, quante cose le venivano in mente.
  A volte pensava quanto era disgraziata, a essere nata in una famiglia come quella, col padre che era uno scansafatiche e si era fatto mettere anche in prigione. E con la madre, che voleva bene soltanto a Sante. E invidiava Liliana, che almeno era figlia unica, e le attenzioni dei genitori erano tutte per lei.
  Ma, da un po' di tempo, non invidiava più né Liliana, né nessun'altra ragazza del paese. Le sembrava, per cominciare, di essere la più bella. Anche se i capelli le stavano ritti sulla testa a mazzetti, che non c'era verso di tenerli a posto. Semmai, si rammaricava di aver poche forme. Andava in continuazione da Liliana, che aveva uno specchio grande, dove ci si poteva vedere per intero: stava lì delle mezz'ore a spiare ansiosa se il petto le s'era fatto più pieno, se le erano venuti un po' più di fianchi. E, a seconda della risposta dello specchio, diventava gaia oppure triste. Camminando, dimenava il sedere, come aveva visto fare alle attrici, le rare domeniche che era andata al cinema a Colle. Se tornava dal campo con una fascina, era capace di allungare la strada, pur di passare per il paese: perché sapeva che un peso in bilico sulla testa fa più flessuosa la figura.
  Di essere vestita male, le importava fino a un certo punto; ma avrebbe pagato chissà che cosa per avere un paio di scarpe coi tacchi alti. Un giorno che si provava quelle di Liliana, l'aveva vista la zia, ed era andata su tutte le furie. «Che gliele hai date a fare?» aveva gridato alla figliola. «Non lo sai che la roba sua ognuno se la deve tenere per sé?»
  «Ma io me l'ero messe solo un momento, per vedere come stavo» si era giustificata Mara. E la zia: «Tanto tu le scarpe coi tacchi alti non sei destinata a portarle. Tu non sei mica nelle condizioni di Liliana, che può aspirare anche a un capomastro, o a un fattore: tu, bisogna che ti contenti di un giornaliero. E ringrazia Dio se lo trovi, perché chi vuoi che s'imparenti con una famiglia come la tua?». «La mia famiglia non ha proprio niente di meno delle altre» aveva ribattuto lei. «Già, come se non si sapesse che tua madre quando era ragazza ha avuto un figlio da un uomo sposato! E che tuo padre rubava e l'hanno messo in prigione!»
  «Ma lei non si era lasciata smontare: «M'importa assai di quello che hanno fatto mio padre e mia madre. I giovanotti mica guardano alla famiglia, guardano com'è una ragazza. E io, se proprio lo vuoi sapere, sono fatta cinquanta volte meglio della tua figliola». E se n'era andata con un'alzata di spalle.
  Era sicura di sé, delle proprie risorse: aveva un'illimitata fiducia nella sua bellezza e nella sua furberia…
  Ma quanto dormiva quello là. Aveva detto che il suo amico sarebbe ripassato nel pomeriggio presto, dunque non ci sarebbe stato più tempo di parlare! E invece, avevano ancora tante cose da dirsi! O meglio, era lui che avrebbe dovuto dire qualcosa…
  "Bisogna che lo svegli." Bussò piano; non ebbe risposta. Rimase un momento incerta, poi spinse adagio la porta. La camera era immersa nella penombra, perché Bube aveva accostato gli scuri. A poco a poco, distinse meglio gli oggetti: le scarpe erano in terra, messe una vicino all'altra; la giacca appesa alla spalliera della seggiola. Si avvicinò al letto: Bube dormiva supino, con un braccio ripiegato, l'altro disteso. Era bello, con la massa oscura dei capelli, la fronte leggermente aggrottata, la bocca semiaperta. Ebbe voglia di baciarlo, più ancora, di stendersi accanto a lui e abbracciarlo stretto. Si era così intenerita, che gli occhi le s'erano velati: ormai non lo vedeva più che attraverso una nebbia…
  Bube aprì gli occhi. Rimase così per qualche secondo; bruscamente balzò a sedere: «Che c'è?» disse. La guardava con gli occhi sbarrati; poi, riconoscendola e rendendosi conto dov'era, spianò la fronte e le sorrise.
