martedì 30 giugno 2020




RESURREZIONE
Lev Tolstoj

PARTE PRIMA

Allora Pietro si avvicinò a lui e disse: «Signore! Quante volte devo perdonare al mio fratello che pecca contro di me? Fino a sette volte?».
Gesù gli disse: «Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette».
Matteo, XVIII, 21-22
E perché guardi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave nel tuo occhio?
Matteo, VII, 3
...chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei.
Giovanni, XVIII,
Il discepolo non supera il maestro; ma anche raggiungendo la perfezione, ognuno sarà come il suo maestro.
Luca, VI, 40

I

Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalvano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d'erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, - la primavera era primavera anche in città. Il sole scaldava, l'erba, riprendendo vita, cresceva e rinverdiva ovunque non fosse strappata, non solo nelle aiuole dei viali, ma anche fra le lastre di pietra, e betulle, i pioppi, ciliegi selvatici schiudevano le loro foglie vischiose e profumate, i tigli gonfiavano i germogli fino a farli scoppiare; le cornacchie, i passeri e i colombi con la festosità della primavera già preparavano i nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri, scaldate dal sole.
Allegre erano le piante, e gli uccelli, e gli insetti, e i bambini. Ma gli uomini - i grandi, gli adulti - non smettevano di ingannare e tormentare se stessi e gli altri. Gli uomini ritenevano che sacro e importante non fosse quel mattino di primavera, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutte le creature, la bellezza che dispone alla pace, alla concordia e all'amore, ma sacro e importante fosse quello che loro stessi avevano inventato per dominarsi l'un l'altro.
Così nell'ufficio del carcere provinciale non si riteneva sacro e importante che a tutti gli animali e gli uomini fosse data la tenerezza e la gioia della primavera, ma si riteneva sacro e importante che alla vigilia fosse giunto un foglio numerato con timbro e intestazione, secondo il quale per le nove del mattino di quel giorno, 28 aprile, dovevano essere consegnati tre detenuti che si trovavano nel carcere in attesa di giudizio: due donne e un uomo. Una di queste donne, in quanto principale imputata, doveva essere consegnata separatamente. Ed ecco, in base a quell'ordine, il 28 aprile, alle otto del mattino, nel buio e maleodorante corridoio del reparto femminile entrò il capocarceriere. Dietro di lui entrò nel corridoio una donna con il volto sfinito e i capelli grigi e ondulati, che indossava una blusa con le maniche gallonate e una cintura dall'orlo blu. Era la sorvegliante.
- Vuole la Maslova? - domandò avvicinandosi con il carceriere di turno a una delle porte delle celle che si aprivano sul corridoio.
Il carceriere aprì sferragliando il chiavistello e, spalancata la porta della cella, da cui uscì una zaffata ancor più pestilenziale dell'aria del corridoio, gridò:
- Maslova, in tribunale! - e di nuovo socchiuse la porta, aspettando.
Persino nel cortile del carcere c'era la fresca, vivificante aria dei campi, portata in città dal vento. Ma in corridoio c'era un'opprimente aria mefitica, impregnata di odore di escrementi, catrame e marciume, che immediatamente deprimeva e intristiva ogni nuovo venuto. Lo sperimentò su di sé, nonostante l'abitudine all'aria viziata, la sorvegliante che giungeva dal cortile. All'improvviso, entrando nel corridoio, si era sentita stanca e assonnata.
In cella si udiva del movimento: voci femminili e passi di piedi scalzi.
- Allora, Maslova, ti muovi sì o no? Svelta! - gridò il capocarceriere dalla porta della cella.
Dopo un paio di minuti ne uscì con passo energico, si voltò rapidamente e si fermò accanto al carceriere una giovane donna non alta e dal seno molto florido, che indossava una casacca grigia sopra una camicetta e una gonna bianche. La donna aveva ai piedi delle calze di tela, sopra le calze i koty dei carcerati, sul suo capo era annodato un fazzoletto bianco che lasciava sfuggire, evidentemente con intenzione, delle ciocche di capelli ricci e neri. Tutto il viso della donna era di quella particolare bianchezza che hanno i visi delle persone che hanno passato molto tempo al chiuso, e che ricorda i germogli delle patate in cantina. Così erano anche le piccole larghe mani e il collo bianco e pieno, che s'intravedeva sotto l'ampio colletto della divisa. In questo viso colpivano, soprattutto sull'opaco pallore del volto, gli occhi nerissimi, lucenti, un po' gonfi ma molto vivaci, di cui uno leggermente strabico. Si teneva molto eretta, sporgendo il seno pieno.
Uscita in corridoio, piegando un po' indietro il capo guardò dritto negli occhi il carceriere e si fermò, pronta ad eseguire tutto quanto le avessero ordinato. Il carceriere voleva già richiudere la porta, quando da lì si affacciò il volto pallido, severo e rugoso di una vechia canuta a capo scoperto. La vecchia cominciò a dire qualcosa alla Maslova. Ma il carceriere spinse la porta contro la testa della vecchia, e la testa scomparve. Nella cella una voce femminile sghignazzò. Anche la Maslova sorrise e si volse alla piccola finestrella sbarrata della porta. La vecchia dall'altra parte si strinse alla finestrella e con voce roca disse:
- Soprattutto non dire niente di troppo, insisti su una cosa e basta.
- Eh, sì, una cosa... tanto peggio di così non può andare, - disse la Maslova, scuotendo il capo.
- Si sa che una cosa non è due, - disse il capocarceriere, con la certezza nel proprio spirito di chi è abituato a comandare. - Seguimi, marsc'! -.
L'occhio della vecchia che si vedeva dalla finestrella scomparve, e la Maslova si portò in mezzo al corridoio e a passettini rapidi seguì il capocarceriere. Discesero una scala di pietra, passarono accanto alle celle degli uomini, ancor più maleodoranti e rumorose di quelle femminili, seguiti ovunque da occhi che li spiavano dagli spiragli delle porte, ed entrarono in un ufficio dove c'erano già due soldati di scorta con i fucili.
Lo scrivano lì seduto diede a uno dei soldati una carta impregnata di fumo di tabacco e, indicando la detenuta, disse: «Prendila». Il soldato, un contadino di Nižnij Novgorod col viso rosso butterato dal vaiolo, mise la carta dietro il risvolto della manica del cappotto e, sorridendo, strizzò l'occhio al compagno, un ciuvascio dagli zigomi larghi, accennando alla detenuta. I soldati con la detenuta discesero la scala e si diressero verso l'uscita principale.
Nel portone dell'uscita principale si aprì un cancelletto e, varcatane la soglia e passati in cortile, i soldati con la detenuta uscirono dal recinto e s'incamminarono in mezzo alle vie lastricate della città.
Vetturini, bottegai, cuoche, operai e impiegati si fermavano e osservavano con curiosità la detenuta; alcuni scuotevano il capo e pensavano: «Ecco come va a finire chi si comporta male, noi invece...». I bambini guardavano terrorizzati la criminale, tranquillizzandosi solo al vedere che era seguita dai soldati e ormai non avrebbe più potuto far niente. Un uomo di campagna, che aveva venduto del carbone e preso il tè in trattoria, le si avvicinò, si fece il segno della croce e le diede una copeca. La detenuta arrossì, chinò il capo e mormorò qualcosa.
Sentendo gli sguardi puntati su di lei, la detenuta senza voltare il capo, di nascosto, guardava con la coda dell'occhio quelli che la osservavano, e l'essere oggetto di tanta attenzione la rallegrava. La rallegrava anche l'aria pura rispetto a quella della prigione, primaverile, ma le faceva male camminare sulle pietre con i piedi disabituati al movimento e calzati degli scomodi koty da detenuta, e guardava dove metteva i piedi e cercava di posarli il più lievemente possibile. Passando accanto alla bottega di un fornaio, dinanzi alla quale dei colombi passeggiavano indisturbati, dondolando, la detenuta per poco non ne calpestò uno grigio-azzurro; il colombo fece un balzo e, frullando le ali, le volò proprio sopra l'orecchio, facendole vento. La detenuta sorrise e poi sospirò gravemente, ricordandosi della sua condizione.

II

La storia della detenuta Maslova era una storia molto comune. La Maslova era figlia di una serva non maritata, che lavorava con la madre, guardiana di bestiame, nella tenuta di due sorelle nubili, proprietarie terriere. Questa donna non maritata partoriva ogni anno, e, come si usa fare in campagna, il figlio veniva battezzato, ma poi la madre non allattava il bambino indesiderato, inutile e d'intralcio nel lavoro, e lui moriva ben presto di fame.
Così erano morti cinque figli. Tutti erano stati battezzati, poi non li avevano nutriti, ed erano morti. Il sesto, avuto da uno zingaro di passaggio, fu una femmina, e la sua sorte sarebbe stata identica se una delle due anziane signorine non fosse entrata nella stalla per rimproverare le mungitrici per la panna che puzzava di mucca. Nella stalla giaceva la puerpera con un neonato sano e bellissimo. L'anziana signorina rimproverò sia per la panna sia perché avevano lasciato entrare nella stalla una donna che aveva partorito, e voleva già andarsene quando, vista la piccina, se ne intenerì e si offrì di farle da madrina. Fece battezzare la bambina e poi, impietosita della figlioccia, diede latte e denaro alla madre, e la bambina restò in vita. Fu così che le anziane signorine la chiamarono «la salvata».
La bimba aveva tre anni quando sua madre si ammalò e morì. Per la nonna vaccara la nipotina era un peso, e così le anziane signorine la presero con sé. La bambina dagli occhi neri cresceva straordinariamente vivace e graziosa, ed era la loro consolazione.
Le anziane signorine erano due: la minore, più buona, Sof'ja Ivanovna, quella che aveva battezzato la bambina, e la maggiore, più severa, Mar'ja Ivanovna. Sof'ja Ivanovna agghindava la bambina, le insegnava a leggere e voleva farne una pupilla. Mar'ja Ivanovna diceva che la bambina doveva diventare una lavoratrice, una brava cameriera, e poi era molto esigente, puniva e perfino picchiava la bambina, quando era di cattivo umore. Così, fra queste due influenze, crescendo la bambina diventò una via di mezzo fra la cameriera e la pupilla. E così la chiamavano con un nome intermedio: non Kat'ka né Katen'ka, ma Katjuša.
Cuciva, rassettava le camere, lucidava col gesso le immagini, cucinava, macinava, serviva il caffè, faceva piccoli bucati e talvolta teneva compagnia alle signorine e leggeva per loro.
L'avevano chiesta in moglie, ma non aveva voluto sposare nessuno, intuendo che vivere con quei lavoratori che la chiedevano in moglie sarebbe stato duro per lei, viziata dalla dolcezza della vita dei signori.
Così visse fino ai sedici anni. Quando compì sedici anni, dalle signorine giunse un loro nipote studente, un ricco principe, e Katjuša, senza osare confessarlo né a lui, e neppure a se stessa, se ne innamorò. Poi, due anni dopo, quello stesso nipote, andando alla guerra, passò a trovare le zie, trascorse da loro quattro giorni e alla vigilia della partenza sedusse Katjuša e, rifilatale l'indomani una banconota da cento rubli, se ne andò.
Cinque mesi dopo la sua partenza, lei seppe per certo di essere incinta.
Da quel momento tutto le divenne odioso, e pensava soltanto a come sottrarsi alla vergogna che l'aspettava, e non solo prese a servire svogliatamente e male le signorine, ma non sapeva lei stessa cosa le fosse successo: a un tratto perse il controllo. Disse alle signorine un mucchio di insolenze, di cui poi fu la prima a pentirsi, e si licenziò.
E le signorine, assai scontente di lei, non la trattennero. Si fece quindi assumere come cameriera da un commissario di polizia, ma poté rimanervi soltanto per tre mesi, perché questi, un vecchio di cinquant'anni, cominciò a insidiarla, e una volta che si fece particolarmente intraprendente lei s'adirò, lo chiamò scemo e vecchio demonio e gli diede un tale spintone nel petto da farlo cadere. La cacciarono per la sua insolenza. Non era più il caso di cercarsi un altro posto, presto avrebbe dovuto partorire, e così si stabilì presso una levatrice di campagna, una vedova che vendeva acquavite. Il parto fu facile. Ma la levatrice trasmise a Katjuša una febbre puerperale che aveva contratto al villaggio da una donna malata, e mandò il bambino, un maschietto, all'orfanotrofio, dove, a quanto raccontava la vecchia che ce l'aveva portato, appena arrivato morì.
Tutto il denaro di Katjuša, quando si stabilì dalla levatrice, ammontava a centoventisette rubli: ventisette guadagnati e i cento rubli che le aveva dato il suo seduttore. Ma quando se ne andò le restavano in tutto sei rubli. Non sapeva amministrare il denaro, spendeva per sé e ne dava a chiunque gliene chiedesse. Per due mesi di pensione - vitto e tè - la levatrice le prese quaranta rubli, venticinque rubli costò sistemare il bambino, quaranta rubli la levatrice le chiese in prestito per comprare una mucca, una ventina di rubli se ne andarono così, in vestiti e regalini, cosicché quando Katjuša fu guarita non aveva più un soldo, e dovette cercarsi un posto. Il posto lo trovò presso un ispettore forestale. L'ispettore forestale era un uomo sposato, ma, esattamente come il commissario di polizia, fin dal primo giorno cominciò a insidiare Katjuša. Katjuša lo trovava disgustoso e cercava di evitarlo. Ma lui era più esperto e più furbo di lei, e soprattutto era il padrone, che poteva mandarla dove voleva, e, colto il momento opportuno, la violentò. La moglie lo venne a sapere e una volta che trovò il marito solo in camera con Katjuša si scagliò su di lei per batterla. Katjuša reagì e ci fu una zuffa, in seguito alla quale la scacciarono di casa senza pagarle il salario. Allora Katjuša andò in città, dove si fermò da una zia. Il marito della zia era rilegatore e prima viveva bene, ma adesso aveva perso tutti i clienti, era diventato un ubriacone e si beveva tutto quello che gli capitava sotto mano.
La zia teneva una piccola lavanderia, con cui sosteneva se stessa e i figli e manteneva il marito fallito. La zia propose alla Maslova di lavorare nella sua lavanderia. Ma guardando la vita dura che conducevano le lavandaie che vivevano presso la zia, la Maslova esitò e si cercò un posto di domestica nelle agenzie di collocamento. Il posto si trovò presso una signora che viveva con i due figli studenti di ginnasio. Una settimana dopo la sua assunzione il maggiore, un baffuto ginnasiale della sesta classe, smise di studiare e prese a ronzare intorno a Katjuša, non dandole più pace. La madre incolpò di tutto la Maslova e la licenziò. Un nuovo posto non si trovava, ma accadde che, giunta all'ufficio di collocamento per domestiche, la Maslova vi incontrò una signora con le paffute braccia nude cariche di anelli e braccialetti. Questa signora, saputa la situazione della Maslova, che cercava lavoro, le diede il suo indirizzo e la invitò a casa sua.
La Maslova andò da lei. La signora l'accolse gentilmente, le offrì pasticcini e vino dolce e mandò via la cameriera con un bigliettino. La sera nella stanza entrò un uomo alto con lunghi capelli brizzolati e la barba grigia; il vecchio subito si sedette accanto alla Maslova e, con gli occhi luccicanti e sorridendo, si mise ad osservarla e a scherzare con lei. La padrona lo chiamò in un'altra stanza a la Maslova la sentì dire: «Fresca, campagnola».
Poi la padrona chiamò la Maslova e disse che quello era uno scrittore che aveva moltissimo denaro e che non avrebbe lesinato, se lei gli fosse piaciuta. Lei gli piacque, e lo scrittore le diede venticinque rubli, promettendole di riincontrarla spesso. I soldi se ne andarono molto presto per pagare le spese alla zia e per un vestito nuovo, un cappellino e dei nastri. Di lì ad alcuni giorni lo scrittore mandò di nuovo a chiamarla. Lei andò. Egli le diede altri venticinque rubli e le propose di trasferirsi in un appartamentino.
Vivendo nell'appartamento affittato dallo scrittore, la Maslova s'innamorò di un allegro commesso che abitava nello stesso cortile. Lei stessa lo annunciò allo scrittore e andò a vivere per conto suo in un alloggio più piccolo. Ma il commesso, che aveva promesso di sposarla, partì per Nižnij senza dirle nulla, ed evidentemente abbandonandola, e la Maslova rimase sola. Avrebbe voluto vivere nell'appartamento per conto suo, ma non glielo permisero. E il brigadiere di polizia le disse che poteva vivere a quel modo solo facendosi rilasciare il biglietto giallo e sottoponendosi alla visita medica. Allora lei ritornò dalla zia. La zia, vedendole indosso un vestito alla moda, una mantellina e un cappello, la accolse con rispetto e non osò più proporle di fare la lavandaia, ritenendo che ormai fosse ascesa a un gradino più alto della scala sociale. E per la Maslova ormai non si poneva più la questione se fare o no la lavandaia.
Adesso guardava con commiserazione la vita da galera che conducevano nelle prime stanze quelle pallide lavandaie dalle braccia magre, alcune delle quali erano già tisiche, lavando e stirando nei vapori di sapone a trenta gradi, con le finestre aperte estate e inverno, e inorridiva al pensiero di poter finire anche lei in quella galera.
Ed ecco che in quel periodo particolarmente disgraziato per la Maslova, dal momento che non capitava nessun protettore, fu rintracciata da una mezzana che procurava ragazze a una casa di tolleranza.
La Maslova beveva già da molto, ma negli ultimi tempi della sua relazione con il commesso, e dopo che egli l'ebbe lasciata, aveva imparato a bere sempre di più. L'alcool l'attirava non solo perché gliene piaceva il sapore, ma l'attirava soprattutto perché le permetteva di dimenticare tutte le esperienze penose che aveva attraversato, e le dava una disinvoltura e una certezza della propria dignità che senza l'alcool non aveva. Senza alcool provava sempre tristezza e vergogna.
La mezzana offrì un pranzo alla zia e, dopo aver fatto bere la Maslova, le propose di entrare in un'ottima casa, la migliore della città, presentandole tutti i vantaggi e i privilegi di quella condizione. La Maslova si trovava dinanzi a una scelta: o l'umiliante condizione di serva, in cui certo ci sarebbero state persecuzioni da parte degli uomini e segreti adulteri saltuari, o una condizione sicura, tranquilla, legalizzata, e un adulterio permanente, alla luce del sole, consentito dalla legge e ben retribuito; e scelse quest'ultimo. Inoltre con ciò pensava di ripagare il suo seduttore, e il commesso, e tutte le persone che le avevano fatto del male.
Per giunta l'allettava, e fu uno dei motivi della sua decisione, quanto le aveva detto la mezzana: che avrebbe potuto ordinarsi tutti gli abiti che avesse voluto: di velluto, di faille, di seta, da ballo con le spalle scoperte e senza maniche. E quando la Maslova s'immaginò in un abito di seta giallo vivo con una guarnizione di velluto nero, décolleté, non poté resistere e consegnò il passaporto. Quella stessa sera la mezzana prese una carrozza e la condusse nella celebre casa della Kitaeva.
E da quel momento iniziò per la Maslova quella vita di cronica violazione dei precetti divini e umani che conducono centinaia e centinaia di migliaia di donne, non solo col consenso, ma sotto la protezione dell'autorità statale, preoccupata del bene dei suoi cittadini, e che termina per nove donne su dieci con tormentose malattie, l'invecchiamento precoce e la morte.
Mattina e pomeriggio il sonno pesante dopo l'orgia notturna. Dopo le due o le tre, lo stanco risveglio fra le lenzuola sporche, acqua di seltz contro i postumi della sbornia, caffè, il pigro ciondolare per le stanze in vestaglia, in camicia, in accappatoio, gli sguardi da dietro le tendine delle finestre, i fiacchi battibecchi con le altre ragazze; poi il lavare, ungere, profumare il corpo e i capelli, la prova degli abiti, i relativi litigi con la padrona, l'esaminarsi allo specchio, il trucco del viso, delle sopracciglia, il cibo dolce e grasso; poi l'indossare un vistoso abito di seta che mette a nudo il corpo; poi l'uscita in una sala addobbata e illuminata a giorno, l'arrivo degli ospiti, la musica, le danze, i dolciumi, il vino, il fumo e l'adulterio con giovani, uomini di mezza età, poco più che bambini e vecchi cadenti, scapoli, sposati, mercanti, commessi, armeni, ebrei, tatari, ricchi, poveri sani, malati, ubriachi, sobri, brutali, teneri, militari, civili, studenti, ginnasiali - di ogni ceto, età e carattere. E grida e scherzi, e litigi e musica, e tabacco e alcool, e alcool e tabacco, e musica dalla sera all'alba. E solo la mattina la liberazione e un sonno pesante. E così ogni giorno, tutta la settimana. E alla fine della settimana il viaggio a un istituto statale, un ufficio di polizia dove dei funzionari al servizio dello Stato, medici uomini, talvolta seri e severi, talaltra invece con scherzosa allegria, violando il pudore dato dalla natura non solo agli uomini, ma anche agli animali, per proteggerli dal delitto, visitavano queste donne e consegnavano loro una patente per continuare quegli stessi delitti commessi con i loro complici nel corso della settimana. E di nuovo una settimana identica. E così ogni giorno, estate e inverno, nei giorni feriali come in quelli festivi.
Così aveva vissuto la Maslova per sette anni. In quel periodo aveva cambiato due case ed era stata una volta in ospedale. Nel settimo anno della sua permanenza in casa di tolleranza e nell'ottavo dopo la prima caduta, all'età di ventisei anni, le era capitato il fatto per cui era stata arrestata, e ora la conducevano in tribunale, dopo sei mesi di permanenza in carcere insieme a ladre e assassine.

