LE NONNE
Doris Lessing
Su entrambi i lati di un piccolo promontorio zeppo di ristoranti e caffè si stendeva un mare giocoso e tuttavia composto: nulla a che vedere con l’oceano vero e proprio, che rombava e ruggiva oltre l’imbocco della profonda insenatura e la barriera di scogli denominata Baxter’s Teeth, “i denti di Baxter”, nome riportato anche dalle carte nautiche. Ma chi era questo Baxter? Domanda più che lecita, e infatti veniva posta spesso e trovava risposta in un foglio di carta incorniciato e abilmente anticato, appeso nel ristorante sulla punta del promontorio, quello nella posizione migliore, più elevata e prestigiosa. Baxter’s, si chiamava appunto, a sostenere la pretesa che la sala interna dalle sottili pareti di mattoni e canne fosse stata un tempo la capanna di Bill Baxter, costruita da lui con le sue mani. Questo navigatore irrequieto dunque, quest’uomo di mare, era giunto per caso in quel paradiso di baia con la sua piccola lingua di terra rocciosa. Alcune versioni più antiche della storia parlavano di indigeni pacifici e ospitali. Ma i denti cosa c’entravano? Baxter rimase un esploratore indefesso delle coste e delle isole vicine, e infine, dopo essersi affidato a un guscio di barchetta messa insieme con qualche relitto trasportato dal mare e un po’ d’esperienza, andò a schiantarsi in una notte di luna su quei sette scogli neri, proprio di fronte alla sua casupola, dove una lanterna a prova di tempesta, affidabile come un faro, accoglieva le navi abbastanza piccole da entrare nella baia, una volta superata la barriera di scogli. Ora la casa era circondata da alti alberi che offrivano riparo a tavoli e sedie, e sotto, su tre lati, si allargava cordiale il mare. Un sentiero saliva tra gli arbusti, sbucando nel giardino del Baxter’s; un pomeriggio quella lieve salita era percorsa da sei persone, quattro adulti e due bambine, i cui strilli di gioia riecheggiavano i versi dei gabbiani. Aprivano la fila due uomini di bell’aspetto, non certo ragazzi, ma solo con una buona dose di malevolenza li si sarebbe potuti definire di mezz’età. Uno dei due zoppicava. Alle loro spalle due donne altrettanto avvenenti, sulla sessantina, che nessuno si sarebbe sognato di definire anziane. A un tavolo che a quanto pareva occupavano spesso depositarono borse, indumenti e giocattoli; erano tutti sani e radiosi, come lo sono quelli che sanno trarre beneficio dal sole. Si accomodarono dunque, le donne con le gambe lisce e abbronzate che finivano in sandali portati con noncuranza, le mani energiche momentaneamente oziose. Le donne da una parte, gli uomini dall’altra, le bambine che non stavano ferme un momento: sei teste bionde? Erano forse imparentati? Le donne dovevano essere le madri degli uomini; quelli non potevano che essere i loro figli. Le nonne, e poi anche i padri, raccomandarono alle bambine di comportarsi bene e di giocare tranquille, anche se le piccole insistevano per scendere alla spiaggia, raggiungibile per un sentiero sassoso. Così si accovacciarono, e con l’aiuto di dita e bastoncini si misero a fare dei disegni nella polvere. Due belle bambine: per forza, con due progenitrici così attraenti. Da una finestra del Baxter’s una ragazza gridò: “Il solito? Vi porto il solito?”. Una delle donne le fece un cenno con la mano, come a dire sì. Poco dopo comparve un vassoio carico di spremute di frutta fresca e tramezzini di pane integrale, a conferma che erano persone attente alla salute. Theresa, fresca di esami di maturità, sarebbe rimasta all’estero per un anno, prima di tornare in Inghilterra per l’università. In cambio di questa informazione, che risaliva a mesi prima, la ragazza veniva costantemente aggiornata sui progressi delle bambine alle elementari. Adesso chiese come andava la scuola, e prima una bambina e poi l’altra saltarono su assicurandole che la scuola era una pacchia. La bella cameriera tornò di corsa alla sua postazione all’interno del ristorante, e il sorriso che rivolse ai due uomini ne innescò uno tra le donne e poi tra loro e i figli, uno dei quali, Tom, commentò: “Non ce la farà mai a tornare in Inghilterra, i ragazzi fanno tutti il tifo perché rimanga”. “Ma sarebbe una stupida se si sposasse e buttasse via tutto così” disse una delle donne, Roz – Rozeanne per la precisione, la madre di Tom. Ma l’altra, Lil (Liliane), la madre di Ian, aggiunse “Chissà” mentre sorrideva a Tom. Questa concessione, o meglio questo omaggio, a quella che era, dopotutto, la ragione della loro esistenza, diede ai due uomini l’occasione per scambiarsi un cenno divertito del capo, a labbra serrate, come a uno scambio di battute più volte ascoltato: quello, o uno simile. “Insomma,” disse Roz, “comunque sia, diciannove anni sono troppo pochi.” “Ma chissà come andrebbe a finire” si chiese Lil, e arrossì. Sentendosi il viso in fiamme fece una piccola smorfia, che le diede un’aria da bambina pestifera, o addirittura sfrontata, cosa tanto lontana dalla sua natura che gli altri si scambiarono sguardi difficili da interpretare. Sospirarono tutti quanti, e poi, sentendosi, si misero a ridere, una bella risata schietta che, si sarebbe detto, prendeva atto di una serie di cose non dette. Una delle bambine, Shirley, domandò: “Perché ridete?” e l’altra, Alice: “Cosa c’è da ridere? Per me non c’è proprio niente da ridere”; e imitò l’espressione pestifera della nonna, che in realtà non era stata affatto programmata. Lil era a disagio e arrossì di nuovo. Shirley insisteva, reclamando attenzione: “Che scherzo è, papà?”, e a queste parole i due padri acciuffarono le figlie scompigliandole tutte, mentre le bambine protestavano cercando di sfuggire, ma poi tornavano alla carica, finché andarono a rifugiarsi in braccio alle nonne. E lì rimasero, col pollice in bocca, gli occhi che si chiudevano, sbadigliando. Era un pomeriggio caldissimo. Un’atmosfera sonnolenta, soddisfatta. Agli altri tavoli, sotto alberi enormi, oziavano clienti altrettanto beati. Tutt’intorno, solo qualche spanna più sotto, il mare sospirava, frusciava, sciabordava, e le voci ronzavano pigramente. Theresa, con