giovedì 29 ottobre 2020

CIRCE E ODISSEO

 


DIALOGO TRA CIRCE E ODISSEO

 

Isola di Eea Circe, Odisseo; poi un Dio, Coro

 

CIRCE  Dunque, Odisseo, irrevocabile è la tua decisione di lasciarmi? Eppure, ti ho accolto quando eri sperduto per il mare e perseguitato da Poseideone, mettendoti al sicuro dalla sua ira, di cui le acque tempestose sono state inesorabile strumento. Non ricordi, non vuoi ricordare il lungo periodo di pace che hai trascorso in quest’isola incantata dopo tante sventure? Ti ho offerto ogni agio e, insieme, tutto il mio amore; con me hai provato voluttà che nessuna donna mortale è mai stata o sarà mai in grado di darti. Qui può arrestarsi il tuo ritorno senza fine, qui potrai godere un’adeguata ricompensa alle tue eroiche imprese. Perché, dunque, vuoi andartene?

ODISSEO  Tutto quello che dici è vero, o Circe: nessun altro luogo, nessun’altra amante avrebbe potuto offrirmi tanto. Ma come essere certo dell’autenticità del tuo amore? Con arti magiche mi hai avviluppato in lacci indissolubili, come hai fatto e farai con molti altri uomini. E se pure il tuo amore fosse sincero, perché non hai cercato il mio nell’incontro con la mia libera volontà? Hai preferito, invece, ricorrere alla magia, che è inscindibile dalla tua natura. Hai trasformato in porci i miei compagni, ma di me, che cosa hai fatto di diverso? Un bruto come loro, mi hai reso; hai lasciato che, immemore di tutto, mi rivoltassi nelle mollezze che mi offrivi e che, non me ne accorgevo, erano anch’esse limo.

CIRCE  Non rimproverarmi, Odisseo, se per tenerti legato a me ho fatto ricorso alla magia. E’ vero, essa è parte di me, mi dà potere, ma è anche la mia condanna: sono legata indissolubilmente a questo destino, che mi manifesta il favore degli dèi ma mi priva, al tempo stesso, della possibilità di vivere come una donna. Credi forse che l’impossibilità di avere un amore autentico quale, seppure raramente, fiorisce tra i mortali, non costituisca per me un peso intollerabile? L’averti trattenuto con arti magiche altro non è stato, ora me ne rendo pienamente conto, che un vano surrogato, non altro che l’espressione del mio bisogno di amore, che in te aveva trovato il compagno ideale: un atto di disperazione per il quale dovresti, se non amarmi anche tu, almeno compatirmi, anziché rimproverarmi. 

ODISSEO  Ti comprendo, Circe, e vorrei davvero amarti per ripagare in qualche modo ciò che ti devo, ma non posso dimenticare il male che, non so quanto consapevolmente, mi hai fatto. Mi hai reso immemore della mia patria, della mia sposa, di mio figlio: per loro, i miei primi doveri, dopo lunghi anni di guerra che mi avevano tenuto lontano, avevo affrontato il travagliato viaggio di ritorno, che tu hai interrotto. 

CIRCE  La tua patria, la tua sposa: ma sei certo che, tornando, troverai tutto come prima? Troppi anni sono passati; qualcuno può avere usurpato il tuo trono, e la tua sposa, ormai certa della tua morte, può essere convolata ad altre nozze, forse con lo stesso usurpatore. Come puoi, per un ricordo di tempi felici, puntare tutto il tuo futuro su uno scenario così incerto? Senza contare che gli anni avranno fatto sfiorire la bellezza di Penelope: come potresti preferirla a me, eternamente giovane e che con la mia magia offro anche a te un’eterna giovinezza; a me, maestra nell’incanto dei sensi?

 

ODISSEO  E’ proprio questo tuo vivere in un mondo di incantesimi, Circe, che non ti fa comprendere la forza dei sentimenti umani, di un amore che, se è vero, è per sempre e non è legato solamente al fiore degli anni e della bellezza. Senza contare che  ognuno deve seguire il suo destino, scritto nel cielo per volere degli dèi. Il mio contempla questo travagliato ritorno che sembra senza fine: non so se Itaca sarà il mio approdo definitivo o se il demone che è in me mi spingerà, in seguito, verso altri lidi; ma so che devo tornare. Di ciò che avevo lasciato e a cui volevo con tanta determinazione tornare, non ricordavo nulla a causa dei tuoi incantesimi. Qualcosa di inconscio, però, mi spingeva ogni giorno sulle amene rive di quest’isola, a contemplare il mare sul quale sentivo che doveva compiersi il mio destino, e sul correre delle sue onde verso la spiaggia, cominciarono ad affluire in me i ricordi. Vidi finalmente di nuovo ciò che mi attendeva al di là di quella distesa d’acque, ripresi coscienza di me e decisi: devo tornare, devo rompere questi pur dolci legami, e correre incontro al mio destino di mortale, per duro che possa essere.

CIRCE  Folle, se mi abbandoni, non potrò fare più nulla per te, ma rimarrai sottoposto nuovamente alle ire del dio, alle quali non potrò più sottrarti. E cosa ti garantisce che esse non provochino la tua fine, prima che tu possa raggiungere l’incerta meta alla quale tanto testardamente tendi? Le tempestose acque del mare saranno la tua tomba e tutto sarà perduto: non avrai più né la tua patria e la tua sposa, né me.

ODISSEO (dopo una pausa di riflessione) Non sono tanto i tuoi terrori, che vanamente spargi su di me, a far vacillare la mia ferma risoluzione, quanto la stanchezza. Lungo è stato il mio vagare tra le salse, procellose acque marine, e ancora assai lungo esso si prospetta. So che il dio non mi darà tregua, e pur essendo fiducioso di poter superare, come per il passato, le prove alle quali sarò sottoposto, devo tuttavia trovare la forza di vincere la prova più dura: la tentazione, che si salda alla mia stanchezza ergendosi a sbarrare il mio cammino come un enorme scoglio, il più difficile tra quelli che ho dovuto affrontare. Restare con te, dimenticare tutto, riposare finalmente. Sopire questo demone che mi spinge continuamente in avanti e che sarà causa della mia fine. Ma riposare così non equivale alla morte, non è anticipare la mia fine? La vita è lotta, e se la lotta conduce talvolta alla morte, è pur vero che senza lotta non vi è vita. Rinuncerei, se cedessi alla tentazione, alla mia stessa natura di uomo. 

CORO  Circe è disperata perché rifiuta il suo destino, il ruolo che gli dèi le hanno assegnato, per amore di Odisseo; Odisseo è anch’egli tentato di rifiutare il proprio destino, ma al tempo stesso, mosso da un diverso e contrastante amore, sembra determinato a inseguire i suoi fati. Chi potrà mai risolvere questo contrasto? 

DESCENDIT DEVS EX MACHINA

IL DIO  Insanabile è dunque questo contrasto?

CIRCE  Insanabile. Pure, Odisseo, ti offro tutta me stessa: posto che senza te quest’isola incantata, ricca di bellezza e di ogni dono della natura, diverrebbe per me un arido e inospitale scoglio, mi dichiaro disposta, se gli dei lo consentiranno, a rinunciare ai miei poteri magici per poterti seguire, come semplice donna mortale, nel tuo destino, qualunque esso sarà. Questo ti provi il mio amore. Tu, però, non lo vuoi.

IL DIO  Siate per sempre separati. Tale il volere degli dèi.

Sparisce tra lampi, tuoni e nuvole

CORO  Così hanno decretato gli dèi. Che, nel perdersi, ciascuno possa ritrovare se stesso.

 

Ulisse e Circe di Giovanni Andrea Sirani (1610-1670), olio su tela

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mercoledì 28 ottobre 2020

CANTO DEGLI ALBERI Antonio Moresco

 


CANTO DEGLI ALBERI

Antonio Moresco

"Ho scritto questo libro nei mesi di isolamento per la pandemia. I suoi protagonisti sono gli alberi, in particolare gli alberi murati, quelli che crescono dentro i muri delle case degli uomini, visti come una nuova specie crocevia tra più mondi (vegetale, minerale, umano) e prefigurativa. L'ho scritto mentre ero anch'io murato, come tutte le donne e gli uomini del nostro Paese e del mondo, in un momento cruciale anche della mia vita personale, per di più bloccato dal divieto di viaggiare in una casa di Mantova, la città dove sono nato e ho trascorso l'infanzia e l'adolescenza, scatola nera della mia vita. Questo libro anche per me inaspettato è la mia risposta di scrittore a questo trauma e il mio appello a compiere un salto di piani e di specie e a dare vita a una metamorfosi. L'ho scritto giorno dopo giorno, in totale solitudine, con ispirazione, liberando in un unico flusso narrativo testimonianza, corpo a corpo col mondo, autobiografia trascesa, abbandono lirico, romanzo drammaturgico e figurale, canto, sogno, immaginazione, invenzione." 

L’uomo si è messo in testa di essere qualcosa di diverso rispetto alla natura, un pensiero che affonda le sue radici in tutte le manifestazioni culturali e spirituali umane a partire dalla Bibbia, dove l’uomo domina la natura. Con la nascita della filosofia poi l’uomo si è inventato un ruolo umano superiore rispetto a quello del mondo naturale – l’uomo cerca la verità mentre tutto il resto del mondo naturale vive e basta – così si è sedimentato questo istinto di superiorità umano che adesso torna indietro come un boomerang, perché quest’uomo così tanto superiore è quello che si trova in un pericolo di specie maggiore rispetto a quello del mondo vegetale, che lui considera inferiore a sé. La pandemia ci ha fatto ragionare su questo aspetto: noi che siamo così grandi, così potenti, siamo stati messi in ginocchio da un virus invisibile, che ha messo in crisi le nostre economie, dovremmo trarne un insegnamento.

(Antonio Moresco)

.Nella parte finale del libro, bellissima, gli alberi mostrano al protagonista come sono riusciti a superare i propri limiti di specie, hanno imparato a rovesciarsi, a stare con le radici in aria e addirittura a cantare: è possibile per l’essere umano fare un salto di specie oggi inimmaginabile per salvare se stesso dall’estinzione?

Nel libro ci sono degli alberi che oltrepassano i loro limiti, che diventano buoni o cattivi a seconda delle case in cui sono radicati e nei cori finali arrivano a capovolgersi e a diventare musicali, come se volessero indicarci una traccia. Non so se questo sia possibile per l’uomo, ma la metamorfosi, la capacità di mutare profondamente, è insita nella natura: se è vero che veniamo dall’acqua e che dal mare sono venute fuori una serie di specie che poi si sono modificate, hanno trasformato le pinne in zampe o ali, vuol dire che la potenza metamorfica è compresa dentro la vita, e quindi perché l’uomo non dovrebbe avere questa forza dentro di sé? Adesso siamo in una situazione che non basterebbe una rivoluzione come quelle del passato a risolvere, abbiamo bisogno di una mutazione profondissima e verticale perché abbiamo dimostrato che il nostro modo di vivere, le nostre logiche e le nostre leggi ci rendono sempre più difficile se non impossibile la vita su questo pianeta. Magari questa divaricazione di specie è già in atto, questa è la speranza che io metto in campo in questo libro, che anche noi riusciamo a capovolgerci come specie, rimettendo così in discussione le nostre possibilità di esistenza su questo pianeta.

La musica pervade tutto il libro insieme alla poesia, a un certo punto gli alberi ricordano Virgilio, un altro poeta che era in grado di dialogare con loro: forse è l’arte l’unica vera invenzione umana per cui la nostra specie merita di sopravvivere?

Dopo quel lungo coro in cui gli alberi raccontano tutta la storia dell’uomo dal loro punto di vista – azzerando tutte le nostre manie di grandezze e dicendo voi siete brutti, piccoli, deformi – il giovane tiglio che il protagonista va a radicare nel terreno spiega che però c’è qualcosa che rende unica la nostra specie ed è l’arte, l’amore, la musica, infatti gli alberi si trasformano e diventano musicali proprio per salvare tutta la musica che gli uomini hanno creato.

Questo aspetto tra l’altro non ci sarebbe stato nel libro se il caso non avesse voluto che in un appartamento vicino al mio a Mantova mentre scrivevo non ci fosse stato un misterioso o una misteriosa pianista che suonava della musica meravigliosa, io non so chi è ma spero prima o poi di rintracciarla. Questo elemento musicale ha anche scatenato il ricordo del mio amore per la musica da ragazzo, del fatto che prima che uno scrittore avrei voluto essere un musicista.

Sono venuti al pettine tanti nodi emotivi e personali mentre scrivevo questo libro in grandissima solitudine: anch’io ero una piccola radice, affondata in una casa dove si produceva della musica.


