mercoledì 14 ottobre 2020

LA VERA VITA DI SEBASTIAN KNIGHT Vladimir Nabokov


LA VERA VITA DI SEBASTIAN KNIGHT 

 Vladimir Nabokov 

LE BRACHE DI PITAGORA.

"Dopo cena ci sedemmo nel suo studio, lui a bere il caffè e ad ascoltare la mia matrigna che gli parlava di Mademoiselle e della sua pessima abitudine di dare caramelle al mio fratellastro dopo averlo messo a letto; e io, seduto sul sofà dall’altra parte della stanza, a sfogliare le pagine di “Amici”: “Non perdete la prossima puntata di questa storia emozionante”. Barzellette in fondo alle grandi pagine di carta leggera. “L’ospite d’onore aveva appena terminato la visita alla scuola: Che cosa l’ha colpita di più? – Il pisello di una cerbottana”. Il rombo dei direttissimi lanciati nella notte. Il giovane asso del cricket che afferrava al volo il coltello lanciato contro il suo amico da un perfido malese... Quello “strepitoso” racconto a puntate che aveva come protagonisti tre ragazzi: un contorsionista capace di far ruotare il naso, un prestigiatore e un ventriloquo... Un uomo a cavallo che con un balzo passava sopra un’automobile da corsa... «La mattina dopo, a scuola, feci un gran pasticcio col problema di geometria che nel nostro gergo chiamavamo “le brache di Pitagora”. La mattinata era così buia che in aula si erano dovute accendere le luci, il che mi provocava sempre un orribile ronzio nella testa. Tornai a casa nel pomeriggio, verso le tre e mezzo, con quel senso appiccicoso di sporco che sempre mi portavo addosso tornando dalla scuola e che quel giorno era reso ancor più fastidioso dalla lana che mi faceva il solletico. L’attendente di mio padre singhiozzava nell’ingresso».” 


LA VERA VITA DI SEBASTIAN KNIGHT 

1 Sebastian Knight nacque il 31 dicembre 1899 in quella che era allora la capitale del mio Paese. Un’anziana signora russa che per qualche oscura ragione mi ha pregato di non divulgare il suo nome, mi ha mostrato per caso, a Parigi, il diario che aveva tenuto in altri tempi. Quegli anni erano stati (in apparenza) così poveri di avvenimenti che la raccolta di piccoli fatti quotidiani (questo è sempre un modesto metodo di autoconservazione) andava a malapena al di là di una concisa descrizione dei dati meteorologici; ed è curioso osservare, a questo proposito, come i diari personali dei sovrani – nonostante la gravità dei guai che affliggono i loro reami – si occupino principalmente del medesimo tema. Poiché la fortuna, a lasciarla fare, è quello che è, mi si offriva dunque una preda sulla quale non avrei mai potuto mettere le mani se l’avessi inseguita di proposito. Sono perciò in grado di affermare che Sebastian nacque in una bella mattinata senza vento, con una temperatura di dodici gradi (Réaumur) sotto zero... ma questo è tutto ciò che la buona signora ritenne di dover annotare. A ripensarci, non vedo proprio perché dovrei rispettare il suo desiderio di anonimato. Sembra estremamente improbabile che legga mai questo libro. Si chiamava, e si chiama, Olga Olegovna Orlova – un’allitterazione ovoidale che sarebbe stato un peccato passare sotto silenzio. Il suo asciutto resoconto non può trasmettere al lettore che non abbia viaggiato le implicite gioie di una giornata invernale come quella che descrive a San Pietroburgo; il limpido sfarzo di un cielo senza nubi destinato non già a riscaldare la carne ma unicamente ad appagare l’occhio; lo scintillio dei solchi lasciati dalle slitte sulla neve battuta delle ampie vie, con una sfumatura fulva nel mezzo, dovuta a una sostanziosa poltiglia di sterco di cavallo; il grappolo sgargiante dei palloncini offerti da un venditore ambulante in grembiule; la morbida curva di una cupola, con l’oro velato dalla fioritura di ghiaccio polveroso; le betulle dei giardini pubblici con rami e rametti contornati di bianco; il raspare e tintinnare del traffico invernale... e, per inciso, com’è strano, quando si guarda una vecchia cartolina (come quella che ho messo sulla mia scrivania a rallegrare per un attimo il bambino della memoria), com’è strano osservare il modo avventuroso in cui svoltavano le carrozze russe, quando, come e dove volevano, sicché, invece del flusso disciplinato e rettilineo del traffico moderno, si può vedere – in questa fotografia colorata – una strada vastissima, degna di un sogno, con tante carrozzelle di traverso, sotto cieli incredibilmente azzurri che più lontano si stemperano, automaticamente, in una vampa rosata di mnemonica banalità. Non sono riuscito a procurarmi una fotografia della casa in cui nacque Sebastian, ma la conosco bene, perché ci sono nato anch’io, circa sei anni dopo. Eravamo figli dello stesso padre: lui si era risposato poco dopo il divorzio dalla madre di Sebastian. Curiosamente, a questo secondo matrimonio non si accenna affatto nel libro di Mr. Goodman, La tragedia di Sebastian Knight (che vide la luce nel 1936 e sul quale avrò occasione di ritornare più ampiamente); quindi ai lettori di Goodman io devo per forza sembrare inesistente – un congiunto fasullo, un impostore chiacchierone; ma Sebastian stesso, nella sua opera più autobiografica (Oggetti smarriti), riserva a mia madre parole assai gentili – e io credo che lei le meritasse senz’altro. Non è neppure esatto, come ha dato a credere la stampa inglese