un vassoio di bevande fresche in mano, si fermò alla finestra del ristorante, incantandosi a guardare la famiglia. Le lacrime le rigavano le guance. Era stata innamorata di Tom e poi di Ian, e poi ancora di Tom, per la loro avvenenza e la loro disinvoltura, quell’aria di pienezza, come se si fossero impregnati di piacere per tutta la vita e adesso lo rilasciassero sotto forma di piccole onde di soddisfazione. E poi il loro modo di trattare le bambine, quella serenità, quella pazienza. E le nonne, così disponibili..., e infatti, invece che in quattro, venivano quasi sempre in sei... ma dov’erano le madri, i bambini hanno la mamma, no?, e queste due avevano Hannah e Mary, ed era sorprendente quanto fossero entrambe diverse dalla bionda famiglia che era diventata la loro, piccole e scure com’erano; e anche se erano tutto sommato graziose, Theresa sapeva che nessuna delle due era all’altezza del proprio uomo. Lavoravano. Avevano un’azienda tutta loro. Per questo le nonne erano così spesso presenti. Le nonne non lavoravano, allora? Sì, certo, ma erano libere di dire “Andiamo da Baxter’s”, e ci venivano. Qualche volta venivano anche le madri, e allora erano in otto. Theresa era innamorata di tutti quanti. Alla fine l’aveva capito. Gli uomini, certo, erano loro che bramava il suo cuore, ma non in maniera così incontrollabile. A farle venire le lacrime agli occhi era il vederli tutti lì, osservarli come faceva adesso. Alle sue spalle, seduto a un tavolo vicino al bancone, c’era Derek, un giovane agricoltore che le aveva chiesto di sposarlo. Non le dispiaceva, anzi lo trovava attraente, ma sapeva che la sua vera passione erano loro, la famiglia. Sopra profondi strati d’ombra traforata di luce il sole avvolgeva l’albero, mentre l’aria incandescente e azzurra, intrisa di benessere, di gioia, sembrava sul punto di stillare grosse gocce di rugiada dorata, che solo lei riusciva a vedere. Fu in quel momento che decise di sposare il suo agricoltore e rimanere lì, in quel continente. Non poteva lasciarlo per la sporadica magia dell’Inghilterra, o di Bradford, anche se in fondo le brughiere non erano da buttar via, quando il sole si decideva a splendere. No, sarebbe rimasta qui, era deciso. “Lo voglio, lo voglio” si disse, lasciando infine che le lacrime scorressero liberamente. Voleva quella pienezza fisica, quella pace che si esprimeva in movimenti pigri, in lunghe gambe e braccia abbronzate, nel lampo dorato sulle teste bionde dove il sole le aveva sfiorate. Proprio mentre reclamava il suo futuro, vide una delle madri lungo il sentiero. Mary... sì, era lei. Una brunetta con l’argento vivo addosso, e neanche l’ombra dell’aplomb, dello stile della famiglia. Si avvicinava lentamente. Si fermava, fissava un punto, si rimetteva in moto, si fermava ancora, muovendosi con calma tutta studiata. “Cosa le avrà preso?” si chiese Theresa, staccandosi infine dalla finestra per portare il vassoio ad avventori ormai senza dubbio impazienti. Mary Struthers adesso era quasi immobile. Ferma, corrucciata, fissava la sua famiglia. Roz Struthers la vide e le fece un cenno con la mano, e poi un altro, e mentre la mano lentamente si abbassava, come a un richiamo alla prudenza, il viso stava già cominciando a perdere la sua luce e il suo calore. Stava guardando la nuora, ma come di sottecchi, e vedendo l’espressione sul viso della madre anche Tom si girò a guardare, e agitò a sua volta la mano. Poi fu la volta di Ian. Come quella di Roz, anche le mani degli uomini, fatalmente, ricaddero. Mary si era fermata. Vicino a lei c’era un tavolo, e si lasciò crollare su una sedia. Eppure continuava a guardare Lil, e poi Tom, suo marito. Rimpiccioliti, accusatori, gli occhi si spostavano da un viso all’altro. Occhi che cercavano qualcosa. Nella mano teneva un involto. Erano lettere. Sedeva a circa tre metri di distanza, con gli occhi fissi. Theresa, serviti gli altri tavoli, era di nuovo alla finestra, con pensieri di biasimo per Mary, la moglie di quel figlio, e sapeva che era gelosia. Ma se lei fosse alla loro altezza non mi sarebbe antipatica, si difese. Invece è una nullità al loro confronto. Solo un occhio geloso poteva liquidare così Mary, una giovane bellezza bruna piena di fascino. Ma in quel momento non era certo bella; il viso si era fatto piccolo e gessoso, le labbra si erano assottigliate. Theresa notò il fascio di lettere. Vide le quattro persone al tavolo. Come se giocassero alle belle statuine, pensò. La luce li stava abbandonando. Lo splendido pomeriggio poteva anche infischiarsene di tutto quanto, ma quelli erano lì immobili, come trafitti. E Mary continuava a fissarli, ora Lil, o Liliane, ora Roz, o Rozeanne; da loro lo sguardo passò a Tom, e a Ian, e poi da capo, un altro giro, diverse volte. In un impulso che neppure lei riconobbe, Theresa versò dell’acqua da una caraffa e corse da Mary col bicchiere. Mary girò lentamente la testa guardandola in faccia, corrucciata, senza prendere il bicchiere. Theresa lo posò sul tavolo. Poi Mary fu attratta dal luccichio dell’acqua, allungò la mano, ma poi la ritrasse: le tremava troppo per reggere un bicchiere. Theresa tornò alla finestra. Il suo pomeriggio si era oscurato. Tremava anche lei. Ma cosa succedeva? Cosa c’era che non andava? Qualcosa si era orribilmente, fatalmente guastato. Infine Mary si alzò, con difficoltà, percorse la distanza fino al tavolo dove erano seduti i quattro, e si lasciò cadere su una sedia un po’ discosta da loro: non faceva parte di quella famiglia. Ed ecco che gli altri si accorsero del fascio di lettere nella mano di Mary. Erano perfettamente immobili, e la fissavano. In attesa. Toccava a lei parlare. Ma era proprio obbligata? Le tremavano le labbra, tremava tutta, sembrava sul punto di svenire, e quei giovani occhi limpidi, accusatori, continuavano a spostarsi da un viso all’altro. Tom. Lil. Roz. Ian. Aveva una smorfia sulla bocca, come se avesse addentato qualcosa di acido. “Ma cosa avranno oggi, che cosa?” pensò Theresa, guardando dalla finestra, e anche se meno di un’ora prima aveva deciso