CANTO DEGLI ALBERI

Sono prigioniero a Mantova, la città dove sono nato e dove ho trascorso la mia terribile infanzia e la mia adolescenza. Tutt’intorno desolazione, silenzio. Che cosa sta succedendo? Sta succedendo qualcosa di nuovo o si sta svolgendo sotto i nostri occhi un’antica battaglia negli abissi chimici della vita? Siamo in preda agli spasimi dell’agonia o alle convulsioni della nascita? Poco tempo prima che il nostro mondo venisse investito dal turbine della pandemia, mentre anche la mia vita personale era stata appena investita da un turbine, mi è stato proposto da un amico di eleggere un albero a mio campione e di parlarne liberamente in un libro. A me non sembrava di avere niente di particolare da dire sugli alberi. Non mi pareva che ci fosse qualche tipo di albero che sentissi così vicino da farne un emblema. Però ho cominciato a pensarci. Mi sono chiesto se c’erano degli alberi che avevano lasciato il segno nella mia memoria e messo radici nei miei pensieri. E allora, con mia sorpresa, me ne sono venuti in mente molti, perché prima non avevo idea di quanti alberi ci sono stati nella mia vita, che mi hanno accompagnato con la loro presenza muta e non si sono fatti dimenticare. Un albero che cresceva nel cortile della mia vecchia casa mantovana, su cui mi arrampicavo e che produceva delle bacche nere e rotonde che potevo lanciare con la cerbottana. Le magnolie che crescevano nel parco di Ducale, con i loro grandi petali morbidi che scurivano e si accartocciavano sul terreno, che si trasformavano in piccole conche d’acqua e di fango nei tristi giorni di pioggia. L’ippocastano che cresceva nello stesso parco sopra la ghiacciaia merlata, con le sue castagne matte che sfregavo sulle panchine di pietra per produrre una pasta amara cui davo la forma di saponette, che facevo seccare al sole e con cui mi lavavo o meglio mi sporcavo. La grande magnolia al centro del cortile della casa milanese che è stata fino a poco tempo fa la mia casa, dove sono ritornato la settimana scorsa, di notte, come un clandestino. Si è allungata a dismisura tra le quattro strette pareti, per cercare di arrivare alla luce. Le sono passato vicino, mentre attraversavo il cortile per andare a dormire sulla branda del mio abbaino, ho guardato dal basso verso le finestre della casa dove ho vissuto per più di quarant’anni e ho visto la luce filtrare tra i listelli delle ante. Le liane che c’erano nel parco di Ducale, a cui si appendeva Maciste, il figlio della Dirce, e poi tutte quelle che ho incontrato dopo, che non si capisce mai cosa sono, da dove partono, se sono tronchi filiformi, rami inventati o radici aeree, come quelle a cui si aggrappava il Tarzan della mia infanzia, che allora era Johnny (americanizzazione di János) Weissmuller, nato nell’allora impero austro-ungarico, emigrato negli Stati Uniti e diventato campione di nuoto, primo uomo ad abbattere il muro di un minuto nei cento metri a stile libero, morto molti anni fa, malato di Alzheimer, che di notte, in un ospizio per vecchi – così almeno ho letto da qualche parte – terrorizzava gli altri ricoverati con il suo grido, lo stesso che molti anni prima lanciava quando afferrava una liana e cominciava a volare attraverso la giungla, tutto nudo, con il pugnale al fianco, i capelli imbrillantinati e quella mutanda di pelle daino... Un albero – credo sia un acero giapponese – che in un certo periodo dell’anno si copre di una nuvola di foglioline intensamente rosse e che sembra un incendio vegetale, vicino al quale mi andavo a sedere e che guardavo e ammiravo per ore, all’interno della Rotonda della Besana, a Milano, ex lazzaretto durante la peste del Seicento, nel cui sottosuolo sono stati probabilmente sepolti i corpi di molti degli appestati morti. Un grande faggio ai bordi di via della Guastalla, di fronte alla sinagoga, in quel parco dove una sera sono stato rinchiuso perché ero così assorto che non avevo sentito il segnale di chiusura lanciato da un omino in bicicletta che suonava una specie di trombetta afona che sembrava un prepuzio e che dopo un po’ è finito in Canti del caos. Un albero di nocciolo che c’è nella casa di pietra da dove ho visto per la prima volta quella lontana lucina e di cui mi hanno raccontato la storia: era un bastone scortecciato che il precedente proprietario usava per camminare in montagna e che un giorno aveva conficcato distrattamente nel terreno e di cui si era dimenticato, salvo poi accorgersi che aveva messo le foglie. In un certo punto del suo tronco c’è stata infatti per molto tempo una piccola fenditura, una ferita da cui faceva capolino la punta dell’antico bastone. È un po’ di tempo che non vado più là, non so come se la starà passando il mio bastone fiorito che curavo e che difendevo, che liberavo dai polloni, dall’edera assassina che correva verso di lui e cercava di avvinghiarsi al suo tronco e di strangolarlo. L’albero che mi ha regalato mia figlia una delle ultime volte che ci siamo incontrati – credo sia un cedro rosa – che è stato piantato in Africa e che dovrei poter vedere via via mentre cresce, si irrobustisce, diventa grande, si innalza, se me ne manderanno le immagini e io potrò guardarle sullo schermo del mio pc, che porto in giro da una parte all’altra, sui treni, nelle case dove sto vivendo in questo momento, randagio, tutto il contrario degli alberi, che stanno fermi, che sembrano stare fermi ma che in realtà si spostano, corrono, volano, attraverso le loro radici, le loro foglie, i loro semi, le loro spore, e allora forse anch’io sto fermo, credo di spostarmi e invece sto fermo, mi sposto con le mie spore, i miei semi, le mie parole tatuate. E intanto, come quella del germoglio africano, anche le nostre vite sono da riguadagnare e riconquistare, le nostre vite e tutto ciò che lega tra di loro i corpi, le menti, le persone, le generazioni, le stirpi. E poi ci sono gli alberi tormentati dal vento che mi è capitato di vedere nella mia vita, o attraverso i quali ho camminato sotto la pioggia scrosciante e la grandine, insieme ad altri camminatori, in fila indiana, in un impressionante silenzio, con il cappuccio abbassato sugli occhi e i chicchi di ghiaccio che ci colpivano le teste come proiettili, mentre i fulmini si scaricavano a poca distanza con un boato improvviso e uno schianto. “Ogni albero ha la sua voce” scrive Beckett. Sì, la sua voce e il suo volto, perché ogni albero assume strazianti torsioni umane mentre la sua grande chioma è tormentata dal vento, sembra sempre sul punto di spezzarsi o di sradicarsi, emette la sua inconfondibile voce che viene da chissà dove, il suo lamento diverso da tutti gli altri, il suo grido. “Da dove verrà questo grido?” mi domandavo certe volte, mentre guardavo gli alberi che ci sono di fronte al mio abbaino, attraverso il velo d’acqua che scorreva sui vetri. Mi fermavo spesso a osservare e ascoltare, con rispetto, con emozione, con commozione, la lotta sostenuta dagli alberi sconvolti e flagellati dal vento, il suono che usciva dai loro giganteschi corpi di foglie che opponevano resistenza al turbine, le torsioni e le espressioni che assumevano mentre le loro chiome venivano investite da contrapposte folate. Sì, ogni albero ha la sua voce e il suo volto, ma anche la sua anima, perché se gli alberi li si osserva coraggiosamente e per molto tempo, a un certo punto riusciamo a cogliere la loro natura segreta e la loro anima, che si rivela all’improvviso nel momento di questa prova suprema che stanno sostenendo anche per noi e che ne manda in pezzi per un istante l’impassibile maschera vegetale. E poi ancora le foreste di alberi vivi e di alberi morti che ho visto nella Terra del fuoco, devastate dai castori e gremite di alberi lividi e scortecciati da cui pendono candidi sudari e ragnatele vegetali diafane, vicino al polo australe del nostro pianeta. E poi c’è il fico... Che albero è il fico? È un albero o è un animale? Certe volte mi viene da pensare che partecipi di tutte e due le nature, quella vegetale e quella animale. È un albero potente, che cresce dappertutto, che invade tutto, pieno di piccoli rigonfi succulenti che si aprono e si squarciano come umide fessure femminili umane, attorno alle quali volano da ferme miriadi di vespe e di altri insetti in delirio, dai rami pieni di un sangue seminale bianco che si appiccica alla tua pelle e la brucia. È come se al suo interno ci fosse una belva imprigionata. E poi c’è il fico di Gesù, quello che maledice. C’è stato un momento in cui ho pensato di scrivere tutto il libro su questo fico. Perché Gesù lo maledice e lo fa seccare? Certo, lo so, lo capisco, quella è una metafora, una forte e sconcertante metafora. Ciò che sta a significare è controcorrente e bruciante. Però resta il fatto che questo albero è stato ucciso per una metafora, per una colpa metaforica, mentre la sua morte è reale. E poi ci sono gli alberi del paradiso terrestre. Che alberi erano? Che alberi sono? Che ci siano ancora da qualche parte? Che siano il big bang degli alberi? Partecipano anche loro di una doppia natura? E quale natura? Vegetale e angelica? Paradisiaca e vegetale? O sono solo gli impietriti testimoni della caduta? Dei complici? Ma allora non erano anche quelli da maledire e da uccidere? Perché hanno visto l’enormità che stava accadendo e non hanno mosso una foglia, un ramo, un paradisiaco muscolo vegetale. Hanno assistito in silenzio alla caduta, con il loro sogghigno vegetale angelico. E il famoso melo dai frutti proibiti? Che albero era? Che albero è? Perché ha un rapporto così privilegiato con il serpente, e il serpente con lui? Che anche quell’albero partecipi di due nature, vegetale e rettile, demonica e vegetale? Anzi tre, perché anche l’uomo e la donna vi si sono interconnessi con la loro caduta e la loro colpa e vi si sono uniti in un inestricabile abbraccio. Che il serpente sia parte dell’albero? Che sia un suo ramo rettile? Che sia quello che ha potuto far balenare per un istante la comune natura vegetale e animale e che l’ha ricongiunta a quella umana e alla loro unica disperata radice? E poi c’è il mio fico, il mio fico murato, quello cresciuto su un muro dove prima c’era un rudere che è stato abbattuto ed è diventato una terrazza di pietra che si affaccia su una gola vegetale a strapiombo. Erompe da un punto alto del muro, a molta distanza dal suolo, per cui non si capisce da dove tragga il suo alimento, perché non credo che le sue radici riescano ad attraversare le dure pietre e ad arrivare a congiungersi con il terreno e a tuffarcisi dentro con le loro lanugini chimiche e le loro scatenate radichette. Però cresce, cresce sempre più, incontrollabilmente, nonostante lo sottoponga spesso a delle dure potature, con le mie cesoie e il mio tagliarami dal lungo braccio, spenzolato sul vuoto, perché altrimenti invaderebbe tutto, avvolgerebbe come una cupola tutto il grande cubo di pietra a picco sul mare primordiale verde e non si vedrebbe più niente. È stato anche bruciato, da una persona che ha un orto proprio sotto di lui, forse addirittura avvelenato, ma dai suoi rami e sterpi carbonizzati hanno ricominciato dopo un po’ a crescere forti polloni elastici e poi rami e poi foglie, e poi frutti sessuali gonfi e spaccati, con i loro nugoli deliranti di insetti. Sono anch’io come quell’albero murato, sono stato anch’io avvelenato e bruciato, anche il piccolo seme da cui sono nato ha attecchito tra le dure pietre di un muro. E anch’io, come il mio fico murato, nonostante tutto, continuo esplosivamente a fiorire e a dare frutto. Ecco, forse ho finalmente trovato il mio campione. Forse sono questi gli alberi che posso eleggere a miei emblemi, a nostri emblemi: gli alberi murati. Ma gli alberi murati che tipo di alberi sono? Di che specie sono? Sono alberi che si spingono dentro i muri o sono muri che si spingono dentro gli alberi? Nelle classificazioni vegetali non è contemplata l’esistenza di simili alberi. Gli alberi murati non hanno il loro bel nome latino che definisca la loro specie. Non sono alberi come gli altri, nessuno ha mai pensato a loro come a una specie di alberi a parte. Forse per questo non mi erano venuti in mente subito. E poi ci sono molti tipi di alberi murati: ci sono quelli i cui semi attecchiscono nei muri, negli interstizi tra un mattone e l’altro o tra una pietra e l’altra, dentro la calce; ci sono quelli ridotti quasi alla sola corteccia, riempiti di mattoni e cemento nelle loro cavità e che però in primavera continuano a coprirsi di nuove foglie; ci sono quelli che si incuneano con le loro radici nell’asfalto dei marciapiedi e che lo sollevano e squarciano con le loro dure vene nere, tanto che devi camminarci sopra sollevando molto i piedi e le gambe e allargando le braccia come un equilibrista sul filo... Io non so perché mi colpiscono tanto questi alberi che attecchiscono e crescono in un habitat così difficile e quasi impossibile. E questo – ora che ci penso – non da oggi ma da molto tempo, fin da quando ero adolescente e scrivevo le mie povere poesie dove erano già presenti questi inconcepibili alberi posti su un estremo crinale. Ne ho trovata una, ad esempio, scampata alle mie feroci distruzioni dei vent’anni, dove l’albero murato è addirittura l’incrocio da cui sgorga la poesia, il suo punto di irradiazione, la sua ferita. Ne trascrivo le ultime righe: Puoi pensare a tutto questo appoggiato a un albero murato nel punto d’incontro delle rette. Allora forse è di questo che si tratta, allora forse per me l’albero murato è il punto d’incontro delle rette. Ma di quali rette? Che cosa mi sta dicendo, cosa sta dicendo a tutti noi l’albero murato con il suo linguaggio muto? È una specie di messaggero? Ma messaggero di cosa? E io chi sono? Che sia anch’io un messaggero? E anche più avanti, quando il seminarista degli Esordi torna a Ducale e si aggira nella villa e nel parco osservando sonnambulicamente ogni cosa: la Pesca che si cotona i capelli e li fa crepitare come una torre assiro-babilonese elettrica, che sposta lo specchio appeso al muro per vederseli meglio mentre continuano a innalzarsi a dismisura e, con questo spostamento di specchio, avviene un simultaneo spostamento e slittamento di tutto il parco, delle sue linee e delle sue prospettive, i suoi viali si inclinano allo stesso modo e chi ci cammina sopra deve inclinare a sua volta il corpo per contrastare i loro cambi improvvisi di inclinazione... E poi, anche qui, alberi murati, ferite, testimoni muti oppure messaggeri che se ne stanno al centro della scena e del mondo mentre assistiamo in diretta alla loro muratura. Ci sono Lenìn, il custode della villa e del parco, e Bortolana, uomo di fatica e mezzo idiota, che ha un orecchio carbonizzato per la sua abitudine di spegnerci dentro le cicche delle sigarette. “Stavano anche murando alcuni tigli, riempivano di cemento le cavità che si erano formate col tempo dentro i tronchi. Lo trasportava Bortolana con una carriolina, mentre Lenìn murava la pianta con la testa tutta inclinata da una parte. Stendeva meticolosamente il cemento, facendo molta attenzione che fosse ben pareggiato con il tronco, ci tracciava sopra dei piccoli segni col taglio della cazzuola, per imitare la corteccia. Bortolana avvicinava moltissimo la testa per guardare, Lenìn raccoglieva con la punta della cazzuola una così piccola porzione di cemento che temevo ogni volta volesse lanciargliela all’improvviso nell’orecchio, per murare anche quello. Si accostavano in molti ad ammirare la placca di cemento ancora fresca, con le teste così appiccicate che un giorno un ciuffetto di capelli era rimasto incollato a un grande tiglio murato, in uno degli angoli del parco. Si sollevava nell’aria a ogni alito di vento, si distingueva ciascun capello con la sua microscopica radice trasparente.” Gli alberi murati erano già là fin dall’inizio, ad aspettarmi. Come mai allora mi sono venuti in mente soltanto adesso? Eppure sono loro ad avermi colpito fin da bambino e poi da ragazzo: l’albero murato della mia poesia scampata ai massacri di manoscritti, quelli del parco di Ducale, anche loro punto d’incontro delle rette, attraverso i quali avvengono salti di piani, si superano le barriere non solo del regno minerale e di quello vegetale ma anche di quello umano, perché all’albero murato spuntano persino i capelli, con le loro radici capovolte che si divincolano nell’aria, nello spazio... “Ci saranno ancora quegli alberi murati, nel parco che circondava la villa di Ducale, in quel posto alieno dove andavo spesso nei primi due decenni della mia vita e per il quale mi ero inventato il nome di Ducale?” mi domando. “Oppure non ci sarà più niente di tutto quello che c’era allora, la villa sarà disabitata e in rovina, le camere con i pavimenti e i soffitti collassati, la serra con i vetri sfondati, i divanetti sbudellati e marciti, la casa del custode franata su se stessa, la scaletta scardinata, il lettone pieno di calcinacci e di tegole frantumate, la legnaia senza più tetto, le scuderie esplose, la colombaia con le due bifore dalla colonnina spezzata, il parco devastato, dalle siepi e dagli alberi secchi e arrugginiti oppure aggrovigliati inestricabilmente gli uni agli altri come matasse di filo spinato, la ghiacciaia franata sotto il peso dell’ippocastano e della massa crescente delle sue radici pensili, la grotta sfondata, le panchine che c’erano sopra scaraventate nel suo cunicolo buio dall’intenso odore di orina morta, la vasca piena di acqua marcia e di rane impazzite, gli alberi murati ormai privi di corteccia, solo il loro calco di cemento liberato dall’involucro vegetale che si ergerà su tutta quella desolazione come una specie botanica e profetica mai vista prima...” E anche la mia casa di Mantova, davanti alla quale mi capita di camminare, di notte, adesso che il corso della mia vita è stato travolto e che sono dovuto ritornare nella mia città etrusca, nella mia scatola nera, nel luogo in cui sono stato evacuato nel mondo. Vago qua e là lungo le sue serpeggianti stradine di sassi neri che salgono e scendono, ancora più deserte per la pandemia. Sono tutti tappati nelle loro case, sembra di camminare in una città di morti. Che mi sia venuta dalla mia città natale l’idea della città dei morti che ha preso sempre più spazio nei miei ultimi libri? Che venga da così lontano? Che abbia lavorato per così tanto tempo dentro di me? La facciata di quella che è stata la mia casa è tutta buia e deserta, non devono averci fatto più nessun lavoro di restauro da quando siamo usciti da lì più di cinquanta anni fa e ci sono entrati gli eredi. Ci sono ancora gli stessi doppi vetri esterni di allora, senza neanche le ante, i muri sono in rovina, i comignoli senza più intonaci, scorgo la griglia della legnaia a filo col marciapiede, dove c’era quel mucchio di carbone sul quale si sono seduti e hanno parlato d’amore il bambino degli Increati e la Pesca bambina, arrivata da Ducale con un fagiano dorato tra le sue piccole e bianche braccia... E che ne sarà dello scalone, della camera da letto con il corno da caccia e la spada, della camera blu dove era confinata quella vecchia cieca che mi accarezzava i lunghi capelli con le sue mani leggere deformate dall’artrosi, mentre stavo inginocchiato vicino al suo letto, con gli occhi chiusi e la fronte posata contro il lenzuolo ripiegato? Adesso è la casa più fatiscente e spettrale di tutta Mantova, sembra la casa desolata di Dickens. E poi anche nella Lucina, dove un uomo assolutamente solo si aggira in un borgo abbandonato e deserto, muovendo il suo corpo tra le stradine e le case di pietra su cui non cessa un solo istante, giorno e notte, il tormento vegetale dei rampicanti. Dove ci sono alberi murati che erompono dalle case e dai ruderi e alberi mezzi vivi e mezzi morti, come un castagno che svetta al centro di uno strapiombo vegetale, con una parte verde e carica di foglie e di ricci e l’altra bianca e marmorizzata. Perché anche gli alberi possono avere degli ictus, possono suicidarsi o tentare di farlo. “Ma come si fa a vivere così” mi domando. “Agli uomini non è possibile: o sono vivi o sono morti.” Invece anche gli uomini possono essere mezzi vivi e mezzi morti, gli uomini e le donne, per un quarto vivi e per tre quarti morti, per un decimo vivi e per nove decimi morti. Molto più morti degli alberi murati, che devono ingaggiare un combattimento chimico spinto fino all’estremo, che devono strappare le loro vite all’inanimato e che sono destinati a sopravviverci, a crescere sulle macerie minerali e mentali delle nostre civiltà e della nostra folle specie. Eppure questi uomini e queste donne vivono in mezzo agli altri, svolgono le loro funzioni, compiono dei gesti, lavorano, viaggiano, mangiano, espellono gli escrementi, si accoppiano, ritirano i soldi ai bancomat, digitano sugli smartphone, vanno ai battesimi, ai pranzi di nozze, ai funerali, si riproducono... non si capisce che sono morti. Certo, con gli alberi è facile, è tutto in vista, con gli uomini meno. Ma anche molti uomini e molte donne sembrano vivi e invece sono morti. Ieri è stata chiusa la Lombardia, che è diventata tutta quanta zona rossa, insieme ad alcune provincie confinanti. In questo momento ci sono 16 milioni di persone chiuse in questa gabbia virale da cui non possono uscire, e dove gli altri non possono entrare. Io sono una di queste. Sono in gabbia. Il caso ha voluto che mi trovassi dopo tanto tempo nella mia città natale, nel luogo per me più doloroso e traumatico che ci sia al mondo. Ci dovrò stare chissà per quanto tempo, da solo, sradicato, in una casa che mi ha messo a disposizione la figlia di un amico mantovano, Ivano Ferrari, il poeta di Macello. Adesso sono anch’io, veramente, un albero murato. Un albero murato in mezzo a 16 milioni di alberi murati. È mattina. Prima di mettermi a scrivere ho mangiato e bevuto qualcosa: un’arancia, qualche biscotto, un bicchiere d’acqua. Li ho comperati ieri in un supermercato, insieme a un pacco di pasta, a un po’ di scatolette e ad altre cose. Ho attraversato la città con due sacchi di plastica pieni e sono arrivato nel vicolo dove c’è la casa dove in questo momento vivo. Si entra da sotto un voltone, si sale attraverso una stretta scaletta di pietra a spirale. Al primo piano di una casa a pochi passi di distanza da qui c’è una targa con su scritto che, durante un suo viaggio in Italia, in quello stabile – che allora era un albergo e una stazione di posta dove cambiavano i cavalli – ci ha abitato Charles Dickens, che quindi ha camminato sugli stessi marciapiedi di pietra e sugli stessi ciottoli neri e che ha visto le stesse cose che vedo anch’io appena esco. In un’altra casa due portoni più in là, a pochi anni di distanza, ci ha abitato Andersen, quello del soldatino di stagno e della sua ballerina di carta che finiscono dentro il fuoco e dei molti altri piccoli oggetti inanimati che nelle sue pagine prendono straziante vita... “Che cosa sono le radici?” mi domando, a questo punto della mia vita, adesso che dopo un lungo giro sono venuto a ricongiungermi col luogo da cui sono partito, con le mie radici. “Che cos’è questo albero capovolto che cresce a testa in giù sprofondato nel terreno freddo e buio e che può arrivare all’80% del peso dell’intera pianta, la sua parte più disperatamente vitale? Che può estendersi anche per centinaia di chilometri dando vita a milioni di radici capaci di immagazzinare e trasmettere informazioni comunicando attraverso neurotrasmettitori, elaborando messaggi di natura chimica, elettrica, magnetica, vibrazionale. Che sente la presenza dell’acqua anche a decine di metri di distanza e che può assorbirne fino a trecento litri al giorno con le sue propaggini fascicolate e le miriadi di peli radicali, fornendo al resto della pianta azoto, fosforo, potassio... da trasformare in una linfa che viene scaraventata in alto, nella pianta emersa, in ciò che sarà, lungo canali inventati e che si inventano via via sotto la sua oscura e sotterranea pressione, che sprigiona polloni, che produce ormoni...”

UNA STORIA D'AMORE E DI TENEBRA Amos Oz

UNA STORIA DI AMORE E DI TENEBRA

Amos Oz

Capitoli 1-9

Nota

Amore e tenebra sono due delle forze che agiscono in questo libro, un'autobiografia in forma di romanzo, un'opera letteraria complessa che comprende le origini della famiglia di Oz, la storia della sua infanzia e giovinezza prima a Gerusalemme e poi nel kibbutz di Hulda, l'esistenza tragica dei suoi genitori, e una descrizione epica della Gerusalemme di quegli anni, di Tel Aviv che ne è il contrasto, della vita in kibbutz, negli anni trenta, quaranta e cinquanta. La narrazione si muove avanti e indietro nel tempo, scavando in 120 anni di storia familiare una saga di rapporti d'amore e odio verso l'Europa, che vede come protagonisti quattro generazioni di sognatori, studiosi, uomini d'affari falliti e poeti egocentrici, riformatori del mondo, impenitenti donnaioli e pecore nere. Questa vasta galleria di personaggi mette a punto una sorta di "cocktail genetico" da cui nascerà un figlio unico, nutrito di fantasia, che, in un fatale momento di rivelazione avvenuta attraverso un dolore scioccante e atroce, scoprirà di essere un artista, uno scrittore. Amos Oz ci consegna la storia della sua infanzia e dell'adolescenza colma di aspirazioni poetiche, zelo politico e una paura costante di un altro genocidio degli ebrei, questa volta nella stessa Israele, a opera degli arabi, degli inglesi, dell'intero mondo cristiano, dell'intero mondo islamico. Al centro di questo romanzo autobiografico sta il grande tabù di Oz: il suicidio della madre, nel 1952. L'esplorazione dolorosa e coraggiosa di questa tragedia viene condotta con lucidità, nostalgia e rancore, con pietà e travaglio, con schiettezza e un "flusso di coscienza" incredibilmente poetico che, con immediatezza, giunge al cuore del lettore.

