venerdì 23 ottobre 2020


JACQUES E IL SUO PADRONE 
Milan Kundera 
Omaggio a Denis Diderot in tre atti 

© 1993 Adelphi Edizioni S.p.a., Milano 
[...] amo Diderot. E per essere ancora più sincero: amo i romanzi di Diderot. E ancora più precisamente: amo Jacques le Fataliste. [...]

Introduzione a una variazione 

Quando i russi, nel 1968, occuparono il mio piccolo paese, tutti i miei libri furono messi all’indice e io mi ritrovai di punto in bianco nell’impossibilità di guadagnarmi da vivere in modo legale. Molti cercarono di aiutarmi. Un giorno venne da me un regista e mi propose di scrivere, firmandolo con il suo nome, un adattamento teatrale dell’Idiota di Dostoevskij. 
Mi misi dunque a rileggere L’idiota e capii che, anche a costo di morire di fame, non avrei mai potuto eseguire il lavoro. 
Quell’universo di gesti eccessivi, di profondità oscure, di sentimentalismo aggressivo mi nauseava. E a un tratto fui preso da un’inspiegabile nostalgia per Jacques le Fataliste. 
«Non preferirebbe per caso un Diderot a un Dostoevskij?». 
No, lui non lo preferiva, ma io non riuscivo a togliermi di mente quello strano desiderio; e, per poter passare più tempo possibile in compagnia di Jacques e del suo Padrone, presi a immaginarli come personaggi di un lavoro mio. 



Ma perché quella repentina avversione per Dostoevskij? 
Reazione antirussa di un ceco traumatizzato dall’occupazione del proprio paese? No, perché in nessun momento ho smesso di amare Čechov. Dubbi sul valore estetico della sua opera? Nemmeno, perché la mia avversione – della quale ero il primo a sorprendermi – non ambiva ad alcuna specie di oggettività. 
Ciò che mi irritava in Dostoevskij era il clima dei suoi libri, un universo nel quale tutto diventa sentimento – in altre parole: dove il sentimento viene innalzato al rango di valore e di verità. 
Eravamo al terzo giorno dell’occupazione. Stavo andando in macchina da Praga a Budejovice (la città in cui Camus ha ambientato Il malinteso). Ovunque – sulle strade, nei campi, nelle foreste – erano accampati soldati russi. Mi fermarono. Tre di loro si misero a perquisirmi la macchina. Quando ebbero finito, lo stesso ufficiale che aveva dato l’ordine di eseguire la perquisizione mi chiese in russo: «Kak čuvstvuetes’?», che vuol dire: «Come si sente? Che cosa prova?». La domanda non era né malevola né ironica, tutt’altro; e continuò: «È solo un gran malinteso. Ma tutto si sistemerà. Voi dovete capire che noi amiamo i cechi. Noi vi amiamo!». 
Il paesaggio sfigurato da migliaia di carri armati, il futuro del paese compromesso per secoli, gli uomini politici cechi esautorati e arrestati – e un ufficiale dell’esercito di occupazione veniva a farmi una dichiarazione d’amore. A scanso di equivoci: l’ufficiale non stava affatto manifestando il proprio dissenso per l’invasione. Parlavano tutti più o meno come lui: alla base del loro comportamento non vi era il piacere sadico dei violentatori, ma un altro archetipo – quello dell’amore ferito: «Perché questi cechi (che noi amiamo tanto!) non vogliono vivere insieme a noi e nello stesso modo in cui viviamo noi? È un vero peccato che sia stato necessario ricorrere ai carri armati per far capire loro che cos’è l’amore!». 


La sensibilità è indispensabile all’uomo; essa però diventa perniciosa quando si mette a considerare se stessa come un valore, come un criterio di verità, come la giustificazione di un comportamento. I più nobili sentimenti nazionali sono pronti a giustificare le peggiori infamie; ed è col cuore traboccante di sentimenti lirici che l’uomo commette, nel santo nome dell’amore, delle azioni spregevoli. 
La sensibilità che si sostituisce al pensiero razionale diventa il fondamento stesso dell’incomprensione e dell’intolleranza; diventa anzi, come ha detto Carl Gustav Jung, la «sovrastruttura della brutalità». 
L’innalzare il sentimento al rango di valore è operazione antica, e risale forse al momento in cui il cristianesimo si è separato dal giudaismo. «Ama Dio e fa’ quello che vuoi» ha detto sant’Agostino. Questa celebre frase è rivelatrice. Da ora in poi il criterio di verità si sposta dall’esterno all’interno: nell’arbitrio della soggettività. L’indeterminatezza del sentimento amoroso («ama Dio!» – imperativo cristiano) si sostituisce all’evidenza della Legge (imperativo giudaico) e diventa il criterio quanto mai vago della morale. 
La storia della società cristiana è una scuola millenaria di sensibilità: Gesù in croce ci ha insegnato a ossequiare la sofferenza; la poesia cavalleresca ha scoperto l’amore; la famiglia borghese ci ha fatto provare la nostalgia del focolare domestico; la demagogia politica è riuscita a “sentimentalizzare” la volontà di potenza. È stata questa lunga storia a determinare la ricchezza, la forza e la bellezza dei nostri sentimenti. 
Dal Rinascimento in poi, tuttavia, alla sensibilità occidentale ha fatto da contrappeso un’istanza complementare: quella della ragione e del dubbio, del gioco e della relatività delle umane cose. L’Occidente entra allora nella sua pienezza. 
Nel suo famoso discorso di Harvard, Solženicyn fa risalire l’inizio della crisi dell’Occidente proprio all’epoca rinascimentale. In un simile giudizio si esprime e si rivela, nella sua peculiarità, la civiltà russa. La storia della Russia si distingue infatti da quella dell’Occidente proprio nel non aver conosciuto il Rinascimento e lo spirito che da esso ebbe origine. È questo il motivo per cui esiste nella mentalità russa un diverso equilibrio fra razionalità e sensibilità; in questo diverso equilibrio (o squilibrio) risiede il famoso mistero dell’anima russa (della sua profondità non meno che della sua brutalità). Quando la greve irrazionalità russa è piombata sul mio paese, ho provato un bisogno istintivo di respirare a pieni polmoni lo spirito della modernità occidentale. E mi sembrava che non si potesse trovarlo concentrato in più alto grado che in quel festino dell’intelligenza, dello humour e della fantasia che è Jacques le Fataliste. 



Se dovessi dare una definizione di me stesso, direi che sono un edonista preso nella trappola di un mondo politicizzato all’estremo. È appunto questa la situazione descritta in Amori ridicoli, che dei miei libri è quello che maggiormente amo perché rispecchia il periodo più felice della mia vita. Coincidenza curiosa: l’ultimo di quei racconti (scritti nel corso degli anni Sessanta) l’ho terminato tre giorni prima che arrivassero i russi. 
Allorché, nel 1970, è apparsa l’edizione francese di questo libro, alcuni hanno voluto ricollegarlo alla tradizione illuminista. In seguito, impressionato da un simile paragone, io stesso mi sono affrettato a ripetere con sollecitudine un po’ infantile che amavo il Settecento. A dire il vero, non è tanto che io ami il Settecento, amo Diderot. E per essere ancora più sincero: amo i romanzi di Diderot. E ancora più precisamente: amo Jacques le Fataliste. 
È una visione dell’opera di Diderot certamente molto personale, ma non del tutto infondata: in quanto autore teatrale, infatti, Diderot è relativamente trascurabile; e si può, al limite, capire la storia della filosofia senza conoscere i saggi del grande enciclopedista; ma, lo ripeto, la storia del romanzo sarebbe incomprensibile e incompleta senza Jacques le Fataliste. E vorrei aggiungere che è riduttivo considerare quest’opera esclusivamente nell’ambito della scrittura diderottiana anziché nel contesto del romanzo mondiale: per poter cogliere la sua reale grandezza bisogna metterla accanto a Don Chisciotte e a Tom Jones, all’Ulisse e a Ferdydurke. 
Mi si obietterà che, rispetto alle altre attività di Diderot, Jacques le Fataliste è una sorta di divertissement, e che per di più egli era fortemente influenzato dal suo grande modello: il Tristram Shandy di Laurence Sterne. 



Mi accade spesso di sentir dire che il romanzo ha esaurito tutte le sue possibilità. Ho invece l’impressione che sia proprio il contrario: che nel corso dei quattrocento anni della sua storia, cioè, esso abbia mancato molte delle sue possibilità, che abbia sprecato molte grandi occasioni, trascurato molte strade, lasciati inascoltati molti appelli. 
Il Tristram Shandy di Laurence Sterne rappresenta una di queste grandi sollecitazioni non accolte. La storia del romanzo ha sfruttato fino in fondo l’esempio di Samuel Richardson, il quale ha scoperto nella forma del romanzo epistolare le possibilità introspettive dell’arte romanzesca. Questa stessa storia ha invece prestato pochissima attenzione alle prospettive che le venivano aperte dall’impresa di Sterne. 
Tristram Shandy è un romanzo-gioco. Sterne si dilunga per pagine e pagine sui giorni del concepimento e della nascita del suo eroe, per poi piantarlo in asso spudoratamente, e in modo quasi definitivo, non appena è nato; si intrattiene in chiacchiere con il lettore e si perde in digressioni infinite; incomincia a raccontare un episodio e non lo porta a termine; inserisce dedica e prefazione del libro a metà del volume, ecc. 
Per farla breve: Sterne non costruisce il suo racconto sul principio dell’unità di azione, ritenuto a priori inerente alla nozione stessa di romanzo. Il romanzo, questo grande gioco con personaggi inventati, significa per lui libertà illimitata di invenzione formale. 
Per difendere Laurence Sterne, un critico americano ha scritto: «Tristram Shandy, although it is a comedy, is a serious work, and it is serious throughout» (“Tristram Shandy, malgrado sia una commedia, è un lavoro serio, ed è completamente serio”). Vorrei che qualcuno mi spiegasse, una buona volta, che cosa sarebbe mai una commedia seria, e che cosa una commedia che seria non è! La frase da me citata è del tutto priva di senso, ma è un perfetto esempio del panico che coglie la critica letteraria di fronte a tutto quanto sembri mancare di serietà. 
Io affermo invece in maniera categorica che nessun romanzo degno di questo nome prende sul serio il mondo. E, d’altra parte, che cosa significherà mai «prendere sul serio il mondo»? Significa certamente: credere a ciò che il mondo vuol farci credere. Ma, da Don Chisciotte all’Ulisse, il romanzo mette in discussione proprio ciò che il mondo vuol farci credere. 
Qualcuno potrebbe tuttavia farmi notare che un romanzo, pur rifiutando di credere a ciò che il mondo vuol farci credere, può continuare ad aver fede nella propria verità: può dunque non prendere sul serio il mondo ed essere nondimeno un romanzo serio. 
Ma che cosa vuol dire “essere serio”? È serio chi crede a ciò che fa credere agli altri. 
Non è questo, appunto, il caso di Tristram Shandy, il quale, per ritornare ancora una volta al nostro critico americano, è non-serio throughout, da cima a fondo: non ci fa credere a un bel niente, né alla verità dei personaggi né alla verità dell’autore, e nemmeno alla verità del romanzo in quanto genere letterario. Tutto viene messo in discussione, tutto viene messo in dubbio, tutto è gioco, tutto è divertimento (senza alcuna vergogna di divertire), con tutte le conseguenze che questo implica per la forma del romanzo. 
Sterne ha scoperto le immense possibilità ludiche del romanzo, aprendogli in tal modo nuove prospettive di evoluzione. Ma nessuno ha raccolto la sua “invitation au voyage”. Nessuno lo ha seguito. Nessuno – tranne Diderot. 
Lui solo ha risposto al richiamo del nuovo. Sarebbe dunque assurdo che proprio per questo venisse accusato di scarsa originalità. Chi mai rivolgerebbe un’accusa del genere a un Rousseau, o a un Laclos, o a un Goethe, solo per il fatto che erano tutti e tre debitori (e non soltanto loro, ma tutto il romanzo nella sua evoluzione successiva) del vecchio e ingenuo Richardson? L’impressionante affinità fra Sterne e Diderot è dovuta al fatto che il loro tentativo è rimasto, nella storia del romanzo, un caso totalmente isolato. 



Le differenze fra Tristram Shandy e Jacques le Fataliste sono, del resto, non meno importanti delle somiglianze. 
C’è innanzitutto una differenza di temperamento: Sterne è lento; il suo metodo consiste in una diminuzione della velocità; la sua ottica è quella del microscopio (egli sa arrestare il tempo e isolare un singolo istante della vita come farà più tardi James Joyce). 
Diderot è rapido; il suo metodo consiste in un aumento della velocità; la sua ottica è quella del telescopio (non conosco un solo incipit di romanzo più affascinante delle prime pagine di Jacques le Fataliste: il virtuosismo con cui si passa da un registro all’altro, il senso del ritmo, il prestissimo delle prime frasi). 
C’è poi una differenza di struttura: Tristram Shandy è il monologo di un solo narratore, lo stesso Tristram, di cui Sterne segue minuziosamente i bizzarri pensieri nel loro capriccioso sviluppo. 
A raccontare invece le diverse storie del romanzo di Diderot sono cinque narratori, i quali non fanno altro che interrompersi a vicenda: l’autore medesimo (che dialoga con il lettore), il Padrone (che dialoga con Jacques), Jacques (che dialoga con il Padrone), l’Ostessa (che dialoga con i suoi ascoltatori) e il Marchese des Arcis. La tecnica dominante in ciascuna delle singole storie è il dialogo (che tocca, per altro, delle vette di virtuosismo). Ma i narratori raccontano tali dialoghi dialogando a loro volta (i dialoghi sono inseriti all’interno di un dialogo), sicché l’intero romanzo non è altro che un’immensa conversazione ad alta voce. 
C’è poi anche una differenza di spirito: il libro del vicario Sterne è un compromesso fra lo spirito libertino e lo spirito sentimentalista, è un ricordo nostalgico dell’allegria rabelaisiana nella pudibonda anticamera dell’epoca vittoriana. 
Il romanzo di Diderot è un’esplosione di impertinenza libera da ogni forma di autocensura, e di erotismo scevro di qualunque alibi sentimentale. 
E c’è infine una differenza nel grado di illusione realistica: Sterne scardina la cronologia, certo, ma gli avvenimenti sono saldamente radicati nel tempo e nel luogo; i personaggi sono sì stravaganti, ma possiedono tutti gli attributi necessari a farci credere alla loro esistenza reale. 
Diderot crea uno spazio prima di lui ignoto alla storia del romanzo: un palcoscenico vuoto. Da dove vengono i suoi personaggi? Nessuno lo sa. Come si chiamano? Non ci riguarda. Quanti anni hanno? – No, Diderot non fa davvero nulla per farci credere che essi esistano realmente e in un momento determinato. Nell’intera storia del romanzo Jacques le Fataliste rappresenta il rifiuto più radicale dell’illusione realistica e dell’estetica del romanzo cosiddetto psicologico. 



La pratica del reader’s digest riflette fedelmente le tendenze più profonde del nostro tempo, e mi fa pensare che un giorno tutta la cultura del passato sarà completamente riscritta e completamente occultata dal suo stesso rewriting. Gli adattamenti cinematografici e teatrali dei grandi romanzi non sono altro che un particolare genere di reader’s digest. 
Sia chiaro: non sto difendendo qui la inviolabile verginità dell’opera d’arte. Perfino a Shakespeare è accaduto di riscrivere opere create da altri. Ma non si è mai trattato di adattamenti: egli ha usato un’opera non sua come tema per una variazione della quale era l’unico e sovrano autore. Diderot ha mutuato da Sterne tutta la storia di Jacques ferito al ginocchio, trasportato su un carro e curato da una bella donna. Ma non l’ha né imitata né adattata: ha scritto una variazione sul tema di Sterne. 
Viceversa, le trasposizioni teatrali o cinematografiche di Anna Karenina sono adattamenti, ovverosia riduzioni. E quanto più l’adattatore tende a celarsi con discrezione dietro il romanzo, tanto più lo tradisce. Riducendolo, lo priva non solo del suo fascino, ma del suo stesso senso. 
Per rimanere a Tolstoj: è stato lui a porre, in modo radicalmente nuovo nella storia del romanzo, il problema dell’azione umana, è stato lui a scoprire la fatale importanza, in una decisione, delle cause razionalmente inspiegabili. Perché Anna si suicida? Tolstoj giunge al punto di utilizzare un monologo interiore quasi joyciano per mettere a nudo la trama delle motivazioni irrazionali che hanno condizionato la sua eroina. Mentre qualsiasi adattamento di questo romanzo, per la sua stessa natura di reader’s digest, non può che sforzarsi di rendere chiare e logiche le cause del comportamento di Anna, di razionalizzarle: l’adattamento diviene così pura e semplice negazione dell’originalità del romanzo. 
Ma è vero anche l’inverso: se il senso del romanzo sopravvive al suo rewriting, si avrà una prova indiretta dello scarso valore del romanzo stesso. Ebbene, nella letteratura mondiale non ci sono che due romanzi assolutamente irriducibili, radicalmente unrewritable: Tristram Shandy e Jacques le Fataliste. Come riuscire, infatti, a semplificare la loro geniale caoticità in modo che di essa qualcosa rimanga? E che cosa deve poi rimanerne? 
Certo, si può isolare la storia di Madame de La Pommeraye e farne una commedia o un film (come d’altronde è stato fatto). Ma ciò che ne vien fuori si riduce a un banale aneddoto di cui è impossibile percepire il fascino. La bellezza di questa storia, infatti, è inscindibile dal modo in cui Diderot la racconta: 1) una donna del popolo narra eventi accaduti in un mondo che le è estraneo; 2) ogni melodrammatica identificazione con i personaggi è resa impossibile dal fatto che il racconto viene interrotto di continuo e in maniera del tutto incongrua da altri aneddoti o altri discorsi, ed è anche 3) incessantemente commentato, analizzato, discusso; eppure 4) ognuno dei presenti trae da esso una conclusione diversa da quella degli altri: la storia di Madame de La Pommeraye è infatti una antimoralità. 
Se mi sono dilungato su questo punto è perché mi associo all’invettiva del Padrone di Jacques: «Vadano in malora tutti quelli che si permettono di riscrivere ciò che è stato scritto! ... Che vengano castrati e siano loro mozzate le orecchie!». 



