LA CONOSCENZA E I SUOI NEMICI
Tom Nichols
Recensione
Un'analisi attuale, lucida e caustica della situazione odierna, dello scontro fra "élite" e "popolo", delle incomprensioni fra esperti e profani, della situazione universitaria e accademica, degli automatismi mentali che generano assurde credenze e di molte altre questioni. . Considero questa opera, assieme a quella di Lakoff "Non pensate all'elefante" e a "Figli di un io minore" di Ercolani (che cita tra molti altri il testo di Nichols) una perfetta triade per sviluppare senso critico e per vedere ciò che ci succede intorno in modo non fazioso, per quanto possibile.relativi all'istruzione. L'autore mette in evidenza come oggi, causa l'avvento delle nuove tecnologie, ogni persona si senta il diritto di contestare, anche non avendo la competenza giusta, persone che invece hanno passato la propria vita a studiare o a lavorare in un determinato campo.
Il titolo in lingua originale "The death of expertise" (la fine della competenza) forse rende meglio l'idea. L'autore mette in guardia sulle ingeguità che tanti commettono (commettiamo) facendo "ricerche" su internet e sulle conseguenze nelle relazioni e nell'opinione pubblica. Il cap. 2 è dedicato alle discussioni in rete e all'effetto "Dunning-Kruger, che, cito dal libro "in sintesi, è il fenomeno per cui più si è ottusi, più si è convinti di non esserlo". In fondo poi "tutti tendiamo a sopravvalutarci". Altra descrizione intessante del testo è la "legge di Sturgeon", dallo scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon, che negli anni '50 del secolo scorso che dichiaro "la maggior parte dei prodotti, nella maggior parte dei campi, è spazzatura".
[...]Gli stereotipi non sono previsioni, bensì conclusioni. Ecco perché parliamo di “pregiudizi”: si basano su un giudizio preventivo. Il groviglio si crea quando facciamo generalizzazioni negative o basate su criteri di valutazione discutibili. Nessuno può veramente confutare una generalizzazione che riguarda l’altezza: è qualcosa di facilmente misurabile, con metodi accettati da tutti noi; né attribuiamo all’altezza alcun tipo di qualità morale o politica. “Siete alto, eh?” dice una femme fatale al detective letterario Phillip Marlowe nel romanzo del 1939 Il grande sonno. “Non è colpa mia” risponde Marlowe.(R. Chandler, Il grande sonno, in Tutto Marlowe investigatore, Mondadori, Milano, 1970, vol. I, p. 62) È una battuta arguta, proprio perché sappiamo che essere bassi o alti non è qualcosa che controlliamo o per cui dobbiamo scusarci.[...]
Prefazione
“La fine della competenza” è una di quelle frasi che annunciano in modo pomposo la propria presunzione. È un titolo che rischia di respingere molti lettori ancor prima che aprano il libro, quasi sfidandoli a trovare un errore da qualche parte, solo per poter tacciare l’autore di arroganza. Comprendo questo tipo di reazioni, perché anch’io la penso allo stesso modo nei confronti di dichiarazioni tanto assolute. La nostra vita culturale e letteraria è piena di funerali prematuri: la vergogna, il buonsenso, la mascolinità, la femminilità, l’infanzia, il buongusto, l’alfabetizzazione, la punteggiatura, ecc. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è l’ennesimo panegirico per una cosa che, lo sappiamo, non è affatto morta.
Se le competenze di settore non sono morte, sono però nei guai. Qualcosa è andato terribilmente storto. Oggi l’America è un Paese ossessionato dal culto della propria ignoranza. Il punto non è soltanto che la popolazione non ne sa molto di scienze, di politica o di geografia (di fatto è così, ma è un vecchio problema). E, in verità, non è neanche un problema, poiché viviamo in una società che funziona grazie alla divisione del lavoro, sistema ideato per liberare ciascuno di noi dalla necessità di sapere tutto. I piloti fanno volare gli aeroplani, gli avvocati dibattono le cause legali, i medici prescrivono farmaci. Nessuno di noi è Leonardo da Vinci, che dipingeva la Gioconda al mattino e progettava elicotteri di notte. E così dev’essere.
No, il problema più grande è che siamo orgogliosi di non sapere le cose. Gli americani sono arrivati a considerare l’ignoranza, soprattutto su ciò che riguarda la politica pubblica, una vera e propria virtù. Per gli americani rifiutare l’opinione degli esperti significa affermare la propria autonomia, un modo per isolare il proprio ego sempre più fragile e non sentirsi dire che stanno sbagliando qualcosa. È una nuova Dichiarazione di indipendenza: non riteniamo più ovvie queste verità, le consideriamo tutte ovvie, anche quelle che vere non sono. Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi argomento vale quanto quella di chiunque altro.
Non siamo di fronte alla tradizionale avversione americana per gli intellettuali e i sapientoni. Sono un professore e lo capisco bene: alla maggior parte delle persone i professori non piacciono. A inizio carriera, quando cominciai a insegnare, circa trent’anni fa, lavoravo in un college non distante dalla mia città di origine e spesso facevo un salto alla piccola tavola calda di proprietà di mio fratello per salutarlo. Una sera, dopo che me ne fui andato, uno dei clienti abituali si rivolse a mio fratello e disse: “E quindi è un professore, eh? Sembra un tipo a posto, però”. Se fai il mio lavoro, ci fai l’abitudine.
Ma non è questo il motivo per cui ho scritto il libro che tenete in mano. Gli intellettuali che si arrabbiano per le battute taglienti sulla loro inutilità dovrebbero cambiare lavoro. Ho fatto l’insegnante, il consulente politico, l’esperto di temi specifici sia per il governo sia per l’industria privata e il commentatore su diversi media. Sono abituato al fatto che la gente non si trovi d’accordo con me; anzi, è un atteggiamento che incoraggio. I dibattiti informati su questioni di principio sono un segno di salute e di vitalità intellettuale in una democrazia.
Piuttosto, ho scritto questo libro perché sono preoccupato. Non ci sono più dibattiti informati su questioni di principio. Il sapere di base dell’americano medio è ormai talmente basso da essere crollato prima al livello di “disinformazione”, superando nello slancio la “cattiva informazione”, e ora sta sprofondando nella categoria “errore aggressivo”. La gente non solo crede alle sciocchezze, si oppone anche attivamente a imparare di più, pur di non abbandonare le proprie errate convinzioni. Non sono vissuto al tempo del Medioevo, per cui non posso dire che assistiamo a qualcosa di mai visto prima, ma finora, che io ricordi, non ho mai visto nulla del genere.
E non è la prima volta che mi sono ritrovato a pensare a questo argomento. Verso la fine degli anni Ottanta, quando lavoravo a Washington, mi resi conto che la gente ci metteva poco, anche in una conversazione superficiale, a istruirmi su cosa andava fatto in tutta una serie di settori, soprattutto in quelli di cui mi occupavo, ovvero il controllo degli armamenti e la politica estera (come al solito, si trattava di ciò che “gli altri” avrebbero potuto fare: “loro dovrebbero…”). Ero giovane e ancora non potevo considerarmi un esperto navigato, ma mi stupì il modo in cui persone che non sapevano nulla di questi argomenti mi tenessero con grande disinvoltura lezioni su come ottenere la pace tra Mosca e Washington.
Fino a un certo punto era comprensibile. La politica sollecita la discussione. E soprattutto durante il periodo della Guerra Fredda, quando la posta in gioco era l’annientamento globale, la gente voleva essere ascoltata. Ho accettato questo fatto, convinto che facesse parte del prezzo da pagare per chi lavora nel mondo della politica pubblica. Con il passare del tempo, ho scoperto che altri specialisti di diverse aree di intervento politico avevano avuto la mia stessa esperienza ed erano stati sottoposti a disquisizioni infondate, da parte di profani, su tasse, bilanci, immigrazione, ambiente e mille altri argomenti. Se sei un esperto di politica, questo fa parte del tuo lavoro.
In anni più recenti, tuttavia, ho iniziato a sentire lo stesso tipo di storie dai medici. E dagli avvocati. E dagli insegnanti. E infine da molti altri professionisti, il cui parere in genere non è facile da contraddire. Questi racconti mi hanno stupito: non riguardavano pazienti o clienti che ponevano domande ragionevoli, bensì pazienti e clienti che dicevano energicamente a dei professionisti perché la loro opinione era sbagliata. In ogni caso, l’idea che l’esperto sapesse cosa stava facendo veniva scartata quasi senza pensarci.
Quel che è peggio, oggi a colpirmi non è tanto il fatto che la gente rifiuti la competenza, ma che lo faccia con tanta frequenza e su così tante questioni, e con una tale rabbia. Di nuovo, forse gli attacchi alla competenza sono più evidenti per via dell’onnipresenza di internet, dell’indisciplina che governa le conversazioni sui social media o delle sollecitazioni poste dal ciclo di notizie ventiquattr’ore su ventiquattro. Ma l’arroganza e la ferocia di questo nuovo rifiuto della competenza indicano, almeno per me, che il punto non è più non fidarsi di qualcosa, metterla in discussione o cercare alternative: è una miscela di narcisismo e disprezzo per il sapere specialistico, come se quest’ultimo fosse una specie di esercizio di autorealizzazione.
Ciò rende molto più difficile per gli esperti ribattere e convincere la gente a ragionare. A prescindere dall’argomento, la discussione viene sempre rovinata da un rabbioso egocentrismo e termina senza che nessuno abbia cambiato posizione, a volte con la compromissione di relazioni professionali o perfino di amicizie. Invece di dibattere, oggi ci si aspetta che gli esperti accettino queste espressioni di dissenso, come se fossero, nel peggiore dei casi, un’onesta divergenza di opinioni. Dovremmo “accettare di non essere d’accordo” (agree to disagree), espressione che ormai è usata in modo indiscriminato come una specie di estintore quando una conversazione tende a infiammarsi. E se insistiamo nel dire che alcune cose non sono questioni di opinione, che ci sono cose giuste e altre sbagliate… be’, a quanto pare ci stiamo solo comportando da rompiscatole.
È possibile, credo, che io sia solamente un sintomo di ricambio generazionale. Sono cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, un’epoca in cui forse c’era troppa deferenza nei confronti degli esperti. Erano i giorni inebrianti in cui l’America era in prima linea, non solo in ambito scientifico, ma anche nella leadership internazionale. I miei genitori erano persone informate ma non istruite che, come molti americani, davano per scontato che gli stessi individui che erano riusciti a portare l’uomo sulla Luna probabilmente avevano ragione su gran parte delle altre cose importanti. Non sono cresciuto in un ambiente di totale obbedienza all’autorità, ma in generale la mia famiglia era piuttosto ordinaria nella convinzione che chi lavorava in ambiti specialistici, dalla podologia alla politica, sapesse il fatto suo.
Come giustamente sottolineano i detrattori della competenza, in quei giorni ci fidavamo delle persone che avevano fatto atterrare Neil Armstrong nel mare Tranquillitatis, ma anche di chi aveva spedito molti americani meno famosi in posti come Khe Sanh e la valle di Ia Drang in Vietnam. La fiducia della popolazione, nei confronti tanto degli esperti quanto dei leader politici, non solo era mal riposta, ma era vittima di un vero e proprio abuso.
Ora, comunque, siamo andati nella direzione opposta. Non con un sano scetticismo nei confronti degli esperti, ma con il deciso risentimento di molti, convinti che gli esperti si sbaglino per il semplice fatto di essere tali. Fischiamo i “cervelloni” – un termine che adoperiamo con una rinnovata accezione dispregiativa – mentre spieghiamo ai nostri medici quali farmaci ci occorrono o insistiamo nel dire agli insegnanti che le risposte dei nostri figli a una prova d’esame sono giuste anche se sono sbagliate. Non solo tutti sono più bravi di chiunque altro, ma tutti pensiamo di essere le persone più intelligenti mai vissute sulla terra.
E non potremmo avere più torto di così.
Devo ringraziare molte persone che mi hanno assistito nella realizzazione di questo libro e liberarne molte altre da qualsiasi legame con le opinioni che il volume esprime e le conclusioni che trae.
Nel 2013 ho scritto un post dal titolo “La fine della competenza” per il mio blog personale, The War Room. Quel post è stato notato da Sean Davis di The Federalist che mi ha contattato per chiedermi di trarne un articolo. Sono grato a Sean e a The Federalist per aver ospitato quel pezzo, che è stato letto da oltre un milione di persone in tutto il mondo. Poi l’ha visto anche David McBride della Oxford University Press, che mi ha scritto invitandomi a trasformarne la tesi principale in un libro. La sua guida e i suoi consigli editoriali sono stati fondamentali per arricchire e approfondire l’argomento, e sono grato a lui e alla Oxford, oltre che ai lettori anonimi che hanno esaminato la mia proposta, per aver reso possibile la pubblicazione del libro.
Mi ritengo molto fortunato di lavorare allo US Naval War College, e molti miei colleghi, tra cui David Burbach, David Cooper, Steve Knott, Derek Reveron e Paul Smith, hanno offerto commenti e materiali. Ma le opinioni e le conclusioni contenute in questo libro sono mie e non rappresentano in alcun modo il pensiero di altre istituzioni o agenzie del governo statunitense.
Vari amici e corrispondenti che esercitano diverse professioni sono stati così gentili da fare commenti, leggere capitoli o dare risposte a una gran varietà di domande che ricadevano al di fuori della mia area di competenza: tra questi Andrew Facini, Ron Granieri, Tom Hengeveld, Dan Kaszeta, Kevin Kruse, Rob Mickey, Linda Nichols, Brendan Nyhan, Will Saletan, Larry Sanger, John Schindler, Josh Sheehan, Robert Trobich, Michael Weiss, Salena Zito e soprattutto Dan Murphy e Joel Engel. Devo un ringraziamento speciale a David Becker, Nick Gvosdev e Paul Midura per i loro commenti a diverse stesure del manoscritto.
Sono estremamente grato alla Harvard Extension School, non solo per l’opportunità che mi ha offerto di insegnare nel suo corso, ma anche per i numerosi ed eccellenti assistenti di ricerca che l’Extension mette a disposizione della facoltà. Kate Arline è stata un’assistente preziosissima per questo progetto: ha risposto anche alle mie richieste più strambe con rapidità e aplomb (volete sapere quanti fast food hanno aperto in America a partire dal 1959? Kate riesce a scoprirlo). Qualsiasi errore nei dati o nella loro interpretazione presente in questo libro, tuttavia, è mio e solo mio.
Scrivere un libro può essere un’esperienza magnifica e avvincente per l’autore, ma molto meno per le persone che gli sono accanto. Mia moglie Lynn e mia figlia Hope sono state come sempre molto pazienti durante la stesura del libro e vanto nei loro confronti un grosso debito di gratitudine per avermi sopportato. Il libro è dedicato a entrambe, con amore.
Infine, devo ringraziare le persone che mi hanno aiutato ma che, per ovvie ragioni, desiderano restare anonime. Sono grato a molti professionisti, medici, giornalisti, avvocati, educatori, analisti politici, scienziati, accademici, esperti militari e altri che hanno condiviso le proprie esperienze e hanno raccontato le loro storie perché le raccogliessi in questo libro. Non avrei potuto scriverlo senza di loro.
Spero che in qualche modo questo testo aiuti loro e altri esperti a svolgere il proprio lavoro. Ma alla fine i clienti di un professionista sono persone appartenenti alla società in cui vive e quindi spero in particolar modo che questo volume aiuti i miei concittadini ad avvalersi in modo migliore degli esperti ai quali tutti noi ci affidiamo e a comprenderli maggiormente. Più di qualsiasi altra cosa, spero che il libro contribuisca a risanare la frattura tra esperti e profani che sulla lunga distanza minaccia non solo il benessere di milioni di americani, ma anche la sopravvivenza del nostro esperimento democratico.
introduzione
La fine della competenza
Negli Stati Uniti c’è un culto dell’ignoranza, e c’è sempre stato.
Le sollecitazioni dell’anti-intellettualismo sono un filo rosso
che si snoda attraverso la nostra vita politica e culturale,
nutrito dalla falsa convinzione che democrazia
significhi che “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”.
Isaac Asimov
All’inizio degli anni Novanta, un piccolo gruppo di “negazionisti dell’Aids”, tra cui Peter Duesberg, un professore della University of California, si schierò contro la posizione – pressoché unanime all’interno dell’establishment medico – secondo cui il virus di immunodeficienza umano (HIV) era la causa della Sindrome di immunodeficienza acquisita (Aids). La scienza prospera grazie a queste sfide controintuitive, ma nessuna prova sosteneva le convinzioni di Duesberg, che si rivelarono prive di fondamento. Una volta che i ricercatori ebbero scoperto l’HIV, medici e operatori sanitari furono in grado di salvare innumerevoli vite attraverso misure mirate a prevenirne la trasmissione.
La vicenda di Duesberg sarebbe potuta finire come qualunque altra teoria bislacca smentita dalla ricerca. La storia della scienza è disseminata di simili vicoli ciechi. In questo caso, però, un’idea screditata riuscì comunque a catturare l’attenzione di un leader nazionale, con risultati letali. Thabo Mbeki, allora presidente del Sudafrica, sfruttò l’idea che l’Aids non fosse causato da un virus ma da altri fattori, quali malnutrizione e cattive condizioni sanitarie, e rifiutò i medicinali e le altre forme di assistenza che venivano offerte al Paese per combattere l’infezione da HIV. A metà degli anni Zero, il suo governo cedette, ma ormai l’ossessivo atteggiamento negazionista di Mbeki nei confronti dell’Aids era costato, secondo le stime dei medici della Harvard School of Public Health, ben oltre trecentomila vite e l’infezione di circa trentacinquemila bambini positivi all’HIV alla nascita, che si sarebbe potuta evitare.1 Ancora oggi Mbeki è convinto delle sue idee.
Molti americani potranno forse deridere questo tipo di ignoranza, ma farebbero meglio a non riporre eccessiva fiducia nelle proprie capacità. Nel 2014, un sondaggio del Washington Post ha chiesto agli americani se gli Stati Uniti dovessero intervenire militarmente a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina avvenuta nello stesso anno. Gli Stati Uniti e la Russia sono ex avversari dalla Guerra Fredda e ciascuna delle due nazioni ha a disposizione centinaia di armi nucleari a lungo raggio. Un conflitto militare nel centro dell’Europa, proprio sul confine russo, rischierebbe di accendere la miccia per una Terza guerra mondiale, con conseguenze potenzialmente catastrofiche. Eppure, solo un americano su sei – e meno di un laureato al college su quattro – è stato in grado di identificare l’Ucraina su una carta geografica. L’Ucraina è la nazione più estesa tra quelle il cui territorio ricade interamente in Europa, ma in media chi ha risposto al questionario ha sbagliato la posizione di 2.900 chilometri.
È facile sbagliarsi sulle cartine geografiche. Molto più sconvolgente è il fatto che questa lacuna di conoscenza non abbia impedito agli intervistati di esprimere opinioni piuttosto precise sulla questione. In realtà questo è un eufemismo: non solo la popolazione ha espresso giudizi forti, ma gli intervistati hanno effettivamente mostrato entusiasmo per un intervento militare in Ucraina direttamente proporzionale alla loro mancanza di conoscenze di quel Paese. In altri termini, le persone convinte che l’Ucraina fosse situata in America Latina o in Australia erano le più entusiaste rispetto all’uso della forza militare statunitense.2
Viviamo in tempi pericolosi. Mai tante persone hanno avuto accesso a tanta conoscenza e tuttavia hanno esercitato tanta resistenza all’apprendimento di qualsiasi cosa. Negli Stati Uniti e in altre nazioni sviluppate, persone altrimenti intelligenti denigrano i risultati conseguiti dagli intellettuali e rifiutano i pareri degli esperti. Non soltanto a un crescente numero di profani mancano conoscenze di base, ma questi respingono gli elementi probatori e si rifiutano di apprendere come elaborare un’argomentazione logica. In tal modo, rischiano di gettare via secoli di sapere accumulato, e di indebolire pratiche e usi che ci permettono di sviluppare nuove conoscenze.
Si tratta di qualcosa in più che un naturale scetticismo nei confronti degli esperti. Temo che stiamo assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, un crollo – alimentato da Google, basato su Wikipedia e impregnato di blog – di qualsiasi divisione tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e fantasiosi speculatori; in altre parole, tra coloro che hanno ottenuto un qualche risultato in un’area e coloro che non ne hanno raggiunto nessuno.
Spesso gli attacchi al sapere consolidato e la conseguente eruzione di cattive informazioni tra i cittadini sono divertenti. A volte addirittura esilaranti. Molti comici dei programmi in onda in seconda serata costruiscono i loro sketch ponendo al pubblico domande che ne rivelano la diffusa ignoranza sulle idee che difende con forza, l’attaccamento alle mode e la riluttanza ad ammettere la propria incompetenza sugli eventi d’attualità. Quando le persone affermano con enfasi, per esempio, di evitare il glutine per poi ammettere di non avere idea di cosa sia, è una cosa innocua. E diciamocelo: la gente non la smette mai di pronunciare con sicumera opinioni estemporanee su scenari grotteschi, come “l’assenza di Margaret Thatcher a Coachella favorisce la decisione della Corea del Nord di sganciare una bomba nucleare?”.
Tuttavia, quando si tratta di questioni che coinvolgono la vita e la morte delle persone, la situazione è molto meno divertente. Indubbiamente le buffonate dei pagliacci della crociata contro i vaccini funzionano benissimo in televisione, come gli attori Jim Carrey e Jenny McCarthy, o se si è deciso di passare un pomeriggio spensierato a leggere post su Twitter. Ma quando loro, altre celebrità e personaggi pubblici disinformati sfruttano miti e informazioni fallaci sui pericoli dei vaccini, milioni di persone potrebbero ritrovarsi di nuovo esposte al serio pericolo di malattie prevenibili come il morbillo e la pertosse.
La crescita di questa ostinata ignoranza in piena èra dell’informazione non si può spiegare soltanto come l’esito di ignoranza bella e buona. Molti di coloro che conducono campagne contro il sapere consolidato sono cittadini capaci e di successo nella vita quotidiana. In un certo senso, siamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza: si tratta di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza, di qualsiasi tipo essa sia.
Con l’espressione “fine della competenza” non intendo il crollo delle capacità reali degli esperti, la conoscenza di argomenti specifici che distingue alcune persone da altre in vari settori. Ci saranno sempre medici e diplomatici, avvocati e ingegneri, e molti altri specialisti in vari campi. Nella vita quotidiana, il mondo non potrebbe funzionare senza di loro. Se ci fratturiamo un osso o se ci arrestano, chiamiamo rispettivamente un medico o un avvocato. Quando viaggiamo, diamo per scontato che il pilota sappia come funzioni un aereo. Se ci troviamo ad affrontare problemi mentre siamo all’estero, chiamiamo un funzionario del consolato che, presumiamo, saprà cosa fare.
Questo, però, vuol dire che ci affidiamo agli esperti come tecnici. Non c’è un dialogo tra loro e la comunità allargata, ma l’uso di un sapere consolidato come se fosse una merce preconfezionata da adoperare alla bisogna, fintantoché si desidera farlo. Mi ricucia questo taglio alla gamba, ma non mi faccia ramanzine sulla mia dieta (più di due terzi degli americani sono in sovrappeso); mi aiuti a superare questo problema con le tasse, ma non mi ricordi che dovrei redigere un testamento (grossomodo la metà degli americani con figli non si è mai preoccupata di scriverne uno); mantenga il mio Paese sicuro, ma non mi stia a confondere con i costi e i calcoli che riguardano la sicurezza nazionale (la maggior parte dei cittadini americani non ha idea, neppure lontanamente, di quanto ammontino le spese militari degli Stati Uniti).
Tutte queste scelte, dal proprio regime alimentare alla difesa nazionale, richiedono un dialogo tra cittadini ed esperti, ma sempre di più, a quanto pare, i cittadini non vogliono prendere parte a questa conversazione. Preferiscono credere di possedere informazioni a sufficienza per prendere queste decisioni per proprio conto, ammesso che siano interessati a farlo.
D’altro canto, molti esperti, e in particolare quelli che appartengono al mondo accademico, hanno abdicato al loro dovere di interagire con il pubblico. Si sono trincerati dietro il proprio gergo e la propria irrilevanza, preferendo interagire soltanto tra loro. Nel frattempo, coloro che si trovano a metà, a cui spesso ci riferiamo con l’espressione “intellettuali impegnati” – mi piace pensare di essere uno di loro –, stanno diventando altrettanto frustrati e radicalizzati del resto della società.
La fine della competenza non è solo un rifiuto del sapere esistente. È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva, che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna. È segno, come ha affermato una volta il critico d’arte Robert Hughes descrivendo l’America di fine Novecento, di “una politica ossessionata dalle terapie e piena di diffidenza per la politica formale”, cronicamente “scettica nei confronti dell’autorità” e “in preda alla superstizione”. Abbiamo chiuso il cerchio, partendo dall’età premoderna, in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa.
Ogni affermazione di competenza da parte di un esperto vero, nel frattempo, produce un’esplosione di rabbia in alcuni segmenti della popolazione americana, pronti a lamentarsi che simili rivendicazioni non sono altro che fallaci “appelli all’autorità”, segni inequivocabili di un temibile “elitarismo”, nonché un evidente tentativo di usare delle qualifiche per soffocare il necessario dialogo richiesto da una democrazia “reale”. Gli americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi anche che l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro. Moltissime persone ne sono convinte, nonostante si tratti di un’evidente assurdità. È una rivendicazione categorica di uguaglianza che è sempre illogica, talvolta divertente e spesso pericolosa. Questo libro, dunque, parla di competenza. O, per essere più precisi, del rapporto tra esperti e cittadini in una democrazia, del perché questa relazione sta andando in frantumi e di ciò che tutti noi, cittadini ed esperti, potremmo fare a riguardo.
La reazione più immediata di molte persone quando si affronta il tema della fine della competenza è di dare la colpa a internet. Quando si trovano di fronte clienti che pensano di saperla più lunga di loro, i professionisti, in particolare, tendono a indicare nella Rete la colpevole. Come vedremo, non è una tesi del tutto sbagliata, ma resta pur sempre una spiegazione semplicistica. Gli attacchi al sapere consolidato hanno un lungo pedigree e internet è solo lo strumento più recente nell’ambito di un problema ciclico, che in passato ha afflitto allo stesso modo la televisione, la radio, la stampa e altre innovazioni.
Allora perché tutto questo clamore? Che cosa è cambiato in modo tanto evidente da indurre me a scrivere questo libro e voi a volerlo leggere? Siamo davvero alla “fine della competenza” o si tratta solo delle solite lamentele degli intellettuali per il fatto che nessuno li ascolta, nonostante si siano autoproclamati le persone più intelligenti sulla piazza? Forse non è nient’altro che una forma d’ansia che i professionisti nutrono nei confronti delle masse dopo ogni ciclo di trasformzione sociale o tecnologica. O forse è solo un’espressione caratteristica della lesa vanità di professori sovraistruiti ed elitaristi come me.
Forse, infatti, la fine della competenza è un segno di progresso. I professionisti istruiti, dopotutto, non stringono più il sapere in una morsa. I segreti della vita non sono più nascosti in giganteschi mausolei di marmo, le grandi biblioteche del mondo le cui sale incutono timore anche al numero relativamente piccolo di persone che vi entrano. A parità di condizioni, in passato c’è stato minore attrito tra esperti e profani, ma solo perché, semplicemente, i cittadini non erano in grado di sfidare gli esperti in modo sostanziale. Inoltre, nell’èra precedente alle comunicazioni di massa erano pochi i luoghi pubblici in cui lanciare simili sfide.
Fino all’inizio del Ventesimo secolo la partecipazione alla vita politica, intellettuale e scientifica era molto più circoscritta e i dibattiti sulla scienza, la filosofia e la politica pubblica erano tutti condotti con penna e inchiostro da una piccola cerchia di maschi istruiti. Non erano esattamente giorni idilliaci e non sono poi così distanti nel tempo. L’epoca in cui la maggior parte delle persone non portava a termine la scuola superiore, pochi andavano all’università e solo una piccola frazione della popolazione aveva accesso alle professioni è ancora presente nella memoria di molti americani.
Solo negli ultimi cinquant’anni i cambiamenti sociali hanno infranto le vecchie barriere di razza, classe e sesso, e non solo tra gli americani in generale, ma anche, in particolare, tra i cittadini non istruiti e l’élite degli esperti. Uno spazio di dibattito più ampio ha significato più conoscenza, ma anche più attriti sociali. L’educazione universale, il maggiore potere delle donne e delle minoranze, lo sviluppo di una classe media e l’aumento della mobilità sociale sono tutti fattori che hanno messo in contatto diretto una minoranza di esperti e la maggioranza dei cittadini, dopo quasi due secoli in cui raramente le due categorie hanno dovuto interagire tra loro.
Eppure il risultato non è stato un maggiore rispetto per il sapere, ma il diffondersi tra gli americani di una convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro. Questo è l’opposto dell’istruzione, il cui obiettivo dovrebbe essere che le persone, non importa quanto siano intelligenti o abili, apprendano per tutta la vita. Invece ormai viviamo in una società dove l’acquisizione di un sapere anche minimo è il punto di arrivo dell’istruzione, anziché l’inizio. E questa è una cosa pericolosa.
cosa ci aspetta
Nei capitoli seguenti, individuerò numerose fonti di questo problema: alcune sono radicate nella natura umana, altre sono esclusivamente americane e altre ancora sono il prodotto inevitabile della modernità e dell’opulenza.
Nel prossimo capitolo indagherò la nozione di “esperto”, domandandomi se il conflitto tra esperti e profani sia del tutto nuovo oppure no. Che cosa significa, infatti, essere un esperto? Quando ci troviamo di fronte a una decisione difficile su un argomento che non rientra nella nostra formazione o nella nostra esperienza, a chi dovremmo chiedere consiglio? (Se pensate di non aver bisogno di alcun consiglio, al di fuori del vostro, probabilmente siete tra quelli che mi hanno ispirato la stesura di questo libro.)
Nel capitolo 2 indagherò i motivi per cui in America la conversazione è diventata così estenuante non solo tra esperti e cittadini comuni, ma tra tutti. Se siamo onesti, dovremmo ammettere che tutti noi sappiamo essere irritanti e perfino far infuriare gli altri, quando parliamo di cose che riteniamo importanti, soprattutto di convinzioni e idee che ci stanno molto a cuore. Molti degli ostacoli a un rapporto proficuo tra gli esperti e i loro clienti nella società poggiano su elementari debolezze umane e inizieremo questo capitolo prendendo in considerazione quali sono le barriere naturali a una comprensione migliore, prima di esaminare più da vicino i problemi legati alla nostra epoca.
Tutti siamo affetti da problemi come, per esempio, “il bias di conferma”, la tendenza naturale ad accettare soltanto prove che confermano ciò che già crediamo. Tutti abbiamo esperienze, pregiudizi, paure e perfino fobie personali che ci impediscono di accettare i pareri degli esperti. Se pensiamo che un certo numero sia fortunato, nessun matematico può convincerci del contrario; se crediamo che volare sia pericoloso, neanche la rassicurazione da parte di un astronauta o di un pilota di caccia militari potrà diminuire le nostre paure. E alcuni di noi, per quanto sia indelicato dirlo, non sono abbastanza intelligenti da capire quando stanno sbagliando, a dispetto delle migliori intenzioni. Così come non siamo tutti altrettanto intonati quando cantiamo o capaci di disegnare una linea retta, molti semplicemente non sono in grado di riconoscere le lacune nella propria conoscenza o di accorgersi della propria incapacità di costruire un’argomentazione logica.
L’istruzione dovrebbe aiutarci a riconoscere problemi come il bias di conferma e a superare le lacune nella nostra conoscenza così da poter essere cittadini migliori. Purtroppo, la moderna università americana e il modo in cui gli studenti e i loro genitori la trattano, alla stregua di una generica merce, sono ormai parte integrante del problema. Nel capitolo 3 discuterò del perché l’ampia offerta di educazione universitaria – paradossalmente – induce molte persone a pensare di essere diventate più intelligenti, quando in realtà hanno solo acquisito un’intelligenza illusoria sostenuta da una laurea di valore discutibile. Quando gli studenti diventano clienti preziosi anziché allievi, la loro autostima aumenta ma imparano ben poco; peggio, non sviluppano un pensiero critico che consentirebbe loro di continuare ad apprendere e valutare le tematiche più complesse su cui dovranno deliberare e votare in quanto cittadini.
La moderna èra della tecnologia e delle comunicazioni rende possibili giganteschi balzi in avanti per il sapere, ma agevola e amplifica anche gli errori umani. Se internet non giustifica completamente la fine della competenza, ne spiega molti aspetti, almeno nel Ventunesimo secolo. Nel capitolo 4 esaminerò come la più grande fonte di conoscenza nella storia umana da quando Gutenberg si macchiò le dita di inchiostro sia diventata tanto una piattaforma per attacchi al sapere consolidato, quanto uno strumento per difendersene. Internet è un magnifico deposito di conoscenze, eppure è anche fonte e facilitatore dell’epidemia di disinformazione. Non ci rende soltanto più ottusi, ma anche più meschini: da sole, al riparo delle proprie tastiere, le persone litigano anziché discutere e insultano anziché ascoltare.
In una società libera, i giornalisti sono, o dovrebbero essere, i maggiori arbitri nella grande mischia tra ignoranza e cultura. Ma cosa succede quando i cittadini chiedono di essere intrattenuti anziché informati? Analizzeremo queste inquietanti domande nel capitolo 5.
Ci affidiamo ai media per essere informati, per separare i fatti dalla finzione e per rendere questioni complicate comprensibili anche a coloro che non dispongono di tempo ed energia infiniti per tenersi aggiornati su ogni novità, in un mondo tanto frenetico. Nell’èra dell’informazione, tuttavia, i giornalisti professionisti si trovano ad affrontare nuove sfide. Non solo i tempi di trasmissione televisiva e le pagine a disposizione per le notizie sono ormai pressoché illimitati, in confronto anche soltanto a mezzo secolo fa, ma i consumatori si aspettano pure che tutto questo spazio venga riempito istantaneamente e aggiornato di continuo.
In questo ambiente mediatico ipercompetitivo, direttori e produttori non hanno più la pazienza – né il lusso economico – di lasciare che i giornalisti sviluppino le proprie competenze o approfondiscano la conoscenza di un argomento. E niente lascia pensare che i consumatori di notizie desiderino un tale livello di dettaglio. Gli esperti vengono spesso confinati in citazioni o “neretti”, sempre che vengano consultati. Chiunque lavori nell’industria dell’informazione sa bene che se i servizi non sono abbastanza graziosi, patinati o divertenti, il pubblico volubile potrà trovare alternative meno pesanti cliccando sul mouse o schiacciando un pulsante del telecomando.
Gli esperti non sono infallibili. Hanno commesso errori terribili, con conseguenze spaventose. Difendere il ruolo della competenza nell’America moderna significa evocare un elenco di disastri e di errori: la vendita del talidomide, la guerra del Vietnam, il disastro dello Shuttle Challenger, gli avvertimenti catastrofici sui rischi alimentari connessi al consumo delle uova (non vi preoccupate, riprendete pure a mangiarne se vi piacciono; non fanno più parte dell’elenco dei cibi dannosi per la salute). Gli esperti, comprensibilmente, ribattono che è come ricordare un unico incidente aereo e ignorare i miliardi di chilometri percorsi in tutta sicurezza. Può essere vero, ma a volte gli aerei precipitano, e a volte succede perché un esperto ha combinato qualche casino.
Nel capitolo 6 prenderò in considerazione ciò che accade quando gli esperti si sbagliano. Ciò può avvenire perché si vogliono perpetrare vere e proprie frodi o perché, pur in buona fede, si ripone un’eccessiva e arrogante fiducia nelle proprie capacità. E a volte, più semplicemente, perché anche gli esperti, al pari degli altri esseri umani, possono commettere errori. È importante però che i profani capiscano come e perché gli esperti sbagliano, non solo per diventare consumatori più consapevoli dei loro pareri, ma anche per essere rassicurati sul modo in cui gli esperti cercano di vigilare sul proprio lavoro. Altrimenti i loro errori diventano materiale di dibattiti disinformati, che indignano gli specialisti per gli attacchi alla loro professione e incutono nei profani il terrore che gli esperti non abbiano idea di cosa stanno facendo.
Infine, nella conclusione, solleverò l’aspetto più pericoloso della fine della competenza: il modo in cui essa danneggia la democrazia americana. Gli Stati Uniti sono una repubblica in cui le persone nominano altre persone affinché prendano decisioni per proprio conto. Questi rappresentanti eletti non possono padroneggiare tutti i problemi e si affidano all’aiuto di esperti e professionisti. Malgrado ciò che pensa la maggior parte delle persone, esperti e responsabili delle politiche non coincidono, e confondere i due ruoli, come spesso fanno gli americani, mina il rapporto di fiducia tra esperti, cittadini e leader politici.
Gli esperti danno pareri; i leader eletti prendono decisioni. Per poter giudicare le prestazioni degli esperti e i voti e le decisioni dei loro rappresentanti, i profani devono acquisire familiarità con le problematiche in esame. Ciò non significa che tutti gli americani devono dedicarsi a uno studio approfondito della politica, ma se i cittadini non si preoccupano di acquisire un’alfabetizzazione di base sulle tematiche che influiscono sulla loro vita, rinunciano a esercitare il loro controllo su di esse, che siano d’accordo o meno. E quando gli elettori perdono il controllo di queste importanti decisioni, rischiano il dirottamento della loro democrazia da parte di ignoranti demagoghi o una più lenta e graduale decadenza delle istituzioni democratiche, fino a scivolare in una tecnocrazia autoritaria.
In una democrazia, anche gli esperti hanno un’importante responsabilità, a cui negli ultimi decenni si sono sottratti. Mentre in passato gli intellettuali impegnati (spesso in coppia con i giornalisti) si battevano per rendere comprensibili ai profani le problematiche più importanti, ormai sempre di più le élite istruite parlano soltanto tra loro. I cittadini, senza dubbio, rafforzano questa reticenza, litigando più che discutendo – una differenza importante –, ma ciò non solleva gli esperti dal loro dovere di servire la società e di pensare ai propri concittadini come a clienti, piuttosto che come a scocciatori.