che non poteva lasciare quelle coste, quello scenario di grazia e di pienezza, adesso pensò: “Devo andarmene. Dirò di no a Derek. Voglio fuggire da qui”. Alice, la bambina in grembo a Roz, si svegliò con un grido, vide la madre – “Mamma, mamma” – e tese le braccia. Mary riuscì ad alzarsi, tenendosi al bordo del tavolo e allo schienale delle sedie, e la prese in braccio. Adesso fu l’altra bambina, quella in grembo a Lil, a svegliarsi. “Dov’è la mamma?” Mary tese la mano anche a Shirley e un attimo dopo le aveva tutte e due sulle ginocchia. Le piccole sentirono il panico di Mary, la sua rabbia, e avvertirono una specie di calamità, e subito cercarono di tornare dalle nonne. “Nonna, nonna”, “Voglio la nonna”. Mary le tenne strette tutte e due. Sul viso di Roz si era disegnato un sorrisetto amaro, come se stesse confermando una brutta notizia a qualcuno sprofondato dentro di lei. “Nonna, mi vieni a prendere domani, andiamo in spiaggia?” Ed ecco che finalmente Mary parlò, con voce tremante. Tutto quello che disse fu: “No, non ci andate, in spiaggia”. E poi, rivolta alle due donne più anziane: “No, non porterete Shirley e Alice in spiaggia”. Ecco dunque il verdetto, la sentenza. Incerta, perfino umile, Lil disse: “Ci vediamo presto, Alice”. “E invece no” disse Mary. Si alzò, tenendo le bambine per mano, il fascio di lettere ficcato nella tasca dei pantaloni. “No” disse furiosa, e l’emozione che l’aveva intossicata venne finalmente a galla. “No. Scordatelo. Mai più. Non le vedrai mai più in vita tua.” Si girò per andarsene, tirandosi dietro le bambine. Suo marito Tom disse: “Aspetta un momento, Mary”. “No.” E poi via per il sentiero, più in fretta che poteva, inciampando e trascinando con sé le bambine. E adesso i quattro rimasti, le donne e i loro figli, avrebbero dovuto dire qualcosa, spiegare, chiarire le cose, no? Non una parola. Tesi, prostrati, incupiti, rimasero lì senza muoversi, finché uno di loro si decise. Fu Ian a parlare, rivolgendosi a Roz in tono appassionato e intimo, le labbra tirate, rabbiose. “È colpa tua” disse. “Sì, è colpa tua. Te l’avevo detto. È successo tutto per colpa tua.” Roz fronteggiò la rabbia di lui con la propria. Si mise a ridere. Una risata dura, amara, uno scroscio dopo l’altro. “Colpa mia” disse. “Naturale. E di chi, altrimenti?” E rideva. Sarebbe stata perfetta per il palcoscenico, quella risata, ma le lacrime le inondavano il viso. Sul sentiero, lontana dai loro sguardi, Mary aveva raggiunto Hannah, la moglie di Ian, che non era stata in grado di affrontare i colpevoli, almeno in compagnia di Mary, perché la sua rabbia non era nulla a confronto di quella dell’altra. Aveva lasciato che Mary andasse sola ed era rimasta lì ad aspettarla, piena di dubbi, di tristezza e di rimproveri che stavano cominciando ad affiorare e minacciavano di travolgerla. Ma lei non provava rabbia, aveva bisogno di spiegazioni. Liberò Mary da Shirley, e le due giovani donne rimasero ferme sul sentiero con le bambine in braccio, proprio dietro una siepe di piombaggine che delimitava un altro caffè. Non dissero nulla, ma si guardarono in faccia, Hannah alla ricerca di una conferma che subito ottenne. “È vero, Hannah.” E poi quella risata. Roz stava ridendo. Scrosci di risa dure, trionfanti, questo sentirono Mary e Hannah, e ogni scroscio risuonava alto e stridulo, una scudisciata, e loro si ritrassero da quei suoni crudeli. Tremavano, mentre quelle risa calavano come fruste, senza sosta. “È cattiva” decretò infine Mary, con labbra che sembravano diventate di pasta o d’argilla. E mentre gli ultimi ululati di riso le raggiungevano, le due giovani donne scoppiarono in lacrime e si misero a correre per il sentiero, lontano dai loro mariti, dalle madri dei loro mariti. Due bambine cominciarono la scuola lo stesso giorno, alla stessa ora, si presero le misure a vicenda e diventarono amiche del cuore. Due scriccioli di bambine, e che coraggio ci voleva ad affrontare quella scuola imponente, gremita e animata come un supermercato e tuttavia, si rendevano già conto, piena di gerarchie di bambine ostili; ma in mezzo a loro c’era un’alleata, ed eccole dunque lì ferme, mano nella mano, tremanti per la paura e lo sforzo di farsi coraggio. Una scuola imponente, in cima a una collinetta, circondata dal verde secondo lo stile inglese, ma sotto la volta del cielo meno inglese che si potesse immaginare, pronta a risucchiare quelle due creaturine, due bambine piccole in fin dei conti, pensavano tutti e quattro i genitori: bastava questo per farsi venire le lacrime agli occhi!, e infatti a loro bastò. Erano due bambine intrepide, pronte a rispondere per le rime, e presto riuscirono a schivare le vessazioni che sempre accoglievano le nuove alunne; si sostenevano a vicenda, ciascuna combatteva le proprie battaglie e quelle dell’altra. “Come due sorelle” dicevano tutti, e perfino “come due gemelle”. Bionde tutte e due, con le code di cavallo ordinate e lucenti e gli occhi azzurri, leste come pesci, anche se in realtà, a ben guardare, non si somigliavano poi tanto. Liliane – o Lil – era sottile, con un corpo minuto e forte, i lineamenti delicati, e Rozeanne – Roz – era più robusta, e se Lil contemplava il mondo con uno sguardo puro e severo, Roz riusciva a scherzare su qualunque cosa. Ma è confortante pensare, e dire “come due sorelle”, e anche “potrebbero essere gemelle”; fa piacere a tutti trovare somiglianze dove forse non ce ne sono affatto, e dunque andò avanti così, un semestre dopo l’altro, un anno dopo l’altro, due bambine inseparabili, una benedizione anche per i genitori, che abitavano nella stessa via e come spesso succede avevano fatto amicizia grazie alle figlie, ed erano consapevoli della loro fortuna, perché le bambine si erano scelte a vicenda rendendo la vita facile a tutti quanti. Eppure queste vite erano già facili. Non sono in tanti al mondo ad avere vite così piacevoli, spensierate, senza problemi: su quelle coste beate nessuno stava sveglio la notte a piangere per i propri peccati, o per i soldi, e tanto meno per la fame. Che gente attraente, levigata