venerdì 31 marzo 2023

IL GIARDINO DELLE BESTIE Erik Larson

 


IL GIARDINO DELLE BESTIE

Erik Larson


[...] Hitler non era una figura che catalizzasse l'attenzione. Gli accadeva di rado. Nelle prime fasi della sua ascesa, chi faceva la sua conoscenza aveva spesso mostrato una tendenza a considerarlo irrilevante. Aveva origini plebee e non era mai riuscito a distinguersi in alcun campo, che fosse la guerra, il lavoro o l'arte, anche se per quest'ultimo settore era convinto di possedere un grande talento. Si diceva fosse indolente. Si alzava tardi, lavorava poco e si circondava di figure di secondo piano all'interno del partito, con le quali si sentiva piú a suo agio: un entourage di personaggi modesti che Putzi Hanfstaengl aveva definito ironicamente la “chauffeureska”, e che consisteva di guardie del corpo, assistenti e di uno chauffeur. Amava il cinema – King Kong era il suo film preferito – e adorava la musica di Richard Wagner. Vestiva male. A parte i baffi e gli occhi, i tratti del suo volto erano indistinti e anonimi, come se fossero stati modellati nella creta ma non cotti nel forno. Ripensando al suo primo incontro con Hitler, Hanfstaengl scrisse: «Hitler sembrava un parrucchiere di periferia nel suo giorno libero».[...]

Questo libro narra della storia vera di William E. Dodd e di sua figlia Martha, un padre e una giovane donna americani che si ritrovano improvvisamente trapiantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista del 1934. Sessantaquattro anni, snello, gli occhi grigio-azzurri e i capelli castano chiaro, nel 1933 William E. Dodd è un rispettabile professore di storia all'università di Chicago. Mentre siede alla sua scrivania all'università, Dodd riceve una telefonata da Franklin Delano Roosevelt, il presidente degli Stati Uniti, che gli annuncia la sua intenzione di nominarlo a capo della rappresentanza diplomatica americana a Berlino. Ed è cosi che, al loro arrivo, William e Martha si ritrovano ad attraversare una città addobbata di immensi stendardi rossi, bianchi e neri; a sedere negli stessi caffè all'aperto frequentati dalle SS in uniforme nera; a passare davanti a case con balconi traboccanti di gerani rossi; a fare acquisti nei giganteschi empori della città, a organizzare tè, aspirare le fragranze primaverili del Tiergarten, il parco principale di Berlino; ad avere rapporti sociali con Goebbels e Göring, in compagnia dei quali cenare, danzare e divertirsi allegramente; finché, alla fine del 1934, accade un evento che smaschera la vera natura di Hitler e del potere a Berlino, la grande e nobile città che agli occhi di padre e figlia si svela per la prima volta come un immenso Tiergarten, un giardino delle bestie.
IL GIARDINO DELLE BESTIE

Das Vorspiel
Vorspiel: preludio; ouverture; prologo; incontro preliminare; preliminari (sessuali); performance; prova pratica; audizione. Das ist erst das Vorspiel: questo è solo un piccolo assaggio.

Un giorno, all'alba di tempi molto bui, un padre e una figlia americani si ritrovarono improvvisamente tra­piantati dalla loro accogliente casa di Chicago nel cuore della Berlino nazista. Vi restarono per quattro an­ni e mezzo, ma sono soltanto i primi dodici mesi i pro­tagonisti del racconto che segue, poiché coincisero con l'ascesa di Hitler da cancelliere a tiranno assoluto, quan­do tutto era un'incognita e non esisteva alcuna cer­tezza. Quel primo anno si trasformò in una sorta di prologo che conteneva in nuce tutti i temi della grandiosa epica di guerra e sterminio che si sarebbero sviluppati di lí a poco.

Mi sono sempre chiesto come doveva essere stato, per un forestiero, assistere in prima persona all'oscura ascesa al potere di Hitler. Che aspetto avesse la città, che cosa si sentiva, si vedeva, si respirava, e come i diplomatici e gli altri visitatori interpretassero gli eventi che accadevano intorno a loro. Col senno di poi, ci siamo resi conto di quanto sarebbe stato facile cambiare il corso della storia in quel periodo delicato. E allora perché nessuno ha alzato un dito? Perché c'è voluto cosí tanto tempo per riconoscere il reale pericolo rappresentato da Hitler e dal suo regime?

Come per la maggior parte della gente, la mia iniziale percezione di quell'epoca si è formata sui libri e sulle fo­tografie, che mi hanno lasciato la sensazione che il mon­do di allora non avesse colore, ma solo gradazioni di grigio. I due protagonisti della mia storia, al contrario, hanno vissuto la realtà nuda e cruda, continuando nel frattempo ad assolvere i doveri della vita quotidiana. Ogni giorno attraversavano una città ad­dob­bata di im­men­si stendardi rossi, bianchi e neri; se­de­vano negli stes­si caffè all'aperto frequentati dalle snel­le SS in uniforme nera e di tanto in tanto scorgevano lo stesso Hitler, un ometto che viaggiava a bordo di una grossa Mer­ce­des scoperta. Ma passavano anche da­vanti a case con bal­coni traboccanti di gerani rossi; fa­cevano acquisti nei giganteschi empori della città, or­ganizzavano tè, aspiravano le fragranze primaverili del Tiergarten, il parco prin­cipale di Berlino. Avevano rapporti sociali con Goeb­bels e Göring, in compagnia dei qua­li cenavano, dan­zavano e si trastullavano allegramente; finché, quando il loro primo anno giunse al termine, accadde un even­to che contribuí piú di molti al­tri a smascherare la ve­ra natura di Hitler, e che di­ven­ne la chiave di volta del de­cen­nio successivo. Per pa­dre e figlia fu quell'evento a cambiare tutto.

Questa è un'opera di non-fiction. Tutto il materiale fra virgolette è ricavato da lettere, diari, me­morie o altri documenti storici. Nelle pagine che seguono non ho certo tentato di scrivere l'ennesima epopea del pe­riodo in questione. Il mio scopo era di natura piú intima: far conoscere quel mondo del passato at­tra­verso le esperienze e le sensazioni dei miei due pro­tagonisti, padre e figlia, che, giunti a Berlino, intrapresero un viaggio di scoperta, trasformazione e, infine, di profondo do­lore.

Non ci sono eroi in questa storia, o almeno non del ge­nere dipinto in Schindler's List, ma solo bagliori di eroismo, e persone che dimostrano una grazia inaspettata. Esistono sempre sfumature, sebbene, a volte, piut­to­sto inquietanti. È questo il guaio della letteratura di non-fiction. Il lettore dovrà mettere da parte tut­to ciò che – oggi – sa essere vero e sforzarsi piuttosto di ac­compagnare i miei protagonisti, due anime in­no­cen­ti, nel mon­do cosí come lo hanno vissuto in pri­ma per­sona.

Erano creature complesse, che si muovevano in un periodo altrettanto complesso, prima che i mostri rivelassero la loro vera natura.

Erik Larson, Seattle

1933
L’uomo dietro la tenda
Era frequente che gli emigrati americani si presentassero al consolato degli Stati Uniti a Berlino, ma non nelle condizioni dell'uomo che vi giunse giovedí 29 giugno 1933. Era Joseph Schachno, un medico trentunenne di New York che fino a poco tempo prima aveva esercitato la professione in un sobborgo di Berlino. Ora, completamente nudo, era in piedi in uno degli ambulatori con le tende divisorie al primo piano del consolato, dove, in giorni di normale routine, un chirurgo convenzionato visitava chiunque richiedesse un visto per emigrare negli Stati Uniti. L'uomo aveva la pelle scorticata su buona parte del corpo.

Due funzionari fecero il loro ingresso nell'ambulatorio. Uno era George Messersmith, console generale per la Germania dal 1930 (non aveva alcuna parentela con Wilhelm “Willy” Messersmith, l'ingegnere aeronautico tedesco). Come rappresentante diplomatico di grado piú alto di stanza a Berlino, Messersmith sovrintendeva ai die­ci consolati americani distribuiti nelle varie città te­desche. Al suo fianco c'era il viceconsole, Raymond Geist. Di norma Geist era freddo e imperturbabile, ma Messersmith notò che quel giorno era pallido e profondamente scosso.

Entrambi gli uomini rimasero inorriditi dalle condizioni di Schachno. «Dal collo ai talloni era un'unica mas­sa di carne scorticata» constatò Messersmith. «È sta­to frustato senza pietà, finché la pelle non si è letteralmente staccata e ha iniziato a sanguinare. Ho dato un'occhiata e sono corso piú in fretta che potevo a uno dei lavabi del chirurgo».

Le frustate, apprese Messersmith, erano state inferte nove giorni prima, ma le ferite erano ancora fresche. «Perfino dopo nove giorni i segni presenti dalle scapole fino alle ginocchia mostrano che l'uomo è stato colpito su entrambi i lati. Le natiche sono pressoché scorticate e presentano ancora grosse porzioni sulle quali la pelle non si è riformata. In alcuni punti la carne era sta­ta letteralmente ridotta a una polpa».

Se ciò era accaduto nove giorni prima, si chiese Mes­sersmith, che aspetto dovevano aver avuto le ferite su­bi­to dopo l'aggressione?

La vicenda fu presto chiarita.

La notte del 21 giugno, Schachno aveva ricevuto la visita di uno squadrone di uomini in uniforme, mobilitati da una denuncia anonima che accusava il medico di essere un potenziale nemico dello Stato. Gli uo­mini avevano perquisito la casa e, benché non avessero trovato nulla, lo avevano portato al loro quartier ge­nerale. A Schachno era stato ordinato di spogliarsi e, subito dopo, due uomini lo avevano frustato brutalmente e ripetute volte. Terminato il castigo, lo avevano lasciato libero. Il medico era riuscito in qualche mo­do a trascinarsi fino a casa, poi, accompagnato dal­la moglie, aveva raggiunto il centro di Berlino, dove abitava sua suocera. Era rimasto a letto per una settimana; poi, appena recuperate le forze, era andato al consolato.

Messersmith diede ordine di portarlo in ospedale, e quello stesso giorno gli forní un nuovo passaporto statunitense. Poco dopo, Schachno e la moglie fuggirono in Svezia e, successivamente, in America.

Da quando Hitler aveva assunto la nomina di cancelliere in gennaio, c'erano stati diversi casi di percosse e arresti di cittadini americani, ma non si era mai verificato un episodio tanto grave, sebbene migliaia di cittadini tedeschi avessero subito un trattamento altrettanto duro, e spesso anche peggiore. Per Messersmith, questo non faceva che confermare ulteriormente la cru­da realtà della vita durante il nazismo. Si rendeva conto che tutta quella violenza era ben piú di un'esplosione di atrocità passeggera. Qualcosa di fondamentale era cambiato in Germania.

Ciò nonostante, Messersmith sapeva che in Ame­rica erano in pochi a pensarla come lui. Era sempre piú turbato dalla consapevolezza di quanto fosse difficile persuadere il mondo delle reali proporzioni del­la minaccia rappresentata da Hitler. Era fin troppo chia­ro ai suoi occhi che Hitler stava preparando in se­greto la Germania a un'aggressiva guerra di conquista. «Vorrei tanto che fosse possibile aprire gli occhi ai nostri fratelli in America» scrisse nel giugno del 1933 in un rapporto per il dipartimento di Stato, «perché ritengo essenziale che capiscano fino a che punto questo spirito marziale stia attecchendo in Germania. Se l'attuale governo resterà in carica ancora per un anno e continuerà di questo passo, non tarderà a trasformare la Germania in una minaccia alla pace mondiale negli an­ni a venire». E aggiunse: «Con poche eccezioni, gli uo­mini a capo di questo governo hanno un mo­do di ra­gionare che non riesco a comprendere. Alcuni di loro so­no degli psicopatici che, in condizioni normali, verrebbero sottoposti a un trattamento in qualche struttura specializzata».

Ma in Germania non c'era ancora un ambasciatore per­manente. L'ultimo, Frederic M. Sackett, se n'era an­da­to a marzo, quando Franklin D. Roosevelt si era insediato come nuovo presidente degli Stati Uniti. (Nel 1933 l'insediamento ebbe luogo il 4 marzo.) Per qua­si quattro mesi il posto di ambasciatore era rimasto va­cante, e chi avrebbe dovuto assumere l'in­carico non sa­rebbe arrivato prima di tre settimane. Messersmith non lo conosceva di persona, ma so­lo at­traverso le in­for­ma­zioni indirette fornitegli dalle sue nu­merose co­no­scen­ze nel di­par­ti­mento di Stato. Ciò che sa­peva era che il nuo­vo ambasciatore sarebbe piom­bato in un calderone di brutalità, corruzione e fanatismo, e che si sa­rebbe do­vuto dimostrare un uomo di grande carattere, capace di rappresentare gli interessi e il potere del­l'A­me­ri­ca, perché il potere era la sola cosa che Hitler e i suoi uomini erano in grado di comprendere.

Tuttavia, si diceva che l'uomo in questione fosse un individuo di poche pretese che si era ripromesso di condurre una vita modesta a Berlino per dimostrare la sua solidarietà nei confronti dei concittadini americani lasciati nell'indigenza dalla Depressione. Incredibile a dirsi, il futuro ambasciatore si era fatto spedire a Berlino la propria auto – una vecchia Chevrolet male in arnese – per ribadire la sua vocazione alla frugalità. Il tutto in una città dove gli uomini di Hitler giravano a bordo di gigantesche automobili nere poco piú piccole di un autobus.

Prima parte

Nel bosco
1. Via di fuga
La telefonata che cambiò per sempre la vita della famiglia Dodd di Chicago arrivò giovedí 8 giugno 1933, a mezzogiorno, mentre William E. Dodd sedeva alla sua scrivania all'Università di Chicago.

Attualmente direttore del dipartimento, Dodd insegnava storia dal 1909 ed era ap­prezzato a livello nazionale per i suoi scritti sul Sud de­gli Stati Uniti e per la sua biografia di Woodrow Wilson. A sessantaquattro anni, era snello, alto poco piú di un metro e settanta, con gli occhi grigio-azzurri e i capelli castano chiaro. Sebbene il suo viso tendesse a comunicare severità perfino quando era di umore disteso, Dodd aveva un senso dell'umorismo vivace e pungente, e bastava poco per innescarlo. Aveva una moglie, Martha, conosciuta come Mattie, e due figli. La femmina, anche lei di nome Martha, aveva ventiquattro anni; il maschio, William Jr – Bill – ne ave­va ventotto.

A detta di tutti, erano una famiglia felice e unita. Certo non ricca, ma benestante, a dispetto della crisi economica che stringeva nella sua morsa l'intera na­zione. Vivevano in una casa spaziosa al civico 5757 di Black­stone Avenue nel quartiere di Hyde Park a Chi­ca­go, a po­ca distanza dall'università. Dodd era anche pro­prie­tario di una piccola fattoria a Round Hill, in Virginia, e ogni estate se ne prendeva cura; secondo un rilevamento topografico commissionato dalla contea, la tenuta vantava 156,4 ettari («circa») ed era il luogo nel qua­le Dodd, l'esempio perfetto di democratico jefferso­nia­no, si sentiva piú a casa, fra le sue giovenche Guernsey, i quattro castroni, Bill, Coley, Mandy e Prince, il trattore Farmall e gli aratri Syracuse trainati dai cavalli. Pre­pa­rava il caffè in un barattolo di Maxwell House sopra la vecchia stufa a legna. Sua moglie non era al­trettanto le­gata a quel posto, e preferiva lasciare che il marito vi trascorresse il tempo da solo, mentre il resto della famiglia rimaneva a Chicago. Dodd aveva chiamato la fattoria “Stoneleigh”, per via delle rocce disseminate su tutta la sua superficie, e ne parlava con lo stesso ardore con cui altri uomini avrebbero parlato del loro primo amore. «I frutti sono bellissimi a ve­dersi, quasi im­macolati, rossi e succulenti, e gli alberi si piegano sot­to il loro peso» scrisse in una splendida notte, durante la raccolta delle mele. «Ne sono rapito».

Sebbene di solito non amasse i luoghi comuni, Dodd descrisse la telefonata come un «fulmine a ciel sereno». Si trattava, tuttavia, di una definizione lievemente iperbolica. Nei mesi precedenti aveva avuto occasione di parlare con i suoi amici del fatto che, un giorno o l'altro, sarebbe potuta arrivare una telefonata simile. Era la natura stessa della chiamata ad aver lasciato di stucco Dodd, turbandolo non poco.

 

Già da qualche tempo ormai Dodd si sentiva insoddisfatto della sua posizione all'università. Nonostante a­mas­se molto insegnare storia, la sua vera passione era la scrittura, e lavorava da diversi anni a quella che – ne era convinto – sarebbe diventata la versione definitiva della storia del Sud agli albori, un'opera in quattro vo­lumi che avrebbe intitolato L'ascesa e la caduta del vec­chio Sud, ma la routine del suo lavoro ne aveva ripetutamente ostacolato i progressi. Soltanto il primo vo­lume era qua­si concluso, e Dodd aveva un'età in cui il rischio di essere seppellito insieme alla sua opera in­compiuta era molto elevato. Aveva negoziato con il di­par­timento per ot­tenere un orario ridotto ma, come spesso accade quando si pren­dono accordi ufficiosi, le cose non erano andate nel mo­do auspicato. Cattedre vacanti e difficoltà fi­nanziarie al­l'interno dell'università e nel quadro piú ge­nerale del­la Depressione lo avevano costretto a lavorare tan­to quan­to prima, a trattare con i burocrati della facoltà, a preparare lezioni e a confrontarsi con le asfissianti ri­chie­ste dei dottorandi. In una lettera datata 31 ottobre 1932 e indirizzata al dipartimento per la Manutenzione delle in­frastrutture e delle aree verdi, Dodd implorava i re­sponsabili di accendere il riscaldamento anche la do­me­nica, in modo da concedergli al­meno un giorno alla set­timana da dedicare ininterrottamente alla scrittura. A un amico descrisse la sua situazione come «imbarazzante».