III

Mentre la Maslova, sfinita dalla lunga marcia, si avvicinava con la sua scorta all'edificio del tribunale distrettuale, quello stesso nipote delle sue educatrici che l'aveva sedotta, il principe Dmitrij Ivanoviè Nechljudov, era ancora coricato nel suo alto, soffice letto a molle, sul materasso di piumino, e, sbottonatosi il colletto della candida camicia da notte di tela d'Olanda con le piegoline stirate sul petto, fumava una sigaretta. Guardava innanzi a sé con gli occhi fissi e pensava a quello che doveva fare quel giorno e agli avvenimenti della vigilia.
Rammentando la serata precedente, trascorsa dai Korèagin, persone ricche e conosciute, di cui tutti supponevano dovesse sposare la figlia, sospirò e, gettato il mozzicone della sigaretta, voleva prenderne un'altra dal portasigari d'argento, ma cambiò idea e, calando dal letto le gambe bianche e lisce, trovò a tastoni le pantofole, si gettò sulle spalle rotonde la vestaglia di seta e, con passo rapido e pesante, andò nel bagno attiguo alla camera da letto, tutto impregnato dell'odore artificiale delle lozioni, delle acque di colonia, delle brillantine, dei profumi. Lì si pulì con un'apposita polverina i denti piombati in molti punti, li sciacquò con un'acqua profumata, poi cominciò a lavarsi tutto e a strofinarsi con diversi asciugamani. Lavatosi le mani con una saponetta profumata, pulitosi accuratamente le unghie lunghe con degli spazzolini e sciacquatosi il viso e il collo grasso nel grande lavabo di marmo, andò in una terza stanza accanto alla camera da letto, dove era pronta la doccia. Lì, lavatosi con l'acqua fredda il corpo bianco e muscoloso, che tendeva alla pinguedine, e asciugatosi con un lenzuolo di spugna, indossò della biancheria pulita e stirata, delle scarpe lucidissime, e si sedette dinanzi alla pettiniera a ravviarsi con due spazzole la barbetta nera e crespa e i capelli ondulati che cominciavano a diradarsi sulla fronte.
Tutti gli oggetti che usava, - accessori da toilette, biancheria, abiti, scarpe, cravatta, spille, gemelli - erano di primissima qualità, poco appariscenti, semplici, solidi e costosi.
Scelte fra una decina di cravatte e spille le prime che gli capitarono sotto mano (un tempo tutto ciò era nuovo e divertente, adesso non gliene importava assolutamente nulla), Nechljudov indossò un abito spazzolato e preparato sulla sedia e uscì, pulito e profumato, anche se non del tutto fresco, nella lunga sala da pranzo, il cui parquet era stato lucidato il giorno prima da tre uomini: la stanza era arredata da un'enorme credenza di rovere e un altrettanto grande tavolo allungabile, che aveva qualcosa di solenne nelle gambe allargate e scolpite a forma di zampa di leone. Su questo tavolo, coperto da una fine tovaglia inamidata con grandi monogrammi, c'erano: una caffettiera d'argento piena di fragrante caffè, una zuccheriera uguale, un bricco di panna bollita e un cestino pieno di pane fresco, fette biscottate e biscotti. Accanto al suo coperto stavano le lettere ricevute, i giornali e l'ultimo numero della «Revue des deux Mondes». Nechljudov stava appunto per prendere la posta, quando dalla porta che dava sul corridoio emerse una donna anziana e robusta vestita a lutto, con in capo una cuffia di merletto, che nascondeva la traccia troppo larga della scriminatura. Era Agrafena Petrovna, un tempo cameriera della madre di Nechljudov, morta recentemente in quella stessa casa, che era rimasta poi col figlio in qualità di governante. Agrafena Petrovna a varie riprese aveva trascorso una decina d'anni all'estero con la madre di Nechljudov, e aveva l'aspetto e i modi di una signora. Viveva nella casa dei Nechljudov fin dall'infanzia e aveva conosciuto Dmitrij Ivanoviè quando era ancora Miten'ka.
- Buon giorno, Dmitrij Ivanoviè.
- Salve, Agrafena Petrovna. Novità? - chiese Nechljudov scherzando.
- Una lettera della principessa o della principessina. La cameriera l'ha portata da un pezzo, aspetta di là da me, - disse Agrafena Petrovna, porgendo la lettera e sorridendo significativamente.
- Va bene, subito, - disse Nechljudov prendendo la lettera e, notando il sorriso di Agrafena Petrovna, si rabbuiò.
Il sorriso di Agrafena Petrovna significava che la lettera era della principessina Korèagina, con la quale, secondo lei, Nechljudov si accingeva a sposarsi. E questa supposizione, espressa dal sorriso di Agrafena Petrovna, dispiaceva a Nechljudov.
- Allora le dico di aspettare, - e Agrafena Petrovna, dopo aver messo al suo posto la spazzola per raccogliere le briciole, scivolò via dalla sala da pranzo.
Nechljudov,
dissigillata
la lettera profumata che gli aveva consegnato
Agrafena Petrovna, cominciò a leggerla.
«Compiendo il dovere assuntomi di essere la Sua memoria, - era scritto con una calligrafia angolosa ma spaziata su un foglio di spessa carta grigia dai bordi irregolari, - le ricordo che oggi, 28 aprile, deve recarsi alla corte d'assise, e quindi non può certo venire con noi e Kolosov alla mostra di quadri, come ieri, con la Sua solita leggerezza, ci aveva promesso; à moins que vous ne soyez disposé a payer à la cour d'assises les 300
roubles d'amende, que vous vous refusez pour votre cheval, per non essersi presentato in tempo. Me ne sono ricordata ieri, subito dopo che Lei era uscito. Dunque non se ne dimentichi.
Princ. M. Korèagina»
Sull'altro lato era aggiunto:
« Maman vous fait dire que votre couvert vous attendra jusqu'à la nuit. Venez absolument à quelle heure que cela soit.
M.
K
Nechljudov fece una smorfia. Il biglietto era la continuazione di quell'abile lavoro che già da due mesi stava intessendo su di lui la principessina Korèagina, e che consisteva nel legarlo sempre di più a sé con impalpabili fili. Mentre Nechljudov, oltre alla solita riluttanza di fronte al matrimonio degli uomini non più giovanissimi e non follemente innamorati, aveva un altro importante motivo per cui, se anche si fosse deciso, ora non avrebbe potuto fare la sua proposta. Tale motivo non era l'aver sedotto e abbandonato Katjuša dieci anni prima, di questo si era completamente dimenticato, né lo considerava un ostacolo al suo matrimonio; il motivo era che in quello stesso periodo egli aveva con una donna sposata una relazione che, sebbene ormai troncata da parte sua, non era ancora stata riconosciuta tale da lei.
Nechljudov era molto timido con le donne, ma proprio questa sua timidezza aveva suscitato in quella donna sposata il desiderio di conquistarlo. Costei era la moglie del maresciallo della nobiltà del distretto in cui Nechljudov era elettore. E questa donna l'aveva coinvolto in un legame che per Nechljudov si faceva di giorno in giorno più impegnativo e nello stesso tempo più ripugnante. Dapprima Nechljudov non aveva potuto resistere alla seduzione, poi, sentendosi colpevole di fronte a lei, non aveva potuto rompere quella relazione senza il suo consenso. Ecco qual era il motivo per cui Nechljudov non si riteneva in diritto, se anche lo avesse voluto, di fare la sua proposta di matrimonio alla Korèagina.
Sul tavolo stava per l'appunto una lettera del marito di quella donna.
Vedendone la scrittura e il timbro, Nechljudov arrossì e immediatamente sentì quell'afflusso di energia che provava sempre all'approssimarsi del pericolo. Ma non era il caso di agitarsi: il marito, maresciallo della nobiltà del distretto in cui Nechljudov aveva i suoi maggiori possedimenti, lo informava che per la fine di maggio era fissata una riunione straordinaria dell'assemblea dellozemstvo e gli chiedeva di recarvisi assolutamente e donner un coup d'épaule sulle importanti questioni delle scuole e dei binari di raccordo che erano in programma e su cui ci si aspettava una forte opposizione del partito reazionario.
Il maresciallo era un liberale, e insieme ad alcuni correligionari lottava contro la reazione subentrata con Alessandro III, e tutto assorbito da questa lotta nulla sospettava della propria infelice vita familiare.
Nechljudov ricordò tutti i momenti angosciosi che aveva passato a causa di quell'uomo: si ricordò di quando aveva creduto che sapesse tutto e si era preparato a un duello con lui, in cui intendeva sparare in aria, e della terribile scenata con la moglie, la volta che era fuggita disperata in giardino, decisa ad affogarsi nello stagno, e lui era corso a cercarla. «Ora non posso andarci e non posso intraprendere nulla, finché lei non mi abbia risposto», - pensò Nechljudov. Le aveva scritto una settimana prima una lettera decisiva, in cui si riconosceva colpevole, pronto a riscattare in qualunque modo la sua colpa, e tuttavia dichiarava, per il suo stesso bene, finita per sempre la loro relazione. Appunto a quella lettera egli aspettava e non riceveva risposta. Il fatto che non ci fosse risposta era in parte un buon segno. Se lei infatti non avesse accettato la rottura, avrebbe scritto da un pezzo, o addirittura sarebbe venuta di persona, come aveva fatto in passato. Nechljudov aveva sentito parlare di un certo ufficiale che le faceva la corte, e ciò lo tormentava ingelosendolo e nello stesso tempo lo rallegrava dandogli la speranza di liberarsi dalla menzogna che lo affliggeva.
L'altra lettera era dell'amministratore delle sue tenute. Scriveva che Nechljudov doveva assolutamente andare di persona ad affermare i suoi diritti di successione e, inoltre, a risolvere il problema della futura gestione dell'azienda: se si doveva continuare come al tempo della defunta, o non era invece opportuno, come egli aveva già proposto alla principessa e ora proponeva al giovane principe, comperare nuovi arnesi e lavorare in proprio tutta la terra assegnata ai contadini. L'amministratore scriveva che tale sfruttamento sarebbe stato di gran lunga più redditizio. Con ciò si scusava di aver tardato alquanto a inviare i tremila rubli che avrebbe dovuto versargli per il primo del mese. Il denaro gli sarebbe stato spedito con la prossima posta. Il suo ritardo era dovuto al fatto che non riusciva a farsi pagare dai contadini, i quali erano diventati così poco scrupolosi che per costringerli aveva dovuto ricorrere alle autorità. Questa lettera era sia piacevole che spiacevole per Nechljudov. Gli piaceva sentire il suo potere su una grande proprietà, e gli spiaceva sapere di essere stato, al tempo della sua prima giovinezza, un sostenitore entusiasta di Herbert Spencer, di cui soprattutto l'aveva colpito, essendo egli stesso un grande proprietario terriero, quanto sosteneva nel suoSocial Statics, e cioè che la giustizia non ammette proprietà privata della terra. Con la dirittura e la decisione della giovinezza non solo aveva detto che la terra non può essere oggetto di proprietà privata, e non solo all'università aveva scritto una tesi sull'argomento, ma anche nei fatti aveva allora distribuito dei piccoli appezzamenti (che non appartenevano a sua madre ma a lui direttamente, come eredità paterna), non desiderando possedere della terra in contrasto con le proprie convinzioni. Adesso, diventato per eredità un grande latifondista, doveva scegliere: o rinunciare ai suoi possedimenti, come aveva fatto dieci anni prima con le duecento desjatiny della terra del padre, o con un tacito assenso riconoscere erronee e menzognere tutte le sue idee di un tempo.
La prima cosa non poteva farla, perché non aveva alcun mezzo di sussistenza, tolta la terra. Entrare in servizio statale non voleva, mentre ormai si era abituato a una vita lussuosa, a cui riteneva di non poter più rinunciare. E poi sarebbe stato inutile, perché ormai non aveva né la forza di convinzione, né la risolutezza, né la vanità e il desiderio di stupire che aveva avuto in gioventù. La seconda cosa poi, cioè rinnegare i chiari e inconfutabili argomenti sull'illegittimità del possesso della terra, che aveva attinto un tempo dalla Statica sociale di Spencer, e una brillante conferma delle quali aveva trovato poi, molto più tardi, nelle opere di Henry George,
- questo non poteva proprio. E perciò la lettera dell'amministratore gli risultava spiacevole.