Ma l’ho fatto anche, naturalmente, per sottolineare come Jacques e il suo Padrone non sia un adattamento: è un’opera in tutto e per tutto mia, una mia personale “variazione su Diderot”, ovvero, essendo nata dall’ammirazione che ho per lui, un mio “omaggio a Diderot”. Questa “variazione-omaggio” è il luogo di molteplici incontri: fra due scrittori, certo, ma anche fra due secoli. Nonché fra il romanzo e il teatro. La forma di un lavoro teatrale è sempre stata molto più rigida e normativa di quella del romanzo. Il teatro non ha mai avuto il suo Laurence Sterne. Io ho scritto quindi non soltanto un “omaggio a Diderot”, ma anche un “omaggio al romanzo”, cercando di dare alla mia commedia quella libertà formale che il Diderot romanziere ha scoperto e che il Diderot commediografo non ha mai conosciuto. 
Ed ecco come è costruita la commedia: l’esile filo conduttore costituito dal viaggio di Jacques e del suo Padrone sorregge ben tre storie d’amore: quella del Padrone, quella di Jacques e quella di Madame de La Pommeraye. Mentre le prime due sono connesse, sia pure in modo vago, con lo svolgimento stesso del viaggio (la seconda, a dire il vero, in modo molto vago), la terza, che occupa da sola tutto il secondo atto, è tecnicamente parlando un puro e semplice episodio (non è parte integrante dell’azione principale). Vi è in ciò una trasgressione manifesta delle cosiddette leggi della costruzione drammatica. Ma era proprio questa la mia scommessa: rinunciare a una rigida unità di azione e creare un insieme coerente con metodi più sottili: con la tecnica della polifonia (le tre storie non vengono raccontate in successione, ma si mescolano l’una con l’altra) e con la tecnica delle variazioni (le tre storie sono di fatto ciascuna la variazione dell’altra). (Così questa commedia, che è una “variazione su Diderot”, è al tempo stesso un “omaggio alla tecnica delle variazioni”, proprio come sarebbe stato, sette anni dopo, Il libro del riso e dell’oblio). 



Per un autore ceco era strano pensare, negli anni Settanta, che Jacques le Fataliste (anch’esso scritto negli anni Settanta) fosse stato stampato solo dopo la morte del suo autore e che, lui vivente, avesse circolato soltanto in copie manoscritte e all’interno di una ristretta cerchia di amici. Quella che all’epoca di Diderot era un’eccezione è diventata a Praga, duecento anni più tardi, la sorte comune a tutti gli scrittori cechi di una qualche rilevanza, i quali, banditi dalle tipografie, possono vedere i propri libri solo sotto forma di dattiloscritto. Questo stato di cose, che ha avuto inizio con l’invasione russa, dura ancora oggi ed è, con ogni probabilità, destinato a durare. 
Ho scritto Jacques e il suo Padrone per mio esclusivo piacere e anche, forse, immaginando che un giorno sarebbe stato messo in scena in un teatro ceco con uno pseudonimo. L’ho firmato, però, disseminando nel testo (ancora un gioco, una variazione!) qualche ricordo delle mie opere precedenti: la coppia formata da Jacques e dal suo Padrone evoca la coppia di amici della «Mela d’oro dell’eterno desiderio» in Amori ridicoli; vi è un accenno a La vita è altrove e un altro al Valzer degli addii. E si trattava davvero di ricordi: perché l’intera commedia era l’addio alla mia vita di scrittore, un «addio sotto forma di divertissement». Il valzer degli addii, che terminai più o meno nello stesso periodo, doveva essere infatti il mio ultimo romanzo. Eppure quel periodo io l’ho vissuto senza provare l’amarezza di un fallimento personale, poiché a quell’addio privato se ne sovrapponeva un altro, immenso, che trascendeva il mio: a Praga, di fronte all’eternità della notte russa, ho vissuto la fine cruenta della cultura occidentale quale era stata concepita all’alba dei Tempi moderni: una cultura fondata sull’individuo e sulla sua ragione, sul pluralismo del pensiero e sulla tolleranza. Ho vissuto insomma, in un piccolo paese occidentale, la fine dell’Occidente. Era questo il grande addio. 


10 

Un giorno, scortato solo da un contadino analfabeta, Don Chisciotte uscì di casa per andare a combattere i suoi nemici. Centocinquant’anni più tardi Toby Shandy trasformò il suo giardino nell’enorme riproduzione in scala di un campo di battaglia, dove egli si abbandonava ai ricordi della sua giovinezza guerriera, fedelmente assistito dal valletto Trim. Quest’ultimo era zoppo: proprio come quel Jacques che, dieci anni più tardi, intratteneva il suo Padrone nel corso di un viaggio, ed era non meno loquace e testardo di quanto lo sarebbe stato, centocinquant’anni dopo, l’attendente Josef Švejk, che faceva divertire e inorridire il suo padrone, il tenente Lukáš dell’esercito austroungarico. Altri trent’anni e, aspettando Godot, Vladimiro e il suo servo sono già soli sulla scena vuota del mondo. Il viaggio è giunto al termine. 
Il valletto e il suo padrone hanno attraversato tutta la storia dell’Occidente moderno. A Praga, città del grande addio, udivo allontanarsi le loro risate. A quelle risate io tenevo, con amore e con angoscia, come si tiene alle cose fragili e caduche – alle cose condannate a sparire. 


Parigi, luglio 1981 

Jacques e il suo Padrone 
Omaggio a Denis Diderot in tre atti 

  
Personaggi 


Jacques 
Il padrone 
L’ostessa 
Bigre padre 
Bigre figlio 
Justine 
Il cavaliere di Saint-Ouen 
Agathe 
La madre di Agathe 
Il padre di Agathe 
Il commissario 
Il Marchese 
La figlia 
La madre 
Contadini 
Il giudice 
Domestici 
Jean, il garzone della locanda 


Non è escluso che uno stesso attore possa interpretare due ruoli diversi. Nella messinscena parigina, per esempio, il Commissario e il Giudice, la Madre e la madre di Agathe, Bigre padre e il padre di Agathe, Agathe e la Figlia sono stati interpretati dagli stessi attori. 

Io immagino Jacques come un uomo di almeno quarant’anni. Ha la stessa età del suo Padrone o anche qualche anno di più. 
François Germond, autore dell’eccellente edizione andata in scena a Ginevra, ha avuto un’idea interessante, che ho approvato con entusiasmo: quando Jacques e il Padrone si rincontrano, nella sesta scena del terzo atto, sono già vecchi, come se dalla scena precedente fossero trascorsi molti anni. 
La commedia va rappresentata senza intervalli. I singoli atti devono però essere separati in modo evidente, o con l’uso del sipario o con un breve oscuramento della scena. 

Allestimento scenico. Durante i tre atti la scena non cambia; il palcoscenico è diviso in due parti: una anteriore più bassa e una posteriore rialzata a formare una grande pedana. 
Tutta l’azione che si svolge al presente viene recitata sul proscenio; dietro, sulla parte sopraelevata, vengono rievocati gli episodi del passato. 
In fondo al palcoscenico, sulla parte rialzata, una rampa di scale – o una scala a pioli – porta a un soppalco (che può anche non essere visibile). 
Per la maggior parte del tempo la scena (che deve essere il più possibile semplice e astratta) è completamente vuota. Solo in alcuni episodi gli attori stessi (i domestici) portano gli arredi necessari: un tavolo, delle sedie, ecc. 
La scena deve essere priva di qualsiasi elemento ornamentale, descrittivo o simbolico, che sarebbe in assoluto contrasto con lo spirito della commedia. 

L’azione si svolge nel Settecento, ma è un Settecento come ce lo immaginiamo oggi. La lingua della commedia non ricrea la lingua dell’epoca, e così pure le scene e i costumi non dovranno essere storicamente caratterizzati. La storicità dei personaggi (penso soprattutto ai due protagonisti) andrebbe leggermente sfumata. 

Note sulla storia della commedia: l’ho scritta all’incirca nel 1971, con la vaga idea che qualche teatro ceco avrebbe potuto metterla in scena sotto il nome di qualcun altro. Solo dopo il mio trasferimento in Francia, nel 1975, il mio caro e indimenticabile amico Evald Schorm si prese a cuore il testo e mi prestò il suo nome, con il quale in seguito Jacques e il suo Padrone fu rappresentato al teatro di Ústí nad Labem. Ho curato io stesso la traduzione francese, che nel 1981 è stata pubblicata dalle edizioni Gallimard con la mia prefazione Introduction à une variation e la postfazione di François Ricard Variations sur l’art de la variation. La versione francese è servita poi da modello alle successive traduzioni, in particolare a quella inglese, svedese e spagnola . Fra gli allestimenti a cui ho assistito mi è parso ottimo quello di Parigi, eccellente quello di Zagabria, quasi geniale quello di Ginevra, disastroso quello di Bruxelles. In questa occasione ho capito a quale grado di incomprensione può condurre la mia “variazione su Diderot”. I registi che abbiano una tendenza alla grafomania possono dirsi: visto che Kundera si è permesso di fare una variazione sul romanzo di Diderot, noi faremo una libera variazione sulla sua variazione. Nessuno potrà mai immaginare di quali assurdità abbia infarcito la mia commedia il regista di Bruxelles, ed è questo il motivo per cui ho vietato in seguito altre rappresentazioni. Proprio perché la “variazione teatrale” su un romanzo celebre è di per sé una cosa molto delicata, che richiede un rigoroso equilibrio fra quanto del modello viene conservato e quanto viene ad esso aggiunto (l’equilibrio fra il Settecento e il Novecento, fra l’ottimismo illuministico e lo scetticismo del nostro secolo), è d’obbligo mettere in scena la commedia con assoluta esattezza, fedeltà e semplicità. Altrimenti il risultato sarà un guazzabuglio concettuale. 
Da quando ho visto lo spettacolo di Bruxelles, considero Jacques e il suo Padrone soprattutto come teatro da leggere, e ne autorizzo la rappresentazione solo a compagnie amatoriali o a teatri poveri (è stato messo in scena, per esempio, da decine di circoli universitari americani). La scarsità di mezzi economici è infatti una sorta di garanzia del fatto che il regista opterà per la semplicità più assoluta. Nulla può recare maggior danno all’arte di una grossa somma di denaro nelle mani di uno sciocco ambizioso. 
Atto primo 
Scena prima 



Jacques e il suo Padrone entrano in scena; fanno qualche passo, poi lo sguardo di Jacques si posa sugli spettatori; Jacques si ferma... 

JACQUES (con discrezione). Signore... (indicando il pubblico al suo padrone). Perché ci fissano tutti in quel modo? 
IL PADRONE (ha un lieve sussulto e si aggiusta i vestiti, come se temesse di attirare l’attenzione per una qualche trascuratezza nel vestire). Fa’ finta che non ci sia nessuno. 
JACQUES (al pubblico). Vi dispiacerebbe guardare da un’altra parte?... Insomma, che cosa volete sapere?... Da dove veniamo? (Tende il braccio dietro di sé). Da laggiù. E dove andiamo? (Con filosofico disdegno). C’è forse qualcuno che sappia dove va? (Al pubblico). Voialtri, lo sapete dove andate? 
IL PADRONE. Purtroppo, Jacques, io credo di sapere dove andiamo. JACQUES. Davvero lo sapete? 
IL PADRONE (tristemente). Già. Ma non intendo metterti a parte dei miei tristi doveri. 
JACQUES. Volete costringermi a ricordarvi quel che successe a Esopo? Un giorno il suo padrone lo mandò alle terme. Per strada si imbatté nelle guardie. «Dove vai?». «Non lo so» disse Esopo. «Non lo sai? Bene, dato che non lo sai vuol dire che verrai con noi». «Vedete», disse loro Esopo «non avevo ragione di dire che non sapevo dove andavo? Ero diretto alle terme e finisco in gattabuia». Credetemi, signore, uno non sa mai dove va. Ma, come diceva il mio capitano, è scritto lassù. 
IL PADRONE. E aveva ragione... 
JACQUES. Che il diavolo si porti Justine e la lurida soffitta dove ho perso la mia verginità! 
IL PADRONE. Perché maledici quella donna, Jacques? 
JACQUES. Perché quando ho perso la verginità mi sono ubriacato, allora mio padre va in bestia e me le suona, proprio in quell’istante passa un reggimento e io mi arruolo, scoppia una battaglia e mi becco una pallottola nel ginocchio. E quella pallottola si è tirata dietro una sfilza di avventure. Senza la pallottola, ad esempio, non mi sarei mai innamorato. 
IL PADRONE. Sei stato innamorato? Non me l’hai mai detto! 
JACQUES. Sono ancora molte le cose che non vi ho detto. 
IL PADRONE. E allora, com’è successo che ti sei innamorato? Racconta. 
JACQUES. Dov’ero rimasto? Ah sì, la pallottola nel ginocchio. Una montagna di morti e feriti, io giaccio sotto di loro. Il giorno dopo mi trovano e mi sbattono su 
un carretto per portarmi all’ospedale. Il carretto sobbalza e io urlo di dolore a ogni scossone. Poi all’improvviso si ferma. Li prego di mettermi per terra. Siamo all’estremità di un villaggio e davanti a una casupola c’è una giovane donna. 
IL PADRONE (contento). Oh, finalmente! 
JACQUES. Lei entra in casa, ritorna con una bottiglia di vino e mi offre da bere. Quelli vogliono rimettermi sul carro, ma io mi aggrappo alla veste della donna. Poi perdo i sensi e quando mi sveglio sono dentro la casa. Intorno a me ci sono i suoi bambini, suo marito, e lei mi passa sulla fronte un fazzoletto umido. 
IL PADRONE (con allegra eccitazione). Mascalzone! Ho già capito come va a finire! 
JACQUES. Non avete capito un bel niente, signore. 
IL PADRONE. Quell’uomo ti aveva accolto in casa sua e tu l’hai ricambiato in quel modo? 
JACQUES. Padrone! Siamo forse responsabili dei nostri atti? Il mio capitano diceva: tutto il bene e tutto il male che ci capita quaggiù sulla terra è scritto lassù. Conoscete un sistema per cancellare ciò che è scritto? Dite, signore: posso forse io non essere? Posso essere un altro? E dal momento che io sono io, posso fare qualcosa di diverso da quello che faccio? 
IL PADRONE. C’è una cosa che non mi quadra. Tu sei un mascalzone perché così è scritto lassù? Oppure così è scritto lassù perché di te si sapeva già che eri un mascalzone? Qual è la causa e qual è l’effetto? 
JACQUES. Non so, signore, ma non chiamatemi mascalzone. 
IL PADRONE. Un uomo che seduce la moglie del suo benefattore... 
JACQUES. E non chiamate quell’uomo mio benefattore. Avreste dovuto sentire come se la prendeva con sua moglie perché aveva avuto pietà di me e mi aveva portato in casa. 
IL PADRONE. Faceva bene... E lei com’era, Jacques? Descrivimela! JACQUES. La donna? 
IL PADRONE. Sì. 
JACQUES (esitante). Statura media... 
IL PADRONE (non troppo soddisfatto). Hum... 
JACQUES. Ma direi più alta che bassa... 
IL PADRONE (annuisce con soddisfazione). Ah, alta... 
JACQUES. Sì. 
IL PADRONE. Questo mi piace. 
JACQUES (mimando). Un bel seno. 
IL PADRONE. Più abbondante di seno o di sedere? 
JACQUES (esitando). Di seno. 
IL PADRONE (tristemente). Peccato. 
JACQUES. A voi piace il sedere grosso? 
IL PADRONE. Sì... Come quello di Agathe... E gli occhi? 
JACQUES. Non me ne ricordo più. Ma i capelli li aveva neri. 
IL PADRONE. Agathe li aveva biondi. 
JACQUES. Io non posso farci niente, signore, se non era come la vostra Agathe! 
Dovete accontentarvi di quello che era. Ma aveva delle belle gambe lunghe. 
IL PADRONE (sognante). Gambe lunghe. Così va bene. 
JACQUES. E un sedere grandioso. 
IL PADRONE. Grandioso? Davvero? 
JACQUES (mimando). Un sedere così... 
IL PADRONE. Ah, mascalzone! La dipingi in un modo tale che già ardo di desiderio! E tu a quel brav’uomo, tu l’hai... 
JACQUES. No, signore, fra me e quella donna non c’è mai stato niente. 
IL PADRONE. Allora perché me ne parli? Perché stiamo perdendo tempo con lei?! 
JACQUES. Signore, voi mi interrompete, e questa è una pessima abitudine. 
IL PADRONE. E io che avevo già una gran voglia di lei... 
JACQUES. Io vi racconto che sono a letto con una pallottola nel ginocchio, che soffro le pene dell’inferno, e voi pensate solo al vizio. E per di più tirate in ballo una certa Agathe. 
IL PADRONE. Non ricordarmela, Jacques! 
JACQUES. Siete stato voi a ricordarla. 
IL PADRONE. Ti è mai capitato di desiderare pazzamente una donna che non vuol saperne di te? Per nessuna ragione? 
JACQUES. Sì, Justine. 
IL PADRONE. Justine? È quella con cui hai perso la verginità? JACQUES. Proprio lei. 
IL PADRONE. Raccontamelo. 
JACQUES. Dopo di voi, signore... 


Scena seconda 

In fondo, sulla parte rialzata della scena, sono apparsi già da qualche istante altri personaggi. Bigre figlio è seduto sulla scala e Justine è in piedi accanto a lui. Dalla parte opposta della pedana c’è un’altra coppia. Agathe è seduta su una sedia che le ha portato il Cavaliere di Saint-Ouen, e il Cavaliere è in piedi vicino a lei. 