dopo la scomparsa di Sebastian, che suo padre fosse stato ucciso in duello nel 1913; in realtà stava riprendendosi a poco a poco da quella ferita al torace quando – un buon mese dopo – contrasse un raffreddore che il polmone guarito solo a metà non riuscì a superare. Buon soldato, uomo di gran cuore, spiritoso, pieno di vita, aveva in sé quella ricca vena di avventurosa irrequietezza che Sebastian ereditò come scrittore. L’inverno scorso, a un pranzo letterario tenutosi in South Kensington, mentre la conversazione ondeggiava intorno alla morte prematura di Sebastian Knight, un vecchio critico di chiara fama, di cui ho sempre ammirato l’ingegno e la cultura, fu sentito dire: «Povero Knight! In realtà è passato per due fasi: nella prima, un uomo noioso che scrive in un inglese infelice; nella seconda, un uomo infelice che scrive in un inglese noioso». Una perfida battuta, perfida per molti versi, giacché è fin troppo facile sparlare di uno scrittore morto nascondendosi dietro il dorso dei suoi libri. Vorrei credere che il brav’uomo non vada troppo fiero di quella sua bravata, tanto più che ha mostrato ben altra moderazione nel recensire qualche anno fa l’opera di Sebastian Knight. Bisogna ammettere nondimeno che in un certo senso la vita di Sebastian, pur essendo tutt’altro che noiosa, non ebbe il formidabile vigore del suo stile letterario. Ogni volta che apro uno dei suoi libri mi pare di vedere mio padre che irrompe nella stanza, – quel suo modo di spalancare la porta e di avventarsi subito su una cosa che voleva o su una creatura che amava. La prima impressione che ho di lui è sempre quella di rimanere senza fiato, perché all’improvviso vengo sollevato dal pavimento, con metà del mio trenino che mi penzola ancora dalla mano e le gocce di cristallo del lampadario pericolosamente vicine alla testa. Mi metteva giù di colpo, con la stessa rapidità con cui mi aveva issato in aria, con la rapidità con cui la prosa di Sebastian fa mancare il terreno sotto i piedi del lettore per poi precipitarlo con un brivido nell’anticlimax scanzonato del folle paragrafo successivo. Si direbbe che anche alcune delle freddure care a mio padre siano sbocciate in una fioritura fantastica in certi racconti tipici di Knight come Albini in nero o La montagna buffa, il migliore, forse, quella storia bellissima e strana che mi fa sempre pensare a un bambino che rida nel sonno. Per quanto ne so, mio padre era un giovane ufficiale della Guardia e si trovava in licenza all’estero, in Italia, quando conobbe Virginia Knight. Il loro primo incontro era legato a una caccia alla volpe, a Roma, all’inizio degli anni Novanta, ma non sono in grado di dire se a questo episodio abbia accennato mia madre o se invece io ricordo nel subconscio di aver visto qualche sbiadita istantanea in un album di famiglia. Lui le fece la corte a lungo. Lei era la figlia di Edward Knight, un agiato signore di cui non so altro; ma dal fatto che mia nonna, una donna austera e inflessibile (di lei ricordo il ventaglio, i mezzi guanti, le dita bianche e fredde), era energicamente contraria a quel matrimonio e non si stancava di ripetere la leggenda delle sue obiezioni anche dopo che mio padre si era già risposato, sono propenso a dedurre che la famiglia Knight (a qualsiasi ceto appartenesse) non arrivasse esattamente allo standard (qualunque esso fosse) richiesto dai benpensanti del vecchio regime russo. Non posso neanche dire se il primo matrimonio di mio padre non fosse in contrasto, in un modo o nell’altro, con le tradizioni del suo reggimento – sta di fatto che la sua ascesa nella carriera militare cominciò solo durante la guerra col Giappone, cioè dopo che la moglie l’aveva lasciato. Ero ancora bambino quando perdetti mio padre; e solo a distanza di anni, nel 1922, mia madre, pochi mesi prima di subire l’ultima e fatale operazione, mi disse diverse cose che riteneva dovessi sapere. Il primo matrimonio di mio padre non era stato felice. Una strana donna, una creatura irrequieta e irresponsabile – ma di un’irrequietezza ben diversa da quella di mio padre. In lui era una costante ricerca che mutava il proprio obiettivo solo dopo averlo raggiunto. In lei era invece un inseguimento poco convinto, capriccioso e discontinuo, che ora deviava bruscamente dal bersaglio, ora se ne dimenticava a mezza strada, come capita di dimenticare l’ombrello su un tassì. Voleva bene a mio padre alla sua maniera, una maniera volubile, per non dire di peggio, e quando un giorno le passò per la testa che forse era innamorata di un altro (del quale non rivelò mai il nome a mio padre), abbandonò marito e figlio di colpo, come una goccia di pioggia che comincia a scivolare giù verso la punta di una foglia di serenella. Il soprassalto della foglia derelitta che aveva portato quel fardello luccicante deve aver causato a mio padre un dolore atroce; e io non amo soffermarmi col pensiero sul giorno in cui, in un albergo di Parigi, un Sebastian di quattro anni circa rimase affidato a una bambinaia imbarazzatissima che gli badava appena, mentre mio padre si era chiuso a chiave nella sua stanza, «quel tipo speciale di camera d’albergo che è una cornice così perfetta per inscenare le peggiori tragedie: un lucido orologio senza vita (i baffi incerati