lunedì 12 ottobre 2020

L'INFORMAZIONE Martin Amis

 


L'INFORMAZIONE 

Martin Amis 

Parte prima

Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono Niente. Non è niente. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere... Passa rasente sulla nave del pianto, con i radar delle lacrime e le sonde dei singhiozzi, e li scoprirai. Le donne – e possono essere mogli, amanti, muse macilente, pingui nutrici, ossessioni, divoratrici, ex, nemesi – si svegliano, si girano verso questi uomini e domandano, con femminile bisogno di sapere: – Che cosa c’è?

E gli uomini dicono: – Niente. No, non è niente davvero. Solo un sogno triste.

Solo un sogno triste. Ma certo. Solo un sogno triste. O qualcosa del genere.

Richard Tull stava piangendo nel sonno. La donna di fianco a lui, sua moglie Gina, si svegliò e si girò. Gli strisciò accanto e gli posò le mani sulle spalle bianche e contratte. Sapeva sbattere le palpebre e corrugare la fronte e bisbigliare da vera professionista: come la persona addestrata a prestare le prime cure in piscina; come la figura che si fa avanti sull’asfalto imbrattato di sangue, deambulante Cristo della respirazione bocca a bocca. Gina era una donna. Conosceva le lacrime molto meglio di lui. Non conosceva né gli juvenilia di Swift, né i senilia di Wordsworth, né i diversi destini di Cressida nelle mani di Boccaccio, di Chaucer, di Robert Henryson, di Shakespeare. Non conosceva Proust. Ma conosceva le lacrime. Gina era la regina delle lacrime.

– Che cosa c’è? – disse.

Richard si portò un braccio piegato alla fronte. Tirò su con il naso in maniera complicata, orchestrale. E quando sospirò, nei suoi polmoni si sentí un lontano volo di gabbiani.

– Niente. Non è niente. Solo un sogno triste.

O qualcosa del genere.

Dopo un po’ anche Gina sospirò e si girò dall’altra parte, scostandosi da lui.

Di notte il letto sapeva di asciugamani sporchi, l’odore del matrimonio.

Richard Tull si svegliò alle sei, come al solito. Non aveva bisogno della sveglia né dell’allarme acustico. Era già allarmatissimo. Si sentiva stanco, e non solo a corto di sonno. C’era sí una stanchezza circoscritta, il tipo di stanchezza che il sonno può alleviare; ma piú su, sopra questa stanchezza, e anche sotto, c’era qualcos’altro. Una stanchezza immensa, che di circoscritto non aveva nulla. Ed era la stanchezza del tempo vissuto, giorno dopo giorno. La stanchezza della gravità, una gravità che cerca di risucchiarti verso il centro della terra. Questa stanchezza immensa era lí per restare; e per diventare piú pesante. Nessun sonnellino, nessun cicchetto avrebbe mai potuto alleviarla. Richard non ricordava di avere pianto nella notte. Ora aveva gli occhi asciutti e aperti, e si trovava in uno stato terribile, lo stato di coscienza. In un momento imprecisato della vita aveva perso la capacità di scegliere l’argomento dei suoi pensieri. Scivolava fuori delle coperte la mattina solo per trovare un po’ di requie. Scivolava fuori delle coperte la mattina solo per riposarsi un po’. Avrebbe compiuto quarant’anni il giorno dopo, e recensiva libri.

Nella piccola cucina quadrata, che lo aspettava stoicamente, Richard infilò la spina del bollitore elettrico. Poi si affacciò nella stanza accanto per dare un’occhiata ai bambini. Sapeva che le visite all’alba nella loro camera avevano il potere di confortarlo dopo le notti come quella appena passata, con il loro bagaglio di sgradevole informazione. I suoi figli gemelli nei loro letti gemelli. Marius e Marco non erano gemelli monozigoti. E non erano nemmeno gemelli fraterni, diceva spesso Richard (forse ingiustamente), riferendosi al loro scarso attaccamento reciproco. Ma tali erano, fratelli, nati nello stesso momento. In teoria (e anche in pratica, supponeva Richard, essendo Gina la madre), era possibile che Marco e Marius avessero padri diversi. Non si somigliavano, e sorprendentemente dissimili erano anche tutte le loro doti e inclinazioni. Persino i loro compleanni si erano rifiutati di coincidere: una cruenta mezzanotte d’estate si era interposta tra i due bambini e tra i loro (di nuovo) diversissimi stili neonatali. Marius, il maggiore, aveva esaminato la sala parto con il suo sguardo sistematico e intelligente, sospendendo per decoro e ripugnanza il suo giudizio negativo, mentre Marco si era limitato a chiocciare e sospirare compiaciuto, dando l’impressione di congratularsi con se stesso, come dopo un viaggio portato a termine nonostante i capricci del tempo. Ora, nella luce dell’alba, attraverso la finestra e attraverso la pioggia, le strade di Londra ricordavano lo scarico di un vecchio lavandino. Richard contemplò i suoi figli, il motore dei loro corpi arrestato controvoglia nel sonno, annodato alle coperte, e pensò (come potrebbe pensare un artista): ma i giovani dormono in un altro mondo, pericolosissimo e allo stesso tempo inoffensivo, perennemente umido di innocua libidine – ci sono aquile imparziali, fuori, sul davanzale della finestra, che aspettano, che offrono protezione e incutono timore.

A volte Richard pensava e si sentiva davvero come un artista. Diventava un artista quando vedeva il fuoco, bastava la capocchia di un fiammifero (era nel suo studio, adesso, e si stava accendendo la prima sigaretta): c’era in lui un istinto che ne riconosceva la primordialità. Diventava un artista quando vedeva la società: non gli passava nemmeno per la testa che la società dovesse essere cosí, che avesse il diritto, la convenienza, di essere cosí. Un’automobile in strada. Perché? Perché le automobili? Cosí dev’essere un artista: infastidito fino alla pazzia o allo sbigottimento dai principî primi. Il difficile cominciava quando si sedeva al tavolo con l’intenzione di scrivere. Il difficile, in realtà, cominciava prima. Richard guardò l’orologio e pensò: non posso ancora chiamarlo. Già: non posso ancora chiamarlo. Sarà ancora a letto – non come i ragazzi, con quel loro abbandono – ma sdraiato compostamente, e sprofondato in un sonno compiaciuto. Per lui, o non c’era informazione, o l’informazione, cosí come stavano le cose, era tutta buona.

Per un’ora (era la nuova regola) Richard Tull lavorò al suo ultimo romanzo, intenzionalmente, anche se provvisoriamente, intitolato Senza titolo. Non aveva certo la stoffa dell’eroe. Eppure c’era qualcosa di eroico in quest’ora mattutina di riluttante e trepido travaglio, con il temperamatite, il bianchetto, il rampicante fuori della finestra aperta ingiallito non dall’autunno ma dalla nicotina. Nei cassetti della scrivania, oppure, ormai interfogliati di bollette e intimazioni, sugli scaffali bassi della libreria, persino sul pavimento dell’automobile (la terribile Maestro rossa), dove sguazzavano tra i contenitori di Ribena e le palle da tennis defunte, c’erano altri romanzi, tutti fermamente intitolati Mai pubblicato. E sul suo futuro incombevano minacciosi, Richard lo sapeva, altri romanzi ancora, rispettivamente intitolati Mai finitoMai scrittoMai tentato e, infine, Mai concepito.

A questo punto entrarono i ragazzi – e l’avreste detta una folata di vento, se non fosse durata cosí a lungo e non avesse portato con sé una tale sfilza di inveterate banalità. Richard sembrava il pilota venerando, ma tacitamente alcolizzato, nell’abitacolo della logora navetta spaziale: la tavoletta con la molla per i fogli, una lista di controllo di nove pagine, i lancinanti postumi di una sbornia – calze, aritmetica, fiocchi d’avena, libro da leggere, carota grattugiata, hai lavato la faccia, spazzolati bene i denti. Gina comparve a metà della trafila e bevve una tazza di tè in piedi accanto al lavello... Anche se i figli, naturalmente, erano in parte un mistero, Richard, grazie a Dio, conosceva il loro repertorio infantile e il profumo delle loro vite segrete. Ma di Gina sapeva sempre meno. Il piccolo Marco, per esempio, credeva che il mare fosse la creazione di un coniglio che viveva in un’automobile da corsa. Di questo si poteva discutere. Richard, invece, non sapeva in che cosa credesse Gina. Era sempre piú estraneo alla sua cosmogonia personale.

Eccola lí, con la tazza di tè tra le mani e un leggero velo di rossetto, un leggero fondotinta, un leggero vestito di lana. Le altre ragazze lavoratrici con le quali Richard aveva spartito il letto avevano l’abitudine di alzarsi verso le undici di sera per interfacciarsi con l’altro mondo. Gina faceva tutto in venti minuti. Il suo corpo non le frapponeva ostacoli: i capelli lava-e-vai, le orbite candide, che richiedevano appena un accenno di ombretto, la lingua color salmone, la defecazione lampo, il corpo amato da ogni genere di indumento. Gina lavorava due giorni alla settimana, qualche volta tre. Ciò che faceva nel campo delle pubbliche relazioni sembrava a Richard molto piú misterioso di ciò che faceva, o avrebbe dovuto fare, lui nel suo studio. In quel momento la sua faccia, come il sole, vietava qualsiasi sguardo diretto, anche se naturalmente il sole brilla in maniera scriteriata sempre e dappertutto e se n’infischia di chi lo guarda. Richard si chinò per allacciare una stringa di Marius con la punta rosicchiata delle dita, e la vestaglia si tese sul suo corpo.

– Falla corta! – disse Marius.

– Vuoi una tazza di tè? – disse Gina, a sorpresa.

– Toc toc, – disse Marco.

Richard, nell’ordine, disse: – La sto facendo corta. No grazie, sto bene cosí. Chi è?

– Tu, – disse Marco.

– No, falla corta. Dài, papi! – disse Marius.

Richard disse: – Tu chi? Non si dice falla corta. Si dice spicciati. Ci sto provando.

– Sono pronti? – disse Gina.

– Chi cerchi? Toc toc, – disse Marco.

– Penso di sí. Chi è?

– E gli impermeabili?

– Bau.

– Che bisogno hanno dell’impermeabile?

– I miei figli non escono senza impermeabile.

– Bau, – disse Marco.

– Li porti tu?

– Bau a chi? Sí, pensavo di portarli io.

– Perché piangi?

– Ma se non sei nemmeno vestito.

– Mi vestirò adesso.

– Perché piangi?

– Sono le nove meno dieci. Li porto io.

– No, li porto io.

– Papi! Perché piangi?

– Eh? Non sto piangendo.

– Questa notte piangevi, – disse Gina.

– Davvero? – disse Richard.

Ancora in vestaglia, e scalzo, seguí la famiglia in corridoio e giú per le quattro rampe di scale. Presto moglie e figli lo distanziarono. Quando svoltò sull’ultimo pianerottolo, la porta d’ingresso si aprí – si richiuse – e con un guizzo della coda la folata di vita si dileguò.

Richard raccolse la copia del «Times» e la misera posta (cosí marroncina, cosí sgradita, cosí lenta ad attraversare la città). Sfogliò con cura, poi con furia, il giornale finché non trovò Oggi Compiono gli Anni. Ed eccolo lí. C’era persino una fotografia, a guancia a guancia con la moglie: Lady Demeter.

Alle undici Richard Tull compose il numero e, quando Gwyn Barry in persona rispose al telefono, gli venne il batticuore per l’eccitazione.

– Pronto?

Richard espirò e disse in tono misurato: – ... Allora, vecchio catorcio.

Gwyn fece una pausa. Poi i vari elementi si riconciliarono nella sua risata, che fu graduale, indulgente e persino abbastanza schietta. – Richard, – disse.

– Non ridere a quel modo. Rischi uno strappo muscolare, o di romperti l’osso del collo. Quarant’anni. Ho visto il tuo necrologio sul «Times».

– Di’ un po’, vieni anche tu, oggi?

– Sí, ma tu faresti meglio a non venire. Mettiti tranquillo davanti al caminetto. Con una coperta sulle ginocchia. E una gerontopillola nella limonata calda.

– Va bene. Adesso basta, – disse Gwyn. – Allora, vieni anche tu?

– Penso di sí. Potrei passare da te verso la mezza, cosí prendiamo un taxi insieme. Che ne dici?

– Alla mezza. Aggiudicato.

– Ci vediamo, vecchio catorcio.

Richard si fece un piantino, poi andò a trovare lo specchio del bagno, e fu una visita lunga e costernata. La mente gli apparteneva, e Richard si considerava totalmente responsabile di ogni sua azione, presente e futura. Ma il corpo. Passò il resto della mattina a ripercorrere a ritroso la prima frase di un articolo di 700 parole su un libro di 700 pagine su Warwick Deeping. Come i gemelli, Richard e Gwyn Barry erano separati da un solo giorno. Richard avrebbe compiuto quarant’anni l’indomani. L’informazione non sarebbe comparsa sul «Times»: il «Times», il giornale che fa testo. Al 49E di Calchalk Street viveva una sola celebrità; e non era famosa. Gina era una celebrità genetica. Era bella – ogni centimetro del suo corpo era bello – e non cambiava. Invecchiava, ma non cambiava. Nella galleria delle vecchie fotografie era sempre uguale, con quello sguardo che ti faceva abbassare gli occhi, mentre tutti gli altri sembravano ignominiosamente proteiformi, Messia in caffetano, Zapata imbasettati. A volte Richard desiderava che non fosse cosí: che non fosse cosí bella. Nel suo presente travaglio. Il fratello e la sorella di Gina erano ordinari. Ordinario era stato anche il defunto padre. La madre per il momento era ancora in circolazione, grassa e sfatta e ancora, a modo suo, massicciamente carina, relegata da qualche parte in un letto.

Siamo tutti d’accordo – e dài, lo siamo – sulla bellezza della carne. In questo campo il consenso è possibile. E nella matematica dell’universo la bellezza ci aiuta a stabilire se le cose sono vere o false. Sí, possiamo immediatamente trovarci d’accordo sulla bellezza, nell’eros e nell’astronomia. Ma non dappertutto. Non, per esempio, sulla pagina.

Nel furgone Scozzy guardò 13 e disse:

– Morrie va dal dottore, mi segui?

– Ti seguo, – disse 13.

13 aveva diciassette anni, ed era nero. Il suo vero nome era Bently. Scozzy aveva trentun anni, ed era bianco. Il suo vero nome era Steve Cousins.

Scozzy disse: – Morrie dice al dottore: «Non mi si rizza piú con mia moglie. Mia moglie Queenie. Con Queenie non mi si rizza piú».

Sentendo questo, 13 fece qualcosa che i bianchi hanno quasi smesso di fare. Ghignò. Una volta lo facevano anche i bianchi, anni or sono. – Allora? – disse 13 eccitato. Morrie, Queenie: tutti ebrei, pensò.

Scozzy continuò: – Allora il dottore dice: «Bella sfiga. Senti. Ci sono delle pillole che vengono dalla Svezia. L’ultimo ritrovato. Un po’ care. Diciamo un tappeto a pillola. D’accordo?»

13 annuí: – Se lo dici tu.

Erano seduti nel furgone color arancio e bevevano lattine di Ting: spremuta di ananas e pompelmo. Giro, il grasso cane di 13, si era acculato tra i sedili, sul freno a mano. Se ne stava immobile ma ansimava come se fosse in fregola.

– «Prendine una e ti resterà duro per quattro ore. Una scopata con i fiocchi». Cosí Morrie torna a casa, giusto? – Scozzy fece una pausa, poi proseguí meditabondo: – Dopo un po’ Morrie telefona al dottore e gli dice: «Ho appena preso una di quelle pillole, ma indovina un po’».

13 si girò verso Scozzy e aggrottò la fronte.

– «Queenie è andata per compere. Tornerà tra quattro ore!» Allora il dottore dice: «Questa è una faccenda grave, amico. Non c’è nessun altro in casa?» E Morrie: «Sí, la ragazza alla pari». E il dottore: «Com’è?» «Diciott’anni, due tette cosí». Allora il dottore dice: «Va bene. Sta’ calmo. Fallo con la ragazza alla pari. Dille che si tratta di un’emergenza. Di un problema medico».

– Cosa c’entra il problema medico, – mormorò 13.

– «Be’, non saprei,» dice Morrie. «Insomma, un tappeto a pillola? Mi sembra un terribile spreco. La ragazza me lo fa venire duro solo a guardarla».

Ci fu un attimo di silenzio.

Giro trangugiò e riprese ad ansimare.

13 si appoggiò allo schienale. Ghigno e corruccio si contendevano la sua faccia. Vinse il ghigno.

– Sí, – disse 13. – Una bella scopata sul tappeto.

– ... Che cacchio c’entra il tappeto?

– L’hai detto tu.

– Che cosa?

– Che per la pillola ci vuole un tappeto.

– Sant’Iddio, – disse Scozzy. – Le pillole costano un tappeto. Ciascuna.

13 aveva l’aria un po’ infelice. Una cosa da niente. Gli sarebbe passata.

– Un tappeto. Cristo. Non dirmi che non lo sai.

Niente, una cosa da niente.

– Cazzo! Un tappeto. Sono trecento sterline.

Gli era passata. 13 sorrise debolmente.

Scozzy aggiunse: – Se non le sai tu queste cose, che sei sempre in galera.

Con una repentinità da film dell’orrore (Giro smise di ansimare), Richard Tull comparve in primo piano sulla sinistra del parabrezza del furgone e trasalí vedendoli, poi proseguí barcollando per la sua strada. Giro trangugiò e ricominciò ad ansimare.

– Ahi, – disse Scozzy.

– Il nostro uomo, – si limitò a dire 13.

– Non è il nostro uomo. Il nostro uomo è l’altro. Lui è l’amico –. Scozzy annuí, sorrise e scosse la testa. Tutto questo accavallarsi di cose gli piaceva da matti. – E Schianto si occupa della moglie.

– Il nostro uomo, – disse 13. – Quello che va in tivú –. Poi aggrottò la fronte e aggiunse: – Io alla tele non l’ho mai visto.

Steve Cousins disse: – Guardi solo quella cagata di Sky.

Richard suonò il campanello di Holland Park e, con il farfallino che gli dava un’aria un po’ smarrita, si presentò alla telecamera del sistema a circuito chiuso, la quale, con fare offensivo, si girò di scatto verso di lui nella massiccia intelaiatura sopra la porta. Richard si preparò anche mentalmente. Quel che cercava era uno stato di prontezza basato sulla disparità. E non lo trovava mai. L’apparato scenico di Gwyn lo smontava sempre. Si sentiva come il cadetto rammollito sul sottomarino nucleare, che chiacchiera del piú e del meno con uno dei compagni mentre svita un bullone nella camera di lancio (controllo di routine), e di colpo viene sbattuto a terra da uno spumeggiante fallo di acqua di mare. Giú giú in profondità, con chissà quante atmosfere. La pressione di tutto ciò che Gwyn possedeva.

Per fare un esempio che in quel momento incombeva su di lui in maniera ingombrante, la casa. Richard ne conosceva bene la mole e le dimensioni, l’ambito e la portata: per un anno era andato a scuola in un edificio identico dall’altra parte della strada. L’istituto, che inzeppava studenti preparandoli agli esami, era ormai defunto, come il padre di Richard, che aveva tirato la cinghia per mandarvi il figlio. L’edificio, oltre a venticinque tra insegnanti e non, ospitava piú di duecento allievi – un ecosistema di estrogeno e testosterone, guance velate dalla peluria, scoppi d’ira, lotte, simpatie, primi amori. Quel turbinante mondo a strati era svanito. Ma ora, in un luogo di pari dimensioni, di pari volume, vivevano Gwyn e Demeter Barry. Già. E i domestici... Richard girò la testa di qui e di là come se gli facesse male il collo. La telecamera continuava a fissarlo incredula. Con folle orgoglio, Richard cercò di reggere il suo sguardo. Anche se può sembrare strano, non peccava di cupidigia. Era raro che nei negozi vedesse qualcosa che lo attirasse. Gli piaceva lo spazio, ma faceva volentieri a meno della roba con cui siamo soliti riempirlo. Eppure, com’era tutto piú bello, pensò, ai vecchi tempi, quando Gwyn era povero.

Dopo essere stato ammesso nella casa, Richard fu accompagnato al piano di sopra, naturalmente non da Demeter (che a quell’ora era chissà dove in fondo ai grandi corridoi), né da una cameriera (anche se le cameriere, le varie Ming e Atrocia, imballate e spedite qui da San Paolo o da Vientiane, non mancavano), né da un rappresentante dello stuolo di addetti alle migliorie (qualcuno in giro c’era sempre, fosse l’architetto titolato o l’idiota in tuta da lavoro con la bocca piena di chiodi): Richard fu accompagnato al piano di sopra da un nuovo tipo di ausiliaria, una collegiale o studentessa o laureata americana, i cui capelli lisci, la cui bocca austera, la cui intelligenza dagli occhi castani e dalle sopracciglia nere dicevano che Gwyn, tra le altre cose, era diventato un’operazione, tutta fax e Xerox e preselezione. Nel corridoio, Richard vide sotto un ampio specchio una mensola infestata di inviti di cartoncino o addirittura di legno compensato... Pensò al furgone in strada, con un mese di tabloid incuneati tra cruscotto e parabrezza. E ai due tizi all’interno, uno bianco, uno nero, e al grasso alsaziano, piú orso che cane, con il suo cravattone di lingua.

Gwyn Barry stava avvicinandosi al momento culminante di un duplice incontro con intervistatore e fotografo. Richard entrò nella stanza e la attraversò in diagonale con la mano alzata in un gesto discreto, poi si sedette su uno sgabello e prese una rivista. Gwyn era sul sedile sotto la finestra, nel suo abbigliamento da archeologo, cui s’aggiungeva quell’aura archeologica data dalla vita all’aperto, dalle rudi ricerche, dall’abbronzatura. Riempiva i suoi lineamenti minuti con eleganza, cosí come i suoi capelli seguivano ordinatamente la linea (per ora solo una maldicenza) dell’arretramento tricologico maschile. I capelli di Gwyn erano grigi, ma di un grigio brillante: non il grigio inglese della pelle d’anguilla o dell’ardesia bagnata; non ancora il grigio causato dall’esaustione del pigmento e dalla secchezza. Capelli grigio brillante – i capelli (pensò Richard) di un evidente ciarlatano. Detto per inciso, anche Richard stava diventando calvo, ma in modo anarchico. Non c’era ritirata regolare, con la pelle che avanza verso la cucuzza come il livello dell’acqua. Sulla testa di Richard, la perdita dei capelli avveniva a sprazzi, a ciuffetti, a manciate. Le visite al barbiere, ormai, gli mettevano paura, oltre a essere apparentemente senza speranza, come le visite al direttore della banca, o all’agente – o al meccanico, sulla Maestro rosso pomodoro.

– Che impressione le fa, – stava dicendo l’intervistatore, – compiere quarant’anni?

– Buon compleanno, – disse Richard.

– Grazie. Non è che un numero, – disse Gwyn. – Un numero come un altro.

La stanza – lo studio di Gwyn, la sua biblioteca, il suo laboratorio – era un postaccio. Quando entrava lí dentro, Richard usava la tattica di fissare come un ipnotizzatore gli avidi occhi verdi di Gwyn, per timore che il suo sguardo finisse su qualcosa d’altro. Non era particolarmente turbato dall’arredamento, o dalla lontananza del soffitto, o dalle belle proporzioni delle tre finestre che davano sulla facciata. Non era turbato affatto dalla piattaforma spaziale piena di floppy disc e laser che troneggiava in mezzo alla stanza. Quello che lo turbava erano i libri di Gwyn: i libri di Gwyn, che ormai si moltiplicavano e ramificavano all’impazzata. Ti cadeva l’occhio sulla scrivania, ti cadeva l’occhio sul tavolo, e che cosa vedevi? Il rilucente obbrobrio di Gwyn in spagnolo (fascetta con citazioni e aggiornamento delle ristampe), o un’edizione economica per un club del libro o un supermercato americano, o qualcosa in ebraico o in mandarino o in caratteri cuneiformi o in pittogrammi, qualcosa dall’aspetto innocente che tuttavia mai si sarebbe trovato lí se non fosse stato uno dei libri di Gwyn. E poi Gallimard e Mondadori e Alberti e Zsolnay e Uitgeverij Contact e Kawade Shobo e Magvetö Könyvkiadó. In passato Richard aveva avuto parecchie opportunità di curiosare nello studio di Gwyn, sulla sua scrivania, tra le sue carte. I curiosi curiosano per soffrire? Probabilmente. Immagino che ci siano molte ragazze che. Le farà piacere sapere che il. I suoi biglietti aerei saranno. I giudici sono giunti a una decisione in meno di. Queste condizioni sono, a nostro avviso, eccezionalmente. Sto cominciando a tradurre il suo. Ecco una fotografia dell’interno della mia. Richard smise di sfogliare la rivista che aveva in grembo (si era imbattuto in un’intervista con Gwyn Barry), si alzò in piedi e si mise a esaminare gli scaffali. Erano in rigoroso ordine alfabetico. Gli scaffali di Richard non erano in ordine alfabetico. Richard non aveva mai avuto tempo di ordinarli alfabeticamente. Era sempre troppo impegnato – a cercare i libri che non riusciva a trovare. Aveva libri ammucchiati sotto i tavoli, sotto i letti. Libri ammucchiati sui davanzali al punto da oscurare il cielo.

Intervistatore e intervistato stavano concludendo chissà quale fanfaluca sull’ingannevole semplicità della prosa dell’intervistato. A differenza dell’intervistatore, il fotografo era donna, una ragazza, vestita di nero, nordica, gambalunga – come si accucciava e si protendeva per scattare le immagini di Gwyn! Richard sospirò senza ritegno e rimase a guardare. L’essere fotografati, di per sé, era un’attività che non valeva la pena invidiare. Ciò che invece era invidiabile, oltre che incredibile, era che valesse la pena fotografare Gwyn. Che cosa succedeva dentro quella faccia strafotografata – che cosa succedeva alla testa che c’era dietro? Gli Yanomani e gli Ukuki avevano sicuramente visto giusto. Un’istantanea non fa nulla, ma il continuo scatto delle mascelle della macchina fotografica, questo sí, alla fine ti ruba la realtà. Probabilmente, piú ti fai fotografare, piú si assottiglia la tua vita interiore. La posa è un tempo morto per l’anima. Può forse pensare, la testa, mentre ripete lo stesso sorrisetto sotto lo stesso sguardo leggermente corrucciato? Se tutto ciò è vero, allora l’anima di Richard era in gran forma. Nessuno piú lo fotografava, nemmeno Gina. Quando, dopo una delle sempre piú rare vacanze dei Tull, si andavano a ritirare le fotografie, Richard non c’era mai: Marius, Marco, Gina, magari un contadino o un bagnino o un asino – e poi il gomito o il lobo dell’orecchio di Richard proprio ai margini dell’inquadratura, ai margini della vita e dell’amore... L’intervistatore disse:

– Molti sono convinti che, essendo diventato un personaggio, il suo prossimo passo sarà la politica. Lei che cosa... Ha forse intenzione...?

– La politica, – disse Gwyn. – Perbacco. Be’ non posso dire di averci pensato molto. Almeno finora. Diciamo che non me la sentirei di escluderlo. Al momento.

– Parli già come un politico, Gwyn.

Questo era Richard. La battuta fu accolta bene – perché, come spesso viene fatto notare, abbiamo tutti bisogno di una bella risata. O di una risata qualsiasi. E il bisogno, evidentemente, è disperato. Richard chinò la testa e si girò dall’altra. No, in realtà non era questo il genere di cose che avrebbe voluto dire. Assolutamente. Ma il mondo di Gwyn era parzialmente pubblico. Mentre il suo era pericolosamente, crescentemente privato. E alcuni di noi sono schiavi della propria vita.

– Credo che mi accontenterò di scrivere, – disse Gwyn. – Anche se le due cose non sono incompatibili, no? Il romanziere e il politico si occupano entrambi del potenziale umano.

– Laburista, dunque.

– Ovviamente.

– Naturalmente.

– Naturalmente.

Naturalmente, pensò Richard. Già: era naturale che Gwyn fosse laburista. Era ovvio. Ovvio non per le ondulate cornici del soffitto, sei metri sopra la loro testa, non per i lampadari di ottone, e neppure per la floridezza militare della scrivania con il piano di pelle. Ovvio perché Gwyn era quel che era, uno scrittore, in Inghilterra, alla fine del XX secolo. Una persona cosí non poteva essere altro. Anche Richard era laburista, per ragioni altrettanto ovvie. Spesso, frequentando gli ambienti che frequentava e leggendo ciò che leggeva, aveva l’impressione che in Inghilterra fossero tutti laburisti, tranne il governo. Gwyn era figlio di un maestro di scuola gallese (la sua materia? Ginnastica. Insegnava ginnastica). Adesso era borghese e laburista. Richard era figlio del figlio di un proprietario terriero delle contee intorno a Londra. Adesso era borghese e laburista. Tutti gli scrittori, tutti gli intellettuali, erano laburisti, e questa era una delle ragioni per cui andavano cosí d’accordo, per cui non si facevano causa o non si menavano in continuazione. Non come in America, dove lo sciancato dell’Alabama deve mescolarsi al nababbo della Virginia, dove il lituano tormentato deve tendere la mano allo spilungone lealista di Cape Cod. Tra l’altro, a Richard non scocciava che Gwyn fosse ricco e laburista. Non gli scocciava nemmeno che Gwyn fosse ricco. È importante stabilire l’esatta natura dell’antipatia (per evitare distrazioni) prima che le cose si mettano veramente male e degenerino. Per colpa sua ho picchiato mio figlio, pensò Richard. Per colpa sua – con mia moglie... Ricco e laburista: questo non era un problema. L’essere sempre stato povero è una buona preparazione alla ricchezza. Migliore dell’essere sempre stato ricco. Che i socialisti bevano pure champagne. Almeno è una novità. E poi, chi se n’infischia? Quand’aveva vent’anni, Richard si era persino iscritto al partito comunista – per quel che cazzo gli era servito.

– La ringrazio molto, – disse l’intervistatore, in tono leggermente sorpreso. Ebbe un attimo di esitazione, in cui fissò sconsolato il suo registratore, poi annuí e si alzò in piedi. A questo punto la presenza della fotografa cominciò a crescere e a espandersi – la sua altezza, il suo aspetto sano.

– Se mi potesse concedere tre minuti in quell’angolo.

– Non poso per i fotografi, – disse Gwyn. – L’accordo era che avrebbe scattato le foto durante l’intervista. Ma niente pose.

– Tre minuti. La prego. Due minuti. Laggiú c’è una luce perfetta.

Gwyn acconsentí. Acconsentí, pensò Richard, con l’atteggiamento di qualcuno aduso a farlo, conscio tanto della propria magnanimità, quanto dei limiti della medesima. Prima o poi il pozzo si prosciugherà, e allora addio acqua fresca.

– Chi ci sarà oggi? – chiese ad alta voce Gwyn, mentre la sagoma della fotografa, tutta borse e tracolle, si frapponeva tra i due uomini.

– Con certezza non te lo so dire –. Richard fece qualche nome. – Comunque grazie, sei gentile a scomodarti proprio il giorno del tuo compleanno.

Ma in quel momento, senza nemmeno girarsi verso di lui, la fotografa gli fece frenetici gesti dietro la schiena per farlo stare zitto. Intanto diceva:

– Bene: ci siamo. Ci siamo. Un po’ piú su. Fermo. Benissimo. Benissimo. Fantastico.

Uscendo, incontrarono in corridoio Lady Demeter Barry. La moglie di Gwyn aveva ventinove anni e l’aria astratta e disorganizzata che si confà a una parente della regina. Come Gina Tull, anche lei non aveva alcun legame con la letteratura all’infuori del matrimonio con un supposto professionista del ramo.

– Hai lezione, tesoro? – domandò Gwyn, avvicinandosi.

Richard aspettò. – Mia cara Demi, – disse poi, producendosi in un inchino rigido e appena accennato prima di baciarla su entrambe le guance.

Il furgone color arancio era ancora davanti alla casa – il sudicio furgone color arancio, con il sudicio interno bianco, e le sudicie tendine color panna che orlavano i finestrini di lato e sul dietro. Dentro c’era Steve Cousins, solo – se si esclude Giro – perché aveva mandato 13 a prendere altre lattine di Ting.

Una scimmia: cinquecento sterline. Un pony: venticinque. Gall’e gallina: dieci. Perché questa iconografia animale per il denaro proletario? Lady Godiva: un biglietto da cinque. E poi il gergo alla rovescia. Orttauq, ettes: che idiozia. Un tappeto stava per tre (e i suoi multipli). E un doppio tappeto era trentatre, e sessantasei era un... Cristo. Questo è gergo, gergo di prigione, e non dovresti usarlo. Steve Cousins non era mai stato in prigione. Non era mai stato in prigione, dato che (come innumerevoli avvocati, in innumerevoli occasioni, avevano stancamente ricordato a innumerevoli tribunali) era incensurato... In quel momento Steve stava leggendo una rivista intitolata «Police Review», ma sul cruscotto aveva anche un libro: Massa e potere di Elias Canetti. La cosa buffa era che, nella cerchia di Steve (un cerchio ellittico ed eccentrico), leggere libri come Massa e potereequivaleva a proclamare che eri stato in prigione – e anche per un bel po’. Occhio al detenuto che sventola il suo Camus e il suo Kierkegaard, la sua Critica della ragion pura e i suoi Quattro quartetti...

Steve. Steve Cousins. Scozz.

Scozz? Scozz aveva i capelli tinti, pettinati a istrice – color sciroppo, o addirittura melassa; ma le radici erano nere (sedimenti di colorante di una fase leggermente anteriore). La chioma sembrava fieno maturo e bagnato sottoposto a un uso sconsiderato di concimi chimici. Dove i colori si mescolavano, i capelli ricordavano i solchi tra i denti di un fumatore. Scozzy non fumava. Non si fuma: si cerca di restare sani e di mantenersi in forma. La sua faccia, nonostante l’assenza del mento (il mento aveva piú o meno le dimensioni del pomo d’Adamo sul quale era appollaiato) era lunga; e in certe condizioni di luce i suoi lineamenti sembravano fatti di piani e di lenti in continuo movimento, come la faccia di un sospetto «scomposta» per lo schermo tivú: imbrattata, e spezzata in quadrati; velata, e spezzata in caselle. Scozzy portava due anellini di filo d’argento su ciascun orecchio. Il suo sguardo anticipatore di violenza era caratterizzato dai soliti occhi sporgenti – ma le labbra si allargavano e si aprivano anche per avidità, spasso e riconoscimento. Non era alto, non era robusto: stupiva la gente quando si toglieva la camicia rivelandosi una lezione di anatomia. Eccelleva nella sorpresa. Nelle zuffe e nelle intimidazioni, la sorpresa era sempre smodata. Perché Steve non si fermava. Quando comincio, non mi fermo. Non mi fermo. Era il genere di criminale che conosce il significato della parola recidivo. Era in gamba. Aveva l’arte. O pensava di averla.

Senza l’accenno di un sorriso, Scozzy ruotò i muscoli del collo mentre 13 faceva scorrere la porta e saliva di nuovo sul furgone. Giro, che adesso era piú indietro, accovacciato nella sua grande pelliccia, sospirò impetuosamente nel sonno.

13 domandò: – Uscito?

– Usciti tutti e due. Hanno preso un taxi.

– Cazzo s’è grande quella casa.

Scozzy si girò verso di lui, buttò fuori il fiato e disse con indulgenza: – Oh, Tredi. Tredi, ragazzo mio. Che cosa ti sei messo in testa? Pensi che siamo venuti qui per ripulirla? Per farci un giretto sgraffignando roba e incasinando tutto?

13 sorrise chinando il capo. Aveva pensato proprio a qualcosa del genere.

– Ma fatti furbo.

– Ehi.

– Fermo.

Tutti e due guardarono.

– La moglie, – disse Scozzy, in tono convinto. – Che va a lezione.

– Gran pezzo di figa, – disse 13. – Oh, sí, – aggiunse ammirato.

Già. Lady Demeter aveva sicuramente l’aspetto di una preda da sogno per un negro: bionda, ricca, ben carrozzata. Ma non era il tipo di Steve. Nessuna femmina umana lo era. No, e nessun maschio.

13 allungò la mano verso la chiavetta d’accensione e alzò gli occhi speranzoso, ma il lento cenno con le palpebre di Steve fu sufficiente a dirgli che per il momento non sarebbero andati da nessuna parte. Con Scozzy finivi sempre con il fare molto ma molto meno di quello che pensavi che avresti fatto. Molto meno, poi molto di piú.

– Schianto l’aveva detto che era un gran pezzo di figa.

Steve parlò in tono neutro. Già, è vero: – Anche la regina ha le tette grosse. Ehi. Queste non sono Ting. Sono Lilt!

– Spremuta di ananas e pompelmo, – disse 13 petulante. – Cristo. Che differenza c’è?

Un’ora a tavola in questo ristorante per ricchi bacucchi amanti del pesce, e stava per succedere qualcosa di straordinario. Niente che vedere con il mondo esterno. Semplicemente, Richard stava per lanciarsi in un discorso appassionato. Sí: un discorso appassionato.