Gli esperti hanno la responsabilità di educare, gli elettori hanno la responsabilità di imparare. Alla fine, indipendentemente da quanti consigli possano fornire i professionisti, solo la sfera pubblica può decidere la direzione delle decisioni politiche importanti che una nazione deve prendere. Solo gli elettori possono risolvere le questioni che riguardano le loro famiglie e il loro Paese, e solo loro devono assumersi la responsabilità ultima di queste decisioni.
Ma gli esperti hanno l’obbligo di contribuire. Perciò ho scritto questo libro.
1. P. Chigwedere et al., “Estimating the Lost Benefits of Antiretroviral Drug Use in South Africa”, Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes, n. 49, a. 4, primo dicembre 2008.
2. K. Dropp, J.K. Kertzer e T. Zeitzoff, “The Less Americans Know about Ukraine’s Location, the More they Want U.S. to Intervene”, blog Monkey Cage, The Washington Post online, 7 aprile 2014.
capitolo 1
Esperti e cittadini
WASHINGTON, DC – Lunedì scorso, dopo anni di frustrazione
perché i loro pareri venivano fraintesi,
rappresentati in modo erroneo o semplicemente ignorati,
i più importanti esperti americani di tutti i settori
hanno collettivamente rassegnato le dimissioni.
The Onion
una nazione di “spiegatori”
Tutti noi li abbiamo incontrati. Sono nostri colleghi, nostri amici, membri della nostra famiglia. Sono giovani e vecchi, ricchi e poveri, alcuni con un’istruzione, altri armati solo di un computer portatile o della tessera di una biblioteca. Ma tutti hanno una cosa in comune: sono persone mediocri che credono di essere dei pozzi di scienza. Convinti di essere più informati degli esperti, di avere conoscenze più ampie dei professori e maggiore acume rispetto alle masse credulone, sono gli “spiegatori”, sempre felicissimi di illuminare noi e gli altri su qualsiasi argomento, dalla storia dell’imperialismo ai pericoli dei vaccini.
Accettiamo le persone di questo tipo e ci rassegniamo alla loro presenza, se non altro perché sappiamo che in fondo sono animate da buone intenzioni. Proviamo anche un certo affetto nei loro confronti. Una sitcom televisiva degli anni Ottanta, Cin cin, per esempio, ha immortalato il personaggio del tuttologo Cliff Clavin, postino di Boston e assiduo frequentatore di bar. Cliff, come le sue controparti della vita reale, iniziava ogni frase dicendo “alcuni studi hanno dimostrato che…” oppure “è risaputo che…”. Gli spettatori amavano Cliff perché tutti conoscevano qualcuno come lui: lo zio stravagante in una cena durante le feste, il giovane studente tornato a casa dopo il primo cruciale anno di college.
Potevamo trovare addirittura tenere queste persone, perché erano bizzarre eccezioni in un Paese che rispettava i pareri degli esperti e si affidava a essi. Ma negli ultimi decenni qualcosa è cambiato. Lo spazio pubblico è sempre più dominato da un variegato assortimento di individui poco informati, molti dei quali sono autodidatti sprezzanti dell’educazione formale che tendono a minimizzare il valore dell’esperienza. “Se per essere presidente è necessario avere esperienza,” ha dichiarato il disegnatore e scrittore Scott Adams durante le elezioni del 2016 “ditemi un argomento politico che non riuscirei a padroneggiare in un’ora sotto la tutela dei migliori esperti”, come se una discussione con un esperto equivalesse a copiare informazioni dal disco di un computer a un altro. Si va affermando una specie di legge di Gresham intellettuale: laddove in passato la regola era “la moneta cattiva scaccia quella buona”, ora viviamo in un’epoca in cui la disinformazione scaccia il sapere.
E questo non è affatto un buon segno. Una società moderna non può funzionare senza una divisione sociale del lavoro e senza fare affidamento su esperti, professionisti e intellettuali (per il momento utilizzerò queste tre parole in modo intercambiabile). Nessuno è esperto di tutto. A prescindere da quali siano le nostre aspirazioni, siamo vincolati dalla realtà del tempo e dai limiti innegabili del nostro talento. Prosperiamo perché ci specializziamo e perché sviluppiamo meccanismi formali e informali che ci permettono di fidarci reciprocamente per le rispettive specializzazioni.
All’inizio degli anni Settanta, lo scrittore di fantascienza Robert Heinlein coniò la massima, da allora molto citata, secondo cui “la specializzazione va bene per gli insetti”. Gli esseri umani veramente capaci, scriveva, dovrebbero saper fare quasi tutto, da cambiare un pannolino a comandare una nave da guerra. È un nobile sentimento che celebra l’adattabilità e la resilienza umana, ma è sbagliato. Anche se c’è stato un tempo in cui ogni colono abbatteva gli alberi necessari a costruirsi da solo la propria casa, questa pratica non soltanto era inefficiente, ma produceva alloggi rudimentali.
C’è un motivo se non facciamo più le cose a quel modo. Quando costruiamo grattacieli, non ci aspettiamo che il metallurgista in grado di realizzare una trave, l’architetto che progetta l’edificio e il vetraio che installa le finestre siano la stessa persona. È per questo che possiamo goderci la vista della città dal centesimo piano: ogni esperto, pur possedendo conoscenze che in parte si sovrappongono, rispetta le capacità professionali di molti altri specialisti e si concentra su ciò che sa fare meglio. La fiducia e la collaborazione tra gli esperti portano a un risultato finale superiore a quello di qualsiasi prodotto che avrebbero potuto realizzare da soli.
La verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. A volte ci opponiamo a questa conclusione perché sconvolge il nostro senso di indipendenza e di autonomia. Vogliamo credere di essere in grado di prendere tutte le decisioni e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che stiamo sbagliando o ci dà spiegazioni su argomenti che non capiamo. Questa naturale reazione umana in un individuo è pericolosa quando diventa una caratteristica condivisa da intere società.
è una cosa nuova?
Ma davvero oggi il sapere è più a rischio, e la conversazione e il dibattito sono più difficili rispetto a cinquanta o cento anni fa? Gli intellettuali si lamentano continuamente dell’ottusità dei propri concittadini e i profani hanno sempre diffidato delle teste d’uovo e degli esperti. In che misura si tratta di un problema nuovo e quanto seriamente dovremmo prenderlo?
In parte questo conflitto sulla pubblica piazza è solo un più che prevedibile rumore, amplificato da internet e dai social media. Internet raccoglie notizie non verificate e idee improbabili, e poi spalma queste cattive informazioni e questi ragionamenti basati su scarsa capacità di giudizio su tutto il mondo elettronico (immaginate cosa si sarebbe ascoltato per strada negli anni Venti se tutti gli svitati di ogni città avessero avuto a disposizione una propria stazione radio). Forse il punto non è che le persone sono più ottuse o meno disposte ad ascoltare gli esperti rispetto a cento anni fa: è solo che ora abbiamo la possibilità di sentirle tutte.
Inoltre, un certo grado di conflitto tra chi conosce alcuni argomenti e chi ne conosce altri è inevitabile. Probabilmente già i primi cacciatori e raccoglitori litigavano su cosa preparare per cena. Quando varie conquiste dell’umanità sono diventate campo di studio di professionisti, era naturale che i disaccordi aumentassero e si acuissero. E mano a mano che la distanza tra gli esperti e il resto della cittadinanza aumentava, sono cresciuti anche i divari sociali e la diffidenza reciproca. Tutte le società, a prescindere dal loro livello di avanzamento, hanno un sottofondo di risentimento contro le élite istruite e un persistente attaccamento culturale nei confronti della saggezza popolare, delle leggende metropolitane e di altre reazioni umane, irrazionali ma normali, di fronte alla complessità e alla confusione della vita moderna.
Le democrazie, con i loro rumorosi spazi pubblici, sono sempre state particolarmente propense a sfidare i saperi consolidati. In realtà, sono inclini a mettere in discussione qualsiasi cosa sia consolidata: è una delle caratteristiche che le rende “democratiche”. È noto che le democrazie subivano il fascino del cambiamento e del progresso anche nel mondo antico. Tucidide, per esempio, descrisse gli ateniesi democratici del quinto secolo a.C. come un popolo inquieto e “innovatore”, e secoli più tardi San Paolo riteneva che gli ateniesi “non avevano passatempo più gradito che parlare o ascoltare le ultime novità”. In una cultura democratica questa incessante messa in discussione dell’ortodossia è celebrata e protetta.
Gli Stati Uniti, la cui visione è fortemente incentrata sulle libertà individuali, venerano questa resistenza all’autorità intellettuale anche più di altre democrazie. Naturalmente, nessuna analisi di “come pensano gli americani” può considerarsi completa senza un cenno obbligatorio a Alexis de Tocqueville, il filosofo francese che nel 1835 osservò che i cittadini dei nuovi Stati Uniti non erano esattamente innamorati degli esperti o della loro scienza: “[N]ella maggior parte delle operazioni dello spirito” scriveva “ciascun americano fa appello solo allo sforzo individuale della propria ragione”. Questa diffidenza nei confronti dell’autorità intellettuale era radicata, teorizzò Tocqueville, nella natura stessa della democrazia americana. Quando “i cittadini, divenuti quasi eguali, si guardano tutti da vicino,” scriveva “sono costantemente riportati verso la propria ragione come alla fonte più visibile e più prossima della verità. Allora non soltanto è distrutta la fiducia in un uomo, ma il gusto di credere a un uomo sulla parola”.3
Tali osservazioni non si limitano alla giovane America. Insegnanti, esperti e “conoscitori” professionali si lamentano della mancanza di rispetto da parte delle società in cui vivono fin da quando Socrate fu costretto a bere la sua cicuta. In un’epoca più moderna, il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset decretava nel 1930 la “ribellione delle masse” e l’infondata arroganza intellettuale che la caratterizzava:
Così, nella vita intellettuale, che per la sua stessa essenza richiede e presuppone la qualità, si avverte il progressivo trionfo degli pseudo-intellettuali senza qualifica, inqualificabili o squalificati per la loro stessa struttura. […]
Forse sono in errore; però lo scrittore, nel prendere la penna per scrivere intorno a un tema che ha studiato a lungo, deve pensare che il lettore medio, il quale non si è occupato mai dell’argomento, se lo legge, non lo fa col proposito d’apprendere qualcosa da lui, ma al contrario, per sentenziare su di lui quando il pensiero non coincide con le volgarità che questo lettore ospita nella mente.4
In termini che non sembrerebbero fuori luogo nella nostra epoca, Ortega y Gasset attribuiva l’ascesa di un pubblico sempre più potente ma sempre più ignorante a molti fattori, tra cui la ricchezza materiale, la prosperità e le scoperte scientifiche.
L’attaccamento americano all’autonomia intellettuale descritto da Tocqueville è sopravvissuto per quasi un secolo prima di cadere, colpito da una serie di assalti interni ed esterni. La tecnologia, l’istruzione secondaria universale, la proliferazione di competenze specialistiche e l’ascesa degli Stati Uniti come potenza globale alla metà del Ventesimo secolo sono tutti fattori che hanno indebolito l’idea – o, più precisamente, il mito – che l’americano medio fosse adeguatamente attrezzato per affrontare le sfide della vita quotidiana o per gestire l’andamento di un grande Paese.
Più di mezzo secolo fa, il politologo Richard Hofstadter scrisse che “la complessità della vita moderna ha ridotto continuamente le funzioni che il cittadino comune, con l’intuito e con l’intelligenza, può assolvere da sé”.
Nell’originario sogno populistico americano, l’“onnicompetenza” dell’uomo comune era fondamentale e assolutamente necessaria. Si pensava che senza bisogno di una grande preparazione egli potesse esercitare qualsiasi professione e dirigere il governo. Oggi l’uomo comune sa che non potrebbe fare neppure colazione se non ci fossero le valute, più o meno misteriose per lui, che gli esperti hanno messo a sua disposizione; e quando si siede per fare colazione e dà un’occhiata al giornale del mattino, si trova sotto gli occhi tutta una sfilza di questioni vitali e intricate, e se è sincero con sé stesso, riconosce di non avere nella maggioranza dei casi la competenza per giudicare.5
Hofstadter sosteneva – e stiamo parlando del 1963 – che questa straordinaria complessità produceva sentimenti di impotenza e di rabbia in una cittadinanza che, sempre di più, sapeva di essere alla mercé delle élite più intelligenti: “[…] quella che prima era una scherzosa e in genere benevola presa in giro dell’intelletto e dell’istruzione formale, si è trasformata in malevola avversione per l’intellettuale in quanto esperto”, ammoniva Hofstadter. “Una volta si derideva bonariamente l’intellettuale perché non se ne aveva bisogno; oggi lo si avversa fieramente perché se ne ha troppo bisogno.”
Cinquant’anni dopo, il professore di legge Ilya Somin ha descritto con chiarezza quanto poco fosse cambiata la situazione. Come Hofstadter prima di lui, Somin ha scritto nel 2015 che “le dimensioni e la complessità del governo” hanno reso “più difficile per gli elettori con conoscenze limitate tenere sotto controllo e valutare le molteplici attività del governo. Il risultato è un sistema politico in cui spesso i cittadini non possono esercitare la loro sovranità in modo responsabile ed efficace”. Un elemento più inquietante è che gli americani, nei decenni intercorsi, abbiano fatto ben poco per colmare il divario tra la propria conoscenza e il livello di informazione necessario per partecipare a una democrazia avanzata. “Il basso livello di conoscenza politica nell’elettorato americano” osserva giustamente Somin “è ancora una delle scoperte più consolidate nelle scienze sociali”.6
quindi non è una novità. ma è davvero un problema?
Gli specialisti di ambiti particolari sono inclini a pensare che tutti gli altri dovrebbero nutrire lo stesso interesse per il loro settore. Ma chi ha davvero bisogno di sapere tutte queste cose? La maggior parte degli esperti di affari internazionali avrebbe difficoltà a superare un test basato su mappe di territori al di fuori della propria area di specializzazione, quindi che male c’è se l’uomo medio non ha idea della posizione esatta del Kazakistan? Dopotutto, quando nel 1994 iniziò il genocidio ruandese, dovettero mostrare al futuro segretario di Stato Warren Christopher la posizione del Ruanda. Quindi, perché noialtri dovremmo avere questo tipo di nozioni?
Nessuno può padroneggiare tutte queste informazioni. Facciamo del nostro meglio e quando abbiamo bisogno di sapere qualcosa consultiamo le migliori fonti che riusciamo a scovare. Ricordo di aver chiesto al mio insegnante di chimica della scuola superiore (un uomo che ero certo sapesse tutto) il numero atomico di un certo elemento, in parte per sfidarlo ma soprattutto perché ero troppo pigro per cercarlo da solo. Sollevò un sopracciglio e disse che non lo conosceva. Poi indicò la tavola periodica degli elementi appesa al muro dietro di sé e disse: “Questo è il motivo per cui gli scienziati utilizzano le tabelle, Tom”.
Senza dubbio, alcune delle lamentele degli esperti riguardo ai profani sono ingiuste. Neanche il genitore più attento, il cliente più informato o l’elettore dotato di maggior senso civico può tenere il passo con il fiume di informazioni che ci inonda su qualsiasi argomento, dalla nutrizione infantile alla sicurezza dei prodotti alla politica commerciale. Se i cittadini comuni potessero assorbire tutte queste informazioni, non avrebbero certo bisogno di esperti.
La fine della competenza, tuttavia, è un problema diverso rispetto al dato storico dei bassi livelli di informazione tra i profani. La questione non è l’indifferenza di fronte ai saperi consolidati; è l’emergere di un’ostilità assoluta nei confronti di tali saperi. Questo è un fenomeno nuovo nella cultura americana: si tratta di un processo di aggressiva sostituzione delle opinioni degli esperti o dei saperi consolidati con la convinzione che, qualsiasi sia la materia, tutte le opinioni siano altrettanto valide. È un cambiamento notevole nel nostro dibattito pubblico.
Questo cambiamento non solo è del tutto nuovo, ma è anche pericoloso. La diffidenza nei confronti degli esperti e gli atteggiamenti più anti-intellettuali che la accompagnano sono problemi che dovrebbero essere in via di miglioramento e che invece stanno peggiorando. Quando il professor Somin e altri osservano che l’ignoranza della popolazione non è peggiore rispetto a un secolo fa, questo in sé dovrebbe essere causa di allarme, se non di panico. Mantenere la posizione non è un risultato sufficiente. Infatti la posizione potrebbe non reggere affatto: la fine della competenza in realtà minaccia di ribaltare il sapere acquisito nel corso di anni per opera di quelle persone che credono di saperne di più di quanto sia effettivamente vero. È una minaccia per il benessere materiale e civico dei cittadini di una democrazia.
Sarebbe facile liquidare la diffidenza nei confronti del sapere costituito attribuendola allo stereotipo del cafone sospettoso e ignorante che rifiuta i modi misteriosi dei cervelloni metropolitani. Ma ancora una volta la realtà è molto più inquietante: le campagne contro il sapere costituito sono guidate da persone da cui sarebbe lecito aspettarsi di meglio.
Nel caso dei vaccini, per esempio, la scarsa partecipazione ai programmi di vaccinazione infantile in realtà non è un problema che riguarda le madri di provincia poco scolarizzate. Quelle madri devono accettare di vaccinare i loro figli, perché è un requisito obbligatorio delle scuole pubbliche. I genitori più propensi a opporre resistenza ai vaccini, si è scoperto, si trovano tra gli istruiti residenti delle ricche aree periferiche di San Francisco, nella contea di Marin. Pur non essendo medici, queste madri e questi padri sono abbastanza istruiti da credere di possedere una formazione di base sufficiente a sfidare la scienza medica consolidata. Quindi, per un paradosso controintuitivo, i genitori istruiti stanno effettivamente prendendo decisioni peggiori rispetto a quelli di gran lunga meno istruiti, e stanno mettendo a rischio i figli di tutti.
L’ignoranza, anzi, fa tendenza e alcuni americani ora sfoggiano il loro rifiuto dei pareri degli esperti come un segno distintivo di sofisticazione culturale. Prendiamo in esame, per esempio, il movimento del latte crudo, una moda tra i gourmand che rivendicano il diritto di ingerire latticini non trattati. Nel 2012 il New Yorker aveva segnalato questa tendenza, osservando che “il latte crudo risveglia l’edonismo degli amanti del cibo in modo speciale”:
Poiché non viene riscaldato né omogeneizzato e spesso proviene da animali allevati al pascolo, tende a essere più ricco e dolce e, talvolta, mantiene un sentore della fattoria: il sapore un po’ fastidioso noto agli intenditori come “culo di mucca”. “La pastorizzazione elimina strati di complessità, strati di aromi” ha dichiarato Daniel Patterson, uno chef che usa il latte crudo per preparare crema e gelato senza uova al Coi, il suo ristorante di San Francisco premiato con due stelle Michelin.7
Lo chef Patterson è un esperto nella preparazione del cibo, e sul suo palato o quello di chiunque altro non si discute. Ma va detto che se da un lato la pastorizzazione può influire sul gusto del latte, di contro distrugge anche agenti patogeni potenzialmente letali per gli esseri umani.
Il movimento del latte crudo non è un’esperienza all’avanguardia pompata da un manipolo di chef esotici. I suoi sostenitori ritengono non solo che i prodotti lattiero-caseari non trattati abbiano un buon gusto, ma anche che siano più sani e migliori per gli esseri umani. Dopotutto, se le verdure crude ci fanno più bene, perché non consumare tutto crudo? Perché non mangiare come la natura ha voluto e tornare a un’epoca più pura e più semplice?
Forse era un’epoca più semplice, ma era anche un’epoca in cui la gente moriva abitualmente a causa di malattie di origine alimentare. Tuttavia, l’America è un Paese libero e se gastronomi adulti pienamente consapevoli vogliono correre il rischio di finire all’ospedale per godere del profumo delle regioni inferiori della mucca nel loro caffè, è una loro scelta. Non sta a me giudicare questa tendenza troppo duramente: tra i miei piatti preferiti ci sono molluschi crudi e steak tartare, che compaiono sui menù accompagnati da avvertenze che mi fanno sempre sentire come se stessi ordinando merce di contrabbando. Tuttavia, sebbene carne e molluschi crudi comportino dei rischi, non sono alimenti della dieta di base e soprattutto non di quella dei bambini, per i quali il latte non pastorizzato è certamente pericoloso.
Subito i medici dei Centri per il Controllo delle Malattie (Centers for Disease Control – CDC) hanno cercato di intervenire, senza alcun risultato. Nel 2012 i CDC hanno pubblicato un rapporto in cui si evidenziava che i latticini non pastorizzati presentano una probabilità di causare malattie alimentari 150 volte maggiore rispetto ai prodotti pastorizzati. Un esperto della Agenzia per gli Alimenti e i Medicinali (Food and Drug Administration – FDA), senza mezzi termini, ha definito il consumo di latte crudo l’equivalente alimentare della roulette russa. Nulla di tutto questo ha avuto effetto sulla popolazione, che non solo continua a ingerire prodotti non trattati ma insiste anche nel somministrarli a consumatori che non hanno né la scelta né la capacità di comprendere il dibattito: i propri figli.
Perché ascoltare cosa dicono i medici riguardo al latte crudo? Dopotutto, hanno sbagliato altre volte. Per restare al cibo, per esempio, gli americani si sono sentiti dire per decenni che dovevano limitare il consumo di uova e di alcuni tipi di grassi. Gli esperti del governo hanno detto ai cittadini di limitare l’assunzione di carni rosse, aumentare l’apporto dei cereali nella loro dieta e, in generale, di tenersi alla larga da qualsiasi cosa abbia un buon sapore (questa, lo ammetto, è la mia personale interpretazione di quelle raccomandazioni). Anni dopo, si è scoperto che le uova non solo sono innocue, ma forse fanno anche bene. La margarina si è rivelata peggiore del burro. E bere qualche bicchiere di vino al giorno potrebbe essere più salutare che astenersi totalmente dal consumo di alcolici.
Per cui, sì, i medici si erano sbagliati. È ora di divorare i cheeseburger al bacon e versarci un altro martini?
Non esattamente. Il dibattito sulle uova non è finito, ma concentrarsi su un unico aspetto della dieta degli americani significa non cogliere il senso del discorso. È possibile che i medici si siano sbagliati sull’effetto specifico delle uova, ma non sbagliano nel dire che una dieta basata sul consumo costante di prodotti di fast food, ingurgitati insieme a una bevanda zuccherata o a una confezione da sei birre, non ci fa bene. Alcuni hanno approfittato delle notizie sulle uova (come pure di una storia falsa circolata in precedenza secondo cui la cioccolata sarebbe uno spuntino sano) per dare una giustificazione razionale alla loro decisione di non dare mai ascolto ai medici, i quali quando si tratta di allungare la vita alle persone attraverso una dieta più sana hanno un’esperienza e un curriculum chiaramente migliori dell’americano medio in sovrappeso.
Alla base di tutto questo c’è l’incapacità da parte dei profani di capire che un errore commesso ogni tanto dagli esperti su questioni specifiche non implica affatto che gli esperti si sbaglino sistematicamente su tutto. Il punto è che gli esperti hanno ragione più spesso di quanto si sbaglino, soprattutto sulle questioni essenziali. Eppure l’opinione pubblica cerca costantemente scappatoie e falle nel sapere degli esperti per poter ignorare tutti i consigli specialistici sgraditi.
In parte, la ragione è che la natura umana, come vedremo, tende a cercare scappatoie dappertutto. Ma un fattore altrettanto importante, se non di più, è che quando gli esperti e i professionisti sbagliano le conseguenze possono essere catastrofiche. Se si solleva, per esempio, la questione del parere medico, certamente qualcuno tirerà fuori la parola “talidomide” a mo’ di replica che non necessita spiegazioni. Sono passati decenni dall’introduzione del talidomide, un farmaco che in passato era ritenuto sicuro e veniva prescritto alle donne incinte come sedativo. Nessuno si rese conto all’epoca che il talidomide provocava anche orrende malformazioni congenite, e immagini di bambini con arti mancanti o deformi hanno tormentato l’immaginazione pubblica per molti anni. Il nome del farmaco è diventato sinonimo di fallimento degli esperti, ancora oggi.
Nessuno sostiene, infatti, che gli esperti non possano sbagliare (un argomento di cui parleremo più avanti). Il punto è che hanno meno probabilità di sbagliarsi rispetto ai non esperti. Le stesse persone che ripercorrono ansiosamente la storia del disastro del talidomide ingollano regolarmente decine di medicine, dall’aspirina agli antistaminici, che fanno parte delle migliaia e migliaia di farmaci la cui sicurezza è stata dimostrata grazie a decenni di prove e test condotti da esperti. Raramente gli scettici si fermano a pensare al fatto che per ogni terribile errore ci sono innumerevoli successi che allungano la loro vita.
A volte, dubitare dei professionisti può trasformarsi in un’ossessione, con risultati tragici. Nel 2015, Stephen Pasceri, un ragioniere del Massachusetts, ha perso sua madre all’età di settantotto anni per una malattia cardiovascolare. La signora Pasceri aveva una lunga storia di problemi di salute, tra cui un enfisema, ed è morta dopo un intervento per riparare una valvola cardiaca. Pasceri, però, era convinto che uno dei medici di sua madre, Michael Davidson, direttore del reparto di chirurgia cardiaca endovascolare in uno dei migliori ospedali di Boston e professore alla Harvard Medical School, avesse ignorato le avvertenze di un particolare farmaco somministrato alla paziente. La vicenda è diventata un caso letterale di fine della competenza: il contabile si è presentato in ospedale e ha sparato al medico uccidendolo. Poi si è tolto la vita, lasciando una chiavetta USB con la sua “ricerca” sul farmaco.
Ovviamente, Stephen Pasceri era un uomo disturbato, sconvolto dalla morte della madre. Ma basta una conversazione di pochi minuti con un professionista di qualsiasi campo per ascoltare storie simili, seppur meno drammatiche. I medici si scontrano abitualmente con i pazienti riguardo ai farmaci; gli avvocati descrivono clienti che perdono soldi e, talvolta, la libertà a causa di pareri non attendibili; gli insegnanti raccontano storie di genitori che insistono nel sostenere che i figli hanno risposto correttamente alle domande d’esame anche quando si può dimostrare il contrario; gli agenti immobiliari raccontano di clienti che hanno acquistato case malgrado il loro parere professionale negativo e si sono ritrovati a dover spendere soldi su soldi.
Nessun’area della vita americana è al riparo dalla fine della competenza. La capacità sempre più ridotta della popolazione americana di capire la scienza e la matematica è alla base di diverse emergenze pubbliche in ambito sanitario, dall’obesità alle malattie infantili. Nel frattempo, nei mondi della politica e dell’amministrazione pubblica – dove almeno una minima familiarità con la storia, l’educazione civica e la geografia è fondamentale per un dibattito informato –, gli attacchi al sapere costituito hanno raggiunto proporzioni spaventose.
l’ascesa dell’elettore a basso tasso di informazione
Il dibattito politico e la creazione di politiche pubbliche non sono una scienza. Sono radicati nel conflitto, talvolta gestito secondo regole rispettose ma più spesso simile a una partita di hockey senza arbitri e a un invito permanente all’invasione di campo per gli spettatori. Nell’America moderna, i dibattiti politici assomigliano sempre di più a lotte tra gruppi di persone mal informate che riescono a essere tutte in torto allo stesso tempo. I leader politici più intelligenti del pubblico (e sembra che ce ne siano sempre meno, ultimamente) si intromettono in queste zuffe e contraddicono i loro elettori a proprio rischio e pericolo.
Ci sono molti esempi di risse di questo tipo tra quelli che opinionisti e analisti adesso definiscono garbatamente come “elettori a basso tasso di informazione”. Che si tratti di scienza o di politica, tutti condividono la stessa inquietante caratteristica: insistono in modo solipsistico e suscettibile nel sostenere che ogni parere debba essere trattato come una verità. Gli americani non distinguono più la frase “hai torto” dalla frase “sei stupido”. Non essere d’accordo significa mancare di rispetto. Correggere qualcuno significa insultarlo. E rifiutarsi di attribuire a tutte le opinioni, non importa quanto fantasiose o insensate siano, la dignità di essere prese in considerazione vuol dire essere di vedute ristrette.
L’epidemia di ignoranza nei dibattiti politici pubblici ha conseguenze reali sulla qualità della vita e sul benessere di ciascun americano. Nel 2009, per esempio, durante il dibattito sulla legge per l’accessibilità delle cure (Affordable Care Act – ACA),8 almeno la metà della popolazione americana ha creduto alle dichiarazioni degli oppositori, come l’ex candidata repubblicana alla vicepresidenza Sarah Palin, secondo cui la legge prevedeva dei “comitati della morte” che avrebbero deciso a chi accordare assistenza sanitaria in base a una decisione burocratica su quali pazienti meritassero di vivere (quattro anni dopo, quasi un terzo dei chirurghi continuava a credere che fosse davvero così).9 Quasi la metà degli americani ha anche pensato che l’ACA avesse istituito un piano sanitario nazionale uniforme. Che piaccia o meno, l’ACA non fa nessuna di queste cose. E due anni dopo l’approvazione della legge, almeno il 40 per cento degli americani non era certo che fosse in vigore.
La legislazione è complessa e forse è irragionevole chiedere agli americani di cogliere i dettagli di un disegno di legge che perfino i loro rappresentanti eletti sembravano incapaci di capire. L’allora presidente della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, ritrovatasi nel 2011 sotto un fuoco di fila di domande del tutto sensate, chiaramente non sapeva che cosa prevedesse l’ACA e si lasciò sfuggire l’ammissione, poi ampiamente ripresa, che il Congresso avrebbe dovuto approvare la legge per scoprire cosa ci fosse dentro. Altre iniziative complicate hanno prodotto una confusione analoga.
Le tasse sono un altro buon esempio di come l’ignoranza pubblica influenzi i dibattiti nazionali. Tutti odiano le tasse, tutti se ne lamentano, e ogni primavera la spaventosa complessità della normativa fiscale statunitense produce un’incredibile ondata di preoccupazione tra onesti cittadini che, nella migliore delle ipotesi, finiscono per tirare a indovinare quali siano le risposte giuste quando cercano di pagare l’imposta dovuta.
La triste realtà, però, è che l’americano medio non ha idea di come venga speso il suo denaro. Sondaggi su sondaggi mostrano non solo che gli americani in generale ritengono che il governo spenda troppo e imponga tasse eccessive, ma anche che si sbagliano regolarmente su chi paga le tasse, quanto paga e dove va a finire il denaro. E tutto questo accade nonostante oggi le informazioni sul bilancio degli Stati Uniti siano più accessibili di quando il governo doveva inviare un documento grosso come un blocco di cemento ai pochi elettori che avessero voluto prenderlo in visione.
Oppure pensiamo agli aiuti all’estero. Si tratta di un argomento sensibile per alcuni americani, secondo i quali rappresentano uno spreco di denaro. Gli americani abitualmente ritengono, in media, che più del 25 per cento della spesa pubblica nazionale sia generosamente elargita come forma di aiuto a Paesi stranieri. In realtà, questa stima non è solo inesatta, ma macroscopicamente sbagliata: gli aiuti all’estero rappresentano una piccola parte del bilancio, meno di tre quarti dell’un per cento della spesa totale degli Stati Uniti d’America.
Solo il 5 per cento degli americani lo sa. Un americano su dieci, invece, è convinto che più di metà del bilancio statunitense, cioè diverse migliaia di miliardi di dollari, venga distribuito ogni anno ad altri Paesi.10 Molti pensano che, al di là del suo valore, questa cifra sia pagata con un assegno che vale moneta sonante. Anche questo è sbagliato. Gli aiuti all’estero, infatti, potrebbero addirittura rientrare nel piano per l’occupazione, dato che in gran parte sono elargiti sotto forma di beni, che si tratti di cibo o di aeromobili militari, prodotti da americani e acquistati dal governo americano per poi essere inviati ad altre nazioni.
Affermare che gli aiuti all’estero siano uno spreco di denaro è una posizione politica comprensibile. Io e altri esperti potremmo dire che un’obiezione così generalizzata è ingiusta, ma almeno è una posizione basata su un principio piuttosto che su un errore di fatto. Opporsi agli aiuti all’estero a causa dell’errata convinzione che costituiscano un quarto del bilancio statunitense, però, stronca immediatamente sul nascere qualsiasi possibilità di discussione ragionevole.
Questo livello di ignoranza può avere un prezzo molto salato. Gli americani tendono a sostenere le difese missilistiche nazionali contro attacchi nucleari, per esempio, in parte perché in molti ritengono che gli Stati Uniti le possiedano già (questo è un errore pubblico che risale a decenni fa, molto prima che gli Stati Uniti schierassero i pochi intercettori attualmente operativi in Alaska). Ora, che questi sistemi funzionino o che debbano essere costruiti sono perlopiù questioni irrilevanti. Quello che fu creato negli anni Ottanta, durante la Guerra Fredda, come programma pensato per l’Unione Sovietica, è ormai venerato nell’immaginario popolare e appoggiato sia dai repubblicani sia dai democratici a colpi di miliardi di dollari.
Nel complesso il problema non riguarda coloro che nutrono timori genuini sui possibili effetti collaterali dei vaccini o che potrebbero essere ambivalenti sull’opportunità di costruire difese contro un attacco nucleare. Uno scetticismo ragionato è essenziale non solo per la scienza ma anche per una sana democrazia. Invece, la fine della competenza è più simile a un attacco di malumore a livello nazionale, a un infantile rifiuto dell’autorità in tutte le sue forme unito all’insistenza sul fatto che le opinioni più decise siano indistinguibili dai fatti.
Gli esperti dovrebbero fare chiarezza su questa confusione o almeno rivestire il ruolo di guide per aiutarci a uscire dalla selva delle questioni più complesse. Ma chi sono i veri “esperti”? Prima di proseguire e discutere delle origini della campagna contro il sapere costituito e del perché siamo finiti in guai tanti gravi, in un momento in cui i cittadini dovrebbero essere più informati e impegnati che mai, dobbiamo pensare a come distinguiamo gli “esperti” o gli “intellettuali” dal resto della popolazione.
“Esperto” è un’etichetta abusata, ovviamente: ogni azienda si autoproclama “esperta nella cura del giardino” o “esperta nella pulizia dei tappeti” e, anche se tutto questo ha una sua logica, i chirurghi e gli smacchiatori di tappeti non sono esperti dello stesso tipo. “Intellettuale” e “accademico” sono, più che mai, termini derisori in America. Facciamo un po’ di chiarezza prima di procedere.
esperti e cittadini
Quindi, chi sono gli esperti? Che cosa costituisce un bagaglio di “competenze”?
Molte persone dichiarano di essere degli esperti o degli intellettuali, e a volte lo sono. D’altra parte, l’autoidentificazione può essere più che fuorviante. A volte coloro che si proclamano esperti hanno la stessa consapevolezza di sé di quelli che pensano di saper baciare bene.
I dizionari non sono di grande aiuto. Nella maggior parte dei casi, gli esperti vengono definiti in modo circolare, come persone che hanno una conoscenza “completa” e “autorevole”, individui, cioè, la cui padronanza di una materia garantisce che le informazioni che ci forniscono sono vere e degne di fiducia (come sappiamo che possiamo fidarci? Perché ce lo dicono gli esperti). Come ha detto una volta il giudice Potter Stewart parlando di pornografia, la competenza è una di quelle cose difficili da definire, ma di solito la riconosciamo quando la vediamo all’opera.
Nel mondo ci sono molti esperti. Alcuni sono facili da individuare: i medici, gli ingegneri e i piloti di compagnie aeree sono degli esperti, come pure lo sono i registi cinematografici e i pianisti che tengono concerti. Gli atleti e i loro allenatori sono degli esperti. Ma lo sono anche gli idraulici, gli agenti di polizia e i falegnami. Del resto, anche il portalettere locale è un esperto, almeno nel suo campo; se avete bisogno di interpretare un esame del sangue, dovreste chiedere a un medico o a un infermiere, ma se volete sapere con precisione in che modo una lettera del vostro amico in Brasile è arrivata alla porta di casa vostra in Michigan potete domandare a qualcuno che da anni si occupa di quell’incombenza.
La conoscenza specializzata è intrinseca in tutte le occupazioni e quindi qui utilizzerò in modo intercambiabile le parole “professionisti”, “intellettuali” ed “esperti”, nel senso più ampio di persone che hanno imparato a padroneggiare particolari competenze o corpus di conoscenze e che esercitano tali competenze o utilizzano quelle conoscenze come occupazione principale nella loro vita. Questo ci aiuta a distinguere il “pilota professionista” da quello della domenica, o anche il “giocatore professionista” da chi occasionalemente punta e perde denaro in un casinò.
In altre parole, gli esperti sono persone che ne sanno decisamente più di noialtri su un determinato argomento e alle quali ci rivolgiamo quando abbiamo bisogno di pareri, insegnamenti o soluzioni in una particolare area del sapere umano. Tenete presente che ciò non significa che gli esperti sanno tutto quello che c’è da sapere su un determinato argomento. Piuttosto, significa che gli esperti di una determinata materia sono, per loro natura, una minoranza le cui opinioni hanno maggiori probabilità di essere “autorevoli”, ovvero corrette o accurate, rispetto a quelle di chiunque altro.
E anche tra gli esperti ci sono esperti. Un medico fresco di laurea è molto più qualificato di qualsiasi profano per diagnosticare e curare una malattia, ma quando si trova ad affrontare un caso che gli desta perplessità può a sua volta sottoporlo a uno specialista. Un praticante e un giudice della Corte suprema sono entrambi avvocati, ma quello che indossa la toga nera a Washington probabilmente è più esperto di questioni costituzionali rispetto a quello che si occupa di testamenti e divorzi in una piccola comunità. Naturalmente anche l’esperienza conta. Nel 2009, quando a New York un volo Usair è rimasto danneggiato durante il decollo per lo scontro con uno stormo di uccelli, nella cabina di pilotaggio erano presenti due piloti, ma il capitano, più esperto e con molte più ore di volo alle spalle, ha detto “a me i comandi” e ha guidato il jet in un ammaraggio sul fiume Hudson. Tutti i passeggeri sono sopravvissuti.