delle due meno dieci) sotto la sua campana di vetro posata sull’orribile mensola di un caminetto, la porta-finestra con la sua brava mosca intontita fra la mussola e il vetro, e un campione della carta da lettera dell’albergo in mostra sul consunto tampone assorbente». Questa è una citazione da Albini in nero, che nel testo non ha nessun rapporto con quel particolare disastro ma certo risente del lontano ricordo di un bambino stizzito che su uno squallido tappeto d’albergo non ha nulla da fare e avverte uno strano espandersi del tempo – il tempo che si è smarrito, scomposto... La guerra in Estremo Oriente permise a mio padre quella felice attività che lo aiutò – se non a dimenticare Virginia – almeno a ridare un senso alla sua vita. Il suo vigoroso egoismo era solo una forma di maschia vitalità e come tale del tutto coerente con una natura essenzialmente generosa. Una perpetua infelicità, per non parlare dell’autodistruzione, doveva sembrargli una faccenda spregevole, una resa vergognosa. Quando si risposò nel 1905, provò sicuramente un senso di soddisfazione per aver avuto la meglio nelle sue relazioni col destino. Virginia ricomparve nel 1908. Era una viaggiatrice inveterata, sempre in movimento, e si sentiva a casa sua in una pensioncina come in un albergo di lusso, giacché casa, per lei, significava solo il piacere di cambiare in continuazione; da lei Sebastian ereditò quella strana, quasi romantica passione per i vagoni letto e per i Grandi Treni Espressi Europei, «il tenue scricchiolio di lucidi pannelli nella notte schermata di azzurro, il lungo e triste sospiro dei freni in stazioni vagamente immaginate, lo scorrere di una tendina di cuoio goffrato che si alza a rivelare un marciapiede, un facchino che spinge un carrello con i bagagli, il globo lattiginoso di una lampada con una pallida falena che le svolazza attorno; i colpi di un martello invisibile che controlla le ruote; il veloce inoltrarsi nelle tenebre; la fugace visione di una donna sola che sposta oggetti d’argento nella sua valigetta posata sulla felpa azzurra di uno scompartimento illuminato». Era arrivata con l’Espresso del Nord in un giorno d’inverno, senza il minimo preavviso, e mandò un conciso biglietto chiedendo di vedere suo figlio. Mio padre era in campagna per una caccia all’orso; così mia madre, senza far storie, portò Sebastian all’Hôtel d’Europe, dove Virginia aveva preso una camera per un solo pomeriggio. Là, nella hall, vide la prima moglie di suo marito, una donna snella, un po’ spigolosa, con un piccolo viso agitato sotto un enorme cappello nero. Aveva alzato la veletta sopra le labbra per baciare il ragazzo, e l’aveva appena sfiorato quando scoppiò in lacrime, come se la tempia calda e delicata di Sebastian fosse la fonte stessa e la consolazione del suo dolore. Subito dopo s’infilò i guanti e cominciò a raccontare a mia madre, in un pessimo francese, la storia inutile e sconclusionata di una polacca che aveva cercato di rubarle il beauty-case nella carrozza ristorante. Poi ficcò in mano a Sebastian un pacchettino di violette candite, regalò a mia madre un sorrisetto nervoso e seguì il facchino che le stava portando fuori il bagaglio. Fu tutto, e l’anno dopo morì. Si è poi saputo da un suo cugino, H.F. Stainton, che negli ultimi mesi della sua vita Virginia aveva vagato avanti e indietro per la Francia meridionale, fermandosi un giorno o due in torride cittadine di provincia dove i turisti si spingono di rado – febbricitante, sola (aveva abbandonato anche l’amante) e probabilmente molto infelice. Si potrebbe supporre che con quei dietrofront improvvisi, con quel ritornare sui propri passi volesse fuggire da qualcuno o da qualcosa; d’altro canto, a chiunque conoscesse i suoi cambiamenti d’umore quel frenetico schizzare da un posto all’altro poteva sembrare solo una finale esasperazione della sua consueta irrequietezza. Morì di collasso cardiaco (morbo di Lehmann) nella cittadina di Roquebrune, nell’estate del 1909. Ci fu qualche difficoltà per il trasporto della salma in Inghilterra; i suoi erano morti qualche tempo prima; soltanto Mr. Stainton assistette al funerale a Londra. I miei genitori vivevano felici. Era una unione tranquilla, piena di tenerezza, per nulla turbata dai pettegolezzi maligni di certi nostri parenti i quali mormoravano che mio padre, pur essendo un marito affettuoso, di quando in quando era attratto da altre donne. Un giorno, intorno al Natale del 1912, una sua conoscente, una ragazza molto carina e molto sventata, raccontò per caso, mentre camminavano lungo il Nevskij Prospekt, che il fidanzato di sua sorella, un certo Palcin, aveva conosciuto Virginia. Mio padre disse che ricordava quell’uomo, – si erano conosciuti a Biarritz dieci anni prima, o forse erano nove... «Oh, ma lui l’ha frequentata anche dopo» disse la ragazza. «Anzi ha confessato a mia sorella di aver vissuto con Virginia dopo che vi eravate lasciati... Poi lei l’ha piantato, in Svizzera, non so bene dove... Strano che nessuno lo sapesse». «Be’,» disse tranquillo mio padre «se la cosa non è trapelata allora, non c’è motivo perché la gente cominci a chiacchierarne dieci anni dopo». Per una disgraziatissima coincidenza, proprio il giorno seguente un buon amico di famiglia, il capitano