A voi non sembra una cosa straordinaria? Oh, ma lo è. Provate a pensare all’ultima volta che ne avete fatto uno. E non mi riferisco a «Be’, secondo me è assolutamente disdicevole» o «Sei tu che hai tirato in ballo la cosa» o «Sparisci in camera tua, fila a letto». Sto parlando di discorsi: discorsi appassionati. I discorsi non avvengono quasi mai. È ben difficile che ne pronunciamo o ascoltiamo uno. Avete idea di come siamo negati per i discorsi? «Marius! Marco! Siete due... siete davvero due!» Visto come roviniamo tutto? Saliviamo e ripetiamo. Le donne ci riescono, o meglio, spingono i loro discorsi un po’ piú in là, ma in genere, se appena si presenta l’occasione di piangere, la prendono al volo. Non avendo questa possibilità, gli uomini tengono chiusa la bocca. Gli uomini sono tutto esprit de l’escalier, cioè senno di poi. I fossati sono pieni di uomini che vorrebbero avere detto, che vorrebbero tanto avere detto... Prima di cominciare a parlare, lí sul vellutino trapunto di bottoni, Richard si chiese rapidamente se quella del discorso appassionato fosse una risorsa naturale di uomini e donne prima del 1700 – o di quando caspita aveva detto Eliot – cioè prima che pensiero e sentimento si dissociassero. La sensibilità degli uomini, evidentemente, era molto piú dissociata della sensibilità delle donne. Forse, per le donne, la dissociazione non era mai avvenuta. In confronto agli uomini, le donne erano come i metafisici, delle Marvell e delle Donne dotate di cervello e cuore.

Dunque, il suo discorso appassionato. Un discorso appassionato, che si srotola, con pensieri e sentimenti tradotti in dramma dalle parole. Un discorso appassionato, che è quasi sempre una mossa sbagliata.

Come si spiega? In fondo, Richard era lí per fare colpo. Cercava lavoro.

Sarà stato per il posto? Una panca imbottita e semicircolare, cibo, bevande e fumo dappertutto – e piú in là piccoli bunker pieni di vecchi bacucchi che lavoravano pazientemente di mascelle mangiandosi i soldi estorti dai loro antenati?

Sarà stato per la compagnia? Finanziere, rubricista (maschio), rubricista (femmina), editore, cronista, giornalista specializzato in profili, fotografo, capitano d’industria, ministro dei Beni Culturali del governo ombra, Gwyn Barry?

Sarà stato per l’alcol offerto e bevuto? In realtà Richard se l’era cavata molto bene, riuscendo a smaltire un Virgin Mary e una birra chiara prima del whisky di aperitivo. Poi vino a iosa. Ma prima ancora, mentre tutti giravano ancora in tondo, era andato al pub di fronte con Rory Plantagenet – il cronista. Talvolta Richard e Rory si definivano compagni di scuola, il che significava che avevano frequentato la stessa scuola nello stesso periodo. La scuola era la Riddington House – celebre per essere la scuola privata piú scadente delle isole britanniche. Già da qualche anno Richard vendeva pettegolezzi letterari a Rory. Di quanto era stato quell’anticipo. Chi avrebbe vinto il tal premio. Di tanto in tanto, e sempre piú spesso, gli vendeva pettegolezzi su divorzi, infedeltà, bancarotte, disintossicazioni, malattie del mondo letterario. Rory pagava le informazioni, e anche tutto quel che bevevano, a mo’ di mancia. Pagava i livori e i liquori, le spallucciate, le battute dozzinali. A Richard non piaceva farlo. Ma aveva bisogno del denaro. Mentre lo faceva, gli sembrava di avere addosso una camicia nuova da quattro soldi, dalla quale si fosse dimenticato di togliere gli spilli.

Sarà stato per la provocazione? La provocazione, penserà qualcuno, fu notevole. Sufficiente, in ogni caso.

Anche il clima londinese giocò sicuramente la sua parte, con quella sua calda tetraggine meridiana. Come la notte che scende tra le navate della chiesa, i commensali si spandevano e si addensavano... Gwyn Barry si fece fotografare. Il finanziere – Sebby – si fece fotografare. Gwyn Barry fu fotografato con il finanziere. L’editore fu fotografato con Gwyn Barry e il capitano d’industria. Il capitano d’industria fu fotografato con il ministro dei Beni Culturali del governo ombra e con Gwyn Barry. Vi furono due discorsi, previamente scritti su un pezzo di carta – né l’uno né l’altro appassionato. Il capitano d’industria, la cui moglie si interessava di letteratura piú che a sufficienza per entrambi (Richard sapeva che Gwyn cenava spesso da loro), pronunciò un elogio di Gwyn Barry nel giorno del suo quarantesimo compleanno. La cosa portò via circa novanta secondi. Poi il finanziere tenne un discorso durante il quale Richard fumò tre sigarette e fissò con occhi lacrimosi il bicchiere vuoto. Dunque il finanziere stava cercando di ricavare qualcosa in cambio dei suoi soldi. Non si sarebbe trattato solo di un pasto gratis con un po’ di chiacchiere biascicate durante il caffè. Il finanziere parlò del genere di rivista letteraria alla quale avrebbe legato volentieri il proprio nome, cioè del genere di rivista che era disposto a finanziare. Non tanto come la rivista A. E neppure come la rivista B. Piuttosto come la rivista C (defunta) o la rivista D (pubblicata a New York). Poi fu chiesto a Gwyn Barry quale fosse il genere di rivista alla quale lui avrebbe legato volentieri il suo nome (una rivista di buoni principi). Idem al capitano d’industria, al ministro dei Beni Culturali del governo ombra, alla rubricista e al rubricista. Rory Plantagenet non fu consultato. E neppure il fotografo, che intanto se ne stava andando. E neppure, cosa assai deprimente, Richard Tull, che si sforzava di conservare l’illusione che volessero farlo direttore. Le uniche domande che gli venivano rivolte erano di carattere tecnico: tirature, punti di pareggio, e simili.

Aveva un senso, stava domandando Sebby, il finanziere (e la sua immagine pubblica doveva molto a questo diminutivo sbandierato ai quattro venti: poco gli importava, per il momento, di tutti i colleghi pescecani e avvoltoi che aveva lasciato a rabbrividire davanti ai loro monitor), aveva un senso organizzare una ricerca di mercato? Richard?

– Del tipo: profilo del lettore? – Non sapeva cosa rispondere. Disse: – Età? Sesso? Non saprei.

– Pensavo che potremmo rifilare un questionario a... boh, agli studenti di inglese di Londra? Qualcosa del genere?

– Per vedere se amano i buoni principî?

– Per individuare il target, – disse il rubricista, che aveva circa ventott’anni, una barba sperimentale e un’aria da cena di classe. La rubrica del rubricista era di sociopolitica. – Via, non siamo mica in America. Dove il mercato delle riviste è completamente balcanizzato. Dove, come sapete, esistono riviste, – e qui cominciò a guardarsi intorno per mietere gli eventuali sorrisi che sarebbero spuntati di lí a poco, – per i subacquei bidivorziati delle Molucche meridionali.

– Ciò non toglie che vi siano preferenze piú prevedibili di altre, – disse l’editore. – Le riviste femminili sono lette dalle donne. E gli uomini...

Vi fu un attimo di silenzio. Per colmarlo, Richard disse: – C’è forse qualcuno che sia mai riuscito a stabilire una volta per tutte se gli uomini preferiscono leggere gli uomini? E se le donne preferiscono leggere le donne?

– Oh, fatemi il piacere. Cos’è questa storia? – disse la rubricista. – Non stiamo parlando di motociclette, né di modelli per lavorare a maglia. Per amor del cielo, stiamo parlando di letteratura.

A volte, anche quando si trovava in una compagnia nota (in famiglia, per esempio), Richard aveva l’impressione che le persone riunite nella stanza non fossero propriamente autentiche, ma che si fossero assentate per poi tornare non del tutto a posto, mezzo rifatte o rigenerate mediante chi sa quale processo blasfemo, maldestro e soprattutto poco costoso. In un circo, o in un baraccone. Sfaldellate e camuffate. Non proprio in sé. Lui compreso, naturalmente.

Disse: – È davvero cosí poco importante? Nabokov diceva di avere gusti letterari schiettamente omosessuali. Io non penso che gli uomini e le donne scrivano e leggano esattamente allo stesso modo. Si avvicinano al libro in maniera diversa.

– E immagino, – disse la rubricista, – che ci siano anche differenze razziali?

Richard non rispose. Per un momento il suo collo si accorciò in maniera allarmante. In realtà Richard era alle prese con un problema digestivo, o almeno stava contraendo i muscoli nell’attesa che il problema si risolvesse in un modo o nell’altro.

– Stento a credere alle mie orecchie. Pensavo che fossimo qui per parlare di arte. Che cosa ti è preso? Hai bevuto troppo?

Richard le rivolse la propria attenzione. La donna: burbera, grossa, di una bellezza un po’ passata; sempre goffamente a caccia della sua fetta di verità. Richard conosceva il tipo – perché lo conosce la letteratura. Come il femminone compiaciuto della storia di Pritchett, il politico laburista, su nel Nord, fiero della sua bruschezza e del suo bel culone. La rubrica della rubricista non riguardava specificamente il fatto di essere donna. Ma la fotografia sopra la colonna, in un certo qual senso, aveva bisogno dei capelli lunghi e del trucco perché le cose quadrassero.

Il ministro dei Beni Culturali del governo ombra disse: – Ma la letteratura non dovrebbe essere proprio questo? Capacità di trascendere le differenze umane?

– Udite, udite, – disse la rubricista. – A me non importa un accidenti se uno è maschio, femmina, nero, bianco, rosa, violetto o a pois.

– Ed è per questo che non vali niente.

– Basta cosí, laggiú, – disse Sebby. Poi, come se il semplice fatto di pronunciare quel nome fosse balsamico, aggiunse: – Gwyn.

Tutti si voltarono verso di lui in silenzio: Gwyn fissava affascinato il cucchiaino del caffè, con la fronte corrucciata. Lo rimise sul piattino e alzò lo sguardo, e la sua faccia si rischiarò, i suoi occhi verdi si illuminarono.

Lentamente, Gwyn disse: – Ho scoperto che non penso mai in termini di uomini. O in termini di donne. Ho scoperto che penso sempre in termini di... persone.

Vi fu un immediato gorgoglio di approvazione: quasi che Gwyn avesse irrorato l’intera compagnia di buon senso e di schietta umanità. Richard dovette alzare la voce, cosa che gli risvegliò la tosse, ma si lanciò nel suo discorso appassionato.

Tutta colpa di quella piccola pausa estatica prima della parola persone.

– Un’osservazione molto terra terra, se mi è concesso. Ehi, Gwyn. Lo sai che cosa mi fai venire in mente? Uno di quei quiz da rotocalco a colori... sul tipo: «Sei tagliato per fare l’insegnante?» Domanda finale: preferiresti insegnare a) storia, o b) geografia, o c)... ai bambini. Be’, sul fatto di insegnare ai bambini non si può scegliere. C’è invece la possibilità di scegliere, e c’è una differenza, tra la storia e la geografia. Probabilmente ti senti giovane e simpatico quando dici che essere un uomo non significa niente ed essere una donna non significa niente e che l’unica cosa che conta è essere una... persona. Ed essere un ragno. Gwyn? Immaginiamo che tu sia un ragno. Sei un ragno, e hai avuto il tuo primo appuntamento serio. Stai tornando a casa zoppicando, ti volti indietro a guardare, e laggiú c’è ancora la tua ragazza, che sta sgranocchiando una delle tue zampe come se fosse una coscia di pollo. Che cosa diresti? Oh, lo so. Diresti: ho scoperto che non penso mai in termini di ragni maschi. O in termini di ragni femmine. Ho scoperto che penso sempre in termini di... ragni.

Richard si abbandonò contro lo schienale, gemendo o nitrendo ritmicamente per lo sforzo che gli era costato il discorso. Gli mancò il coraggio di alzare gli occhi, di guardare in faccia quell’unanime revisione al ribasso delle sue quotazioni. Cosí rimase a fissare la tovaglia macchiata, e vide solo il sali – no, il scendi – degli ippocampi che vivevano dietro i suoi occhi.

Quella sera, quando Richard tornò in Calchalk Street, erano già le sei. Entrando (la porta d’ingresso dava direttamente sul soggiorno), udí una voce aspra e metallica che diceva qualcosa come:

– Ormai non possiamo piú impedire a Sinistor di portare a termine il suo piano malvagio. La nostra unica speranza è affrontare Terrortron.

I gemelli non staccarono gli occhi dal televisore. Né li staccò Lizzete, la nerboruta ma giovanissima negra che li andava a prendere a scuola nei giorni in cui Gina lavorava, e che guardava la tivú con loro fino a quando Richard non tornava a casa o non usciva barcollando dal suo studio. Anche lei indossava una divisa scolastica. Il nuovo ragazzo di Lizzete, invece, si alzò laboriosamente in piedi, annuí piú volte e tormentò con la scarpa da ginnastica il muscoloso polpaccio di Lizzete finché questa si decise a presentarlo come Teen o Tine. Abbreviativo di Tino? A sua volta abbreviativo di Martino, Valentino? Un ragazzo ben piantato, con un che di morbido nella sua faccia nera, una di quelle facce che alle soglie della mezza età si coprono di rughe sottili invece di restare untuosamente lisce. Richard era contento che i figli si sentissero a loro agio con la gente di colore e addirittura la invidiassero. Lui, a sei anni, davanti al suo primo negro, nonostante l’avessero preparato, istruito e comprato a dovere, era scoppiato in lacrime.

– Ciao, bambini...

Seduti l’uno di fianco all’altro sul divano, Marius e Marco continuarono a fissare i cartoni animati con il solito sguardo basso e intento. Sullo schermo grandi robot sbilenchi e impacciati si trasformavano fluidamente in aeroplani, automobili e razzi, come icone di un nuovo socialismo delle macchine.

– Sinistor preparati a morire. Non sperare che le coorti di Horrortroid possano ancora salvarti.

Richard disse: – Chi battezza questi personaggi? Come facevano i genitori di Horrortroid a sapere che sarebbe stato cosí orribile? E quelli di Sinistor a sapere che sarebbe stato cosí sinistro?

– I nomi se li danno da soli, papi, – disse Marius.

Gina entrò in casa in quel momento, con il suo tailleur e il suo trucco da esterno. I ragazzi alzarono gli occhi e si guardarono in faccia; la stanza si preparò al trasferimento del potere. Richard, con il farfallino di traverso, fissò la moglie con insolita attenzione: gli occhi, incastonati in lividi anelli di tenebra, come un tasso, come uno scassinatore; il naso, un quarto di cerchio caligoleo; la bocca, larga ma non turgida. Richard stava pensando che forse tutte le facce amate coprono ed eccedono lo spettro visibile: il bianco dei denti, il nero delle sopracciglia. Rosso e violetto: la bocca infrarossa, gli occhi ultravioletti. Gina, invece, stava dando a Richard l’occhiata standard: lo guardava come se fosse diventato matto da ormai molto tempo.

Andarono un momento in cucina, mentre Lizzete raccoglieva le sue cose – la borsa, il blazer. Gina disse:

– Hai cinque sterline? Te l’hanno dato il lavoro?

– No. Ma ho le cinque sterline.

Gina gonfiò il petto sotto la camicia bianca. Poi buttò fuori l’aria. – Sfiga, – disse.

– Nessuno si è mai sognato di offrirmi il posto di direttore. Per un attimo ho temuto che volessero offrirmi di lavorare come autista di un furgone. O come venditore di spazi pubblicitari per telefono.

– Perché quella faccia contenta?

Richard avrebbe voluto baciarla. Ma non era in condizioni di poterlo fare. E non lo era da un pezzo.

– Io sono quello, – stava dicendo Marius, riferendosi a un robot, o meglio al capo della comunità dei robot, che scintillava possentemente dietro i titoli di coda.

– No quello sono io, – disse Marco.

– No, tu sei quello, – disse Marius, riferendosi a un altro robot.

– No, quello sei tu. Io sono quello.

– Cristo, – disse Richard, – perché non potete essere quello tutti e due?

E tre secondi piú tardi i denti di Marius erano saldamente conficcati nella spalla di Marco.

Seguito ansiosamente da Lizzete, 13 percorse a grandi passi Calchalk Street, buia e priva di lampioni, e si arrampicò sul sudicio furgone color arancio. Non si chiuse immediatamente alle spalle il portello scorrevole. Anzi, lasciò che una scarpa da ginnastica continuasse a ciondolare, pallida e seducente, dall’orlo della cabina buia.

– D’accordo? – disse Lizzete.

13 si limitò a sorriderle.

– D’accordo?

– Senti, ti porterò giú al Paradox.

– Quando?

– Non ti faranno entrare. Giovedí

Lizzete gli puntò addosso un dito. – Giovedí, – disse.

Finalmente in pace, 13 brancolò con la mano nell’oscurità per cercare l’ultima lattina di Lilt. Strappò la linguetta e assaggiò assetato il succo a temperatura organica. Sul sedile c’era anche un libro. 13 lo guardò corrugando il volto: Massa e potere. Non appena Lizzete si allontanò, la faccia di 13 cambiò. Dalla faccia del ragazzo di colore allegro e forse inetto, anche se fondamentalmente per bene – piú o meno come le facce che ti mostrano in tivú – alla faccia piú vera, allo sguardo calcolatore e insoddisfatto. Era contento di avere visto Gina: la moglie. Almeno aveva qualcosa da raccontare a quel fottuto d’un Adolf. Adolf era Scozzy. Adolf era uno dei soprannomi che Scozzy si portava dietro a sua insaputa. Tra gli altri c’erano Psycho e Gorilla. Tutti abbiamo dei soprannomi che non conosciamo. Per esempio, se hai un’amica oltre alla moglie, allora l’amica ti appiopperà un soprannome che ti conviene non sapere, un soprannome che l’amica userà con le sue amiche o con gli altri amanti. Tutti abbiamo dei soprannomi che non conosciamo e che ci conviene non sapere.

13 sospirò disorientato. Non riusciva a capire che cosa dovesse succedere adesso – il che era tutt’altro che insolito, a ben pensarci, quando si lavorava per Adolf. D’altronde in quella casa non c’era niente, tolta la tele.

Scozzy era da un’altra parte. Non sarebbe stato lí in ogni caso, a quell’ora della sera, ma Scozzy era da un’altra parte. Animato non certo dalle migliori intenzioni, era andato a trovare un socio in ospedale. Il socio, Kirk, era stato masticato a dovere dal suo pitbull Beef. Beef era uscito vivo dalla disavventura. Kirk non aveva voluto che gli facessero l’iniezione. Beef adesso viveva dal fratello di Kirk, Lee, aspettando trucemente la guarigione e il ritorno di Kirk. Perdona e dimentica, diceva Kirk. Mettici una pietra sopra. Sosteneva di essersela cercata: aveva dato in escandescenze, là nel cucinino, per l’esasperante vittoria della Dinamo Kiev – tutta colpa dei gol in trasferta che valgono doppio in caso di parità – ai danni dell’Arsenal.

13 fece la faccia di uno che doveva guidare fino a St Mary per andare a prendere Scozzy, poi, notando l’ora, la cambiò con quella di uno che se ne va a casa per il tè.

Una vera infamia. Ormai il ragazzino nero non può piú essere un semplice ragazzino nero. Ormai nessuno può essere piú un semplice qualcuno. Che peccato.

Prendete Richard. Questo era uno dei giorni in cui Gina lavorava, quindi toccava a lui occuparsi dei ragazzi. Ecco le azioni da lui compiute in maniera coscientemente coscienziosa (o viceversa): bagno, spuntino, libro, cambio acqua alla caraffa, medicine di Marco, ancora libro, le due microscopiche pastigliette di fluoro da cacciare nella bocca umida, bacio. Richard baciava i figli il piú spesso possibile. L’esperienza gli diceva che i figli dovrebbero essere abbracciati e baciati dai padri – che ciò che frega gli uomini è il non essere abbracciati e baciati dai padri. Richard non era stato abbracciato e baciato gran che dal suo. Quindi si imponeva di considerare il rapporto con i figli come puramente sessuale. Li abbracciava e baciava ogni volta che ne aveva occasione. Gina faceva lo stesso, ma lei li abbracciava e baciava perché ne aveva voglia e bisogno, fisicamente.

Quando i ragazzi furono sistemati, Gina scese in camicia da notte, cucinò una braciola d’agnello per Richard, mangiò una ciotola di cereali grezzi e andò a letto. Mentre mangiavano, Gina lesse da cima a fondo un opuscolo di viaggi, Richard le prime sette pagine di Robert Southey: poeta gentiluomo, il prossimo libro da recensire.

Piú tardi, mentre era diretto verso lo studio, dove aveva intenzione di bere scotch e fumare erba per un paio d’ore, e di esaminare il suo nuovo destino, Richard udí un enfatico bisbiglío che veniva dalla porta semiaperta dello sgabuzzino dove dormivano i ragazzi (che presto ne sarebbero straripati): Papi. Richard guardò dentro. Marius.

– Che cosa c’è ancora?

– Papi? Papi, tu che cosa vorresti essere? Un Autobot o un Ingannator.

Richard appoggiò la testa allo stipite della porta. Quella sera i gemelli erano particolarmente sagaci e pertinenti – i gemelli, con la loro vita ingegnosa, la loro tendenza a intrecciare argomenti. Prima, in bagno, Marco aveva indicato con il solito dito storto un ragno «gambalunga» sulla tubatura dell’acqua. Il ragno «gambalunga» aveva le zampe cosí lunghe che rischiava di sgambettarsi da solo; faceva pensare a una di quelle prodi e tragiche giornate di sport per disabili, con le corse a tre gambe, i sacchi, le uova e i cucchiai, per non parlare dei discorsi pieni di riguardo e di buone intenzioni. – Papi? Pensi che sia l’Uomo Ragno? – Papi, con le sue lunghe gambe piegate sulla vasca, aveva risposto: – A me sembra piú un Ragno Ragno.

A Marius disse:

– Autobot o Ingannator. Buona domanda. Come lo sono spesso le vostre. E sai una cosa? Credo di essermi finalmente deciso.

– Quale dei due?

– Non voglio piú saperne di Autobot. Solo Ingannator.

– Anch’io.

– Silenzio, adesso.

Richard si sedette alla scrivania nell’oscurità. Arrotolò e accese; versò e sorseggiò. Era costretto a bere forte quando fumava erba – per sconfiggere la paranoia. Per combattere l’incredibile paranoia. A volte, quando fumava, cominciava a pensare che tutte le televisioni di Calchalk Street crepitassero sommessamente a proposito di Richard Tull: notizie lampo sui suoi fiaschi piú recenti; tavole rotonde sull’oscurità e l’oblio che lo circondavano. Adesso Richard beveva e fumava, e non era né allegro né triste.

Il piú bello, con Gwyn, era successo dopo, nel taxi. Le tre e mezzo, e la luce in strada, il cielo, erano tali e quali il parabrezza trattato del conducente, la metà superiore tutta carbone e petrolio, la metà inferiore un plumbeo bagliore. Richard abbassò il suo finestrino per convalidare questa teoria, e naturalmente il vetro risalí lentamente, frapponendo il proprio filtro. Questo, forse, era l’unico modo per vedere la vera Londra, rasentandone la superficie in taxi, in un luglio da buio a mezzogiorno. I semafori di Londra sono i piú luminosi del mondo, sotto i loro vetri reticolati: la rabbia del rosso, l’itterizia del giallo, la gelosia del verde.

Il profilo accanto a lui manteneva il silenzio, cosí Richard disse baldanzosamente: – Ma l’hai sentita quella donna? Sai, si crede proprio autentica. Mentre... – Fece una pausa. Mentre a lui sembrava orrendamente finta. – Nubile, immagino. Puzzava di zitellume.

Gwyn si girò verso di lui.

– Zitellume. Zitellume. Allora gli uomini celibi puzzano di scapolaggine.

Gwyn si girò di nuovo dall’altra e scosse la testa, tristemente. Queste cose non si dicono. E non solo per ragioni pubbliche. Richard dedusse (forse a torto, forse con un eccesso di interpretazione) che Gwyn intendesse qualcosa come: queste cose non si dicono perché l’intero argomento risulta contaminato – contaminato da uomini che odiano veramente le donne. Forse Richard aveva fatto un esempio sbagliato, tirando in ballo i ragni. La gente avrebbe pensato che odiasse solo le donne ragno. O che fosse convinto che le donne fossero ragni. Comunque sia, si ostinò e disse:

– Zaffate di zitellume. Miasmi di zitellume.

Gwyn gli fece un cenno con la mano.

– Se vuoi ti posso descrivere il puzzo. Immaginati uno sterminio di trucco rovinato dalla pioggia. Oppure un...

– Per piacere, si fermi all’angolo.

No, niente di grave. Gwyn voleva solo comprare un giornale della sera dallo strillone. Cristo, la luce oltre la portiera aperta sembrava la fine di Londra, la fine di tutto; il suo sgocciolante bagliore era ormai livido, qualcosa che non avresti voluto toccare per nulla al mondo, come le zampe color carne dei piccioni sotto i loro sudici soprabiti.

Il taxi riprese il suo interminabile viaggio, il suo viaggio ferma e vai, ferma e vai. Gwyn aprí il giornale, diede un’occhiata alla cronaca e alla fine disse:

– Be’, qui non se ne parla.

Richard lo stava fissando. – Non si parla di che cosa?

– Del pranzo. Del tuo piccolo sfogo.

Richard indurí lo sguardo. – Sollevato, eh?

Gwyn controllò il proprio tono. Disse: – Era un pezzo che nessuno mi parlava in quel modo.

– Davvero? Be’, questa volta non dovrai piú aspettare cosí a lungo. Perché c’è qualcuno che ti parlerà di nuovo in quel modo proprio adesso. Quella è l’edizione di mezzogiorno. Pensi che il tipo telefoni direttamente le notizie al chiosco? È una fortuna che nessuno sappia quanto sei stupido. Che razza di coglione sei. Quello sí che sarebbe uno scoop.

– Non si parla nemmeno della proposta di lavoro, – disse Gwyn, continuando a scandagliare la pagina con occhi acuti.

– Non c’è stata nessuna proposta di lavoro.

– Oh, sí. Mentre tu eri impegnato in una delle tue visite al cesso. Naturalmente l’ho rifiutata. Insomma, come se io...

Il taxi accostò al marciapiede. Chinandosi in avanti, Richard disse: – Un’ultima cosa. Perché non posso parlare di zitellume?

– Perché la gente comincerebbe a girarti alla larga.

Mentre usciva dal taxi e si infilava in Marylebone High Street, una specie di segreta illuminata di vetrine, la prima goccia di pioggia gli scoccò un bel bacio grigio su una chiazza pelata. Richard si diresse verso gli uffici della Tantalus Press.

Piú o meno a questo punto della storia, i sentimenti perdono lucidità e definizione, e diventano caratterizzati da qualcosa di corporeo. Qualcosa di grossolano e arruffato nella rabbia, qualcosa di rancido e polmonare nel dolore, qualcosa di tossico e zannuto nell’odio... Richard dispose i suoi pensieri in ordine di presentazione, come farebbe uno scrittore: cose da mettere dentro a ogni costo. E allo stesso tempo sperimentò una di quelle espansioni impreviste che gli artisti conoscono molto bene, quando, in maniera quasi udibile all’orecchio interno, le cose ruotano e si riallineano (la dose torna utile), e tutto diventa chiaro. Non siamo noi che lo facciamo: è il nostro talento che provvede. Richard si tirò su sulla sedia. Era in uno stato di equilibrio, né gradevole né sgradevole, ma saldo. Improvvisamente annuí. E in quell’istante il compito che lo attendeva si cristallizzò. Un’impresa letteraria, una ricerca, qualcosa di esaltante, qualcosa cui avrebbe potuto dedicare senza cedimenti tutta la sua passione e tutte le sue forze.

L’avrebbe messa nel culo a Gwyn.

Fuori era appesa una falce di luna. Sembrava Pulcinella. Ma dov’erano le altre marionette?

Voliamo un miglio verso oriente sulla nostra nave del pianto, fino a incontrare le guglie di Holland Park, le antenne, la casa, il tetto a strati, i sistemi d’allarme, la finestra del primo piano, resa cieca dai riflessi, affacciata sul giardino silenzioso. La finestra è quella della camera da letto del padrone, dove il padrone dorme. Non entrerò – non ancora. Quindi non so che odore abbia il suo letto, e nemmeno s’egli pianga di notte.

Come Richard.

Perché piangono gli uomini? Per colpa delle lotte e delle gesta e della maratona delle promozioni, perché vogliono la mamma, perché restano ciechi anche con il passare del tempo, per colpa di tutte le erezioni che devono inventarsi sul piú bello dal nulla, per colpa di tutto ciò che gli hanno fatto. Perché non possono piú essere felici o tristi – solo sbronzi o pazzi. E perché non sanno che pesci pigliare quando sono svegli.

E poi c’è l’informazione, che arriva di notte.

Il giorno dopo toccava a lui: Richard girava la boa dei quaranta. Girare è il verbo giusto. Come una bistecca cotta a metà, come una tigre in gabbia, come una vecchia pagina, come un discorso, Richard girava. E non cambiava nulla. Rottame era, rottame restava.

Solo perché portava farfallini vivaci e panciotti fantasia non voleva dire che non stesse cadendo a pezzi. Solo perché dormiva in pigiami a disegnini persiani non voleva dire che non stesse rimbambendo. Farfallini e panciotti erano craterizzati da macchie e bruciature. I pigiami a disegnini persiani erano sempre fradici di sudore.

Chi era costui?

A ventott’anni, quando viveva di recensioni e sussidi statali, pallido, magro e curiosamente dissoluto, quasi sempre con una camicia bianca senza colletto e un paio di jeans infilati negli stivali marroni e deformi – con il suo aspetto da exallievo di scuola privata che, per ben che vada, fa qualche maldestro (colpa della droga) lavoretto di falegnameria o di giardinaggio, con la sua feroce passione politica e le sue incantevoli storie d’amore, in cui di solito era il piú crudele dei due – Richard Tull pubblicò il suo primo romanzo, Premeditazione, in Inghilterra e in America. Omogeneizzando tutte le recensioni (ancora conservate da qualche parte in una busta sgualcita) per tenere conto dei diversi quozienti intellettuali e gradi di generosità, si sarebbe giunti a un verdetto di questo genere: nessuno aveva capito, né tanto meno finito, Premeditazione, ma allo stesso tempo nessuno era disposto a giurare che fosse uno schifo. Richard sbocciò. Smise di ricevere i sussidi statali. Comparve in Meglio leggere: i tre critici che facevano colazione nel loro cantuccio, Richard dietro un tavolo con un’invisibile Gauloise che gli fumava nella mano tremante – sembrava che i suoi pantaloni avessero preso fuoco. Tre anni dopo, tre anni durante i quali era diventato redattore del settore arte e libri di una piccola rivista chiamata «La piccola rivista» (piccola allora, ancora piú piccola oggi), Richard pubblicò, in Inghilterra ma non piú in America, il secondo romanzo, I sogni non significano nulla. Il terzo romanzo non fu pubblicato da nessuna parte. E cosí il quarto. E il quinto. In queste tre brevi frasette lasciamo intravedere un intero Mahabharata di sofferenza. Richard ricevette un bel po’ di offerte per il sesto romanzo, perché ormai, durante un periodo di rincretinimento da sogno e bisogno, aveva cominciato a rispondere agli annunci che molto prosaicamente dicevano: PUBBLICHIAMO IL TUO LIBRO, oppure EDITORE LONDINESE CERCA (o era NECESSITA?) AUTORI. Naturalmente questi editori, che ululavano in cerca di parole da stampare come cani in calore sotto una luna struggente, non erano editori normali. Per esempio, dovevi pagarli. E, cosa forse ancora piú grave, nessuno ti leggeva mai. Richard perseverò e finí da un certo Mr Cohen in Marylebone High Street. Ne uscí con il suo sesto romanzo ancora da piazzare ma con un nuovo lavoro, quello di Direttore Speciale della Tantalus Press. Vi andava circa un giorno alla settimana, adescando e taglieggiando romanzi di analfabeti, autobiografie a svisceramento totale in cui mai nessuno si muoveva o faceva qualcosa, raccolte di poesie primitive, prolissi lamenti in morte di un parente (o di un cagnolino, o di una pianta), trattati scientifici demenziali e, sempre piú spesso, cosí almeno gli sembrava, monologhi drammatici «trovati per caso» sulla psicosi maniaco-depressiva e la schizofrenia. Da qualche parte Premeditazione e I sogni non significano nulla esistevano ancora: su davanzali di pensioncine in riva al mare, su scaffali di biblioteche d’ospedale, in fondo a scatoloni riposti in soffitta, spediti a dieci pence l’uno alle fiere provinciali del libro... Come la tale dilacerata tra tocco accademico e gambe artificiali (e che discorso di accettazione commovente aveva fatto), come l’atleta ridanciano che, dopo quell’incidente nel posteggio, si era di colpo ritrovato a organizzare una rete di beneficienza dal suo trespolo imbottito, Richard non sapeva ancora se l’esperienza della delusione lo avrebbe riempito di amarezza o reso migliore. Lo riempí di amarezza. Gli spiaceva, ma non poteva farci niente. Non era nato per diventare migliore. Continuò a recensire libri. Era molto bravo a scrivere recensioni. Quando recensiva un libro, il libro non si scrollava piú di dosso la recensione. Per il resto era un exromanziere (forse non tanto ex quanto vuoto, o fantasma), redattore letterario de «La piccola rivista» e Direttore Speciale della Tantalus Press.

L’amarezza è sopportabile. Pensate solo a come tutti noi ci sguazziamo. Ma successe di peggio, e lí cominciarono i veri guai. Era un autunno vischioso, e Richard aveva smesso di uscire con le ragazze (era sposato ormai), e Gina stava aspettando non uno ma due bambini, e stavano arrivando le letterine di rifiuto per il romanzo numero quattro, Vermi invisibili (ma se lo meriterà il corsivo, visto che non è mai nato?), e lo scoperto in banca gli trapanava il cervello ogni volta che osava pensarci: immaginate dunque la gioia di Richard quando Gwyn Barry, l’amico di piú antica data, oltre che piú stupido, annunciò che il suo primo romanzo, Summertown, era appena stato accettato da una delle principali case editrici di Londra. Poiché, almeno in parte, si rendeva conto che le cose che piú ci fanno imbestialire quasi sempre devono succedere, Richard si era preparato all’evento – o se non altro se l’aspettava. Da lungo tempo era un divertito confidente delle aspirazioni letterarie di Gwyn, e aveva letto ridacchiando alcune versioni precedenti di Summertown – oltre a un paio di predecessori abbandonati. SummertownSummertown era un libro su Oxford, dove i due scrittori si erano conosciuti; dove vent’anni prima avevano abitato insieme in un paio di camere nel maestoso obbrobrio di Keble College, e piú tardi in un rudimentale alloggetto in una traversa di Woodstock Road. A Summertown, vent’anni prima. Vent’anni, pensò Richard, quaranta oggi: oh, dove se ne sono andati? Il primo romanzo di Gwyn era non meno autobiografico della maggior parte dei romanzi d’esordio. C’era anche Richard, maldestramente e frettolosamente camuffato (era pur sempre il comunista promiscuo con tanto di poesie e di coda di cavallo), ma descritto in maniera affettuosa e persino romantica. Il narratore, alias Gwyn, era esangue e gallese, il tipo di personaggio che, secondo le convenzioni del romanzo, osserva tutto in silenzio – mentre in genere la realtà provvede a far sí che chi suda in silenzio sudi in silenzio e basta, e non abbia nulla da dire. Tuttavia, Richard ammetteva che la figura di Gwyn era l’unica forza del libro: un autentico babbeo, un osservatore babbeo che inviava grandi notizie dal mondo dei babbei. Il resto era puro trex 1: fantasticamente pedestre. Cercava di essere «commovente»; ma l’unica cosa commovente di Summertown era la sua convinzione di essere un romanzo. Alla pubblicazione era stato accolto con vendite modeste e (sempre stando a Richard) critiche ignominiosamente benigne. L’anno seguente una piccola edizione tascabile aveva zoppicato per un paio di mesi... Potremmo dire che Richard stava assaggiando il fresco fallimento del suo sesto romanzo – senonché i fallimenti non sono mai freschi, ma sempre un po’ stantii, e frizzano leggermente, come lo yoghurt vecchio – quando Gwyn gli mandò le bozze rilegate del suo secondo libro, intitolato Amelior. Se leggendo Summertown Richard aveva ridacchiato, leggendo Amelior si lasciò andare a stridule risate e possenti jodel: la grazia, la mellifluità, i punti e virgola ingenuamente pomposi, la totale assenza di umorismo e di avvenimenti, le immagini di seconda mano, la trasparenza quasi affettuosa delle piccole combinazioni di colore, le simmetrie da gioco di costruzioni per bambini... Qual era l’«argomento» di Amelior? Non era autobiografico: raccontava di un gruppo di giovani di animo nobile che, in un paese innominato, lottavano per creare una comunità rurale. Ci riuscivano. Fine. Già indegno d’esser scritto in partenza, il libro finito, secondo Richard, era un fiasco ridicolo. Sicché aspettava con impazienza il giorno della pubblicazione.