Oltre a sentirsi insoddisfatto, Dodd era convinto che avrebbe meritato una carriera piú brillante di quella che poteva vantare al momento. Ciò che gli aveva impedito di avanzare a passo piú spedito – si lamentava in una lettera alla moglie – era il fatto di non essere cresciuto in condizioni privilegiate e di aver dovuto lavorare sodo per ottenere tutto ciò che aveva, a differenza di altri colleghi che nel suo stesso campo avevano fatto carriera piú rapidamente. E aveva davvero sudato sette camicie per raggiungere la sua attuale posizione. Quando era venuto al mondo, il 21 ottobre 1869, nella casa dei suoi genitori nel piccolo villaggio di Clayton nel North Carolina, Dodd era entrato a far parte dello strato piú basso della popolazione bianca del Sud, in una società che si atteneva ancora alle convenzioni di classe dell'epoca prebellica. Suo padre, John D. Dodd, era un semianalfabeta de­dito all'agricoltura di sussistenza; sua madre, Evelyn Creech, discendeva da una famiglia del North Carolina molto piú illustre e riteneva di aver sposato un uomo di ceto inferiore. La coppia coltivava cotone su un terreno che aveva ricevuto dal padre di Evelyn, e riusciva a stento a guadagnarsi da vivere. Negli anni che seguirono la Guerra Civile, quando la produzione di cotone crebbe a dismisura e i prezzi crollarono, la famiglia si indebitò pro­gressivamente con l'emporio della città, il cui proprietario era un parente di Evelyn nonché uno dei tre uomini piú abbienti di Clayton. «Uomini duri» li definiva Dodd, «commercianti e aristocratici padroni dei propri dipendenti!»

Dodd aveva sei fratelli, e trascorse la sua giovinezza lavorando la terra di famiglia. Pur ritenendo quell'attività degna di rispetto, non aveva intenzione di passare il resto della vita a fare l'agricoltore, e si rese conto che l'unico modo in cui una persona di umili origini come lui avrebbe potuto sfuggire a un simile destino era procurarsi un'istruzione. Si fece strada lentamente, e in alcuni periodi si concentrò a tal punto sugli studi che gli altri studenti iniziarono a chiamarlo “Dodd il Monaco”. Nel febbraio del 1891 entrò al Vir­ginia Agricultural and Mechanical College (che sarebbe poi diventato il Virginia Tech). Anche lí si dimostrò una persona seria e determinata. Altri studenti indulgevano in scherzi goliardici come verniciare la mucca del preside della facoltà o inscenare finti duelli per convincere le matricole di aver ucciso i propri avversari. Dodd non faceva che studiare, e ottenne il diploma di laurea nel 1895, specializzandosi poi nel 1897, all'età di ventisei anni.

Dietro incoraggiamento di un rispettabile membro della facoltà e grazie al prestito ricevuto da un benevolo prozio, nel 1897 Dodd partí per la Germania ed entrò all'Università di Lipsia per iniziare i corsi di dottorato. Portò con sé la sua bicicletta. Come argomento della te­si scelse Thomas Jefferson, nonostante le ovvie difficoltà nel procurarsi in Germania documenti americani re­lativi al diciottesimo secolo. Dodd partecipò attivamente alle lezioni e trovò materiale pertinente negli archivi di Londra e di Berlino. Viaggiava molto, spesso in bicicletta, e rimase piú volte colpito dall'atmosfera militarista che pervadeva la Germania. Un giorno, uno dei suoi professori preferiti condusse un dibattito sul tema: «Fino a che punto gli Stati Uniti si troverebbero indifesi se subissero l'invasione di un potente esercito tedesco?» Tutta quella bellicosità prussiana metteva a di­sa­gio Dodd, il quale scrisse: «Ovunque c'era troppo spiri­to guerrafondaio».

Dodd tornò nel North Carolina nel tardo autunno del 1899 e, dopo mesi di ricerche, ottenne finalmente un posto come assistente al Randolph-Macon College di Ashland, in Virginia. Rinnovò anche la sua amicizia con una giovane donna di nome Martha Johns, figlia di un agiato proprietario terriero che viveva vicino alla città dov'era nato Dodd. L'amicizia si trasformò in una storia d'amore, e la vigilia di Natale del 1901 i due si sposarono.

Al Randolph-Macon, Dodd si cacciò subito nei guai. Nel 1902 pubblicò sul Nation un articolo nel quale prendeva di mira una vittoriosa campagna lanciata dal Grand Camp of Confederate Veterans affinché la Vir­ginia mettesse al bando un manuale scolastico di storia che, dal punto di vista dei veterani, rappresentava un affronto all'onore sudista. Dodd li accusava di essere convinti che le sole fonti storiche valide fossero quelle secondo le quali il Sud «aveva fatto benissimo a separarsi dall'Unione».

La reazione fu immediata. Un avvocato di spicco al­l'interno del movimento dei veterani lanciò una petizione affinché Dodd fosse cacciato dal Randolph-Macon College. L'istituto offrí a Dodd tutto il suo so­stegno. Un anno dopo, Dodd attaccò di nuovo i veterani, questa vol­ta in un di­scor­so tenuto davanti al­l'American His­torical Society, durante il quale biasimò i loro sforzi di «bandire dalle scuole qualsiasi libro non rispondesse agli standard del patriottismo locale». Dichiarò che «re­stare in silenzio è fuori discussione per un uomo forte e onesto».

La levatura di Dodd come storico crebbe e, di conseguenza, anche quella della sua famiglia. Il primogenito nacque nel 1905, la figlia nel 1908. Consapevole che un aumento di stipendio sarebbe tornato utile e che la pressione dei suoi nemici sudisti non si sarebbe allentata facilmente, Dodd si mise in lista per un posto all'Università di Chicago. Ottenne l'incarico, e nel gelido inverno del 1909, all'età di trentanove anni, si trasferí con la famiglia a Chicago, dove sarebbe rimasto per il successivo quarto di secolo. Nell'ottobre del 1912, av­vertendo il peso della sua eredità e l'urgenza di dimostrare la propria credibilità in quanto autentico democratico jeffersoniano, si comprò la fattoria. L'estenuante lavoro che lo aveva logorato durante tutta l'infanzia si trasformò allo stesso tempo in un diversivo salutare per lo spirito e in una romantica evocazione del passato a­me­ricano.

Dodd scoprí in sé anche un durevole interesse per la vita politica, interesse che ricevette una spinta decisiva quando, nell'agosto del 1916, il professore si ritrovò nello Studio Ovale della Casa Bianca per una riunione con il presidente Woodrow Wilson. A detta di un biografo, l'incontro «cambiò profondamente la sua vita».

Dodd era sempre piú turbato dai segnali che preannunciavano l'imminente intervento dell'America nel­la Grande Guerra che si stava combattendo in Europa. La sua esperienza a Lipsia non gli aveva lasciato alcun dub­bio sul fatto che la Germania fosse la sola responsabile del conflitto innescato per soddisfare le aspirazioni degli industriali tedeschi e degli aristocratici, gli Junker, che Dodd paragonava ai notabili sudisti di pri­ma della Guerra Civile. Ora assisteva all'emergere di una simile hybris fra l'élite industriale e militare della stessa America. Quando un generale dell'esercito ten­tò di coinvolgere l'Università di Chicago in una campa­gna nazionale per preparare la patria alla guerra, Dodd s'i­nal­berò e presentò il suo reclamo al comandante in per­sona.

Dodd si sarebbe accontentato di sottrarre anche so­lo dieci minuti al tempo di Wilson, ma ne ottenne mol­ti di piú e finí per restare profondamente incantato, co­me un personaggio di una fiaba al quale avessero som­mi­ni­strato una pozione magica. Si convinse perfino che Wil­son aveva ragione a sostenere l'intervento degli Sta­ti Uni­ti nel conflitto. Agli occhi di Dodd, Wilson rap­pre­sentava la moderna incarnazione di Jefferson. Nei sette anni successivi lui e Wilson diventarono ami­ci, e Dodd scrisse la sua biografia. Alla morte di Wilson, il 3 febbraio 1924, Dodd osservò il lutto piú stretto.

Dopo qualche tempo iniziò a considerare Franklin Roosevelt come il degno successore di Wilson, e partecipò attivamen­te alla campagna che nel 1932 portò al­l'elezione del nuovo presidente, parlando e scrivendo in suo favore ogni volta che si presentava l'occasione. Tuttavia, se aveva nutrito qualche speranza di en­tra­re a far parte della cerchia ristretta di Roosevelt, Dodd eb­be presto un'amara delusione, e rimase relegato ai do­veri sempre piú frustranti del suo incarico ac­ca­de­mico.

 

Ora aveva sessantaquattro anni, e il solo modo per lasciare una traccia di sé nel mondo sarebbe stato portare a termine la sua storia del vecchio Sud. Ma tutte le forze dell'universo sembravano essersi coalizzate per ostacolarlo, compresa la politica universitaria di non riscaldare gli edifici alla domenica.

Valutava sempre piú spesso la possibilità di lasciare l'ateneo e di procurarsi un lavoro che gli lasciasse piú tempo per scrivere, «prima che sia troppo tardi». Gli ven­ne in mente che la soluzione ideale avrebbe potuto essere un incarico non molto impegnativo nel dipartimento di Stato, magari come ambasciatore a Bruxelles o all'Aia. Era convinto di avere titoli e fama sufficienti per ambire a un posto del genere, anche se tendeva a sopravvalutare la propria influenza nel campo degli affari nazionali. Aveva scritto spesso a Roosevelt per dargli consigli su questioni economiche e politiche, sia prima sia subito dopo la vittoria del presidente. Di certo Dodd fu molto seccato quando, appena terminate le elezioni, ricevette dalla Casa Bianca una lettera prestampata nella quale si leggeva che, nonostante la vo­lon­tà di rispondere a tutte le lettere indirizzate al suo ufficio, il presidente non poteva occuparsi di persona dell'intera corrispondenza con la dovuta tempestività, e pertanto aveva chiesto al suo segretario di sostituirlo in quell'incombenza.

Dodd, però, aveva diversi amici fidati molto vicini a Roosevelt, incluso il nuovo ministro del Commercio, Daniel Roper. I figli di Dodd erano come nipoti per Ro­per, e fra loro c'era abbastanza confidenza perché Dodd non si facesse alcuno scrupolo a mandare suo fi­glio co­me intermediario per chiedere a Roper se la nuo­va am­ministrazione ritenesse opportuno nominare Dodd am­basciatore in Belgio o nei Paesi Bassi. «Si tratta di uffici che il governo deve affidare a qualcuno, ma il lavoro non è pesante» disse al figlio. Gli confidò che a motivarlo in quella scelta era soprattutto l'esigenza di completare il suo Vecchio Sud. «Non desidero alcun incarico da parte di Roosevelt, mi preme soltanto che il proposito di tutta una vita non venga vanificato».

In parole povere, Dodd voleva una sinecura, un la­vo­ro non troppo impegnativo che gli garantisse co­mun­que prestigio e uno stipendio minimo, ma, cosa ben piú importante, gli lasciasse tutto il tempo di cui ave­va bisogno per scrivere, pur essendo consapevole che la carriera del diplomatico non si confaceva molto al suo carattere. «Quanto all'alta diplomazia (Londra, Parigi, Ber­li­no), non sono la persona adatta» scrisse alla moglie nel 1933. «Mi dispiace doverti deludere a tal proposito. È so­lo che non sono abbastanza furbo e ipocrita da riuscire a “mentire all'estero per il bene della patria”. Se lo fos­si, potrei andare a Berlino e inchinarmi a Hitler, e im­parare di nuovo il tedesco. Ma» aggiunse «perché perdere tempo a scrivere di un argomento simile? Chi mai sarebbe disposto a vivere a Berlino per i prossimi quattro anni?»

Che fosse il risultato dell'incontro fra suo figlio e Roper o dell'interazione di altre forze, sta di fatto che il nome di Dodd iniziò presto a circolare. Il 15 marzo 1933, durante un soggiorno presso la sua fattoria in Vir­ginia, andò a Washington per un colloquio con il nuo­vo segretario di Stato di Roosevelt, Cordell Hull, un personaggio che lo stesso Dodd aveva già avuto modo di incontrare in varie occasioni. Hull era alto, aveva i capelli grigio argento, una fossetta sul mento e la mascella volitiva. Sembrava la perfetta incarnazione di ciò che un segretario di Stato avrebbe dovuto essere, ma chi lo conosceva meglio sapeva che quando an­dava in collera aveva la propensione – tutt'altro che consona a un uomo di Stato – di abbandonarsi a un profluvio di bestemmie, e che aveva un difetto di pronuncia a causa del quale le “erre” diventavano “v”, facendolo assomigliare a Elmer Fudd, il personaggio dei cartoni animati (una peculiarità di cui, ogni tanto e rigorosamente in privato, Roosevelt si prendeva gioco, per esempio citando gli “accovdi commevciali” di Hull). Que­st'ultimo, come d'abitudine, aveva nel taschino della camicia quattro o cinque matite ros­se, i suoi strumenti di governo pre­feriti. Avanzò la proposta di affidare a Dodd un incarico in Olanda o in Belgio, proprio come il suo interlocutore ave­va sperato. Ma ora, im­provvisamente costretto a immaginare la real­tà quo­tidiana che una vita simile avrebbe comportato, Dodd ten­tennò. «Dopo un attento esame della si­tuazione» scris­se nel suo piccolo diario tascabile, «ho ri­sposto a Hull che non potevo accettare un incarico co­me quel­lo».

Il suo nome però rimase in circolazione.

E adesso, in quel giovedí di giugno, il telefonò iniziò a squillare. Quando avvicinò la cornetta all'orecchio, Dodd sentí una voce che riconobbe all'istante.

2. Quel posto vacante a Berlino
Nessuno voleva un incarico simile. Quella che, fra le tante incombenze a cui Franklin D. Roosevelt avrebbe dovuto far fronte in qualità di presidente fresco di elezione, si era prospettata come una delle meno problematiche, nel giugno del 1933 divenne una delle piú spinose. Nel panorama generale delle ambasciate, Ber­lino avrebbe dovuto essere una chicca; non come Lon­dra o Parigi, certo, ma pur sempre una delle grandi ca­pitali europee, nonché il centro di una nazione travolta da una ventata di cambiamenti rivoluzionari sot­to la guida del suo cancelliere di recente nomina, Adolf Hitler. A seconda dei punti di vista, la Germania stava vi­vendo un periodo di straordinaria rinascita o di selvaggio o­scurantismo. Con l'ascesa di Hitler, il paese era stato at­traversato da un'ondata di violenza tollerata dallo Sta­to. L'esercito paramilitare delle camicie bru­ne al servizio di Hitler, le Sturmabteilungen, o SA – Squadre d'as­salto – si era scatenato, iniziando ad arrestare, pe­stare e in alcuni casi anche uccidere comunisti, socialisti ed ebrei. Le Squadre d'assalto improvvisavano prigioni e luoghi di tortura in seminterrati, ca­panni e altre strutture. La sola Berlino poteva vantare ben cinquanta dei cosiddetti “bunker”. Decine di mi­gliaia di persone furono arrestate e sottoposte a Schutzhaft, “cu­stodia preventiva”, un ridicolo eufemismo. Stando alle stime, tra i cinquecento e i settecento prigionieri morirono durante la detenzione; altri, secondo un atto notorio della polizia, subirono «im­pic­cagioni e annegamenti simulati». Una prigione nei pressi dell'aeroporto di Tempelhof, la Co­lumbia-Haus – da non confondere con il moderno e scintillante edificio chiamato Columbus-Haus –, divenne tristemente celebre. Quel­l'improvviso sconvolgimento indusse un leader ebreo, il rabbino Stephen S. Wise di New York, a dire a un amico: «Le fron­tiere della civiltà so­no state oltrepassate».

Roosevelt fece il suo primo tentativo di colmare il posto vacante a Berlino il 9 marzo 1933, dopo nemmeno una settimana dal suo insediamento (avvenuto il 4 marzo) e proprio quando in Germania l'ondata di violenza raggiungeva il picco massimo di ferocia. Offrí l'incarico a James M. Cox, il quale si era candidato alla presidenza nel 1920, con Roosevelt in corsa per la vicepresidenza.

In una lettera infiorata di lusinghe, Roosevelt scrisse: «Non è solo in virtú del mio affetto nei tuoi confronti, ma anche perché ti ritengo particolarmente adatto a un ruolo chiave come questo, che sono cosí convinto di volerti proporre al Senato come ambasciatore americano in Germania. Spero tanto che accetterai, dopo averne parlato con la tua incantevole moglie, la quale, tra l'altro, è la consorte perfetta per un ambasciatore. In­via­mi un telegram­ma per dirmi che accetti».

Cox rifiutò: gli impegni legati ai suoi molteplici interessi, inclusi diversi giornali, lo costringevano a declinare l'offerta. Non fece alcun accenno alla violenza che stava sconvolgendo la Germania.

Roosevelt accantonò il problema per affrontare la Gran­de Depressione, la crisi economica che continuava ad aggravarsi e che quella primavera aveva fatto perdere il posto a un terzo della forza lavoro non agricola, dimezzando il prodotto interno lordo. Il presidente lasciò passare almeno un mese prima di tornare a occuparsi della questione, e offrí l'incarico a Newton Baker, ministro della Guerra sotto Woodrow Wilson e al momento socio di uno studio legale a Cleveland; ma anche Baker declinò l'offerta. E lo stesso fece il terzo candidato, Owen D. Young, eminente uomo d'affari. Dopo di lui, Roosevelt tentò di convincere Edward J. Flynn, figura chiave all'interno del Partito democratico e uno dei suoi maggiori sostenitori. Flynn discusse della proposta con la moglie, concludendo: «Vista la tenera età dei nostri figli, un simile incarico sarebbe inconcepibile».