Un motivo per cui in una democrazia le manifestazioni di competenza infastidiscono le persone è che la specializzazione è necessariamente esclusiva. Quando studiamo una certa area del sapere o trascorriamo la nostra vita dedicandoci a una particolare occupazione, non solo rinunciamo alla competenza in altri lavori o materie, ma ci affidiamo anche al fatto che altre persone all’interno della comunità sanno cosa stanno facendo nel proprio campo con la stessa sicurezza che noi mostriamo nel nostro. Per quanto ci venga voglia di entrare nella cabina di pilotaggio dopo l’accensione del motore per dare ai piloti qualche utile suggerimento, diamo per scontato – in parte perché dobbiamo – che loro sono in grado di far fronte al problema meglio di noi. Altrimenti, la nostra società altamente evoluta si frammenta in isole di incoerenza, dove trascorriamo il nostro tempo a cercare di indovinare per tentativi, anziché fidarci gli uni degli altri.
Quindi, come facciamo a distinguere gli esperti e come possiamo identificarli? La vera competenza, il tipo di conoscenza su cui gli altri fanno affidamento, è una combinazione intangibile ma riconoscibile di istruzione, talento, esperienza e riconoscimento da parte dei propri pari. Ciascuno di questi è un segno di competenza, ma la maggior parte delle persone giustamente giudica il modo in cui questi tratti si combinano in un determinato argomento o campo professionale quando decide a quali pareri accordare fiducia.
La formazione o l’istruzione formale sono il segno più evidente dello status di esperto e il più facile da identificare, ma questo è solo il primo passo. Per accedere a molte professioni sono necessarie qualifiche: gli insegnanti, gli infermieri e gli idraulici devono avere una certificazione di qualche tipo per esercitare le proprie capacità, e indicare agli altri che esse sono state esaminate dai loro pari e soddisfano uno standard minimo di competenza. Se alcuni degli avversari più agguerriti del sapere costituito deridono questo sistema e lo bollano come “credenzialismo”, questi titoli e licenze sono segni tangibili dei risultati ottenuti e importanti marcatori che ci aiutano a distinguere i semplici appassionati (o i ciarlatani) dai veri esperti.
A essere onesti, alcune di queste credenziali sono invenzioni recenti e in parte forse non hanno grande rilevanza. In certi casi, le credenziali sono ideate da Stati e amministrazioni locali come stratagemmi per fare cassa, mentre in altri non confermano alcuna abilità se non il fatto di aver superato una prova una sola volta senza più essere rinnovate. Gli avvocati dell’America moderna conseguono una laurea in legge, ma in passato i giovani trascorrevano un periodo di apprendistato presso un professionista e poi dovevano superare un esame di ammissione per accedere al tribunale del proprio Stato. Questo sistema meno formale ha prodotto grandi uomini come Abraham Lincoln – che a detta di tutti non era particolarmente competente come avvocato – ma anche luci meno brillanti come Henry Billings Brown, il giudice della Corte suprema che scrisse il parere di maggioranza nella sentenza “separati ma uguali” del caso Plessy vs Ferguson (Brown aveva frequentato corsi di diritto sia a Harvard sia a Yale, ma non si era laureato in nessuno dei due atenei).
Comunque sia, le credenziali sono un punto di inizio. Esse portano con sé l’imprimatur delle istituzioni che le conferiscono e sono un indice di qualità, proprio come i marchi di consumo tendono a promuovere (e, se tutto va nel verso giusto, a proteggere) la qualità dei loro prodotti. Osservate attentamente un attestato di laurea e noterete che la maggior parte di essi effettivamente afferma che l’intestatario è stato esaminato e gli è stata conferita una laurea dalla facoltà, a sua volta sostenuta da un comitato di scuole in quella regione o da un corpo che rappresenta una particolare professione. Quelle facoltà e le associazioni che accreditano i loro corsi di studio in realtà garantiscono le conoscenze di un laureato in una particolare materia. Ne va del nome della scuola o dell’istituzione, non meno di quello del titolare della laurea, almeno come iniziale affermazione di competenza.
Non si può negare che anche i buoni college abbiano laureato un sacco di persone senza un briciolo di buon senso. Come pure è accaduto che piccoli istituti tirassero fuori dei geni. Ma, come recita il detto, se è vero che non sempre il più veloce vince la gara, è su di lui che si concentrano le scommesse. I precedenti nella produzione di geni da parte del MIT o del Georgia Tech sono palesemente più alti rispetto a scuole meno competitive o al numero di inventori autodidatti. Del resto, il MIT ha prodotto anche persone che non solo non riescono a tenere in ordine i propri conti, ma non sono neanche buoni ingegneri. Che cosa distingue gli esperti, specialmente i leader di rilievo nella propria specializzazione, da altri che possiedono credenziali analoghe?
Una differenza è la predisposizione o il talento naturale. Il talento è indispensabile per un esperto (come disse una volta Ernest Hemingway parlando di scrittura: “Una delle due doti assolutamente necessarie per la scrittura è la serietà assoluta. L’altra, purtroppo, è il talento”). Una persona che ha studiato Chaucer al college ne sa molto di più di letteratura inglese rispetto agli altri, almeno su un piano puramente nozionistico. Ma lo studioso che ha un vero talento per lo studio della letteratura medievale non solo ne sa di più, sa anche spiegarlo coerentemente e magari può anche generare nuove conoscenze sul tema.
Il talento distingue coloro che hanno semplicemente ottenuto una qualifica da chi possiede una sensibilità più profonda o una comprensione maggiore della propria area di competenza. In ogni campo di studio c’è qualcuno che consegue risultati brillanti e che, a quanto pare, non riesce altrettanto bene nel lavoro. Ci sono studenti di legge geniali che restano bloccati di fronte a una giuria. Alcuni dei cadetti con i punteggi più alti negli esami di polizia mancano di intelligenza di strada e non la svilupperanno mai. Un gran numero di nuovi dottorati delle migliori università non scriverà più nulla di valido dopo aver portato a termine la tesi. Queste persone potranno anche aver aperto la porta di accesso a una professione, ma non sono molto brave a svolgerla e la loro competenza probabilmente non supererà mai il limite naturale delle loro capacità.
È qui che l’esperienza aiuta a distinguere le persone qualificate dagli incompetenti. Talvolta sono i mercati stessi a espellere gli aspiranti esperti se sono privi del talento o della competenza necessaria. Anche gli agenti di cambio professionisti, per esempio, possono commettere errori, ma la maggior parte di loro riesce a guadagnarsi da vivere. I trader dilettanti, invece, non fanno quasi mai soldi. Henry Blodgett, amministratore delegato di Business Insider nonché ex analista di Wall Street, ha definito una volta il trading amatoriale “il lavoro più sciocco che c’è”, aggiungendo che la maggior parte delle persone che lo praticano “farebbe più soldi lavorando da Burger King”.11 Alla fine, si ritrovano in bolletta. Allo stesso modo, nel corso del tempo i cattivi insegnanti tendono a ottenere valutazioni negative, gli avvocati mediocri perdono clienti e gli atleti privi di talento non ce la fanno.
Ogni campo ha le sue prove del fuoco, e non tutti le superano: ecco perché l’esperienza e la longevità in una particolare area o professione sono indicatori di competenza soddisfacenti. Infatti, chiedere quanta “esperienza” si ha è un altro modo di porre la vecchia domanda: “Cosa hai fatto ultimamente?”. Gli esperti continuano a dedicarsi al proprio campo, a migliorare le proprie competenze, imparano dai propri errori e hanno un’esperienza comprovata. Nel corso della carriera migliorano, o quantomeno mantengono alto il proprio livello di competenza, e lo combinano con la saggezza – ancora una volta un’entità intangibile – maturata nel tempo.
Si possono fare molti esempi del ruolo rivestito dall’esperienza nella competenza. Spesso gli agenti di polizia esperti hanno un istinto per i problemi che manca ai loro colleghi più giovani, una specie di intuito che sanno spiegare solo come la sensazione che ci sia qualcosa “che non va”. È meno probabile che medici o piloti che hanno vissuto e superato molteplici crisi in sala operatoria o in cabina di pilotaggio siano colti dal panico di fronte alle avversità rispetto ai loro colleghi più giovani. I veterani dell’insegnamento sono meno intimiditi dagli studenti impegnativi o difficili. I cabarettisti che hanno tenuto numerosi spettacoli in vari teatri non temono i provocatori in sala, anzi, sanno addirittura sfruttarli come materia prima per far ridere il pubblico.
Queste non sempre sono competenze quantificabili. Ecco un esempio tratto dalla mia formazione e dal mio campo di studio.
Dopo il college, ho frequentato l’Harriman Institute, presso la Columbia University, per proseguire gli studi sulla politica dell’Unione Sovietica. Questo faceva parte della costruzione delle mie credenziali: volevo insegnare e lavorare nel settore degli affari sovietici, e all’epoca la Columbia era una delle migliori scuole in quell’ambito. Il direttore dell’istituto era un professore di nome Marshall Shulman, un noto sovietologo che era stato anche consulente di Jimmy Carter alla Casa Bianca per le questioni sovietiche.
Come tutti i sovietologi, Shulman studiava con grande attenzione la stampa sovietica in cerca di indicazioni sulle posizioni politiche all’interno del Cremlino. Questo processo era un esercizio di analisi testuale quasi talmudico ed era un mistero per quelli di noi che non l’avevano mai eseguito. Come riusciva, gli chiedemmo, a trovare un senso nella prosa ampollosa dei giornali sovietici, o a intuire un qualsivoglia significato in quei passaggi tanto enfatici? Come potevano migliaia di storie formulaiche sulle lotte eroiche delle fattorie collettive illuminare i segreti di uno dei sistemi più chiusi sulla terra? Shulman scrollò le spalle e disse: “Non so davvero spiegarlo. Leggo la Pravda finché non comincia a prudermi il naso”.
All’epoca pensavo che fosse una delle cose più stupide che avessi mai sentito. Cominciai anche a chiedermi se non avessi fatto una scelta di vita sbagliata a investire ulteriormente nella mia istruzione. Ciò che Shulman intendeva dire, però, era che aveva trascorso anni a leggere periodici sovietici e quindi ormai si era talmente abituato al loro metodo di comunicazione da riuscire a individuare variazioni o irregolarità non appena passavano davanti ai suoi occhi addestrati e competenti.
Anche se con scetticismo, ho fatto lo stesso durante tutti gli anni della mia formazione e all’inizio della mia carriera. Leggevo i materiali sovietici quasi quotidianamente e cercavo di cogliervi degli schemi che prima erano invisibili ai miei occhi. Alla fine sono riuscito a capire cosa intendeva Shulman. Non posso dire di aver mai sentito il naso prudermi o che mi si siano mosse le orecchie, ma ho capito che leggere materiali provenienti da un Paese straniero in una lingua straniera era una competenza specifica. Non poteva essere distillata in un corso o in un esame. Non c’era un modo rapido per svilupparla come abilità: richiedeva tempo, pratica e consigli da parte di esperti più navigati dello stesso campo.
Un altro segno distintivo dei veri esperti è il fatto che accolgono le valutazioni e le correzioni da parte dei loro simili. Ogni gruppo professionale e ogni comunità di esperti ha propri controllori, comitati, accreditatori e autorità di certificazione, il cui compito è sorvegliare i membri e garantire non solo il rispetto degli standard della propria specializzazione, ma anche che le proprie arti siano praticate solo da persone che sanno davvero cosa stanno facendo.
Questo autocontrollo è al centro del concetto di professionalità ed è un altro modo per identificare gli esperti. Ogni gruppo specializzato crea barriere per l’accesso a una professione. Alcune di queste sono più ragionevoli e oneste di altre, ma di solito sono fondate sulla necessità di garantire che il nome della professione non sia svalutato da incompetenza o frodi. Potrei riunire una manciata di colleghi, appendere una targa fuori da casa mia e chiamarla “Istituto di fisica delle particelle Tom Nichols”, ma la realtà è che non so niente di fisica delle particelle. Ecco perché il mio istituto di fama non verrebbe mai accreditato da veri fisici, che certo non vedrebbero di buon occhio le mie lauree fasulle e che in breve tempo cercherebbero di farmi chiudere i battenti per proteggere il significato della parola “fisico”.
Le comunità di esperti si affidano a queste istituzioni di colleghi per mantenere uno standard sufficiente e aumentare la fiducia sociale. Meccanismi come la peer review, le abilitazioni specialistiche, le associazioni professionali e le altre organizzazioni e professioni aiutano a proteggere la qualità e ad assicurare alla società, cioè ai clienti dell’esperto, che possono fidarsi di quanto dichiara sulle sue competenze specialistiche. Quando prendete un ascensore per salire all’ultimo piano di un edificio alto, il certificato nell’ascensore non dice “buona fortuna, lassù”, ma afferma che un’autorità civica, avvalendosi di ingegneri istruiti ed esaminati da altri ingegneri, ha controllato quella scatola e sa, con quanta più certezza possibile, che starete al sicuro.
L’esperienza e l’affermazione professionale contano, ma è altrettanto vero che il vecchio proverbio cinese che ci avvisa di diffidare dell’artigiano che dice di avere vent’anni di esperienza, quando invece ne ha uno ripetuto venti volte, contiene molta saggezza. Ci sono cattivi dentisti che erano pessimi cavadenti quando si sono laureati all’istituto di odontoiatria e che non migliorano granché prima di andare in pensione. Ci sono insegnanti che inducono la narcolessia nei loro studenti tanto il primo giorno di lezione quanto l’ultimo. Ma dobbiamo ricordare due cose importanti sugli esperti, anche su quelli che potrebbero non essere i migliori nel loro campo.
Innanzitutto, anche se forse il vostro goffo dentista non è il migliore della città nelle estrazioni, lui o lei è più bravo o più brava di voi. Non abbiamo tutti bisogno del decano della scuola di odontoiatria per una capsula o una semplice carie. Magari una volta siete fortunati e riuscite a estrarre un dente, ma non avete studiato o non avete sufficiente esperienza per farlo senza correre grossi rischi. La maggior parte delle persone non si taglierebbe da sola nemmeno i capelli (gli estetisti, dopotutto, gestiscono sostanze chimiche e oggetti affilati di ogni tipo, e sono un altro gruppo che necessita di formazione e licenze per esercitare). Pochi di noi si arrischiano a estrarre i propri denti o quelli dei nostri cari.
Un secondo punto, collegato all’abilità relativa, è che gli esperti commettono errori, ma è molto meno probabile che li commettano rispetto a un profano. Questa è una distinzione fondamentale tra gli esperti e tutti gli altri, in quanto i primi conoscono meglio di chiunque altro le insidie della propria professione. Come disse una volta il noto fisico Werner Heisenberg, un esperto “è qualcuno che conosce alcuni dei peggiori errori che si possono commettere nel suo campo e sa come evitarli” (il suo amico fisico Niels Bohr professava una versione differente: “Un esperto è qualcuno che ha commesso tutti gli errori che possono essere commessi in un campo molto ristretto”).
Questi due punti dovrebbero aiutarci a capire perché la funesta idea che “ognuno di noi può essere un esperto” è tanto pericolosa. È vero in senso relativo, poiché quasi chiunque abbia particolari abilità può sviluppare conoscenze specialistiche a cui gli altri, nella maggior parte delle circostanze, devono ricorrere. Le difficoltà, tuttavia, emergono quando le persone cominciano a credere che saperne un po’ di qualcosa significa “essere competenti”. Il confine tra il dilettante che ha appreso molte nozioni sulle navi da guerra dalla lettura della rivista Jane’s Fighting Ships e qualcuno effettivamente esperto sul potenziale delle navi di tutto il mondo è sottile, ma c’è. Questo confine esiste.
Sapere una cosa non equivale a comprenderla. E la comprensione non equivale all’analisi. La competenza non è un gioco da tavolo in cui far sfoggio di aneddoti.
E, anche se ci sono esperti autodidatti, si tratta di rare eccezioni. Più comune è trovare persone che cercano di accedere rapidamente a settori complicati senza aver idea di quanto patetici siano i loro tentativi. Sono come quei cantanti di karaoke abbastanza bravi da pensare di poter vincere la prossima edizione di American Idol, o i giocatori di golf della domenica convinti di poter tentare la carriera professionistica. Fare bene qualcosa non equivale a diventare una fonte attendibile di pareri o di insegnamenti su un argomento (si noti che le stesse persone che ritengono di poter diventare cantanti non pensano mai di poter fare gli insegnanti di canto).
Questa mancanza di consapevolezza di sé e dei propri limiti intellettuali può determinare interazioni imbarazzanti tra esperti e profani. Alcuni anni fa, per esempio, ho ricevuto una telefonata da un gentiluomo che insisteva di avere svolto una ricerca importante che avrebbe potuto essere utile nella nostra offerta formativa al Naval War College. Aveva avuto i miei contatti da un ex studente di un’altra scuola e ci teneva moltissimo a farmi leggere un importante articolo sul Medio Oriente. Gli chiesi chi lo avesse scritto. Be’, mi rispose, l’ho scritto io. Era un uomo d’affari e aveva “letto molto”. Gli chiesi se avesse una formazione di qualche tipo sulla materia o se leggesse in una qualsiasi delle lingue mediorientali. Non aveva quel tipo di background, ammise, e poi aggiunse: “Ma dopotutto si può diventare esperti leggendo un libro al mese, giusto?”.
Sbagliato.
La cultura americana tende ad alimentare nozioni romantiche di questo tipo sulla saggezza dell’uomo comune o sull’intraprendenza del genio autodidatta. Queste idee consentono la nascita di una gratificante fantasia sociale in cui le persone ordinarie superano il serioso professore o lo scienziato nerd con la forza della determinazione e dell’ingegno.
Ci sono molti esempi di questo tipo nella cultura popolare americana, specialmente nei film che ritraggono giovani estremamente brillanti che battono in astuzia imprese, università e perfino governi. Nel 1997, ad esempio, Ben Affleck e Matt Damon hanno scritto un film dal titolo Will Hunting – Genio ribelle, su un bidello che si rivela un prodigio nascosto. In quella che ormai è una scena emblematica, Damon tira fuori un accento da operaio di Boston e affronta in un bar un efebico studente con il codino, laureato in qualche università dell’Ivy League:
Sei uno studente di primo anno; hai appena finito di leggere qualche storico marxista, Pete Garrison magari. Ne sarai convinto fino al mese prossimo, quando arriverai a James Lemon. Poi parlerai di quanto l’economia della Virginia e della Pennsylvania fosse imprenditoriale e capitalistica nel 1740. Ti durerà fino all’anno prossimo. Ti ritroverai qui a rigurgitare Gordon Wood, parlando della…, sai, dell’utopia pre-rivoluzionaria e degli effetti formativi sul capitale della mobilitazione militare. […] L’hai preso da Vickers, Lavoro nella Contea di Essex, pagina 98, eh? Sì, l’ho letto anch’io. Volevi attribuirti tutta la cosa o hai un pensiero tutto tuo sulla faccenda? […] Hai sborsato centocinquantamila dollari per un’istruzione che potevi avere per un dollaro e cinquanta in sovrattasse alla biblioteca pubblica.
Più tardi, il giovane elude le domande del suo psicoterapeuta sulle opere di Howard Zinn e Noam Chomsky. All’epoca questi momenti del film, innaturali e un po’ sciocchi, trovarono invece il consenso del pubblico. Damon e Affleck tornarono a casa con i loro begli Oscar per la sceneggiatura e senza dubbio hanno incoraggiato almeno qualche spettatore a credere che leggere abbastanza libri sia quasi come andare a scuola.
Alla fine, la competenza è difficile da definire e talvolta è arduo distinguere gli esperti dai dilettanti. Tuttavia, dovremmo essere in grado di discernere tra chi ha una conoscenza effimera di una materia e chi ne ha una definitiva. Nessuno può vantare una conoscenza completa, e gli esperti se ne rendono conto meglio di chiunque altro. Ma l’istruzione, la formazione, la pratica, l’esperienza e il riconoscimento da parte di altri che operano nello stesso campo dovrebbero fornirci almeno una guida rudimentale per separare gli esperti dal resto della società.
Uno dei motivi fondamentali per cui gli esperti e i profani hanno sempre scatenato la reciproca irritazione è che sono tutti esseri umani. Ovvero hanno tutti problemi analoghi nell’assorbimento e nell’interpretazione delle informazioni. Anche le persone più istruite possono commettere errori di ragionamento elementari, mentre quelle meno intelligenti sono inclini a ignorare i limiti delle proprie capacità. Esperti o profani, i nostri cervelli funzionano (o talvolta non funzionano) in modo simile: sentiamo le cose nel modo in cui vogliamo ascoltarle e rifiutiamo i fatti che non ci piacciono. Questi problemi costituiscono l’argomento del prossimo capitolo.
3. A. de Tocqueville, La democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1995.
4. J. Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, il Mulino, Bologna, 1984, pp. 35, 37.
5. R. Hofstadter, Società e intellettuali in America, Torino, Einaudi, 1968, p. 44.
6. I. Somin, “Political Ignorance in America”, in M. Bauerlein e A. Bellows (a cura di), The State of the American Mind, Templeton, West Conshohocken, PA, 2015, pp. 163-164.
7. D. Goodyear, “Raw Deal: California Cracks Down on an Underground Gourmet Club”, The New Yorker, 30 aprile 2012.
8. La legge sull’assistenza sanitaria accessibile voluta da Obama, nota anche in Italia come “Obamacare” [N.d.T.].
9. O. Khazan, “27% of Surgeons Still Think Obamacare Has Death Panels”, The Atlantic online, 19 dicembre 2013.
10. Kaiser Family Foundation, 2013 Survey of Americans on the US Role in Global Health.
11. H. Blodget, “Here’s What Day Traders Don’t Understand”, Business Insider, 29 marzo 2010.
capitolo 2
Perché la conversazione è diventata estenuante
Alcuni secoli fa […] gli uomini avevano
una coscienza ancora abbastanza chiara
di quando una cosa veniva provata e di quando no;
e, se gli argomenti erano convincenti, ci credevano veramente.
C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche
Sì? Be’, questa è solo… la tua opinione e basta.
“Il drugo”, Il grande Lebowski
un dibattito, per favore
Nel Ventunesimo secolo la conversazione è diventata talvolta estenuante e spesso esasperante, non solo tra esperti e profani, ma tra chiunque. Se in passato si mostrava fin troppo rispetto nei confronti degli esperti, oggi se ne presta fin troppo poco a tutti. Anche nelle interazioni quotidiane tra profani, i disaccordi e le dispute si sono devoluti in estenuanti scambi di contraddizioni, in notizie arbitrarie e non verificate e in fonti incerte, che pochi dei partecipanti comprendono. Gli anni di una migliore istruzione, di un maggiore accesso ai dati, dell’esplosione dei social media e dell’abbassamento delle barriere di accesso all’arena pubblica avrebbero dovuto migliorare, sulla carta, la nostre capacità di riflettere e decidere. Sembrerebbe invece che questi progressi abbiano peggiorato anziché migliorare la situazione.
Il dibattito pubblico su quasi qualsiasi argomento si trasforma in una guerra di trincea il cui obiettivo principale è stabilire che l’altra persona si sbaglia. Ragionevoli differenze di opinione si riducono a una scadente discussione tra liceali in cui lo scopo è vincere e i fatti sono schierati come pedine su una scacchiera – senza mai raggiungere il livello degli scacchi – soprattutto per contrastare altri fatti. Come il cliente nel leggendario sketch dei Monty Python La clinica per litigare, ci ritroviamo semplicemente a contraddire l’ultima affermazione dell’altro (“Questa non è una discussione” dice il cliente arrabbiato al professionista del litigio. “Sì, lo è” risponde lui. “No, non lo è! È solo un modo per contraddire!” “No, non lo è.” “Sì che lo è!”)
Dobbiamo partire dal problema più ovvio e universale: tu e io. O più accuratamente, il modo in cui tu e io pensiamo. Dalla biologia alla psicologia sociale, combattiamo una difficile battaglia cercando di comprenderci l’un l’altro.
Ognuno di noi ha una tendenza intrinseca e naturale a cercare prove che siano compatibili con le nostre convinzioni. In realtà i nostri cervelli sono programmati per funzionare così: ecco perché discutiamo anche quando non dovremmo. E se ci sentiamo minacciati, socialmente o personalmente, discutiamo fino a farci venire la faccia blu (forse nell’èra di internet bisognerebbe adattare l’espressione ai social media: “Fino a farci intorpidire le dita”). Gli esperti non fanno eccezione in questo caso: come tutti gli altri, vogliamo credere a ciò a cui vogliamo credere.
Nella nostra vita personale abbiamo la tendenza a essere un po’ più tolleranti, perché siamo animali sociali che desiderano l’accettazione e l’affetto di chi hanno vicino. Nelle nostre cerchie sociali più intime, la maggior parte di noi si ritiene competente e affidabile, e vogliamo che anche gli altri ci vedano in questo modo. Tutti desideriamo essere presi sul serio e rispettati. In pratica, questo significa che non vogliamo che qualcuno ci consideri ottusi e quindi ci fingiamo più intelligenti di quanto siamo. Con il tempo, arriviamo anche a crederci.
Certo, c’è anche un problema fondamentale: alcune persone non sono molto brillanti. E, come vedremo, tendenzialmente le persone più convinte di essere nel giusto sono quelle che hanno meno ragioni per nutrire una simile fiducia in sé stessi. Ma è troppo semplicistico liquidare l’esasperazione provocata dalle discussioni moderne unicamente come funzione della stupidità altrui (ciò non significa che a volte non sia così). La maggior parte delle persone non è intellettualmente limitata, almeno non se valutata attraverso indicatori di base come i tassi di alfabetizzazione o il completamento della scuola superiore.
La verità è che le insidie della discussione e del dibattito non si limitano agli errori commessi da chi è meno intelligente tra noi. Tutti siamo esposti a una serie di errori, tra cui il fatto che cerchiamo di risolvere problemi e quesiti in modo da sentirci meglio con noi stessi e i nostri amici. I tanti fattori che influiscono sulla fine della competenza, come l’istruzione superiore, i media e internet, sono facilitatori di questi fondamentali tratti umani. Si possono superare tutte queste minacce a una migliore comunicazione tra esperti e cittadini attraverso l’istruzione, il rigore e l’onestà, ma solo se sappiamo in che modo ci stanno già danneggiando.
forse siamo soltanto ottusi
Affrontiamo per prima la possibilità più dolorosa. Forse gli esperti e i profani hanno problemi a parlare tra loro semplicemente perché il cittadino comune è poco intelligente. Forse il divario intellettuale tra le élite istruite e le masse è ormai così ampio che non riescono a parlare tra di loro se non per scambiarsi espressioni di mutuo disprezzo. Forse le conversazioni e le discussioni falliscono perché una delle parti, o entrambe, è formata solo da stupidi.
Queste sono parole di scontro. A nessuno piace essere chiamato stupido: è una parola dura che implica un giudizio e non soltanto una mancanza di intelligenza, ma anche un’ignoranza intenzionale che sfiora il fallimento morale (l’ho usata più di quanto avrei dovuto; e anche voi, probabilmente). Potete dire alle persone con le quali siete in disaccordo che sono disinformate, che sono in errore, che si sbagliano o pressoché qualsiasi altra cosa. Ma non chiamatele stupide.
Fortunatamente, l’uso della parola “stupido” non solo è maleducato, è perlopiù inesatto. Oggi, sotto ogni aspetto, gli americani sono più intelligenti, o comunque non meno intelligenti, rispetto a diversi decenni fa. E il primo Novecento non è stata un’età di Pericle, di cultura e di apprendimento. Nel 1943, i nuovi studenti del primo anno di college – dei quali solo il 6 per cento era in grado di elencare le tredici colonie originarie – pensavano che Abraham Lincoln fosse stato il primo presidente, nonché colui che “emaciò [sic] gli schiavi”. Quando il New York Times vide quei dati, interruppe la cronaca della Seconda guerra mondiale per lamentarsi della “spaventosa ignoranza” dei giovani.12
Se i cittadini del Ventunesimo secolo riusciranno o meno a non accrescere il divario tra la propria istruzione e la velocità con cui si verificano i cambiamenti nel mondo, è tutt’altra questione. Sia gli allievi delle scuole primarie del 1910 sia quelli del 2010 dovevano imparare a calcolare i lati di un triangolo, ma gli studenti di oggi devono utilizzare questa conoscenza per comprendere l’esistenza di una stazione spaziale internazionale permanente, mentre i loro bisnonni probabilmente non avevano mai visto un’automobile, tantomeno un aereo. E nulla può impedire il distacco volontario dall’apprendimento, in qualsiasi epoca. Nessuna forma d’istruzione può insegnarti il nome del tuo rappresentante al Congresso se non ti importa saperlo.
Detto questo, c’è ancora il problema delle persone che pensano di essere brillanti quando in realtà non lo sono. Tutti siamo rimasti intrappolati a una festa o a una cena in cui la persona meno informata tra i presenti ha tenuto banco, senza mai dubitare della propria intelligenza, e producendosi in un monologo zeppo di errori e informazioni sbagliate. Non è la vostra immaginazione: le persone che strabordano su argomenti di cui sanno pochissimo, con una sicurezza del tutto infondata, esistono davvero e finalmente la scienza l’ha capito.
Questo fenomeno è chiamato “effetto Dunning-Kruger”, dai nomi di David Dunning e Justin Kruger, ricercatori di psicologia della Cornell University che lo hanno identificato in un fondamentale studio del 1999. L’effetto Dunning-Kruger, in sintesi, è il fenomeno per cui più si è ottusi, più si è convinti di non esserlo. Dunning e Kruger più gentilmente definiscono persone di questo tipo “non specializzate” o “incompetenti”. Ma ciò non cambia la loro scoperta più importante: “Non solo giungono a conclusioni erronee e compiono scelte infelici, ma la loro incompetenza li priva della capacità di rendersene conto”.13
A voler essere giusti nei confronti dei “non specializzati”, tutti tendiamo a sopravvalutarci. Chiedete alle persone quale posizione pensano di occupare in un’ipotetica classifica di talenti, e incontrerete “l’effetto sopra la media”, in base al quale tutti pensano di essere… be’, al di sopra della media. Questo, come Dunning e Kruger osservano ironicamente, è “un risultato che sfida la logica della statistica descrittiva”. È comunque un errore umano tanto riconoscibile che nella sua trasmissione radiofonica A Prairie Home Companion l’umorista Garrison Keillor ha creato un’intera città dedicata a questo principio, sulle sponde del mitico Lago Woebegone (Addolorato), dove “tutti i bambini sono al di sopra della media”.
Come ha spiegato in seguito Dunning, tutti ci sopravvalutiamo, ma i meno competenti lo fanno più degli altri:
Tutta una serie di studi condotti da me e da altri ha confermato che le persone che non sanno molto di un dato insieme di competenze cognitive, tecniche o sociali tendono a sovrastimare grossolanamente il proprio valore e le proprie prestazioni, che si tratti di grammatica, intelligenza emotiva, ragionamento logico, manutenzione e sicurezza delle armi da fuoco, dibattiti o conoscenze finanziarie. Gli studenti universitari, in prove d’esame al termine delle quali ottengono delle D e delle F, tendono a pensare che i loro sforzi meritino voti molto più alti; anche i giocatori di scacchi o di bridge e gli studenti di medicina che ottengono scarsi risultati, e gli anziani che devono rinnovare la patente di guida, sopravvalutano di gran lunga le proprie capacità.14
Gli studenti che preparano un esame, gli anziani che cercano di mantenere la propria autosufficienza e gli studenti di medicina che non vedono l’ora di iniziare la propria carriera preferiscono essere ottimisti e non sminuirsi. A differenza di campi come lo sport agonistico, in cui l’incompetenza è manifesta e innegabile, è normale che le persone evitino di dire che non sono brave a fare qualcosa.
A quanto pare, però, la ragione più specifica per cui individui non qualificati o incompetenti sopravvalutano le proprie abilità molto più degli altri è che non possiedono una competenza chiave chiamata “metacognizione”. Si tratta della capacità di sapere quando non si è bravi in qualcosa, di arretrare di un passo, osservare ciò che si sta facendo e così rendersi conto che lo si sta facendo male. I bravi cantanti si accorgono quando stonano; i bravi registi sanno quando una scena in una rappresentazione teatrale non funziona; i buoni addetti marketing sanno quando una campagna pubblicitaria sarà un flop. Le loro controparti meno competenti, di contro, non possiedono questa capacità. Pensano di star facendo un ottimo lavoro.
Mettete insieme queste persone e degli esperti e, prevedibilmente, le conseguenze saranno tremende. La mancanza di metacognizione instaura un circolo vizioso, in cui le persone che non sanno molto di una determinata materia non capiscono quando hanno a che fare con un esperto di quell’argomento. Ne nasce una disputa, ma chi non ha idea di come impostare un ragionamento logico non si rende conto di quando non riesce a fare un ragionamento logico. In poche parole, l’esperto si sente frustrato e il profano insultato. Tutti se ne vanno arrabbiati.
Un fatto ancora più esasperante è che non esiste un modo di educare o informare le persone che nel dubbio inventano le cose. Dunning ha descritto la ricerca condotta alla Cornell come qualcosa di simile a “una versione meno teatrale dello sketch di Jimmy Kimmel” e ha dimostrato l’intuizione del comico secondo cui anche quando le persone non hanno idea di cosa stanno parlando comunque non smettono di parlarne:
Nel nostro lavoro, chiediamo agli intervistati se conoscono alcuni concetti tecnici della fisica, della biologia, della politica e della geografia. Un buon numero sostiene di avere familiarità con termini esistenti quali forza centripeta e fotone. Ma stranamente afferma di avere anche una certa familiarità con concetti interamente inventati, come lastre di parallasse, ultra-lipidi e colarina. In una ricerca, circa il 90 per cento degli intervistati ha dichiarato di conoscere almeno uno dei nove concetti fittizi che abbiamo sottoposto loro.
Quel che è peggio, “più gli intervistati si ritenevano preparati su un argomento generale, più familiarità sostenevano di avere con i termini privi di senso che erano associati a quella materia nella nostra indagine”. Ciò rende difficile discutere con questi “individui incompetenti”, perché rispetto agli esperti “erano meno capaci di individuare una competenza quando la vedevano”.
In altre parole, le persone meno competenti avevano minori probabilità di accorgersi che avevano sbagliato e che gli altri avevano invece ragione, maggiori probabilità di fingere e minori probabilità di imparare qualcosa.
Dunning e Kruger propongono diverse spiegazioni di questo problema. In generale, alla gente non piace ferire i sentimenti degli altri, e in alcuni luoghi di lavoro le persone, anche i supervisori, potrebbero essere riluttanti a correggere amici o colleghi incompetenti. Per alcune attività, come lo scrivere o il parlare, è difficile avere un feedback immediato. Nel baseball si possono mancare molte battute prima di arrivare ad ammettere con sé stessi che forse non si è poi così bravi con la mazza, ma si può fare scempio di grammatica e sintassi ogni giorno senza mai rendersi conto di avere una scarsa proprietà di linguaggio.
Il problema del “meno competente” è una sfida immediata per le discussioni tra esperti e profani, ma non possiamo fare molto per correggere una caratteristica fondamentale della natura umana. Non tutti, però, sono incompetenti e quasi nessuno è incompetente in ogni settore. Quali tipi di errori commettono le persone più intelligenti o dalla mentalità più agile nel tentativo di comprendere problemi complicati? I cittadini comuni incontrano trappole e pregiudizi in cui incappano anche gli esperti.
bias di conferma: perché lo sapevi già
“Il bias di conferma” è l’ostacolo più comune e potenzialmente più irritante a una conversazione produttiva, e non solo tra esperti e profani. L’espressione descrive la tendenza a cercare solo informazioni che confermano ciò in cui crediamo, ad accettare soltanto fatti che rafforzino le spiegazioni che preferiamo e a scartare i dati che mettono in discussione ciò che già accettiamo come verità. Tutti noi lo facciamo, e potete star certi che voi e io e chiunque altro abbia avuto una discussione con chicchessia su qualsiasi argomento abbiamo fatto infuriare l’interlocutore per questo motivo.
Per esempio, se pensiamo che le persone mancine siano malvagie (la parola “sinistro” viene da lì, dopotutto), ogni assassino mancino sembra dimostrare la nostra tesi. Li vediamo dappertutto nelle notizie, perché queste sono le storie che scegliamo di ricordare. Non ci lasciamo convincere dai dati secondo cui nel braccio della morte si trovano molti più assassini destrorsi. Ogni mancino è una conferma; ogni destrimano è un’eccezione. Allo stesso modo, se abbiamo sentito dire che gli automobilisti di Boston sono maleducati, la prossima volta che ci andremo ricorderemo quelli che ci hanno suonato il clacson contro o ci hanno tagliato la strada. Ignoreremo o dimenticheremo subito tutti coloro che ci hanno dato la precedenza o ci hanno fatto un cenno di ringraziamento (per la cronaca, nel 2014 la società di assistenza stradale AutoVantage ha stilato una classifica secondo cui è Houston la città peggiore quanto ad automobilisti maleducati. Boston è arrivata quinta).
Nel film del 1988 Rain Man, il personaggio autistico Ray è un esempio perfetto, seppur estremo, di bias di conferma. Ray è affetto da sindrome del savant, per cui la sua mente è simile a un computer: è in grado di effettuare calcoli complessi con grande rapidità e contiene un deposito gigante di fatti non correlati tra loro. Ma Ray, a causa della sua condizione, non può organizzare questi fatti in un contesto coerente. Qualunque cosa la mente di Ray ricordi, è più importante di tutti gli altri fatti del mondo.