SAINT-OUEN (forte, rivolgendosi al Padrone). Amico! 
JACQUES (si volta insieme al Padrone in direzione della voce; con un cenno della testa indica Agathe). È lei? (Il Padrone annuisce). E quello accanto a lei? 
IL PADRONE. Un mio amico. Il cavaliere di Saint-Ouen. È lui che me l’ha fatta conoscere. (Indicando Justine con lo sguardo). E quella è la tua? 
JACQUES. Sì. Ma la vostra mi piace di più. 
IL PADRONE. E a me piace di più la tua. È più grassa. Non vuoi fare a cambio? 
JACQUES. Avreste dovuto pensarci allora. Adesso è troppo tardi. 
IL PADRONE (con un sospiro). Eh già, è troppo tardi. E quel tipo chi è? 
JACQUES. Bigre, un amico mio. Quella ragazza la volevamo tutt’e due. Solo che, per qualche incomprensibile motivo, lui ce l’ha fatta e io no. 
IL PADRONE. Proprio come me. 
SAINT-OUEN (passa davanti ad Agathe e si avvicina al Padrone sul bordo della pedana). Caro mio, evidentemente hai mancato di discrezione. I suoi genitori cominciano a temere che nascano pettegolezzi su di lei. 
IL PADRONE (a Jacques, con indignazione). Dannati borghesi! Ma quando la coprivo d’oro, quella ragazza, non sembravano tanto infastiditi! 
SAINT-OUEN. Ma no, ma no, ti stimano. Solo vorrebbero che tu ti decidessi a dichiarare le tue intenzioni. Altrimenti, pare che tu debba smettere di frequentare casa loro. 
IL PADRONE (a Jacques, con indignazione). Se penso che è stato lui a presentarmi! E mi ha incoraggiato! E mi ha assicurato che la ragazza sarebbe stata arrendevole! 
SAINT-OUEN. Amico mio, io non faccio che riferirti il loro messaggio. 
IL PADRONE (a Saint-Ouen). Benissimo. (Sale sulla pedana). Tu allora riferisci che non mi trascineranno mai all’altare! E di’ ad Agathe che in futuro dovrà essere molto più carina con me, se vorrà conservarmi. Non ho voglia di sprecare con lei tempo e denaro che potrei impiegare ben più fruttuosamente con un’altra! 

Saint-Ouen ascolta il messaggio del Padrone, poi si inchina e ritorna verso Agathe. 

JACQUES. Magnifico, signore! Così mi piacete! Per una volta nella vita siete stato davvero coraggioso. 
IL PADRONE (a Jacques, dalla pedana). Anche a me capita ogni tanto. Ho smesso di vederla. 
SAINT-OUEN (si avvicina di nuovo al Padrone descrivendo un semicerchio). Ho riferito tutto come desideravi. Ma ho l’impressione che tu sia stato un po’ crudele. 
JACQUES. Crudele? Il mio padrone? 
SAINT-OUEN. Chiudi il becco, servo. (Al Padrone). L’intera famiglia è spaventata dal vostro silenzio. E Agathe... 
IL PADRONE. E Agathe? 
SAINT-OUEN. Agathe piange. 
IL PADRONE: Piange. 
SAINT-OUEN. Piange. Piange dalla mattina alla sera. 
IL PADRONE. Insomma, cavaliere, pensate che dovrei rifarmi vivo? 
SAINT-OUEN. No, sarebbe un errore! Ora non puoi dargliela vinta. Se tu tornassi là adesso, tutto sarebbe perduto. In fondo non sarà un male dare una lezione a quei bottegai... 
IL PADRONE. E se non mi chiamassero più? 
SAINT-OUEN. Ti chiameranno. 
IL PADRONE. E se ci mettessero troppo tempo? 
SAINT-OUEN. Vuoi essere il padrone o lo schiavo? 
IL PADRONE. E così Agathe piange... 
SAINT-OUEN. Meglio che sia lei a piangere, e non tu. 
IL PADRONE. E se non mi chiamassero? 
SAINT-OUEN. Ti dico che ti chiameranno. Adesso però devi trarre da questa situazione tutti i possibili vantaggi. Agathe deve rendersi conto che non ti tiene in pugno come credeva, e che dovrà fare qualche sforzo in più... Ma, cavaliere, in fondo siamo amici, dimmi sinceramente: davvero non c’è mai stato nulla fra voi due? 
IL PADRONE. No. 
SAINT-OUEN. Vuoi essere discreto. 
IL PADRONE. Purtroppo, ho detto la verità. 
SAINT-OUEN. E non ha mai avuto un solo istante di debolezza? 
IL PADRONE. No. 
SAINT-OUEN. Mi chiedo se tu non ti sia comportato un po’ come un babbeo. Le persone oneste hanno spesso questa tendenza. 
IL PADRONE. E voi, cavaliere? Non avete avuto mai voglia di lei? 
SAINT-OUEN. Certo che ne avevo voglia. Ci ho provato per molto tempo. Ma poi sei arrivato tu e per Agathe io sono diventato di colpo puro spirito! Siamo rimasti amici, è vero, ma non c’è altro. Ho una sola consolazione. Se riuscirà ad averla il mio migliore amico, sarà come se l’avessi avuta io. Credimi, farò di tutto per infilarti nel suo letto... 

Ciò detto, si allontana lentamente verso il fondo della scena, in direzione di Agathe, che è sempre seduta sulla sedia. 

JACQUES. Avete notato, signore, come vi ascolto? Non vi ho interrotto neanche una volta. Magari voi seguiste il mio esempio. 
IL PADRONE. Ti vanti di non interrompere solo per potermi interrompere. 
JACQUES. Se vi tolgo la parola è solo perché voi mi date sempre il cattivo esempio. 
IL PADRONE. Come padrone ho il diritto di interrompere il mio servo ogni volta che ne ho voglia. Ma il mio servo non ha il diritto di interrompere me. 
JACQUES. Io non vi interrompo, signore, converso con voi, come voi avete sempre desiderato. E voglio dirvi la mia opinione: il vostro amico non mi piace affatto, e sono pronto a scommettere che vuole farvi sposare la sua amichetta. 
IL PADRONE. Basta! Non ti dirò più nemmeno una parola! (Scende infuriato dalla pedana). 
JACQUES. Padrone! Vi prego! Continuate! 
IL PADRONE. E per quale motivo? Con la tua boriosa e inopportuna sagacia hai già indovinato tutto! Al diavolo la tua dannata e inutilissima arguzia! 
JACQUES. Sono d’accordo con voi, signore, ma continuate. Se ho indovinato qualcosa, saranno soltanto le grandi linee della storia, ma sono ben lontano dall’immaginare tutti gli appassionanti dettagli delle vostre conversazioni con Saint-Ouen e tutti i risvolti dell’intrigo. 
IL PADRONE. Mi hai seccato e non dirò più nulla. 
JACQUES. Vi prego! 
IL PADRONE. Se vuoi fare la pace, dovrai essere tu a raccontare e io ti interromperò ogniqualvolta me ne verrà il capriccio. Voglio sapere come hai perso la verginità. E puoi star certo che ti interromperò spesso, anche nel bel mezzo del tuo primo atto d’amore! 


Scena terza 

JACQUES. Come volete, signore, ne avete il diritto. Guardate. (Indica in fondo verso la scala sulla quale stanno salendo Justine e il giovane Bigre. Ai piedi della scala c’è Bigre padre). Il mio padrino, il vecchio Bigre, nella sua bottega di carraio. La scala che porta alla soffitta, e nella soffitta il letto dove dorme suo figlio, il giovane Bigre... 
BIGRE PADRE (grida in direzione della soffitta). Bigre, dannato pelandrone! 
JACQUES. Il vecchio Bigre nella bottega ci dormiva anche. Ogni volta che si addormentava, il giovane Bigre scivolava giù dalla soffitta, faceva entrare Justine e se la portava di sopra. 
BIGRE PADRE. L’Angelus è già suonato e tu te ne stai ancora lì a ronfare? Devo venire lassù e farti scendere a colpi di scopa? 
JACQUES. Quella notte se l’erano spassata talmente che poi non erano riusciti a svegliarsi. 
BIGRE FIGLIO (dalla soffitta). Non arrabbiarti, padre! 
BIGRE PADRE. Il fattore aspetta che gli consegni l’asse del carro. Muoviti! 
BIGRE FIGLIO. Arrivo! (Scende abbottonandosi i pantaloni). 
IL PADRONE. Sicché Justine non poteva più uscire! 
JACQUES. Era in trappola, signore. 
IL PADRONE (tra le risa). Doveva sudare freddo! 
BIGRE PADRE. Da che si è invaghito di quella puttana, non farebbe altro che dormire. Se almeno ne valesse la pena! Ma per una sgualdrina come quella! Se la mia povera moglie, buonanima, avesse visto una cosa simile, avrebbe già spezzato le ossa a lui e a lei avrebbe cavato gli occhi, di domenica, all’uscita dalla chiesa! E io, come un idiota, sopporto tutto! Ma da oggi questa storia finirà! (Al giovane Bigre). Questo è l’asse, portalo al fattore! (Il giovane Bigre se ne va con l’asse). 
IL PADRONE. E lei da lassù aveva sentito tutto! 
JACQUES. Sicuro. 
BIGRE PADRE. Accidenti, dov’è la mia pipa? Quel buono a nulla me l’avrà presa e l’avrà lasciata di sopra... 

Sale su per la scala. 

IL PADRONE. E Justine?! E Justine?! 
JACQUES. Si era nascosta sotto il letto. 
IL PADRONE. E il giovane Bigre? 
JACQUES. Dopo aver consegnato l’asse, corse da me per un consiglio. Io gli dico: «Vai a farti una passeggiata in paese, e intanto io vedrò di far uscire tuo padre affinché Justine possa scappare. Devi solo lasciarmi il tempo sufficiente...». 
(Sale sulla pedana; il Padrone ride). Che avete da ridere? 
IL PADRONE. Nulla. 
BIGRE PADRE (che nel frattempo è ridisceso dalla soffitta). Il mio figlioccio! Che piacere vederti! Come mai così di buon’ora? 
JACQUES. È proprio questo il punto. Non so come fare per rientrare a casa. BIGRE PADRE. Ah, figlioccio, figlioccio, stai diventando uno scapestrato. 
JACQUES. Non lo nego. 
BIGRE PADRE. Tu e quel mio ragazzo fate proprio il paio. Hai passato tutta la notte fuori! 
JACQUES. Non lo nego. 
BIGRE PADRE. Con qualche puttanella. 
JACQUES. Sì. Solo che con mio padre non si scherza. 
BIGRE PADRE. Tuo padre ha ragione e dovrebbe prenderti a legnate, come dovrei fare io col mio ragazzo. Ma adesso facciamo colazione. Il vino porta consiglio. 
JACQUES. Non posso, padrino. Casco dal sonno. 
BIGRE PADRE. Vedo che non ti sei risparmiato. Spero che ne valesse la pena. Be’, pazienza. Mio figlio non c’è, va’ su in soffitta e infilati nel suo letto... 

Jacques sale su per la scala. 

IL PADRONE (gridando rivolto a Jacques). Traditore! Infame! Dovevo aspettarmelo! 
BIGRE PADRE. Ah, questi figlioli, questi dannati figlioli... (Dalla soffitta giungono rumori e gemiti soffocati...). Sta sognando, il ragazzo... si vede che ha passato una notte movimentata! 
IL PADRONE. Ma quali sogni! Non sta sognando un bel niente! Vuole costringerla con le minacce. Lei resiste, ma ha paura di essere scoperta, e così è costretta a tacere. Furfante! Meriteresti di finire in tribunale per violenza carnale! 
JACQUES (affacciandosi dalla soffitta). Padrone, non so se le ho fatto violenza oppure no, ma alla fin fine non è andata tanto male per nessuno dei due, ho dovuto soltanto prometterle... 
IL PADRONE. Che cosa le hai promesso, furfante? 
JACQUES. Che il giovane Bigre non l’avrebbe mai saputo. 
IL PADRONE. Ed è bastato questo perché tutto andasse per il meglio. JACQUES. E poi ancora meglio. 
IL PADRONE. Ma quante volte? 
JACQUES. Molte, signore, e ogni volta meglio. 

Torna il giovane Bigre. 

BIGRE PADRE. Perché ci hai messo tanto tempo? Adesso finisci quel cerchione, ma mettiti fuori dalla porta. 
BIGRE FIGLIO. Perché fuori dalla porta? 
BIGRE PADRE. Per non svegliare Jacques. 
BIGRE FIGLIO. Jacques? 
BIGRE PADRE. Ma sì, è in soffitta e dorme della grossa. Ah, poveri padri! Che il Signore abbia pietà di noi! Siete uno più canaglia dell’altro! Su, muoviti! Perché te ne stai lì impalato? (Il giovane Bigre si slancia verso la scala e fa per salire). Dove vai? Lascialo dormire, quel poveretto! 
BIGRE FIGLIO (con tono esasperato). Padre! Padre! 
BIGRE PADRE. Cascava dal sonno! 
BIGRE FIGLIO. Devo andare di sopra! 
BIGRE PADRE. Va’ fuori! Ti piacerebbe che ti svegliassero mentre dormi? 
IL PADRONE. E Justine sentiva tutto! 
JACQUES (seduto in cima alle scale). Come voi sentite me! 
IL PADRONE. Oh oh! Magnifico! Che birbante matricolato! E tu che cosa facevi? 
JACQUES. Sghignazzavo. 
IL PADRONE. Pendaglio da forca! E lei? 
JACQUES. Si strappava i capelli, alzava gli occhi al cielo, si disperava. 
IL PADRONE. Jacques, siete un bruto, e avete un cuore di pietra. 
JACQUES (scendendo le scale e con tono molto sincero). Niente affatto, signore, sono una persona sensibile. Ma questa mia sensibilità la tengo in serbo per un’occasione migliore. Chi sperpera la propria sensibilità a destra e a manca, poi non ne ha più quando gli serve veramente. 
BIGRE PADRE (a Jacques). Oh, eccoti qua! Il sonno ti ha fatto bene! (Al figlio). È più fresco di una rosa! Va’ in cantina a prendere una bottiglia. (A Jacques). Ora forse mangerai volentieriqualcosa! JACQUES. Molto volentieri. 

Il vecchio Bigre prende la bottiglia che gli porge il figlio e riempie tre bicchieri. 

BIGRE FIGLIO (allontanando il suo bicchiere). A quest’ora del mattino non ho sete. BIGRE PADRE. Non hai voglia di bere? 
BIGRE FIGLIO. No. 
BIGRE PADRE. Lo so io il perché. (A Jacques). È per via di quella Justine. È stato fuori un bel po’, sarà passato da lei e l’avrà sorpresa con un altro. (Al figlio). Ti sta bene, te lo dicevo che era una puttana! (A Jacques). E ora se la prende con questa innocente bottiglia. 
JACQUES. Direi che avete colto nel segno. 
BIGRE FIGLIO. Jacques, piantala con gli scherzi. 
BIGRE PADRE. Se non vuole bere, pazienza... (Alza il bicchiere). Alla tua salute, figlioccio! 
JACQUES (alzando il bicchiere). Alla vostra! (Al giovane Bigre). E tu bevi con noi, amico mio, non te la prendere per così poco... 
BIGRE FIGLIO. Ho già detto che non berrò. 
JACQUES. La rivedrai e tutto si chiarirà. Sta’ tranquillo. 
BIGRE PADRE. Che lo faccia soffrire, invece, quella donna!... E noi adesso prepariamoci ad andare da tuo padre, e vediamo di fargli dimenticare le tue scappatelle. Ah, ragazzacci indegni, scellerati, siete tutti uguali!... Su, andiamo... 

Prende Jacques sottobraccio ed esce con lui; il giovane Bigre sale in soffitta; Jacques dopo pochi passi si ferma, scende dalla pedana e torna verso il Padrone; il vecchio Bigre si allontana dalla scena. 

IL PADRONE. Mirabile aneddoto, Jacques. Ci insegna a conoscere meglio le donne e a conoscere meglio gli amici. 

Sulla pedana Saint-Ouen si dirige verso il Padrone. 

JACQUES (con tono malinconico). E voi credete forse che un vostro amico disdegnerebbe la vostra amante o vostra moglie, se gli si presentasse l’occasione? 


Scena quarta 

SAINT-OUEN. Caro amico! Amico mio! Venite... (È sul bordo della pedana e tende le braccia verso il Padrone, che si trova sotto di lui. Il Padrone sale e SaintOuen lo prende a braccetto e vanno su e giù lungo la pedana come fossero a passeggio). Ah, com’è bello, amico mio, avere un amico cui si è legati da un’amicizia sincera... 
IL PADRONE. Mi commuovete, cavaliere. 
SAINT-OUEN. Sì, devo dirvelo, voi siete il migliore degli amici, mentre io, amico mio... 
IL PADRONE. Voi? Anche voi siete il migliore degli amici. 
SAINT-OUEN (scuotendo la testa). Ho paura che non mi conosciate, amico mio. 
IL PADRONE. Vi conosco come me stesso! 
SAINT-OUEN. Se mi conosceste, non vorreste conoscermi! 
IL PADRONE. Non dite così. 
SAINT-OUEN. Sono un uomo infame. Sì, è così che devo definirmi di fronte a voi: sono un uomo infame. 
IL PADRONE. Non vi permetto di umiliarvi davanti a me! 
SAINT-OUEN. Un uomo infame! 
IL PADRONE. No! 
SAINT-OUEN. Un uomo infame! 
IL PADRONE (si inginocchia davanti a lui). Tacete, amico mio. Le vostre parole mi straziano il cuore. Cos’è che vi tormenta? Che cosa vi rimproverate? 
SAINT-OUEN. Nel mio passato c’è una macchia. Una sola e unica macchia, sì... una sola macchia, però... 
IL PADRONE. Ebbene, una sola macchia, cosa volete che sia? 
SAINT-OUEN. Una sola macchia può insozzare una intera vita. 
IL PADRONE. Una rondine non fa primavera. Una sola macchia, nessuna macchia. 
SAINT-OUEN. Oh no! È una sola e unica macchia, ma è terribile. Io, il cavaliere di Saint-Ouen, ho tradito un amico! Sì! 
IL PADRONE. Ma andiamo! Come è potuto accadere? 
SAINT-OUEN. Io e quel mio amico frequentavamo all’epoca la stessa casa, per via di una stessa ragazza. Lui era innamorato di lei e lei era innamorata di me. Lui la manteneva e io approfittavo di lei. E non ho mai avuto il coraggio di confessarglielo. Ma devo farlo. Se lo ritroverò, dovrò dirgli tutto, dovrò confessarglielo e liberarmi da questo peso tremendo che non riesco più a sopportare... 
IL PADRONE. Farete bene, cavaliere. 
SAINT-OUEN. Voi me lo consigliate? 
IL PADRONE. Sì. Ditegli tutto. 
SAINT-OUEN. Ma come credete che la prenderà, questo mio amico? 
IL PADRONE. Sarà commosso dalla vostra sincerità e dal vostro rimorso. Vi abbraccerà. 
SAINT-OUEN. Lo credete davvero? 
IL PADRONE. Certamente. 
SAINT-OUEN. Anche voi vi comportereste così? 
IL PADRONE. Io sì. Certamente. 
SAINT-OUEN (allargando le braccia). Amico mio, abbracciami dunque!... 
IL PADRONE. Come? 
SAINT-OUEN. Abbracciami. Quell’amico che ho tradito, sei tu! 
IL PADRONE (affranto). Agathe? 
SAINT-OUEN. Sì... Ah, fate la faccia scura! Vi restituisco la parola data! Sì, sì! Potete trattarmi come volete. Avete ragione, ciò che ho fatto non ammette perdono. Respingetemi! Odiatemi! Disprezzatemi! Ah, se sapeste che cosa ha fatto di me quella miserabile! Quanto ho sofferto per l’ignobile parte che mi ha costretto a recitare... 