Un giorno, Roosevelt disse scherzosamente a un mem­bro della famiglia Warburg: «Vedi, Jimmy, il no­stro caro amico Hitler avrebbe proprio quel che si me­rita se mandassi un ebreo a Berlino in veste di ambasciatore. Ti piacerebbe, come lavoro?»

Adesso, con l'arrivo di giugno, un'altra questione si rendeva impellente. Roosevelt era impegnato in una bat­taglia logorante per far approvare il National In­dus­trial Recovery Act, il pezzo forte del suo New Deal, che in­contrava la fervida opposizione dello zoc­colo duro dei re­pubblicani. Ai primi del mese, quando mancavano or­mai pochi giorni alla chiusura estiva del Con­gres­so, il di­segno di legge sembrava sul punto di passare, ma era an­cora sottoposto agli attacchi dei repubblicani e perfino di qualche democratico che spa­rava raffiche di emendamenti costringendo il Se­nato a una maratona di sessioni. Roosevelt temeva che il protrarsi della battaglia avrebbe aumentato il ri­schio che il disegno di legge venisse bocciato o radicalmente modificato, an­che perché qualsiasi prolungamento dei lavori parlamentari avrebbe potuto scatenare l'ira dei legislatori, ansiosi di lasciare Wash­ing­ton per le vacanze estive. La tensione collettiva cresceva a vista d'occhio. Un'ondata di caldo tardo primaverile aveva colpito l'in­tera nazione, portando le temperature a livelli record e provocando piú di mille vittime. Wash­ing­ton ribolliva, e la gente puzzava. Un titolo a tre colonne sul New York Times an­nunciava: ROOSEVELT SEMPLIFICA IL PRO­GRAMMA PER AC­CE­LERARE LA CHIUSURA DELLA SESSIONE: TEME PER LA SUA LI­NEA POLITICA.

E qui sorgeva un problema: il Congresso doveva confermare e finanziare nuovi ambasciatori. Prima si fosse sciolto il Congresso, piú impellente sarebbe stata per Roosevelt la necessità di scegliere un nuovo uomo per Berlino. Cosí il presidente fu costretto a prendere in considerazione candidati che esulavano dal solito clien­telismo, fra i quali anche i rettori di almeno tre università e un fervente pacifista di nome Harry Emerson Fosdick, il pastore battista di Riverside Church, a Man­hattan. Tuttavia, nessuno di loro si rivelò la persona giu­sta, e a nessuno di loro fu offerto l'incarico.

Mercoledí 7 giugno, a pochi giorni dalla chiusura del Congresso, Roosevelt incontrò diversi consiglieri a lui vicini e confessò la delusione per non essere ancora riuscito a trovare un nuovo ambasciatore. Fra i presenti c'era anche il ministro del Commercio, Roper, un amico di vecchia data che di tanto in tanto Roosevelt chiamava “zio Dan”.

Roper si concesse un istante per riflettere, poi buttò lí un nome che non era stato ancora preso in considerazione, quello di un suo vecchio amico. «Che ne pensi di William E. Dodd?»

«Non è una cattiva idea» rispose Roosevelt, pur non essendo affatto chiaro se lo pensasse davvero. Sempre molto affabile, il presidente era incline a fare promesse che non sempre aveva intenzione di mantenere.

«Ci rifletterò» concluse Roosevelt.

 

Dodd era tutto fuorché il tipico candidato per un incarico diplomatico. Non era ricco, né politicamente in­fluente, e non apparteneva nemmeno alla cerchia di ami­ci di Roosevelt. Tuttavia parlava tedesco e si diceva che conoscesse bene il paese. Un potenziale problema era il suo legame di vecchia data con Woodrow Wilson, il cui impegno nel coinvolgere altre nazioni sullo scacchiere mondiale era visto con orrore da un numero sempre piú alto di america­ni, convinti che gli Stati Uniti do­vessero evitare di immischiarsi negli affari altrui. Questi “isolazionisti”, guidati da William Borah del­l'Idaho e da Hiram Johnson della California, erano di­ventati sempre piú sfacciati e potenti. Dai sondaggi era emerso che il novantacinque per cento degli americani voleva che gli Stati Uniti evitassero un coinvolgimento in qualsiasi guerra straniera. Nonostante lo stesso Roose­velt fosse personalmente favorevole a un maggior impegno internazionale, teneva nascoste le sue opinioni in proposito per non ostacolare i propri progressi nella politica interna. Tuttavia, era alquanto improbabile che Dodd potesse provocare particolari reazioni da parte degli isolazionisti: era uno storico dal temperamento mite, e la sua conoscenza diretta della Germania avrebbe potuto rivelarsi preziosa.

Berlino, inoltre, non era ancora il frenetico avamposto che sarebbe diventato di lí a un anno. A quel tempo era opinione diffusa che il governo di Hitler non sarebbe sopravvissuto a lungo. La forza militare della Ger­mania era limita­ta: il suo esercito, la Reichswehr, con­tava solo centomila uomini e non poteva competere con il contingente france­se, per non parlare delle for­ze congiunte di Francia, Inghil­ter­ra, Polonia e Unio­ne So­vie­tica. E lo stesso Hitler aveva iniziato a dimostrarsi un personaggio piú moderato di quanto si sarebbe potuto presagire dall'ondata di violenza che aveva travolto la Germania qualche mese prima. Il 10 maggio 1933 il Par­tito nazista aveva dato alle fiamme una serie di libri sgraditi – opere di Einstein, Freud, dei fratelli Mann e di mol­ti altri – innalzando roghi in tutta la Germania, ma una settimana dopo Hitler si dichiarò impegna­to a mantenere la pace e arrivò perfino a promettere il di­sar­mo completo, se altri paesi avessero seguito il suo esempio. Il mon­do esultò, sollevato. Ri­spetto alle sfide ben piú grandi che attendevano Roose­velt – la crisi mondiale, un altro rovinoso anno di siccità – la Germania sembrava piú che altro una seccatura. Quello che Roosevelt e il segretario di Stato Hull vedevano come il problema piú ur­gente era il de­bito di un miliardo e duecentomila dollari che la stessa Germania aveva contratto con gli Stati Uniti, e che Hitler si mostrava sempre meno propenso a voler saldare.

Nessuno sembrava preoccuparsi molto di individua­re le qualità necessarie per poter negoziare in mo­do efficace con il governo nazista. Il ministro Roper era con­vinto che «Dodd sarebbe stato abile nello svolgere le proprie mansioni diplomatiche e, se si fosse creata tensione durante le conferenze, avrebbe potuto capovolgere la situazione citando Jefferson».

 

Roosevelt seguí il suggerimento di Roper.

Il tempo stringeva, e c'erano questioni molto piú urgenti da risolvere per un paese la cui economia stava precipitando sempre piú rapidamente nel baratro.

Il giorno successivo, l'8 giugno, Roosevelt fece chiamare Chicago.

Fu una telefonata breve. Disse a Dodd: «Vorrei sa­pe­re se sarebbe disposto a rendere un grande servizio al governo. Desidero che lei vada in Germania in quali­tà di ambasciatore». E aggiunse: «Voglio mandare in Ger­mania un americano progressista perché sia un esem­pio costante».

Nello Studio Ovale faceva caldo, come nell'ufficio di Dodd. A Chicago la temperatura superava i trenta gradi.

Dodd disse a Roosevelt che aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere e per parlarne con la moglie.

Il presidente gli concesse due ore.

 

Per prima cosa Dodd ne discusse con l'amministrazione, che lo esortò ad accettare l'offerta. Quindi, a passo spedito, tornò a casa nella canicola sempre piú afosa.

Era molto perplesso. Il Vecchio Sud era la sua priorità, e prestare servizio come ambasciatore nella Ger­ma­nia di Hitler non gli avrebbe lasciato piú tempo per scri­vere di quan­to gliene concedessero i suoi impegni in facoltà; anzi, forse a Berlino ne avrebbe avuto ancora meno.

La moglie, Mattie, lo capiva perfettamente, ma sapeva an­che quanto Dodd avesse bisogno di riconoscimenti e quan­to netta fosse la sensazione che, a quell'età, la sua carriera avrebbe già dovuto spiccare il volo. Dal canto suo, Dodd era consapevole di doverle qualcosa in piú: era rima­sta al suo fianco per tutti quegli anni, e – agli occhi del marito – aveva ricevuto in cambio una magra ricompensa. «Non esiste un luogo adatto alla mia mentalità» le aveva scritto qualche mese prima in una lettera dalla fattoria, «e me ne rammarico per te e per i nostri figli». Proseguiva dicendo: «So quanto debba essere difficile per una moglie fedele e devota avere accanto a sé un uomo tanto inetto in un momento storico cosí critico e che lui stesso aveva previsto da tempo; un marito che non si dimostra all'altezza di una posizione di rilievo e non potrà mai raccogliere ciò che ha seminato dopo una vita di studio intenso. A quanto pare, è la tua condanna».

Dopo un'accesa discussione e un esame di coscienza da parte di entrambi, Dodd e Mattie stabilirono di comune accordo che l'offerta di Roosevelt andava accettata. A rendere piú facile la decisione fu la garanzia accordata a Dodd dallo stesso presidente di poter tornare a Chicago nel giro di un anno qualora l'università «avesse insistito». Ora, però, disse Roosevelt, gli serviva a Berlino.

Mezzora dopo, alle due e trenta, Dodd – i cui dubbi sem­bravano temporaneamente fugati – chiamò la Casa Bianca e informò il segretario di Roosevelt che avrebbe accettato. Trascorsi due giorni, il presidente sottopose la sua nomina al Senato, che la confermò il giorno stesso senza neppure richiedere la presenza dell'interessato, né convocando l'interminabile seduta di conferma che in seguito sarebbe diventata una prassi per ogni in­carico di rilievo. La scelta non suscitò particolari commenti da parte della stam­pa. Il New York Times le dedicò un trafiletto a pagina 12 del numero di domeni­ca 11 giugno.

Il segretario di Stato Hull, in viaggio per un'importante conferenza economica a Londra, non fu mai consultato in merito alla designazione. Ma se anche fosse stato presente quan­do il nome di Dodd era uscito per la prima volta, non avrebbe avuto comunque molta voce in capitolo, perché la linea politica di Roosevelt era sempre piú orientata ad affidare incarichi nei vari organi di governo senza coinvolgere i rispettivi vertici, caratteristica che irritava profondamente Hull. Tut­ta­via, il segretario di Stato avrebbe in seguito affermato di non aver sollevato alcuna obiezione alla nomina di Dodd, se non per quella che vedeva come una sua tendenza a «oltrepassare i limiti in un eccesso di entusiasmo e impulsività e, di quando in quando, a partire per la tangente come il nostro amico William Jennings Bryan. Tanto che mi sono fatto alcuni scrupoli a mandare un buon ami­co, per quanto capace e intelligente, a Berlino, che sapevo essere un contesto tanto delicato, ora come in futuro».

In seguito, Edward Flynn, uno dei candidati che avevano rifiutato l'incarico, avrebbe falsamente dichiarato che Roosevelt aveva telefonato a Dodd per sbaglio, e che in realtà intendeva offrire il posto a un ex docente di legge di Yale che si chiamava Walter F. Dodd. Le voci su questo presunto errore diedero origine a un soprannome: Dodd, “l'uo­mo dell'elenco telefonico”.

 

Poi Dodd informò i suoi due figli ormai adulti, Mar­tha e Bill, promettendo loro un'esperienza indimenticabile. In quell'avventura scorgeva anche l'opportunità di riunire la propria famiglia un'ultima volta. Con­si­de­rava importante il Vecchio Sud, ma la famiglia e la casa erano il grande amore della sua vita e la sua piú profonda necessità. Una notte di dicembre, mentre era solo nella sua fattoria, con il Natale alle porte, la moglie e la figlia a Parigi – dove Martha stava completando l'anno di studio – e anche Bill lontano da casa, Dodd si era seduto a scrivere una lettera per Martha. Quella notte era oppresso dalla malinconia. Gli sembrava impossibile che i suoi figli fossero cresciuti; presto, lo sapeva bene, si sarebbero avventurati da soli nel mondo e inevitabilmente il legame con i genitori si sarebbe indebolito. La sua vita volgeva al tramonto, e il Vecchio Sud era tutt'altro che concluso.

Aveva scritto: «Mia cara bambina – posso ancora chiamarti in questo modo senza offenderti? – sei cosí preziosa per me, e la tua gioia in questa vita cosí tormentata mi sta tanto a cuore che continuo a vederti co­me una fanciulla esuberante che un giorno crescerà. Ep­pure, so bene quanti anni hai e ammiro il tuo modo di pensare e la tua maturità. Non sei piú una bambina». Meditava sulle «strade che abbiamo davanti. Tu l'hai ap­pena imboccata; io, invece, sono arrivato cosí in là che inizio a contare le ombre tutt'intorno a me, gli ami­ci scomparsi e quelli sempre meno sicuri di ria­prire gli occhi, domani! Tu sei la primavera, e io mi avvicino al­l'inverno». La famiglia, proseguí, «è stata la gioia della mia vita». Ma ora erano tutti sparsi negli angoli piú re­moti del mondo. «Mi è insopportabile il pensiero che le nostre vite stiano prendendo direzioni diverse… e che mi restino cosí pochi anni da vivere».

 

Grazie all'offerta di Roosevelt avevano l'opportunità di riunirsi ancora una volta, fosse anche solo per breve tempo.

3. La scelta
Tenuto conto della crisi economica in cui versavano gli Stati Uniti, quello di Dodd non era un invito da prendere alla leggera. I suoi figli erano fortunati ad avere un lavoro: Martha era viceredattore della pagina letteraria del Chicago Tribune, Bill insegnante di storia e ricercatore, sebbene fino a quel momento il giovane avesse coltivato la propria carriera con cosí poco entusiasmo da suscitare nel padre sgomento e inquietudine. In una serie di lettere spedite alla moglie nell'aprile del 1933, Dodd dava sfogo alla sua preoccupazione per Bill. «È un bravo insegnante, ma l'idea di dover lavorare sodo lo terrorizza». Era troppo incline alla distrazione, scrisse, specialmente se c'era un'automobile nei paraggi. «Sarebbe una pessima idea avere un'auto a Chica­go, se vogliamo davvero incoraggiarlo negli studi» prosegui­va Dodd. «La semplice presenza di una macchina con le ruote è una tentazione troppo grande».

Sul piano professionale Martha se la cavava molto meglio, e Dodd non poteva che rallegrarsene, nonostante la tormentata vita sentimentale della figlia fosse per lui fonte di grandi preoccupazioni. Amava profondamente entrambi i figli, ma la sua prediletta era Mar­tha. (Da piccola, la pri­ma parola che aveva pronunciato era stata “pa­pà”.) Era alta un metro e sessanta, e ave­va i capelli biondi, gli occhi azzurri e un sorriso ra­dio­so. Aveva un'immaginazione venata di romanticismo e un atteggiamento civettuolo, due prerogative che avevano acceso la passione in molti uomini, piú o me­no giovani.

Nell'aprile del 1930, quando aveva solo ventun anni, si era fidanzata con un professore inglese che insegnava all'Ohio State University, un certo Royall Hender­son Snow. A giugno il fidanzamento era stato sciolto. Martha ebbe poi una breve relazione con uno scrittore, W.L. River, il cui romanzo Death of a Young man era sta­to pubblicato diversi anni prima. La chiamava Motsie, e le prometteva amore eterno in lettere composte da frasi incredibilmente lunghe e senza un a capo; una, in particolare, contava ben settantaquattro righe a interlinea singola. A quei tempi passava per prosa sperimentale. «Dalla vita non desidero nient'altro che te» scriveva, «voglio stare per sempre al tuo fian­co, lavorare e scri­vere per te, vivere ovun­que tu vo­glia, senza desiderare nulla e nessuno all'infuori di te, amandoti con passione terrena, ma anche di un amore piú eterno, ultraterreno, spirituale…»

Il suo desiderio, tuttavia, non si realizzò. Martha si innamorò di un altro, un certo James Burnham di Chi­ca­go, che le scriveva di «baci soffici, leggeri come la ca­rezza di un petalo». Si fidanzarono. Questa volta Mar­tha sembra­va pronta a fare sul serio, finché, una sera, tutte le congettu­re sul suo imminente matrimonio an­darono a farsi benedi­re. La sua famiglia aveva organizzato una cena nella ca­sa di Blackstone Avenue, e tra i vari ospiti c'era anche George Bassett Roberts, veterano del­la Grande Guerra e ora vicedirettore di banca a New York. I suoi amici lo chiamavano semplicemente Bas­sett. Viveva con i genitori a Larch­mont, un sobborgo a nord della città. Era un bell'uo­mo, alto e con le labbra carnose. Scrivendo della sua promozione, un opinionista suo ammiratore osservò: «Ha il vi­so sempre ben rasato, la voce sommessa e la tendenza a parlare lentamente… Nulla in lui ricorda il prototipo del classico banchiere antiquato e intransigente o del pe­dante statistico».

In un primo momento, nel vederlo in mezzo agli altri ospiti, Martha non lo aveva trovato particolarmente irresistibile, ma qualche ora dopo s'imbatté in lui mentre era solo e in disparte. L'aveva «colpita», gli scrisse in seguito. «È stata una fitta di dolore e di piacere al tempo stesso, come un colpo di freccia, quella che ho provato quando ti ho rivisto nel corridoio di casa nostra, lontano dagli altri invitati. So che potrà sembrarti assolutamente ridicolo, ma non esagero dicendo che è stata l'unica volta che ho sperimentato l'amore a prima vista».

