martedì 2 giugno 2020


IL GIGLIO ROSSO
Anatole France

[...]– Perchè – rispose – vedo tutte le donne intelligenti prendere degli imbecilli. – Che le annoiano…
– Senza dubbio. Ma gli uomini superiori le annoierebbero di più. Avrebbero maggiori risorse per riuscirvi…[...]

Capitoli 1-9

Capitolo1


Ella diede un'occhiata alle poltrone riunite davanti al camino, al tavolinetto da tè, che brillava nell'ombra, e ai grandi mazzi di fiori pallidi che s'innalzavano dai vasi cinesi. Tuffò la mano nei rami fioriti dell'oppio per far tremolare le loro bacche argentate. Ad untratto, si guardò, da lontano, in uno specchio con intensaattenzione. Diritta e snella di personale, colla guancia chinasulla spalla, ella seguiva coll'occhio le ondulazioni della suaforma flessuoso nella guaina di raso nero, intorno alla qualefluttuava una tunica leggera, cosparsa di perle in cui tremolavanodelle fiamme cupe. Poi si avvicinò allo specchio, curiosa di vederbene il suo viso di quel giorno. Lo specchio le riflettè unosguardo tranquillo, come se quella amabile donna, che essaesaminava e che non le dispiaceva, vivesse senza grande gioia esenza profonda tristezza.
Sulle pareti del grandesalotto vuoto, le figure degli arazzi, vaghe come ombre,impallidivano fra i loro giochi antichi, nelle loro grazie morenti.Com'esse, le statuette di terracotta sulle colonnette, i vecchininnoli di Sassonia e le pitture di Sèvres, allineate nellevetrine, parlavano di cose passate. Sopra un piedistallo guernitodi bronzi preziosi, il busto di marmo di qualche principessa reale,travestita da Diana, col volto capriccioso, il seno provocante,sembrava sfuggire dai suoi panneggiamenti complicati, mentre nelsoffitto una Notte, incipriata come una marchesa e circondata daAmorini, spargeva dei fiori. Tutto sonnecchiava, e si sentivasoltanto lo scoppiettio del fuoco e il tintinnar leggero delleperle sui veli.
Distolto lo sguardo dallospecchio, andò a sollevare l'angolo d'una tendina, e dalla finestravide, attraverso gli alberi neri dell'argine, in una lucegrigiastra, la Senna che fluiva colle sue onde gialle e vellutate.Il tedio del cielo e dell'acqua si riflettevano nelle sue pupilledi un delicato color grigio. Un battello passò: la «Rondinella»,sboccando da un arco del ponte dell'Alma e portando degli umiliviaggiatori verso Grenelle e Billancourt. Essa lo seguì collosguardo mentre si allontanava dalla riva nella corrente fangosa;poi lasciò ricadere la tendina, ed essendosi seduta nel solitoangolo del divano, sotto i fasci di fiori, prese un libro che sitrovava sulla tavola, a portata di mano. Sulla copertina di telapaglierina brillava in oro questo titolo:Isotta la Bionda, diViviana Bell. Era una raccolta di versi francesi scritti da unainglese e stampati a Londra. L'aperse e lesse acaso:

Allorchè la campana, come la gente pia,
Canta nel ciel commosso: «Ti saluto, Maria»,
La vergine, vedendo gli alberi del verziero,
Freme come all'annunzio d'ignoto messaggero,
Che reca un giglio rosso, risvegliante un desiro,
Di morir di profumo nel suo dolce respiro.
Nel chiuso orlo la vergine, nella tranquilla sera,
Sente alle labbra l'anima salirle, e par che miri
Fluir la vita come un rivo in primavera,
Che scorra nel suo petto, tra flebilisospiri.

Leggeva, indifferente,distratta, aspettando le sue visite e pensando più alla poetessache alla poesia, a quella Miss Bell che era forse la sua piùpiacevole amica e che non vedeva quasi mai; che, a ciascuno deiloro incontri, così rari, la baciava chiamandola«darling»[1], le battevabruscamente il naso sulla guancia, e gorgheggiava; che, brutta eseducente, leggermente ridicola e veramente squisita, viveva aFiesole da esteta e da filosofo, mentre l'Inghilterra la celebravacome la sua poetessa prediletta. Come Vernon Lee e Maria Robinson,costei s'era innamorata della vita e dell'arte toscana; e senzanemmeno terminare il suoTristano, la cuiprima parte aveva ispirato a Burne Jones dei suggestivi acquarelli,scriveva dei versi provenzali e dei versi francesi su pensieriitaliani. Aveva mandato la sua Isottala Bella a«darling»con una lettera in cui l'invitava a passare un mese a Fiesole dalei. Aveva scritto: «Venite; vedrete le più belle cose del mondo, ele abbellirete ancora colla vostrapresenza.»
darling»diceva fra sè che non sarebbe andata, dovendosi trattenere aParigi. Ma l'idea di rivedere Miss Bell e l'Italia le sorrideva.Sfogliando il libro, si fermò per caso a questoverso
Amore e cor gentil sono unacosa.

