mercoledì 7 ottobre 2020

IL DECORO David Leavitt

IL DECORO

David Leavitt

Qualche giorno dopo l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, in una lussuosa villa del Connecticut, alcuni amici newyorkesi dell’alta borghesia intellettuale si ritrovano per riprendersi da quella che considerano la più grande catastrofe politica della loro vita. Si rifugiano in campagna nella speranza di ristabilire la “bolla” in cui sono abituati a vivere. Eva Lindquist, la padrona di casa, propone una sfida. Chi di loro sarebbe disposto a chiedere a Siri come assassinare Trump?
 Nessuno a eccezione di un cinico editore, raccoglie la provocazione. Gli amici progressisti di Eva e del marito Bruce con la loro pavida reazione introducono uno dei temi portanti del romanzo: la paura di fronte a un nuovo clima politico.
 Delusa dal suo paese, dove non si sente più “a casa” e al sicuro, Eva decide di partire per Venezia, città che ha conosciuto e amato in gioventù. Lì, quasi per caso, visita un affascinante appartamento e decide di acquistarlo. Il soggiorno in quella città la aiuta a cercare un nuovo modo di immaginare il mondo.
Intorno a quello di Eva si intrecciano i destini degli altri personaggi, che prendono forma attraverso dialoghi incalzanti e ironici, nei quali si configurano possibili soluzioni a esistenze segnate dall’inquietudine. Ecco allora i tradimenti, le fughe e la menzogna a coprire tutto.
Il decoro affronta gli imprevedibili appetiti d’amore, di potere e di libertà che plasmano la vita pubblica e privata delle classi privilegiate. Un romanzo che parla del bisogno di sicurezza e dell’istinto di scoperta, del rapporto tra altruismo e autoconservazione e della natura effimera di un certo tipo di ricercatezza.
Autore tra i più stimati della scena contemporanea, in questo suo nuovo e atteso lavoro David Leavitt rinnova i fasti della letteratura americana più elegante e raffinata. Il decoro riporta all’attenzione della critica e dei lettori un vero, grande scrittore.

IL BLOG

Come stanno i progressisti che non hanno votato e che non voteranno Trump

 07/10/2020 15:22 CEST
BOOGICH VIA GETTY IMAGES

“[…] noto che tra le persone che si identificano come liberal, è frequente fingere di amare cose che non piacciono perché ci si sente in dovere di farlo”.

Come stanno, come sono stati e come – forse – staranno i progressisti che non hanno votato per Trump quattro anni fa e che non lo voteranno nemmeno (verosimilmente, ma non si può mai dire) il prossimo novembre.

Come vivono, chi sono, che fanno, come reagiscono, come si nascondono dietro alla loro libera e democratica maniera di pensare, come risultano ridicoli, come si possono facilmente osservare e prendere in giro.

Tutte queste cose le conosce alla perfezione David Leavitt, scrittore eccezionale, e le mette in scena ne Il decoro (Sem 2020, traduzione di Fabio Cremonesi e Alessandra Osti), romanzo acuto e brillante uscito in anteprima mondiale in Italia la scorsa estate, negli Usa uscirà proprio a ridosso dell’Election day del prossimo novembre.

Leavitt sceglie un gruppo di ricchi newyorchesi, tra i quaranta e cinquant’anni, colti, gente che ha frequentato i migliori college, le università meglio quotate e attraverso le loro reazioni, commenti, comportamenti, il loro negare l’evidenza, non saper guardare sotto la superficie, spiega perché Trump nel 2016 non poteva far altro che vincere. Quelli che hanno perso davvero stanno a Manhattan, che è uno dei luoghi in cui Trump prese meno voti ma è allo stesso tempo il posto dove meglio si trovano le ragioni della sconfitta.

“Quella sera il vento era particolarmente tagliente. Non appena la neve toccava il suolo, tornava a sollevarsi, come se la città fosse una di quelle sfere di vetro con la neve e qualcuno la stesse scuotendo”.

La prima scena ci dice – ed è un pezzo di bravura di Leavitt – immediatamente chi sono e come agiscono queste persone. Sono seduti in una casa accogliente, commentano i risultati elettorali, Trump ha vinto, è appena successo. Pensano di chiedere a Siri come ucciderlo, come scappare, come salvarsi. Sono indignati, spaventati, provano disprezzo verso chi ha votato il miliardario, non si spiegano come sia stato possibile. Non si accusano di niente, non si riconoscono colpe, non fanno altro che restare brillanti e tenere alto il livello della conversazione.

Cercano conforto nella loro certezza di essere nel giusto. Sono ricchi, vestono benissimo, organizzano cene perfette, con gli ospiti scelti con cura, sanno scegliere un libro come un divano. Si occupano di finanza, di editoria, di design, di cultura, conoscono i ristoranti alla moda ma sobri, sanno preparare infallibili cocktail.

Nella prima scena molte di queste cose non sono raccontate, i personaggi parlano e basta, ma il lettore riesce a inquadrarli perfettamente, come se Leavitt li avesse disegnati. Sono Eva e Bruce, marito e moglie, Jake l’arredatore di fiducia, la giornalista amica del cuore di Eva, una coppia di editor; sono perfetti, super controllati, non alzano mai la voce, eccolo il decoro, almeno eccone un aspetto. In fondo sono anche un po’ di destra, anche se non lo sanno.

“«Gin tonic» rispose lui, un drink che non avrebbe mai chiesto se ci fosse stata Eva. Con lei presente, avrebbe chiesto vino bianco”.

Eva è il personaggio perno attorno al quale gravitano tutti gli altri. Eva li ama, li controlla, li domina, Bruce e gli amici la adorano ma stanno bene attenti a non indisporla, a non dire la frase sbagliata a cena, a non contraddirla, ad accontentarla. Eva è affascinante, una vera salottiera newyorchese. Non sbaglierebbe mai la scelta di un fiore, di una tenda, di una sedia. Il giornale giusto, le riviste sul tavolino, il cibo mai troppo pesante, le colf trattate benissimo ma sconosciute, in realtà.

Esemplare il momento in cui Eva scopre che la cameriera ha votato per Trump e cerca di spiegarle che lui alzerà un muro al confine con il Messico, ma non si domanda come e perché la donna abbia votato lui e non Hillary Clinton. Eva che teme che con l’elezione di Trump si ritorni ai tempi della seconda guerra mondiale, ai rallestramenti – è di origine ebrea -, cerca una via di fuga, la trova nell’idea (che diventa presto ossessione) di acquistare una casa a Venezia.

Se hai soldi per avere domicilio a pochi metri dal Canal Grande forse puoi scamparla davvero. Gioca Leavitt, si diverte ma scava nel profondo. A un certo punto sembra che i ricchi democratici di New York abbiano perso perché somigliano, sotto alcuni aspetti, al tiranno da cui vogliono scappare.

“«Invece sì. Non sono nemmeno laureata. Ho lasciato tre università diverse.» «E allora? Nemmeno Amy Hempel è laureata.»”.

Eva va a Venezia, trova la casa, ma ci sono problemi di autorizzazioni edilizie, i costi lievitano. Bruce si oppone finché può all’acquisto. In questa fase Leavitt inserisce alcune battute che un intellettuale borghese potrebbe fare sul modo di fare le cose italiano, perciò banalizza, generalizza. Jake, l’arredatore che Eva vuole sempre con sé non riesce a decidersi sull’accettare o meno il lavoro in laguna: ha vissuto a Venezia per un po’ e ha ricordi dolorosi.

Bruce, che è talmente di Manhattan da avere quasi timore di arrivare a Brooklyn, tradisce Eva portando sempre più spesso fuori i cani con un vicino di casa che ha votato per Trump. Il male assoluto. L’uomo racconta a Bruce che le figlie non gli parlano più da quando ha dichiarato il suo voto, lo hanno “rinnegato”, i cani pare si vogliano vendicare della scelta del padrone facendo pipì sulle tende di casa, sui divani costosi. Gli amici parlano di Eva di nascosto, fanno fatica a capirla in questa fase ma la temono. Tanti sono i pezzi mirabili come quello in cui tutti gli scrittori che si chiamano Jonathan per nome – secondo il più corrosivo dei personaggi – sono st***zi.