IV

Bevuto il caffè, Nechljudov andò nello studio per controllare sulla lettera di convocazione a che ora doveva presentarsi in tribunale, e per scrivere una risposta alla principessina. Allo studio si accedeva attraverso la stanza da disegno, dove c'era un cavalletto con un quadro iniziato capovolto, ed erano appesi degli studi. La vista di quel quadro, su cui si era arrovellato per due anni, e degli studi, e di tutta la stanza da disegno gli ricordò la sensazione, provata con particolare intensità negli ultimi tempi, di un'impotenza a progredire nella pittura. Spiegava questa sensazione con un troppo sviluppato senso estetico, e tuttavia questa consapevolezza gli era assai spiacevole.
Sette anni prima aveva lasciato l'esercito, credendo di avere vocazione per la pittura, e dall'alto dell'attività artistica aveva guardato con un certo disprezzo tutte le altre attività. E adesso risultava che non ne aveva il diritto. Perciò qualsiasi cosa glielo rammentasse gli era spiacevole. Con un senso di pena guardò tutti i lussuosi arredi della stanza da disegno e in una disposizione d'animo poco allegra entrò nello studio.
Lo studio era una stanza molto grande, alta, con ogni genere di ornamenti, arredi e comodità.
Subito, nel cassetto dell'enorme scrivania, nello scomparto «urgenti», Nechljudov trovò la lettera di convocazione, in cui era indicato che bisognava presentarsi in tribunale alle undici, poi si sedette a scrivere un biglietto alla principessina, in cui la ringraziava dell'invito e prometteva che avrebbe cercato di arrivare per pranzo. Ma, quando ebbe scritto il bigliettino, lo stracciò: era troppo intimo; ne scrisse un altro: era freddo, quasi offensivo. Di nuovo lo stracciò e premette il campanello alla parete.
Dalla porta entrò un servitore anziano, dall'aria cupa, con le basette e un grembiule di percalle.
- Per favore, faccia chiamare una carrozza.
- Sì, signore.
- C'è di là la cameriera dei Korèagin: faccia dire che ringrazio e cercherò di andarci.
- Sì, signore.
«È una scortesia, ma non riesco a scrivere. Comunque la vedrò oggi stesso», - pensò Nechljudov e andò a vestirsi.
Quando, vestitosi, uscì sulla scalinata d'ingresso, la sua solita carrozza con i cerchioni di gomma lo attendeva già.
- Ieri lei aveva appena lasciato la casa del principe Korèagin, - disse il vetturino, girando il forte collo abbronzato nel colletto bianco della camicia, - quando arrivo io, e il portiere mi fa: «Il signore è appena uscito».
«Persino i vetturini sanno dei miei rapporti con i Korèagin», - pensò Nechljudov, e la questione irrisolta che lo occupava costantemente negli ultimi tempi, se dovesse o no sposare la Korèagina, gli si parò dinanzi, e come la maggior parte delle questioni che gli si presentavano in quel periodo non riusciva proprio a risolverla, né in un senso né nell'altro.
A favore del matrimonio in genere c'era, in primo luogo, il fatto che il matrimonio, oltre ai piaceri del focolare domestico, eliminando l'irregolarità della vita sessuale consentiva di vivere secondo morale; in secondo luogo e soprattutto Nechljudov sperava che la famiglia, dei bambini, avrebbero dato un senso alla sua vita così insulsa. Questo a favore del matrimonio in generale. Invece contro il matrimonio in genere c'era, in primo luogo, il timore comune a tutti gli scapoli non più giovani di perdere la libertà, e in secondo luogo il timore inconscio dinanzi all'essere misterioso che è la donna.
In particolare poi a favore del matrimonio con Missy (la Korèagina si chiamava Marija, e come in tutte le famiglie di un certo ambiente le avevano dato un soprannome) c'era, in primo luogo, il fatto che lei era di razza e in tutto, dall'abito alla maniera di parlare, camminare, ridere, si distingueva dalle persone comuni non per qualcosa di esclusivo, ma per la sua «distinzione» - non conosceva altra parola per esprimere quella qualità, che apprezzava moltissimo; in secondo luogo c'era poi il fatto che lei lo stimava più di chiunque altro, quindi, secondo lui, lo capiva. E
questa comprensione, ovvero il riconoscimento delle sue alte doti, era per Nechljudov una prova dell'intelligenza e della capacità di giudizio di lei.
Invece contro il matrimonio con Missy in particolare c'era, in primo luogo, il fatto che con ogni verosimiglianza si sarebbe potuta trovare una ragazza con molte più qualità della stessa Missy, e perciò più degna di lui, e, in secondo luogo, lei aveva ventisette anni, e quindi certamente aveva avuto già degli amori precedenti, - e questa idea era un tormento per Nechljudov.
Il suo orgoglio non si rassegnava al fatto che, seppure in passato, ella avesse potuto amare qualcuno diverso da lui. S'intende che non poteva sapere che l'avrebbe incontrato, ma il solo pensiero che avesse potuto amare un altro prima lo offendeva.
Cosicché c'erano tanti argomenti pro, quanti contro; per lo meno la forza di questi argomenti era pari, e Nechljudov, prendendosi in giro, si chiamava «l'asino di Buridano». E tuttavia restava tale, senza sapere a quale fascio di fieno rivolgersi.
«Del resto, non avendo ricevuto risposta da Mar'ja Vasil'evna (la moglie del maresciallo della nobiltà), non avendo chiuso definitivamente con lei, non posso intraprendere nulla», - si disse. E questa consapevolezza di potere e dovere rimandare la decisione gli faceva piacere.
«Del resto, ci rifletterò meglio più tardi», - si disse quando la sua carrozza arrivò scivolando, ormai silenziosissima, all'ingresso asfaltato del tribunale.
«Adesso bisogna compiere il proprio dovere sociale coscienziosamente, come sempre faccio e ritengo necessario. Tanto più che spesso è anche interessante», - si disse e, passando accanto al guardaportone, entrò nel vestibolo del tribunale.

V

Nei corridoi del tribunale già c'era un intenso movimento, quando Nechljudov vi entrò.
I custodi ora camminavano in fretta, ora addirittura trotterellavano trafelati avanti e indietro con incarichi e documenti, senza sollevare i piedi dal pavimento, ma facendoli scivolare. Uscieri, avvocati e magistrati passavano ora in un senso, ora nell'altro, postulanti e imputati a piede libero vagavano tristemente rasente i muri o sedevano, aspettando.
- Dov'è il tribunale distrettuale? - domandò Nechljudov a uno dei custodi.
- E quale cerca? C'è la sezione civile, c'è la Corte d'appello.
- Sono un giurato.
- Sezione penale. Poteva dirlo subito. Qui a destra, poi a sinistra, seconda porta.
Nechljudov seguì le indicazioni.
Davanti alla porta indicatagli stavano due persone, in attesa: uno era un alto, grasso mercante, un uomo cordiale, che evidentemente aveva bevuto e mangiato ed era nella migliore disposizione di spirito; l'altro era un commesso di origine ebrea. Parlavano del prezzo della lana, quando a essi si avvicinò Nechljudov e chiese se era lì la stanza dei giurati.
- Qui, signore, qui. È anche lei dei nostri, un giurato? - chiese il cordiale mercante, ammiccando allegramente. - Be', vorrà dire che lavoreremo insieme; - continuò alla risposta affermativa di Nechljudov, -
Baklašov, mercante della seconda corporazione, - disse porgendo la larga mano molle, che non stringeva, - lavorare bisogna. Con chi ho il piacere?
Nechljudov si presentò e passò nella stanza dei giurati.
Nella piccola stanza dei giurati c'era una decina di persone di vario genere. Tutti erano appena arrivati e alcuni sedevano, altri camminavano lanciandosi occhiate e facendo conoscenza. C'era un militare a riposo in divisa, gli altri indossavano finanziere o giacche, soltanto uno portava il farsetto dei contadini.
Tutti, - nonostante molti fossero stati distolti dalla loro occupazione e se ne dicessero infastiditi, - tutti tradivano la soddisfazione di chi è conscio di svolgere un importante compito sociale.
I giurati, chi dopo le debite presentazioni e chi semplicemente indovinando con chi aveva a che fare, chiacchieravano fra loro del tempo, della primavera precoce, degli impegni che stavano per affrontare. Quelli che non lo conoscevano si affrettarono a presentarsi a Nechljudov, ritenendolo evidentemente un onore particolare. E Nechljudov, come sempre quando si trovava fra sconosciuti, l'accettava come cosa dovuta. Se gli avessero chiesto perché si considerava al di sopra della maggioranza della gente, non avrebbe saputo rispondere, dato che tutta la sua vita non aveva dimostrato alcun merito particolare. Il fatto poi che pronunciasse bene l'inglese, il francese e il tedesco, che portasse biancheria, abiti, cravatta e gemelli comprati dai primissimi fornitori di tali articoli, non poteva certo - lo capiva lui stesso - essere un motivo per riconoscere la sua superiorità. Ma intanto riconosceva senza dubbio questa sua superiorità e accettava come dovuti i segni di rispetto che gli si tributavano, e si offendeva quando così non avveniva. Nella stanza dei giurati gli toccò appunto provare quella spiacevole sensazione di una mancanza di rispetto.
Fra i giurati si trovava un conoscente di Nechljudov. Era Pëtr Gerasimoviè (Nechljudov non aveva mai saputo il suo cognome, e si vantava anche un poco di non saperlo), un tempo insegnante dei figli di sua sorella. Questo Pëtr Gerasimoviè aveva terminato gli studi e ora insegnava al ginnasio.
Nechljudov non l'aveva mai potuto sopportare per la sua familiarità, la sua risata soddisfatta di sé, in generale per il suo essere così «ordinario», come diceva la sorella di Nechljudov.
- Ah, c'è cascato anche lei, - lo accolse Pëtr Gerasimoviè con una sonora risata. - Non si è defilato?
- Non ho mai pensato di defilarmi, - disse severo e cupo Nechljudov.
- Oh, ammirevole senso civico. Ma aspetti quando sarà affamato, e non la lasceranno dormire, allora mi saprà dire! - sghignazzando ancora più sonoramente disse Pëtr Gerasimoviè.
«Questo figlio di arciprete adesso si metterà a darmi del tu», - pensò Nechljudov, e atteggiato il volto a un'afflizione che sarebbe stata naturale solo se avesse appena saputo della morte di tutti i suoi parenti, si allontanò da lui e si avvicinò al gruppo che si era formato intorno a un signore prestante, alto e rasato, che raccontava animatamente qualcosa. Questo signore parlava con grande competenza della causa che si stava discutendo nella sezione civile, chiamando giudici e avvocati celebri per nome e patronimico. Raccontava della svolta sorprendente che aveva saputo imprimere alla causa un celebre avvocato e per cui una delle parti, una vecchia signora, pur avendo assolutamente ragione avrebbe dovuto pagare senza motivo una forte somma alla parte avversa.
- Un avvocato geniale! - diceva.
Lo ascoltavano con rispetto, e alcuni cercavano di intromettersi con le loro osservazioni, ma egli li interrompeva sempre, come se lui solo potesse sapere tutto esattamente.
Sebbene Nechljudov fosse giunto tardi, gli toccò attendere a lungo.
L'udienza non poteva incominciare perché uno dei giudici della corte non era ancora arrivato.

VI

Il presidente era arrivato presto in tribunale. Era un uomo alto e robusto, con le fedine brizzolate. Era sposato, ma conduceva una vita molto libertina, proprio come sua moglie. Non si davano fastidio. Quella mattina aveva ricevuto un biglietto dalla governante svizzera che aveva vissuto in casa loro d'estate e che era giunta a Pietroburgo dal sud, di passaggio: diceva che fra le tre e le sei l'avrebbe aspettato all'albergo
«Italia», in città. E per questo voleva iniziare e finire presto l'udienza odierna, per riuscire a fare una visitina entro le sei a quella rossa Klara Vasil'evna con cui aveva intrecciato un romanzo l'estate prima in villeggiatura.
Entrato nel suo ufficio, chiuse a chiave la porta, dallo scaffale inferiore dell'armadio dei documenti prese due pesi e fece venti movimenti in alto, in avanti, di lato e in basso e poi tre leggeri piegamenti, tenendo i pesi sopra la testa.
«Nulla mantiene in forma come una doccia e la ginnastica», - pensò tastando con la mano sinistra, sul cui anulare portava un anello d'oro, il teso bicipite destro. Gli restava da eseguire il mulinello (faceva sempre questi due esercizi prima della lunga inattività dell'udienza), quando la porta sussultò. Qualcuno cercava di aprirla. Il presidente rimise a posto in fretta i pesi e aprì la porta.
- Mi scusi, - disse.
Nella stanza entrò uno dei giudici della corte con gli occhiali d'oro, piccolo, con le spalle sollevate e il viso accigliato.
- Ancora manca Matvej Nikitiè, - disse il giudice, scontento.
- Non c'è ancora, - rispose il presidente indossando l'uniforme. - È
sempre in ritardo.
- È incredibile che non si vergogni, - disse il giudice e si sedette adirato, cercando le sigarette.
Questo giudice, un uomo molto preciso, quella mattina aveva avuto uno scontro spiacevole con la moglie perché costei aveva speso prima del tempo il denaro che le era stato dato per il mese. Aveva chiesto un anticipo, ma lui aveva detto che non avrebbe derogato ai suoi principi. Ne era nata una scenata. La moglie aveva detto che in tal caso non ci sarebbe stato neppure il pranzo, che non si aspettasse di mangiare a casa. A quel punto lui se n'era andato, temendo che mantenesse la sua minaccia, dal momento che da lei ci si poteva aspettare di tutto. «Ecco cosa ci si guadagna a vivere una vita buona, morale, - pensava guardando il raggiante, sano, allegro e cordiale presidente, che allargando bene i gomiti si accarezzava con le belle mani bianche le folte e lunghe fedine brizzolate ai due lati del colletto ricamato, - lui è sempre soddisfatto e allegro, mentre io mi rodo».
Entrò il cancelliere e portò un incartamento.
- Molte grazie, - disse il presidente e accese una sigaretta. - Quale causa facciamo passare per prima?
- L'avvelenamento, direi, - disse il cancelliere indifferente.
- Be', d'accordo, vada per l'avvelenamento, - disse il presidente, ricordandosi che quella era una causa che si poteva concludere prima delle quattro, per poi andarsene. - E Matvej Nikitiè non c'è ancora?
- Non ancora.
- E Breve è qui?
- Sì, - rispose il cancelliere.
- Allora gli dica, se lo vede, che cominciamo con l'avvelenamento.
Breve era il sostituto procuratore che doveva rappresentare l'accusa in quell'udienza.
Uscito in corridoio, il cancelliere incontrò Breve. Con le spalle molto sollevate e la divisa slacciata, la borsa sotto il braccio, quasi di corsa, battendo i tacchi e agitando il braccio libero in modo tale che il piano della mano era perpendicolare alla direzione della sua marcia, costui camminava per il corridoio.
- Michail Petroviè manda a chiedere se lei è pronto, - gli domandò il cancelliere.
- S'intende, io sono sempre pronto, - disse il sostituto procuratore. -
Qual è la prima causa?
-
L'avvelenamento.
- Perfetto, - disse il sostituto procuratore, ma trovava la cosa tutt'altro che perfetta: non aveva dormito tutta la notte. Avevano dato una festa d'addio a un collega, bevuto molto e giocato fino alla due di notte, e poi erano andati a donne in quella stessa casa in cui stava la Maslova fino a sei mesi prima, sicché proprio la causa dell'avvelenamento non aveva fatto in tempo a leggerla, e contava di darle adesso una scorsa. E il cancelliere, sapendo che non aveva studiato la causa dell'avvelenamento, aveva suggerito apposta al presidente di farla passare per prima. Il cancelliere era un uomo di idee liberali, perfino radicali. Breve invece era un conservatore, anzi, come tutti i tedeschi impiegati in Russia, particolarmente devoto all'ortodossia, e il cancelliere non lo amava e gli invidiava il posto.
- Be', e la faccenda degli skopcy? - chiese il cancelliere.
- Ho detto che non posso, - disse il sostituto procuratore,- per mancanza di testimoni, e così dichiarerò alla corte.
- Ma fa lo stesso...
- Non posso, - disse il sostituto procuratore e, sempre agitando il braccio, corse nel suo ufficio.
Aveva rimandato la causa degli skopcy per l'assenza di un testimone assolutamente irrilevante e inutile al processo, solo perché quella causa, discutendosi in un tribunale dove la giuria era composta di intellettuali, poteva concludersi con un'assoluzione. D'intesa con il presidente, invece, quella causa si doveva rinviare a una sessione in una città di provincia, dove ci sarebbero stati più contadini, e quindi maggiori possibilità di una incriminazione.
Il movimento in corridoio continuava ad aumentare. La folla si accalcava soprattutto vicino all'aula della sezione civile, dove si discuteva la causa di cui aveva parlato ai giurati il prestante signore appassionato di casi giudiziari. Nel precedente intervallo da quell'aula era uscita la vecchietta che il geniale avvocato aveva saputo privare del patrimonio, in favore di un affarista che su quel patrimonio non aveva alcun diritto: lo sapevano i giudici e tanto più il querelante e il suo avvocato: ma la manovra che avevano inventato era tale che non si poteva non togliere il patrimonio alla vecchietta e non darlo all'affarista. La vecchietta era una donna grassa con un abito elegante e fiori enormi sul cappello. Uscita dalla porta, si era fermata in corridoio e, allargando le braccia grasse e corte, continuava a ripetere:
- Ma che sarà? Mi faccia la grazia! Che cosa vuol dire? - rivolgendosi al suo avvocato. L'avvocato guardava i fiori sul suo cappello e non l'ascoltava, pensando ad altro.
Dopo la vecchietta, dalla porta dell'aula della sezione civile, radioso nello sparato del gilet bene aperto e nel viso soddisfatto, uscì svelto quello stesso celebre avvocato che aveva fatto in modo che la vecchietta coi fiori restasse con un pugno di mosche, e l'affarista, che gli aveva dato diecimila rubli, ne guadagnasse invece più di centomila. Tutti gli occhi si volsero all'avvocato, e lui lo sentì e con tutto il suo aspetto pareva dire: «Vi prego, niente manifestazioni di devozione», e passò rapidamente oltre.