Si chiese, con un'ironialeggera e dolcissima, se Miss Bell avesse amato e quali potesseromai essere i suoi amori. La poetessa aveva a Fiesole un cicisbeo,il principe Albertinelli. Bellissimo, egli sembrava troppogrossolano e volgare per piacere ad una esteta che metteva neldesiderio d'amare il misticismo diun'Annunziazione.
– Buongiorno, Teresa! Sonosfinita.
Era la principessa Seniavine,flessuosa nella pelliccia che avvolgeva la sua carne bruna eselvaggia. Si sedette bruscamente e, colla sua voce rude eppurcarezzevole, che aveva delle modulazioni virili e garrule,disse:
– Stamattina, ho attraversatoa piedi tutto il Bosco col generale Larivière. L'ho incontrato nelviale dei Potins e l'ho accompagnato fino al ponte d'Argenteuil,dove voleva assolutamente comprare dal guardiano del Bosco, perregalarmela, una gazza ammaestrata, che fa gli esercizi con unpiccolo fucile. Sono spossata.
– Ma perchè dunque avetecondotto il generale fino al ponted'Argenteuil?
– Perchè aveva la gotta a undito del piede.
Teresa alzò le spallesorridendo:
– Voi sprecate la vostramalignità. Siete una scialacquatrice.
– E voi vorreste, cara, cheeconomizzassi la mia bontà e la mia cattiveria, nella speranza dicollocarle seriamente?
Bevette un po' di vino diTokay.
Preceduto dal rumore affannosodel suo respiro, il generale Larivière si avanzò, con passopesante, baciò la mano alle due signore e si sedette fra loro, conaria dura e soddisfatta, coll'occhio sollevato all'estremità,ridendo con tutte le piccole rughe delletempie.
– Come sta il signorMartin-Bellème? È sempre occupato?
Teresa rispose che credevafosse alla Camera, e che anzi stava facendo undiscorso.
La principessa Seniavine, chemangiava dei sandwichs al caviale, domandò alla signora Martinperchè non fosse venuta ieri dalla signora Meillan, dove avevanorappresentato una commedia.
– Un lavoro scandinavo. Èpiaciuto?
– Sì. Non so. Ero nelsalottino verde, sotto il ritratto del duca d'Orléans. Il signor LeMénil m'è venuto incontro e m'ha reso un servizio prezioso: m'haliberato dal signor Garain.
Il generale, che era praticodegli annuari e immagazzinava nella sua grossa testa tutte leinformazioni utili, tese l'orecchio a questonome.
– Garain; – domandò – ilministro che faceva parte del Gabinetto, all'epoca dell'esilio deiprincipi?
– Proprio lui. Io gli piacevomolto. Mi parlava dei bisogni del suo cuore e mi guardava con unatenerezza spaventosa. E ogni tanto contemplava sospirando ilritratto del duca d'Orléans. Gli ho detto: «Signor Garain, voiconfondete. È mia cognata, che è orleanista io non lo sonoaffatto.» In questo momento, il signor Le Ménil è venuto percondurmi al buffet. M'ha fatto dei grandi complimenti… sui mieicavalli. M'ha detto anche che non c'era niente di più bello deiboschi, d'inverno. M'ha parlato dei lupi e dei lupacchiotti. Tuttoquesto m'ha distratto.
Il generale, che non amava igiovani, disse che aveva incontrato Le Ménil, il giorno prima, alBosco, che galoppava furiosamente.
Aggiunse che soltanto i vecchicavalieri conservavano la buona tradizione, e che i giovanieleganti del giorno d'oggi avevano il torto di cavalcare come deifantini.
– Così pure è per la scherma.Ai miei tempi…
La principessa Seniavinel'interruppe bruscamente:
– Generale, guardate un po'com'è bella la signora Martin. È sempre graziosa, ma in questomomento più che mai, perchè si annoia. Niente le s'addice megliodella noia. Da quando siamo qui, la secchiamo senza dubbio.Guardatela: la fronte corrugata, lo sguardo vago, la boccadolorosa: una vera vittima!
Scattò in piedi, baciòtumultuosamente Teresa, e se ne andò, lasciando il generalemeravigliato.
La signora Martin-Bellème losupplicò di non dar retta a quella pazza.
Allora egli si rimise edomandò
– E i vostri poeti,signora?
Perdonava a malincuore allasignora Martin il suo gusto per della gente che scriveva e che nonapparteneva al suo mondo.
– Sì, i vostri poeti? Che cosan'è di quel signor Choulette, che vi fa delle visite in cravattonerosso?
– I miei poeti mi dimenticano,mi abbandonano. Non bisogna fare assegnamento su nessuno. Gliuomini, le cose; non c'è niente di sicuro. La vita è un tradimentocontinuo. Non c'è che quella povera Miss Bell che non mi dimentica.M'ha scritto da Firenze, e mandato il. suolibro.
– Miss Bell, non è quellagiovane signora, che ha l'aria, coi suoi capelli gialli inanellati,d'un cagnolino da salotto?
Fece un calcolo mentale e gliparve che adesso dovesse ben averetrent'anni.
Una vecchia signora, cheportava con modesta dignità la sua corona di capelli bianchi, e unomìno vivace, dallo sguardo acuto, entrarono uno dietro l'altra: lasignora Marmet e il signor Paolo Vence. Poi, tutto impettito, colmonocolo, apparve il signor Daniele Salomon, l'arbitrodell'eleganza. Il generale se la svignò.
Si parlò del romanzo dellasettimana. La signora Marmet aveva parecchie volte pranzatocoll'autore, un giovane amabilissimo. Paolo Vence trovava il libronoioso.
– Oh! – sospirò la signoraMartin – tutti i libri sono noiosi; ma gli uomini sono più noiosidei libri. E sono più esigenti.
La signora Marmet fece sapereche suo marito, che aveva molto buon gusto letterario, avevaconservato sino alla morte un sacro orrore delnaturalismo.
Vedova d'un membrodell'Accademia delle Iscrizioni, metteva in mostra, nei salotti, lasua illustre vedovanza; dolce e modesta, del resto, nella sua vestenera e sotto i suoi bei capelli bianchi.
La signora Martin disse alsignor Daniele Salomon che voleva consultarlo intorno ad un gruppodi bambini.
– È di Saint-Cloud. Mi diretese vi piace. Anche voi, signor Vence, mi darete il vostro parere, ameno che non disprezziate questepiccolezze.
Il signor Daniele Salomonguardò Paolo Vence attraverso il monocolo, con un'alterigiasgarbata.
Paolo Vence passava inrassegna, collo sguardo, il salotto:
– Avete delle belle cose,signora. Questo non sarebbe nulla: ma tutte queste belle cose sonouna degna cornice per voi.
Ella non nascose la sua gioianel sentirlo parlare così. Stimava Paolo Vence per il solo uomoveramente intelligente che frequentasse il suo salotto. Lo avevaapprezzato prima che i suoi libri gli avessero dato una granderinomanza. La sua salute delicata, il suo umor nero, il suo assiduolavoro, lo tenevano lontano dalla vita di società. Quel piccolouomo bilioso non era molto piacevole. Eppure essa lo vedevavolentieri: stimava molto la sua profonda ironia, la sua fierezzaselvaggia, il suo ingegno maturato nella solitudine, e lo ammiravacon ragione come un eccellente scrittore, l'autore di magnificisaggi sopra le arti e i costumi.
A poco a poco, il salottos'era empito di una folla brillante. C'erano adesso, nel grancerchio delle poltrone, la signora De Vresson, della quale siraccontavano delle storie spaventose, e che conservava, dopovent'anni di scandali mal nascosti, degli occhi infantili e delleguance verginali; la vecchia signora De Morlaine, che lanciava ingridi acuti i suoi motti di spirito, vivace, stordita, agitante lesue forme mostruose come una nuotatrice circondata da vesciche; lasignora Raymond, moglie dell'Accademico; la signora Carain, mogliedell'ex-ministro; tre altre signore ancora; e, in piedi contro ilcamino, il signor Berthier d'Eyzelles, redattore delJournal des Débats,deputato, che si accarezzava le basette bianche e si pavoneggiava,mentre la signora De Morlaine gli gridava:
– Il vostro articolo sulbimetallismo è una perla, un gioiello! Specialmente la fine, unadelizia!
In piedi, in fondo al salotto,alcuni giovanotti eleganti, molto serii, bisbigliavano fraloro:
– Che cosa ha fatto, per avereil posto d'onore alle cacce del principe?
– Lui? niente. Sua moglie,tutto.
Avevano la loro filosofia. Unodi essi non credeva alle promesse degliuomini:
– Vi sono degli altri tipi chenon mi piacciono affatto. Dicono, con un'aria di leale sincerità:«Volete iscrivervi al Circolo? Vi prometto di votar palla bianca… »Palla bianca? Non c'è dubbio: un globo d'alabastro, una palla dineve! Si vota: Crac! un tartufo! La vita, a pensarci bene, è unacosa sudicia.
– E allora non pensarci –disse un terzo.
Daniele Salomon, che si eraaggiunto a loro, mormorava all'orecchio, colla sua voce casta, deisegreti d'alcova. E ad ogni rivelazione strana sulla signoraRaymond, sulla signora Berthier d'Eyzelles e sulla principessaSeniavine, aggiungeva con indifferenza:
– Lo sannotutti.
Poi, a poco a poco, la folladei visitatori si diradò. Non restavano più che la signora Marmet ePaolo Vence.
Questi si avvicinò allacontessa Martin e le chiese:
– Quando volete che vipresenti Dechartre?
Era la seconda volta cheglielo domandava. Essa non amava vedere delle facce nuove. Risposecon molta noncuranza:
– Il vostro scultore? Quandovorrete. Ho visto, di lui, al Campo Cinque Marzo, dei medaglioniveramente belli. Ma produce poco. È un amatore, non èvero?
– È uno spirito delicato. Nonha bisogno di lavorare per vivere. Egli accarezza le sue figure conuna lentezza amorevole. Ma non v'ingannate, signora: egli sa esente: sarebbe un maestro, se non vivesse solo. Lo conoscodall'infanzia. Lo credono indolente e triste; invece è unpassionale ed un timido. Quel che gli manca, quel che gli mancheràsempre per raggiungere il sommo dell'arte sua, è la semplicità dispirito. Egli s'inquieta, si turba e sciupa le sue più belleimpressioni. Secondo me, era meno adatto per la scultura che per lapoesia e la filosofia. È molto còlto, e rimarreste stupita dellasua grandezza di spirito.
La signora Marmet approvò,benevola. Essa piaceva in società e sembrava a sua voltacompiacersene. Ascoltava molto e parlava poco. Attribuiva moltovalore alla sua grande compiacenza e sembrava farla un po'desiderare. Sia che avesse veramente simpatia per la signoraMartin, sia che sapesse mostrare, in ogni casa dove andava, dellemaniere discrete di preferenza, si riscaldava, contenta, comeun'avola, nell'angolo di quel camino di puro stile Luigi XVI, chesi addiceva alla sua bellezza di vecchia signora indulgente. Non lemancava altro, là, che il suo cagnolino.
– Come sta Tobia? – le chiesela signora Martin. – Signor Vence, conoscete Tobia? Ha dei lunghipeli di seta e un nasino che è un amore,nero.
La signora Marmet gradiva lelodi tributate a Tobia, quando un vecchio roseo e biondo, daicapelli ricciuti, miope, quasi cieco dietro i suoi occhiali d'oro,corto di gambe, che urtava contro i mobili, salutava le poltronevuote, si buttava contro gli specchi, spinse il suo naso aquilinofino in faccia alla signora Marmet che lo guardò,indignata.
Era il signor Schmoll,dell'Accademia delle Iscrizioni. Egli sorrideva, tutto smorfioso ecompìto; lanciava dei madrigali alla contessa Martin con quellavoce ereditaria, rude e grassa, colla quale gli Ebrei suoi antenatiperseguitavano i loro debitori, i contadini d'Alsazia, dellaPolonia e della Crimea. Strascicava a lungo, pesantemente, le suefrasi. Quel grande filologo, membro dell'Istituto di Francia,sapeva tutte le lingue, eccettuato il francese. E la signora Martinsi divertiva a quelle galanterie pesanti e arrugginite come leferramenta che mettono in mostra i rigattieri, e fra le qualicadeva qualche fiore appassito dell'Antologia. Il signor Schmollamava i poeti e le donne, e aveva dellospirito.
La signora Marmet finse di nonconoscerlo ed uscì senza rendergli ilsaluto.
Quand'ebbe esauriti i suoimadrigali, Schmoll diventò cupo e compassionevole. Si mise a gemerepietosamente. Compianse profondamente se stesso: non era abbastanzadecorato, nè convenientemente alloggiato a spese dello Stato, lui,la signora Schmoll e i loro cinque figli. Si lamentò con accentosolenne: un po' dell'anima di Ezechiele e di Geremia era inlui.
Disgraziatamente, strisciandolungo la tavola coi suoi occhiali d'oro, scoperse il libro diViviana Bell.
– Ah!Isotta la Bionda: –esclamò amaramente, – voi leggete questo libro, signora. Ebbene,sappiate che la signorina Viviana Bell m'ha rubato un'iscrizione,e, che per di più, l'ha alterata, mettendola in versi! La troveretea pagina 109 del libro:

Deh! cessa il pianto, o tu che amai:
Quello che è morto non fu giammai.
– Lasciami piangere; il pianto sgombra
Le pene: un'ombra pianger puòun'ombra.