Scena quinta 
(Dialogo incrociato) 

Il giovane Bigre e Justine scendono per la scala e si siedono uno accanto all’altra sul gradino più basso. Entrambi hanno l’aria afflitta. 

JUSTINE. Lo giuro. Lo giuro su mio padre e su mia madre! BIGRE FIGLIO. Non ti crederò mai! 

Justine scoppia in lacrime. 

IL PADRONE (a Saint-Ouen). Quella sciagurata! E voi! Voi, cavaliere, come avete potuto! Voi... 
SAINT-OUEN. Non torturatemi, amico mio! 
JUSTINE. Ti giuro che non mi ha neppure sfiorata! 
BIGRE FIGLIO. Bugiarda! 
IL PADRONE. Come avete potuto! 
BIGRE FIGLIO. Con quel mascalzone! 

Justine scoppia in lacrime. 

SAINT-OUEN. Come ho potuto? E vi meravigliate? Sono l’uomo più ignobile che esista sulla faccia della terra! Ho per amico l’uomo migliore del mondo, e lo tradisco ignobilmente. Vado a letto con la ragazza che lui adora. E voi vi domandate perché l’ho fatto? Perché sono un mascalzone! Nient’altro che un mascalzone! 
JUSTINE. Non è un mascalzone! È tuo amico! 
BIGRE FIGLIO (con rabbia). Amico? 
JUSTINE. Proprio così: amico! Non mi ha neanche sfiorata! 
BIGRE FIGLIO. Sta’ zitta! 
SAINT-OUEN. Sì, nient’altro che un mascalzone. 
IL PADRONE. No, smettetela di sputarvi addosso. 
SAINT-OUEN. E invece voglio farlo! 
IL PADRONE. Malgrado quel che è accaduto, non dovete sputarvi addosso. 
JUSTINE. Mi ha detto che ti vuole bene e che con me non farebbe nulla neanche se fossimo soli su un’isola deserta! 
IL PADRONE. Smettetela di tormentarvi. 
BIGRE FIGLIO. Ha detto così? 
JUSTINE. Sì! 
SAINT-OUEN. E invece voglio tormentarmi. 
IL PADRONE. Siamo stati entrambi vittime di quella strega, voi e io! È lei che vi ha sedotto! E voi siete stato sincero. Mi avete detto tutto. Siete sempre mio amico. 
BIGRE FIGLIO. Ha detto: neanche su un’isola deserta? 
JUSTINE. Sì! 
SAINT-OUEN. Non sono degno della vostra amicizia. 
IL PADRONE. Al contrario. Ne siete degno più che mai. Avete pagato con il tormento dei vostri rimorsi! 
BIGRE FIGLIO. Davvero ha detto che mi vuole bene e che non ti toccherebbe neanche se foste soli su un’isola deserta? 
JUSTINE. Sì! 
SAINT-OUEN. Ah, che animo nobile! IL PADRONE. Abbracciatemi! 

Si abbracciano. 

BIGRE FIGLIO. Davvero ha detto che non ti toccherebbe neanche se foste soli su un’isola deserta? 
JUSTINE. Sì! 
BIGRE FIGLIO. Su un’isola deserta? Giuralo! 
JUSTINE. Lo giuro! 
IL PADRONE. Venite, beviamoci sopra! 
JACQUES. Ah, padrone, non ho il coraggio di guardarvi! 
IL PADRONE. Alla nostra amicizia, che nessuna sgualdrina potrà mai distruggere! 
BIGRE FIGLIO. Neanche su un’isola deserta. Gli ho fatto torto. È un vero amico. 
JACQUES. Ho l’impressione, signore, che le nostre storie si assomiglino stranamente. 
IL PADRONE (uscendo dalla parte). Che cosa? 
JACQUES. Dico che le nostre storie si assomigliano stranamente. 
BIGRE FIGLIO. Jacques è un vero amico. 
JUSTINE. Il tuo migliore amico. 
SAINT-OUEN. Ormai penso solo alla vendetta! Quella sciagurata ci ha ingannati entrambi, e noi ci vendicheremo insieme! Ordinatemi quel che devo fare! 
IL PADRONE (incuriosito da Jacques e dalla sua storia, a Saint-Ouen). Più tardi, finiremo di parlarne più tardi! 
SAINT-OUEN. No, adesso! Adesso! Farò tutto ciò che mi ordinerete! Ditemi solo che cosa volete! 
IL PADRONE. Sì, ma più tardi. Ora voglio vedere come va a finire con Jacques. 

Scende dalla pedana. 

BIGRE FIGLIO. Jacques! (Jacques sale sulla pedana e si avvicina a Bigre). Ti ringrazio. Sei il mio migliore amico. (Lo abbraccia). E ora abbraccia Justine. (Jacques esita). Su, non vergognarti! Davanti a me hai il diritto di abbracciarla! Te lo ordino! (Jacques abbraccia Justine). Noi tre rimarremo amici per la pelle fino alla morte... Su un’isola deserta... Davvero non la toccheresti? Neanche su un’isola deserta? 
JACQUES. La donna di un amico? Scherzi? 
BIGRE FIGLIO. Sei il mio amico più fedele. 
IL PADRONE. Canaglia! (Jacques si gira verso il Padrone sorridendo). Ma la mia storia è tutt’altro che finita. 
JACQUES. Non vi bastavano le corna? 
BIGRE FIGLIO (al colmo della gioia). La donna più fedele... l’amico più fedele. Sono felice come un re! 

Dicendo queste parole il giovane Bigre esce di scena insieme a Justine. SaintOuen rimane ancora qualche istante, poi esce anche lui. 


Scena sesta 

IL PADRONE. La mia storia continua. E ha una conclusione terribile. La conclusione più terribile che una storia possa avere... 
JACQUES. Qual è la conclusione più terribile, per una storia? 
IL PADRONE. Pensaci. 
JACQUES. Ci penserò... Qual è la conclusione più terribile che una storia possa avere... Ma neanche la mia storia è finita, padrone. Avevo perso la verginità e avevo trovato il mio migliore amico. Ero così felice che mi sono ubriacato. Mio padre va in bestia e me le suona, passa di là un reggimento, mi arruolo, mi ritrovo in piena battaglia, mi arriva una pallottola nel ginocchio, mi mettono su un carretto, il carretto si ferma davanti a una casupola e sulla porta appare una donna... 
IL PADRONE. Questo l’hai già raccontato. 
JACQUES. Ricominciate a interrompermi? 
IL PADRONE. Allora continua. 
JACQUES. Neanche per sogno. Non tollero queste continue interruzioni. 
IL PADRONE (anche lui offeso). Benissimo. Almeno facciamo un altro po’ di strada. Abbiamo un lungo viaggio davanti a noi... Maledizione, come mai non abbiamo cavalli? 
JACQUES. Dimenticate che siamo su un palcoscenico. Dove lo trovate un cavallo? 
IL PADRONE. Per via di questo assurdo spettacolo sono costretto ad andare a piedi. 
Eppure il padrone che ci ha inventati ci aveva assegnato dei cavalli! 
JACQUES. Ecco cosa succede a essere inventati da troppi padroni. 
IL PADRONE. Mi domando spesso, Jacques, se la nostra storia sia stata scritta bene. Tu pensi che sia stata scritta bene? 
JACQUES. Dove, signore? Lassù? 
IL PADRONE. Lassù era scritto che qualcuno quaggiù l’avrebbe scritta, e io mi domando se costui l’abbia scritta bene. Aveva talento, almeno? 
JACQUES. Se non avesse avuto talento, probabilmente non avrebbe scritto. 
IL PADRONE. Come? 
JACQUES. Dico che se non avesse avuto talento non avrebbe scritto. 
IL PADRONE (scoppiando a ridere). Ora dimostri proprio di essere solo un servo. Tu credi che quelli che scrivono abbiano talento? E che mi dici di quel giovane poeta che un giorno si presentò al nostro comune padrone? 
JACQUES. Non so nulla di questo poeta. 
IL PADRONE. Vedo che non sai nulla del nostro padrone. Sei un servo molto ignorante. 
L’OSTESSA (entra sulla scena, avanza verso Jacques e il Padrone e fa loro un inchino). Siate i benvenuti, signori. 
IL PADRONE. I benvenuti? E dove, signora? 
L’OSTESSA. Alla locanda del Grande Cervo. 
IL PADRONE. Non ho mai sentito questo nome. 
L’OSTESSA. Portate un tavolo! E delle sedie! (Due camerieri entrano in scena di corsa con il tavolo e le sedie e li sistemano davanti a Jacques e al Padrone, che prendono posto). Era scritto che durante il viaggio avreste fatto sosta nella nostra locanda, dove ora mangerete, berrete, dormirete e ascolterete la padrona, nota ovunque come un’emerita chiacchierona... IL PADRONE. Come se non bastasse il mio servitore. 
L’OSTESSA. Che cosa prendete, signori? 
IL PADRONE (guardando compiaciuto l’Ostessa). Ecco una domanda degna di riflessione. 
L’OSTESSA. Non dovete riflettere, poiché è scritto che prenderete anatra con patate e una bottiglia di vino... 

Esce. 

JACQUES. Signore, non volevate dirmi qualcosa a proposito di un poeta? IL PADRONE (ancora affascinato dall’Ostessa). Un poeta? 
JACQUES. Quel giovane poeta che si presentò al nostro comune padrone. 
IL PADRONE. Ah, sì! Un giorno si presentò al nostro padrone, colui che ci ha creati, un giovane poeta. I poeti venivano molto spesso a importunarlo. Di giovani poeti ce n’è sempre a bizzeffe. Ogni anno ne spuntano più o meno quattrocentomila. E parliamo solo della Francia. Figuriamoci nei paesi meno evoluti! 
JACQUES. E che cosa ne fanno? Li ammazzano? 
IL PADRONE. Così si usava una volta. A Sparta, nei tempi antichi. Là i poeti li gettavano a mare da una rupe appena nati. Invece nel nostro secolo illuminato si consente a chiunque di vivere fino alla fine dei suoi giorni. 
L’OSTESSA (porta una bottiglia di vino e riempie i bicchieri). Vi piace? 
IL PADRONE (assaggiando il vino). È ottimo! Lasciateci la bottiglia. (L’Ostessa esce). Dunque, una volta si presentò dal nostro padrone un giovane poeta e tirò fuori di tasca un foglio. «Guarda, guarda, che sorpresa», disse il nostro padrone «sono versi!». «Sì, maestro, sono versi, sono i miei versi» disse il poeta. «Vi prego di dirmi la verità, nient’altro che la verità». «E non avete paura della verità?» disse il nostro padrone. «No» rispose il giovane poeta con voce tremante. E il nostro padrone gli disse: «Mio caro amico, non solo questi versi valgono meno di niente, ma non ne scriverete mai di migliori». «Che tristezza», disse il giovane poeta «vuol dire che scriverò brutti versi per tutta la vita». E il nostro padrone disse: «Vi avverto, giovane poeta! Né gli dèi, né gli uomini e nemmeno i paracarri hanno mai perdonato a un poeta la mediocrità!». E il poeta rispose: «Lo so, maestro, ma non posso farci niente. Seguo un impulso». 
JACQUES. Che cosa seguiva? 
IL PADRONE. Un impulso. «Un impulso irresistibile che mi spinge a scrivere dei brutti versi». «Vi avverto!» lo ammonì ancora una volta il nostro padrone, e allora il giovane poeta gli rispose: «Lo so, maestro, che voi siete il grande Diderot e io sono un cattivo poeta, ma noi cattivi poeti siamo più numerosi, e saremo sempre in maggioranza! L’umanità intera è composta di cattivi poeti! E anche il pubblico, per lo spirito, per il gusto, per i sentimenti, non è altro che un branco di cattivi poeti! Come potete pensare che dei cattivi poeti possano nuocere ad altri cattivi poeti? L’ideale dei cattivi poeti, ossia dell’umanità, è senza alcun dubbio la cattiva poesia! Che ne direste se diventassi un grande e onorato poeta proprio grazie ai miei pessimi versi?». 
JACQUES. Questo ha detto il giovane poeta al nostro padrone? 
IL PADRONE. Esattamente questo. 
JACQUES. C’è un fondo di verità nelle sue parole. 
IL PADRONE. Indubbiamente. E mi fanno venire in mente un pensiero blasfemo. JACQUES. Io so qual è. 
IL PADRONE. Lo sai? 
JACQUES. Sì. 
IL PADRONE. Allora dillo. 
JACQUES. No, non lo dico. L’avete pensato prima voi, non io. 
IL PADRONE. L’hai pensato anche tu, non mentire. 
JACQUES. Sì, anch’io, ma dopo di voi. 
IL PADRONE. E allora, che cosa avrei pensato? Forza! Dillo! 
JACQUES. Avete pensato che forse il nostro comune padrone era anche lui un cattivo poeta. 
IL PADRONE. E chi può dimostrare che non lo fosse? 
JACQUES. Credete che saremmo stati migliori se ci avesse inventato qualcun altro? 
IL PADRONE (con aria pensierosa). Dipende. Se ci avesse inventato un autore davvero grande, un genio, allora sì, certamente. 
JACQUES (dopo una pausa, con tristezza). Sapete che è triste? 
IL PADRONE. Che cosa è triste? 
JACQUES. Che abbiate una così cattiva opinione del nostro creatore. 
IL PADRONE (guardando Jacques). Io giudico il creatore dalla sua opera. 
JACQUES. Dovremmo amare il nostro padrone, colui che ci ha inventati. Se lo amassimo, la nostra vita sarebbe migliore. Saremmo più tranquilli e più sicuri di noi. E voi invece vorreste un autore migliore. Francamente, padrone, voi bestemmiate... 
L’OSTESSA (arriva portando un vassoio carico di vivande). Ecco la vostra anatra, signori... Quando avrete finito, vi racconterò la storia di Madame de La Pommeraye. 
JACQUES (protestando). Quando avremo finito, sarò io a raccontare come mi sono innamorato! 
L’OSTESSA. Deciderà il vostro padrone chi deve cominciare per primo. 
IL PADRONE. No, non io! È stato deciso lassù. 
L’OSTESSA. Lassù è stato deciso che sarò io a cominciare. 

SIPARIO 

Atto secondo 
Scena prima 



La scena è la stessa: è completamente vuota, a eccezione di un tavolo, sul proscenio, davanti al quale Jacques e il Padrone stanno finendo di mangiare. 

JACQUES. Tutto è iniziato quando ho perso la verginità. Poi mi sono preso una sbronza terribile, mio padre me le ha suonate, passava di là un reggimento... L’OSTESSA (entrando). Vi è piaciuto? 
IL PADRONE. Era ottimo! 
JACQUES. Squisito. 
L’OSTESSA. Un’altra bottiglia di vino? 
IL PADRONE. Perché no? 
L’OSTESSA (gridando verso le quinte). Un’altra bottiglia!... (A tutti e due). Ho promesso a lor signori che dopo questa buona cenetta avrei raccontato la storia di Madame de La Pommeraye... 
JACQUES. Signora! In nome di Dio! Sto raccontando come mi sono innamorato! 
L’OSTESSA. Gli uomini si innamorano con facilità, e poi con altrettanta facilità ti abbandonano. È risaputo. Perciò ora vi racconterò una storia che vi farà vedere a quali castighi vadano incontro certi tipi. 
JACQUES. Siete una terribile chiacchierona, signora. Avete in bocca ventimila tonnellate di parole e aspettate solo di rovesciarle addosso a qualcuno. 
L’OSTESSA. Avete un servo maleducato, signore. Chissà perché crede di essere spiritoso e si permette di interrompere una signora. 
IL PADRONE (con tono di rimprovero). Jacques, per favore... 
L’OSTESSA. Dunque, c’era un marchese che si chiamava des Arcis, ed era proprio un bel tipo. Un incredibile donnaiolo, signori, e in generale una persona assai piacevole. Ma non stimava le donne. 
JACQUES. A buon diritto. 
L’OSTESSA. Voi mi interrompete, signor Jacques! 
JACQUES. Signora ostessa del Grande Cervo, non sto parlando con voi! 
L’OSTESSA. E questo marchese des Arcis aveva messo gli occhi sulla marchesa de La Pommeraye. Lei era una vedova morigerata, ricca e orgogliosa. Il marchese dovette impiegare parecchio tempo ed energie prima che la marchesa finisse per cedere e accordargli i suoi favori. Tuttavia, dopo qualche anno, il marchese cominciò ad annoiarsi. Sapete cosa intendo, signori. All’inizio le propose di fare più vita mondana. Poi di ricevere più gente. Poi, quando lei aveva ospiti, lui non si faceva nemmeno vedere. Aveva sempre qualche impegno urgente. E quando ci andava, parlava appena, si sdraiava su un divano, prendeva un libro, lo gettava via, giocava col cane e si addormentava in presenza della marchesa. Ciò nonostante, Madame de La Pommeraye lo amava ancora e soffriva atrocemente! Ma dato che era una donna orgogliosa, un giorno si infuriò e decise che era ora di finirla! 