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Sono nato e cresciuto in un minuscolo appartamento al piano terra, forse trenta metri quadri sotto un soffitto basso: i miei genitori dormivano su un divano letto che la sera, quando s’apriva, occupava quasi tutta la stanza, da una parete all’altra. La mattina presto ripiegavano il divano comprimendolo per bene, nascondevano lenzuola e coperte nel buio del cassetto che stava lì sotto, rivoltavano il materasso, chiudevano, sistemavano, stendevano su tutto un rivestimento grigio chiaro e infine disponevano qualche cuscino ricamato in stile orientale, occultando con ciò ogni traccia del loro sonno notturno. E così, la stanza fungeva da camera da letto, studio, biblioteca, tinello e persino salotto. Di fronte a essa si trovava il mio cantuccio dipinto di un verde tenue e per metà occupato dal panciuto guardaroba. Un corridoio buio, basso e stretto procedeva un po’ storto dal cucinino al bagno e alle due stanzette: pareva un tunnel per dei carcerati in fuga. Un lume fiacco, imprigionato dentro una gabbia di ferro, spandeva sul corridoio, anche nelle ore del giorno, una luce incerta, torbida. C’erano soltanto una finestra nella camera dei miei genitori e una nella mia, entrambe riparate da imposte di ferro; entrambe provavano a modo loro ad ammiccare verso oriente, ma la vista concedeva solo un cipresso impolverato e una cinta di pietre a secco. Attraverso l’inferriata di un abbaino, invece, dalla cucina e dal bagno si intravedeva il piccolo cortile che sembrava quello di una prigione, circondato com’era da alte mura e con il pavimento di cemento. Lì, senza mai un raggio di sole, languiva sino allo spasimo un pallido geranio piantato dentro una latta di olive arrugginita. Sui davanzali dell’abbaino avevamo sempre dei barattoli chiusi di cetrioli in salamoia e un povero cactus piantato dentro un vaso da fiori che da quando si era rotto fungeva da vivaio. Era una casa interrata: il piano basso dell’edificio era scavato nel dorso della montagna. Era lei il nostro vicino, dall’altra parte del muro: un inquilino pesante, introverso e silenzioso, un vecchio e malinconico monte con le sue inveterate abitudini di scapolo e una fissazione per il silenzio. Quel vicino così torpido e umbratile non spostava mai i mobili né riceveva ospiti, non faceva baccano né arrecava il minimo disturbo, ma tramite le due pareti in comune fra noi e lui filtravano sempre, come un testardo sentore di muffa, il freddo muto del buio e un’umidità malinconica. E così, anche nel pieno dell’estate, un briciolo d’inverno restava serbato in casa nostra. Gli ospiti dicevano: si sta così bene da voi, anche quando c’è afa, è così fresco e tranquillo, che sollievo, ma d’inverno come state? Non passa umidità, dai muri? Non è un po’ deprimente, qui, l’inverno? * Le due stanze, il cucinino, il bagno e soprattutto il corridoio erano bui. I libri riempivano tutta casa nostra: mio padre era in grado di leggere sedici o diciassette lingue e di parlarne undici (tutte con accento russo). Mia madre aveva dimestichezza con quattro o cinque, e ne leggeva sei, otto. Fra loro, conversavano in russo e in polacco, quando non volevano farsi capire da me (capitava quasi sempre. Quando mamma un giorno per sbaglio disse in mia presenza “stallone” in ebraico invece che in un’altra lingua, mio padre si arrabbiò e la rimproverò aspramente in russo: shto se taboy? Wiydesh malàk ryadom se nami!). Se il senso culturale li spingeva a leggere per lo più in tedesco e inglese, certamente era l’yiddish ad abitare i loro sogni, la notte. Quanto a me, mi insegnarono solo e soltanto l’ebraico: forse per paura che la padronanza di tante lingue esponesse anche me alle seduzioni della letale Europa. Nella scala di valori dei miei genitori, tutto ciò che era occidentale stava culturalmente più in alto: Tolstoj e Dostoevskij erano in sintonia con la loro anima russa, tuttavia credo che – malgrado Hitler – considerassero la Germania più civile della Russia e della Polonia; e la Francia ancor più della Germania. L’Inghilterra era persino più su della Francia. Quanto all’America – la loro convinzione qui s’incrinava: laggiù, in fondo, si sparava agli indiani, si svaligiavano diligenze, si depredavano l’oro e le fanciulle. L’Europa era la loro terra promessa proibita, landa incantata di campanili e piazze lastricate di antiche pietre, tranvai e ponti e chiese turrite, villaggi sperduti, sorgenti benefiche, boschi, nevi e pascoli. Parole come “baita”, “pascolo”, “pastorella di oche” mi affascinarono lungo tutta l’infanzia. Possedevano l’aroma sensuale di un mondo vero, spensierato e lontanissimo dai tetti polverosi di lamiera, dagli spiazzi colmi di rottami e rovi, dagli squallidi pendii di una Gerusalemme strozzata dal giogo di un’estate incandescente. Bastava che sussurrassi fra me e me “pascolo” – per udire il muggito delle vacche con le campane appese al collo e il gorgoglio dei ruscelli. A occhi chiusi, osservavo la pastorella d’oche scalza, che mi turbava sino alle lacrime quando ancora non sapevo nulla. * Molti anni dopo mi resi conto che la Gerusalemme sotto il mandato britannico, cioè negli anni venti, trenta e quaranta, era una città culturalmente affascinante, popolata di grandi mercanti, musicisti, studiosi e scrittori: Martin Buber, Gershom Scholem, Agnon e tanti altri scienziati e artisti di vaglia. A volte, quando passavamo per via Ben Yehudah o viale Ben Maymon, mio padre mi diceva nell’orecchio: “Guarda, c’è quello studioso di fama mondiale”. Io non capivo. Pensavo che la fama mondiale avesse a che fare con una malattia alle gambe, giacché quasi sempre quel vecchio si faceva strada a tentoni con l’aiuto di un bastone, barcollando un po’, e anche d’estate portava degli abiti di lana pesante. La Gerusalemme sulla quale i miei genitori posavano i loro sguardi si estendeva dal nostro quartiere quasi a perdita d’occhio: era Rechavia immersa nel verde e nei suoni dei pianoforti, era i tre o quattro caffè dai candelabri dorati in via Giaffa e Ben Yehudah, era le sale dell’YMCA e l’albergo King David, dove ebrei e arabi colti si intrattenevano con inglesi illuminati e generosi, dove principesse trasognate dal lungo collo aleggiavano in abiti da ballo, al braccio di signori in abito scuro, dove inglesi di mente aperta discorrevano con ebrei e arabi di larghe vedute, dove avevano luogo concerti, balli, serate di lettura, ricevimenti intorno a un tè e raffinate conversazioni d’arte. Forse però quella Gerusalemme delle feste e candelabri esisteva solo dentro i sogni di chi abitava a Kerem Abraham – bibliotecari, insegnanti, impiegati e rilegatori. A ogni modo, non era da noi. Il nostro quartiere, Kerem Abraham, apparteneva a Čechov. Anni dopo, quando lessi Čechov (tradotto in ebraico), ebbi la certezza che lui era uno dei nostri: lo zio Vanja abitava proprio sopra di noi, il dottor Samuelinko si piegava per accarezzarmi con le sue mani grandi e forti, quando avevo l’angina o la difterite, Ibaski con la sua eterna emicrania era un cugino di secondo grado di mamma, e Trigorin andavamo a sentirlo il sabato mattina alla Casa del popolo. Davvero, avevamo intorno russi d’ogni specie: c’erano molti tolstojani. Alcuni di loro assomigliavano proprio a Tolstoj. Quando vidi per la prima volta un’immagine seppiata dello scrittore, sul retro di un libro, fui sicuro di averlo già incontrato varie volte nei nostri paraggi, vuoi a spasso per via Malachia, o lungo la discesa di via Ovadia, a capo scoperto, la barba bianca scomposta dal vento, solenne come il patriarca Abramo, gli occhi accesi, in mano un ramo che fungeva da bastone, la camicia da contadino che cascava sopra i pantaloni larghi, trattenuta intorno ai fianchi da una corda grezza. I tolstojani del quartiere (i miei genitori li chiamavano “tolstoyashiki”) erano tutti vegetariani fanatici ansiosi di riformare il mondo ed elargire morali, in profonda sintonia con la natura, amici dell’umanità intera e di qualsivoglia essere vivente, pieni di fervore pacifistico e della nostalgia per un’esistenza semplice e pura, tutti indistintamente smaniosi della vita di campagna, del ritorno alla terra tramite il lavoro, in seno ai campi e tra i filari dei frutteti. Se non che, non se la cavavano nemmeno con le misere piante d’appartamento: o le bagnavano troppo, fino a farle morire, o si dimenticavano di innaffiare. O forse era tutta colpa del bieco governo inglese che metteva il cloro nella nostra acqua. Alcuni di loro erano tolstojani appena usciti da un romanzo di Dostoevskij: disgraziati, verbosi, soffocati dagli istinti, rovinati dagli ideali. Ma tutti, tanto i tolstojani quanto i dostoevskijani del nostro quartiere, cioè Kerem Abraham, erano in fin dei conti al soldo di Čechov. Il mondo, da noi, lo si chiamava generalmente “il mondo grande”. Ma aveva anche altri patronimici: illuminato. Esterno. Libero. Ipocrita. Lo conoscevo quasi soltanto attraverso la collezione di francobolli: Danzica. Boemia e Moravia. Bosnia-Erzegovina. Ubang Sari. Trinidad e Tobago. Kenya-Uganda-Tanganica. Era lontano, conturbante, fantastico, ma assai pericoloso e a noi ostile: non amano gli ebrei perché sono dotati di un’intelligenza acuta ed eccellono, ma sono anche chiassosi ed esibizionisti. Non amano la nostra intraprendenza qui in terra d’Israele perché ci invidiano sempre, anche per questa striscia di terra fatta di paludi, steppa e deserto. Laggiù, nel mondo, tutti i muri erano tappezzati di scritte ingiuriose, “giudeo, vattene in Palestina”, così siamo venuti in Palestina. E adesso il mondo ci urla contro, “giudeo, vattene via dalla Palestina”. Non solo il “Mondointero”, anche la terra d’Israele era lontana: da qualche parte, oltre le montagne, stava maturando una nuova razza di ebrei-eroi, di una specie abbronzata e robusta, taciturna e operosa, affatto diversa dall’ebreo diasporico, affatto diversa dagli abitanti di Kerem Abraham. Ragazzi e ragazze, pionieri, determinati e scuri di pelle, silenziosi, in confidenza con il buio della notte. Che anche nelle faccende fra uomini e donne avevano spezzato ogni freno. Che non avevano vergogna di nulla. Nonno Alexander disse una volta: “Loro sono convinti che in futuro sarà tutto così facile, che un ragazzo potrà toccare una ragazza e chiederglielo così, magari queste non aspetteranno nemmeno che il ragazzo lo chieda, macché, lo faranno loro per prime, come fosse chiedere un bicchiere d’acqua”. Zio Bezalel, che era miope, commentò con contenuta riprovazione: “Ma non era forse questa la prima istanza del bolscevismo, quella di distruggere tutto il segreto e il mistero?! Di annientare così ogni sentimentalismo?! Di trasformare tutta la nostra vita in un bicchiere di acqua fresca?”. Lo zio Nehemia, dal suo angolo, se ne venne fuori tuonando due versi che a me suonarono come un ruggito disperato: “Oy, la via mi sembra così lunga, tortuoso e sfuggente il sentiero, oy che fatica, io vago e tu sei remota, più vicina mi è la luna!...”. Allora zia Zipporah, in russo: “Nu. Dai, basta. Siete diventati tutti matti? Il bambino vi ascolta”, e così passarono al russo. * Quei pionieri vivevano oltre il nostro orizzonte: in Galilea, nella regione di Sharon, nelle vallate. Ragazzi robusti dal cuore caldo, ma introversi e meditabondi. Ragazze prosperose, spontanee, equilibrate, come se già sapessero tutto e capissero tutto, come se conoscessero a menadito anche te e tutti i tuoi imbarazzi, e tuttavia ti trattano con cordialità, ti prendono sul serio, non come un bambino ma come un adulto uguale agli altri, e tuttavia ancora piccolo di statura. Quelle pioniere e quei pionieri mi sembravano forti, responsabili, riservati, capaci di intonare in cerchio canti ameni e nostalgici che trafiggevano il cuore, ma anche canzoni buffe e altre d’amore sfrontato, senza alcun pudore, capaci di danze sfrenate sino a perdere i sensi, capaci di solitudine e pensieri, atti a una vita di campagna e sotto la tenda, a tutti i lavori più duri, “siamo sempre di guardia”, “la pace dell’aratro ti portano gli eroi, oggi ti danno la pace dei fucili!”. “Dove ci manderanno, ci dirigeremo!”, capaci di saltare in groppa a un cavallo selvaggio ma anche a un grosso trattore cingolato, di parlare l’arabo, a conoscenza di tutte le grotte e i uadi, le pistole e le granate, e tuttavia amanti della poesia e dei libri di filosofia, colti, sensibili nel profondo, soliti conversare fra di loro a voce sommessa, sotto la luce di una candela nelle loro tende fino alle ore piccole, intorno al senso della nostra vita e alla scelta a denti stretti fra amore e dovere, fra bene nazionale e giustizia. A volte andavo con gli amici al cortile della Tenuva, la centrale del latte, a vederli arrivare da oltre i Monti di Tenebra, sopra a un autocarro carico di prodotti agricoli, “vestiti di terra e di armi, scarponi ai piedi”; giravo fra loro per aspirare l’odore della messe, attingere sentori di lontananze: laggiù, da loro, capitavano davvero grandi cose. Laggiù si stava costruendo un paese e riformando il mondo, laggiù stava fiorendo una società nuova, laggiù imprimevano il loro sigillo sul paesaggio e sulla storia, laggiù si aravano campi e si piantavano vigneti, si componeva una nuova canzone, laggiù si cavalcava armati, si rispondeva col fuoco al fuoco arabo, si prendeva la squallida polvere d’uomo, e si creava un popolo combattente. Sognavo segretamente che un giorno o l’altro mi portassero via con loro. Che trasformassero anche me in un popolo combattente. Che anche la mia vita diventasse un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d’acqua fresca in una giornata afosa. * Oltre i Monti di Tenebra c’era anche la Tel Aviv di allora, quel luogo tumultuoso donde ci arrivavano i giornali, le voci sul teatro e l’opera e il balletto e il cabaret e sull’arte d’avanguardia, i partiti, le aspre discussioni e anche sprazzi di vaghi pettegolezzi. Laggiù a Tel Aviv c’erano grandi sportivi. E c’era il mare, e il mare era tutto pieno di ebrei abbronzati che sapevano nuotare. A Gerusalemme chi mai sapeva nuotare? S’era forse mai sentito di ebrei nuotatori? Quelli laggiù avevano geni completamente diversi. Una mutazione, “come il miracolo della farfalla che nasce dal bruco”. La parola “Telaviv” aveva il suo incanto segreto, tutto speciale. Quando qualcuno diceva “Telaviv”, mi figuravo subito l’immagine di un ragazzone in canottiera celeste, abbronzato e di spalle larghe, poeta-operaio-rivoluzionario, forgiato senza paura, “Haberman” l’avevo chiamato: riccioluto, con un berretto mal messo in testa, in bocca una sigaretta Matosin, a suo agio nel mondo. Tutto il giorno lavorava sodo a posare pavimenti o ghiaia, la sera suonava il violino, la notte ballava con le ragazze o cantava loro canzoni sdolcinate sulla spiaggia, sotto il chiaro di luna, e verso l’alba estraeva dal fodero la pistola o lo sten e col favore dell’ultimo buio andava a difendere campi e case. Quanto era distante, Tel Aviv! Negli anni della mia infanzia non ci andai più di cinque, sei volte: si scendeva per trascorrere una festa con le zie, le sorelle di mia madre. E a Tel Aviv non solo c’era a quell’epoca una luce molto diversa da quella gerosolimitana, molto più diversa di quanto non sia oggi, persino la legge di gravità rispondeva diversamente. A Tel Aviv, infatti, si camminava in modo diverso: si flottava, saltellando, un po’ come Neil Armstrong sulla luna. Da noi a Gerusalemme la gente camminava sempre un po’ come fosse stata a un funerale, o come quando si arriva in ritardo a un concerto: prima si metteva un po’ avanti la scarpa, e si tastava prudentemente il terreno. Poi, con la gamba ormai posata per terra, non si aveva troppa fretta di muoverla: dopo duemila anni calpestiamo nuovamente il suolo di Gerusalemme, e non siamo disposti ad abbandonarlo così precipitosamente. E poi a sollevare il piede – chissà mai che qualcun altro ci portasse via il nostro pezzetto di suolo, misero possesso. D’altro canto, nel caso che il piede fosse comunque già levato – non c’era di che precipitarsi a farlo scendere: va’ a sapere quale nido di vipere brulicava lì sotto, e bestiacce e insidie d’ogni sorta. Senza contare che sono ormai migliaia di anni che paghiamo un caro prezzo per la nostra dabbenaggine, finendo continuamente in pasto ai nemici per aver messo un piede senza guardare dove. Insomma, era più o meno così, l’andatura a Gerusalemme. A Tel Aviv, invece, tutta un’altra cosa! La città era tutta un grillo. Uno scorrere incessante di gente, case, strade, piazze e brezza di mare e sabbia e viali e persino di nuvole in cielo. Una volta andammo a Tel Aviv per la cena di Pasqua, e la mattina presto, quando tutti ancora dormivano, mi vestii e uscii di casa per andare a giocare, tutto solo, in una piccola piazza con una panchina o due, un’altalena, un riquadro con la sabbia, tre o quattro alberelli dove già cantavano gli uccellini. Passò qualche mese e fu settembre: tornammo a Tel Aviv per il Capodanno, ma la piazza non c’era più. L’avevano spostata – alberi, altalena, panchine, uccellini e sabbia compresi – all’altro capo della strada. Rimasi sconcertato: non riuscivo a capire come Ben Gurion e le istituzioni competenti avessero potuto permettere una cosa del genere. Incredibile. S’è mai visto prendere una piazza e spostarla? Avanti di questo passo, avrebbero spostato il Monte degli Ulivi. La torre di Davide. Il Muro del Pianto... Di Tel Aviv, da noi, si parlava con un misto di invidia e vanteria, con ammirazione e un pizzico di omertà: come se Tel Aviv fosse una sorta di piano segreto e cruciale del popolo ebraico, di cui conveniva non parlare troppo, con le orecchie ben tese, perché di nemici e avversari era pieno il mondo. Telaviv: mare. Luce. Celeste, sabbia, impalcature... chioschi lungo i viali, una città ebraica bianca, lineare, che cresceva fra agrumeti e dune. Non soltanto un luogo per il quale compravi un biglietto dell’autobus della Egghed, no, un altro continente. * Il contatto telefonico con i parenti di Tel Aviv fu per molti anni una tradizione. Una volta ogni tre o quattro mesi li chiamavamo al telefono, benché né noi né loro avessimo l’apparecchio. Per prima cosa, spedivamo una lettera alla zia Haya e allo zio Tzvi, in cui stava scritto che il diciannove di quel mese, che cadeva di mercoledì, perché di mercoledì lo zio Tzvi usciva già alle tre dal suo posto di lavoro ai Servizi sanitari, alle cinque avremmo chiamato dalla nostra farmacia alla loro farmacia. La lettera veniva inviata con largo anticipo, poi attendevamo la risposta. Con la quale la zia Haya e lo zio Tzvi dichiaravano che il mercoledì diciannove era perfetto per loro e che ovviamente si sarebbero trovati in farmacia un po’ prima delle cinque, ma comunque di non preoccuparsi nel caso fossimo riusciti a chiamare solo un po’ dopo le cinque, che comunque non sarebbero scappati via. Non ricordo se ci vestissimo a festa, per la spedizione alla farmacia e la telefonata a Tel Aviv, ma non mi meraviglierei se fosse stato effettivamente così. Si trattava infatti di un’occasione solenne. Già la domenica precedente mio padre diceva a mia madre: Fania, ricordi che questa settimana cade la conversazione telefonica con Tel Aviv? Il lunedì mia madre diceva: Arieh, non tornare tardi dopodomani, che non ci sia qualche contrattempo. Il martedì tutti e due dicevano a me, Amos, non farci solo la sorpresa di ammalarti, capito, non prendere freddo e non fare ruzzoloni fino a domani pomeriggio, capito? La sera della vigilia, poi, mi dicevano: va’ a dormire presto, così domani al telefono sei forte, non voglio che laggiù pensino che non hai mangiato. Così si costruiva la trepidazione. Abitavamo in via Amos, la farmacia distava cinque minuti a piedi, era in via Sofonia, ma già alle tre papà diceva: “Tu, non cominciare niente, adesso, per non essere poi in affanno”. “Io sono calmissima, ma tu, a stare immerso nei tuoi libri, finisce che poi ti dimentichi.” “Io? Dimenticare? Ma se guardo l’orologio ogni due minuti. E Amos me lo ricorderà.” Ecco, avevo solo cinque, sei anni, e già portavo il fardello di una responsabilità storica. Non avevo, né avrei potuto avere un orologio, perciò correvo continuamente in cucina a vedere che cosa diceva il tictac, e come su una rampa spaziale scandivo: ancora venticinque minuti, ancora venti, ancora quindici, ancora dieci minuti e mezzo – ma appena dicevo dieci minuti e mezzo ci alzavamo, chiudevamo ben ben a chiave la casa e uscivamo tutti e tre, a sinistra fino al negozio del signor Auster, a destra per via Zaccaria, a sinistra in via Malachia, a destra per Sofonia, ed eccoci in un baleno alla farmacia: “Buongiorno signor Heinemann, come sta? Siamo venuti per telefonare”. Lui sapeva, ovviamente, che il mercoledì saremmo venuti per telefonare ai parenti di Tel Aviv, sapeva anche che zio Tzvi lavorava ai Servizi sanitari, che zia Haya era un alto funzionario del comitato laburista, che Ygal da grande avrebbe fatto lo sportivo, e che erano buoni amici di Golda Meyerson e Mocha Qoldoni, che qui era chiamato Mosheh Qol, tuttavia gli precisavamo così: “Siamo venuti per telefonare ai nostri parenti di Tel Aviv”. Allora il signor Heinemann diceva: “Sì. Certo. Prego, accomodatevi”, e poi ci raccontava la sua solita barzelletta telefonica: un giorno, al congresso sionistico di Zurigo, si udirono improvvisamente delle urla tremende dietro la porta di una stanza. Berl Loker chiese a Herzfeld quale fosse il motivo di quelle grida, e Herzfeld rispose che si trattava del compagno Rubashov che stava parlando con Ben Gurion a Gerusalemme. Se sta parlando con Gerusalemme, domandò incredulo Loker, allora perché non usa il telefono? Papà diceva: “Adesso compongo”. E mamma: “È ancora presto, Arieh. Manca ancora qualche minuto all’ora stabilita”. E lui replicava: “Sì, ma ora che otteniamo la linea...” (allora non c’era ancora la teleselezione). E mamma: “E se per caso invece ci danno la linea immediatamente, e loro non sono ancora sul posto?”. Papà rispondeva: “In tal caso avremo solo da ritentare poco dopo”. E mamma: “No, starebbero in pena, al pensiero di aver perduto il contatto”. Mentre discutevano, giungeva l’ora: quasi le cinque. Papà alzava la cornetta, stando in piedi, non seduto, e diceva alla centralinista: “Buongiorno, signora. Vorrei Tel Aviv 648” (o qualcosa di simile. Allora si viveva in un mondo a tre cifre). Capitava che la centralinista dicesse: “La prego di aspettare, signore, qualche istante, ora sta parlando il direttore delle Poste”. O il signor Stein. O il signor Nashashibi. E noi ci agitavamo un poco, perché va’ a sapere che cosa avrebbero pensato di noi, laggiù... Riuscivo quasi a vederlo, quell’unico filo che collegava Gerusalemme a Tel Aviv e – tramite quest’ultima – a tutto il mondo, con la linea occupata, e fintanto che la linea era occupata, noi restavamo isolati dal mondo. Quel filo s’insinuava lungo il deserto e fra le sterpaglie, si arrampicava su per i monti e le colline: lo consideravo un grande miracolo. E tremavo: e se una notte delle belve selvatiche rosicchiavano il filo? O degli arabi cattivi lo tagliavano? Se s’infiltrava la pioggia? Scoppiava un incendio? Chissà. Correva laggiù quel filo sottile, vulnerabile, incustodito, esposto al torrido sole, chissà. Ero colmo di gratitudine per quella gente che l’aveva teso, il filo: prodi e lesti, non era mica un lavoro semplice, tendere un filo da Gerusalemme sino a Tel Aviv, io lo sapevo per esperienza quanto era stato difficile: una volta avevamo teso un filo dalla mia camera a quella di Eliahu Friedmann, a due stanze e un cortile di distanza in tutto e per tutto, un filo Spagat, e che lavoro: alberi, vicini, magazzino, recinzione, scale, siepe... Dopo aver atteso un poco, papà supponeva a buon diritto che il direttore delle Poste o il signor Nashashibi avessero terminato la loro conversazione, alzava di nuovo la cornetta e diceva alla centralinista: “Mi scusi, signora, ho chiesto di parlare con Tel Aviv 648”. Lei allora replicava: “L’ho già segnata, signore. La prego di attendere” (oppure: “la prego, si armi di pazienza”). Papà diceva: “Aspetto, signorina, ovvio che aspetto, ma c’è altra gente che aspetta, anche all’altro capo del filo”. E con ciò le faceva cortesemente presente che noi eravamo persone civili, ma che anche la tolleranza aveva un limite. Che eravamo delle persone bene educate, ma non dei babbei; non pecore da macello. Questa storia che agli ebrei gli si possa fare qualunque cosa venga in mente – questa storia è finita per sempre! Quand’ecco che improvvisamente il telefono squillava, nella farmacia, ed era uno squillo che provocava una tempesta dentro, un fremito lungo la schiena, un momento magico. La conversazione, per parte sua, suonava circa così: “Pronto, Tzvi?”