Avete sentito, signora?Un'ombra pianger può un'ombra. Ebbene! queste parole sono tradottetestualmente da un'iscrizione funebre che io ho pubblicato edillustrato per il primo. L'anno scorso, un giorno che pranzavo davoi, trovandomi a tavola a fianco della signorina Bell, le citaiquesta frase, che le piacque molto. Dietro sua domanda, il giornodopo, tradussi in francese l'intera iscrizione e gliela inviai. Edecco che la trovo, mutilata e snaturata, in questo volume di versi,con questo titolo: Sulla viasacra!… la via sacra, sonio!
E ripetè, col suo ridicolocattivo umore:
– Sono io, signora, la viasacra.
Era contrariato perchè lapoetessa non aveva parlato di lui a proposito di quell'iscrizione.Avrebbe voluto leggere il suo nome in testa alla poesia, nei versi,in rima. Egli voleva sempre vedere il suo nome dappertutto, e locercava nei giornali di cui aveva gonfie le tasche. Ma nonconservava rancore, e non l'aveva colla signorina Bell. Convenne dibuona grazia che era una persona molto distinta, e la poetessa cheoggi onorava maggiormente l'Inghilterra.
Quando fu partito, la contessaMartin chiese molto ingenuamente a Paolo Vence se sapeva perchè labuona signora Marmet, di solito così benevola, avesse guardatoSchmoll con tanta collera e in silenzio. Egli era sorpreso che nonlo sapesse.
– Io non so mainiente.
– Eppure la disputa fraGiuseppe Schmoll e Luigi Marmet, che fece così gran chiassoall'Istituto, è rimasta famosa. È finita soltanto colla morte diMarmet, che il suo implacabile collega perseguitò fino al cimiterodel Père-Lachaise.
«Il giorno in cui fu sepoltoquel povero Marmet, cadeva della neve mista a pioggia. Eravamoinzuppati e gelati fino alle ossa. Sull'orlo della fossa, fra labruma, il vento, il fango, Schmoll lesse, sotto l'ombrello, undiscorso pieno di crudeltà gioviale e di compassione trionfante,che poi portò ai giornali in una carrozza di ritorno dal corteofunebre. Un amico imprudente lo fece vedere alla buona signoraMarmet, che cadde svenuta. Possibile, signora, che non abbiate maisentito parlare di questa disputa sapiente eferoce?
«Il motivo fu la linguaetrusca. Marmet s'era dedicato interamente al suo studio. Lochiamavano Marmet l'Etrusco. Nè lui nè altri conoscevano una solaparola di questa lingua della quale si sono perdute le ultimevestigia. Schmoll ripeteva continuamente a Marmet: – «Voi sapetebene che non sapete affatto l'etrusco, caro collega; è per questoche siete uno scienziato onorevole ed un uomo di spirito.» – Puntoda queste lodi maligne, Marmet volle dimostrare di sapere un po'd'etrusco. Lesse ai colleghi dell'Accademia delle Iscrizioni unamemoria sulla funzione delle flessioni nell'idioma degli antichitoscani.»
La signora Martin domandò checos'era una flessione.
– Oh! signora, se vi dò deglischiarimenti, finiremo coll'imbrogliare tutto. Vi basti sapere che,in quella memoria, il povero Marmet citava dei testi latini, e licitava tutti alla rovescia. Ora, Schmoll è un latinista di primaforza e, dopo Mommsen, il primo epigrafista delmondo.
«Egli rimproverò al suogiovane collega (Marmet, non aveva ancora cinquant'anni) di leggeretroppo bene l'etrusco e male il latino. Da quel momento, Marmet nonebbe più pace. In ogni seduta era preso in giro con un'allegraferocia e dileggiato in modo tale che, malgrado la sua dolcezza dicarattere, si arrabbiò. Schmoll non conserva rancore: è una virtùdella sua razza. Non vuol male a coloro che perseguita. Un giorno,salendo le scale dell'Istituto, insieme a Renan e ad Oppert,incontrò Marmet e gli tese la mano. Marmet rifiutò di prenderla edisse: – «Io non vi conosco.» – «Mi prendete forse perun'iscrizione latina?» – ribattè Schmoll. È un po' per questa fraseche il povero Marmet è morto e seppellito. Comprenderete adessoperchè la vedova, che conserva religiosamente il suo ricordo, vedacon orrore il suo nemico.
– Ed io che li ho fattipranzare insieme, proprio vicini unoall'altra!
– Signora, non è stata unacosa immorale, no, ma crudele.
– Caro signore, forse quel chedico vi urterà; ma se proprio occorresse scegliere, preferirei fareuna cosa immorale che una cosa crudele.
Un giovane, grande, magro,bruno di viso, con due lunghi baffi, entrò, salutando con bruscadisinvoltura
– Signor Vence, credo checonosciate il signor Le Ménil.
Infatti, s'erano già trovatiinsieme dalla signora Martin, e si vedevano qualche volta nellasala d'armi, di cui Le Ménil era assiduo. Anche il giorno prima,s'erano incontrati dalla signora Meillan.
– La signora Meillan, ecco unacasa dove ci si annoia – disse PaoloVence.
– Eppure vi si ricevono degliAccademici – disse Le Ménil. – Non voglio esagerare il loro valore;ma, insomma, sono delle persone di merito.
La signora Martinsorrise:
– Sappiamo, signor Le Ménil,che dalla signora Meillan vi siete occupato più delle donne chedegli accademici. Avete condotto la principessa Seniavine al buffete le avete parlato di lupi.
– Come? dilupi?
– Di lupi, di lupe e dilupacchiotti, e dei boschi resi cupi dall'inverno. C'è parso che,con una persona così graziosa, fosse un argomento un po'feroce.
Paolo Vence sialzò.
– Così, me lo permettete,signora: vi condurrò il mio amico Dechartre. Ha un gran desideriodi conoscervi e spero che non vi dispiacerà. Ha del brio e dellavivacità di spirito: è pieno d'idee.
La signora Martinl'interruppe:
– Oh! io non chiedo tanto. Lepersone che hanno un carattere, e lo dimostrano sinceramente, nonmi annoiano quasi mai; e qualche volta midivertono.
Quando Paolo Vence fu uscito,Le Ménil attese che fosse svanito il rumore dei suoi passinell'anticamera e ricaduto il battente della porta; poi,avvicinandosi a lei:
– Domani alle tre nel nostronido, è vero?
– Mi ami dunqueancora?
La sollecitò a risponderefinchè erano soli; ella replicò, un po' scherzosamente, ch'eratardi, che non aspettava più visite, e che soltanto suo marito,adesso, poteva entrare.
Egli insistè, supplichevole.Allora, senza farsi più pregare
– Vuoi? Ascolta: domani saròlibera tutta la giornata. Aspettami in Via Spontini alle tre. Poiandremo a passeggiare.
La ringraziò con uno sguardo.Avendo poi ripreso il suo posto davanti a lei, all'altro angolo delcamino, le domandò chi era quel Dechartre che si facevapresentare.
– Non sono io, che me lofaccio presentare: me lo presentano. È unoscultore.
Egli si lamentò che avessebisogno di vedere delle facce nuove.
– Uno scultore? Di solito,sono un po' grossolani, gli scultori.
– Oh! quello là, scolpiscecosì poco! Ma se non volete che lo riceva, non loriceverò.
– Mi dispiacerebbe se levostre relazioni vi prendessero una parte del tempo che dovete ame.
– Amico mio, non potetelamentarvi che io sia troppo mondana. Ieri non sono nemmeno andatadalla signora Meillan.
– Fate bene ad andarci il menopossibile non è una casa per voi.
Si spiegò. Tutte le signoreche ci andavano avevano avuto qualche avventura che si sapeva, chesi raccontava. Del resto, la signora Meillan favoriva gli intrighi.Citò qualche esempio per dimostrarlo.
Nel frattempo, Teresa, collemani lungo i bracciuoli della poltrona, in un dolce riposo, latesta china da un lato, guardava morire il fuoco. Il suo pensieroera volato lontano: non ne restava più niente nel suo viso un po'triste e nel suo corpo illanguidito, più desiderabile che mai inquel sonno dell'anima. Conservò per qualche tempo un'immobilitàprofonda, che aggiungeva all'attrattiva della sua carne il fascinodelle cose create dall'arte.
Egli le domandò a che cosapensasse. Sottraendosi un poco alla melanconica magia delle braci edelle ceneri, ella disse:
– Domani, se volete, andremonei quartieri lontani, in quei quartieri bizzarri in cui si vedevivere la povera gente. Mi piacciono le vecchie strade dimiseria.
Le promise di soddisfare ilsuo gusto, pur lasciando capire che lo trovava assurdo. Quellepasseggiate in cui lo trascinava, qualche volta lo annoiavano, e legiudicava pericolose: potevano esservisti.
– E dal momento che siamoriusciti finora a non far parlare di noi…
Ella scosse ilcapo.
– Credete proprio che non sisia parlato di noi? Si sappia o non si sappia, la gente parla. Nonsi sa tutto, ma si dice tutto.
Ricadde nella suafantasticheria. Egli la credette malcontenta, irritata per qualcheragione che non diceva, e si chinò sui begli occhi vaghi cheriflettevano i bagliori del focolare. Ma essa lorassicurò:
– Non so affatto se si parladi me. E del resto, che cosa m'importa? Niente vianiente.
Egli la lasciò. Andava a cenaal circolo, dove il suo amico Caumont, di passaggio da Parigi, loattendeva. Essa lo seguì collo sguardo pieno d'una placidasimpatia. Poi si rimise a leggere nelleceneri.
Rivide i giorni della suainfanzia, il castello in cui passava le grandi estati tristi; iboschi tagliati, il parco umido e fosco, il bacino in cui dormivanole acque verdi, le ninfe di marmo sotto gl'ippocastani e labanchina sulla quale aveva pianto e desiderato di morire. Oggiancora, ignorava la causa di quelle disperazioni giovanili, quandol'ardente risveglio della sua fantasia e il misterioso lavoriodella sua carne la gettavano in un turbamento misto di desiderii edi timori. Da bambina, la vita l'attraeva e le faceva paura. Eadesso sapeva che la vita non merita tanta inquietudine nè tantasperanza, essendo una cosa assai ordinaria e monotona. Avrebbedovuto aspettarselo: perchè non l'aveva previsto?Pensava:
– Vedevo la mamma. Era unabuona signora, molto semplice e non troppo felice. Sognavo undestino ben diverso dal suo. Perchè? Sentivo intorno a me il saporesciocco della vita, e aspiravo l'avvenire come un'aria piena disale e d'aromi. Perché? Che cosa mai volevo, che cosa attendevo?Non dovevo già abbastanza comprendere la tristezza ditutto?