Belov, chiese distrattamente a mio padre se era vero che la sua prima moglie veniva dall’Australia – lui, il capitano, aveva sempre pensato che fosse inglese. Mio padre rispose che, per quel che ne sapeva, i genitori di lei erano vissuti per qualche anno a Melbourne, ma lei era nata nel Kent. «... Ma perché me lo domandi?» aggiunse. Il capitano rispose evasivamente che sua moglie era stata a una festa o da qualche parte dove qualcuno aveva detto qualcosa... «Bisogna, temo, che certe chiacchiere finiscano» disse mio padre. La mattina seguente andò a trovare Palcin, il quale lo accolse ostentando una giovialità persino eccessiva. Era stato molti anni all’estero, disse, ed era felice di rivedere i vecchi amici. «Circola una sporca menzogna,» disse mio padre senza sedersi «e immagino che lei sappia di che si tratta». «Senta, mio caro amico,» ribatté Palcin «non fingerò di non capire dove lei vuole arrivare. Mi dispiace che ci siano stati dei pettegolezzi, ma non vedo perché dovremmo perdere la calma... Non è colpa di nessuno se una volta lei e io eravamo nella stessa barca». «In tal caso, signore,» disse mio padre «le manderò i miei padrini». Palcin era uno stupido e un tanghero, o almeno questo è quanto dedussi dalla storia che mi raccontava mia madre (e che, nella sua versione, aveva assunto la vivace forma di discorso diretto che io ho cercato di mantenere). Ma proprio perché Palcin era uno stupido e un tanghero, mi riesce difficile capire perché mai un uomo del valore di mio padre avrebbe dovuto rischiare la vita – per che cosa? Per difendere l’onore di Virginia? Per un desiderio di rivalsa? Ma l’onore di Virginia era stato irrimediabilmente compromesso dalla sua fuga stessa, e tutte le idee di vendetta dovevano aver perso da un pezzo la loro amara voluttà negli anni felici del secondo matrimonio di mio padre. O era bastato sentire un nome, vedere una faccia, avere la subitanea, grottesca visione di una impronta individuale su quello che era stato, fino ad allora, un docile fantasma senza volto? E tutto considerato, per quell’eco che veniva da un passato lontano (e raramente gli echi sono più che un latrato, per quanto pura sia la voce di chi chiama) valeva la pena di rovinare la nostra famiglia e di causare tanto dolore a mia madre? Il duello avvenne in una bufera di neve sulla riva di un ruscello ghiacciato. Vennero scambiati due colpi prima che mio padre cadesse a faccia in giù su un mantello militare grigio-azzurro steso sulla neve. Palcin, con le mani tremanti, si accese una sigaretta. Il capitano Belov chiamò i cocchieri che attendevano a rispettosa distanza sulla strada battuta dalla tormenta. Tutta la maledetta faccenda era durata tre minuti. In Oggetti smarriti Sebastian annota le sue impressioni di quel lugubre giorno di gennaio. «Né la mia matrigna,» scrive «né alcun altro in casa sapeva del duello imminente. La vigilia, a cena, mio padre mi lanciò delle palline di mollica dall’altra parte del tavolo: avevo tenuto il broncio tutto il giorno per via di certi diabolici indumenti di lana che il dottore voleva farmi indossare, e lui cercava di distrarmi; ma io lo guardai accigliato, arrossii e voltai la testa. Dopo cena ci sedemmo nel suo studio, lui a bere il caffè e ad ascoltare la mia matrigna che gli parlava di Mademoiselle e della sua pessima abitudine di dare caramelle al mio fratellastro dopo averlo messo a letto; e io, seduto sul sofà dall’altra parte della stanza, a sfogliare le pagine di “Amici”: “Non perdete la prossima puntata di questa storia emozionante”. Barzellette in fondo alle grandi pagine di carta leggera. “L’ospite d’onore aveva appena terminato la visita alla scuola: Che cosa l’ha colpita di più? – Il pisello di una cerbottana”. Il rombo dei direttissimi lanciati nella notte. Il giovane asso del cricket che afferrava al volo il coltello lanciato contro il suo amico da un perfido malese... Quello “strepitoso” racconto a puntate che aveva come protagonisti tre ragazzi: un contorsionista capace di far ruotare il naso, un prestigiatore e un ventriloquo... Un uomo a cavallo che con un balzo passava sopra un’automobile da corsa... «La mattina dopo, a scuola, feci un gran pasticcio col problema di geometria che nel nostro gergo chiamavamo “le brache di Pitagora”. La mattinata era così buia che in aula si erano dovute accendere le luci, il che mi provocava sempre un orribile ronzio nella testa. Tornai a casa nel pomeriggio, verso le tre e mezzo, con quel senso appiccicoso di sporco che sempre mi portavo addosso tornando dalla scuola e che quel giorno era reso ancor più fastidioso dalla lana che mi faceva il solletico. L’attendente di mio padre singhiozzava nell’ingresso». 