“[…] quello st***zo di Jonathan Franzen, quello st***zo di Jonathan Lethem, e quel co****ne di Jonathan Safran Foer. Tutti questi Jonathan di ’sto c***o, sono solo una manica di se***oli”.

Ecco, Il decoro - pieno di battute efficaci degne delle migliori serie tv – è il romanzo che spiega meglio di molte cose (forse insieme a Bianco di Easton Ellis, Einaudi 2019) i motivi della vittoria di Trump e la pochezza di quelli che si definiscono democratici ma che poi sanno come ricavare vantaggi economici in ogni circostanza.

Leavitt costruisce dialoghi meravigliosi, prende in giro i suoi personaggi e le loro meschinità, fa il contrario di quello che fanno loro, va sotto la superficie liscia dei loro modi cortesi, evidenzia lo scarto dal bel modo di pensare all’agire: in fondo Eva, poi, a votare nemmeno ci è andata. Ha scritto un romanzo cattivo che vale più di un saggio accademico


IL DECORO

PARTE 1

1 «Vi andrebbe di chiedere a Siri come assassinare Trump?» domandò Eva Lindquist. Erano le quattro di un pomeriggio di novembre, il primo sabato dopo le elezioni presidenziali del 2016, Eva era seduta nella veranda della casa di campagna in Connecticut insieme al marito Bruce e ai loro ospiti Min Marable, Jake Lovett e una coppia, Aaron e Rachel Weisenstein, entrambi editori; Grady Keohane, un coreografo celibe che abitava nella stessa strada; e un’ospite di Grady, sua cugina Sandra Bleek, che aveva da poco lasciato il marito e stava da lui mentre si rimetteva in sesto. Matt Pierce, un giovane amico di Eva – giovane nel senso che aveva trentasette anni – non era lì con loro. Era in cucina a preparare una seconda teglia di scones dopo aver buttato via la prima, in cui aveva dimenticato di aggiungere il lievito. Un clemente tramonto autunnale illuminava la scena, una scena di comodità e benessere, la veranda riscaldata dalla stufa a legna, gli ospiti ben sistemati sulle poltrone e il divano di vimini bianco, con i cuscini che Jake, l’arredatore di Eva, aveva foderato in un chintz di nome “Jubilee Rose”. Sul tavolo bianco, una teiera, tazze, piattini, una coppa per la panna e un vasetto di marmellata di fragole fatta in casa aspettavano gli scones riluttanti. Eva ripeté la domanda. «A qualcuno andrebbe di chiedere a Siri come assassinare Trump?» Dapprima non rispose nessuno. «È dal giorno delle elezioni che ho una folle urgenza di chiederglielo,» disse Eva «ma ho paura che se lo faccio lei lo dirà immediatamente ai servizi segreti e mi arresteranno.» «Tesoro, non credo proprio...» disse Bruce. «Perché no?» ribatté Eva. «Possono farlo di sicuro.» «Cosa, ascoltare quello che diciamo al telefono?» chiese Sandra. «Non sto dicendo che non siano in grado di farlo,» riprese Bruce «solo che con ogni probabilità i servizi segreti hanno di meglio da fare che non monitorare le nostre conversazioni con Siri.» «Ma dico, sono l’unico qui che si ricorda del Watergate?» disse Grady Keohane. «E delle intercettazioni telefoniche?» «Possono essere intercettati anche i cellulari?» intervenne Rachel Weisenstein. «Pensavo che si potesse fare solo con le linee fisse.» «Ma in che secolo vivi?» domandò Aaron a sua moglie. «Voglio dire, forse se fossimo terroristi» spiegò Bruce. «Se fossimo una cellula dell’ISIS o qualcosa del genere. Ma un gruppo di bianchi che bevono il tè in una veranda nella contea di Litchfield? Non credo proprio.» «Se è così, fallo.» Eva gli porse il suo telefono. «Domandaglielo.» «Io però non voglio assassinare Trump» ribatté Bruce. «Vedi? Sei un coniglio» disse Min Marable. «Vile, vile, vile.» All’improvviso Aaron ebbe uno dei suoi famosi scatti. «Ma dai» esclamò. «Vi sentite o no? Voglio dire, guardate cosa vi sta succedendo. Dite sul serio? C’è o non c’è il primo emendamento in questo paese? Non abbiamo il diritto di dire quel cavolo che ci pare?» «A meno che non sia incitamento all’odio» precisò Rachel. «Me ne fotto dell’incitamento all’odio» ribatté Aaron. «Per quanto mi riguarda, io non sarei propensa a correre il rischio» riprese Min. «E tu, Jake?» «Io?» rispose Jake che non era abituato a venir interpellato in quelle occasioni. «Non è che non lo farei per paura. Insomma, non lo farei, ma non perché ho paura.» «Ma se anche tu riuscissi a ucciderlo, servirebbe a qualcosa?» domandò Sandra. «Diventerebbe presidente Pence. Potrebbe persino essere peggio.» «Non stiamo parlando di ucciderlo davvero» disse Grady. «Stiamo parlando di chiedere a Siri come farlo. C’è una grande differenza.» «Vuoi dire che è una sorta di esperimento mentale» replicò Sandra. «Oh, per l’amor di Dio» esclamò Aaron; tirò fuori il cellulare dalla tasca della giacca, premette il tasto home e scandì: «Siri come faccio a –». «No, non lo fare.» Rachel glielo strappò di mano. «Non te lo permetto.» «Chi, io?» chiese Siri. «Dammi il mio telefono» disse Aaron. «Potrebbe essere al di fuori delle mie possibilità al momento» rispose Siri. «Soltanto se prometti di non farlo» insistette Rachel. «Rachel, te lo sto chiedendo con gentilezza» riprese Aaron. «Ridammi il telefono.» «No.» In quel momento Matt Pierce arrivò nella veranda con gli scones. «Scusate il ritardo» disse. «Il servizio riprende regolarmente... che succede?» «Conto fino a dieci» disse Aaron a Rachel. «Uno, due, tre...» «Ecco, prenditelo» esclamò Rachel. «Riprenditi questo dannato aggeggio.» Gli lanciò il telefono e corse in casa. Tutti guardarono Aaron. «Be’?» disse lui. «Non hanno un profumo delizioso questi scones?» chiese Eva. «Ma ho paura che il tè sia diventato troppo forte.» «Lo rifaccio» si offrì Matt, rientrando dalla porta che conduceva in cucina. 2 Nell’inverno del 2016, Eva Lindquist aveva cinquantasei anni, ma dimostrava dieci anni meno. Sebbene fosse alta, non dava l’impressione di esserlo, forse perché Bruce, suo marito, la sorpassava di parecchio, essendo quasi un metro e novantotto. A causa del suo cognome, molte persone pensavano che fosse di origini scandinave, impressione che lei faceva poco per smentire e molto per coltivare, soprattutto con quelle trecce avvolte intorno alla testa. Lei e Bruce non avevano figli. Condividevano invece le loro case – l’appartamento su Park Avenue e la casa di campagna in Connecticut – con tre terrier Bedlington, quei cani che assomigliano ad agnelli o a foche, con un mantello biancoazzurro che sembra di piume, la schiena curva e la coda lunga e affusolata. Quelli che avevano in quel momento erano la seconda generazione, tutti della stessa cucciolata come i loro predecessori, e come loro chiamati con i nomi di personaggi di Henry James: Caspar, Isabel e Ralph. A differenza di Bruce, Eva era nata e cresciuta a New York. I suoi genitori, cosa che lei non pubblicizzava né celava, erano ebrei polacchi. Kalmann. Eva Kalmann. Bruce veniva dal Wisconsin. Era luterano. Per quattro decenni suo padre era stato il principale ostetrico di Oshkosh, e in quella funzione aveva aiutato a venire al mondo due senatori dello stato, un attaccante della National Football League, e un cantante del Lawrence Welk Show. Bruce stava per compiere ventiquattro anni e frequentava il terzo anno alla Harvard Business School quando aveva incontrato Eva, allora all’ultimo anno alla Smith. Nelle foto del loro matrimonio non si somigliavano affatto, il che sorprendeva i loro amici, che ripetevano sempre che avrebbero potuto essere fratello e sorella. Avevano entrambi la pelle chiara che si bruciava prima di abbronzarsi, i capelli dello stesso biancoazzurro del mantello dei loro cani, e occhi che esprimevano un’incertezza più grande di quella a cui entrambi erano soliti dare voce. «È straordinario come le coppie finiscano per