Scena seconda 

Durante l’ultima battuta dell’Ostessa il Marchese compare sul fondo della scena e sale sulla pedana; Porta con sé una sedia, la posa e vi si accascia con aria pigra e annoiata. 

L’OSTESSA (rivolgendosi al Marchese). Amico mio... 
VOCE (fuori scena). Padrona! 
L’OSTESSA (verso le quinte). Che cosa c’è? 
VOCE (fuori scena). La chiave della madia! 
L’OSTESSA. È appesa al chiodo!... (Al Marchese). Amico mio, avete l’aria assorta... 

L’Ostessa sale sulla pedana e si avvicina al Marchese. 

IL MARCHESE. Anche voi sembrate assorta, marchesa... 
L’OSTESSA. Non sbagliate. Sono assorta in tristi pensieri. 
IL MARCHESE. Che cosa avete, marchesa? 
L’OSTESSA. Nulla. 
IL MARCHESE (sbadigliando). Non è vero. Coraggio, ditemelo. Almeno servirà a scacciare la nostra noia. 
L’OSTESSA. Voi vi annoiate? 
IL MARCHESE. Ma no!... Però ci sono dei giorni... 
L’OSTESSA. In cui insieme ci annoiamo... 
IL MARCHESE. No, no! Vi sbagliate, mia cara... Però ci sono dei giorni in cui... Dio sa perché... 
L’OSTESSA. Mio caro, è da molto tempo che volevo dirvi una cosa. Ma temo di rattristarvi. 
IL MARCHESE. E in che modo voi potreste rattristarmi? 
L’OSTESSA. Dio sa che non ne ho colpa. 
VOCE (fuori scena). Padrona! 
L’OSTESSA (verso le quinte). Vi ho detto che non dovete chiamarmi di continuo! Rivolgetevi al padrone! 
VOCE. Non c’è! 
L’OSTESSA. Insomma, che cosa volete? 
VOCE. È arrivato il venditore di paglia. 
L’OSTESSA. Pagalo e mandalo via... (Al Marchese). Sì, marchese, non ne ho colpa e sono io la prima a soffrirne. Passo la notte a pensare: che il marchese non sia più degno del mio amore? Posso forse rimproverargli qualcosa? Mi è infedele? No. E allora, perché il mio cuore è cambiato, mentre il suo è rimasto lo stesso? Non provo più quell’inquietudine quando tarda a venire, né quella dolce emozione quando arriva... 
IL MARCHESE (corri gioia). Sul serio?! 
L’OSTESSA (coprendosi gli occhi con le mani). Ah, marchese, risparmiatemi i rimproveri. Anzi, no, non risparmiatemeli. Li merito... Ma dovevo nascondervi tutto questo? Sono io che sono cambiata, non voi. Per questo vi stimo più che mai. Ma non posso mentire a me stessa. L’amore che provavo è svanito. È una scoperta terribile, ma è la verità. 
IL MARCHESE (si getta ai suoi piedi, felice). Siete incantevole, siete la donna più incantevole del mondo! Mi avete dato una gioia immensa! La vostra sincerità mi riempie di vergogna. Quanto siete superiore a me! Quanto sono piccolo di fronte a voi! La storia del vostro cuore, infatti, è identica alla storia del mio cuore. Ma io, io non ho avuto il coraggio di confessarvelo. 
L’OSTESSA. È la verità? 
IL MARCHESE. La pura verità. E possiamo soltanto rallegrarci che quel fugace e ingannevole sentimento che ci univa ci abbia abbandonati nello stesso istante. 
L’OSTESSA. È vero. Che disgrazia sarebbe se il mio amore fosse ancora vivo e il vostro fosse ormai morto. 
IL MARCHESE. Mai mi siete sembrata bella come in questo momento. Se l’esperienza non mi avesse reso prudente, direi che vi amo come non vi ho mai amato prima. 
L’OSTESSA. Ma che cosa faremo, marchese? 
IL MARCHESE. Noi non ci siamo mai ingannati, né mai ci siamo detti bugie. Voi avete diritto a tutto il mio rispetto e forse io non ho ancora perso il vostro. Possiamo rimanere ottimi amici. Io sarò per voi un tenero amico a cui confidare le vostre conquiste, e voi sarete lo stesso per me. Io consiglierò voi e voi consiglierete me. Ci aiuteremo l’un l’altro nei nostri intrighi amorosi. E chissà che alla fine non possa accadere... 
JACQUES. Questo nessuno lo sa. 
IL MARCHESE. Può darsi che... 
VOCE (fuori scena). Moglie! 
L’OSTESSA (stizzita, verso le quinte). Che cosa c’è? 
VOCE (fuori scena). Niente. 
L’OSTESSA (a Jacques e al Padrone). Signori, io divento pazza! Quando finalmente c’è un po’ di calma, in questa bettola, e i clienti russano, ecco che mi chiama lui. E mi ha fatto perdere il filo. Quel vecchio balordo... (Scende dalla pedana). Sono proprio da compatire, signori miei... 


Scena terza 

IL PADRONE. Vi compatisco volentieri, signora ostessa (le dà una pacca sul sedere), ma al tempo stesso devo complimentarmi con voi, perché siete un’ottima narratrice. Mi è passata per la testa un’idea singolare. Che cosa succederebbe se aveste per marito, invece di quello che avete appena definito un balordo, il mio Jacques? Ovvero: che cosa farebbe un marito che non smette mai di parlare con una moglie che non sta zitta un momento? 
JACQUES. Farebbe esattamente quel che facevano con me mio nonno e mia nonna quando vivevo con loro. Erano persone molto serie. Si alzavano, si vestivano, andavano a lavorare, pranzavano, poi tornavano a lavorare; di sera la nonna cuciva e il nonno leggeva la Bibbia e durante tutto il giorno nessuno pronunciava una parola. 
IL PADRONE. E tu che cosa facevi? 
JACQUES. Correvo per la stanza con un bavaglio sulla bocca! 
L’OSTESSA. Un bavaglio? 
JACQUES. Il nonno amava il silenzio. E così ho trascorso i primi dodici anni della mia vita con un bavaglio... 
L’OSTESSA (verso le quinte). Jean! 
VOCE (fuori scena). Che cosa c’è? 
L’OSTESSA. Due bottiglie! Non di quelle che diamo ai clienti! Quelle che stanno in fondo, dietro alle fascine! 
VOCE. Ho capito! 
L’OSTESSA. Signor Jacques, ho cambiato idea. Ora mi fate tenerezza. Vi ho immaginato con il bavaglio sulla bocca e una voglia terribile di parlare, e in quel momento ho provato per voi un amore sconfinato. Sapete che vi dico? Facciamo la pace. (Si abbracciano. Entra in scena Jean e mette sul tavolo due bottiglie. Le stappa e riempie tre bicchieri). Signori, in vita vostra non berrete mai un vino migliore di questo! 
JACQUES. Signora ostessa, dovevate essere una gran bella donna! 
IL PADRONE. Screanzato, la signora ostessa è una gran bella donna! 
L’OSTESSA. Non sono più quella di una volta. Avreste dovuto vedermi! Ma lasciamo stare. Torniamo a Madame de La Pommeraye... 
JACQUES (alza il bicchiere). Ma prima beviamo alla salute di tutte le teste che avete fatto girare! 
L’OSTESSA. Volentieri. (Brindano e bevono). Ma torniamo a Madame de La Pommeraye... 
JACQUES. Prima però beviamo alla salute del signor marchese, perché ho paura per lui. 
L’OSTESSA. E ne avete ben donde. 

Brindano e bevono. 


Scena quarta 

Durante le ultime battute della scena precedente la Madre e la Figlia sono entrate dal fondo, salendo sulla pedana. 

L’OSTESSA. Riuscite a immaginare la sua rabbia? Dichiara al marchese che non lo ama più e il marchese fa salti di gioia! Eh, signori miei, era una donna orgogliosa! (Si gira verso la Madre e la Figlia). Così andò a cercare queste due donne, che aveva conosciuto tempo addietro. La Madre e la Figlia. Erano venute a Parigi per via di una causa, l’avevano persa ed erano cadute in miseria, sicché la Madre si era ridotta a gestire una piccola bisca. 
LA MADRE (dalla pedana). Bisogna fare di necessità virtù! Ho tentato in ogni modo di far entrare mia figlia all’Opéra. Ma che cosa ci posso fare se quest’oca non ha un filo di voce! 
L’OSTESSA. La bisca era frequentata da signori, che giocavano, cenavano, e c’era sempre qualcuno che si fermava a passare la notte con la Figlia o con la Madre. Insomma facevano le... 
JACQUES. Proprio così. Ma beviamo ugualmente alla loro salute, poiché non sono niente male. 

Jacques alza il bicchiere e tutti e tre brindano e bevono. 

LA MADRE (rivolgendosi all’Ostessa). Sarò sincera, signora marchesa: facciamo un mestiere delicato e molto pericoloso. 
L’OSTESSA (sale sulla pedana e si avvicina a loro). Non è che con questa vostra professione... avete raggiunto una notorietà eccessiva? 
LA MADRE. Credo di no, per fortuna. La nostra... bisca... si trova in rue de Hambourg, piuttosto fuori città... 
L’OSTESSA. Suppongo che non teniate molto al vostro mestiere, e che accettereste con gioia, qualora decidessi di offrirvi una sorte migliore. 
LA MADRE (con gratitudine). Ah, signora marchesa! 
L’OSTESSA. Però dovrete obbedirmi alla lettera. 
LA MADRE. Potete contarci. 
L’OSTESSA. Tornate a casa. Vendete tutti i mobili e tutti i vestiti che siano anche lontanamente appariscenti. 
JACQUES (alza il bicchiere). Bevo alla salute della signorina. Ha un’aria malinconica, certo perché è costretta a cambiare padrone ogni notte! 

Jacques brinda con il Padrone e bevono. 

L’OSTESSA (dalla pedana, a Jacques). Non scherzate. Se sapeste che disgusto, certe volte. (Alle due donne). Vi affitterò un piccolo appartamento. Come mobilio avrete solo lo stretto necessario. Ne uscirete unicamente per andare in chiesa e tornare indietro. Simulerete il massimo distacco dal mondo. Camminerete a occhi bassi e non andrete mai in giro l’una senza l’altra. 
Parlerete sempre e soltanto di Dio. Io, naturalmente, non verrò a farvi visita. Non sono degna di frequentare delle donne così pie... E ora andate! 

Le due donne escono. 

IL PADRONE. Quella donna mi fa paura. 
L’OSTESSA (dalla pedana al Padrone). E ancora non la conoscete! 


Scena quinta 

Il Marchese entra dalla parte opposta a quella da cui sono uscite le due donne e tocca delicatamente il braccio dell’Ostessa. Lei gli rivolge uno sguardo sorpreso. 

L’OSTESSA. Oh, marchese! Sono lieta di vedervi! Come vanno le vostre avventure? Le vostre giovinette? 

Il Marchese la prende sottobraccio e insieme passeggiano lentamente sulla pedana; lui si china verso di lei e le risponde sottovoce. 

IL PADRONE. Guarda, Jacques! Le racconta sul serio le sue tresche! Quel maiale scriteriato! 
L’OSTESSA. Vi ammiro. (Il Marchese le sussurra di nuovo qualcosa). Avete sempre un gran successo con le donne! 
IL MARCHESE. E voi non avete nulla da confidarmi? (L’Ostessa scuote la testa). E che mi dite di quel conte, quell’omuncolo, quel nanerottolo, che era tanto assiduo... 
L’OSTESSA. Non lo vedo più. 
IL MARCHESE. Senti, senti! E perché mai avete respinto quel nano? L’OSTESSA. Non mi piaceva. 
IL MARCHESE. Com’è possibile che non vi piacesse? Il più adorabile di tutti i nani! Ditelo, che mi amate ancora! 
L’OSTESSA. Può darsi... 
IL MARCHESE. Voi contate sul mio ritorno e volete riservarvi tutti i vantaggi di una condotta irreprensibile? L’OSTESSA. Questo vi fa paura? 
IL MARCHESE. Siete una donna pericolosa! 

Il Marchese e l’Ostessa vanno su e giù per la pedana come se stessero passeggiando; in quel mentre avanza verso di loro un’altra coppia, la Madre e la Figlia. 

L’OSTESSA (con aria sorpresa). Ah, buon Dio, è possibile? (Lascia il Marchese e si avvicina alle due donne). Siete proprio voi, signora? 
LA MADRE. Sì, sono io... 
L’OSTESSA. E come state? Che cosa avete fatto in tutto questo tempo? 
LA MADRE. Conoscete le nostre disgrazie. Conduciamo una vita modesta e ritirata. 
L’OSTESSA. Rinunciare alla vita mondana è lodevole, ma evitare anche me... 
LA FIGLIA. Carissima signora, quante volte vi ho ricordata a mia madre, ma lei diceva sempre: «Figuriamoci, Madame de La Pommeraye ci avrà sicuramente dimenticate». 
L’OSTESSA. Che ingiustizia! Sono felice di vedervi. Questo è un mio amico. Il marchese des Arcis. La sua presenza non deve turbarvi. Com’è cresciuta la signorina! 

Continuano a passeggiare tutti insieme. 

IL PADRONE. Senti, Jacques, l’ostessa mi piace. Scommetto che non è nata in questa locanda. Credo che abbia tutt’altre origini. Di queste cose io me ne intendo. 
L’OSTESSA. Davvero, la signorina è diventata proprio bella! 
IL PADRONE. Credi a me, quella donna ha sangue nobile. 
IL MARCHESE (alle due donne). Ma restate ancora un po’! Non andate via! LA MADRE (timidamente). No, no, dobbiamo andare al Vespro... 

Fanno un inchino e si allontanano. 

IL MARCHESE. Mio Dio, marchesa, chi sono quelle donne? 
L’OSTESSA. Le creature più felici che io conosca. Avete notato la loro calma? La loro serenità? Ho l’impressione che vi sia una grande saggezza nel vivere appartati. 
IL MARCHESE. Marchesa, avrei dei rimorsi se la nostra rottura dovesse portarvi a conclusioni tanto tristi. 
L’OSTESSA. Preferireste che tornassi a ricevere il contino? 
IL MARCHESE. Il nano? Certo che lo preferirei. 
L’OSTESSA. Me lo consigliate? 
IL MARCHESE. Senza esitazioni. 
L’OSTESSA (scende dalla pedana e si avvicina al Padrone e a Jacques). Ma sentitelo! (Prende dal tavolo il suo bicchiere e beve. Si siede sul bordo della pedana e il Marchese le si siede accanto). Dinanzi a lei improvvisamente mi sento vecchia. Quando l’ho vista per la prima volta era un soldo di cacio. 
IL MARCHESE. Parlate della figlia di quella signora? 
L’OSTESSA. Sì. Oggi mi sentivo come una rosa appassita accanto a un bocciolo. L’avete notata? 
IL MARCHESE. Naturalmente. 
L’OSTESSA. Che ne dite? 
IL MARCHESE. È come una vergine di Raffaello. 
L’OSTESSA. Che occhi! 
IL MARCHESE. Che voce! 
L’OSTESSA. Che pelle! 
IL MARCHESE. Che portamento! 
L’OSTESSA. Che sorriso! 
JACQUES. Accidenti, marchese, se continuate così non ve la caverete! 
L’OSTESSA (a Jacques). È ovvio che non se la caverà! (Si alza, solleva il bicchiere e beve). 
IL MARCHESE. Che personale! 

Dopo queste parole, pronunciate con un sospiro, si alza ed esce descrivendo un semicerchio sulla pedana. 

L’OSTESSA (a Jacques e al Padrone). Ha abboccato. 
JACQUES. Signora ostessa, quella marchesa è un mostro. 
L’OSTESSA. E il marchese, allora? Non doveva smettere di amarla. 
JACQUES. Signora ostessa, voi forse non conoscete la bella favola del Coltellino e della Guaina. 
IL PADRONE. Questa non me l’hai mai raccontata! 


Scena sesta 

IL MARCHESE (rientra in scena, si avvicina all’Ostessa descrivendo un semicerchio e le parla con voce supplichevole). Marchesa, avete visto le vostre amiche? 
L’OSTESSA (a Jacques e al Padrone). Vedete come c’è cascato? 
IL MARCHESE. Non è bello da parte vostra... Sono così povere, e voi non le invitate mai nemmeno alla vostra tavola... 
L’OSTESSA. Le ho invitate, ma invano. Non c’è da stupirsi. Se si venisse a sapere che mi frequentano, la gente direbbe che Madame de La Pommeraye le protegge, e così non riceverebbero più elemosine. 
IL MARCHESE. Come! Vivono di elemosine? 
L’OSTESSA. Di quelle della loro parrocchia. 
IL MARCHESE. Ma sono vostre amiche, e voi permettete che vivano di elemosine? 
L’OSTESSA. Ah, marchese, noi gente di mondo non siamo in grado di capire la sensibilità delle anime pie. Non accetterebbero aiuto da chiunque, ma soltanto da una mano pura e senza macchia. 
IL MARCHESE. Sapete che ho avuto la tentazione di andare a trovarle? 
L’OSTESSA. Sarebbe la loro rovina. Quella ragazza è così bella... non immaginate che orribili pettegolezzi ne nascerebbero? 
IL MARCHESE (sospira). Che cosa crudele... 
L’OSTESSA (con tono maligno). Sì, davvero crudele... 
IL MARCHESE. Voi mi prendete in giro! 
L’OSTESSA. Cerco invece di risparmiarvi un dolore! Perché voi, marchese, vi state preparando a soffrire! Non confondete quella fanciulla con le donne che conoscete! Non si lascerà sedurre! Non raggiungerete il vostro scopo! 

Il Marchese si allontana con aria abbattuta verso il fondo della scena descrivendo un semicerchio. 