Bassett rimase altrettanto colpito, e i due si lanciarono in una relazione a distanza piena di energia e passione. In una lettera datata 19 settembre 1931, Bassett scrisse: «Che spas­so quel pomeriggio in piscina, e quanto sei stata carina con me, dopo che mi sono tolto il costume da bagno!» E poche righe dopo: «Buon Dio, che donna, che donna!» Per usare il termine della stessa Martha, Bassett la «deflorò». La chiamava «tesorino» e «tesorina mia».

Ma finí per disorientarla: non si comportò nel modo che Martha si era abituata ad aspettarsi dagli uomini. «Mai, né prima né dopo di te, mi è capitato di amare ed essere amata tanto senza poi ricevere una tempestiva proposta di matrimonio!» gli avrebbe scritto a distanza di anni. «Mi sono sentita profondamente ferita, e credo sia stata l'amarezza ad avvelenare il mio albero dell'a­more!» Lei voleva sposarsi, ma lui si mostrava incerto. Al­lora Martha iniziò a fare manovre: portò avanti il suo fidanzamento con Burnham, scelta che, neanche a dir­lo, fece impazzire Bassett di gelosia. «O mi ami o non mi ami» le scrisse da Larchmont, «e se mi ami e hai an­cora un briciolo di buonsenso, non puoi sposare un al­tro uomo».

Alla lunga si sfinirono a vicenda e, nel marzo del 1932, si sposarono, ma a ulteriore conferma della loro prolungata incertezza decisero di mantenere segreto il matrimonio perfino ai loro amici. «Ti amavo alla follia e ho cercato di “aver­ti” per tanto tempo, finché, forse esasperato dai continui sforzi, quello stesso amore si è come consumato» gli avrebbe poi scritto Martha. Il giorno dopo il matrimonio, Bassett commise un errore fatale: non solo partí per New York, costretto dal suo lavoro in banca, ma – negligenza ancor piú grave – quel giorno non le spedí neppure un mazzo di fiori; una svista «di per sé insignificante», per citare le parole di Martha, ma sintomatica di qualcosa di piú profon­do. Subito dopo Bassett andò a Ginevra per partecipare a una conferenza internazionale sull'oro, e nel farlo commise un altro er­ro­re non meno grossolano: dimenticò di chiamarla pri­ma della partenza, senza quindi «mostrare interesse per la loro vita coniugale e preoccupazione per la distanza che l'imminente separazione avrebbe comportato».

Passarono il primo anno di matrimonio lontani l'u­no dall'altra, salvo occasionali ricongiungimenti a New York o a Chica­go, e la lontananza accrebbe le tensioni già esistenti nel loro rapporto. Martha riconobbe in se­guito che sarebbe stato piú saggio andare a vivere con Bassett a New York e trasfor­mare il viaggio a Gi­nevra in una luna di mie­le, come suggerito da lui. Ma perfino al­lora Bassett si era mostrato incerto. Nel corso di una telefonata aveva dato voce ai propri dubbi sulla possibilità che quel matrimonio fosse stato un errore. «Lo è sta­to per me» scrisse Martha. Nel frattempo, la don­na ave­va iniziato a «flirtare» – fu lei stessa a usare questo termine – con altri uomini e a coltivare una relazione con Carl Sandburg, un vecchio amico di fa­miglia, che Mar­tha co­nosceva da quando aveva quindici anni. Le spediva poesie scritte su minuscoli fogli di carta sottile dalle forme piú strane, accompagnandole a due ciocche dei suoi ca­pelli biondi legate con del filo da cucito nero. In una bre­ve lettera le scrisse: «Ti amo oltre ogni uma­na com­pren­sione, ti amo con gri­da degne di Shenandoah e con sussurri di una fievole pioggia blu». Martha si lasciò sfuggire abbastanza allusioni da tormentare Bassett. «Ero im­pegnata a cu­rare le mie ferite e a procurartene altrettante con Sand­burg e con altri uomini» gli avrebbe confessato piú avanti.

Un giorno, sul prato della residenza dei Dodd in Blackstone Avenue, tutte queste spinte contrastanti si scontrarono. «Sai qual è il vero motivo per cui il no­stro matrimonio non ha funzionato?» gli scrisse. «Ero troppo giovane e immatura, a dispetto dei miei ventitré anni, per lasciare la famiglia! Mi si spezzò il cuore quando papà, men­tre armeggiava con qualcosa sul pra­to davanti a casa su­bito dopo il nostro matrimonio, mi disse: “E cosí la mia adorata bambina vuo­le lasciare il suo vecchio pa­dre…”».

E ora, in tutto quel disordine emotivo, proprio suo pa­dre se ne usciva con un invito a raggiungerlo a Ber­lino, mettendola improvvisamente di fronte a una scelta: Bassett e la sua banca nonché un domani, ineluttabilmente, una casa a Larchmont, dei figli e un prato, oppure suo padre, Berlino e chissà che altro.

L'invito era irresistibile. «La scelta era tra lui e l'“av­ventu­ra”, e te» avrebbe spiegato a Bassett in se­guito. «La tentazio­ne era troppo grande perché potessi scegliere di­versamen­te».

4. Terrore
La settimana dopo, Dodd prese un treno per Wash­ington, dove, venerdí 16 giugno, incontrò Roose­velt per pranzo; il pasto fu servito su due vassoi e consumato alla scrivania del presidente.

Roosevelt, allegro e sorridente, si lanciò con evidente piacere nel racconto di una recente visita a Washing­ton del presidente della Reichsbank (la banca centrale tedesca), Hjalmar Schacht, autorità in grado di stabilire se la Germania sarebbe riuscita a pagare i debiti ai suoi creditori americani. Roosevelt spiegò come avesse dato istruzioni al segretario di Stato Hull per neutralizzare abilmente la leggendaria arroganza di Schacht. Que­st'ultimo era stato condotto nell'ufficio di Hull, il quale lo aveva fatto restare in piedi davanti alla sua scrivania. Hull si era comportato come se Schacht non fosse presente, «fingendo di essere terribilmente impegnato a cer­care certi documenti e lasciandolo in piedi lí do­v'era, per tre minuti, senza degnarlo nemmeno si uno sguar­do»; o almeno era cosí che Dodd ricordava l'a­neddoto. Alla fine, Hull aveva trovato ciò che stava cercando: un biglietto di Roosevelt che, in to­no severo, condannava qualsiasi tentativo della Germania di non far fronte ai propri impegni. Solo a quel punto Hull si era alzato in piedi e aveva salutato Schacht, porgendogli contemporaneamente il biglietto. Lo scopo di quella messinscena, spiegò Roosevelt a Dodd, «era smontare almeno in parte l'arroganza del tedesco». Roosevelt sembrava convinto che il suo stratagemma avesse dato buoni frutti.

Il presidente spostò quindi la conversazione su quanto si aspettava da Dodd. Prima di tutto, sollevò la questione del debito tedesco, manifestando in proposito sentimenti contrastanti. Riconosceva che i banchieri americani avevano realizzato quelli che definiva «profitti esorbitanti» concedendo prestiti a imprese e a città tedesche e vendendo ai cittadini americani obbligazioni collegate a quegli stessi prestiti. «Ma la nostra gente ha il diritto di essere rimborsata e, sebbene si tratti di una questione che va oltre le responsabilità del governo, voglio che lei faccia tutto il possibile per prevenire una moratoria», ovvero una sospensione dei paga­men­ti da parte della Germania. «Rischierebbe di ritardare il recupero dei nostri crediti».

Il presidente affrontò poi quello che sembrava or­mai di moda chiamare “il problema” o “la questione” ebraica.

 

Roosevelt sapeva di doversi muovere su un terreno insidioso. Pur essendo sconcertato dal trattamento su­bito dagli ebrei per mano dei nazisti e consapevole del­la violenza che aveva sconvolto la Germania qualche mese prima, si asteneva dal pronunciare una condanna esplicita. Alcuni leader ebrei – come il rabbino Wise, il giudice Irving Lehman e Lewis L. Strauss, socio del­la Kuhn, Loeb & Co. – avrebbero voluto che Roosevelt fa­ces­se sentire la propria voce; altri – come Felix War­burg e il giudice Joseph Proskauer – preferivano adottare un approccio piú sobrio per convincere il presidente a facilitare l'ingresso degli ebrei in America. La riluttanza di Roosevelt a intervenire su entrambi i fronti era esasperante. Nel novembre del 1933 Wise avrebbe de­scritto il presidente come «inamovibile, in­correggibile e irraggiungibile da tutti fuorché da qual­che amico ebreo che – Roosevelt sapeva di poterci contare – non lo avrebbe infastidito con i problemi della sua gente». E Felix Warburg scrisse: «Finora, nessuna delle vaghe pro­messe si è concretizzata». Perfino Felix Frankfurter – grande amico di Roosevelt e professore di legge a Harvard, in seguito proposto dallo stesso Roosevelt co­me candidato alla Corte Suprema – vide frustrato ogni suo tentativo di convincere il presidente a intervenire. Roosevelt, però, sapeva che il prezzo da pagare in termini politici per un'eventuale condanna della persecuzione nazista o per qualunque sforzo manifesto di fa­vo­rire l'ingresso degli ebrei in America sarebbe stato con ogni probabilità immenso, perché nell'ambito del di­battito politico americano la questione ebraica era considerata come un problema d'immigrazione. La per­secuzione degli ebrei in Germania evocava lo spettro di un massiccio afflusso di rifugiati in un periodo in cui l'America vacillava sotto i colpi della Depressione. Gli isolazionisti avevano aggiunto al dibattito un ulteriore argomento, sostenendo – al pari di Hitler – che l'offensiva nazista contro gli ebrei era un affare interno della Germania e che, pertanto, gli Stati Uniti non do­ve­vano immischiarsi.

Perfino gli ebrei americani erano profondamente di­visi su come affrontare la questione.

Da una parte c'era il Congresso ebraico americano, che invitava a ogni forma possibile di protesta, inclusi i cortei e il boicottaggio delle merci tedesche. Nel 1933 il rabbino Wise, uno dei suoi leader piú in vista nonché presidente onorario, era sempre piú deluso dal rifiuto di Roosevelt di esprimere il proprio punto di vista. Durante un viaggio a Washington, nel tentativo poi fallito d'incontrare il presidente, il rabbino Wise scrisse alla moglie: «Se si rifiuterà ancora di ricevermi, al mio ritorno scatenerò una valanga di richieste da parte della comunità ebraica per sollecitare un intervento. Ho altre carte da giocare. Forse è perfino auspicabile che vada cosí, perché avrò la possibilità di esprimermi come non ho mai fatto prima. E, con l'aiuto di Dio, combatterò».

Sull'altra sponda c'erano i gruppi di ebrei schierati invece con il Comitato ebraico americano, che suggeriva di percorrere una strada piú sicura, nel timore che le proteste troppo accese e il boicottaggio avrebbero soltanto aggravato la situazione degli ebrei in Germania. Fra chi condivideva questo punto di vista c'era Leo Wormser, un avvocato ebreo di Chicago. In una lettera a Dodd, Wormser spiegò: «A Chicago… stiamo contrastando con fermezza il program­ma del signor Samuel Untermeyer e del dottor Stephen Wise mirato a promuovere il boicottaggio delle merci tedesche». Un at­teggiamento del genere, spiegava Wormser, rischiava di alimentare una persecuzione degli ebrei tedeschi an­cora piú feroce. «Sappiamo bene che per molti di lo­ro la situazione peggiorerebbe ulteriormente». Ag­giun­se poi che il boicottaggio avrebbe «inibito gli sforzi dei no­stri amici in Germania di promuovere un atteggiamento piú conciliante attraverso un appello al buonsenso e all'interesse persona­le», e avrebbe potuto rallentare la restituzione del debito obbligazionario che la Ger­ma­nia aveva contratto con i creditori americani. Wormser temeva le ripercussioni di un atto che sarebbe stato ri­condotto esclusivamente alla responsabilità degli ebrei. Spiegò a Dodd: «Pensiamo che un eventuale boicottaggio diretto e promosso dagli ebrei potrebbe confondere le idee sulla vera natura del problema, che non è tanto “ce la faranno gli ebrei?” quanto “ce la farà la libertà?”». Nel suo I Warburg, Ron Chernow scrisse: «Una fu­nesta spaccatura indeboliva “la comunità ebraica in­ternazionale”, perfino quando la stampa nazista la ac­cusava di operare secondo una volontà comune e im­placabile».

L'unico punto sul quale entrambe le fazioni si trovavano d'accordo era la certezza che qualsiasi campagna che avesse tentato apertamente d'incoraggiare l'immigrazione degli ebrei in America non avrebbe fatto che condurre al disastro. Ai primi di giugno del 1933, il rabbino Wise scrisse a Felix Frankfurter – il professore di Harvard che, di lí a sei mesi, sarebbe diventato giudice della Corte Suprema – che se il dibattito sull'immigrazione avesse raggiunto la Casa Bianca, avrebbe «in­nescato un'esplosione contro di noi». Di fatto, l'opinione pubblica americana avrebbe continuato a opporsi al­l'immigrazione fino al 1938, quando un sondaggio ap­parso su Fortune segnalò che circa due terzi degli intervistati preferivano tenere i rifugiati fuori dal paese.

All'interno dello stesso gabinetto di Roosevelt c'era una profonda divisione sull'argomento. Il ministro del Lavoro Frances Perkins, la prima donna nella storia americana a rivestire una posizione di governo cosí importante, tentava di convincere l'amministrazione a fare qualcosa per favorire l'ingresso degli ebrei nel paese. Il suo ministero sovrintendeva alle pratiche e alle linee politiche relative all'immigrazione, ma non aveva il potere di stabilire a chi concedere il visto e a chi no. Quel genere di decisioni spettava al dipartimento di Stato e ai suoi consoli, che avevano un punto di vista ben diverso. All'interno del ministero, alcuni tra i piú alti funzionari nutrivano una vera e propria avversione per gli ebrei.

Uno di questi era William Phillips, sottosegretario di Stato, il secondo uomo in ordine di importanza dopo il segretario Hull. La moglie di Phillips e Eleanor Roosevelt erano amiche d'infanzia; era stato Franklin D. Roosevelt, non Hull, a nominare Phillips sottosegretario. Nel suo diario quest'ultimo descrisse una sua conoscenza di lavoro come «il mio piccolo amico ebreo di Boston». Phillips, che ama­va Atlantic City, in un'altra pagina scrisse: «Quel posto è infestato di ebrei. In effetti, sabato pomeriggio e domenica la spiaggia offriva uno spettacolo incredibile: quasi non si vedeva la sabbia, perché il litorale era completamente occupato da donne e uomini ebrei seminudi».

Un altro funzionario di punta, Wilbur J. Carr, assistente segretario di Stato con la piena responsabilità del servizio consolare, chiamava gli ebrei «sporchi giudei». In un memorandum sugli immigrati russi e polacchi scrisse: «Sono sporchi, questi non americani, e coltivano spesso abitudini pericolose». Dopo un viaggio a Detroit descrisse la città come piena di «polvere, fumo, sudiciume ed ebrei». Si lamentava anche della situazione a Atlantic City. Un febbraio, lui e la moglie vi trascorsero tre giorni, per ognuno dei quali Carr scrisse nel suo diario qualche commento denigratorio nei confronti degli ebrei. «Durante tutta la nostra passeggiata lungo il Boardwalk abbiamo visto pochissimi gentili» annotò il primo giorno. «Ebrei ovunque, e della specie piú comune». Quella sera cenò con la moglie al Claridge Hotel, dove trovò la sala ristorante piena di ebrei: «Erano in pochi ad avere un aspetto decoroso. Oltre a me, c'erano solo due persone in smoking. Si respirava sciatteria, nel­la sala ristorante». La sera dopo i Carr cenarono in un al­tro albergo, il Marlborough Blenheim, e lo trovarono mol­­to piú raffinato. «Mi piace» scrisse Carr. «Non ha quel­l'atmosfera ebraica che ho trovato al Claridge».

Un funzionario del Comitato ebraico americano de­finí Carr «un antisemita e un imbroglione, che parla ma­gni­fi­ca­mente ma non ha la minima intenzione di fa­re qualcosa per noi».

Sia Carr che Phillips erano favorevoli alla stretta os­servanza di una clausola, prevista dalle leggi sul­l'im­mi­grazio­ne, che vietava l'ingresso a chiunque fosse «so­spettato di rap­presentare un futuro onere per le casse dello Stato», la famosa “clausola LPC”. Già inclusa nell'Immigration Act del 1917, la clausola fu ripristinata dall'amministrazione Hoover nel 1930 per scoraggiare l'immigrazione in un momento in cui dilagava la disoccupazione. I funzionari del consolato avevano un enorme peso nella scelta di chi poteva essere ammesso negli Stati Uniti, essendo proprio loro a stabilire quali richieste di visto dovevano essere escluse secon­do i parametri della clausola LPC. La legge sull'immigra­zio­ne prevedeva inoltre che, assieme al certificato di nascita in duplice copia e ad altri documen­ti ufficiali, i ri­chie­denti esibissero un atto notorio della polizia che attestasse la loro buona reputazione. «Trovo davvero assurdo» scrisse un memorialista ebreo «che una persona sia costretta ad andare dal suo nemico e chiedere referenze sulla propria reputazione».

Gli attivisti ebrei accusavano i vari consoli americani di aver ricevuto l'ordine di concedere solo una parte dei visti messi a disposizione per ogni paese, accusa che si dimostrò fondata. Nel 1933 l'avvocato del ministero del Lavoro, Charles E. Wyzanski, scoprí che i consoli avevano ricevuto – a voce e in via del tutto ufficiosa – precise istruzioni per limitare il numero dei visti approvati al dieci per cento del totale garantito a ogni paese. I leader ebrei, inoltre, sostenevano che le procedure per ottenere i certificati giudiziari erano diventate non solo difficili, ma pericolose; in una lettera al sottosegretario Phillips, il presidente del Comitato ebraico americano, Joseph M. Proskauer, le definí «un ostacolo pressoché insuperabile».