2 Nel suo libro abborracciato e molto fuorviante Mr. Goodman dipinge in poche frasi infelici un quadro grottescamente falso dell’infanzia di Sebastian Knight. Una cosa è fare il segretario di uno scrittore, un’altra è mettere insieme la vita di uno scrittore; e se una tale impresa è suggerita dal desiderio di far uscire il libro mentre i fiori su una tomba fresca possono essere annaffiati con profitto, un’altra cosa ancora è tentare di combinare la fretta commerciale con una ricerca esauriente, con l’onestà e la saggezza. Non ho intenzione di danneggiare il buon nome di chicchessia. Non è una calunnia asserire che solo l’impeto travolgente di una macchina da scrivere poteva spingere Mr. Goodman a dire che «un’educazione russa fu imposta senza scrupoli a un ragazzino sempre consapevole del ricco retaggio inglese che aveva nel sangue». Questo influsso straniero, prosegue Mr. Goodman, «fu causa di acute sofferenze per il bambino, tanto che da adulto rabbrividiva al ricordo dei mugichi barbuti, delle icone, delle monotone balalaiche, tutte cose che avevano preso il posto di una sana educazione inglese». Non vale neanche la pena di osservare che l’idea dell’ambiente russo espressa da Mr. Goodman corrisponde alla realtà quanto, per esempio, l’idea che un calmucco si fa dell’Inghilterra come di un luogo tenebroso dove i ragazzini sono fustigati a morte da presidi con i basettoni rossi. Quello che invece si dovrebbe sottolineare è il fatto che Sebastian fu allevato in un’atmosfera di raffinatezza intellettuale dove l’elegante spiritualità di una famiglia russa si mescolava con i tesori più preziosi della cultura europea, e che la reazione personale di Sebastian ai propri ricordi russi era comunque di una natura molto complessa e particolare che non si abbassò mai alla meschinità che traspare dalle parole del suo biografo. Ricordo Sebastian ragazzo – aveva sei anni più di me – mentre pasticcia beato con gli acquarelli nella calda aura domestica creata da una solenne lampada a petrolio il cui paralume di seta rosa, ora che mi risplende nella memoria, sembra dipinto dal suo stesso pennello zuppo di colore. Mi rivedo bambino, a quattro o cinque anni, mentre, in punta di piedi mi allungo e mi arrabatto per dare un’occhiata alla scatola dei colori seminascosta dietro il gomito in movimento del mio fratellastro; grumi rossi e blu, così ben leccati e consumati che ormai vien fuori lo smalto del fondo. C’è un lieve suono metallico ogni volta che Sebastian mescola i colori sul lato interno del coperchio di latta, e di fronte a lui l’acqua nel bicchiere è intorbidita da magiche sfumature. I capelli scuri, tagliati corti, lasciano scoperta una piccola voglia sopra l’orecchio roseo e diafano, – a questo punto mi sono arrampicato su una sedia – ma lui continua a non prestarmi attenzione, fino a quando, con uno scatto pericoloso, tento di toccare la tavoletta dell’azzurro più intenso; e allora, con un colpo della spalla, lui mi spinge via, senza nemmeno girarsi, silenzioso e distante come sempre nei miei confronti. Ricordo quando facevo capolino sopra la balaustra per vederlo salire le scale, al ritorno da scuola, vestito dell’uniforme nera regolamentare, con quella cintura di cuoio che io segretamente desideravo con tutta l’anima: veniva su adagio, dinoccolato, trascinandosi dietro la cartella pezzata, dando dei colpetti alla balaustra e facendo ogni tanto due o tre gradini alla volta. Dalle labbra contratte faccio uscire uno sputo bianco che cade giù, giù, senza mai colpire Sebastian; non che io voglia fargli un dispetto, è solo un malinconico e vano tentativo di indurlo a notare che esisto. Ho anche vivida nella memoria l’immagine di lui su una bicicletta col manubrio molto basso, mentre avanza lentamente, senza pedalare, lungo un sentiero chiazzato dal sole nel parco della nostra casa di campagna; e io gli trotto dietro, e quando lui preme sui pedali con i sandali accelero il trotto; faccio del mio meglio per tenermi al passo con il tic tic e il fruscio della ruota posteriore, ma lui non si cura di me e presto mi lascia irrimediabilmente indietro, col fiato grosso e ancora trotterellante. In seguito, quando lui aveva sedici anni e io dieci, a volte mi aiutava a fare i compiti, spiegandomi le cose in maniera così veloce e impaziente che il suo aiuto non aveva la minima efficacia; e dopo un po’ si metteva la matita in tasca e con passo solenne usciva dalla stanza. A quel tempo era già alto, con un colorito giallognolo e un’ombra scura sopra il labbro superiore. Ora aveva i capelli lucidi, con la riga, e scriveva versi su un quaderno nero che teneva chiuso a chiave nel suo cassetto. Una volta scoprii dove nascondeva la chiave (in una fessura del muro, vicino alla stufa olandese di ceramica bianca, in camera sua) e aprii quel cassetto. C’era il quaderno; c’era anche la fotografia della sorella di un suo compagno di scuola; alcune monete d’oro; e un sacchettino di mussola pieno di violette candite. Le poesie erano scritte in inglese. Avevamo preso lezioni di inglese a casa, poco prima che mio padre morisse, e anche se non ero mai riuscito a parlarlo bene, lo leggevo e lo scrivevo con relativa scioltezza. Ricordo vagamente che i versi erano molto romantici, pieni di rose scure, di stelle e del richiamo del mare; ma un particolare spicca ben chiaro nella mia memoria: la firma sotto ogni poesia era un piccolo cavallo degli scacchi, un cavallo nero tracciato con l’inchiostro.1 Mi sono sforzato di comporre un quadro coerente del mio fratellastro quale io lo vedevo in quei giorni della mia infanzia, diciamo tra il 1910 (l’anno a cui risalgono i miei primi ricordi) e il 1919 (l’anno in cui partì per l’Inghilterra). Ma è un tentativo che non mi riesce. L’immagine di Sebastian non si presenta come parte della mia fanciullezza, soggetta quindi