  Per un po' rimasero a guardarsi, e Mara si aspettava che egli l'attirasse a sé e la baciasse. Ma la faccia di lui si ricompose nell'espressione abituale: «Ho dormito molto? Dev'essere tardi» e si affrettò a guardare l'orologio. «Sono le tre e mezzo; il mio amico avrebbe dovuto essere già qui.»
  Svelto scese dal letto, aprì gli scuri; si mise le scarpe, tirò fuori un pettine e si diede una ravviata davanti allo specchio. Sopra il cantonale c'era anche quella fotografia formato cartolina che Mara s'era fatta l'anno prima a Colle: una delle poche spesucce che aveva potuto permettersi coi soldi guadagnati alla coglitura delle olive. Bube la prese in mano; senza dir niente la rimise a posto, infilò la giacca e uscì dalla stanza. Mara, delusa, lo seguì in cucina.
  «Doveva essere già qui» ripeté Bube. «Non gli sarà mica successo qualcosa?» Si affacciò sulla porta a guardare verso la strada: «Eppure gli ho spiegato bene dove doveva venirmi a riprendere» fece voltandosi un momento verso di lei. «Non vorrei che avesse tirato di lungo» aggiunse di lì a un po'.
  «Io non ho sentito passare nessuna moto» disse Mara.
  Egli risalì i gradini e sedette sulla panca. Accese una sigaretta. Via via che il tempo passava, si faceva sempre più nervoso; si alzava, si rimetteva seduto; e a Mara le prese una stizza tale che non vedeva l'ora che se ne andasse.
  «Oh, finalmente» disse Bube balzando in piedi. Si era inteso il rumore di una motocicletta; sparì per un poco, quindi si risentì vicinissimo. Bube era corso alla finestra: «Vengo subito» gridò. «Allora… arrivederci» fece rivolto a Mara.
  Sulla porta, si voltò ancora indietro:
  «Mi saluti suo padre. Gli dica che m'è dispiaciuto di non averlo trovato.»
  Mara non rispose nulla. E fu soltanto la curiosità di vedere com'era l'amico di Bube che la fece andare alla finestra a guardarli partire.
  Bube mantenne la promessa fatta alla madre. Pochi giorni dopo, si presentò Carlino col pacchetto del sale. Carlino era un sensale di Volterra, che capitava spesso a Monteguidi. Era un bell'uomo, alto, robusto, coi capelli castani ondulati, i baffi arricciati, e gli occhi chiari. Estate e inverno, indossava un vestito di fustagno, e in testa portava un cappello verde peloso, con una piuma di fagiano infilata nel nastro.
  C'era la madre in casa, Carlino le consegnò il pacchetto, bevve il bicchiere di vino che gli era stato offerto; e in un momento in cui la donna gli voltava le spalle, tirò fuori una lettera ripiegata in due e la porse a Mara.
  Mara scappò su nel granaio. Tremava per l'emozione mentre apriva la busta; nello stesso tempo, le veniva da ridere.
  Lo scritto riempiva mezza facciata: «Cara Mara, per il latore della presente invio il sale a sua madre e a lei queste mie righe. Spero di avere occasione di tornare presto a rivedere lei e famiglia. Se non le porta incomodo, sarei contento di ricevere una sua foto. Saluti, Bube».
  Dopo averci riflettuto un po', Mara andò alla bottega a comprare un foglio e una busta. Prese la penna e il calamaio nella credenza di cucina e scrisse la lettera sul cantonale in camera sua: «Caro Bube, grazie del gentile pensiero di avermi mandato a salutare. Io e famiglia stiamo bene, e così spero di lei e famiglia. Se vuole avere una mia foto, prima me ne faccia pervenire una di lei. Saluti, Mara».
  Chiuse la lettera e andò alla ricerca di Carlino. Lo trovò davanti alla bottega, in mezzo a gente del paese. Come guardò dalla sua parte, gli fece un cenno. Egli mostrò di aver capito, ma rimase a chiacchierare coi paesani. Finalmente li lasciò, indirizzandosi verso la stradetta di fianco alla bottega. Mara dopo un po' gli andò dietro facendo finta di niente. Lo vide che orinava contro la siepe; aspettò che avesse fatto, poi svelta gli si avvicinò e gli diede la lettera.
  Una settimana dopo, le arrivò un'altra lettera di Bube, tramite il solito messaggero, che stavolta non si arrischiò a venire in casa, ma le fece un leggero fischio dal cortile. Come lei uscì, egli s'incamminò girando l'angolo. Mara lo raggiunse, prese la lettera e fece per tornarsene indietro.