Phillips trovò offensivo che Proskauer considerasse l'operato dei consoli alla stregua di un ostacolo. «Il console» rispose Phillips con un cauto tono di rimprovero «si occupa esclusivamente di determinare in modo uti­le e riguardoso se coloro che richiedono un visto ri­spon­dono a tutti i requisiti previsti dalla legge».

Secondo Proskauer e alcuni leader, una delle con­se­guen­ze di quella procedura era che gli ebrei semplicemente non facevano domanda per immigrare negli Stati Uniti. In effetti, il numero di tedeschi che richiedevano il visto era solo una piccola percentuale dei ventiseimila stabiliti dalla quota annuale stabilita per la Germania. Tale disparità forní ai funzionari del dipartimento di Stato il pretesto per giustificare sul piano statistico la loro opposizione alla riforma. Perché considerarlo un problema, se gli ebrei che facevano doman­da erano cosí pochi? Era un'argomentazione che Roosevelt sembrò condividere fin dall'aprile del 1933. Il presidente sapeva inoltre che qualsiasi sforzo per liberalizza­re le normative sull'immigrazione avrebbe potuto spronare il Congresso a rispondere con drastiche riduzioni delle quote in vigore.

Al momento di pranzare con Dodd, Roosevelt era perfettamente consapevole di quanto fosse delicata la situazione.

«Le autorità tedesche stanno trattando gli ebrei in modo vergognoso, e la comunità ebraica di questo pae­se è in gran­de fermento» gli disse Roosevelt. «Ma il no­stro governo non ne è responsabile. Noi possiamo soltanto assistere i cittadini americani che restino vittima di un simile trattamento. Dobbiamo proteggerli, usando tutta la nostra influenza e qualsiasi strumento ufficioso per moderare l'ondata generale di persecuzioni».

La conversazione si spostò quindi sui dettagli pratici. Dodd insistette nel dire che si sarebbe accontentato dello stipendio di 17.500 dollari previsto per il suo incarico, una somma notevole nel contesto della De­pres­sio­ne, ma ben poca cosa per un ambasciatore che avrebbe avuto a che fare con diplomatici europei e funzionari nazisti. Per Dodd era una questione di principio: riteneva inopportuno che un ambasciatore conducesse una vita dispendiosa mentre il resto della nazione soffriva. Per lui, del resto, si trattava di un aspetto irrilevante, poiché, a differenza di molti altri ambasciatori, non po­teva vantare fonti di reddito autonome e, se anche l'a­ves­se voluto, non si sarebbe comunque potuto per­met­tere uno stile di vita dispendioso.

«Ha perfettamente ragione» concordò Roosevelt. «Sal­vo due o tre cene di routine e qualche spettacolo occasionale, non sarà necessario che lei partecipi a eventi mondani particolarmente sfarzosi. Cerchi di prestare la debita attenzione agli americani residenti a Berlino e alle cene saltuarie organizzate per i tedeschi interessati a stabilire relazioni con gli americani. Cre­do che riuscirà a vivere con il suo stipendio senza com­promettere le finalità essenziali del suo incarico».

Dopo un ultimo scambio di idee sulle tariffe doganali e sulla riduzione degli armamenti, il pranzo giunse a conclusione.

Erano le due. Dodd lasciò la Casa Bianca e tornò a piedi al dipartimento di Stato, dov'era intenzionato a incontrare diversi funzionari e a leggere i dispacci da Berlino, per la precisione i lunghissimi rapporti redatti dal console generale George S. Messersmith. Il loro contenuto era sconcertante.

Hitler, nominato cancelliere grazie a un accordo po­litico, era in carica da sei mesi, ma non aveva il potere as­soluto. La Costituzione assegnava ancora al presidente tedesco, l'ottantacinquenne feldmaresciallo Paul von Beneckendorff und von Hindenburg, la facoltà di nomina­re o destituire i cancellieri e i loro gabinetti, e – aspetto non meno importante – il presidente poteva con­tare sulla fedeltà dell'esercito regolare, la Reichs­wehr. A differenza di Hindenburg, il cancelliere e i suoi luogotenenti erano sorprendentemente giovani: Hitler aveva solo quarantaquattro anni, Her­mann Göring qua­ranta e Joseph Goebbels trentasei.

Leggere articoli di giornale che descrivevano il comportamento imprevedibile di Hitler e la brutalità mo­strata dal suo governo nei confronti di ebrei, comunisti e altri oppositori non rendeva bene l'idea, perché in America era opinione diffusa che simili reportage fossero esagerati e che di certo nessuno Stato moderno si sarebbe potuto comportare in quel modo. Ma lí, al dipartimento di Stato, Dodd lesse dispacci su dispacci nei quali Messersmith descriveva la Germania come un paese che stava rapidamente regredendo da repubblica democratica a spietata dittatura. Messersmith non ri­sparmiava alcun dettaglio: con la sua tendenza a dilungarsi nella scrittura si era da subito guadagna­to il so­prannome di “George Quaranta Pagine”. Nei rapporti descriveva il dilagare della violenza nei mesi imme­dia­ta­mente successivi alla nomina di Hitler e il controllo sempre piú assoluto che il governo esercitava ormai su qualsiasi aspetto della società tedesca. Il 31 marzo, tre cittadini americani erano stati sequestrati dalle Squa­dre d'assalto e trascinati a forza in una delle loro basi adibite al pestaggio, dove, dopo essere stati spogliati, avevano passato la notte al freddo. Il mattino successivo erano stati picchiati fino a per­dere conoscenza, e poi scaricati in strada. Un corrispondente della United Press International era scomparso, per poi essere rilasciato, illeso, in seguito ad alcune indagini di Mes­ser­smith. Il governo nazista aveva proclamato un giorno di boicottaggio di tutte le attività ebraiche in Germania: negozi, studi legali, ambulatori medici. Poi c'erano stati gli episodi dei libri dati alle fiamme e dei dipendenti ebrei licenziati, le interminabili marce delle Squadre d'assalto e la soppressione della libertà di stampa: un tempo celebre per la sua voce vibrante, adesso il mondo del giornalismo tedesco – a detta di Messersmith – era sottoposto al controllo del governo a un livello «forse mai raggiunto da nessun altro paese al mondo. La censura della stam­pa può essere definita totale».

In uno dei suoi ultimi rapporti, tuttavia, Mes­ser­smith assumeva un tono nettamente piú fiducioso, e la cosa non poté che rincuorare Dodd. Con insolito ottimismo, Messersmith riferiva ora di aver visto i segni di una Germania piú stabile e attribuiva quel mutamento alla crescente sicurezza di Hitler, Göring e Goebbels. «Il senso di responsabilità ha già trasformato i principali leader del partito in mo­do davvero considerevole» scriveva. «Tutto lascia intendere che stiano diventando via via piú moderati».

Dodd, però, non ebbe mai occasione di leggere la lettera che Messersmith scrisse subito dopo per ritrattare quella dichiarazione speranzosa. Dopo averla contrassegnata come “Riservata-Personale”, la spedí al sottosegretario Phillips. La lettera, datata 26 giugno 1933, raggiunse Phillips nel momento stesso in cui i Dodd stavano partendo alla volta di Berlino.

«Nei miei rapporti ho cercato di evidenziare che i leader di maggior rilievo all'interno del partito stanno di­ven­tando piú moderati, mentre i loro intermediari e le mas­se sono estremisti come prima, e la questione è se i suddetti vertici riu­sciranno a imporre alle masse la loro politica moderata» scriveva Messersmith. «È or­mai qua­si scontato che non ci riusciranno, perché la pres­sio­ne dal basso sta diventando sem­pre piú forte». Göring e Goeb­bels in particolare sembravano aver cambiato at­teggiamento, proseguiva. «Il dottor Goebbels predica ogni giorno che la rivoluzione è appena cominciata, e che finora si è trattato soltanto di un preludio».

Perfino i preti venivano arrestati. Un ex presidente della Bassa Slesia che Messersmith conosceva di persona era stato rinchiuso in un campo di concentramento. Mes­sersmith percepiva un'«isteria» crescente fra i quadri in­termedi del Partito nazista, atteggiamento che lasciava intendere la loro convinzione che «l'unica forma di salvezza consista nel mettere tutti in galera». Si­len­zio­sa­men­te, ma con estrema aggressività, il paese si stava preparando alla guerra e faceva leva sulla propaganda per dare l'impressione che «il mondo intero fosse schierato contro la Germania e che quest'ultima fosse completamente indifesa». Le pacifiche dichiarazioni d'intenti rilasciate da Hitler erano illusorie e avevano il so­lo scopo di far guadagnare tempo alla Germania per il riar­mo, av­vertiva Messersmith. «Il loro principale obiet­tivo, tuttavia, è trasformare la Germania nella piú efficiente macchina bellica che sia mai esistita».

 

Mentre si trovava a Washington, Dodd presenziò a un ricevimento offerto in suo onore dall'ambasciata te­desca, e fu in quell'occasione che incontrò per la pri­ma vol­ta Wilbur Carr. In seguito, Carr avrebbe annotato nel suo diario una breve descrizione di Dodd: «Una persona gradevole, interessante, dotata di un sottile sen­so del­l'umorismo e di una modestia genuina».

Dodd fece anche visita al capo della divisione del di­partimento di Stato per l'Europa occidentale, Jay Pier­repont Moffat, il quale condivideva l'avversione di Carr e Phillips per gli ebrei, nonché la loro linea intransigente in materia d'immigrazione. Moffat tradusse co­sí le sue impressioni sul nuovo ambasciatore: «È fermamente convinto delle sue opi­nioni, si esprime in mo­do veemente e didascalico e ha la tendenza a enfatizzare le sue argomentazioni. L'unico ve­ro scoglio è che cer­che­rà di dirigere l'ambasciata avendo a suo carico una fa­mi­glia di quattro persone, e come possa riu­scirci a Ber­lino, do­ve i prezzi sono quelli che sono, è qualcosa che va oltre la mia comprensione».

Ciò che né Carr né Moffat espressero nelle loro an­notazioni furono lo stupore e il disappunto che en­trambi, come molti altri loro pari, avevano provato per la nomina di Dodd. Il loro era un regno di eletti, al qua­le soltanto uomini di un certo lignaggio potevano am­bi­re senza incorrere in troppi ostacoli. Molti avevano frequentato gli stessi istituti privati, in particolare la St Paul e la Groton School, e da lí erano passati a Har­vard, Yale e Princeton. Il sottosegretario Phillips era cre­sciuto nel quartiere di Back Bay a Boston, in un e­nor­me edificio vittoriano. Dall'età di ventun anni go­de­va di una rendita che gli garantiva l'indipendenza eco­nomica, e in seguito era entrato nel consiglio di fa­coltà a Harvard. Quasi tutti i suoi pari all'interno del dipartimento di Stato erano altrettanto ricchi, e durante i loro soggiorni all'estero non badavano a spese, at­tingendo ai propri fondi senza dover attendere alcun rim­borso. Uno di questi funzionari, Hugh Wil­son, in lo­de dei suoi colleghi diplomatici, scrisse: «Tut­ti han­no sempre sentito di appartenere a un “club di privilegiati”. Tale convinzione ha alimentato in loro un forte spi­rito di squadra».

Per gli standard del club, Dodd era ben al di sotto delle aspettative.

 

Il professore tornò a Chicago per fare le valigie e per presenziare a diversi party di commiato, dopo i quali lui, la moglie e Bill presero un treno per la Virginia e per un'ultima visita alla fattoria di Round Hill. Il padre di William Dodd, che si chiamava John e aveva ottantasei anni, viveva non molto lontano, nel North Ca­ro­lina; tuttavia Dodd, pur sapendo quanto un padre desideri avere vicino i propri figli, non si ripropose di an­dar­lo a trovare, dando la priorità all'urgenza con cui Roosevelt aveva chiesto al nuovo ambasciatore di presentarsi a Berlino. Dodd gli spedí una lettera per parlargli del recente incarico ricevuto e per avvertirlo che non gli sarebbe stato possibile fargli visita prima di partire per la Germania. Allegò una piccola somma di denaro e concluse: «Mi di­spia­ce di essere sempre cosí lontano». Il padre rispose immediatamente per comunicargli quanto fosse orgoglioso di sapere che Dodd ave­va ricevuto «un simile onore da Washington», ma ag­giun­se quel pizzico di acredine che solo i genitori san­no co­me usare al momento opportuno, quel piccolo in­gre­diente che scatena il senso di colpa e fa cambiare i programmi. Il vecchio Dodd scrisse: «Se non dovessi piú ve­derti prima di morire, pazienza; sarò orgoglioso di te fi­no all'ultimo istante della mia vita».

E Dodd cambiò i suoi programmi. Il 1° luglio, un sabato, lui e la moglie salirono a bordo di un vagone letto diretto nel North Carolina. In compagnia di John Dodd, trovarono il tempo per una visita ai luoghi per loro piú importanti. Dodd e Mattie vollero toccare il vecchio suolo, come se dovessero separarsene per sempre. Fecero una tappa al cimitero di famiglia, dove Dodd si soffermò davanti alla tomba della madre, mor­ta nel 1909. Attraversando il prato s'imbatté nelle lapidi di alcuni antenati che si erano ritrovati coinvolti nel­la Guerra Civile, inclusi due avi che si erano arresi in­sieme al generale Robert E. Lee ad Appomattox. Fu una visita piena di ricordi della «sfortuna di famiglia» e di riflessioni sulla fugacità della vita. «Un giorno davvero triste» scrisse Dodd.

Lui e la moglie tornarono in Virginia, alla fattoria, quin­di proseguirono in treno fino a New York. Martha e Bill guidarono la Chevrolet di famiglia, con il proposito di lasciarla al molo, da dove sarebbe stata trasportata via mare fi­no a Berlino.

 

Dodd avrebbe preferito trascorrere i due giorni successivi insieme alla famiglia, ma al dipartimento di Sta­to avevano insistito perché, una volta arrivato a New York, partecipasse a una serie di riunioni con i dirigenti di alcune banche per discutere del debito tedesco – un tema di scarso interesse per Dodd – e con certi leader ebrei. Il nuovo ambasciatore temeva che la stampa americana e quella tedesca potessero travisare il senso di tali riunioni, pregiudican­do cosí l'imparzialità che si era ripromesso di ostentare a Berlino. Onorò comunque i suoi impegni, e il risultato fu una giornata di incontri che evocarono le visite di fantasmi descritte da Dickens nel Canto di Natale. Un eminente attivista ebreo spedí a Dodd una lettera per informarlo che la se­ra di lunedí 3 luglio avrebbe ricevuto la visita di due gruppi di uomini; il primo gruppo sarebbe arrivato entro le otto e mezzo, il secondo alle nove. Gli incontri avrebbero avuto luogo al Century Club, la base di Dodd a New York.

Prima, però, l'ambasciatore ebbe un colloquio con i banchieri, e lo fece negli uffici della National City Bank di New York, che anni dopo si sarebbe chiamata Citibank. Dodd restò sorpreso nell'apprendere che la National City Bank e la Chase National Bank possedevano oltre cento milioni di dollari in obbligazioni tedesche, titoli che a questo punto la Germania proponeva di riscattare a trenta centesimi per dollaro. «Di­scu­tem­mo a lungo, ma il solo accordo che riuscimmo a raggiungere fu che avrei fatto tutto il possibile per impedire alla Germania di mancare spudoratamente al suo impegno» scrisse Dodd. Non nutriva una particolare simpatia per i banchieri. La possibilità d'impor­re alti tassi di interesse sulle obbligazioni tedesche li aveva resi ciechi di fronte all'eventualità, fin troppo prevedibile, che un paese impoverito dalla guerra e politicamente instabile potesse venir meno ai propri doveri.

Quella sera i leader ebrei arrivarono come da pro­gram­ma; fra loro c'era Felix M. Warburg, eminente fi­nanziere propenso all'approccio diplomatico sostenuto dal Comita­to ebrai­co, e il rabbino Wise, esponente del piú aggressivo Congresso ebraico. Dodd scrisse nel suo diario: «La discussione si è prolungata per un'ora e mezzo: i tedeschi continuano senza sosta a uccidere gli ebrei; la persecuzione ha raggiunto un livello tale che fra questi ultimi il suicidio è diventato una prassi (nella famiglia Warburg si sono registrati due casi); e tutte le proprietà ebraiche sono sottoposte a confisca».

Durante la riunione, sembra che Warburg avesse menzionato i suicidi di due anziani parenti, Moritz e Käthie Oppenheim, avvenuti a Francoforte tre settimane prima. Warburg scrisse in seguito: «Il regime nazista aveva indubbiamente reso la loro vita un inferno, al punto che agli occhi di quei due anziani la morte de­v'essere sembrata una benedizione».

Gli ospiti di Dodd lo esortarono a pretendere da Roosevelt un intervento ufficiale, ma il nuovo ambasciatore sollevò alcune difficoltà. «Ho insistito sul fatto che il governo non poteva intervenire in modo ufficiale, ma ho assicurato ai membri del congresso che avrei esercitato tutta la mia personale influenza per contrastare l'infame trattamento subito dagli ebrei tedeschi, e che, naturalmente, avrei protestato contro le violenze sugli ebrei americani».

Piú tardi Dodd prese il treno delle undici per Bo­ston, e al suo arrivo, la mattina del 4 luglio, una vettura lo portò a casa del colonnello Edward M. House, suo amico nonché consigliere privato di Roosevelt, per una colazione di lavoro.