Avendo tirato in ballo la pazienza, o meglio il suo opposto, penso che dovremmo occuparci un momento dell’opinione dei figli gemelli di Richard – l’opinione di Marius e di Marco. Richard possedeva una tolleranza paterna, o forse permissività, che i bambini, credo, sarebbero stati d’accordo nel chiamare pazienza. Richard non era il tipo da fare prediche sui doveri, sui codici di abbigliamento e, soprattutto, sul fatto che bisogna mettere in ordine i giochi – tutto questo toccava a Gina. Richard non urlava, non dava in escandescenze, non sculacciava. Tutto questo toccava a Gina. Anzi, quando a sorvegliarli c’era solo Richard, Marius e Marco potevano ingozzarsi di gelato e di pacchetti di Wotsits e guardare la televisione per ore e distruggere i mobili, mentre lui se ne stava stravaccato alla scrivania nel suo studio misterioso. Poi, però, nella pazienza di papi era intervenuto un cambiamento... Amelior era in libreria da circa un mese e non aveva smosso le acque, per cui sulla casetta dei Tull non si era dovuto stendere il drappo funebre. Le recensioni, anche se lontane dalle pirotecniche manifestazioni di sarcasmo e disprezzo in cui aveva sperato Richard, erano state lodevolmente accondiscendenti, oltre che unanimi e brevi. Con un po’ di fortuna, Gwyn si poteva considerare spacciato. Era domenica mattina. Per i bambini questo significava divertimento a non finire senza sorveglianza, seguito da una passeggiata tra le merde di cane del parco o qualcosa di ancora meglio (lo zoo, o il museo, in compagnia di un genitore muto e catalettico) e almeno due cassette di cartoni a noleggio, perché anche Gina diventava teletollerante la domenica sera, dopo un fine settimana in loro compagnia, e spesso andava a letto prima di loro.

Dunque. Papi era in cucina, che si godeva una tarda colazione. I gemelli, con le gambe rese ancor piú magre dai bermuda cascanti, erano sul tappeto del soggiorno; l’esperto Marius costruiva navi marine e spaziali con mattoncini di plastica, Marco giocava in maniera piú sognante: con i fili accoppiati del telefono e della lampada d’angolo – che coabitavano sul basso tavolino rotondo vicino al caminetto – intrappolava e attorcigliava diversi modellini di animali, qui uno stegosauro, lí un maialino, progettando metamorfosi per sistemare le cose – com’è che finiva la favola? – in modo che il leone potesse accovacciarsi accanto all’agnello... I bambini udirono un forte gemito gorgogliante che proveniva dall’altra parte del corridoio. Il suono, con quel suo timbro dolente o afflitto, non era collegabile né a loro padre né ad altra persona conosciuta, quindi non era escluso che un estraneo o una creatura... Marco raddrizzò di scatto la schiena; cosí facendo tirò il groviglio di anatroccoli e velociraptor, e il tavolino girò su se stesso; il bambino fece in tempo a spalancare gli occhi prima che cadesse, e fece in tempo a velarli di lacrime di contrizione e di prevenzione prima che il padre piombasse nella stanza. Nei giorni della pazienza Richard si sarebbe limitato a dire: «Che cosa succede qui dentro?», oppure: «Bel pasticcio che avete combinato», oppure, piú semplicemente (e piú probabilmente): «Cristo!». Ma non quella domenica mattina. No. Richard si precipitò verso Marco e la sua mano calò su di lui con lo scapaccione peggiore della sua vita. Marius, che era rimasto assolutamente immobile, ricordava che l’aria della stanza aveva continuato a ondeggiare per un pezzo, come la superficie della piscina dopo che i bambini sono usciti.

Di lí a vent’anni questo episodio sarebbe stato qualcosa che i gemelli, sdraiati sul lettino, avrebbero potuto raccontare al loro psichiatra: il giorno in cui la pazienza di loro padre si era dileguata. Per non tornare mai piú, o almeno non interamente, non nella sua forma originale. Ma non avrebbero mai saputo che cosa era veramente successo quella domenica mattina: il gemito convulso, le labbra ferocemente merlate, il bambino che dondolava sul pavimento del salotto. Forse solo Gina sarebbe riuscita a ricomporre il puzzle, perché le cose cambiarono anche per lei, e non tornarono mai piú come prima. Ecco ciò che era successo quella domenica mattina: Amelior di Gwyn Barry era entrato nella classifica dei libri piú venduti, al nono posto.

Ma prima di ogni altra cosa, prima di intraprendere progetti grandiosi e ambiziosi come proseguire di buona lena Senza titolo, oppure riscrivere la recensione di Robert Southey: poeta gentiluomo, oppure cominciare a metterla in culo a Gwyn (e in proposito era convinto di avere una buona mossa d’apertura), Richard doveva portare a riparare l’aspirapolvere. Proprio cosí. Doveva portare a riparare l’aspirapolvere. Prima di farlo andò a sedersi in cucina e mangiò uno yoghurt alla frutta reso cosí gommoso dagli additivi da ricordargli la consistenza di una delle sue cosiddette erezioni... Quando gli aveva affidato la commissione, chiedendogli di portare ad aggiustare l’aspirapolvere, Gina aveva usato l’espressione «fare un salto». «Potresti fare un salto dall’elettricista e lasciargli lo Hoover?» aveva detto. Ma per Richard i giorni dei salti erano finiti da un pezzo. Allungò una mano e aprí la porta dello stenditoio. L’aspirapolvere era lí, avvoltolato come una bestiola extraterrestre appartenente al robot della caldaia. Richard rimase a fissarlo per circa un minuto. Poi le sue palpebre si chiusero lentamente.

Tra l’altro, la visita all’elettricista avrebbe richiesto una visita in bagno (per radersi: ormai Richard era troppo infangato dentro per permettere al mondo di vederlo con la superficie esterna sporca; assomigliava troppo al personaggio in cui sapeva che prima o poi si sarebbe trasformato: il terribile vecchio in una cabina telefonica, con una valigia, che vuole disperatamente qualcosa – denaro, lavoro, riparo, informazione, una sigaretta). Lo specchio del bagno, naturalmente, lo avrebbe ridotto a due dimensioni, quindi lo specchio del bagno non era il posto adatto se quel che cercavi era la profondità. Ma lui non voleva profondità. Da una certa età in poi tutti hanno la faccia che si meritano. Come gli occhi sono la finestra dell’anima. Divertente da dire, divertente persino da credere, quando hai diciott’anni, quando ne hai trentadue.

Guardandosi allo specchio adesso, la mattina del suo quarantesimo compleanno, Richard ebbe l’impressione che nessuno meritasse quella faccia. Nessuno in tutta la storia del pianeta. Per quanto nefande fossero le sue azioni. Che cosa era successo? Che cosa hai fatto, ragazzo mio? I capelli, sparsi sul cranio in spire e ciuffi assortiti, facevano pensare che avesse appena concluso un lungo (e vano) trattamento di chemioterapia. Poi gli occhi, ciascuno appollaiato sulla sua piccola ventraia orlata di sangue. Se gli occhi sono la finestra dell’anima, allora questa finestra era un parabrezza dopo un viaggio transcontinentale; e la sua tosse aveva lo stesso suono di uno strofinaccio passato sul vetro asciutto. In quei giorni Richard fumava e beveva soprattutto per consolarsi dei danni dell’alcol e del fumo – ma il fumo e l’alcol gliene avevano fatti parecchi, cosí lui beveva e fumava a piú non posso. Inoltre, provava praticamente ogni droga su cui riusciva a mettere le mani. I suoi denti erano tutti schegge di ceramica e colla prebellica. In ogni istante, qualunque cosa stesse facendo, almeno due dei suoi arti erano irremovibilmente intorpiditi. Su e giú per il suo corpo correvano incontrollati sussurri di dolore. Di fatto, sul piano fisico, Richard si sentiva epifanicamente tragico. Il suo dottore era morto quattro anni prima («Purtroppo ho un male incurabile»); e, secondo la matura opinione di Richard, quando ti capita ti capita. Richard aveva una grossa bozza lucente sulla nuca, che si curava da sé nel seguente modo: tenendo i capelli lunghi per nasconderla. Se qualcuno fosse andato da Richard Tull a dirgli che la sua difesa era la negazione, l’avrebbe negato. Ma senza scaldarsi.

Tutto ciò non bastava a cambiare le cose: Richard doveva portare ad aggiustare l’aspirapolvere. Dovevaportarlo, perché persino lui (che naturalmente, essendo un uomo eccetera eccetera, era un favoloso zoticone) si accorgeva che la qualità della vita, al 49E di Calchalk Street, si era drammaticamente deteriorata da quando l’elettrodomestico si era rotto. La piumosa ubiquità della polvere nello studio gli faceva temere, questa volta a torto, un prossimo attacco di fegato. Per non parlare delle altre complicazioni, come le allergie che minacciavano la vita di Marco, che andavano tenute in debito conto.

Mentre strappava l’aspirapolvere dalla sua garitta, Richard cominciò a versare lacrime di autocommiserazione e di rabbia. Era diventato bravo a piangere. Se si dovesse dare retta alle donne, bisognerebbe piangere tre o quattro volte al giorno. Le donne piangono nei momenti piú strani: quando vincono un concorso di bellezza, per esempio (e quando lo perdono, probabilmente: piú tardi). Se Richard avesse vinto un concorso di bellezza... avrebbe pianto? Ve lo vedete lassú, sul palcoscenico, con il mazzo di fiori, il costume da bagno e la fascia, e la commozione che gli sale agli occhi?

Mentre usciva dall’appartamento con l’aspirapolvere, Richard cominciò a domandarsi se gli fosse mai capitato di soffrire a quel modo. Cosí, sicuramente, si spiegano l’oscurità e l’impotente malinconia della letteratura del XX secolo. Questi scrittori, questi sognatori e ricercatori, se ne stanno abbracciati come tremanti trovatelli sui dirupi di uno strano mondo nuovo: un mondo senza domestici. Sulle scale e sui pianerottoli c’erano biciclette appoggiate da per tutto, persino incatenate ai muri – e al soffitto. Richard aveva l’impressione di vivere in un alveare di ciclisti.

Mentre trascinava l’aspirapolvere giú per le scale, si convinse che Samuel Beckett doveva essere stato costretto a portare un aspirapolvere ad aggiustare in un momento particolarmente delicato della sua vita. Anche Céline, e forse anche Kafka – posto che allora esistessero già gli aspirapolvere. Richard si concesse un attimo di affannoso respiro mentre esaminava la posta. Non aveva piú paura della posta. Il peggio era passato. Che cosa avrebbe dovuto ancora temere dalla posta uno che non molto tempo prima aveva ricevuto una raccomandata intimidatoria dal proprio avvocato? O che, un po’ meno recentemente, in risposta alla richiesta di aumentare il volume delle collaborazioni che gli venivano affidate, era stato sommariamente licenziato, per lettera, dal proprio agente letterario? O che era stato citato in giudizio (per anticipi su libri mai scritti) da entrambi i suoi ex editori? Ma quasi sempre nella buca c’era solo spazzatura. Una volta, in strada, in un tormentato pomeriggio d’aprile, mentre tornava a casa dopo un pranzo con il direttore di una rivista di viaggi in una trattoria di passaggio, Richard aveva visto una tromba d’aria cittadina di posta spazzatura – pieghevoli piegati, volantini volanti, circolari circolanti – e aveva annuito, e pensato: cosí son io, cosí è la mia vita. E spesso la buca era vuota. Quella mattina, invece, la mattina del suo quarantesimo compleanno, ricevette un piccolo assegno e due grandi conti da pagare – e una busta marrone, consegnata a mano (senza indirizzo, senza francobollo), con il suo nome in un tormentato stampatello maiuscolo e l’accurata ma insolita aggiunta: «laureato a Oxford». Richard la infilò in tasca e si mise di nuovo in spalla la sua soma.

Per chi fosse interessato, Calchalk Street è una traversa di Ladbroke Grove, un buon chilometro oltre Westway. Per un certo periodo era sembrato che Calchalk Street dovesse decollare. Richard e Gina avevano contribuito all’afflusso di denaro fresco, piú di mezza decade prima, subito dopo il matrimonio, insieme con parecchie altre giovani coppie con le quali scambiavano occhiate e sorrisi nel negozio all’angolo o nella lavanderia a gettoni. Per un po’, quella primavera, durante la fioritura dei meli, Calchalk Street aveva risuonato del salubre tintinnio della musica del progresso, pum pum qui, pam pam là: c’erano cassoni per le macerie, impalcature e piramidi color arancio di sabbia da costruzione. Poi tutte le coppie avevano traslocato di nuovo, tranne Richard e Gina. Quando le era stato offerto di nobilitarsi, Calchalk Street aveva detto: no grazie. E aveva riassunto l’identità postbellica del razionamento e della pigione a fine mese. Quando le era stato offerto il colore, aveva preferito restare monocromatica; persino gli asiatici e i caribici che vivevano lí si erano non so come sassonizzati – camminavano e guardavano, pisciavano, vernacolavano, s’intruppavano, fottevano e bestemmiavano esattamente come i locali. Calchalk Street aveva un orrido Pub, l’Adamo ed Eva (teatro, per Richard, di molte tremebonde bevute), e un orrido ufficio postale distaccato, davanti al quale, alle otto di ogni santa mattina lavorativa, si coagulava una coda disperata di Hilde e di Gilde, di babbi e babbei, con la loro bolletta in mano. C’erano intere famiglie irlandesi pigiate nei seminterrati, e casalinghe incinte che fumavano come ciminiere sulle scalette esterne, e vecchi rattrappiti in pantaloni scampanati e scarpe da ginnastica incartapecorite che bevevano birra in lattina davanti al fiato caldo della stufa a monete. C’erano persino le puttane, là all’angolo – una piccola tribú. Richard passò davanti a quelle giovani donne pensando, come sempre pensava: mi date il voltastomaco. Con il parka o la giacca a vento, floride e torve, si presentavano come assistenti sociali. Per denaro facevano sbollire gli uomini in macchina.

Un aspirapolvere è progettato per incedere maestosamente sui tappeti. Non per essere portato di peso in un umido mercoledí londinese, quando il traffico si tira dietro cappe di nebbiolina. Dolorosamente impedito, crudelmente ostacolato, Richard avanzava barcollando, con l’apparecchio marrone che pesava come un ceppo bagnato sottobraccio, il boccaglio a T nella mano libera, il tubo flessibile a disegno scozzese avvolto intorno al collo come un grasso fazzoletto, e poi la spina, sfuggita al gancetto rotto, che gli penzolava lusinghieramente tra le gambe. Era probabile che la «freschezza e vivacità morale», l’«ottimismo coraggiosamente fuori moda» e la «fiducia priva d’imbarazzo nella perfettibilità umana» – tutte qualità per cui Amelior veniva elogiato retrospettivamente – migliorassero ancora nel prossimo libro, dato che Gwyn Barry non doveva piú portare ad aggiustare l’aspirapolvere. Richard attraversò Ladbroke Grove a testa bassa, infischiandosene di guardare a destra e a sinistra. La spina e il filo gli si avvoltolarono intorno alle caviglie come bolas. Il tubo flessibile gli strinse il collo in un abbraccio pitonico.

Approdato nel negozio, Richard lasciò cadere l’intero trabiccolo sul banco, poi si appoggiò al medesimo, rimanendo per un pezzo con la testa tra le braccia. Quando alzò di nuovo gli occhi, davanti a lui c’era un giovanotto che stava preparando una scheda formato protocollo. Richard si destreggiò gracchiando tra i vari MARCAMODELLONUMERO DI MATRICOLA. Ma dopo un po’ arrivarono a TIPO DI GUASTO, e il giovanotto disse:

– Che cos’ha che non va?

– Che ne so, io? Si ferma in continuazione, cigola e si semina dietro tutto il lerciume.

Il giovanotto squadrò Richard e meditò su questa informazione. I suoi occhi e la sua biro tornarono sul rettangolo che attendeva di essere compilato. La biro indugiò con aria infelice. Il giovanotto sollevò di nuovo lo sguardo – il tempo sufficiente per un gravoso contatto oculare. Poi lo riabbassò. La biro apparve di colpo rosicchiata, screpolata e priva di cappuccio, e anche paranoica, consapevole di essere in svantaggio. Alla fine, sotto TIPO DI GUASTO, il giovanotto scrisse: NON FUNZIONA.

– Sí, – disse Richard. – Diagnosi accurata.

Fuori del negozio, in strada, le vecchie divisioni di classe e poi di razza lasciavano il posto a nuove divisioni: scarpe buone e scarpe cattive, occhi buoni e occhi cattivi (occhi sereni, da una parte, schierati contro occhi ben piú ardenti di qualsiasi tabasco), diversa preparazione alle forme che la vita urbana assume di momento in momento. Il giovanotto guardò Richard con aria afflitta e ostilità preammansita. Aveva lavorato in quel posto molto piú a lungo di quanto avrebbe dovuto, sicché i suoi occhi erano deboli e innocui, come i fari di una macchina rimasti accesi tutta la notte e buona parte del giorno successivo. Ciò che li divideva, lí nel negozio, erano le parole – che rappresentano l’universale (almeno su questo pianeta); il giovanotto poteva guardare Richard ed essere sicuro che ce n’erano ben altre in agguato. Alle pareti erano attaccati gli apparecchi in esposizione, decorativi e risparmia-fatica, bianchi, conici, sferici. Piú in là, nel retrobottega, in un mucchio valvoloso che ricordava la città fradicia di pioggia, giaceva la roba che non funzionava e non avrebbe mai piú funzionato: l’inaggiustato, l’indefinito.

Tornando a casa, Richard passò dall’Adamo ed Eva. Seduto in un angolo con una pinta di birra amara e un pacchetto di Wotsits, il festeggiato si sfilò la busta marrone dalla tasca: Richard Tull, laureato a Oxford. A Oxford (stando ai racconti di Richard), Gwyn aveva lavorato giorno e notte per un misero buono, mentre Richard aveva preso il massimo dei voti senza alzare un dito... Richard estrasse dalla busta un foglio di carta che sembrava strappato dal quaderno di un bambino: righe blu, lievi sgualciture, una sensazione di grande fatica con scarsi progressi. La lettera era stata pesantemente corretta da un’altra mano, ciò nonostante diceva:

Caro Richard

Tu sei l’autore di un «romanzo». Premeditazione. Congratulazioni! Com'è che si fa. Primo, si cerca l’argomento. Poi si confeziona. Poi, ci vuole la montatura pubblicitaria.

Sto pensando di diventare «uno scrittore». Qua la mano. Se vuoi incontrarti con me per discutere di queste cose davanti a un paio di «pinte» telefonami pure.

Il tuo

DARKO

Gli scrittori noti ricevono lettere di questo genere ogni due giorni. Ma Richard non era uno scrittore noto, e le riceveva ogni due anni (di solito riguardavano la sua attività di recensore – ma di tanto in tanto arrivava anche uno scarabocchio dagli ospedali o dalle cliniche psichiatriche, dove i suoi romanzi si annidavano nelle biblioteche o sui carrelli dei libri, provocando strane reazioni nei depressi, nei mutilati e in altri pazienti con la mente scombinata dai farmaci). Quindi Richard studiò la lettera con molta piú attenzione di quanto avrebbe fatto uno scrittore noto. E il suo esame minuzioso fu ricompensato: nell’angolo inferiore sinistro del foglio mezzo vuoto, quasi nascoste dalla sfrangiatura dello strappo, c’erano le lettere GP. Richard girò pagina.

Conosco la fantastica Belladonna. Tutti l’ha vogliono. Cristo, sé bella. Il tuo amico Gwyn Barry, è innamorato di lei quello che va in tivú.

Nell’insieme, pareva un’eccellente notizia. Richard finí la sua birra. Forse, ciò che aveva davanti agli occhi in quel momento si sarebbe rivelato un utile piano B. Anche se in realtà Richard nutriva uno sconfinato ottimismo nei confronti del piano A. Era infatti pieno di speranza.

Tornato a casa fece due telefonate. La prima ad Anstice, la quarantaquattrenne segretaria della «Piccola rivista». Parlò con lei per un’ora, come faceva ogni giorno, non della «Piccola rivista», e neppure perché ne avesse voglia, ma solo per evitare che Anstice si ammazzasse o andasse a raccontare a Gina che lui l’aveva portata a letto, una sola volta, circa un anno prima. La seconda telefonata fu a Gwyn. Richard voleva confermare la partita quindicinale di biliardo. Ma Gwyn non poteva. Il motivo che addusse (oh nausea) era che ultimamente aveva passato troppe sere «lontano dalla mia consorte». Gwyn, tra parentesi, non era famoso solo come romanziere. Era famoso anche come sposo felice. La precedente primavera, un produttore televisivo con un sacco di tempo a disposizione aveva abborracciato una serie intitolata Le sette virtú vitali. Gwyn aveva scelto l’Uxoridipendenza. Il programma si era guadagnato grandi elogi, e due repliche, come esempio di fascino britannico. Durava un’ora. Mostrava cose come Gwyn che aiutava Demi in giardino, o che portava il tè a Demi, o che fissava Demi con infantile devozione mentre lei parlava al telefono e rimescolava distrattamente gli inviti a pranzo.

Il tempo non era gran che, ma in teoria era ancora estate. C’era qualcosa che non andava nell’estate. Ma siamo in Inghilterra – e non stiamo dicendo nulla di nuovo.

Ragionate un momento. Le quattro stagioni dovrebbero corrispondere ai quattro generi letterari principali. In altre parole, l’estate, l’autunno, l’inverno e la primavera dovrebbero corrispondere (qui li elenco in ordine gerarchico) alla tragedia, al romance, alla commedia e alla satira. Chiudete il libro per un secondo e vedete se riuscite ad assegnare il genere giusto a ogni stagione.

In realtà è ovvio. Se azzeccate la commedia e la tragedia, gli altri van da sé.

Estate: romance. Viaggi, ricerche, magia, animali che parlano, damigelle in pericolo.

Autunno: tragedia. Isolamento e declino, difetti e peccati fatali, gli spasimi degli eroi.

Inverno: satira. Antiutopie, mondi capovolti, l’abbraccio della tundra: l’abbraccio di gelidi pensieri.

Primavera: commedia. Matrimoni, fiori di melo, festa di calendimaggio, piú nessuna incomprensione – via il vecchio, avanti il nuovo.

Continuiamo ad aspettarci che qualcosa non vada nelle stagioni. Ma già da tempo qualcosa non funziona piú nei generi. Si sono trasfusi l’uno nell’altro. Nessuno bada piú al decoro.

Lady Demeter Barry aveva un istruttore di guida chiamato Gary.

E 13 aveva un fratello piú grande chiamato Schianto.

I due erano la stessa persona.

Schianto era il suo nome di battaglia, non il suo vero nome. E ovviamente non era nemmeno il suo nome di lavoro: perché Schianto faceva l’istruttore di guida. Il suo vero nome era Gary.

Non è ancora del tutto chiaro perché Gary sia stato chiamato Schianto. Non è assolutamente detto che i nomi di battaglia siano descrittivi, e nemmeno controdescrittivi. Tra le conoscenze di 13 – tra i suoi fratelli – c’erano parecchi personaggi assolutamente indefinibili con nomi come Posapiano e Lampo e Guardaquí. Per esempio, 13 aveva un cuginetto chiamato Ian il cui nome di battaglia era Imu. IMU era ciò che Ian sbombolettava assiduamente su tutti i ponti e i muraglioni di West London, in mezzo a ben piú complesse ingiunzioni e imprecazioni e invocazioni, come ARMI ALLO ZIMBABWEIN CULO LA POLIZIA e FIGLI DEL TUONO. I stava per Ian; e a Ian piaceva la musica: quindi Imu. Fantastico. O prendete un altro cugino di 13: Anello. Anello era chiamato Anello non, come sarebbe facile pensare, a causa dei suoi tratti facciali incredibilmente primitivi, ma come alternativa preferita a Catene, nome che commemorava un certa battaglia di carnevale in cui Anello aveva sgombrato un’intera tromba delle scale zeppa di poliziotti con il solo aiuto di due pezzi di ronzante e scintillante acciaio lunghi un metro e poco piú. I successivi diciotto mesi Anello li passò in catene, e questo probabilmente spiega perché il nome che attecchí fu Anello.

Chi può dirlo? Forse Schianto era chiamato Schianto perché era grande e grosso e faceva un sacco di rumore quando cadeva. Forse Schianto era chiamato Schianto per il prevedibile andamento delle sue finanze personali: quel che succedeva dopo il boom quindicinale della paga. Molto piú probabilmente, però, Schianto era chiamato Schianto per l’abitudine, ormai abbandonata, di intrufolarsi – con effrazione – in casa d’altri per dormire: sui divani, sul pavimento, nella vasca da bagno... Un nuovo arrivato potrebbe ragionevolmente supporre che Schianto fosse chiamato Schianto per quello che continuava a succedergli con le automobili della scuola guida. Chiudo gli occhi e mi vedo Schianto che osserva con le braccia conserte e l’aria infelice lo spiazzo di un demolitore, dieci acri di Metro accartocciate. Oppure, con modesta estrapolazione, si potrebbe supporre che Schianto fosse chiamato Schianto per quello che continuava a succedere ai suoi allievi nelle loro automobili pochi giorni dopo avere superato l’esame. E le loro automobili erano lustre e tedesche, con tanto di computer di bordo e tachimetro digitale: perché la scuola era alla moda, e tutte le donne chiedevano di Schianto – anche se non con quel nome.

Tra i suoi allievi c’era Lady Demeter Barry.

Dunque: Steve Cousins nell’interno buio dell’ufficio in fondo al vicolo, con un libro in grembo (aveva sempre un libro con sé: oggi era toccato a L’aggressivitàdi Konrad Lorenz), intento a guardare fuori. E Schianto sull’acciottolato, tra i tetti roventi delle auto, intento a guardare dentro. Nessuno dei due sapeva se gli occhi dell’altro fossero riusciti a superare quella violenta divisione di luce. Steve posò il libro. Schianto salutò un altro allievo, un ricco adolescente con la corporatura del futuro: robusto, schiena e fianchi corti da ranger dello spazio, cranio da Mekon.

– Schianto, amico mio, – disse Steve Cousins.

– Scozzy, – disse Schianto.

Schianto andò a prendere due caffè alla macchinetta. Come molti ragazzi del quartiere, Schianto una volta aveva lavorato per Scozzy, come spacciatore di cocaina. Questo precedente dettava il protocollo odierno. Adesso il nero Schianto era tutto curvo in un angolo della stanza, grosso, non grasso, solo grosso, e nemmeno irrimediabilmente enorme, oh no, non come certi tipi di analoga stazza nera, che le madri, probabilmente, hanno visto crescere con decrescente orgoglio.

– Non mi ricordo piú come ti piace, – gridò.

E Steve glielo disse: – Nero. Due zollette.

I due uomini si sistemarono sul basso sofà. Per quanto luccicante, la tuta nera di Schianto (niente cose del genere per Scozz: niente roba da palestra, niente felpe) brillava meno della sua faccia, che sprizzava una densa vitalità. Come 13, Schianto era londinese fino nel midollo delle ossa, ma aveva conservato qualche traccia d’Africa, come quel grosso accidente del naso, che sembrava il dorso di un rospaccio nero accovacciato sulla faccia, e le treccioline simboliche, che si dipartivano ad angolo retto dalla testa, come ramoscelli. Non le vere treccioline dei rastafariani, naturalmente; quelle devono restare religiosamente sporche e finiscono con il somigliare alla cenere di una cicca gigantesca. I suoi occhi erano luminosi – persino il sangue che li iniettava era luminoso. Noti per come si spalancavano davanti alla fregna bianca, come per un interesse scientifico: in cerca della troia che ci sta. Steve guardò Schianto e pensò che non c’era possibilità al mondo che fosse imparentato con un cavernicolo come Anello. E Steve sapeva anche che in una mappa dell’evoluzione che indicasse il percorso da Anello a Schianto, lui (Scozzy, con i suoi geni scampanati, stile anni Settanta) non si sarebbe trovato alla destra di Schianto ma da qualche parte in mezzo ai due.

– Le tette? – cominciò Schianto non appena Scozz gli diede l’imbeccata. – C’è bisogno di corda e piccozza. E meglio se metti anche gli scarponi.

– È gonfiata, – disse Steve, non senza una certa severità.

– Come quelle fottute verdure giganti. Zucche o che so io. Quando esagerano con le iniezioni.

Steve flettè il collo. – Le tette grosse sono un conto, – disse.– Ma guai se ti inondano la casa.

– Deve tenersele su. Te lo giuro, tutta piegata all’indietro... come se si puntellasse per il tiro alla fune –. Schianto ridacchiò ammirato. – Guai se cade. Pensa se quella montagna di roba le frana addosso.

In una compagnia diversa Schianto avrebbe continuato per una beata mezz’ora su questo tono prima di cambiare argomento – prima di passare, diciamo, a come Lady Demeter Barry era fatta dalla cintola in giú. Adesso invece si stava chiedendo che cosa gli fosse preso – mettersi a parlare di tette con Scozzy. Non era cosa da farsi, non con lui, non con quel dannato psicotico. Alla larga... Schianto vide che il mento sfuggente di Steve si stava increspando, che la sua bocca si induriva in una sorta di becco; il malumore si manifestava anche attraverso il fuoco degli occhi. Con fare riflessivo, e in questo caso senza la minima indignazione, Schianto fiutò l’aria per vedere se il problema fosse nel rapporto bianchineri: le nostre donne, e via dicendo. Non trovò niente di particolare. Forse Scozz voleva solo venire al sodo. A fine giornata, cascasse il mondo, Schianto avrebbe dato una sventola a 13. Aspettò. Era in posizione di svantaggio, naturalmente. Perché nessuno, proprio nessuno, conosceva la strana passione di Steve per le tette.

Finalmente Steve disse a Schianto quello che voleva che facesse: sotto forma di una serie di suggerimenti. Schianto si guardò in giro. I colleghi istruttori, gli allievi (l’ufficio si stava riempiendo per il cambio dell’ora), le ragazze dietro la scrivania là in fondo: avrebbero giudicato impossibile, vedendo i due uomini seduti sul sofà, che il nero temesse il bianco, che il grosso temesse il piccolo. Invece lo temeva, eccome. Schianto aveva visto molte volte Scozzy all’opera, nei pub, nei posteggi. E Scozzy era uno che non si fermava. Quando cominciava, non si fermava. In simili circostanze, tra l’altro, l’uomo grosso diffida tradizionalmente del piccolo, perché l’uomo piccolo fa sempre la prima mossa. E poi c’era Scozzy, c’erano le parole.

– È una donna felicemente sposata, – si sentí dire Schianto.– Lo dice la tele.

– Ascoltami bene. Gli istruttori di guida. Passano le loro giornate a guardare gambe larghe. La cintura di sicurezza è ben allacciata, tesoro? Permettimi. E tu. Questo è il momento dei neri, ragazzo mio. C’è ampiezza di vedute –. Il fiato di Steve si avvicinò, e il suo aroma era incredibilmente artificiale, come il fiato deodorato di una macchina da noleggio. – Là nella piccola Metro. Una fregna ricca si siede sul tuo ditone. E se solo si azzarda a battere le ciglia, tu le dici: «Razzista!» Mica ti secca il contrario, no? – Il fiato si avvicinò ancora. Il fiato era un’arma come le altre. – Quando sono loro che vengono dalle tue parti e lo fanno per democrazia. O per antropologia. O per un’altra ragione. Divertiti, amico. Finché dura. Risarcimento... ecco cos’è. Sí. Tratta degli schiavi.

Schianto si distrasse per un momento. Della tratta degli schiavi aveva un’immagine tutta sua, che si portava nella testa. L’immagine era uno spazio tridimensionale chiuso, completamente buio; gli effetti sonori erano costituiti da monotoni ululati umani e dal cigolio del fasciame in mare. Schianto si riscosse. Avrebbe fatto a pezzi 13. Di regola Schianto non beveva, ma una volta ogni tanto, quando gli soffiavano troppo sul collo, si comprava una bottiglia di scotch – al diavolo tutto il resto – e se la scolava. Non spesso. Qualche volta, per ridurre la tensione, comprava una bottiglia di scotch e buttava via il tappo. (Al diavolo tutto il resto). Schianto deglutí e disse in tono meditabondo:

– Devo tenermi leggero per un paio di giorni. Mi brucia lo stomaco.

– Non devi fare niente, amico mio. Io voglio solo informazioni. Un consiglio: taglia il profumo. Puzzi di punch a buon mercato. Puzzi come un maledetto minitaxi.

Sí, proprio cosí, pensò Schianto. Scozzy era una maledizione, dalla testa ai piedi, ti piombava addosso come una cattiva notizia, come un telegiornale catastrofico che andava avanti per ore e ore.

– Ecco tutto.

Demeter Barry era puntuale: mezzogiorno esatto. Lasciandosi la luce del sole alle spalle entrò dalla porta a vetri con la testa china, dando l’impressione di sbirciarsi intorno furtivamente.In realtà, la prima cosa che si notava dalla cintola in su era l’abbottonatura della camicetta di seta grigia: non era propriamente a perpendicolo, e scendeva ondeggiando sino a fallire il bersaglio della fibbia della cintura, che forse, a sua volta, non era ben centrata.

– Ciao, Gary, – disse Demi.

– Come va questa mattina? – disse Schianto, con la voce particolarmente profonda, pretesca e africana che teneva in serbo per le lezioni di guida alle donne bianche. Poi si girò verso Scozzy, che prese il suo libro, fece un cenno con il capo, tese la mano e disse:

– Steve Cousins.

Mentre ripercorreva il vicolo, Steve si accorse di non avere mai rischiato tanto come in quell’occasione di dire una cosa che gli capitava spesso di avere sulla punta della lingua. – Steve Cousins, – aveva quasi detto: – Della banda di Barnardo.

Come uno direbbe «Tecnico del suono» oppure «Analista politico» oppure «Poeta e saggista».

Naturalmente, avrebbe potuto dire «Ragazzo selvaggio», cosa altrettanto vera.

– Come stai ad agente in questo momento? – domando Gwyn Barry. – Ce l’hai?

Gwyn e Richard erano al Westway Health and Fitness Centre, circondati da trenta o quaranta smunti ubriaconi: giocavano a biliardo. Nella stessa luce losca delle sale da gioco di tutto il mondo. Gwyn aveva bevuto parecchie birre, e Richard, naturalmente, era completamente fatto. Diciotto tavoli, tutti in uso, diciotto piramidi di luce sopra i trogoli verdi e le scintillanti palle d’osso; e poi i giocatori multicolori, ispanici, caribici, sudamericani, circumpacifici, e gli albionici sbiaditi, indistinguibili, si sarebbe detto, dai grandi geni di fumo di sigaretta che s’aggiravano tra i tavoli come spettri di arbitri... L’Inghilterra stava cambiando. Non c’è che dire. Vent’anni prima Richard e Gwyn, o i loro equivalenti, non sarebbero mai potuti entrare in una sala da biliardo – Gwyn con i suoi pantaloni di stoffa color cachi e il suo colloalto di cachemire, Richard con il suo panciotto e il suo farfallino sbilenco (per mero caso appropriati). Sarebbero rimasti fuori a soffiarsi sulle dita e ad aspirare l’odore di grasso di pancetta, esaminando la scritta fieramente semianalfabeta dell’insegna sull’ingresso del seminterrato, poi si sarebbero fatti da parte per permettere ai giocatori veri – giaccone da capitano di corvetta e vestito da Al Capone – di scendere gli screpolati gradini di pietra scavalcando morti e feriti. Oppure Gwyn e Richard sarebbero potuti entrare. Ma non sarebbero piú usciti. A quei tempi gli Inglesi avevano tutti nomi come Cooper e Baker e Weaver, e ti pestavano. Oggi si chiamano tutti Negozio e Camicia e Automobile, e se vuoi puoi andare dove ti pare.

– Perché me lo chiedi?

– Perché io il mio l’ho cambiato. Adesso sono con Gal.

– Sí, l’ho letto.

– Te la ricordi Gal?

– Certo che me la ricordo.

Richard si rimise in posizione, mento all’altezza del tavolo, busto piegato, o meglio stravaccato, sulla sponda elastica. Quando si gioca a biliardo non si parla – se non di biliardo. Richard aveva dovuto insistere su questo punto. Troppe volte – cosí almeno gli sembrava – proprio mentre stava prendendo la mira per un colpo facile facile che avrebbe risolto la partita, Gwyn cominciava a raccontargli della troupe della televisione italiana che doveva arrivare la mattina dopo, oppure della cifra sorprendente che gli era stata offerta per i diritti di traduzione in Arabia Saudita, e Richard finiva, chissà come, con lo scaraventare la palla sul tavolo accanto... Sebbene fossero passate già due settimane, Richard leggeva ancora la rubrica di Rory Plantagenet sperando di trovarvi un lungo pezzo su come Richard Tull avesse umiliato Gwyn Barry davanti al ministro dei Beni Culturali del governo ombra. Quella mattina, invece, aveva trovato un lungo pezzo su come Gwyn Barry avesse cambiato agente, abbandonando polemicamente Harley, Dexter, Fielding per Gal Aplanalp.

– È già riuscita a procurarmi un grosso contratto per il mio prossimo libro.

– Ma se non l’hai ancora finito.

– Sí, ma ormai va di moda giocare d’anticipo. Tattica militare. È come essere in guerra. Diritti mondiali.

– Ordina da bere.

– Allora, chi hai adesso? Come stai ad agente?

– Da bere, – disse Richard, i cui rapporti con gli agenti erano i seguenti. Aveva cominciato sotto l’ala di Harley, Dexter, Fielding, che lo avevano arruolato venticinquenne, ante-Premeditazione, grazie alla vistosa malignità delle sue recensioni di libri di narrativa e poesia moderna. Richard era rimasto con Harley, Dexter, Fielding per i primi due romanzi, poi li aveva silurati quando il suo terzo libro era stato rifiutato da tutti gli editori del paese, compresi John Bernard Flaherty Dunbar Ltd, Abracadabra Books e Carogna Press. Aveva cosí affidato il suo talento a Dermott, Jenkins, Wyatt, i quali invece avevano silurato lui quando il quarto romanzo era andato incontro allo stesso identico destino. Da allora, Richard aveva fatto il battitore libero, provvedendo personalmente a presentare e a trattare: in altre parole aveva fotocopiato e impacchettato cosí tante volte il romanzo numero cinque, che si sentiva un editore lui stesso – o uno stampatore, che stampava samizdat in un paese libero. Per il momento non aveva ancora fatto piani per il sesto romanzo: Senza titolo. E aveva bisogno, maledettamente bisogno, di un piano.