. “Parla Tzvi.” “Sono Arieh. Da Gerusalemme.” “Sì, Arieh, ciao, qui è Tzvi che parla, come state?” “Noi tutto bene. Vi stiamo parlando dalla farmacia.” “Anche noi. Che c’è di nuovo?” “Niente di nuovo. Come va da voi, Tzvi? Che cosa racconti?” “Tutto a posto. Non c’è niente di speciale. Si tira avanti.” “Nessuna nuova, buone nuove. Anche da noi, non ci sono novità. Stiamo benissimo. E voi?” “Anche qui.” “Benissimo. Allora adesso Fania parla con voi.” E di nuovo la stessa solfa: come va? Novità? E poi: “Adesso anche Amos vi dice qualche parola”. Tutta qui, la conversazione. Come va? Bene. Nu, comunque ci sentiamo di nuovo presto. Fa piacere sentirvi. Fa piacere sentire anche voi. Ci scriviamo una lettera e fissiamo la prossima volta. Ci sentiamo. Sì. Certo che ci sentiamo. Presto. Arrivederci e state bene. Auguroni. Anche a voi. * Non era una battuta di spirito: la vita era appesa a un esile filo. Ora capisco che davvero era così, che non erano affatto sicuri di potersi parlare di nuovo, sicuri che quella non fosse davvero l’ultima volta, perché chissà che cosa poteva succedere, che cosa sarebbe successo: un pogrom, un massacro, un bagno di sangue da parte degli arabi che ci avrebbero sterminato, una guerra, una tragedia terribile; del resto i carri armati di Hitler ci erano arrivati quasi fin sulla porta di casa, e da due direzioni, dal Nordafrica e persino dalla via del Caucaso. Chissà che cosa ancora ci aspettava. E quella insulsa conversazione non era affatto insulsa – era solo inerme. Ciò che soltanto ora afferro, di quelle conversazioni telefoniche, è quanto costasse loro – a tutti e non soltanto ai miei genitori – esprimere un’emozione personale. Dare voce a un sentimento collettivo non risultava loro affatto difficile – erano persone sensibili, e sapevano parlare. Eccome se sapevano parlare, erano capaci di discutere fervidamente per tre, quattro ore filate intorno a Nietzsche, Stalin, Freud, Jabotinsky, lasciandosi prendere sino alle lacrime, sino all’elegia, intorno al colonialismo, all’antisemitismo, alla giustizia, alla “questione agraria”, alla “questione femminile”, “arte e vita”. Se non che, quando si trovavano a dover esprimere qualcosa di personale, ne usciva sempre fuori una specie di contorsione arida, fors’anche impaurita – frutto di generazioni e generazioni di vincoli e freni. In senso doppio: da una parte l’educazione borghese europea, a sua volta enfatizzata dal provincialismo religioso ebraico. Quasi tutto risultava o “proibito” o “sconveniente” o “non bello”. Senza contare che a quel tempo c’era una grave carenza di parole: l’ebraico non era ancora una lingua sufficientemente naturale, e certo non la lingua dell’intimità. Parlando ebraico, in fondo non sapevi mai che cosa ne sarebbe venuto fuori. Non si era mai sicuri di non risultare ridicoli, e questa era per loro la minaccia più grave. Cadere nel ridicolo faceva una paura da morire. Nemmeno i miei genitori, che pure lo conoscevano assai bene, avevano una vera e propria dimestichezza con l’ebraico. Lo parlavano con una sorta di timor sacro per la precisione, ripetevano spesso il già detto, formulando daccapo quel che avevano appena espresso, come farebbe probabilmente un autista miope la notte nel dedalo di viuzze in una città straniera alla guida di una vettura che non conosce. Un sabato venne a trovarci un’amica di mia madre, un’insegnante di nome Lilia Bar Samka. Durante la conversazione, la nostra ospite non faceva che ripetere, “sono atterrita”, e una volta o due pronunziò anche la frase, “si trova in una situazione tremenda”1: a quel punto scoppiai a ridere, e nessuno sembrò aver capito il perché di quel mio accesso di ilarità. O forse capirono ma preferirono far finta di non capire. E lo stesso fu quando qualcuno disse che zia Clara sprecava2 i fritti, e anche quando mio padre disquisiva di scuse per il riarmo delle superpotenze o si diceva assolutamente contrario alla decisione Nato di cominciare a riarmare3 la Germania per impaurire Stalin. Mio padre, dal canto suo, sudava visibilmente ogni volta che io usavo la voce verbale “sistemare”, parola affatto univoca, e io non capivo perché lo indispettisse e lui ovviamente non spiegava, quanto a domandare non se ne parlava nemmeno. Molti anni dopo venni a sapere che prima ch’io nascessi, negli anni trenta, “sistemare” significava “rimanere gravida”, ma anche “sistemare” la faccenda con un matrimonio riparatore. A volte, con l’espressione “sistemarla”, s’intendeva molto semplicemente di essere stati a letto con lei: “quella notte al magazzino lui la sistemò due volte, e la mattina il bastardo fece finta di non conoscerla”. E così, quando dicevo che “Uri aveva sistemato sua sorella”, papà faceva una smorfia e s’accigliava appena, all’attaccatura del naso. Ovviamente non spiegò mai – come avrebbe potuto? Nei momenti d’intimità, non parlavano ebraico fra loro. Forse, nei momenti di vera intimità non parlavano affatto. Tacevano. Su tutto gravava l’ombra della paura di apparire o suonare ridicoli. 1 Espressione che popolarmente significa “scoreggiare”. [N.d.T.] 2 Significa anche “cagava”. [N.d.T.] 3 Significa anche “scopare”. [N.d.T.] 2. In cima alla gerarchia dei valori a quel tempo c’erano i pionieri. I quali, però, vivevano assai lontani da Gerusalemme: nelle vallate, in Galilea, lungo il deserto adagiato sulle rive del Mar Morto. Di lontano, ne ammiravamo la figura robusta e meditabonda che s’ergeva fra i solchi dell’aratro, sui manifesti del Fondo nazionale, allora chiamati “affissi”. Uno scalino più in basso dei pionieri stava “la comunità organizzata”, composta di coloro che leggevano il “Davar” in canottiera sui balconi di legno, di attivisti dell’Histadrut, della Haganah e dei Servizi sanitari, gente in divisa cachi, gente che versava la contribuzione volontaria, che si nutriva di insalata, uova e formaggio fresco: erano i fautori dell’astensione, della responsabilità, dalla condotta stabile, dello status di lavoratori, obbedienza al partito e olive non piccanti nel barattolo della Tenuva, la centrale del latte, “celeste di sopra e celeste di sotto, qui si costruisce un porto! Un porto!”. Di contro a questa società organizzata, al di là della cinta c’erano i “terroristi fuori rotta”, e anche i fanatici di Meah Shearim, e anche i comunisti “che odiavano Sion”, nonché un gran marasma di intellettualoidi, carrieristi, artisti egocentrici del genere cosmopolita decadente fra cui un grande assortimento di rivoluzionari tocchi e individualisti e nichilisti svitati, e crucchi che non riuscivano ad affrancarsi dalla loro cruccaggine, nonché snob angloidi, ricchi sefarditi francofili che visti di qui sembravano troppo affettati, yemeniti e georgiani e maghrebini e curdi e saloniccesi, tutti nostri fratelli certo che sì, tutti indubbiamente materiale umano molto promettente, ma per il quale – che volete farci – ci volevano ancora molta pazienza e non meno fatica. Oltre a tutti costoro non mancavano profughi e sabotatori, sopravvissuti e scampati, che da noi venivano considerati di solito con pietà e un pizzico di ribrezzo: travolti e stremati, reietti dal mondo, chi aveva colpa se erano rimasti lì ad aspettare Hitler invece di venire qui per tempo? E perché si erano lasciati condurre come pecore al macello, invece di organizzarsi e combattere? Che la smettessero una buona volta, poi, con quel loro yiddish nebechich, guasto, e che non cominciassero solo a raccontarci quel che gli avevano fatto, perché quel che gli avevano fatto, laggiù, non faceva onore a nessuno, né a loro né a noi. E poi, qui noi si guardava al futuro, non al passato, del resto in fatto di passato– ci bastava quello gioioso, ebraico, biblico, asmoneo, senza bisogno di guastarci l’umore con quello giudaico, opprimente, fatto tutto di guai (la parola “guai” la si diceva da noi sempre in yiddish, tzures, e con una smorfia di disgusto indispettito, cosl il bambino dedusse che quelle tzures erano un po’ come la tzaarat, cioè la lebbra, e che era roba per loro, mica per noi). Fra i profughi-scampati si annoverava, ad esempio, il signor Licht, che i bambini del quartiere chiamavano “un milione di kinder”. Affittava poco più di un loculo in via Malachia, dove dormiva su un materasso, mentre durante il giorno rivoltava il materasso e mandava avanti la sua minuscola impresa chiamata “pulizia a secco, stiratura a vapore”. Teneva sempre gli angoli della bocca piegati verso il basso, come in segno di disprezzo o profondo disgusto. Stava seduto sulla soglia della sua lavanderia in attesa dei clienti, e quando gli passava davanti un bambino del quartiere, sputava di lato e sibilava fra i denti “un milione di kinder, di bambini hanno ucciso! Frugoli come voi! Macellati!”. Non con tristezza, lo diceva, ma con odio, disgusto, come per maledizione. * In questo contesto, fra pionieri e tzures, i miei genitori non avevano una posizione ben definita: stavano infatti con un piede nella comunità organizzata (erano iscritti alla cassa previdenziale e versavano la contribuzione volontaria), ma con l’altro... per aria: mio padre si sentiva vicino all’ideologia di opposizione, e tuttavia era ben lungi dall’idea di bombe e fucili. Al massimo, contribuiva al movimento clandestino con la sua competenza in fatto d’inglese e ogni tanto si assumeva l’incarico di scrivere qualche proclama proibito a proposito della “perfida Albione”. Il mondo intellettuale di Rechavia, quello attirava in lontananza l’animo dei miei genitori, ma l’idealismo pacifista del “patto di pace”, dell’affinità sentimentale fra ebrei e arabi, la solenne rinuncia a uno stato ebraico in cambio della protezione da parte degli arabi, la fiducia nella loro benevola concessione di lasciarci vivere qui ai loro piedi, questi ideali parevano ai miei genitori fiacchi, arrendevoli, intrisi di una piaggeria diasporica. Mia madre, che aveva studiato all’Università di Praga e terminato il corso a Gerusalemme, dava lezioni private a chi preparava l’esame di storia e anche di letteratura. Mio padre aveva una laurea in letteratura, presa all’Università di Vilna, e un’altra ottenuta qui al Monte Scopus, ma non aveva alcuna probabilità di ottenere una cattedra all’università ebraica, a quell’epoca, giacché a Gerusalemme il numero di ricercatori con dottorato era assai maggiore di quello degli studenti, nella disciplina in questione. Senza contare che gran parte dei docenti sfoggiavano titoli veri, che portavano il nome di altolocate accademie tedesche, ben più su dello scalcinato diploma polacco-gerosolimitano di mio padre. Aveva dunque, chissà come, racimolato un posto da bibliotecario presso la Biblioteca nazionale sul Monte Scopus, e dedicava la notte al libro che stava scrivendo: La novella nella letteratura ebraica o La storia della letteratura universale. Era un bibliotecario bravo, a modo, solerte ma anche timido, in giacca e cravatta, occhialini rotondi, panciotto un po’ logoro, abituato a fare un piccolo inchino di fronte a qualcuno più importante di lui, a scattare per andare ad aprire la porta alle signore, ma anche fermo sui propri pochi diritti, capace di citare con trasporto versi in dieci lingue, sempre ansioso di mostrarsi cordiale e simpatico, nonché di rammentare le solite battute (che usava chiamare “aneddoti” o “arguzie”). Che però gli uscivano il più delle volte un poco forzate, condite non di un umorismo vivo bensì di una specie di assertiva dichiarazione di intenti in merito al nostro comune dovere di prendere con spirito anche quei tempi assurdi. Quando si trovava di fronte un pioniere in tenuta cachi, un rivoluzionario, un intellettuale divenuto lavoratore, mio padre cadeva preda di un’angoscia imbarazzata: all’estero, a Vilna, Varsavia, era chiaro come ci si doveva comportare, parlando con un proletario. Ognuno era ben conscio della propria posizione, e comunque si doveva manifestare a quell’operaio quanto si era democratici e niente affatto sostenuti, con lui. Ma qui? A Gerusalemme? Qui tutto era ambiguo; non propriamente capovolto, non come dai comunisti in Russia, no, piuttosto ambiguo: per un verso, papà apparteneva al ceto medio, a dir la verità un ceto medio un poco basso, ma comunque indiscutibilmente medio – era un uomo colto, autore di saggi e libri, titolare di un modesto impiego alla Biblioteca nazionale – mentre il suo interlocutore di quel momento poteva essere un muratore sudato in tuta da lavoro e scarponi. D’altro canto, nulla escludeva che quel muratore avesse una laurea in chimica, e fosse un pioniere con tanto di coscienza nazionale, il sale del paese insomma, un eroe della rivoluzione ebraica, uno che lavorava sodo con le mani mentre mio padre si sentiva – quanto meno nel profondo del cuore – una sorta di intellettuale ondivago, miope e dotato di due mani maldestre, un poco disertore, un poco defilato dal vero fronte, nella costruzione della patria. * Quasi tutti i nostri vicini erano modesti impiegati, minuti commercianti, cassieri di banca o di cinema, insegnanti a scuola o a casa, dentisti. Non erano religiosi, in sinagoga ci andavano solo per il digiuno di Kippur e qualche volta anche per la festa di Simchat Torah, e tuttavia la vigilia del Sabato venivano accesi i lumi, per conservare un certo aroma ebraico e fors’anche per maggiore sicurezza, o scaramanzia. Tutti erano più o meno colti, il che stava un po’ stretto a tutti. Tutti avevano opinioni ferme, sul mandato britannico, sul futuro del sionismo, sulla classe operaia, sulla vita culturale del paese, sulla controversia fra Marx e Diring, sui romanzi di Knut Hamsun, sulla “questione araba” e sulla “questione femminile”. C’erano pensatori e predicatori d’ogni sorta che, ad esempio, invocavano la revoca del bando su Spinoza, o erano smaniosi di spiegare agli arabi del paese che loro in fondo non erano affatto arabi, bensì discendenti degli ebrei ancestrali, nonché di offrire una volta per tutte la sintesi delle idee di Kant e di quelle di Hegel con la dottrina tolstojana e con il sionismo pratico, cosi che da un tale miscuglio potesse nascere qui in terra d’Israele una vita incredibilmente pura e sana, nonché di incrementare il consumo di latte ovino, di cacciare di qui gli inglesi e per questo stringere un patto con l’America e financo con Stalin, oppure di fare ginnastica ogni mattina, un po’ per scacciare la tristezza e un po’ per purificare l’anima. Quei vicini, che si radunavano nel nostro cortiletto il sabato pomeriggio, a sorbire il tè russo, erano quasi tutti degli sprovveduti. Quando c’era da cambiare un fusibile bruciato, o la guarnizione di un rubinetto, da fare un piccolo buco nel muro, tutti correvano a cercare Baruch, l’unico nel quartiere capace di fare miracoli del genere e per questo da noi lo si chiamava “Baruch mani d’oro”. Tutti gli altri erano in grado di analizzare con fiera retorica quanta fosse importante che il popolo ebraico tornasse finalmente alla vita dei campi e al lavoro manuale: di intellettuali, dicevano, ne abbiamo fin sopra i capelli, mentre gli umili e sinceri lavoratori sono quelli che ci mancano. Ma nel nostro quartiere, a parte Baruch mani d’oro, di umili lavoratori quasi non se ne trovavano. Anche gli alti ingegni, del resto, erano specie rara da noi: tutti leggevano un sacco di giornali, tutti amavano parlare. Alcuni di loro erano magari versati in ogni campo dello scibile, altri erano molto acuti, ma quasi tutti recitavano sommariamente quel che avevano trovato su giornali, pamphlet, manifesti e brochure di partito. Bambino qual era, potevo solo vagamente intuire l’immensa distanza fra la loro ansia di riparare il mondo e il modo in cui si stropicciavano i bordi del cappello quando gli si offriva una tazza di tè, o il tremendo imbarazzo che li faceva arrossire quando mia madre si chinava (appena) per zuccherare il loro tè, e la sua modesta scollatura si allargava di un minimo, provocando il turbamento nelle loro dita, che quasi avrebbero voluto sprofondare, non essere più dita. Tutto ciò era cechoviano, così come il senso di marginalità: c’erano posti al mondo, distanti di qui, dove scorreva la vita vera – l’Europa prima di Hitler, dove la sera sfavillavano milioni di luci, dame e cavalieri s’incontravano a bere il caffè con la panna montata in sale rivestite di legno, comodamente seduti in sfarzosi locali sotto lampadari dorati, andavano a braccetto all’opera o al balletto, vedevano da vicino la vita dei sommi artisti, gli amori tempestosi, i cuori spezzati, come quella donna del pittore invaghitasi da un giorno all’altro del suo migliore amico, il compositore, e che nel cuore della notte era uscita a capo scoperto sotto la pioggia, in cerca di solitudine sul vecchio ponte, il cui riflesso tremolava nelle acque del fiume. * Nel nostro quartiere, di cose del genere non ne capitavano mai: cose del genere succedevano solo oltre i Monti di Tenebra, in posti in cui la gente viveva sconsideratamente. Ad esempio in America, dove a scavare si trovava l’oro, dove si svaligiavano le diligenze postali, dove ci si lanciava al galoppo insieme alle mandrie di bestiame, lungo praterie sterminate, e chi uccideva più indiani alla fine vinceva una bella ragazza. Questa era l’America, al cinema Edison: la bella ragazza era il premio che si meritava chi sparava meglio. Che cosa ci si faceva, di un premio cosi? Non ne avevo la minima idea. Se ci avessero mostrato, in quel film, un’America dove invece chi sparava a più ragazze alla fine vinceva l’indiano più bello in premio, avrei preso la faccenda così com’era, senza discutere. Comunque, così era in quei mondi lontani in cui animi nobili si innamoravano, combattevano cortesemente gli uni contro gli altri, perdevano, rinunciavano, vagavano, si sedevano a bere a mezzanotte da soli appollaiati su uno sgabello alto al bancone dentro bar nebulosi di alberghi sui boulevard in citta sferzate dalla pioggia, vivendo sconsideratamente. Anche nei romanzi di Tolstoj e Dostoevskij, di cui tutti discutevano continuamente, i protagonisti vivevano sconsideratamente e morivano per amore. O morivano per qualche sublime ideale. O morivano di tisi e di crepacuore. E quei pionieri abbronzati, sulle alture lassù di Galilea, anche loro vivevano sconsideratamente. Mentre da noi, nel quartiere, nessuno era mai morto di tisi, d’amore deluso o per un ideale. Tutti vivevano con considerazione; non solo i miei genitori. Tutti. Vigeva da noi una legge ferrea, quella di non comprare nulla da fuori, nulla d’importazione: per quanto possibile si attingeva alla produzione interna. Ma quando si andava al negozio del signor Auster, all’angolo fra via Ovadia e via Amos, bisognava comunque scegliere fra il formaggio del kibbutz, prodotto dalla Tenuva – la centrale del latte – e quello arabo: il formaggio arabo del villaggio vicino, Lifta, era da considerarsi un prodotto d’importazione o locale? Questione complessa. A dire il vero, il formaggio arabo era appena appena più conveniente. Ma a comprare il formaggio arabo un poco si tradiva il sionismo: da qualche parte, in un kibbutz o una cooperativa agricola, nella valle di Iezreel o fra le alture di Galilea, c’era una pioniera dalla vita dura, che forse con una lacrima negli occhi aveva incartato per noi quel formaggio ebraico – allora come avremmo potuto voltarle la schiena comprando formaggio straniero? La mano non sarebbe tremata? D’altro canto, a mettere al bando il prodotto dei nostri vicini arabi non avremmo fatto che acuire ed eternare l’odio fra i due popoli. E il sangue che ancora si sarebbe versato, purtroppo, sarebbe rimasto sulla nostra coscienza. L’umile contadino arabo, il sincero e semplice lavoratore della terra il cui spirito non era ancora stato intaccato dai miasmi delle metropoli, questo fellah era in fondo il fratello bruno del mugicco incolto dall’animo nobile dei racconti di Tolstoj! Dunque come avremmo potuto diventare cosi spietati da voltare le spalle al suo formaggio rustico? Come avremmo potuto essere cosi crudeli, castigarlo in questo modo? E per che cosa, poi? Per il fatto che la perfida Inghilterra in combutta con i dannati effendi aveva sobillato questo contadino contro di noi e la nostra intraprendenza? No. Questa volta avremmo comprato il formaggio arabo, che fra l’altro era davvero un po’ più buono di quello della Tenuva, e costava anche un po’ meno. Ma comunque, d’altro canto, chissà, da loro non era poi così igienico? Chissà in che stato erano, le loro latterie... E se poi dopo fosse saltato fuori che il loro formaggio era un po’ zeppo di microbi? I microbi da noi erano uno degli incubi più tenebrosi. Come l’antisemitismo: non capitava mai di vederli a occhio nudo, né i microbi né l’antisemita, ma si sapeva bene che stavano in agguato da tutte le parti, sfuggenti. Anche se in realtà non era propriamente che nessuno di noi li avesse mai visti, i microbi: io sì. Un giorno fissai a lungo, lo sguardo intenso e penetrante, un vecchio pezzo di formaggio, finché d’un tratto iniziai a vedere miriadi di minuscoli movimenti. Come la gravità a Gerusalemme, che all’epoca era molto più forte di oggi, anche i microbi di allora erano molto più grossi e robusti. Li riconobbi proprio. Sorgeva ogni volta una piccola discussione fra le clienti, al negozio del signor Auster: comprare o non comprare il formaggio dei contadini arabi? Da una parte, come dice il Talmud, “la precedenza ai poveri della tua citta”, e perciò era nostro dovere comprare solo il formaggio della Tenuva; d’altro canto, dice la Bibbia, “una sola legge avrete voi e lo straniero che vive fra di voi”, perciò era opportuno comprare di tanto in tanto il formaggio dei nostri vicini arabi, “perché siete stati stranieri nella terra d’Egitto”. E poi, quale sguardo di sprezzo avrebbe riservato Tolstoj a una persona capace di comprare un formaggio e non un altro solo per via di una differenza di religione, popolo o razza?! Dove erano finiti i valori dell’universalismo? L’umanesimo? La fratellanza tra tutte le creature fatte a immagine divina? Però, quale meschinità sionista, quale bassezza, quale grettezza d’animo era mai quella di comprare il formaggio arabo solo perché costava due centesimi in meno, invece di quello dei pionieri, che sulla loro pelle e con le unghie cercavano di tirar fuori il pane da questa terra? Vergogna! Che onta! In un caso o nell’altro, deplorevole comportamento! La vita, allora, era fitta di queste infamie. * C’era, ad esempio, questo dilemma: era bello o no, mandare dei fiori per un compleanno? E in caso affermativo, quali fiori? I gladioli erano molto cari, ma sono fiori colti, nobili, fiori pieni di sentimento, non fiori di campo asiatici, quasi selvaggi. Di anemoni e ciclamini se ne potevano raccogliere a iosa, l’ambientalista Azariah Alon era ancora piccolo a quell’epoca, e pertanto non erano considerati fiori acconci da spedire in occasione di un compleanno o per festeggiare l’uscita di un libro. I gladioli, invece, emanavano un sentore raffinato di cantanti d’opera, balli in palazzi, teatro, danza, di cultura, sentimenti sottili e profondi. Dunque, si compravano e si mandavano gladioli. Senza far conti. La questione era: sette non era un po’ esagerato, come numero? Cinque non era un po’ troppo poco? E sei? O sette comunque? Senza far conti. Si avvolgevano i gladioli in una giungla di asparagina, e via con sei. D’altro canto, non era un comportamento anacronistico, questo? Gladioli? Dov’era che ancora si usavano, i gladioli? Insomma, i pionieri di Galilea si mandavano i gladioli, loro? A Tel Aviv qualcuno ancora sapeva che cos’erano, i gladioli? A che pro? Costavano una fortuna e dopo quattro, cinque giorni finivano dritti nella spazzatura. E allora che cosa regalare, per l’occasione? Una scatola di dolcetti? Ma figuriamoci. Una scatola di dolcetti era ancora più ridicola dei gladioli. In fondo, la cosa migliore era portare delle tovagliette, o un piccolo servizio di portabicchieri istoriati, di metallo color argento, di quelli con dei manici graziosi per servirci il tè bollente: un regalo modesto, estetico ma anche molto pratico e che non si buttava via ma si usava per anni, chissà magari ogni volta rammentando per un istante noi che li avevamo regalati. 