Nel corso di una conversazione sui temi piú disparati, Dodd apprese che Roosevelt aveva valutato molti altri candidati prima di lui. La notizia fu umiliante. Dodd la commentò nel suo diario scrivendo che era bastata a spegnere qualsiasi tentazione di «autocelebrarsi» per aver ricevuto un simile incarico.

Quando il discorso si spostò sulla persecuzione de­gli ebrei da parte della Germania, il colonnello House sollecitò Dodd a fare tutto il possibile per «alleviare la sof­ferenza ebraica». Ma aggiunse un monito: «Agli ebrei non dovrebbe essere permesso di dominare la scena e­co­nomica e intellettuale di Berlino come fanno ormai da tanto tempo».

Con quelle parole, il colonnello House esprimeva un'o­pinione molto diffusa negli Stati Uniti, ovvero che gli ebrei tedeschi fossero almeno in parte responsabili delle proprie sventure. Opinione di cui a distanza di poche ore Dodd sperimentò una versione piú radicale, quando – di ritorno a New York – lui, la mo­glie e i figli cenarono nell'appartamento di Park Ave­nue di Char­les R. Crane, un filantropo settantacinquenne la cui fa­miglia si era arricchita vendendo ma­teriale idraulico. Crane era un islamista considerato una vera autorità in alcuni paesi del Medio Oriente e dei Bal­ca­ni, nonché un generoso sostenitore del dipartimento di Dodd al­l'Università di Chicago, dove aveva sovvenzionato una cattedra per lo studio della storia e del­le istituzioni russe.

Dodd sapeva già che Crane non nutriva simpatie per gli ebrei. Nella lettera di congratulazioni a Dodd per l'incarico ricevuto, Crane aveva dispensato alcuni consigli. «Dopo aver vinto la guerra, marciato a passo spedito, conquistato la Russia, l'Inghilterra e la Pa­le­sti­na, sono stati sorpresi nel tentativo di assediare la Ger­mania: al primo secco rifiuto oppostogli hanno perso la testa, e ora stanno sommergendo il mondo – in particolare l'America, dalla lacrima facile – di propaganda an­titedesca. Le consiglio di evitare relazione sociali di qualsiasi genere».

Dodd condivideva in parte la teoria di Crane che gli ebrei avessero una buona fetta di responsabilità per la lo­ro condizione. In seguito, una volta giunto a Berlino, avrebbe scritto a Crane che, «pur non approvando la cru­deltà riservata agli ebrei in Germania», riteneva tuttavia che i tedeschi avessero valide ragioni per lamentarsi. «Quando ho avuto occasione di parlare in via uf­ficiosa con alcune personalità tedesche, ho detto in tutta franchezza che il loro è un problema serio, ma che sembra non sappiano come risolverlo» avrebbe scritto. «In Germania gli ebrei occupavano molte piú posizioni chiave di quanto non fosse giustificato dai loro talenti».

Durante la cena, Dood sentí Crane esprimere grande ammirazione per Hitler, e apprese che lo stesso Crane non aveva nulla da obiettare sul modo in cui i nazisti trattavano gli ebrei in Germania.

Quella sera, mentre i Dodd se ne andavano, Crane diede un altro consiglio all'ambasciatore: «Lasci che Hitler otten­ga ciò che vuole».

 

Il mattino dopo, alle undici del 5 luglio 1933, i Dodd presero un taxi che li portò al molo e salirono a bordo della loro nave, la Washington, diretti ad Amburgo. S'im­batterono in Eleanor Roosevelt, che aveva appena augurato bon voyage al figlio Franklin Jr in partenza per un sog­giorno in Europa.

S'imbarcò anche una decina di giornalisti, i quali assediarono Dodd mentre era sul ponte con la moglie e Bill. In quel momento Martha si trovava in qualche altro punto della nave. I giornalisti spararono una raffica di domande e spronarono i Dodd a posare come se stessero salutando. Seppur con riluttanza, i Dodd ac­cet­tarono; in seguito, l'am­basciatore avrebbe scritto: «Ignari della somiglianza con il saluto di Hitler, che al­l'epoca non conoscevamo, alzammo il braccio».

Le fotografie di quella scena furono all'origine di un piccolo scandalo, poiché sembravano aver catturato Dodd, la mo­glie e il figlio in una specie di “Heil Hitler!”.

I sospetti di Dodd si moltiplicarono. A quel punto, l'idea di aver lasciato Chicago e la sua vecchia vita iniziava a terrorizzarlo. Mentre la nave si allontanava dal molo, la famiglia Dodd sperimentò quello che in seguito Martha avrebbe definito «uno spropositato sentimento di tristezza e di timo­re per il futuro».

Martha si abbandonò alle lacrime.

5. La prima notte
Martha continuò a piangere per buona parte dei due giorni successivi, «copiosamente e con sentimento», per citare le sue stesse parole. Non erano lacrime dettate dall'ansia, visto che non si era mai soffermata a pensare come sarebbe stata la vita nella Germania nazista. A farla piangere era il pensiero di ciò che stava lasciandosi alle spalle, le persone e i luoghi, gli amici e il lavoro, il conforto familiare della casa in Blackstone Avenue, il suo amato Carl… tutti elementi della vita «inestimabilmente preziosa» che aveva condotto a Chicago. Se le mancava ancora un memento di ciò che stava per perdere, a fornirglielo era bastata la disposizione dei posti al suo party di addio. Era seduta fra Sandburg e un altro carissimo amico, Thornton Wilder.

Pian piano il dolore si attenuò. Il mare era calmo, e le giornate luminose. In compagnia del figlio di Roosevelt, girovagò per la nave, danzò e bevve champagne. Esaminarono l'uno il passaporto dell'altra – quello di Franklin Jr lo identificava brevemente come «figlio del presidente degli Stati Uniti», mentre quello di Martha era piú pretenzioso: «figlia di William E. Dodd, ambasciatore straordinario e plenipotenziario degli Stati Uniti in Germania». Dodd impose a lei e al fratello di trascorrere almeno un'ora al giorno nella sua cabina di lusso, la numero A-10, per sentirlo leggere ad alta voce in tedesco, in modo da allenare l'orecchio alla nuova lingua. L'ambasciatore aveva un'aria insolitamente solenne, e Martha percepí una tensione alla quale non era abituata.

In lei, tuttavia, la prospettiva di nuove avventure finí per prevalere sull'ansia. Sapeva ben poco di politica internazionale e, come ammise lei stessa, non si rendeva pienamente conto di quanto fosse grave la situazione in Germania. Vedeva Hitler come «un clown che assomiglia a Charlie Chaplin». Al pari di tante persone in America e in altri paesi, non riusciva a credere che quell'uomo sarebbe durato a lun­go, o che qualcuno potesse prenderlo sul serio. In merito alla questione ebraica era combattuta. Quando frequentava l'Uni­ver­sità di Chicago aveva respirato fra gli studenti una «sottile e velata atmosfera di propaganda» che diffondeva l'ostilità verso gli ebrei. Martha si accorgeva dell'invidia che i professori nutrivano nei confronti di colleghi e studenti ebrei particolarmente brillanti. Quanto a lei, scrisse: «Ero vagamente antisemita nella misura in cui tendevo a considerare gli ebrei me­no attraenti e so­cialmente meno frequentabili dei gentili». Martha si la­sciò inoltre influenzare dall'opinione assai diffusa che gli ebrei, seppur generalmen­te brillanti, fossero ricchi e arrivisti. In questo, Martha non faceva che rispecchiare il punto di vista di un sorprendente nume­ro di americani, come negli anni Trenta risultava dagli allora emer­genti sondaggi d'opinione. Secondo uno di que­sti sondaggi, il quarantuno per cento degli intervistati riteneva che gli ebrei avessero «troppo potere, negli Sta­ti Uni­ti»; un altro rivelò che un quinto dei cittadini scelti a cam­pione voleva «cacciare gli ebrei dagli Stati Uni­ti». (Un sondaggio effettuato molti decenni do­po, nel 2009, avreb­be mes­so in luce che la percentuale di americani convinti che gli ebrei avessero troppo po­tere era scesa al tredici per cen­to.)

Un collega universitario paragonò Martha a Ros­sel­la O'Hara e la descrisse come «una maliarda, bionda e attraente, con gli occhi azzurri e lucenti e la pelle chiara, quasi diafana». Si considerava una scrittrice, e in futuro sperava di far carriera scrivendo racconti e ro­manzi. Sandburg la incoraggiava. «Non ti manca certo la personalità» le scris­se. «Tempo, solitudine e impegno sono i principali, consolidati e semplici ingredienti di cui avrai bisogno; hai tutti i requisiti per lanciarti nell'impresa di raccontare ciò che piú ti aggrada…» Subito dopo la partenza della famiglia per Berlino, Sandburg le consigliò di annotare ogni cosa, e aggiunse: «Abbandonati a qualsiasi tentazione che t'induca a scrivere brevi note, impressioni, o quei versi improvvisi che cosí spesso sgorgano spontanei dalla tua mente». Ma soprattutto, si raccomandò, «scopri di che pasta è fat­to questo Hitler, che cosa anima la sua mente, che co­sa gli scorre nelle vene».

Anche Thornton Wilder dispensò alcuni consigli prima della partenza per l'Europa. Avvertí Martha di non scrivere per i giornali, poiché un simile lavoro da mercenari l'avrebbe privata della concentrazione necessaria per dedicarsi alla vera letteratura. Le raccomandò di tenere un diario in cui descrivere «il contesto, i pettegolezzi e le opinioni della gente in un periodo di fermento politico». In futuro, scris­se, un diario del genere sarebbe stato di grande interesse: «per te e – voglia il Cielo – per me». Alcuni amici di Martha credevano che fosse sentimentalmente coinvolta anche con lui, sebbene, in realtà, le attenzioni di Wilder fossero rivolte altrove. Martha conservava una sua foto in un medaglione.

 

Il secondo giorno in mare, mentre passeggiava sul ponte della Washington, Dodd scorse un volto familiare, quello del rabbino Wise, uno dei leader ebrei che aveva incontrato a New York tre giorni prima. I due pranzarono insieme. Nella settimana di viaggio che seguí parlarono della Germania «almeno cinque volte», avrebbe poi riferito Wise a un altro leader ebreo, Julian W. Mack, un giudice d'appello federale. «Si è comportato in modo amichevole e cordiale, ed era in vena di confidenze».

Dodd, in linea con gli interessi che coltivava, parlò a lungo della storia americana, e a un certo punto disse al rabbino Wise: «Non si può scrivere tutta la verità su Jefferson e su Washington. La gente non è pronta: de­v'essere preparata a rivelazioni del genere».

Quelle parole allarmarono Wise, che le definí «l'u­nica nota dolente della settimana». Come lui stesso spiegò: «Se la gente dev'essere preparata alla verità su Jef­ferson e su Washington, come si comporterà Dodd quan­do scoprirà quella su Hitler, visto il suo incarico?» E ancora: «Quando ho suggerito che il piú grande servizio che avrebbe potuto rendere al suo paese e alla Germania era raccontare la verità al cancelliere, far­gli sapere fino a che punto l'opinione pubblica, in­clusi i cristiani e i politici, si era rivoltata contro la Ger­mania… ha sempre risposto: “Non posso esprimermi finché non avrò incontrato Hitler. Se capirò di po­terlo fare, gli parlerò con estrema franchezza e gli di­rò tutto”».

Le loro numerose conversazioni a bordo della nave portarono Wise a concludere «che W.E. Dodd si sentiva delegato a coltivare il liberalismo americano in Ger­mania». Citò l'ultima osservazione di Dodd: «Sarebbe una vera tragedia se fallissi, una tragedia per il liberalismo e per tutto ciò che il presidente rappresenta». E l'ambasciatore aggiunse: «Per ciò che io stesso rappresento».

A quel punto, in effetti, Dodd aveva già iniziato a con­cepire il suo incarico come qualcosa che andava ol­tre la me­ra posizione di osservatore e relatore. Era con­vinto che con la ragione e il buon esempio sarebbe riuscito a esercitare un'in­fluenza moderatrice su Hitler e sul governo nazista, e al tem­po stesso avrebbe aiutato l'America a scuotersi dal suo atteggiamento isolazionista e a optare per una maggior partecipazione sullo sce­nario internazionale. L'approccio mi­glio­re, a suo avviso, era mostrarsi il piú possibile solidale e astenersi da ogni giudizio, cercando di capire perché la Ger­mania si sentisse oltraggiata dal resto del mondo. Per certi ver­si, Dodd lo trovava comprensibile. Nel suo diario scris­se che il Trattato di Versailles, tanto aborrito da Hitler, era «iniquo in molti punti, come tutti i trattati che chiudono una guerra». Nelle sue memorie, Martha andò me­no per il sottile e affermò che suo padre «deplorava» il trattato.

Da studioso di storia, Dodd aveva sviluppato una fede nella razionalità insita in ogni uomo ed era convinto che il buonsenso e la persuasione avrebbero avu­to la meglio, specialmente quando si fosse trattato di fer­mare la persecuzione nazista degli ebrei.

A un amico, l'assistente segretario di Stato R. Wal­ton Moore, disse che si sarebbe dimesso, piuttosto che «restare soltanto un rappresentante di protocolli e mon­danità».

 

I Dodd raggiunsero la Germania giovedí 13 luglio 1933. Dodd aveva erroneamente creduto che il suo arrivo fosse stato organizzato nei minimi dettagli e invece, dopo una lunga e noiosa navigazione dell'Elba, la famiglia sbarcò ad Amburgo per scoprire che nessuno, in ambasciata, aveva prenotato un treno, né tantomeno il tradizionale vagone privato, per farla proseguire fino a Berlino. Un funzionario e consigliere di ambasciata, George Gordon, che aspettava i Dodd sul molo, si affrettò a procurare loro degli scompartimenti su un vecchio treno ordinario, tutt'altra musica rispetto al famoso “Amburghese Volante”, che arrivava a Berlino in poco piú di due ore. La Chevrolet di famiglia poneva un altro problema. Bill Jr si era riproposto di raggiungere Berlino in auto, ma non aveva compilato la documentazione necessaria per farla scendere dalla nave e circolare sulle strade tedesche. Una volta risolto il problema, Bill si mise in viaggio. Nel frattempo Dodd rispose alle domande di alcuni giornalisti, tra i quali il collaboratore di un quotidiano ebreo, l'Israelitisches Familienblatt di Amburgo, dove in seguito comparve un articolo in cui si affermava che la principale missione di Dodd era fermare la persecuzione nazista degli ebrei; il genere di forzatura che Dodd si era augurato di scongiurare.

Nel corso del pomeriggio, i Dodd svilupparono un'avversione per il consigliere Gordon. Era il viceresponsabile dell'ambasciata e sovrintendeva a un organico di primi e secondi segretari, stenografi, addetti all'archiviazione e alla codifica e altri impiegati di vario genere, in tutto una ventina di persone. Gordon era scontroso e arrogante, e si vestiva come un aristocratico dell'Ottocento. Portava un bastone da passeggio, ave­va i baffi arricciati, e il suo colorito acceso e paonazzo era indice di quello che un funzionario definí «un temperamento molto collerico». Martha descrisse il suo modo di parlare come «impostato, cortese e decisamente borioso». Gordon non si sforzava neppure di ma­scherare il proprio disprezzo per l'aspetto sobrio dei Dodd o il disappunto per il fatto che fossero arrivati da soli, senza una schiera di camerieri, domestiche e autisti. Il precedente ambasciatore, Sackett, rispondeva mol­to meglio alle sue aspettative: era ricco, e nella sua residenza a Berlino aveva ben dieci domestici. Martha percepí che, agli occhi di Gordon, la sua famiglia ap­par­te­neva a una specie umana con la quale, «per larga par­te della sua vita da adul­to, aveva accuratamente evi­tato di mischiarsi».

Martha e sua madre viaggiarono in uno scompartimento separato, fra i bouquet di fiori ricevuti al molo come segno di benvenuto. Nel ricordo della figlia, Mattie era carica di apprensione e sconforto per «gli impegni e i cambiamenti» che la vita futura riservava alla loro famiglia. Martha appoggiò la testa sulla spalla della madre e poco dopo si addormentò.

Dodd e Gordon presero posto in un altro scompartimento e discussero di questioni diplomatiche e di politica tedesca. Gordon avvertí Dodd che la sua frugalità e il suo proposito di vivere soltanto dello stipendio concesso dal dipartimento di Stato avrebbero ostacolato il tentativo di stabilire un rapporto con il governo nazista. Dodd non era piú un semplice professore, gli ricordò Gordon. Era un importante diplomatico cui spettava l'onere di confrontarsi con un regime arrogante che ri­conosceva soltanto la forza. Dodd avrebbe dovuto ri­ve­dere il proprio approccio alla vita quotidiana.

Il treno sfrecciò attraverso graziose città e valli bo­scose illuminate dalla luce del pomeriggio e, nel giro di tre ore, raggiunse la Grande Berlino. Finalmente entrò sbuffando nella stazione di Lehrter Banhof, situata nel punto in cui la Sprea formava un'insenatura nel cuore della città. La stazione, uno dei cinque principali snodi ferroviari di Berlino, si ergeva sull'area circostante co­me una cattedrale, con una volta a botte e una profusione di vetrate ad arco.

Lungo il binario, i Dodd trovarono ad aspettarli un gruppo di americani e di tedeschi che includeva funzionari del ministero degli Esteri nazista e giornalisti armati di macchine fotografiche con flash noti all'epoca come “lampi”. Un uomo dall'aspetto risoluto, di corporatura normale e alto circa un metro e settanta – «un tipo freddo e irascibile che parlava con voce strascicata» lo descrisse in seguito lo storico e diplomatico George Kennan – si fece avanti per presentarsi. Era George Messersmith, console generale e funzionario del Servizio diplomatico; Dodd ne aveva letto i dispacci durante il suo soggiorno a Washington. Fece subito un'ottima impressione a Martha e a suo padre, che lo giudicarono un uomo di principi e leale, e pertanto un potenziale amico, anche se tale giudizio era destinato a essere rivisto.