– Non ho un agente, – disse.

– Sai, Gal è una tua grande ammiratrice.

– Vuoi dire che ha un bel ricordo di me? Oppure che le piacevano i miei libri?

– Tutt’e due. Le piacevano i tuoi libri.

Tutte le rosse tranne una erano in buca. Sul tavolo restavano solo otto palle: la nera e la marrone, la rosa e la blu, la verde e la gialla; la rossa solitaria; e naturalmente la bianca. Richard e Gwyn erano due tali schiappe che non si poteva nemmeno dire che il primo fosse piú bravo del secondo. Richard però vinceva sempre. In questo campo, cosí come in un paio d’altri, arrivava a capire che c’era un inizio, una fase centrale e una fine. Arrivava a capire che esisteva un finale di partita. Ed era nel finale di partita che Gwyn mostrava i suoi unici sprazzi di talento: una certa cautela celtibera, una certa astuzia da basettone. Attento, dunque.

– Ha detto di dirti che ti chiamerà.

– Non è un portafoglio un po’ dozzinale, quello di Gal? – disse Richard, sentendosi avvampare e quasi svenire mentre chinava la testa sul banco di mescita: una vampa piú sanguigna del rosa, piú sanguigna del rosso. – Non è tutto divi del rock e libri di cucina? E manualistica?

– Sta spostandolo verso la fascia alta del mercato. Rendendolo piú letterario. Ha parecchi romanzieri.

– Certo, tutti famosi per qualcos’altro. Alpinisti. Attori. Mezzibusti –. Richard annuí convinto. Il mezzobusto, aveva letto, era famoso non solo come mezzobusto o come romanziere. Ma anche (al momento) per un’altra cosa ancora: la notte prima gliele avevano suonate in un vicolo dalle parti di Kensington High Street.

– E politici, – aggiunse.

– Ho fatto la mossa giusta, credo. Gal tratterà con piú grinta i miei libri. Proprio a causa del suo portafoglio. Perché sono un autore prestigioso.

– Perché sei cosa? – Poi Richard fece una pausa e aggiunse solo: – È ovvio che non sai che cosa vuole, o voleva, dire prestigioso. Illusorio. Come la prestidigitazione. Come i giochi del prestigiatore.

– Quand’è l’ultima volta che hai visto Gal? Da ragazza era carina, ma adesso è... è davvero... è davvero...

Richard osservò la scena con occhi tutt’altro che teneri, mentre la mente di Gwyn vagolava alla cieca cercando le parole per esprimere quel che voleva dire. Quel che voleva dire, presumibilmente (Richard l’aveva sentito da altre fonti, e ci credeva), era che Gal Aplanalp era di una bellezza mozzafiato. Gwyn continuò per un pezzo a dimenare le spalle e a corrugare la fronte a mo’ di ammissione, sopraffatto dalle ragioni che gli impedivano di dire quel che voleva dire. Non avrebbe potuto farlo, infatti, senza sembrare invidioso o impolitico, irrispettoso nei confronti sia di Gal sia delle donne meno favorite di lei. Eccetera eccetera.

– Ho sentito che mamma natura l’ha ben dotata, – disse Richard. – Ma aspetta un po’. Anche tu sei un romanziere famoso per qualcosa d’altro.

– Davvero? Per cosa?

– Come sposo felice. Uxoridipendente.

– Ah, quella vecchia storia.

Di soppiatto Gwyn rubò un punto con la nera, ma la partita era ormai compromessa, e Richard non se la prese troppo, avendo vinto 3 a 1. Mentre uscivano e percorrevano il corridoio a fianco a fianco con i sottili astucci delle stecche – come musicisti o boia – passarono davanti a una palestra dove, tra l’altro, sei anni prima Steve Cousins aveva dato lezioni di karatè per sei mesi ai fanciulli di West Ten. Le lezioni erano finite perché tutti i genitori si erano lamentati e perché Steve non riusciva a costellare a sufficienza i suoi discorsi di pie stronzate sulla moderazione, l’autocontrollo e la non violenza.

– Conosci una ragazza chiamata Belladonna?

– Non mi sembra, – disse Gwyn. – E credo che me la ricorderei, con quel nome.

– Va a sapere. La gente oggi non fa che cambiare nome.

Si separarono in Ladbroke Grove sotto la metropolitana sopraelevata: quel pezzo di Londra di proprietà dei barboni e degli ubriachi, a modo suo esemplare – l’anti-città modello; lí, il marciapiede, persino la strada, indossa un umido manto di birra (in diverse epifanie) che ti risucchia le scarpe quando passi frettoloso. Uomini accovacciati con la testa rovesciata all’indietro e la faccia distrutta... A Richard, quello spettacolo faceva venire in mente Pandaemonium e l’assemblea degli angeli ribelli – scagliati come fulmini, a testa prima, dagli spalti di cristallo del cielo, caduti nel peccato e caduti nel fuoco del castigo e nell’imo mondo delle tenebre. Poi il concilio di sfida. Il personaggio che gli piaceva di piú era Moloch: Io dico guerra aperta. Ma Richard si rendeva conto che chi aveva ragione era Belzebú: inganno, lenta vendetta, seduzione – per minare l’innocenza e il paradiso terrestre.

Io dico guerra aperta... Magnifica cosa da dire. Quando gli scrittori odiano, tutto si riduce a qualcosa di molto semplice. La sua parola contro la mia.

Qui si sta parlando di una crisi. Tutto questo bordello è una crisi di mezza età.

Ogni padre conosce bene l’aborrito campo giochi nell’aria immobile della domenica mattina (ogni madre lo conosce il venerdí sera, il martedí pomeriggio – in tutti gli altri momenti), con gli scivoli e le altalene e i castelli che paiono pittogrammi dell’inanità. I padri seduti in punta alle panchine, o che passeggiano, o che si chinano a guardare: questo è il loro turno di guardia. Si scambiano lenti cenni di rassegnazione con il capo e ascoltano il muro di suoni infantili, da cui non si riesce a estrarre alcun senso: cigolii, botti, schiocchi.

Io ero lí, nella nebbia. Alla nebbia spiaceva – la nebbia era disperata di questa situazione. Come i padri, non aveva altro posto dove andare. Antica e stupida, ma attrezzata con nuovi elementi e contributi chimici, incombeva e oziava, sperando di non dare troppo disturbo.

E lí trovai un ribaltamento del solito protocollo: gli adulti non erano ammessi nel campo giochi se non accompagnati da un bambino. Quindi il campo giochi non era infestato da maniaci e neppure da assassini. Già, perché tu non sei un assassino. Tuo figlio è la garanzia vivente che non sei un assassino.

Un bambino mi venne incontro – non uno dei miei. E mi fece un segno. Tenendosi capricciosamente alla larga, fece un segno: i due indici a forma di T. Un piccolo sordomuto, pensai, e mi sentii distendere la faccia in quella posa di tolleranza priva di stupore che ti viene automaticamente in questi casi. Il mio sguardo era cosí tollerante da non sembrare nemmeno tollerante: solo aperto. La lettera T. Nel linguaggio dei sordomuti non era l’articolo? Aspetta. Il bambino ne stava facendo un’altra, e un’altra ancora. Il cerchio non era la O? Cioè nulla nel linguaggio dei sordomuti? Mi accorsi che avevo la testa protesa verso di lui, che all’improvviso mi ero puntellato in attesa di una rivelazione, con la fronte corrucciata per lo sforzo, come se il bambino potesse dirmi qualcosa che forse avevo veramente bisogno di sapere.

Perché so cosí poco. Perché ho bisogno di informazione da ogni possibile fonte.

– Tom, – disse il bambino. – È il mio nome.

A mia volta feci i segni – la M, la A – con le mie strane dita attorcigliate, pensando: come posso recitare la parte dell’onnisciente quando non so niente? Quando non riesco a leggere le maiuscole di un bimbo nella nebbia contrita.

Ho scritto queste parole cinque anni fa, quando avevo l’età di Richard. Già allora sapevo che Richard non era cosí mal ridotto come pensava di essere. Non ancora. In caso contrario qualcuno, una donna o un bambino – Gina, Demi, Anstice, Lizzete, Marius, Marco – l’avrebbe sicuramente preso per mano e condotto in un bel posto soffice e bianco, mormorando parole gentili in risposta ai suoi rantoli affannosi. I presagi di mostruosità sono comuni, forse universali, alle soglie della mezza età. Ma quando Richard si guardava allo specchio, cercava qualcosa che non c’era piú.

Potrebbe essere utile sapere dove viviamo. Tutti noi, in fondo, abbiamo lo stesso indirizzo. Ogni bambino lo memorizza. Suona piú o meno cosí:

Questo o quel numero,

Questa o quella via,

Questo o quell’agglomerato urbano,

Questa o quella provincia,

Questo o quel paese,

Questo o quel continente,

Questo o quell’emisfero,

Terra,

Pianeti superiori,

Sistema solare,

Paraggi di Alfa Centauri,

Sperone di Orione,

Via Lattea,

Gruppo locale,

Ammasso locale,

Superammasso locale,

Universo,

Questo universo. Quello contenente:

Il superammasso locale,

L’ammasso locale,

E cosí via. Giú giú fino a:

Questa o quella via,

E questo o quel numero.

Potrebbe essere utile sapere dove stiamo andando, e a che velocità.

La Terra ruota a mezzo chilometro al secondo.

La Terra gira intorno al Sole a trenta chilometri al secondo.

Il Sole gira intorno al centro della Via Lattea a trecento chilometri al secondo,

La Via Lattea viaggia piú o meno nella direzione della Vergine a 250 chilometri al secondo.

Astronomicamente, ogni cosa si allontana sempre di piú da tutto il resto.

Potrebbe essere utile sapere di che cosa siamo fatti, com’è che tiriamo avanti, e a che cosa torneremo.

Tutto ciò che avete davanti agli occhi – la carta e l’inchiostro, queste parole, i vostri stessi occhi – è stato fatto con le stelle: stelle che esplodono quando muoiono.

In maniera piú immediata siamo scaldati e covati e allevati da una bomba H in regime stazionario, la nostra nana gialla: una stella di seconda generazione sulla sequenza principale.

Quando moriremo, i nostri corpi finiranno con il tornare nel luogo da cui provengono: una stella morente, la nostra, fra cinque miliardi di anni, intorno al 5 000 001 995.

Potrebbe essere utile sapere tutte queste cose. Potrebbe essere utile averne coscienza.

Su una cosa non si discute, l’Universo è Alta Classe.

E noi che cosa siamo?

1Marca di lardo raffinato per usi di cucina.

C’è chi crede che la terra sia piatta. La mossa d’apertura di Richard, nel suo piano per distruggere la vita di Gwyn, non era calcolata per essere di per sé risolutiva, e neppure drammatica. Per contro, sottopose Richard a una sacco di fastidi e di spese – per non parlare del logorio interno. Telefonate, rintronanti va e vieni per la città, inetti corpo a corpo con carta da pacchi e cordino. Sul fatto che Richard fosse o non fosse tagliato per la narrativa si poteva discutere; non c’era invece alcun dubbio che fosse negato con la carta da pacchi e il cordino. Ma ormai aveva deciso. Per un attimo, con umile eroismo, sollevò addirittura il mento. Le sue nari si dilatarono. Richard Tull aveva stabilito di mandare a Gwyn Barry una copia dell’edizione domenicale del «New York Times». Con un biglietto. Nient’altro.

Aveva tutto ben chiaro in mente...

– Papi? Tu sei come Sansone?

– A volte mi piace pensarlo, sí, Marco.

– Sarai sempre come Sansone?

Nonostante le sventure che attendono il balsamo della vita, Marco, anche se reso debole dal tempo e dal destino, ma forte nell’animo, pronto a lottare, a cercare...

– Allora bisogna che ti ricrescano i capelli.

Richard chiuse gli occhi. Lasciò cadere la penna sulla scrivania e disse: – Quando sei calvo, i capelli non ti ricrescono. Fila via, Marco.

Il bambino non si mosse. Continuò a fissare la testa del padre. – Che modello è la tua calvizie?

– Non lo so. Non lo so proprio.

– Quando hai cominciato a perdere i capelli?

– Fila via, Marco. Va’ a giocare in mezzo al traffico. Sto cercando di lavorare.

Aveva tutto ben chiaro in mente... Richard era seduto alla scrivania; quella mattina, dopo avere completato un brano di prosa istericamente fluida e al contempo rigorosamente imbrigliata, aveva messo da parte Senza titolo, e ora stava raccogliendo gli appunti (ampiamente sparpagliati) per una recensione della Buia casetta dell’anima: una biografia di Edmund Waller. Fatto insolito, persino la carriera di Richard come recensore stava descrivendo una linda parabola discendente, come il grafico in fondo al letto di un moribondo senza ripensamenti. In principio aveva fatto narrativa e poesia; poi narrativa; poi narrativa americana (sua specialità e passione). Le cose avevano cominciato ad andare male quando lo avevano dirottato sulla narrativa sudamericana: un’interminabile sfilza, cosí gli sembrava, di fioriti tomi di mille pagine su bagni antiparassitari per le pecore o noci di cocco. Poi erano arrivate le biografie. E ancora biografie. Agli inizi, come la maggior parte dei giovani recensori, Richard era andato giú duro. Ma invece di ammorbidirsi, di diventare piú aperto, piú tollerante (tendendo prima a un’attempata imparzialità, poi, meta finale, allo stupefatto gorgoglío di soddisfazione davanti a ogni cosa scritta), si era fatto ancora piú duro. C’erano delle ragioni personali, naturalmente, che tutti avevano finito con l’intuire. Come recensore, Richard era uno scrittore vigoroso – aveva una sua voce e una sua memoria. Ma era un fautore della teoria del Critico come Buttafuori. Solo i genî erano ammessi nella bettola clandestina di Richard. E il vero guaio di tutti i romanzi che gli mandavano era quello di essere pubblicati. Mentre i suoi non lo erano... Richard si appoggiò allo schienale: stava tentando la difficile impresa di contarsi le pulsazioni continuando a morsicarsi le unghie. Il figlio minore Marco, che non aveva superato i test medici mattutini di Gina e aveva saltato un altro giorno di scuola, rimase accanto al padre, cercando di far stare in piedi un troll di gomma, o folletto che fosse, su diverse superfici approssimativamente orizzontali: l’avambraccio di Richard, la spalla di Richard, la pelata di Richard. E dall’esterno, attraverso il tremolio dei vetri della finestra, giungeva il suono di metallo rabbioso che raschiava contro la pietra, un suono che fendeva con sadica insistenza i dolenti, calcificati sostegni e contrafforti: della casa, della strada, dell’intera città, finché te lo sentivi nel canale radicolare.

Per esempio, doveva essere il «New York Times». Il «Los Angeles Times» era ancora piú spesso, Richard lo sapeva, ma secondo lui Gwyn non era matto abbastanza per il «Los Angeles Times». Lo era invece per il «New York Times». Richard era pronto a scommetterci il bene dell’intelletto. Se Gwyn non era matto abbastanza per il «New York Times», allora voleva dire che lui stava perdendo la sua capacità di giudizio. Richard allungò la mano verso la giacca appesa allo schienale e ne estrasse il libretto degli assegni piegato in due, sul quale sperava di aver scritto qualcosa a proposito della Buia casetta dell’anima: una biografia di Edmund Waller. Sí, l’aveva scritto: denunzia i suoi compagni per sfuggire alla decapitazione p. 536ss. Il libretto degli assegni andò a raggiungere gli altri appunti, raccolti in ordine sparso sulla caotica scrivania: una ricevuta della carta di credito, una lettera strappata, una bustina di fiammiferi vuota. La scrivania era cosí orrendamente ingombra che spesso il telefono smetteva di suonare prima che Richard riuscisse a trovarlo – o forse prima ancora che riuscisse a sentirlo.

Il piano era questo: Richard avrebbe mandato a Gwyn Barry una copia dell’edizione domenicale del «New York Times», l’intero malloppo, quella valigiata ammazzaforeste di stampa sbavata, accompagnandola con un foglietto battuto a macchina su cui avrebbe scritto in tutto e per tutto:

Caro Gwyn,

c’è qualcosa qui dentro
che potrebbe interessarti. Il prezzo della fama!
Il tuo affezionato,

John

Naturalmente non ci sarebbe stata alcuna indicazione su dove trovare questo interessante qualcosa. Stravaccato sulla sedia, stravaccato in quel babelico minestrone del suo studio, Richard immaginò Gwyn che apriva il pacco, corrugava la fronte leggendo il biglietto, cominciava a guardare, con un lieve sorriso, la sezione Libri, poi, un po’ meno imperturbabile, la sezione Arte, poi...

– Marco, che senso ha quel che stai facendo?

Marco o non sentí o non capí. Disse: – Caidetto? – L’eterna difficoltà di rendere il linguaggio dei bambini. Ma come superarla? Marco non disse: – Che hai detto? – Disse: – Caidetto? – una parolina molto piú umile e breve, totalmente priva di tonica.

– Perché mi metti quel giocattolo sul braccio, – disse Richard. – Perché lo fai?

– Tida noia?

– Sí.

– E cosí tida noia? – domandò il bambino, mettendogli il giocattolo sulla testa.

– Sí.

– E cosí tida noia? – domandò di nuovo, mettendogli il giocattolo sulla spalla.

– Tutto mi dà noia –. Anche Edmund Waller mi dà noia. – Secondo te come faccio a scrivere questa recensione?

Voleva che Marco si levasse dai piedi per poter chiamare Anstice e fumare una sigaretta con la testa fuori della finestra, e in generale procedere con il piano per fottere Gwyn. Edmund Waller nacque nel. Va, incantevole Rosa! Dillo a colei che sciupa il suo tempo e me... In fondo, ora che il senso di colpa era svanito, questa storia di Anstice era solo una scocciatura senza fine. Richard passava tutto quel tempo a parlare con lei caso mai le venisse voglia di ammazzarsi. Bravo a respirare aria e a scaldare sedie (oltre che una perfetta mediocrità), quell’Edmund. Ma Richard voleva che lei si ammazzasse. Per contro, il suicidio richiede energia, cosa che Anstice normalmente non aveva. In caso di inaspettato vigore, c’era il rischio che facesse anche qualcos’altro, come telefonare a Gina. Monarchico quando il vento spira dalla parte del re, repubblicano per opportunismo, novello sposo per soldi. Richard era andato a letto con Anstice, ma non aveva fatto all’amore con lei – anche se lei non sembrava rendersene conto. La congiura di Waller, di per sé, fu un fiasco. Ma gli diede l’opportunità di tradire tutti i suoi. Comunque fosse, era poi cosí grave che Gina lo scoprisse? In realtà Richard sospettava e addirittura sperava che Gina avesse lei stessa una relazione: per pressanti motivi che saranno presto chiariti. Poco vale bellezza che dalla luce si ritrae... Gli scrittori non conducono vite ben strutturate. Strutturano le vite degli altri: dei ragionieri, dei maniaci. Allorché Edmund Waller. Mentre Waller. Sebbene. A dispetto del fatto che. Laddove Waller...

Qual è il problema di laddove? Uno scrupoloso arcaismo – come la recensione di un classico. Come il classico. Non sono le parole a essere compite e vivacemente garbate, ma le loro configurazioni, che rispondono a diversi ritmi antiquati di pensiero. Dove sono i nuovi ritmi – ce n’è già in circolazione? A volte Richard immaginava che la sua narrativa fosse alla ricerca dei nuovi ritmi. Gwyn, poco ma sicuro, non li cercava. Lo stile di Gwyn suonava un motivetto semplice semplice: gli occhi un po’ sporgenti sopra lo zufolo da due soldi erano luminosi e limpidi e privi d’artificio. Richard aprí il primo cassetto della sua scrivania e consultò la recente lettera del suo ammiratore: Darko, confidente della fantastica Belladonna. Il foglio sgualcito, con le sue righe azzurro piscina, le ditate, il sudore, l’epidermica avidità: qui forse si celavano i nuovi ritmi.

Marco non voleva restare solo, cosí alla fine Richard lo portò giú, sotto il piccolo portico d’ingresso, dove almeno poté farsi qualche sigaretta in sua compagnia. L’aria estiva di Londra era un tale schifo che avrebbe potuto soffiare il fumo della cicca in faccia al bambino, o dividere il pacchetto con lui. Marco soffriva d’asma. E aveva anche un’altra difficoltà. Richard non ci badava piú di tanto. Il cinque per cento del cervello che aveva destinato a Marco (un cinque per cento capace di grandi espansioni quando Marco era malato o triste) si era autoconvinto che un cinque per cento fosse sufficiente: Marco era un ragazzino a posto, con una stranezza. Veniva definita un’incapacità di apprendimento, e si manifestava con ripetuti errori di categoria. Se spiegavi a Marco perché un pollo attraversava la strada, Marco ti chiedeva che cosa avrebbe fatto poi il pollo. Dove sarebbe andato? Come si chiamava? Era un bambino o una bambina? Aveva un marito – e, magari, una nidiata di pulcini? Quanti?

Ehi. La faccia di Richard si sollevò di scatto con un ringhio animalesco. Cristo: di nuovo quel bastardo. Due volte al giorno nei giorni feriali, a ore irregolari, c’era un bestione motorizzato che percorreva Calchalk Street ai cento all’ora. Perché tanta fretta? Chi mai poteva desiderare di vederselo arrivare prima di quando sarebbe comunque arrivato? Teneva la giacca appesa a un gancio. Indossava una maglietta a rete sotto la lucida camicia bianca. Aveva il labbro inferiore arricciato in fuori, il naso grasso, ciglia e sopracciglia bionde, come un nuovo fantastico maiale fabbricato in qualche laboratorio. Richard si alzò in piedi per osservare l’uomo che gli sfrecciava davanti: un animale che odiava un altro animale. Passa di qui due volte al giorno, pensò Richard. Passa di qui due volte al giorno, cercando di uccidere i miei bambini.

Quando l’aria si ricompose, Richard si sedette e si accese un’altra sigaretta... Se, nel processo di distruzione di Gwyn – se ci fosse stato tempo per l’arte, allora sarebbe stato molto piú gratificante usare forze contemporanee – destarle, schierarle – contro la sua vita. Ladbroke Grove e Portobello Road, con il loro quotidiano flagellare e brancolare e abbisognare. Se si potessero incanalare le energie della strada in una condotta forzata e indirizzarle nella direzione voluta. Un grande progetto. Piú facile, e meno costoso, cercarsi qualcuno del mestiere, e dargli dei soldi perché andasse a staccargli la testa dal collo. A Gwyn. Nel frattempo c’era Belladonna da attivare. Nel frattempo c’era l’edizione domenicale del «New York Times».

Ormai Marco era sdraiato sul pavimento del portico, con l’orecchio destro sul bicipite destro, la mano libera alle prese con il troll, o folletto che fosse. Richard rimase seduto a fumare. La nicotina è rilassante. Le sigarette sono per chi non è rilassato.

E i non rilassati siamo noi.

13 aspettava seduto nel furgone, modo, tra l’altro, in cui passava gran parte del suo tempo. In una mano stringeva la folta collottola di Giro; nell’altra, una consolante lattina di Ting.

13? 13 era a pezzetti. Le attività della notte precedente lo avevano visto partecipare a una Indianapolis di centoventi minuti a centoventi miglia all’ora contromano sulla M20 su una GTi rubata, con cinque signori in uniforme biancoblú attaccati al culo. E allora? Nessun problema, quando sei tu che guidi: la prendi come viene. Ma se il tipo al volante ha solo dodici anni e si è cotto il cervello annusando il solvente del bianchetto... Attraverso il parabrezza, sul quale una pioggerellina finissima aveva lasciato una specie di patina, o di vellutino, o di peluria d’adolescente, lo sguardo di 13 si posò sull’ospedale della città: San Qualcosa. Si vide mummificato, con un unico aguzzo ciuffo di capelli che spuntava dalle bende. Disastro!

Steve Cousins era dentro. Camminava in fretta, con le code dell’impermeabile e i capi della cintura che frustavano l’aria nella sua scia. Le pieghe della tesa del cappello facevano riscontro alla sua faccia rostrata e all’angolazione delle sue asimmetrie. Un semaforo di sangue macchiava l’impermeabile svolazzante. Adesso era al pian terreno, diretto alla biblioteca dell’ospedale: sapeva di un certo libro e aveva intenzione di rubarlo.

Era appena stato a trovare Kirk, al piano di sopra. Mentre Scozzy sedeva da una parte, dopo la consegna propiziatoria delle riviste di automobilismo, e Kirk giaceva dall’altra, nella sua stanzetta singola, con la faccia trasformata in una Scalextric di punti, si era aperta la porta. Era il fratello di Kirk: Lee. Con un grande canestro cigolante tra le braccia. Lee aveva detto: – Fortnum’s & Mason’s –, poi aveva posteggiato il canestro in fondo al letto e lo aveva mollato. Ed ecco spuntare fuori quella testa orrenda. Beef il pitbull! Kirk aveva allargato le braccia con le lacrime agli occhi: – Beef mio. Sorride! Lo vedi? Guarda com’è contento di vedermi.

Cristo. Quel cane fottuto gli era saltato addosso come in un video porno. E quelle bestie non puoi richiamarle. Non puoi proprio. Come me, sotto questo aspetto. Richiamarmi? Scozzy non si può richiamare. Il padrone, l’addestratore, nemmeno loro possono richiamarle: questo è ciò che le rende cosí speciali, non si possono richiamare. Kirk non poteva richiamare Beef: la bestiaccia gli teneva la bocca tra i denti. Lee, però, le aveva menato una quindicina di colpi sul collo con una bottiglia di Lucozade piena; il trespolo della flebo era caduto con uno schianto, e quando finalmente Scozzy e Lee erano riusciti a staccare Beef e a sfiancarlo a suon di calci e a ricacciarlo nel cesto, nella stanzetta c’erano cinque infermiere che dicevano cos’è questo casino? Scozzy e Lee erano seduti sul coperchio del cesto – con Beef sotto, che dava fuori di testa. – Niente! – aveva detto Kirk. – Mi si sono scuciti i punti! – Le infermiere volevano chiamare la polizia o che so io, e Steve era l’ultima fottuta cosa di cui avesse bisogno. Se l’era squagliata, mentre Kirk biascicava ancora qualcosa a Lee, a proposito della mostarda inglese da mettere nella pappa di Beef, mattina e sera, perché rimanesse tutto pepe.

13 lo vide arrivare e scese dal furgone: uff. Quando passi metà della vita ad aspettare, quando passi metà della vita a fare la posta e a oziare, ci sono delle volte che diventi rigido come un baccalà e ti s’intorpidiscono le gambe.

– Cos’hai lí? – disse 13.

Scozzy gli fece vedere il libro.

– Premeditazione, – disse.

– Del nostro uomo?

– No. Non del nostro uomo. Dell’amico.

– Se lo dici tu.

Steve era ancora di umore accomodante, dopo il suo recente successo. Aveva legnato l’uomo del Notiziario delle Dieci, e la sera dopo la notizia era nel Notiziario delle Dieci. Conci per le feste un telegiornalista, e loro ci fanno su un telegiornale. È cosí che si dovrebbegovernare il mondo.

– Holland Park, – annunciò Scozzy.

– Non posso.

– Perché.

– Devo presentarmi in tribunale.

– Cristo, – disse Scozzy.

Il caldo era sofoccante, lesse Richard. Sospirò e si accese una sigaretta.

Il caldo era sofoccante. John guardò fuori della finestra di camera sua di malumore. Sí, la giornata era di gran lunga troppo calda per essere pigri. Il momento era venuto. Doveva sceliere.

Richard non stava leggendo con spirito critico. Si limitava a correggere gli errori per il tipografo. Disse:

– Ecco una frase d’apertura che ti prende per il bavero. Il caldo era sofoccante.

Balfour Cohen si avvicinò e sbirciò sopra la spalla di Richard. Sorrise con indulgenza e disse: – Ah, sí. Questo è il suo secondo romanzo.

– Abbiamo pubblicato noi il primo?

– Sí.

– Come cominciava? Lasciami indovinare. Faceva un fredo canne.

Di nuovo Balfour sorrise con indulgenza. – Probabilmente la storia è buona.

Richard andò avanti a leggere:

Doveva sceliere. Vincere, riusirci, sarebbe stato incredulo. Ma fallire, fare fischio, sarebbe stato sdegnoso!

– Quello che non capisco, – disse Richard, – è che cos’abbia questa gente contro i dizionari. Forse non sanno nemmeno di non conoscere l’ortografia.

Mentre diceva queste parole, si accorse che stava sudando, e persino piangendo. Un’altra cosa che non capiva era perché dovesse correggere l’ortografia. Dico, perché preoccuparsi? A chi poteva importare? Nessuno avrebbe mai letto quella roba, tranne l’autore e la mamma dell’autore.

– Sono sbalordito che abbia scritto giusto il titolo.

– Com’è intitolato? – domandò Balfour.

– Un altro dono dal genio. Di Alexander P. O’Boye. Sempre che abbia scritto giusto il suo nome. Come si chiamava il primo?

– Un momento –. Balfour batté qualche tasto. – Un dono dal genio, – disse.

– Cristo, quanti anni ha?

– Indovina, – disse Balfour.

– Nove, – disse Richard.

– Veramente ne ha quasi settanta.

– Penoso, no? Ma che cosa gli è preso? Voglio dire, ha tutte le rotelle a posto?

– Molti dei nostri autori sono in pensione. Questo è uno dei servizi che offriamo. Devono pur avere qualcosa da fare.

O qualcosa da essere, pensò Richard. Starsene seduti in un pub tutto il giorno con un cagnolino in grembo sarebbe piú creativo, e piú dignitoso, che lavorare dalle nove alle cinque sulle illusioni degli analfabeti. Diede un’occhiata accanto a sé. Forse Balfour considerava Alexander P. O’Boye il suo fiore all’occhiello. Aveva sempre un atteggiamento pacato e pietoso, quando c’erano di mezzo la narrativa e la poesia. D’altronde adesso il responsabile per la narrativa e la poesia della Tantalus Press era Richard. E lui non doveva fare quel che faceva Balfour, cioè correggere biografie di pesciolini rossi e di cetrioli da esposizione, trattati di mille pagine che pretendevano di strappare via il tappeto da sotto i piedi a Freud, Marx ed Einstein, storie revisionistiche di reggimenti disciolti e di oscuri avamposti sindacali, esplorazioni non fantascientifiche di remoti pianeti, per non parlare di tutti gli altri gridi di aiuto.

– Non bisogna dimenticare, – disse Balfour, come tutte le settimane, – che in principio persino James Joyce preferí pubblicare a proprie spese –. Poi aggiunse: – Anche Proust, per inciso.

– Ma non era... Non era solo una manovra? Per evitare uno scandalo sull’omosessualità, – disse Richard prudentemente. – Un consiglio di Gide. Prima che Proust andasse da Gallimard.

– E Nabokov, – suggerí ancora Balfour.

– È vero, ma quello era solo un libro di poesie d’amore. Quando andava ancora a scuola.

– Però lo pubblicò a sue spese. E Philip Larkin. E naturalmente James Joyce.

Balfour faceva sempre cosí. Richard si aspettava di scoprire un giorno che Shakespeare aveva sfondato grazie a un editore delle vanità; o che Omero aveva risposto a qualche piagnucoloso annuncio a caccia di trex fresco. La Tantalus Press, ça va sans dire, non era un trampolino per l’eccellenza letteraria. La Tantalus Press era un trampolino per la perpetuazione della mediocrità: per Un altro dono dal genio. La pubblicazione «privata» non è propriamente criminalità organizzata, ma ha stretti legami con la prostituzione. La Tantalus Press era un bordello. Balfour era la tenutaria. Richard dava una mano alla tenutaria. Gli scrittori li pagavano... Mentre uno scrittore dovrebbe poter dire a fronte alta di non averlo mai fatto a pagamento – mai in tutta la sua vita.

– Tu che cos’hai per le mani? – domandò Richard.

– Seconda guerra mondiale. Una bomba.

– La leggenda dei sei milioni?

– L’autore va oltre. Sostiene che i campi di concentramento erano organizzati dagli ebrei e che i prigionieri erano tutti Tedeschi di razza ariana.

– Su, Balfour. Non crederai a quella roba.

Se fosse stato in circolazione ai tempi dell’Olocausto, in cui tutti e quattro i suoi nonni erano stati ridotti in schiavitú e poi assassinati, Balfour sarebbe morto e rimorto una mezza dozzina di volte. Triangolo rosa, stella gialla: un distintivo complicato per i suoi ultimi giorni. Razzialmente subumano (ebreo), sessualmente pervertito (omosessuale), mentalmente bacato (schizofrenico), fisicamente deforme (piede caprino) e politicamente deviante (comunista). Era anche un editore delle vanità; e anche una persona del tutto priva di cinismo. Inoltre – e per cosí dire in maniera disinteressata – Cohen era un serio collezionista di propaganda antisemita. Guardatelo. Mai si è vista faccia piú mite, pensò Richard: la pelata abbronzata, le ondulazioni da conchiglia sulle tempie, le orbite misericordiose dei suoi caldi occhi marroni. Balfour era un ebreo sbadatamente generoso, ma di tanto in tanto, se c’erano di mezzo i soldi, diventava balzano. Quando andavano a mangiare tutti insieme in un sandwich bar, poteva succedere che Balfour pagasse zitto zitto il conto oppure che pretendesse contributi esatti al centesimo da ognuno, per poi afferrare i soldi altrui come se volesse tagliare la corda. In queste occasioni alzava la voce in maniera del tutto inutile, poi, lentamente, sbolliva. Secondo Richard, era un atavismo: Balfour vagava per le strade del mondo da duemila anni. Curiosamente, Richard era anche convinto che il suo principale gli volesse bene ma desiderasse distruggerlo... Balfour aveva un’altra passione, che Richard sospettava fosse anche un’attività secondaria: falsificare prime edizioni moderne. Aveva alle sue saltuarie dipendenze parecchi piccoli eremiti e altri maniaci che dalla sera alla mattina erano capaci di raffazzonarti uno sbalorditivo facsimile di Figli e amanti, o della Roccia di Brighton, o di Una manciata di polvere.

– Non spetta a me mettere in discussione le teorie di un autore o le sue scoperte.

– Scoperte? Non sono scoperte. L’autore non le ha affatto trovate. Sono loro che hanno trovato lui. Su, Balfour. Distruggilo prima di leggerlo.

L’ufficio della Tantalus Press al piano di sotto era un’unica stanza: vi lavoravano undici persone, che si occupavano di traduzioni. Richard non aveva ancora chiaro il meccanismo. Traduzioni di merda nostrana in francese, per esempio? Oppure traduzioni di merda francese in altra merda nostrana? Comunque fosse, Richard era rintanato al piano di sopra, con il capo. Il loro ufficio era comodo, persino di buon gusto, ma diligentemente sobrio (Balfour diceva compiaciuto che la sua attività non era lucrosa, cosa che non avrebbe provocato alcun compiacimento in un editore normale), e avevi il permesso di fumare. Era difficile che un comunista potesse vietarti di fumare. Oltre ai comunisti, ai malati, alle razze inferiori – bocche inutili, vite indegne d’essere vissute – lo stato tedesco uccideva i lavativi, i sobillatori, gli scansafatiche e i brontoloni. Ma non i fumatori. Richard avrebbe rischiato la suprema punizione per i mugugni (e per molto altro) ma non per le sigarette. Hitler disapprovava il fumo. Stalin, apparentemente, no. Quando, alla fine della guerra, i Russi rimpatriarono i vagabondi che erravano per l’Europa, ogni anima raminga affidata alle loro cure ricevette una razione di tabacco di una generosità sbalorditiva – quasi infumabile: persino i bambini, persino i neonati. Balfour pagava Richard molto generosamente per quell’unico giorno alla settimana.

– Forse abbiamo trovato un poeta piuttosto promettente. Straordinario, per essere alla prima raccolta.

– Passa un po’ qua... Bel nome. Keith Horridge. Bellissimo nome, – disse Richard.

Il quale era cosciente che, se avesse lavorato in quel posto due giorni alla settimana invece di uno, entro un anno sarebbe stato un uomo finito. Forse i suoi romanzi erano illeggibili, ma almeno erano romanzi. Rinfrancato nei primi tempi dai Sahara e dai Gobi di inettitudine con cui aveva a che fare ora dopo ora, Richard aveva finito con l’inquadrare quella robaccia. Non era cattiva letteratura. Era antiletteratura. Propaganda egocentrica. Forse i suoi romanzi erano illeggibili, ma almeno erano romanzi. Mentre i dattiloscritti, i tabulati e i flosci quaderni che ingombravano il suo tavolo semplicemente non erano riusciti a rompere il guscio della loro forma primitiva: diario, registro dei sogni, dialettica. Come in un reparto per neonati incompiuti, Richard sentiva il pianto di queste creature, intuiva i loro spasmi indecenti, le convulsioni di una primordiale versione dell’essere. Quei testi sono come i bambini mostruosi; come la pornografia. Non si dovrebbero guardare. Non si dovrebbero proprio guardare.

Con infinita circospezione Balfour disse: – E come va il tuo... il tuo ultimo romanzo?