somigliarsi» dicevano i loro amici, ma in realtà intendevano: «È straordinario come lui abbia finito per somigliarle». Jake Lovett li aveva conosciuti alla fine degli anni Ottanta, quando si erano appena trasferiti in un nuovo appartamento, qualche isolato più su di quello in cui vivevano nel 2016, ed Eva aveva chiesto al socio di Jake, Pablo Bach, di arredarlo. Dal momento che Pablo considerava le case in affitto non alla sua altezza, aveva passato quel lavoro a Jake, facendo la sua fortuna, come si capì in seguito, perché quando l’edificio si trasformò in un condominio ed Eva e Bruce comprarono un appartamento più grande a un piano più alto, chiamarono lui, e non Pablo, a occuparsi della ristrutturazione. Da allora avevano traslocato altre due volte, vendendo sempre con profitto. Quegli appartamenti erano stati tutti arredati da Jake, proprio come aveva arredato la serie di case di campagna – a Rhinebeck, a Bedford, nella contea di Litchfield – che i Lindquist avevano comprato e rivenduto man mano che il reddito di Bruce aumentava. Il loro ambiente era familiare a Jake – ricchi liberal di New York, non di vecchia famiglia ma neppure degli arricchiti, e di certo ben lontani dall’aristocrazia della città come i Whitney, i Vanderbilt e gli Astor, nei cui salotti dominava Pablo. Con qualche notevole eccezione, quella gente non si dava un tono intellettuale – non ne aveva bisogno – mentre Eva amava considerarsi un’animatrice di salotti, e come tale organizzava frequenti cene, tè e fine settimana ai quali invitava un’accozzaglia di uomini gay, donne sole di mezza età, coppie sposate che avevano vagamente a che fare con l’arte – editori, curatori, agenti – e di tanto in tanto qualche anziana signora sulla quale, quando era ubriaca, si poteva contare per racconti audaci su gente famosa ormai defunta. Non c’erano artisti veri e propri. Gli artisti la spaventavano. A meno che Jake non venisse considerato uno di loro, cosa che peraltro lui riteneva improbabile da parte di Eva. Quanto a Bruce, se aveva degli amici – Jake non ne aveva mai vista traccia – non erano inclusi. Bruce era una persona accomodante, gli bastava accodarsi a Eva. Dall’esterno le cose sembravano procedere senza scossoni per loro due, fino a che lei decise di comprare la casa a Venezia. «Ovviamente non è la prima catastrofe politica che attraversiamo» disse Rachel. «Potrebbe addirittura non essere la peggiore che abbiamo vissuto.» «Ti sbagli» replicò Eva. «Non c’è stato niente di peggio durante la nostra vita.» «Non fraintendermi, non sto dicendo che non sia pessima» precisò Rachel. «Sto solo dicendo... voglio dire, non ci scordiamo del Vietnam. Non dimentichiamo il Watergate, l’aids.» «O il 2000» rincarò Bruce. «Vi ricordate del pasticcio con il conteggio dei voti in Florida? Le schede elettorali incomprensibili per gli elettori e quelle che le macchine non riuscivano a contare?» «C’erano state anche quelle che forse venivano contate e forse no» aggiunse Aaron. «Decisamente quello non era un buon anno per chiamarsi Chad1» disse Grady, battuta che provocò qualche risata esitante da parte di tutti tranne Eva, che ne approfittò per versarsi un altro bicchiere di pinot noir. Erano le otto di sera del sabato che gli amici raccolti intorno alla sua tavola a mangiare pollo disossato e rape troppo cotte avrebbero ricordato da allora in poi come “il sabato degli scones malriusciti”. «Se adesso ripenso alle elezioni del 2000, mi sembrano la prova generale di queste» continuò Eva. «E sapete – ho controllato su internet – quando è stata l’ultima volta in cui ha vinto il candidato che pure in termini assoluti aveva ottenuto meno voti?» «Milleottocentottantotto» disse Aaron. «Harrison contro Cleveland. E comunque Harrison era il repubblicano.» «Ecco, infatti» replicò Eva, in un tono da cui si capì che non amava lasciare ad Aaron l’ultima battuta. «Quello che non capisco è perché ancora oggi abbiamo il sistema del collegio dei grandi elettori. Perché non è stato eliminato dopo il caso di Bush contro Gore? Dopo di loro doveva essere cancellato.» «E se le cose fossero andate diversamente?» domandò Bruce. «La penseresti allo stesso modo se fosse stata Hillary a vincere le elezioni pur avendo perso nel voto popolare?» «Non sarebbe potuto succedere» rispose Aaron. «Per avere abbastanza grandi elettori avrebbe dovuto vincere in Ohio o in Florida, e in quel caso avrebbe comunque vinto nel voto popolare, soltanto con un margine più ampio.» «Non hai colto il punto di Bruce» precisò Rachel. «La sua è una domanda ipotetica.» «E la mia risposta» proseguì Eva «è che, con lo scenario opposto, difenderei il sistema dei grandi elettori fino alla morte. E così fareste tutti voi, anche se dubito che lo ammettereste. Questa è la differenza fra noi – io sono disposta a essere incoerente. Sono disposta a dire apertamente che proteggere la democrazia è più importante che non proteggere un sistema.» «Ma io pensavo che la democrazia fosse il sistema» disse Sandra Bleek. «Non quando viene usata a vantaggio delle persone che vogliono depotenziarla.» «Però si potrebbe dire che, quando abbracci quel punto di vista, diventi uno di loro» disse Bruce. «Non mi importa» replicò Eva. «Non me ne importa più. E sai perché? Perché so di avere ragione. La separazione dei poteri, controlli ed equilibri, governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo: ormai niente di tutto questo ha più importanza, perché quello che ci troviamo davanti adesso è un demonio, e quando hai di fronte un demonio, fai quello che devi fare.» «Anche uccidere?» domandò Sandra. «O domandare a Siri il modo di ucciderlo?» rincarò Grady. «Be’, noi abbiamo ammazzato Bin Laden» riprese Eva. «Non ricordo che qualcuno abbia mosso obiezioni. E non ci scordiamo di Hitler. Tutta la gente che ha provato ad assassinarlo: oggi li consideriamo eroi.» «Quando mia madre stava morendo, scherzava su come organizzare una squadra di malati terminali per fare fuori Reagan» aggiunse Jake. «Oh, ma Reagan era carino» disse Sandra. «Non lo era affatto» replicò Grady. «Vi siete accorti che ultimamente, ogni volta che accendi la tv, c’è qualche vecchio liberal che blatera su quanto era grande Reagan come diplomatico, su quanto fossero civili quegli anni, bla bla bla. Mi fa infuriare. Voglio dire, ma nessuno si ricorda dell’aids? Lui nemmeno la pronunciava quella parola.» «Ovunque sia mia madre,» Jake guardò in alto, poi in basso «la sento che urla: “Bravo!”.» «Non capisco come facciate a scherzarci» disse Eva. «Non avete visto i risultati in tv, martedì sera? Io ho sempre tenuto gli occhi fissi su Rachel Maddow, fin dall’inizio. Quando in aereo c’è turbolenza, nessuno di voi ha mai provato quella cosa di guardare la faccia della hostess per vedere se ha paura? Per capire se l’aereo sta per cadere? Ecco, quella sera lei aveva l’espressione che non vorreste mai vedere.» «Ma se non hai mai avuto un incidente aereo, come fai a riconoscere quell’espressione?» domandò Bruce. «Fidati, quando la vedi non ti puoi sbagliare. Io vorrei non averla mai vista.» Dopo cena – Eva e Bruce erano andati a letto presto, mentre gli altri erano rimasti in salotto – Sandra disse: «Nessuno di voi ha mai pensato che Eva sia un tantino fascista?». «Cosa vuoi dire?» chiese Min. «Come puoi pensare una cosa del genere di lei?» «Oh, non intendo nel senso politico della parola» spiegò Sandra. «Dico nel senso che crede di sapere cosa è meglio per gli altri più dei diretti interessati.» «Seguendo questa definizione siamo tutti fascisti» disse Aaron, che stava leggendo “The London Review of Books”. «No, non lo siamo» disse Rachel. «Negli