Messersmith ricambiò quell'iniziale benevolenza. «Dodd mi è piaciuto subito» scrisse. «Era una persona molto semplice nei modi e nell'approccio». Annotò tuttavia che Dodd «dava l'impressione di essere un uomo piuttosto fragile».

Fra le persone venute ad accoglierli, i Dodd incontrarono anche due donne che per diversi anni avrebbero avuto un ruolo importante nella vita della famiglia; una di loro era tedesca, l'altra del Wisconsin, e aveva sposato un discendente di una delle dinastie piú colte e prestigiose della Germania.

La donna tedesca era Bella Fromm, una giornalista che si occupava di cronaca mondana per un autorevole quotidiano, la Vossische Zeitung – “Zia Voss” – uno dei duecento giornali allora attivi a Berlino e che, a differenza di quasi tutti gli altri, continuava a pubblicare reportage indipendenti. Bella Fromm era una donna attraente, con forme sinuose e occhi splendidi, sotto due so­pracciglia nere simili ad ali di gabbiano, le cui iridi color onice, parzialmente nascoste dalle palpebre, le conferivano un'aria scettica e intellettuale. Bella era considerata degna della massima fiducia da piú o meno tutti i componenti della diplomazia di Berlino, nonché dagli alti papaveri del Partito nazista; un risultato notevole, considerando che era ebrea. Affermava di avere una fon­te ai vertici del­l'am­mi­ni­stra­zio­ne nazista che la in­for­ma­va preventivamente sulle mosse del Reich. Era un'amica intima di Mes­ser­smith, che la figlia di Bella, Gonny, chiamava “zio”.

Nel suo diario, la Fromm rievocò le prime impressioni che ebbe sui Dodd. Martha, scrisse, era «l'esempio perfetto della giovane donna americana». Quanto al­l'am­basciatore: «Ha tutta l'aria dello studioso. Il suo caustico senso dell'umorismo mi ha subito affascinato. È attento e meticoloso. Ha imparato ad amare la Ger­mania quando era studente a Lipsia, ed è deciso a im­piegare tutte le sue energie per far nascere un rapporto di sincera amicizia fra il suo paese e il nostro». Quin­di aggiunse: «Spero che lui e il presidente degli Sta­ti Uniti non vedano vanificati tutti i loro sforzi».

La seconda donna, la statunitense, era Mildred Fish Har­nack, una rappresentante del Club delle donne a­me­ricane a Berlino. Dal punto di vista fisico era l'esatto opposto della Fromm: snella, bionda, eterea, riservata. Martha e Mildred si piacquero fin dal primo istante. Piú avanti, Mildred descrisse Martha come «schietta e competente, con un desiderio autentico di comprendere il mondo. Ecco perché i nostri interessi coincidono». Sentiva di aver trovato un'anima gemella, «una donna seriamente interessata alla scrittura. Essere soli e isolati nel proprio lavoro rappresenta un ostacolo. Le idee stimolano altre idee, e l'amore per la scrittura è contagioso».

Martha, a sua volta, era rimasta molto colpita da Mildred. «Mi ha conquistato subito» scrisse. Mildred rivelava un'irresistibile combinazione di forza e delicatezza. «Parlava ed esprimeva le proprie opinioni con cal­ma; ascoltava in silenzio, con un'espressione seria ri­flessa nei grandi occhi azzurri… e ponderava, va­luta­va, sforzandosi di comprendere».

 

Il consigliere Gordon fece salire Martha su un'auto insieme a un giovane addetto al protocollo perché la accompagnasse all'albergo dove la famiglia avrebbe soggiornato finché non fosse riuscita a trovare un'adeguata sistemazione in affitto. Dodd e Mattie viaggiarono invece con Gordon, Messersmith e la moglie di quest'ultimo. L'auto di Martha si diresse a sud ed entrò in città oltrepassando la Sprea.

La giovane scorse viali lunghi e dritti che evocavano il reticolo di strade di Chicago, ma le somiglianze si fermavano lí. Al posto della selva di grattacieli che riempiva il panorama di Chicago e che Martha attraversava ogni giorno per andare al lavoro, a Berlino gli edifici erano piuttosto bassi, composti in genere da cinque piani, e ciò rafforzava l'immagine di una città piatta e sviluppata orizzontalmente. La maggior parte dei palazzi sembrava molto vecchia, ma quel­li nuovi – una minoranza – creavano uno stridente contrasto, con le loro pareti di vetro, i tetti piatti e le facciate curve; erano tutte opere di Walter Gropius, Bruno Taut ed Erich Mendelsohn, condannati in blocco dai nazisti in quanto decadenti, comunisti e, inevitabilmente, ebrei. La città era piena di colori e di energia. C'erano omnibus a due piani, treni della S-Bahn e tram dai colori vivaci, i cui cavi elettrici emettevano scintille di un azzurro brillante. Automobili sportive passavano rombando; nere, perlopiú, ma anche rosse, color crema e blu scuro, e in molti casi si trattava di modelli che fino ad allora non aveva mai visto. L'adorabile Opel 4/16 PS, la Horch con il letale ornamento a forma di arco e freccia sul cofano e l'immancabile Mercedes, nera, bas­sa e con le rifiniture cromate. In un saggio Goebbels par­lò dell'energia della città ispirandosi a uno dei viali piú popolari per lo shopping, il Kurfürstendamm, an­che se le sue parole non erano di lode bensí di condanna, dal momento che descrisse lo stesso viale come «l'a­scesso» della città. «I campanelli dei tram suonano, gli autobus, pieni di gente, strombazzano con i loro clacson; taxi e lussuose auto private ronzano sull'asfalto ba­gnato» scrisse. «Scie di grevi profumi fluttuano nell'aria. Le prostitute sorridono dietro il loro belletto ap­plicato ad arte come sui volti di donne alla moda; uo­mini, o cosiddetti tali, passeggiano su e giú in un luccichio di monocoli; pietre false e autentiche scintillano». Ber­lino, aggiunse, era «un deserto di roccia» traboccante di peccato e corruzione e abitato da un popolo «che si portava il sorriso fin dentro la tomba».

Il giovane addetto al protocollo indicò diversi luoghi e monumenti d'interesse. Martha lo tempestò di domande, incurante del fatto che anche la pazienza del funzionario avesse un limite. All'inizio del tragitto avevano raggiunto una piazza dominata da un im­menso edi­ficio realizzato con arenaria della Slesia, con torri alte sessanta metri in ogni angolo; il palazzo era un esempio di quello che una delle famose guide di Karl Baedeker descriveva come «florido stile rinascimentale italia­no». Era il Reichstagsgebäude, dove il parlamento tedesco, il Reichstag, si era riu­nito fino a quattro mesi prima, quando l'edificio era stato dato alle fiamme. Un giovane olandese – un agitatore comunista di nome Marinus van der Lubbe – fu arrestato e accusato di incendio doloso insieme ad altri quattro uomini sospettati di essere suoi complici, sebbene voci molto accreditate sostenessero che l'incendio fosse stato ap­piccato dallo stesso regime nazista per alimentare i ti­mori di una rivolta bolscevica e guadagnare cosí l'appoggio del popolo in merito alla sospensione delle li­bertà civili e all'abbattimen­to del Partito comunista te­desco. A Berlino l'imminente pro­cesso era sulla boc­ca di tutti.

Martha, però, era perplessa. Contrariamente all'idea che si era fatta leggendo i giornali, l'edificio sembrava intatto. Le torri erano ancora al loro posto e i muri non mostravano danni visibili. «Oh, credevo che l'incendio lo avesse distrutto!» esclamò mentre l'auto superava l'e­dificio. «A me sem­bra in perfetto stato. Mi racconti che cos'è successo».

Dopo questa e altre uscite del genere, che la stessa Martha riconobbe come imprudenti, l'addetto al protocollo si chinò verso di lei e le sibilò: «Sh! Signorina, dovrà imparare a non farsi vedere né sentire. Non è opportuno parlare tanto e fare troppe domande. Qui non siamo in America, e non si può dire tutto ciò che si pensa».

Martha rimase in silenzio per il resto del viaggio.

 

Una volta raggiunto l'albergo, l'Esplanade, nella gra­ziosa e ombreggiata Bellevuestrasse, Martha e i suoi ge­nitori furono accompagnati negli alloggi che lo stesso Messersmith aveva predisposto per loro.

Dodd rimase sbigottito, Martha ne fu incantata.

L'albergo era uno dei piú eleganti di Berlino, con giganteschi lampadari e caminetti, oltre a due cortili sormontati da un tetto di vetro, uno dei quali – il Cortile delle Palme – era famoso per i suoi tè danzanti e per essere il luogo nel quale i berlinesi avevano ballato il charleston per la prima volta. Greta Garbo era stata ospite dell'albergo, e anche Charlie Chaplin. Mes­ser­smith aveva prenotato la suite imperiale, una serie di stanze che includeva una spaziosa camera da letto con ba­gno, due camere singole, sempre con bagno, un sa­lotto e una sala conferenze, il tutto disposto lungo il la­to destro di un corridoio, dalla stanza 116 alla 124. Le due sale per i ricevimenti avevano pareti rivestite di broccato. La suite era pervasa dalla fragranza primaverile dei fiori spediti alla famiglia in segno di buon augurio; erano cosí tanti, ricordò Martha, «che a malapena ci si poteva muovere: orchidee e gigli dai rari profumi, fiori di ogni forma e colore». Appena entrati, rievocò, «tutto quello sfar­zo ci lasciò senza fiato».

Ma una simile opulenza non poteva che offendere tutti i principi dell'ideale jeffersoniano che Dodd aveva abbracciato per una vita intera. Prima del suo arrivo, l'ambasciatore aveva messo in chiaro di volere «un alloggio modesto in un albergo modesto», scrisse Mes­sersmith. Pur compren­dendo il desiderio manifestato da Dodd di vivere «nel mo­do meno appariscente e me­no sfarzoso possibile», Messersmith sapeva tuttavia che per i funzionari e per il popolo tedesco un simile at­teggiamento non sarebbe stato altrettanto com­pren­si­bile.

C'era anche un altro fattore da considerare. I di­plo­ma­ti­ci e i funzionari americani del dipartimento di Sta­to aveva­no sempre alloggiato all'Esplanade. Una scelta diversa avreb­be significato violare il protocollo e rompere con la tra­di­zione.

La famiglia si sistemò. Bill Jr, con la Chevrolet, sa­reb­be arrivato piú tardi. Dodd si ritirò in camera sua con un libro. Martha non riusciva ancora a riprendere fiato. Continuavano ad arrivare biglietti di vari sostenitori, accompagnati da altri fiori. Lei e la madre si sedettero, stupefatte dal lusso che le circondava; in seguito, avrebbe ricordato: «Ci chiedemmo terrorizzate come avremmo fatto a pagare sen­za venderci l'anima».

All'ora di cena la famiglia si riuní e scese al ristorante dell'albergo, dove Dodd rispolverò il suo tedesco ar­rugginito da secoli e, con tono distaccato, tentò un ap­proccio scherzoso con i camerieri. «Era di ottimo umo­re» scrisse Mar­tha. I camerieri, abituati all'atteggiamen­to imperioso dei dignitari internazionali e degli uf­ficiali nazisti, non sapevano come rispondere, cosí a­dot­ta­rono modi che, agli occhi di Martha, rasentavano il servilismo. Il cibo le parve buo­no ma un po' pesante, tipicamente tedesco, tanto che la ragazza manifestò l'e­si­gen­za di fare una passeggiata per digerire.

Usciti dall'albergo, i Dodd si diressero a sinistra e percorsero Bellevuestrasse fra le ombre degli alberi e la debole luce dei lampioni. La scarsa illuminazione ricordò a Martha l'atmosfera sonnolenta delle città rurali ame­ricane a tarda notte. Non vide soldati, né poliziotti. Era una serata mite e bella. «Tutto» scrisse «era tranquillo, romantico, strano, carico di nostalgia».

Arrivarono in fondo alla strada e attraversarono una piccola piazza da cui si accedeva al Tiergarten, l'e­qui­valente berlinese di Central Park. Il nome, che tradotto letteralmente significa “giardino degli animali” o “giardino delle bestie”, riecheggiava un lontano passato in cui il parco era la riserva di caccia dei re­gnanti. Ora contava oltre duecentocinquanta ettari di alberi, sta­tue, vialetti e sentieri dove poter cavalcare, e si estendeva a ovest dalla Porta di Brandeburgo fino al ricco quartiere residenziale e commerciale di Charlot­tenburg. La Sprea scorreva lungo i suoi confini settentrionali; l'estremità sudoccidentale era occupata dal famoso zoo della città. Di notte il parco era particolarmente seducente. «Nel Tiergarten» scrisse un diplomatico britannico «i lampioncini guizzano fra gli alberelli e le sigarette accese illuminano il prato come una moltitudine di lucciole».

I Dodd imboccarono la Siegesallee – il viale della Vittoria – fiancheggiato da novantasei statue e busti di vecchi sovrani di Prussia, fra i quali Federico il Grande e altri omonimi di minor rilievo, nonché di personaggi un tempo illustri come Alberto l'Orso, Enrico il Fan­ciullo e Ottone il Pigro. I berlinesi li chiamavano Puppen, “pu­pazzi”. Dodd si lanciò in uno sproloquio sulla storia di ognu­no, rivelando la dettagliata conoscenza che ave­va acquisito a Lipsia trent'anni prima. Martha si rese con­to che la sua inquietudine si era dissipata. «Fu senza dubbio una delle serate piú felici che pas­sammo in Ger­ma­nia» scrisse. «Eravamo pieni di gioia e di tranquillità».

Dodd si era innamorato della Germania fin dal suo primo soggiorno a Lipsia, quando, ogni giorno, una giovane donna portava un mazzo di violette fresche per la sua stanza. Ora, mentre trascorrevano quella pri­ma sera passeggiando lungo la Siegesallee, anche Mar­tha provò un improvviso affetto per il paese. La città, l'atmosfera generale, tutto era diverso dall'immagine che si era fatta leggendo i giornali americani. «Sentivo che la stampa aveva gravemente diffamato la Germania, e volevo esaltare a gran voce quella mite sera d'estate con il profumo degli alberi e dei fiori, il calore e la cordialità della gente, la tranquillità del­le strade».

Era il 13 luglio 1933.

Seconda parte

A caccia di case nel Terzo Reich
 
6. Seduzione
Nei primi giorni a Berlino Martha si prese un raffreddore. Durante la convalescenza all'Esplanade ricevette la visita di una donna americana. Si chiamava Sigrid Schultz, e nei precedenti quattordici anni era sta­ta corrispondente a Berlino del Chicago Tribune, il giornale dove aveva lavorato Martha, mentre adesso era il corrispondente capo per l'Europa centrale. Sigrid ave­va quarant'anni, era alta all'incirca un metro e sessanta (appena piú bassa di Martha), bionda e con gli occhi azzurri. «Un po' in carne» la definí Martha, con «una montagna di capelli dorati». Nonostante il fisico e quell'aria da cherubino, i suoi colleghi e gli ufficiali nazisti la consideravano una donna tenace, diretta e terribilmente coraggiosa. Il suo nome compariva nelle liste de­gli invitati di tutti i diplomatici, ed era un'ospite fissa al­le feste organizzate da Goebbels, Göring e altri capi na­zi­sti. Göring provava un piacere perverso nel chiamarla «il dragone di Chicago».

Dapprima Sigrid Schultz e Martha chiac­chierarono del piú e del meno, ma presto il dialogo si spostò sulla rapida trasformazione subita da Ber­lino nei sei mesi successivi alla nomina di Hitler a cancelliere. Sigrid raccontò vari episodi di violenza che ave­vano coinvolto ebrei, comunisti e chiunque, agli oc­chi dei nazisti, non simpatizzasse con la loro rivoluzione. Fra le vittime c'erano stati anche diversi cittadini americani.

Martha ribatté che la Germania era nel pieno di una rinascita storica. Senza dubbio quegli episodi erano so­lo espressioni involontarie del fervido entusiasmo che ave­va pervaso il paese. Nei pochi giorni che avevano se­guito il suo arrivo, Martha non aveva visto nulla che po­tesse conferma­re i fatti citati da Sigrid.

Quest'ultima, tuttavia, proseguí riferendo racconti di percosse e di reclusioni arbitrarie nei campi ad hoc che erano spuntati come funghi in tutto il paese, e che erano controllati dalle forze paramilitari naziste, o in altre prigioni piú ufficiali, note come “campi di concentramento”. Il termine tedesco era Konzentrations­lager, o KZ. Uno di questi campi era stato aperto il 22 marzo 1933 e la sua esistenza era stata rivelata in occasione di una conferenza stampa organizzata da un tren­taduenne ex allevatore di polli e ora comandante della polizia di Monaco, Heinrich Himmler. Il campo occupava una vecchia fabbrica di munizioni appena fuori dall'incantevole villaggio di Dachau, raggiungibile da Monaco con un breve tragitto in treno, e ora ospitava centinaia, forse addirittura migliaia di prigionieri – nes­suno era in grado di stabilirlo – gran parte dei qua­li era stata arrestata senza un'accusa precisa ma quasi esclusivamente in virtú della Schutzhaft, la “custodia preventiva”. Fra questi non c'erano ebrei, per il mo­mento, ma solo comunisti e membri del Par­tito socialdemocratico, tutti sottoposti a una disciplina ferrea.