– Quasi finito –. E Richard non andò oltre, non aggiunse – dato che non riusciva a vedere cosí lontano, dato che gli uomini non riescono a vedere piú in là del prossimo litigio o della prossima scopata – che il suo ultimo romanzo rischiava di essere l’ultimo per davvero. Non solo non riusciva a vedere: non riusciva a guardare. Anche queste sono cose che non si possono guardare.

– Se per qualche ragione non trovi dove sistemarlo, sappi che sarei fiero di pubblicarlo per i tipi della Tantalus.

Richard si vedeva finire i propri giorni con Balfour. Questo presentimento diventava sempre piú frequente – usuale, quasi un riflesso. Finire i suoi giorni con Balfour, con Anstice, con R. C. Squires, con quella conducente d’autobus, quel postino, quella poliziotta addetta ai parchimetri. Richard, lo sparuto e nevrotico ex viso d’angelo, in una pozza stagnante di scapolaggine e zitellume, parsimonioso e imprevedibile con i suoi favori sessuali, vanesio, detestabile e scontroso, e miseramente pignolo riguardo al suo tè cinese.

– So che lo saresti, Balfour.

– Potremmo lanciare una sottoscrizione. Fare un elenco. Cominciando con i tuoi amici.

– Grazie. Grazie. Ma il romanzo deve cavarsela da solo. Deve nuotare o andare a fondo.

Nuotare o andare a fondo in che cosa? Nell’universale.

Gli antichi erano soliti pensare che le stelle – tutte le stelle – si trovassero poco piú in là di Saturno. Vai oltre Saturno e incontrerai la scia della Via Lattea. E questo è tutto. Ma non è cosí. Vai oltre Saturno, un bel po’ oltre Saturno (piú del doppio della distanza dalla Terra) e incontrerai Urano. Fai un altro miliarduccio di miglia e incontrerai Nettuno, l’ultimo dei giganti gassosi. Continua ancora e che cosa trovi? Trovi Plutone.

A differenza degli altri giganti gassosi, a differenza di quel sole fallito di Giove, Urano non ha una sorgente di calore interna; è inclinato ad angolo retto – otto gradi in piú di un angolo retto, per l’esattezza – per cui la sua rotazione è retrograda; ha degli anelli neri e quindici satelliti noti.

Nettuno vanta una Grande Macchia Nera, venti che soffiano ai milletrecento all’ora e, tra i suoi otto satelliti, l’incantevole Tritone: grande come la luna, con geyser di azoto, e neve rosa. Anche Nettuno ha degli anelli. Uno dei suoi satelliti minori, Galatea, è uno stabilizzatore d’anelli – o «pastore d’anelli», come vengono chiamati.

E ora Plutone. Non bisognerebbe mai prendere in giro gli afflitti, naturalmente, ma Plutone è davvero un disgustoso pezzetto di merda. Giove non ce l’ha fatta a diventare stella; Plutone non ce l’ha fatta nemmeno a diventare pianeta. Atmosfera rarefatta, una crosta di ghiaccio spessa 500 chilometri, e poi roccia. La massa di Plutone è circa un quinto della massa della nostra luna, e la sua luna, Caronte (altro cesso) è ancora la metà. Non ci sono anelli, per cui Caronte non fa il pastore: è un traghettatore, che traghetta i morti nell’inferno di Plutone. Il suo periodo di rivoluzione è uguale a quello di rotazione di Plutone, per cui questa terribile coppietta, questa terribile coppietta di pianetinfimi da due soldi, è «agganciata». Secondo l’emisfero di Plutone in cui vi trovate, Caronte è perennemente immobile o perennemente invisibile. Ovunque siate sulla superficie di Plutone, potete fissare il sole. A volte vi apparirebbe cruciforme, come la spada brandita dal dio. Ma non vi scalderebbe, e non vi darebbe la vita.

Gli antichi, inoltre, erano soliti pensare che le stelle fossero fisse: eterne e immutabili. Gli esseri umani hanno stentato ad abbandonare questo concetto, che è rimasto in auge ben dopo Copernico e Galileo. Per questo hanno faticato tanto a digerire le novae (quelle che oggi chiameremmo supernovae). Per questo hanno faticato tanto a digerire le «stelle nuove».

Prendete l’episodio di Gwyn e la falegnameria. Se davvero volete farvi il sangue marcio (pensò Richard, che se lo stava facendo – quella notte, nel suo studio), prendete l’episodio di Gwyn e la falegnameria.

In un’intervista Gwyn aveva detto – o gli era stato fatto notare che aveva detto – di avere sempre paragonato l’arte della narrativa all’arte della falegnameria.

– Si scalpella, si pialla, si smeriglia, finché tutto è liscio e tutto s’incastra alla perfezione. Per prima cosa la costruzione deve funzionare. Il falegname sa che i suoi oggetti devono essere funzionali. Devono essere onesti.

Domanda: – Le piace fare lavoretti di falegnameria o altre attività manuali?

– Sí. Ho una specie di laboratorio dove mi gingillo con queste cose. Lo trovo molto terapeutico.

La prima volta che l’aveva visto (tutto questo risaliva a qualche mese prima) Richard aveva detto: – Cos’è questa stronzata? Fai davvero dei lavori di falegnameria?

– No, – aveva risposto Gwyn.

– Tra l’altro è una metafora che non vale niente. Le due cose non hanno nulla in comune.

– Però suona bene. Rende la scrittura piú accessibile alla gente che svolge lavori manuali.

– E perché bisognerebbe rendere la scrittura piú accessibile a chi svolge lavori manuali?

Un paio di settimane piú tardi Gwyn aveva portato Richard nel seminterrato per mostrargli i progressi della nuova cantina per il vino. Richard aveva notato un banco da lavoro sotto le scale. C’erano una morsa, una pialla, una sega, persino una livella a bolla d’aria. C’erano anche parecchi blocchi di legno che qualcuno aveva frettolosamente martoriato con scalpello e mazzuolo.

– Ma allora ti sei messo davvero a fare il falegname.

– No. Avevo solo paura che qualche intervistatore mi chiedesse di vedere il posto dove mi dedico ai lavori manuali. Guarda. Ho persino comprato questo sgabello fatto a mano per poter dire che l’ho fatto io.

– Bella pensata.

– Mi sono persino tagliato una mano.

– Come? Facendo il falegname?

– No. Armeggiando con quello scalpello per far credere che lo faccio.

– Scassando quella povera sedia per far credere che l’hai fatta tu.

– Esatto.

Era mezzanotte. Richard scivolò fuori dello studio e andò in cucina a cercarsi qualcosa da bere. Qualsiasi cosa, purché alcolica. Ma rimase stecchito dallo stupore quando, invece del solito vuoto illuminato dal tubo fluorescente, si trovò davanti la moglie. Gina non era una donna imponente, ma la mole della sua presenza era drammaticamente aumentata dall’ora tarda. E dal matrimonio, e da altre cose. Richard la guardò con i suoi occhi d’infedele. I capelli color sangue di bue erano raccolti sulla nuca; il volto era ancora umido di crema da notte mezzo assorbita; la vestaglia di spugna rivelava un triangolo di gola arrossata dal bagno. Colto da improvviso terrore, Richard capí: quel che le era successo, quello che le era riuscito di fare. Gina era diventata adulta. E lui no. Adeguandosi al modello della sua generazione (o meglio dell’ala bohémien della sua generazione), Richard avrebbe conservato il suo aspetto fino alla morte. Un aspetto sempre piú deteriore, ma uguale a se stesso. Erano stati i bambini, il lavoro, l’amante che Gina, ormai, doveva sicuramente avere? (Nei suoi panni, nel suo matrimonio – se Richard fosse stato sposato a Richard – lui l’avrebbe avuto). Richard non poteva fare obiezioni chiamando in causa l’etica o l’equità. Perché la scrittura è infedeltà. Perché tutta la scrittura è infedeltà. Gina era ancora bella, era ancora conturbante, era ancora persino (bisognava rendergliene atto)... porca. Ma aveva fatto un chiaro passo verso l’altra sponda.

– Pensavo di tirare le somme, – disse. – È passato un anno.

– Da quando?

– Un anno esatto. Stesso giorno –. Gina guardò l’orologio. – Stessa ora.

Sollievo e comprensione giunsero insieme: – Ah, sí –. Richard aveva temuto che fosse in ballo il loro matrimonio. – Ci sono, – disse.

Ricordava bene. Una notte d’estate afosa e inquinata, che invocava a gran voce un temporale, proprio come questa. Una sortita a tarda notte dallo studio, in cerca di qualcosa da bere, proprio come questa. Un’apparizione a effetto di una Gina in vestaglia, proprio come questa. Probabilmente un paio di differenze c’erano. Forse la cucina aveva un aspetto un po’ piú luminoso. Forse c’era in giro qualche giocattolo in piú. Forse Gina sembrava uno o due giorni piú giovane, allora, e sicuramente non una donna adulta. E forse Richard aveva un aspetto un po’ meno merdoso di adesso.

Quella volta, l’anno prima, era reduce da una pessima settimana: l’esordio di Gwyn Barry nella classifica dei libri piú venduti; lo scapaccione a Marco; Anstice; e altro ancora.

Questa volta era reduce da un pessimo anno.

– Mi ricordo.

Ricordava bene. Un anno prima, stessa ora, e Gina che diceva:

– Quante ore al giorno dedichi ai tuoi romanzi?

– Come? Quante ore? – aveva detto Richard, con la testa ficcata dentro l’armadio delle bottiglie. – Non so. Dipende...

– Di solito è la prima cosa che fai la mattina, no? Tranne la domenica. Quante ore, in media. Due? Tre?

Richard aveva capito che cosa gli ricordava, lontanamente, quell’interrogatorio: un’intervista. Gina era seduta davanti a lui dall’altra parte del tavolo, con la penna, il taccuino e la tazza di tè verde. Presto gli avrebbe chiesto se attingeva il suo materiale da esperienze vere o dal crogiolo della fantasia, come sceglieva i soggetti e i temi, e se usava il calcolatore. Be’, forse; ma prima gli aveva chiesto:

– Quanti soldi ti hanno reso? I tuoi romanzi. In tutta la tua vita.

Richard si era seduto. Ne aveva un gran bisogno. Il calcolo non era molto impegnativo. C’erano solo tre cifre da sommare. Richard aveva comunicato il risultato alla moglie.

– Dàmmi un minuto, – aveva detto Gina.

Richard era rimasto a guardare. La matita era scivolata sul foglio con un lieve raspio, poi era parsa indugiare meditabonda, poi aveva ripreso a grattare piano piano il foglio.

– Vediamo, e per quanto tempo ci hai lavorato? – aveva mormorato Gina tra sé e sé: era brava a fare di conto. – Ecco qua. I tuoi romanzi ti rendono circa 60 pence all’ora. Una donna delle pulizie può aspettarsi di guadagnare sette od otto volte tanto. Dai tuoi romanzi ricavi un biglietto da cinque al giorno. O se preferisci trenta sterline alla settimana. O millecinquecento all’anno. Questo significa che ogni volta che ti compri un grammo di coca... e cioè?

Richard non sapeva che Gina sapesse della coca. – Quasi mai.

– A quant’è la coca? Settanta? Ogni volta che ti compri un grammo di coca... fai fuori piú di cento ore di lavoro. Circa sei settimane.

Mentre Gina, in tono monotonamente didattico, gli forniva un sunto della loro situazione finanziaria, quasi volesse mettere alla prova le sue capacità di calcolo mentale, Richard aveva fissato la tovaglia e pensato alla prima volta che l’aveva vista: dietro un tavolo, impegnata a contare soldi, in una cornice letteraria.

– E ora, – aveva aggiunto Gina, – dimmi quand’è stata l’ultima volta che hai incassato qualcosa dai tuoi romanzi?

– Otto anni fa. Quindi devo lasciar perdere, giusto?

– Be’, sembrerebbe la decisione piú saggia.

C’era stato un minuto di silenzio – forse per commemorare il trapasso della narrativa di Richard. Richard lo aveva dedicato a esplorare il proprio stordimento, sbigottito dalla sua intensità. Sentiva un frangere d’onde nelle orecchie. Emozioni rimemorate nella tranquillità, diceva Wordsworth, descrivendo o definendo l’atto creativo. La sensazione di Richard, quando scriveva, era piuttosto che si trattasse di emozioni inventate nella tranquillità. Ma questa era emozione vera. Nella stanza di fronte Marco supplicava nel sonno. Sentivano la sua voce chiedere pietà agli incubi.

Gina aveva detto: – Potresti recensire piú libri.

– Non posso recensirne di piú –. Di là, sul suo tavolo, lo aspettava una biografia di Fanny Burney. Richard doveva scrivere duemila parole su quel mattone entro venerdí, per un mensile letterario di rinomata spilorceria. – Scrivo quasi una recensione al giorno. Non posso farne di piú. Non ci sono abbastanza libri. Li recensisco tutti io.

– E tutti questi pezzi non narrativi che continui ad accettare di scrivere? E il viaggio in Siberia?

– Non ci vado.

– Mi spiace dirlo, dato che almeno è un impegno regolare, ma potresti mollare «La piccola rivista».

– È solo un giorno alla settimana.

– Poi però perdi un sacco di tempo a scrivere gli elzeviri. Gratis.

– Fa parte del lavoro. Il responsabile della sezione letteraria ha sempre scritto gli elzeviri –. E Richard aveva ripensato ai loro nomi, disposti a cuneo, come su una lapide: Eric Henley, R. C. Squires, B. F. Mayhew, Roland Davenport. Tutti avevano scritto elzeviri. Richard Tull. Sicuramente vi ricorderete del polemico attacco di R. C. Squires contro i poeti del Movimento. R. C. Squires, incredibilmente, era ancora vivo. Richard continuava a vederlo in Red Lion Street, nella cabina telefonica, intento a fissare con indecifrabili propositi l’affollato ingresso della scuola di lingue. Oppure lo vedeva starnazzare a quattro zampe nel vicolo dietro il Merry Old Soul.

– Gratis, – aveva ripetuto Gina.

– Sí, è vero.

– Nessuno legge «La piccola rivista».

– Sí, è vero.

Uno degli ultimi elzeviri di Richard era sulle mogli degli scrittori – una tipologia delle mogli degli scrittori. Il pretesto gli era stato offerto da una biografia di Hemingway, il quale, sosteneva Richard, ne aveva sposata una di ciascun tipo. (Energico e barbogio oppositore dei titoli arguti, Richard, quella volta, si era arreso all’inevitabile Per chi suona la campana). Com’erano già? La Musa, la Rivale, l’Anima Gemella, la Sgobbona, il Giudice... Naturalmente ce n’erano molte altre. Mogli alla Pari come Mary Shelley, e Mogli Vittime come Emily Tennyson, e Sante Vergini come Jane Carlyle, e una gran moltitudine di Pingui Nutrici come Fanny Stevenson... Che tipo era Demeter Barry? Che tipo era Gina Tull? Fornitrice di Trascendenza, Grande Frastornatrice, Obliteratrice della Mente nell’atto d’amore. Ad ogni modo non aveva importanza. Gina aveva deciso di abbandonare la compagnia. Non stava piantando Richard, non ancora. Ma stava smettendo di essere la moglie di uno scrittore.

– Non puoi mollare la Tantalus Press, che è un lavoro decente oltre che regolare. Dimmi tu cosa vuoi fare. Potresti rinunciare a fumare, a bere, a drogarti. E ai vestiti. Ma il problema non è che spendi. Il problema è che non guadagni.

– Non posso rinunciare ai romanzi.

– Perché no?

Perché... perché allora si sarebbe trovato di fronte all’esperienza, all’esperienza non tradotta e non mediata. Perché allora si sarebbe trovato di fronte alla vita.

– Perché altrimenti non mi resterebbe che questo –. La cucina, con la bacinella di plastica azzurra piena di mutande e magliette bianche dei bambini, la rigida borsetta nera sulla sedia con la bocca spalancata per chiedere da mangiare, le scodelle e i cucchiai e i sottopiatti apparecchiati per colazione, la confezione da otto scatole di cereali nell’involucro di cellofan: l’emblema di ciò che intendeva. – I giorni. La vita, – aveva aggiunto Richard.

E questa è una parola catastrofica da dire a una donna – a tutte le donne, che portano la vita in grembo, che la mettono al mondo urlando, e non accetteranno mai di vederla venire seconda a qualcosa.

Gli occhi, il petto, la gola di lei si erano infiammati, mostrandogli l’errore. – L’alternativa, – aveva continuato Gina, – è che io mi metta a lavorare a tempo pieno. Tranne il venerdí, naturalmente –. E gli aveva detto quanto l’avrebbero pagata: una cifra che aveva umiliato Richard. – Questo significa che dovrai alzare i gemelli tutte le mattine e metterli a letto tutte le sere. Nei fine settimana ci divideremo i compiti. Dovrai anche fare la spesa, pulire la casa e cucinare.

– Non so cucinare.

– Nemmeno io... In questo modo, – aveva detto Gina, – avrai vita a caterve. E vedremo quanto tempo ti rimane per il resto.

C’era una terza possibilità, aveva pensato Richard. Poteva sbatterla due volte ogni santa notte e smettere di mangiare merda. E tirare la cinghia. Ma certo: fai cosí. Richard le aveva guardato la faccia, con la pelle leggermente glassata in preparazione per il sonno; e la gola, con le sue stagionate complessità di uva passa e petalo di rosa. Gina era la sua ossessione sessuale. E lui l’aveva sposata.

– Sentimi bene, – aveva detto Gina. – Quanto ti manca per finire il libro che stai scrivendo adesso?

Richard aveva fatto una smorfia. Uno dei molti guai dei suoi romanzi era che non venivano mai veramente finiti. Si fermavano e basta. Senza titolo era già molto lungo. – Difficile saperlo. Diciamo un anno.

La testa di lei aveva avuto uno scarto. Un anno era uno sproposito. Ma dopo un bel respiro Gina aveva detto: – Va bene. Hai un anno di grazia. Finisci questo romanzo e vediamo se ci cavi dei soldi. Possiamo resistere. Finanziariamente, intendo. Prenderò i provvedimenti necessari. Mi arrangerò. Hai un anno di tempo.

Richard aveva annuito. Probabilmente la proposta era equa. Avrebbe voluto ringraziarla. Ma aveva la bocca secca.

– Un anno. Non dirò una sola parola.

– Un anno, – soggiunse ora Gina. – E non ho detto una sola parola, o sbaglio? Io ho mantenuto la mia parola. E tu?

Brutta ripetizione, pensò Richard: parola. Ma ciò non toglie che fosse vero. Gina aveva mantenuto la promessa. E lui si era dimenticato di tutto. O meglio, aveva cercato di dimenticarsene. Avevano tenuto duro, finanziariamente, ma persino dal piú sommario dei calcoli risultava chiaramente che per far quadrare i conti sarebbero servite due o tre recensioni in piú alla settimana. Marco era sempre nella sua stanza ripostiglio, e faceva ancora le sue rimostranze agli incubi.

– Hai fatto progressi? L’hai finito?

– Quasi, – disse Richard. Questo non era del tutto vero. Senza titolo non era propriamente finito, sebbene fosse già incredibilmente lungo. – Mancano un paio di settimane.

– E che cosa pensi di farne?

– Mi sono ricordato, – disse Richard, – che non abbiamo tenuto conto di alcune entrate minori dei miei romanzi. Tutto fa, sai.

– Sentiamo un po’.

– Per esempio i DPP –. Richard controllò: Gina lo stava fissando con un nuovo genere di incredulità. – Diritti sui Prestiti al Pubblico, – proseguí Richard. – I soldi delle biblioteche. Tutto fa.

– Conosco bene i DPP. Con quella pila di moduli. Quanto ti hanno dato la volta che hai passato l’intero fine settimana sdraiato per terra dietro il divano? Quant’era? Trentatre pence?

– Ottantanove pence, – disse Richard freddamente.

– ... Grande aiuto!

Vi fu un breve silenzio, durante il quale Richard abbassò lentamente lo sguardo verso il pavimento. Pensò alla volta in cui l’assegno per i DPP aveva sfondato il muro delle tre cifre: £ 104,07. Era successo quando in commercio c’erano due suoi romanzi, e nessuno si era ancora accorto che facevano schifo.

– Credo di avere trovato un’agente. L’agente di Gwyn. Gal Aplanalp.

Gina rifletté sulla notizia. – Ah, quella, – disse. – Hai già firmato?

– Non ancora. Ma forse lo farò presto.

– Guarda che qui succede un patatrac. Tu te ne freghi dei soldi, e questa è una bella qualità, ma io invece ci tengo, e ti assicuro che la musica cambierà.

– Lo so, lo so.

– ... A proposito, come è intitolato. Il tuo nuovo romanzo.

– Senza titolo.

– E quand’è che ne avrà uno?

– No, è intitolato Senza titolo.

– Vuoi dirmi che non sai nemmeno come intitolarlo?

– No. È intitolato «Senza titolo».

– Come può essere intitolato «Senza titolo»?

– È cosí. Perché lo dico io.

– Be’, è un titolo maledettamente stupido. Sai, secondo me saresti molto piú felice, senza quei libri. Potrebbe giovarti anche per quell’altra cosa. Potrebbe essere un gran sollievo. Gwyn e tutto il resto non c’entrano –. Gina sospirò disgustata. Gwyn non le era mai piaciuto molto, nemmeno ai vecchi tempi, quando stava con Gilda... ed erano tutti poveri. – Demi dice che la quantità di soldi che gli entra in tasca è spaventosa. E dire che lei è ricca! Non so nemmeno se tu ci creda ancora veramente. Ai tuoi romanzi. Perché non hai mai... Perché quello che... Oh, mi dispiace, Richard. Non sai come mi dispiace.

Perché non hai mai trovato un pubblico – non hai mai trovato l’universale né alcunché di simile. Perché quello che t’inventi qui, nel tuo studio, non interessa a nessuno. Fine della storia. Sí: questa è la fine della tua storia.

«Sposa la tua ossessione sessuale», aveva detto qualcuno a Richard una volta. Era stato uno scrittore. Molti anni prima. Sposa la tua ossessione sessuale: quella cui continui a ritornare, quella che non sei mai riuscito a esaurire completamente: sposa quella. Richard stava intervistandolo, dal che si poteva grosso modo dedurre che lo scrittore non era né famoso né popolare. L’oscurità, in effetti, era l’unica cosa per cui era celebre: se tutto fosse andato per il verso giusto, quel signore (chiamiamolo signor X) avrebbe avuto la possibilità di diventare un monumento all’oblio, come un Powys. Quanti sono veramente i Powys? Due? Tre? Nove? La tua ossessione sessuale, continuava a dire: sposa quella. Non la bellezza, non l’intelligenza. Il signor X abitava in una di quelle casette tutte in fila, due stanze sopra due sotto, a Portsmouth. La roba che scriveva era ieratica e recondita, ma lui sapeva parlare solo di sesso. E di ossessione sessuale. Eccoli lí, seduti all’ora di pranzo nel pub lungomare, davanti ai piatti di pesce intatti, con il signor X che suda nel suo impermeabile. Non sposare la neurochirurga che fa la buffona. Non sposare la fata sognatrice che si occupa della fame nel mondo. Sposa la piú porca di tutte. Sposa quella che lo fa in cambio di una boccata della tua sigaretta. Richard aveva sentito contrarsi i muscoli delle spalle. Ormai era pronto ad affrontare una crisi di nervi in piena regola, un’esplosione di odio sessuale – una confessione completa, un’istantanea putrefazione dell’amarezza e della ripugnanza. Ma non era successo. Sposa quella che te lo fa diventare piú duro. Sposa quella. Ti stuferai a morte, ma lo stesso succederebbe con la neurochirurga, lo stesso succederebbe con la fata sognatrice, prima o poi... Quando, dopo pranzo, aveva riaccompagnato a casa lo scrittore in minitaxi, Richard aveva sperato di vederne di sfuggita la moglie. Aveva sperato di potersi chiedere che razza di persona fosse lei: una scienziata aerospaziale? una divoracazzi assatanata? La donna che si era affacciata con aria sospettosa nel corridoio umido e buio, con la testolina seminascosta dal lussureggiante colletto della vestaglia, non assomigliava affatto a una divoracazzi assatanata. Piuttosto a una scienziata aerospaziale; a una scienziata, tra l’altro, che doveva avere dato il meglio di sé molto tempo prima. E non bastava: qualunque fosse stata la scelta di vita che il signor X aveva deciso di fare, la signora X non dava l’impressione di esserne particolarmente felice, neppure lei. Cosí almeno era sembrato a Richard, che aveva notato l’infinita stanchezza con cui la donna contemplava il ritorno del marito. Il quale ormai era stato dimenticato, o ridimenticato, era muto, fuori commercio. Non ce l’aveva fatta neppure ad assurgere all’Oblio... Alcuni di noi, la maggior parte di noi, tutti noi, barcolliamo attraverso il tempo che ci è concesso con la testa piena di consigli e suggerimenti che ci hanno dato (o che abbiamo orecchiato). Usa Acqua Fredda Per Bagnare La Pentola Dopo Avere Fatto Le Uova Strapazzate. Quando Riempi La Boule Dell’Acqua Calda Tieni Il Collo Piegato Ad Angolo Retto. Perché Il Tè Venga Bene Che L’Acqua Bolla Ti Conviene. Digiuna con il raffreddore, mangia con la febbre. Le banche concludono la maggior parte dei loro affari dopo le tre. E Richard aveva sposato la sua ossessione sessuale. Lo aveva fatto e basta.

Tranne che per un unico importante aspetto, la vita amorosa di Richard e Gina, nell’ultimo anno, era stata ricca e piena come sempre. C’era ancora quel senso di trepidazione quando la camicia da notte e il pigiama si congiungevano a chiusura di giornata, e, nei fine settimana, quando si svegliavano, e in altri momenti rubati, ché tali erano, con due bambini per casa. Gina era una donna giovane e sana. Richard era nel pieno delle forze. Dopo nove anni insieme, il loro comportamento in amore era, se possibile, persino piú inflessibilmente dedito alla varietà e all’innovazione che in qualsiasi altro momento del passato. L’unica vera differenza – questo va detto – era che Richard, adesso, era impotente. Di un’impotenza cronica e acuta. Tolto questo, però, le cose stavano esattamente come prima.

Richard era impotente con Gina tutte le sante notti e, nei fine settimana, anche la mattina – quando quelle due pesti gli davano una mezza opportunità! (Lo scalpiccio dei piedini; il cocciuto e inesperto armeggiare con la maniglia della porta; il rauco comando dalla camera da letto seguito da bisbigli sbigottiti e da un’altrettanto sbigottita ritirata; il silenzio premonitorio prima del tonfo nauseante della collisione – lo strillo, il piagnucolio). A volte, quando gli orari dei Tull lo permettevano, Richard era pigramente impotente con Gina anche di pomeriggio. Né si può dire che le pareti della camera da letto segnassero i confini della loro attività erotica. Solo nell’ultimo mese Richard era stato impotente con Gina sulle scale, sul sofà del salotto e sul tavolo della cucina. Una volta, dopo una festa nei dintorni di Oxford, era stato impotente con lei addirittura sul sedile posteriore della Maestro. Due notti dopo si erano ubriacati – o meglio si era ubriacata Gina, perché Richard lo era già – e tornando dal Pizza Express si erano introdotti di soppiatto nel giardino condominiale servendosi della loro chiave, e Richard era stato impotente con Gina anche in ambiente silvestre. Impotente, in ambiente silvestre, sotto il muto merletto di un salice, sovrastati da Diana – la quale, sentendosi ferita o tradita, teneva la faccia semigirata dall’altra – e piú su, molto piú su, dalle baluginanti stelline della Via Lattea.

Il problema era diventato cosí grave che Richard aveva parlato – e persino pensato – di smettere di bere; aveva persino parlato – ma non pensato – di smettere di fumare. Sapeva, però, che i suoi guai erano ottusamente e intricatamente e tutto sommato essenzialmente letterari, e che nulla, tranne i lettori o la vendetta, avrebbe potuto alleviarli. Cosí non fece niente, se non cominciare a prendere Valium e cocaina.

– Dev’essere dura per te. È una specie di ultimatum, – disse Gina nell’oscurità.

Richard non rispose.

– Sei stanco. E hai la testa piena di pensieri.

Richard non rispose.

La casa grigio tortora di Gwyn nell’innocenza del mattino; la casa di Demi all’alba. E a turbarla il nostro occhio vigile, e quello ancora piú straordinario di Steve Cousins: l’uomo di Barnardo.

Scozz non la vedeva dal furgone ma attraverso il vetro trattato della sua Cosworth (finestrini scuri, carrozzeria bianca, bassa minigonna da corsa). Non la vedeva come un fenomeno architettonico, e nemmeno immobiliare, ma come un mosaico di punti deboli. Certe parti della casa sembravano lampeggiare e fare bip-bip – lampeggiare e fare bip-bip nella sua visione da robot. Dal punto di vista della sicurezza, la terrazza del primo piano era uno scherzo da bambini. Ma se gli avessero detto di scegliere, probabilmente Scozzy sarebbe entrato dalla porta principale. D’altronde non voleva portare fuori nulla da là dentro, se non l’informazione.

Guardiamo ora le cose dall’altra parte. Ci sono le finestre della camera da letto del padrone. Il vetro vibra leggermente. Chi può entrare lí dentro – l’intruso, l’informatore, il detective privato? Richard Tull vuole entrare lí dentro. Non fisicamente, non di persona. Vuole fare a Gwyn quello che Gwyn ha fatto a lui. Vuole assassinargli il sonno. Vuole informare l’uomo addormentato; la legge del taglione.

Ma io non entrerò lí dentro. Non ancora. Non entrerò e basta.

Era chiaro per tutti che quello di Gwyn e Demeter Barry era il matrimonio perfetto.

Bastava guardarli per capire che li aveva accoppiati il cielo.

Si tenevano per mano in continuazione (erano «inseparabili»). Lui la chiamava amore in continuazione. Lei lo sbaciucchiava sulla guancia in continuazione. Erano la tenerezza, erano l’ideale – erano il sogno. Persino Richard doveva ammetterlo: erano assolutamente nauseanti. I cronisti del bel mondo come Rory Plantagenet avevano notato che ai ricevimenti e alle cerimonie Gwyn e Demeter si staccavano l’uno dall’altra «con riluttanza» quando la dinamica del convivio lo esigeva. Era celebre l’imbambolamento in cui cadeva Gwyn quando la moglie si trovava a parecchi invitati da lui. «Stavo solo contemplando,– diceva, se qualcuno richiamava la sua attenzione,– la mia consorte». (Richard, se per caso era presente o nelle vicinanze, si abbandonava anche lui a cupe fantasticherie: un colpo di mazza nel vicolo, una pugnalata con lo scalpello sui bui gradini del seminterrato...) Gli intervistatori e i medaglionisti delle riviste letterarie sottolineavano come la faccia di Gwyn si «infiammasse» quando Demeter spalancava la doppia porta del salotto portando il vassoio del tè, sul quale erano infallibilmente allineati i biscotti preferiti di Gwyn, i Chocolate Olivers. (Leggendo queste cose, anche Richard si infiammava. Attraverso i sospiri di fumo di sigaretta vedeva il mentecatto furtivo con il cric in mano, il collo seghettato della bottiglia di birra spaccata). Nelle Sette virtú vitali, 4: Uxoridipendenza, i Barry erano ripresi mentre passeggiavano tra gli scoiattoli e i piccoli labirinti e gli stagni ammantati di Holland Park, con le braccia allacciate e le dita intrecciate; poi vedevi la moglie dell’autore che corrugava la fronte con grande interesse dietro la spalla dell’autore, mentre l’autore sorrideva e mormorava qualcosa davanti allo schermo del suo desktop; poi li sorprendevi anche nel loro «ristorantino» francese, al momento del dessert, mentre si mettevano in bocca a vicenda gocciolanti cucchiaiate di stupido gelato. Gwyn diceva alle telecamere che bisognava costantemente farsi dei regali – «cosucce, ma che siano sempre un filino troppo costose». (Richard, ricacciando indietro i conati di vomito, era partito lancia in resta anche in quell’occasione: il picchiatore di professione, il veterano prezzolato). Lei era ricca. Ma adesso lo era anche lui. Lui era intelligente. Ma adesso lo era anche lei. Il padre di Demi, con il bastone da passeggio, nel parco logorato dalle carrozze della magione signorile; il padre di Gwyn, il Gallese proboscidato sulla passerella di legno lavata con la pompa dell’acqua. L’amore mescola. Il sangue va incontro al cervello, nella sublime bohème. Bastava esaminare l’archivio dei ritagli. «Penso un gran bene di lei» – Gwyn. «Mi sento incredibilmente fortunata, tutto lí» – Demi. Gwyn: «Mia moglie è la cosa piú bella che mi sia capitata». Demi: «La gente mi chiede come ci si sente a essere sposata con un genio, e io rispondo che è assolutamente fantastico».

E dall’altra c’era Richard – piegato a serramanico sul sacchetto per il vomito – che sfogliava le Pagine Gialle in cerca di assassini...

Richard chiamò gli uffici londinesi del «New York Times». Effettivamente avevano una copia dell’edizione domenicale, e Richard era libero di andare lí a consultarla o ad ammirarla; ma non poteva portarsela via. Gli dissero, invece, di rivolgersi alla International Dispatches di North Islington. Armato di impermeabile, postumi di sbornia e libro (una biografia di William Davenant, il figlio bastardo di Shakespeare: 600 parole da consegnare all’inizio della settimana successiva), Richard salí a Ladbroke Grove, cambiò a Paddington e a Oxford Circus, e viaggiò nella luce striata dei finestrini fino a Islington, per le cui strade vagò la bellezza di cinquantacinque minuti torcendosi le mani, finché s’imbatté in un vecchio solitario, murato nell’informazione, che affittava una casetta con il tetto impagliato di «Frankfurter Zeitung», «El Pais», «India Today», e molti altri giornali coperti di chiassosi caratteri parsi o sanscriti. Il vecchio gli disse che non teneva piú il «New York Times» della domenica; solo l’edizione feriale. Problemi di spazio. Richard se ne tornò a casa. Mezza settimana piú tardi, sbollita la rabbia, chiamò di nuovo gli uffici londinesi del «New York Times»: gli dissero di telefonare al distributore, in Cheapside. Cosí fece. Lí gli dissero che le poche copie dell’edizione domenicale del «New York Times» che arrivavano erano destinate agli abbonamenti, anche se di tanto in tanto – è vero – ce n’era una in piú... Richard usò tutto il suo fascino per accattivarsi la giovane donna all’altro capo del filo. Ma il guaio era che di fascino non ne aveva, non piú almeno, e la ragazza gli disse che avrebbe dovuto fare un salto il lunedí mattina, sperando nella sua buona stella, come tutti gli altri.

Cominciarono cosí i viaggi settimanali fino al magazzino di Cheapside, dove come al solito lo spedivano in giro dall’ufficio prefabbricato alla bocca di carico al deposito e ritorno, prima di mandarlo a spasso – o meglio alla «Piccola Rivista», dove all’alba Richard cominciava a rivedere le recensioni davanti a una tazza di carta piena di minestra di pomodoro. Oltre a essere una pessima realtà, quella tazza piena di minestra di pomodoro era sempre un pessimo segno... Solo in occasione della sua quinta visita Richard rivelò – strappando uno sconcertato raglio di scherno al vicedirettore – che non era necessario che la copia del «New York Times» fosse di quella domenica. Un qualsiasi numero domenicale del «New York Times» sarebbe andato bene. Battendosi il petto contrito, Richard seguí il vicedirettore in un altro deposito, uno che non aveva mai visto prima, e lí vide quantità indescrivibili di «New York Times» della domenica promiscuamente ammucchiati con innumerevoli edizioni domenicali di «Boston Globe», «San Francisco Chronicles» e via dicendo. Richard ondeggiò leggermente. Nella febbre e nella vertigine che provava in quell’istante si era introdotto un elemento di incomprensione quotidiana – per la tristezza e il grigiore e l’umidità e il fetore di morte dei giornali abbandonati; e per l’umana propensione alla dissolutezza e allo schiamazzo. Cristo, perché non chiudiamo tutti il becco? Ad ogni modo, Richard cedette e mirò alle dimensioni. Quel giorno tornò a casa stringendo amorevolmente tra le braccia l’oltraggiosa mole dell’edizione domenicale del «Los Angeles Times». Non era solo piú grossa di quella del «New York Times». Era molto piú grossa.

Carta da pacchi e rotolo di cordino richiesero circa una settimana ciascuno per essere comprati e assemblati. Poi Richard fu pronto a entrare in azione. Quel giorno passò in rassegna i cadaveri delle sue vecchie macchine per scrivere finché ne trovò una in grado di dire: «Caro Gwyn, c’è qualcosa qui dentro che potrebbe interessarti. Il prezzo della fama! Il tuo affezionato John».

Sulla sua scrivania c’era un’altra lettera, macchiata, spiegazzata: di serie B. È raro che la posta di serie B turbi l’ordine del mondo. Normalmente la posta di serie B non ti cambia la vita. La lettera diceva:

Caro Richard,

E allora? Non ho ricevuto risposta. Hai detto bene, I sogni non significano nulla. Gwyn Barry ama Belladonna, e Darko ama Belladonna, ma Belladonna chi ama. Quella femmina è micidiale.

Ai dimenticato il «boccale»?