VII

Finalmente arrivò anche Matvej Nikitiè, e l'usciere, un uomo magro dal lungo collo che camminava di sbieco e ugualmente di sbieco sporgeva il labbro inferiore, entrò nella stanza dei giurati.
Questo usciere era un uomo onesto, di cultura universitaria, ma non riusciva a conservarsi un posto perché era un ubriacone impenitente. Tre mesi prima una contessa, protettrice di sua moglie, gli aveva procurato quel posto, che fino a quel momento era riuscito a conservarsi, e se ne rallegrava.
- Allora, signori, siete tutti riuniti? - chiese, inforcando il pince-nez e guardando al di sopra di esso.
- Tutti, pare, - disse l'allegro mercante.
- Controlliamo un po', - disse l'usciere e, preso un foglio dalla tasca, fece l'appello, guardando i presenti ora al di sopra del pince-nez, ora attraverso di esso.
- Consigliere di Stato I. M. Nikiforov.
- Io, - disse il signore prestante che conosceva tutti i casi giudiziari.
- Colonnello a riposo Ivan Semënoviè Ivanov.
- Presente, - rispose un uomo magro in divisa da militare in congedo.
- Mercante della seconda corporazione Pëtr Baklašov.
- Eccomi, - disse il cordiale mercante, sorridendo da un orecchio all'altro. - Pronti!
- Tenente della guardia principe Dmitrij Nechljudov.
- Io, - rispose Nechljudov.
L'usciere s'inchinò con particolare grazia e cortesia, guardando al di sopra del pince-nez, come per distinguerlo con ciò dagli altri.
- Capitano Jurij Dmitrieviè Danèenko, mercante Grigorij Efimoviè Kulešov, - eccetera, eccetera.
Tutti,
tranne
due, erano presenti.
- Ora, signori, favorite in aula, - disse l'usciere, indicando la porta con un gesto grazioso.
Tutti si mossero e, cedendosi il passo l'un l'altro sulle porte, uscirono in corridoio e dal corridoio nell'aula delle udienze.
L'aula del tribunale era un locale grande e lungo. Una sua estremità era occupata da una pedana, a cui conducevano tre scalini. In mezzo alla pedana c'era un tavolo, coperto da un panno verde con la frangia di un verde più scuro. Dietro il tavolo stavano tre poltrone con altissimi schienali di quercia intagliata, e dietro le poltrone era appeso in una cornice dorata il vivace ritratto a tutta figura di un generale in divisa e fascia, con un piede scostato e la mano sulla sciabola. Nell'angolo a destra si trovava un altarino con l'immagine del Cristo incoronato di spine e un leggio, e sul lato destro stava la cattedra del procuratore. A sinistra in fondo, di fronte alla cattedra, c'era il tavolino del cancelliere, più vicino al pubblico la sbarra di quercia tornita, e dietro a essa il banco ancora libero degli imputati. A destra sulla pedana c'erano due file di sedie, pure con alti schienali, per i giurati, sotto i tavoli degli avvocati. Tutto ciò si trovava nella parte anteriore della sala, divisa in due dalla sbarra. La parte posteriore invece era tutta occupata da panche che, innalzandosi una fila sopra l'altra, arrivavano fino alla parete di fondo. Nella parte posteriore della sala, in prima fila, sedevano quattro donne, operaie o cameriere all'aspetto, e due uomini, pure lavoratori, evidentemente schiacciati dalla grandiosità dell'ambiente, e che perciò bisbigliavano timidamente fra loro.
Subito dopo i giurati l'usciere si portò in mezzo all'aula col suo passo unilaterale e a voce alta, quasi volesse spaventare i presenti, proclamò:
- Entra la corte!
Tutti si alzarono e sulla pedana salirono i giudici: il presidente con i suoi muscoli e le sue magnifiche fedine; poi il giudice tetro con gli occhiali d'oro, che adesso era ancora più tetro perché proprio prima della seduta aveva incontrato suo cognato, uditore giudiziario, che gli aveva comunicato di essere stato dalla sorella, e averne saputo che non si sarebbe pranzato.
- Dunque a quanto pare andremo in trattoria! - aveva esclamato ridendo il cognato.
- Non c'è niente da ridere, - aveva detto il giudice tetro e si era fatto ancora più tetro.
E, finalmente, il terzo componente la corte, quello stesso Matvej Nikitiè che era sempre in ritardo: costui era un uomo barbuto con grandi occhi buoni all'ingiù. Soffriva di gastrite, e quella mattina aveva iniziato, su consiglio del medico, una nuova cura, e questa nuova cura l'aveva trattenuto a casa ancor più a lungo del solito. Adesso, mentre saliva sulla pedana, aveva un'aria concentrata, perché aveva l'abitudine di cercar di trarre da ogni segno possibile una risposta alle domande che si poneva.
Ora aveva stabilito che se il numero di passi dalla porta dello studio alla poltrona fosse stato divisibile per tre la nuova cura l'avrebbe guarito dalla gastrite, se non fosse stato divisibile invece no. I passi erano ventisei, ma lui fece un passettino in più e giusto col ventisettesimo arrivò alla poltrona.
Le figure del presidente e degli altri giudici, usciti sulla pedana nelle loro uniformi dai colletti ricamati in oro, erano molto imponenti. Essi stessi lo sentivano, e tutti e tre, quasi turbati dalla loro magnificenza, abbassando modestamente gli occhi si sedettero in fretta sui loro seggi intagliati dietro il tavolo coperto di panno verde, su cui troneggiavano uno strumento triangolare con l'aquila e dei vasi di vetro come quelli in cui si tengono i confetti nelle credenze; c'erano anche un calamaio, penne, della carta pulita e bellissima e matite appena temperate di diverse misure.
Insieme ai giudici entrò anche il sostituto procuratore. Sempre frettoloso, con la borsa sotto l'ascella; e sempre agitando il braccio, raggiunse il suo posto vicino alla finestra e subito s'immerse nella lettura e nell'esame degli incartamenti, sfruttando ogni minuto per prepararsi al processo. Era solo la quarta volta che questo procuratore sosteneva l'accusa. Era molto ambizioso e fermamente deciso a far carriera, e perciò riteneva necessario ottenere la condanna in tutti i processi in cui fosse stato accusatore.
Conosceva il caso dell'avvelenamento a grandi linee e aveva già impostato il piano della sua requisitoria, ma gli servivano ancora alcuni dati, che andava adesso trascrivendo in fretta dagli atti.
Il cancelliere sedeva all'estremità opposta della pedana e, preparate tutte le carte che potevano servire per la lettura, sfogliava un articolo proibito, che si era procurato e letto il giorno prima. Intendeva parlare di quell'articolo con il giudice dalla grande barba, che condivideva le sue idee, ma prima voleva ripassarne il contenuto.

VIII

Il presidente, data una scorsa agli atti, fece alcune domande all'usciere e al cancelliere e, ottenute delle risposte affermative, dispose che venissero condotti gli imputati. Subito la porta dietro la sbarra si aprì ed entrarono due gendarmi col berretto e le sciabole sguainate, e dietro di loro prima un imputato, un uomo rosso e lentigginoso, e poi due donne.
L'uomo indossava il camiciotto dei carcerati, troppo ampio e lungo per lui.
Entrando in tribunale, teneva le mani tese lungo le cuciture e i pollici rigidi e allargati, trattenendo con questa posizione le maniche troppo lunghe che gli cadevano. Senza guardare i giudici e il pubblico, osservava attentamente la panca intorno a cui stava girando. Alla fine vi si sedette composto, a un'estremità, lasciando il posto alle altre e, puntato lo sguardo sul presidente, si mise a muovere i muscoli delle guance, come sussurrando qualcosa. Dopo di lui entrò una donna non più giovane, anche lei in divisa da detenuta. Sul capo della donna era annodato il fazzoletto delle carcerate, il volto era grigio-bianco, senza ciglia né sopracciglia, ma con gli occhi rossi. Questa donna sembrava assolutamente calma. Mentre andava al suo posto, il camiciotto le s'impigliò in qualcosa, lei lo liberò diligentemente, senza fretta, e si sedette.
La terza imputata era la Maslova.
Non appena entrò, gli occhi di tutti gli uomini che erano in aula si volsero verso di lei e a lungo non si staccarono dal suo volto bianco dagli occhi lucenti, neri brillanti, e dal suo seno alto che sporgeva sotto la divisa.
Persino il gendarme accanto a cui era passata la fissò senza distogliere gli occhi mentre passava e prendeva posto e poi, quando si fu seduta, quasi sentendosi in colpa si voltò in fretta, si riscosse e puntò gli occhi sulla finestra dritto dinanzi a sé.
Il presidente aspettò che gli imputati prendessero posto, e non appena la Maslova si fu seduta si rivolse al cancelliere.
Ebbe inizio la consueta procedura: si elencarono i giurati, si discusse sugli assenti, s'inflisse loro un'ammenda, si decise su coloro che avevano chiesto di essere esentati e si sostituirono gli assenti con dei giurati di riserva. Poi il presidente piegò dei bigliettini, li mise in un vaso di vetro e dopo essersi rimboccato un po' le maniche ricamate dell'uniforme, denudando le braccia molto pelose, con gesti da prestigiatore cominciò a estrarre un bigliettino dopo l'altro, a spiegarlo e a leggerlo. Poi il presidente si risistemò le maniche e invitò il sacerdote a condurre i giurati al giuramento.
Il sacerdote, un vecchietto dalla faccia gonfia e giallastra in tonaca marrone, con una croce d'oro sul petto e un'altra piccola decorazione appuntata di lato sulla tonaca, muovendo lentamente le gambe gonfie sotto la veste si avvicinò al leggio che stava sotto l'immagine.
I giurati si alzarono e, accalcandosi, si mossero verso il leggio.
- Prego, - disse il sacerdote, toccandosi la croce sul petto con la mano paffuta e aspettando che tutti i giurati si avvicinassero.
Questo sacerdote era stato ordinato quarantasei anni prima e si preparava a festeggiare fra tre anni il proprio giubileo come l'aveva recentemente festeggiato l'arciprete della cattedrale. Era poi sacerdote del tribunale distrettuale dal tempo dell'apertura dei tribunali ed era molto orgoglioso di aver fatto prestare giuramento a diverse decine di migliaia di persone e di continuare a esercitare il ministero alla sua venerabile età, per il bene della chiesa, della patria e della famiglia, alla quale avrebbe lasciato, oltre alla casa, un capitale di non meno di trentamila rubli in titoli di rendita. Il fatto che il suo lavoro in tribunale, consistente nel far giurare la gente sul vangelo, in cui il giuramento è esplicitamente proibito, fosse un cattivo lavoro, non gli era mai passato per la testa, e non solo non gli pesava, ma anzi amava quell'occupazione abituale, che spesso gli faceva incontrare dei signori così perbene. Ora non senza piacere aveva conosciuto il celebre avvocato, che gli incuteva gran rispetto per aver guadagnato ben diecimila rubli con la sola causa della vecchietta dagli enormi fiori sul cappello.
Quando i giurati furono tutti saliti sulla pedana, il sacerdote, piegando di lato il capo calvo e canuto, lo infilò nell'apertura bisunta della pianeta e, ravviatosi i capelli radi, si rivolse ai giurati:
- Alzate la mano destra, e mettete le dita così, - disse lentamente, con voce senile, alzando la mano paffuta con le fossette sopra ogni dito e riunendo le dita a pizzico. - Ora ripetete dopo di me, - disse e cominciò: -
Prometto e giuro su Dio onnipotente, davanti al santo suo vangelo e alla vivificante croce del Signore, che nella causa in cui... - diceva, facendo delle pause dopo ogni frase. - Non abbassate le mani, tenetele così, - si rivolse a un giovanotto che aveva abbassato la mano, - che nella causa in cui...
Il signore prestante con le basette, il colonnello, il mercante e altri tenevano le mani con le dita riunite come voleva il sacerdote, bene in alto e con sicurezza, quasi con un piacere particolare; gli altri quasi controvoglia, insicuri. Gli uni ripetevano le parole a voce troppo alta, quasi con foga, e un'espressione che diceva: «E io comunque parlerò finché mi pare», gli altri sussurravano appena, restavano indietro e poi, come spaventati, raggiungevano il sacerdote fuori tempo; gli uni tenevano le dita strette strette, quasi temendo di lasciarsi scappare qualcosa, con gesto di sfida, gli altri invece lasciavano andare le dita e poi le richiudevano. Tutti erano a disagio, solo il vecchio sacerdote era convinto senz'ombra di dubbio di fare una cosa molto utile e importante. Dopo il giuramento il presidente invitò i giurati a eleggersi un capo. I giurati si alzarono e, accalcandosi, passarono nella camera di consiglio, dove quasi tutti presero subito una sigaretta e si misero a fumare. Qualcuno propose come capo il signore prestante, e tutti furono subito d'accordo e, gettati via e spenti i mozziconi, tornarono in aula. Il neoeletto dichiarò al presidente di essere stato scelto come capo, e tutti di nuovo, scavalcandosi le gambe a vicenda, si sedettero in due file sulle sedie dagli alti schienali.
Tutto andò senza intoppi, ben presto anche non senza solennità, e questa esattezza, consequenzialità e solennità facevano evidentemente piacere ai partecipanti, confermando in loro la coscienza di svolgere un serio e importante compito sociale. Tale era la sensazione che provava anche Nechljudov.
Non appena i giurati si furono seduti, il presidente tenne loro un discorso sui loro diritti, doveri e responsabilità. Pronunciando il suo discorso, il presidente mutava continuamente posizione: ora si appoggiava sul gomito sinistro, ora sul destro, ora sullo schienale, ora sui braccioli della poltrona, ora pareggiava i bordi dei fogli, ora accarezzava il tagliacarte, ora tastava la matita.
I loro diritti, secondo le sue parole, consistevano nella facoltà di interrogare gli imputati tramite il presidente, avere carta e matita ed esaminare i corpi del reato. Il dovere consisteva nel giudicare non erroneamente, ma secondo giustizia. E la responsabilità consisteva nell'essere soggetti a sanzioni in caso d'inosservanza del segreto di consiglio e di contatti con estranei.
Tutti ascoltavano con reverenziale attenzione. Il mercante, diffondendo odore di vino attorno a sé e trattenendo un rutto rumoroso, annuiva a ogni frase in segno di approvazione.