Era nata ricca, nellosplendore sfarzoso d'una fortuna troppo recente. Figlia di quelMontessuy, che, dapprima impiegatuccio in una banca parigina,fondò, diresse due grandi istituti di credito, trovò per sostenerlinei momenti difficili le risorse di uno spirito fecondo, la forzainvincibile del carattere, un insieme unico di furberia e diprobità, e trattò da pari a pari col governo; era cresciuta inquello storico castello di Joinville, comprato, restaurato,mobiliato magnificamente da suo padre, e diventato in sei anni, colsuo parco e la ricchezza delle sue acque, d'uno splendore pari aquello di Vaux-le-Vicomte. Montessuy faceva rendere alla vita tuttoquello ch'essa poteva dare. Ateo istintivo e potente, voleva tuttii beni carnali e tutte le cose desiderabili che questa terraproduce. Accumulò nella galleria e nei saloni di Joinville i quadrid'illustri autori e i marmi preziosi. A cinquant'anni, ebbe le piùbelle donne di teatro ed alcune mondane, delle quali pagò il lusso.Godeva di tutto ciò che v'è di prezioso nella società, collabrutalità del suo temperamento e la finezza del suospirito.
Frattanto, la povera signoraMontessuy, economa e laboriosa, languiva a Jonville. coll'aspettogracile e meschino, sotto gli occhi delle dodici cariatidigigantesche che, nella nicchia rinchiusa da balaustre d'oro,sostenevano il soffitto in cui Lebrun aveva dipinto i Titanifulminati da Giove. Fu là, nel letto di ferro, drizzato ai piedidel grande letto di parata, che essa morì una sera, di tristezza ed'esaurimento, non avendo mai amato sulla terra che suo marito e ilsuo piccolo salotto di damasco rosso nella via diMaubeuge.
Non aveva avuto molta intimitàcolla figlia, sentendola, istintivamente, troppo lontana da lei,troppo libera di spirito, troppo ardita di cuore, e indovinando, inquesta Teresa, pur così dolce e buona, il sangue forte diMontessuy, quell'ardore d'anima e di carne che l'aveva fatta tantosoffrire, e che perdonava più facilmente a suo marito che a suafiglia.
Ma egli, Montessuy,riconosceva sua figlia e l'amava. Come tutti i grandi carnivori,aveva le sue ore di gaiezza piacevole. Benchè vivesse molto fuoridi casa, trovava modo di far colazione quasi tutti i giorni conlei, e qualche volta la portava a passeggio. Aveva il gusto deininnoli e delle stoffe. A colpo d'occhio vedeva e riparava, nellatoelette della figlia, i disastri prodotti dal gusto infelice evistoso della signora Montessuy. Egli educava, formava la suaTeresa. Brutale e sapiente, la divertiva e l'attraeva. Vicino alei, il suo istinto, il suo appetito di conquiste, l'ispiravaancora. Egli che voleva sempre guadagnare, guadagnava pure suafiglia; la toglieva alla madre. Essa lo ammirava, loadorava.
Nella sua fantasticheria, lorivedeva in fondo al passato, come l'unica gioia della suainfanzia; ed era anche persuasa che al mondo non vi fosse un uomoamabile come suo padre. Entrando nella vita, aveva subito disperatodi trovare altrove una tale ricchezza naturale, una tale pienezzadi forze attive e pensanti. Questo sgomento l'aveva seguita nellascelta d'un marito, e forse, in seguito, in una scelta segreta epiù libera.
Suo marito, veramente, nonl'aveva scelto lei. Non sapeva nulla: s'era lasciata maritare dasuo padre, che, allora vedovo, imbarazzato e inquieto della curadelicata di una figlia, in mezzo ad una vita affaccendata edintensa, aveva voluto, secondo il suo solito, fare presto e bene.Egli considerò i vantaggi esteriori, le convenienze, apprezzò iventiquattr'anni suonati di nobiltà imperiale che portava il conteMartin, colla gloria ereditaria d'una famiglia che aveva dato deiministri al Governo di Luglio e all'impero liberale. Non gli eranemmeno venuta l'idea che essa cercasse l'amore nelmatrimonio.
Si lusingava che vi troverebbela soddisfazione dei desiderii fastosi ch'egli le attribuiva, lagioia d'essere e di apparire, quella grandezza comune e forte,quella dominazione materiale, che formavano per lui tutto il pregiodella vita, non avendo affatto, del resto, idee troppo precisesulla felicità di una donna onesta in questo mondo, maperfettamente sicuro che sua figlia rimarrebbe una donna onesta.Era questo, nella sua anima, un punto che non aveva maiapprofondito, una certezza istintiva. Pensando a questa fiduciaassurda e naturale, che si accordava così male coll'esperienza ecolle idee di Montessuy sulle donne, ella sorrise con unamalinconica ironia. E ammirava maggiormente suo padre, tropposaggio per crearsi una saggezza importuna.
Dopo tutto, non l'aveva cosìmale maritata, a giudicare il matrimonio per quello che è nellealte sfere. Suo marito ne valeva bene un altro. Era diventatopienamente sopportabile. Di tutto quanto essa leggeva nelle ceneri,alla luce velata delle lampade, di tutti i suoi ricordi, quellodella vita coniugale era il più sbiadito. Ne ritrovava alcunitratti isolati, d'una precisione penosa, alcune immagini assurde,un'impressione vaga e fastidiosa. Quel tempo aveva durato poco enon lasciava niente dietro di sè. Dopo sei anni, non si ricordavanemmeno più bene come avesse ripreso la sua libertà, tanto laconquista n'era stata pronta e facile, su quel marito freddo,malaticcio, egoista e sgarbato, su quell'uomo inaridito, ingiallitonegli affari e nella politica, laborioso, ambizioso, mediocre. Egliamava le donne soltanto per vanità, e non aveva mai amato suamoglie. La separazione era stata franca, completa. E da allora,estranei l'uno all'altra, si erano grati tacitamente della loromutua liberazione, ed essa avrebbe provato dell'amicizia per lui senon l'avesse trovato malizioso, subdolo e troppo scaltronell'ottenere la sua firma quando aveva bisogno di danaro per delleimprese in cui metteva più ostentazione che avidità. All'infuori diciò, quell'uomo col quale essa pranzava, discorreva tutti i giorni,conviveva, viaggiava, non rappresentava niente per lei, non avevaimportanza.
Raccolta in se stessa, collaguancia sulla mano, davanti al focolare spento, come una curiosache consultava una sibilla, mentre rievocava quegli anni disolitudine, rivide la figura del marchese di Ré. La rivide, questa,così netta e precisa, che ne rimase sorpresa. Condotto presso dilei da suo padre che gliene aveva detto un gran bene, il marchesedi Ré le apparve grande e bello per trent'anni di trionfi e diglorie mondane. Le sue avventure gli mettevano intorno una specied'aureola. Egli aveva sedotto tre generazioni di donne e lasciatonel cuore di tutte quelle che aveva amato un imperituro ricordo. Lasua grazia virile, la sua eleganza sobria e l'abitudine di piacere,prolungavano la sua giovinezza molto al di là del termine comune.Egli notò in modo speciale la contessa Martin. Gli omaggi di questobuon intenditore la lusingarono. In questo momento se li ricordavaancora con piacere. Egli aveva un modo meraviglioso di conversare.Le piacque: essa glielo lasciò capire, e da allora egli si propose,nella sua eroica frivolezza, di chiudere degnamente la sua vitafelice col possesso di questa giovane signora che apprezzava sopratutte, e che evidentemente aveva della simpatia per lui. Peraverla, sfoggiò la sua arte più sottile. Ma Teresa riuscì asfuggirgli molto facilmente.
Ella cedette, due anni dopo, aRoberto Le Ménil che l'aveva fortemente desiderata, con tuttol'ardore della sua giovinezza, tutta la semplicità dell'anima sua.Ella si diceva: «Mi sono data a lui, perchè mi amava.» Era laverità. Ed era pur vero che un istinto sordo e possente l'avevaspinta, ed essa aveva obbedito alle forze oscure di tutto il suoessere. Ma non era dipeso da lei; quel che proveniva dalla suavolontà e dalla sua coscienza, era d'aver creduto, consentito,voluto, un affetto vero. Aveva ceduto appena s'era vista amata sinoalla sofferenza. S'era data subito, con semplicità. Egli credetteche si fosse data leggermente: s'ingannava. Aveva sentito losgomento dell'irreparabile, e quella specie di vergogna per averead un tratto qualcosa da nascondere. Tutto quello che era statosusurrato davanti a lei intorno alle donne che hanno un amante, letornò a ronzare agli orecchi ardenti. Ma, fiera e delicata com'era,nella perfezione del suo gusto, ebbe cura di nascondere il valoredel dono che faceva, e di non dir nulla che potesse impegnare ilsuo amico al di là dei suoi sentimenti. Egli non sospettò quelmalessere morale, che del resto durò appena pochi giorni, e sidileguò in una perfetta tranquillità. Dopo tre anni, non aveva darimproverarsi per quella sua condotta innocente e naturale. Nonavendo fatto torto a nessuno, non provava rimorsi. Era contenta:quella relazione era ancora quanto vi fosse di meglio nella vita.Amava, ed era amata. Certo: non aveva provato l'ebbrezza chesognava: ma si prova mai, nella vita? Era l'amica d'un buono edonesto giovane, molto apprezzato dalle donne, molto ricercato insocietà, che passava per sdegnoso e difficile, e che le dimostravaun vero affetto. Il piacere che ella gli dava e la gioia d'esserbella per lui, la tenevano avvinta a quest'amico. Egli le rendevala vita, non già sempre deliziosa, ma molto facile a sopportare, e,in certi momenti, veramente gradevole.
Quello che non avevaindovinato nella sua solitudine, malgrado l'avvertimento del suomalessere vago e delle tristezze senza motivo, la sua naturaintima, il suo temperamento, la sua vera vocazione, egli glieliaveva rivelati: si conobbe, conoscendolo. Fu uno stupore felice. Laloro simpatia reciproca non era nell'intelletto nè nell'anima: essaaveva per lui un gusto semplice che non si esauriva troppo infretta. E, in quel momento stesso, si compiaceva all'idea diritrovarlo, l'indomani, nel piccolo appartamento di via Spontini,in cui si vedevano da tre anni. Fu con una piccola scossa del capoassai violenta, con un alzar di spalle assai più brusco di quel chenon si potesse aspettare da questa squisita signora, che, solaall'angolo del fuoco ormai estinto, disse tra sè: «Ecco: ho bisognod'amore, io!