stati fascisti la voce del popolo non conta nulla. Qui invece è la cosa più importante, anche se questo significa che di tanto in tanto abbiamo dei leader che non condividono i nostri valori. Che la maggioranza governi è un principio, e dobbiamo difenderlo anche quando il risultato non ci piace.» «Sembri la mia maestra di quinta elementare» ribatté Aaron. «Nel 1978, facevi la quinta elementare» osservò Rachel. «Però in questo caso non ha vinto la maggioranza» disse Min. «Se fosse stato così, sarebbe stata eletta Hillary. È questo il punto di vista di Eva.» «Ed è miope.» Aaron posò la rivista e si schiarì la gola a indicare che una concione era imminente. «Eva confonde due questioni: se in questo paese è la maggioranza che decide, e se il sistema dei grandi elettori, nell’anno del Signore 2016, si possa considerare uno strumento valido per rilevare l’opinione della maggioranza. E molti esperti sosterrebbero che la risposta è sì. Il numero di elettori garantiti per ogni stato è determinato dal censimento. D’altra parte, quando i padri fondatori scrivevano la costituzione, dubito che pensassero a prendere provvedimenti per quando la popolazione della California, che al tempo non era nemmeno uno stato, avrebbe superato quella di New York e dell’intero New England messi insieme.» «No, erano troppo occupati a prendere provvedimenti per proteggere gli stati schiavisti» disse Rachel. «Cosa? Che c’entrano gli stati schiavisti?» chiese Sandra. «Ai tempi della convenzione di Filadelfia, quando è stato concepito il sistema dei grandi elettori,» proseguì Aaron «i padri fondatori stabilirono il principio che il numero di elettori di ogni stato doveva dipendere dal numero degli abitanti, non dalla ricchezza. Solo che questo mise il sud in una condizione di svantaggio, perché lì buona parte della popolazione era costituita da schiavi, che contavano come beni, non come persone. Alla fine raggiunsero un compromesso: uno schiavo avrebbe contato come tre quinti di una persona.» «Senza quel compromesso – come unica sudista in questa stanza, mi sento in dovere di sottolinearlo – Jefferson non sarebbe mai stato eletto presidente» disse Min. «Niente di tutto ciò, dice il collegio difensivo, dovrebbe essere usato come argomento a sfavore del sistema dei grandi elettori» riprese Aaron. «Dal punto di vista della difesa, quando venne istituito era un mezzo per correggere uno squilibrio.» «In modo ingiusto» aggiunse Rachel. «A quei tempi, sì. Adesso ne corregge – in modo equo – un altro. Almeno così sostengono i suoi difensori.» «Stai diventando troppo complesso per me» disse Grady. «È sempre così» intervenne Rachel. «L’unico motivo per il quale ne sa qualcosa è che l’anno scorso ha pubblicato un libro sulla storia del collegio dei grandi elettori.» «Un libro, vorrei aggiungere, di un certo successo» aggiunse Aaron. «Perfetto,» riprese Grady «ma cosa c’entra con quello che ha detto Eva, e cioè che secondo lei tenere Trump lontano dalla Casa Bianca è più importante che salvaguardare il principio di libere elezioni?» «Intendevo proprio questo quando ho chiesto se non fosse un pochino fascista» disse Sandra. «Eva non è fascista» disse Min con enfasi. «Chi la conosce non lo direbbe mai di lei, vero, Jake?» «Be’, io no» rispose Jake, più che altro sorpreso di scoprire che Min lo considerasse uno che conosceva bene Eva. «Voglio dire, i suoi genitori erano dei rifugiati polacchi» proseguì Min. «Sono venuti in questo paese per scappare dal fascismo, santo Dio.» «Eva non parla mai dei suoi genitori» disse Grady. «Sono ancora vivi?» «Vivi e vegeti, e abitano ancora nell’appartamento sulla West 89th Street dove lei è cresciuta.» «A mezzo miglio in linea d’aria da dove vive lei» precisò Aaron. «Anche se di questi tempi non è che li vada a trovare molto spesso» disse Jake. «A rischio di essere accusata ancora una volta di sembrare la maestra di quinta elementare di Aaron,» riprese Rachel «devo dire che mi mette a disagio parlare di Eva in questo modo mentre siamo ospiti a casa sua.» «È colpa mia» disse Sandra. «Non avrei mai dovuto dire quello che ho detto. Era una battuta, ma come può testimoniare Grady sono nata priva di senso dell’umorismo.» «È vero» confermò Grady. «Da bambini ci approfittavamo crudelmente di quella mancanza.» «Qualche volta mi chiedo se Eva ne abbia, di senso dell’umorismo» disse Aaron. «Ma perché siete tutti così critici nei suoi confronti?» domandò Rachel. «Voglio dire, è evidente che sta soffrendo. Non avete sentito cosa ha detto di Rachel Maddow?» «Io sì» disse Jake. «Pontificare sul collegio dei grandi elettori è soltanto un modo per evitare di affrontare le vostre paure. Tipicamente maschile. Almeno Eva è aperta riguardo alle sue.» «Rachel sostiene che, lasciati liberi di scegliere, noi uomini finiremo sempre per perderci nei dettagli pur di non affrontare le nostre paure» disse Aaron. «È una battuta?» chiese Sandra. «La battuta fa parte dello sfuggire alle proprie paure» disse Rachel. «Forse stiamo solo lasciando che Eva tiri fuori l’isteria al posto nostro» disse Jake. «Parla per te» lo corresse Grady. «Per quanto mi riguarda, sono abbastanza isterico per conto mio, però invece di parlarne, ho deciso di negare. Ho smesso di guardare le notizie, di leggere il giornale.» «Nemmeno io riesco a guardare le notizie» disse Sandra. «Perché?» domandò Aaron. «Cos’è che vi spaventa tanto da dover chiudere gli occhi? Io mi riprometto di leggere ogni articolo, guardare ogni programma, leggere ogni approfondimento.» «Se non ti dispiace, io credo che aspetterò fino a quando sarà tutto finito per leggere di questa faccenda» ribatté Grady. «Ma è proprio questo il punto» disse Sandra. «Come possiamo presumere che finirà mai? Nessuno può prevedere il futuro. Voglio dire, se tu mi avessi detto un anno fa che sarebbe stato eletto, non ci avrei creduto.» «Io non ci avrei creduto nemmeno se me lo avessi detto una settimana fa» rincarò Rachel. «Ci ha colti alla sprovvista» disse Min. «Ma è stato davvero così?» disse Aaron. «Voglio dire, alla sprovvista è l’espressione giusta? Lo chiedo soltanto perché la gente ultimamente la usa moltissimo, e a sproposito, mi pare.» «È quello che provano» replicò Rachel. «Benissimo, ma per essere colti alla sprovvista, davvero alla sprovvista, bisogna che ti arrivi addosso un fulmine a ciel sereno, giusto? E in questo caso, avremmo dovuto credere nel profondo del nostro cuore che la vittoria di Hillary fosse assicurata, cosa che ovviamente non credevamo, altrimenti non saremmo stati così nervosi.» «Ripensandoci, secondo me ce lo aspettavamo, ma abbiamo cercato di convincerci che non era così. Dunque sì, è stato uno shock, ma non uno shock che ci ha colti alla sprovvista. È stato più come quando il dermatologo ti dice che quel neo che hai fatto di tutto per convincerti che sia innocuo, in realtà è un melanoma.» «Dovevi proprio usare questa analogia?» domandò Grady toccandosi il collo. «Non mi pare che faccia molta differenza» disse Jake. «Non eravamo nella posizione di poter determinare quello che stava succedendo, ma soltanto di subirlo.» «E di soffrirne» disse Rachel. «Ma è tutto così assurdo» riprese Aaron. «Voglio dire, quello che sta capitando sembra una commedia dell’assurdo. Naturalmente tu non riesci a cogliere quell’aspetto, Sandra, perché per tua stessa ammissione non hai senso dell’umorismo. Ma voi altri...» «È chiaro che noialtri non siamo evoluti quanto te, Aaron» ribatté Rachel. «Oppure siamo troppo sconvolti per apprezzare quella commedia» disse Grady. «Oh, dai» disse Aaron. «Quella storia del prendile-per-la-passera? O la conferenza stampa con il presidente messicano? Esilarante. Se fosse stato dei Monty Python saremmo crepati dalle risate.» «Ma non lo è.» «Fare finta che lo sia... è soltanto un altro modo per negarlo» disse Grady. «Fa lo stesso» rispose Aaron. «Sto solo dicendo che ognuno di noi può scegliere. Possiamo passare i prossimi quattro anni rodendoci il fegato oppure possiamo passarli crepando dalle risate.» «Non tutti possiamo scegliere» osservò Sandra. «Eva no di certo» aggiunse Jake. «No, probabilmente no» concordò Aaron. «Immagino che per Eva ci sia un’unica possibilità.» 