3. Riuscivo a scovare un po’ dappertutto piccoli, svariati nunzi di quell’Europa che era la terra promessa. Ad esempio, quei pallini, cioè quegli ometti che tenevano le imposte aperte nelle ore del giorno, quei mentschelekh di metallo inciso: quando si voleva chiudere le imposte, bastava girarli intorno al loro perno, e così per tutta la notte se ne restavano con la testa ingiù. Proprio come Mussolini e la sua concubina Claretta Petacci alla fine della guerra mondiale. E fu una cosa terribile, spaventosa, non tanto il fatto che li avessero impiccati, quello se lo meritavano eccome, ma quella posizione a testa ingiù. Mi facevano un po’ pena, benché non fosse ammessa, cosa ti viene in mente, sei diventato matto? Sei uscito di testa? Pietà per Mussolini? Sarebbe quasi come aver pietà per Hitler! Comunque, feci il mio esperimento, mi appesi per i piedi con la testa ingiù a un tubo presso la parete: dopo due minuti il sangue mi arrivò tutto alla testa, e mi sentii svenire. Mentre Mussolini e la sua concubina erano rimasti così non due minuti ma tre giorni e tre notti, e per di più dopo che già li avevano anche ammazzati! Pensai che era un castigo davvero troppo crudele. Persino per degli assassini. Persino per delle concubine. Non che avessi una minima idea di che cosa fosse, una concubina. In tutta Gerusalemme, a quell’epoca, non se ne trovava nemmeno una. Esisteva l’“amica”, la “compagna di vita”, c’era la “compagna in entrambi i sensi”, forse ogni tanto c’era anche qualche tresca: con grande circospezione, ad esempio, si diceva che Černichovskij avesse qualche cosa a che fare con la compagna di Lopatin, e io presagivo con il batticuore che le parole “qualche cosa a che fare” fossero una locuzione misteriosa, fatale, dietro la quale si teneva occultato qualche cosa di dolce e terribile e vergognoso. Ma “concubina”?! Quella era roba da Bibbia. Al di là della realtà. Inimmaginabile. Forse magari a Tel Aviv, pensavo: da loro ci sono un sacco di cose che da noi non esistono e sono proibite. * Imparai a leggere praticamente da solo, ero ancora molto piccino. Che altro avevamo da fare? Le notti, a quell’epoca, erano molto più lunghe, perché il globo terrestre girava allora molto più adagio, perché la gravità a Gerusalemme era assai più forte di quanto non sia oggi. La luce della lampada era di un giallo pallido, e la corrente saltava molto spesso. Ancora oggi associo l’odore fuligginoso delle candele e della lampada a petrolio con la voglia di leggere un libro. Alle sette di sera eravamo già chiusi in casa per via del coprifuoco imposto dagli inglesi a tutta la città. E poi, quand’anche non ci fosse stato il coprifuoco, chi aveva voglia di star fuori al buio, a quel tempo, a Gerusalemme? Era tutto chiuso e abbassato, i vicoli di pietra ormai deserti, ogni ombra di passaggio fra quelle stradine si portava dietro sull’asfalto vuoto altre tre o quattro sagome d’ombra. Anche quando non saltava la corrente elettrica, vivevamo comunque dentro una luce vaga, perché bisognava risparmiare: i miei genitori sostituivano una lampadina da quaranta watt con una da venticinque, non soltanto per via del prezzo ma soprattutto perché la luce intensa era uno spreco e lo spreco era immorale. Dentro il nostro minuscolo alloggio s’infiltrava continuamente la metà sfortunata del genere umano: i bambini affamati in India, per colpa dei quali dovevo finire sempre tutto quel che mi mettevano nel piatto. Gli immigrati clandestini, sopravvissuti all’inferno hitleriano e come se ciò non bastasse cacciati dagli inglesi nei campi di baracche a Cipro. Gli orfani che ancora vagavano vestiti di stracci fra le foreste innevate dell’Europa distrutta. Papà restava sino alle due di notte a lavorare alla sua scrivania, cavandosi gli occhi sotto la luce anemica dei suoi venticinque watt, perché non era giusto usare una lampadina più potente: i pionieri nei kibbutz su in Galilea, la notte sotto le tende, componevano poemi e trattati filosofici sotto al fioco lume di una candela che tremolava al vento, poteva forse ignorarli? Fare come Rothschild, una luminaria da quaranta watt? Che cosa avrebbero detto i vicini, vedendo un’illuminazione da galà? E così, trovava logico cavarsi gli occhi per non offenderne altri. Non che fossimo particolarmente poveri: papà era bibliotecario alla Biblioteca nazionale, aveva uno stipendio modesto ma fisso. Mamma dava qualche lezione privata. Io, in cambio di uno scellino, ogni venerdì innaffiavo il giardino del signor Kohen a Tel Arza, e il mercoledì mettevo in ordine le bottiglie vuote nelle casse dietro il negozio di alimentari del signor Auster, rimediando ancora quattro centesimi, e per due di questi insegnavo al figlio della signora Finster a leggere la cartina (ma a credito: di fatto la famiglia Finster me li deve ancora). Malgrado tutte queste entrate, eravamo sempre impegnati a fare economia. La vita, nel piccolo appartamento, assomigliava a quella dentro il sommergibile che avevo visto una volta al cinema Edison, quando i marinai, passando da uno scomparto all’altro, abbassavano gli sportelli: con una mano accendevo la luce in bagno, e contemporaneamente con l’altra la spegnevo in corridoio, per non sprecare corrente. La catenella dello sciacquone la tiravo con parsimonia, perché guai a sprecare una vaschetta intera per una pipì. C’erano altre necessità (che peraltro a casa nostra non avevano nome), che giustificavano una vaschetta intera. Ma una pipì? Uno sciacquone intero? Mentre i pionieri nel deserto raccoglievano l’acqua con cui si erano lavati i denti, e la usavano per innaffiare le loro piante? Mentre nei campi profughi a Cipro un secchio doveva bastare per tutta una famiglia, per tre giorni? Quando uscivo dal gabinetto, la mano sinistra spegneva, e contemporaneamente la destra accendeva in corridoio, perché la Shoah era accaduta appena ieri, perché gli ebrei ancora marcivano fra i Carpazi e le Dolomiti, nei campi d’internamento e nelle bagnarole cariche di clandestini macilenti e scheletrici, e perché c’erano povertà e sofferenza in tante altre parti del mondo, i coolies in Cina, i poveri raccoglitori di cotone nello stato del Mississippi, gli africani, i pescatori in Sicilia, per tutti loro noi dovevamo risparmiare. Inoltre, vai a sapere che cosa sarebbe successo qui, da noi... I guai non erano affatto finiti e con tutta probabilità il peggio doveva ancora arrivare: i nazisti erano magari stati sconfitti, ma l’antisemitismo continuava a diffondersi ovunque. In Polonia c’erano stati nuovi pogrom, in Russia davano la caccia a chi parlava l’ebraico, e qui gli inglesi non avevano ancora detto la loro ultima parola, mentre il mufti invocava il massacro degli ebrei, e chissà che cosa avevano in serbo per noi i paesi arabi, quanto al resto del mondo, cinico qual era, appoggiava gli arabi per via del petrolio, dei mercati e degli interessi. Ovviamente non sarebbe stato qui al momento buono. * Solo di libri, da noi, c’era abbondanza: da una parete all’altra, in corridoio e in cucina e in ingresso e sui davanzali delle finestre e dappertutto. Migliaia di volumi, in ogni angolo della casa. C’era come la sensazione che mentre gli uomini vanno e vengono, nascono e muoiono, i libri invece godono di eternità. Quand’ero piccolo, da grande volevo diventare un libro. Non uno scrittore, un libro: perché le persone le si può uccidere come formiche. Anche uno scrittore, non è difficile ucciderlo. Mentre un libro, quand’anche lo si distrugga con metodo, è probabile che un esemplare comunque si salvi e preservi la sua vita di scaffale, una vita eterna, muta, su un ripiano dimenticato in qualche sperduta biblioteca, a Reykjavik, Valladolid, Vancouver. Se capitò due o tre volte che non ci fosse abbastanza denaro per comprare il necessario per il Sabato, mamma guardò papà e papà capì che era arrivato il momento di scegliere la vittima sacrificale. Subito dopo, andava all’armadio dei libri: era un uomo di principi, e sapeva che il pane veniva prima dei libri e che il bene del bambino veniva prima di tutto. Rammento la sua schiena curva mentre passava dalla porta con tre o quattro amati tomi sotto il braccio, diretto con il cuore infranto al negozio del signor Meyer, a vendere qualche prezioso volume, come fosse stato un taglio della sua carne. Così doveva essere sembrato anche nostro padre Abramo quando quella mattina presto lasciò la tenda con il figlio Isacco sulle spalle, diretto al Monte Moria. Capivo il suo dolore: papà aveva un rapporto carnale con i libri. Amava toccarli, frugarli, accarezzarli, annusarli. Era infoiato per i libri, incapace di trattenersi, allungava subito le mani, fossero anche stati libri altrui. In effetti, i libri di allora erano molto più sexy di quelli di adesso: c’era di che annusare, accarezzare, tastare. C’erano libri con le scritte dorate sulla copertina che ancora profumavano, un po’ ruvide al tatto, così che dalle mani passava tutto un brivido sulla pelle, come quando si tocca qualcosa di intimo e inaccessibile, qualcosa che un po’ freme e trema, sotto le tue dita. C’erano poi libri con la copertina in cartone rivestita di stoffa, appiccicata con una colla dall’odore incredibilmente sensuale. Ogni libro aveva il suo odore segreto ed eccitante. A volte la copertina di stoffa si staccava un poco dal cartone, si scompigliava come una gonna sfacciata, e che fatica non gettare l’occhio verso l’interstizio buio fra il corpo e il tessuto, non attingervi sentori da vertigine. Il più delle volte papà tornava dopo un’ora o due, senza libri, ma con dei sacchetti di carta marroni contenenti pane, uova, formaggio e a volte anche una scatoletta di carne. Capitò anche, però, che papà tornasse dal sacrificio felice come una Pasqua, con un sorriso stampato in faccia, senza gli amati libri ma anche senza spesa: i primi li aveva sì venduti, solo che lì per lì ne aveva comprati degli altri, perché sul posto aveva scoperto dei tesori così inattesi, di quelli che ti capita di scoprire una volta sola nella vita, e non aveva resistito. Mia madre lo perdonava, e anch’io, perché per quel che mi riguardava non m’interessava mangiare altro che le pannocchie e il gelato. Detestavo le frittate e la carne in scatola. E a dire la verità a volte invidiavo un poco quei bambini affamati in India, che nessuno mai costringeva a finire quel che c’era nel piatto. * Avrò avuto sei anni, quando arrivò nella mia vita un grande giorno: papà liberò per me un piccolo spazio in uno dei suoi scaffali di libri, e mi permise di disporre lì i miei. A dire le cose come stavano, concesse una trentina di centimetri, cioè più o meno un quarto dello scaffale più basso. Io abbracciai tutti i miei tomi, che sino a quel giorno erano rimasti adagiati sullo sgabello accanto al letto, li portai così sino alla libreria di papà, e li disposi in piedi, per benino, il dorso rivolto al mondo esterno e il volto contro il muro. Fu una cerimonia di iniziazione, un rito vero e proprio: una persona i cui libri stanno dritti in piedi non è più un bambino ma un uomo, ormai. Ormai, ero come papà. I miei libri stavano in piedi. Commisi però un errore imperdonabile. Papà andò al lavoro, e io mi ritrovai libero di fare ciò che meglio credevo, in quel mio territorio sullo scaffale: ma avevo un concetto assolutamente infantile di come procedere in merito. E così avvenne che ordinai i miei libri per altezza, anche se i più alti erano proprio quelli che godevano ormai della mia più bassa considerazione, dal momento che erano semplificati, in rima, con le figure: erano insomma quelli che mi si leggeva quand’ero piccolo. Feci in quel modo perché volevo riempire tutto lo spazio che mi era stato concesso sullo scaffale. Volevo che il mio angolo di libri fosse zeppo e ridondante, che tracimasse, proprio come quelli di papà. Ero ancora all’opera, quando lui tornò dal lavoro, gettò un’occhiata sconvolta al mio scaffale e poi, nel più assoluto silenzio, mi fissò lungamente, con uno sguardo che non dimenticherò mai: uno sguardo di un disprezzo, di una delusione così amari che non c’era verso di esprimerli a parole. Uno sguardo di totale disperazione genetica. Alla fine, sibilò a denti stretti: “Mi vuoi dire, per favore, sei completamente impazzito? Per altezza? I libri sono forse dei soldati? Sono forse una scorta d’onore? La banda dei pompieri?”. Poi tacque ancora. Fu un silenzio tenace e tremendo, da parte di papà, un silenzio alla Gregor Samsa, come se per lui mi fossi trasformato in uno scarafaggio. Da parte mia, invece, venne un silenzio di colpa, come se fossi davvero sempre stato un meschino insetto la cui vera natura solo ora veniva alla luce, e tutto era perduto per sempre. In fondo a quel silenzio, mio padre mi rivelò durante i venti minuti che seguirono tutte le faccende della vita. Mi iniziò al sommo segreto nel mondo della biblioteconomia: mi svelò sia la via maestra sia i sentieri nel bosco, i panorami vertiginosi delle variazioni, delle sfumature, delle fantasie, viali isolati, ardite tonalità ma anche eccentrici capricci: i libri li si può ordinare per titolo, in ordine alfabetico per autore, per collana o editore, cronologicamente, per lingua, argomento, genere e contesto, e persino per luogo di edizione. Tutto è possibile. Così appresi i segreti della sfumatura: la vita è fatta di itinerari diversi. Ogni cosa può accadere così ma anche altrimenti, secondo partiture diverse e logiche parallele. Ogni logica parallela è di per sé coerente e consequenziale, a suo modo conchiusa, indifferente a tutte le altre. Nei giorni che seguirono dedicai ore e ore di lavoro alla mia piccola biblioteca, venti o trenta libri che sistemavo, aggredivo come fossero stati un mazzo di carte e mescolavo per poi ordinarli di nuovo daccapo, secondo i criteri più diversi. E fu così che imparai dai libri l’arte della combinazione: non da ciò che avevano scritto dentro, bensì dai libri stessi, cioè dalla loro essenza fisica. I libri, insomma mi fecero conoscere gli spazi sterminati, la zona d’ombra che sta fra illecito e il proibito, fra la normalità e l’eccezione: questa lezione mi accompagnò per lunghi anni. E ora che arrivai all’amore, non ero più un perfetto principiante: sapevo invece che esistono combinazioni diverse, che c’è l’autostrada ma c’è anche la strada panoramica, ci sono i sentieri sperduti, mai percorsi da nessuno. Che c’è un lecito che è quasi proibito, e un proibito che è quasi lecito. Di tutto e di più. * A volte i miei genitori mi lasciavano prendere qualche libro dallo scaffale di papà per portarlo fuori, in cortile e scrollargli la polvere di dosso: non più di tre alla volta, per non guastare l’ordine, perché ciascuno di essi tornasse esattamente al proprio posto. Era una responsabilità tanto grande quanto piacevole, perché l’odore della polvere di libri mi eccitava, così a volte scordavo la mia missione e restavo fuori invece di tornare, poi la mamma preoccupata mandava papà in ricognizione, per controllare che non mi fossi buscato un colpo di sole o un cane non mi avesse morsicato, anche se puntualmente mi ritrovava rannicchiato in un angolo del cortile, immerso nella lettura, con le ginocchia raccolte e il capo reclinato, la bocca schiusa. E quando papà domandava, fra il burbero e l’affettuoso, che cosa ti è successo questa volta?, ci voleva un lungo momento per riportarmi a questo mondo, un po’ come un annegato privo di sensi che da distanze inimmaginabili lentamente riaffiora e ritorna, seppure controvoglia, verso la valle di lacrime delle quotidiane incombenze. Da bambino mi era sempre piaciuto mettere in ordine poi sparpagliare tutto per ricominciare, ma ogni volta riordinare in un modo un po’ diverso. Tre o quattro portauovo vuoti diventavano per me un sistema di fortificazioni, una flotta di sommergibili, il consiglio delle superpotenze che entrava nella città di Yalta. Ogni tanto facevo rapide incursioni nel regno del disordine. C’era un che di ardito e molto eccitante: mi piaceva sparpagliare sul pavimento il contenuto di una scatola di fiammiferi e provare a ricomporlo secondo le innumerevoli, possibili combinazioni. Negli anni della guerra mondiale, sulla parete del corridoio stava appesa una grande mappa dei teatri di guerra in Europa, con degli spilli e delle bandierine di colori diversi. Papà le spostava ogni due, tre giorni, a seconda delle novità alla radio. Io per parte mia costruivo una realtà parallela, personale: disponevo sulla stuoia il mio scenario, una realtà virtuale entro la quale spostavo truppe, facevo manovre di aggiramento, depistaggi, teste di ponte, accerchiamenti, imponevo a me stesso ritirate tattiche che giustificavo sul profilo strategico. Ero un bambino ossessionato dalla storia. Avevo in mente di rimediare agli errori dei condottieri del passato: rinnovando, ad esempio, la grande rivolta ebraica contro i romani, salvando Gerusalemme dalla distruzione per mano di Tito, trasferendo il fronte in terra nemica, portando le truppe di Bar Kokba sino alle mura di Roma, conquistando turbinosamente il Colosseo e issando una bandiera ebraica in cima al Campidoglio. All’uopo avevo trasportato la Brigata ebraica dell’esercito britannico all’epoca del Secondo Tempio, deliziandomi al pensiero che due fucili sarebbero stati capaci di annientare tutte le formidabili legioni di Adriano e di Tito. Che un velivolo leggero, diciamo un unico Piper, avrebbe nella mia realtà messo in ginocchio il magniloquente Impero romano. La terribile battaglia dei difensori di Masada divenne così una schiacciante vittoria ebraica, con il supporto di un solo mortaio e di qualche granata. E in fondo, questo strano impulso che avevo da bambino – il desiderio cioè di offrire una nuova opportunità a ciò che non esisteva più né mai più avrebbe avuto un’opportunità – è ancora fra le cose che mi muovono la mano, ogni volta che mi accingo a scrivere una storia. * Sono successe molte cose, a Gerusalemme. La città è stata distrutta, ricostruita, distrutta e di nuovo ricostruita. Un conquistatore dopo l’altro è arrivato a Gerusalemme, ha governato per un poco, lasciandosi dietro qualche mura, qualche torre, qualche spaccatura nella pietra con un pugno di cocci e documenti, prima di sparire. Dissolto come il vapore dell’alba, lungo i colli. Gerusalemme è una vecchia ninfomane che spreme sino allo spasimo, prima di scrollarsi via di dosso con uno sbadiglio un amante dopo l’altro, è una mantide che sbrana chi la monta, mentre è ancora dentro di lei. Nel frattempo, all’altro capo del mondo, flotte salpavano verso l’ignoto, scoprendo continenti e isole. Mamma diceva, troppo tardi, bimbo mio, arrenditi, Magellano e Colombo hanno già scoperto anche le più sperdute delle isole. Io me la prendevo con lei. Dicevo: insomma, come puoi esserne così sicura? In fondo anche prima di Colombo credevano che tutto fosse già noto e che non restasse più niente da scoprire. Fra la stuoia, le gambe dei mobili e lo spazio sotto il letto, scoprivo a volte non soltanto isole senza nome, ma anche nuove stelle, ignoti sistemi solari, galassie intere. Se mi avessero rinchiuso in prigione, certo mi sarebbero mancate la libertà e svariate altre cose, ma non avrei patito la noia, sempre che mi avessero lasciato tenere, nella mia cella, una confezione di domino o un mazzo di carte, due scatole di fiammiferi, una dozzina di monete o un pugno di bottoni: avrei trascorso la mia giornata seduto a sistemarli. Li avrei combinati e poi divisi, montando e allontanando e avvicinando, elaborando piccole composizioni. Forse era tutto riconducibile alla mia condizione di figlio unico: non avevo fratelli o sorelle, e assai pochi amici, che dopo un po’ se ne andavano, perché volevano action e non reggevano tanto il ritmo epico dei miei giochi. Capitava non di rado che cominciassi un gioco per terra il lunedì, e il martedì passassi tutte le ore del mattino, a scuola, a pensare al seguito di quel gioco; poi, durante il pomeriggio, facevo una mossa o due, lasciando il seguito per il mercoledì e il giovedì. I miei amici si stufavano, mi abbandonavano alle mie fantasie e se ne andavano a giocare a nascondino fuori, mentre io portavo avanti la mia storia pavimentale ancora per molti giorni, spostando truppe, cingendo d’assedio fortezze e capitali, conquistando e distruggendo, disponendo brigate per i monti, violando fortilizi e linee di fortificazione, liberando e conquistando di nuovo, allargando e stringendo confini segnati con i fiammiferi. Se per sbaglio uno dei miei genitori pestava il mio universo, dichiaravo uno sciopero della fame o una rivolta dello spazzolino da denti. Finché alla fine arrivava il giorno del giudizio, mamma non poteva più sopportare i fiocchi di polvere e spazzava via tutto – flotta, fanterie, città, monti e insenature, continenti interi. Un disastro nucleare. Una volta, avrò avuto nove anni, un vecchio zio di nome Nehemia mi insegnò un adagio francese: “In amore come in guerra”. Di amore a quell’epoca non sapevo nulla, a parte quel vago nesso sullo schermo del cinema Edison, fra l’amore e gli indiani uccisi. Ma dalle parole dello zio Nehemia trassi una conclusione, e cioè che non conviene avere fretta. Anni dopo compresi di aver vissuto dentro un errore madornale, almeno per ciò che riguardava la guerra – perché in battaglia la rapidità, così dicono, è invece un gran vantaggio. Forse il mio errore era dovuto al fatto che lo zio Nehemia era di per sé una persona lenta, che non amava i cambiamenti: se si trovava in piedi, risultava pressoché impossibile metterlo seduto. Se poi si era già accomodato, non c’era più verso di farlo alzare. Gli dicevano, alzati Nehemia, per favore, su, dai, insomma, è terribilmente tardi, alzati dai, fino a che ora intendi restare qui? Fino a domani? Fino al prossimo digiuno di Kippur? Fino alla venuta del Messia? E lui rispondeva: quanto meno. Ci pensava un poco su, si grattava, sorrideva fra sé e sé con compiacimento, come se avesse appena scoperto il nostro trabocchetto, e soggiungeva: che fretta c’è... Il suo corpo rispondeva per sua natura alla legge della conservazione. Non gli assomiglio. Amo invece i cambiamenti, gli incontri, i viaggi. Però volevo anche un gran bene allo zio Nehemia. Qualche tempo fa, non molto, l’ho cercato invano nel cimitero di Ghivat Shaul. Si è talmente allargato che a momenti arriva fin sulla sponda del laghetto di Beit Nekofa, o alle sue propaggini. Dopo una mezz’ora, anche più, mi sono seduto su una panchina, fra i cipressi ronzava una vespa testarda, un uccellino ha ripetuto la stessa nota per cinque, sei volte filate, ma dalla mia postazione riuscivo a vedere solo lapidi, fronde, monti e nuvole. Poi mi è passata davanti una donna esile, vestita di nero, la testa coperta da un fazzoletto dello stesso colore, e un bambino di cinque, sei anni aggrappato a lei. Le manine strette con forza a un fianco della gonna: camminavano e piangevano. 