Il tuo

DARKO

Come fare per scoprire qualcosa su un matrimonio? Come fare? Perché i matrimoni sono imperscrutabili. Io posso dirvi tutto quello che c’è da sapere sul matrimonio dei Tull (posso addirittura dirvi che odore hanno le loro lenzuola: odore di matrimonio); ma non so nulla, per il momento, del matrimonio dei Barry. Un attento esame delle Sette virtú vitali, 4: Uxoridipendenza rivelerebbe, forse, che Demeter era meno contenta, in generale, di Gwyn – o meglio, meno contenta di apparire contenta in tivú. Ma come fare per scoprirlo? Richard, seduto alla sua scrivania, intento a gingillarsi con la lettera di Darko e con il pensiero di Demi, un paio di idee le aveva. Anche Steve Cousins, nella sua Cosworth, aveva un paio di idee. Lui, però, era molto piú pratico. Scozz avrebbe scoperto – qualcosa l’avrebbe scoperto di sicuro. E l’avrebbe fatto quel giorno stesso: subito. Dopo avere raccattato 13.

Quando finalmente comparve tra i pilastri della Corte di Giustizia di Marylebone e scese con passo solenne la scalinata, 13 aveva lo sguardo fiero, umido e leggermente distante dell’uomo convinto di avere subíto gravi e forse intollerabili calunnie. Aveva sempre quell’aspetto quando usciva da un tribunale, a meno che, per una ragione o per l’altra, non l’avesse fatta franca. Mentre percorrevano Edgware Road sulla Cosworth, in una successione di brevi strappi e lunghe attese, Steve diede un’occhiata al volto di profilo di 13: troppo infantile, troppo rotondo, per quello sguardo amaro e sbigottito.

– Com’è andata?

– Sei mesi di sospensione.

– E?

13 sospirò e si allacciò tardivamente la cintura di sicurezza. – Multe.

Steve annuí. 13 prese fiato: stava per fare un discorso – un discorso elevato. La sua intenzione, chiaramente, era di parlare non solo per sé ma per tutti gli uomini e le donne, di ogni luogo e ogni tempo – per rammentare al cuore umano ciò che avrebbe dovuto sapere e invece aveva dimenticato.

– Quei cazzi con l’elmetto, – cominciò 13, – sono peggio di una banda. Al soldo del governo. E sai da quando? Da quando gli hanno alzato la paga. Nel 1980 o giú di lí. Quelli in alto hanno detto: qui gira male. C’è disoccupazione. Tira aria di rivolta. Voi tenete il coperchio sulla pentola e noi vi diamo l’aumento. E dove si prendono i soldi? Nessuna paura. Multeremo i fessi.

– Chi t’ha messo in testa queste idee?

– Nessuno. Semplice buon senso.

In realtà, anche se sembrava divertito o per lo meno indulgente, Steve era scocciato. Cercò di indurire la voce e di irrigidire la faccia nella sua smorfia da rettile – ma non ci riuscí. Perché? Coz Scozz stava perdendo colpi? O piú semplicemente le vecchie forme, i vecchi ritmi, non avevano piú l’efficacia di un tempo... Steve era scocciato per il seguente motivo. 13 lo aveva fatto aspettare. Per ben dieci minuti. I due litigarono. – Dove cazzo sei stato? – A cercare la macchinetta della Coca Cola. Avevo voglia di Coca. – Ci passi metà della tua vita là dentro. Lo sai che non c’è la macchinetta della Coca –. 13 fece spallucce e disse: – Avevo voglia di Coca –. Già: lasciando il suo mentore e protettore in divieto di sosta, e per di piú in un isolato brulicante di gente in uniforme, all’ombra di un edificio municipale che altro non era se non un immenso inghiottitoio. La frase in latino sopra il portale diceva: Lasciate ogni speranza...

– Lo sai quanto costa tenere un tipo in guardina per una settimana?

– Dimmelo tu.

13 glielo disse. Cristo: come al Claridge’s. E per un posto del genere, fatto di brodaglia, buglioli da vuotare e testosterone intrappolato. Alto costo di manodopera: tutti quegli sbirri nella loro saia puzzolente. La sicurezza è cara, e il suo prezzo sale piú in fretta di altre cose. Superinflattiva, come le armi e l’attrezzatura medica. Anche se nel caso della sicurezza ti viene da pensare che prima o poi intervenga una qualche controforza ad abbassare i prezzi, data l’incredibile domanda.

13 si voltò verso di lui e disse: – Lo sai cosa dovrebbero fare con tutti quei maledetti soldi?

– Dimmelo tu.

– Pagarti un mutuo. Pagarti un mutuo. Tutti quei soldi per rinchiuderti in un posto dove l’unica cosa che fai è imparare meglio quello che sai. È come guardare alla tele un programma di antiquariato. Pagarti un mutuo. Se hai la tua casa, non vai piú a cacciarti nei guai.

Fino a quel momento l’analisi sociologica di 13 aveva trovato in Steve Cousins un ascoltatore discretamente comprensivo. C’erano fior di delinquenti di antica data che interpretavano il crimine a quel modo: azione di guerriglia nella lotta di classe. Ma di lí in avanti 13 avrebbe dovuto fare a meno di lui.

– Non è molto efficace come deterrente, non ti sembra, Tredi? – disse Scozzy. – Che razza di messaggio sarebbe? Non scassinate le case degli altri, altrimenti ve ne compriamo una.

13 meditò per un paio di semafori. Poi disse: – Quello che non capiscono è che ai ricchi piace essere derubati.

– Davvero? E come mai?

– L’assicurazione! Sono tutti d’accordo. Non vedo perché facciano tanto casino. Si riprendono tutto con gli interessi, e l’assicurazione aumenta i premi alla povera gente. Semplice, no?

Oltrepassando Speakers’ Corner e imboccando Park Lane, Steve ebbe il raro e fugace piacere di mettere la terza. Si diede un’occhiata di fianco. Scalò la marcia. Ai tempi in cui giocava a squash regolarmente, e aveva persino provato per un certo periodo il tennis, si era chiesto a lungo da dove venisse la potenza del colpo: polso o braccio? Prendi un tovagliolo di stoffa. Puoi tirarlo in faccia a qualcuno con tutte le tue forze e non gli fai niente: come un piumino da cipria. Ma con un bello scatto del polso si può far sanguinare un naso o annerire un occhio. Mentre ripartiva al semaforo davanti al Dorchester, Scozzy cambiò dalla prima alla seconda e, facendo scattare il polso come una molla, piantò quattro nocche nello zigomo del suo passeggero. La testa di 13 sbatté contro il finestrino e rimbalzò indietro.

– Cristo. Perché?

– Non farmi mai aspettare. Mai, amico. Mai.

13 sbatté le palpebre e si sfregò la guancia. Ci mancava solo questo. C’erano già Schianto e RoosterBooster che gliele avrebbero suonate quella sera. Per festeggiare l’udienza in tribunale. 13 disse: – Cazzo che male.

Naturalmente un parchimetro non si trova mai. Cosí a 13 sarebbe toccato girare in tondo per Berkeley Square piano quanto basta e per tutto il tempo necessario, mentre Steve sarebbe andato a fare visita a Mrs V.

– Hai visto? Solo di polso, te l’ho dato, – disse Steve. – Solo di polso.

Il bilocale seminterrato di Anita Verulam era, come al solito, un altare della gratitudine e dell’encomio borghesi e mediorientali. Mazzi di fiori incellofanati, scatole di cioccolatini e bottiglie di champagne trasformate da mani esperte in pacchi regalo, ceste e cofanetti di vario genere: tutte offerte delle opulente famiglie alle quali Mrs Verulam forniva cameriere, cuoche, sguattere, bambinaie, balie, autisti, giardinieri, uomini di fatica, attendenti, schiavi, dami di compagnia – e chiunque altro rientrasse nella categoria personale di servizio. Nelle saune e nei ristoranti e nei caffè dei grandi magazzini di West London il nome di Mrs Verulam era bisbigliato con venerazione da ricche padrone di casa, tutte ormai regine della delega, con case trasformate in imperi di tambureggiante vassallaggio monosillabico. Se queste signore fossero state un po’ piú folli e molto piú ricche, forse avrebbero costruito dei «tempietti» a Mrs Verulam in soffitta, o nelle camere degli ospiti in disuso. Il personale di servizio trattato da Mrs Verulam era esclusivamente straniero. Il personale di servizio straniero serviva veramente; le donne delle pulizie straniere pulivano veramente: sapevano ancora come si fa. Mentre il gene della pulizia è da lungo tempo scomparso dal Dna indigeno. Questo è un peccato, se si guarda il quadro generale a lunga scadenza. A differenza di altri settori, la pulizia, in termini planetari, è un campo estremamente promettente, in sicura crescita. Lady Demeter Barry non aveva mai posato gli occhi su Mrs Verulam, ma tre volte alla settimana le apriva il cuore al telefono.

Steve disse: – Ha dato uno sguardo allo schedario per noi? – Noi gli venne spontaneo: in un certo senso diluiva la colpa.

Mentre Mrs Verulam parlava, la sigaretta le scodinzolò su e giú nella bocca: – Quando si sono sposati, di preciso?

Steve le disse mese e anno.

– Le acque sono sempre piú agitate. I domestici se ne vanno a ritmo serrato – . Mrs Verulam era una vedova cinquantenne in tailleur rosa; quando Mr Verulam era vivo, si era intrufolata con abilità in un certo tipo di salotti – Parigi, Barcellona, Francoforte, Milano. – La causa non è Lady Demeter. Nessuno si lamenta di lei –. La sua voce enfisematica era calda, ma i suoi occhi erano freddi e socchiusi. Spesso, durante i loro incontri in quell’ufficio, Mrs Verulam continuava a chiacchierare tenendo la cornetta a braccio teso, mentre una disorientata laringe femminile, un’esistenza abbandonata a se stessa, frignava e supplicava nell’aria, come afferrata per la gola dalle sue dita dipinte. – È lui che non piace. I figli non arrivano, – aggiunse spietatamente.

– Pensa che lui ehm...?

– A volte le mie donnine spagnole e portoghesi sono molto religiose. Sono capaci di piantare in asso una coppia se hanno sentore che usi il metodo Ogino-Knaus. E naturalmente Demeter è cattolica, no? L’altro guaio con queste donnine è che sono incredibilmente riservate. Persino con me. Quello che ci serve, – disse Mrs Verulam, consultando di nuovo il fascicolo, – è una filippina. O una colombiana.

Steve annuí in segno di approvazione. La cosa era comprensibile. Sulle filippine, sulle colombiane, potevi fare pressione con la minaccia dell’espulsione. Tipo: ehi, Charito, è un bel po’ che siamo da queste parti, vero?

– Hmm, ne ho tante. Ecco qua, Ancilla. Bene. Parlerò ad Ancilla e ti farò sapere.

– Gliene sono grato, Mrs V. Come sta il nostro amico Nigel?

– Sí, ti devo proprio ringraziare, Steve.

– Ho fatto quattro chiacchiere con lui.

– Un agnellino, adesso. E silenzioso come un topolino, dopo le dieci.

– Sí, be’. Gli ho dato un consiglio da amico.

Si guardarono negli occhi. Mrs Verulam era una persona moderna, e vendeva correntemente informazioni; e se mai le era parsa una cosa disdicevole e poco professionale da fare, adesso non era piú di quell’opinione. Nemmeno lei aveva figli. C’era una certa affinità tra il ragazzo di Barnardo e Anita Verulam. Perché la famiglia era una cosa, e loro due un’altra.

Mentre usciva, Steve si chiese se Mrs V. avesse idea di quanto fosse stato «amichevole» il suo consiglio a Nigel. Nigel era un ricco hippy che viveva sopra la migliore amica di Mrs Verulam, un’altra vedova di nome Aramintha. Nigel aveva il vizio di suonare musica classica – per lo piú Mahler – a tutto volume nel cuore della notte. Aramintha aveva provato di tutto. Aveva gentilmente chiesto a Nigel di smetterla; gliel’aveva chiesto un po’ meno gentilmente; gliel’aveva fatto chiedere dal padrone di casa; gliel’aveva fatto chiedere dalla polizia; gliel’aveva chiesto di nuovo gentilmente. Le implorazioni di Aramintha non erano servite a nulla. Finché un giorno, alle tre del mattino, Steve aveva buttato giú la porta, era entrato nell’alloggio con Clasford e T, aveva scaraventato giú dal letto a suon di calci quello stronzo di Nigel, l’aveva trascinato sul pavimento tirandolo per i capelli e gli aveva messo quel cazzo di testa su... Cos’è già che avevano fatto? Ah, sí. Gli avevano cacciato la testa tra l’amplificatore e il lettore di Cd mentre li fracassavano con le mazze da baseball. Poi Steve gli aveva piantato un gomito nella fottuta boccaccia e gli aveva detto, a tutto volume: niente rumore dopo le dieci. Un agnellino, adesso, e gentilissimo quando lo incontravi sulle scale. Non era la prima volta che Steve risolveva un problemino a Mrs V. La signora aveva qualche sterlina d’avanzo, e le piacevano i giovani capaci di rendere la vita difficile al prossimo.

Steve salí sulla Cosworth, accanto a 13, e disse: – Al Warlock.

Alle quattro e un quarto Lizzete comparve con Marius, che indossava una sciarpa verde di traverso sul blazer color borgogna per celebrare chissà quale straordinario risultato artistico o calcistico, e Richard, sgravato di Marco e di ogni altra incombenza, salí di sopra. Il «di sopra» consisteva nella minuscola camera da letto sua e di Gina, piú un bugigattolo nell’angolo, con doccia e tazza del gabinetto. Richard si svestí e rivestí in un battibaleno, sebbene ci fosse tutto il tempo, e come se avesse sentito improvvisamente freddo, sebbene la camera fosse calda. Richard aveva avuto un pomeriggio peggiore del solito. Verso le tre si era accorto che la scaletta di consegna delle recensioni era scombinata. Doveva assolutamente sgombrare la mente dalla Buia casetta dell’anima: una biografia di Edmund Waller e dall’Amante sventurato : William Davenant, il figlio bastardo di Shakespeare, per riprendere frettolosamente dimestichezza con Robert Southey: poeta gentiluomo, sul quale, in teoria, avrebbe dovuto scrivere 700 parole nei prossimi settanta minuti. Aveva compiuto l’impresa, trovando anche il modo, nel frattempo, di fumare quindici sigarette con la testa piú o meno fuori della finestra e di intrattenere una specie di conversazione con Marco, che quel giorno era particolarmente appiccicoso, garrulo e malaticcio. L’ultima frase gli aveva richiesto un quarto d’ora e gli aveva fatto sanguinare la punta morsicata delle dita... Richard dovette riordinare tutta la camera per trovare un paio di calzoncini bianchi; dovette capovolgere il cesto della biancheria sporca e scuoterlo sulle piastrelle del bagno per trovare un paio di calze bianche, che crepitarono e scricchiolarono quando le prese in mano. Non si accorse, sebbene Gina fosse in cima ai suoi pensieri, com’era ovvio che fosse in camera da letto, non si accorse che tutto stava diventando meno limpido, meno luminoso – persino nell’universo della sua biancheria, sul quale Gina presiedeva con decrescente solennità, come una divinità insufficientemente pregata, che non si sente piú costretta dal patto d’alleanza, che non si sente piú costretta dalla fede. Se Gina lo tradiva, allora il tradimento avveniva di venerdí. Il venerdí era il giorno sacro di Gina: fino all’ora del tè, quando i bambini tornavano da scuola, nessuno poteva mettere piede in casa senza preavviso. Questo era l’accordo – da un anno a questa parte. Richard andava alla Tantalus Press o alla «Piccola rivista» o all’Adamo ed Eva. Ma per un po’ non era andato da nessuna parte: si era appostato in strada per sorvegliare. Regolarmente, Gina dava un’occhiata dalla finestra e vedeva il fumo di sigaretta levarsi a sbuffi dalla Prelude biancastra, la loro macchina di allora, che poi era caduta a pezzi ed era stata sostituita dalla Maestro rosso pomodoro.

Richard scese le scale in pantaloncini corti, infreddolito. C’era aria di pioggia. – Vai, papi, – disse Marius. – Fagli vedere.

Richard uscí ad aspettare il pony express che doveva ritirare la recensione. Puntualissimo. Eccolo arrivare sfrecciando compiaciuto preceduto dalla strazio della sua brutale trombetta, con il corpo nero inarcato nella falsa urgenza del ciclista, come se il suo lavoro fosse palesemente piú importante del tuo. Il casco continuava a sibilargli e a gracchiargli nelle orecchie come una di quelle grasse cuffie d’altri tempi. Pony express e recensore si urlarono un «Salve» e si sottoposero alla trafila della biro e della tavoletta con il foglio da firmare; due disadattati brutti da vedere, il ciclista nella sua tuta da subacqueo cittadino, il recensore con le gambe nude sotto la fredda gonna dell’impermeabile. I recensori resteranno in circolazione ancora per un po’, ma i pony express spariranno presto, o passeranno tutti alle pizze e alle patate al forno – vittime del fax.

Al Warlock Sports Centre, Richard posteggiò la sua polverosa Maestro vicino alla nuova familiare svedese di Gwyn, che stava ancora gorgogliando e cinguettando, come se il calcolatore di bordo fosse impegnato negli ultimi controlli di sicurezza. Poi, privata improvvisamente dell’intelligenza, la macchina parve acquattarsi muta e imbronciata ad aspettare. Senza nemmeno chiudere la Maestro (dentro c’erano solo bucce di banana e sbiadite copie carbone di romanzi morti), Richard attraversò il posteggio e il suo esemplare assortimento di traffico paralizzato, quasi un’illustrazione di tutto ciò che si può incontrare sulle strade moderne, con tanto di senso unico alternato e iniezione elettronica: carri funebri, catorci, dragster, autocarri ribaltabili, cellulari, microvetture con cupolino trasparente per invalidi. Come aveva previsto, scorse Gwyn che camminava dondolando lentamente la sua borsa da ginnastica lungo il margine del campo da bocce, dove venerande figure in camicia bianca e capelli bianchi flettevano e raddrizzavano arcaicamente la schiena nel basso rettangolo giallo. L’affetto protettivo che una persona per bene dovrebbe provare quando osserva un’altra persona per bene senza che quest’ultima sappia di essere guardata – questo affetto, pensò Richard, era in quel caso non tanto assente quanto capovolto o inacidito: con la faccia in preda a tic di onnipotenza, si sentí per un breve attimo simile a un dio, e affaticato da un’implacabile ostilità. Proprio in quel momento, dalle nere pendici stile tudor del tetto del circolo si levò in volo uno stormo sparso di uccelli di città, come l’invisibile disegno di un volto umano, o di un pugno, che compare collegando i puntini numerati... La distanza tra i due uomini si ridusse. Richard si esibí in una corsetta che gli diede lancinanti fitte alle caviglie, ed era quasi giunto a tiro di racchetta dalle spalle di Gwyn quando, con un unico belato della porta laterale, i due abbandonarono l’aria della tarda estate per il denso fiato del circolo.

Tutti gli uomini devono affrontare questo momento. Ma aspettate... Prima dobbiamo superare lo sportello delle prenotazioni e l’indifferenza sessuale della bella ragazza che vi lavora, poi i tabelloni degli avvisi, con gli elenchi delle categorie e delle graduatorie (disseminati di puntine multicolori, con l’aggiunta di una palpitante vespa in agonia), poi l’aggressiva frivolezza del direttore del Warlock, John Punt. – Gwyn, – disse Richard, mentre mettevano piede nel circolo vero e proprio e nel grande bar. Dunque? Eccolo lí: il pub della vita. Ottanta o novanta anime, in capannelli e scaglioni; ed ecco anche il momento familiare, la flessione nel rumore, il sorso, la deglutizione, e una serie di profili che si girano a guardarti, come nelle foto segnaletiche. Tutti siamo eternamente condannati a trovarci di fronte altri uomini, riuniti in blocchi e cricche. Armati del nostro personaggio, tutti dobbiamo affrontare un pubblico che può applaudire o fischiare o restare silenzioso o sbadigliare infastidito o semplicemente andarsene – emettendo un verdetto sulla nostra recita esistenziale. Richard ricordava che un tempo lui e Gwyn erano ugualmente impopolari lí al Warlock; mai nessuno rivolgeva loro la parola, tutti li sbeffeggiavano di soppiatto. Mentre Gwyn, con i capelli color peltro, non piú alto di quanto la sua borsa era lunga, passava tra i bassi tavolini diretto verso il cartellone delle prenotazioni, vi furono grida e gracidii di saluto, del tipo «scribacchi ancora?», «Sei già arrivato al milione?» Il mondo del consenso. Come se Gwyn fosse improvvisamente diventato visibile, come se lo avessero assolto perché non aveva perso il suo tempo; la tivú lo aveva democratizzato, reso passibile di trasferimento alle masse; la sua recita esistenziale era considerata degna di uno scaltro applauso. Mentre Richard, come personaggio, era ancora un perfetto estraneo. Tanto per cominciare, nessuno sopportava la sua abitudine, sul campo da tennis, di gridare merda in francese.

– Oggi non sarò gran che come avversario, – disse Gwyn (dovevano ammazzare il tempo per dieci minuti). – Sai, con questa storia del Premio per la Profondità.

– Premio per cosa?

– Premio per la Profondità. Non ne hai sentito parlare? È una specie di stipendio letterario che viene assegnato ogni anno. I soldi vengono da Boston.

– Lasciami indovinare, – disse Richard cautamente. – Qualche ereditiera della carta igienica. Che cerca un modo elegante per eludere le imposte.

– Niente affatto. Lo stanno già chiamando il mini Nobel. La cifra è risibile. Ma te la dànno tutti gli anni. Finché campi.

– E?

– Mi hanno detto che sono nella rosa dei candidati.

John Punt, che aveva sempre la faccia scottata e i pori della pelle dilatati dalla lampada a raggi ultravioletti, diceva spesso che il Warlock era un dinosauro. Intendendo con questo: niente idromassaggi, niente ombrelloni, niente banco delle quiche, niente spremute di broccoli. Invece: cibo insalubre servito a ogni ora del giorno, fumo consentito e addirittura incoraggiato, e rigorosa non esclusività. Tutti potevano associarsi al Warlock, per quattro soldi e senza formalità. Dentro il bar esterno c’era un bar interno, un antimondo dove molti uomini e poche donne sedevano in archi di cerchio contemplando carte da gioco o cruciverba facilitati o disegni d’architetti o comparse d’avvocati o scappatoie, dove un tormentoso cenno di diniego o di assenso di qualche grande testa sciupata bastava a provocare bancarotte e privazioni, e dove, in quel momento, dietro un mefitico tramezzo di fumo di sigaretta, seduto di schiena, Steve Cousins teneva banco con tre ceffi da galera abbronzati e variolati: le scellerataggini piú esaltate (nessun particolare, solo principî generali) sul do ut des, perché cosí è la vita, e cosí bisogna fare... Gwyn e Richard si trovavano tra i due campi, in un andito ingraticciato che serviva anche da galleria dei videogiochi: golf elettronico, Bingomatic, Poker Draw e, naturalmente, la Macchina della Conoscenza. Invece del jukebox c’era un pianoforte verticale nero, sul quale di tanto in tanto, dopo pranzo, qualche sonnolento criminale interpretava una tremula ballata. L’acustica del circolo sembrava stranamente sbilenca; le voci erano distorte o a senso unico, perché molte bocche sbaciucchiavano il collo di telefoni cellulari, e piú di un orecchio era tappato da Walkman o da apparecchi acustici, per riguardo ai propri acufeni.

– Un Premio per la Profondità, – disse Richard pensoso. – Be’. Una cosa almeno è sicura.

– E cioè?

– Che non sarai tu a vincerlo.

Gwyn, che si sbagliava, corrugò la fronte e disse: – Un milione di persone non può sbagliarsi.

Richard, che pure si sbagliava, disse: – Un milione di persone si sbaglia sempre. Su, giochiamo.

Chiunque condivida la diffusa teoria che il declino del tennis britannico è una conseguenza del modo in cui questo gioco è praticato nelle associazioni tennistico-festaiole borghesi si sarebbe rassicurato e ricreduto, al Warlock Sports Centre, udendo i ringhi feroci e i fieri mugolii, le virulente oscenità e i barbarici fonemi che trasformavano i campi cintati in gabbie di schiavi o bestie parlanti in continua rivolta contro la prigionia, le fustigazioni e il cibo schifoso. D’altro canto, chiunque avesse osservato Gwyn e Richard che si preparavano a giocare avrebbe subito riconosciuto che la netta superiorità di Richard era dovuta solo e unicamente alle sue origini borghesi. Gwyn era imbozzolato in una tuta nuova che sembrava fosse stata disegnata e messa in vendita quella mattina; la sua caratteristica principale era una turgidezza ininterrotta, un effetto tuta spaziale o raffica di vento che faceva venire in mente a Richard le salopette dei gemelli e lo scaldabagno coibentato sotto le scale. Richard, piú astuto, e anche, per una volta, piú orrido, indossava degli spiegazzati calzoncini color cachi e, soprattutto, una camicia biancastra – frusta, per niente moderna, che emanava una luce prebellica da latte inacidito (turpe e torpida ormai, al cospetto della lustra disinvoltura delle T-shirt), la stessa luce delle cuciture dei mutandoni di lana, del vecchio cerotto chirurgico, dei vecchi ospedali da campo, delle vecchie stazioni di smistamento. Persino le sue scarpe erano insopportabilmente antiquate: beige, di tela, nate per proteggere l’incedere avventato e faticoso dell’esploratore o del prosaico imperialista. Ti saresti aspettato di vederlo arrivare con una racchetta di legno chiusa in una morsa e con un sacchetto di plastica pieno di palle pelate estratte dal tagliaerba dell’aiuto giardiniere.

Dalla finestra di una delle sale da gioco del Warlock (non in uso al momento, ma covo di giocatori di freccette dopo le sei), Steve Cousins osservò i due romanzieri che cominciavano la loro partita e si chiese come se la sarebbero cavata nel suo sport. In altre parole, si stava chiedendo se sarebbero stati bravi a menare le mani – o, ancora piú semplicemente, a prendersele. Questi pensieri lo trascinarono in speculazioni pseudosessuali, perché sí, verità lapalissiana, lottare è come scopare (la vicinanza stessa procura che sia cosí, con l’aggiunta di vari test di consistenza e valutazioni di peso che altrimenti non si farebbero); e già che ci siamo, c’è un’altra cosa altrettanto lapalissiana, e cioè che il criminale è un artista (anche se non per le ragioni citate di solito, che dipendono unicamente dall’immaturità e dal fatto di lavorare in proprio): il criminale assomiglia all’artista nella presunzione, nell’incompetenza e nell’autocommiserazione. Dunque, per un momento, Scozzy osservò Gwyn e Richard con gli occhi di un animale – un animale parlante. I violenti sono uomini che si trasformano in animali pur restando umani. Per cui la loro mente contiene la meteorologia del buono/cattivo, caldo/freddo, fresco/stantio, e, per quanto riguarda gli uomini, gentile/crudele, noto/ignoto, controllabile/incontrollabile. Forte/debole. Guardando Richard e Gwyn, Steve non vide onestamente come potessero dargli del filo da torcere.

La partita cominciò. Steve fece lo spettatore. E non con occhio inesperto. Come molti della mala, aveva passato una frazione significativa della sua vita in palestre e circoli sportivi; quella gente ha un sacco di tempo libero, di tempo da ammazzare, concettualmente al polo opposto, nel loro universo, rispetto al tempo, quello espiato in un istituto di pena. Steve notò i pietosi resti dell’antica tecnica di Richard, la sua severità borghese: il diritto spalettato, il rovescio insistentemente di taglio. Guardate: si notava che le calze avevano una sfumatura rosa. Lo smorto rossore del bucato di famiglia. Due bambini: gemelli. Un po’ sapeva giocare, Richard. Anche se prolassati, i salcicciotti della pancia si giravano per indirizzare il colpo; anche se glabre e spolpate, le gambe si piegavano ancora. Quanto al finocchietto dall’altra parte della rete, nella sua tuta arcobaleno da stilista di gran moda, quanto a quella specie di Campanellino, che svolazzava di qui e di là con la sua bacchetta magica... In pratica c’era un uomo che giocava da solo, contro un piccolo raccattapalle manovrabile che spezzava in continuazione il ritmo, sempre ovvio, mai caparbio, totalmente privo dell’istinto della finta o del contropiede. Steve era scandalizzato dall’ingenuità di Gwyn.

Perché allora tanta rabbia – nella metà campo di Richard? Nemmeno mettendosi d’impegno sarebbe riuscito a perdere con quell’individuo. Oddioddio: come bestemmiava, come maltrattava la racchetta. Per non parlare di come si nettava i visibili depositi di tè o nicotina dagli angoli di quella fogna di bocca. Aspettate. Una vecchia cornacchia del caseggiato aveva messo la testa fuori della finestra:

– Modera il linguaggio, Richard!

– Mi scusi.

Si vede che lo faceva spesso: la donna conosceva persino il suo nome! Probabilmente era celebre, per il suo linguaggio. Da queste parti, se non altro. Intorno al campo 4, se non altro. Oh, ecco qualcosa di interessante. Discesa a rete con un bel tiro angolato (Richard), che spedisce Finocchietto fuori campo – anzi, a schiantarsi contro la rete laterale. Uff. Ma in qualche modo Gwyn riuscí a rimandare la palla dall’altra: un colpo molle e contrito appena oltre la rete. E mentre lui tornava indietro correndo come una lepre nella speranza di agguantare una causa ormai persa, Richard, invece di schiaffare la palla nelle vaste distese di campo a sua disposizione, cercò di scavalcarlo con un pallonetto lungo linea. E mise fuori.

Cosa disse Richard, piegato in due sul montante della rete? – Oh, Cristo. Nah! Merda.

Cosa disse Gwyn, in posizione eretta nel corridoio laterale? – Richard, sei un indoratore di gigli.

Steve capí. Indorare i gigli. Come mettere troppe uova nel budino. Ora, l’intenzione di Steve... Come tutti i peggiori elementi del Warlock, Steve non era un socio tennistico o ginnastico o boccistico: era un socio sociale. Era quindi con tranquilla familiarità che era salito con il suo bicchiere di Isotonic di sopra, nella stanza delle freccette, vuota e carica di tensione nella sua penombra innaturale, con le finestre tutte imbrattate di una vernice o pasta color panna per tenere fuori la luce. L’oscurità e il silenzio e l’improvvisa solitudine lo resero per un attimo incerto sulla propria identità, immediata e futura. Questi attacchi radenti di irrealtà non necessariamente lo turbavano – perché Steve non li sentiva irreali. Li sentiva appropriati. Se li aspettava, dicendosi che, in fondo, come lui non c’era nessuno: per il momento. E non era delirio di unicità, niente affatto. Steve era solo convinto di essere il primo di molti. C’erano molti Scozzy là fuori, in attesa di divenire. Sono un viaggiatore del tempo. Vengo dal futuro.

L’intenzione di Steve era di essere indimenticabile. Gwyn, o Richard, o forse entrambi, non lo avrebbero dimenticato. E questa era una promessa. Indoratori di gigli. Non ce n’è molti, si disse Steve mentre chiudeva silenziosamente la finestra: non nel mio campo. Io sono l’unico.

– Fine, – disse Gwyn.

– Grazie, – disse Richard. – Che sudata.

Si strinsero la mano sopra la rete. Il tennis era l’unica occasione in cui si toccavano. Le partite erano l’unico motivo per cui si vedevano. Circa sei mesi prima era diventato evidente che Richard non era piú capace di arrivare in fondo a una cena in compagnia di Gwyn senza fare una figuraccia invereconda. Anche se Gina e Demi, qualche volta, si vedevano ancora la sera.

– Sto migliorando, – disse Gwyn.

– No, non stai migliorando affatto.

– Prima o poi ce la farò.

– No, non ce la farai mai.

Usando la rete come una rotaia o un deambulatore, Richard raggiunse la sua sedia. Vi si lasciò cadere come un sacco, e subito assunse una posa meditabonda, come se fosse in trance ipnotica o ubriaco fradicio. Gwyn rimase in piedi – all’ombra del caseggiato, dal quale i minuziosi rumori del faidatè graffiavano piagnucolando l’aria: trapano, pialla, smerigliatrice.

– Non so che cosa mi sia preso, oggi, – disse Gwyn. – Non riuscivo a concentrarmi. Non riuscivo a trovare lo stimolo. Colpa di questo Premio per la Profondità. Davvero ridicolo, – aggiunse. – Non annunceranno il vincitore fino a primavera.

– Oh, capisco. Niente a che vedere con la tecnica o il talento o la scelta di tempo o che so io. Semplicemente, avevi le mestruazioni al cervello.

– Be’, tiravo i colpi a vanvera. Non riuscivo a far funzionare il mio rovescio.

Richard si stava godendo quell’attimo di respiro – e respiro era proprio la parola di cui aveva bisogno. – Tu non ce l’hai un rovescio. Il tuo rovescio non è altro che una ferita nel fianco. Una mera assenza. Come il ricordo di un arto amputato. E non hai nemmeno un diritto. Né una volée. Né un pallonetto. Questo è il guaio con il tuo gioco. Non hai nemmeno un colpo. Sei un cane in un campo da tennis. Sí. Un piccolo cane da riporto gallese.

Richard si mise una sigaretta in bocca e, per una silenziosa consuetudine, ne offrí una a Gwyn, che disse:

– Non riuscivo a concentrarmi. No grazie.

Richard lo guardò.

– Ho smesso.

– Hai cosa?

– Ho chiuso con il fumo. Tre giorni fa. Di brutto. Proprio cosí. Viene il momento in cui si sceglie la vita.

Richard accese e inalò con urgenza. Poi guardò la sigaretta. In realtà non aveva voglia di fumarla, ma di mangiarla. Questa mossa di Gwyn era un colpo basso. Praticamente l’unica cosa che gli piacesse ancora di Gwyn era che Gwyn fumasse ancora.

Naturalmente, Gwyn non aveva mai fumato seriamente. Solo un pacchetto al giorno. Non come Richard con le sue megastecche, i suoi polmoni scamosciati, il suo glicine affumicato... Richard si ricordò di un altro indimenticabile dialogo che aveva avuto con Gwyn, nello stesso campo, sulla stessa sedia verde, sotto lo stesso cielo color budella e la stessa luna estiva. Un anno prima, quando Amelior stava spiccando il volo e tutto il resto stava crollando, Gwyn si era girato verso di lui, a lato del campo, e aveva detto bruscamente: – Mi sposo –. Richard, immediatamente, aveva risposto: – Bene. Era ora –. E lo pensava. Gli faceva, come si dice, «sinceramente piacere». Il piacere si manifestava sotto forma di un voluttuoso sollievo. Sí, bene. Era ora che Gwyn s’incatenasse per sempre al suo afasico muletto, Gilda: la ragazza della sua adolescenza, l’invisibile Gilda. Ancora adesso, chiudendo gli occhi, Richard ne vedeva la sagoma minuta in una dozzina di monolocali e appartamentini diversi, il volto schivo, umido di vapore mentre portava in tavola l’ennesima ciotola di spaghetti, i capelli scialbi, il labbro superiore freddino e suscettibile, la biancheria priva di vezzi (che fosse di Gwyn?) su un cordino che faceva la pancia sopra i tubi bianchi e fibrosi della stufa a gas, la fobica umiltà, la prosaica tristezza, il tozzo, infantile cappotto verde smeraldo che veniva da un altro tempo e un altro luogo. – Bene. Scommetto che Gilda non starà piú nella pelle. E cosí, vero? – Gilda andava bene. Richard non la trovava di suo gusto. Non l’avrebbe scopata nemmeno una volta. Si può quindi immaginare il suo improvviso mutamento d’animo quando Gwyn, dopo una breve pausa, aveva detto: – No. Non che io abbia notato. Penso anzi di poter affermare che Gilda non è propriamente euforica. Perché non mi sposo con lei –. Gwyn non si sposava con Gilda Paul. Si sposava con Lady Demeter de Rougemount, una celebre gnocca di sconfinata ricchezza e di sangue imperiale, che Richard conosceva e ammirava, e alla quale recentemente aveva cominciato a pensare ogni volta che eiaculava. – Cosí va la vita, – aveva detto Gwyn. Richard non gli aveva fatto le congratulazioni. Se n’era andato tutto impettito, apparentemente per cercare Gilda e consolarla. In realtà, si era allontanato sulla sua Maestro, l’aveva posteggiata a qualche isolato di distanza ed era rimasto lí a singhiozzare, imprecare e fumare.

– Bastardo, – disse Richard. – Credevo che in questo fossimo alleati.

– Tre giorni fa. Non senti come rantoli? Un paio di anni e ti straccerò 6-0, 6-0.

– E come ci si sente?

Richard aveva immaginato di rinunciare al fumo; e naturalmente aveva supposto che si soffrisse meno a rosolare all’inferno. Ormai aveva smesso da molto tempo di pensare di smettere. Qualche volta, prima che nascessero i figli, si era detto che molto probabilmente avrebbe rinunciato al fumo quando fosse diventato padre. Invece i bambini sembravano avere reso immortale il legame con le sigarette. Questo legame con le sigarette – questo vitale rapporto con la morte. Paradossalmente, Richard non voleva piú rinunciare a fumare: voleva mettersi a fumare. Non tanto per riempire con una sigaretta gli intervalli tra una sigaretta e l’altra (non ce ne sarebbe stato il tempo, in ogni caso), e neppure per fumare due sigarette per volta. No, sentiva il desiderio di fumare anche quando stava già fumando. Come se la sua necessità fosse soddisfatta e insoddisfatta allo stesso tempo.

– In realtà è buffo, sai, – disse Gwyn. – Ho smesso tre giorni fa, giusto? E indovina?