3 È stato quando ha bussato alla porta, avrebbe detto Eva a Bruce in seguito. Il suono del campanello. Il suo starsene lì sulla soglia, con il cardigan di cachemire e la cravatta a farfalla, strigliato e rosa come un maiale dei cartoni animati. I cani gli erano subito corsi incontro. Quando si era chinato gli avevano leccato il viso. «Probabilmente è stato quello a disturbarmi più di tutto» disse Eva. «Era come se stesse cercando di prendersi anche i miei cani.» Inutile dire che lei non gli aveva chiesto di entrare. E perché mai avrebbe dovuto? Per diciotto anni erano stati vicini di casa, e in diciotto anni nessuno dei due aveva messo piede nell’appartamento dell’altro. Così lei era rimasta ad ascoltarlo dall’altra parte della soglia. La festa sarebbe stata la sera dell’insediamento, tuttavia non doveva essere una festa per l’insediamento in senso stretto. Ovvero, lui e Kitty l’avrebbero organizzata anche se “il loro uomo” non avesse vinto. Più esattamente, anche se era vero che quasi tutti gli ospiti avrebbero condiviso la gioia per il cambiamento che stava per sconvolgere Washington – e il cambiamento non era di per sé una cosa salutare? – non era quella la ragione per cui lui e Kitty li avevano invitati. E non sarebbero stati neppure tutti della stessa parte politica. Ci sarebbero stati dei democratici. Persino dei sostenitori accaniti di Hillary. Se lei e Bruce avessero deciso di andare, avrebbero trovato dei compagni di viaggio. «Ma immagino che non verrete» aggiunse lui, in tono quasi mesto. Poi, dato che Eva non rispondeva: «In ogni caso, te lo assicuro, il rumore sarà contenuto. Non ve ne accorgerete neppure». «Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso» disse Eva a Bruce quella sera mentre si preparavano per andare a letto. «Voglio dire, già è brutto che diano una festa, ma venire a casa mia e sbattermelo in faccia...» «Forse voleva solo essere amichevole» replicò Bruce. «Il vincitore si può sempre permettere di essere amichevole con il perdente» disse Eva. «Voglio dire, ma se avessero perso loro, tu lo saresti stata con lui?» «Non lo so. Se devo essere onesta, probabilmente no.» «Perché no?» «Perché, a prescindere dal risultato, resta il fatto che lui abbia votato per... non voglio nemmeno pronunciare il suo nome.» «Be’, sì, lui è repubblicano. È naturale che lo abbia votato. Questo però non significa che sia andato a tutte quelle manifestazioni a gridare: “Mettetela dentro”.» «Come fai a saperlo, che non c’è stato?» «Alec Warriner a una manifestazione? Non ce lo vedo proprio. Secondo me se tu glielo chiedessi, scopriresti che la ragione principale per cui ha votato Tr...» «Non pronunciare quel nome. Esigo che non venga pronunciato in casa mia.» «Scusa. Secondo me se glielo chiedessi scopriresti che non ha votato per Tr... per colui-che-non-si-può-nominare perché gli piace, ma perché crede che porterà la tassa per le imprese sotto il 21%.» «Secondo me ti sbagli» replicò Eva. «Credo che l’abbia fatto perché odia profondamente lei. È questa la cosa che non riesco a concepire: perché la gente la odia tanto. Sarà perché io sono andata alla Smith e lei alla Wellesley, ma quando la attaccano, è come se attaccassero me.» «Chissà. Forse l’odio è cieco. Come l’amore.» «Non metterla sul filosofico. Sembri superficiale e basta. E poi non è vero. L’odio non è cieco. Ci vede benissimo. E in questo caso quello che vede è che lei è una donna.» «Be’, ma anche Marine Le Pen lo è. E lo stesso vale per Ann Coulter, Laura Ingraham, e... dai, come si chiama, la giudice che conduceva quella trasmissione. Jeanine Pirro.» «Oh, Dio, quella. Non me ne parlare.» Si misero a letto. Mentre Bruce spegneva la luce, gli venne in mente che per tutti gli anni del loro matrimonio lui aveva sempre dormito a sinistra ed Eva a destra. Come fossero arrivati a quella sistemazione, lui non riusciva a ricordarlo. Sapeva solo che ormai per lui era come una seconda natura, tanto che persino quando Eva era fuori città e lui aveva il letto tutto per sé, dormiva a sinistra. Anche quando viaggiava per lavoro e dormiva in un hotel, dormiva a sinistra. L’idea della luce per leggere... il comodino, alla sua destra, non riusciva nemmeno a immaginarlo. Si sentì un fruscio nel buio – erano i cani che arrivavano, saltavano sul letto e si sistemavano fra le sue gambe e quelle di Eva. Chiuse gli occhi. Sentì che Eva si girava. La sentì aprire il cassetto del comodino, tirare fuori il flaconcino dello Stilnox, aprirlo e scuoterlo per farne cadere una pasticca sul palmo della mano. L’aveva preso anche la sera delle elezioni, ma non le aveva impedito di svegliarsi alle due e mezzo per un rumore che subito aveva identificato come festeggiamenti. Per quindici secondi, forse, era stata invasa da una deliziosa sensazione di sollievo – Hillary aveva vinto! – prima di capire da dove venivano i festeggiamenti. La mattina, come al solito, Bruce si alzò alle sei. Fece la doccia, si vestì, diede da mangiare ai cani e li portò fuori; stava per andare al lavoro, quando arrivò Amalia, la loro cameriera. Al mattino Bruce non vedeva Eva, che era abituata a dormire fino alle otto, otto e mezzo. Come quasi tutte le mattine dei giorni feriali negli ultimi quindici anni, Bruce e Amalia si salutarono con un cenno. Nove ore dopo, quando tornò a casa, Eva lo stava aspettando. Aveva il viso congestionato e si stava girando gli anelli alle dita, uno dopo l’altro. «Ho deciso» disse. «Non posso restare qui per questa festa per l’insediamento. Soltanto a pensarci, a questi idioti tutti contenti qui accanto – proprio qui! – che gongolano per la loro vittoria, che me la sbattono in faccia, come hanno fatto la notte delle elezioni...» «Be’, ma Eva, non credo proprio che la festa la facciano per farti dispetto.» «Invece sì. Lo so. Lo so perché se avessimo vinto noi avrei fatto la stessa cosa... Comunque, mi rifiuto di dare loro la soddisfazione di starmene qui a sopportare. È troppo. Devo andare via.» «Vuoi che andiamo in campagna?» Lei scosse la testa. «La campagna non è abbastanza lontano. È dal paese, da questo paese, che me ne devo andare. Ci ho pensato tutto il giorno, dov’è un posto al mondo in cui non sentirò nemmeno l’eco di quei festeggiamenti? E l’ho trovato. Venezia.» «Venezia?» Lei annuì con enfasi. «L’ho sempre amata, dalla prima volta in cui ci sono andata, quando ero all’università.» «Ma è gennaio.» «Appunto. Perfetto. Sarà praticamente vuota, come lo era nel mio semestre all’estero. Il vento, l’acqua altaa, il silenzio assoluto la notte... Che ne pensi? Ho guardato i voli. Potremmo partire giovedì ed essere là prima che quello spettacolo horror cominci.» «Ma è la prossima settimana. Non posso andare via con così poco preavviso.» «No? Allora chiederò a Min. Lei acconsentirà. Acconsente sempre.» E in effetti acconsentì. Partirono la sera del 19 e arrivarono all’hotel in taxi alle undici di mattina ora locale, sei ore indietro rispetto a New York, a Washington, al circo del giorno dell’insediamento. Dal momento in cui sbarcarono, Eva respirò con più facilità. Sentì di essere