JACQUES. È cattiva questa marchesa. 
L’OSTESSA. Non difendete gli uomini, signor Jacques. Avete forse dimenticato quanto era innamorata Madame de La Pommeraye? Ed è ancora pazza del marchese! Ogni sua parola è per lei un colpo al cuore! Ma non vedete che ciò che si prepara è l’inferno per entrambi? (Il Marchese, sempre descrivendo un semicerchio, si riavvicina all’Ostessa. L’Ostessa alza gli occhi su di lui). Dio mio, marchese, che brutto aspetto avete! 
IL MARCHESE (andando su e giù per il palcoscenico). È diventata un’ossessione. Non resisto più. Non riesco a dormire. Non riesco a mangiare. Per due settimane ho bevuto come una spugna, poi per altre due settimane sono stato devoto come un monaco, per poterla vedere in chiesa... Vi prego, marchesa, fatemela rivedere... (L’Ostessa sospira). Amica mia! 
L’OSTESSA. Vi aiuterei volentieri, marchese, ma è difficile. Potrebbero sospettarmi di essere vostra complice... 
IL MARCHESE. Vi Supplico! 
L’OSTESSA (imitandolo). Vi supplico!... Ma che m’importa, in fondo, se siete innamorato oppure no! Perché devo complicarmi la vita? Sbrogliatevela da solo! 
IL MARCHESE. In nome di Dio, marchesa! Se mi abbandonate sono perduto. Se non volete farlo per me, pensate a loro! Perché io ho proprio perso la ragione! Mi introdurrò in casa loro con la forza, e non potete immaginare quello che farò! L’OSTESSA. E sia... Ma lasciatemi il tempo per pensare... e organizzare tutto... 

Sul fondo della scena i domestici collocano un tavolo e delle sedie. Il Marchese esce. 


Scena settima 

L’OSTESSA (verso il fondo della scena, da dove giungono la Madre e la Figlia). Venite avanti, venite. Accomodatevi a tavola e iniziamo a mangiare. (Prendono posto a tavola, sul fondo della scena. Così ora ci sono due tavoli, uno in basso, sul proscenio, davanti al quale sono seduti Jacques e il suo Padrone, l’altro sulla pedana). Quando arriverà il marchese ci fingeremo estremamente sorprese. Non dovete confondervi. 
JACQUES (gridando, all’Ostessa). Signora ostessa! La vostra marchesa è una iena! 
L’OSTESSA (seduta al tavolo in alto, verso Jacques seduto al tavolo in basso). E che mi dite del marchese, signor Jacques? È forse un angelo? 
JACQUES. E perché dovrebbe essere un angelo? Secondo voi l’uomo non ha altra scelta che essere una bestia o un angelo? Dovreste conoscere la favola del Coltellino e della Guaina, allora forse capireste qualcosa. 
IL MARCHESE (si avvicina alle signore sedute a tavola fingendosi sorpreso). Oh... Ho l’impressione di avervi disturbato! 
L’OSTESSA (anche lei sorpresa). In realtà... non vi aspettavamo, marchese... 
IL PADRONE. Che commedianti! 
L’OSTESSA. Ma visto che siete qui, sedetevi con noi... 

Il Marchese bacia la mano alle tre signore e si siede... 

JACQUES. Ora sarà una noia. Nel frattempo, padrone, vi racconterò la favola del Coltellino e della Guaina. 
IL MARCHESE (intervenendo nella discussione). Sono pienamente d’accordo con voi, care signore. Che cosa sono i piaceri della vita? Solo polvere e fumo. Sapete qual è l’uomo che in assoluto ammiro di più? 
JACQUES (al Padrone, che è attirato dalle parole del Marchese). Non dategli retta, padrone! 
IL MARCHESE. Non lo sapete, mie signore? È san Simeone Stilita. Il mio santo protettore. 
JACQUES. La favola del Coltellino e della Guaina è la morale di tutte le morali e il fondamento di tutte le scienze. 
IL MARCHESE. Provate a immaginare, mie signore! San Simeone visse per quarant’anni in cima a una colonna alta quaranta metri, pregando Dio perché gli desse la forza di resistere quarant’anni in cima a una colonna alta quaranta metri a pregare Dio... 
JACQUES. Non dategli retta, signore! 
IL MARCHESE. ... perché gli desse la forza di resistere quarant’anni in cima a una colonna alta quaranta metri... 
JACQUES. Date retta a me! (Il Padrone si gira finalmente verso Jacques). Un giorno il Coltellino e la Guaina litigarono furiosamente. Il Coltellino disse: «Guaina, amor mio, siete proprio una bella sgualdrina; ogni giorno offrite asilo ad altri Coltellini». E la Guaina disse al Coltellino: «Coltellino, amor mio, siete un bel porco! Ogni giorno cambiate guaina!». 
IL MARCHESE. Provate a immaginare, mie signore. Vivere per quarant’anni in cima a una colonna alta quaranta metri. 
JACQUES. La lite si svolgeva a tavola. E colui che era seduto fra la Guaina e il Coltellino, disse: «Cara Guaina e caro Coltellino, fate bene a cambiare coltellini e guaine, ma avete commesso un errore fatale promettendovi l’un l’altro di non cambiarli mai. Diamine, Coltellino, ancora non sai che Dio ti ha creato perché ti infilassi in molte guaine?». 
LA FIGLIA. E quella colonna era davvero alta quaranta metri? 
JACQUES. «E tu, Guaina, non lo sai che sei stata creata per molti coltellini?». 

Il Padrone, che ha smesso di interessarsi al Marchese e ascolta Jacques, scoppia a ridere. 

IL MARCHESE (con amorosa tenerezza). Sì, bambina mia. Quaranta metri. 
LA FIGLIA. E san Simeone non aveva le vertigini? 
IL MARCHESE. No, non aveva le vertigini. E sapete perché, bambina mia? 
LA FIGLIA. No. 
IL MARCHESE. Perché dalla sua colonna non guardava mai verso il basso. Guardava incessantemente verso l’alto, verso Dio. E chi guarda in alto non avrà mai le vertigini. 
LE SIGNORE (con meraviglia). Sì! È vero! 
IL PADRONE. Jacques! 
JACQUES. Sì? 
IL MARCHESE (congedandosi dalle signore). È stato un grande onore... (Esce). 
IL PADRONE (divertito). La tua favola è immorale, Jacques, e io la rifiuto, la rinnego e dunque la considero nulla. 
JACQUES. Ma vi è piaciuta! 
IL PADRONE. Questo non c’entra. A chi non piacerebbe? Certo che mi è piaciuta. 

I domestici portano via dalla pedana il tavolo e le sedie. Jacques e il Padrone guardano di nuovo verso la pedana, dove il Marchese si sta riavvicinando all’Ostessa. 


Scena ottava 

L’OSTESSA. Allora, marchese, c’è forse in tutta la Francia un’altra donna disposta a fare per voi quello che faccio io? 
IL MARCHESE (inginocchiandosi davanti a lei). Siete la mia unica amica... 
L’OSTESSA. Cambiamo argomento. Come va il cuore? 
IL MARCHESE. Se non riuscirò ad avere quella ragazza, morirò. 
L’OSTESSA. Sarò felice di salvarvi la vita. 
IL MARCHESE. So che andrete in collera, ma devo dirvelo. Ho mandato loro una lettera. E un cofanetto di gioielli. Ma me l’hanno restituito. 
L’OSTESSA (con severità). L’amore vi corrompe, marchese. Che cosa vi hanno fatto quelle brave donne per volerle infangare così? Credete di poter comprare l’innocenza con un paio di gemme? 
IL MARCHESE (sempre in ginocchio). Perdonatemi. 
L’OSTESSA. Vi avevo avvertito. Ma con voi non c’è rimedio. 
IL MARCHESE. Mia cara. Voglio fare un ultimo tentativo. Donerò loro una delle mie case di città e un’altra in campagna. Cederò loro la metà dei miei averi. 
L’OSTESSA. Come credete... Ma l’onore non si compra. Conosco quelle donne. 

Si allontana dal Marchese, il quale resta inginocchiato; dall’altra parte della scena la Madre avanza incontro all’Ostessa e anche lei si inginocchia ai suoi piedi. 

LA MADRE. Signora marchesa, non ordinateci di rifiutare! Una tale ricchezza! Tutte quelle proprietà! Una simile fortuna! 
L’OSTESSA (alla Madre inginocchiata). E voi credete che io abbia intrapreso tutto questo per fare la vostra fortuna? Rifiutate immediatamente tutte le offerte del marchese! 
JACQUES. Che cosa vuole ancora questa donna? 
L’OSTESSA (a Jacques). Che cosa vuole? Certo non fare del bene a quelle due donne. Che cosa gliene importa a lei di loro, signor Jacques? (Alla Madre). O mi obbedite, o vi rispedisco difilato al vostro bordello! 

Volta le spalle alla Madre e si trova di nuovo di fronte al Marchese inginocchiato. 

IL MARCHESE. Ah, amica mia, avevate ragione. Hanno rifiutato. Sono un uomo finito. Che cosa devo fare?... Sapete che cosa ho deciso, marchesa? La sposerò. 
L’OSTESSA (fingendosi sorpresa). Amico mio, questa è una faccenda seria. Bisogna riflettere. 
IL MARCHESE. A che serve riflettere. Più infelice di così non potrò mai essere. 
L’OSTESSA. Adagio, marchese. È in gioco la vostra vita, non bisogna precipitare le cose... (Finge di ragionare ad alta voce). Certo, è vero: sono due donne oneste. Il loro cuore è puro come il cristallo... Forse avete ragione... La povertà non è un disonore... 
IL MARCHESE. Andate da loro, vi supplico. E rivelate le mie intenzioni. 
L’OSTESSA (si gira verso il Marchese e gli tende la mano; il Marchese si alza e si ritrovano faccia a faccia; la Marchesa sorride). Bene. Ve lo prometto. 
IL MARCHESE. Grazie. 
L’OSTESSA. Che cosa non farei per voi. 
IL MARCHESE (rianimandosi di colpo). Ma ditemi, mia unica vera amica, perché non vi sposate anche voi? 
L’OSTESSA. E con chi, marchese? 
IL MARCHESE. Con il contino. 
L’OSTESSA. Il nano? 
IL MARCHESE. È ricco, è brillante... 
L’OSTESSA. E chi mi garantisce che sia fedele? Voi? 
IL MARCHESE. Oh, della fedeltà di un marito si può fare a meno. 
L’OSTESSA. No, no, io ne sarei oltraggiata. E poi sono vendicativa. 
IL MARCHESE. Se siete vendicativa, vuol dire che ci vendicheremo! Non è una cattiva idea! Sapete che faremo? Affitteremo un palazzo tutti e quattro insieme e formeremo un quartetto felicissimo! 
L’OSTESSA. Non è una cattiva idea. 
IL MARCHESE. Se il vostro nano cl darà noia, lo metteremo in un vaso sul vostro comodino. 
L’OSTESSA. La vostra proposta mi piace moltissimo. Ma non mi sposerò. L’unico uomo che avrei potuto sposare... 
IL MARCHESE. Sono io? 
L’OSTESSA. Ora posso ammetterlo tranquillamente. 
IL MARCHESE. E perché non me lo avete detto prima? 
L’OSTESSA. Come vedete, ho fatto bene. Colei che avete scelto vi si confà mille volte più di me!... 

Dal fondo della scena, la Figlia, con l’abito bianco da sposa, avanza lenta e solenne. 

IL MARCHESE (la vede e le va incontro affascinato). Marchesa, vi sarò grato in eterno... 

Avanza lentamente incontro alla Figlia. Si abbracciano, rimanendo a lungo in questa posizione. 


Scena nona 

Il Marchese e la Figlia sono ancora abbracciati. L’Ostessa, senza smettere di guardarli, arretra fino all’estremità opposta della pedana. 

L’OSTESSA (gridando). Marchese! (Il Marchese non le bada e rimane abbracciato alla Figlia). Marchese! (Il Marchese si volta appena). Siete soddisfatto della vostra prima notte?! 
JACQUES. Dio mio! Eccome! 
L’OSTESSA. Ne sono lieta. E ora ascoltate. Avevate una donna onesta, e ve la siete lasciata scappare. Quella donna onesta sono io. (Jacques ride). Mi sono vendicata facendovene sposare una degna di voi. Ora andate subito in rue de Hambourg e scoprirete come si guadagnava da vivere vostra moglie! Vostra moglie e vostra suocera! (L’Ostessa scoppia in una risata satanica). 

La Figlia si getta ai piedi del Marchese. 

IL MARCHESE. Svergognata... svergognata... 
LA FIGLIA (ai piedi del Marchese). Signore, calpestatemi, schiacciatemi... 
IL MARCHESE. Andate via, svergognata... 
LA FIGLIA. Fate di me quel che volete... 
L’OSTESSA. Correte, marchese! Correte in rue de Hambourg! E fateci mettere una lapide commemorativa: «Qui la marchesa des Arcis fece la puttana»! 

L’Ostessa scoppia di nuovo in una risata satanica. 

LA FIGLIA (per terra, inginocchiata ai piedi del Marchese). Signore, abbiate pietà... 

Il Marchese respinge con il piede la Figlia, che tenta di trattenerlo aggrappandosi alle sue gambe, e si allontana. 

JACQUES. State attenta, ostessa! Non può essere questa la fine della storia! L’OSTESSA. E invece sì! Non vi azzardate ad aggiungere qualcosa! 

Jacques sale con un balzo sulla pedana e si mette dove prima stava il Marchese; la Figlia gli afferra le gambe.,. 

LA FIGLIA. Marchese, in nome di Dio, consentitemi almeno di sperare nel vostro perdono! 
JACQUES. Alzatevi. 
LA FIGLIA (a terra, stringendosi alle sue gambe). Fate di me ciò che volete. Subirò qualsiasi cosa. 
JACQUES (con tono sincero). Vi ho detto di alzarvi... (La Figlia non ne ha il coraggio). Tante ragazze oneste sono diventate donne disoneste. Perché per una volta non potrebbe accadere il contrario? (Con dolcezza). E poi sono convinto che il vizio vi abbia soltanto sfiorata. Che non vi abbia veramente guastata. Alzatevi. Non mi sentite? Vi ho perdonato. Anche quando più mi sono sentito oltraggiato, non ho mai smesso di vedere in voi la mia sposa. Siate onesta, siate fedele, siate felice e fate il possibile perché sia felice anch’io. Non voglio altro da voi. Alzatevi, moglie mia. Signora marchesa, alzatevi! Alzatevi, Madame des Arcis! 

La Figlia si alza, abbraccia Jacques e lo bacia appassionatamente. 

L’OSTESSA (grida dall’altra parte della pedana). È una puttana, marchese! 
JACQUES. Chiudete il becco, Madame de La Pommeraye! (Alla Figlia). Vi ho perdonata. E voglio che sappiate che non ho rimpianti. Quella signora là (indica l’Ostessa) non si è affatto vendicata di me, anzi, mi ha reso un immenso favore. Non siete forse più giovane di lei, più bella e cento volte più devota? Partiremo insieme per la campagna e là trascorreremo degli anni meravigliosi... (Attraversa con lei la pedana e poi si rivolge all’Ostessa). E a voi debbo dire, signora ostessa, che furono felicissimi. Perché non c’è nulla di sicuro a questo mondo e le cose cambiano senso appena soffia il vento. E il vento soffia sempre, e voi neanche lo sapete. Il vento soffia e la fortuna si tramuta in sfortuna e la vendetta in ricompensa e una ragazza leggera in moglie devota, una moglie con la quale nessuna può misurarsi. 


Scena decima 

Durante le ultime frasi di Jacques, l’Ostessa è scesa dalla pedana e si è seduta al tavolo accanto al Padrone; il Padrone le cinge la vita e beve con lei... 

IL PADRONE. Jacques, non mi piace come hai fatto finire questa storia! Quella ragazza non meritava affatto di diventare marchesa! Mi ricorda tremendamente Agathe! Sono due emerite imbroglione. 
JACQUES. Vi sbagliate, signore. 
IL PADRONE. Come sarebbe mi sbaglio? 
JACQUES. Sì, vi sbagliate di grosso! 
IL PADRONE. Un certo Jacques pretende di dire a me, il suo padrone, se sbaglio oppure no? 

Jacques lascia la Figlia, che subito dopo uscirà di scena, e salta giù dalla pedana. 

JACQUES. Io non sono un certo Jacques. Ricordatevi che mi avete addirittura definito vostro amico. 
IL PADRONE (prendendosi delle confidenze con l’Ostessa). Se avrò voglia di chiamarti amico, sarai un amico. E se avrò voglia di chiamarti un certo Jacques, sarai un certo Jacques. Perché lassù, tu sai dove, lassù, come diceva il tuo capitano, è scritto che sono il tuo padrone. E ti ordino di rimangiarti immediatamente questo finale, che non piace né a me né a Madame de La Pommeraye, alla quale mi inchino (dà un bacio all’Ostessa), perché è una nobile dama con un gran bel sedere... 
JACQUES. Voi pensate davvero, signore, che dopo aver raccontato una storia Jacques possa rimangiarsela? 
IL PADRONE. Se sarà il suo padrone a chiederlo, Jacques si rimangerà la sua storia! JACQUES. Neanche per sogno, padrone! 
IL PADRONE (continuando a prendersi delle confidenze con l’Ostessa). Se Jacques seguiterà a impuntarsi, il suo padrone lo manderà a dormire nella stalla con le capre! 
JACQUES. Non ci andrò. 
IL PADRONE (baciando l’Ostessa). Ci andrai. 
JACQUES. Non ci andrò. 
IL PADRONE (gridando). Ci andrai. 
L’OSTESSA. Signore, lo fareste un piacere alla signora che state baciando? 
IL PADRONE. Tutto quel che desidera. 
L’OSTESSA. Allora smettetela di arrabbiarvi con il vostro servitore. È vero che è molto insolente, ma ho l’impressione che sia proprio quello che fa per voi. Lassù sta scritto che non potete fare a meno l’uno dell’altro. 
IL PADRONE (a Jacques). Hai sentito, servo? Madame de La Pommeraye ha detto che non mi sbarazzerò mai di te. 
JACQUES. Ve ne sbarazzerete, signore, perché me ne vado a dormire nella stalla, con le capre. 
IL PADRONE (si alza). Tu non vai da nessuna parte! JACQUES. Ci vado! 
IL PADRONE. Non ci vai! 
JACQUES. Ci vado! (Si allontana lentamente). 
IL PADRONE. Jacques! (Jacques continua ad allontanarsi molto lentamente). Mio caro Jacques! (Jacques si allontana)... Mio caro, carissimo Jacques! (Il Padrone gli corre dietro e lo afferra per un braccio). Ma insomma, non hai sentito? Come farei senza di te? 
JACQUES. E va bene. Ma per evitare altre discussioni dovremmo accordarci su alcuni punti una volta per tutte. 
IL PADRONE. D’accordo! 
JACQUES. Dunque: visto e considerato che lassù è scritto che vi sono indispensabile ne approfitterò ogni qualvolta ne avrò l’occasione. 
IL PADRONE. Questo non è scritto lassù! 
JACQUES. Così è stato disposto nell’istante in cui il nostro padrone ci ha creati. Egli ha deciso che voi avreste avuto l’apparenza, e io la sostanza. Che sareste stato voi a dare gli ordini, ma sarei stato io a stabilire quali. Che voi avreste avuto il potere, ma io l’influenza. 
IL PADRONE. In tal caso voglio prendere senz’altro il tuo posto. 
JACQUES. Non otterreste nulla. Perdereste l’apparenza e non avreste comunque la sostanza. Perdereste il potere senza avere l’influenza. Restate ciò che siete, signore. Se sarete un padrone buono e ubbidiente, non vi troverete affatto male. 
L’OSTESSA. Amen. È notte fonda, e lassù è scritto che abbiamo bevuto molto e che adesso andremo a dormire... 