IX

Terminato il suo discorso, il presidente si rivolse agli imputati.
- Simon Kartinkin, si alzi, - disse.
Simon scattò in piedi nervosamente. I muscoli delle sue guance cominciarono a muoversi ancora più in fretta.
- Il suo nome?
- Simon Petrov Kartinkin, - pronunciò in fretta e con voce stridula la risposta evidentemente preparata in anticipo.
- La sua condizione?
-
Contadina.
- Di quale governatorato, distretto?
- Governatorato di Tula, distretto di Krapivno, comune di Kupjansk, villaggio di Borki.
- Quanti anni ha?
-
Trentatrè,
nato
nel milleottocento...
-
Religione?
- Siamo di religione russa, ortodossa.
-
Coniugato?
-
Nossignore.
- Qual è la sua occupazione?
- Inserviente di corridoio all'albergo «Mauritania».
- È mai stato sotto processo?
- Non sono mai stato sotto processo, perché prima noi si viveva...
- Non è mai stato sotto processo prima?
- Dio scampi, mai.
- Ha ricevuto una copia dell'atto d'accusa?
-
Sì.
- Si sieda. Evfimija Ivanova Boèkova, - il presidente si rivolse all'imputata successiva.
Ma Simon continuava a restare in piedi e nascondeva la Boèkova.
- Kartinkin, si sieda.
Kartinkin
restava
sempre in piedi.
- Kartinkin, si sieda!
Kartinkin restava sempre in piedi e si sedette soltanto quando accorse l'usciere e, inclinando la testa di lato e spalancando innaturalmente gli occhi, disse con un sussurro tragico: «Seduto, seduto!».
Kartinkin si sedette in fretta come si era alzato, e avviluppatosi nel camiciotto ricominciò a muovere le guance in silenzio.
- Il suo nome? - con un sospiro di stanchezza il presidente si rivolse alla seconda imputata, senza guardarla e consultando il foglio che gli stava davanti. La procedura era così abituale per il presidente, che per accelerarne il corso poteva occuparsi di due cose contemporaneamente.
La Boèkova aveva quarantatré anni, era una borghese di Kolomna e anche lei lavorava come cameriera all'albergo «Mauritania». Non era mai stata sotto processo o inchiesta, aveva ricevuto la copia dell'atto d'accusa.
La Boèkova dava le sue risposte senz'ombra di esitazione e con un tono come se a ogni risposta volesse dire: «Sì, Evfimija, e Boèkova, la copia l'ho ricevuta e me ne vanto, e non permetterò a nessuno di riderne». Si sedette subito, senza aspettare che glielo dicessero, non appena finirono le domande.
- Il suo nome? - il presidente donnaiolo si rivolse alla terza imputata con una certa particolare amabilità. - Bisogna alzarsi, - aggiunse in tono dolce e carezzevole, notando che la Maslova restava seduta.
La Maslova si alzò con un rapido movimento e con un'espressione di disponibilità, sporgendo il suo alto seno, senza rispondere, guardava dritto in faccia il presidente con i suoi occhi neri, sorridenti e un po' strabici.
- Come si chiama?
- Ljubov', - disse in fretta.
Intanto Nechljudov, messosi il pince-nez, guardava gli imputati via via che venivano interrogati. «Non può essere, - pensava, senza staccare gli occhi dal volto dell'imputata, - ma come Ljubov'?», - pensò quando ebbe udito la sua risposta.
Il presidente voleva continuare con le altre domande, ma il giudice con gli occhiali lo fermò, sussurrando arrabbiato qualcosa. Il presidente fece un segno di assenso col capo e si rivolse all'imputata:
- Come Ljubov'? - disse. - Qui risulta un altro nome.
L'imputata
taceva.
- Le sto domandando qual è il suo vero nome.
- Il nome di battesimo? - chiese il giudice arrabbiato.
- Prima mi chiamavo Katerina.
«Non può essere», - continuava a dirsi Nechljudov, e intanto sapeva già senz'ombra di dubbio che era lei, quella stessa ragazza, pupilla o cameriera, di cui un tempo era stato innamorato, proprio innamorato, e che poi in una sorta di folle annebbiamento aveva sedotto e abbandonato e di cui in seguito non si era più ricordato, perché quel ricordo era troppo tormentoso, lo accusava troppo chiaramente e dimostrava che lui, così orgoglioso della sua correttezza, aveva agito con quella donna in maniera non solo scorretta, ma addirittura infame.
Sì, era lei. Adesso egli vedeva chiaramente quella peculiarità esclusiva, misteriosa, che distingue ogni viso dall'altro, lo fa particolare, unico, irripetibile. Nonostante il pallore innaturale e la pienezza del viso, questa peculiarità, cara, esclusiva peculiarità, era in quel viso, nelle labbra, negli occhi un po' strabici e soprattutto in quello sguardo ingenuo e sorridente e nell'espressione di disponibilità non solo sul volto, ma in tutta la persona.
- È così che doveva dire, - di nuovo con particolare dolcezza disse il presidente. - E il patronimico?
- Sono figlia illegittima, - disse la Maslova.
- Ma dal padrino di battesimo, che nome ha preso?
-
Michajlova.
«E cosa avrà commesso?» - continuava intanto a pensare Nechljudov, respirando a fatica.
- E il cognome, il soprannome qual è? - continuava il presidente.
- Mi hanno registrata col nome di mia madre, Maslova.
-
Condizione?
-
Borghese.
- Religione ortodossa?
-
Ortodossa.
- Occupazione? Che lavoro faceva?
La Maslova taceva.
- Che lavoro faceva? - ripeté il presidente.
- Ero in una casa, - disse.
- In quale casa? - domandò severamente il giudice con gli occhiali.
- Lo sa anche lei in quale, - disse la Maslova, sorrise e, dopo una rapida occhiata in giro, fissò di nuovo il presidente.
C'era qualcosa di così insolito nell'espressione del viso, di così terribile e patetico nel significato delle parole pronunciate da lei, in quel sorriso e in quella rapida occhiata che aveva lanciato a tutta la sala, che il presidente chinò il capo, e nell'aula per un momento scese un assoluto silenzio. Il silenzio fu interrotto dalla risata di qualcuno del pubblico.
Qualcuno si mise a zittire. Il presidente sollevò il capo e proseguì l'interrogatorio:
- È mai stata sotto processo e inchiesta?
- Mai, - disse piano la Maslova, sospirando.
- Ha ricevuto una copia dell'atto di accusa?
-
Sì.
- Si sieda, - disse il presidente.
L'imputata sollevò la gonna dietro con quel movimento con cui le donne eleganti si aggiustano lo strascico, e si sedette, infilando le piccole mani bianche nelle maniche della divisa, senza distogliere gli occhi dal presidente.
Iniziò l'appello dei testimoni, il loro allontanamento, la decisione sul perito medico-legale e il suo invito nell'aula delle udienze. Poi si alzò il cancelliere e cominciò a leggere l'atto d'accusa. Leggeva forte e chiaramente, ma così in fretta che la sua voce, che pronunciava male la «l»
e la «r», si fondeva in un unico ronzio ininterrotto e soporifero. I giudici si appoggiavano ora all'uno, ora all'altro bracciolo della poltrona, ora sul tavolo, ora sullo schienale, ora chiudevano gli occhi, ora li riaprivano e bisbigliavano fra loro. Un gendarme trattenne diverse volte lo spasimo iniziale di uno sbadiglio.
Degli
imputati,
Kartikin non smetteva di muovere le guance, la Boèkova sedeva perfettamente tranquilla e diritta, grattandosi di tanto in tanto la testa sotto il fazzoletto.
La Maslova ora sedeva immobile, ascoltando e guardando il lettore, ora trasaliva e sembrava voler fare delle obiezioni, arrossiva, e poi sospirava gravemente, cambiava posizione delle mani, guardandosi intorno, e di nuovo fissava il lettore.
Nechljudov sedeva in prima fila sulla sua alta sedia, secondo dal fondo, e toltosi il pince-nez guardava la Maslova, e nella sua anima si svolgeva un lavorio complesso e tormentoso.

X

L'atto d'accusa suonava così: «Il 17 gennaio 188* all'albergo
"Mauritania" morì di morte improvvisa il mercante della seconda corporazione Ferapont Emel'janoviè Smel'kov, di Kurgan. Il medico della polizia locale del IV distretto certificò che il decesso era sopravvenuto per aneurisma, causato dall'abuso di bevande alcoliche. Il corpo di Smel'kov fu inumato.
Trascorsi alcuni giorni il mercante Timochin, compaesano e amico di Smel'kov di ritorno da Pietroburgo, apprese le circostanze che avevano accompagnato la morte di Smel'kov, manifestò il dubbio che qualcuno avesse potuto avvelenarlo allo scopo di derubarlo del denaro che portava con sé.
Tale sospetto trovò conferma nell'istruttoria preliminare, che stabilì: 1) che Smel'kov poco prima della morte aveva incassato dalla banca 3800
rubli in argento. Mentre all'inventario degli averi del defunto da porre in custodia risultava una somma di soli 312 rubli e 16 copeche. 2) Smel'kov aveva trascorso tutto il giorno della vigilia e tutta l'ultima notte prima di morire con la prostituta Ljubka (Ekaterina Maslova) nella casa di tolleranza e nell'albergo "Mauritania", dove, per incarico di Smel'kov e in sua assenza, Ekaterina Maslova si recò dalla casa di tolleranza per prendere del denaro, che tolse dalla valigia di Smel'kov, aperta con la chiave datale dal medesimo, in presenza dei camerieri dell'albergo
"Mauritania", Evfimija Boèkova e Simon Kartinkin. Nella valigia di Smel'kov, quando la Maslova l'aprì, la Boèkova e il Kartinkin lì presenti videro dei mazzi di banconote da cento rubli. 3) Al ritorno di Smel'kov dalla casa di tolleranza all'albergo "Mauritania" insieme alla prostituta Ljubka, quest'ultima, dietro suggerimento del cameriere Kartinkin, diede da bere a Smel'kov della polverina bianca, ricevuta dal Kartinkin, in un bicchierino di cognac. 4) La mattina successiva la prostituta Ljubka (Ekaterina Maslova) vendette alla sua padrona, tenutaria della casa di tolleranza, la teste Kitaeva, l'anello di brillanti di Smel'kov, dicendo di averlo ricevuto in dono da lui stesso. 5) La cameriera dell'albergo
"Mauritania" Evfimija Boèkova il giorno successivo alla morte di Smel'kov versò sul proprio conto corrente alla locale banca commerciale 1.800 rubli in argento.
L'esame
medico-legale,
l'autopsia
e l'analisi chimica dei visceri dello
Smel'kov rivelarono un'indubbia presenza di veleno nell'organismo del defunto, che permise di concludere che il decesso era stato conseguenza dell'avvelenamento.
Chiamati a deporre in qualità di accusati, Maslova, Boèkova e Kartinkin si protestarono innocenti, dichiarando: la Maslova di essere stata effettivamente mandata da Smel'kov all'albergo "Mauritania", dalla casa di tolleranza dove, secondo la sua espressione, lavorava, per portargli del denaro, e di aver là aperto la valigia del mercante con la chiave datale da lui stesso, di avervi prelevato 40 rubli, come le era stato ordinato, ma di non aver preso altro denaro, come potevano confermare la Boèkova e il Kartinkin, in presenza dei quali aveva aperto e richiuso la valigia e preso i soldi. Affermò inoltre che, tornata una seconda volta nella camera del mercante Smel'kov, gli aveva effettivamente dato da bere nel cognac, su istigazione del Kartinkin, certe polverine che credeva sonnifere, affinché il mercante si addormentasse e la lasciasse libera al più presto. L'anello le era stato regalato da Smel'kov stesso dopo che egli l'aveva picchiata e lei si era messa a piangere e voleva andarsene via.
Evfimija Boèkova dichiarò di non saper nulla del denaro sparito, e di non essere mai entrata nella stanza del mercante, dove invece la sola Ljubka aveva agito indisturbata, e che se qualcosa era stato sottratto al mercante era stata Ljubka a sottrarlo, quando era arrivata con la chiave del mercante per prendere il denaro. - A questo punto della lettura la Maslova trasalì, aprì la bocca e si voltò a guardare la Boèkova. - E quando a Evfimija Boèkova fu presentato il suo conto in banca di 1.800 rubli in argento, - continuava a leggere il cancelliere, - e le fu domandato da dove le venisse quella somma, lei rispose che erano i risparmi che aveva accumulato in dodici anni di lavoro insieme a Simon Kartinkin, con cui si accingeva a sposarsi. Simon Kartinkin, a sua volta, nella sua prima deposizione confessò di aver rubato il denaro insieme alla Boèkova, su istigazione della Maslova, giunta con la chiave dalla casa di tolleranza, e di averlo diviso con la Maslova e la Boèkova. - A questo punto la Maslova trasalì, fece addirittura per alzarsi, divenne di porpora e cominciò a dire qualcosa, ma l'usciere la fermò. - Infine, - il cancelliere continuava la lettura, - Kartinkin ammise di aver dato alla Maslova la polverina per fare addormentare il mercante; nella sua seconda deposizione invece negò di aver preso parte al furto del denaro e di aver consegnato alla Maslova la polverina, incolpando di tutto lei sola. Quanto al denaro depositato in banca dalla Boèkova, dichiarò, d'accordo con lei, che era stato ricevuto da entrambi in dodici anni di servizio dai signori che avevano così compensato i loro servigi».
Seguivano poi nell'atto d'accusa la descrizione dei confronti fra gli imputati, le deposizioni dei testimoni, i pareri degli esperti, eccetera.
La conclusione dell'atto d'accusa era la seguente:
«In considerazione di quanto esposto sopra, il contadino del villaggio di Borki Simon Petrov Kartinkin di 33 anni, la borghese Evfimija Ivanova Boèkova di 43 anni e la borghese Ekaterina Michajlova Maslova di 27
anni sono accusati di aver rubato, il 17 gennaio 188*, essendosi precedentemente accordati fra loro, il denaro e l'anello del mercante Smel'kov per un ammontare di 2.500 rubli in argento e di avergli somministrato del veleno a scopo di omicidio, provocando con ciò la morte di Smel'kov. Questo reato è contemplato dai commi 4 e 5
dell'articolo 1453 del Codice penale. Perciò, anche in base all'articolo 201
del Codice di procedura penale, il contadino Simon Kartinkin, Evfimija Boèkova e la borghese Ekaterina Maslova sono rinviati al giudizio del tribunale distrettuale con la partecipazione di una giuria popolare.»
Così il cancelliere terminò la lettura del lungo atto d'accusa e, ripiegati i fogli, si sedette al suo posto, ravviandosi con entrambe le mani i lunghi capelli. Tutti sospirarono di sollievo, con la piacevole consapevolezza che ora l'indagine era iniziata e presto tutto si sarebbe chiarito, e giustizia sarebbe stata fatta. Solo Nechljudov non provava questa sensazione: era tutto preso dall'orrore di ciò che poteva aver commesso quella Maslova che aveva conosciuto come una fanciulla innocente e incantevole dieci anni prima.