ritornata nel mondo civile. Alloggiavano a un hotel a quattro stelle a Dorsoduro. Per cinque giorni non lessero il giornale. Non accesero la tv. Ogni mattina visitavano i musei o i luoghi sacri: l’Accademia, i Frari, la Scuola di San Giorgio degli Schiavoni con gli affreschi di san Giorgio che colpisce il drago e lo consegna, ancora vivo, ai Mamelucchi. «È come se tenesse quel poveretto al guinzaglio» disse Eva, non vedendo, o non volendo vedere, la spada che il santo brandiva per assestargli il colpo finale. «Secondo me il drago ha un’aria dolce. Come un cane.» Gli affreschi della scuola raffiguravano anche dei cani. «Qual è il tuo preferito?» domandò Eva. A Min piaceva il terrier bianco malmesso che guardava sant’Agostino mentre san Gerolamo gli stava annunciando la propria fine imminente. «Scelta obbligata, anche se io preferisco quello che sembra un po’ un levriero che lo guarda mentre battezza i seleniti.» Nel pomeriggio facevano acquisti, o sedevano nei caffè, dove Eva leggeva Jan Morris e Min fingeva di mandare messaggi, ma in realtà giocava a Candy Crush. Ogni giorno passava più in fretta del precedente, poi il sesto giorno Ursula Brandolin-Foote le invitò per un tè nel suo palazzo vicino a Campo della Maddalena. Aaron Weisenstein, che aveva pubblicato alcune sue traduzioni dal serbo-croato, le aveva detto che Eva e Min erano a Venezia, e lei le aveva rintracciate. Ursula era una donna imponente di una settantina d’anni, con una massa di capelli tinti di varie sfumature di grigio, e una passione per i caffettani variopinti, che mettevano in risalto i suoi seni alti e le gambe lunghe. Sebbene fosse proprietaria di quasi la metà di Ca’ Brandolin, come spiegò a Eva e Min, ne occupava soltanto una parte al piano nobileb, e affittava il resto per brevi periodi ad accademici di passaggio. Ogni tanto affittava anche il proprio appartamento a studi cinematografici per film in costume e serie televisive. «Ha questo tono seppia» disse mentre con uno svolazzo dell’ampia manica indicava l’ampio divano ricoperto di velluto Fortuny sbiadito, le tende di seta pesante, le librerie piene di tascabili sdruciti, il cassettone bombato, e il canestro accanto al camino da cui spuntavano vecchi numeri di “La Cucina Italiana”. Dei tappeti erano stesi sul pavimento in terrazzo alla veneziana, che a sua volta simulava dei tappeti sparsi su un pavimento. Sul soffitto, lo stucco blu e rosa incorniciava il trompe-l’oeil di un cielo a cui il tempo e il fumo avevano prestato la stessa tinta giallastra del cielo là fuori al tramonto. «Tutto questo era già in situ quando ho ereditato questo posto» proseguì Ursula. «Una mezza benedizione, dal momento che ho soltanto questa proprietà. Niente denaro. Sono povera in canna.» Rise, e la sua risata era inaspettatamente acuta, quasi gracchiante. «Quando l’hai avuto?» chiese Eva. «Oh, vediamo, deve essere stato nel 1986 o nel 1987, quando la zia Carlotta è passata a miglior vita – aveva novantatré anni, sai, per Venezia era giovane, i dogi vivevano tutti fino a centodieci – quindi mi pare... 1989? Ah, ecco Elisabetta con il nostro tè. Quando sono venuta qui, anche Elisabetta era già in situ, vero, Elisabetta?» «Sì, signora.» «Capisce l’inglese, ma non lo parla. Quanti anni hai, Elisabetta?» «In ottobre ne ho compiuti novantacinquec» rispose lei. «Vedete cosa intendo quando dico che i veneziani sono longevi? Sul tavolod, Elisabetta. Sedetevi, signore, sedetevi.» Eva e Min si accomodarono sul divano, Ursula su una chaise longue beige di vinile, che chissà come non stonava. Con il tè, Elisabetta aveva portato un piatto di tartine con un pâté di pesce che emanava un odore sospetto. «Dunque è la prima volta che venite a Venezia?» domandò Ursula, prendendo una sigaretta elettronica viola. «Oh, no» risposero Eva e Min nello stesso istante. «Sono stata qui almeno...» «È la quarta...» «Prima tu.» «No, tu.» Ursula aspirò una boccata dalla sigaretta. «È la quarta volta che vengo a Venezia» disse Eva, tenendo a freno l’impazienza. «Eva è un’autorità su Venezia» disse Min toccandole il ginocchio. «No, non lo sono.» «Sì, lo sei» insistette Min. «Sta scrivendo la biografia di Isabella Stewart Gardner.» «No, non lo sono» insistette Eva. «Oh, che bella idea!» disse Ursula. «Mi ero sempre chiesta perché non l’avesse ancora fatto nessuno.» «In realtà qualcuno ne ha già scritta una» puntualizzò Eva. «Ma non è un granché» replicò Min. «Domani andiamo a Palazzo Barbaro.» «La nostra amata Ca’ Barbaro!» aggiunse Ursula. «È stata una gran tristezza quando i Curtis hanno dovuto vendere il piano nobilee. Qui è sempre la stessa storia, gli eredi delle vecchie case si impoveriscono per mantenerle.» «Ho sentito che in famiglia hanno bisticciato» disse Eva. «A Venezia il bisticcio è una tradizione. Le nostre leggi, vedi, sono basate sul codice napoleonico, il che significa che quando il proprietario di un edificio storico muore, questo deve essere diviso equamente fra i suoi eredi. Bene, nel caso di Ca’ Barbaro, c’erano tre figli, e semplicemente non sono riusciti a trovare il modo di dividerla. Che è un peccato, perché se l’avessero trovato non avrebbero dovuto vendere. Quando ho ereditato io, è stato più facile. C’eravamo soltanto io e lo zio Ernesto. Poi però quando lui è morto, la sua metà è stata divisa fra i suoi figli, tre da due matrimoni diversi. Da allora ho perso traccia di cosa appartenga a chi.» «Perdonami la domanda,» disse Min «ma parli così bene in inglese! Dove l’hai imparato?» «A letto! E dove sennò?» E di nuovo Ursula fece la sua risata allarmante. «No, a parte gli scherzi, di fatto sono americana. In un’altra vita sono stata sposata per trent’anni con uno studioso di letteratura afro-americana – ahimè, era bianco – un’autorità sulla Harlem Renaissance. Prima del divorzio, Norman e io vivevamo a Urbana. Avevamo adottato due ragazzi neri del South Side di Chicago. Uno di loro adesso è in California. Lavora per Google. L’altro è un pianista jazz e di base sta a Berlino.» Bevve un sorso puramente nominale di tè. «Ovviamente il mio passaporto americano è sempre valido. Prima se eri americana e passavi più di sei mesi l’anno all’estero, potevi riuscire a non pagare tasse in nessuno dei due paesi. Quell’età dell’oro è, ahimè, terminata.» «Quindi puoi votare alle elezioni americane?» «Posso e lo faccio, e che orrore queste ultime! Dopo mi sono dovuta mettere a letto. Stavo male dal disgusto. Il presidente Caligola, lo chiamo.» «Ah, questa è buona!» esclamò Min. «Eva non pronuncia neppure il suo nome, sai?» «È vero» disse Eva. «Detesto dirlo, ma da quando sono arrivata a Venezia, mi vergogno di essere americana. Non mi era mai successo prima. Ieri al Florian, per esempio, quando è arrivato il cameriere per le ordinazioni, non so bene cosa mi è preso, ma ho dovuto usare un finto accento francese.» «Un ottimo finto accento francese» precisò Min. «Vedi, avevo questa sensazione, che se lui avesse capito che eravamo americane ci avrebbe sputato nel caffè» riprese Eva. «Eppure sono contenta di essere qui e non là. Tremo all’idea di tornare a casa.» «E perché allora non ti fermi?» disse Ursula. «Sto per mettere in vendita il mio appartamento. Potresti comprarlo. E senza agenzie immobiliari, risparmieremmo sulla commissione.» «Comprare un appartamento?» disse Eva, con lo stesso tono che usava quando meditava sull’acquisto di un paio di scarpe di Manolo Blahnik. «Diamogli un’occhiata,» disse Min «sarà divertente.» Ursula le portò a visitarlo. C’erano cinque stanze, tutte con complesse dorazioni a stucco sulle pareti e sul soffitto. Ognuno dei caminetti era scolpito in un tipo