SIPARIO 

Atto terzo 
Scena prima 



La scena è completamente vuota. Il Padrone e Jacques sono sul proscenio. 

IL PADRONE. Ma insomma, dove sono i nostri cavalli? 
JACQUES. Smettetela con queste domande insulse, padrone. 
IL PADRONE. Che razza di assurdità! Come se un nobile francese potesse girare per la Francia a piedi! Chi mai si è permesso di riscriverci, Jacques? 
JACQUES. Un imbecille, signore. Ma ormai siamo riscritti, e non c’è più niente da fare. 
IL PADRONE. Vadano in malora tutti quelli che si permettono di riscrivere ciò che è stato scritto! Che siano infilzati su uno spiedo e arrostiti a fuoco lento! Che vengano castrati e siano loro mozzate le orecchie! Mi fanno male i piedi! 
JACQUES. Di solito, signore, chi riscrive non viene arrostito, e tutti gli credono. 
IL PADRONE. Tu pensi che crederanno a quello che ci ha riscritti? Che non andranno nemmeno a riguardare il testo per vedere chi siamo in realtà? 
JACQUES. Si riscrivono ben altre storie che la nostra, signore. Tutto ciò che è avvenuto al mondo è già stato riscritto cento volte, e a nessuno viene in mente di controllare come sono andate in realtà le cose. La storia degli uomini è già stata riscritta tante di quelle volte che essi non sanno più chi sono. 
IL PADRONE. Tu mi spaventi. Allora costoro (indicando il pubblico) crederanno che non abbiamo nemmeno dei cavalli e che per tutta la nostra storia dobbiamo andare a piedi come due pezzenti? 
JACQUES (indicando il pubblico). Quelli là? Quelli sono pronti a credere ben altre sciocchezze. 
IL PADRONE. Oggi mi sembri di cattivo umore. Avremmo dovuto fermarci più a lungo alla locanda del Grande Cervo. 
JACQUES. Io non avevo niente in contrario. 
IL PADRONE. Eppure... quella donna non è nata in una locanda. Te lo dico io. 
JACQUES. E dove? 
IL PADRONE. Non lo so. Ma non in una locanda. Perché... quel suo modo di esprimersi, quel portamento, quella finezza, no, non sono cose che si possano imparare... 
JACQUES. Ho l’impressione, signore, che vi siate innamorato. 
IL PADRONE (con un’alzata di spalle). Se era scritto lassù... (Dopo una pausa). Questo mi fa venire in mente che non hai ancora finito di raccontare come ti sei innamorato tu! 
JACQUES. È che non dovevate dare, ieri, la precedenza alla storia di Madame de La Pommeraye. 

IL PADRONE. Ieri ho dato la precedenza a una gran dama. Tu non capirai mai che cos’è la galanteria. Ma adesso che siamo soli ti do la precedenza assoluta. 
JACQUES. Vi ringrazio, signore. Dunque, ascoltate. Quando ho perso la verginità, mi sono ubriacato. Quando mi sono ubriacato, mio padre me le ha suonate. 
Quando mio padre me le ha suonate, mi sono arruolato... 
IL PADRONE. Ti stai ripetendo, Jacques! 
JACQUES. Ripetermi? Io? Signore, non conosco nulla di più vergognoso che ripetersi. Questo non dovevate dirlo. Vi giuro che non dirò più una sola parola sino alla fine dello spettacolo. 
IL PADRONE. Jacques, ti prego... 
JACQUES. Voi mi pregate? Sul serio mi pregate? 
IL PADRONE. Ma sì. 
JACQUES. E va bene. Dov’ero rimasto? 
IL PADRONE. Tuo padre te le ha suonate, tu ti sei arruolato e alla fine ti sei ritrovato in quella casupola dove si sono presi cura di te e dove c’era quella donna bellissima con il sedere grosso... (Si interrompe). Jacques... Senti, Jacques... Dimmi sinceramente... ma proprio sinceramente, capisci... Quella donna aveva davvero un sedere così grosso, o lo dici per farmi piacere? 
JACQUES. Perché queste domande inutili, signore? 
IL PADRONE (malinconico). Non aveva il sedere grosso, è evidente. 
JACQUES. Non chiedetemelo, signore. Lo sapete che non mi piace mentirvi. 
IL PADRONE (malinconico). Allora mi hai mentito, Jacques. 
JACQUES. Non me ne vogliate. 
IL PADRONE (con nostalgia). Non te ne voglio, mio caro Jacques. So che mi hai mentito per amore. 
JACQUES. Sì, padrone. Io so che vi piacciono le donne con il sedere grosso. 
IL PADRONE. Sei un brav’uomo. E un bravo servitore. I bravi servitori devono dire ai loro padroni ciò che essi vogliono sentirsi dire. E niente verità inutili, Jacques. 
JACQUES. State tranquillo, signore. A me non piacciono le verità inutili. Non c’è cosa più stupida di una verità inutile. 
IL PADRONE. Per esempio? 
JACQUES. Per esempio che dobbiamo morire. Oppure che questo mondo è corrotto. Come se non sapessimo certe cose. Li conoscete anche voi quegli uomini che entrano in scena proclamando con tono eroico: «Questo mondo è corrotto!». Il pubblico applaude, ma a Jacques non interessa, Jacques lo sapeva già da almeno duecento, quattrocento, ottocento anni, e perciò mentre loro gridano che il mondo è corrotto, lui preferisce star lì a inventare per il suo padrone... 
IL PADRONE. ... per quel depravato del suo padrone... 
JACQUES. ... a inventare per quel depravato del suo padrone delle donne con un sedere enorme, come piacciono al padrone... 
IL PADRONE. Soltanto io e colui che è al di sopra di noi sappiamo che sei il servitore migliore di tutti i servitori che abbiano mai servito... 
JACQUES. E allora non fate domande, non preoccupatevi della verità e credetemi: 
aveva il sedere grosso... Un momento, ma di quale sto parlando? 
. Di quella della casupola, quando si sono presi cura di te. 
JACQUES. Ah, sì. Sono rimasto a letto più o meno una settimana e nel frattempo i dottori si erano bevuti tutto il loro vino, sicché i miei benefattori volevano sbarazzarsi di me al più presto. Per fortuna uno dei medici che mi curavano era il cerusico del castello e sua moglie ha interceduto in mio favore e così mi hanno accolto in casa loro. 
IL PADRONE. Allora fra te e la bella donna della casupola non c’è stato proprio niente. 
JACQUES. No. 
IL PADRONE. Un vero peccato. Niente dunque. E la moglie del medico, quella che ha interceduto in tuo favore, com’era? 
JACQUES. Bionda. 
IL PADRONE. Come Agathe. 
JACQUES. Con le gambe lunghe... 
IL PADRONE. Come Agathe. E il sedere? 
JACQUES. Grosso così, padrone! 
IL PADRONE. Tale e quale Agathe! (Con indignazione). Ah, quella dannata sgualdrina! Io con lei mi sarei comportato ben più severamente del marchese des Arcis con la sua piccola imbrogliona! Ben diversamente dal giovane Bigre con Justine! 

Saint-Ouen da qualche istante è salito sulla pedana e ascolta con interesse il dialogo fra Jacques e il Padrone. 

SAINT-OUEN. E perché non avete fatto nulla? 
JACQUES. Lo sentite, come si fa beffe di voi? È un furfante, signore, e io ve lo avevo detto subito, la prima volta che mi avete parlato di lui... 
IL PADRONE. Ammetto che sia un furfante, ma per il momento non ha fatto nient’altro che quello che hai fatto tu al tuo amico Bigre. 
JACQUES. Eppure è evidente che lui è un furfante e io no. 
IL PADRONE (colpito dalle parole di Jacques). È vero. Entrambi avete sedotto le donne dei vostri migliori amici. Eppure lui è un furfante e tu no. Come mai? 
JACQUES. Non lo so. Ma mi sembra che in questo enigma si celi una profonda verità. 
IL PADRONE. Certamente! E io so quale! Ciò che vi distingue, infatti, non sono le vostre azioni, ma le vostre anime! Tu, quando hai fatto becco il tuo miglior amico, ti sei andato a ubriacare per il dispiacere... 
JACQUES. Non vorrei togliervi quest’illusione, ma io non mi sono ubriacato per il dispiacere, bensì per la gioia. 
IL PADRONE. Non ti sei ubriacato per il dispiacere? 
JACQUES. È vergognoso, signore, ma è così. 
IL PADRONE. Jacques, mi faresti un favore? 
JACQUES. Per voi farei qualsiasi cosa. 
IL PADRONE. Decidiamo che quella volta ti sei ubriacato per il dispiacere. 
JACQUES. Se lo desiderate, signore. 
. Lo desidero. 
JACQUES. E sia, padrone, mi sono ubriacato per il dispiacere. 
IL PADRONE. Ti ringrazio. Vorrei che tu ti distinguessi il più possibile da questa canaglia (mentre parla si volta verso Saint-Ouen, che è sempre sulla pedana), il quale per altro non si è affatto limitato a farmi becco... 

Il Padrone sale sulla pedana. 


Scena seconda 

SAINT-OUEN. Amico mio! Adesso penso unicamente alla vendetta! Quella sciagurata ci ha offesi entrambi, e noi ci vendicheremo insieme! 
JACQUES. Sì, ora ricordo, è qui che eravate rimasti. E voi, signore? Voi che cosa avete risposto a quel topo di fogna? 
IL PADRONE (si volta verso Jacques e assume un tono patetico e pietoso). Io? Guardami, Jacques, guardami e compiangimi! (A Saint-Ouen). Sentite, cavaliere, ho riflettuto. Se volete che io dimentichi il vostro tradimento, voi dovete accettare una condizione... 
JACQUES. Bene, signore! Tenete duro! 
SAINT-OUEN. Farò qualsiasi cosa. Devo buttarmi dalla finestra? (Il Padrone tace e sorride). Impiccarmi? (Il Padrone tace). Affogarmi? (Il Padrone tace). Piantarmi questo coltello in petto? Sì! Sì! (Si apre la camicia e si punta il coltello contro il torace). 
IL PADRONE. Lasciate quel coltello. (Glielo strappa di mano). Venite, prima di tutto andiamo a berci un bicchiere e poi vi svelerò a quale terribile condizione perdonerò ciò che avete fatto. (Il Padrone prende una bottiglia, rimasta lì dalle scene precedenti). Ditemi, com’è Agathe, è voluttuosa? 
SAINT-OUEN. Vorrei che voi lo sapeste quanto me, non c’è cosa che io desideri di più. 
JACQUES (a Saint-Ouen). Ha le gambe lunghe? 
SAINT-OUEN (a Jacques a mezza voce). Direi di no. JACQUES. E un bel sedere grosso? 
SAINT-OUEN (come prima). Piatto come una tavola. 
JACQUES (al Padrone). Vedo che siete un sognatore, padrone, e per questo vi amo ancora di più! 
IL PADRONE (a Saint-Ouen). Ecco la mia condizione. Mentre ci beviamo questa bottiglia tu mi parlerai di Agathe. Di com’è a letto. Che cosa dice. Che cosa fa. Come sospira. Tutto. Tu racconterai, intanto berremo, e io immaginerò... (SaintOuen tace e fissa il Padrone). E allora, sei d’accordo? Insomma, parla! (SaintOuen tace). Che cosa c’è? Mi hai sentito, sì o no? 
SAINT-OUEN. Sì. 
IL PADRONE. E ci stai? SAINT-OUEN. Sì. 
. Allora perché non bevi? 

SAINT-OUEN. Ti sto osservando. 
IL PADRONE. Lo vedo. 
SAINT-OUEN. Tu ed io abbiamo la stessa corporatura. Al buio potremmo essere scambiati uno per l’altro. 
IL PADRONE. Che hai in mente? E perché non cominci a raccontare? Non vedo l’ora di immaginare! Accidenti, cavaliere! Non ce la faccio più! Voglio che tu racconti! 
SAINT-OUEN. Voi mi chiedete, amico mio, di descrivervi una notte con Agathe? 
IL PADRONE. Tu non sai che cos’è la passione! Sì, questo ti chiedo! È forse pretendere troppo? 
SAINT-OUEN. Al contrario. È poco. Che cosa diresti se invece della descrizione di una notte ti offrissi una vera notte? 
IL PADRONE. Una vera notte? Una notte vera? 
SAINT-OUEN (cavando di tasca due chiavi). Quella piccola è del portone, quella grande è dell’anticamera di Agathe. Ecco come faccio, mio caro amico, da sei mesi a questa parte. Passeggio per la strada finché non appare alla sua finestra un vaso di basilico. Allora apro il portone, richiudo silenziosamente, in silenzio vado di sopra, in silenzio apro la porta di Agathe. Accanto alla sua stanza c’è uno spogliatoio, dove mi svesto. Agathe lascia la porta della sua stanza socchiusa e mi aspetta al buio, nel suo letto. 
IL PADRONE. E voi mi cedereste il vostro posto? 
SAINT-OUEN. Con immensa gioia. Ma avrei un piccolo desiderio. 
IL PADRONE. Ebbene, dite! 
SAINT-OUEN. Posso? 
IL PADRONE. Si capisce, non ho altro desiderio che quello di farvi piacere. 
SAINT-OUEN. Siete il miglior amico del mondo. 
IL PADRONE. Cerco di non esservi da meno. Dunque, che cosa dovrei fare? 
SAINT-OUEN. Vorrei che rimaneste con lei fino al mattino. A quel punto arriverei io, come se nulla fosse, e vi sorprenderei! 
IL PADRONE (con una risatina incerta). È un’idea magnifica. Ma non sarà crudele? 
SAINT-OUEN. Non sarà tanto crudele. Divertente, piuttosto. E poi io, nello spogliatoio, prima di entrare, mi toglierò i vestiti, sicché quando vi sorprenderò sarò... 
IL PADRONE. Nudo! Oh! Siete un bel vizioso! Ma come faremo? Abbiamo un solo mazzo di chiavi... 
SAINT-OUEN. Entreremo insieme. Ci spoglieremo insieme nello stanzino e voi andrete da lei. Quando ne avrete voglia, mi farete un segno... e io dovrò semplicemente unirmi a voi! IL PADRONE. Ma è splendido! È divino! 
SAINT-OUEN. Siete d’accordo? 
IL PADRONE. Naturalmente!... Ma... 
SAINT-OUEN. Ma? 
IL PADRONE. Ma vedete... no, no, non sono pienamente d’accordo... Capite, la prima volta, visto che è la prima volta, forse, dopo tutto, preferirei essere solo... in seguito, magari, potremmo... 
SAINT-OUEN. Intendete dunque far la nostra vendetta più di una volta. 
IL PADRONE. Poiché è una vendetta così dolce... 
SAINT-OUEN. Eccome se lo è. (Mostra al Padrone il fondo della scena, dove Agathe giace distesa. Il Padrone si dirige verso di lei come stregato e Agathe gli tende le braccia...). Attenzione, fa’ piano, tutti dormono! (Il Padrone si stende accanto ad Agathe. Lei lo abbraccia...). 
JACQUES. Vi faccio i miei complimenti, signore, ma ho paura per voi. 
SAINT-OUEN (dalla pedana, a Jacques). Amico mio, di regola un servo dovrebbe essere felice quando il suo padrone viene gabbato. 
JACQUES. Il mio padrone è una brava persona e mi obbedisce. Non mi piace quando altri padroni, che non sono brave persone, lo prendono per il naso. 
SAINT-OUEN. Il tuo padrone è uno stupido, e merita la sorte degli stupidi. 
JACQUES. Da un certo punto di vista, forse, il mio padrone è uno stupido. Ma nella sua stupidità io trovo un’amabile saggezza che cercherei invano nella vostra intelligenza. 
SAINT-OUEN. Un servo innamorato del padrone! Allora sta’ ben attento e guarda come va a finire per il tuo padrone quest’avventura! 
JACQUES. Per il momento è felice e io me ne rallegro! 
SAINT-OUEN. Aspetta e vedrai! 
JACQUES. Io dico che per il momento è felice, e tanto basta. Che altro possiamo desiderare se non essere felici per qualche istante? 
SAINT-OUEN. Lo pagherà caro questo istante di felicità! 
JACQUES. E se in questo momento fosse felice a tal punto che tutte le sciagure che gli avete preparato non avessero alla fin fine un grande peso? 
SAINT-OUEN. Chiudi il becco, servo! Se dovessi procurare a quello sciocco più piacere che tormento, mi pianterei davvero questo coltello in corpo. (Grida verso le quinte, fuori della scena). Ehilà! Sbrigatevi! È quasi giorno. 


Scena terza 

Si sentono rumori e grida. Un gruppo di persone si precipita verso il Padrone e Agathe, che giacciono abbracciati; tra queste, il padre e la madre di Agathe in camicia da notte e un Commissario di polizia. 