XI

Quando terminò la lettura dell'atto d'accusa, il presidente, consultatosi con gli altri membri della corte, si rivolse a Kartinkin con un'espressione che diceva chiaramente: adesso sì che sapremo tutta la verità fin nel minimo dettaglio.
- Contadino Simon Kartinkin, - cominciò, piegandosi a sinistra.
Simon Kartinkin si alzò, mettendosi sull'attenti e protendendosi in avanti con tutto il corpo, senza cessare di muovere le guance in silenzio.
- Lei è accusato di aver sottratto, il 17 gennaio 188*, in complicità con Evfimija Boèkova e Ekaterina Maslova, il denaro appartenente al mercante Smel'kov dalla sua stessa valigia e di aver poi portato dell'arsenico e convinto Ekaterina Maslova a somministrare il veleno allo Smel'kov nel vino, causandone la morte. Si riconosce colpevole? - disse e si piegò a destra.
- È impossibile, perché il nostro mestiere è servire i clienti...
- Lo dirà poi. Si riconosce colpevole?
- Ma no, signore. Io ho solo...
- Lo dirà poi. Si riconosce colpevole? - ripeté calmo ma fermo il presidente.
- Non posso fare queste cose, perché...
Di nuovo l'usciere accorse da Simon Kartinkin e con un sussurro tragico lo fermò.
Il presidente, con l'aria che la faccenda fosse conclusa, spostò il gomito e la mano con cui teneva il foglio e si rivolse a Evfimija Boèkova.
- Evfimija Boèkova, lei è accusata di avere, il 17 gennaio 188*
all'albergo «Mauritania», in complicità con Simon Kartinkin e Ekaterina Maslova, sottratto al mercante Smel'kov dalla sua valigia il denaro e l'anello e, divisa la refurtiva fra di voi, aver somministrato del veleno al mercante Smel'kov per occultare il delitto. Si riconosce colpevole?
- Io non sono colpevole di nulla, - cominciò l'imputata, spavalda e ferma. - Io non sono neanche entrata nella stanza... È stata questa schifosa qui a entrare e a combinare tutto.
- Lo dirà poi, - disse di nuovo con la stessa pacata fermezza il presidente. - Dunque non si riconosce colpevole?
- Non sono stata io a prendere i soldi, e non sono stata io ad avvelenare, io non sono neanche entrata nella stanza. Se ci fossi entrata, l'avrei sbattuta fuori.
- Non si riconosce colpevole?
-
Niente
affatto.
-
Benissimo.
- Ekaterina Maslova, - cominciò il presidente, rivolgendosi alla terza imputata, - lei è accusata di aver rubato, giunta dalla casa di tolleranza all'albergo «Mauritania» con la chiave della valigia del mercante Smel'kov, il denaro e l'anello di questi, - diceva come una lezione imparata a memoria, tendendo intanto l'orecchio al suo collega di sinistra, che stava dicendo che secondo l'elenco dei corpi del reato mancava una boccetta. -
Di aver rubato dalla valigia il denaro e l'anello, - ripeté il presidente, - e, divisa la refurtiva e ritornata con il mercante Smel'kov all'albergo
«Mauritania», di aver dato da bere allo Smel'kov del vino avvelenato, che ne causò la morte. Si riconosce colpevole?
- Non sono colpevole di nulla, - lei cominciò a parlare svelta, - come ho detto prima, così ripeto adesso: non li ho presi, non li ho presi e non li ho presi, io non ho preso nulla, e l'anello me lo ha regalato lui...
- Non si riconosce colpevole del furto di duemilacinquecento rubli? -
disse il presidente.
- Dico che non ho preso nient'altro che i quaranta rubli.
- Bene, e di aver dato al mercante Smel'kov una polverina nel vino, si riconosce colpevole?
- Di questo sì. Solo che credevo fosse un sonnifero, come mi avevano detto, e che non avrebbe fatto niente. Non pensavo e non volevo. Lo dico dinanzi a Dio: non volevo, - disse.
- Dunque non si riconosce colpevole di aver rubato il denaro e l'anello del mercante Smel'kov, - disse il presidente. - Ma riconosce di avergli dato la polverina?
- Cioè lo riconosco, credevo fosse un sonnifero. Gliel'ho dato solo perché si addormentasse: non volevo e non pensavo.
- Benissimo, - disse il presidente, palesemente soddisfatto dei risultati ottenuti. - Dunque racconti come sono andate le cose, - disse appoggiandosi allo schienale e posando le mani sul tavolo. - Racconti tutto come è stato. Può migliorare la sua posizione con una confessione sincera.
La Maslova, continuando a guardare dritto in faccia il presidente, taceva.
- Racconti come sono andate le cose.
- Come sono andate? - cominciò a un tratto la Maslova, rapidamente.
- Arrivai all'albergo, mi accompagnarono nella stanza, lui era là, e già parecchio ubriaco. - Pronunciò la parola «lui» con una particolare espressione di terrore, spalancando gli occhi. - Io volevo andarmene, ma lui non mi lasciava.
Tacque, come se a un tratto avesse perso il filo o si fosse ricordata di qualcos'altro.
- Bene, e poi?
- E poi cosa? Poi rimasi un po' e me ne tornai a casa.
A quel punto il sostituto procuratore si alzò a metà, appoggiandosi su un gomito in maniera innaturale.
- Desidera fare una domanda? - chiese il presidente e alla risposta affermativa del sostituto procuratore fece cenno che gli passava il suo diritto di interrogare.
- Desidererei proporre una domanda: l'imputata conosceva già da prima Simon Kartinkin? - disse il sostituto procuratore senza guardare la Maslova.
E, fatta la domanda, serrò le labbra e corrugò la fronte.
Il presidente ripeté la domanda. La Maslova fissò spaventata il sostituto procuratore.
- Simon? Sì, - disse.
- Ora desidererei sapere in cosa consisteva questa conoscenza dell'imputata con Kartinkin. Si vedevano spesso?
- In cosa consisteva la conoscenza? Mi invitava dai clienti, non era una conoscenza, - rispose la Maslova, spostando inquieta lo sguardo dal sostituto procuratore al presidente e viceversa.
- Desidererei sapere perché Kartinkin invitava dai clienti solamente la Maslova, e non le altre ragazze, - disse il sostituto procuratore socchiudendo gli occhi, ma con un lieve, scaltro sorriso mefistofelico.
- Non lo so. Che ne so io, - rispose la Maslova, guardandosi intorno spaventata e fermando per un attimo lo sguardo su Nechljudov: - invitava chi gli pareva.
«Possibile che mi abbia riconosciuto?» - pensò con orrore Nechljudov, sentendo che il sangue gli affluiva al viso, ma la Maslova, senza distinguerlo dagli altri, si voltò subito e fissò di nuovo il sostituto procuratore con aria spaventata.
- L'imputata nega dunque di aver avuto dei rapporti intimi con Kartinkin? Benissimo. Non ho altro da chiedere.
E il sostituto procuratore tolse subito il gomito dalla cattedra e si mise ad annotare qualcosa. In realtà non annotava nulla, ripassava soltanto con la penna le lettere del suo promemoria, ma aveva visto che i procuratori e gli avvocati facevano così: dopo un'abile domanda inserivano nella loro arringa una nota destinata a distruggere l'avversario.
Il presidente non si rivolse subito all'imputata, perché stava chiedendo al giudice con gli occhiali se era d'accordo sulla formulazione dei quesiti già preparati e scritti in anticipo.
- E poi cosa accadde? - riprese a domandare il presidente.
- Arrivai a casa, - continuò la Maslova, guardando ora con più coraggio il solo presidente, - consegnai i soldi alla padrona e andai a dormire. Mi ero appena addormentata che mi sveglia Berta, una delle ragazze. «Alzati, il tuo mercante è tornato.» Io non volevo uscire, ma madame me lo ordinò. Allora lui, - di nuovo pronunciò quella parola, lui, con evidente terrore, - lui continuava a offrir da bere alle nostre ragazze, poi voleva ancora mandare a prendere del vino, ma i soldi erano finiti. La padrona non volle fargli credito. Allora mi mandò nella sua stanza. E disse dov'erano i soldi e quanti ne dovevo prendere. E io andai.
Il presidente intanto confabulava con il collega di sinistra e non ascoltava quello che diceva la Maslova, ma per dimostrare che aveva udito tutto, ripeté le sue ultime parole.
- Lei andò. E poi? - disse.
- Arrivai e feci tutto come mi aveva ordinato; andai nella stanza. Non ci andai da sola, ma chiamai Simon Kartinkin e lei, - disse indicando la Boèkova.
- Mente, io non sono neanche entrata... - stava per cominciare la Boèkova, ma la fermarono.
- In loro presenza presi quattro biglietti rossi, - proseguì la Maslova accigliandosi e senza guardare la Boèkova.
- Ebbene, e l'imputata non notò, mentre prendeva i quaranta rubli, quanto denaro c'era? - domandò di nuovo il procuratore.
La Maslova trasalì, non appena il procuratore si rivolse a lei. Non sapeva come e perché, ma sentiva che egli le voleva male.
- Non li contai; vidi solo che erano banconote da cento rubli.
- L'imputata vide le banconote da cento rubli: ho finito.
- Bene, e allora gli portò il denaro? - riprese a interrogare il presidente, guardando l'orologio.
-
Sì.
- Bene, e poi? - domandò il presidente.
-
E
poi
lui mi riprese con sé, - disse la Maslova.
- Bene, e in che modo gli diede da bere la polverina nel vino? -
domandò il presidente.
- In che modo? La versai nel vino e gliela diedi.
- E perché gliela diede?
Lei, senza rispondere, fece un sospiro grave e profondo.
- Non mi lasciava più andare, - disse dopo un breve silenzio. - Non ce la facevo più. Esco in corridoio e dico a Simon Michajloviè: «Almeno mi lasciasse andare. Sono stanca». E Simon Michajloviè mi dice: «Ha stufato anche noi. Vogliamo dargli del sonnifero; così lui si addormenta e tu te ne vai». Io dico: «Bene». Credevo che fosse una polverina innocua. Così mi diede il pacchettino. Entrai, e lui stava disteso dietro il tramezzo e subito mi ordinò di dargli del cognac. Io presi dal tavolo una bottiglia di Fin Champagne, ne versai due bicchieri, per lui e per me, e nel suo bicchiere sciolsi la polverina e gliela diedi. Certo non gliel'avrei data, se avessi saputo.
- Bene, e come si procurò l'anello? - chiese il presidente.
- L'anello me lo regalò lui.
- E quando glielo regalò?
- Quando arrivammo insieme in camera io volevo andarmene, e lui mi colpì sulla testa e mi ruppe il pettine. Io mi arrabbiai, volevo andar via.
Lui si tolse l'anello dal dito e me lo regalò, perché restassi, - disse.
A questo punto il sostituto procuratore fece di nuovo per alzarsi e con la stessa aria di finta innocenza chiese il permesso di fare ancora alcune domande e, quando gli fu accordato, reclinò il capo sul colletto ricamato e chiese:
- Desidererei sapere quanto tempo l'imputata trascorse nella camera del mercante Smel'kov.
Di nuovo la Maslova s'impaurì, e facendo correre inquieta lo sguardo dal sostituto procuratore al presidente, disse in fretta:
- Non ricordo quanto.
- Bene, e non ricorda l'imputata se, uscita dalla stanza del mercante Smel'kov, andò da qualche altra parte in albergo?
La Maslova rifletté.
- Entrai nella stanza accanto, che era vuota, - disse.
- E perché vi entrò? - chiese il sostituto procuratore, infervorandosi e rivolgendosi direttamente a lei.
- Andai a rimettermi in ordine e ad aspettare la carrozza.
- E Kartinkin era nella camera con l'imputata o no?
- Venne anche Kartinkin.
- E perché ci venne?
- Era rimasto del Fin Champagne del mercante, lo bevemmo insieme.
- Ah, beveste insieme. Benissimo.
- E l'imputata parlò con Simon, e di che?
La Maslova si accigliò di nuovo, si fece di porpora e rispose rapidamente:
- Che cosa gli dissi? Non dissi niente. Quello che è stato l'ho raccontato tutto, non so nient'altro. Fate di me quello che volete. Non sono io la colpevole, ecco tutto.
- Ho finito, - disse il procuratore al presidente e, sollevando le spalle in modo innaturale, si mise ad annotare rapidamente sugli appunti per la sua requisitoria che l'imputata confessava di essere entrata con Simon in una camera vuota.
Scese
il
silenzio.
- Non ha niente da aggiungere?
- Ho detto tutto, - rispose lei, sospirando, e si sedette.
Dopodiché il presidente annotò qualcosa su un foglio e, ascoltato ciò che gli comunicava sottovoce il collega alla sua sinistra, annunciò sospesa per dieci minuti l'udienza, si alzò in fretta e uscì dall'aula. La consultazione fra il presidente e il giudice alla sua sinistra, quello alto e barbuto con i grandi occhi buoni, verteva su un lieve disturbo di stomaco avvertito da quest'ultimo, per cui desiderava farsi un massaggio e prendere delle gocce.
Questo egli aveva comunicato al presidente, e su sua richiesta l'udienza era stata sospesa.
Dopo i giudici si alzarono anche i giurati, gli avvocati, i testimoni, e con la piacevole consapevolezza di aver già svolto parte di un compito importante, cominciarono a muoversi in varie direzioni.
Nechljudov entrò nella stanza dei giurati e si sedette alla finestra.

XII

Sì,
era
Katjuša.
Ecco quali erano stati i rapporti di Nechljudov con Katjuša.
La prima volta, Nechljudov aveva visto Katjuša quando, al terzo anno d'università, aveva passato l'estate dalle zie, preparando una tesi sulla proprietà terriera. Di solito con la madre e la sorella trascorreva l'estate nella grande tenuta materna nei dintorni di Mosca. Ma quell'anno sua sorella si era sposata, e la madre era andata all'estero per le cure termali.
Nechljudov poi doveva scrivere la tesi, e decise di passare l'estate dalle zie.
Nella loro casa fuori dal mondo si stava tranquilli, non c'erano distrazioni, e inoltre le zie amavano il loro nipote ed erede, e lui amava loro, amava la loro vita semplice e all'antica.
Nechljudov in quell'estate dalle zie viveva quello stato d'esaltazione di quando un giovane riconosce per la prima volta, non per insegnamenti altrui, ma da solo, tutta la bellezza e l'importanza della vita e tutto il significato della missione in essa assegnata all'uomo, vede la possibilità di un perfezionamento infinito di sé e del mondo intero e vi si dedica non solo con la speranza, ma con l'assoluta certezza di raggiungere tutta la perfezione che si immagina. Quell'anno già all'università aveva letto la Statica sociale di Spencer, e le considerazioni di Spencer sulla proprietà terriera avevano prodotto su di lui una forte impressione, soprattutto perché lui stesso era figlio di una grande possidente. Suo padre non era ricco, ma la madre aveva ricevuto in dote circa diecimila desjatiny di terra.
Egli capì allora per la prima volta tutta la crudeltà e l'ingiustizia della proprietà privata della terra, ed essendo una di quelle persone per cui il sacrificio in nome di esigenze morali costituisce il supremo godimento spirituale, decise di non valersi del diritto di proprietà sulla terra e subito cedette ai contadini la terra ereditata dal padre. E proprio su questo tema stava scrivendo la sua tesi.
Quell'anno la sua vita in campagna dalle zie si svolgeva così: si alzava molto presto, talvolta alle tre, e prima dell'alba andava a fare il bagno nel fiume sotto la collina, talvolta ancora immerso nella nebbia del mattino, e tornava quando sull'erba e sui fiori c'era ancora la rugiada.
Talvolta la mattina, bevuto il caffè, si metteva a scrivere la sua tesi o a leggere le fonti, ma molto spesso invece di leggere o scrivere usciva di nuovo e vagava per i campi e i boschi. Prima di pranzo si addormentava in qualche angolo del giardino, poi a tavola rallegrava e divertiva le zie con il suo buonumore, poi cavalcava o andava in barca e la sera di nuovo leggeva o teneva compagnia alle zie, facendo un solitario. Spesso nelle notti, soprattutto di luna, non riusciva ad addormentarsi perché provava una traboccante, irrequieta gioia di vivere, e invece di dormire passeggiava in giardino, talvolta fino all'alba, con i suoi sogni e i suoi pensieri.
Così felicemente e serenamente trascorse il primo mese della sua vita dalle zie, senza badare a Katjuša, via di mezzo fra la cameriera e la pupilla, con i suoi occhi neri e le gambette svelte.
A quel tempo il diciannovenne Nechljudov, educato sotto l'aluccia della madre, era un giovane completamente innocente. Sognava la donna solo come moglie. E tutte le donne che non potevano, secondo il suo modo di vedere, essere sua moglie, per lui non erano donne, ma persone. Ma accadde che quell'estate, all'Ascensione, dalle zie giunse una loro vicina con i figli, due signorine e un ginnasiale, e con un giovane pittore di origine contadina, loro ospite.
Dopo il tè si misero a giocare a gorelki nel prato già falciato dinanzi alla casa. Presero anche Katjuša. Dopo alcuni scambi, a Nechljudov toccò correre in coppia con Katjuša. A Nechljudov aveva sempre fatto piacere vedere Katjuša, ma non gli era mai neppure passato per il capo che fra lui e lei potesse esserci qualcosa di più.
- Sì, adesso quelli chi li prende? - disse l'allegro pittore che stava
«sotto», correndo velocissimo sulle sue corte e storte, ma forti gambe da contadino, - a meno che non inciampino.
- Tanto non ci prenderà!
- Uno, due, tre!
Batterono le mani tre volte. Trattenendo a stento il riso, Katjuša scambiò svelta il posto con Nechljudov, strinse con la forte e ruvida manina la grande mano di lui e si lanciò a correre verso sinistra, facendo scricchiolare la gonna inamidata.
Nechljudov correva veloce, non voleva farsi prendere dal pittore, e si lanciò a perdifiato. Quando si voltò, vide che il pittore inseguiva Katjuša, ma lei, muovendo agilmente le giovani gambe elastiche, non si lasciava prendere e si allontanava a sinistra. Davanti c'era un'aiuola di cespugli di lillà, dietro la quale non correva mai nessuno, ma Katjuša, voltandosi a cercare Nechljudov, gli fece cenno col capo di raggiungerla oltre l'aiuola.
Egli capì e corse dietro i cespugli. Ma lì, dietro i cespugli, c'era un fossatello di cui ignorava l'esistenza, pieno di ortiche; v'inciampò e cadde, pungendosi le mani con le ortiche e bagnandole con la prima rugiada della sera, ma subito si rialzò, ridendo di se stesso, e corse in uno spazio libero.
Katjuša, raggiante col suo sorriso e gli occhi neri come le more bagnate, gli volava incontro. Si avvicinarono e si presero per mano.
- Si è punto, eh?, - disse lei, ravviandosi con la mano libera la treccia scomposta, respirando affannosamente e sorridendo, e intanto lo guardava di sotto in su.
- Non sapevo neanche che ci fosse un fossato, - disse sorridendo anche lui e senza lasciarle la mano.
Lei gli si avvicinò, e lui, senza neppure sapere come fosse successo, tese il viso verso di lei; Katjuša non si scostò, egli le strinse più forte la mano e le baciò le labbra.
- Oh bella! - esclamò lei e, sfilando la mano con un brusco movimento, scappò via.
Corse al cespuglio di lillà, ne strappò due rami di fiori bianchi che già si sfogliavano, e frustandosi con essi il viso acceso e voltandosi a guardarlo, agitando animatamente le braccia tornò verso il gruppo dei giocatori.
Da quel momento i rapporti fra Nechljudov e Katjuša mutarono, e fra loro si stabilirono quei particolari rapporti che possono esistere fra un giovane innocente e un'altrettanto innocente ragazza, attratti l'uno verso l'altra.
Bastava che Katjuša entrasse nella stanza o che Nechljudov vedesse anche solo in lontananza il suo grembiule bianco, e tutto gli appariva come illuminato dal sole, tutto diventava più interessante, più allegro, più importante; la vita diventava più gioiosa. E la stessa cosa provava lei. Ma non soltanto la presenza e la vicinanza di Katjuša producevano questo effetto su Nechljudov; era sufficiente sapere che Katjuša esisteva, e per lei che esisteva Nechljudov. Se Nechljudov riceveva lettere spiacevoli dalla madre, o la sua tesi non andava avanti, o provava la malinconia senza motivo dei giovani, gli bastava ricordare che esisteva Katjuša e che l'avrebbe rivista, e tutto questo svaniva.
Katjuša aveva molto da fare per casa, ma riusciva a sbrigare tutto per tempo e nei momenti liberi leggeva. Nechljudov le diede Dostoevskij e Turgenev, che aveva appena letto. Più di tutto le piaceva «Un angolo quieto» di Turgenev. Le conversazioni fra loro avvenivano frammentariamente, negli incontri in corridoio, sul balcone, in cortile, e talvolta nella stanza della vecchia domestica delle zie, Matrëna Pavlovna, con cui viveva Katjuša e nella cameretta nella quale talvolta Nechljudov andava a prendere il tè mordicchiando una zolletta di zucchero. E queste conversazioni in presenza di Matrëna Pavlovna erano le più piacevoli.
Chiacchierare quando erano soli era peggio. Subito gli occhi cominciavano a dire qualcosa di completamente diverso, molto più importante di quello che diceva la bocca, le labbra tremavano e li prendeva una specie di terrore, per cui si separavano in fretta.
Questi rapporti continuarono fra Nechljudov e Katjuša per tutto il tempo della sua permanenza dalle zie. Le zie se ne accorsero, si spaventarono e ne scrissero perfino all'estero alla principessa Elena Ivanovna, la madre di Nechljudov. La zia Mar'ja Ivanovna temeva che Dmitrij allacciasse una relazione con Katjuša. Ma era un timore infondato: Nechljudov, senza saperlo, amava Katjuša come amano le persone innocenti, e il suo amore era la migliore protezione dalla caduta sia per lui che per lei. Egli non solo non aveva il desiderio di possederla fisicamente, ma era addirittura inorridito all'idea di una tale possibilità. I timori della poetica Sof'ja Ivanovna invece, che Dmitrij, col suo carattere integro e risoluto, innamoratosi della ragazza si mettesse in mente di sposarla senza curarsi della sua origine e condizione, erano di gran lunga più fondati.
Se Nechljudov allora si fosse reso chiaramente conto del suo amore per Katjuša, e soprattutto se avessero cercato di convincerlo che non poteva e non doveva in alcun modo unire il suo destino a una ragazza del genere, allora sarebbe facilmente potuto accadere che, con la dirittura che gli era propria, egli decidesse che non c'era alcun motivo per non sposare la ragazza, chiunque essa fosse, visto che l'amava. Ma le zie non gli parlarono dei loro timori, e così lui partì senza rendersi conto del suo amore per la ragazza.
Era convinto che il suo sentimento per Katjuša fosse solo una delle manifestazioni della gioia di vivere che colmava allora tutto il suo essere, condiviso da quella cara, allegra fanciulla. Ma quando partì e Katjuša, ferma sul terrazzino d'ingresso con le zie, lo seguì con i suoi occhi neri pieni di lacrime e un po' strabici, egli sentì tuttavia che stava abbandonando qualcosa di meraviglioso, prezioso, che non si sarebbe mai più ripetuto. E divenne molto triste.
- Addio, Katjuša, grazie di tutto, - disse al di sopra della cuffietta di Sof'ja Ivanovna, salendo in carrozza.
- Addio, Dmitrij Ivanoviè, - disse lei con la sua voce dolce e affettuosa e, trattenendo le lacrime che le riempivano gli occhi, corse nell'andito, dove poteva piangere liberamente.