Così, quando lui e suo fratello devono volare dall’Ohio alla California, Ray va nel panico. Ogni compagnia aerea statunitense, a un certo punto della sua esistenza, ha subito qualche terribile disastro e Ray ricorda le date e il numero delle vittime di ogni singolo incidente. È talmente concentrato su quelle terrificanti eccezioni che si rifiuta di prendere uno dei voli disponibili. Quando il fratello, esasperato, chiede a Ray di quale compagnia si fiderebbe, lui dice sommessamente il nome della compagnia aerea nazionale australiana. “Qantas” dice. “La Qantas mai cascata. […] Mai cascata.” Naturalmente, la Qantas non ha voli nazionali all’interno degli Stati Uniti e così Ray e suo fratello si mettono in marcia per attraversare il Paese in macchina, attività molto più pericolosa che volare. Ma dal momento che Ray non ha in testa dati sugli incidenti automobilistici che possano spaventarlo, sale volentieri sul veicolo.
Siamo tutti un po’ come Ray. Ci concentriamo sui dati che confermano le nostre paure o alimentano le nostre speranze. Ricordiamo le cose che ci fanno una buona impressione e ignoriamo realtà meno evidenti. E quando discutiamo tra noi, o consultiamo un esperto per chiedergli un parere, la maggior parte di noi ha difficoltà a liberarsi di quei ricordi, per quanto irrazionale sia concentrarsi su di essi.
In una certa misura, questo non è un problema di intelligenza in generale, bensì di istruzione. La gente non capisce i numeri, il rischio o la probabilità, e pochi fattori possono rendere la discussione tra esperti e profani più frustrante di questa “snumeratezza”, come recita la memorabile definizione del matematico John Allen Paulos. Per chi è convinto che volare sia pericoloso, non ci saranno mai abbastanza atterraggi sicuri per controbilanciare la paura di un unico incidente. “Di fronte a numeri così alti e alle scarse probabilità a essi collegate,” ha scritto Paulos nel 2001 “lo snumerato conclude inevitabilmente con un illogico: ‘Già, ma se poi sei proprio tu quell’uno?’, scuotendo la testa con l’aria di chi la sa lunga, come se con il suo penetrante intuito avesse smantellato tutto il ragionamento”.15
Gli esseri umani possono diventare molto creativi nel chiedersi “e se invece quella circostanza sfortunata capitasse a me?”. Nei primi anni Settanta sono andato a trovare uno zio che viveva nella Grecia rurale. Era un uomo tosto e atletico, ma aveva una paura terribile di volare, cosa che gli impediva di andare a Londra per sottoporsi a cure mediche per una grave malattia. Mio padre cercò di rassicurarlo con la tesi fatalistica secondo la quale, se per tutti arriva il momento in cui in un modo o nell’altro si deve lasciare questo mondo, probabilmente non era quello il suo momento di andarsene. Mio zio, come tanti che temono di volare, fece ricorso a un’obiezione comune: “Ok, ma se invece fosse giunta l’ora di lasciare questo mondo per il pilota?”.
Nessuno è completamente razionale e la maggior parte di noi teme le situazioni che non possiamo controllare. Mio zio era un uomo non istruito, nato in un villaggio della Grecia alla fine dell’Ottocento. Io sono un uomo istruito del Ventunesimo secolo, con una buona padronanza di statistica e di storia, eppure quando si tratta di volare, in quelle notti in cui sono seduto con la cintura di sicurezza allacciata al sedile di un aereo di linea durante un turbolento avvicinamento a Providence, non reagisco molto meglio. In quei momenti cerco di pensare alle migliaia di aerei che stanno per atterrare in tutto il mondo e alla possibilità davvero minima che alla Lotteria del disastro esca il mio aereo. Di solito, fallisco miseramente: i voli da Vancouver a Johannesburg che stanno atterrando in tutta sicurezza sono assolutamente irrilevanti per me, avvinghiato ai braccioli del sedile, mentre il mio aereo sfiora i tetti del Rhode Island.
Il compianto scrittore di fantascienza nonché medico Michael Crichton usava un esempio risalente ai primi giorni dell’epidemia di Aids, all’inizio degli anni Ottanta, per mostrare come spesso le persone siano convinte di pescare sempre la pagliuzza più corta. All’epoca si capiva poco della malattia, e un’amica chiamò Crichton per farsi rassicurare. Invece, finì per essere infastidita dall’insistenza del medico sul pensiero logico:
Cerco di spiegare il rischio. Perché ultimamente mi sono reso conto che pochi capiscono veramente i rischi che si trovano ad affrontare. Vedo gente che tiene pistole in casa, guida senza cinture di sicurezza, mangia cibo francese che intasa le arterie e fuma sigarette, ma non si preoccupa mai di queste cose. Invece si preoccupa dell’Aids. È pazzesco.
“Ellen. Temi di poter morire in un incidente automobilistico?”
“No, mai.”
“Temi di essere assassinata?”
“No.”
“Be’, hai molte più probabilità di morire in un incidente d’auto, o di essere assassinata da un estraneo, che di prendere l’Aids.”
“Grazie molte” dice Ellen. Sembra infastidita. “Sono contenta di averti chiamato. Sei davvero rassicurante, Michael.”16
Un decennio più tardi si sapeva di più sull’Aids e l’isteria era passata. Negli anni seguenti, tuttavia, nuovi rischi per la salute come Ebola, la SARS e altre malattie rare hanno provocato reazioni altrettanto irrazionali e sono diventate motivo di preoccupazione per gli americani snumerati, più angosciati da una malattia esotica che del fatto di parlare al cellulare mentre guidano verso casa dopo avere bevuto qualche drink al pub.
Si noti anche che questo bias non funziona quasi mai nel senso opposto. Pochi di noi sono certi di essere l’eccezione in senso positivo. Compriamo un biglietto della lotteria, ci facciamo qualche fantasia per un attimo e poi ce lo infiliamo in tasca e lo dimentichiamo. Nessuno va da una concessionaria di auto o da un agente immobiliare con i numeri del Superenalotto di domani.
La paura irrazionale fa più presa dell’ottimismo irrazionale, perché il bias di conferma è, in un certo senso, un meccanismo di sopravvivenza. Le cose belle vanno e vengono, ma la morte è per sempre. Al vostro cervello non importa molto di tutte le altre persone che sono sopravvissute a un volo aereo o a una storia di una notte: non sono voi. Il vostro intelletto, che opera in base a informazioni limitate o erronee, fa il suo lavoro, cerca di minimizzare qualsiasi rischio per la vostra vita, non importa quanto ridotto. Quando combattiamo il bias di conferma, stiamo cercando di correggere una funzione di base – una caratteristica, non un difetto – della mente umana.
Che si tratti di un pericolo mortale o di uno dei dilemmi quotidiani della vita, il bias di conferma entra in gioco perché le persone devono fare affidamento su ciò che già conoscono. Non possono affrontare tutti i problemi come se le loro menti fossero una tabula rasa. Non è così che funziona la memoria e, ciò che ci interessa di più, non sarebbe certo una strategia efficace iniziare ogni giornata cercando di capire tutto da zero.
Gli scienziati e i ricercatori si scontrano di continuo con il bias di conferma, che per loro costituisce un vero e proprio rischio professionale. Anche loro devono formulare ipotesi per fare esperimenti o spiegare misteri, quindi portano comunque un bagaglio personale nei loro progetti. Devono fare delle ipotesi e utilizzare l’intuizione, proprio come tutti gli altri, perché si sprecherebbe moltissimo tempo se ogni programma di ricerca partisse dal presupposto che nessuno sa nulla e che non è mai successo nulla prima di oggi.17 Quello di “fare prima di sapere” è un problema comune quando si tratta di impostare un’indagine accurata: dopotutto, come facciamo a sapere cosa stiamo cercando se non l’abbiamo ancora trovato?18
I ricercatori imparano a riconoscere questo dilemma all’inizio della loro formazione e non sempre riescono a sconfiggerlo. Il bias di conferma può portare fuori strada anche gli esperti più navigati. I medici, per esempio, possono convincersi di una diagnosi e cercare le prove di sintomi che sospettano esistano già in un paziente, ignorando gli indicatori di altre malattie o lesioni (il Dr. House, esperto di diagnosi immaginario, protagonista della famosa serie tv, diceva ai suoi studenti di medicina: “Non è mai lupus”, il che, naturalmente, ha ispirato un episodio in cui il medico più arrogante del mondo si trova ad affrontare un problema per la mancata individuazione di un caso, per l’appunto, di lupus). Anche se ai ricercatori viene detto che “un risultato negativo è comunque un risultato”, nessuno vuole davvero scoprire che le sue supposizioni iniziali sono andate in fumo.
Ecco come, per esempio, una ricerca del 2014 sulla percezione pubblica dei matrimoni omosessuali ha avuto un esito disastroso. Uno studente specializzando ha affermato di aver trovato una prova statistica inattaccabile secondo cui se gli oppositori dei matrimoni gay parlavano dell’argomento con qualcuno che era effettivamente gay, erano maggiormente disposti a cambiare posizione. Le sue conclusioni sono state approvate da un membro anziano della facoltà presso la Columbia University, che aveva firmato lo studio come coautore. Era una scoperta notevole: in buona sostanza dimostrava che è possibile convincere persone ragionevoli ad abbandonare posizioni omofobiche.
L’unico problema era che il giovane e ambizioso ricercatore aveva falsificato i dati. Le discussioni che affermava di aver analizzato non avevano mai avuto luogo. Quando altri studiosi che non avevano partecipato alla ricerca la esaminarono e diedero l’allarme, il professore della Columbia ritrattò l’articolo. Lo studente, che stava per diventare membro di facoltà a Princeton e per il quale si prefigurava un futuro radioso, si ritrovò senza lavoro.
Perché la facoltà e gli esaminatori che avrebbero dovuto tenere sotto lo controllo lo studente non si sono accorti subito dell’imbroglio? A causa del bias di conferma. Come ha riferito la giornalista Maria Konnikova sul New Yorker, il supervisore dello studente ha ammesso di aver voluto credere a quei risultati. Lui e altri studiosi volevano che i risultati fossero veri e quindi erano meno propensi a mettere in discussione i metodi che avevano prodotto la loro risposta preferita. “In poche parole, il bias di conferma – che è particolarmente potente nel caso dei problemi sociali – potrebbe aver reso più facile trascurare i difetti della ricerca” ha scritto Konnikova in una ricostruzione del caso.19 Infatti, è stato “l’entusiasmo sollevato dallo studio a portare al suo smascheramento”, perché altri studiosi, sperando di poter partire da quei risultati, hanno scoperto l’imbroglio solo quando hanno approfondito i dettagli della ricerca che, ne erano convinti, aveva già raggiunto la conclusione che preferivano.
Questo è il motivo per cui gli scienziati, quando possibile, eseguono gli esperimenti più e più volte e poi presentano i loro risultati ad altre persone in un processo chiamato peer review, ovvero “revisione paritaria”. Questo processo, quando funziona, invita i colleghi di un esperto (i suoi pari) a svolgere il ruolo di avvocati del diavolo, ben intenzionati ma rigorosi. Ciò avviene solitamente in un processo a “doppio cieco”, double-blind, ovvero il ricercatore e gli arbitri non sono noti l’uno agli altri, per impedire che pregiudizi personali o istituzionali influenzino la revisione.
Si tratta di un procedimento dal valore indiscusso. Anche lo studioso o il ricercatore più onesto e responsabile ha bisogno di fare i conti con la realtà e di ricevere riscontri da parte di qualcuno meno coinvolto personalmente nell’esito di un progetto (la proposta per il libro che state leggendo in questo momento è stata sottoposta a una peer review: ciò non significa che gli studiosi che l’hanno letta siano d’accordo con le sue tesi, ma sono stati invitati a considerarne le argomentazioni e a esprimere eventuali obiezioni o pareri). La capacità di rivestire il ruolo di arbitro è spesso appannaggio di un esperto più anziano, poiché occorre molto tempo per maturare l’abilità di trovare e riconoscere prove che mettano in dubbio o addirittura confutino un’ipotesi. Studiosi e ricercatori trascorrono buona parte delle loro carriere a cercare di ottenere questa padronanza e a farne una delle loro competenze fondamentali.
Questi esami e revisioni sono invisibili ai profani perché avvengono tutti prima che il prodotto finale venga distribuito. Il pubblico diviene consapevole di questi processi solo quando non vanno a buon fine, e quando una peer review non funziona le conseguenze possono essere terribili. L’intero sistema, invece di fornire garanzie di qualità, può degenerare in falsificazioni, scambi di favori, vendette, parzialità e tutti gli altri comportamenti meschini a cui gli esseri umani sono inclini. Nel caso dello studio sui matrimoni omosessuali, la frode è stata scoperta e il sistema ha funzionato, anche se non in tempo utile per fermare la pubblicazione dell’articolo.
Nella vita moderna al di fuori dell’accademia, tuttavia, le discussioni e i dibattiti non hanno alcuna revisione esterna. I fatti vanno e vengono, a seconda di quello che le persone trovano conveniente sul momento. Così, il bias di conferma rende estenuanti i tentativi di argomentazione razionale perché produce discussioni e teorie non falsificabili. Rigettare tutte le prove contraddittorie considerandole non pertinenti è nella natura stessa del bias di conferma, infatti la mia prova è sempre la regola, la tua è sempre un errore o un’eccezione. È impossibile sfidare questo tipo di spiegazioni, perché per definizione non sono mai sbagliate.
Un altro problema è che la maggior parte dei profani non ha mai imparato, o forse ha dimenticato, le basi del “metodo scientifico”. Si tratta della sequenza di passi che conduce da una domanda generale a un’ipotesi, a una sperimentazione e a un’analisi. Anche se la gente usa comunemente la parola “prova”, lo fa in modo troppo generico; la tendenza nella conversazione è quella di usare “prova” con il significato di “cosa che percepisco essere vera” piuttosto che “cosa che è stata sottoposta a un controllo della sua natura oggettiva secondo regole concordate”.
A questo punto, i profani potrebbero obiettare che tutto ciò non è altro che un mucchio di fesserie intellettuali. Perché l’individuo comune avrebbe bisogno di tutta questa erudizione? C’è sempre il buonsenso. Non è forse abbastanza buono?
Nella maggior parte dei casi, i profani in effetti non hanno bisogno di simili apparati accademici. Nelle questioni quotidiane, il buonsenso ci rende un buon servizio e in genere è meglio di spiegazioni inutilmente complicate. Non abbiamo bisogno, per esempio, di conoscere la velocità a cui può viaggiare un’automobile durante un temporale prima che gli pneumatici inizino a perdere il contatto con la strada. Da qualche parte c’è una formula matematica che ci permetterebbe di conoscere la risposta con grande precisione, ma il buonsenso non ha bisogno di formule per dirci di rallentare quando c’è maltempo, e questo ci basta.
Quando si tratta di districare problemi più complicati, tuttavia, il buonsenso non è sufficiente. La causa e l’effetto, la natura delle prove e la frequenza statistica sono molto più intricati di quanto il senso comune riesca a gestire. Spesso i problemi più spinosi nel campo della ricerca hanno risposte controintuitive, che per loro stessa natura sfidano il nostro buonsenso (in passato, dopotutto, la semplice osservazione aveva detto agli uomini che il sole girava intorno alla terra, e non viceversa). I semplici strumenti del buonsenso possono tradirci ed esporci a errori grandi e piccoli: per questo i profani e gli esperti spesso parlano ma non riescono a capirsi anche su questioni relativamente banali come le superstizioni e la saggezza popolare.
leggende popolari, superstizioni e teorie del complotto
Le leggende popolari e altre superstizioni sono classici esempi di bias di conferma e argomentazioni non falsificabili. Molte superstizioni hanno un fondamento di qualche tipo basato sull’esperienza. Se la decisione di non camminare sotto le scale è una superstizione, per esempio, è altrettanto vero che farlo è pericoloso. Se poi avrete sfortuna per tutta la giornata per aver infastidito un imbianchino è una questione diversa, ma è comunque sciocco passare sotto la sua scaletta.
Le superstizioni si prestano in particolar modo al bias di conferma e sopravvivono perché il buonsenso e il bias di conferma a volte si rafforzano a vicenda. I gatti neri portano davvero sfortuna? I gatti, neri o di altro colore, per loro natura tendono a infilarsi tra i nostri piedi, ma probabilmente ricordiamo solo le volte in cui sono stati quelli neri a farci inciampare. In realtà io vivo con una bella gatta nera di nome Carla e posso confermare che, a volte, è davvero un pericolo quando mi trovo sulle scale. Una persona superstiziosa potrebbe annuire come a una conferma delle proprie certezze; il fatto che Carla sia anche l’unico gatto in casa, ovviamente, non significa nulla, come pure non importa se altri proprietari di gatti siano caduti o meno sopra i loro soriani.
I casi più estremi di bias di conferma non si trovano nelle leggende popolari e nelle superstizioni degli ignoranti, ma nelle teorie del complotto formulate da persone più istruite o intelligenti. A differenza delle superstizioni, che sono semplici, le teorie del complotto sono spaventosamente complicate. Infatti, serve una persona discretamente intelligente per costruire una teoria complottistica davvero interessante, perché in realtà le teorie del complotto sono letture della realtà molto complesse. Sono anche esercizi intellettuali impegnativi sia per coloro che le sostengono sia per chi vorrebbe confutarle. Le superstizioni in genere sono abbastanza semplici da smontare. Qualsiasi statistico può verificare che probabilmente il mio gatto non è né più né meno pericoloso di qualsiasi altro quando ci troviamo sulle scale. In fondo, lo sappiamo comunque, ed è per questo che le superstizioni sono tendenzialmente poco più che innocue abitudini.
Le teorie del complotto, al contrario, sono frustranti proprio perché sono così intricate. Ogni replica o contraddizione produce solo una teoria più complessa. I teorici del complotto manipolano tutte le prove tangibili per adeguarle alla loro spiegazione, ma, quel che è peggio, usano anche l’assenza di prove come conferma ancora più definitiva. Dopotutto, quale segno migliore di un complotto davvero efficace se non la totale mancanza di tracce che il complotto esista? Fatti, assenza di fatti, fatti contraddittori: tutto è una prova. Nulla può mai mettere in crisi la convinzione su cui si basa la teoria.
Queste forme di spiegazioni troppo complicate violano il famoso concetto del “rasoio di Occam”, dal nome del monaco medievale che sosteneva l’idea secondo cui dobbiamo sempre partire dalla spiegazione più semplice di tutto ciò che vediamo. Dobbiamo elaborare spiegazioni più complesse solo se ne abbiamo bisogno. Questo concetto è noto anche con il nome di “principio della parsimonia”, e cioè la spiegazione più probabile è quella che richiede il minor numero di passaggi logici o di supposizioni incerte.
Immaginate, per esempio, di sentire un rumore, seguito da un’imprecazione a voce alta nella camera accanto. Corriamo nella stanza e vediamo un uomo, da solo, che si tiene un piede e saltella di qua e di là con una smorfia sul volto. Ci sono una cassa vuota e bottiglie di birra rotte su tutto il pavimento. Cos’è successo?
La maggior parte di noi giungerà alla conclusione che l’uomo abbia fatto cadere la cassa sul pavimento, si sia ferito il piede e abbia imprecato. Abbiamo sentito lo schianto e abbiamo visto persone ferite che imprecavano. Sappiamo interpretare l’aspetto delle persone quando provano dolore, e quel tipo si è indubbiamente fatto male. Non ci vogliono molte ipotesi per elaborare una spiegazione ragionevole. Potrebbe non essere completa, ma è una prima approssimazione accettabile, a partire dai dati disponibili.
Ma aspettate. Forse l’uomo è un alcolista e sta imprecando perché è arrabbiato per aver lasciato cadere la cassa e così ora non c’è più birra. O forse è un sostenitore della sobrietà e ha fracassato le bottiglie di birra sul pavimento volontariamente, maledicendone la schifosa esistenza. E forse si sta tenendo il piede e sta saltellando in giro per la stanza perché proviene da una cultura poco conosciuta dell’Artico canadese, dove le persone di solito hanno il viso coperto da un parka e pertanto esprimono dolore (o gioia o rabbia) tenendosi i piedi e saltellando. O forse è uno straniero convinto che quelle taglienti parole anglosassoni significhino in realtà: “Aiuto, mi è caduta una cassa di birra sul piede”.
È qui che entra in gioco il principio della parsimonia. Tutte queste possibilità strane e assai improbabili, infatti, potrebbero essere vere, ma sarebbe ridicolo prendere in esame teorie tanto complesse in prima battuta, quando abbiamo una spiegazione molto più diretta e funzionale proprio davanti agli occhi. Non abbiamo idea se l’uomo sia un astemio o un ubriaco, se provenga dal Canada o da Cleveland, né se la sua lingua madre sia o meno l’inglese. E anche se, volendo, possiamo indagare per scoprire se una di queste cose sia vera o no, partire nell’interpretazione dei fatti da una qualunque di queste ipotesi viola sia la logica sia l’esperienza umana.
Se le teorie del complotto sono così complicate e ridicole, perché hanno tutta questa presa sull’immaginazione popolare in molte società? E possiamo esserne certi: sono davvero estremamente popolari, ed è così da secoli. L’America moderna non fa eccezione. Negli anni Settanta, ad esempio, il romanziere Robert Ludlum è stato un maestro nella creazione di complotti di questo tipo con una serie di romanzi molto popolari, tra cui uno che riguardava una cerchia di assassini politici responsabili dell’omicidio del presidente Franklin Delano Roosevelt (ma un attimo: Roosevelt non è stato assassinato. Esatto). Ludlum ha venduto milioni di libri e ha creato il superassassino di fantasia Jason Bourne, protagonista di una serie di film campioni d’incassi nel Ventunesimo secolo. Libri, film e programmi televisivi, da The Manchurian Candidate negli anni Sessanta a The X-Files trent’anni dopo, hanno conquistato milioni di fan.
Nella moderna politica americana, le teorie del complotto abbondano. Il presidente Obama è segretamente musulmano ed è nato in Africa. Il presidente Bush faceva parte della cospirazione che ha portato agli attacchi all’America dell’11 settembre. La regina d’Inghilterra è una trafficante di droga. Il governo degli Stati Uniti sta spruzzando nell’aria sostanze chimiche per il controllo della mente attraverso i tubi di scarico degli aerei a reazione. Gli ebrei controllano tutto (tranne quando a farlo sono i sauditi o le banche svizzere).
Un motivo per cui tutti amiamo un buon conspiracy thriller è che fa appello al nostro senso dell’eroismo. Un individuo coraggioso contro una grande cospirazione, che affronta forze in grado di schiacciare una persona ordinaria, è un tropo vecchio come molte leggende eroiche. La cultura americana, in particolare, è attratta dall’idea del dilettante di talento (in contrasto, per esempio, con gli esperti e le élite) che può sfidare interi governi – o organizzazioni addirittura più grandi – e vincere. James Bond non affrontò la supercospirazione malvagia della Spectre finché lo scrittore britannico Ian Fleming non capì che doveva farlo combattere contro qualcosa di più grande del comunismo, e i suoi romanzi cominciarono a spostarsi sugli schermi hollywoodiani per un pubblico americano.
Un dato ancora più importante e pertinente per la fine della competenza, tuttavia, è che le teorie del complotto esercitano una grande attrattiva per coloro che hanno difficoltà a dare un significato a un mondo complicato e non hanno pazienza per spiegazioni meno spettacolari. Teorie di questo tipo fanno anche appello a una pronunciata vena narcisistica: ci sono persone che preferiscono credere a complicate sciocchezze anziché accettare che la situazione in cui si trovano sia incomprensibile, risultato di problemi al di là della loro capacità intellettuale o perfino di loro colpe personali.
Per alcuni, infine, le teorie del complotto sono un modo per dare contesto e significato a eventi che li spaventano. Altrimenti, in assenza di una spiegazione coerente del perché a persone innocenti accadano cose terribili, dovrebbero accettare che eventi di questo tipo sono soltanto una crudeltà casuale di un universo insensibile o di una divinità incomprensibile. Sono scelte terribili e anche solo pensarvi può scatenare una disperazione esistenziale simile a quella che induce un personaggio del classico ottocentesco I fratelli Karamazov a pronunciare una famosa dichiarazione sulla tragedia: “[…] se le sofferenze dei bambini sono servite a completare quella somma di sofferenze che è stata indispensabile per riscattare la verità, affermo fin da ora che tutta la verità non vale un tale prezzo”.20
L’unico modo per uscire da questo dilemma è immaginare un mondo in cui i nostri problemi siano colpa di potenti che avevano la facoltà di impedire tutta questa desolazione. In un mondo simile, la malattia incurabile di una persona amata non è un evento naturale: è il risultato di una grave azione illecita dell’industria o del governo. Le rivelazioni sul comportamento orribile di una celebrità non sono la prova che qualcuno che abbiamo ammirato è malvagio: sono frutto di un complotto per gettare nel fango una figura amata. Anche la sconfitta della squadra per cui facciamo il tifo potrebbe essere una truffa (“Quel che non voglio è che i [Buffalo] Bills vincano il Super Bowl” diceva il principale cattivo di The X-Files in un episodio del 1996. “Non succederà mai, finché avrò vita.”) Di qualunque cosa si tratti, la colpa è di qualcuno, perché altrimenti non ci resta altro che accusare Dio, il puro caso o noi stessi.
Proprio come gli individui che si trovano ad affrontare dolore e confusione cercano ragioni dove non possono essercene, così intere società gravitano verso teorie stravaganti quando sono sottoposte collettivamente a una terribile esperienza nazionale. Le teorie del complotto e il ragionamento fallace su cui si basano, come ha notato il giornalista canadese Jonathan Kay, diventano particolarmente seducenti “in qualsiasi società che abbia subito un trauma epico, percepito in modo collettivo. Dopo l’evento, milioni di persone si trovano a cercare una risposta all’antica domanda del perché accadono cose brutte a persone buone”.21 Questo è il motivo per cui le teorie del complotto hanno avuto picchi di popolarità dopo la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione d’ottobre, l’assassinio di John F. Kennedy e gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, tra gli altri eventi storici.
Oggi, le teorie del complotto sono soprattutto una reazione al disorientamento economico e sociale provocato dalla globalizzazione, proprio come lo erano state alla fine della guerra e al rapido avvento dell’industrializzazione negli anni Venti e Trenta. Questo non è un ostacolo banale nel problema del coinvolgimento pubblico degli esperti: quasi il 30 per cento degli americani, per esempio, pensa che “un’élite segreta con un programma globalista stia cospirando per dominare il mondo” e il 15 per cento è convinto che i media o il governo utilizzino una tecnologia segreta per “il controllo della mente” attraverso trasmissioni televisive (un altro 15 per cento non è del tutto sicuro del problema legato alla televisione). Quasi la metà di tutti gli intervistati pensa che sia almeno probabile che la principessa Diana sia stata uccisa in un complotto. “A questi ritmi” come giustamente sottolinea Kay “non possiamo più parlare del pensiero complottistico come di un fenomeno marginale, né dire che il suo impatto sulla sfera civica e sui valori culturali sia trascurabile”.
Le teorie del complotto non sono innocue. Nella loro peggiore incarnazione, possono scatenare un panico morale in grado di arrecare danni a persone innocenti. All’inizio degli anni Ottanta, per esempio, negli Stati Uniti imperversò l’isteria quando molti genitori si convinsero che ci fossero sette sataniche dedite a pratiche sessuali negli asili. Finti “esperti” contribuirono ad alimentare il panico, interpretando ogni frase confusa pronunciata da un lattante come una conferma delle violenze più bizzarre. È conclamato che esistano abusi sui minori, ma l’immaginazione americana fu catturata da una teoria grandiosa – che probabilmente rispecchiava più di ogni altra cosa i timori e i sensi di colpa di genitori lavoratori – che creò danni permanenti a molte persone e complicò temporaneamente la possibilità di affrontare meglio un problema fin troppo reale ma di certo molto più contenuto.22
Se è difficile cercare di aggirare il bias di conferma, è impossibile cercare di affrontare una teoria del complotto. Se qualcuno crede che le compagnie petrolifere stiano tentando di far ritirare dalla circolazione una nuova vettura alimentata ad alghe, probabilmente non rimarrà colpito dalla vostra nuova automobile ibrida, che si tratti di una Prius o di una Volt (questi sono i modelli di automobile efficiente che i baroni dell’industria vi permettono di avere). Le persone convinte che nell’Area 51 siano conservati corpi di alieni non cambieranno idea dopo aver fatto visita alla base (sapete, le ricerche sugli alieni sono condotte in un laboratorio sotterraneo).
Dibattere a lungo con un teorico del complotto non è soltanto inutile, ma a volte è pericoloso, e non lo raccomando. È un tapis roulant di sciocchezze che possono logorare anche l’insegnante più tenace. Tali teorie sono il baluardo estremo contro le competenze, perché ovviamente ogni esperto che contraddice la teoria è automaticamente complice della cospirazione. Nelle parole del giornalista Jef Rouner:
Occorre ricordare che il tipo di persona che crede alle teorie del complotto già teme che ci siano vaste e potenti forze maligne alleate contro i settori dell’esistenza a cui tiene di più. Ogni negazione della minaccia ne aumenta il potere in virtù della sua possibilità di operare inosservata.23
In una conversazione questo è un punto in cui nessuno vorrebbe trovarsi.
Fortunatamente, questi casi di irrazionalità su larga scala sono abbastanza sporadici. La più prosaica e diffusa riluttanza ad accettare i pareri degli esperti, tuttavia, è radicata nello stesso tipo di sospetto populista nei confronti di coloro che sono percepiti come più intelligenti o più istruiti della popolazione comune. Il danno potrebbe essere meno plateale, ma è nondimeno tangibile, e talvolta ha un costo piuttosto alto.
stereotipi e generalizzazioni
“Non puoi generalizzare in questo modo!” Questa è una delle poche espressioni che, possiamo esserne certi, vengono pronunciate in una discussione anche lievemente controversa. Le persone oppongono resistenza alle generalizzazioni – i ragazzi tendono a essere così, le ragazze tendono a essere colà – perché tutti vogliamo credere di essere unici e che non è facile etichettarci.
Quello che la maggior parte delle persone intende quando si oppone alle “generalizzazioni” non è che non dobbiamo generalizzare, ma che non dobbiamo usare degli stereotipi, che è un problema diverso. Il problema nel discorso informale è che spesso la gente non capisce la differenza tra stereotipi e generalizzazioni, e ciò rende la conversazione, in particolare tra esperti e profani, ardua e faticosa (mi rendo conto, naturalmente, che sto generalizzando un po’. Ma sopportatemi).
La differenza conta. L’uso degli stereotipi è una brutta abitudine sociale, ma la generalizzazione è alla radice di ogni forma di scienza. Le generalizzazioni sono dichiarazioni probabilistiche, basate su fatti osservabili. Non sono, tuttavia, di per sé delle spiegazioni (altra differenza importante con gli stereotipi). Sono misurabili e verificabili. Talvolta le generalizzazioni possono portarci a ipotizzare rapporti di causa ed effetto, e in alcuni casi potremmo anche osservare abbastanza da formulare una teoria o una legge che in circostanze costanti è sempre vera.
È una generalizzazione, per esempio, dire che “i cinesi di solito sono più bassi degli americani”. Può o non può essere vero. Le persone che scambiano questa affermazione per uno stereotipo si affrettano immediatamente a trovare eccezioni, e la discussione si affossa rapidamente: “Penso che i cinesi tendano a essere più bassi degli americani”. “Non puoi generalizzare in questo modo! Il giocatore di basket Yao Ming, che è nato in Cina, è alto due metri e ventinove!”
L’esistenza di un giocatore di basket cinese insolitamente alto non prova niente. Possiamo dare una risposta risolutiva a questa domanda soltanto andando negli Stati Uniti e in Cina, misurando le persone, e vedendo con quale frequenza la nostra supposizione è vera. Se è vero che i cittadini cinesi in generale sono più bassi degli americani, abbiamo soltanto notato qualcosa che è vero in modo riscontrabile un numero di volte sufficiente per poter affermare che questa è una regola generale, seppur non infallibile.
Il duro lavoro della spiegazione arriva dopo la generalizzazione. Perché gli americani sono più alti dei cinesi? È un tratto genetico? È il risultato di una dieta differente? Sono in azione fattori ambientali? Da qualche parte esistono risposte a queste domande, ma quali che siano non è comunque sbagliato dire che gli americani tendono a essere più alti dei cinesi, non importa quante eccezioni capaci di realizzare una schiacciata a canestro possiamo trovare.
Dire che tutti i cinesi sono bassi, però, vuol dire ricorrere a uno stereotipo. L’elemento chiave di uno stereotipo è di essere impermeabile ai riscontri fattuali. Uno stereotipo non tollera fastidiose interferenze con la realtà e si basa su un utilizzo intelligente del bias di conferma per respingere tutte le eccezioni come irrilevanti (i razzisti sono degli specialisti di questa modalità di argomentazione: “Tutti i romeni sono ladri tranne questa donna con cui lavoro, ma lei è diversa”). Gli stereotipi non sono previsioni, bensì conclusioni. Ecco perché parliamo di “pregiudizi”: si basano su un giudizio preventivo.
Il groviglio si crea quando facciamo generalizzazioni negative o basate su criteri di valutazione discutibili. Nessuno può veramente confutare una generalizzazione che riguarda l’altezza: è qualcosa di facilmente misurabile, con metodi accettati da tutti noi; né attribuiamo all’altezza alcun tipo di qualità morale o politica. “Siete alto, eh?” dice una femme fatale al detective letterario Phillip Marlowe nel romanzo del 1939 Il grande sonno. “Non è colpa mia” risponde Marlowe.24 È una battuta arguta, proprio perché sappiamo che essere bassi o alti non è qualcosa che controlliamo o per cui dobbiamo scusarci.
Le generalizzazioni negative, però, ci fanno rizzare i peli, specialmente quando si basano su definizioni discutibili. Dire che “i russi sono più corrotti dei norvegesi”, per esempio, è vero solo se adottiamo una definizione condivisa di “corrotti”. Secondo le definizioni occidentali, la Russia è afflitta dalla corruzione, ma è un’obiezione del tutto ragionevole anche sottolineare che quella che è considerata “corruzione” in una cultura equivale a semplici “favori” in un’altra. Questo è il motivo per cui bisogna formulare le generalizzazioni con la massima attenzione se devono fungere da base per ricerche future. C’è una netta differenza tra l’affermazione “i russi che ricoprono posizioni ufficiali sono più disposti a infrangere le regole stabilite nella gestione degli affari di governo rispetto ai norvegesi che rivestono ruoli analoghi” e quella più ampia secondo cui “i russi sono più corrotti dei norvegesi”.
Se applichiamo questi filtri più stretti, otteniamo una dichiarazione molto meno provocatoria e basata su parametri misurabili. Di nuovo, però, non abbiamo idea del perché ciò sia generalmente vero. Sappiamo solo che se applichiamo in modo uniforme gli stessi criteri – ovvero se osserviamo gli stessi funzionari russi e norvegesi alle prese con le stesse transazioni per un numero sufficiente di volte –, possiamo stabilire qualcosa che è vero più spesso di quanto non sia falso. Forse le leggi russe sono obsolete e impossibili da rispettare anche per i burocrati più onesti (è un po’ una forzatura, ma contiene un elemento di verità, ed è un argomento addotto molto spesso dagli stessi russi). È a questo punto che entrano in gioco ricerche ulteriori: per stabilire il perché dopo aver confermato il cosa.
Naturalmente, nel dibattito quotidiano, nulla di tutto ciò ha molta importanza. Queste affermazioni potranno essere vere in un determinato ambito ristretto e definibile, ma chi vuole stare a sentire frasi che, se proposte senza contesto, suonano solo come asserzioni provocatorie? Le conversazioni tra profani o tra profani ed esperti possono diventare difficili perché coinvolgono le emozioni umane, soprattutto se riguardano cose che sono vere in generale ma potrebbero non essere applicabili a un caso o a una circostanza specifici.
Ecco perché una delle caratteristiche più importanti di un esperto è la capacità di rimanere obiettivo, anche sulle questioni più controverse. Gli esperti devono trattare tutto, dal cancro alla guerra nucleare, come un problema da risolvere con distacco e obiettività. La loro distanza dalla materia assicura che il dibattito resti aperto e che vengano prese in considerazione le alternative, in modo da annullare le tentazioni emotive, tra cui la paura, che causano pregiudizi. È un’impresa ardua, ma se così non fosse la conversazione non sarebbe solo ardua ma a volte anche esplosiva.
io sto bene, tu stai bene – cioè, quasi
Ci sono anche altre realtà sociali e psicologiche che ostacolano la nostra capacità di scambiarci informazioni. Anche se soffriamo, per esempio, di bias di conferma o della mano pesante di un effetto Dunning-Kruger, non ci piace comunque dire a persone che conosciamo o di cui ci importa che stanno sbagliando (almeno non dritto in faccia). Analogamente, per quanto ci piaccia la sensazione naturale di avere ragione su qualcosa, a volte siamo riluttanti a difendere la nostra effettiva competenza. E in generale abbiamo difficoltà a separare le informazioni, errate o meno, alla base delle nostre convinzioni politiche e sociali dall’immagine e dalle idee che abbiamo di noi stessi.
Nel 2014, per esempio, uno studio internazionale è giunto a una conclusione sorprendente: le persone fanno di tutto per ascoltarsi l’un l’altra in modo imparziale e soppesare tutti i pareri secondo lo stesso metro, anche quando i soggetti coinvolti nella conversazione sanno che esistono notevoli differenze di competenza tra di loro. Gli autori dello studio (tra cui figurano persone provenienti da Cina, Iran e Danimarca) suggeriscono che si tratta di un “bias di uguaglianza”, basato sul bisogno umano di far parte di un gruppo. I ricercatori hanno scoperto che quando due persone sono coinvolte in ripetute discussioni e processi decisionali – la creazione di un legame tra i partecipanti era una parte fondamentale dello studio – quelle meno capaci sostengono le proprie opinioni più di quanto ci si possa aspettare e il membro più competente si rimette ai loro punti di vista anche quando sono manifestamente sbagliati.25
In un primo momento, sembrerebbe solo una manifestazione di buone maniere e un desiderio di accettazione. Ogni parte vuole mantenere la sua importanza agli occhi dell’altra, anziché rischiare di rovinare il rapporto: la persona meno competente vuole essere rispettata e coinvolta, non essere considerata disinformata e colta in errore; la persona più competente, nel frattempo, non vuole alienarsi le simpatie di nessuno facendo la parte di chi ha sempre ragione.