a una selezione e a un’evoluzione senza fine, e neppure come una sequenza di visioni familiari, ma mi viene incontro a sprazzi, come se lui non fosse un membro permanente della nostra famiglia ma un ospite occasionale che attraversava una stanza illuminata prima di svanire nella notte per un lungo lasso di tempo. Questo io lo spiego non tanto col fatto che i miei interessi infantili precludevano qualsiasi rapporto consapevole con uno che non era abbastanza giovane per essere un mio compagno né abbastanza vecchio per farmi da guida, quanto con la costante freddezza di Sebastian, con quel distacco che, nonostante il bene che io gli volevo, non concedeva mai al mio affetto un segno di riconoscimento o una minima esca. Forse potrei descrivere il modo in cui camminava, rideva o starnutiva, ma non sarebbero altro che piccoli spezzoni, sforbiciati via da un film, che non hanno nulla in comune con il dramma vero e proprio. E l’elemento drammatico non mancava. Sebastian non riuscì mai a dimenticare sua madre, né poteva dimenticare che suo padre era morto per lei. Il fatto che il nome di quella donna non venisse mai pronunciato in casa nostra aggiungeva un alone morboso al ricordo affascinante che soffondeva l’anima sensibilissima di Sebastian. Io non so con quanta chiarezza egli potesse ricordare il tempo in cui lei era ancora la moglie di suo padre; probabilmente la ricordava a modo suo, come un tenero orizzonte radioso sullo sfondo della sua vita. Né posso dire che cosa provò quando, a nove anni, la rivide. Mia madre dice che era rimasto impassibile, a bocca chiusa, e che dopo non aveva mai parlato di quel breve incontro pateticamente incompleto. In Oggetti smarriti Sebastian accenna a un vago sentimento di rancore nei confronti del padre felicemente risposato, un sentimento che si mutò in estatica adorazione quando venne a sapere la ragione del duello fatale. «La scoperta dell’Inghilterra» scrive Sebastian (Oggetti smarriti) «mise una nuova vita nei miei ricordi più intimi ... Dopo Cambridge feci un viaggio sul continente e trascorsi due settimane tranquille a Montecarlo. Credo che da quelle parti ci sia un casinò dove la gente va a giocare, ma se c’è io non l’ho visto, perché la maggior parte del mio tempo era assorbita dalla stesura del mio primo romanzo – un lavoro molto ambizioso che sono lieto di dire fu rifiutato da un numero di editori quasi uguale a quello dei lettori del mio libro successivo. Un giorno feci una lunga passeggiata e trovai un posto chiamato Roquebrune. Proprio a Roquebrune mia madre era morta tredici anni prima. Ricordo bene il giorno in cui mio padre mi disse della sua morte e il nome della pensione dove era successo: si chiamava “Les Violettes”. Chiesi a uno chauffeur se sapeva di quella pensione, ma scosse la testa. Poi chiesi a un fruttivendolo e lui mi indicò la strada. Alla fine arrivai a una villa di un rosa sbiadito, col tipico tetto provenzale di tegole rosse arrotondate, e notai un mazzolino di violette dipinto sull’ingresso in maniera piuttosto rudimentale. Quella, dunque, era la casa. Attraversai il giardino e parlai con la padrona. Mi disse che solo da poco aveva rilevato la pensione dal proprietario precedente e quindi non sapeva nulla del passato. Le chiesi il permesso di sedermi per un po’ nel giardino. Lì in giro non c’era nessuno, tranne un vecchio, nudo fin dove riuscivo a vedere, che mi scrutava da un balcone. Mi sedetti su una panchina azzurra, sotto un grande eucalipto spogliato di metà della sua corteccia, come sembra sia destino di questa specie vegetale. Poi cercai di guardare la casa rosa, l’albero e tutto l’insieme con gli occhi di mia madre. Mi rammaricavo di non sapere quale fosse esattamente la finestra della sua camera. Giudicando dal nome della villa, non ebbi alcun dubbio che davanti ai suoi occhi vi fosse stata quella stessa aiuola di viole del pensiero. A poco a poco mi caricai a tal punto che per un momento mi parve che quel verde e quel rosa mandassero bagliori e galleggiassero come attraverso un velo di nebbia. Mia madre, una figura sottile e sfocata, con un gran cappello, saliva lentamente gli scalini che sembravano dissolversi in acqua. Un tonfo assordante mi riportò alla realtà. Un’arancia era rotolata fuori dal sacchetto di carta che tenevo in grembo. La raccolsi e uscii dal giardino. Alcuni mesi dopo, a Londra, mi capitò di incontrare un cugino di mia madre. La piega della conversazione mi portò a parlare della mia visita al luogo in cui lei era morta. “Oh,” disse “ma era l’altra Roquebrune, quella nel Var”». Curiosamente, Mr. Goodman cita questo brano, ma si limita a commentare che «Sebastian Knight era talmente innamorato del lato burlesco delle cose e talmente incapace di interessarsi al loro nucleo serio che riusciva a scherzare su emozioni intime, giustamente ritenute sacre dal resto dell’umanità, anche se per natura non era né cinico né senza cuore». Non sorprende che questo pomposo biografo sia fuori tono rispetto al suo eroe in qualsiasi punto della storia. Per ragioni che ho già avuto modo di indicare non cercherò di descrivere la fanciullezza di Sebastian rispettando più o meno quella metodica continuità che avrei normalmente ottenuto se si fosse trattato di un personaggio di