 Capitolo

2


Era quasi buio, quandouscirono dal mezzanino di via Spontini. Roberto Le Ménil fece segnoad un vetturino che passava; e, gettando sulla bestia e sull'uomouno sguardo inquieto, salì con Teresa nella carrozza. L'uno control'altra, correvano fra ombre vaghe, solcate da luci brusche,attraverso la città fantasma, avendo nell'anima soltanto delleimpressioni dolci e languenti, come quei chiarori che venivano asmorzarsi sui vetri annebbiati. Tutto, al di fuori, sembrava loroconfuso e fuggente, e sentivano nell'anima un vuoto dolcissimo. Lavettura arrivò vicino al Ponte Nuovo, sul Lungo Senna, agliAugustins.
Discesero. Un freddo seccoravvivava quel tempo grigio di gennaio. Teresa aspirògiocondamente, sotto la veletta, i soffii che, attraversando ilfiume, spazzavano rasente il suolo una polvere acre e bianca comeil sale. Era contenta di andare libera fra le cose sconosciute. Lepiaceva vedere quel paesaggio di pietre, avvolto nel chiaroredebole e profondo dell'aria; camminare in fretta lungo l'argine incui gli alberi spiegavano la trama nera dei loro ramisull'orizzonte arrossato dai fiumi della città; guardare, china sulparapetto, lo stretto braccio della Senna che svolgeva le sue acquetragiche; gustare quella tristezza del fiume senza sponde, senzasalici nè faggi. Già, nelle lontananze del cielo, le prime stellescintillavano.
– Si direbbe – ella osservò –che il vento sta per spegnerle.
Anch'egli notò chescintillavano straordinariamente. Non pensava che fosse un indiziodi pioggia come credevano i contadini: aveva notato, al contrario,che, nove volte su dieci, lo scintillio delle stelle annunzia ilbel tempo.
Avvicinandosi al PiccoloPonte, trovarono alla loro destra delle bottegucce di ferravecchi,illuminate da lampade fumose. Essa vi corse, frugò collo sguardo lapolvere e la ruggine degli oggetti in mostra. Col suo istinto dicercatrice risvegliato, svoltò l'angolo della strada e s'avventuròfin verso una baracca di legno, nella quale, sotto le travi umidedel soffitto, pendevano dei cenci scuri. Dietro i vetri sporchi,una candela rischiarava delle casseruole, dei vasi di porcellana,un clarinetto e una corona da sposa.
Egli non riusciva a capire ilpiacere di lei:
– Ti attaccherai delsudiciume. Cosa mai può interessarti, làdentro?
– Tutto. Penso alla poverasposa la cui corona è là sotto una campana di vetro. Hanno fatto ilpranzo di nozze alla porta di Maillot. C'era nel corteo una guardiarepubblicana: ce ne sono in quasi tutti i matrimoni che si vedonoal Bosco, al sabato… Non ti commuovono, amico mio, tutti questipoveri esseri ridicoli e miserabili, che entrano a loro volta nellagrandezza del passato?
Fra tazzine fiorite, slabbratee scompagnate, essa scoprì un coltellino il cui manico d'avorioraffigurava una donna schiacciata e lunga, pettinata allaMaintenon. Lo comprò per pochi soldi: quel che l'incantava, era cheaveva la forcella. La Ménil confessò che non s'intendeva affatto dininnoli da antiquario; ma sua zia di Lannois era moltointenditrice. A Caen gli antiquari non parlavano che di lei. Essaaveva restaurato e mobiliato il suo castello in perfetto stile. Eral'antica casa di campagna di Giovanni Le Ménil, consigliere alparlamento di Rouen, nel 1779. Quella casa, che esisteva prima dilui, era menzionata in un atto del 1690, col nome di «casa dibottiglia». In una sala a pianterreno, si trovavano ancora, infondo agli armadi bianchi, sotto una grata, i libri raccolti daGiovanni Le Ménil. Sua zia di Lannois – diceva – aveva volutometterli in ordine; ma ci aveva trovato delle opere frivole, adorneda incisioni così licenziose, che era stata costretta abruciarle.
– È dunque così bestia, vostrazia? – chiese Teresa.
Da un po' di tempo, questestorie della signora di Lannois la seccavano. Il suo amico aveva inprovincia una madre, delle sorelle, delle zie; una numerosafamiglia, che essa non conosceva e che l'irritava. Egli ne parlavacon ammirazione; ciò che la urtava. S'impazientiva per i frequentisoggiorni ch'egli faceva in quella famiglia, e dai quali riportava,secondo lei, un odor di rinchiuso, delle idee meschine, deisentimenti che la ferivano. E, da parte sua, egli si stupivaingenuamente e soffriva di questaantipatia.
Egli tacque. La vista diun'osteria, i cui vetri sfavillavano attraverso le sbarre, gliricordò ad un tratto il poeta Choulette, che passava per unubbriacone. Chiese con un po' di malumore a Teresa se vedeva ancoraquesto Choulette, che le faceva delle visite in palandrana, con uncravattone rosso che gli arrivava sopra gliorecchi.
Essa rimase contrariata cheparlasse come il generale Larivière. Non gli confessò che non avevapiù visto Choulette dall'autunno scorso, e che egli la trascuravacoll'indifferenza di un uomo occupato, capriccioso, che non sicurava della vita di società.
– Ha molto ingegno, – disse –della fantasia, e un temperamento originale. Mipiace.
E poich'egli le rimproveravadi avere un gusto bizzarro, risposevivacemente:
– Io non ho un gusto, ma deigusti. Voi non li biasimate tutti, credo.
No, non la biasimava; temevasoltanto che non facesse troppo bella figura nel ricevere unartista disperato di cinquant'anni, che non si trovava a posto inuna casa rispettabile.
Ellaprotestò:
– Non è a posto in una casarispettabile, Choulette? Non sapete dunque che egli va, tutti glianni, a passare un mese in Vandea, dalla marchesa di Rieu… sì,dalla marchesa di Rieu, la cattolica, la realista lavecchiachouannereazionaria, come si dichiara lei stessa. Ma, dalmomento che Choulette v'interessa, state a sentire la sua ultimaavventura, come me l'ha raccontata Paolo Vence. Io la comprendomeglio in questa via, dove ci sono delle camiciuole e dei vasi difiori alle finestre.
«Quest'inverno, una sera chepioveva, Choulette incontrò da un liquorista, in una via di cui nonricordo il nome, ma che deve somigliare a questa per la miseria,una disgraziata ragazza, che i garzoni del liquorista avrebberodisprezzato, e che egli amò per la sua umiltà. Si chiamava Maria.Non è il suo nome: è quello che trovò sopra una targhettainchiodata sulla sua porta, in cima alla scala di una cameramobiliata dov'era andata ad alloggiare. Choulette rimase commossoper quella perfezione di povertà e d'infamia. La chiamò «sorella»,e le baciò le mani. Da quel momento, non la lascia più. La conduce,senza cappello e con un fazzoletto in testa, nei caffè del quartierlatino, dove gli studenti ricchi leggono le riviste. Le dice dellecose dolcissime. Egli piange; lei piange. Bevono; e, quando hannobevuto, si picchiano. Egli l'ama; la chiama la castissima, suacroce e sua salvezza. Essa era scalza; egli le ha dato una matassadi grossa lana e i ferri per farsi delle calze. Egli stesso mettealle scarpe di quella disgraziata dei chiodi enormi. Le insegna deiversi molto facili a capirsi. Teme di sciupare la sua bellezzamorale, levandola dall'abbiezione in cui vive in una semplicitàperfetta e in una mirabile abnegazione.
Le Ménil alzò lespalle.
– Ma è pazzo, quelloChoulette, e il signor Paolo Vence vi racconta delle belle storie!Io non sono un puritano, certamente; ma ci sono delle immoralitàche mi disgustano.
Camminavano a caso. Elladiventò pensierosa:
– Sì, lo so, la morale, ildovere!… Ma che cosa sia il dovere, il diavolo soltanto lo sa. Viassicuro che, per tre quarti del tempo, non so proprio dove stia dicasa il dovere. È come il riccio di Miss, a Joinville: passavamo lasera a cercarlo sotto i mobili; e quando l'avevamo trovato,andavamo a letto.
Secondo lui, c'era del vero,in quel che lei diceva, e più ancora che non credesse. Ci pensava,quand'era solo.
– È per questo che rimpiangoqualche volta di non esser rimasto nell'esercito. Prevedo quel chemi direte: in quel mestiere ci si abbrutisce. Senza dubbio, ma sisa esattamente quel che si deve fare; ed è già molto, nella vita.Io trovo che l'esistenza di mio zio, il generale La Briche, è unabellissima esistenza, tutta onore, e assai piacevole. Ma, adessoche il paese intero s'ingolfa nell'esercito, non ci sono nèufficiali nè soldati. Somiglia ad una stazione, alla domenica,quando gli impiegati spingono in vettura i passeggeri storditi. Miozio La Briche conosceva personalmente tutti gli ufficiali e tutti isoldati della sua brigata: ha ancora i loro nomi in un gran quadronella sua sala da pranzo. Li rilegge ogni tanto per distrarsi. Maal giorno d'oggi, come volete che un ufficiale conosca i suoiuomini?
Essa non lo ascoltava più.Guardava, all'angolo della via Galande, una venditrice di patatefritte, che, rannicchiata dietro un'intelaiatura a vetri, col visoilluminato, in mezzo a grandi ombre, da un fuoco di brace,affondava la schiumarola nella frittura bollente, ne levava deglispicchi dorati con cui riempiva un cartoccio di carta gialla dovebrillavano dei fili di paglia, mentre una ragazza coi capellirossastri, attenta, tendeva un pezzo da due soldi nella sua manorossa.
Quando la ragazza se ne fuandata col suo cartoccio, Teresa, gelosa, s'accorse che aveva fame,e volle assolutamente assaggiare quelle patatefritte.
Egli dapprimaresistè.
– Non si sa di che cosa sienofatte.
Ma poi dovette chiedere allavenditrice un cartoccio da due soldi, pregando che vi mettesse delsale.
Mentre Teresa, colla velettarialzata sul naso, mordeva gli spicchi dorati, egli la trascinavanelle stradette deserte, lontano dai fanali a gas. Si trovaronocosì ricondotti sulla riva della Senna, e videro la massa neradella Cattedrale, che s'inalzava di là dallo stretto braccio delfiume. La luna, sospesa sulla cresta merlata della cupola,inargentava il pendio del tetto.
– Notre-Dame! – diss'ella. –Guardate: è pesante come un elefante e fine come un insetto. Laluna si arrampica sopra, e la guarda con una malizia da scimmia.Non sembra la luna campagnuola di Joinville. A Joinville, ho il miosentiero, un sentiero piano, colla luna in fondo. Non c'è tutte lesere; ma ci ritorna fedelmente, piena, rossa, familiare. È unavicina di campagna, una signora dei dintorni. Le vado incontro conmolta serietà, per cortesia e per amicizia: ma questa luna diParigi, non c'è gusto a frequentarla. Non è una persona di buonacompagnia. Quante ne ha viste, da quando striscia suitetti!
Egli sorriseteneramente:
– Oh! il tuo piccolo sentiero,in cui passeggiavi sola e che dicevi di amare perchè aveva il cieloin fondo, non troppo alto, non troppo lontano, lo vedo come se cifossi!
Era al castello di Joinville,invitato da Montessuy ad una caccia, ch'egli l'aveva vista per laprima volta, che l'aveva subito amata, voluta. Fu là, una sera, sulmargine del piccolo bosco, che le aveva detto di amarla, e che essalo aveva ascoltato, muta, colla bocca dolorosa e gli occhi vagantinel vuoto.
Questo ricordo del piccolosentiero in cui passeggiava sola, in quelle notti d'autunno, locommosse, lo turbò, gli fece rivivere le ore incantevoli dei primidesideri e delle timide speranze. Cercò la mano di lei nel suomanicotto e le strinse il polso esile sotto lapelliccia.
Una ragazzina, che portavadelle violette in un cestello intrecciato di rami d'abete, indovinòdue innamorati, e venne ad offrir loro dei fiori. Egli prese unmazzolino da due soldi e l'offerse aTeresa.
Ella andava verso laCattedrale. Pensava: È una bestia enorme; una bestiadell'Apocalisse… »
All'altro lato del ponte, unafioraia, tutta rughe, barbuta, quella, grigia d'anni e di polvere,li inseguì col suo paniere carico di mimose e rose di Nizza.Teresa, che in quel momento teneva in mano le sue violette,cercando di farle scivolare nel corsetto, rispose gaiamente alleofferte della vecchia:
– Grazie; ho già quel che mioccorre.
– Si vede bene che sietegiovane! – le gridò in tono canagliesco la vecchia,allontanandosi.
Teresa comprese quasi subito,e le venne sulle labbra e all'occhio un piccolo sorriso. Passavanonell'ombra del vestibolo davanti alle figure di pietra che,allineate nelle nicchie, portavano degli scettri e dellecorone.
– Entriamo –disse.
Egli non ne aveva voglia.Provava confusamente una specie di turbamento, quasi del timore, adentrare con lei in una chiesa. Affermò che era chiusa; lo credeva,lo voleva. Ella spinse il battente, e s'inoltrò nella navataimmensa, in cui gli alberi inanimati delle colonne salivano versole alte tenebre. In fondo, si muovevano dei ceri, davanti afantasmi di preti, sotto gli ultimi gemiti degli organi chetacquero. Ella ebbe un brivido nel silenzio, edisse:
– La tristezza delle chiese,di notte, mi commuove; vi sento la grandezze delnulla.
Eglirispose:
– Eppure, noi dobbiamo crederea qualche cosa. Se non ci fosse Dio, se la nostra anima non fosseimmortale, sarebbe troppo triste.
Ella rimase per qualche tempoimmobile, sotto i velari d'ombra che pendevano dalle vôlte, poidisse:
– Mio povero amico, nonsappiamo che fare di questa vita così corta, e voi ne vorresteun'altra che non finisse mai!
Nella vettura che li ricondusse, egli disseallegramente che aveva passato una buona giornata. L'abbracciò,contento di lei e di sè. Ma Teresa non condivideva quel buon umore.Era una cosa che succedeva il più delle volte, fra loro. Gli ultimimomenti che passavano insieme erano guastati, per lei, dalpresentimento che egli non direbbe, partendo, la parola che sarebbestato necessario dire. Di solito, la lasciava bruscamente, come sein lui le cose non avessero un seguito. A ciascuna di questeseparazioni, ella aveva il sentimento confuso d'una rottura. Nesoffriva in anticipo e diventava irritabile.
Sotto gli alberi del Corsodella Regina, le prese la mano, mettendovi sopra dei piccolibaci.
– Non è vero, Teresa, che èraro amarsi come noi ci amiamo?
– Raro, non so; ma credo chemi amiate.
– Evoi?
– Anch'io viamo.
– E mi ameretesempre?
– Che nesappiamo?
E vedendo il viso del suoamico oscurarsi:
– Sareste più tranquillo, conuna donna che giurasse di non amare che voi nellavita?
Egli restava inquieto,coll'aria addolorata. Ella fu buona, e lo rassicuròinteramente:
– Lo sapete bene, amico mio,non sono una donna leggera. Non sono una scialacquatrice, come laprincipessa Seniavine.
Quasi in fondo al Corso dellaRegina, si salutarono, sotto gli alberi. Egli tenne la vettura, perfarsi condurre in Via Reale. Cenava al Circolo e andava a teatro;non aveva tempo da perdere.
Teresa tornò a casa a piedi.In vista della collina del Trocadero, che lanciava dei fuochi comeuna collana di diamanti, si ricordò la fioraia del Piccolo Ponte.Quella parola, gettata nel vento oscuro: «Si vede bene che sietegiovane!», le tornava alla memoria, non più beffarda ed allegra, mainquietante e triste. «Si vede bene che siete giovane!» – Sì, eragiovane, era amata; – e si annoiava.