Può andar bene se si tratta di passare un pomeriggio piacevole, ma è un pessimo modo di prendere decisioni. Come ha osservato Chris Mooney, giornalista scientifico del Washington Post, questa dinamica sociale potrà forse oliare gli ingranaggi dei rapporti umani, ma può arrecare danni reali in situazioni in cui a contare sono i fatti. La ricerca, proseguiva, sottolineava “che dobbiamo mostrare un maggior riconoscimento agli esperti, rispettarli e ascoltarli. Però mostra anche come la nostra evoluzione in gruppi sociali ci lega insieme con grande forza e ci impone norme collettive, ma può evolvere in modo incontrollato quando si tratta di riconoscere e accettare verità scomode”.26
Perché le persone non riescono semplicemente ad accettare queste differenze di conoscenza o competenza? È una domanda irragionevole, perché equivale a chiedere “perché non accettano semplicemente che altre persone siano più intelligenti di loro?” (oppure, viceversa, “perché le persone intelligenti non spiegano perché gli altri sono più ottusi di loro?”). La verità è che l’insicurezza sociale fa inciampare sia l’intelligente sia l’ottuso. Tutti vogliamo piacere agli altri.
In modo analogo, pochi vogliono ammettere di non riuscire a seguire una conversazione, soprattutto ora che c’è tanta abbondanza di informazioni facilmente accessibili. La pressione sociale ha sempre tentato anche persone intelligenti e ben informate, spingendole a fingere di saperne più di quanto non sia in realtà, ma questo impulso è ingigantito nell’età dell’informazione. Il romanziere e giornalista Karl Taro Greenfeld ha descritto questo tipo di ansia riflettendo sul perché la gente cerchi di “fingere di avere un’alfabetizzazione culturale”:
Ormai tutti avvertiamo una costante pressione a sapere abbastanza, in ogni momento, per paura di essere additati come analfabeti culturali. Per poter sopravvivere a un elevator pitch, a una riunione d’affari, a un’incursione nel cucinino dell’ufficio, a un cocktail party; per poter postare, twittare, chattare, commentare, mandare messaggi come se avessimo visto, letto, guardato, ascoltato. Ciò che conta per noi, immersi in petabyte di dati, non è necessariamente aver davvero consumato questi contenuti in prima persona ma semplicemente sapere che esistono, e avere una posizione in proposito, essere in grado di intervenire nel chiacchiericcio che li riguarda. Ci avviciniamo pericolosamente a inscenare una parodia di preparazione che in realtà è un nuovo modello di ignoranza.27
La gente scorre i titoli o gli articoli e li condivide sui social media, ma non li legge. Tuttavia, poiché le persone vogliono che gli altri le percepiscano come intelligenti e ben informate, fingono come meglio possono.
Come se tutto questo non costituisse una sfida sufficiente, l’aggiunta della politica rende le cose ancora più complicate. Le convinzioni politiche di profani ed esperti agiscono in modo molto simile al bias di conferma. La differenza è che le convinzioni sulla politica e su altre questioni soggettive sono più difficili da mettere in discussione, perché le nostre opinioni politiche sono profondamente radicate nell’immagine che abbiamo di noi stessi e nelle idee che ci sono più care su che tipo di persone siamo.
Come ha sottolineato Konnikova esaminando il caso dello studio fraudolento sui matrimoni tra omosessuali, è più probabile che il bias di conferma produca “convinzioni persistentemente false” quando deriva “da problemi strettamente legati alla concezione che abbiamo di noi stessi”. Questi sono i punti di vista che non ammettono repliche e che spesso difendiamo oltre ogni ragione, come ha osservato Dunning:
Alcune delle convinzioni errate a cui ci aggrappiamo più ostinatamente non derivano da intuizioni infantili e primitive o da incauti errori categoriali, ma dai valori e dalle filosofie stesse che definiscono chi siamo in quanto individui. Ciascuno di noi possiede alcune convinzioni fondamentali: narrazioni di sé, idee sull’ordine sociale, ecc. Essenzialmente sono idee che non possono essere trasgredite: contraddirle metterebbe in discussione la nostra autostima. Perciò, queste opinioni richiedono che le altre opinioni giurino loro lealtà.
In altre parole, ciò in cui crediamo dice qualcosa di importante su come ci vediamo in quanto persone. Possiamo accettare di non sapere il nome del tipo di uccello che abbiamo appena visto in cortile o della prima persona ad aver circumnavigato il globo, ma non possiamo tollerare di sbagliare rispetto ai concetti e ai fatti su cui ci basiamo per governare le nostre esistenze.
Prendete per esempio una discussione piuttosto comune nelle famiglie americane: le cause della disoccupazione. Sollevate il problema della disoccupazione con quasi tutti i gruppi di profani e vi troverete di fronte problemi intellettuali di ogni tipo possibile e immaginabile. Stereotipi, bias di conferma, mezze verità e incompetenza statistica saranno tutti lì a infestare il dibattito.
Prendiamo in considerazione una persona che sostiene fermamente, al pari di molti americani, la posizione secondo cui i disoccupati sono semplicemente pigri e che i sussidi di disoccupazione potrebbero perfino incoraggiare la loro pigrizia. Come molti altri esempi di bias di conferma, questo potrebbe nascere dall’esperienza personale. Forse scaturisce da una vita di lavoro continuativo o dal fatto di conoscere qualcuno che è davvero allergico al lavoro. Ogni cartello CERCASI PERSONALE – che il bias di conferma noterà e terrà a mente – è un’ulteriore prova della pigrizia dei disoccupati. Una pagina di annunci di lavoro o un nipote cronicamente irresponsabile costituiscono prove irrefutabili che la disoccupazione è un fallimento personale e non un problema che richiede l’intervento del governo.
Ora immaginate un’altra persona seduta allo stesso tavolo, convinta che la natura stessa dell’economia americana costringa i cittadini alla disoccupazione. Forse anche questa persona si basa sull’esperienza personale: potrebbe conoscere qualcuno che si è trasferito per seguire una startup ed è finito al verde e lontano da casa, o che è stato ingiustamente licenziato da un direttore corrotto o incompetente. Ogni taglio di personale, ogni capo razzista o sessista e ogni impresa fallita sono la prova che il sistema congiura contro persone innocenti che non preferirebbero mai la disoccupazione al lavoro. I sussidi per la disoccupazione, piuttosto che sovvenzionare l’indolenza, sono un’ancora di salvezza, forse l’unico aiuto che si frappone fra una persona onesta e la completa rovina.
Si può discutere, ovviamente, del grado di verità di queste convinzioni, ma non saranno certo queste due persone – in effetti ritratte qui come caricature per i nostri scopi – a farlo. È indubbio che i sussidi per la disoccupazione eliminano l’urgenza di lavorare almeno per alcune persone; è anche innegabile che alcune aziende hanno una storia di spietatezza a scapito dei lavoratori, la cui dipendenza dai sussidi è riluttante e temporanea. Questa conversazione può andare avanti all’infinito, perché sia il Gran lavoratore da un lato sia il Cuore tenero dall’altro possono citare aneddoti, attentamente vagliati dal loro bias di conferma, che sono sempre veri ma in nessun modo risolutivi.
Non c’è modo di vincere un simile dibattito, perché alla fine non ci sono risposte che soddisfino tutti. I profani vogliono una risposta definitiva dagli esperti, ma non è possibile averla perché non ce n’è una sola, ma molte, a seconda delle circostanze. In che caso i sussidi incoraggiano la pigrizia? Con quale frequenza le persone perdono il lavoro contro la propria volontà e per quanto tempo? Sono sfumature in un problema vasto, e laddove è coinvolta la nostra immagine le sfumature non aiutano. Incapace di vedere il proprio bias, la maggior parte delle persone fa impazzire il suo interlocutore litigando, anziché accettare risposte in contraddizione con quello che già pensa su un determinato argomento. Lo psicologo sociale Jonathan Haidt ha riassunto in maniera accurata questo processo osservando che, quando i fatti confliggono con le nostre convinzioni, “quasi tutti trovano un modo per attenersi ai propri valori e rifiutare le prove”.28
In realtà questa tendenza è talmente forte che un gran numero di persone, indipendentemente dall’affiliazione politica, spara al messaggero anziché ascoltare qualcosa che non gradisce. Uno studio del 2015, per esempio, ha testato le reazioni di liberal e conservatori di fronte ad alcune tipologie di notizie e ha scoperto che “i conservatori non tengono in alcuna considerazione le teorie scientifiche che contrastano con la loro visione del mondo, e i liberal fanno esattamente la stessa cosa”.29 In modo ancora più inquietante, lo studio ha rilevato che di fronte a una ricerca scientifica che metteva in discussione le loro opinioni, sia i liberal sia i conservatori reagivano dubitando della scienza, piuttosto che di sé stessi. “Già soltanto leggere di questi argomenti polarizzatori” osservava uno degli autori “ha un effetto negativo sul rapporto tra le persone e la scienza”.
Ecco perché, come vedremo più avanti nel libro, l’unico modo per risolvere questi dibattiti sulle scelte politiche è spostarli dal campo della ricerca all’arena della politica e della scelta democratica. Se la democrazia significa qualcosa, allora gli esperti e i profani devono risolvere insieme problemi complessi. In primo luogo, però, devono colmare il divario che li separa e che sta diventando sempre più grande. Aumentare il livello di istruzione sembrerebbe la soluzione più evidente, ma nel prossimo capitolo vedremo che l’istruzione, almeno a livello universitario, è ormai parte integrante del problema.
12. Cfr. D. Dunning, “We Are All Confident Idiots”, Pacific Standard online, 27 ottobre 2014.
13. D. Dunning e J. Kruger, “Unskilled and Unaware of It: How Difficulties in Recognizing One’s Own Incompetence Lead to Inflated Self-Assessments”, Journal of Personality and Social Psychology, n. 77, a. 6, dicembre 1999, pp. 1121-1122.
14. Dunning, “We Are All Confident Idiots”, cit.
15. J. Allen Paulos, Gli snumerati. Impariamo a far di conto per fare i conti con il mondo, Leonardo Editore, Milano, 1989, p. 13.
16. M. Crichton, “Panic in the Sheets”, Playboy, dicembre 1991; consultabile su MichaelCrichton.com.
17. Esiste un’intera materia della statistica che si chiama “analisi Bayesiana”, dal nome del matematico inglese del Settecento Thomas Bayes, che affronta questa questione.
18. I sociologi, non meno di altre categorie, sono consapevoli di questo problema. Cfr. C.O. Jones, “Doing before Knowing: Concept Development in Political Research”, American Journal of Political Science, n. 18, a. 1, febbraio 1974.
19. M. Konnikova, “How a Gay-Marriage Study Went Wrong”, The New Yorker online, 22 maggio 2015.
20. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Feltrinelli, Milano, 2014.
21. J. Kay, “Has Internet-Fueled Conspiracy Mongering Crested?”, in Bauerline e Bellows (a cura di), The State of the American Mind, cit., pp. 138-139.
22. In effetti, lo studioso Ross E. Cheit ha sostenuto che i casi mal gestiti negli anni Ottanta e Novanta si sono tragicamente ritorti contro, poiché il pendolo dell’opinione pubblica è passato dal credere sempre ai bambini piccoli a un estremo scetticismo nei confronti di qualsiasi accusa di abuso. Tuttavia l’elemento satanico faceva parte di un’isteria collettiva, e ricerche successive da parte di accademici e forze dell’ordine non hanno trovato prove di simili reti negli asili nido o altrove. Cfr. R.E. Cheit, The Witch Hunt Narrative, Oxford University Press, New York, 2014.
23. J. Rouner, “Guide to Arguing with a Snopes-Denier”, Houston Press, 2 aprile 2014.
24. R. Chandler, Il grande sonno, in Tutto Marlowe investigatore, Mondadori, Milano, 1970, vol. I, p. 62.
25. A. Mahmoudi et al., “Equality Bias Impairs Collective Decision-Making across Cultures”, Atti del National Academy of Sciences, 24 marzo 2015.
26. C. Mooney, “The Science of Protecting People’s Feelings: Why We Pretend All Opinions Are Equale”, The Washington Post online, 10 marzo 2015.
27. K. Taro Greenfield, “Faking Cultural Literacy”, The New York Times online, 24 maggio 2014.
28. Cit. in Chris Mooney, “Liberals Deny Science, Too”, The Washington Post online, 28 ottobre 2014.
29. L’unica differenza era che i conservatori hanno reagito in modo più intenso ai dati che contraddicevano le loro convinzioni, ma i ricercatori sostengono che ciò sia dovuto al fatto che “le questioni che mettono in crisi i conservatori sono le questioni che attualmente dividono di più la società”. Gli autori hanno fatto questi commenti e quelli che seguono in un comunicato stampa della Ohio State University intitolato “Both Liberals, Conservatives Can Have Science Bias”, 9 febbraio 2015.
capitolo 3
Istruzione superiore
Il cliente ha sempre ragione
Quelle persone che la natura ha dotato di genio e virtù
dovrebbero essere degne, grazie a un’istruzione liberale,
di custodire il sacro deposito dei diritti e delle libertà
dei propri concittadini.
Thomas Jefferson
Signor Braddock: Ti dispiacerebbe dirmi a cosa sono serviti quei
quattro anni di college? Qual è stato lo scopo di tanto duro lavoro?
Benjamin: Hai avuto me.
Il laureato
quei magici sette anni
L’istruzione superiore dovrebbe curarci dall’errata convinzione che tutti sono intelligenti allo stesso modo. Purtroppo, nel Ventunesimo secolo, la diffusione della frequenza universitaria ha avuto proprio l’effetto opposto: le schiere di persone che sono state in un’università o nei pressi si considerano alla pari, in fatto di istruzione, perfino con gli accademici e studiosi più esperti. Il tempo trascorso all’università non è più dedicato all’apprendimento e alla maturazione personale; invece, l’assalto ai college dei giovani americani e la conseguente concorrenza che gli atenei si sono fatti per accaparrarsi i dollari delle loro rette hanno prodotto un’esperienza orientata al consumatore, in cui gli studenti imparano, soprattutto, che il cliente ha sempre ragione.
Prima della Seconda guerra mondiale, la maggior parte delle persone non finiva la scuola superiore e pochi andavano al college. A quei tempi, l’ammissione alle scuole migliori era appannaggio di famiglie privilegiate, anche se talvolta giovani uomini e pochissime donne riuscivano a mettere assieme i soldi per la retta o vincevano una borsa di studio. Era un’esperienza esclusiva, spesso governata tanto dalla classe sociale quanto dal merito. Tuttavia, frequentare l’università era indicazione di un potenziale, e la laurea un segno distintivo di successo. Un diploma universitario era raro, uno degli indicatori che separava esperti e conoscitori dal resto della società.
Oggi la frequenza di istituti d’istruzione post-secondaria è un’esperienza di massa. A causa della maggiore accessibilità dell’istruzione superiore, la parola “college” sta perdendo significato, almeno come elemento che distingue le persone istruite da tutti gli altri. “Laureato” oggi significa molte cose. Purtroppo, “individuo dai comprovati risultati accademici” non sempre è tra queste.
Attaccare università e college è una tradizione americana, come pure prendersela con il corpo docenti e con chi, come me, ne fa parte. Gli stereotipi abbondano, come quello sul professore troppo rigido (o radicale o distaccato) di fronte a un gruppo di ragazzini annoiati che sono venuti al campus per ogni tipo di attività all’infuori dell’istruzione. Un tempo le persone anziane si rivolgevano ai giovani con l’appellativo “studentelli”, con l’evidente sottinteso che l’istruzione non poteva sostituire la maturità o la saggezza.
Ma questo libro non parla del motivo per cui le scuole sono andate in malora. Non ho abbastanza pagine per soffermarmi su questo aspetto. Piuttosto, parla del motivo per cui sempre meno persone rispettano la cultura e la competenza, e questo capitolo, a sua volta, riguarda il modo in cui i college e le università, paradossalmente, sono diventati parte integrante del problema.
Lo dico pur rimanendo un difensore del sistema universitario americano, anche delle tanto calunniate arti liberali. Personalmente sono uno di quelli che hanno tratto beneficio dall’accesso allargato all’istruzione superiore che si è verificato nel Ventesimo secolo e dalla mobilità sociale che ha prodotto. Il record di queste istituzioni è indiscutibile: le università degli Stati Uniti sono ancora le principali centrali intellettuali del mondo. Continuo ad avere fiducia nel fatto che gli istituti accademici americani producano conoscenze e cittadini competenti.
Tuttavia, il punto è che molti di questi istituti superiori americani non riescono a fornire ai loro studenti le conoscenze e le capacità di base che creano competenza. Elemento ancor più importante, non riescono a dar loro la capacità necessaria per riconoscere la competenza e per dialogare in modo produttivo con esperti e altri professionisti nella vita quotidiana. La più importante di queste abilità intellettuali, nonché quella più presa di mira nelle università americane, è il pensiero critico: la capacità di esaminare nuove informazioni e idee concorrenti in modo spassionato, logico e senza preconcetti emotivi o personali.
Questo perché la frequenza di istituti superiori non garantisce più un’“istruzione universitaria”. Al contrario, ormai i college e le università propongono l’esperienza di “andare all’università” come un pacchetto completo. Le due esperienze non sono neanche lontanamente la stessa cosa, e ora gli studenti si laureano credendo di sapere molto di più di quanto effettivamente non sappiano. Oggi, quando un esperto dice “be’, sono andato all’università”, è difficile biasimare qualcuno che risponde: “Chi non c’è andato?”. Oggi gli americani con un diploma universitario si ritengono “istruiti”, quando in realtà la maggior parte di loro potrebbe dire, al massimo, di aver continuato a frequentare aule scolastiche dopo il liceo, con risultati estremamente diversificati.
L’afflusso di studenti negli istituti post-secondari americani ha determinato una crescente mercificazione dell’istruzione. Oggi, in gran parte delle scuole, i ragazzi sono tratti come clienti anziché come studenti. I più giovani, appena usciti dalla scuola superiore, vengono assecondati sia materialmente sia intellettualmente, in contesti che finiscono per rafforzare alcune delle loro peggiori tendenze, quando non hanno ancora imparato l’autodisciplina, in passato essenziale per l’istruzione superiore. I college ormai sono lanciati sul mercato come pacchetti vacanza pluriennali, piuttosto che come un contratto stipulato con un’istituzione e il suo corpo docenti per un corso didattico. Questa trasformazione in merce dell’esperienza universitaria non sta solo distruggendo il valore dei diplomi di laurea agli occhi degli americani comuni, ma sta anche minando la loro convinzione che il college abbia la benché minima importanza.
Questo è un problema più profondo rispetto alle solite trovate, mode e scemenze intellettuali sui campus che di volta in volta catturano l’immaginazione pubblica. Nella vita di un campus ci sarà sempre una certa quantità di stupidità. In qualità di professore della Tufts University, Dan Drezner ha scritto: “Uno degli scopi del college è articolare dibattiti stupidi in modi stupidi e poi imparare, attraverso le interazioni con gli altri studenti e con i professori, proprio quanto siano stupidi”.30 La vita collettiva, specialmente nei college più esclusivi, è isolata dal resto della società, e quando i giovani e gli intellettuali sono separati dal mondo reale possono accadere strane cose.
Alcune di queste sono solo sciocchezze molte costose, ma di per sé innocue. I genitori degli studenti della Brown University, per esempio, sborsano ingenti somme affinché i loro figli possano partecipare ad attività come la “Settimana della nudità del campus” (una partecipante della Brown ha dichiarato nel 2013 che “i commenti negativi” sull’evento l’hanno “aiutata a preparar[si] per la vita dopo l’università”. La speranza è l’ultima a morire). In fin dei conti, però, non mi preoccupano affatto gli studenti nudi che si aggirano incontrollati per le strade di Providence. Al contrario, i miei timori sulle università e su come abbiano accelerato la fine della competenza dipendono più da quello che succede – o non succede – in aula.
Nel migliore dei casi, l’università dovrebbe mirare a dare ai suoi laureati una formazione soddisfacente in una materia, la volontà di continuare ad apprendere per il resto della loro vita e la capacità di assumere il proprio ruolo di cittadini capaci nella società. Invece per molti l’università è diventata, nelle parole di un laureato di un istituto californiano noto per la sua dissolutezza, “quei magici sette anni tra la scuola superiore e il tuo primo impiego da magazziniere”. Il college non è più un passaggio alla cultura della maturità ma solo una tattica per ritardare l’inizio dell’età adulta; in alcuni casi, ciò vale tanto per il corpo docenti quanto per gli studenti.
Una parte del problema è che ci sono troppi studenti e per molti di loro l’università non è il posto giusto. Secondo la nuova cultura dell’istruzione negli Stati Uniti, tutti sono in grado di andare al college e devono farlo. Questo cambiamento culturale è centrale per la fine della competenza, dal momento che con la proliferazione di corsi per soddisfare la domanda le scuole diventano diplomifici i cui titoli sono in realtà più indicativi di un livello di apprendistato che di istruzione, due concetti profondamente diversi che si confondono sempre più nell’immaginario collettivo. Nei casi peggiori, i titoli non confermano né il livello di istruzione né quello di formazione, bensì la partecipazione. Ridotti ai minimi termini, attestano solo il puntuale pagamento della retta.
Questa è una di quelle cose che i professori, per buona educazione, non dovrebbero dire, ma è la verità. Giovani che avrebbero potuto fare di meglio in un mestiere si iscrivono a un college senza stare troppo a pensare a come laurearsi o a cosa faranno quando sarà tutto finito. Quattro anni si trasformano in cinque, e sempre più spesso in sei o più. Un corso di studi limitato si trasforma in incursioni ripetute in un costoso buffet educativo perlopiù imbandito con l’equivalente intellettuale del cibo spazzatura e una scarsa supervisione degli adulti a garantire che gli studenti scelgano un’alimentazione sana anziché rovinarsi lo stomaco.
Le università e i college più competitivi ed esclusivi hanno meno preoccupazioni a questo proposito, visto che possono filtrare, scegliere i candidati come desiderano e riempire le loro future classi con studenti generalmente eccellenti. I loro allievi ricevono un’istruzione completa o quasi e poi di solito si dedicano a un’occupazione redditizia. Altri istituti, tuttavia, finiscono per competere in una gara al ribasso. Tutti questi ragazzi, del resto, devono pur andare a scuola da qualche parte e quindi quegli istituti altrimenti indistinguibili per qualità intellettuale competono per offrire una pizza migliore a mensa, letti più soffici nei dormitori e altre attività collaterali, parallele alla noiosa routine delle lezioni in classe.
Non solo ci sono troppi studenti, ci sono anche troppi professori. Le migliori università nazionali, sede tradizionale delle facoltà, sfornano dottorandi in modo promiscuo e a un ritmo molto più elevato di quanto qualsiasi mercato del lavoro accademico possa assorbire. Gli istituti più piccoli che non hanno titolo per offrire diplomi di maggiore prestigio – e molti dei quali a malapena si qualificherebbero come buone scuole anche al livello pre-universitario – offrono dottorati di qualità talmente bassa che neanche loro assumerebbero mai i propri laureati. Un mucchio di dottori di ricerca disoccupati, che presentano dissertazioni mediocri su un impressionante numero di argomenti astrusi, vagano nel panorama accademico disposti a insegnare pur di non morire di fame.
Anche il termine “professore” è stato snaturato da un uso eccessivo. Una volta era un titolo raro, mentre ora gli istituti universitari americani lo utilizzano a piacimento. Chiunque insegni qualcosa al di sopra del livello di una scuola superiore è ora un professore, dal capo di un dipartimento di eccellenza di una grande università di ricerca a un istruttore part time in un college di provincia. E proprio come ogni insegnante è ora un “professore”, così anche ogni piccolo college è ora un’“università”, un fenomeno che ha raggiunto proporzioni ridicole. Le minuscole scuole locali che una volta offrivano un servizio ai residenti di un’area geografica sono riemerse come “università”, come se ora avessero un acceleratore di particelle dietro la caffetteria.
L’ascesa di queste false università è in un certo senso una risposta all’insaziabile richiesta di diplomi di laurea in un contesto culturale in cui tutti pensano di dover andare al college. Questo, a sua volta, ha creato una spirale distruttiva che ha fatto gonfiare le qualifiche. Le scuole e i college hanno creato questa inflazione di diplomi allo stesso modo in cui i governi provocano l’inflazione monetaria: stampando più moneta. Un tempo il requisito necessario per accedere a un mestiere o iniziare una professione era il diploma di scuola superiore. Ma ormai tutti ne possiedono uno, comprese persone che non sono neanche in grado di leggere. Di conseguenza, i college servono a verificare il completamento della scuola superiore, e quindi ora un master risponde a un prerequisito che una volta era assolto dal diploma di laurea. Gli studenti finiscono sul lastrico per restare in corsa nella ruota educativa come dei bravi criceti, senza per questo apprendere chissà poi quanto.31
Trovare una soluzione a questo stato di cose è cruciale per il futuro dell’istruzione americana. Nel 2016, il candidato alla presidenza del Partito democratico, il senatore Bernie Sanders, ha dichiarato che oggi un diploma universitario è l’equivalente di un diploma di scuola superiore di cinquant’anni fa (e che quindi tutti dovrebbero andare al college, proprio come tutti ora frequentano la scuola superiore). In realtà, il fatto che i college siano trattati come scuole superiori correttive è uno dei principali motivi per cui ci troviamo in questa situazione. Il punto centrale però è che, a furia di accumulare troppi “studenti”, troppi “professori”, troppe “università” e troppi diplomi universitari, frequentare un istituto universitario non è più una garanzia che la gente sappia di cosa sta parlando.
I fallimenti dell’università moderna alimentano gli attacchi alla conoscenza che quelle stesse istituzioni hanno creato e insegnato alle generazioni future grazie a un lavoro di secoli. La disciplina e la maturazione intellettuale sono state messe da parte. La trasmissione di importanti conoscenze culturali (che comprendono di tutto, da come costruire un’argomentazione logica al DNA, fino alle basi della cultura americana) non è più la missione dell’università, ormai ridotta a un servizio clienti.
benvenuti, clienti!
Il college dovrebbe essere un’esperienza scomoda. È il luogo in cui una persona si lascia alle spalle l’apprendimento dell’infanzia, basato sulla memorizzazione e la ripetizione, e accetta l’ansia, il disagio e la sfida della complessità che conduce all’acquisizione di una conoscenza più profonda, che dovrebbe durare per tutta la vita. Un diploma universitario, che sia in fisica o in filosofia, dovrebbe essere l’indicatore che una persona è veramente “istruita”, che non solo ha padronanza di un determinato argomento, ma possiede anche una comprensione più ampia della propria cultura e della propria storia. Non dovrebbe affatto essere un percorso facile.
Ma non è più questo il modo in cui è vista l’università nell’America moderna, sia da chi fornisce sia da chi consuma l’istruzione superiore. Il college, in quanto esperienza incentrata sul cliente, tende a soddisfare gli adolescenti invece di scortarli fuori dall’adolescenza. Anziché liberare gli studenti dal loro solipsismo intellettuale, l’università moderna finisce per rafforzarlo. Gli allievi possono lasciare il campus senza accettare di aver conosciuto qualcuno più intelligente di loro, sia tra i propri coetanei sia tra gli insegnanti (e quest’affermazione già presuppone che si preoccupino quantomeno di fare una qualche distinzione tra i propri pari e gli insegnanti). Accettano il diploma come una ricevuta per aver trascorso diversi anni vicino a tante persone interessanti, i cui servizi vengono pagati dalle loro famiglie.
Questo non vuol dire che gli studenti di oggi siano intellettualmente incompetenti. La maggior parte dei giovani che frequentano scuole competitive ha già padroneggiato i rituali degli esami, delle raccomandazioni, delle attività extracurriculari e delle altre medaglie al merito legate alla vita dei college. Purtroppo, una volta superato il labirinto dell’ammissione, quando arrivano all’università, trascorrono i successivi quattro anni ricevendo un’istruzione insufficiente e fin troppi elogi. Potrebbero anche sospettare come stanno le cose, e quindi rischiano di sviluppare una combinazione deleteria di insicurezza e arroganza che non torna a loro vantaggio una volta allontanatisi dall’abbraccio dei loro genitori e dalle pareti delle loro scuole.
Nel frattempo, nelle scuole meno competitive, gli studenti hanno preoccupazioni decisamente minori durante la procedura di iscrizione. Come ha affermato il giornalista di economia Ben Casselman nel 2016, alla maggior parte dei candidati universitari “per essere ammessi all’università non viene mai richiesto di scrivere un saggio, di compilare un curriculum vitae o di tenere un discorso persuasivo a un possibile autore di una lettera di presentazione”, perché più di tre quarti degli studenti americani non ancora laureati frequentano college che accolgono almeno la metà delle richieste. Solo il 4 per cento frequenta scuole che accettano il 25 per cento o meno, e meno dell’1 per cento frequenta scuole d’élite che accettano una percentuale inferiore al 10 per cento delle richieste.32 Gli studenti di questi istituti meno competitivi si trovano poi in difficoltà nel portare a termine gli studi e solo la metà degli iscritti conclude un diploma di laurea triennale in sei anni.
Molti di questi studenti non sono qualificati per frequentare un college e hanno bisogno di importanti interventi riparatori. I college lo sanno, ma accettano studenti che si trovano al di sotto del livello necessario, li infilano in grandi corsi introduttivi (a basso costo) e sperano per il meglio. Perché le scuole dovrebbero comportarsi in questo modo e forzare quei pochi standard di ammissione ancora applicabili? Come ha scritto James Piereson del Manhattan Institute nel 2016: “Seguite i soldi”. Il punto è che le “scuole private – almeno quelle non esclusive – sono alla disperata ricerca di studenti e sono disposte ad accettare anche giovani decisamente non qualificati, se questo significa maggiori ricavi provenienti dalle rette d’iscrizione”.33 Alcuni finiscono i corsi, altri no, ma per diversi anni l’istituto riceve comunque denaro, e da qualche parte c’è un giovane che potrà dire di aver frequentato “per un po’ l’università”.
Anche senza queste pressioni finanziarie, la corsa all’università di studenti impreparati è dovuta anche a una cultura di affermazione e di autorealizzazione che vieta di mettere i ragazzi di fronte ai propri insuccessi. Come scriveva Robert Hughes nel 1995, nella cultura americana “i ragazzi sono viziati e portati a non pensare di essere stupidi”.34 A vent’anni di distanza un’insegnante di scuola media del Maryland ha colto appieno l’essenza di questo problema in un articolo pubblicato nel 2014 sul Washington Post dopo aver deciso di abbandonare la sua professione. Ha dichiarato che l’amministrazione scolastica per cui lavorava le aveva dato due indicazioni che ai suoi occhi erano “slogan che definivano l’istruzione pubblica”. Una era che non si deve permettere agli studenti di fallire. L’altra adombrava l’approccio incentrato sul cliente: “Se prendono delle D o delle F, non state facendo per loro tutto il necessario”.35
Anch’io mi sono trovato molte volte di fronte a queste situazioni, e non solo con ragazzi o giovani studenti universitari. Ho avuto studenti che mi hanno detto che se non avessero ottenuto una A nel mio corso, il loro voto sarebbe stato prova di un insegnamento inadeguato da parte mia. Ci sono stati anche studenti che ho quasi bocciato agli esami che sono poi venuti a chiedere – e, in alcuni casi, a pretendere – raccomandazioni per corsi di specializzazione o scuole di alta formazione professionale. Sarà anche vero che gli studenti universitari di oggi non sono più ottusi di trent’anni fa, ma il loro senso del diritto e la loro malriposta fiducia in sé stessi sono cresciuti a dismisura.
Ovviamente le famiglie giocano un ruolo determinante in questa situazione. I genitori eccessivamente protettivi di oggi sono diventati tanto invadenti che un’ex preside, responsabile degli studenti del primo anno a Stanford, ha scritto un libro in cui sostiene che questi “genitori elicottero” stanno rovinando una generazione di ragazzi. Si tratta di famiglie che difendono e coccolano i loro figli anche al liceo e all’università, facendo i compiti a casa al loro posto – la preside di Stanford parla educatamente di “aiuto eccessivo” – e in generale partecipando a tutti gli aspetti della loro vita.36 Alcuni sono peggiori di altri: ci sono anche genitori che si spostano nella stessa città in cui si trovano i college dei propri figli per star loro vicini mentre frequentano l’istituto. Questi non sono “genitori elicottero”, ma assomigliano piuttosto a “genitori aerei da caccia di copertura a corto raggio”.
Un altro problema, paradossalmente, è la ricchezza. Sembra davvero un’affermazione forte in un momento in cui tanti genitori e tanti giovani devono preoccuparsi di come far fronte ai costi dell’istruzione. Ma il punto è che sempre più persone vanno al college, perlopiù attingendo da un’offerta pressoché inesauribile di prestiti rovinosi. Incoraggiati da questo denaro garantito dal governo e in risposta al marketing aggressivo degli istituti di istruzione che si reggono sulle rette, ragazzi provenienti da quasi tutte le classi sociali d’America vogliono acquistare i “prodotti” offerti dalle università, nella stessa maniera in cui tutti gli altri acquisterebbero un’automobile.
La visita a un campus è un buon esempio del rituale di acquisto che insegna ai ragazzi a scegliere un college in base a tutta una serie di motivi, tra i quali non è contemplata l’istruzione. Ogni primavera ed estate, le autostrade si riempiono di ragazzi in viaggio con i genitori, diretti non verso istituti nei quali i giovani clienti sono stati accettati, ma presso i quali stanno pensando di presentare domanda. Non sono solo ricchi rampolli che fanno il giro degli istituti dell’Ivy League; amici con figli adolescenti mi raccontano regolarmente di essersi messi in marcia alla volta di piccoli college e scuole statali che non ho mai neanche sentito nominare. Ogni anno, questi genitori mi chiedono un consiglio, e ogni anno dico loro che è una cattiva idea. Ogni anno, mi ringraziano per il suggerimento e scelgono comunque di andare dritti per la loro strada. Alla fine della fiera, l’intera famiglia è di cattivo umore ed esausta, e la questione di cosa insegnino effettivamente le scuole sembra quasi secondaria.
Di solito, ai ragazzi piace la maggior parte degli istituti, perché a un liceale qualsiasi college sembra un gran bel posto. Alcune opzioni, naturalmente, tramontano con grande velocità. Una città brutta, un campus sporco, un dormitorio decrepito, ed è fatta. Altre volte, i potenziali studenti si innamorano di una scuola e trascorrono mesi a straziarsi come spasimanti ansiosi, sperando che l’istituto che hanno scelto appena compiuti i sedici anni dica loro di sì e cambi il corso della loro vita.
L’idea che gli adolescenti debbano dapprima pensare al motivo per cui vogliono andare all’università, trovare istituti che possano soddisfare le loro capacità, presentare domanda solo a quegli istituti e poi visitare quelli che hanno accettato la loro richiesta di iscrizione è ormai estranea a molti genitori e ai loro figli. Chiedete ai genitori perché hanno accompagnato in macchina la loro figlia fino alla sperduta cittadina di Creation per visitare le scuole che lei non vuole frequentare o alle quali non ha alcuna possibilità di essere ammessa, e difficilmente riceverete una risposta che non sia: “Be’, voleva darci un’occhiata”. La frase che in pochi aggiungono è: “E abbiamo scelto di spendere dei soldi per andare a vederla”. Le domande di ammissione ai college, a cinquanta o più dollari per pratica, non sono economiche, ma viaggiare da Amherst ad Atlanta è molto più costoso.
Tutto questo procedimento significa non solo che sono i figli a comandare, ma che è già stato insegnato loro a valutare gli istituti scolastici per motivi diversi rispetto all’istruzione che potrebbero fornire. Le scuole lo sanno e si sono preparate adeguatamente. Così come la concessionaria di automobili locale sa esattamente come posizionare un nuovo modello nel suo salone, e un casinò come profumare l’aria che investe i frequentatori assidui appena varcano la porta, i college sono pronti a presentare vantaggi e corsi di tutti i tipi come motivazioni di vendita, soprattutto per eliminare i concorrenti, puntando su cose che importano solo ai ragazzi.
Spinte a competere per accaparrarsi gli adolescenti e i dollari dei loro prestiti d’onore, gli istituti promettono un’esperienza piuttosto che un’istruzione (tralascio le scuole fondate a scopo di lucro, che sono in gran parte solo fabbriche di debiti e che in generale escludo dalla definizione di “istruzione superiore”). Non c’è niente di sbagliato nel creare un centro studentesco piacevole o nell’offrire un mucchio di attività, ma a un certo punto è come se un ospedale invogliasse un malato di cuore a fare un intervento per un bypass coronarico perché la struttura prepara ottimi pasti.
I ragazzi e i giovani hanno almeno in parte maggior potere in questo processo perché i programmi di prestito hanno spostato il controllo delle rette scolastiche dai genitori agli studenti. C’è anche una tendenza più generale, da alcuni decenni a questa parte, che ha portato i genitori ad abdicare in favore dei figli a sempre più decisioni in molti ambiti. In entrambi i casi, è difficile non essere d’accordo con l’editorialista di Bloomberg Megan McArdle, la quale osserva che le decisioni su tutti questi aspetti sono passate dai genitori ai figli, con risultati prevedibili quando “gli studenti sono più preoccupati dei loro genitori di vivere un’esperienza spiacevole”.37
Le istituzioni universitarie assecondano queste esigenze in ogni modo. Per esempio, alcune scuole cercano di offrire conforto per l’ansia che ogni liceale deve affrontare trovandosi ad abitare con degli sconosciuti. Una volta, imparare a vivere con un compagno di stanza faceva parte del processo di maturazione, comprensibilmente temuto da ragazzini che stanno ancora sotto lo stesso tetto dei genitori. Non è più così, come ha scritto un membro di facoltà della Arizona State University nel 2015:
In molte università, i nuovi studenti sono già stati presentati ai loro compagni di stanza attraverso i social media e vivono in lussuosi appartamenti-dormitorio. Questo garantisce che praticamente non debbano mai condividere una stanza o un bagno, o addirittura mangiare nelle sale da pranzo comuni, se non lo desiderano. Questi erano gli spazi in cui le generazioni precedenti imparavano ad andare d’accordo con persone diverse e a gestire i conflitti quando venivano scelti a caso per vivere con sconosciuti in ambienti ristretti e condivisi.38
Se uno studente sceglie di andare alla Arizona State perché ama l’idea di non mangiare mai alla mensa, c’è già qualcosa di sbagliato nell’intero processo. Molti giovani, ovviamente, hanno compiuto scelte peggiori per ragioni ancora più sciocche.