e lustra di sole, di sport, di buon cibo. Pochi hanno visitato questi luoghi, tranne forse che per brevi vacanze, o li hanno conosciuti attraverso racconti di viaggio che sembrano sogni. Sole e mare, mare e sole, e il rumore costante delle onde sulla spiaggia. Era un mondo azzurro, quello in cui crebbero le bambine. In fondo a ogni via appariva il mare, azzurro come i loro occhi – come si sentivano dire così spesso. Il cielo azzurro sopra le loro teste si incupiva o si ingrigiva così di rado che quelle giornate erano addirittura un diversivo. Un vento forte e bizzarro portava con sé il sentore pungente del sale e l’aria era sempre salmastra. Le bambine si leccavano via il sale dalle mani e dalle braccia, dalle loro e da quelle dell’amica, un gioco che chiamavano “fare i cagnolini”. L’acqua dei bagni serali era sempre salata, e per lavarla via dopo dovevano fare una doccia con l’acqua dei pozzi più profondi, che non sapeva di sale ma di minerali. Quando Roz rimaneva a dormire a casa di Lil, o era Lil a dormire dall’amica, i genitori, in piedi, le guardavano dall’alto, sorridendo a quei due diavoletti accoccolati uno addosso all’altro come cuccioli, che una volta addormentati non odoravano più di sale ma di sapone. E sempre, per tutta la loro infanzia, giorno e notte, lo sciabordio del mare, le onde docili e soavi del mare di Baxter, un sibilo quieto come il respiro. Le sorelle, e lo stesso vale per le gemelle e perfino per le amiche del cuore, sono afflitte da rivalità appassionate, che spesso si nascondono a vicenda. Ma Roz si rese conto della mortificazione di Lil quando a lei – a Roz – spuntarono i seni, un anno abbondante prima che a Lil, per non parlare di altri segni di maturità, e fu prodiga di rassicurazioni e conforto, sapendo che il tempo non l’avrebbe guarita dall’invidia che anche lei provava per l’amica. Avrebbe voluto un corpo forte e sottile come quello di Lil, che indossava gli abiti con tanto stile e disinvoltura, mentre di lei già si diceva – o almeno lo dicevano i maligni – che era rotondetta. Doveva fare attenzione a cosa mangiava, mentre Lil non aveva problemi. E dunque eccole lì, improvvisamente adolescenti. Lil, l’atleta, versata in tutti gli sport, e Roz, la stella delle recite scolastiche, sempre impegnata nei ruoli principali, a far ridere tutti, estroversa, generosa, vivace, chiassosa: se un tempo erano state come due gocce d’acqua – “Si fa fatica a distinguerle” – adesso erano complementari. Si iscrissero entrambe all’università, dove Lil seguì le sue inclinazioni atletiche, e Roz entrò nel gruppo teatrale, e rimasero amiche intime, tenendosi aggiornate sulle rispettive conquiste, e non dando più peso alle rivalità: ma erano così legate che, pur esibendosi in arene tanto diverse, i loro nomi erano sempre appaiati. Nessuna delle due era portata per le grandi passioni esclusive, i cuori spezzati, le gelosie. E adesso ecco qua, l’università ormai alle spalle, e davanti a loro il mondo degli adulti, e quella era una società in cui le ragazze si sposavano presto. “A vent’anni ancora senza marito!” Roz cominciò a uscire con Harold Struthers, un accademico, e occasionalmente anche poeta; e Lil incontrò Theo Western, che aveva un negozio di articoli sportivi. Più d’uno, in realtà. Se la passava bene. Gli uomini andavano d’accordo, e quando le donne se ne convinsero si celebrò un doppio matrimonio. Fin qui tutto bene. Quei due soldi di cacio, quei due scriccioli di creature erano ormai due splendide ragazze in abito da sposa, quello di Lil simile a una calla e quello di Roz a una rosa d’argento. Così decretò la rubrica di moda del quotidiano locale. Entrambe andarono ad abitare in una strada che sbucava sul mare, non lontano da quel promontorio su cui sorgeva Baxter’s, un quartiere fuori moda ma prediletto dagli artisti, e dunque, poiché per sapere se una zona avrà un boom basta accertarsi che vi sia una migrazione precoce di artisti, non sarebbe rimasto fuori moda per molto. Le loro case erano una di fronte all’altra. Lil era una campionessa di nuoto famosa in tutto il continente e anche all’estero, e Roz non solo recitava e cantava, ma metteva in scena lavori teatrali e cominciava ad allestire spettacoli e riviste. Avevano tutte e due un gran daffare. Eppure Liliane e Theo Western annunciarono la nascita di Ian, e nel giro di una settimana Rozeanne e Harold Struthers li seguirono con Thomas. Due maschietti, biondi e incantevoli, che a detta di tutti sembravano fratelli. In realtà Tom era un bambino robusto, spesso in imbarazzo di fronte all’esuberanza della madre, e Ian era esile, nervoso, irrequieto e, a differenza di Tom, era un bambino difficile. Dormiva poco, e qualche volta aveva degli incubi. Le due famiglie passavano i fine settimana e le vacanze insieme, come un’unica grande famiglia felice, declamava Roz, descrivendo la situazione, e i due uomini ogni tanto se ne andavano a fare gite in montagna o a pescare, o partivano con lo zaino in spalla per un’escursione. “Roba da uomini” diceva Roz. Tutto questo continuò, e ciò che non era come doveva essere veniva tenuto accuratamente lontano. “Non svegliare il can che dorme” diceva ogni tanto Roz. Era preoccupata per Lil, per ragioni che emergeranno in seguito, non certo per sé. Lil poteva avere i suoi problemi, ma lei no, non certo lei, Harold e Tom. Procedeva tutto per il meglio. E poi accadde qualcosa. Scenario: la camera da letto matrimoniale, al tempo in cui i bambini avevano circa dieci anni. Roz era spaparanzata sul letto, Harold era seduto sul bracciolo di una poltrona e guardava la moglie, sorridente ma determinato. Le aveva appena annunciato che gli avevano offerto una cattedra universitaria in un altro stato. Roz disse: “Bene, immagino che potrai tornare nei fine settimana, oppure ti raggiungeremo noi”. Era così tipico quel suo modo di respingere qualunque minaccia – perché di questo si trattava, no? – alla loro vita matrimoniale, che lui scoppiò in una breve risata non priva di affetto, e dopo un momento disse: “Io mi aspetto che veniate anche tu e Tom”. “Dovremmo