Capitolo3


In mezzo alla tavola, un vasoartistico chiudeva un mazzo di fiori nel suo largo cerchio dibronzo dorato, in cui le aquile spiegavano il volo fra stelle edapi, sotto le anse massicce in forma di cornucopie. Ai lati, delleVittorie alate sostenevano le braccia fiammeggianti dei candelabri.Quell'alzata di stile Impero era stata regalata da Napoleone, nel1812, al conte Martin de l'Aisne, nonno dell'attuale conteMartin-Bellème. Martin de l'Aisne, deputato al Corpo Legislativonel 1809, fu nominato l'anno dopo membro della Commissione dellefinanze, i cui lavori assidui e segreti convenivano al suo spiritolaborioso e timido. Benchè liberale d'origine e di tendenze, eglipiacque all'imperatore per la sua assiduità e per una esattaprobità che sapeva non rendersi importuna. Per due anni, fu sottouna pioggia di favori. Nel 1813, fece parte di quella maggioranzamoderata che approvò il rapporto nel quale Lainé, dando all'Imperovacillante delle lezioni tardive, censurava ad un tempo la potenzae la sventura. Il 1° gennaio 1814, accompagnò i suoi colleghi alleTuileries. L'Imperatore fece loro un'accoglienza spaventosa. Feceuna carica a fondo nelle loro file. Violento e cupo, nell'orroredella sua forza presente e della sua caduta imminente, li investìcolla sua collera e il suo disprezzo.
Andava e veniva nelle lorofile costernate; quando, ad un tratto, afferrò a caso il conteMartin per le spalle, lo scosse, lo trascinò, gridando: «Un trono,son forse quattro pezzi di legno coperti di velluto? No! un trono èun uomo, e quest'uomo sono io! Voi avete voluto gettarmi nel fango.È forse il momento di farmi delle rimostranze, quando duecentomilacosacchi varcano le nostre frontiere? Il vostro signor Lainé è uncattivo soggetto. I panni sporchi si lavano in famiglia.» E mentreil suo furore si sfogava, sublime e triviale, egli torceva nellasua mano il bavero ricamato del deputato dell'Aisne. «Il popolo miconosce. Voi, non vi conosce affatto. Io sono l'eletto dellanazione: voi siete i delegati oscuri di un dipartimento.» Predisseloro la sorte dei Girondini. Il rumore dei suoi speroniaccompagnava gli scatti della sua voce. Il conte Martin ne rimasetremante e balbuziente, per tutto il resto della sua vita; e futremando che, tappato nella sua casa di Laon, egli chiamò i Borbonidopo la disfatta dell'imperatore. Invano le due restaurazioni, ilgoverno di Luglio e il secondo impero, coprirono di croci e dicordoni il suo petto sempre oppresso. Inalzato alle più elevatefunzioni, coperto d'onori da tre re e da un imperatore, egli sentìsempre sulla sua spalla la mano del Côrso. Morì senatore diNapoleone III, lasciando un figlio agitato dal tremitoereditario.
Questo figlio aveva sposato lasignorina Bellème, figlia del primo presidente della corte diBourges; e, con lei, le glorie politiche di una famiglia che avevadato tre ministri alla monarchia temperata. I Bellème, magistratisotto Luigi XV, rialzarono le origini giacobine dei Martin. Ilsecondo conte Martin fece parte di tutte le assemblee fino alla suamorte, avvenuta nel 1881. Carlo Martin-Bellème, suo figlio,conquistò, senza fatica, il suo seggio alla Camera. Avendo sposatola signorina Teresa Montessuy, la cui dote venne a rafforzare lasua fortuna politica, si segnalò discretamente fra quei quattro ocinque borghesi titolati e ricchi che, avendo aderito allademocrazia e alla Repubblica, furono ricevuti senza troppa cattivagrazia dai repubblicani di carriera, lusingati dall'aristocraziadei nomi e rassicurati dalla mediocrità deglispiriti.
Nella sala da pranzo, in cui,sulle porte, s'indovinava qua e là, nell'ombra, il pelo screziatodei cani d'Oudry, davanti al trionfo seminato di stelle e d'apidorate, fra le due Vittorie che reggevano dei lampadari, il conteMartin-Bellème faceva gli onori della tavola, con quella buonagrazia un po' taciturna, quella cortesia triste, ancora indicataall'Eliseo per rappresentare, di fronte ad una grande corte delNord, la Francia isolata e raccolta. Egli rivolgeva, ogni tanto,delle parole scialbe, a destra, alla signora Garain, mogliedell'ex-guardasigilli; a sinistra, alla principessa Seniavine; che,carica di brillanti, si annoiava in modo tremendo. In faccia a lui,dall'altro lato del gran vaso di fiori, la contessa Martin, avendoai fianchi il generale Larivière e Schmoll, dell'Accademia delleIscrizioni, accarezzava coi soffi del ventaglio le sue spalle finie pure. Ai due lati in semicerchio, in cui si prolungava la tavola,sedevano Montessuy, robusto, dall'occhio azzurro e il coloritovivo; una giovane cugina, signora Bellème de Saint-Nom, imbarazzatacolle sue lunghe braccia magre; il pittore Duvicquet, DanieleSalomon, Paolo Vence, il deputato Garain, il signor Bellème deSaint-Nom, un senatore sconosciuto, e Dechartre, che pranzava perla prima volta in quella casa. La conversazione, dapprima debole estentata, si rialzò, si prolungò in un mormorio confuso, sul qualedominò la voce di Garain:
– Ogni idea falsa èpericolosa. Si crede che i sognatori non facciano del male, ma cisi sbaglia: ne fanno molto. Le utopie più innocue in apparenza,esercitano realmente un'azione nefasta. Esse tendono ad ispirare ildisgusto della realtà.
– Fors'anche – disse PaoloVence – perchè la realtà è tutt'altro chebella.
L'ex-guardasigilli protestòche egli era l'uomo disposto a tutti i miglioramenti possibili. E,senza ricordare che aveva chiesto, sotto l'Impero, la soppressionedegli eserciti permanenti, e, nel 1880, la separazione della Chiesadallo Stato, dichiarò che, coerente al suo programma, restava ilservitore devoto della democrazia. La sua divisa, diceva, era:«Ordine e Progresso». Credeva realmente di averla scopertalui.
Montessuy replicò, colla suabonomia rude:
– Via, signor Garain, siatesincero. Confessate che non c'è nessuna riforma da fare, e chetutt'al più si può cambiare il colore dei francobolli. Buone ocattive, le cose sono quelle che devono essere. Sì – aggiunse – lecose sono quelle che devono essere. Dopo il 1870, la situazionefinanziaria del paese ha attraversato quattro o cinque rivoluzioni,che gli economisti non avevano previsto e che non comprendonoancora. Nella società, come nella natura, le trasformazioniavvengono dal di dentro.
In materia di governo, egliaveva delle vedute corte e nette. Fortemente attaccato al presentee poco preoccupato dell'avvenire, i socialisti non lo turbavanomolto. Senza preoccuparsi se il sole e il capitale, un giorno,dovessero estinguersi, intanto li godeva. Secondo lui, bisognavalasciarsi condurre dagli avvenimenti. Non c'erano che gliimbecilli, che resistevano alla corrente, e i pazzi che laprecedevano.
Ma il conte Martin, triste pernatura, aveva dei cupi presentimenti. Annunziava con frasi velatedelle catastrofi.
Le sue parole paurose vennero,attraverso il vaso di fiori, ad impressionare Schmoll, che cominciòa gemere ed a profetare. Spiegò che i popoli cristiani eranoincapaci, da soli e per se stessi, di uscire completamente dallabarbarie, e che, senza gli Ebrei e gli Arabi, l'Europa sarebbe oggiancora, come ai tempi delle crociate, immersa nell'ignoranza, nellamiseria, nella crudeltà.
– Il medio-evo – disse – non èfinito che nei manuali di storia, che si danno agli scolari perfalsare il loro spirito. In realtà, i barbari sono sempre barbari.La missione d'Israele è di istruire le nazioni. Fu Israele che, nelmedioevo, portò in Europa la saggezza dell'Asia. Il socialismo vifa paura. È un male cristiano, come il monachismo. E l'anarchia?Non vi riconoscete la vecchia lebbra degli Albigesi e dei Valdesi?Soltanto gli Ebrei, che istruirono e riordinarono l'Europa, possonooggi salvarla dal male evangelico da cui è divorata. Ma essi sonovenuti meno al loro dovere. Si son fatti cristiani fra i cristiani:e Dio li punisce. Egli permette che sieno esiliati e spogliati.L'antisemitismo fa dappertutto dei progressi spaventosi. In Russia,i miei correligionari sono perseguitati come delle bestie feroci.In Francia gli impieghi civili e militari sono chiusi agli ebrei:essi non possono più entrare nei circoli aristocratici. Mio nipote,il giovane Isacco Coblentz, ha dovuto rinunziare alla carrieradiplomatica, dopo aver brillantemente superato l'esamed'ammissione. Le signore di parecchi miei colleghi, quando miamoglie fa loro visita, spiegano sotto i suoi, occhi, conostentazione, dei giornali antisemiti. E credereste che il ministrodella pubblica istruzione m'ha rifiutato la croce di commendatoreche gli avevo chiesto? Ecco l'ingratitudine! ecco l'aberrazione!L'antisemitismo è la morte, comprendete bene, la morte dellaciviltà europea.
Quel piccolo uomo era un tipoche superava ogni arte. Grottesco e terribile, costernava iconvitati colla sua sincerità. La signora Martin, che si divertiva,si congratulò con lui:
– Almeno – gli disse – voidifendete i vostri correligionari; voi non siete, signor Schmoll,come una bellissima signora ebrea di mia conoscenza, che, avendoletto in un giornale che essa riceveva il fiore della societàisraelita, andò a gridare dappertutto che lainsultavano.
– Sono sicuro che voi nonsapete, signora, quanto la morale ebraica sia bella e superiorealle altre morali. Conoscete la parabola dei TreAnelli?
Questa domanda si perdette nelrumore dei dialoghi in cui s'incrociavano la politica estera, leesposizioni di pittura, gli scandali eleganti e i discorsiaccademici. Si parlò del nuovo romanzo e della prossimarappresentazione. Era una commedia: Napoleone v'entrava in unepisodio.