Gli studenti sono giovani e i genitori amano i propri ragazzi. È giusto che sia così. Ma quando tutto il circo delle domande e delle ammissioni è terminato, il corpo docenti si trova a insegnare a studenti che sono entrati in aula con aspettative completamente slegate dalle reali esigenze di ottenere una formazione universitaria. Oggi i professori non istruiscono gli studenti; invece, gli studenti istruiscono i professori, con un’autorità che si arrogano fin troppo naturalmente. Un gruppo di studenti di Yale nel 2016, per esempio, ha chiesto che il Dipartimento di inglese abolisse il corso sui poeti inglesi perché era troppo incentrato su maschi bianchi europei: “Abbiamo parlato” hanno dichiarato nella petizione. “Stiamo parlando. Prestate attenzione.”39 Come mi ha confidato una volta un professore di una scuola esclusiva: “Certi giorni, mi sento più un commesso che lavora in una costosa boutique che un professore”.
E perché dovrebbe essere diversamente? Questi sono ragazzi a cui è stato insegnato a dare del “tu” agli adulti fin da quando erano piccoli. Hanno ricevuto “voti” destinati a far crescere la loro autostima, piuttosto che a stimolare il conseguimento di risultati. E si sono immatricolati dopo aver potuto esaminare accuratamente i college, come se stessero ispezionando un condominio vicino a un campo da golf. Questo flusso di piccole ma significative concessioni ai ragazzi da parte degli adulti, unito alla loro autostima, va a corrodere la capacità di apprendimento, inculca la falsa sensazione di aver ottenuto dei risultati e provoca un eccesso di fiducia nelle proprie conoscenze che perdura anche in età adulta.
Quando arrivai al Dartmouth College alla fine degli anni Ottanta, mi raccontarono una storia su un noto (e al tempo ancora vivo) membro della facoltà che in un certo senso illustra questo problema e la sfida che comporta per gli esperti e gli educatori. Il rinomato astrofisico Robert Jastrow stava tenendo una conferenza sul programma del presidente Ronald Reagan per lo sviluppo di difese missilistiche nello spazio, che lui stesso sosteneva con decisione. Uno studente sfidò Jastrow durante la sessione di domande e risposte, e a detta di tutti lo scienziato si mostrò paziente, pur restando convinto che il programma fosse realizzabile e necessario. Lo studente, rendendosi conto che uno scienziato di una grande università non avrebbe cambiato idea dopo pochi minuti di discussione con un allievo dei primi anni, alla fine alzò le spalle e rinunciò.
“Be’,” disse lo studente “la sua ipotesi è buona quanto la mia”.
Jastrow interruppe il giovane. “No, no, no” disse enfaticamente. “Le mie ipotesi sono molto, molto migliori delle sue.”
Il professor Jastrow nel frattempo è scomparso, e mentre ero a Hanover non ho mai avuto la possibilità di chiedergli cosa fosse successo quel giorno. Ma sospetto che stesse cercando di impartire alcune lezioni di vita alle quali gli studenti universitari e i cittadini oppongono sempre più resistenza: ovvero che l’ammissione all’università è l’inizio e non la fine dell’istruzione, e che il rispetto dell’opinione di una persona non significa accordare pari rispetto alla conoscenza che quella persona possiede. Si può ancora discutere nel merito se un sistema nazionale di difese missilistiche sia una scelta politica saggia o meno. Ciò che non è cambiato, tuttavia, è che le ipotesi di un esperto astrofisico e di uno studente del secondo anno di università non hanno lo stesso valore.
Non stiamo parlando di qualche saccentone dell’Ivy League che fa il sarcastico con i suoi professori. Per fare un esempio meno raffinato, nel 2013 una giovane donna ha usato i social media per chiedere aiuto su una ricerca assegnata in classe (dove vivesse o dove studiasse non è chiaro, ma lei stessa si descriveva come un futuro medico). A quanto pare le avevano dato il compito di trovare informazioni sul Sarin, una sostanza chimica mortale, e, come ha spiegato a migliaia di persone su Twitter, aveva bisogno di aiuto perché mentre la svolgeva doveva occuparsi anche di suo figlio. In pochi minuti, ha ricevuto una risposta da parte di Dan Kaszeta, direttore di una società di consulenza di sicurezza a Londra, nonché uno dei massimi esperti nel settore delle armi chimiche, che si è offerto di aiutarla.
Quello che è accaduto in seguito ha lasciato di stucco molti lettori (Jeffrey Lewis, esperto di armi in California, ha salvato lo scambio sul suo pc e lo ha ripubblicato online). “Non riesco a trovare le proprietà chimiche e fisiche del gas sarin [sic], qualcuno mi aiuta?” era stato il tweet della studentessa. Kaszeta si è offerto di aiutarla e l’ha corretta, facendole notare che il Sarin non è un gas e che la parola andava scritta con l’iniziale maiuscola. Come ha osservato sarcastico Lewis in seguito, “l’aiuto di Dan [è stato accolto] con un bel sospiro di sollievo dalla nostra oberata studentessa”.
In realtà, Kaszeta è stato assalito da una serie di insulti. La studentessa ha rovesciato sull’esperto tutto il suo ego indignato, come una furia: “Sì [insulto] è un gas, brutto [insulto] ignorante. Il sarin è liquido e quindi può evaporare… chiudi quella [insulto] di bocca”. Kaszeta, chiaramente attonito, ha provato ancora una volta: “Cercami su Google. Sono un esperto di Sarin. Mi dispiace di essermi offerto di aiutarti”. Le cose non sono migliorate e poi finalmente lo scambio è giunto al termine.
Un allievo spavaldo del Dartmouth e un’utente rabbiosa di Twitter potrebbero essere eccezioni e sono sicuramente esempi estremi del tentativo di rapportarsi agli studenti. Ma le facoltà segnalano che sia in aula sia sui social media sempre più di frequente si verificano incidenti in cui gli studenti prendono le correzioni come insulti. Lodi immeritate e successi di poco conto costruiscono negli studenti una fragile arroganza che può portarli ad attaccare verbalmente il primo insegnante o datore di lavoro che mandi in frantumi quell’illusione, un’abitudine che si dimostra difficile da dismettere in età adulta.
posso mandarti un’email?
La centralità del servizio al cliente e la scelta di trattare la competenza come un prodotto sono evidenti nei college di oggi, anche nelle più piccole cose. Consideriamo, per esempio, l’influenza dell’email, uno strumento che incoraggia tutta una serie di comportamenti bizzarri che gli studenti in genere esiterebbero a manifestare di persona.
Pur tralasciando la saltuaria decisione sbagliata, dopo un fine settimana trascorso a bere e ad andarsene in giro per feste, di scrivere qualcosa e pigiare il tasto “invio”, l’email incoraggia un senso di intimità fuori luogo che erode i confini necessari per un insegnamento efficace. Come vedremo nel prossimo capitolo, questa è una caratteristica tipica delle interazioni attraverso i media elettronici in generale, ma l’informalità della comunicazione tra insegnanti e studenti è un esempio di come la vita universitaria in particolare contribuisca alla cancellazione del rispetto degli esperti e delle loro capacità.
L’uso della posta elettronica è diventato comune nei campus all’inizio degli anni Novanta e, in capo a un decennio, i professori si sono accorti dei cambiamenti provocati dalle comunicazioni istantanee. Nel 2006, il New York Times ha chiesto agli educatori delle università quali fossero le loro esperienze con le email ricevute dagli studenti, e la loro frustrazione era evidente. “Ultimamente” ha scritto il Times “gli studenti sembrano considerare [i docenti] un servizio a disposizione per tutto il giorno e inviano un flusso costante di messaggi di posta elettronica […] troppo informali, quando non del tutto inopportuni”. Come ha detto al Times un professore di teologia di Georgetown, “il tono usato nei messaggi via email è piuttosto sorprendente: ‘Ho bisogno di saperlo e di saperlo subito’, con una familiarità che a volte rasenta l’imperativo”.40
La posta elettronica, come i social media, è un grande livellatore, e mette gli studenti a proprio agio, dando loro l’idea che mandare messaggi agli insegnanti sia alla stregua di una comunicazione con un servizio di assistenza clienti. Ciò ha un impatto diretto sul rispetto della competenza, perché elimina qualsiasi distinzione tra gli studenti che fanno domande e gli insegnanti che vi rispondono. Come notava il Times:
Se in passato i professori potevano aspettarsi deferenza, sembra che ormai la loro competenza sia diventata solo un ulteriore servizio che gli studenti, in quanto consumatori, stanno acquistando. Quindi i ragazzi non hanno paura di offendere, di approfittare del tempo del professore o perfino di porre domande che potrebbero avere ripercussioni negative sul giudizio.
Kathleen E. Jenkins, professoressa di sociologia al College of William and Mary in Virginia, ha detto di aver ricevuto via email perfino richieste da parte di studenti che avevano perso la lezione e volevano una copia degli appunti usati dall’insegnante in classe.
In risposta alle lamentele del corpo docenti per episodi di questo tipo relativi all’uso della posta elettronica, uno studente dei primi anni della Amherst ha dichiarato: “Se l’unico modo per comunicare con i miei professori fosse andare nel loro ufficio o chiamarli, ci sarebbe una graduatoria o una priorità di qualche tipo. Vale la pena andare al ricevimento per questa domanda?”.
Al che il docente potrebbe rispondere: è esattamente questo il punto. I professori non sono valletti intellettuali o amici di penna sempre reperibili; non esistono per rispondere istantaneamente a ogni quesito posto dagli studenti, tra cui, come ha riferito un professore della UC Davis, pareri se sia meglio utilizzare un raccoglitore o un quaderno ad anelli. Gli studenti di livello universitario devono imparare ad avere fiducia in sé stessi, ma perché darsi pena di cercare qualcosa quando per raggiungere un professore della facoltà basta pigiare qualche tasto?
Lo scopo dell’istruzione è curare gli studenti da questi comportamenti, non incoraggiarli. Per molti motivi, compreso il rischio di perdere il proprio posto di lavoro, i professori talvolta esitano ad assumersi delle responsabilità, specialmente se non sono di ruolo o se sono docenti a contratto. Alcuni di loro, naturalmente, trattano i ragazzi come loro pari perché hanno assorbito l’idea che gli studenti siano veramente al loro stesso livello, errore che danneggia sia l’insegnamento sia l’apprendimento. Alcuni educatori ribadiscono perfino la vecchia idea per cui “imparo dai miei studenti tanto quanto loro imparano da me!” (con il dovuto rispetto per i miei colleghi che esercitano la professione di insegnante, mi corre l’obbligo di dire: se è vero, allora non siete buoni insegnanti).
La soluzione per questo rovesciamento di ruoli in aula è che gli insegnanti riaffermino la propria autorità. Per farlo, però, occorrerebbe innanzitutto ribaltare la nozione di istruzione come servizio al cliente. Gli amministratori attenti alle rette non vedrebbero di buon occhio una simile controrivoluzione in aula e con tutta probabilità sarebbe profondamente impopolare tra i clienti.
Per molti anni, padre James Schall della Georgetown University ha sorpreso i suoi studenti di filosofia politica durante la prima lezione distribuendo un saggio scritto da lui stesso e intitolato: “Quello che uno studente deve al suo insegnante”. Eccone un passaggio:
Gli studenti hanno obblighi nei confronti degli insegnanti. So che sembra una strana dottrina, ma fidatevi.
Il primo obbligo, particolarmente valido nelle prime settimane di un nuovo semestre, è una moderata buona volontà nei confronti dell’insegnante, fiducia, la disponibilità ad ammettere con sé stessi che l’insegnante probabilmente ha studiato la materia e, a differenza dello studente, sa dove andare a parare. Non voglio qui trascurare i pericoli che può comportare un professore ideologizzato, ovviamente, che impone la sua opinione sulla realtà. Ma essere uno studente richiede un pizzico di umiltà.
Quindi, l’allievo deve agli insegnanti fiducia, docilità, impegno, riflessione.41
Schall assegnò il suo saggio come lettura obbligatoria per molti anni prima di andare in pensione. Possiamo solo immaginare le urla di indignazione che provocherebbe ora nella maggior parte dei campus dire agli studenti che devono lavorare di più, ridimensionare l’opinione che hanno delle proprie capacità e fidarsi degli insegnanti. Oggi molti docenti, se anche fossero d’accordo con Schall, non si arrischierebbero a far indispettire gli studenti, perché, come tutti sanno, in qualsiasi settore che fornisca servizi, il cliente ha sempre ragione.
Gli allievi, armati o meno di buone intenzioni, sono poco tutelati dall’idea che studenti e insegnanti abbiano lo stesso livello intellettuale e sociale, e che l’opinione di uno studente valga quanto la conoscenza di un professore. Piuttosto che disilludere i giovani riguardo a questi miti, il college spesso li incoraggia, con il risultato che le persone finiscono per convincersi di essere davvero più intelligenti di quanto non siano. Come ha rilevato David Dunning: “Il modo in cui tradizionalmente concepiamo l’ignoranza, come assenza di conoscenza, ci porta a pensare all’istruzione come suo antidoto naturale. Ma l’istruzione, anche se impartita sapientemente, può produrre una fiducia illusoria”.42
Basta immaginare come si complicano le cose quando l’istruzione non è impartita in modo adeguato.
l’università generica
L’amministratore di un piccolo college – chiedo scusa, di un’“università” – potrebbe anche leggere questo capitolo e protestare che sto ingiustamente stroncando delle imprese per essersi comportate come imprese. L’istruzione superiore, infatti, è un’industria, e non c’è niente di male se le aziende che ne fanno parte sono in concorrenza tra loro. L’analogia con il mondo aziendale però viene meno quando le scuole stesse non offrono ciò che hanno promesso: un’istruzione.
La partita inizia molto tempo prima che un potenziale studente compili una domanda di ammissione. Mentre si dedicavano a programmi a basso impatto intellettuale, conditi da corsi per migliorare lo stile di vita e da attività non accademiche, i college hanno tentato contemporaneamente di gonfiare la loro importanza e dar lustro ai propri marchi. Il mio precedente commento sulla proliferazione delle “università” non era un’osservazione peregrina: sta accadendo davvero, almeno dagli anni Novanta. Al pari di molti altri annessi degli attuali mali dell’istruzione superiore, è un cambiamento guidato dal denaro e dalla posizione sociale.
Un motivo per cui queste piccole scuole diventano università è il desiderio di attrarre studenti che vogliono credere di pagare per qualcosa che appartiene a un livello superiore, ovvero un’“università” regionale o nazionale, e non un college di provincia.43 I college statali e i centri di formazione professionale sono istituzioni di basso livello rispetto alle università che offrono corsi di quattro anni agli occhi degli studenti delle scuole superiori, pronti per il college. Quindi, molti di loro hanno cercato di distinguersi con un tentativo di rebranding come “università”.
Una motivazione più prosaica dietro questo gioco di nomi è quella di trovare nuovi flussi di finanziamento innestando corsi di laurea in piccoli college. La gara per attirare più soldi e la conseguente proliferazione dei corsi di laurea hanno pertanto costretto queste nuove “università” a una corsa agli armamenti nel settore del rilascio di titoli. Le scuole non solo aggiungono corsi di laurea per titoli professionali come amministrazione aziendale, ma molte hanno anche riempito i propri programmi universitari di corsi supplementari per conseguire diplomi di master.
Di fronte a questa pressione competitiva da parte di altre scuole che fanno lo stesso, alcune di queste nuove università cercano poi di allargare il campo e aggiungono corsi di dottorato. E poiché queste piccole scuole non possono sostenere un programma di dottorato in un settore consolidato, costruiscono campi interdisciplinari oscuri che esistono solo per poter creare nuove credenziali. Non è difficile capire come questo finisca poi per portare al rilascio di diplomi che in realtà non corrispondono a un livello di conoscenza.
L’intero procedimento è al limite del malcostume accademico. La creazione di corsi post laurea in scuole che sono a malapena in grado di fornire un’istruzione universitaria accettabile è un inganno sia per i laureati sia per gli studenti che ancora non hanno conseguito il titolo. Le piccole università non dispongono delle risorse – come le biblioteche, le strutture di ricerca e la varietà di corsi – che hanno a disposizione le grandi università, e ridipingere le targhe all’ingresso non può creare magicamente infrastrutture accademiche di quel tipo. La trasformazione del college di una piccola città di provincia in una generica università potrà anche far effetto sulla nuova carta intestata, ma è una scelta che può far diventare quello che poteva essere un college locale funzionale un’università da quattro soldi.
Questo rebranding diluisce il valore di tutti i titoli di studio accademici. Quando tutti hanno frequentato un’università, diventa molto più difficile distinguere i risultati e le competenze effettivi con tutti quei “laureati”. Gli americani si seppelliscono in una bufera di diplomi di laurea, certificati e altre affermazioni dal valore altalenante. Coloro che vogliono dare informazioni sbagliate ai propri concittadini spesso dicono di avere la laurea e che quindi bisogna prenderli sul serio. E se da un lato sarebbe demoralizzante scoprire che stanno mentendo riguardo al fatto di possedere più lauree, ancor più sconcertante è scoprire che spesso stanno dicendo la verità.
Gli studenti probabilmente obietteranno che la loro specializzazione richiede molto più lavoro di quanto io non voglia ammettere. È possibile, ma ciò dipende dalla specializzazione in sé. I requisiti per ottenere una laurea in discipline scientifiche (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica), in una lingua straniera complessa, o un rigoroso titolo in scienze umanistiche possono comportare sforzi ben diversi rispetto a quelli richiesti per specializzarsi in comunicazioni o in arti visive o, per quanto mi addolori dirlo, in scienze politiche. Ogni campus ha “discipline predefinite”, scelte quando uno studente non ha idea di cosa fare, e alcune sono scappatoie per evitare di affrontare programmi più ardui una volta che gli allievi hanno compreso i limiti delle proprie capacità.
A rischio di essere frainteso, è meglio chiarire alcuni punti. In primo luogo, non è una novità per me o chiunque altro lavori nel settore dell’istruzione superiore il fatto che anche le migliori scuole offrano esami “di pancia”, che uno studente può superare continuando a inspirare ed espirare per un determinato numero di settimane. Forse per un professore può essere scioccante ammetterlo, ma non c’è niente di sbagliato nei corsi facili o divertenti. Potrei anche arrivare a dire che alcuni sono necessari. Dovrebbero esserci lezioni in cui gli studenti possono sperimentare una materia, trarne qualcosa di piacevole e ottenere crediti per aver imparato qualcosa.
Il problema si presenta quando tutti i corsi iniziano a sembrare di pancia. Ce ne sono nelle scienze, nelle discipline umanistiche e nelle scienze sociali, e il loro numero, almeno a mio soggettivo giudizio, sta aumentando. Nessun campo ne è immune, e basta dare un’occhiata all’offerta di molti programmi in tutto il Paese – così come ai voti dei diplomi di laurea che rilasciano – per rendersi conto che quelli che un tempo erano vizi professionali isolati sono ormai abitudini diffuse in alcuni dipartimenti.
Devo specificare che non sto affatto sostenendo la tesi per cui i college dovrebbero essere snelliti e ridotti a un mucchio di dipartimenti scientifici con infarinature di inglese o di storia. Disapprovo idee simili e mi sono a lungo opposto a quello che considero come un attacco alle arti liberali. Troppo spesso coloro che denigrano le arti liberali in realtà vorrebbero trasformare i college in istituti tecnici. Su questo punto le facoltà di storia dell’arte ricevono sempre qualche frecciatina, anche se tanti non si rendono conto che spesso aprono le porte a carriere piuttosto redditizie. In ogni caso, non voglio vivere in una civiltà dove non esistono facoltà di storia dell’arte o, se è per questo, di storia del cinema, filosofia o sociologia.
Il punto è capire quanti studenti di queste facoltà stanno davvero imparando qualcosa o se ci sia bisogno di tanti studenti che si dedicano a queste materie in istituzioni di quart’ordine, soprattutto se sono finanziate con i dollari dei contribuenti. Non si può negare la realtà, cioè che gli studenti fin troppo spesso sprecano soldi per ottenere l’illusione di un’istruzione, gravitando verso corsi o facoltà che non dovrebbero esistere o per i quali le iscrizioni dovrebbero limitarsi al piccolo numero di ragazzi che intendono dedicarvisi con serietà e rigore. Questa è un’altra delle tante cose che le facoltà non dovrebbero dire ad alta voce, perché alle orecchie di genitori indignati e studenti speranzosi suona come un immotivato elitarismo.
Potrà anche essere elitarismo, ma di certo non è immotivato. Molte piccole scuole in passato venivano chiamate “scuole per insegnanti” e assolvevano bene al proprio scopo. I loro dipartimenti di storia o di inglese ricoprivano perfettamente l’utile funzione di creare insegnanti di storia e di inglese. Oggi, tuttavia, queste piccole “università” propongono antropologia o filosofia della scienza come se i loro studenti studiassero a Stanford o a Chicago. A volte queste discipline sono costruite intorno agli interessi dei pochi docenti che le insegnano o sono presentate come un modo per rinfoltire il catalogo di un istituto che altrimenti potrebbe apparire non abbastanza solido agli occhi dei potenziali studenti.
Non c’è niente di sbagliato nella realizzazione personale o nel seguire il proprio estro, se te lo puoi permettere. Se un piccolo college ha un corso di storia che ti interessa, certo che puoi seguirlo. Magari è fantastico. Ma gli allievi che scelgono una facoltà senza stare troppo a pensare al valore dei propri istituti, a quali risorse accademiche possono offrire in uno specifico corso di studi o a dove indirizzano i laureati di quei corsi, rischiano di andarsene dal campus (in qualsiasi momento terminino gli studi) sapendone meno di quanto siano stati indotti a credere, e questo problema è al centro di un sacco di inutili discussioni con persone che hanno un’idea completamente sbagliata della qualità della propria istruzione.
Quando le università che si sono rifatte il maquillage propongono corsi di laurea e piani di studi come se fossero equivalenti a quelli offerti da istituti più noti, non solo portano fuori strada i potenziali studenti, ma compromettono anche il loro apprendimento successivo. Lo scarto qualitativo tra i programmi rischia di creare risentimento: se tu e io abbiamo entrambi una laurea in storia, perché la tua opinione sulla Rivoluzione d’ottobre dovrebbe essere migliore della mia? Perché dovrebbe essere tanto importante che la tua laurea provenga da un dipartimento di primo piano, e la mia da un corso così piccolo da avere un solo docente? Se io ho studiato cinema in un college statale di provincia e tu hai frequentato i corsi di studi cinematografici dell’Università della Southern California, chi sei tu per pensare di saperne più di me? Abbiamo la stessa laurea, no?
È facile che confronti e dibattiti di questo tipo, sulle differenze tra i college e i loro diplomi e corsi di laurea, creino malumori. Lo studente che è stato ammesso a una scuola di altissimo livello e vi si è laureato è infastidito dal livellamento che deriva dal paragone alla leggera con una laurea simile conseguita presso un’“università” pubblica sconosciuta (se tutte le scuole sono altrettanto buone, perché è più difficile entrare in alcune che in altre?). Invece lo studente che ha lavorato giorno e notte per ottenere lo stesso titolo si stizzisce di fronte all’insinuazione che il suo successo vale di meno senza un pedigree (se tutto tranne l’Ivy League è spazzatura, perché tutti questi altri corsi sono pienamente accreditati?).
C’è molta malafede in questi dibattiti, che spesso si riducono a poco più che a una gara al rialzo. Uno studente mediocre che ha frequentato una buona scuola resta comunque uno studente mediocre; uno studente diligente proveniente da un piccolo istituto non è meno intelligente per la mancanza di un pedigree illustre. Rimane comunque il fatto che di solito frequentare un corso presso un college regionale con un professore a contratto sovraccarico di lavoro è molto diverso rispetto a studiare in un’università di prestigio con uno studioso che ha ottenuto numerosi riconoscimenti accademici. E, anche se è vero, dirlo fa scattare immediatamente uno stizzito snobismo, che indispettisce tutti.
Paragoni di questo tipo potranno anche non piacerci, ma sono importanti per selezionare le competenze e le relative conoscenze. È vero che le grandi università possono concedere lauree a degli zucconi totali. Gli istituti che aspirano a diventare università, tuttavia, giocano in una categoria intellettuale superiore alla propria per una serie di ragioni tutte sbagliate, come il marketing, il denaro e un certo egocentrismo del corpo docenti. Così facendo, finiscono per danneggiare sia i propri studenti sia la società. Studiare la stessa materia potrà fornire alle persone una lingua comune per ulteriori discussioni su un argomento, ma non le rende automaticamente pari.
I college e le università contribuiscono a far sì che gli studenti abbiano un’idea distorta delle proprie competenze anche gonfiando i voti che assegnano. Far crollare gli standard in modo che le attività didattiche non interferiscano con il divertimento di frequentare un college assicura un corpo studentesco felice e allevia l’istituto dalla pressione di non dover scontentare nessuno. Come ha scritto McArdle di Bloomberg, questo tentativo di ridurre lo spiacevole impatto di dover davvero frequentare l’università non dovrebbe sorprendere quando i posti a sedere in classe sono una merce piuttosto che un privilegio guadagnato in modo competitivo.
I risultati sono tanto più visibili nei pigri fiumiciattoli dei giardini, nelle palestre attrezzate con pareti da arrampicata e nei dormitori sempre più lussuosi con cui i college competono per accaparrarsi studenti, ma il cambiamento non si limita all’offerta di servizi non pertinenti all’istruzione. I professori restano stupiti per il modo in cui gli studenti chiedono spudoratamente di ricevere buoni voti, indipendentemente dalla loro dedizione allo studio, ma questo è esattamente ciò che ci si aspetta da uno studente che si considera un consumatore e vede il prodotto come una credenziale anziché un’istruzione.
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O, nella descrizione di Catherine Rampell, giornalista del Washington Post, il college ora è un contratto in cui “gli studenti pagano rette più pesanti e in cambio si aspettano di più: un miglior servizio, strutture migliori e voti migliori”.44 E agli studenti oggi si chiede molto meno anche rispetto a pochi decenni fa. C’è meno da studiare a casa, la ripartizione dell’anno accademico segue trimestri abbreviati e le innovazioni tecnologiche rendono più divertente, ma anche meno rigoroso, andare al college. Quando l’università è un business, non si possono bocciare i clienti.
Andare al college non significa sempre e soltanto arrampicate indoor e discese in kayak, ma non c’è dubbio che la tendenza sia quella di sminuire l’importanza dei voti gonfiandoli. Come ha rilevato uno studio condotto dall’Università di Chicago nel 2011, “non ci vuole un grande sforzo per dimostrare una performance accademica soddisfacente nei college e nelle università di oggi”.
Il 45 per cento degli studenti ha riferito di non aver seguito nel semestre precedente neanche una materia per cui fosse richiesto di scrivere più di venti pagine di elaborato per la durata dell’intero corso; il 32 per cento non ha seguito materie per le quali fossero assegnate più di quaranta pagine da leggere alla settimana. Non sorprende che oggi molti studenti universitari decidano di investire tempo in altre attività all’interno del college.45
Alcune di queste “altre attività” sono nobili e contribuiscono ad arricchire i giovani. Molte altre sono il genere di cose che i genitori probabilmente preferiscono non sapere.
Quando parliamo di fine della competenza, l’effetto creato da carichi di lavoro più leggeri e voti più generosi dovrebbe essere ovvio: gli studenti si laureano con una media alta che non corrisponde a un livello di educazione o crescita intellettuale (ancora una volta, sto tralasciando determinati tipi di lauree e mi riferisco a quelle specializzazioni che oggi vanno per la maggiore negli Stati Uniti). Una frase come “prendo sempre il massimo dei voti a ogni esame” non ha lo stesso significato che poteva avere nel 1960 o anche nel 1980. Uno studio condotto su duecento college e università nel corso del 2009 ha rilevato che il voto più alto, la A, è stato il più comune, con un aumento di quasi il 30 per cento dal 1960 e di più del 10 per cento dal 1988. I voti A e B insieme rappresentano più dell’80 per cento di tutti i voti in tutte le materie, una tendenza che prosegue inarrestabile.46
In altre parole, oggi tutti i ragazzi sono al di sopra della media. Nel 2012, per esempio, il voto più frequente assegnato a Harvard era una A, il massimo. A Yale, più del 60 per cento di tutti i voti sono A- o A. Ciò può accadere di quando in quando in una classe particolare, ma è quasi impossibile in un’intera università con una normale distribuzione dei voti, anche tra gli studenti più brillanti.
Ogni istituto, quando si trova di fronte a fatti simili, accusa tutti gli altri attorno a sé. Il problema, ovviamente, è che nessuna università o corso può contrastare l’inflazione dei voti senza danneggiare i propri studenti: la prima facoltà che decidesse di sgonfiare i voti farebbe immediatamente sembrare i suoi studenti meno capaci di quelli di altri istituti. Questo, come correttamente rilevato da Rampell, significa che il voto predefinito non è più il “6 politico” degli anni Cinquanta, ma un “10 politico”, ora conferito a titolo di completamento del corso più che come premio d’eccellenza.
Princeton, Wellesley e Harvard, tra gli altri istituti, hanno creato commissioni per esaminare il problema dei voti gonfiati. Nel 2004 Princeton ha adottato una politica che cerca di limitare la possibilità della facoltà di assegnare A, esperimento che è stato ritirato dalla stessa facoltà meno di un decennio più tardi. A Wellesley, i dipartimenti di materie umanistiche hanno cercato di limitare il voto medio nei propri corsi a B+; quei corsi hanno visto diminuire le iscrizioni di un quinto e i dipartimenti hanno perso quasi un terzo degli studenti.
Gli educatori esperti si misurano con questo problema da anni. Sono uno di loro e, come i miei colleghi, non ho trovato una soluzione. I due dati più importanti sull’inflazione dei voti, tuttavia, sono che è un problema reale e che infonde negli studenti un’immotivata fiducia nelle loro capacità. Quasi tutti gli istituti di istruzione superiore sono complici, per così dire, di collusione sui voti, spinti da una parte dalle pressioni del mercato che vuole trasformare l’università in un luogo divertente, rendere gli studenti attraenti per i datori di lavoro e aiutare i professori vulnerabili a sfuggire all’ira degli allievi insoddisfatti, e dall’altra da idee irresponsabili sul ruolo dell’autostima nell’educazione.
giudicami con dolcezza
Un altro modo in cui college e università rafforzano l’idea che gli studenti siano clienti e quindi svalutano il rispetto per le competenze è incoraggiandoli a valutare gli educatori che si trovano di fronte come se fossero dei loro pari. Le valutazioni degli studenti sono nate dopo gli anni Sessanta con il movimento che chiedeva un ruolo di maggiore “rilevanza” e coinvolgimento degli allievi. Quelle valutazioni ci sono ancora e in un’epoca in cui le aziende, compresa quella dell’istruzione, sono ossessionate dalle “misurazioni”, vengono usate e abusate più che mai.
Io in realtà sostengo un uso limitato delle valutazioni degli studenti. Vorrei dire, senza modestia, che quelle che ho ricevuto sono state abbastanza buone fin dal giorno in cui ho iniziato a insegnare – ho vinto premi per l’insegnamento sia al Naval War College sia alla Harvard Extension School – e quindi non ho personali motivi di risentimento. Sono anche un ex amministratore accademico, e tra le mie mansioni in qualità di supervisore di dipartimento ho dovuto anche rivedere le valutazioni di altri docenti. Ho letto migliaia di queste valutazioni nel corso degli anni, scritte da studenti di tutti i livelli, e sono un esercizio valido se vengono gestite correttamente. Tuttavia, l’idea in sé è ormai sfuggita al controllo e gli studenti giudicano professionisti e professioniste come se stessero recensendo un film o commentando un paio di scarpe.
Le valutazioni di solito rientrano in una zona grigia, in cui la maggior parte degli insegnanti è competente e la maggior parte degli studenti generalmente gradisce i corsi. Tuttavia sono estremamente utili quando si tratta di individuare delle tendenze: uno sguardo ai giudizi espressi nel corso degli anni permette di identificare sia i migliori sia i peggiori insegnanti, specialmente se chi li legge è in grado di decodificare il modo in cui gli studenti scrivono queste relazioni (“è noioso”, per esempio, significa spesso “si aspettava veramente che io leggessi il libro che ha assegnato invece di farmi divertire”). Nelle mie classi, li uso per individuare quello che funziona o qualche bersaglio mancato, come per esempio quali libri o lezioni abbandonare o tenere, o per capire se la mia sensazione positiva o negativa riguardo a un corso svolto sia stata condivisa dagli studenti.
Tuttavia, c’è qualcosa di sbagliato in un sistema che chiede a uno studente quanto abbia apprezzato l’istruzione ricevuta. Il college non è un ristorante (a volte sento una vocina che mi declama una recensione di Yelp mentre leggo queste valutazioni: “Il corso di statistica di base è stato servito un po’ freddo, ma era sostanzioso, mentre il mio compagno ha scelto una leggera introduzione alle religioni del mondo che era appena appena speziata”). Valutare gli insegnanti crea una consuetudine mentale in cui il profano si abitua a giudicare l’esperto, pur trovandosi ovviamente in una posizione in cui ne sa di meno della materia in questione.
Le valutazioni degli studenti sono anche un indicatore ipersensibile, influenzato dai fattori più piccoli e irrilevanti, dalla comodità dei posti a sedere all’ora del giorno in cui si tiene il corso. Un certo numero di queste relazioni va ignorato. E alcune sono solo strane, al punto che i professori si scambiano aneddoti sulle valutazioni peggiori o più bizzarre che hanno ricevuto. Uno dei miei colleghi, per esempio, una volta ha tenuto una dettagliata lezione sulla storia navale britannica e l’unico commento di uno studente militare è stato che la camicia dell’insegnante non era stirata. Un illustre storico che conoscevo veniva regolarmente messo in ridicolo nelle valutazioni per il fatto di essere basso di statura. Una volta uno studente mi ha detto che ero un ottimo professore ma che dovevo dimagrire un po’ (ed era vero). A un altro studente non piacevo proprio, al punto che lui o lei, valutandomi, disse che avrebbe pregato per me.
Per quanto divertenti possano essere, queste relazioni incoraggiano gli studenti a considerarsi arbitri del talento degli insegnanti. E quando il punto dell’istruzione è rendere i clienti felici, la dipendenza del college dalle valutazioni obbliga gli insegnanti più deboli o meno sicuri a diventare orsi ballerini che si sforzano di essere amati o almeno di piacere, in modo che più studenti leggano le valutazioni e tengano in vita il corso (e il contratto del professore) anche per il trimestre successivo. Questo crea e alimenta un circolo vizioso di compiacimento e inflazione dei voti.
Gli studenti dovrebbero essere coinvolti nella loro istruzione in un ruolo più attivo di quello di osservatori o recettori di informazioni. L’impegno e il dibattito rappresentano la linfa vitale di un’università e i professori non sono al di sopra delle critiche né per le loro idee né per le loro capacità di insegnamento. Ma il modello di istruzione industriale ha ridotto il college a una transazione commerciale, in cui agli studenti viene insegnato come essere consumatori schizzinosi anziché pensatori critici. L’effetto a catena sul ruolo della competenza e il modo in cui questa situazione alimenta gli attacchi contro il sapere costituito ostacolano lo scopo stesso di un’università.
il college non è uno spazio sicuro
I giovani non sono così irresponsabili come a volte li ritraggono i media o la cultura pop o, se è per questo, la nostra immaginazione. Ridiamo guardando commedie di ambientazione universitaria e ricordiamo con affetto i momenti in cui siamo stati studenti irresponsabili, e poi diamo ai nostri figli severe istruzioni affinché non diventino come noi. Lodiamo l’attivismo degli studenti se decidiamo di sposarne la causa e lo deploriamo se non siamo d’accordo. Gli adulti hanno sempre la tendenza a essere critici severi della generazione che li segue.
Niente di tutto ciò, tuttavia, può giustificare i college per aver consentito ai loro campus di trasformarsi in circhi. Probabilmente era inevitabile che l’anti-intellettualismo della vita americana invadesse i campus universitari, ma questo non è un motivo sufficiente per capitolare. E credetemi: sempre di più i campus negli Stati Uniti stanno cedendo la propria autorità intellettuale non solo ai ragazzi, ma anche ad attivisti che attaccano direttamente le tradizioni della libertà di ricerca che le comunità di studiosi dovrebbero difendere.
Ho parecchie opinioni forti su quelli che considero attacchi alla libertà di ricerca, ma non ho intenzione di esternarle qui. Ci sono dozzine di libri e articoli che parlano di come i college e le università siano diventati paradisi di correttezza politica, in cui la libertà accademica è soffocata da codici draconiani imposti da ideologi presenti tra gli studenti e i docenti. Non vedo il senso di ripetere gli stessi argomenti in questa sede.
Quando parliamo della fine della competenza, tuttavia, è importante riflettere su come le mode del momento nei campus, tra cui quella degli “spazi sicuri” e quella degli speech codes, di fatto erodano la capacità dei college di produrre cittadini in grado di esercitare un pensiero critico (e ricordate, “pensiero critico” non è la stessa cosa di “critica incessante”). Così come fare il tour delle scuole come se si stesse andando a fare shopping insegna a ragazzi e ragazze a valutare un istituto per ragioni diverse dall’istruzione, questi alloggi per giovani attivisti li incoraggiano a credere, ancora una volta, che il compito di uno studente universitario sia quello di illuminare i professori e non il contrario.