4. Solo in casa, un giorno d’inverno, verso sera. Saranno le cinque, cinque e mezzo. Fuori è già freddo e buio, una pioggia sferzata dal vento batte contro le imposte di ferro, i miei genitori sono andati a prendere un tè da Mala e Stashek Rodintzky, in via Chanselor angolo via dei Profeti e torneranno, così mi hanno promesso, un po’ prima delle otto, al massimo alle otto e un quarto, otto e venti. E comunque anche qualora tardassero un poco, non devo preoccuparmi, “dopo tutto siamo dai Rodintzky a due passi, un quarto d’ora da casa”. Invece dei figli, Mala e Stashek Rodintzky avevano due gatti d’angora, Chopin e Schopenhauer. Passavano tutto l’inverno raggomitolati uno addosso all’altro in un angolo del sofà o sopra un cuscino morbido su cui sedersi, che si chiamava puf, come fossero stati due orsi in letargo: dentro una gabbia, in un angolo del salotto tenevano anche un vecchio canarino quasi calvo, cieco da un occhio e con il becco sempre un poco aperto. Questo uccellino i Rodintzky lo chiamavano Alma, e ogni tanto anche Mirabelle. Affinché Alma-Mirabelle non soffrisse di solitudine, gli avevano messo dentro la cella un altro uccellino, che Mala Rodintzky aveva fatto con una pigna colorata e due fiammiferi al posto delle zampe. Aveva delle ali di carta crespata colorata, abbellite da cinque o sei piume vere appiccicate qua e là. La solitudine, diceva mamma, è come il rintocco di un pesante martello: riduce in frantumi il vetro, ma non tempra l’acciaio. Temprare, spiegava papà, significa rafforzare. Papà amava molto delucidarmi su ogni sorta di nessi per vicinanza o contrapposizione fra le parole. Come fossero anch’esse una specie di ramificata famiglia giunta dall’Est Europa, con un sacco di cugini di secondo e terzo grado, di parenti acquisiti, consanguinei, nipoti di varia specie, generi e nuore: “consanguinei” viene da “sangue”, cioè “carne” e bisognerebbe poi controllare, diceva papà, come mai si usi la bizzarra espressione “consanguinei di carne”, che è tutto sommato pleonastica, ricordami per favore di verificare, con l’occasione, qual è il legame fra “consanguineo” e “resto”.1 Va’ pertanto a prendermi dallo scaffale, per favore, il grande dizionario, che verifichiamo insieme e impariamo qualche cosa tutti e due, tu e io, e intanto fammi il piacere di mettere a posto la tazza. * Sui cortili e sulla strada dimora un silenzio nero, così largo che si ode persino il fruscio delle nubi che s’abbassano sempre più e passano fra i tetti, lambiscono le fronde dei cipressi. Un rubinetto gocciola in bagno e un fruscio, forse un lieve sfregamento quasi impercettibile che l’orecchio non afferra, arriva soltanto all’attaccatura dei capelli, sulla nuca, un bisbiglio che viene dallo spazio nero fra l’armadio e la parete. Accendo la luce in camera dei miei genitori, prendo dalla scrivania di papà otto-nove clips, un temperamatite, due taccuini, un calamaio dal collo lungo, pieno di inchiostro nero, una gomma da cancellare, una scatola di puntine, e uso il tutto per fondare un nuovo kibbutz di frontiera. Una muraglia e una torre nel cuore del deserto, sulla stuoia: dispongo le clips su metà del campo, sistemo il temperamatite e la gomma ai due lati del calamaio che è la mia torre dell’acqua, e circondo il tutto con una recinzione fatta di matite e penne, con le puntine di difesa. Sta per aver luogo un’incursione: una turba di predatori assetati di sangue (una ventina di bottoni) assalterà l’insediamento da oriente e da sud, ma noi li respingeremo con uno stratagemma: apriremo loro la porta, lasciandoli penetrare all’interno, fin nell’aia che serve da campo per il macello, la porta si chiuderà per non lasciarli più fuggire, e allora darò ordine di far fuoco all’istante, da sopra ogni tetto e da in cima al calamaio che funge da torre dell’acqua, i pionieri irromperanno sotto le spoglie di pedine bianche degli scacchi, e con qualche raffica annienteranno il nemico intrappolato: apprestiamoci al macello dell’aggressore, poi sarà ora di un canto trionfale, e a quel punto promuoverò la stuoia al ruolo di Mar Mediterraneo, lo scaffale dei libri segnerà la sponda europea, il divano sarà l’Africa, fra le gambe della sedia passerà lo Stretto di Gibilterra, alcune carte del mazzo, piantate qua e là e anche qui, faranno Cipro, la Sicilia e Malta, i taccuini saranno velivoli, la gomma e il temperino saranno cacciatorpedinieri, le puntine mine marine e le clips sommergibili. * Fa freddo, in casa. Invece di mettermi un maglione in più, come mi avevano detto di fare per non sprecare corrente, accendo – solo per dieci minuti –la stufa elettrica. La stufa ha due spirali ma anche un interruttore per il risparmio che ne fa funzionare sempre una sola per volta. Quella di sotto. Mi metto a fissare la spirale per vedere come si riscalda. Prende colore lentamente, dapprima non si vede nulla, si sente solo una sequenza di piccolissimi scoppiettii, come quando la scarpa pesta un granello di zucchero, e dopo quei minuscoli botti s’accende in fondo una specie di guizzo di pallore violaceo che via via si diffonde dai bordi della spirale verso il centro come un frullo d’ali appena accennato, tendente al rosa, come un lieve rossore di timidezza sulle guance, che diventa poi rosso di vergogna e infine avvampa impunemente, rossore nudo e incandescente di pura lussuria, finché quell’impeto arriva al centro della spirale e arde e non si spegne più, ormai un fuoco rosso che come un sole crudele si riflette nell’incavo metallico, brillante, della conca argentata, spande un calore che quasi non lo si può più guardare senza strizzare gli occhi, mentre la spirale ormai brucia, abbaglia, tracima, non la si può più contenere, sta per eruttare spandendosi sulla stuoia, cioè sul Mediterraneo, come un vulcano con la sua fiumana di lava incandescente che brucia vivo l’equipaggio dei miei cacciatorpedinieri e sommergibili. Nel frattempo la sua collega, cioè la spirale di sopra, quella spenta, sonnecchia con freddo distacco. Più l’altra si scalda e arde, più quella sembra indifferente, e tutto guarda sì da vicino, ma con un’alzata di spalle, senza il benché minimo coinvolgimento. D’un tratto ebbi un fremito, una specie d’intuizione epidermica dello iato fra il calore e il freddo, e capii che avevo un modo semplice e rapido per far sì che anche la spirale indifferente si trovasse costretta a bruciare: l’avrei vista vibrare sul punto di scoppiare ed erompere – ma fino a quel punto no, era proibito. Proibito davvero, proibito tassativamente accendere entrambe le spirali della stufa, e non solo per via del dispendio di energia, anche per il rischio di sovraccarico, di bruciare la valvola e lasciare al buio tutta la casa perché chi sarebbe, andato, nel cuore della notte a cercare Baruch mani d’oro... La seconda spirale solo se fossi diventato matto, ma proprio matto, sia quel che sia. E se i miei genitori fossero tornati senza darmi il tempo di spegnerla? O se fossi riuscito a spegnerla, ma senza darle il tempo di raffreddarsi e tornare inerte, che cosa avrei detto, a mia discolpa? Dunque, lasciamo perdere. Non si accende e basta. Meglio iniziare a mettere ben ben a posto tutto quel che è sparpagliato sulla stuoia. 1 In ebraico sono parole pressoché identiche. [N.d.T.] 5. E allora, quanto c’è di autobiografico, nelle mie storie, e quanta invenzione, invece? Tutto è autobiografia: se un giorno scrivessi una storia d’amore fra madre Teresa e Abba Eban, sarebbe di sicuro una storia autobiografica – benché non confessa. Ogni storia che ho scritto è un’autobiografia, nessuna è una confessione. Il cattivo lettore nutre una costante ansia di sapere, subito e immediatamente, “che cosa è successo in realtà”. Qual è insomma la storia dietro la storia, di che cosa si tratta, chi è contro chi, chi scopava con chi per davvero. “Professor Nabokov,” domandò una volta un’intervistatrice durante una diretta televisiva americana, “professor Nabokov, ci dica per favore, are you really so hooked an little girls?” Anch’io mi merito di tanto in tanto qualche intervistatore infervorato, pronto a domandarmi, accampando un “diritto del pubblico di sapere”, se mia moglie mi sia servita da modello per la Chana di Michael mio, o se la mia cucina è sporca come quella di Fima... A volte mi chiedono: perché non ci racconta chi è in realtà la ragazza de Lo stesso mare? O magari anche lei ha avuto per caso un figlio che per un certo tempo è sparito in Estremo Oriente? E che cosa c’è in realtà dietro la tresca fra Yoel e la vicina, Annemarie, in Conoscere una donna? E chissà se acconsente a dirci, con parole sue, di che cosa parla veramente il romanzo Il riposo giusto? Che cosa vogliono, in fondo, questi intervistatori impudenti, da Nabokov e da me? Che cosa vuole il cattivo lettore, cioè quello pigro, sociologo, pettegolo-guardone? Nel peggiore dei casi, armati di un paio di manette di plastica, vengono da me a prendermi il messaggio, vivo o morto. Esigono “l’ultima parola”. “Che cosa voleva dire il poeta”, vengono a riscuotere. Basta loro ch’io consegni “con parole mie” il messaggio sovversivo, o la lezione morale, l’immobile politico, la “concezione globale”. Invece di un romanzo, conviene dar loro qualcosa di più concreto, qualcosa che abbia i piedi per terra, qualcosa di tangibile, uno slogan simil “l’occupazione è deleteria” o “la clessidra del divario sociale segna il tempo”, o anche, “l’amore trionfa” o “le classi dirigenti sono marce”, “le minoranze oppresse”. In breve: si ha da porgere loro, imballati in sacchi di plastica da cadavere, le mucche sacre macellate all’uopo nel tuo ultimo libro. Grazie molte. A volte sono anche disposti a rinunciare alle idee e financo alle mucche sacre, si accontentano della “storia che c’è dietro la storia”. Vogliono i pettegolezzi, insomma. Vogliono una soffiata. Che gli si dica che cosa ti è successo per davvero, nella vita, non quello che, dopo, ne hai scritto nei tuoi libri. Vogliono scoprire finalmente, e senza eufemismi né ammennicoli, chi veramente ha fatto quel che ha fatto, con chi, e come, e quanto. Questo è tutto quel che vogliono, niente di più. Shakespeare in love, Thomas Mann che rompe il silenzio, Dalia Ravikovitz snudata, la confessione di Saramago, l’intensa vita erotica di Leah Goldberg. Il cattivo lettore pretende da me che speli per lui il libro che ho scritto. Esige che io con le mie mani getti nella spazzatura i miei acini, e offra a lui solo i semi. Il cattivo lettore è una sorta di amante psicopatico che aggredisce e strappa i vestiti della donna capitatagli a tiro, e quando quella è completamente nuda continua, scorticandola, poi scartando con impazienza la carne, smontando lo scheletro, finché alla fine – spezzate ormai le sue ossa fra i denti gialli che si ritrova – solo allora è soddisfatto: ecco. Adesso sono proprio dentro. Sono arrivato. Dove, è arrivato? Ritorno al vecchio, trito, banale schema, al mucchio di vecchi stereotipi che, come tutti, il cattivo lettore conosce da un pezzo e per questo ci sta comodo: ma certo, i personaggi del libro sono in fondo nient’altro che lo scrittore in persona, i suoi vicini, e lo scrittore o i suoi vicini di casa, ovviamente, per quanto brave persone, dopo tutto sono sozzi come tutti noi. Prova a spellarli e arrivare al dunque, troverai sempre che “uno vale l’altro”. Questo è proprio ciò che il cattivo lettore cerca famelicamente (e trova) in ogni libro. Ma c’è dell’altro: il cattivo lettore, e al par di lui anche l’intervistatore impudente, tratta sempre con una sorta di diffidenza ostile, con un risentimento puritano, ipocrita, la creatività, l’invenzione, l’accorgimento, l’esagerazione, i riti del corteggiamento, l’ambivalenza, la musicalità, la musa, l’ispirazione in sé: si degna magari ogni tanto di rivolgere un’occhiatina alla creazione letteraria nella sua complessità, ma solo a condizione che gli venga concesso a priori quell’appagamento “sovversivo” che sta nel macellare le vacche sacre o quello censorio cui sono assuefatti i fanatici consumatori di scandali e “rivelazioni” nel menù offerto dalla stampa specializzata. Il cattivo lettore è insomma appagato dal fatto che il grande Dostoevskij, proprio lui, fosse vagamente sospettato di una torbida propensione a rapinare e poi assassinare anziani, mentre William Faulkner era certamente incline all’incesto, e Nabokov aveva rapporti con minorenni, Kafka era tenuto d’occhio dalla polizia (e si sa bene che non c’è fumo senza arrosto), mentre Yehoshua appiccava il fuoco ai boschi del Fondo nazionale (se c’è fumo, c’è anche arrosto), per non parlare di quel che Sofocle fece a suo padre e alla sua povera mamma, perché altrimenti come avrebbe saputo descrivere tutto con tale vividezza, proprio dal vivo, anzi più che dal vivo? Solo di me so raccontare/angusto è il mio mondo come di formica.../Anche la mia via – è come verso la cima – /via dolorosa e via di fatica/Mano di gigante cattiva e sicura/mano allegra là verso l’alto. Uno scolaro tanto tempo fa mi fece la versione in prosa di questa poesia: Quando la poetessa Rachel era ancora piccola così: le piaceva da matti arrampicarsi sugli alberi ma ogni volta che cominciava ad arrampicarsi veniva un bulletto e con un colpo solo la faceva cascar giù per terra. Per quello era così poverina. Chi cerca il cuore della storia nell’interstizio fra la creazione e il suo autore si sbaglia: conviene invece cercare non nel campo fra lo scritto e lo scrittore, bensì in quello che sta fra lo scritto e il lettore. Non che non ci sia nulla da trovare fra il testo e l’autore – c’è sì spazio per una ricerca biografica, anche il pettegolezzo ha una sua grazia, e l’indagine sullo sfondo biografico delle opere letterarie ha una sua prudente dignità. Forse, il pettegolezzo non va disprezzato: è il cugino popolare delle belle lettere. In verità queste ultime di solito non si degnano nemmeno di rivolgergli un saluto per strada, ma non si può ignorare quella creatività domestica che sta fra l’uno e le altre, che è poi l’impulso eterno e universale a spiare i segreti del prossimo. Chi non ha mai goduto dei favori del pettegolezzo scagli dunque la prima pietra. Questi favori, del resto, non sono altro che un batuffolo rosa inzuppato in una montagna di zucchero. L’estetica del pettegolezzo è lontana da quella di un buon libro come una gazzosa dolciastra lo è da tutte le tonalità del cibo, dall’acqua naturale e anche da un vino pregiato. Quand’ero piccolo, due o tre volte per Pasqua o per Capodanno mi portarono allo studio fotografico di Edi Rugoznik sulla spiaggia Bugrashov, a Tel Aviv. Da Edi Rugoznik c’era un enorme mister muscolo, una montagna d’uomo dipinto, ritagliato nel cartone e appoggiato con la sua schiena di cartone a due colonne, un minuscolo costume da bagno teso sui lombi taurini, e montagne di muscoli, montagne, un torace smisurato, peloso e abbronzato. Questo gigante di cartone aveva un buco al posto della faccia, e dietro c’era uno sgabello con gli scalini. Ti spedivano a fare il giro dell’eroe da dietro, ti arrampicavi su per i due gradini, tendevi alla macchina fotografica la tua testolina, attraverso il buco che quell’Ercole aveva al posto della faccia; poi Edi Rugoznik ti ingiungeva di sorridere, non muoverti né strizzare gli occhi, e scattava. Dopo dieci giorni andavamo a prendere le fotografie, dentro le quali il mio faccino pallido e serio si ergeva sopra quel collo taurino e nerboruto, circondato dalle chiome di Sansone, legato alle spalle di Atlante, al petto di Ettore, alle braccia di Colosso. Allora, ogni opera letteraria ci invita, in fondo, a infilare la testa dentro una figura o un’altra del repertorio di Edi Rugoznik. Invece di tentare di mettere la testa dell’autore, come fa il lettore banale, forse sarebbe meglio provare a incastonare in quell’apertura la nostra di lettori, e vedere l’effetto che fa. In altre parole: lo spazio che il buon lettore preferisce ricavarsi mentre legge non è quel terreno che sta fra lo scritto e il suo autore, bensì fra lo scritto e noi stessi: “Quando Dostoevskij era ancora studente, avrà davvero ucciso e derubato vecchie vedove?”. Prova tu, invece, lettore, a metterti al posto di Raskolnikov, per sentire il terrore e la disperazione e la meschinità bruciante frammista a un’arroganza napoleonica, e la megalomania e la febbre della fame e la solitudine e lo spasimo e la stanchezza insieme alla nostalgia della morte, per tentare un paragone (sui cui esiti si serbi il segreto), non fra i personaggi della storia e gli scandali scovati nella vita dell’autore, bensì fra i personaggi della storia e l’io di te, quello segreto, quello pericoloso e disgraziato, folle e criminoso, la creatura spaventosa insomma che tieni imprigionata sempre nel profondo di te stesso, nella cella di isolamento più buia, così che nessuno al mondo possa mai sospettarne l’esistenza – né i tuoi genitori, né i tuoi affetti, perché altrimenti scapperebbero via in preda al panico, come si fugge da un mostro. Ecco che quando leggi le storie di Dostoevskij, sempre che tu non sia il lettore pettegolo e invece quello buono, allora puoi trattenere quel Raskolnikov dentro, nelle tue cantine, nei tuoi meandri più oscuri, dietro le grate e dentro la cella, così da incontrarsi con i tuoi scheletri più terrificanti e inconfessabili, paragonare quelli di Dostoevskij ai tuoi, che nella vita normale non potresti mai accostare a nulla perché dove troveresti il coraggio per presentarli di fronte a chicchessia, nemmeno in un bisbiglio, nemmeno fra le lenzuola, all’orecchio di colui o colei che trascorre la notte con te e che lì per lì, avvolto nel lenzuolo, scapperebbe via il più lontano possibile da te, urlando con terrore. Così, Raskolnikov stempera un poco l’onta e la solitudine di quella cella d’isolamento in cui ognuno di noi è costretto a condannare all’ergastolo il proprio prigioniero interiore. Questo è il potere consolatorio dei libri, di fronte al dramma dei nostri più inconfessabili segreti: non solo del tuo, caro amico mio, perché in fondo siamo tutti come te: nessun uomo è un’isola, piuttosto siamo tutti delle penisole, circondate quasi interamente da un’acqua nera, ma comunque collegate alle altre penisole. Rico Danon, ad esempio, in Lo stesso mare, pensa del misterioso uomo delle nevi, sui monti dell’Himalaia. Chi è nato di donna porta il peso di due genitori sulle spalle. Dentro il grembo. Per tutta la vita non fa che sostenere loro e la folta schiera di chi è venuto prima: genitori di genitori, avi e avi di avi: come una scatola cinese sino all’ultima generazione. Non si fa che seminare e inseminare genitori, in ogni gesto. Andando raminghi e restando fermi. Ogni notte si spartisce il letto con un padre e il sonno con una madre, sino allo spuntar del giorno. E tu, non domandare: che, sono proprio fatti veri? È così, lo scrittore? Domanda a te stesso. Delle cose tue. Quanto alla risposta, puoi serbarla tutta per te. 6. Spesso i fatti insidiano la verità. Scrissi un tempo del vero motivo per cui mia nonna morì: mia nonna Shlomit era arrivata a Gerusalemme direttamente da Vilna, in un caldo giorno nell’estate del 1933, aveva rivolto un unico sguardo ottenebrato ai commercianti sudati, ai banchi variopinti, ai vicoli brulicanti, pieni di grida dei venditori, ragli d’asini, belati di capre, starnazzi di galline legate e appese per le zampe, e colli muti di polli già sgozzati, aveva gettato un’occhiata alle spalle e alle braccia degli uomini d’Oriente, ai colori scandalosamente chiassosi della verdura e della frutta, aveva scorto i monti tutt’intorno alla città e i pendii stepposi, ed enunciato il suo verdetto definitivo: “Il Levante è pieno di microbi”. Mia nonna rimase a Gerusalemme più o meno venticinque anni, vide molti tempi duri e pochi un briciolo migliori, ma senza mai mitigare né tanto meno mutare la sua sentenza, sino all’ultimo giorno. Si dice che all’indomani stesso del suo arrivo a Gerusalemme abbia ordinato al nonno quel che avrebbe continuato a ingiungergli ogni giorno trascorso da allora a Gerusalemme, estate e inverno: quello di alzarsi per tempo, la mattina, alle sei o sei e mezzo, spruzzare il Flit in tutti gli angoli della casa per cacciare via i microbi, spruzzare sotto il letto e dietro l’armadio e persino dentro il ripostiglio e fra le gambe della credenza, e poi battere tutti i materassi e le lenzuola e le coperte. Da bambino ricordo nonno Alexander la mattina in terrazzo, in canottiera e pantofole, che batteva con forza le lenzuola, un don Chisciotte alle prese con gli otri di vino: levava il battipanni e poi giù sulle lenzuola, con la forza dello sconforto, forse della disperazione. Nonna Shlomit si teneva qualche passo indietro, era più alta di lui, indossava una vestaglia di seta abbottonata sino al collo, i capelli raccolti sulla nuca con un nastro verde a forma di farfalla e, impettita come la direttrice di un esclusivo collegio femminile, vigilava sul campo di battaglia in previsione del quotidiano trionfo. Nel contesto di questa eterna guerra ai microbi, nonna prese l’abitudine di far bollire dissennatamente frutta e verdura. Il pane lo puliva strofinandolo ripetutamente con uno strofinaccio umido, impregnato di un disinfettante chimico color rosa, di nome Kali. E alla fine di ogni pasto i piatti non li lavava, piuttosto, come durante i preparativi della Pasqua, li faceva bollire a lungo. E anche a se stessa riservava lo stesso trattamento, tre volte al giorno, la nonna Shlomit: estate e inverno faceva tre bagni pressoché bollenti, per arrostire i microbi. Era avanti negli anni, bacilli e virus la guardavano da rispettosa distanza e se la davano a gambe; aveva ormai più di ottant’anni, quando dopo due o tre attacchi di cuore, il dottor Kromholtz la avvertì: cara signora, se non la smette di farsi tutti questi bagni bollenti, non mi assumo più nessuna responsabilità su quello che potrebbe, non sia mai, capitarle. Ma era impensabile distogliere la nonna dai suoi bagni. La minaccia dei microbi era troppo forte. Morì in bagno. Il suo attacco di cuore è un dato di fatto. Ma la verità è che mia nonna morì di troppa pulizia, e non di un attacco di cuore. I fatti tendono a nascondere la verità ai nostri occhi. L’igiene l’ha uccisa, anche se il motto della sua vita a Gerusalemme, “Il Levante è pieno di microbi”, attesta forse una verità anteriore, più profonda di quella ossessione per la pulizia, una verità soffocata e occulta: nonna Shlomit, infatti, era giunta a Gerusalemme dall’Europa nordorientale, luoghi infestati di microbi non meno di Gerusalemme, oltre a ogni sorta di altre minacce. Ecco dunque uno spiraglio attraverso il quale provare a immaginare quel che ispiravano le immagini dell’Oriente, i suoi colori e odori, nell’animo di mia nonna e fors’anche di altri profughi giunti anche loro dai borghi grigi, crepuscolari, dell’Europa orientale, e rimasti sgomenti dalla sensualità dirompente del “Levante”, al punto da desiderare di costruirsi un ghetto entro il quale rinchiudersi, al riparo dalle sue minacce. Minacce? La verità è forse che per timore non delle minacce levantine mia nonna s’insaponava e purificava con quelle abluzioni bollenti mattina, mezzodì e sera, ogni giorno della sua vita trascorso a Gerusalemme, bensì proprio delle sue suggestioni sensuali, del suo stesso corpo, della forte attrazione per quello smercio traboccante tutt’intorno a lei che dava la vertigine al respiro fin giù al diaframma e poi era un fremito alle gambe che scioglieva, quell’abbondanza di verdura e frutta e formaggi piccanti e profumi penetranti e quei cibi stranieri e strani e stupefacenti che la eccitavano, e le mani avide che tastavano frugavano nell’intima nudità di frutta e verdura, i peperoni rossi e le olive condite e le carni grasse, sanguinolente, sfrontate, nude senza pelle e senza vergogna che ammiccavano ondeggiando sotto gli uncini, e l’inebriante messe di spezie e aromi e polveri, assortimento d’incanti impudenti dell’universo amaro e asprigno e salato, e ancora gli aromi intensi di caffè che sbrodolavano sino al ventre, e i bicchierini di vetro colmi di bevande colorate con scaglie di ghiaccio e di limone, e quei robusti facchini del mercato, scuri e pelosi, nudi sino alla cinta, con i muscoli che vibravano nello sforzo sotto la pelle calda e luccicante, schizzi di sole riflessi nel sudore. Forse tutta questa ossessione igienica di nonna altro non era se non uno scafandro spaziale, ermetico e sterile? Una cintura di castità antisettica che nonna si era ferrata intorno a sé per difendersi dai suoi stessi desideri, da quel suo primo giorno in terra d’Israele, che aveva chiuso a chiave con sette mandate, e poi buttato via le chiavi... Alla fine, morì per un attacco di cuore: dato di fatto. Ma non l’attacco di cuore, la uccise. L’igiene. Nemmeno l’igiene, piuttosto le sue smanie segrete. Nemmeno le smanie, il terrore di quelle. E forse, non l’igiene né le smanie e nemmeno il terrore di quelle, forse invece la rabbia eterna e inconfessabile verso quel terrore, una rabbia repressa, una rabbia tremenda, come un’infezione non drenata, la rabbia verso il suo stesso corpo, i suoi desideri, e anche un’altra rabbia, più profonda, la rabbia verso la sua stessa astinenza dai desideri, una rabbia torbida, letale, rabbia per quel confino, quell’ergastolo, anni e anni di segreta vedovanza per il tempo che le passava monotono addosso e il corpo raggrinziva e la grazia di quel corpo, quella grazia venne lavata migliaia di volte e insaponata sino allo stremo e disinfettata e strofinata e bollita, la grazia di quel Levante sozzo e sudato e animalesco e inebriante sino a farti perdere i sensi ma tutto-pieno-di-microbi. 