  «Bube mi ha detto che aspetta una risposta.»
  Mara corse in camera, aprì la busta, ma non c'era nessuna lettera, solo la fotografia di lui vestito da partigiano, col fazzoletto al collo e la rivoltella bene in vista sul fianco. Dietro ci aveva scritto: «A Mara, Bube». Mara la confrontò con la sua, non c'era paragone, quella di Bube era piccola e anche un po' sfuocata, mentre la sua era stata fatta nello studio di un fotografo, inoltre lei era venuta benissimo, con l'incarnato lucido e i capelli ondulati Le era stato perfino detto che in quella fotografia sembrava una Madonna.
  Alla fine, si decise a privarsene; tanto, ne aveva un'altra copia. Ma non ci fece la dedica.
  «Se deve continuare un pezzo, bisogna che ci mettiamo d'accordo» disse l'uomo. «Io un piacere a Bube glielo faccio volentieri… e anche a lei, signorina. Ma bisognerebbe trovare un posto dove vederci.»
  Mara ci pensò un momento:
  «Qui dietro casa» disse. «Sotto il forno, lì siamo al sicuro.»
  «Allora, senta come si fa: io vengo il martedì: lei, verso quest'ora, stia attenta alla finestra. Se mi vede passare, vuol dire che vado ad aspettarla al forno.»
  Il martedì seguente, infatti, fecero in quel modo. Si scambiarono le lettere. L'uomo, ora che erano al riparo da sguardi indiscreti, non aveva più fretta di separarsi da lei.
  «Ma aspetti un momento! Ha una settimana per leggere quella lettera. Ha tempo di impararla a memoria.»
  Mara fece di nuovo l'atto di andar via; quello la trattenne per un braccio: «Perché scappa? Non la mangio mica». Mara rimase, soggiogata dal suo sguardo dolce, dalla sua voce carezzevole. «Volevo farle una domanda, signorina… È molto che lo conosce, Bube?»
  «Saranno… due mesi.»
  «E non ha avuto paura a mettersi con lui?» Rise piano: «Scommetto che in tutta Volterra non c'è una ragazza che avrebbe avuto il coraggio di mettersi con Bube».
  Mara alzò le spalle:
  «M'importa assai» disse. Lo guardò ironica: «Si può sapere perché mi fa questi discorsi?».
  «Io voglio solo farle del bene, ragazza mia» e le sfioro la guancia con una carezza.
  «Tenga le mani a posto.»
  «Lei fraintende le mie intenzioni… non lo sa che sono un uomo sposato? e che ho una figlia grande quasi quanto lei? E poi, non mi azzarderei mai a dar fastidio alla ragazza di Bube. Brrr» aggiunse facendo una smorfia di paura, quasi che il solo nome bastasse a spaventarlo.
  Passò una settimana, ne passarono due, e Carlino non si era fatto più rivedere. Ed ecco, una mattina, sentì fischiettare. Lei era in sottana, si stava lavando in cucina Si vestì in fretta, e corse al forno. Ma non c'era Carlino c'era Bube. «Ah… sei tu.»
  «Sì, sono con Carlino.»
  «E perché non sei venuto in casa?»
  «Volevo parlarti, prima.»
  «Be', parla, allora.»
  «Prima di tutto, volevo dirti che vado a stabilirmi a San Donato.»
  «Dove?»
  «A San Donato. Vicino a Firenze.»
  «E come mai?»
  «Be', a Volterra… non mi ci trovavo più bene. Figurati che l'altra settimana il maresciallo pretendeva di mettermi in prigione… Poi, s'intende, c'è stata una protesta, e mi ha dovuto rilasciare.»
  «E perché ti voleva mettere in prigione?»
  «Per niente. Perché avevo picchiato un fascista» aggiunse improvvisamente. «Così, ho deciso di tornare a San Donato, dove i compagni mi aspettano.»
  Mara s'insospettì:
  «Non ti aspetta mica qualche ragazza?» Bube fece una faccia sorpresa:
  «Ma che dici? Io là non conosco nessuna ragazza… In paese proprio ci sono stato due giorni soltanto, dopo che arrivarono gli americani.»
  «Uhm» fece Mara, poco persuasa.