fantasia. In questo caso avrei potuto sperare di informare e divertire il lettore tratteggiando l’armonioso sviluppo del mio eroe dall’infanzia alla giovinezza. Ma se facessi un tentativo del genere con Sebastian, il risultato sarebbe una di quelle biographies romancées che sono di gran lunga il peggior genere di letteratura inventato finora. Che la porta resti chiusa, dunque, e lasci solo trapelare in basso una sottile lama di luce vibrante; che si spenga anche la lampada della stanza accanto, dove Sebastian è andato a letto; che la bella casa olivastra sulla riva della Neva svanisca a poco a poco nella gelida notte grigio-azzurra, mentre i fiocchi di neve cadono soffici indugiando nel bagliore lunare del lampione e incipriando le membra possenti delle due barbute cariatidi che con uno sforzo degno di Atlante reggono il bovindo della camera di mio padre. Mio padre è morto, nella stanza accanto Sebastian dorme, o almeno se ne sta quieto quieto – e io sono a letto, ben sveglio, con gli occhi fissi nel buio. Una ventina d’anni dopo intrapresi un viaggio a Losanna alla ricerca della vecchia signora svizzera che aveva fatto da governante prima a Sebastian e poi a me. Doveva avere più o meno cinquant’anni quando ci aveva lasciati nel 1914; da tempo avevamo smesso di scriverci, e quindi non ero affatto sicuro, nel 1936, di trovarla ancora viva. Invece la trovai. Scoprii che esisteva un’associazione di vecchie signore svizzere che avevano lavorato in Russia, come governanti, prima della rivoluzione. Erano donne che «vivevano nel loro passato», come mi spiegò il gentilissimo signore che mi accompagnò in quella visita, e trascorrevano gli ultimi anni – erano per la maggior parte decrepite e un po’ svanite – scambiandosi impressioni, bisticciando per niente e deprecando le condizioni in cui avevano trovato la Svizzera dopo tanti anni vissuti in Russia. La cosa tragica, per loro, era che in tutto quel tempo passato in un Paese straniero erano rimaste assolutamente refrattarie a qualsiasi influsso locale (a tal punto che non avevano imparato nemmeno le più semplici parole russe); un po’ ostili all’ambiente che le circondava – quante volte ho sentito Mademoiselle lamentarsi del suo esilio, gemere di non essere compresa e di essere guardata dall’alto in basso, e rimpiangere la sua bella patria. Quando però quelle povere anime vaganti ritornavano a casa, si sentivano estranee e straniere in un Paese irriconoscibile; e poiché il sentimento gioca strani scherzi, la Russia (che per loro era stata in realtà un abisso sconosciuto, il cui remoto brusio giungeva appena nell’angolo di una stanzetta dall’aria viziata dove una lampada illuminava le fotografie di famiglia in cornici di madreperla e un acquarello con la veduta del castello di Chillon), quella Russia ignota assumeva ora l’aspetto di un paradiso perduto, un luogo vasto, vago, ma retrospettivamente ospitale, popolato di malinconiche fantasie. Trovai Mademoiselle molto sorda e molto grigia, ma ancora loquace come un tempo, e dopo le prime effusioni cominciò a ricordare piccoli episodi della mia infanzia che erano irrimediabilmente travisati o così estranei alla mia memoria da farmi dubitare che fossero mai accaduti. Non sapeva nulla della morte di mia madre, né sapeva che Sebastian se n’era andato tre mesi prima. Tra parentesi, ignorava anche che fosse stato un grande scrittore. Continuava a piangere, e le sue lacrime erano certamente sincere, ma sembrava un po’ contrariata nel vedere che non mi associavo al pianto: «Tu hai sempre saputo controllarti» disse. Le accennai al libro che stavo scrivendo e la pregai di parlarmi della fanciullezza di Sebastian. Era entrata nella nostra casa poco dopo il secondo matrimonio di mio padre, ma nella sua mente il passato era così nebuloso e distorto che parlava della prima moglie di mio padre («cette horrible Anglaise») come se l’avesse conosciuta non meno bene di quanto aveva conosciuto mia madre («cette femme admirable»). «Il mio povero piccolo Sebastian,» gemette «così tenero con me, così nobile. Ah, come ricordo il modo in cui mi gettava le braccine al collo, dicendo: “Odio tutti tranne te, Zelle, tu sola capisci la mia anima”. E il giorno in cui gli diedi uno schiaffetto sulla mano, – une toute petite tape – perché era stato sgarbato con tua madre, – quell’espressione dei suoi occhi – mi fece venire le lacrime – e con che voce mi disse: “Te ne sono grato, Zelle. Non succederà mai più...”». Andò avanti su questo tono per un bel po’, facendomi sentire tremendamente a disagio. Alla fine, dopo diversi tentativi infruttuosi, riuscii a cambiare argomento – a quel punto non avevo più voce, visto che lei aveva smarrito il suo cornetto acustico. Poi si mise a parlare della sua vicina, una donnetta grassa, ancora più vecchia di lei, che avevo incontrato nel corridoio. «Poveretta, è sorda come una campana» si lamentò «ed è una gran bugiarda. So per certo che ha dato solo qualche lezione ai figli della principessa Demidov – non ha mai vissuto in casa loro». «Devi scrivere quel libro, quel bellissimo libro,» piagnucolò mentre stavo per andarmene «devi farne una fiaba, con Sebastian nella parte del principe. Il principe azzurro... Quante volte gli ho detto: “Sebastian, sta’ attento, le donne ti ameranno alla follia”. E lui rispondeva ridendo: “Be’, le amerò anch’io alla follia...”». Non sapevo da che parte voltarmi. Mi schioccò un bacio sulla guancia, mi accarezzò la mano e riprese a piangere. Guardai quegli occhi stanchi e annebbiati, lo smalto spento della dentiera, la spilla di granate che portava sul petto e che non avevo dimenticato... Ci salutammo. Pioveva a dirotto, e mi sentivo pieno di vergogna e di rabbia perché avevo lasciato a metà il mio secondo capitolo per compiere quell’inutile pellegrinaggio. Una cosa mi aveva particolarmente turbato: non mi aveva fatto una sola domanda sulla seconda parte della vita di Sebastian, neanche una domanda su come era morto, niente. 