diverso di marmo. Da un lato c’era la vista sul Canal Grande, dall’altro sul giardino di Ursula, che era profumato, incolto e disseminato di sedie e tavoli in ferro battuto riccamente ornati. «Questa casa ha un po’ di storia» disse. «Per esempio, si crede che Byron vi abbia scritto Beppo, anche se ovviamente lo si dice di varie altre case veneziane. C’è anche nato un doge. Non mi ricordo quale.» «Il giardino è bellissimo» disse Min. «Vero?» replicò Ursula. «Non credo che potrei sopportare di separarmene, anche se ovviamente devo accettare la brutale realtà. La mia situazione non è molto diversa da quella dei Curtis. Il costo per la manutenzione è alto, e le tasse italiane sono esorbitanti.» Conclusero il giro con la cucina, brutta come soltanto le cucine degli anni Ottanta possono esserlo, e con l’unico bagno, che era sul lato opposto dell’appartamento rispetto alle camere. «Ma se la vendi, dove andrai a vivere?» domandò Eva. «Oh, userei un po’ dei soldi per risistemare la soffitta. Un bagnetto minuscolo, un angolo cotturaf. Mi basta e avanza. Come potete immaginare mi si spezza il cuore a lasciare il mio adorabile appartamento, ma ovviamente se lo comprassi tu sarebbe un gran sollievo. Saprei che è in buone mani.» Con una delicatezza aristocratica, Ursula si allontanò per lasciare Eva e Min a conferire. «Devi assolutamente prenderlo» disse Min. «Pensa cosa potresti farne.» Era il ruolo di Min, quello di incoraggiare Eva a fare i passi avventurosi che avrebbe fatto lei stessa, se solo avesse avuto i soldi. «Dici?» «Un’occasione come questa...» «Bisognerà farci un sacco di lavori.» «Ci può pensare Jake. Per lui sarà un sogno.» «Prima devo parlarne con Bruce.» «Sai perfettamente che se ti fa felice, fa felice anche lui.» «Ho un tale desiderio di fuga.» «Te lo meriti. Se qualcuno se lo merita, quella sei tu.» Eva si avvicinò alla finestra. Mentre guardava fuori, sul suo volto spuntò un accenno di sorriso. Due giorni dopo essere tornata a New York, invitò Jake a cena. a In italiano nel testo. b In italiano nel testo. c In italiano nel testo. d In italiano nel testo. e In italiano nel testo. f In italiano nel testo. 4 Quella stessa settimana, la prima del febbraio 2017, Jake compì cinquantadue anni. Alla festa organizzata in ufficio dai colleghi – Connie Bolen, la contabile, i cinque assistenti, Tim, Jen, Henry, Soledad, Imogen, e Fallow, la stagista – Pablo Bach, il suo socio, sollevò un calice di champagne e gli disse: «All’inizio del tuo cinquantatreesimo anno». «Ma sono cinquantadue» replicò Fallow, che ne aveva ventuno. «Esattamente» rispose Pablo. «Il tuo cinquantaduesimo compleanno è il primo giorno del tuo cinquantatreesimo anno di vita. Non crederci è solo un altro esempio del rifiuto degli americani di accettare l’inesorabilità della morte. Gli italiani, amanti della morte quali sono, lo dicono nel modo giusto: “Ho compiuto cinquantadue anni”a. Letteralmente: “Ho concluso cinquantadue anni”.» «È dal 2000 che fa questa precisazione a ogni mio compleanno» disse Jake. Il 2000, proseguì, era stato celebrato con un anno di anticipo, e questo aveva disturbato profondamente Pablo, che aveva cercato invano di convincere i suoi amici a boicottare quei festeggiamenti nel momento sbagliato, spiegando loro che il 1° gennaio del 2000 era il primo giorno dell’ultimo anno del vecchio millennio, non il primo giorno del primo anno del nuovo millennio, ma nessuno gli aveva dato retta. «Forse erano tutti troppo preoccupati per il Y2K» concluse Jake. «Cos’è il Y2K?» chiese Fallow. «Lei è troppo giovane per ricordarsene» disse Pablo. «Loro sono troppo giovani per ricordarsene» lo corresse Connie – non intendendo il gruppo nel suo insieme, ma Fallow, che evitava le distinzioni di genere. «Ovviamente dopo ci ha detto che ci aveva avvertiti» disse Jake, per impedire che Pablo facesse la sua inevitabile conferenza su quanto si sarebbe deteriorato il linguaggio se si fosse tollerato l’uso di loro come pronome singolare. «È solo che non sopporto quest’abitudine di aggiustare la realtà come ci fa comodo» riprese Pablo. «È come fare pipì prima di pesarsi. Quanti di voi lo fanno? Siate sinceri.» Gli assistenti, tutti sfacciatamente magri, si guardarono, come cercando di capire se Pablo stesse prendendo di mira qualcuno di loro, e chi fosse. «È ridicolo. Come dicevo poco fa a un’amica» – si riferiva a Min Marable – «il numero sulla bilancia non rende la gonna meno stretta.» «Ho capito cosa vuoi dire» replicò Fallow. «Tipo... l’altro giorno mi stavo preparando per uscire, no? E pensavo a quale cappotto mettermi, no? E tipo, ho guardato il telefono per vedere la temperatura. Cioè, invece di aprire la finestra e mettere fuori la testa e basta, ho guardato il telefono. Mah.» «La verità è empirica» proseguì Pablo. «Anche nell’arredare. “Non tenete nulla in casa se non siete sicuri che sia utile o non lo ritenete bellissimo” diceva William Morris. Da prendere alla lettera, perché così il peso si sposta su di voi, sul vostro discernimento, sul vostro gusto. Sostenere che il gusto sia relativo è specioso. Il cattivo gusto viene dalla pigrizia mentale o da uno squilibrio, mentre il buon gusto è verità equilibrata dalla ragione.» Pablo proseguì raccontando una storia già sentita molte volte dai suoi assistenti sull’inizio della sua carriera, negli anni Settanta, quando la carta da parati di vinile viola andava moltissimo. «Me la chiedevano tutti i clienti. Mi supplicavano. “Ok,” dicevo “se è quello che vuoi, allora chiama David Hicks.” Molti l’hanno chiamato davvero, salvo poi tornare da me pochi mesi dopo in lacrime. “Pablo, per favore, per favore, liberaci da questa orrenda tappezzeria viola.” E io lo facevo. Non si può tenere il broncio in questa professione.» «Facciamo tagliare la torta a Jake?» disse Connie, porgendogli il coltello che teneva nella scrivania a quello scopo. E Jake la tagliò, riflettendo sul racconto di Pablo che faceva ormai parte della sua leggenda, di cui la casa dalle parti della East 60th Street era l’incarnazione; nel salotto c’erano due cuscini su due poltrone dallo schienale alto, su uno era ricamata la parola RAGIONE, sull’altro VERITÀ. Ragione e verità. E dire che Pablo era argentino; e durante l’infanzia aveva assistito impotente all’arresto e poi alla sparizione dei genitori, prima il padre e poi la madre. Il contrario della ragione. Il contrario della verità. Era per quell’infanzia che Pablo era diventato ciò che era? L’infanzia può spiegare qualcuno? Oppure si trattava di una di quelle domande a cui si può rispondere soltanto con un’altra domanda, poi un’altra, e un’altra ancora? Detto questo, Jake gli doveva molto, perché era stato lui, più di chiunque altro, più ancora di sua zia Rose, a introdurlo a quella professione, a insegnargli a fare l’arredatore. Era stata una formazione sugli aspetti tecnici della carta da parati e delle pieghe delle tende, ma anche su come distinguere un Luigi XV autentico da uno falso, o il Jean-Michel Frank francese dall’omonimo argentino, e soprattutto sull’arte più importante, quella che Pablo definiva “calarsi nella parte”. «Devi diventare il tipo d’uomo la cui foto potrebbe apparire sul dizionario accanto al termine chic» aveva detto a Jake quando lui aveva vent’anni ed era ben lungi dall’essere chic. Non era difficile, era solo questione di tenere il viso ben rasato, le unghie curate, e farsi tagliare i capelli una volta alla settimana da un barbiere decente. Per calarsi nella parte, diceva Pablo, bisognava indossare un vestito di sartoria. Portare una cravatta Charvet e un filo di Acqua di Parma sul collo. Niente di vistoso, niente