trasferirci?” Roz si mise a sedere scuotendo la testa bionda e a quel tempo ricciuta per vederlo in faccia. “Andar via da qui?” “Perché non lo dici? E lasciare Lil, perché è questo il problema, no?” Roz si strinse le mani al petto, in un gesto teatrale di costernazione. Ma era davvero sbalordita, indignata. “Che cosa vuoi insinuare?” “Non insinuo. Dico. Per strano che possa sembrare...” – questa frase di solito non prelude a niente di buono – “io vorrei una moglie. Una vera moglie.” “Sei impazzito.” “No. Voglio farti vedere una cosa.” Estrasse un contenitore pieno di filmini. “Per favore, Roz. Dico sul serio. Voglio che tu venga di là a guardare.” Roz si alzò dal letto, protestando divertita. Era mezza nuda. Con un profondo sospiro rivolto agli dèi, o a qualche altro spettatore imparziale, si infilò un négligé rosa profilato di piume, recuperato da un guardaroba di scena: era proprio il suo genere, le era parso allora. Nella stanza accanto si sedette davanti a un pezzetto di parete libero da cianfrusaglie. “E adesso cosa hai intenzione di fare, eh?” gli chiese amabilmente. “Harold, stupidone, si può sapere dove vuoi arrivare?” Lui cominciò a proiettare il film, un tipico filmino casalingo. Mostrava loro quattro, i due mariti e le due donne. Erano stati in spiaggia, e le donne indossavano l’accappatoio sopra il bikini. Gli uomini erano ancora in costume da bagno. Roz e Lil erano sedute sul divano, quel divano, lo stesso dove era seduta Roz in quel momento, e i mariti su due sedie rigide con lo schienale diritto, e si sporgevano in avanti per osservarle. Le donne parlavano. Di cosa? Aveva forse importanza? Si guardavano in faccia, ciascuna chiarendo il proprio punto di vista in un rapido botta e risposta. Ogni tanto gli uomini cercavano di intervenire, di partecipare alla discussione, ma le donne non li sentivano nemmeno, letteralmente. A un certo punto del filmino Harold si irritò, e dopo un po’ anche Theo, e alzarono entrambi la voce, ma nemmeno così le donne li sentirono, e quando infine si misero a urlare, insistendo, Roz li zittì con un cenno della mano. Roz ricordava vagamente la discussione. Niente di importante. I ragazzi dovevano andare in campeggio con un amico per il fine settimana. I genitori ne stavano parlando, tutto qua. Anzi, erano le madri a parlarne, i padri avrebbero anche potuto non esserci. Adesso che erano stati messi a tacere, gli uomini rimasero seduti a guardare, arrivando perfino a scambiarsi una serie di occhiate eloquenti. Harold era seccato, ma l’espressione di Theo diceva solo: “Sono donne, cosa ti aspetti?”. E poi, esaurito l’argomento – quello dei ragazzi –, Roz disse “Devo assolutamente raccontarti...” e si sporse verso l’amica, abbassando la voce senza rendersene conto, per raccontarle qualcosa, nulla di importante. I mariti rimasero a guardare, Harold pieno di ironico interesse, Theo annoiato a morte. E avanti così, finché la pellicola si esaurì. “Mi vuoi dire che in realtà hai filmato tutto... per incastrarmi? Hai messo in piedi tutto questo per darmi addosso!” “Ma no, non ti ricordi? Avevo filmato i ragazzi in spiaggia. Poi hai preso tu la cinepresa e hai filmato me e Theo. Poi Theo ha detto: ‘E le ragazze?’.” “Oh” fece Roz. “Sì. È stato solo quando l’ho rivisto ieri che in effetti mi sono accorto... Non che mi abbia sorpreso. Va sempre così. Tu e Lil. Voi due e basta.” “Cosa vuoi insinuare? Stai dicendo che siamo lesbiche?” “No. Non lo dico affatto. E poi, che cosa cambierebbe se lo foste?” “Non ti capisco proprio.” “È chiaro che il sesso non è la cosa più importante. A mio avviso io e te abbiamo una vita sessuale più che soddisfacente, ma non sono io la persona con cui entri in relazione.” Roz rimase seduta, fremendo per l’agitazione, tormentandosi le mani, le lacrime sul punto di traboccare. “Perciò voglio che tu ti trasferisca al Nord con me.” “Devi essere impazzito.” “Oh, lo so che non verrai, ma potresti almeno fingere di prendere in considerazione l’idea.” “Mi stai prospettando il divorzio?” “A dire il vero non ci stavo pensando affatto. Ma se incontrassi una donna che mettesse me al primo posto...” “...mi comunicheresti la bella notizia!” disse lei, scoppiando in lacrime. “Oh, Roz” disse il marito. “Non credere che non mi dispiaccia. Sono affezionato a te, lo sai. Mi mancheresti da morire. Sei la mia migliore amica. E so anche che probabilmente rimarrai la donna con cui ho scopato meglio in vita mia. Ma qui ho la sensazione di essere una specie di ombra. Non conto niente. Tutto qua.” Adesso era arrivato il suo turno di sbattere gli occhi per liberarli dalle lacrime e poi di coprirseli con le mani. Tornò in camera, si sdraiò sul letto, e lei lo seguì. Si confortarono a vicenda. “Sei pazzo, Harold, lo sai? Io ti amo.” “Ti amo anch’io Roz, non credere che non ti ami.” Poi Roz chiese a Lil di venire a casa loro, e le due donne guardarono il filmino, senza dire nulla sino alla fine. “E questo è il motivo per cui Harold mi sta lasciando” disse Roz, dopo aver descritto a Lil la situazione per sommi capi. “Non capisco” disse Lil alla fine, corrugando la fronte nel tentativo di comprendere. Era assolutamente seria, mentre Roz era seria, sì, ma anche piena di rabbiosa ironia. “Ma si può sapere cosa vuole?” chiese Lil. “Dice che io e te lo facciamo sentire escluso.” “Lui si sente escluso! E cosa dovrei dire io, che mi sono sempre sentita... tagliata fuori! Per tutti questi anni sono stata a guardare te e Harold e mi auguravo...” Fino a quel momento la lealtà le aveva inceppato la lingua, ma a quel punto non si trattenne più: “Il mio matrimonio è un disastro. Con Theo va malissimo. Non ho mai... ma tu lo sapevi. E tu e Harold invece, sempre così felici... Non so quante volte vi ho lasciati qui tutti e due e sono tornata a casa con Theo augurandomi...” “Io non lo sapevo, no... Voglio dire, certo, sapevo che Theo non è il marito ideale.” “Puoi dirlo forte.” “Sei tu che dovresti prendere in considerazione il divorzio, mi pare.” “Oh, no, no” disse Lil, allontanando l’idea con un gesto nervoso della mano. “No. Una volta scherzando ho chiesto a Ian, per metterlo alla prova, come vedeva la possibilità che io divorziassi da suo padre, e per poco non impazzisce. È rimasto zitto per un’eternità... sai come fa lui, no, e poi si è messo a urlare e a piangere. ‘Non puoi’ diceva. ‘Non puoi. Te lo impedirò.’” “E così il povero Tom rimarrà senza padre” disse Roz. “Non che quello di Ian sia granché” disse Lil. E poi, quando a occhio e croce la conversazione sembrava conclusa, chiese: “Roz, per caso Harold ha detto che siamo lesbiche?”