3 Nel novembre del 1918 mia madre decise di fuggire con Sebastian e con me dai pericoli della Russia. La rivoluzione infuriava, le frontiere erano chiuse. Si mise in contatto con un uomo che faceva il mestiere di accompagnatore dei profughi diretti oltre il confine, e fu convenuto che per una certa somma – metà doveva essere versata in anticipo – ci avrebbe fatto arrivare in Finlandia. Saremmo scesi dal treno poco prima della frontiera, in un posto che potevamo raggiungere legalmente, e poi avremmo passato il confine camminando per sentieri segreti, doppiamente, triplamente segreti per le abbondanti nevicate che cadevano in quella silenziosa regione. Al punto di partenza del nostro viaggio in treno, ci ritrovammo, mia madre e io, ad aspettare Sebastian, il quale, con l’aiuto eroico del capitano Belov, stava trasportando i bagagli da casa alla stazione su una carriola. Il treno doveva partire alle otto e quaranta del mattino. Erano le otto e mezzo, e Sebastian non si vedeva ancora. La nostra guida era già sul treno e leggeva tranquillamente il giornale; aveva raccomandato a mia madre di non rivolgergli la parola in pubblico per nessun motivo, e mentre il tempo passava e il treno si preparava a partire cominciò a calare su di noi un senso assillante di torpido panico. Sapevamo che l’uomo, secondo le tradizioni del suo mestiere, non avrebbe mai ripetuto un tentativo che fosse fallito proprio all’inizio. Sapevamo pure che non avremmo potuto sostenere una seconda volta le spese della fuga. I minuti passavano, e io avvertivo qualcosa che gorgogliava disperatamente alla bocca dello stomaco. Era tremendo pensare che di lì a un minuto o due il treno si sarebbe mosso e noi avremmo dovuto tornarcene in una soffitta buia e gelida (la nostra casa era stata nazionalizzata alcuni mesi prima). Nel tragitto verso la stazione avevamo superato Sebastian e Belov che spingevano la carriola stracarica sulla neve scricchiolante. Ora quell’immagine mi stava fissa davanti agli occhi (avevo tredici anni e una fantasia sbrigliata) come un oggetto condannato da un incantesimo a una impietrita eternità. Mia madre, con le mani infilate nelle maniche e una ciocca di capelli grigi che le sfuggiva da sotto il foulard di lana, camminava su e giù, cercando di incrociare lo sguardo della nostra guida ogni volta che passava sotto il suo finestrino. Otto e quarantacinque, otto e cinquanta... Il treno partiva in ritardo, ma alla fine si udì il fischio, un fiotto di caldo fumo bianco gettò la sua ombra sulla neve sudicia della banchina, e nel medesimo istante spuntò Sebastian, di corsa, con i paraorecchi del colbacco che svolazzavano al vento. Ci arrampicammo tutti e tre sul treno già in moto. Ci volle un po’ prima che Sebastian fosse in grado di raccontarci che il capitano Belov era stato arrestato per strada, proprio mentre passavano davanti alla casa dove abitava prima, e che lui, Sebastian, abbandonati i bagagli al loro destino, aveva fatto una corsa disperata verso la stazione. Qualche mese dopo venimmo a sapere che il nostro povero amico era stato fucilato, insieme a una ventina di altre persone, al fianco di Palcin, che era morto anche lui da coraggioso, come Belov. Nell’ultimo libro dato alle stampe, L’asfodelo incerto (1936), Sebastian descrive un personaggio secondario che è appena fuggito da un Paese non identificato in cui regnano terrore e miseria. «Che cosa posso dirvi del mio passato, cari signori? [egli dice]. Sono nato in una terra dove l’idea di libertà, la nozione di diritto, l’usanza dell’umana bontà erano tutte cose freddamente disprezzate e brutalmente bandite. Di tanto in tanto, nel corso della storia, un governo ipocrita ridipingeva i muri della prigione nazionale in una tonalità di giallo più graziosa e proclamava a gran voce la concessione di diritti già garantiti a Paesi più fortunati; ma, o di quei diritti godevano soltanto i carcerieri, oppure contenevano qualche vizio segreto che li rendeva ancora più amari dei decreti di una tirannia dichiarata ... Ogni uomo che non fosse un prepotente era uno schiavo; dal momento che si negava all’uomo un’anima e tutto ciò che ad essa si riferisse, la tortura fisica veniva considerata in sostanza un mezzo sufficiente a governare e guidare la natura umana ... Ogni tanto una cosa chiamata rivoluzione veniva a trasformare gli schiavi in prepotenti, e viceversa ... Un Paese cupo, un luogo infernale, signori, e se mai c’è una cosa di cui sono certo nella vita è che io non cambierò mai la libertà dell’esilio con quella vile parodia di patria ...».