Si potrebbero fare così tanti esempi che è quasi ingiusto puntare il dito contro una normativa o una controversia di una particolare università. È un problema endemico che colpisce tutte le università americane e si ripresenta, in ondate di diversa intensità, fin dall’inizio degli anni Sessanta. A essere diverso oggi, e particolarmente preoccupante quando si tratta di formare cittadini istruiti, è il modo in cui l’ambiente protettivo e avvolgente della moderna università rende infantili gli studenti e annulla così la loro capacità di condurre una discussione logica e informata. Quando i sentimenti sono più importanti della razionalità o dei fatti, l’istruzione è spacciata. Le emozioni sono una difesa inattaccabile contro le competenze, un fossato di rabbia e risentimento in cui la ragione e la conoscenza affondano rapidamente. E quando gli studenti stabiliscono che le emozioni vincono su tutto il resto, porteranno quella lezione con sé per il resto della vita.
I college dovrebbero essere un ambiente calmo in cui uomini e donne istruiti determinano ciò che è vero e ciò che è falso, e imparano a seguire un modello di ricerca accademica a prescindere da dove li conduca. Invece, molte università sono diventate ostaggio di studenti convinti che i loro sentimenti debbano prevalere su ogni altra considerazione. Senza dubbio credono che una richiesta simile sia nel loro diritto perché questo è il modo in cui, fino ad allora, hanno vissuto le proprie esistenze, in una cultura terapeutica che non lascia inespresso alcun pensiero e non permette che sia invalidato alcun sentimento.
Tuttavia, l’attivismo studentesco è una componente normale della vita del college. Dagli adolescenti ci si aspetta che siano appassionati; è normale quando si hanno vent’anni. Sono ancora abbastanza all’antica da aspettarmi che uomini e donne istruiti diventino leader tra gli elettori in virtù della loro cultura, e quindi esprimo il mio plauso agli elettori di domani che esercitano il loro ragionamento politico attraverso il dibattito e la discussione.
Purtroppo, il nuovo attivismo studentesco sta regredendo verso il vecchio attivismo studentesco di mezzo secolo fa: intolleranza, dogmatismo e perfino minacce e violenze. Ironia della sorte (o forse tragedia), gli studenti adoperano un linguaggio estremo per richieste estreme di inezie sempre più insignificanti. I baby boomers potevano rivendicare di bloccare il campus per chiedere la pace nel 1967: era comprensibile che dei giovanotti in procinto di essere arruolati e inviati in una giungla asiatica reagissero in modo emotivo alla questione. I membri di gruppi di minoranza che non diventarono pienamente cittadini agli occhi della legge fino agli inizi degli anni Sessanta si sentivano giustamente tagliati fuori dalle opzioni di protesta meno teatrali di quelle che misero su, anche se nulla giustifica la violenza che ne scaturì.
Oggi, al contrario, gli studenti esplodono per offese immaginarie che non rientrano nemmeno lontanamente nella stessa categoria della lotta per i diritti civili o del rischio di andare in guerra. Costruiscono maestosi Everest da monticelli lasciati da talpe e precipitano nell’isteria per scherzi e bufale. Nel bel mezzo di tutto ciò, stanno imparando che l’emozione e il volume possono sempre sconfiggere la ragione e la sostanza, costruendosi intorno delle fortezze che nessun futuro insegnante, esperto o intellettuale sarà mai in grado di violare.
A Yale nel 2015, per esempio, la moglie del direttore di un convitto ha avuto la temerarietà di dire agli studenti appartenenti a minoranze etniche di ignorare i costumi di Halloween che ritenevano offensivi. Questo ha provocato un attacco di isteria in tutto il campus durante il quale alcuni professori sono stati zittiti da studenti urlanti. “Nella sua posizione” ha gridato in faccia a un professore uno studente “è suo compito creare un luogo di conforto e far sentire a casa gli studenti… Lo capisce?!”.
In tutta tranquillità, il professore ha replicato: “No, non sono d’accordo”, al che lo studente gli ha rovesciato addosso quanto segue:
“Allora perché [imprecazione] ha accettato questo lavoro?! Chi [imprecazione] l’ha assunta?! Dovrebbe dimettersi! Se questo è ciò che pensa del suo ruolo di educatore dovrebbe dimettersi! Non si tratta di creare uno spazio intellettuale! Non è così! Lo capisce? Si tratta di creare una casa. E lei non lo sta facendo!”47 [corsivo mio]
Anziché disciplinare gli studenti che avevano violato l’etichetta del dibattito accademico, Yale si è scusata con quegli isterici. Il direttore alla fine si è dimesso dalla sua carica, pur rimanendo membro della facoltà. Sua moglie, tuttavia, si è dimessa dal suo ruolo nel corpo docenti e ha lasciato del tutto l’insegnamento universitario.
Per i professori di qualsiasi istituto, la lezione è stata chiara: il campus di una prestigiosa università non è un luogo deputato all’esplorazione intellettuale. È una casa di lusso, affittata da quattro a sei anni, nove mesi alla volta, da bambini dell’élite che possono urlare contro il corpo docenti come se stessero rimproverando delle goffe domestiche in una villa coloniale.
Un mese dopo il frastuono di Yale, sono divampate proteste all’Università del Missouri in seguito a una ragazzata durante la quale è stata disegnata una svastica con delle feci sulla parete di un bagno. Cosa avrebbe dovuto fare l’ammiraglia delle università pubbliche del Missouri, oltre a lavare il muro, non era del tutto chiaro, ma a ogni modo il campus è esploso. “Lo sa che cos’è una repressione sistematica?!” urlò uno studente al rettore confuso. “Lo vada a cercare su Google!” Gli studenti di giornalismo sono stati molestati e minacciati, in un caso da un docente della facoltà con un incarico di cortesia, colmo dei colmi, alla scuola di giornalismo. Dopo qualche altro giorno di questo teatrino, il rettore dell’università ha rassegnato le dimissioni (il direttore del campus e un professore che si erano rifiutati di annullare le lezioni dopo le proteste hanno seguito entrambi il suo esempio).
La Missouri, tuttavia, non è Yale. Non ha una domanda rigida per i suoi servizi. Le richieste e le donazioni hanno subito un brutto colpo in seguito alle proteste e alle dimissioni.48 Alcuni mesi dopo, il professore associato di giornalismo che aveva affrontato lo studente è stato licenziato. Quando il fumo si è diradato, l’università si è ritrovata con un corpo docenti ridotto, meno amministratori, candidati e donazioni, tutto perché un gruppo di studenti, abilitati da un gruppo ancora più ristretto di docenti, aveva invertito i ruoli di insegnanti e allievi in una grande università pubblica.
È interessante notare che questo è un argomento che spesso accomuna intellettuali liberal e conservatori. Lo studioso britannico Richard Dawkins, una specie di flagello per i conservatori a causa delle sue opinioni sulla religione, si è detto perplesso all’idea degli “spazi sicuri”, aree libere da ogni forma di espressione politica che potrebbe fungere da “innesco”, richiesti dagli studenti americani. Dawkins non ha girato intorno al problema: “Un’università non è uno ‘spazio sicuro’” ha affermato su Twitter. “Se hai bisogno di uno spazio sicuro, vattene, torna a casa, abbraccia il tuo orsacchiotto e succhiati il pollice finché non sei pronto per l’università.”
Allo stesso modo, dopo gli eventi di Yale e della Missouri, un giornalista dell’Atlantic, Conor Friedersdorf, ha osservato che “quello che succede a Yale non resta lì” e che le élite di domani stanno interiorizzando valori non di libera espressione, ma di pura intolleranza. “Fanno tenerezza, questi studenti” ha scritto in seguito Friedersdorf (a me no, ma Friedersdorf è più comprensivo di me). “Ma se una mail sui costumi di Halloween li spinge a saltare le lezioni e provoca loro un esaurimento, o hanno bisogno dell’aiuto di professionisti della salute mentale oppure le snervanti nozioni ideologiche che hanno acquisito su ciò che dovrebbe causare dolore hanno reso loro davvero un pessimo servizio.”49
Nel frattempo, un editorialista libertario nonché professore di diritto dell’Università del Tennessee, Glenn Reynolds, ha proposto una soluzione più enfatica:
Per essere un elettore, bisogna essere in grado di partecipare alle discussioni politiche degli adulti. È necessario essere in grado di ascoltare le argomentazioni contrarie e perfino – come sto facendo proprio qui in questa rubrica – di cambiare idea di fronte a nuove prove.
Quindi forse dovremmo innalzare l’età per votare a venticinque anni, un’età in cui, lo speriamo ardentemente, dovrebbe essersi instaurato un certo grado di maturità. È già abbastanza grave dover trattare gli studenti universitari come bambini. Ma è intollerabile essere governati da bambini viziati. Le persone che non sono in grado di discutere razionalmente dei costumi di Halloween non meritano di avere un ruolo nella gestione di una grande nazione.50
Possiamo essere certi che nessuno cambierà la Costituzione in risposta al suggerimento del professor Reynolds, ma i suoi commenti, come quelli di altri osservatori, alludono al bizzarro paradosso secondo cui gli studenti universitari pretendono di dirigere la scuola pur insistendo di voler essere trattati da bambini.
Ancora una volta, non ho idea di come si esca da questa situazione, soprattutto prima che gli studenti arrivino al college. Come la maggior parte dei professori, spero, con i miei studenti mi attengo a standard chiari. Mi aspetto che imparino a formulare le loro opinioni e a discuterle, con calma e in modo logico. Assegno i voti in base alle risposte alle domande che pongo loro agli esami e alla qualità del loro lavoro scritto, non in base alle loro opinioni politiche. Chiedo che trattino gli altri studenti con rispetto e che si confrontino con le idee e le convinzioni degli altri in classe senza emotività o attacchi personali.
Ma quando gli studenti escono dalla mia classe, mi tormenta la consapevolezza che non potrò moderare i loro dibattiti per sempre. Non posso impedir loro di ignorare gli altri, di rifiutare i fatti, di respingere i pareri animati da buone intenzioni o di rimpiazzare la verità con i loro sentimenti. Se per quattro anni hanno mostrato mancanza di rispetto per i professori e le istituzioni, non ci si può aspettare che rispettino i loro concittadini. E se non si può più contare sui laureati per condurre discussioni e dibattiti ragionati nella vita americana e per conoscere la differenza tra il sapere e i sentimenti, allora siamo davvero in un guaio talmente grave che nessun esperto può risolverlo.
30. D.W. Drezner, “A Clash between Administrators and Students at Yale Went Viral”, The Washington Post online, 9 novembre 2015.
31. Una ricerca dell’Educational Testing Service, il gruppo che somministra lo Scholastic Aptitude Test o SAT, agli studenti che devono iscriversi al college, ha rilevato che non c’era alcun miglioramento delle abilità connesso all’esplosione delle iscrizioni al college. Cfr. Educational Testing Service, America’s Skills Challenge: Millennials and the Future, Educational Testing Service, Princeton, NJ, 2015.
32. B. Casselman, “Shut Up about Harvard”, FiveThirtyEight.com, 30 marzo 2016.
33. J. Piereson e N. Schaefer Riley, “Remedial Finance: The Outsized Cost of Playing Academic Catch-Up”, The Weekly Standard online, 9 maggio 2016.
34. R. Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente corretto, Adelphi, Milano, 2003.
35. V. Strauss, “I Would Love to Teach, But…”, The Washington Post online, 31 dicembre 2013.
36. E. Brown, “Former Stanford Dean Explains Why Helicopter Parenting Is Ruining A Generation of Children”, The Washington Post online, 16 ottobre 2015.
37. M. McArdle, “Sheltered Students Go to College, Avoid Education”, BloombergView.com, 13 agosto 2015.
38. J.J. Selingo, “Helicopter Parents Are Not the Only Problem. Colleges Coddle Students, Too”, The Washington Post, 21 ottobre 2015.
39. R. Soave, “Yale Students Tell English Profs to Stop Teaching English: Too Many White Male Poets”, Reason.com, primo giugno 2016.
40. J.D. Glater, “To: Professor@University.edu Subject: Why It’s All about Me”, The New York Times online, 22 febbraio 2006.
41. .V. Schall, Another Sort of Learning, Ignatius, San Francisco, 1988, pp. 30-37.
42. Dunning, “We Are All Confident Idiots”, cit.
43. Il Tiny Castleton State College in Vermont, ora un’“università”, è solo uno dei tanti esempi nel New England. L. Rathke, “Switching from a College to a University Could Mean More Money, More Students”, The Huffington Post, 12 luglio 2015.
44. C. Rampell, “The Rise of the ‘Gentleman’s A’ and the GPA Arms Race”, The Washington Post online, 20 marzo 2016.
45. R. Arun, “College Graduates: Satisfied, but Adrift”, in Bauerlein e Bellow (a cura di), The State of the American Mind, cit., p. 68.
46. I dati del 2016 erano un’estensione di ricerche condotte in precedenza dai professori Stuart Rojstaczer e Chris Healy, che continuano a raccogliere dati sui voti dopo aver scritto articoli sull’argomento nel 2010 e nel 2012. Conservano un database del loro lavoro su GradeInflation.com.
47. Per due dei tanti rapporti e per le reazioni di conservatori e liberal, cfr. K. Waldman, “Yale Students Erupt in Anger over Administrators Caring More about Free Speech Than Safe Spaces”, Slate.com, 7 novembre 2015; e S. Weismann, “How Babies Are Made”, The Weekly Standard, 10 novembre 2015.
48. .R. Williams, “Race Protests at Mizzou Could Stunt Freshmen Enrollment”, Kansas City Star online, 13 gennaio 2016.
49. C. Friedersdorf, “The New Intolerance of Student Activism”, The Atlantic online, 9 novembre 2015.
50. G. Reynolds, “After Yale, Mizzoue, raise the voting age – to 25”, Usa Today online, 16 novembre 2015.
capitolo 4
Ora lo cerco su Google
Come l’informazione illimitata ci rende più stupidi
Ormai la mia mente si aspetta di assorbire le informazioni nel modo
in cui la Rete le distribuisce: in un flusso di particelle che si muove con
grande rapidità. Un tempo ero un sommozzatore nel mare
delle parole. Ora sfreccio sulla superficie come una moto d’acqua.
Nicholas G. Carr
Anche se internet potrebbe renderci tutti più intelligenti,
instupidisce molti di noi, perché non si tratta soltanto
di una calamita per i curiosi. È un inghiottitoio per i creduloni.
Trasforma chiunque in esperto istantaneo.
Hai una laurea? Be’, ho fatto una ricerca su Google!
Frank Bruni
Non credete a tutto quello che leggete su internet, soprattutto
alle frasi di persone famose.
Abraham Lincoln (probabilmente)
il ritorno della legge di sturgeon
Chiedete a un professionista o a un esperto cosa pensa della fine della competenza, e la maggior parte di loro accuserà immediatamente lo stesso colpevole: internet. Persone che in passato dovevano chiedere una consulenza specialistica in qualsiasi campo ora inseriscono termini di ricerca in un browser e ottengono una risposta nel giro di qualche secondo. Perché affidarvi a persone con un’istruzione e un’esperienza superiori alle vostre – o, peggio, prenderci un appuntamento – quando potete ottenere da soli quell’informazione?
Dolore al petto? Chiedete al vostro computer: la domanda “perché mi fa male il petto?” genera più di undici milioni di risultati (almeno sul motore di ricerca che ho appena usato), esattamente in 0,52 secondi. Un flusso di informazioni riempie lo schermo di utili consigli, provenienti da fonti che vanno dagli istituti nazionali di sanità ad altri organismi dalle credenziali un tantino meno rispettabili. Alcuni di questi siti addirittura spiegano all’aspirante paziente la diagnosi, passo per passo. Il vostro medico magari avrà un’opinione diversa, ma chi è lui per discutere con uno schermo luminoso che risponde alla vostra domanda in meno di un secondo?
In effetti, chi è chiunque per discutere con chiunque? Nell’èra dell’informazione, non esiste una discussione irrisolvibile. Ciascuno di noi se ne va in giro portando con sé un accumulo di informazioni, su uno smartphone o su un tablet, di gran lunga superiore a quelle mai raccolte in tutta la Biblioteca d’Alessandria. All’inizio di questo libro ho citato il personaggio di Cliff Clavin nel classico della tv Cin cin, l’espertone locale che faceva ogni volta la paternale agli altri avventori abituali di un pub di Boston su qualsiasi argomento al mondo. Ma oggi Cliff non potrebbe esistere: al suo primo “è risaputo che”, tutti i presenti potrebbero tirar fuori un telefono e verificare (o più probabilmente smentire) le affermazioni di Cliff.
In altre parole, la tecnologia ha creato un mondo in cui ormai siamo tutti Cliff Clavin. E questo è un problema.
Nonostante quel che possono pensare i professionisti irritati, però, internet non è la causa principale delle minacce alla loro competenza. Piuttosto, internet ha accelerato il crollo della comunicazione tra esperti e profani offrendo un’apparente scorciatoia per l’erudizione. La Rete consente alla gente di imitare la preparazione intellettuale crogiolandosi in un’illusione di competenza offerta da un rifornimento infinito di fatti.
Ma i fatti, come sanno gli esperti, sono cosa diversa dal sapere o dal saper fare. E su internet i fatti a volte non sono nemmeno tali. Nelle varie contese delle campagne contro il sapere costituito, internet è come l’artiglieria di supporto: un bombardamento costante di informazioni random, sconnesse, che piovono addosso allo stesso modo agli esperti e ai cittadini comuni, assordando tutti noi e facendo saltare in aria qualsiasi tentativo di discussione ragionevole.
Gli utenti di internet hanno inventato molte leggi e corollari umoristici per descrivere il dibattito nel mondo elettronico. La tendenza a parlare della Germania nazista in qualsiasi discussione ha ispirato la legge di Godwin e la reductio ad Hitlerum, a essa strettamente collegata. Le convinzioni profondamente radicate e solitamente immutabili degli utenti di internet sono alla base della legge di Pommer, secondo cui internet può far cambiare idea a una persona soltanto facendola passare dal non avere un’opinione ad averne una sbagliata. Ce ne sono molte altre, tra cui la mia preferita, la legge di Skitt: “Qualsiasi messaggio di internet che corregge un errore in un altro post, conterrà almeno un errore a sua volta”.
Per quel che riguarda la fine della competenza, tuttavia, la legge da tenere a mente è un’osservazione coniata molto tempo prima dell’avvento del personal computer: la legge di Sturgeon, che prende nome dal leggendario scrittore di fantascienza Theodore Sturgeon. All’inizio degli anni Cinquanta, i critici intellettuali deridevano la letteratura popolare, in particolare la fantascienza americana. La consideravano insieme al fantasy un ghetto letterario, e arricciavano il naso ritenendo i due generi quasi del tutto inutili. Sturgeon rispose infuriato che i critici stavano ponendo l’asticella troppo in alto. La maggior parte dei prodotti nella maggior parte dei campi, dichiarò, è di bassa qualità, compresa quella che allora era considerata scrittura alta. “Il 90 per cento di ogni cosa” decretò Sturgeon “è spazzatura”.
Per quel che riguarda internet, il 90 per cento contemplato nella legge di Sturgeon potrebbe essere una stima al ribasso. Le dimensioni e il volume di internet, e l’incapacità di separare il sapere serio dal rumore casuale, significano che le buone informazioni sono sempre sommerse da dati scadenti e bizzarre digressioni. Quel che è peggio, non c’è modo di tenere il passo con tutto questo, anche se un gruppo o un’istituzione volesse provarci. Nel 1994 c’erano meno di tremila siti web online; nel 2014 ce n’erano più di un miliardo.51 La maggior parte è rintracciabile e ti si presenta davanti agli occhi in pochi secondi, a prescindere dalla qualità.
La buona notizia è che, anche se la legge di Sturgeon vale, ci sono comunque cento milioni di buoni siti web. Tra questi figurano tutte le principali testate di informazione del mondo (molte delle quali vengono lette ormai più in pixel che su carta), oltre alle home page di think tank, università, organismi di ricerca e numerose figure scientifiche, culturali e politiche importanti. La cattiva notizia, ovviamente, è che trovare tutte queste informazioni significa avanzare a fatica attraverso una tempesta di informazioni inutili o fuorvianti postate da chiunque, da nonne animate dalle migliori intenzioni a killer dello Stato islamico. Alcune delle persone più intelligenti della terra vantano una presenza rilevante su internet; alcune delle persone più stupide del pianeta, però, si trovano a distanza di un clic sulla pagina o sul link successivi.
Gli innumerevoli cassonetti di stupidaggini parcheggiati su internet sono un incubo degno della legge di Sturgeon. Le persone che già devono compiere scelte difficili su come ottenere informazioni da qualche decina di canali di notizie sulle loro televisioni ora si ritrovano ad affrontare milioni di milioni di pagine web prodotte da chiunque sia disposto a pagare per avere una presenza online. Internet è senza dubbio una grande conquista che continua a cambiare le nostre vite in meglio, consentendo a più persone un accesso migliore alle informazioni – e ad altre persone – di quanto non sia mai accaduto prima. Ma ha anche un lato oscuro che ha effetti importanti e profondamente negativi sul modo in cui le persone acquisiscono conoscenze e reagiscono alla competenza.
Il problema più ovvio è che la libertà di postare qualsiasi cosa online inonda la pubblica piazza di cattive informazioni e idee raffazzonate. Internet permette a un miliardo di fiori di sbocciare e la maggior parte di loro puzza: dai futili pensieri di un blogger qualsiasi e dalle teorie del complotto di tipi strampalati fino alle sofisticate campagne di disinformazione condotte da gruppi e governi. Alcune delle informazioni presenti su internet sono sbagliate per sciatteria, alcune perché persone armate di buone intenzioni non ne sanno molto, e altre ancora perché sono state messe lì per avidità o addirittura per pura cattiveria. Il mezzo in sé, senza commenti o interventi editoriali, mette in mostra tutto con la stessa rapidità. Internet è un recipiente, non un arbitro.
Naturalmente, siamo di fronte né più né meno che a una versione aggiornata del paradosso fondamentale della stampa. Come ha sottolineato il giornalista Nicholas Carr, l’arrivo dell’invenzione di Gutenberg nel Quindicesimo secolo diede il via a una “serie di digrignamenti di denti” tra i primi umanisti, preoccupati che “i libri a stampa e i giornali avrebbero minato l’autorità religiosa, sminuito il lavoro di studiosi e scribi e diffuso la sedizione e la dissolutezza”.52
Questi bastian contrari medievali non avevano del tutto torto. La macchina da stampa venne usata per produrre Bibbie in serie, per insegnare a leggere alle persone, e infine per potenziare l’alfabetizzazione che guida tanta parte della libertà umana. Naturalmente permise anche la diffusione di follie come i Protocolli dei Savi di Sion, insegnò alle persone a confondere parole e fatti, e sostenne la creazione di propaganda totalitarista che minacciava quella stessa libertà umana. Internet è la macchina da stampa alla velocità della fibra ottica.
Oltre a facilitare torrenti di disinformazione, internet sta indebolendo la capacità di profani e studiosi di compiere ricerche elementari, un’abilità che aiuterebbe tutti a navigare in questa landa desolata di dati non validi. Potrebbe sembrare un’affermazione strana da parte di un membro della comunità accademica, poiché sono felice di ammettere che l’accesso a internet facilita enormemente il mio lavoro di scrittore. Negli anni Ottanta, per compilare una tesi dovevo trascinarmi dietro carichi di libri e articoli. Oggi ho a disposizione segnalibri dei browser e cartelle zeppe di articoli consultabili elettronicamente. Come potrebbe non essere meglio delle ore che trascorrevo ad accecarmi davanti a una fotocopiatrice nelle viscere di una biblioteca?
Per alcuni versi, la comodità di internet è un’enorme manna, ma soprattutto per persone già allenate nella ricerca e che hanno un minimo di idea di cosa vogliono trovare. È molto più facile abbonarsi alla versione elettronica, per esempio, di Foreign Affairs o International Security che andarsene in biblioteca o controllare impazientemente la cassetta della posta in un ufficio. Purtroppo questo non è di alcun aiuto per uno studente o un profano inesperto a cui nessuno ha mai insegnato come valutare la provenienza delle informazioni o la rispettabilità di un giornalista.
Le biblioteche, o quanto meno la sezione di reference e quella accademica, in passato fungevano da primo varco attraverso il rumore della piazza del mercato. Visitare una biblioteca era un momento istruttivo in sé e per sé, soprattutto per un lettore che si prendeva il tempo di chiedere aiuto a un bibliotecario. Internet, tuttavia, non assomiglia affatto a una biblioteca. È piuttosto un gigantesco magazzino in cui chiunque può abbandonare qualsiasi cosa, da un first folio a una fotografia falsa, da un trattato scientifico a materiale pornografico, da brevi bollettini di informazione a graffiti elettronici privi di senso. È un ambiente quasi del tutto privo di regole, che apre la porta a contenuti spinti dal marketing, dalla politica e dalle decisioni ignare di altri profani, più che dal giudizio di esperti.
È possibile che cinquanta milioni di fan di Elvis si sbaglino? Certo che è possibile.
In pratica ciò significa che i risultati di una ricerca di informazioni sono risputati fuori da qualsiasi algoritmo sia in funzione in un motore di ricerca, solitamente fornito da società a scopo di lucro che usano criteri fondamentalmente oscuri per l’utente. Un ragazzo che si rivolge alla Rete per soddisfare una curiosità sui carrarmati della Seconda guerra mondiale è più probabile che si imbatta in Killing Patton, libro ridicolo – ma di grande successo – scritto dal personaggio televisivo Bill O’Reilly, piuttosto che nell’opera più difficile ma accurata del migliore storico militare del Ventesimo secolo. Su internet come nella vita, i soldi e la popolarità purtroppo contano molto.
Digitare parole nella finestra di un browser non significa effettuare una ricerca: significa rivolgere domande a macchine programmabili che da sole non sono in grado di comprendere gli esseri umani. La ricerca vera e propria è dura, e per persone cresciute in un ambiente di costante stimolo elettronico è anche noiosa. La ricerca richiede la capacità di trovare informazioni autentiche, di riassumerle, analizzarle, scriverle e presentarle ad altre persone. Non è territorio esclusivo di scienziati e studiosi, ma una serie elementare di abilità che un’istruzione superiore dovrebbe fornire a tutti i laureati perché è importante per qualsiasi lavoro e carriera. Ma perché degnarsi di fare tutti quei noiosi salti mortali quando lo schermo davanti a noi ha già le risposte, generate a milioni in pochi secondi, e meravigliosamente presentate su siti web colorati e dall’aspetto autorevole?
Il problema più profondo è che internet sta davvero cambiando il modo in cui leggiamo, il modo in cui ragioniamo, perfino il modo in cui pensiamo, e in peggio. Ci aspettiamo di ottenere informazioni all’istante. Le vogliamo già scomposte, presentate in una forma gradevole alla vista – basta con quei fragili libri di testo a caratteri minuscoli, grazie tante – e vogliamo che dicano quello che noi vogliamo che dicano. Le persone non effettuano tanto delle “ricerche” quanto “cercano belle pagine online che offrano risposte gradite con il minimo sforzo e nel lasso di tempo più breve”. Il flusso di informazioni che ne risulta, sempre di qualità variabile e a volte dalla sanità mentale discutibile, crea una patina di sapere che in realtà fa stare le persone peggio di quando non sapevano niente. È un vecchio adagio, ma è vero: non è quello che non sai che ti fa male, è quello che sai e che non è vero.
Infine, e si tratta forse del dato più inquietante, internet ci rende più meschini, irascibili e incapaci di partecipare a discussioni in cui qualcuno possa imparare qualcosa. Il problema principale della comunicazione istantanea è che è istantanea. Se internet consente alle persone di parlare tra loro come mai in passato – una condizione storica chiaramente nuova –, forse il fatto che tutti parlino immediatamente con tutti gli altri non è sempre una buona idea. A volte gli esseri umani hanno bisogno di fare una pausa e di riflettere, per darsi il tempo di assorbire le informazioni e digerirle. Invece internet è un’arena in cui le persone possono reagire senza pensare, e quindi a loro volta si infervorano nel difendere le loro reazioni di pancia anziché accettare nuove informazioni o ammettere un errore, soprattutto se è un errore evidenziato da persone che hanno un’erudizione o un’esperienza maggiori.
cos’è falso su internet: tutto
Non ci sono abbastanza pagine, su questo o su altri libri, per catalogare la quantità di informazioni non valide presenti in Rete. Cure miracolose, teorie del complotto, documenti falsi, citazioni attribuite alla persona sbagliata: tutte queste cose, e altre ancora, costituiscono le erbacce infestanti che con grande velocità hanno ricoperto il giardino globale del sapere. I fiori e le erbe più sane, ma meno resistenti, non hanno possibilità di sopravvivere.
Vecchie leggende metropolitane e teorie del complotto dure a morire, per esempio, sono state rimesse a nuovo e sono rinate online. Tutti abbiamo sentito storie di alligatori nelle fogne, di improbabili morti di celebrità e di biblioteche crollate perché nessuno ha contato il peso dei libri che contenevano, raccontate e riraccontate principalmente tramite passaparola. Su internet queste storie vengono presentate con una grafica e un layout bellissimi e ormai si diffondono con tale rapidità, grazie a email e social media, che ci sono gruppi, come l’ammirevole progetto di Snopes e altre organizzazioni di fact-checking, che non fanno altro che spegnere questi incendi di cassonetti intellettuali tutto il giorno.
Purtroppo navigano controcorrente. La gente non si rivolge a internet per correggere le cattive informazioni in suo possesso o per vedere smentite le sue amate teorie. Nel 2015 una giornalista del Washington Post, Caitlin Dewey, temeva che il fact-checking non avrebbe mai potuto sconfiggere i miti e le bufale perché “nessuno ha il tempo né la capacità cognitiva di risolvere tutte le evidenti sfumature e discrepanze con la ragione”.53 Alla fine, sospirava, “sfatare i miti non serve a un bel niente”.
Due mesi dopo che Dewey ha scritto queste parole, lei e il Post hanno gettato la spugna e chiuso la sua rubrica settimanale “Cos’è falso su internet”: non era possibile tenere il passo di quella follia, soprattutto dopo che i creatori di bufale hanno capito come guadagnare soldi diffondendo miti per ottenere preziosi clic sui siti web. “Francamente” ha raccontato Dewey ai suoi lettori “questa rubrica non era pensata per affrontare l’ambiente attuale. Questo formato non ha senso”. Più allarmanti sono le conversazioni che Dewey ha avuto con alcuni ricercatori professionisti secondo i quali “la sfiducia nelle istituzioni è ormai talmente alta e la distorsione cognitiva sempre talmente forte che le persone che credono alle bufale spesso sono interessate soltanto a consumare informazioni che si conformano alle loro idee, anche quando sono palesemente false”.54 Dewey e il Post hanno dichiarato guerra a internet, e hanno perso.
Molte sciocchezze, soprattutto in ambito politico, si nutrono della vastità e della resistenza della Rete. Un caparbio gruppo di eccentrici può ancora credere che la terra sia piatta o che gli americani non siano mai sbarcati sulla Luna, ma alla fine le fotografie scattate nello spazio vanno più che bene per noialtri. Ma quando si tratta di leggende metropolitane come la nascita in Africa di Barack Obama, o la teoria per cui gli attacchi terroristici dell’11 settembre sarebbero stati orchestrati da George W. Bush, o il piano segreto del Tesoro statunitense per rimpiazzare il dollaro con una valuta globale, gli astronauti con la macchina fotografica non sono d’aiuto. I social media, i siti web e le chat room trasformano miti, storie sentite da “un amico di un amico” e voci in “fatti”.
Come ha spiegato il giornalista britannico Damian Thompson, la comunicazione istantanea rafforza persone e gruppi dediti a idee folli, alcune delle quali piuttosto pericolose. Thompson la definisce “controconoscenza”, poiché va contro la scienza ed è completamente impermeabile a qualsiasi prova che dimostri il contrario.
Ora, grazie a internet […], una voce che riguarda l’Anticristo può rimbalzare in pochi secondi dai dark svedesi fino a una setta di estremisti cattolici tradizionali che vivono in Australia. I gruppi minoritari stanno diventando sempre più tolleranti nei riguardi delle dottrine eccentriche dei loro analoghi. I contatti tra razzisti neri e bianchi, iniziati in modo esitante decenni fa, ora fioriscono e i due gruppi si scambiano aneddoti complottisti.55
In un mondo più lento e meno connesso, questo tipo di gruppi non potrebbe rafforzare le proprie convinzioni con affermazioni istantanee da parte di altri estremisti online. La libera circolazione di idee è un potente elemento di spinta della democrazia, ma porta sempre con sé il rischio che gente ignorante o malvagia possa piegare gli strumenti della comunicazione di massa ai propri fini e diffondere bugie e miti che nessun esperto riesce a dissipare.
Quel che è peggio, le cattive informazioni possono rimanere online per anni. A differenza del quotidiano del passato, l’informazione online è persistente e si ripresenta in ricerche successive dopo essere comparsa una volta. Anche quando falsità ed errori vengono cancellati alla fonte, compaiono in un archivio da qualche altra parte. Se le storie che contengono diventano “virali” e viaggiano per il mondo elettronico nel giro di qualche giorno, di qualche ora o addirittura di qualche minuto, sono di fatto impossibili da correggere.
Per esempio, nel 2015 il polemico conservatore Allen West annunciò uno scoop inventato secondo cui il presidente Obama costringeva i membri dell’esercito americano a pregare come i musulmani per il Ramadan.56 Il sito web di West accostò un titolo squillante – “Guardate cosa sono COSTRETTE a fare le nostre truppe” – a una foto di soldati statunitensi inginocchiati e con la testa poggiata sul tappeto da preghiera. Era un’immagine sconvolgente e la notizia si diffuse rapidamente sui social media.
Non era successo nulla del genere: West aveva riciclato una fotografia, scattata diversi anni prima, di veri musulmani dell’esercito statunitense mentre pregavano. Anche quando furono sollevate obiezioni nei confronti della fotografia fuorviante (tra gli altri, anche da parte mia), West non ritrattò la storia. Non avrebbe avuto importanza, dato che era già stata archiviata su blog e altri siti. La gente che naviga su internet e non ha né la preparazione né il tempo per accertare la provenienza delle informazioni, da questo momento in poi si imbatterà non soltanto nell’articolo originario ma anche in migliaia di sue ripetizioni, e non saprà mai che si tratta di una fesseria.
Oggi nessuno ha bisogno di sentirsi frustrato per colpa di fact-checker minuziosi o direttori risoluti. Così come in passato un bel libro rilegato poteva fuorviare le persone e indurle a pensare che il suo contenuto fosse autorevole, anche i siti web più curati offrono indicatori visivi di affidabilità e autenticità che aiutano i lettori sprovveduti a diffondere cattive informazioni più rapidamente di qualsiasi titolo della casa editrice William Randolph Hearst potesse immaginare. Gli esperti e altri professionisti che insistono sul noioso rigore della logica e dell’accuratezza fattuale non possono competere con una macchina che dà sempre ai lettori la risposta che preferiscono in sedici milioni di colori.
certo che è sicuro, l’ho trovato su google
Mettendo da parte i siti web eleganti e autoprodotti, gli inevitabili post su Facebook e i meme che affollano internet, la ricerca di risposte rapide ha facilitato anche la crescita di intere industrie basate sulla vendita di idee errate al pubblico, che deve pagare per il privilegio di essere disinformato. Non mi riferisco al giornalismo online – ne parleremo nel prossimo capitolo – ma ai tanti organi di stampa, spesso diretti da celebrità, che offrono consigli tesi a soppiantare e sostituire il sapere costituito degli esperti.
Sei una donna preoccupata della tua salute riproduttiva? Non ho esperienza in questo campo, ma le donne della mia vita mi dicono che non amano particolarmente andare dal ginecologo. Ora che è arrivato internet, però, le donne hanno una fonte di informazioni alternativa ai professionisti della medicina: attraverso la sua “rivista di lifestyle” GOOP l’attrice Gwyneth Paltrow può discutere con voi, nella privacy delle vostre case o attraverso i vostri smartphone, dei tanti accorgimenti che le donne possono adottare per mantenere in salute il loro apparato genitale, tra cui i bagni di vapore per la vagina.
Se non avete familiarità con questa pratica, la signora Paltrow la raccomanda caldamente. “Ci si siede su quello che è essenzialmente un mini-trono” ha dichiarato nel 2014 “e una miscela di infrarossi e vapore di artemisia purifica l’utero e il resto. È una liberazione di energie – non soltanto un bagno di vapore – che equilibra i livelli di ormoni femminili. Se siete [a Los Angeles] dovete provarlo”.
I veri ginecologi, tuttavia, non raccomandano che le donne, a Los Angeles o altrove, sottopongano la parte mediana del loro corpo a un trattamento di vapore. Una ginecologa di nome Jen Gunter si è affidata al proprio sito web (di gran lunga meno glamourous) con una chiara raccomandazione alternativa:
Il vapore non entra nell’utero dalla vagina a meno che non usiate un accessorio a pressione e DECISAMENTE NON FATELO MAI. Artemisia o assenzio o qualsiasi altra sostanza, se vaporizzate, sia a livello della vagina sia sulla vulva, non possono equilibrare gli ormoni della riproduzione, regolarizzare il ciclo mestruale, curare la depressione o l’infertilità. Neanche gli estrogeni vaporizzati possono farlo.
Se volete rilassarvi andate a fare un bel massaggio. Se volete rilassare la vagina, procuratevi un orgasmo.57
Il sito di Paltrow, tuttavia, è l’incarnazione di tutto ciò che è di tendenza, almeno per una particolare fetta della popolazione. Un’autrice satirica di nome Laura Hooper Beck ha descritto alla perfezione la credulità dei fan di Paltrow:
Praticamente, se un medico mi dice di farlo, non se ne parla proprio. Ma se una bionda secca con una brutta parrucca mi dice che soffiare aria bollente nella mia vagina curerà tutto quello di cui ho mai sofferto, compreso il cattivo rapporto con mia madre, be’, allora ascolto Gwyneth Paltrow, perché la ragazza ne sa, di scienza.58
È facile – troppo facile, lo so – prendere in giro le celebrità vacue, e dato che non ho mai scritto tanto di vapore e di vagine nella mia intera carriera, lasciamo da parte Paltrow e i suoi consigli di salute. Tuttavia c’è un elemento importante, in questa storia, che riguarda l’influsso di internet sulla fine della competenza, perché in un’epoca precedente una posata donna americana avrebbe dovuto sfoggiare un grande spirito di iniziativa per scoprire il modo in cui un’attrice di Hollywood si sbollenta l’apparato sessuale. Oggi una donna in cerca di risposte su qualsiasi argomento, dalla moda al cancro dell’utero, potrebbe senza volerlo trascorrere più tempo a leggere GOOP che a parlare con il suo medico.