XIII

Passarono tre anni senza che Nechljudov vedesse Katjuša. E la rivide soltanto quando, appena promosso ufficiale, mentre andava a raggiungere l'esercito si fermò dalle zie: ma era ormai un uomo completamente diverso da quello che aveva trascorso l'estate da loro tre anni prima.
Allora era un giovane onesto, altruista, pronto a dedicarsi a ogni buona causa, adesso era un corrotto, raffinato egoista, amante solo del suo piacere. Allora il mondo di Dio gli appariva un mistero che con gioia ed entusiasmo cercava di decifrare, adesso tutto in questa vita era semplice e chiaro e determinato dalle condizioni materiali in cui si trovava. Allora necessaria e importante era la comunione con la natura e gli uomini che avevano vissuto, pensato e sentito prima di lui (la filosofia, la poesia), adesso necessari e importanti erano le istituzioni umane e i rapporti con i compagni. Allora la donna appariva un essere misterioso e affascinante, affascinante proprio per il suo mistero, adesso il significato della donna, di qualunque donna tranne quelle della sua famiglia e le mogli degli amici, era molto preciso: la donna era uno dei migliori strumenti di un piacere già sperimentato. Allora non aveva bisogno di denaro, e poteva accontentarsi di meno di un terzo di quello che gli dava la madre, poteva rinunciare alla proprietà del padre e cederla ai contadini, adesso invece non gli bastavano i millecinquecento rubli al mese che gli passava la madre, e con lei c'erano già spiacevoli discussioni a causa del denaro. Allora egli considerava suo autentico io il suo essere spirituale, adesso considerava se stesso il suo sano, forte io animale.
E tutto questo terribile mutamento si era compiuto in lui solo perché aveva cessato di credere a se stesso e aveva cominciato a credere agli altri.
E aveva cessato di credere a se stesso e aveva cominciato a credere agli altri perché vivere credendo a se stesso era troppo difficile: credendo a se stesso, doveva risolvere ogni questione non in favore del proprio io animale, che cercava gioie facili, ma quasi sempre contro di esso; credendo invece agli altri, non c'era nulla da risolvere, tutto era già risolto e risolto sempre contro l'io spirituale e a favore di quello animale. Non solo: credendo a se stesso si esponeva sempre alle critiche della gente, credendo agli altri riceveva l'approvazione di coloro che lo circondavano.
Così, quando Nechljudov pensava, leggeva, parlava di Dio, della verità, della ricchezza, della povertà, tutti coloro che lo circondavano lo giudicavano fuori luogo e in parte ridicolo, e la madre e la zia con benevola ironia lo chiamavanonotre cher philosophe, mentre quando leggeva romanzi, raccontava aneddoti piccanti, andava a vedere vaudevilles comici al teatro francese e poi li riportava allegramente, tutti lo lodavano e incoraggiavano. Quando credeva necessario limitare le sue esigenze e portava un vecchio cappotto e non beveva vino, tutti la consideravano una stranezza, una posa eccentrica, mentre quando spendeva grosse somme per la caccia o per l'arredamento di uno studio straordinariamente sfarzoso tutti lodavano il suo buon gusto e gli facevano regali costosi. Quando era vergine e voleva restarlo fino al matrimonio, i parenti temevano per la sua salute, e persino la madre non si rattristò, anzi si compiacque, quando seppe che era diventato un vero uomo e aveva soffiato una certa dama francese a un compagno. Mentre all'episodio di Katjuša, che gli potesse venire in mente di sposarla, la principessa madre non poteva pensare senza orrore.
Ugualmente quando Nechljudov, raggiunta la maggiore età, cedette ai contadini la piccola proprietà che aveva ereditato dal padre, perché riteneva ingiusto il possesso della terra, questo suo gesto fece inorridire la madre e i familiari, e fu per lui costante motivo di biasimo e derisione da parte di tutti i suoi parenti. Non si stancavano di ripetergli che i contadini che avevano ricevuto la terra non solo non si erano arricchiti, ma anzi si erano impoveriti, poiché avevano aperto tre bettole nel villaggio e smesso completamente di lavorare. Quando invece Nechljudov, entrato nella guardia, con i suoi compagni altolocati spese e perse al gioco tanto denaro che Elena Ivanovna dovette prelevarne dal capitale, essa quasi non se ne rammaricò, stimando fosse naturale e perfino un bene vaccinarsi così in gioventù e in buona compagnia.
Sulle prime Nechljudov lottò, ma lottare era troppo difficile, perché tutto quello che riteneva buono credendo a se stesso era ritenuto cattivo dagli altri, e al contrario tutto quello che riteneva cattivo credendo a se stesso era ritenuto buono da quanti lo circondavano. E Nechljudov finì per arrendersi, cessò di credere a sé e credette agli altri. E in un primo tempo questo rinnegare se stesso gli dispiacque, ma la sensazione spiacevole durò pochissimo, e ben presto Nechljudov, che nel frattempo aveva cominciato a fumare e bere, smise di provarla e anzi avvertì un gran senso di sollievo.
E Nechljudov, con la passionalità della sua natura, si diede tutto a questa nuova vita, approvata da quanti lo circondavano, e soffocò completamente in sé la voce che esigeva qualcosa di diverso. E ciò che era cominciato dopo il trasferimento a Pietroburgo si compì col suo ingresso nell'esercito.
Il
servizio
militare in genere corrompe gli uomini, mettendo coloro che vi accedono in condizioni di ozio assoluto, cioè di assenza di un lavoro ragionevole e utile, ed esonerandoli dai comuni obblighi umani, in cambio dei quali propone soltanto l'onore convenzionale del reggimento, dell'uniforme, della bandiera e, da un lato, un potere illimitato sul prossimo, e dall'altro una sottomissione servile ai superiori di grado.
Ma quando a questa corruzione del servizio militare in genere, col suo onore dell'uniforme e della bandiera, con la sua autorizzazione alla violenza e all'omicidio, si unisce anche la corruzione della ricchezza e della vicinanza alla famiglia imperiale, come accade nell'ambiente dei reggimenti scelti della guardia, in cui prestano servizio soltanto ufficiali ricchi e nobili, allora la corruzione raggiunge, nelle persone che vi soggiacciono, uno stato di completa follia egoistica. E in tale follia egoistica si trovava Nechljudov da quando era entrato nell'esercito e aveva cominciato a vivere come vivevano i suoi compagni.
Non c'era nulla da fare se non andare alle esercitazioni o alla rivista con gente uguale a lui, in un'uniforme magnificamente cucita e spazzolata non da lui stesso, ma da altri, con un elmo e un'arma che pure era stata fatta, e lucidata, e presentata da altri, su un magnifico cavallo, pure addestrato, e scozzonato, e nutrito da altri, e galoppare, e tirar di sciabola, sparare e insegnare le stesse cose ad altri. Questa era l'unica occupazione, e le persone più altolocate, giovani, vecchi, lo zar e la sua cerchia non solo l'approvavano, ma la compensavano con lodi e ringraziamenti. Poi, dopo queste occupazioni, si riteneva buono e importante, sperperando denaro ricevuto da fonti invisibili, riunirsi per mangiare, e soprattutto bere, nei circoli degli ufficiali o nei ristoranti più costosi, e poi teatri, balli, donne, e poi di nuovo cavalcare, tirar di sciabola, galoppare e di nuovo sperperare denaro, e vino, carte, donne.
Questa vita ha un effetto particolarmente corruttore sui militari, perché se un civile conduce una vita del genere, nel profondo dell'anima non può non vergognarsene. I militari invece ritengono che così debba essere, si vantano, sono fieri di tale vita, soprattutto in tempo di guerra, come accadde a Nechljudov, che entrò nell'esercito dopo la dichiarazione di guerra alla Turchia. «Siamo pronti a sacrificare la vita in guerra, e perciò questa esistenza spensierata e allegra non solo è perdonabile, ma anche necessaria per noi. Dunque noi la conduciamo».
Così pensava confusamente Nechljudov in quel periodo della sua vita; sentiva poi in tutto quel tempo l'entusiasmo della liberazione da tutte le barriere morali che si era posto prima, e si trovava continuamente in uno stato cronico di follia egoistica.
In tale stato si trovava quando, dopo tre anni, si fermò dalle zie.

XIV

Nechljudov si fermò dalle zie perché la loro tenuta era sulla strada che doveva percorrere per raggiungere il reggimento e perché esse lo avevano pregato insistentemente, ma soprattutto si fermò per rivedere Katjuša. Forse in fondo all'anima aveva già cattive intenzioni contro Katjuša, che gli suggeriva il suo io animale ormai sfrenato, ma non era cosciente di queste intenzioni, e desiderava semplicemente tornare in quei luoghi dov'era stato così bene e rivedere le zie, un poco ridicole ma care e buone, che lo circondavano sempre, senza che lui se ne accorgesse, di un'atmosfera d'affetto e di ammirazione, e rivedere la cara Katjuša, di cui gli era rimasto un così piacevole ricordo.
Giunse alla fine di marzo, il venerdì santo, con le strade impraticabili e sotto una pioggia torrenziale, cosicché giunse completamente fradicio e intirizzito, ma vigoroso ed eccitato, come si sentiva sempre in quel periodo. «Starà ancora da loro?» pensava entrando nel noto, antico cortile della tenuta delle zie, recinto da un muretto di mattoni e ingombro di neve caduta dal tetto. Si aspettava di vederla accorrere sul terrazzino al suono della sua campanella, ma dalla stanza delle serve uscirono due donne scalze e succinte con dei secchi, che stavano evidentemente lavando i pavimenti. Lei non c'era neppure sul terrazzino principale; uscì solo il servitore Tichon, in grembiule, anche lui probabilmente impegnato nelle pulizie. In anticamera comparve Sof'ja Ivanovna in abito di seta e cuffietta.
- Che carino sei stato a venire! - esclamò Sof'ja Ivanovna baciandolo.
- Mašen'ka non sta molto bene, si è stancata in chiesa. Ci siamo comunicate.
- Auguri, zia Sof'ja, - disse Nechljudov, baciando le mani di Sof'ja Ivanovna, - mi scusi, l'ho bagnata.
- Vai in camera tua. Sei tutto inzuppato. E hai anche i baffi...
Katjuša! Katjuša! Presto, preparagli il caffè.
- Subito! - rispose la voce nota dal corridoio.
E il cuore di Nechljudov ebbe un sussulto di gioia. «È qui!» E fu come se il sole fosse spuntato da dietro le nubi. Nechljudov andò allegramente con Tichon nella sua stanza di una volta per cambiarsi d'abito.
Nechljudov avrebbe voluto chiedere di Katjuša a Tichon: cosa faceva? come stava? non doveva sposarsi? Ma Tichon era così ossequioso e nello stesso tempo austero, insisté così fermamente per versargli lui stesso l'acqua della brocca sulle mani, che Nechljudov non si decideva a fargli domande su Katjuša e chiese soltanto dei suoi nipoti, del vecchio stallone, del cane da guardia Polkan. Tutti stavano bene, tranne Polkan, che era diventato rabbioso l'anno prima.
Toltosi gli indumenti bagnati, Nechljudov aveva appena cominciato a rivestirsi, quando sentì dei passi rapidi e qualcuno bussò alla porta.
Nechljudov riconobbe sia i passi sia i colpi alla porta. Così camminava e bussava solo lei.
Si gettò sulle spalle il cappotto bagnato e andò alla porta.
-
Avanti!
Era lei Katjuša. Sempre la stessa, ancora più carina di prima. Sempre di sotto in su guardavano i suoi ingenui occhi neri, sorridenti e un po'
strabici. Indossava, come prima, un grembiule bianco pulito. Aveva portato da parte delle zie una saponetta profumata appena tolta dalla carta, e due asciugamani; uno grande, russo, e uno di spugna. Il sapone intatto con le lettere impresse, e l'asciugamano, e lei stessa: tutto era ugualmente pulito, fresco, intatto, piacevole. Ancora come un tempo le sue dolci labbra ferme e rosse s'increspavano di gioia incontenibile, al vederlo.
- Bentornato, Dmitrij Ivanoviè! - proferì a fatica, e il suo viso si coprì di rossore.
-
Ciao...
Buongiorno,
- non sapeva se darle del «tu» o del «lei», e
arrossì a sua volta. - Come va la vita? Bene?
- Grazie a Dio... Ecco, la zia le manda il suo sapone preferito, alla rosa, - disse posando il sapone sul tavolo e gli asciugamani sul bracciolo della poltrona.
- Il signore ha il suo, - Tichon si levò in difesa dell'indipendenza dell'ospite, indicando con orgoglio il grande nécessaire aperto di Nechljudov, con i coperchi d'argento e un'enorme quantità di boccette, spazzole, brillantine, profumi e ogni sorta di oggetti da toilette.
- Ringrazi la zia. Come sono felice di essere qui, - disse Nechljudov, sentendo nell'anima la stessa gioia e la stessa tenerezza di un tempo.
Lei sorrise soltanto in risposta alle sue parole e uscì.
Le zie, che avevano sempre voluto bene a Nechljudov, questa volta gli riservarono un'accoglienza ancor più gioiosa del solito. Dmitrij andava alla guerra, dove avrebbe potuto restare ferito. Le zie ne erano commosse.
Nechljudov
aveva
organizzato il suo viaggio in modo da trattenersi dalle zie soltanto una giornata, ma quando ebbe visto Katjuša accettò di festeggiare con loro la Pasqua, che sarebbe stata di lì a due giorni, e telegrafò al suo amico e compagno Šenbok, con cui doveva incontrarsi a Odessa, perché anche lui facesse un salto dalle zie.
Fin dal primo giorno, appena rivide Katjuša, Nechljudov provò per lei lo stesso sentimento di un tempo. Proprio come allora, non poteva vedere senza emozione il grembiule bianco di Katjuša, non poteva udire senza gioia il suo passo, la sua voce, la sua risata, non poteva guardare senza tenerezza i suoi occhi neri come le more bagnate, specialmente quando sorrideva, e soprattutto non poteva vedere senza turbamento come lei arrossiva incontrandolo. Sentiva di essere innamorato, ma non come prima, quando questo amore era per lui un mistero e non si decideva a confessare a se stesso che amava, e quando era convinto che amare si potesse una volta sola: adesso era innamorato, se ne rendeva conto e se ne rallegrava, e sapeva confusamente, pur celandolo a se stesso, in cosa consistesse l'amore e cosa potesse derivarne.
In Nechljudov, come in tutti, c'erano due uomini. L'uomo spirituale, che cerca per sé solo quel bene che possa essere un bene anche per il prossimo, e l'altro, l'uomo animale, che cerca il bene solo per sé e per questo bene è pronto a sacrificare il bene del mondo intero. In quel periodo della sua follia egoistica, determinata in lui dalla vita pietroburghese e militare, quest'uomo animale dominava in lui e aveva completamente schiacciato l'uomo spirituale. Ma rivedendo Katjuša e sentendo di nuovo ciò che aveva provato un tempo per lei, l'uomo spirituale sollevò la testa e cominciò a rivendicare i propri diritti. E in quei due giorni prima della Pasqua in Nechljudov si svolse un'incessante, inconfessata lotta interiore.
Nel profondo dell'anima egli sapeva che doveva partire e che non c'era motivo di restare dalle zie, sapeva che non sarebbe potuto venirne nulla di buono, ma si sentiva così bene, così lieto, che non l'ammetteva, e restava.
Il sabato sera, alla vigilia della Pasqua, il sacerdote col diacono e il chierico, percorse a fatica in slitta fra pozzanghere e fango, a quanto raccontavano, le tre verste che separavano la chiesa dalla casa delle zie, vennero a celebrare il mattutino.
Nechljudov assisté in piedi al mattutino con le zie e la servitù, lanciando continuamente occhiate a Katjuša che stava sulla porta e portava l'incensiere, scambiò il triplice bacio augurale con il sacerdote e le zie e già voleva andare a dormire, quando sentì in corridoio i preparativi di Matrëna Pavlovna, la vecchia cameriera di Mar'ja Ivanovna, che insieme a Katjuša stava per recarsi in chiesa a far benedire i dolci e le focacce pasquali.
«Vado anch'io», - pensò.
Per andare alla chiesa non c'era strada praticabile né su ruote né in slitta, perciò Nechljudov, che dalle zie si comportava come a casa propria, ordinò che gli sellassero lo stallone e, invece di andare a dormire, indossò l'uniforme scintillante con i calzoni attillati, sopra infilò il cappotto e partì alla volta della chiesa sul vecchio stallone grasso e appesantito che non cessava di nitrire, nell'oscurità, fra le pozzanghere e la neve.