Richard, con infinita pazienza, disse: – E da allora non hai piú provato il desiderio di una sigaretta.

– Esattamente. Be’, sai com’è. Il tempo. Il futuro.

– Ci hai meditato su, e preferisci vivere per sempre.

– Non è forse per questo che imbrattiamo fogli, Richard? Per l’immortalità? Ad ogni modo, penso che il mio dovere nei confronti della letteratura sia chiaro.

Un ultimo cimento maschile li attendeva: lo spogliatoio. Lo spogliatoio aveva come al solito ganci e panchette e troppo poche grucce, e specchi appannati perché gli uomini potessero incurvarsi all’indietro e pettinarsi i capelli – se gliene restavano – e gran copia di sudore virile in forzata evaporazione (bloccato in questo processo, addensato in una nebbiolina furtiva che rallentava l’aria), per non parlare del competitivo miscuglio di acque di colonia, gel per scalpi e addolcitori d’ascelle. C’era anche una fila di docce piene di natiche palpitanti e pistolini fradici e dondolanti che naturalmente era vietato esaminare: non si guarda. Il nuovo vezzo di Gwyn di fissare le cose con stupore infantile veniva inibito nello spogliatoio. Non si guarda, ma come uomo ti classifichi mentalmente, con inevitabile e sempiterno rimpianto (sarebbe stato cosí bello, probabilmente, averlo grosso)... Nudo, Richard osservò Gwyn, nudo, che si asciugava vigorosamente l’umido cespuglio. Richard era eccitato: non c’era il minimo dubbio che Gwyn fosse matto abbastanza per il «Los Angeles Times» della domenica.

Riattraversarono il bar, che diede loro tempo e modo di ricominciare a sudare, e uscirono nel tardo pomeriggio. Richard accennò cautamente:

– Stavi dicendo? A proposito dell’immortalità?

– Be’, non voglio sembrarti presuntuoso...

– Parla come ti detta il cuore.

– Milton l’ha definita l’estrema debolezza delle menti nobili. E... e qualcuno, parlando di Donne ormai prossimo alla morte, ha detto che l’immortalità, il desiderio di immortalità, è radicato nella natura stessa dell’uomo.

– Walton, – disse Richard. Era doppiamente colpito: Gwyn si era addirittura documentato sull’immortalità.

– Dunque sai che cosa voglio dire. Sicuramente anche tu hai di questi pensieri. Rivestire di carne e muscoli lo scheletro del tempo.

– Ho dato di nuovo un’occhiata, – disse Richard, ancora piú cautamente, – ad Amelior...

La tacita intesa tra i due era la seguente. La tacita intesa era che Richard, pur gioendo in maniera sincera e schietta del successo di Gwyn, si riservava il diritto di mettere ben in chiaro che secondo lui i libri di Gwyn erano merda (piú precisamente, Summertown, il primo romanzo, merda perdonabile; Amelior merda imperdonabile). Oh, dimenticavo: e anche che il successo di Gwyn era, assai comicamente – anzi, del tutto spassosamente – accidentale. E transitorio. Soprattutto transitorio. Se non nel tempo reale, nel caso in cui quest’ultimo avesse fallito, sicuramente nel tempo letterario. L’entusiasmo per le opere di Gwyn – Richard ne era sicuro – si sarebbe raffreddato prima del suo cadavere. In caso contrario l’universo sarebbe stato una burla. Una spregevole burla. Dunque, sí, Gwyn sapeva che Richard aveva certe riserve sui suoi libri.

– Come sai, dopo averlo letto la prima volta, – proseguí Richard, – non ero affatto convinto che potesse sfondare. Mi era sembrato mellifluo e pieno di buoni propositi. Persino suadente. E programmatico. Con un’insufficiente densità di elementi. Ma... – Richard alzò gli occhi (erano giunti accanto alle loro automobili). Era fuor di dubbio che Gwyn stesse aspettando pazientemente quel ma. – Ma la seconda volta che l’ho letto, tutto mi si è chiarito. Quello che mi ha sconvolto è l’assoluta originalità del libro. Quando abbiamo cominciato a scrivere, penso che tutti e due sperassimo di portare il romanzo in una direzione nuova. Io ero convinto che la strada per giungere a questo obiettivo passasse attraverso lo stile. E la complessità. Tu invece hai capito che l’unica cosa che conta è l’argomento –. Richard alzò di nuovo gli occhi. Nell’espressione di Gwyn, brevemente interrotta per ricambiare il saluto di un passante, poi stolidamente ripresa, si leggeva una dignitosa imperturbabilità. Richard sentí tutta la sua cautela fuggire con uno strillo. – Un nuovo mondo, – proseguí, – progettato e reificato. Non la città ma il giardino. Non piú la nevrosi ma una fresca limpidezza. Ci è voluto del fegato, – concluse Richard, incredulo di riuscire ancora a sostenere lo sguardo di Gwyn, – a creare una nuova arte del bello.

Lentamente, Gwyn protese la mano. – Grazie.

Cristo, pensò Richard. Chi dei due impazzirà prima? – No, – disse. – Sono io che ringrazio te.

– Prima che mi dimentichi. Gal Aplanalp sta per partire per LA, quindi è meglio che la chiami. Domani. Al mattino.

Poi si separarono, nel posteggio, sotto la luna pomeridiana.

Là fuori, nell’universo, il chilometro è nettamente superiore al miglio. Sempre che all’universo piacciano le cifre tonde. E cosí sembra essere.

La velocità della luce è di 186 282 miglia al secondo, ma è prossima ai 300 000 chilometri al secondo. Un’ora luce equivale a 670 000 000 miglia, ma è prossima a 1 000 000 000 di chilometri.

Analogamente, un’Unità Astronomica, cioè la distanza media tra la terra e il sole, da centro a centro, equivale a 92 950 000 miglia, ma è prossima a 150 000 000 di chilometri.

È arbitrario, tutto ciò? È forse antropico? Fra un milione di millenni il sole sarà piú grande. Sembrerà piú vicino. Fra un milione di millenni, se mi starete ancora leggendo, potrete verificare queste parole confrontandole con l’esperienza personale, perché le calotte polari si saranno sciolte e la Norvegia avrà il clima del Nordafrica.

Dopo ancora, gli oceani cominceranno a bollire. La storia umana, o se non altro la storia terrestre, sarà agli sgoccioli. Onestamente non credo che mi leggerete ancora.

Nel frattempo, però, il chilometro continuerà a essere nettamente superiore al miglio.

– Quando devi immetterti in una strada importante da una via secondaria, ti fermi, guardi a sinistra e a destra, – disse Schianto nella voce piú profonda e solenne di cui fu capace, – e aspetti finché non vedi arrivare una macchina.

– Sei sicuro? – domandò Demeter Barry.

– Ingrani la prima. E quando la macchina è ben vicina, sbuchi fuori e ti ci piazzi davanti.

– Capisco.

– Poi rallenti come se non avessi nessunissima fretta. E metti il gomito fuori del finestrino.

– Però!

– Sempre che la macchina non cerchi di superarti.

– Nel qual caso?

– Acceleri, naturalmente.

L’ammaccatissima Metro era appostata in una traversa a fondo cieco di Golborne Road. Sotto il portapacchi ingombro di pubblicità e lettere P, c’erano Demeter, seduta e legata al posto del passeggero, e Schianto, incastrato dietro il volante. Parlando, l’istruttore agitava le mani come se scolpisse qualcosa con convinzione.

– Permettimi una dimostrazione pratica. Ecco... cintura a posto? Andiamo.

Era vero – quel che diceva Steve Cousins. Che le lezioni di guida si reggono su una profonda cultura della lussuria, cosí come avviene in molti altri mestieri in cui gli uomini sono costretti a servire donne sole: idraulici, poliziotti, commessi di negozi d’abbigliamento (soprattutto di scarpe). Pensate ai lattai, e alle leggende sui lattai. Come deve avere pianto Eros quando sono scomparsi dalle strade inglesi... Prendete l’esempio di Schianto: gli impulsi contrastanti legati al rapporto di autorità maschio-femmina – sommati a questa nuova e sana paura delle ricche pollastrelle, che non vogliono sembrare razziste o con la puzza sotto il naso – creano un’utile confusione. Persino il lavavetri, quell’artista del porta a porta, con i suoi stracci da barbone e il suo secchio di plastica, con i suoi drammatici scavalcamenti di davanzale, con la sua sagoma appollaiata e vigile dall’altra parte della finestra, con la nuova luce che grazie a lui inonda lo spazio vitale: persino il lavavetri è causa di riassetti, di revisioni domestiche... Probabilmente si potrebbe scrivere un trattato lungo quanto il Codice stradale su, diciamo, «La cintura di sicurezza come mezzo per promuovere il contatto corporeo istruttore-allieva»; o anche: «Regolazione dell’altezza del sedile», «Scusabilità della rassicurazione tattile durante e dopo la fermata d’emergenza», «La leva del cambio come simbolo o totem».

– E il succo del discorso è? – disse Schianto in tono incoraggiante.

– Quale? – domandò Demeter.

– Lo sto chiedendo a te.

– Hmm. Non saprei.

– Lasciare l’impronta della tua personalità sulla strada. Te lo ripeto. Quando si è al volante lo scopo non è arrivare a destinazione in maniera veloce e sicura. Lo scopo, quando si è al volante, è...?

– Lasciare l’impronta della propria personalità sulla strada.

– Esatto. Dimostrare chi è il padrone dell’asfalto.

Baldanzosamente, Schianto accese il motore e si avvicinò all’incrocio, mettendo la freccia a sinistra. La strada era sgombra, e tale rimase, per qualche arcano motivo, per venti, quaranta, sessanta secondi, di piú ancora. E questa era Londra, dove le auto non mancavano certo. Questa era una città moderna, dove c’erano auto a iosa, dove c’erano auto, auto, auto a perdita d’occhio. Continuarono ad aspettare. Schianto allungò e torse il collo. Una parte consistente dell’ora di Demi se n’era già andata nella vigile attesa.

– Dev’essere scoppiata una bomba al neutrone.

Continuarono ad aspettare. Finalmente arrivò un sudicio furgone bianco, da destra. A Londra puoi sempre contare sul fatto che prima o poi compaia un sudicio furgone bianco: sembrava che dei bambini troppo cresciuti l’avessero impiastricciato con le dita sporche di fuliggine. Eccolo arrivare, sopra il ponte, sotto l’irto isolato municipale, eccolo avanzare risoluto. Il furgone era alla loro altezza – il furgone li aveva quasi oltrepassati – quando Schianto balzò fuori proprio davanti al suo muso.

Prima, lo stridore disumano dei freni; poi, il brutale colpo di clacson e (Demi si era girata) il furibondo lampeggiare dei fari. Schianto si rilassò contro lo schienale, canticchiando, e piano piano ridusse la velocità della Metro, mentre il furgone nitriva e scalpitava nella scia, cercando di sorpassarlo, di salirgli sul tetto, di scavalcarlo. Lanciando un’occhiata a Demeter, Schianto abbassò il finestrino e fece sporgere un tratto spropositato di gomito.

– Adesso, – avvertí, – è il momento dell’irrazionale esplosione di velocità.

E Demeter fu debitamente schiacciata contro il sedile mentre il fettone di Schianto pigiava l’acceleratore a tavoletta.

Venti minuti dopo, la Metro era posteggiata in doppia fila in All Saints Road, una parallela di Portobello, davanti alla goffa mole del vecchio Adonis. Schianto stava spiegando a Demi che le tecniche di cui le aveva appena dato un saggio, e gli altri misteri ai quali, forse, l’avrebbe presto iniziata, appartenevano al mondo della guida avanzata; e le lasciò gentilmente intendere che per il momento poteva solo sperare di riuscire un giorno a dominare tali arti.

– Ma il principio è sempre lo stesso. Devi dimostrare chi è il padrone dell’asfalto.

Dopo avere annuito un paio di volte ed essersi pacatamente schiarito la gola, Schianto cadde in un magnanimo silenzio. I suoi pensieri, forse, andarono a quella terra dove i guidatori esperti, con grandi sterzate e stridor di freni e tamponamenti a catena, dispiegano tutta la loro abilità. O forse stava semplicemente meditando sulla sua ultimissima disavventura: il sudicio furgone bianco – si era scoperto al primo semaforo – conteneva tre poliziotti in uniforme.

– Probabilmente, – rifletté Schianto, che era la persona piú indicata per saperlo, – me la caverò con una GSD.

– Scusa?

– Guida Senza la Dovuta.

– Scusa? – ripeté Demi. Che sembrava spiaciuta davvero: spiaciuta di dover chiedere.

– Guida Senza la Dovuta Attenzione e Prudenza, – terminò Schianto.

– Ma non è vero. Ti farò da testimone. Stavi guidando con incredibile attenzione. Tutto quello che facevi era...

Schianto agitò nell’aria una manona: non era alla portata di tutti, questa comprensione dei misteri superiori della guida. Sicuramente non alla portata della polizia... Il suo sguardo sincero ma ferito si girò verso la facciata del vecchio Adonis. All Saints Road, con le sue nuove gallerie di manifesti e i suoi nuovi snack-bar, era profondamente cambiata anche nel breve arco della vita adulta di Schianto. Ma fino a non molto tempo prima (Schianto annuí meditabondo) il vecchio Adonis aveva dominato con la sua mole l’angolo degli spacciatori piú frequentato e sicuramente piú rumoroso di West London: «un luogo simbolico», per citare la «Police Review».

Era un punto di smercio al volo, all’angolo di All Saints e Lancaster: le auto arrivavano e rallentavano, per tutta la notte, e le teste nere e pelate spuntavano come funghi ogni volta che un finestrino si abbassava. L’Adonis, il vecchio superpub, con i suoi lampadari appiccicosi e la sua moquette fradicia, con i suoi contrappuntistici video rock e il suo imponente schieramento di macchinette mangiasoldi e spennadisoccupati, era il fulcro naturale dell’attività. E lí ti imbattevi nell’apartheid alla rovescia del mondo della droga: i bianchi, presi nella loro spumeggiante girandola di birra di malto, tenevano le debite distanze dalle facce sobrie ma violente dei neri, che si coccolavano le loro Lucozade e Ribena nel bar che dava sulla strada. L’Adonis. La sua simmetria e la sua gaiezza coloniale – dov’erano finite? Cancellate, intimorite, dietro tavole di legno e reti metalliche. Ma forse (Schianto grugní mentre torceva ancora di piú il collo), ma forse... ecco, laggiú. Una porticina, un po’ laterale, con una paio di gradini da scendere, e dentro due occhi che osservano e brillano. Se ascoltavi bene, riuscivi a infrasentire la dimessa monotonia della musica e – sí – un suono di bicchieri sbattuti o rotti. Bene: il vecchio Adonis si rifiutava di morire. Aveva trovato, nelle grondaie e nei canaletti di scolo, un’esistenza ridotta e secondaria: ma era pur sempre vita. Demi, che stava osservando Schianto, vide comparire nei suoi occhi uno sguardo di compiaciuta indulgenza. Non conosceva, tra l’altro, il profondo legame tra Adone e la rinascita, la sua comune identità con Orfeo, o con Cristo, che rappresenta una forza in grado di richiamare in vita le anime dei morti – cosa che Orfeo non era riuscito a fare.

– Bastardi, – disse Demi.

Schianto sorrise. Lady Demeter si riferiva alla polizia. – Lí è meglio che non metti piede, – disse.

– Nell’Adonis?

– Quello è un brutto posto.

Schianto continuò a sorridere; c’era persino un lieve gorgoglio di complicità, in fondo alla sua gola. Stava venendo buio, ma il candido avorio dei suoi denti continuava a lampeggiare. Demi proruppe in una risata musicale e disse:

– So tutto dell’Adonis.

– Ma va là!

Ecco come si scoprono le cose. Schianto, in primo luogo, era sollevato, ma si sentiva anche stuzzicato, e lusingato, naturalmente, in molti punti delicati della testa e del cuore. Fino a quel momento, con Demi, non gli era venuta in mente alcuna mossa investigativa, se si escludono le molestie sessuali. Con le quali scopri sempre qualcosa, comunque vada: con le quali ottieni l’informazione. Ma lui non se la sentiva. Non se la sentiva proprio. Tuttavia, prima di ingranare la marcia, si sporse verso il sontuoso universo della biondezza e inglesità di Demi e la baciò sull’angolo della pallida bocca. No, questo si poteva fare. Era una cosa tranquilla. Andava bene.

Piú tardi, tornato nel suo alloggio di Keith Grove, in fondo a Shepherd’s Bush, dopo la palestra e il lungo interrogatorio di quella mignotta di Adolf, Schianto, con il solo sospensorio indosso, si adagiò sul divano-letto e intrecciò le mani dietro la nuca. Sullo schermo della tivú scorrevano le immagini della partita di calcio registrata. Schianto la guardò con gran spavento e pietà, e con violente fluttuazioni nella velocità di palpebrazione, riservando una compassione da specialista ai destini di entrambi i portieri, dato che era in porta che lui stesso, due volte alla settimana, giocava per la chiesa e per il pub. – Intervento d’anticipo! – disse Schianto. – Ah, che scarogna –. Il modo in cui le labbra di lei avevano ceduto, giusto di quel tanto che andava oltre la mera educazione. Oh, niente lingua o altro. – Palla al portiere! Rimessa da fondo campo –. L’avrebbe trattata con rispetto, esattamente come prima. Ma quell’accenno di cedimento: era a sua volta un accenno. Un dirgli qualcosa che lui non avrebbe mai detto a Scozz. – Raddoppio! Bel traversone –. E cioè che lí c’era un’altra donna (oh, Cristo, quante ce n’è) che forse era amata. – Di testa. Tiro! Parata –. Ma non abbastanza, o non nel modo giusto. – Fine del primo tempo!

La partita si concluse con il risultato giusto, ma Schianto non si sentiva piú a suo agio: era turbato dentro. Con gesti lenti e rabbiosi si infilò la tuta nera e fece un salto da Triboli. Si chiamava Tripoli, ma Schianto lo aveva ribattezzato Triboli. Mentre tornava su per Keith Grove capí cosa lo rodeva: rivide il ragazzo, nella spremuteria, che diceva a Scozzy, per di piú ridendo: – Oh, sí. Quella donna è decisamente Scafata –. 13: quella peste.

Schianto si richiuse la porta di casa alle spalle, aprí la bottiglia di scotch e buttò via il tappo. Al diavolo tutto il resto.

Prima di consegnarla, ma dopo averla impacchettata, Richard fu preso da uno sgradevole dubbio: e se su quella copia domenicale del «Los Angeles Times» ci fosse stato davvero qualcosa di interessante su Gwyn Barry? Un simposio di otto pagine sulla sua opera, per esempio. O un intero inserto dedicato a lui. Come in Inghilterra, anche negli Stati Uniti Amelior era stato dapprima un fiasco, poi un chiodo, infine uno schianto. Rivelata a Richard non da Gwyn ma da un articolo patriottico comparso su un giornale londinese, questa notizia gli aveva inferto una ferita che ancora adesso pulsava e doleva piú di ogni altra: piú degli sfregi e degli squarci provocati dall’apparente popolarità del libro in ogni angolo della terra, di cui era venuto a sapere a spizzichi dagli estemporanei brontolii di Gwyn: ah, questa insistente giornalista – o squadra delle televisione – argentina; oh, quell’interminabile questionario da Taiwan. Ma l’America. Volete mica scherzare... Richard si accese una sigaretta. Possibile che Gwyn fosse inciampato nell’universale, in quella voce che parla a e per l’anima umana? No. Gwyn era inciampato nel minimo comun denominatore.

A questo punto Marco entrò nella stanza. Mentre il bambino prendeva fedelmente posizione accanto al padre, Richard tirò una boccata dalla sigaretta e la scagliò fuori della finestra. – Adoro il mio Papi, – cantò Marco, moderando con discrezione la voce, – che vive con me... – Dal giorno famoso in cui Richard aveva colpito Marco alla testa perché Amelior era entrato al nono posto nell’elenco dei libri piú venduti (e quello era solo l’inizio: Richard aveva l’impressione che, al confronto, i libri sfondaclassifica dei ciccioni francofili e dei cosmologhi storpi entrassero e uscissero dall’elenco come effimere), il bambino si era innamorato del padre in maniera disarmante, come se, quel giorno, invece di tirargli una sventola all’orecchio, Richard gli avesse versato dentro chi sa che cosa. – Ti voglio bene, – diceva spesso il bambino. E poi c’era questa canzoncina creata da Marco, davvero notevole per l’esiguità dell’informazione trasmessa (e per la falsa rime riche):

Adoro il mio papi.
Che vive con me.
L’adoro io.
E lui adora me.

Anche se forse, nell’ambito della nuova demografia, si trattava di una stupefacente novità. Nelle città inglesi i bambini cantano:

Detesto il mio papi.
Che non vive con me.
Lo detesto io.
E lui detesta me.

Anche sul piano tecnico, la canzoncina, o poesiola, di Marco avrebbe sicuramente retto al vaglio della Tantalus Press, dove Richard aveva passato un penoso pomeriggio. La canzone inventata da Marco: nel complesso, suo padre era stato molto felice di ascoltarla, le prime duecento volte. Gina non gli cantava canzoncine cosí... A Richard non piaceva pensare che questa maratonica manifestazione di sentimenti potesse avere la sua origine nella paura. Non gli piaceva pensare che Marco sapesse che il padre stava perdendo la testa e cercasse, con la propria presenza e il proprio esempio, di aiutarlo a incavezzarla. Richard si era scusato, per quello scapaccione, molte volte. E Marco gli rispondeva sempre e solo che tutti hanno le loro giornate storte.

Quella invece era una giornata relativamente buona. Richard aveva chiamato l’ufficio di Gal Aplanalp, e Gal Aplanalp lo aveva richiamato pochi minuti dopo – dall’aereo che la stava portando a Los Angeles. Sarebbe però tornata frivolamente presto. Cosí almeno pensò Richard. La sua passione era il romanzo americano. Ma non era mai stato in America. E questo dava un’idea del personaggio. Probabilmente, come conseguenza della conversazione con Gal, Senza titoloaveva fatto un grande passo avanti. Adesso aveva qualcosa che il suo immediato predecessore non aveva avuto: la prospettiva certa di un lettore. Gina non leggeva i suoi libri. Richard non glielo chiedeva nemmeno: la prosa moderna e fanaticamente difficile non faceva per lei. Ogni volta che provava a leggere i suoi romanzi pubblicati, Gina diceva che quella roba le dava il malditesta.

– Metti il dito... Appoggialo... Ficcalo qui. Il pollice. Adesso tienilo fermo mentre faccio il nodo, ma tiralo via quando... Bravo.

– Io aiuto sempre il mio papi a fare le cose.

Richard rise, una versione piú sobria della sua risata gutturale, intrappolata, a mascelle strette. – Vai, adesso, – disse. – Cerca Marius. Vi darò una sterlina a testa se vi levate di torno.

Erano le sette di sera. Nessuno aveva sgombrato la scrivania per fare spazio al pacco che conteneva il «Los Angeles Times», ma il pacco era lí lo stesso, discretamente simmetrico, imponente, anomalo, come un UFO sul tetto di una catapecchia di periferia. Richard si disse, con scarsa convinzione, che avrebbe dovuto dare un’occhiata al giornale prima di consegnarlo. Occorreva un’incredibile destrezza, è vero, ma se fosse riuscito a sfilare il malloppo conservando almeno la forma dell’involucro... Richard tirò il nodo principale (cosí recentemente e saldamente legato con l’aiuto del pollice rosso cremisi di Marco); cincischiò le pieghe e i lembi della spiegazzata carta da pacchi: e finí con lo strappare tutto. I bambini, nella stanza accanto... be’, udirono le sue grida selvagge, ma non vi fecero caso, dato che il suono era piú che familiare. Forse papi aveva messo il temperamatite nel posto sbagliato, o aveva fatto cadere una puntina da disegno. Perché bisogna sapere che i rapporti di Richard con il mondo fisico, da sempre piuttosto scarsi, si erano bruscamente deteriorati. Maledetta l’ottusa insolenza degli oggetti inanimati! Richard non riusciva a capire che gusto provassero a comportarsi come si comportavano. Che gusto provava la maniglia della porta ad agganciarti la tasca della giacca quando passavi? Che gusto provava la tasca della giacca?

Con trepida attenzione Richard esaminò il Mondo del Libro (tutte le recensioni, piú Brevi Note, Parliamo di..., Libromania e Per Stare Informati), Arte e Spettacoli (nell’atroce eventualità che un libro di Gwyn fosse stato portato sullo schermo o sul palcoscenico), la sezione principale (comprese Facce Nuove e Libri da Comodino) e la Settimana in Retrospettiva (il fenomeno Gwyn Barry). Piú disteso, sfogliò con cura la Sezione Moda, la Sezione Ultimissime, la Sezione Eleganza, la Sezione Istruzioni per l’Uso, la Sezione Pose, la Sezione Oggi e la Sezione Tu. Poi, sentendosi ridicolmente rigoroso ma ampiamente giustificato, controllò la pagina Opportunità e Istruzione della Cronaca (sezione I): multiculturalismo? un nuovo piano di studi? futuro dell’editoria? La Sezione Affari, la Sezione Annunci Personali e la Sezione Appuntamenti: nessuna lo trattenne a lungo. L’inserto sui Tagliaerba e il supplemento sulle Sbarre per Tende... be’, questi li ignorò con sprezzo.

A mezzanotte Richard giunse alla conclusione che le ultime cinque ore erano trascorse in maniera divertente e gratificante. Non aveva il minimo dubbio che Gwyn fosse abbastanza matto da leggere l’intero malloppo almeno due volte, forse tre, forse quattro – forse di piú. Forse Gwyn avrebbe continuato a leggerlo per sempre. Richard immaginò l’amico, di lí a qualche anno, ancora chino a borbottare sulle ricette, sulle definizioni dei cruciverba, sui risultati dei tornei di golf – immaginò i suoi vestiti sporchi, i suoi tazzoni di caffè istantaneo. Eccolo lí, che si sfregava gli occhi mentre arrivava per l’ennesima volta alla Sezione Sedie a Sdraio... E poi c’era un altro motivo di soddisfazione. Posto che Gwyn Barry fosse davvero un grand’uomo, non sarebbe stato dall’edizione domenicale del «Los Angeles Times» che sareste venuti a saperlo.

Con un chilometro di cordino e circa quattro rotoli di nastro adesivo, Richard ricompose e bendò il pacco. Adesso il malloppo era pronto a partire. Sorseggiando un cognac, Richard cominciò a riflettere sulla fatidica ed esaltante sfida della consegna.

Un giorno sí e uno no sulla prima pagina del mio quotidiano c’è la fotografia di un bambino assassinato.

Assassinato da un pallido misantropo, assassinato da fanatici o separatisti, assassinato da un ruttante magnate incapsulato in una tonnellata di metallo, assassinato da altri bambini. Duro da digerire, quest’ultimo caso, per l’occhio che osserva disincantato. Non sentite una sgradevole sudorazione, adesso, quando passate accanto a loro nelle isole pedonali, o sulla soglia dei negozi? I nuovi bambini.

A proposito di colui o di coloro che perpetrano il misfatto, la madre o il padre del morto dicono spesso, Non ho parole per loro. Qualcosa come, Le parole non possono esprimere ciò che provo per loro. Qualcosa come, Per coloro che hanno fatto questo, non ho parole. Oppure, Non ci sono parole per loro.

E immagino che vogliano dire: le parole sono inadeguate e anche inappropriate. Le parole giuste non si possono trovare – quindi non cercatele. Non cercatele.

E io sono d’accordo. Io sono con il padre, con la madre. Per coloro che fanno cose simili, io non ho parole.

L’informazione mi dice che devo smettere di dire ciao e cominciare a dire addio. Questo mi dice l’informazione.

Dove vivo io c’è una nana gialla, che vedo in continuazione nelle strade fatte di negozi e fermate d’autobus. È giovane, e gialla, e alta meno di un metro e venti, con i tipici arti spessi (le braccia ripiegate in dentro, come un pugile in guardia, le gambe simili a rotelle), mezzo asiatica, mezzo caribica, con le sopracciglia chiare, le ciglia bianche, i capelli di un arancione animale – come filamenti carichi di elettricità. È giovane. Diventerà piú vecchia, ma non piú alta... Per prima cosa, ogni volta che scambiamo un’occhiata, la nana alza gli occhi e irrigidisce il mento in un atteggiamento di sfida. Diffidenza, e tutto il resto, ma soprattutto sfida. Poi – dato che negli ultimi tempi queste occhiate tendono a prolungarsi – la sua faccia si modifica, abbandona la sfida, la accantona in quanto non necessaria (sebbene innumerevoli volte lo sia stata). E senza che si possa parlare di un vero e proprio sorriso o cenno di capo, diamo a intendere che ci siamo riconosciuti.

È terribile essere chiamati nana gialla, probabilmente perché – piú in particolare – è una cosa terribile esserlo. Una cosa terribile. Povera, povera nana gialla. Vorrei che sapesse che le nane gialle sono buone. Io devo la mia vita a una nana gialla, come tutti noi – a quella che se ne sta lassú: il sole.

La nana gialla non ha nulla di esotico. Le nane gialle non sono mai esotiche. Sono tra i fenomeni piú tipici dell’universo. Una quasar, invece, una galassia grande come il sistema solare riunita intorno a chissà quali mostruosità o criptogrammi quantistici, che rotola a rotta di collo verso i confini dello spazio osservabile a centosessantamila chilometri al secondo: ecco qualcosa di esotico.

Non riuscirò mai a reggere lo sguardo della nana gialla lassú. Il suo sguardo non si ammorbidirà mai; il suo atteggiamento di sfida sarà sempre assoluto.

Nel quadro generale, la nana è ordinaria. Chi glielo dirà? È ordinaria. Non come le altre stelle della strada. Non come la gigante rossa che scodinzola e cade sotto il cavalcavia, non come il buco nero dietro la finestra del seminterrato, non come la pulsar sulla giostra nel parco giochi deserto.

Richard Tull, con il proprio bagaglio di preoccupazioni rigorosamente personali, si trovava quaranta piani sopra la città. Era negli uffici di Gal Aplanalp e lottava con i postumi di una sbornia colossale. Non solo sopra la città, ma sopra la City, nel cuore di Londra. Quello non era un quartiere cockney pieno di venditori ambulanti e ladruncoli. Intorno a lui ferveva un’edilizia catartica e in grande scala: tute da paracadutista, elmetti, scavi, gru, grandi pacchi di blocchi di cemento di scorie. Una luce al magnesio di un azzurro ardente giungeva fin lassú attraverso la foschia del mattino. Richard pensò al cortile dietro casa, su cui si affacciava il suo studio, nel quale, anno dopo anno, cazzeggiava sempre qualche muratore. Per lui, i muratori erano sinonimo di distruzione. Sciattoni con mezzo culo di fuori, sprofondati fino alle ginocchia nell’inutilità e nella melma, capaci solo di fare casino.

Le pareti degli uffici degli agenti letterari, secondo l’ampia e infelice esperienza di Richard, tendevano a usare il libro come elemento decorativo. Lí dove si trovava, Richard era circondato da manifesti – manifesti di autori già rappresentati da Gal. Era circondato da romanzieri famosi; ma erano romanzieri famosi per qualcos’altro. Famosi perché davano le notizie alla televisione, scalavano pareti, recitavano, cucinavano, disegnavano vestiti, lanciavano il giavellotto, erano imparentati con la regina. Nessuno era famoso perché recensiva libri. C’era anche Gwyn, naturalmente. Molti autori Richard non li riconobbe neppure. Allora tentò un controllo incrociato con i pieghevoli piacevolmente disposti a ventaglio sul tavolino da caffè. Dunque quel babbeo con la coda di cavallo... scriveva biografie di cantanti rock. Il suo imponente corpus era composto interamente di cognomi di cantanti rock seguiti da un punto esclamativo. Ogni titolo fece sobbalzare la testa di Richard in deplorevole contrappunto con il pulsare del suo maldicapo. Provò a immaginare... Davenant! Deeping! Bottrell! Myers!

Gal entrò in quel momento. Richard si girò. Non la vedeva da dieci anni. Quando la diciassettenne Gal era piombata da quelle parti per un’estate di lavoretti occasionali in qualche casa editrice, Richard e Gwyn l’avevano presa sotto la loro protezione e portata in giro: al bocciodromo di Shaftesbury Avenue, ai pub irlandesi sotto Piccadilly Circus; una volta (sí) a remare sul laghetto di Hyde Park. La trovavano simpatica. Gal, ricordava Richard, era incline all’affettuosità; ti baciava sulla guancia nei momenti piú strani. Chi altri fa una cosa del genere? Oh, sí: Marco. Una maschietta formosa, americana, diciassettenne: il non plus ultra. Ma Richard aveva altro per la testa. Apparentemente voleva storie piú complicate: gli piacevano – o se non altro continuava a uscire con loro – donne depresse, cupe e violente, che non mangiavano niente e non avevano mai il marchese. E Gwyn aveva altro per la testa: nella fattispecie, Gilda. E senza dubbio anche Gal aveva altro per la testa. Fatto sta che i due amici erano giunti a una tacita intesa: erano ancora abbastanza giovani da pensare che Gal Aplanalp fosse troppo giovane per essere toccata.

Gal e Richard si strinsero la mano, e su iniziativa di lei si abbracciarono (le labbra di Gal fecero «muah» nei peli dell’orecchio destro di Richard). Poi Gal disse l’ultima cosa che Richard avrebbe voluto sentire. Disse:

– Be’, fatti vedere.

Richard rimase lí, a due spanne da lei.

– Sei...? Sembri... si direbbe, non so, che tu sia un po’...

– Invecchiato, – disse Richard. – L’aggettivo... o è un complemento?... che stai cercando è invecchiato.

Tra i numerosi sintomi del suo doposbornia c’era una forte riluttanza a reggere lo sguardo di qualsiasi occhio umano. Ma Richard si impose di essere pazzo e orgoglioso (e come scodinzolò beato per quel complemento): rimase lí, orgoglioso e pazzo e inedito, quale maceria smorta e sanguinante di Richard Tull. Forse i postumi della sbornia non erano cosí tragici, forse non avrebbero giustificato piú di mezza settimana di lugubre sofferenza, in posizione fetale, dietro le imposte chiuse.

– Caffè? È buono. Lo mandiamo a prendere fuori.

– Molto volentieri.

Parlarono per un po’ dei vecchi tempi. Oh, sí, come si stava meglio ai vecchi tempi, quando Gwyn era povero, la sua casa uno stambugio, la sua ragazza grossolana, la sua carriera totalmente priva di prospettive. Ai vecchi tempi Gwyn non era che un recensore fallito (definizione di Richard), uno sguattero di casa editrice. Durante quel soggiorno estivo di Gal, aveva lavorato a una serie di manualetti su vari capitoli dei Racconti di Canterbury. Non erano nemmeno libri, od opuscoli. Venivano venduti in pacchetti... Ora che Gal era uscita dal suo campo di forza, Richard ebbe finalmente agio di contemplarla. E subito annuí: bisognava ammettere. Non solo giovane, non solo florida e simmetrica. Chiunque avesse lavorato nel marketing delle creme per il viso o dei bagnoschiuma avrebbe dato alla bellezza di Gal un punteggio molto elevato. Quella era una faccia con cui saresti riuscito a vendere qualsiasi cosa, una di quelle facce ammirate da uomini e donne indifferentemente. Tutto il meglio si era dato appuntamento: la pelle, le ossa, i boccoli neri. Per non parlare del corpo, che non era da meno. Quando Gal si muoveva sulla sedia, la metà superiore del busto seguiva con un attimo di ritardo, rivelando una certa composta pesantezza. Richard supponeva che Gal fosse abbigliata secondo i criteri piú avanzati del pensiero e della prassi delle professioniste femmine. Era spietatamente funzionale dalla testa ai piedi; ma questi ultimi avevano un braccialetto alla caviglia e tacchi a spillo. Quando si erano salutati, Richard avrebbe voluto poter dire qualcosa come: «È un mese che vivo in una grotta», oppure: «La scorsa settimana mi hanno sparato alla testa». Invece era Gal che aveva passato le ultime due notti in bianco, volando sopra l’America, sopra l’Atlantico. Richard non aveva fatto altro che restare seduto alla sua scrivania.

Arrivò il caffè. Fecero una pausa. Poi cominciarono.

Punto primo, il curriculum di Richard, argomento inevitabilmente triste. Sulla sua tavoletta pinzafogli Gal aveva un tabulato su di lui; disponeva dell’informazione. Prese qualche appunto e disse: – Mm, hm –. Il suo atteggiamento lasciava supporre, cosa per altro incoraggiante, che non fosse ignara del fatto che la carriera di Richard si era impantanata; Richard cominciò a credere che Gal trattasse quotidianamente con prodigi di oscurità e di indigenza piú grandi di lui – con buoni a nulla ancora piú malandati, con fiaschi ancora piú clamorosi.

– Cos’è questa biografia di Denton Welch? – disse, e corrugò la fronte come se ce l’avesse con il tabulato.

– Mai fatta. È passata in cavalleria.

– E quella di R. C. Squires?

– R. C. Squires. Direttore letterario di una piccola rivista.

– Quale piccola rivista.

– «La Piccola Rivista». Quella di cui sono direttore letterario. Una vita interessante. Squires era a Berlino negli anni Trenta e in Spagna durante la guerra civile –. Rispettivamente: per andare a puttane nella Kurfürstendamm e per giocare a ping-pong a Sitges, come Richard aveva scoperto dopo un mese di saltuarie ricerche.