Le celebrità che abusano della loro posizione non sono una novità, ma internet amplifica il loro influsso. Se forse possiamo liquidare i deliri antivaccinisti di Jim Carrey come un’estensione della sua personalità già anticonvenzionale, anche personaggi più leggendari vengono risucchiati dal labirinto degli specchi elettronici.
Nel 2015 l’editorialista del New York Times Frank Bruni ha ricevuto una telefonata di Robert F. Kennedy Jr., figlio del senatore e candidato alla presidenza assassinato nel 1968. Era di vitale importanza, ha detto Kennedy a Bruni, che si incontrassero. Kennedy ha insistito nel correggere Bruni sulla questione dei vaccini poiché anche lui, come troppi altri americani, si stava dibattendo in una paranoia nata dalla disinformazione, che nelle sue parole stava provocando “un olocausto” tra i bambini americani (e infatti Bruni ha osservato che anche Jim Carrey “aveva frequentato chiaramente la chiesa di Robert Kennedy Jr.”). Bruni in seguito ha ricordato il loro incontro: “Mi ero schierato con l’Associazione dei medici americani, con l’Accademia dei pediatri americani, con l’Istituto nazionale di sanità e con i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie. [Ma] Kennedy la sapeva più lunga”.59
Kennedy, Carrey e altri hanno fatto quello che fanno molti americani in simili situazioni: hanno deciso in anticipo a cosa credere e poi sono andati a cercare una fonte su internet che sostenesse la loro convinzione. Come ha sottolineato Bruni:
Gli agitatori antivaccinisti sanno sempre trovare un ricercatore eretico o uno “studio” a caso che confermi le loro idee. Questa è l’erudizione nell’èra del ciberspazio: navighi finché non giungi alla conclusione che stai cercando. Vai avanti da un clic all’altro in cerca di conferme, confondendo la presenza di un sito web con la plausibilità di una tesi.
Questa tipologia di “spiluccamento” su internet – erroneamente chiamata “ricerca” dai profani – rende ardue le interazioni tra esperti e professionisti. Ancora una volta, il bias di conferma è il colpevole principale: anche se molte notizie su internet sono false o inaccurate, quella volta su un milione in cui Google ha ragione e gli esperti si sbagliano diventa virale. In un tragico caso del 2015, per esempio, una adolescente britannica ha ricevuto una diagnosi sbagliata dai medici che in precedenza le avevano intimato di “smetterla di cercare su Google i suoi sintomi”.60 La paziente insisteva nel sostenere di avere una rara forma di cancro, possibilità che i medici hanno escluso. Aveva ragione lei, loro avevano torto, ed è morta.
La storia della teenager britannica è finita su tutti i notiziari, e un raro errore ha probabilmente convinto moltissime persone a diventare medici di sé stesse. Naturalmente le persone che sono morte perché hanno usato un computer per autodiagnosticarsi un’indigestione e non una malattia cardiaca non finiscono mai in prima pagina. Ma nulla di tutto questo ha importanza. Queste storie alla Davide e Golia (una adolescente contro il suo team di medici) alimentano l’insaziabile bias di conferma della popolazione e ne infiammano il cinismo nei confronti del sapere costituito, al contempo rinforzando le sue speranze illusorie di trovare le soluzioni ai suoi problemi con qualche clic del mouse.
Una volta i libri erano quantomeno una barriera marginale contro la rapida diffusione della disinformazione, perché la produzione di un libro necessitava di tempo, di un investimento e di una valutazione da parte di un editore. “L’ho letto in un libro” significava “probabilmente non è una follia, perché un’azienda ha speso dei soldi per rivestirlo con una copertina e pubblicarlo”. Ovviamente non è mai stato del tutto così: alcuni libri vengono sottoposti a un accurato fact-checking, a peer review e a una curatela, mentre altri sono soltanto avvolti da una copertina e spediti in libreria.
Tuttavia i libri pubblicati da editori rispettabili passano quantomeno attraverso un elementare processo di negoziazione tra autori, editor, revisori e editori, compreso il libro che state leggendo ora. I libri autopubblicati dagli editori a pagamento, invece, vengono guardati dall’alto in basso da editor e lettori, e a ragione. Oggi, tuttavia, internet è l’equivalente di centinaia di milioni di editori a pagamento, tutti intenti a intensificare quello che voglia dire chiunque sia dotato di una tastiera, a prescindere da quanto sia stupido o cattivo (come ha detto Ron Fournier di National Journal, nell’èra di internet “ogni bigotto è un editore”). C’è una discreta quantità di buon senso e di informazioni nascoste in quel mondo, ma non si può sfuggire alla legge di Sturgeon.
Accedere alla Rete può davvero rendere le persone più stupide di quanto non accadrebbe se non si accostassero mai a un determinato argomento. L’atto stesso di cercare informazioni induce la gente a pensare di aver imparato qualcosa, mentre in realtà è più probabile che si ritrovi immersa in una quantità ancora maggiore di dati che non capisce. Ciò accade perché dopo un certo tempo passato a navigare, le persone non sanno più distinguere tra le cose che forse sono loro balenate davanti agli occhi e le cose che sanno davvero.
Vedere parole su uno schermo non è la stessa cosa che leggerle o capirle. Quando un gruppo di psicologi sperimentali di Yale ha indagato sul modo in cui le persone usano internet, ha scoperto che “la gente che cerca informazioni sul web emerge da questo processo con una percezione gonfiata di quello che sa, anche riguardo argomenti non connessi a quelli che ha cercato”.61 È una specie di versione elettronica dell’effetto Dunning-Kruger, in cui le persone meno competenti tra coloro che navigano il web sono quelle che hanno meno probabilità di rendersi conto che non stanno imparando niente.
Le persone in cerca di informazioni, per esempio riguardo i “combustibili fossili”, potrebbero finire a scorrere molte pagine su un’espressione vicina, come “fossili di dinosauro”. Dopo aver visualizzato siti a sufficienza, alla fine perdono la capacità di riconoscere che ciò che leggono su questo o quell’argomento non è una cosa che sapevano prima di guardare lo schermo. Invece presumono di saperne sia di dinosauri sia di combustibili perché sono davvero intelligenti. Purtroppo pensare di essere intelligenti perché si è cercato qualcosa su internet è come pensare di essere bravi nuotatori perché ci si è bagnati camminando sotto la pioggia.
Il team di Yale ha definito con delicatezza questo problema come “confondere il sapere acquisito esternamente con la conoscenza interiore”. Un modo più netto per descriverlo potrebbe essere affermare che le persone non ricordano gran parte di quello che vedono mentre fanno fuori decine di clic con il loro mouse. Come ha osservato il giornalista Tom Jacobs, l’atto di cercare qualcosa in Rete “sembra innescare una convinzione del tutto ingiustificata della propria conoscenza, cosa che, a causa dell’abitudine sempre più diffusa di guardare online per rispondere praticamente a qualsiasi domanda, è piuttosto spaventosa”.62 Sarà forse spaventosa, ma di certo è irritante. Queste erronee affermazioni di sapere acquisito possono rendere quasi impossibile il lavoro di un esperto. Non c’è modo di illuminare persone convinte di aver ottenuto un sapere decennale perché hanno trascorso una mattinata su un motore di ricerca. Poche altre parole possono avvilire un esperto nel corso di una discussione con un profano come: “Ho fatto qualche ricerca”.
Com’è possibile che l’esposizione a così tante informazioni non riesca quantomeno a elevare lo standard del sapere, se non altro attraverso l’osmosi elettronica? Come fa la gente a leggere tanto e a memorizzare così poco? La risposta è semplice: sono poche le persone che leggono davvero quello che trovano.
Come ha rilevato uno studio della University College of London (UCL), la gente non legge davvero gli articoli che trova durante una ricerca online. Dà una rapida occhiata alla prima riga o alle prime frasi e poi passa oltre. Gli utenti della Rete, hanno osservato i ricercatori, “non leggono nel senso tradizionale; anzi, vari indicatori segnalano l’emergere di nuove forme di ‘lettura’ in cui gli utenti ‘avanzano nella navigazione’ orizzontale attraverso titoli, pagine di contenuti e abstract alla ricerca di risultati immediati. Sembra quasi che vadano online per evitare di leggere nel senso tradizionale”.63 In realtà questo è l’opposto della lettura, e l’obiettivo non è tanto imparare quanto avere la meglio in una discussione o confermare una convinzione preesistente.
I bambini e i giovani sono particolarmente vulnerabili nei confronti di questa tendenza. Lo studio della UCL indica che il motivo è che “hanno mappe mentali poco sofisticate di cosa sia internet, e spesso non riescono a comprendere che si tratta di una raccolta di risorse messe in Rete da diversi fornitori”. Quindi dedicano poco tempo “a valutare le informazioni, che si tratti della loro importanza, della loro accuratezza o della loro autorevolezza”. Questi ragazzi “non trovano intuitive le risorse promosse dalle biblioteche e quindi preferiscono usare Google o Yahoo!”, perché questi servizi “offrono una soluzione familiare, seppur semplicistica, alle loro esigenze di studio”. Gli insegnanti e altri esperti non sono immuni alle medesime tentazioni. “Navigare e visitare siti”, secondo lo studio, “sembra essere la norma per tutti. La popolarità degli abstract tra i ricercatori più anziani è un indizio rivelatore”.
“La società” concludono gli autori dello studio dell’UCL “si sta instupidendo”.
Questo problema già grave potrebbe essere perfino più spaventoso di quanto sembri. Gli utenti di internet tendono a gravitare intorno e a credere a qualsiasi risultato di una ricerca compaia per primo, perlopiù senza dare importanza alla sua provenienza. Dopotutto, se il motore di ricerca si è fidato al punto di classificarlo tanto in alto deve avere un qualche valore. Ecco perché chiunque promuova contenuti su internet è a caccia di modi per migliorare il punto in cui il suo prodotto compare in un motore di ricerca: se vendi zuppe, fai tutto quello che puoi per intervenire in modo che la gente a caccia di ricette di zuppe venga dirottata verso coupon della tua marca.
Ma che succede se vendi qualcosa di più importante di una zuppa, per esempio un candidato politico? È almeno in parte dimostrato che i posizionamenti sui motori di ricerca possono alterare le percezioni della realtà politica da parte dei cittadini. Nel 2014, due psicologi hanno portato a termine uno studio di quello che hanno definito “effetto di manipolazione dei motori di ricerca”, sostenendo che i loro test hanno dimostrato la capacità “di aumentare la percentuale di persone che preferivano un qualsiasi candidato di una forbice tra il 37 e il 63 per cento dopo una sola sessione di ricerca”, e che ciò costituisce potenzialmente “una grave minaccia al sistema di governo democratico”.64 È troppo presto per dire che i motori di ricerca stanno minando la democrazia – almeno per ora – ma è difficile smentire la realtà che gran parte dei profani non sa più distinguere tra informazione reale e tutto quello che erutta da un motore di ricerca.
la saggezza delle mega-folle
Ovviamente i non esperti non si sbagliano sempre su tutto, né gli esperti hanno sempre ragione. Una volta ogni morte di papa, un adolescente può essere nel giusto e un team di medici può sbagliarsi. Gli esperti sono importanti, ma la gente comune riesce a condurre la propria esistenza quotidiana senza il parere di professori, intellettuali e altri sapientoni. Internet, usato nel modo giusto, può aiutare i profani a scambiarsi reciprocamente informazioni elementari che rivolgendosi a un professionista potrebbero essere troppo costose o di difficile accesso. In realtà internet, come la Borsa e altri meccanismi che aggregano le ipotesi e le impressioni dei cittadini riguardo a questioni complicate, può produrre momenti in cui i profani hanno la meglio sugli esperti.
Il modo in cui molte ipotesi errate possono assumere la forma di un’unica grande ipotesi giusta è un fenomeno consolidato. Purtroppo, la gente pensa che internet possa fungere come conoscenza in crowd-sourcing, coniugando l’idea assolutamente ragionevole di quella che il giornalista James Surowiecki ha definito “la saggezza della folla” con l’idea completamente irragionevole che le folle siano sagge perché ciascun elemento che le compone lo è.
A volte la gente priva di conoscenze specialistiche è in grado di formulare ipotesi migliori all’interno di un grande gruppo rispetto a qualsiasi singolo membro del gruppo stesso. Ciò è tendenzialmente vero soprattutto per decisioni in cui l’amalgama di diverse ipotesi potrebbe dar vita a un’ipotesi aggregata migliore dell’opinione di qualsiasi esperto. Surowiecki ha raccontato la storia, per esempio, di una fiera di contea tenutasi in Inghilterra nel 1906, dove fu chiesto ai cittadini di indovinare il peso di un bue. La media delle risposte era più corretta dell’ipotesi di ciascuna persona, e alla fine quasi coincideva con il dato reale.65 Analogamente, le Borse del mondo sono generalmente più capaci a scommettere di qualsiasi singolo analista.
Ci sono moltissimi motivi per cui la folla è più brava a fare stime rispetto ai singoli, e uno di essi è il fatto che un gran numero di ipotesi formulate da tante persone può contribuire a eliminare in parte bias di conferma, percezioni distorte e altri errori. In tal modo, inoltre, persone che possiedono informazioni soltanto parziali possono applicare quel po’ di conoscenza a un problema e contribuire a risolverlo, più o meno allo stesso modo in cui mille persone riescono a completare un enorme puzzle anche se magari ciascuna di loro ne possiede soltanto alcuni pezzi.
Per fare un esempio, lo sguardo privo di bias della folla è costato il lavoro a uno dei giornalisti più illustri d’America. Nel 2004, all’apice delle elezioni presidenziali Usa, Dan Rather, conduttore di notiziari di lungo corso, e i suoi produttori mandarono in onda un servizio sul dossier militare del presidente in carica George W. Bush. La Cbs sosteneva di essere in possesso di documenti risalenti all’inizio degli anni Settanta che provavano come Bush avesse mollato la sua unità della Air National Guard senza mai portare a termine il servizio militare. Bush, comandante in capo che aveva portato l’America a combattere due guerre importanti, era in competizione con il senatore John Kerry, eroe di guerra pluridecorato, e l’accusa ovviamente infiammò gli animi in uno scontro fortemente incentrato sulle questioni militari.
I sostenitori di Bush non gradirono quello che a loro dire era un giornalismo basato su fonti equivoche e un’inchiesta superficiale, ma alla fine la gente comune su internet, e non dei faziosi infuriati, smontò la storia. Profani senza esperienza giornalistica ma che trascorrevano molto tempo al computer si accorsero che il font usato nei documenti assomigliava a quelli generati dal software di Microsoft Word. Ovviamente nel 1971 l’Air Force usava le macchine per scrivere. A quel tempo non esistevano Microsoft e i suoi programmi. I documenti quindi dovevano essere falsi.
Davanti a questo attacco in crowd-sourcing alla storia, la Cbs ordinò un’indagine. Il network finì per rinnegare i documenti e il servizio. Il produttore di quel segmento fu licenziato. Dan Rather, convinto ancora oggi di essere nel giusto e che tutti gli altri si sbagliavano, andò in pensione e fece causa al suo vecchio datore di lavoro. Perse.
E allora, chi ha bisogno di esperti? Se ripetiamo la stessa domanda più volte, o mettiamo un numero sufficiente di persone a lavorare sullo stesso argomento, perché non affidarsi alla loro saggezza collettiva anziché cercare l’opinione fallace o di parte di una manciata di persone che si sono autodefinite sagge? Se una persona è intelligente e cento lo sono di più, allora un miliardo di persone che comunicano istantaneamente devono esserlo ancora di più.
I cultori di Wikipedia, tra gli altri, hanno affermato che il futuro si baserà su questa tipologia di sapere collettivo più che sul controllo accurato di riferimenti e informazioni da parte di esperti. In teoria, con un’enciclopedia pubblica e aperta a cui tutti possono contribuire, il semplice numero delle persone che si controlla a vicenda riguardo a ogni voce dovrebbe sradicare errori e pregiudizi. Gli articoli sarebbero rivolti alle menti indagatrici dei comuni mortali anziché ai ristretti interessi di un gruppo di studiosi o direttori di giornali. Non solo le voci sarebbero costantemente aggiornate e accurate, ma gli stessi articoli per definizione andrebbero a formare una raccolta che coinvolge i lettori e non un sistematico ma inutile compendio di sapere arcano.
Purtroppo le cose non funzionano sempre così, e Wikipedia è un buon esempio dei limiti del dislocamento della competenza guidato da internet. Nei fatti, scrivere articoli su una serie di argomenti complicati si rivela molto più difficile che indovinare il peso di un bue. Sebbene molte persone mosse dalle migliori intenzioni si siano dedicati a fare gli editor di Wikipedia, per esempio, alcuni lavoravano anche per società e aziende di PR di celebrità che avevano un evidente interesse per il modo in cui le cose venivano presentate in un’enciclopedia per le masse (nove collaboratori di Wikipedia su dieci, inoltre, sono maschi, cosa che probabilmente farebbe scattare un campanello d’allarme nei lettori, se lo sapessero).
Anche con le migliori intenzioni, i progetti di crowd-sourcing come Wikipedia soffrono di una importante ma spesso sottaciuta distinzione tra profani e professionisti: i volontari fanno ciò che rientra nei loro interessi in un dato momento, mentre i professionisti usano la loro competenza ogni giorno. Un hobby non è la stessa cosa di una carriera. Come recita un detto attribuito al giornalista britannico Alastair Cooke: “I professionisti sono persone in grado di produrre i loro lavori migliori quando non ne hanno voglia”. L’entusiasmo dei dilettanti pieni di curiosità non sostituisce in modo congruo il giudizio degli esperti.
Gli sforzi iniziali di Wikipedia sono caduti vittima di incongruenze e assenza di supervisione, cioè esattamente quello che ci si poteva aspettare da un progetto di compiti per casa di gruppo. Un ricercatore che ha studiato queste tendenze ha affermato che dopo il 2007 Wikipedia avrebbe dovuto cambiare il suo motto da “l’enciclopedia che chiunque può editare” a “l’enciclopedia che chiunque capisca le norme, socializzi, eluda il muro impersonale del rifiuto semi-automatico e voglia comunque offrire il suo tempo e la sua energia può editare”.66
Alla fine, Wikipedia ha imposto controlli di editing più rigidi, ma queste restrizioni a loro volta hanno scoraggiato la partecipazione di nuovi collaboratori. Come osservava un articolo pubblicato nel 2013 dalla MIT Technology Review, le dimensioni del gruppo di volontari che ha costruito Wikipedia e che “deve difenderla contro vandalismi, bufale e manipolazioni” si sono “ridotte di oltre un terzo dal 2007 e continuano a ridursi”. Wikipedia fatica ancora a mantenere la qualità dei suoi articoli, anche misurata secondo i suoi criteri interni:
Tra i problemi più importanti che non vengono risolti c’è la copertura asimmetrica del sito: le voci sui Pokémon e sulle pornostar femminili sono esaurienti, ma le pagine sulle scrittrici o sulle località dell’Africa subsahariana sono discutibili. Le voci autorevoli continuano a essere poche. Dei mille articoli che i volontari del sito hanno taggato individuandoli come il fulcro di una buona enciclopedia, la maggior parte non raggiunge neppure i quality score mediani della stessa Wikipedia.67
Wikipedia ospita “articoli di primo piano”, che devono essere “ben scritti”, “esaurienti” e “documentati”, tra cui “una rassegna approfondita e rappresentativa della letteratura pertinente”, i cui contenuti vengono verificati confrontandoli con “fonti affidabili e di alta qualità”.
In altre parole, Wikipedia vuole che i suoi pezzi migliori siano né più né meno che articoli accademici sottoposti a una peer review, solo senza usare veri esperti. La peer review è un processo difficile da controllare anche in condizioni ottimali, quelle in cui gli editor cercano di assegnare la supervisione ai migliori di ciascun campo evitando rivalità professionali e altri conflitti d’interesse. Tradurre questo procedimento in un progetto destinato a milioni di persone con una supervisione minima era un obiettivo assurdo. Affinché una cosa come Wikipedia funzioni, praticamente tutti gli esperti di qualsiasi argomento al mondo dovrebbero essere disposti a controllare ogni voce.
Naturalmente, se lo misuriamo dalla prospettiva dei lettori, Wikipedia funziona benissimo. E su alcuni argomenti è una fonte di informazioni utilissima. Come osservava l’articolo del MIT, le voci sono sbilanciate “verso argomenti tecnici, occidentali e dominati dalla prospettiva maschile”, così quando si tratta di informazioni tangibili – e, aspetto più importante, incontestabili – Wikipedia è riuscita a fondere moltissimi dati in un formato affidabile e stabile (personalmente, mi piace che Wikipedia sia una ottima fonte per le trame di quasi tutti i film, a prescindere dalle dimensioni della produzione e da quanto siano conosciuti). Se volete sapere chi ha scoperto lo stronzio, chi ha partecipato alla Conferenza navale di Washington del 1925 o passare rapidamente in rassegna i Premi Nobel assegnati l’anno scorso, Wikipedia è molto meglio di un motore di ricerca a caso.
Quando entra in scena un’agenda politica di qualche tipo, però, le cose diventano molto più aleatorie. La voce di Wikipedia sull’arma chimica Sarin, per esempio, è diventata un campo di battaglia tra persone animate da motivazioni contrastanti riguardo all’idea che il governo siriano avesse usato quella sostanza sui suoi cittadini. Anche la scienza di base ha subito degli attacchi. Un analista di stanza a Londra, Dan Kaszeta – l’esperto di Sarin che ho citato nel precedente capitolo e che ha ricevuto una dura lezione tentando di aiutare una studentessa –, mi ha detto alla fine del 2015 che
se qualcuno dovesse affidarsi all’attuale pagina di Wikipedia per ottenere informazioni accurate sull’agente per la guerra chimica Sarin, sarebbe fuorviato da mezze verità e numerose affermazioni vaghe non supportate dalle fonti a corredo. Alcune informazioni sulla pagina di Wiki, seppur tecnicamente corrette per certi aspetti, sono formulate in modi fuorvianti. Altre sono false.
Kaszeta ha aggiunto di aver “trascorso molte ore, dopo l’utilizzo del Sarin in Siria nel 2013, a correggere una serie di luoghi comuni sulla sostanza, molti indubbiamente attribuibili a errori e mezze verità sulle relative pagine di Wikipedia”.
Quello che la gente fraintende riguardo a Wikipedia e ad altre risorse online, oltre alla saggezza della folla in generale, è che il sapere non consiste soltanto nel mettere insieme un pacchetto di fatti non verificati o nel fare predizioni lanciando una monetina. I fatti non parlano da sé. Fonti come Wikipedia sono preziose per ottenere dati elementari, come una specie di almanacco in continua evoluzione, ma non sono di grande aiuto in questioni più complesse.
La folla può essere saggia. Non tutto, però, è soggetto al voto di una folla. Internet crea una falsa sensazione per cui le opinioni di tante persone equivalgono a un “fatto”. Il modo in cui un virus si trasmette da un individuo a un altro non è la stessa cosa che indovinare quante gelatine contiene un recipiente di vetro. Il comico John Oliver ha dichiarato che non occorre raccogliere opinioni su un fatto: “Tanto vale indire un sondaggio e chiedere: ‘Quale numero è più alto, 15 o 5?’ oppure: ‘I gufi esistono?’ o ancora: ‘Ci sono cappelli?’”.
Analogamente, le politiche pubbliche non sono un gioco da tavolo basato sulle predizioni: si tratta di compiere scelte a lungo termine basate su una riflessione ponderata dei costi e delle alternative. Chiedere alla folla di tirare a indovinare riguardo a eventi specifici in partite di freccette mentali a breve termine non è d’aiuto quando si tenta di navigare in acque politiche complicate. “Il siriano Bashar al-Assad userà le armi chimiche a un certo punto del 2013” è una scommessa alla pari, come puntare una fiche su un colore nella roulette. È una domanda che prevede sì o no come risposta, e a un certo punto avremo vinto o perso la scommessa. Non è come chiedersi: “Perché Bashar al-Assad dovrebbe usare le armi chimiche?”, ed è lontana anni luce dal dilemma: “Cosa dovrebbe fare l’America se Bashar al-Assad usasse le armi chimiche?”. Internet, tuttavia, fonde tutte e tre le domande e trasforma ogni questione complicata in un sondaggio con un pulsante di opzione che offre una soluzione rapida.
La facilità con cui le persone possono dire la propria su questi argomenti, e a volte addirittura centrare una predizione a riguardo quando gli esperti magari si sbagliano, è l’ennesimo strato di armatura anti-intellettuale che si salda alla resistenza mostrata dai profani nei confronti di idee più consapevoli delle proprie.
ti tolgo l’amicizia
Imparare nuove cose richiede pazienza e la capacità di ascoltare gli altri. Internet e i social media, tuttavia, ci rendono meno socievoli e più aggressivi. Online, come nella vita, le persone si radunano in piccole camere di riverberazione e preferiscono parlare soltanto con quelli che già la pensano come loro. Il giornalista Bill Bishop ha definito questa situazione “il grande smistamento” in un libro pubblicato nel 2008,68 in cui osserva che gli americani ormai scelgono sempre più di vivere, lavorare e socializzare con persone a loro simili per ogni aspetto. La stessa cosa accade su internet.
Non soltanto socializziamo con persone che ci assomigliano, ma rompiamo i ponti con chiunque altro, soprattutto sui social media. Una ricerca condotta nel 2014 dal Pew Research Center ha rilevato che gli elettori liberal hanno più probabilità dei conservatori di bloccare o togliere l’amicizia a persone con cui sono in disaccordo, ma ciò accade soprattutto perché i conservatori hanno già in partenza la tendenza ad avere pochi contatti social con cui sono in disaccordo (o, per citare una recensione dello studio pubblicata sul Washington Post, i conservatori hanno “livelli inferiori di varietà ideologica nel loro ecosistema di rete”).69 Inoltre i liberal hanno più probabilità di porre fine a un’amicizia per motivi politici nella vita reale, ma la tendenza complessiva indica una segregazione ideologica favorita dalla capacità di porre fine a un’amicizia con un clic anziché con una discussione faccia a faccia.
Questa riluttanza ad ascoltare non ci rende soltanto più sgradevoli nei confronti degli altri in generale, ma anche meno capaci di pensare, di discutere in modo convincente e di accettare che qualcuno ci corregga quando siamo in errore. Quando siamo incapaci di sostenere una catena di ragionamento che vada al di là di qualche clic del mouse, non siamo in grado di tollerare neppure la sfida più risibile alle nostre convinzioni o alle nostre idee. Si tratta di un dato pericoloso perché mina il ruolo del sapere e della competenza in una società moderna e al tempo stesso corrode l’elementare capacità della gente di andare d’accordo con gli altri in una democrazia.
Alla base di gran parte di questa irritabilità c’è la falsa sensazione di uguaglianza e l’illusione di egualitarismo creati dall’immediatezza dei social media. Io ho un account Twitter e un profilo Facebook, tu anche, e quindi siamo pari, no? Dopotutto, se un reporter illustre di un quotidiano importante, un diplomatico della Kennedy School, uno scienziato di un ospedale di ricerca e la zia Rose che abita a Reno hanno tutti qualche account online, allora le loro opinioni sono altrettanti messaggi che vi sfrecciano davanti agli occhi. Ogni opinione è valida quanto l’ultimo post su una home page.
Nell’èra dei social media, le persone che usano internet danno per scontato che tutti siano intelligenti o informati allo stesso modo, soltanto in virtù del fatto di essere online. Nelle parole del critico cinematografico del New York Times A.O. Scott:
In Rete, tutti sono dei critici: un artista dell’umiliazione su Yelp, uno studioso di Amazon, una cheerleader che grazie ai social media può mettere a suo piacimento like e condividere. La pomposa autorevolezza, sempre sospetta, di disgraziati macchiati d’inchiostro come me è stata azzerata dall’anarchia digitale. Chi ha bisogno di un lamentoso eccentrico quando un amichevole algoritmo, sulla base dei tuoi acquisti precedenti, ti dice che forse potrebbe piacerti anche qualcos’altro, e frotte di amici su Facebook confermano la saggezza delle tue scelte?70
Per gli utenti l’anonimato dei social media è una tentazione a discutere come se tutti i partecipanti fossero uguali, un gruppo di pari che parte dallo stesso livello di formazione e istruzione. È un ruolo che pochissimi rivestirebbero nella vita reale, ma su internet il narcisismo intellettuale del commentatore random soppianta le norme che solitamente governano le interazioni faccia a faccia.
Questa strana combinazione di distanza e intimità avvelena le conversazioni. Le discussioni ragionevoli richiedono che i partecipanti siano onesti e bene intenzionati. La vicinanza reale contribuisce a costruire fiducia e comprensione. Non siamo soltanto cervelli in una vasca intenti a elaborare brandelli disparati di dati; ascoltiamo un’altra persona affidandoci anche a una serie di indizi visivi e uditivi, non soltanto osservando le sue parole che ci scorrono davanti agli occhi. Gli insegnanti, soprattutto, sanno che lo stesso materiale, presentato a distanza o su uno schermo, ha un impatto diverso dall’interazione personale con uno studente che può rivolgere domande, aggrottare la fronte perplesso o avere un’espressione di improvvisa illuminazione.
La distanza e l’anonimato eliminano la pazienza e le presunzioni di benevolenza. L’accesso rapido alle informazioni e la capacità di parlare senza dover ascoltare, insieme al “coraggio da tastiera” che permette alle persone di dirsi delle cose nell’ambiente elettronico che non si direbbero mai di persona, stronca la conversazione. Il giornalista Andrew Sullivan ha osservato che in parte la causa è che nulla su internet è definitivo, e quindi ciascun partecipante a un dibattito esige di essere preso sul serio quanto gli altri:
E ciò che alimenta più di ogni altra cosa questo processo è proprio quello che i padri fondatori temevano nella cultura democratica: il sentimento, l’emozione e il narcisismo, anziché la ragione, l’empirismo e il senso civico. I dibattiti online diventano personali, emotivi e irrisolvibili praticamente fin dall’inizio. Sì, ogni tanto si aggira qua e là qualche affermazione razionale, ma sono diminuiti sensibilmente gli arbitri appartenenti all’élite che decretano quale di queste affermazioni sia vera o valida o pertinente.71
Twitter, Facebook, Reddit e altri siti web possono essere sbocchi per discussioni intelligenti, ma fin troppo spesso questi e altri luoghi di incontro diventano nulla più che una raffica di asserzioni, certezze, informazioni scadenti e insulti, e non di veri e propri scambi.
Certo, internet agevola anche le conversazioni tra persone che altrimenti non si sarebbero mai incontrate. Gli introversi potrebbero dire che un’arena come Reddit o la sezione dei commenti di una rivista online aprono la porta a un’interazione maggiore per persone che forse prima erano riluttanti a partecipare a una pubblica discussione. Purtroppo consentire a chiunque di esprimere un’opinione significa che quasi tutti esprimono un’opinione, ed è per questo che molte pubblicazioni, dal Toronto Sun al Daily Beast, stanno chiudendo le sezioni dedicate ai commenti online.
Tutte queste interazioni non riescono ad allentare l’attaccamento dei profani alla disinformazione. In realtà, il problema potrebbe essere più grave di come pensiamo. Di fronte alla prova incontrovertibile che si sbagliano, alcune persone raddoppiano semplicemente la puntata sulla loro affermazione originaria anziché accettare il proprio errore. Si tratta dell’“effetto boomerang” per cui le persone raddoppiano i loro sforzi per mantenere la coerenza della loro narrazione interiore, a prescindere da quanto siano chiari i segnali che hanno torto.72
Internet, come sottolinea David Dunning, acuisce il problema in molti modi, per esempio perché per confutare un’idea sciocca occorre ripeterla almeno una volta durante la discussione. Ciò crea un campo minato per gli insegnanti e altri esperti, che rischiano di confermare un errore semplicemente ammettendone l’esistenza:
Poi, ovviamente, c’è il problema della disinformazione rampante in luoghi che, a differenza delle aule, sono difficili da controllare, come internet e i mezzi d’informazione. In questi contesti da Selvaggio West, è meglio non ripetere affatto le comuni opinioni errate. Dire alla gente che Barack Obama non è musulmano non può far cambiare idea a molti, perché spesso la gente ricorda tutto quello che si è detto tranne la parola fondamentale: “non”.73
Gli esperti che tentano di combattere contro questa tipologia di caparbia ignoranza pensano forse di essere d’aiuto, ma nella realtà dei fatti cercano di gettare acqua su un incendio provocato dall’olio. Non funziona e non fa altro che aumentare i danni.
Internet è il mezzo d’informazione anonimo più grande della storia dell’umanità. La capacità di discutere a distanza e il senso screditato di uguaglianza che offre stanno corrodendo la fiducia e il rispetto tra tutti noi, esperti e profani. Internet ha impantanato politicamente e intellettualmente nei loro stessi pregiudizi milioni di americani, soli davanti a una tastiera ma immersi in siti web, newsletter e gruppi online dediti a confermare qualsiasi idea. I social media come Facebook amplificano questa camera di riverberazione; come ha scritto Megan McArdle nel 2016, “anche se non blocchiamo deliberatamente le persone che non sono d’accordo con noi, Facebook cura i nostri feed in modo che vediamo sempre più cose che ‘ci piacciono’. Cosa ci ‘piace’? Le persone e i post che sono d’accordo con noi”.74
Si tratta di un dato particolarmente pericoloso ora che i social media come Facebook e Twitter sono diventati le fonti primarie di notizie e informazioni per molti americani, e gli esperti che tentano di infrangere questo involucro di insularità politica e spavalda ignoranza lo fanno a loro rischio e pericolo. È già abbastanza difficile discutere con una persona che ha interpretato qualcosa nel modo sbagliato, figuriamoci cercare di ragionare con qualcuno che raccoglie bei siti web come “prove” e arruola a sostegno stuoli di anonimi amici virtuali che la pensano allo stesso modo e condividono opinioni altrettanto disinformate. Nel frattempo studiosi e professionisti che insistono su una conoscenza logica di base e su regole elementari riguardo alle fonti rischiano la condanna da parte degli utenti della Rete del Ventunesimo secolo, secondo i quali sarebbero degli elitari che non comprendono i miracoli dell’èra dell’informazione.
I siti web e i sondaggi su internet sono forse inaffidabili, ma i cronisti possono riportare a galla la verità anziché lasciarsi trascinare anche loro nel vortice. I giornalisti possono ancora fungere da arbitri di tutto questo caos, usando gli strumenti scrupolosi dell’indagine, della ricerca delle fonti e del fact-checking.
Oppure, come vedremo nel prossimo capitolo, forse no.
51. A. LaFrance, “Raiders of the Lost Internet”, The Atlantic online, 14 ottobre 2015.
52. N. Carr, “Is Google Making Us Stupid?”, The Atlantic online, luglio/agosto 2008.
53. C. Dewey, “What Was Fake on the Internet This Week: Why Do We Even Bother, Honestly”, The Washington Post online, 30 ottobre 2015.
54. Ivi, 18 dicembre 2015.
55. D. Thompson, Counterknowledge, W.W. Norton, New York, 2008, p. 11.
56. A. West, “Obama’s America: Look What Our Troops Are Being FORCED to Do for Islam’s Holy Month”, allenwest.com, 29 giugno 2015.
57. M. Miller, “Gwyneth Paltrow’s No Vagina Expert, Doctors Say”, People online, 29 gennaio 2015. Il blog del dott. Gunter è consultabile all’indirizzo http://drjengunter.wordpress.com.
58. L. Hooper Beck, “I Went to a Spa for My Uterus and This Is My Story”, FastCompany.com, 27 gennaio 2015.
59. F. Bruni, “California, Camelot and Vaccines”, The New York Times online, 4 luglio 2015.
60. “‘Stop Googling Your Symptoms’, Teenage Cancer Victim Told before Death”, The Daily Telegraph, 16 giugno 2015.
61. M. Fisher et al., “Searching for Explanations: How the Internet Inflates Estimates of Internal Knowledge”, Journal of Experimental Psychology, n. 144, a. 3, giugno 2015, pp. 674-687.
62. T. Jacobs, “Searching the Internet Creates an Illusion of Knowledge”, Pacific Standard online, primo aprile 2015.
63. Questo e i successivi rimandi sono tratti dall’articolo informativo CIBER della University College of London “The Google Generation: The Information Behaviour of the Researcher of the future”, 11 gennaio 2008.
64. R. Epstein, “How Google Could Rig the 2016 Election”, Politico.com, 19 agosto 2015.
65. J. Surowiecki, La saggezza della folla, Fusi Orari, Roma, 2007, p. XII-XIII.
66. Cit. in T. Simonite, “The Decline of Wikipedia”, MIT Technology Review, 22 ottobre 2013.
67. Ibid.
68. B. Bishop, The Big Sort, Houghton Mifflin, Boston, 2008.
69. A. Peterson, “Liberals Are More Likely to Unfriend You over Politics – Online and Off”, The Washington Post online, 21 ottobre 2014.
70. A.O. Scott, “Everybody’s a Critic. And That’s How It Should Be”, The New York Times Sunday Review online, 30 gennaio 2016.
71. A. Sullivan, “Democracies End When They Are Too Democratic”, The New Magazine online, primo maggio 2016.
72. Un ricercatore del Dartmouth College, Brendan Nyhan, tra gli altri, conduce da alcuni anni delle indagini sul perché le persone rilanciano quando viene loro dimostrato che si sbagliano. J. Jeohane, “How Facts Backfire: Researchers Discover a Surprising Threat to Democracy: Our Brains”, The Boston Globe online, 22 luglio 2010.
73. Dunning, “We Are All Confident Idiots”, cit.
74. Megan McArdle, “Your Assessment of the Election Is Way Off”, Forbes online, 14 aprile 2016.
Capitolo 5