7. Sono passati quasi sessant’anni, ancora ricordo il suo odore: lo invoco, ed esso torna a me, un po’ grezzo, un sentore impolverato eppure forte e gradevole, mi restituisce quel contatto di fibra di iuta, e poi l’odore si mescola nella memoria alla consistenza della sua pelle, la folta chioma i baffoni che mi solleticavano piacevolmente sulla guancia, come un giorno d’inverno trascorso in una vecchia cucina, calda e semibuia. Saul Černichovskij morì nell’autunno del 1943, avevo poco più di quattro anni, perciò il ricordo fisico si è serbato solo perché è passato per alcune stazioni di trasmissione e d’amplificazione: mia madre e mio padre che spesso mi ricordavano quei momenti, perché amavano decantare le loro conoscenze con me, che ancora bambino avevo avuto l’onore di sedermi sulle ginocchia del sommo poeta Černichovskij e giocherellare con i suoi baffi. E poi, si rivolgevano a me anche per avere conferma di quelle storie: “Te lo ricordi ancora, no, quel sabato pomeriggio, quando zio Saul il poeta ti ha preso in braccio e ti ha chiamato ‘demonietto’ (in senso buono)? Ti ricordi, no?”. A me spettava il compito di declamare il solito ritornello: “Certo. Ricordo perfettamente”. Non ho mai confessato loro che l’immagine serbata in me era un poco difforme dalla loro. Mai e poi mai avrei guastato loro la scena. La costanza dei miei genitori nel rievocare quella storia e chiedermi conferma ha dunque trattenuto in me il ricordo di quei momenti, che se non fosse stato per la solennità impostagli dai miei, forse sarebbe ormai sparito, cancellato. Ma la differenza fra il loro ricordo e l’immagine che ne ho trattenuto io, l’evidenza che la memoria serbata in me non attinge soltanto ai loro racconti, ma ha una sua vita archetipica autonoma, il fatto che l’immagine del grande poeta e del piccolo bambino, stando all’allestimento scenografico dei miei genitori, abbia un che di diverso da quella rimasta in me, sono la dimostrazione che la mia, di storia, non è solo un lascito: per i miei genitori, il sipario si apre e il bambino biondo in pantaloni corti è seduto sulle ginocchia del titano della poesia ebraica, gli tocca e strappa i baffi, mentre il poeta elargisce al piccino il titolo di “demonietto” e il bambino, dal canto suo – santa innocenza! – gli rende pari moneta con un bel “demonietto sarai tu!”, cui l’autore di Davanti a una statua di Apollo, nella versione di mio padre, reagisce con queste parole: “Forse abbiamo ragione tutti e due”, e mi bacia sul capo, un bacio che i miei genitori considerarono poi un segno del destino, una sorta di sacra unzione come, diciamo, Puškin quando si chinò per baciare il piccolo Tolstoj. Se non che, nel quadro della mia memoria, l’immagine che i riflettori accesi dei miei genitori mi hanno aiutato a serbare ma che di certo non mi hanno impresso, nel mio quadro, meno idilliaco del loro, io non sono affatto seduto sulle ginocchia del poeta, e nemmeno gli tiro i celebri baffi, invece inciampo e casco, siamo a casa di zio Yosef, e cadendo mi morsico la lingua al punto che sanguina persino un po’, e piango, e il medico, un pediatra, arriva prima dei miei genitori, mi prende su con le sue lunghe braccia, ora ricordo anche che mi tira su da terra e ho la schiena rivolta verso di lui e la faccia che grida rivolta verso la stanza, poi mi gira con uno slancio e dice qualcosa, e ancora qualcosa, certo nulla che avesse a che fare con il passaggio di consegne fra Puškin e Tolstoj, e mentre io ancora palpito fra le sue braccia, mi apre la bocca e si fa portare del ghiaccio, per favore, poi osservando la ferita dice: “Non è niente, solo un graffio, riso e pianto son tanto seguaci”. Forse per via che il poeta aveva incluso, in quelle parole, tutti e due, forse per via di quel contatto ruvido e piacevole, guancia a guancia, come la frizione di un asciugamano spesso e caldo, e soprattutto, evidentemente, per via di quell’odore intenso, domestico, che ancora oggi mi viene da rievocare e quell’odore mi ascolta e torna da me (non profumo di dopobarba, né sapone, nemmeno tabacco, un odore corporeo, pieno e denso e distensivo, quasi un brodo di pollo in un giorno d’inverno), soprattutto per via di quel buon odore, mi calmai ben presto e il dolore, come quasi sempre, era più spavento che male. Quanto ai folti, nietzscheani baffi, mi avevano solleticato un po’, e dopo – così mi par di ricordare – il dottor Saul Černichovskij mi aveva deposto con prudenza, ma anche senza smancerie superflue, disteso sul divano dello zio Yosef, cioè il professor Yosef Klausner, e il medico-poeta, o mia madre, mi avevano messo sulla lingua un po’ di ghiaccio che zia Zipporah era corsa a prendere. Per quanto mi ricordo, nessun arguto aforisma da sfoggiare a futura memoria e citazione si trasmise quel momento fra il gigante poeta, padre della reviviscenza della nostra letteratura, e il piccolo, piagnucolante erede. Da quel giorno, passarono altri due, tre anni prima ch’io riuscissi a scandire il nome Černichovskij. Quando mi dissero che era un poeta, non mi meravigliai affatto: a Gerusalemme, in quell’epoca, quasi tutti erano poeti o scrittori o studiosi o filosofi o letterati o rivoluzionari. Quando dicevano “dottore”, non mi faceva la minima impressione: a casa di zio Yosef e zia Zipporah, gli ospiti erano sempre professori o dottori. Ma lui, non era un dottore o un poeta qualunque. Lui era un pediatra, aveva la chioma scompigliata, un po’ rada, e gli occhi che ridevano, delle mani grandi e lanuginose, i baffi folti, le guance morbide e un odore unico e speciale, forte e tenero. Ancora oggi, ogni volta che trovo Saul Černichovskij in una foto o in un disegno o nel busto che lo raffigura, così mi pare, nell’ingresso della casa dello scrittore che porta il suo nome, subito mi avvolge come l’abbraccio di un piumone d’inverno, buono, confortante. * Mio padre, sulle orme dell’esimio zio Yosef, preferiva il cappelluto Černichovskij al calvo Bialik, che considerava un poeta troppo giudaico, un po’ diasporico, “femmineo”, mentre in Černichovskij mio padre vedeva il poeta ebraico per eccellenza – cioè maschio, un poco monello, un poco baldanzoso, sensibile e ardito, un poeta sensuale, dionisiaco, “ellenico beato”, come lo chiamava zio Yosef (ignorando di sana pianta la sua mestizia ebraica, e quel ghiribizzo così ebraico di ellenizzare un po’). Quanto a Bialik, mio padre lo considerava il poeta dell’inettitudine ebraica, del tempo passato, del borgo ebraico, della miseria, dell’impotenza e della pietosità (a parte il Rotolo di fuoco, Quando parlare e Le città del massacro dove – così diceva papà – “Bialik ruggisce proprio”). Come molti ebrei sionisti suoi contemporanei, mio padre era un po’ cananeo, sotto sotto: il borgo ebraico e tutto ciò che a esso apparteneva, e financo i rappresentanti di questo mondo nella nuova letteratura, Bialik e Agnon, lo imbarazzavano, se ne vergognava. La sua ambizione era che tutti noi rinascessimo daccapo, fieri, robusti, abbronzati, europei-ebrei e non più giudei-esteuropei. Mio padre ebbe quasi sempre ribrezzo dello yiddish, che chiamava “gergo”. Bialik era secondo lui il poeta della miseria, di un’“agonia storica”, mentre Černichovskij annunziava l’alba del domani che si prospettava per noi. La poesia Davanti a una statua di Apollo la recitava a memoria con impeto, senza por mente al fatto che, in perfetta ingenuità, il poeta si prostrava ai piedi di Apollo ma cantava un inno a Dioniso. Capitava che mio padre declamasse con trasporto epico ma con inflessione ashkenazita i tuoni e i fulmini di Černichovskij: “Musica e melodia di tempi remoti.../musica di sangue e di fuoco/salì sul monte e irruppe sulla prateria, tutto quel che si vedrà – nullità”, o: “notte... notte... notte d’idoli/senza stella senza luci...”. Quel viso smunto e cereo di studioso s’infiammava per un istante, come un monaco sfiorato da un pensiero peccaminoso, mentre provava a tuonare versi quali “ti renderò sangue al posto di sangue”. Io, per parte mia, trattenevo a stento un sorriso di fronte alla parola “posto”1 e al suo accento ashkenazita. Nessun’altra persona di mia conoscenza sapeva a memoria tante poesie di Černichovskij quanto mio padre, certamente più del poeta stesso, e le declamava con grande pathos e altrettanto ardore – un poeta così musico, musico – e dunque anche musicale, un poeta senza inibizioni, senza complessi esilici, scrive senza impaccio alcuno di amore e persino di nuovi piaceri, diceva papà, Černichovskij non indugia mai sulle tzures e i krechtzen, i sospiri. Mamma in quei momenti guardava papà con una certa perplessità, come stupita della natura un po’ grezza di questi suoi appagamenti, ma pensava bene di tacere. * Aveva uno smaccato temperamento lituano, mio padre, e gli piaceva assai usare la parola “smaccato” (i Klausner erano originari di Odessa, prima ancora venivano dalla Lituania, e ancora più indietro probabilmente venivano da Matersorf, Matersburg nell’Austria orientale, vicino al confine con l’Ungheria). Era una persona sensibile e appassionata, ma che nutrì una costante avversione per la mistica e la magia in tutti i suoi aspetti. Il soprannaturale gli sembrava smaccatamente il regno degli imbroglioni e truffatori. Le gesta chasidiche le considerava alla stregua del folklore, e la parola stessa “folklore” la pronunciava sempre con una smorfia di sprezzo, come quando diceva, ad esempio, “gergo”, “estasi”, “oppio”, “folgorazioni”. Mia madre lo ascoltava, e invece di una risposta ci elargiva il suo sorriso triste, e ogni tanto diceva a me: “Tuo padre è un uomo saggio e razionale; razionale persino nel sonno”. Anni dopo, anni dopo la morte di lei, quando ormai la sua allegria ottimistica era un po’ sbiadita insieme alla parlantina, anche l’inflessione di mio padre mutò, adottando una tonalità che forse era stata di mia madre: in uno scantinato della Biblioteca nazionale aveva scoperto un manoscritto sino ad allora sconosciuto di Y.L. Peretz, un suo quaderno di gioventù in cui, fra minute varie, schizzi e abbozzi in versi, c’era anche un racconto intitolato La vendetta. Papà rimase per alcuni anni a Londra, dove scrisse il suo dottorato su quella scoperta, con la quale finì per allontanarsi dalla turbolenza di Černichovskij, e per occuparsi invece di miti e saghe di popoli remoti, non disdegnando la letteratura yiddish; via via proseguì su questa strada, come mollando la presa da un parapetto per lanciarsi nella malinconia misteriosa delle storie di Peretz in particolare e dell’epopea chasidica in generale. * Ma negli anni in cui il sabato si andava a casa di zio Yosef, a Talpiyot, papà cercava ancora di educare tutti noi a diventare figli della luce al pari di lui: i miei genitori discutevano spesso di letteratura. Mio padre amava Shakespeare, Balzac, Tolstoj, Ibsen e Černichovskij. Mia madre preferiva Bialik, Schiller, Turgenev e Čechov, Strindberg, Gnessin e il signor Agnon che abitava proprio di fronte allo zio Yosef a Talpiyot, ma, così mi sembrava, grandi amici non erano. Un gelo polare spirava per un istante nel vicolo, quando capitava che s’incontrassero quei due, il professor Klausner e il signor Agnon: un’alzata di sopracciglia, un breve inchino, e intanto dal profondo dei rispettivi cuori si auguravano a vicenda, sottovoce, l’oblio in fondo all’abisso della dimenticanza: lo zio Yosef non aveva stima di Agnon, il cui stile trovava ostico, provinciale, melodico alla stregua di una lagna compiaciuta. Quanto al signor Agnon, lui, dal canto suo, se la legava al dito, non dimenticava e assaporava, sinché un bel giorno conciò per le feste lo zio Yosef infilzandolo in uno dei suoi spiedi ironici, sotto le spoglie comiche del professor Bekhlem nel romanzo Shira. Lo zio Yosef, per sua fortuna, era scomparso per tempo, prima della pubblicazione del libro, e così gli fu risparmiato quel disappunto. Mentre il signor Agnon tirò avanti negli anni sinché non gli diedero il premio Nobel per la letteratura e divenne famoso in tutto il mondo, ma per contro dovette digrignare i denti acidamente quel giorno in cui alla loro via, un vicolo senza uscita nel quartiere Talpiyot, fu imposto il nome di via Klausner. Da quel giorno fino alla morte, fu condannato a essere lo scrittore signor S.Y. Agnon, di via Klausner. Così si chiama ancora oggi, come per dispetto, casa Agnon in via Klausner. Casa Klausner, per contro, è stata distrutta e al suo posto è stato costruito, come per dispetto, un condominio anonimo, proprio davanti a casa Agnon. 1 In ebraico significa anche “sedere”. [N.d.T] 8. Ogni due, tre sabati, salivamo in pellegrinaggio a Talpiyot, al villino di zio Yosef e zia Zipporah. Sei, sette chilometri separavano casa nostra a Kerem Abraham da Talpiyot, un quartiere ebraico della città sperduto e un po’ pericoloso: a sud di Rechavia e di Kiriat Shemuel, a sud del mulino a vento di Mishkenot Shaananim, si stendeva la Gerusalemme altra, i quartieri di Talbiyeh, Abu Tor e Katmon, il villaggio tedesco e quello greco e Baqaa (Abu Tor, ci spiegò una volta l’insegnante, il signor Abishar, si chiama così dal nome di un eroe soprannominato “mio padre il toro”, Talbiyeh era una volta il terreno di uno che si chiamava Taleb, Baqaa altro non è se non Biqaa, o valle degli spettri, mentre il nome Katmon è una storpiatura in arabo delle parole greche “kates mones”, cioè, “vicino al convento”). Oltre ancora, verso sud, oltre tutti i mondi conosciuti, oltre i Monti di Tenebra, alla fine del mondo, baluginavano sparute lucine ebraiche, cioè Mekor Hayyim, Talpiyot, Arnona e il kibbutz Ramat Rachel che quasi lambiva Betlemme. Dalla nostra Gerusalemme di Talpiyot non si vedeva altro che un minuscolo grumo grigio di fronde impolverate in cima a un’altura distante. Da sopra al nostro tetto, la notte, il nostro vicino, l’ingegner Friedmann, indicò una volta una manciata di pallide luci tremolanti in fondo all’orizzonte, sospese fra il cielo e la terra, e disse: laggiù c’è il campo Allenby e là si vedono, forse, le luci di Talpiyot o Arnona. Se ci saranno altri incidenti, non se la passeranno troppo bene, da quelle parti, aggiunse. Per non parlare di una vera e propria guerra. * Uscivamo di casa dopo pranzo, nell’ora in cui la città si chiudeva dietro le imposte e sprofondava tutta nel sonno del sabato pomeriggio, e un silenzio perfetto calava sulle strade, nei cortili, fra gli edifici di pietra con le tettoie di lamiera, applicate davanti. Come se tutta Gerusalemme fosse stata travasata dentro una bolla di vetro trasparente. Attraversavamo via Gheulla, entravamo nel labirinto di vicoli della scalcinata cittadella ultraortodossa, sulla salita del quartiere Akwah, passando sotto i fili della biancheria carichi di bucato nero, giallo e bianco, fra le ringhiere di ferro arrugginito di squallidi terrazzi e scheletriche scale esterne, ci arrampicavamo su per Zikhron Moshe sempre avvolto nei fumi di povere pietanze ashkenazite, cholent e bortsch, soffritti d’aglio e cipolle e cavolo acido, e proseguivamo, attraversando via dei Profeti. Non si vedeva anima viva, nei cortili di Gerusalemme, alle due del sabato pomeriggio. Da via dei Profeti svoltavamo giù in via Strauss, dove dimorava l’eterna frescura degli antichi cipressi, all’ombra di due muri, l’uno di pietra grigia e vegetata dell’ospedale protestante delle diaconesse, e l’altro la cinta massiccia e malinconica dell’ospedale ebraico Biqqur Olim, con i simboli delle dodici tribù incisi sul maestoso portone di bronzo. Un’eco d’odore – medicine da vecchi e forte soluzione di lisolo – si sprigionava fuori dagli ospedali. Poi attraversavamo via Giaffa, nei pressi di un famoso negozio d’abbigliamento chiamato Mein Staub, ci fermavamo un istante davanti alla vetrina della libreria Achiasaf perché papà si lustrasse la vista con le nuove uscite. Proseguivamo percorrendo tutta via King George, fra negozi lussuosi e caffè con i lampadari alti e ricche imprese, tutto era vuoto e chiuso per via del Sabato, ma le loro vetrine ci attiravano; dietro le grate di ferro, ammiccavano con le lusinghe di altri mondi, bagliori di continenti remoti, aromi di città illuminate, frenetiche, di quartieri adagiati sulle rive di grandi fiumi, signore belle ed eleganti e posati signori raffinati e abbienti, che non vivevano fra decreti e persecuzioni e non conoscevano la penuria, erano anzi liberi dalle preoccupazioni economiche, liberi dalle regole dei pionieri e dei volontari, liberi dalle contribuzioni sociali, beati nelle loro belle case con i camini che spuntavano fra le tegole, o in spaziosi appartamenti dentro stabili di lusso, case foderate di tappeti, con portieri in uniforme blu e lift boys in rosso, e cameriere e cuoche e istitutrici e maggiordomi che lavoravano per loro, mentre i signori e le signore si godevano il loro mondo. Non come qui. Qui, in via King George e anche nella crucca Rechavia e nella ricca greco-araba Talbiyeh, dimorava un silenzio diverso, che non somigliava affatto a quello religioso dei sabati pomeriggio nei quartieri ashk enaziti ortodossi e trasandati: un silenzio diverso, conturbante, impregnato di segretezza, calava su via King George, che alle due e mezzo del sabato era deserta: un silenzio un po’ straniero, un silenzio britannico, poiché via King George – e non solo a causa del suo nome – si presentava ai miei occhi di bambino come una specie di ambasciatrice della magica Londra qual era nei film: file di case alte, edifici ufficiali che incutevano soggezione ai due lati della strada, uno dopo l’altro senza soluzione di continuità, senza cortili in preda all’abbandono disseminati di rottami e spazzatura, fra una casa e l’altra, come capitava nel nostro quartiere. Qui in via King George non c’erano balconi sbriciolati e nemmeno persiane rotte sulle finestre, schiuse come una bocca sdentata di vecchio, finestre povere dietro le quali il passante scorgeva i miseri interni delle case, cuscini rattoppati, stracci variopinti, un’accozzaglia di mobili, padelle affumicate, stoviglie di coccio ammuffite, pentole smaltate, alte, e barattoli e lattine arrugginite. Sui due lati della strada c’era qui una facciata continua, incravattata, discreta ma con una certa arroganza, porte e cornicioni e finestre con tende di pizzo che mormoravano di ricchezza, onore, voci soffuse, tessuti pregiati, tappeti soffici, calici alti e modi sottili. Sugli ingressi c’erano targhe nere di vetro di studi d’avvocati, rappresentanti, medici, notai, procuratori e agenti di grandi industrie straniere. Passavamo davanti agli edifici del Talita Kumi (a papà piaceva spiegare il significato di quel nome, come se non l’avesse già fatto due settimane prima e due mesi prima, ma a mamma piaceva ripetergli: basta, Arieh, lo sappiamo già, vien quasi da dormire, con le tue spiegazioni). Passavamo davanti al Bor Schiber e a casa Frumin, dove avrebbe avuto poi sede temporanea il parlamento israeliano, davanti a Bet ha Maalot con la sua forma tondeggiante, che prometteva ai suoi visitatori le seduzioni rigorose di una bellezza essenziale, una bellezza un po’ teutonica, ci fermavamo un momento a osservare le mura della Città Vecchia da dietro il cimitero musulmano Mamila, acceleravamo il passo (già un quarto alle tre! E la strada è ancora lunga!), passavamo davanti alla sinagoga Ieshurun, davanti all’ampio semicerchio degli edifici dell’Agenzia ebraica (papà commentava sottovoce, come svelandomi un segreto di stato, e con un timore reverenziale cantilenato: “Qui sta il nostro governo, il dottor Weizmann, Kaplan, Shertok e a volte anche David Ben Gurion. Qui batte il cuore dell’autonomia ebraica. Peccato che non sia un governo nazionale più autorevole!” e aggiungeva spiegandomi che cosa era un “governo ombra”, e cosa sarebbe successo, fra poco, da noi qui, quando finalmente gli inglesi se ne fossero andati, “nel bene e nel male, se ne andranno!”). Di lì si continuava, scendendo verso Terra Santa (nell’edificio Terra Santa mio padre lavorò poi per circa dieci anni, dopo la guerra d’Indipendenza e dopo l’assedio di Gerusalemme, quando fu chiusa la strada per la sede dell’università sul Monte Scopus e anche l’emeroteca della Biblioteca nazionale trovò qui rifugio temporaneo, in un angolo del terzo piano). Da Terra Santa ci voleva ancora una decina di minuti per arrivare al tondeggiante Binyan David, dove la città s’interrompeva di colpo e cominciavano campi vuoti verso la stazione ferroviaria, a Emeq Refaim. Alla nostra sinistra si vedevano le pale del mulino a vento nel quartiere di Yamin Moshe, e lassù a destra, sul declivio, le ultime case del quartiere Talbiyeh. Una specie di muta tensione ci rattrappiva dentro quando arrivavamo alla zona araba della città: come stessimo passando un invisibile posto di confine, per entrare in una terra straniera. Poco dopo le tre attraversavamo la strada che separava le rovine dell’antico khan turco e l’ospizio scozzese dalla stazione ferroviaria chiusa: un’altra luce dimorava qui, una luce