. “Poco ci è mancato... be’, no, non proprio.” “Ma è quello che intendeva dire?” “Non so. Non credo.” Adesso Roz avvertiva lo sforzo di quell’introspezione così insolita. “Non capisco, gli ho detto. Non capisco dove vuoi arrivare.” “Be’, ma noi non lo siamo, no?” chiese Lil, che a quanto pareva aveva bisogno di sentirselo dire. “Mah, non credo” disse Roz. “Eppure siamo amiche da sempre.” “Sì.” “Da quando? Io mi ricordo dal primo giorno di scuola.” “Sì.” “Ma prima di allora? Com’è successo?” “Non mi ricordo. Forse è stata solo... fortuna.” “Puoi ben dirlo. La più grande fortuna della mia vita... tu.” “Sì” disse Roz. “Ma questo non vuol dire che siamo... Maledetti uomini” disse, improvvisamente piena di energia e tutta fremente di rabbia. “Maledetti uomini” ripeté Lil con trasporto, pensando al marito. E su quella nota, obbligatoria dati i tempi, la conversazione finì. E così Harold partì per la sua università, che non era circondata dall’oceano, dai venti marini, dalle canzoni e dalle leggende del mare, ma da sabbia, sterpaglia e spine. Roz andò a trovarlo, poi tornò un’altra volta a mettere in scena Oklahoma! – un successone – e si godettero la loro vita sessuale più che soddisfacente. Lei disse “Non capisco di cosa ti lamenti” e lui “Ah, no, figurati se lo capisci, tu”. Quando era lui a tornare da lei e dai ragazzi – visto che erano sempre insieme ormai ci si riferiva a loro al plurale – sembrava che non fosse cambiato nulla. In pubblico apparivano come una famiglia del tutto normale, l’affabile Harold e l’esuberante Roz, una giovane coppia – magari non più così giovane, a questo punto – apprezzata da tutti, come si leggeva spesso nelle rubriche mondane. Per essere un matrimonio che aveva ricevuto la notifica di sfratto, i due inquilini continuavano ad avere l’aria di una coppia a tutti gli effetti. Mentre scherzavano – gli scherzi tra loro non erano mai mancati – erano come quegli alberi dall’interno putrefatto, o la campagna intorno alla città che si ritira man mano che la periferia avanza. Era così difficile per questa coppia disfarsi. Ovunque andassero, a salutarli c’erano i vecchi allievi di lui e persone che erano state coinvolte in uno degli allestimenti di lei. Per centinaia di conoscenti erano Harold e Roz. “Ti ricordi di me... Roz, Harold?” Lei si ricordava sempre, e Harold riconosceva tutti i suoi vecchi studenti. Come una famiglia reale, sentivano il dovere di riconoscere i nomi e le facce di tutti. “Gli Struthers si separano? Ma dai! Non ci credo.” E ora l’altra coppia, anch’essa sotto gli occhi di tutti: Lil sempre chiamata a far da giudice in occasione di gare di nuoto o di corsa, o a presenziare ad altri eventi sportivi, a conferire premi, a tenere discorsi. Anche lì un marito attraente, Theo, noto ovunque per la catena di negozi di articoli sportivi. Atletici e avvenenti, sempre al centro dell’attenzione, come i loro amici, l’altra coppia, ma con uno stile completamente diverso. Non c’era niente di eccessivo o di stravagante in loro, erano affabili, sorridenti, disponibili: due cittadini esemplari, insomma. La rottura fra Roz e Harold non influenzò in alcun modo Theo e Lil. Da anni il loro era un matrimonio di facciata. Theo aveva un’avventura dopo l’altra, e si lamentava che quando dormiva fuori casa non riusciva a infilarsi a letto senza trovarci una ragazza: viaggiava molto, per lavoro. Poi Theo morì in un incidente stradale, e Lil si ritrovò vedova e benestante, col figlio Ian, quel ragazzo ombroso, così diverso da Tom. E in quella città di mare, dove il clima e lo stile di vita rendevano così visibili i suoi abitanti, ecco all’improvviso due donne senza uomini, e i loro due ragazzini. La giovane coppia con figli: è interessante il punto di svolta, il momento in cui cambia tutto. Per un certo periodo, ad attirare gli sguardi e i commenti, al centro di tutto quanto, ci sono i giovani genitori, esseri sessuati per definizione, con i loro bei bambini al seguito o che scorrazzano tutt’intorno. “Oh, ma che bel bambino, che bella bambina, come ti chiami?... Ma che bel nome!”, e poi, si direbbe di colpo, i genitori, non più tanto giovani, sembrano rimpicciolirsi un poco, rattrappirsi perfino, e senza dubbio perdono smalto e colore. “Quanti anni hai detto che ha lui, e lei...?” I piccoli crescono a vista d’occhio e il fascino cambia indirizzo. Gli sguardi seguono loro adesso, non più i genitori. “Crescono così in fretta al giorno d’oggi, vero?” Le due donne, ancora belle, di nuovo insieme, come se gli uomini non avessero mai fatto parte del teorema, se ne andavano in giro con i loro meravigliosi ragazzi, uno dall’aspetto un po’ etereo e poetico, con i riccioli schiariti dal sole che gli ricadevano sulla fronte, l’altro robusto e atletico, amici come lo erano state le madri alla stessa età. Il quadro comprendeva anche un padre, Harold, che però viveva adesso nel Nord del paese e aveva messo su casa con una ragazza che presumibilmente non soffriva delle stesse carenze di Roz. Veniva a trovarli, e in quelle occasioni dormiva a casa di Roz, ma non nella stessa camera da letto (il che con ogni probabilità appariva assurdo a entrambi), e Tom andava a far visita al padre nella sua università. Ma la realtà adesso erano due donne sui trentacinque anni e due ragazzi che presto sarebbero stati due giovanotti. Le case, così vicine, una di fronte all’altra, davano l’impressione di appartenere a entrambe le famiglie, senza distinzioni. “Siamo una famiglia allargata” esclamò un giorno Roz, che ci teneva a trovare una definizione per tutto. La