– Posso fumare?

– E che mi dici di questo libro di viaggi. Sulla Siberia.

– Non ci vado.

– Sui lebbrosi siberiani...

– Non ci vado.

– E questo cos’è? La storia della crescente umiliazione. Un saggio, giusto?

Richard accavallò le gambe, poi le riaccavallò. Quello era un libro che voleva ancora scrivere: un giorno. Disse, come aveva già detto in altre occasioni: – Dovrebbe essere un libro che spiega il declino delle condizioni sociali e della virtú dei protagonisti delle opere letterarie. Prima dèi, poi semidèi, poi re, poi grandi guerrieri, grandi amanti, poi borghesi e mercanti e parroci e dottori e avvocati. Poi il realismo sociale: tu. Poi l’ironia: io. Poi maniaci e assassini, barboni, canaglia, feccia, relitti umani, parassiti.

Gal lo stava guardando. – E come lo spiegheresti?

Richard sospirò. – Con la storia dell’astronomia. La storia dell’astronomia è una storia di crescente umiliazione. Prima l’universo geocentrico, poi l’universo eliocentrico. Poi l’universo eccentrico... quello in cui viviamo adesso. Secolo dopo secolo rimpiccioliamo. Kant aveva già capito tutto, senza muoversi dalla sua poltrona. Com’è che dice? Il principio della mediocrità terrestre.

– ... Un librone.

– Un librone, – confermò Richard, e aggiunse: – Piccolo mondo. Grande universo.

– A che punto sono tutti questi progetti?

– Sono al punto, – disse Richard, – che mi sono fatto dare degli anticipi e non li ho scritti.

– Chissenefrega, – disse Gal. – Crediti inesigibili –. E di qui in avanti il colloquio cominciò ad accelerare.

– Il nuovo romanzo. Su che cos’è?

– Consapevolezza moderna.

– Difficile come gli altri?

– Piú difficile. Molto piú difficile.

– Non hai mai pensato che potresti cambiare genere?

– E scrivere un western?

– Com’è intitolato?

– Senza titolo. Il suo titolo è Senza titolo.

– Questo si risolve in fretta.

– Questo non si risolve affatto.

– Ho riletto I sogni sono difficili da trovare e...

– I sogni non significano nulla.

– Non dire cosí. Ti lasci scoraggiare troppo facilmente.

– Punto primo, – disse Richard. Poi tacque. Meglio pigiare sul freno. Di fatto aveva scritto un western. O per lo meno ci aveva provato. Il suo western si era esaurito dopo un paio di pagine di imposte che sbattevano e di cespugli rotolanti... – Punto primo. Il titolo del mio libro è I sogni non significano nulla. Punto secondo. Quello che voglio dire è che i sogni non rivelano nulla. Non con precisione. Punto terzo. Non sono «facilmente scoraggiabile». C’è voluto del bello e del buono per scoraggiarmi. È stata un’impresa ardua.

– Mi fai dare un tiro?

Richard le porse la sigaretta dal lato del filtro. Gal non le andò incontro con le dita – le andò incontro con le labbra. Cosí Richard fu ammorbidito dalla fugace visione di un reggiseno che brillava come una stella su uno sfondo di pelle persiana. Gal inalò con fare esperto, poi si appoggiò di nuovo allo schienale. Le piaceva fumare; e usava dolcificanti artificiali nell’espresso. La sua mano, notò Richard, era non meno paffuta di dieci anni prima. Una mano che le aveva tenuto spesso a mo’ di zietto. Gal aveva una pecca, una predisposizione. Il peso voleva impadronirsi di lei. Il grasso la voleva. Sedeva a una scrivania organizzata, ma in lei s’annidava qualcosa di non organizzato, non del tutto... Alle sue spalle c’era la finestra: nella cornice di cielo grigio, le gru erano come le squadrette a T di un tecnigrafo. La carta usata dall’architetto era sudicia e macchiata. Troppi rifacimenti e sfregamenti, con una gomma sporca. Cancellature icastiche, e i trucioli di gomma che ombreggiano l’aria, spazzolati e cacciati dal mignolino che si libra sul foglio. Una buona idea, quando si immagina Londra, quando si immaginano le città, quella di tornare al tavolo da disegno.

– Voglio rappresentarti, – disse Gal.

– Grazie, – disse Richard.

– Allora. Gli scrittori hanno bisogno di definizione. I lettori riescono a tenere a mente una sola cosa per autore. Una specie di etichetta. Ubriaco, giovane, matto, grasso, malato: sai com’è. Meglio se scegli tu, invece di lasciare che scelgano loro. Mai pensato a qualcosa come il giovane matusalemme? O il giovane trombone. Porti farfallino e panciotto. Fumi la pipa?

– Be’, probabilmente la fumerei, – disse Richard, stiracchiando il collo, – se qualcuno me ne offrisse una. Con tanto di tabacco e di fiammifero. Senti. Sono troppo vecchio per essere un giovane trombone. Io sono un vecchio trombone –. La flatulenza, tra l’altro, era un cruccio di Richard. Quella mattina, mentre si faceva la barba, aveva prediposto gli intestini, aspettandosi il solito aspro strombettio. E tutto quel che aveva sentito era stato un terribile e misero blip. – Non ci stiamo dimenticando che prima dovrei riuscire a pubblicare?

– Oh, c’è chi mi deve qualche favore. Poi metteremo in moto la macchina. Tu scrivi come scrivi. Non ho intenzione di impicciarmi nella tua creatività, ma dobbiamo trovare qualcos’altro per compensare. Il tuo giornalismo ha bisogno di una spronata. Non va bene che tu faccia recensioni dappertutto. Dovresti avere una rubrica tua. Pensaci.

– Non prendertela se te lo chiedo. Sono sicuro che sai fare molto bene il tuo mestiere. Ma non ti sembra che l’aspetto aiuti?

– Oh, sí. Che ne dici... che ne dici di scrivere un lungo pezzo su come ci si sente nei panni di un romanziere di successo, un pezzo che vada in profondità.

Richard aspettò.

– Sai: come ci si sente per davvero. La gente si interessa molto agli scrittori. A quelli famosi. È piú interessata agli scrittori che a quello che scrivono. Alla loro vita. Non so per quale strana ragione. Tu e io sappiamo benissimo che gli scrittori, per lo piú, se ne stanno seduti in casa tutto il giorno.

Richard aspettò.

– Allora, che ne dici di questo pezzo. Lo venderò in America. Dappertutto.

– Su come ci si sente nei panni di uno scrittore che ha sfondato?

– Giorno dopo giorno. Come ci si sente. Come ci si sente davvero.

Richard ricominciò ad aspettare.

– ... Il nuovo romanzo di Gwyn viene pubblicato negli Stati Uniti a marzo. Da noi uscirà a maggio. Gwyn farà il giro delle otto città. New York, Washington, Miami, Chicago, Denver, Los Angeles, Boston, di nuovo New York. Vai con lui. Penso io a tutto.

– Di chi è l’idea?

– Mia. Sono sicura che Gwyn sarà entusiasta di averti con sé. Questi giri sono una morte. Dài. Fallo. Vedo che sorridi. Fallo. Dimostrerai a tutti che non provi un filo di invidia.

– Sarà questa la mia etichetta? Colui che non prova invidia?

Richard disse che avrebbe dovuto pensarci (falso: in America ci sarebbe andato), e questa volta si diedero la mano senza abbracciarsi, come due seri professionisti. Nel treno della metropolitana che lo stava portando a Soho e agli uffici della «Piccola Rivista», Richard esaminò la propria etichetta, il proprio marchio. Perché tutti ormai ne abbiamo bisogno, etichette, etichette, persino il tizio seduto di fronte a lui: nel suo caso si trattava di una coppia di pelosi spilloni rosa che gli trapassavano il naso... Richard non riuscí a trovare alcun lato positivo. Tranne questo. Non era mai stato in America. E ve lo avrebbe detto molto apertamente, inarcando le sopracciglia come un artista colto da ripensamento, tendendo il labbro superiore con un certo laconico orgoglio.

Sono d’accordo anch’io. Che coglione.

Gal ha ragione. Ai romanzieri non succede mai nulla. Tranne questo.

Nascono. Si ammalano, guariscono, ronzano intorno al calamaio. Se ne vanno di casa, ficcando le loro cose in un furgone noleggiato. Imparano a guidare, a differenza dei poeti (i poeti non guidano. Non fidatevi mai di un poeta che guida. Non fidatevi mai di un poeta al volante. Se sa guidare, diffidate delle sue poesie). Si sposano in municipio. Hanno figli in un ospedale – il consueto miracolo. Perdono i genitori – il consueto disastro. Divorziano o non divorziano. Osservano i figli che a loro volta se ne vanno di casa, imparano a guidare, si sposano, fanno figli. Invecchiano. Dunque ai romanzieri non succede mai nulla, tranne l’universale.

Con tutte le biografie letterarie che aveva digerito, Richard ne era perfettamente a conoscenza. La conferma arrivava con cadenza stagionale, ogni aprile e ogni settembre, quando Richard sfogliava sogghignando i supplementi a colori e si trovava davanti il tremulo sguardo dei romanzieri – seduti sul divano di casa o su una panca in giardino. Facendo un cazzo di niente.

Anche se non guidano o non sanno guidare, i poeti si danno piú da fare. William Davenant era sicuramente uno che non si tirava indietro: «Si beccò una terribile sifilide da una bella sgualdrina nera che si prostituiva in Axeyard... e questo gli costò il naso». E Vita di Richard Savage di Johnson – bastardaggine, adulterio, la fatale rissa nella taverna, la condanna a morte – descrive una vita selvaggia: suona come la tragedia vera di un vendicatore. Come attenuante, va detto che un coglione non è la stessa cosa di una testa di cazzo. C’è di mezzo il mare. Tutti, di tanto in tanto, siamo coglioni, ma una testa di cazzo è una testa di cazzo sempre. E Richard cos’era? Un vendicatore, in quella che probabilmente era destinata a essere una commedia.

Quando Gwyn aveva detto, a proposito del Premio per la Profondità, che la cifra era «ridicola», Richard aveva pensato che intendesse dire che la cifra era irrisoria. Ma non era irrisoria. Era solo ridicola. E l’avrebbe ricevuta ogni anno.

Richard – cosa tutt’altro che sorprendente – era alla sua scrivania, sulla quale, oltre alle pagine 1-432 di Senza titolo e a numerose pencolanti cataste di trex assortito, spiccavano tre oggetti: una lettera stile verbale di Gal Aplanalp; un giornale scandalistico borghese, aperto alla pagina di Rory Plantagenet; e un terzo biglietto scarabocchiato di «Darko» – il sostenitore o complice di Belladonna. Richard stava tentando un collegamento.

Rilesse:

Ricapitolando: l’itinerario è New York, Washington, Miami, Chicago, Denver, Los Angeles, Boston, New York.

Denver. Perché Denver? Rilesse:

... assegnato ogni anno vita natural durante. I tre giudici sono Lucy Cabretti, la critica, poetessa e romanziera femminista di Washington; Elsa Oughton, che vive e lavora a Boston; e Stanwyck Mills, scrittore e titolare della cattedra di legge «Sue e Ron L. Summerdale» dell’Università di Denver.

Richard si appoggiò allo schienale annuendo. Rilesse:

Qualè il segreto. Eddai. O è solo montatura pubblicitaria. Belladonna ci sa fare coi segreti. Saprebbe far cantare un muto, quella lí. Ecco perché Gwyn ama Belladonna. Siamo ancora in tempo per quel «boccale»?

Ciò che stuzzicava la curiosità di Richard, naturalmente, era il pezzetto su Gwyn che amava Belladonna. Forse persino nel mondo di Darko – con quel suo senso di futile affanno – amore significava qualcosa. Poteva significare vulnerabilità. Gwyn ama Belladonna sarebbe stato un messaggio piuttosto interessante anche a vederlo inciso sul tronco di una misera sempreverde del Parco Merdadicane, oppure sbombolettato sul muro grigio del cavalcavia. Ma tenuto conto di chi era Gwyn e di chi diavolo poteva essere Belladonna, questa era una notizia di vasto – scandalistico – interesse. Gwyn ama Belladonnaavrebbe figurato ancora meglio come titolo di rubrica, proprio sotto la faccia compromessa ed effeminata di Rory Plantagenet. La prospettiva di minare o distruggere il matrimonio di Gwyn era piú che allettante, ma sarebbe stato un maldestro colpo a vuoto, cosí come un’aggressione alla sua persona non sarebbe mai stata nulla piú di una soluzione orribilmente approssimativa. Richard non voleva prendere di mira la vita di Gwyn, che veniva in seconda posizione, molto distanziata da ciò che costituiva il vero oggetto del suo odio. Tuttavia, se fosse stato costretto ad accontentarsi del matrimonio di Gwyn, si sarebbe accontentato del matrimonio di Gwyn, e se fosse stato costretto ad accontentarsi della vita di Gwyn, si sarebbe accontentato della vita di Gwyn.

– Pronto. C’è Darko, per piacere. Certamente. Sí, sono ehm, Richard Tull –. Richard era il suo nome, e non poteva farci niente: Rich e Richie erano esclusi per ovvie ragioni, dato che ricco non era; Rick non gli era mai piaciuto, e il genitale Dick aveva fatto una brutta fine. – No, aspetto... Darko? Salve. Sono Richard Tull.

Ci fu un silenzio. Poi la voce disse: – Chi?

– Richard Tull. Lo scrittore.

– ... Ripeti un po’ il nome?

– Cristo. Sei Darko, no? Mi hai scritto. Tre volte. Richard Tull.

– Ah, sí. Ci sono. Scusa ehm, Richard. Sono mezzo addormentato.

– Conosco la sensazione.

– Ho ancora la testa annebbiata. Avevo bisogno di rimettermi in sesto, – disse la voce, come improvvisamente preoccupata per qualcosa di meno immediato.

– Succede anche ai migliori.

– ... Ad ogni modo: cosa vuoi?

– Cosa voglio io? Riattaccare. Ma continuiamo pure. Voglio scambiare due parole con quella ragazza. Belladonna.

– Non può venire al telefono.

– Non sto dicendo adesso.

– Belladonna fa solo quel che cazzo le pare. Ma non credo che abbia niente in contrario.

– Perché non ci troviamo tutti e tre insieme?

– ... Niente di piú semplice.

Finita la telefonata, Richard chiamò Anstice e le dedicò la solita oretta. Finita anche quella, andò nella camera dei bambini e pescò Marco da sotto i suoi GI Joes e lo vestí. Seduto sul letto, guardò fuori della finestra e vide un esile cirro che andava dissolvendosi, lassú nello spazio, come le strie sul tavolo lavato con lo straccio umido negli ultimi secondi prima che asciughino...

La giornata si stava riscaldando, cosí Richard decise di portare Marco fuori, nella Merdadicane e nella cultura parcaiola, che è qualcosa che merita vedere. Mentre faceva la coda al chiosco in mezzo a problemi di peso e di brufoli, in mezzo alle plurime madri singole in prendisole color pastello, al pallore chiazzato della pelle inglese, ai capelli tinti, a tutti gli appiccicosi bambini assetati di bibite in lattina, Richard osservò la gente che correva sulla pista esterna, in sforbicianti guaine color magenta, turchese, verde limetta. Incalzato da tale messe sensoriale, Marco scoprí cautamente i denti superiori.

Con le loro coppette piene di Slushpuppy, padre e figlio passarono accanto al basso edificio delle latrine del parco, dove un bambino piú piccolo di Marco era stato recentemente violentato mentre la madre batteva il piede spazientita su quel medesimo tratto d’asfalto. Incrociarono un signore con un cane, lui sottile come una spoletta, il cane impettito e tondo come una bombarda. Il prato degradante era di fango, sbattuto e trapuntato, un po’ marroncino un po’ grigio, mezzo terra, mezzo merda. Sulla panchina Marco affrontò il panorama con il candido smarrimento del suo sguardo, girando e sollevando la testa verso il profilo inebetito del padre a intervalli di pochi secondi. Il bambino contemplava le ciminiere dell’ospedale, i cuori solitari, i declamatori, i barcollanti avventori usciti dai pub, tutti coloro nati per infestare i parchi, poi volgeva di nuovo lo sguardo sul padre e si chiedeva che differenza ci fosse, mentre sei o sette dubbi improvvisi, ciascuno con il suo tic nervoso, gli tiravano la pelle intorno agli occhi.

Perché Richard stava pensando, sempre che pensare sia la parola che fa al caso nostro (e come al solito adesso ci toccherà estrarre quei pensieri dal furioso e incessante balbettio che li avvolge e sommerge): non si può dimostrare, provare, stabilire – non si può sapere se un libro è bello. Una frase, un verso, un modo di dire: nessuno lo sa. I filosofi della letteratura di Cambridge hanno passato cent’anni a sostenere il contrario, e non sono approdati a niente. «When all at once I saw a crowd – Quando all’improvviso vidi una folla» è forse peggio di «Thoughts that do often lie too deep for tears – Pensieri spesso troppo profondi per le lacrime?» (Sí. Anche se è il verso migliore quello che contiene il difetto che salta all’occhio: quel dopleonastico, infilato per far tornare i conti). I. A. Richards ha rianatomizzato la mente umana per renderla capace di tali intuizioni. William Empsom ha offerto una teoria quantitativa del valore di ciò che è ambiguo, o complesso, e quindi bello. Leavis ha detto che la letteratura non si può giudicare ma la vita sí, quindi, ai fini del giudizio, vita e letteratura sono la stessa cosa! Ma vita e letteratura non sono la stessa cosa. Chiedete a Richard. Chiedete a Demi o a Gina. (Chiedete a Scozzy, a Schianto, ad Anello, a 13). Chiedete all’uomo con il cane bombarda. Chiedete al cane bombarda... Gwyn non valeva una cicca. La cosa era palese ma non dimostrabile. Il collo di Richard girò da una parte, poi dall’altra, compiendo un dolente otto. Ci voleva un uomo sandwich in Oxford Street (GWYN BARRY NON VALE UNA CICCA), un oratore da strapazzo sotto la freccia di Cupido («Gwyn Barry non vale una cicca»), un predicatore di frontiera che nel vento e nella pioggia di Ongar, Upminster, Stanmore, Morden, diffondesse la novella: che Gwyn non valeva una cicca. Speakers’ Corner (uomini su cassette del latte rovesciate, con l’aspetto da insegnanti ma placidamente dementi) – Speakers’ Corner, l’angolo degli oratori, non si trovava piú sul lato meridionale di Marble Arch. Adesso era dappertutto, all’angolo di ogni strada di Londra. Un concerto di voci prepotenti e stridule: la Legge Naturale, la finanza cosmopolita, il Riarmo Morale, un angelo americano di nome Moroni, l’infernale natura dell’elettricità; e Richard Tull, che sfoderava citazioni appropriate e accurate interpretazioni per dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio ai suoi tre o quattro ascoltatori – stranamente attenti – che Gwyn Barry non valeva una cicca.

Nella sfera sublunare locale, i gusti letterari sono come i gusti sessuali: non puoi farci niente. Una volta, a letto, quindici anni prima, una donna gli aveva domandato: «Qual è la tua posizione preferita?» Richard gliel’aveva detta. Cosí avevano scoperto che avevano gli stessi gusti, e tutto era filato per il verso giusto. Gwyn, o Amelior, era preferito da tutti. O meglio, non era avversato da nessuno. Amelior era qualcosa come la posizione canonica con l’aggiunta di un orgasmo simultaneo. Mentre le cose che scriveva Richard investivano chiaramente gli interessi di una minoranza disgustosamente piccola: se mai la polizia ne fosse venuta a conoscenza, la sua prosa sarebbe stata messa immediatamente fuori legge – sempre, cioè, che la polizia riuscisse a credere che ci fosse in circolazione gente attratta da qualcosa di cosí contorto e laborioso... Richard aveva sposato la sua ossessione sessuale. E adesso la sua ossessione sessuale aveva cessato di essere tale. Gina era stata soppiantata, in veste di ossessione sessuale, da ogni donna sulla faccia della terra di età compresa tra i dodici e i sessanta. Il parco – il Parco Merdadicane – pullulava di potenziali ossessioni sessuali. Questi schiamazzi senza speranza, Richard lo sapeva (dai libri), non erano che gli ultimi o penultimi jodel del suo Dna: dei suoi egoistici geni, bramosi di propagarsi prima di morire. Colpa dell’invecchiamento, lo sapeva. Ma lo facevano sentire come il prototipo dell’adolescente: un maleodorante, tetro grumo di acne e riviste porno. Le voleva tutte. Gli andavano bene tutte. Richard voleva Gina, ma il suo corpo e la sua mente non glielo permettevano. Quanto tempo poteva ancora durare? Risorgerò – risorgerò e...

Marco finí la sua Slushpuppy, poi finí quella di Richard (il ghiaccio tritato gli faceva dolere il cranio). Mano nella mano fecero il loro giro del pascolo urbano – il verde tappeto sotto l’astro celeste – ingombro di figure umane intente al gioco o al riposo, mezzovestite a colori vivaci. Come sarà venuto in mente alla gente che la pelle bianca possa valere qualcosa, per non dire essere la migliore? La pelle bianca è cosí palesemente la peggiore: puro trex. Passeggiando in quel luogo, Richard percepiva il pluralismo, la gradevole promiscuità e, almeno per il momento, l’assenza di ostilità di gruppo. Se le ostilità c’erano, allora Richard non ne fiutava gli ormoni; era bianco, borghese, laburista, e stava diventando vecchio. A volte gli sembrava di avere passato l’intera esistenza a evitare di farsi pestare (teppisti, mods, rocchettari, skinhead, punk, negri), ma la sua terra non era piú infestata dalle bande: la violenza, quando veniva, veniva dal singolo, dal margine del campo, senza motivo. Il pascolo urbano era tutto margine. Il campo non esisteva piú. E la violenza non sarebbe venuta a cercare Richard. Sarebbe venuta per Marco.

I cancelli settentrionali erano chiusi e incatenati, cosí Richard, titubante, tremebondo, scavalcò le sbarre, poi issò Marco sopra l’ostacolo. Alla loro sinistra, cinto anch’esso di sbarre, c’era il pezzo d’erba piú pulito di tutta Merdadicane, il fiore all’occhiello del parco (arrestate quelle lacrime d’orgoglio). Naturalmente, era il gabinetto dei cani, dove i cani avrebbero dovuto cagare e non cagavano mai.

Si facevano grandi congetture su dove sarebbe «andato» Gwyn Barry dopo Amelior – se non altro nei circoli letterari, ovunque allignassero. (Forse i circoli letterari sono essi stessi una garbata invenzione letteraria). Sicuramente si facevano grandi congetture al 49E di Calchalk Street. Che «direzione» avrebbe «preso» Gwyn adesso? Umilmente locale e spregevolmente autobiografico, Summertown era un’opera di apprendistato. Amelior era un bestseller da baraccone. E adesso? La domanda trovò presto risposta, almeno per la gioia di Richard: il giorno dopo avere consegnato il «Los Angeles Times», ricevette, anche lui tramite corriere speciale, il primo capitolo del romanzo numero tre. Arrivò in un bustone verde che voleva somigliare a un costoso zaino da montagna; come se non bastasse, era accompagnato da una fotografia di Gwyn e da alcune citazioni, tratte non dalle critiche ma dai prospetti di bilancio. Richard strappò l’involucro e ne esaminò il contenuto con un sospiro spartano. Gesummaria. Il terzo romanzo di Gwyn era intitolato Amelior riconquistata. Notate, non Summertown riconquistata. Oh no. Ameliorriconquistata. E che bisogno avevano di riconquistarla? Non l’avevano mai persa.

In Amelior dodici giovani esseri umani si riunivano in una regione selvaggia senza nome, forse immaginaria, ma sicuramente assai temperata, in un futuro non lontano. A portarli lí non era stato un olocausto, né una meteorite, né una distopia convulsa. Arrivavano e basta. In cerca di una vita migliore.

Nel gruppo era rappresentata ogni razza, il solito arcobaleno con l’aggiunta di un paio di comparse superesotiche – un Inuit, un Amerindo, persino un taciturno aborigeno. Tutti i giovani potevano vantare un malanno grave ma non deturpante: Piotr era emofiliaco, Conchita soffriva di endometriosi, Sachine di colite, Donna Aquila di diabete. Su dodici, naturalmente, sei erano uomini e sei erano donne; ma i caratteri sessuali erano volutamente confusi. Le donne avevano le spalle larghe e i fianchi stretti. Gli uomini erano inclini a una serafica pinguedine. Nel luogo chiamato Amelior, dove erano andati ad abitare, non c’era bellezza, non c’era umorismo e non succedeva niente; non c’erano neppure odio e amore.

E questo era tutto. Richard vi avrebbe detto che questo era tutto: onestamente. A parte un sacco di chiacchiere su agricoltura, orticoltura, giurisprudenza, religione (non intenzionali), astrologia, costruzione di capanne e alimentazione. La prima volta che aveva letto Amelior, Richard si era accorto che continuava a dimenticare quello che stava facendo e a tornare distrattamente al risvolto di copertina e alla nota biografica, aspettandosi frasi come Nonostante il mutismo e la cecità, oppure Sebbene affetto da sindrome di Down, oppure Infischiandosi delle conseguenze di una lobotomia totale... Amelior sarebbe stato un libro degno di nota solo se Gwyn l’avesse scritto con un piede. Perché Amelior era cosí popolare? Va a sapere. Non era merito di Gwyn. Era colpa del mondo.

Per tutta la settimana, ogni mattina, seduto sulla tazza del cesso, Richard lesse qualche pagina del tormentone – non esisteva termine piú appropriato – di Gwyn. Il primo capitolo di Amelior riconquistataconsisteva in una discussione nella foresta tra uno dei sei uomini e una delle sei donne. Una discussione sulla giustizia sociale. In altre parole, ecco una specie di putto acquatico di Narnia e una specie di Hobbit senza tette con un piede su un tronco, che parlano di libertà. L’unica vera differenza era nella prosa. Pur essendo assai semplice, Amelior di tanto in tanto tentava una cadenza letteraria da scuola serale. Amelior riconquistata, invece, era di una piattezza barbarica. Richard continuava a guardare il risvolto di copertina. Diceva solo che Gwyn viveva a Londra, non nel Borneo, e che il papà della moglie era il Conte di Rievaulx.

Era domenica pomeriggio, e Richard stava andando da Gwyn, come talvolta faceva la domenica pomeriggio.

Sceso in strada salí sulla Maestro, con la sensazione di una svolta imminente. Sei notti prima, alle 3.30 del mattino, mentre tornava da Holland Park dopo avere portato gloriosamente a termine la consegna del «Los Angeles Times» sui gradini di Gwyn, era stato gloriosamente accusato di guida in stato di ubriachezza. Il caso non era complicato. Richard si era schiantato con la macchina contro una stazione della polizia. Altri potrebbero giudicare disdicevole uno sproposito cosí smaccato, ma Richard non ne era dispiaciuto, perché almeno aveva accelerato le pratiche. Non c’era stato bisogno di aspettare che chiedessero via radio l’invio del palloncino. Non c’era stato bisogno di accompagnare gli agenti alla stazione di polizia... E per il momento non rimpiangeva nemmeno che il tasso di alcol nel suo sangue fosse cosí smodatamente elevato. Almeno non ricordava nulla – tranne l’improvviso contrasto: sei lí che guidi tranquillamente, senza sapere bene dove stai andando, con la mano sinistra sull’occhio sinistro, e di colpo ti ritrovi a sobbalzare su per i gradini di una stazione di polizia, fino a schiantarti nella porta a vetri. Adesso, mentre percorreva Ladbroke Grove in direzione di Holland Park con un’imbarazzante sensazione di sobrietà e clandestinità, Richard ricordò ciò che aveva detto quando i tre piedipiatti si erano precipitati fuori ad accoglierlo. No, non si poteva proprio dire che fosse un caso complicato. Richard aveva tirato giú il finestrino e detto: – Mi spiace molto, agente, ma vede, sono incredibilmente ubriaco –. Anche questo era servito ad accelerare le pratiche. L’udienza in tribunale era stata fissata per fine novembre. E l’auto non sembrava stare peggio di prima (anche se per qualche ragione puzzava sicuramente di piú). E per fortuna non era successo all’andata. – Che cosa ci facevi in giro in macchina a quell’ora? – gli aveva chiesto Gina. Richard si era voltato di tre quarti verso di lei e aveva detto: – Oh, sai com’è. Pensavo alle mie cose. Al nuovo libro. E a come mi sentirei se non potessi piú fare lo scrittore –. Sí, sarebbe stato duro non essere piú uno scrittore. Non avrebbe piú potuto abbindolare Gina con scuse del genere...

Seduto su una poltrona francese nella biblioteca ottagonale, Gwyn Barry guardò accigliato la scacchiera. La guardò accigliato come se un allampanato fotografo gli avesse appena detto: – Potrebbe fare la faccia accigliata, come se fosse davvero concentrato? – In realtà non c’erano fotografi in giro. Solo Richard, il quale, seduto di fronte a lui, giocava con il nero. Richard fece una mossa, N (QB5) – K6 secondo la vecchia notazione, N (c4) – e5 secondo la nuova, poi lasciò che la sua visione periferica si pascesse dell’edizione della domenica del «Los Angeles Times», che giaceva in promettente disordine su un vicino sofà. La stanza era alta e stretta, una specie di follia architettonica in miniatura; sembrava la camera di caricamento di una magnifica arma da fuoco, o di un missile antico – sei facce di librerie intarsiate, e le due finestre l’una di fronte all’altra, come cartucce a salve. Richard lanciò un’occhiata esasperata ai capelli di Gwyn (cosí folti, cosí uniformi, cosí accuratamente spuntati – i capelli di un videopredicatore), poi i suoi occhi tornarono, con un lampo di innocenza, sulla scacchiera. Era in vantaggio di un pedone.

– Compri il «Los Angeles Times»? – domandò con stupore.

Gwyn parve perdere il ritmo, o l’antagonismo: fece una pausa impacciata prima di rispondere. L’ultima mossa di Richard era di quelle che presentano all’avversario un problema rigorosamente locale e tutto sommato risolubile. C’era una risposta appropriata, anzi, piú che appropriata, a disposizione. Richard l’aveva vista mentre le sue dita si ritiravano dal pezzo. Prima o poi l’avrebbe vista anche Gwyn.

– No, – disse Gwyn. – Me l’ha mandato qualche imbecille.

– Perché?

– Con un biglietto che diceva: «C’è qualcosa qui che ti può interessare». Nemmeno il numero di pagina, nota bene. Non un segno, né altro. E guarda che roba. Una montagna di carta.

– Che cosa ridicola. Chi è stato?

– Non so. Firmato «John». Bell’aiuto. Conosco barcate di persone che si chiamano John.

– Ho sempre pensato che fosse piuttosto comodo chiamarsi John.

– Perché?

– Se incominci a impazzire te ne rendi subito conto.

– Scusa? Non ti seguo.

– Insomma, è un bel segno di megalomania, quando un John comincia a pensare che «John» sia sufficiente. «Ciao. Sono John». Oppure: «Il tuo affezionato John». Embé? Tutti si chiamano John.

Gwyn trovò ed eseguí la mossa migliore. La sua risposta non era solo vantaggiosa; ebbe il fortuito effetto di chiarire la posizione del Bianco. Richard annuí e rabbrividí fra sé e sé. Aveva costretto Gwyn a fare una buona mossa: una cosa che sembrava ripetersi sempre piú frequentemente, come se Richard fosse in qualche modo fuori tempo, come se Gwyn stesse giocando con la nuova notazione e Richard si affannasse ancora con la vecchia.

Richard disse: – ... Gwyn. In gallese John si dice cosí, vero?

– No. Si dice Euan.

– Come si scrive?

– E, u, a, n.

– Banale, – disse Richard.

Poi abbassò gli occhi sulle sessantaquattro caselle – su questo terreno di gioco della libera intelligenza. Ah sí? Dunque l’intelligenza sarebbe libera, è cosí? Be’, non dava affatto la sensazione di esserlo. La scacchiera e i pezzi disposti davanti a loro sul tavolo di vetro erano, guarda caso, i piú belli che Richard avesse mai usato, o mai visto. Per qualche ragione aveva trascurato di chiedere a Gwyn come se li fosse procurati, e sperava, un po’ inquieto, che fossero un cimelio di famiglia di Demi. Perché sicuramente Gwyn, con i suoi soli mezzi (leggi il suo gusto e molte migliaia di sterline), avrebbe tirato fuori qualcosa di assai diverso: una scacchiera con pezzi fatti di trentadue lastre piú o meno identiche di quarzo/onice/osmio; oppure con pezzi cosí sgargianti e particolareggiati da farti trasecolare – torri di Windsor, cavalli impennati sulle zampe posteriori e bardati di tutto punto, alfieri in grandezza quasi naturale con vessilli di broccato. No. I pezzi erano di dimensioni austere, deliziosamente compatti e saldamente ancorati al loro feltrino (persino i pedoni erano pesanti come una Derringer), e la scacchiera era di tali proporzioni che ti sentivi davvero un principe guerriero sulla cima di una collina, intento a mandare staffette con messaggi arrotolati e a puntare il dito nella nebbia del mattino, con l’occhio incollato al cannocchiale. E il tutto senza che venisse versata una sola goccia di sangue. Ora gli ricordava il cruento e ignominioso retaggio di un’era sconvolta dalle epidemie, con uomini pigiati e incanagliti, storpi che barcollavano ubriachi, vagabondi che si contorcevano e vomitavano riversi nel fossato. Richard fissò con occhi sbarrati quella che qualsiasi giocatore dotato di buon senso avrebbe riconosciuto come una posizione compromessa. Ma lui non avrebbe perso. Non aveva mai perso con Gwyn. Un tempo Richard era migliore in tutto: scacchi, biliardo, tennis, ma anche arte, amore, persino denaro. Con quanta disinvoltura, di tanto in tanto, prendeva il conto da Wimpy’s. Con quale completezza, e con quante magnitudini di distacco, Gina offuscava Gilda. Com’era sembrato bello il volume rilegato de I sogni non significano nulla, in confronto al misero luccichio della fodera del bigino di Gwyn sulla novella dell’economo di Chaucer...

Scambiarono un cavallo.

– E tu che cosa hai fatto? Immagino che avrai buttato via l’intero malloppo... il «Los Angeles Times», intendo. E adesso che cosa ti prende?

Nel formulare quest’ultima domanda, Richard pose una lieve enfasi sull’avverbio temporale. Perché Gwyn stava facendo qualcosa che in quei giorni faceva sempre piú spesso, qualcosa che gonfiava il collo di Richard in un’improvvisa parotite da odio. Gwyn si metteva a esaminare un oggetto – in questo caso il cavallo nero – come se non l’avesse mai visto prima, con uno stupore infantile negli occhi spalancati. Stare seduto davanti a uno che fingeva innocenza era superiore alle forze di Richard. Forse a Gwyn era capitato fra le mani un romanzo – di una donna, su un poeta – e pensava che i sognatori e i cercatori dovessero comportarsi cosí. Altra possibile spiegazione era quella che Richard definiva la Teoria del Baco. Secondo tale teoria, Gwyn aveva un baco nel cervello, e ogni corrugar di fronte, ogni broncio, ogni posa era direttamente attribuibile ai vagabondaggi e alle angherie del baco, e soprattutto ai suoi pasti. Osservando di nuovo Gwyn, Richard si convinse che la Teoria del Baco stava guadagnando terreno.

– È un pezzo degli scacchi, – disse. – Un cavallo. Nero. Fatto di legno.

– No, – disse Gwyn con aria sognante, mettendo il cavallo insieme con gli altri pezzi catturati, – finalmente ho trovato.

– Trovato che cosa?

Gwyn sollevò lo sguardo. – La notizia che mi riguarda. La notizia che doveva interessarmi sul «Los Angeles Times».

Richard si curvò di nuovo sulla scacchiera.

– Ci ho posato sopra gli occhi per puro caso. Guarda. Avrei rischiato di dannarmi un’intera settimana su quella maledetta montagna di carta.

– Qui bisogna prendere seri provvedimenti, – disse Richard, quasi in falsetto. Alle sue spalle si aprí una porta. – Analizziamo la situazione del re, – aggiunse, – e vediamo che cosa si riesce a combinare con la regina.

Demi stava entrando, o transitando, dato che la biblioteca si trovava tra i due salotti. Passò accanto ai due uomini con riverente furtività, percorrendo i pochi passi centrali in punta di piedi, con le ginocchia ingenuamente sollevate. Grande, bionda, incapace di ironia – ma non si poteva neppure dire che fosse opaca e rozza – Demi recitava la scenetta in maniera goffa e priva di talento. Come un genitore non molto portato che tenti un gioco da bambini. A Richard tornò in mente il brillante commercialista cui si era inutilmente e assai transitoriamente rivolto dopo avere venduto in America Premeditazione: costui, durante l’appuntamento a casa sua, aveva finto allegramente di cacciare la figlia dalla stanza, inseguendola con gran tintinnio di chiavi e monete e sforbiciate di ginocchia sotto l’occhio severo delle moderne prime edizioni dei testi tributari... Demi si fermò davanti all’altra porta.

– Brrr, – disse.

– Ciao Demi.

– Non fa caldo qui dentro.

Gwyn si girò verso di lei con occhi bovinamente devoti. A Richard sembrò un chiaroveggente propenso, per ragioni tattiche, a sconfessare la propria professione.

– Perché non ti metti un golf, tesoro?

– Brrr, – disse Demi.

Richard chinò il capo e, con infinita afflizione, cominciò a studiare un piano diverso.