un po’ annuvolata, una luce antica, dal sentore di maggiorana. Questo posto riportava alla mente di mia madre la viuzza musulmano-balcanica che c’era in fondo alla sua cittadina, nell’Ucraina occidentale. Papà si dava a dissertare sull’epoca dei turchi qui a Gerusalemme, sui decreti di Jamal Pascià, sulle teste mozzate, sui condannati la cui esecuzione aveva luogo sotto gli occhi di una plebaglia che si radunava qui, sullo spiazzo lastricato davanti a questa stazione costruita alla fine del diciannovesimo secolo, su licenza ottomana, da un ebreo gerosolimitano di nome Yosef Bey Navon. * Dalla stazione proseguivamo sulla via di Hebron, passavamo davanti agli impianti presidiati del governo inglese e davanti alla zona cintata dei serbatoi, di fronte alla quale dominava un grosso cartello in tre lingue. In ebraico c’erano scritte le parole “Vacum Oil” e mio padre sogghignava: che cos’è mai quest’olio che il cartello ordina di “cum”?1 E senza aspettare si rispondeva da solo, ma certo, è vacuum oil con scrittura difettiva, un’ulteriore attestazione del fatto che è giunto inevitabilmente il momento di apportare una riforma europea, moderna e decisiva, alla sciagurata grafia ebraica, di introdurre insomma le vocali che, così diceva, sono come i vigili urbani della lettura. Fra l’altro, anche sulle locomotive dei vagoni ferroviari, niente meno, sta scritta in inglese la parola “inflammable” (cioè “infiammabile”), mentre in ebraico troviamo “infiammevole”, e nell’ebraico del governo mandatario sta scritto su ogni locomotiva “suscettibile di infiammarsi”. Niente meno. Alla nostra sinistra si diramavano ora alcune vie che fra una curva e l’altra portavano al quartiere arabo di Abu Tar, mentre alla nostra destra i bei vicoletti dell’insediamento tedesco – un quieto borgo bavarese – affascinavano con la loro corte di uccelli canterini, ululati di cani e richiami di galline, le colombaie e i tetti rossi che brillavano qua e là fra pini e cipressi, e una serie di giardini circondati da mura di pietra, all’ombra di folte fronde. Ogni casa qui aveva la sua cantina dispensa e la soffitta, e il solo evocare queste parole era una fitta di nostalgia per chi era nato in posti in cui nessuno aveva una cantina buia sotto i piedi né una soffitta tenebrosa sopra il capo, né dispensa né credenza né cassettone né pendola né pozzo né pompe per l’acqua in cortile. Proseguivamo così verso sud scendendo lungo la via di Hebron, oltrepassando delle graziose case di pietra rosa scolpita, residenze di ricchi effendi e di arabi cristiani liberi professionisti, funzionari del governo mandatario e del consiglio supremo arabo, Mordum Bey Al Matnaui, Aj Rashid Al Afifi, il dottor Emi Adun Al Bustani, l’avvocato Henry Tawill Tutah e altri signori del quartiere Baqaa. Qui i negozi erano tutti aperti e dai caffè giungevano risate e musica: come se ci fossimo lasciati il Sabato alle spalle, chiuso oltre il muro immaginario che bloccava la via chissà in quale punto fra il quartiere di Yamin Moshe e l’ostello scozzese. Sull’ampio marciapiede, all’ombra di due pini anziani davanti a un caffè, sedevano su sgabelli di paglia, intorno a un tavolino basso, tre o quattro attempati signori in abito scuro, ognuno con una catena dorata che pendeva dall’asola dei pantaloni e tratteggiava una sorta di arco sulla pancia, per sparire infine dentro la tasca. Quei signori sorbivano il tè dentro un bicchierino di vetro o sorseggiavano del caffè forte in tazzine decorate, muovendo le pedine sopra la scacchiera della dama. Papà li salutava in un arabo che, in bocca sua, sembrava un po’ russo. Quei signori tacevano un istante, lo guardavano con un’aria di stupore contenuto, uno di loro mormorava qualcosa di incomprensibile, fors’anche una sola parola, può darsi per ricambiare il saluto. Alle tre e mezzo passavamo lungo la cinta di filo spinato del campo Allenby, cittadella del governo inglese nella Gerusalemme Sud. Quante volte avevo già fatto irruzione in quel campo, avevo conquistato e sottomesso, l’avevo epurato e vi avevo innalzato la bandiera ebraica, laggiù sulla mia stuoia. Di qui, dal campo Allenby conquistato con un’incursione notturna a sorpresa, proseguivo insieme alle mie forze, proseguivo di slancio verso il cuore della dominazione straniera, spedendo un mio manipolo al palazzo del comandante supremo, sul Monte del Cattivo Consiglio, che le mie bande conquistavano di nuovo con un’operazione di accerchiamento, una colonna corazzata penetrava nel palazzo da occidente, dal campo Allenby liberato, mentre un altro braccio chiudeva a sorpresa da oriente, dalle alture steppose, dalle propaggini del deserto di Giudea. Avevo otto anni e qualche cosa, nell’ultimo scorcio del mandato britannico: con due miei amici e complici, costruii nel cortile sul retro di casa nostra un razzo spaventoso, che secondo noi era puntato contro Buckingham Palace, a Londra (avevo scovato una carta dettagliata del centro di Londra, nella collezione topografica di mio padre). Con la sua macchina da scrivere preparai una lettera ultimatum – peraltro gentile – a sua maestà il rispettabile re d’Inghilterra Giorgio VI di casa Windsor (la scrissi in ebraico, perché sicuramente aveva qualcuno per la traduzione): se non fossero usciti dalla nostra terra nel giro di sei mesi al massimo, il nostro giorno dell’Espiazione sarebbe diventato il giorno del Giudizio per tutta la Gran Bretagna. Ma questo progetto alla fin fine non ebbe seguito, perché non riuscimmo a realizzare un congegno di pilotaggio adeguato (la nostra idea era infatti quella di colpire Buckingham Palace, ma non gli innocenti inglesi di passaggio), e anche perché avevamo una certa difficoltà a produrre un carburante capace di lanciare il nostro razzo da via Amos angolo Ovadia in Kerem Abraham, sino all’obiettivo, nel cuore di Londra. Eravamo ancora impegnati nella fase di ricerca e sviluppo tecnologico, quando gli inglesi fecero i bagagli e se ne andarono, e così la città di Londra scampò al mio ardore nazionalista e al mio razzo micidiale, assemblato con i resti di un frigorifero rotto e quelli di una vetusta bicicletta. * Un po’ prima delle quattro svoltavamo a sinistra da via Hebron ed entravamo nel quartiere di Talpiyot, fra viali ombrosi di cipressi che stormivano insieme alla brezza d’Occidente, secondo una melodia che mi ispirava stupore, senso di pochezza e sommessa riverenza. Talpiyot era allora un tranquillo e verde sobborgo, lontano dal centro città e dal trambusto commerciale, sul confine del deserto. Era stato progettato a imitazione dei più distinti quartieri residenziali mitteleuropei, concepiti per assicurare serenità a studiosi, medici, scrittori e filosofi. Sui due lati della strada si trovavano piccole, belle case a due piani circondate di giardini, e in ognuna di esse – così s’immaginava la nostra fantasia povera – trascorreva la sua confortevole vita qualche famoso dotto o professore rinomato in tutto il mondo, proprio come il nostro zio Yosef, che non aveva figli ma in compenso della sua fama era piena tutta la terra e anche in paesi remoti le sue opere venivano tradotte, diffusa la sua sapienza. Svoltavamo a destra e salivamo per via Qoreh ha Dorot, sino al boschetto di pini, poi a sinistra, ed eccoci finalmente davanti a casa dello zio. Mamma diceva: sono solo le quattro meno dieci, e se riposassero ancora? Perché non ci sediamo qualche minuto in pace ad aspettare qui sulla panchina in giardino? Oppure: oggi siamo un po’ in ritardo, sono già le quattro e un quarto e il samovar starà già bollendo, la zia Zipporah avrà già messo la frutta sul vassoio. Due palme Washington svettavano come due custodi ai due lati dell’ingresso, poi veniva il sentiero in pietra, fra i due lati della siepe di tuia. Il sentiero conduceva dal cancello sino ai larghi scalini che portavano alla terrazza d’ingresso, alla porta sopra la quale dominava una bella targa di bronzo con inciso in stampatello il motto dello zio Yosef: “GIUDAISMO E UMANESIMO”. Sulla porta stessa, invece, una targhetta di bronzo più piccola e più brillante diceva in caratteri ebraici e latini: PROFESSOR DOTTOR YOSEF KLAUSNER E sotto ancora, nella grafia rotonda di zia Zipporah, sopra a un cartellino appeso alla porta con una puntina: Si prega di astenersi dalle visite fra le due e le quattro. Grazie. 1 Cum: in ebraico significa “alzarsi”. [N.d.T.] 9. Già nell’ingresso mi cascava addosso un timore reverenziale, come se il cuore stesso smaniasse per levarsi le scarpe e camminare scalzo, in punta di piedi, e respirare educatamente, con la bocca chiusa. Oltre a un attaccapanni a piede di legno bruno che con le sue braccia ramificate campeggiava accanto alla porta, oltre a un piccolo specchio da parete e a un arazzo scuro ricamato, nell’ingresso non restava nemmeno una spanna libera negli scaffali per i libri: uno sull’altro, dal pavimento sino al soffitto alto, tomi in lingue di cui nemmeno riconoscevo i caratteri, libri in piedi e altri adagiati sopra, grossi e lussuosi volumi in caratteri latini messi comodi, e altri malandati che ti guardavano di sbieco, ammassati l’uno sull’altro come profughi stipati nelle stive di vecchie bagnarole, libri pesanti e sussiegosi, rilegati in cuoio e con incisioni in oro, libri leggeri con la copertina di carta eterea, libri nobili ed eleganti, libri striminziti e sbrindellati, e fra loro intorno a loro dietro a loro ancora una frotta di fascicoli e opuscoli e pamphlet e riviste e periodici e dispense e brochure e annuari, quella plebaglia chiassosa e trasandata insomma, che si raduna sempre ai margini della piazza e del mercato. Nell’ingresso c’era un’unica finestra che oltre le grate, come lo spioncino di un convento sperduto, si affacciava sulla folta vegetazione del malinconico giardino. Qui accoglieva noi, così come qualunque altro ospite, la zia Zipporah, una bella vecchietta dal viso aperto e le gambe grosse con indosso la sua gonna grigia e uno scialle nero sulle spalle – molto russa, insomma: i capelli bianchi tutti tirati indietro e raccolti in una piccola crocchia legata bene stretta sulla nuca, le guance che ti si porgevano una dopo l’altra per due baci, il viso tondo e buono che ti sorrideva con affetto, era sempre pronta a domandarti come andavano le cose, ma per lo più non aspettava la risposta e invece già sulla porta ti metteva al corrente della salute del nostro caro Yosef che di nuovo non aveva chiuso occhio tutta la notte, o il cui stomaco si era finalmente ristabilito dopo un lungo malanno, o che aveva ricevuto una lettera stupenda da un professore americano della Pennsylvania molto ma molto famoso, o che era stato nuovamente angustiato dai calcoli alla cistifellea, o che doveva terminare per l’indomani a mezzodì un articolo molto importante per la rivista “Metzudah” di Ravidovitz, o che anche questa volta lo zio Yosef aveva deciso di non reagire alla vile offesa da parte di Itzhak Silberschlag, oppure di rendere pan per focaccia all’insulto di uno di quelli, i signori della banda “Berit Shalom”. Dopo questo sunto di notizie, la zia Zipporah sorrideva amabilmente e ci invitava a seguirla per andare dallo zio stesso: “Yosef vi aspetta nella stanza da riposo”, annunziava con calore, o: “Yosef è in salotto, con lui ci sono già il signor Krupnik, i coniugi Netanyahu, il signor Iunichmin e i coniugi Schuhtman, altri ospiti stanno per arrivare”. Altre volte diceva: “E da prima delle sei, questa mattina, che sta rintanato nello studio, gli ho dovuto servire i pasti lì, ma non importa, non importa, andate comunque da lui, entrate, entrate, sarà felice di vedervi, è sempre così contento di vedervi, e anch’io del resto, gli fa anche bene smettere un momento di lavorare, riposare un poco, così si rovina la salute! Non ha alcun riguardo per se stesso!”. * Due porte si aprivano sull’ingresso: una, di vetro decorato con boccioli e fiori, portava in salotto. L’altra, massiccia e scura, fosca, ci portava nello studio del professore, a volte detto anche “biblioteca”. Lo studio dello zio Yosef per me bambino era il vestibolo del tempio della Saggezza: più di venticinquemila volumi, mi disse una volta papà sottovoce, sono racchiusi qui nella biblioteca privata dello zio, fra essi alcuni preziosi tomi, nonché manoscritti dei nostri maggiori poeti e scrittori, prime edizioni con dedica personale degli autori, libri usciti con vari sotterfugi dai confini dell’Odessa sovietica e arrivati sin qui per mille vie traverse, fra essi rari e preziosi repertori bibliografici, testi profani e testi sacri, quasi tutti i tesori della tradizione d’Israele e il meglio di quella degli altri popoli, libri che lo zio aveva acquistato a Odessa e altri comprati a Heidelberg, libri scoperti a Losanna e scovati a Berlino e Varsavia, libri ordinati in America, libri di cui esistevano copie solo nella Biblioteca vaticana, ebraico e aramaico e siriaco e greco antico e moderno, sanscrito e latino e arabo medievale, russo e inglese e tedesco e spagnolo e polacco e francese e italiano e altre lingue e idiomi di cui nemmeno il nome avevo mai udito: ugaritico sloveno cananeo maltese e paleoslavo. Aveva un che di austero, di ascetico, quella biblioteca con i suoi tratti neri e regolari: le decine di scaffali tesi in file l’una sull’altra dal pavimento sino al soffitto, persino sopra gli stipiti di porte e finestre, incutevano una muta soggezione in tutti noi e persino nello zio Yosef: lì non erano ammessi né il riso né alcun impulso spensierato, e si parlava sempre sottovoce. L’odore dell’immensa biblioteca dello zio mi accompagnerà per tutta la vita: l’aroma impolverato e accattivante delle sette discipline segrete, il profumo della taciturna vita intellettuale, una esistenza monastica e riservata, un silenzio spettrale che alitava da abissi di pensiero e dottrina, mormorio di sillabe morte, litania di pensieri segreti di autori defunti, gelida carezza di antiche autorità. Anche qui in libreria si aprivano tre finestrelle alte dalle tende scure, che davano sul giardino triste, un poco trascurato, oltre il quale subito cominciava la desolazione del deserto di Giudea e la steppa declinava giù verso il Mar Morto: cipressi alti e pini dalla voce sommessa circondavano il giardino, fra essi spuntavano qua e là un oleandro, delle piante selvatiche, qualche cespuglio di rosa abbandonato a se stesso, una tuia impolverata, sentieri di ghiaia ingrigita, un tavolo da esterno ormai marcio dopo tanti inverni di pioggia, e anche una vecchia melia dalla schiena gobba, mezza rinsecchita. Anche d’estate, anche nei giorni più torridi, un’aura deprimente d’inverno russo si serbava in quel giardino dove zio Yosef e zia Zipporah, orbati di figliolanza, allevavano i loro gatti con avanzi di cucina. Non li vidi mai passeggiare lì, né godersi la brezza della sera seduti su una delle due panchine. Solo io il sabato pomeriggio lo passavo lì per sfuggire allo sconforto delle conversazioni intellettuali in salotto, andando a caccia di pantere nel folto della vegetazione, scavando in cerca di antichi tesori sepolti, fantasticando sulla conquista delle aride alture oltre la cinta, con il mio impeto battagliero. * Tutte e quattro le pareti della biblioteca erano ricoperte di tesori bibliografici, da un capo all’altro – libri su libri, eppure secondo un certo ordine: file di volumi blu scuro e verdi e neri con incisioni in oro e argento. In alcuni punti l’affollamento era tale che due ranghi di libri si stringevano spalla contro spalla su uno stesso scaffale. C’erano blocchi di caratteri gotici che parevano merli di torri, altri in lingua santa, Talmud e Mishnah e formulari liturgici e canoni di leggi e raccolte di commenti, narrazioni e gesta, la mensola sefardita e quella italiana, il reparto berlinese e le altre testimonianze dell’Illuminismo ebraico, settori e settori di letteratura tradizionale ebraica e storia d’Israele e storia dell’ antico Oriente, della Grecia e di Roma, storia della cristianità antica e di quella moderna, culture pagane le più disparate, civiltà islamica e religioni dell’Asia e storia medievale, e una parete intera dedicata alla storia del popolo ebraico nell’antichità, nel Medioevo e nella modernità, ambiti slavi per me indecifrabili, territori della grecità, e anche zone grigie di raccoglitori e dossier in cartone zeppi di estratti e manoscritti. Nemmeno un fazzoletto di mura era rimasto libero di libri, e anche sul pavimento erano accatastate decine di volumi, alcuni aperti e capovolti, altri pieni di piccoli segnalibri, altri ancora erano raggruppati qua e là come greggi spaventate e raccoltesi su due o tre sedie dall’alto schienale, destinate agli ospiti, quando non sui davanzali delle finestre, mentre una scala nera conduceva agli scaffali più alti, che lambivano il soffitto. La scala la si poteva spostare tutt’intorno lungo un binario di metallo, su e giù e intorno alla libreria e qualche volta ebbi anch’io il permesso di muoverla con grande prudenza sulle sue ruotine di gomma, da un reparto all’altro e da uno scaffale all’altro in giro per la biblioteca. Non c’era nemmeno un quadro, non c’era una pianta, nessun ornamento o concessione all’estetica. Solo libri su libri e silenzio dappertutto e quell’odore incantato, denso, di legature in pelle e carta ingiallita e muffa ma sottile e come un’eco strana di alghe e sentore di colla invecchiata e di sapienza segreta e polvere. In mezzo alla biblioteca, come se una grossa e scura nave da guerra avesse gettato la sua ancora nel cuore acquoso di un’insenatura fra le montagne, campeggiava la scrivania del professor Klausner: pile di tomi d’enciclopedia e lessici, quaderni e fascicoli, penne diverse, blu nere verdi e rosse, e matite e gomme e calamai, scomparti pieni di spilli elastici e fermagli, buste marroni e buste bianche e buste con francobolli variopinti, fogli e fascicoli, foglietti e cartellini, volumi in caratteri latini aperti sopra altri ebraici aperti anch’essi, e fra le pagine aperte sparsi altri fogli strappati da un blocco a spirale, con sopra la scrittura a tela di ragno dello zio, fitti di cancellature e correzioni a mo’ di carcasse di mosca, pieni di cartellini, e gli occhiali da lettura con la montatura in oro dello zio Yosef posati in cima alla pila che parevano galleggiare sulla superficie dell’abisso, e altri, con la montatura nera, posati in cima a un’altra pila di libri lasciata su un piccolo carrello accanto alla sua sedia, e un terzo paio che ammiccava fra le pagine di un fascicolo aperto sopra a un tavolino accanto al divanetto scuro. Sul quale, rannicchiato come un feto, riparato sino alle spalle da una coperta di lana leggera a scacchi rossi e verdi – il gonnellino di un soldato scozzese –, il viso nudo e infantile, senza occhiali, riposava lo zio Yosef, esile e mingherlino, gli occhi scuri e allungati un poco allegri e un poco tristi. Agitava debolmente la mano diafana verso di noi, sfoderando un sorriso incerto fra i baffi canuti e la barbetta appuntita, e diceva più o meno così: “Entrate, miei cari, prego, entrate” (benché fossimo già dentro, praticamente di fronte a lui, ancora vicini sì alla porta, stretti l’uno all’altro, mia madre mio padre e io, come un piccolo gregge diretto a un pascolo non suo) “e perdonatemi se non mi alzo in vostro onore, non abbiatevene a male ma sono due notti e tre giorni che non lascio il lavoro, che non chiudo occhio, domandate alla signora Klausner e lei confermerà, non mi distolgo né per mangiare né per dormire, e nemmeno per un’occhiata ai giornali, debbo finire questo saggio destinato, alla sua pubblicazione, a fare un gran baccano da noi ma non solo da noi, tutto il mondo della cultura segue questa polemica con il fiato sospeso, questa volta mi par proprio di essere riuscito a chiudere la bocca una volta per tutte agli oscurantisti d’ogni sorta! Loro malgrado, questa volta diranno amen, o almeno ammetteranno l’errore senza banfare, e anche che la loro serietà è compromessa e hanno perduto. E voi? Fania mia cara? Lonieh caro? E il piccolo Amos, a me prezioso? Come state? Che c’è di nuovo nel vostro mondo? Avete già letto al caro Amos alcune pagine di Quando un popolo combatte per la libertà? Mi pare, miei cari, che di tutto ciò che ho composto sino a quest’oggi, non ci sia libro più adatto di Quando un popolo combatte per la libertà, a far da nutrimento spirituale per l’animo in erba del caro Amos in particolare, e per quelli di tutta la nostra meravigliosa gioventù ebraica in generale, a parte, forse, le descrizioni di eroismo e rivolta sparse qua e là fra le pagine della mia Storia del Secondo Tempio. Mi scrisse molti anni orsono un gentile, un prete svizzero assai dotto, illuminato e amico di Israele come nessun altro, dicendo che al leggere i capitoli sulle guerre dei giudei contro l’ellenismo pagano come sono esposte nella mia opera Storia del Secondo Tempio ma anche nel mio Gesù Nazareno e in Da Gesù a Paolo, ha compreso per la prima volta in vita sua quanto fosse israelita e giudeo Gesù, lontano tanto dall’ellenismo quanto dalla romanità, benché fosse certo assai lontano anche dagli antiquati rabbinati dei suoi tempi, che non erano molto migliori degli oscurantisti del tempo nostro. “E voi, miei cari? Siete dunque venuti a piedi? Lungo una via così lunga? Dalla vostra dimora nel quartiere di Kerem Abraham? Mi rammento di quando eravamo giovani noi, circa trent’anni fa, e ancora abitavamo nel quartiere bukharo, così suggestivo e primitivo, e il sabato si usciva a passeggio da Gerusalemme sino a Betel o ad Anatot, qualche volta s’arrivava fino alla tomba del profeta Samuele. La cara signora Klausner vi offrirà per certo da bere e da mangiare, se solo avrete la compiacenza di seguire lei, ora io finisco in un momento il difficile paragrafo e sono subito da voi, può darsi che oggi vengano anche i Wislawski, Uri Tzvi (Greenberg) e anche Eben Zahav. Il caro Netanyahu e l’amabile consorte, poi, vengono da noi quasi ogni sabato. Venite, su, qui vicino miei cari, venite a vedere con i vostri occhi, che veda anche il piccolo Amos, guardate tutti per favore queste pagine di minuta, sulla mia scrivania: dopo la mia morte converrà per certo portare qui frotte di studenti, una generazione dopo l’altra, che vedano con i loro occhi di quanti tormenti è fonte la scrittura per i suoi adepti, quanta fatica e quante pene mi sono costati tutti i giorni della mia vita e quanto impegno, soltanto perché il mio stile diventasse semplice e incisivo e trasparente come cristallo, quante cancellature su ogni riga, quante bozze, a volte più di mezza dozzina di bozze diverse, prima di mandare alle stampe: l’unica via è là dove il frullo d’ali poggia sulla fatica, dove l’ispirazione attinge alla costanza e alla precisione. Come è detto, la benedizione del cielo viene da lassù e la benedizione dell’abisso grava di sotto. E sia, era una battuta di spirito la mia, ovviamente, mi perdonino le signore. E ora, andate vi prego miei cari, seguite la signora Klausner e placate la vostra sete, quanto a me non mi farò attendere.” * Dalla biblioteca si usciva verso un corridoio stretto e lungo che era un po’ l’intestino della casa, donde si poteva svoltare a destra, verso il bagno, o lo sgabuzzino, oppure continuare dritti alla cucina, la dispensa e la cameretta della domestica che s’affacciava sulla cucina (la cameretta c’era, ma della domestica mai nemmeno l’ombra), e si poteva anche girare subito a sinistra verso il salotto, o proseguire lungo il corridoio e giungere al secondo ingresso, su cui dava la stanza da letto, bianca e carica di ornamenti della zia e dello zio, dove c’erano anche un grande specchio entro una cornice di rame inciso e due candelabri sui lati.