  «Carlino mi porta fino a Colle; di lì cercherò un mezzo per arrivare a Firenze, e poi, da Firenze a San Donato… Ma mi stai a sentire?»
  «Non sono mica sorda» rispose Mara sgarbatamente.
  «Ora, come si fa? Perché bisogna assolutamente che veda tuo padre. Dov'è, a Colle?» Mara fece segno di sì. «Andrò a cercarlo in sezione» concluse Bube. Le venne un dubbio: «Perché devi vedere mio padre?»
  «Per dirgli di noi, no?»
  «E che bisogno c'è?»
  «Come, che bisogno c'è? Io le cose di nascosto mica le voglio fare. A casa mia l'ho già detto, e ora, bisogna dirlo anche ai tuoi.»
  «Ma neanche per sogno» rispose Mara. Lei era abituata a come andavano le cose lì in paese, che i giovanotti facevano all'amore con le ragazze per anni, prima di fidanzarsi in casa. E poi, si ribellava all'idea che i suoi dovessero entrarci per qualcosa in una faccenda che riguardava lei sola.
  «Vorresti seguitare così, a scriverci e a vederci di sotterfugio?»
  «E che male c'è?»
  «Io non voglio ingannare la tua famiglia» dichiarò Bube. «Sante era il mio migliore amico… sarebbe stato il primo a cui l'avrei detto, se fosse stato vivo.»
  «Uff» si spazientì Mara. Fu sul punto di mandarlo al diavolo; di dirgli che le restituisse la fotografia, e le lettere, perché non aveva più nessuna intenzione di mettersi con lui.
  «Senti, non c'è tempo da perdere: Carlino è là che aspetta, bisogna che vada.»
  «E allora vai, corri» fece Mara ironica.
  «Sì, è meglio» rispose lui senza capire. «Dunque… ti saluto.»
  «Ciao.»
  Egli rimase un attimo incerto:
  «Ci vogliamo dare un bacio? Sai, si potrebbe stare anche del tempo senza vederci.»
  Mara non rispose niente, e lui, senza abbracciarla, si sporse e le posò un momento la bocca sulle labbra.
  - Ciao, - disse ancora.
  "Ma guarda un po' che razza di modi" pensava Mara. "Fidanzati; ma è matto, quello".
  L'aveva talmente indispettita il modo di fare di Bube, che scacciò la sua immagine e non pensò più a lui per tutto il giorno.
  Il padre quella sera arrivò tardi: loro avevano già cenato e messo a letto Vinicio.
  «Buonasera» disse allegro. Si rivolse a Mara: «Brava, figliola». Lei era così lontana dal pensiero di Bube che attribuì quelle parole al vino. «Datemi cena, donne». Sedette sulla panca, si versò un mezzo bicchiere e lo bevve d'un fiato. Fregandosi le mani, guardava Mara che gli riempiva la scodella: «Allora, figliola, cosa mi dici? Sei contenta, no? Anche io sono contento. Sì, sono contento» aggiunse alzando la voce e con un tono che voleva essere solenne «sono contento che mia figlia si sia fidanzata con un compagno e amico del povero Sante.»
  "Ma guarda un po': quell'imbecille c'è andato davvero a parlargli". Ma non ebbe il tempo ché la madre la scostò con violenza:
  «Che ha fatto tua figlia?»
  «Come, non te l'ha detto? S'è fidanzata con Bube. Cioè, Bube è venuto a chiedere il mio permesso… e io gliel'ho dato, perché lo stimo un giovane onesto… perché è un compagno, e perché lui e Sante…»
  «Lascia stare Sante. Sante, tu, non lo devi nemmeno nominare». S'era puntata con le braccia sul tavolo e si sporgeva verso il marito fissandolo con odio. «Quella è figlia tua, può fidanzarsi anche col diavolo. Ma qui in casa non ce lo deve portare. Hai capito?» gridò rivolta alla figliola. «Portalo nei campi, portalo nei fossi, portalo dove ti pare! Ma qui in casa no, non ce lo voglio. Non voglio più vederlo, quella brutta faccia di delinquente!»
  Mara fissava l'impiantito, poi alzò gli occhi per guardare la madre, che dopo la sfuriata s'era rimessa alle sue faccende. Ebbe voglia di dir qualcosa; ma non le riuscì. A un tratto corse in camera, si buttò sul letto, schiacciò la faccia contro il guanciale e scoppiò in singhiozzi.