bellezza dei ragazzi... be’, non è una cosa tanto semplice. Per le ragazze sì, ha un senso: le madri di tutti noi, traboccanti di ovuli dal seducente richiamo, è necessario che siano belle e di solito lo sono, anche se solo per un anno o per un giorno. Ma i ragazzi... perché? A che scopo? C’è un momento, un breve momento, più o meno a sedici, diciassette anni, in cui sono circonfusi da un’aura di poesia. Sono come giovani dèi. Le famiglie e gli amici talvolta provano una sorta di sgomento di fronte a questi esseri che sembrano viaggiatori giunti da un’atmosfera più rarefatta. Spesso loro ne sono del tutto ignari, e appaiono a se stessi più come pacchi imballati alla bell’e meglio che cercano di non disfarsi del tutto. Roz e Lil si stavano rilassando sulla piccola veranda affacciata sul mare, quando videro i due ragazzi che risalivano il sentiero, un po’ corrucciati, trascinandosi dietro il loro armamentario da spiaggia – l’avrebbero messo ad asciugare sul muretto della veranda — ed erano così belli che le due donne si drizzarono per guardarsi in faccia e condividere tutta la loro incredulità. “Santo cielo!” disse Roz. “Sì” disse Lil. “Siamo state noi, li abbiamo fatti proprio noi” disse Roz. “E chi altri?” disse Lil. E i ragazzi, dopo essersi sbarazzati di asciugamani e costumi, passarono davanti alle madri con sorrisi che fecero intendere quanto fossero indaffarati: per carità, non li chiamassero per mangiare o rifare i loro letti o qualcosa di altrettanto trascurabile. “Santo cielo!” ripeté Roz. “Aspetta, Lil...” Si alzò ed entrò in casa, mentre Lil rimaneva in attesa sorridendo appena tra sé, come faceva spesso di fronte ai modi teatrali dell’amica. E Roz uscì con un libro tra le mani, un album fotografico. Avvicinò la poltrona a quella di Lil, e insieme sfogliarono una pagina dopo l’altra di lattanti distese su una coperta, lattanti nel bagnetto – erano loro due, e poi ecco “i primi passi” e “il primo dentino” – finché arrivarono alla pagina che cercavano. Due ragazzine di circa sedici anni. “Santo cielo!” esclamò Roz. “Non ce la cavavamo mica male, eh?” disse Lil. Due belle ragazze, sì, decisamente, tutte zucchero e miele, ma chissà se, fotografando Ian e Tom adesso, le immagini avrebbero lasciato filtrare l’incanto che mozzava il respiro a chi li osservava mentre attraversavano una stanza o emergevano pigramente dalle onde? Indugiarono sulle pagine che mostravano loro due, sull’album di Roz; quello di Lil era uguale. Fotografie di Roz, insieme a Lil. Due belle ragazze. Non trovarono quello che stavano cercando, però. Da nessuna parte riuscirono a scorgere il sublime bagliore che illuminava i loro ragazzi in quel momento della vita. Erano ancora lì sedute, con l’album spalancato sopra le quattro gambe distese e abbronzate – erano in bikini – quando i ragazzi uscirono, entrambi con un bicchiere di succo d’arancia in mano. Si sedettero sul muretto che delimitava la veranda e contemplarono le madri, Roz e Lil. “Cosa stanno facendo?” chiese Ian a Tom, in tono serio. “Cosa stanno facendo?” gli fece eco Tom, tutto contegnoso, scherzando come sempre. Poi balzò in piedi, diede una sbirciata alla pagina aperta, metà sulla gamba di Roz e metà su quella di Lil, e tornò indietro. “Stanno rimirando la loro bellezza di quando erano due ninfette” riferì a Ian. “Giusto, mamma?” disse rivolto a Roz. “Giusto” disse Roz. “Tempus fugit. Al galoppo, oltretutto. Voi non ne avete idea... non ancora. Ci è venuta voglia di vedere come eravamo tanti anni fa.” “Non ne sono passati poi così tanti” disse Lil. “Meglio evitare di contarli” disse Roz. “Ne sono passati abbastanza.” A questo punto Ian riuscì a sfilar via l’album dalle cosce delle donne, e quando se lo fu conquistato lui e Tom si sedettero a guardare le ragazze: le loro madri. “Mica male” disse Tom a Ian. “Davvero niente male.” Le donne si scambiarono un sorriso: più che altro una smorfia. “Però siete meglio adesso” disse Ian, e arrossì. “Oh, ma che carino” disse Roz, come se il complimento fosse rivolto solo a lei. “Io non ne sono così sicuro” disse quel burlone di Tom, fingendo di paragonare le vecchie fotografie alle due donne in bikini. “Non saprei. Adesso?...” e strizzò gli occhi per esaminarle. “O allora?” Si chinò sulle foto strabuzzando gli occhi. “Adesso” decretò infine. “Sì, meglio adesso.” Detto questo i due ragazzi si affiancarono, spalla contro spalla e piede contro piede, spintonandosi a vicenda, come spesso facevano ancora, anche se non erano più bambini: eppure agli occhi di tutti erano due giovani dèi, e ogni loro passo o gesto avrebbe potuto appartenere a un’antica urna o a un’antica danza. “Alle nostre mamme” disse Tom, brindando a loro col succo d’arancia. “Alle nostre mamme” ripeté Ian, e il sorriso che indirizzò a Roz la indusse a cambiare leggermente posizione sulla sedia e a spostare le gambe. Roz aveva avvertito Lil che Ian si era preso una cotta per lei, e Lil aveva detto: “Be’, pazienza, vedrai che gli passerà presto”. Quello che a Ian non passava, nemmeno un po’, era il dolore per la morte del padre, avvenuta ormai due anni prima. Dal momento in cui non aveva più avuto un padre, aveva cominciato a star male, diventando sempre più magro, quasi trasparente, tanto che la madre protestava: “Mangia, Ian, mangia qualcosa... devi mangiare”. “Oh, lasciami stare.” Andava meglio a Tom, perché il padre ogni tanto si faceva vivo, e lui poteva andarlo a trovare alla sua università nel Nord del paese. Ian invece non aveva niente, nemmeno il calore dei ricordi. Al posto di suo padre, che con le sue scappatelle e le sue ripetute assenze si era rivelato un disastro, c’era un nulla, un vuoto, e anche se Ian cercava di fare il duro aveva incubi ricorrenti, e alle due donne si stringeva il cuore. Quel ragazzone, con gli occhi gonfi di lacrime, correva ancora dalla mamma e crollava accanto a lei sul divano, lasciandosi abbracciare. Oppure andava da Roz, che lo abbracciava anche lei: “Povero Ian”. E Tom osservava tutto questo, serio, accogliendo quel dolore che non era il suo, e tuttavia gli era così