XV

Per tutta la vita poi quel mattutino restò per Nechljudov uno dei ricordi più luminosi e intensi.
Quando nell'oscurità nera, rischiarata solo qua e là dalla neve biancheggiante, entrò nel cortile, sguazzando nell'acqua sul cavallo che drizzava le orecchie alla vista dei lampioncini accesi intorno alla chiesa, la messa era già iniziata.
I contadini, riconosciuto il nipote di Mar'ja Ivanovna, lo condussero in un luogo asciutto dove potesse smontare e lo accompagnarono in chiesa, offrendosi di legargli il cavallo. La chiesa era piena di folla festosa.
A destra gli uomini: vecchi con caffettani e laptifatti in casa e pezze da piedi candide e giovani in caffettani nuovi di panno cinti da fusciacche sgargianti e stivali. A sinistra le donne, con gli scialletti di seta rossa, i corpetti di felpa con le maniche scarlatte e le gonne variopinte, azzurre, verdi e rosse, e gli stivaletti ferrati. Dietro di loro stavano le modeste vecchine con gli scialletti bianchi e i caffettani grigi, con le sottane di lana all'antica e le scarpe o i lapti nuovi; fra le une e le altre c'erano i bambini tutti agghindati con le teste unte d'olio. Gli uomini si segnavano e inchinavano, scuotendo i capelli; le donne, soprattutto le vecchie, fissando gli occhi sbiaditi su un'icona con le candele premevano forte le dita giunte sul fazzoletto in fronte, sulle spalle e sul ventre, e sussurrando qualcosa si piegavano stando in piedi o si prostravano in ginocchio. I bambini, imitando i grandi, pregavano con impegno, quando li si guardava.
L'iconostasi d'oro ardeva di candele che circondavano da tutti i lati i grandi ceri filettati d'oro. Il lampadario era pieno di candele, dai cori si udivano le gaie melodie dei cantori volontari, con i ruggiti dei bassi e le sottili voci bianche dei ragazzi.
Nechljudov si portò avanti. Nel mezzo stava l'aristocrazia: un proprietario terriero con la moglie e il figlio vestito alla marinara, il commissario di polizia, il telegrafista, un mercante in stivaloni alti, il sindaco con la medaglia, e a destra dell'ambone, dietro la possidente, Matrëna Pavlovna con un vestito lilla cangiante e uno scialle bianco con la frangia e Katjuša in un abito bianco dal corpino pieghettato, con una cintura azzurra e un fiocchetto rosso sui capelli neri.
Tutto era festoso, solenne, allegro e bellissimo: i sacerdoti nei luminosi paramenti argentei con le croci d'oro, il diacono e i chierici nelle dalmatiche argentee e dorate delle solennità, e gli eleganti cantori volontari con i capelli unti d'olio, e le allegre melodie ballabili delle canzoni festose, e l'incessante benedizione del popolo da parte dei sacerdoti con i tre ceri ornati di fiori, con le esclamazioni continuamente ripetute: «Cristo è risorto! Cristo è risorto!» Tutto era bellissimo, ma più bella di tutto era Katjuša in abito bianco e cintura azzurra, con il fiocchetto rosso sui capelli neri e gli occhi raggianti ed estatici.
Nechljudov sentiva che lei l'aveva visto, anche senza voltarsi. Se ne accorse quando le passò accanto per andare all'altare. Non aveva niente da dirle, ma escogitò qualcosa e disse, passandole vicino:
- La zia ha detto che romperà il digiuno dopo l'ultima messa.
Come sempre quando lo vedeva, il sangue giovane affluì su tutto il caro viso, e gli occhi neri, ridenti e lieti si fermarono su Nechljudov, guardando ingenuamente di sotto in su.
- Lo so, - disse sorridendo.
In quel momento il chierico, aprendosi un varco fra la folla con una caffettiera di rame, passò accanto a Katjuša e, senza guardarla, la urtò con un lembo della dalmatica. Evidentemente per rispetto verso Nechljudov, il chierico per scansarlo aveva urtato Katjuša. E Nechljudov si stupiva che quel chierico non capisse che tutto ciò che esisteva lì e ovunque al mondo esisteva solo per Katjuša, e che si poteva disdegnare tutto al mondo, ma non lei, perché era il centro di tutto. Per lei brillava l'oro dell'iconostasi e ardevano tutte le candele del lampadario e dei candelieri, per lei erano quei canti di giubilo: «È la Pasqua del Signore, gioite o genti». E tutto ciò che di buono c'era al mondo, tutto era per lei. E gli sembrava che Katjuša lo capisse. Così sembrava a Nechljudov, quando guardava la sua figura snella nell'abito bianco con le piegoline e il viso lieto e assorto, dall'espressione del quale vedeva che ciò che gli cantava nell'anima cantava ugualmente nell'anima di lei.
Nell'intervallo fra la prima e la seconda messa Nechljudov uscì dalla chiesa. La folla si apriva dinanzi a lui e s'inchinava. Qualcuno lo riconosceva, altri domandavano «Chi è?». Sul sagrato si fermò. I mendicanti lo circondarono, egli distribuì gli spiccioli che aveva nel borsellino e scese gli scalini del terrazzino.
Si era già fatto abbastanza chiaro da vedere, ma il sole non sorgeva ancora. La gente si era seduta sulle tombe intorno alla chiesa. Katjuša restava in chiesa, e Nechljudov si fermò ad aspettarla.
La folla continuava a uscire, e battendo i chiodi degli stivali sulle lastre di pietra scendeva i gradini e si sparpagliava per il cortile della chiesa e il cimitero.
Un vecchio decrepito con il capo dondolante, il pasticciere di Mar'ja Ivanovna, fermò Nechljudov, scambiò con lui il triplice bacio augurale, e sua moglie, una vecchietta con il pomo d'Adamo rugoso sotto lo scialletto di seta, gli diede, togliendolo da un fazzoletto, un uovo giallo zafferano.
Subito si avvicinò un giovane contadino muscoloso e sorridente, con un farsetto nuovo e una fusciacca verde.
- Cristo è risorto, - disse ridendo con gli occhi, si avvicinò a Nechljudov investendolo col suo buon odore tipico di contadino, e solleticandolo con la sua barbetta riccia lo baciò per tre volte proprio in mezzo alla bocca con le sue labbra ferme e fresche.
Mentre Nechljudov baciava il contadino e ne riceveva un uovo marrone scuro, apparve il vestito cangiante di Matrëna Pavlovna e la graziosa testolina nera con il fiocchetto rosso.
Lei subito lo scorse, al di sopra delle teste di quelli che le camminavano davanti, ed egli vide il suo volto illuminarsi.
Katjuša e Matrëna Pavlovna uscirono sul sagrato e si fermarono per fare l'elemosina. Un mendicante con una cicatrice rossa al posto del naso si accostò a Katjuša. Lei tolse qualcosa dal fazzoletto, glielo diede e poi si avvicinò a lui e, senza esprimere la minima ripugnanza, anzi con la stessa gioia radiosa negli occhi, lo baciò tre volte. Mentre baciava il mendicante, i suoi occhi incontrarono lo sguardo di Nechljudov. Sembrava chiedere: va bene quello che sto facendo?
«Sì, sì, cara, tutto va bene, tutto è bellissimo, ti amo».
Scesero dal sagrato ed egli le si avvicinò. Non voleva scambiare il bacio pasquale con lei, voleva solo starle più vicino.
- Cristo è risorto! - disse Matrëna Pavlovna, chinando il capo e sorridendo con un'aria che diceva che quel giorno erano tutti uguali, e asciugatasi la bocca con il fazzoletto arrotolato gli porse le labbra.
- In verità, - rispose Nechljudov, baciandola. Si voltò a guardare Katjuša. Lei arrossì e in un attimo gli si avvicinò.
- Cristo è risorto, Dmitrij Ivanoviè.
- In verità è risorto, - disse lui. Si baciarono due volte, parvero riflettere se bisognava andare avanti, e quasi avessero deciso che sì, bisognava, si baciarono la terza volta, ed entrambi sorrisero.
- Non andate dal sacerdote? - chiese Nechljudov.
- No, Dmitrij Ivanoviè, stiamo un po' qui sedute, - disse Katjuša, sospirando profondamente, come dopo una lieta fatica, a pieni polmoni e guardandolo dritto negli occhi con i suoi occhi docili, verginali, innamorati e un pochino strabici.
Nell'amore fra un uomo e una donna c'è sempre un momento in cui questo amore raggiunge il suo zenit, quando in esso non c'è nulla di cosciente, di razionale e nulla di sensuale. Quel momento fu per Nechljudov la notte della Pasqua di resurrezione. Quando adesso ricordava Katjuša, di tutte le situazioni in cui l'aveva vista, quel momento offuscava tutti gli altri. La testolina nera, liscia e lucente, l'abito bianco con le piegoline che modellava castamente la sua figura snella e il piccolo seno, e quel rossore, e quei dolci occhi neri e lucenti, un po' strabici per la notte insonne, e i due tratti salienti di tutto il suo essere: la purezza dell'amore verginale non solo per lui - egli lo sapeva - , ma per tutti e tutto al mondo, e non solo ciò che è bello: per quel mendicante che aveva baciato.
Egli sapeva che in lei c'era l'amore, perché quella notte e quella mattina l'aveva riconosciuto in se stesso, e aveva riconosciuto che in quell'amore egli si fondeva in un'unica cosa con lei.
Ah, se tutto si fosse fermato al sentimento di quella notte! «Sì, tutta quell'orribile storia accadde solo dopo quella notte della Pasqua di resurrezione!» - pensava adesso, seduto alla finestra nella stanza dei giurati.

XVI

Tornato dalla chiesa, Nechljudov ruppe il digiuno con le zie e per rinfrancarsi, secondo un'abitudine presa al reggimento, bevve della vodka e del vino, se ne andò in camera sua e si addormentò subito, vestito. Lo svegliarono dei colpi alla porta. Dal modo di bussare riconobbe che era lei; si alzò, stropicciandosi gli occhi e stiracchiandosi.
- Katjuša, sei tu? Entra, - disse, alzandosi.
Lei socchiuse la porta.
- È pronto in tavola, - disse.
Indossava lo stesso abito bianco, ma senza il fiocco nei capelli.
Guardandolo negli occhi, s'illuminò come se gli avesse annunciato qualcosa di straordinariamente gioioso.
- Adesso vengo, - rispose afferrando il pettine per ravviarsi i capelli.
Lei rimase un attimo di troppo. Egli lo notò e, gettato il pettine, si mosse verso di lei. Ma Katjuša immediatamente si volse in fretta e andò via con i suoi passi sempre leggeri e svelti sulla passatoia del corridoio.
«Che scemo, - si disse Nechljudov - perché non l'ho trattenuta?»
E la raggiunse di corsa nel corridoio.
Cosa volesse da lei, neppure lo sapeva. Ma gli sembrava che, quando era entrata nella sua stanza, avrebbe dovuto fare qualcosa che tutti fanno in quelle circostanze, e non l'aveva fatto.
- Katjuša, aspetta, - disse.
Lei
si
voltò.
- Che c'è? - disse, rallentando.
-
Niente,
solo...
E facendo uno sforzo su se stesso e ricordando come agiscono in questi casi tutti gli uomini nella sua situazione, abbracciò Katjuša per la vita.
Lei si fermò e lo guardò negli occhi.
- No, Dmitrij Ivanoviè, non si deve, - disse arrossendo fino alle lacrime, e con la sua mano forte e ruvida allontanò il braccio che la cingeva.
Nechljudov la lasciò, e per un attimo non solo sentì un senso di disagio e vergogna, ma anche schifo di sé. Avrebbe dovuto credere a se stesso, ma non capì che quel disagio e quella vergogna erano i sentimenti migliori della sua anima che cercavano di esprimersi,e al contrario gli parve che fosse la sua stupidità a parlare, e che occorresse fare come fanno tutti.
La raggiunse ancora una volta, di nuovo l'abbracciò e baciò sul collo.
Questo bacio era ormai completamente diverso dai primi due: uno inconsapevole dietro il cespuglio di lillà e l'altro, quella mattina in chiesa.
Questo era spaventoso, e lei lo sentì.
- Ma che cosa sta facendo? - gridò con una voce tale, come se egli avesse irrimediabilmente rotto qualcosa di infinitamente prezioso, e fuggì via di corsa.
Egli entrò in sala da pranzo. Le zie eleganti, il dottore e la vicina stavano in piedi vicino agli antipasti. Tutto era così consueto, ma nell'anima di Nechljudov c'era la tempesta. Non capiva nulla di quel che gli dicevano, rispondeva a sproposito e pensava solo a Katjuša, ricordando la sensazione di quell'ultimo bacio, quando l'aveva raggiunta in corridoio.
Non poteva pensare a nient'altro. Quando lei entrava nella stanza, pur senza guardarla sentiva con tutto il suo essere la sua presenza e doveva fare uno sforzo su se stesso per non rivolgerle lo sguardo.
Dopo il pranzo si ritirò subito in camera sua e lì camminò a lungo, in preda a una forte agitazione, tendendo l'orecchio ai suoni nella casa e aspettando i suoi passi. Così l'uomo animale che dimorava in lui non solo aveva rialzato il capo, ma si era schiacciato sotto i piedi l'uomo spirituale che era stato durante il suo primo soggiorno e quella mattina stessa in chiesa, e quello spaventoso uomo animale adesso dominava incontrastato nella sua anima. Pur continuando a tenderle agguati, quel giorno non riuscì a incontrarla da solo a solo neppure una volta. Probabilmente lo sfuggiva.
Ma verso sera le accadde di dover andare nella stanza accanto a quella occupata da lui. Il dottore si fermava per la notte e Katjuša doveva preparare il letto all'ospite. Udendo i suoi passi, Nechljudov, camminando senza far rumore e trattenendo il respiro, quasi si preparasse a un delitto, entrò dietro di lei.
Con le mani infilate in una federa pulita e tenendo il cuscino per gli angoli, si voltò verso di lui e sorrise: ma non era il sorriso allegro e gioioso di prima, era spaventato, pietoso. Quel sorriso sembrava dirgli che ciò che faceva era male. Egli si fermò per un attimo. A quel punto la lotta era ancora possibile. Benché debolmente, si faceva ancora sentire la voce del vero amore per lei, che gli parlava di lei, dei suoi sentimenti, della sua vita.
Ma l'altra voce diceva: bada, ti lascerai sfuggire iltuo piacere, la tua felicità. E questa seconda voce soffocava la prima. Le si avvicinò risolutamente. E uno spaventoso, irrefrenabile impulso bestiale s'impossessò di lui.
Senza lasciarsela sfuggire dalle braccia, Nechljudov la fece sedere sul letto, e sentendo che bisognava fare ancora qualcosa, si sedette accanto a lei.
- Dmitrij Ivanoviè, mio caro, per favore, mi lasci, - diceva lei con voce lamentosa, - sta arrivando Matrëna Pavlovna! - gridò, divincolandosi, e davvero qualcuno veniva verso la porta.
- Allora vengo da te stanotte, - disse Nechljudov. - Sei sola, vero?
- Che dice? Mai e poi mai! Non si deve, - diceva lei solo con le labbra, ma tutto il suo essere sconvolto e turbato diceva altro.
Chi si avvicinava alla porta era davvero Matrëna Pavlovna. Entrò nella stanza con una coperta in mano e, rivolta un'occhiata di rimprovero a Nechljudov, redarguì aspramente Katjuša perché aveva preso la coperta sbagliata.
Nechljudov uscì in silenzio. Non si vergognava neppure. Aveva visto dall'espressione del viso di Matrëna Pavlovna che lo biasimava, e aveva ragione di biasimarlo, sapeva che quanto faceva era male, ma l'impulso bestiale sprigionatosi dal suo antico sentimento di amore buono per Katjuša si era impossessato di lui e regnava incontrastato, senza riconoscere null'altro. Ora sapeva cosa bisognava fare per soddisfare quell'impulso, e cercava solo il mezzo.
Per tutta la sera fu un'anima in pena; ora andava dalle zie, ora le lasciava per tornare in camera sua o sul terrazzino e pensava a un'unica cosa, come vederla da sola: ma lei lo sfuggiva, e Matrëna Pavlovna cercava di non perderla d'occhio.
XVII