di smaccatamente costoso. «La discrezione» spiegò Pablo a Jake quando aveva ventidue anni «è il marchio di garanzia del valore durevole.» E qual è lo scopo di tutta quella raffinatezza? Emanare competenza e discernimento assoluti, così che quando mostri alla cliente lo scrittoio antico per il quale hai appena speso cinquantamila dei suoi dollari, lei superi l’istintivo sgomento, il sospetto che sia brutto, e si tranquillizzi poiché, avendolo scelto tu, è senz’altro magnifico. «Arredare è un mestiere, non un’arte» concludeva Pablo. «Non scordarlo mai, Jake. Il gusto ha un valore, è la merce che noi traffichiamo, ecco perché la tua casa è la tua principale risorsa. Fai vedere quanto vivi bene, e vorranno vivere allo stesso modo.» E qui, ahimè, Jake traballava. Nel suo appartamento c’erano molte cose che non erano né utili né bellissime. Non è che non ci fosse riuscito: non ci aveva neppure mai provato, anche solo cambiando colore alle pareti bianco scialbo, sostituendo le tapparelle con delle tende, o togliendo gli specchi da quattro soldi dalle ante scorrevoli dell’armadio. E non si sarebbe trasferito nemmeno potendoselo permettere, cosa peraltro fuori discussione, visto che il valore dell’appartamento comprato quindici anni prima dipendeva dalla vista sull’East River, ormai impedita da una nuova costruzione. Bellissimi oggetti transitavano per quella casa, restavano per un po’, poi si spostavano verso altri appartamenti, altre stanze. Quasi tutti avevano avuto molti proprietari, e sarebbero sopravvissuti a coloro per cui Jake li aveva comprati. La proprietà era transitoria, e questo per lui costituiva un ostacolo quasi insormontabile. Nel frattempo, Pablo riarredava casa sua ogni due-tre anni e la faceva pubblicare nella sua ultima versione, di solito su “The World of Interiors”. Nel salotto, in trono come William e Mary, la Ragione e la Verità guardavano con occhio benevolo ogni nuovo progetto, perché nella mente di Pablo la casa di città era un concetto che diventava sempre più raffinato a ogni nuova modifica, per avvicinarsi sempre più alla sua versione ideale. «Mi colpisce spesso che una casa sia al meglio quando non contiene vita» aveva detto a Jake, che all’epoca aveva ventidue anni. «Nel profondo, ogni esteta è un asceta, che mette sempre più parti di se stesso nel proprio lavoro fino a non avere più un io. Prima ne è il custode, il cameriere. Poi deve semplicemente sparire.» Dentro di sé, Jake le riteneva stronzate. Secondo lui non poteva esserci arredamento senza un cliente, una casa senza qualcuno che ci vivesse. Ecco perché nei suoi disegni metteva sempre uno schizzo della proprietaria, che sistemava i fiori o guardava fuori dalla finestra con una tazza di tè in mano. Ciò che riusciva a fare per gli altri, non poteva farlo per se stesso, quello era il problema. Non riusciva a disegnare se stesso in nessuna stanza, e quelle in cui viveva gli sfuggivano, resistendo a tutti i suoi sforzi di impossessarsene, di trasformarle in una vera casa. a In italiano nel testo. 5 La sera della cena di Eva post Venezia, Jake percorse a piedi i venti e più isolati che separavano i rispettivi condomìni. Non lo faceva a dispetto del freddo, ma proprio per quello. Da quando era tornato a vivere sulla costa orientale – quanto tempo era passato, tre decenni? – si godeva il rigore degli inverni nordici, quel vento che levava la pelle, che gli sembrava facesse scorrere più veloce il suo sangue est-europeo; e mentre risaliva lungo Park Avenue, con le guance insensibili, sarebbe potuto essere il proprio bisnonno, mai conosciuto, a capo di una mandria su qualche vasta pianura nella provincia di Kaunas, dove non era mai stato. Quella sera il vento era particolarmente tagliente. Non appena la neve toccava il suolo, tornava a sollevarsi, come se la città fosse una di quelle sfere di vetro con la neve e qualcuno la stesse scuotendo. Con la testa china, le mani nei guanti infilate in tasca, Jake arrancò fino a casa di Eva, il cui portiere, con il pesante cappotto spolverato di neve, chiamava i taxi con il fischietto. Eva doveva averlo avvertito che stava aspettando qualcuno, perché invece di citofonarle per annunciare il suo arrivo, si limitò ad accoglierlo con un cenno del capo nell’atrio, dove il caldo umido gli annebbiò gli occhiali. Negli edifici come quello di Eva, nel 2017, resisteva ancora un’antiquata formalità. L’ascensore aveva i comandi manuali; l’interno era rivestito da pannelli di quercia con figure araldiche e un fregio con una scena silvestre: uccelli, cani e donne con lunghe vesti. Accanto alla pulsantiera c’era un sedile ribaltabile, sempre di quercia, che aveva la forma e le dimensioni del coperchio di un water, su cui Frank, l’addetto ai comandi, si riposava nei rari momenti in cui i suoi servigi non erano richiesti. Qualche mese prima i condòmini avevano votato per sostituire quel vecchio ascensore con uno automatico. Allora Eva aveva confidato a Jake di essere preoccupata per Frank, che aveva fatto per tutta la vita un mestiere (girare la manovella per far partire l’ascensore, rallentarlo mentre arrivava a destinazione, fermarlo nel punto esatto in cui le porte interne si allineavano con quelle esterne), e chissà come avrebbe reagito una volta che il suo compito si fosse ridotto a premere un bottone che il passeggero avrebbe potuto benissimo schiacciare da sé. «Come ci si deve sentire quando si viene praticamente trasformati in un simbolo?» aveva domandato Eva, e Jake aveva risposto che era meglio diventare un simbolo che restare senza lavoro. «Oh, ma non resterà senza lavoro, ci sono i sindacati» aveva ribattuto lei con una risatina dura. «Sono talmente forti che se anche soltanto uno di loro venisse licenziato, ci sarebbero scioperi di massa. Siamo con le spalle al muro. Con questo non voglio dire che non sono contenta che mantenga il lavoro.» Come sperava che Jake capisse, aveva proseguito, era immensamente affezionata a Frank, e il suo benessere le stava a cuore, proprio come quello di Amalia, che badava alla sua casa di New York, e di Beatie, che la aiutava in quella nel Connecticut, e di Kathy, la segretaria di Bruce, lasciata dal marito una settimana dopo che le era stato diagnosticato un linfoma, «anche se, e resti fra noi,» Eva aveva detto a Jake «qualche volta temo che Kathy si approfitti dell’indole generosa di Bruce.» «Tutte queste donne fanno una vita così dura,» aveva aggiunto Eva «specialmente Amalia: per cinque giorni alla settimana, dalle otto alle quattro, si consuma le mani qui, per poi tornare a casa e rifare tutto da capo perché suo marito è in sedia a rotelle; in più si occupa della madre e di due figlie adulte per le quali deve sempre essere disponibile come babysitter. Eppure non si lamenta mai.» Quando Jake le aveva chiesto dove vivesse, Eva aveva fatto un gesto vago verso la finestra della cucina e detto «Oh, non lo so, da qualche parte nel Queens» come se Da Qualche Parte nel Queens fosse un paese del terzo mondo dove andavano solo missionari e volontari, quando di fatto, in linea d’aria, il quartiere di Amalia distava non più cinque miglia da lì. La preoccupazione di Eva per Frank era un po’ diversa. Nel suo caso infatti non la impensieriva tanto che lui potesse percepire il tedio della propria vita, quanto l’impatto che avrebbe avuto sulla sua autostima il ritrovarsi privo di uno scopo. Soltanto in seguito Jake pensò che forse per Eva quella era una proiezione del proprio senso di inutilità e del panico che le provocava, e che quel panico a sua volta potesse aver influenzato la decisione impulsiva di comprare l’appartamento a Venezia.