IL COMMISSARIO. Silenzio, signori e signore. Il delitto è flagrante. Questo signore è stato colto sul fatto dalla polizia. A quel che so, è un aristocratico e un galantuomo. Spero che vorrà riparare spontaneamente alla sua colpa, anziché esservi costretto dalla legge. 
JACQUES. Dio mio, padrone, vi hanno beccato. 
IL PADRE DI AGATHE (trattiene a forza la madre, che vuole picchiare la figlia). Lasciala, vedrai che tutto si sistemerà... 
LA MADRE DI AGATHE (al Padrone). Sembravate una persona tanto onesta, e invece... 
IL COMMISSARIO (al Padrone, che nel frattempo si è alzato). Venite, signore. 
IL PADRONE. Dove mi volete portare? 
IL COMMISSARIO (conducendo via il Padrone). In prigione. 
JACQUES (sbalordito). In prigione? 
IL PADRONE (a Jacques). Sì, mio caro Jacques, in prigione... 

Il Commissario si allontana, tutte le persone che affollavano la pedana escono di scena, il Padrone resta solo. Saint-Ouen si precipita verso di lui. 

SAINT-OUEN. Amico mio, amico mio, è terribile! Voi, in prigione! Ah, com’è potuto accadere! Sono andato a casa di Agathe, non hanno nemmeno voluto parlare con me, sanno che siamo amici, gridavano che sono la causa di tutti i loro guai. Agathe per poco non mi cavava gli occhi, dovete capirla... 
IL PADRONE. Dipende solo da voi tirarmi fuori da questa orribile situazione. 
SAINT-OUEN. E come? 
IL PADRONE. Basterebbe che voi confessaste come sono andate le cose. 
SAINT-OUEN. Sì, ho minacciato Agathe di farlo. Ma non posso. Immaginate in che cattiva luce ci metterebbe... E comunque è colpa vostra! 
IL PADRONE. Colpa mia? 
SAINT-OUEN. Sì, colpa vostra! Se solo aveste accettato la mia piccola porcheria, Agathe sarebbe stata sorpresa con due uomini e tutto si sarebbe concluso in una beffa. Ma voi siete stato troppo egoista, amico mio! Voi avete voluto spassarvela da solo! 
IL PADRONE. Cavaliere! 
SAINT-OUEN. È così, amico mio. Siete stato punito per il vostro egoismo. IL PADRONE (con tono di rimprovero). Amico mio! 

Saint-Ouen si volta ed esce precipitosamente di scena. 

JACQUES (al Padrone, gridando). In nome di Dio, quando la smetterete di chiamarlo amico! L’hanno capito tutti da un pezzo che quel tipo vi ha teso un tranello e poi è andato lui stesso a denunciarvi, soltanto voi continuate ad essere cieco! Ora tutti mi prenderanno in giro per la stupidità del mio padrone. 


Scena quarta 

IL PADRONE (si gira verso Jacques e durante il dialogo che segue scende dalla pedana). Magari fosse solo stupido, mio caro Jacques. Ma è soprattutto infelice, e questo è peggio. Alla fine sono uscito di prigione, però ho dovuto pagare un indennizzo per l’oltraggio arrecato... 
JACQUES (consolandolo). Poteva finire anche peggio, signore... Pensate se quella donna fosse stata incinta. 
IL PADRONE. Hai indovinato. 
JACQUES. Come? IL PADRONE. Sì. 

Il seguente dialogo è pervaso da una tristezza sincera e privo di teatralità. 

JACQUES. Era incinta? (Il Padrone annuisce, Jacques lo abbraccia). Oh, padrone, mio caro, carissimo padrone. Ora so qual è la conclusione più terribile che si possa immaginare per una storia. 
IL PADRONE. Non solo ho dovuto pagare per l’onore infangato di quella sgualdrinella, ma mi è toccato anche provvedere alle spese del parto e poi al mantenimento e all’educazione di un marmocchio che assomiglia in modo disgustoso al mio amico, il cavaliere di Saint-Ouen. 
JACQUES. Ora lo so. La conclusione più terribile che una storia possa avere è un marmocchio. Che triste fine per un’avventura. Che macchia sulla fine di un amore. Adesso quanti anni ha? 
IL PADRONE. Dieci. Finora l’ho tenuto in campagna. Voglio passare di là nel corso del viaggio, pagherò per l’ultima volta quella gente e manderò il moccioso a imparare un mestiere. 
JACQUES. Ricordate che all’inizio mi hanno domandato (indica il pubblico) dove andavamo, e io ho risposto: «C’è forse qualcuno che sappia dove va?». E voi invece sapevate perfettamente dove stavamo andando, mio caro e triste padrone. 
IL PADRONE. Lo manderò a fare l’orologiaio. Oppure il falegname. Il falegname. Passerà la vita a fare una quantità di sedie e avrà dei figli, e anche loro faranno altre sedie e altri figli, che a loro volta genereranno moltitudini di figli e di sedie... 
JACQUES. Il mondo pullulerà di sedie e questa sarà la vostra vendetta. 
IL PADRONE (in tono di amaro disgusto). Non crescerà più erba, i fiori non fioriranno, ovunque ci saranno soltanto bambini e sedie. 
JACQUES. Bambini e sedie, solo bambini e sedie, è una spaventosa immagine dell’avvenire. Per fortuna, signore, noi moriremo in tempo. 
IL PADRONE. Lo spero, Jacques, perché a volte sono angosciato all’idea di questa eterna ripetizione di figli, di sedie e di tutto... Sai, ci pensavo ieri, mentre ascoltavo la storia di Madame de La Pommeraye. È sempre la stessa identica storia. In fondo Madame de La Pommeraye non è che una replica del cavaliere di Saint-Ouen. E io sono soltanto un’altra versione del tuo povero Bigre e Bigre non è che una variante di quell’allocco del marchese. E Justine è uguale ad Agathe e Agathe è uguale a quella puttanella con la quale alla fine il marchese è stato costretto a sposarsi. 
JACQUES. Sì, padrone, è come una giostra che gira in tondo. Sapete, mio nonno, quello che mi metteva il bavaglio sulla bocca, leggeva tutte le sere la Bibbia, ma non ne era affatto contento, diceva che la Bibbia non fa che ripetersi, e lui sosteneva che chi si ripete prende per scemo quello che ascolta. E a questo proposito, signore, mi viene da pensare che chi ha scritto tutto questo lassù, si è anche lui ripetuto moltissimo, e se si è ripetuto significa che ci ha preso per scemi... (Dopo le ultime parole di Jacques il Padrone tace e Jacques cerca di confortarlo). Ma santo Dio, signore, non siate così triste, farò di tutto per distrarvi; sapete che c’è, caro padrone mio? Vi racconterò di come mi sono innamorato. 
IL PADRONE (malinconico). Racconta, mio buon Jacques. 
JACQUES. Quando ho perso la verginità, mi sono ubriacato. 
IL PADRONE. Sì, questo lo so già. 
JACQUES. Ah, perdonatemi. Passerò subito alla moglie del medico. 
IL PADRONE. È di quella che ti sei innamorato? 
JACQUES. No. 
IL PADRONE (si fa attento e si guarda attorno). Allora saltala e arriva velocemente al dunque. 
JACQUES. Perché tanta fretta, signore? 
IL PADRONE. Qualcosa mi dice che non ci rimane più molto tempo, Jacques. JACQUES. Signore, voi mi spaventate. 
IL PADRONE. Qualcosa mi dice che dovresti raccontare più in fretta. 
JACQUES. E va bene, signore. Ero a letto da una settimana in casa del medico quando un giorno finalmente sono potuto uscire per fare una passeggiata. (È tutto preso dal suo racconto, e si rivolge più al pubblico che al Padrone, il quale guarda il paesaggio con aria sempre più inquieta). Era una bella giornata, e io zoppicavo ancora parecchio... 
IL PADRONE. Jacques, ho l’impressione che questo sia il paese dove vive il mio bastardo. 
JACQUES. Ma signore, mi interrompete proprio sul più bello! Io zoppicavo ancora e il ginocchio mi faceva ancora male, però era una bella giornata, la rivedo come se fosse oggi. (Sul proscenio, proprio al limite del palcoscenico, compare il Cavaliere di Saint-Ouen. Non nota il Padrone, ma il Padrone lo vede e lo guarda fisso. Jacques è rivolto al pubblico ed è completamente immerso nel suo racconto). Era autunno, padrone, gli alberi erano di tanti colori e il cielo era azzurro, e io camminavo per un sentiero nel bosco e incontro a me veniva una ragazza e io vi sono molto grato di non interrompermi, era una bella giornata e la ragazza era bella, ora non mi interrompete, signore, veniva verso di me, lentamente, e io la guardavo e lei mi guardava e aveva un viso bello e triste, signore, aveva un viso così bello e così triste... 
SAINT-OUEN (finalmente scorge il Padrone e ha un sussulto). Siete voi, amico mio... 
IL PADRONE (sfodera la spada; Saint-Ouen fa altrettanto). Sì, sono io! Il tuo amico, il miglior amico che tu abbia mai avuto! (Si slancia su di lui, duellano). Che cosa fai qui? Sei venuto a trovare tuo figlio? Sei venuto a vedere se è bello grasso? Se gli do da mangiare a sufficienza? 
JACQUES (segue con ansia il duello fra i due). Attento, padrone! State in guardia! (Il duello non dura a lungo e il Cavaliere di Saint-Ouen cade trafitto. Jacques si china su di lui). Credo che per lui sia finita. Ah, signore, sarebbe stato meglio che questo non accadesse! 

Jacques è chino sul cadavere di Saint-Ouen e sulla scena accorre un gruppo di contadini. 

IL PADRONE. Presto, Jacques! Scappa! 

Il Padrone esce di scena correndo. 


Scena quinta 

Jacques non è riuscito a fuggire. Dei contadini lo hanno afferrato e ora gli legano le mani dietro la schiena. Jacques è in piedi sul proscenio, legato, e il Giudice lo squadra. 

IL GIUDICE. Allora, amico, che cosa hai da dire, visto che sarai arrestato, processato e infine impiccato? 
JACQUES (in piedi, con le mani legate dietro la schiena). Posso dire solo quello che diceva il mio capitano: che tutto ciò che accade quaggiù sulla terra è scritto lassù... 
IL GIUDICE. Una grande verità. 

Esce lentamente insieme a tutti i contadini, e Jacques resta solo in scena durante tutto il monologo che segue. 

JACQUES. Ma che valore abbia ciò che è scritto lassù, è tutt’altra faccenda. Ah, padrone mio, io sarò impiccato perché voi vi siete innamorato di quella sciocca di Agathe – vi pare sensato, questo? E non saprete mai come mi sono innamorato. Quella ragazza bella e triste lavorava al castello come domestica e anch’io in seguito entrai come domestico al castello, ecco, e voi non lo saprete mai, perché sarò impiccato, e si chiamava Denise e io l’amavo, dopo di lei non ho più amato nessuna, ma la nostra relazione è durata due settimane, ve lo immaginate, due settimane soltanto, due settimane, perché il mio padrone di allora, mio e di Denise, mi ha venduto al commendatore La Boulay, che poi mi ha ceduto a suo fratello maggiore, che poi mi ha dato a suo nipote, il procuratore generale di Tolosa, il quale dopo un certo tempo mi ha passato al conte di Trouville, e questi mi ha donato alla marchesa di Belloy, quella che è fuggita con quell’inglese, che poi ne è nato uno scandalo, ma prima ha fatto in tempo a raccomandarmi al capitano de Marty, sissignore, proprio quello che diceva che è tutto scritto lassù, che poi mi ha ceduto a Monsieur Hérissant, che mi ha fatto entrare a servizio da Mademoiselle Isselin, che voi, signore, mantenevate, ma che vi dava sui nervi perché era magra e isterica, e mentre lei vi dava sui nervi io vi divertivo con le mie chiacchiere, e voi vi siete affezionato a me e di certo mi avreste dato da vivere anche da vecchio, perché me lo avevate promesso, e io so che avreste mantenuto la parola, non ci saremmo mai separati, noi siamo stati creati l’uno per l’altro, Jacques per il padrone, il padrone per Jacques. E questa assurdità ci ha divisi! Maledizione, che cosa me ne importa se vi siete fatto abbindolare da quel furfante! Perché devo finire impiccato a causa del vostro buon cuore e del vostro cattivo gusto? Quante sciocchezze stanno scritte lassù! Signore, colui che ha scritto la nostra storia lassù deve essere davvero un cattivo poeta, un pessimo poeta, il peggiore di tutti i poeti, il re, l’imperatore dei cattivi poeti! 
BIGRE FIGLIO (è comparso sul proscenio durante le ultime frasi di Jacques; lo guarda con aria interrogativa e poi lo chiama). Jacques! 
JACQUES (senza guardarlo). Andate al diavolo! 
BIGRE FIGLIO. Jacques, sei tu? 
JACQUES. Andate tutti al diavolo! Sto parlando con il mio padrone! 
BIGRE FIGLIO. Per Dio, Jacques, non mi riconosci? (Afferra Jacques e lo gira verso di sé). 
JACQUES. Bigre... 
BIGRE FIGLIO. Perché ti hanno legato? 
JACQUES. Perché mi vogliono impiccare. 
BIGRE FIGLIO. Ti vogliono impiccare? Ehi, amico! Al mondo per fortuna ci sono ancora degli amici che non dimenticano gli amici! (Slega la corda e libera le mani a Jacques; poi lo gira di nuovo verso di sé e si abbracciano; mentre sono abbracciati Jacques scoppia in una sonora risata). Che hai da ridere? 
JACQUES. Ho appena insultato un cattivo poeta accusandolo di essere un cattivo poeta, e lui si è affrettato a mandare te per correggere il suo cattivo poema, e credimi, Bigre, neanche il peggiore dei poeti avrebbe potuto inventare una fine più allegra per il suo cattivo poema! 
BIGRE FIGLIO. Tu vaneggi, amico mio, ma non importa. Non ti ho mai dimenticato. Ti ricordi la soffitta? (Ride e dà una pacca sulle spalle a Jacques, che ride a sua volta). La vedi? (Indica la scala in fondo alla scena). Quella non è una soffitta, caro mio! È una cappella! È il tempio della vera amicizia! E neanche immagini, Jacques, la fortuna che ci hai portato. Ti eri arruolato, ricordi, e un mese dopo abbiamo scoperto che Justine... (Tace con aria eloquente). 
JACQUES. Justine, che cosa? 
BIGRE FIGLIO. Che Justine... (Nuova pausa eloquente)... aspettava... (Pausa)... Be’?... Non indovini?... Un bambino! 
JACQUES. Lo avete scoperto un mese dopo che mi ero arruolato? 
BIGRE FIGLIO. Mio padre non poteva più dire niente, ha dovuto accettare che sposassi Justine, e nove mesi dopo... (Pausa eloquente). JACQUES. E che cos’era? 
BIGRE FIGLIO. Un maschio! 
JACQUES. Ed è venuto su bene? 
BIGRE FIGLIO (con orgoglio). Eccome! Ora ha dieci anni! In tuo onore l’abbiamo chiamato Jacques! Ma lo sai che ti assomiglia persino? Devi venire da noi! Justine farà salti di gioia! 
JACQUES (voltandosi). Le nostre storie, caro padrone, si assomigliano in un modo ridicolo... 

Il giovane Bigre, tutto allegro, conduce Jacques fuori dalla scena. 


Scena sesta 

IL PADRONE (entra con aria infelice sulla scena deserta e grida). Jacques!... Caro Jacques! (Si guarda attorno). Dall’istante in cui ti ho perduto, il palcoscenico è deserto come il mondo e il mondo è deserto come un palcoscenico vuoto. Che cosa darei per sentirti ancora raccontare la favola del Coltellino e della Guaina! È una favola disgustosa. Perciò la rifiuterei immediatamente, la revocherei, la dichiarerei nulla e così tu potresti raccontarla un’altra volta, e un’altra volta ancora, e ogni volta come fosse la prima... Ah, mio caro Jacques, se potessi revocare anche tutta quella storia con il cavaliere di Saint-Ouen... Ma le tue belle favole sono revocabili mentre la mia stupida storia è irrevocabile e io ci sono dentro e ci sto senza di te e senza quei bei sederi che tu evocavi al semplice muovere le tue labbra amabilmente ciarliere... (Recita trasognato, come fossero alessandrini). Culi rotondi come la luna piena!... (Continua con voce normale). E comunque avevi ragione tu. Nessuno sa dove va. Come Esopo quando andava alle terme. Pensavo che avrei rivisto il mio bastardo, e invece ho perduto per sempre il mio carissimo Jacques... 
JACQUES (entra dalla parte opposta della scena e si avvicina). Caro padrone... 
IL PADRONE (si volta con gioiosa sorpresa). Jacques! 
JACQUES. Sapete bene che cosa diceva l’ostessa, quella nobildonna dal sedere grosso: che non possiamo stare l’uno senza l’altro. (Il Padrone, profondamente commosso, si getta fra le braccia di Jacques. Jacques lo rincuora). Su, basta, basta, ditemi piuttosto dove andiamo! 
IL PADRONE. C’è forse qualcuno che sappia dove va? 
JACQUES. Nessuno lo sa. 
IL PADRONE. Nessuno. 
JACQUES. E allora guidatemi. 
IL PADRONE. Come posso guidarti, se non sappiamo dove andiamo? 
JACQUES. Come è scritto lassù: voi siete il mio padrone ed è vostro compito guidarmi. 
IL PADRONE. Sì, ma tu dimentichi quel che è scritto un po’ più in là. Il padrone darà gli ordini, ma sarà Jacques a stabilire quali. Dunque aspetto. 
JACQUES. E va bene. Allora voglio che mi guidiate... in avanti. 
IL PADRONE (si guarda attorno imbarazzato). E sia. Ma avanti dove? 
JACQUES. Vi svelerò un grande segreto. Un trucco degli uomini da tempo immemorabile. Avanti... è ovunque. 
IL PADRONE (si guarda attorno girando su se stesso). Ovunque? 
JACQUES (descrive un cerchio con un ampio movimento del braccio). Ovunque rivolgiate lo sguardo, è sempre avanti! 
IL PADRONE (con malinconia). Ma è fantastico, Jacques! È fantastico. (Gira lentamente su se stesso). 
JACQUES (con la stessa malinconia). Sì, padrone, piace molto anche a me. 
IL PADRONE (dopo una breve scena muta, con tristezza). E allora avanti, Jacques! 

Si dirigono diagonalmente verso il fondo della scena. 

SIPARIO 


Praga, 1971