I tentativi di Sigrid di guastare la sua rosea visione degli eventi iniziarono a infastidire Martha, che tuttavia provava simpatia per la donna e la considerò subito un'amicizia da coltivare, visti i numerosi contatti che aveva nel mondo del giornalismo e della diplomazia. Si separarono amichevolmente, nonostante Mar­tha con­tinuasse a vedere la rivoluzione che stava prendendo for­ma intorno a lei come un episodio eroico dal quale la Ger­mania sarebbe uscita rinnovata e molto piú for­te.

«Non credevo a tutti i suoi racconti» scrisse Martha piú avan­ti. «Mi sembrava esagerata e un po' isterica».

Quando finalmente poté uscire dall'albergo, Martha non assistette ad alcun episodio di violenza, non vide nes­suno farsi piccolo per la paura, né colse un'atmosfera di oppressione. La città era una delizia. Ciò che Goeb­bels condannava, lei lo trovava adorabile.

A pochi minuti dall'albergo, sulla destra, lontano dai freschi prati del Tiergarten, Martha arrivò in Pots­damer Platz, uno dei luoghi piú trafficati al mondo, con il suo semaforo a cinque facce che si diceva fosse stato il primo installato in Europa. Berlino contava solo centoventimila automobili, ma in qualsiasi momento della giornata sembravano radunarsi lí tutte insieme, come le api in un alveare. Si poteva comodamente osservare il turbinio di auto e di passanti da un tavolino all'aperto del Café Josty. Sempre lí si ergeva l'Haus Vaterland, un nigthclub di cinque piani che serviva seimila clienti in dodici luoghi di ristoro, incluso un Wild West Bar i cui camerieri avevano in testa enormi cappelli da cowboy, e la Rheinterrasse, la Terrazza sul Reno, dove ogni ora i clienti assistevano a un breve temporale al coperto, con fulmini, tuoni e, per la disperazione delle donne in abiti di seta, qualche spruzzo di pioggia. «Che atmosfera giovanile, trascinante, spensierata, romantica, me­ravigliosa!» scrisse un avventore. «È il posto piú divertente che esista a Berlino».

Per una donna di ventiquattro anni libera da preoccupazioni lavorative ed economiche e prossima a la­sciarsi alle spalle un matrimonio ormai agli sgoccioli, Berlino aveva un fascino impareggiabile. Nel giro di pochi giorni, Martha si ritrovò coinvolta in un «appuntamento per un tè» pomeridiano con un corrispondente americano, H.R. Knickerbocker – “Knick” per gli amici – che scriveva per il New York Evening Post. La portò all'Eden, il celebre hotel dove, nel 1919, la militante comunista Rosa Luxemburg era stata picchiata a sangue, prima di essere trascinata nel Tiergarten e uc­cisa.

Ora, nella sala da tè dell'Eden, Martha e Knick stavano danzando. Lui era basso e magro, con i capelli rossi e gli occhi castani, e la guidava sulla pista con grazia e abilità. Inevitabilmente, la conversazione cadde sul­l'at­tuale situazione in Germania. Come Sigrid Schultz pri­ma di lui, Knickerbocker cercò di dare a Martha un'infarinatura sulla politica del paese e sul carattere della sua nuova classe dirigente. Martha non era interessata, e la conversazione si spostò su altri argomenti. Ad af­fascinarla erano gli uomini e le donne tedeschi intorno a lei. Le piaceva «il loro buffo e rigido modo di danzare», e amava «ascoltare quella lingua in­com­prensibile e piena di suoni gutturali e osservare i lo­ro gesti semplici, la loro spontaneità, il loro infantile entusiasmo per la vita».

I tedeschi che aveva conosciuto finora le erano simpatici; senza dubbio li preferiva ai francesi che aveva incontrato durante gli studi a Parigi. A differenza dei francesi, scrisse, i tedeschi non erano «ladri, né egoisti, né impazienti, freddi o duri».

 

La sua ottimistica visione delle cose era largamente condivisa dagli stranieri che visitavano la Germania, e in particolare Berlino. Il fatto era che il piú delle volte, e in quasi tutti i quartieri, la città funzionava come sempre. Il venditore di sigari di fronte all'Hotel Adlon, al numero 1 dell'Unter den Linden, il viale dei Tigli, continuava a vendere la sua merce (e Hitler continuava a evitare l'hotel, preferen­do il vicino Kaiserhof). Ogni mattina i tedeschi, molti dei qua­li a cavallo, gremivano il Tiergarten, mentre migliaia di pendolari arrivavano in centro su treni e tram da quartieri come Wedding e Onkel Toms Hütte. Uomini e donne in abiti eleganti sedevano nel Romanisches Café, sorseggiando caffè e vino, fumando sigarette e sigari ed esercitando il pungente umorismo per cui i berlinesi erano cosí famosi, tanto da far parlare di Berliner Schnauze, o “grugno berlinese”.

Nel cabaret Katakombe, Werner Finck, incurante del rischio di essere arrestato, continuava a farsi beffe del nuo­vo regime. Durante uno spettacolo, quando uno spet­tatore gli diede dello «sporco ebreo», Finck rispose: «Non sono ebreo. Ho solo un'aria intelligente». E il pubblico scoppiò a ridere di gusto.

Le belle giornate erano ancora belle. «Il sole splende» scrisse Christopher Isherwood in Addio a Berlino, «e Hitler è il padrone di questa città. Il sole splende, e decine di miei amici… sono in prigione, probabilmente morti». Ma prevaleva un'atmosfera seducente. «Scorgo il mio viso riflesso nello specchio di un negozio, e scopro scioccato che sto sorridendo» scrisse Isherwood. «Non si può fare a meno di sorridere, con un tempo co­sí bello». I tram circolavano come sempre; tutto, intorno a lui, aveva «un'aria curiosamente familiare, un'impressionante somiglianza con situazioni del passato che evocano immagini semplici e piacevoli; come una fotografia ben riuscita».

Sotto la superficie, però, la Germania era stata colpita da una rapida e impetuosa ondata rivoluzionaria in­sinuatasi nella vita di tutti i giorni. Lo aveva fatto in silenzio, e perlopiú senza dare nell'occhio. Ad animarla era la Gleichschaltung, il “coordinamento”, ovvero una campagna governativa mirata ad allineare cittadini, ministri, università e ogni genere d'istituzione alle posizioni e agli ideali nazionalsocialisti.

Il “coordinamento” avvenne con sorprendente velocità, perfino in sfere che non erano direttamente soggette a leggi specifiche, mentre i tedeschi si conformavano di buon gra­do al regime nazista dando vita a un fenomeno che prese il nome di Selbstgleichschaltung, o “autocoordinamento”. In Germania i cambiamenti si rea­lizzarono in modo cosí rapido e capillare che, al loro ritorno, i cittadini tedeschi che avevano lasciato il paese per motivi di lavoro o per viaggiare trovaro­no uno scenario completamente diverso, nel quale – co­me in un film dell'orrore – quelli che un tempo erano stati loro ami­ci, clienti o pazienti erano cambiati in un modo difficile da stabilire. Gerda Laufer, una socialista, scrisse di essersi sentita «profondamente turbata nel constatare come persone che consideravi amiche e che conoscevi da tanto tempo si fossero trasformate da un minuto al­l'altro».

I vicini divennero scontrosi; meschine gelosie degenerarono in denunce presentate alle SA o alla Geheime Staats Polizei, la polizia segreta di recente fondazione che proprio allora iniziava a essere chiamata con l'acronimo Gestapo, coniato da un impiegato delle poste per semplificarne la pronuncia. La fama di entità onnisciente ed efferata attribuita alla Gestapo nacque dal confluire di due fenomeni: in primo luogo da un clima politico in cui era sufficiente criticare il governo per es­sere arrestati, in secondo luogo dalla smania di un popolo che non si accontentava di mettersi in riga e coordinarsi, ma era intenzionato a far leva su temi cari ai nazisti per soddisfare esigenze individuali e prevenire eventuali invidie. Uno studio degli archivi nazisti rivelò che su un to­tale di duecentotredici denunce, il trentasette per cento non nasceva da un sincero credo politico, ma da conflitti personali, le cui motivazioni erano spesso incredibilmente banali. Nell'ottobre del 1933, ad esempio, il commesso di una drogheria denunciò una cliente bisbetica che aveva insistito per avere tre pfennig di resto. Il commesso la accusò di non aver pagato le tasse. I tedeschi si denunciavano a vicenda con tale fervore che gli alti funzionari nazisti invitarono il popolo a valutare meglio quali motivazioni potessero giustificare una denuncia al­la polizia. In una riflessione di cui rese partecipe il mi­nistro della Giustizia, lo stesso Hitler riconobbe: «Vi­via­mo ormai in un mare di denunce e meschinità».

Un elemento chiave del “coordinamento” fu l'intro­du­zio­­ne nella legge tedesca sul pubblico impiego della cosiddetta “clausola ariana”, che bandiva di fatto gli ebrei da qual­siasi posto statale. Ulteriori disposizioni, accompagnate al­le numerose manifestazioni di ostilità da parte degli abitan­ti, vietavano agli ebrei di esercitare la professione medica e di diventare avvocati. Per quan­to gravose e drammatiche agli occhi degli ebrei, simili restrizioni non suscitavano particolare scan­dalo nei turisti o negli osservatori estemporanei, in parte perché in Germania la comunità ebraica era poco nu­merosa. Nel gennaio del 1933, solo l'uno per cento dei sessantacinque milioni di cittadini tedeschi era di origine ebrea e viveva perlopiú in città, mentre nel resto del paese la loro presenza era pressoché irrilevante. Quasi un terzo – poco piú di centosessantamila – vi­veva a Ber­lino, ma costituiva meno del quattro per cento di una popolazione che nel complesso contava quattro mi­lioni e duecentomila abitanti; molti di loro, per giunta, vivevano in comunità ristrette che, di solito, non era­no in­cluse negli itinerari dei turisti.

Anche molti cittadini ebrei, tuttavia, non coglievano il significato profondo di ciò che stava accadendo. Furono solo in cinquantamila a comprenderlo, e lasciarono la Germania poche settimane prima della nomina di Hitler a cancelliere, ma la maggior parte di loro rimase. Nel corso del 1933, circa diecimila rifugiati po­litici tornarono in Germania. «Quasi nessuno credeva che le minacce contro gli ebrei dovessero essere prese sul serio» affermò Carl Zuckmayer, uno scrittore ebreo. «All'interno della nostra stessa comunità erano in mol­ti a considerare le sparate antisemite dei nazisti come mera propaganda, una politica che questi ultimi avrebbero abbandonato subito dopo aver conquistato il potere e aver assunto incarichi pubblici». Nonostante una canzone popolare diffusa fra le Squadre d'assalto si intitolasse Quando il sangue ebreo zampilla dal mio coltello, all'arrivo dei Dodd a Berlino le violenze contro gli ebrei avevano già iniziato a diminuire. Si verificavano solo episodi sporadici. «Era facile sentirsi rassicurati» scrisse lo storico John Dippel in uno studio che si riproponeva di capire perché un numero cosí alto di ebrei avesse deciso di restare in Germania. «Apparen­te­men­te, la vita di tutti i giorni era la stessa che aveva preceduto l'ascesa di Hitler. Gli attacchi sferrati dai nazisti con­tro gli ebrei erano come temporali estivi che andavano e venivano rapida­mente, lasciandosi dietro una cal­ma inquietante».

Il segno piú tangibile del “coordinamento” fu l'improvvisa apparizione del saluto di Hitler, o Hitlergruss. Era una novità per il mondo, tanto che Messersmith de­dicò all'argomento un intero rapporto, datato 8 agosto 1933. Il saluto, scrisse, non aveva precedenti nella storia moderna, sal­vo quello dei soldati davanti a ufficiali di grado superiore, che tuttavia era limitato a una ri­stretta cerchia di persone. A rendere unica tale usanza era il fatto che tutti, perfino nelle occasioni piú mondane, fossero tenuti a salutare. I negozianti salutavano i clienti. I bambini dovevano salutare gli insegnanti piú volte al giorno. Al termine degli spettacoli teatrali, una consuetudine di recente acquisizione prevedeva che il pubblico si alzasse in piedi e cantasse prima l'inno na­zionale tedesco, Deutschland über Alles, poi l'inno delle Squadre d'assalto, l'Horst-Wessel-Lied, o “canzone di Horst Wessel”, dal nome del suo compositore, un ceffo delle SA che era stato ucciso dai comunisti e che la propaganda nazista aveva poi trasformato in eroe. I tedeschi avevano accolto il saluto con tale entusiasmo e avevano iniziato a ripeterlo cosí di frequente da renderlo quasi ridicolo, specialmente nei corridoi degli edifici pubblici dove tutti – dall'umile fattorino al funzionario di grado piú alto – si scambiavano il saluto nazista, trasformando un sempli­ce tragitto fino al bagno in un af­fare di Stato.

Messersmith si rifiutava di salutare e si limitava a mettersi sull'attenti, ma si rendeva conto che per l'uomo medio tedesco non sarebbe stato sufficiente. A vol­te, perfino lui sentiva l'urgenza di conformarsi. Alla fine di un pranzo al quale si era ritrovato a partecipare, nella città portuale di Kiel, tutti gli invitati si alzarono in piedi e, con il braccio destro teso, cantarono l'inno nazionale e la canzone di Horst Wessel. Messersmith si alzò in se­gno di rispetto, come avrebbe fatto in A­me­rica davanti alla bandiera degli Stati Uniti. Molti degli altri ospiti, inclusi alcuni soldati delle Squadre d'assalto, lo fulminarono con lo sguardo e bisbigliarono fra loro come se cercassero di scoprire la sua identità. «È sta­ta una vera fortuna che quell'episodio si sia ve­ri­fi­cato in un luogo chiuso e fra persone intelligenti» scris­se Messersmith, «per­ché se mi fossi trovato in un raduno all'aperto o in qualche altra manifestazione pubblica, nessuno a­vrebbe chiesto chi fos­si ed è fuori questione che non l'avrei pas­sata liscia». Raccomandava ai turisti ame­ri­ca­ni di capire in anticipo quando fosse arrivato il momento di cantare e fare il saluto, e di tagliare la corda in tempo.

Non trovava divertente che, di tanto in tanto, l'amba­sciatore Dodd gli rivolgesse per scherzo il saluto na­zista.

 

Durante la sua seconda settimana a Berlino, Martha si rese conto che, malgrado le aspettative, non era riuscita a tagliare del tutto i ponti col passato.

Bassett, il marito, arrivò in città per compiere quella che in privato lui stesso definiva la sua «missione a Ber­lino», nella speranza di riconquistare Martha.

Bassett prese alloggio all'Hotel Adlon. Incontrò la moglie diverse volte, ma la riconciliazione strappalacrime che si era augurato non ebbe mai luogo. Al contrario, notò in Martha un atteggiamento di cordiale indifferenza. «Ricordi la nostra gita al parco in bicicletta?» le scrisse piú avanti. «Eri affabile, ma ho sentito che fra noi c'era una certa distanza».

A peggiorare le cose, verso la fine del suo soggiorno berlinese Bassett si buscò un gran raffreddore che lo co­strinse a letto, giusto in tempo per l'ultima visita di Mar­tha prima della sua partenza.

Bassett si rese conto che la sua missione a Berlino era fallita nell'istante in cui Martha entrò nella stanza del ma­rito portandosi dietro suo fratello Bill.

Era stato un atto di crudeltà involontaria. Martha sa­peva che Bassett lo avrebbe interpretato nel modo giusto. Era stanca: lo aveva amato, un tempo, ma la loro relazione era stata un susseguirsi di incomprensioni e imperativi contrastanti. Come Martha spiegò in seguito, del loro amore passato non restavano che le «ceneri», e non era abbastanza.

Bassett comprese. «Non ne potevi piú» scrisse. «Co­me biasimarti, del resto?»

Le spedí un mazzo di fiori, riconoscendo la propria sconfitta. Il biglietto che li accompagnava iniziava cosí: «Alla mia bellissima ex moglie…»

Bassett ripartí per l'America, per Larchmont, per New York, e per una vita in periferia consacrata alla falciatura del prato, alla cura dei faggi rossi nel giardino sul retro, a cocktail serali e a rinfreschi, e al suo lavoro da pendolare in ban­ca. Come scrisse in seguito: «Non sono affatto sicuro che saresti stata felice come mo­glie di un economista bancario alle prese con gli impegni di lavoro, stretta fra una schiera di figli da crescere, i colloqui con gli insegnanti e via dicendo».

 

L'amicizia di Martha con Sigrid Schultz iniziò presto a dare i suoi frutti. Il 23 luglio 1933 Sigrid organizzò una festa di benvenuto in onore di Martha e invitò diversi amici intimi, incluso un altro corrispondente, Quentin Reynolds, che scriveva per la Hearst News Service. Fra Martha e Reynolds nacque subito una forte intesa. Il giornalista era un tipo corpulento e allegro, aveva i capelli castani e ricci, e dall'espressione degli occhi sembrava sempre che dovesse scoppiare a ridere da un momento all'altro, caratteristica che contrastava con la sua reputazione di uomo testardo, scettico e in­telligente.

Martha lo incontrò cinque giorni dopo in un bar del­l'Esplanade, accompagnata da Bill. Come Schultz, an­che Reynolds sembrava conoscere tutti ed era riuscito a farsi amici diversi funzionari nazisti, tra cui un con­fidente di Hitler dal nome impronunciabile: Ernst Franz Sedgwick Hanfstaengl. Laureatosi a Harvard, di origini americane per parte di madre, Hanfstaengl ave­va fama di suonare per Hitler nel cuore della notte, quan­do il dittatore era particolarmente nervoso. Niente Mozart o Bach. Perlopiú Wagner e Verdi, Liszt e Grieg, e ogni tan­to Strauss e Chopin.

Martha voleva conoscerlo; Reynolds sapeva che un suo collega stava organizzando un party al quale era invitato anche Hanfstaengl, e si offrí di accompagnarcela.

7. Conflitti sotterranei