vicino perché era quello dell’amico, un fratello quasi: era il dolore di Ian. “Sono come due fratelli” dicevano tutti. “È come se fossero fratelli, quei due.” Ma uno era minato dalla sventura, che lo corrodeva come un cancro, a differenza dell’altro, che cercava di immaginare il peso di quella sofferenza senza riuscirci. Una notte, Roz si alzò dal letto per andare a prendere qualcosa da bere dal frigorifero. In casa c’era Ian, che era rimasto a dormire da Tom, come accadeva spesso. Si sistemava nel letto gemello in camera dell’amico, o, come stanotte, nella stanza di Harold. Roz lo sentì piangere e senza un attimo di esitazione andò ad abbracciarlo, coccolandolo come un bambino, come faceva da sempre, in fondo. Lui si addormentò fra le sue braccia, e la mattina i suoi sguardi erano pieni di aspettative, famelici, struggenti. Roz non disse nulla, riflettendo su quanto era successo la notte prima. Con Lil non ne fece parola. Ma cosa era successo, poi? Niente che non fosse già successo un centinaio di volte in passato. Eppure c’era qualcosa di strano. Non voleva preoccuparla! Davvero? E quando mai si era trattenuta dal dire tutto a Lil? Accadde anche che Tom rimanesse un paio di notti a casa di Lil, dall’altra parte della strada, insieme a Ian. Rimasta sola, Roz telefonò a Harold, e i due conversarono quasi come una vecchia coppia. “Come sta Tom?” “Oh, bene. Tom sta sempre bene. Quello che mi preoccupa è Ian. La morte di Theo è stata davvero un brutto colpo per lui.” “Povero ragazzo, si riprenderà, vedrai.” “Certo non domani. Senti, Harold, la prossima volta che vieni forse potresti uscire da solo con lui.” “E Tom?” “Tom capirà. Anche lui è preoccupato per Ian, lo so.” “D’accordo. Allora siamo intesi. Conta su di me.” E Harold venne a trovarli, e andò a fare una lunga passeggiata in riva al mare con Ian, che si confidò con lui, che conosceva da sempre, ed era come un secondo padre. “Sta davvero male” riferì Harold a Roz e Lil. “Lo so” disse Lil. “È convinto di non valere niente. Ha l’impressione di essere un fallito.” Gli adulti contemplarono quell’affermazione, come se fosse qualcosa che erano davvero in grado di vedere. “Ma com’è possibile essere dei falliti a diciassette anni?” disse Lil. “Noi ci sentivamo così?” chiese Roz. “Io mi ricordo di sì” disse Harold. “Non preoccuparti.” E tornò alla sua università in mezzo al deserto. Stava pensando di risposarsi. “D’accordo” aveva detto Roz. “Allora vuoi il divorzio.” “Be’, immagino che lei vorrà dei figli” le aveva detto Harold. “Non ne sei sicuro?” “Ha venticinque anni. Dovrei chiederglielo?” “Ah” aveva detto Roz, rendendosi conto. “Non vuoi metterle in testa delle idee, eh?” ed era scoppiata a ridere. “Forse è vero, non voglio.” Poi capitò altre volte che Ian si fermasse a dormire da Tom. Anzi, arrivava proprio all’ora di andare a letto. Si dirigeva verso la camera di Harold, lanciando una breve occhiata a Roz, e lei sperava che Tom non vedesse. Quella notte, quando si svegliò, invece di andare a prendersi qualcosa da bere dal frigorifero, o di mettersi semplicemente a girare per la casa, al buio, come faceva spesso, si trattenne, temendo di sentire il pianto di Ian, temendo che non sarebbe riuscita a impedirsi di andare da lui. Ma poi scoprì che era stato lui a brancolare nel buio fino alla sua stanza, e adesso era di fianco a lei, aggrappato a lei come a un salvagente in una tempesta. Allora ebbe la visione di quei sette scogli neri là fuori, come denti cariati nel buio, e le onde che si frangevano riversandosi tutt’intorno in bianche cascate di spuma. La mattina dopo Roz era seduta al tavolo della stanza che si apriva sulla veranda e alla brezza marina, allo sciabordio, al silenzio profondo del mare. Tom entrò incespicando, appena sceso dal letto, avvolto in un odore di sonno giovane. “Dov’è Ian?” chiese. Di regola non l’avrebbe chiesto: tutti e due erano capaci di dormire fino a mezzogiorno. Roz mescolò ripetutamente il caffè, e disse senza guardarlo: “È nel mio letto”. Di norma la cosa non avrebbe destato particolare scalpore, dal momento che le abitudini disinvolte di quella famiglia allargata prevedevano che madri e figli, o le due donne, o anche una sola delle donne con uno dei ragazzi si sdraiassero insieme per rilassarsi o fare quattro chiacchiere, e lo facevano anche i due ragazzi, e, quando c’era, anche Harold con uno qualunque di loro. Tom la fissò al di là del piatto ancora vuoto. Roz sostenne lo sguardo, e la sua espressione equivaleva a un cenno affermativo della testa. “Cristo santo!” esclamò Tom. “Proprio così” disse Roz. Allora Tom, ignorando il piatto e la prospettiva del succo d’arancia, balzò in piedi, agguantò il costume da bagno dal muretto della veranda e schizzò via verso il mare. Di norma avrebbe gridato a Ian di seguirlo. Tom non si fece vedere per tutto il giorno. Era il periodo delle vacanze scolastiche, ma a quanto pareva aveva partecipato a una delle attività che organizzava la scuola in quei giorni e che di solito disdegnava. Lil era via per presenziare a una competizione sportiva, e non tornò prima di sera. Arrivò a casa di Roz e disse: “Roz, sono stanca morta. C’è qualcosa da mangiare?”. Ian era seduto a tavola, di fronte a Roz, ma non la guardava. E a quel punto Tom, che aveva davanti un piatto pieno, si mise a parlare con Lil come se gli altri non ci fossero. Stanca com’era, Lil quasi non ci fece caso, ma gli altri due sì. E andò avanti così per tutta la cena, e quando Lil disse che doveva proprio andare a letto perché era esausta, Tom semplicemente si alzò e sparì con lei nel buio. La mattina dopo, abbastanza tardi per tutti quanti, Tom attraversò di nuovo la strada e trovò Roz seduta a tavola, nella sua solita posizione rilassata, noncurante, con l’accappatoio allentato. Lui non le rivolse nemmeno un’occhiata, guardando invece tutt’intorno a lei la stanza, il soffitto, in un delirio di felicità e di appagamento. Per Roz non ci fu bisogno di indovinare nulla; conosceva bene quella condizione, perché era simile a quella di Ian, e l’aveva avviluppata tutta la notte.