La conversazione volse suNapoleone, messo molte volte sul teatro e nuovamente studiato inlibri molto letti, oggetto di curiosità, personaggio alla moda, nonpiù eroe popolare, semidio della patria in stivaloni, come ai tempiin cui Norvins e Béranger, Charlet e Raffet creavano la sualeggenda; ma personaggio curioso, tipo divertente nella suaintimità vivente, figura il cui stile piaceva agli artisti, le cuiavventure interessavano gli sfaccendati.
Garain, che aveva fondato lasua fortuna politica sull'odio contro l'Impero, giudicavasinceramente che questo ritorno del gusto nazionale non era che unentusiasmo assurdo. Non vi trovava nessun pericolo e non sentivatimore. In lui la paura esplodeva improvvisa e feroce. Per ilmomento, era perfettamente tranquillo: perchè non parlò di proibirele rappresentazioni, nè di sequestrare i libri, nè di arrestare gliautori, nè di reprimer niente. Calmo e severo, non vedeva inNapoleone che il «condottiero» di Taine; che diede a Volney uncalcio nel ventre.
Ognuno, volle definire il veroNapoleone. Il conte Martin, in faccia al vaso imperiale e alleVittorie alate, parlò con rispetto di Napoleone organizzatore eamministratore, e lo esaltò come presidente del Consiglio di Stato,in cui la sua parola portava la luce cui puntioscuri.
Garain affermò che in quellesedute troppo famose, Napoleone, col pretesto di prendere una presadi tabacco, domandava ai consiglieri le loro tabacchiere d'oroornate di miniature, guernite di diamanti, che non restituiva più.Alla fine, al Consiglio non portavano più che delle tabacchiere dicorno. L'aneddoto gli era stato raccontato dallo stesso figlio diMonnier.
Montessuy apprezzava inNapoleone il sentimento dell'ordine.
– Gli piacevano le cose benfatte – disse. – È un gusto che s'èperduto.
Il pittore Duvicquet, cheaveva delle idee da pittore, era imbarazzato. Non ritrovava sullamaschera funebre portata da Sant'Elena le caratteristiche di quellabella faccia possente, che le medaglie e i busti avevanoconsacrato. Ognuno poteva constatarlo, adesso, che il bronzo diquella maschera, levato dalle soffitte, si vedeva appeso da tuttigli antiquari, in mezzo ad aquile e a sfingi di legno indorato. Esecondo lui, poichè il vero viso di Napoleone non era napoleonico,la vera anima di Napoleone poteva anche non essere napoleonica. Eraforse quella di un buon borghese: qualcuno lo aveva detto, ed eglipropendeva a crederlo. Del resto, Duvicquet, che si vantava di averfatto i ritratti più illustri del secolo, sapeva che gli uominicelebri non somigliano molto all'idea che ce nefacciamo.
Daniele Salomon fece osservareche la maschera di cui parlava Duvioquet, il calco preso sul voltoinanimato dell'imperatore e portato in Europa dal dottoreAntonmarchi, era stato per la prima volta fuso in bronzo eriprodotto per sottoscrizione sotto Luigi Filippo, nel 1833, e cheallora aveva ispirato sorpresa e diffidenza. Si sospettavaquell'italiano, farmacista da commedia, chiacchierone e affamato,d'essersi burlato del mondo. I discepoli del dottor Gall, le cuiteorie erano allora in voga, ritenevano che la maschera fossesospetta. Non vi trovavano le protuberanze del genio; e la fronte,esaminata secondo la teoria del maestro, non presentava nella suaconformazione niente di notevole.
– Precisamente – disse laprincipessa Seniavine. – Napoleone non è degno di nota che per averdato un calcio nel ventre di Volney, e per avere rubato delletabacchiere ornate da brillanti. È il signor Garain che cel'insegna.
– E ancora – aggiunse lasignora Martin – non si è ben sicuri che abbia dato quelcalcio.
– Come tutte le cose sivengono finalmente a sapere! – riprese allegramente la principessa– Napoleone non ha fatto niente: non ha nemmeno dato una pedata aVolney, e aveva la testa d'un cretino.
Il generale Larivière sentìche toccava ora a lui lanciarsi alla carica. Gettò questafrase:
– Quanto a Napoleone, la suacampagna del 1813 è molto discussa.
Il generale aveva in mente dipiacere a Garain e non aveva altre idee; tuttavia, con un po' disforzi, pervenne a formulare un giudiziod'insieme:
– Napoleone ha commesso deglierrori; nella sua posizione non dovevacommetterne.
E tacque, molto rosso inviso.
La signora Martindomandò:
– E voi, signor Vence, che nepensate di Napoleone?
– Signora, io non ho moltasimpatia per i «musi da sciabola»; e i conquistatori mi sembranosemplicemente dei pazzi pericolosi. Malgrado tutto, questa figurad'Imperatore m'interessa come interessa il pubblico. Vi trovo delcarattere e della vita. Non c'è poema nè romanzo d'avventura, chevalga il Memoriale, che pure è scritto in modo ridicolo. Quello chepenso di Napoleone, se volete saperlo, si è che, nato per lagloria, vi si mostra nella semplicità brillante di un eroed'epopea. Un eroe dev'essere umano: Napoleone fuumano.
– Oh! oh! – feceroparecchi.
Ma Paolo Vencecontinuò:
– Egli era violento e leggero;e per questo profondamente umano. Intendo dire uguale a tutti.Volle con una forza singolare tutto quello che la maggioranza degliuomini stima e desidera. Ebbe egli stesso le illusioni che diede aipopoli: fu la sua forza e la sua debolezza; fu la sua bellezza.Egli credeva alla gloria. Pensava della vita e del mondo, press'apoco quello che ne pensava uno dei suoi granatieri. Conservò semprequella gravità infantile che si compiace dei giuochi delle sciabolee dei tamburi, e quella specie di candore che forma i buonisoldati. Stimava sinceramente la forza. Fu l'uomo degli uomini, lacarne della carne umana. Non ebbe un pensiero che non si traducessein azione, e tutte le sue azioni furono grandi e comuni. È questavolgare grandezza che forma gli eroi; e Napoleone fu l'eroeperfetto. Il suo cervello non andò mai di là dalla sua mano, quellamano piccola e bella che sconvolse il mondo. Egli non ebbe per unsolo momento il desiderio di ciò che non potevaraggiungere.
– Allora, secondo voi., –disse Garain – non è un genio intellettuale. Sono del vostroparere.
– Certamente – riprese Vence –egli aveva il genio che occorre per volteggiare brillantemente nelcirco civile e militare del mondo. Ma non aveva il geniospeculativo. Questo genio è un altro paio di maniche, come diceBuffon. Noi possediamo la raccolta dei suoi scritti e delle sueparole. Lo stile ha il movimento e l'immagine. E in quell'ammassodi pensieri non si trova una curiosità filosofica, nessunapreoccupazione dell'inconoscibile, non un'inquietudine del misteroche avvolge il destino. A Sant'Elena, quando parla di Dio edell'anima, sembra uno scolaretto quattordicenne. Gettata nelmondo, la sua anima si trovò pari al mondo e lo abbracciò tutto;niente di quell'anima andò a perdersi nell'infinito. Limitò allaterra il suo sogno possente della vita. Nella sua puerilitàterribile e impressionante, credette che un uomo potesse esseregrande, e questa convinzione infantile non lo abbandonò nemmeno coltempo e la sventura. La sua giovinezza, o piuttosto la sua sublimeadolescenza, durò quanto lui, perchè i giorni della sua vita nons'erano aggiunti gli uni agli altri per formare una maturitàcosciente. È la condizione prodigiosa degli uomini d'azione. Essisono tutti interi nel momento in cui vivono, e il loro genio siconcentra in un punto. Si rinnovano perennemente, e non siprolungano. Le ore della loro esistenza non sono collegate fra loroda una catena di meditazioni gravi e disinteressate. Essi noncontinuano a vivere; si succedono in un seguito d'azioni. Perciòmancano di vita interiore. Questo difetto è particolarmentesensibile in Napoleone, che non visse mai dentro di sè. Da ciòquella leggerezza di carattere che gli fece sopportare facilmenteil peso enorme dei suoi mali e dei suoi errori. La sua anima semprenuova, rinasceva ogni mattino. Ebbe più degli altri la capacitàdella distrazione. Il primo giorno che vide il sole sorgere sul suoscoglio funebre di Sant'Elena, saltò da letto fischiando un'aria diromanza. Era la pace di un'anima superiore alla fortuna, erasopratutto la leggerezza di uno spirito pronto a rinascere. Vivevaesteriormente.
Garain., che non amava troppoquesta ingegnosa piega di spirito e di linguaggio, volle affrettarela conclusione:
– In una parola, – disse –c'era del mostro in quell'uomo.
– I mostri non esistono –replicò Paolo Vence. – E gli uomini che passano per dei mostri,ispirano l'orrore. Napoleone fu amato da tutto un popolo. Fu la suaforza, di sollevare dietro i suoi passi l'amore degli uomini. Lagioia dei suoi soldati era di morire perlui.
La contessa Martin avrebbevoluto che Dechartre dicesse pure il suo parere. Ma egli si schermìcon una specie di sgomento.
– Conoscete – disse Schmoll –la parabola dei Tre Anelli, ispirazione sublime d'un ebreoportoghese?
Garain, pur felicitando PaoloVence dei suoi brillanti paradossi, rimpiangeva che lo spirito siesercitasse così a spese della morale e dellagiustizia.
– C'è un principiofondamentale; – disse – ed è che gli uomini devono essere giudicatidalle loro azioni.
– E le donne? – chiesebruscamente la principessa Seniavine – le giudicate voi secondo leloro azioni? E come potete sapere quello chefanno?
Il suono delle voci simescolava al tintinnio chiaro dell'argenteria. Un'aria calda,aggravata da vapori, bagnava la sala. Le rose, come appesantite, sisfogliavano sulla tovaglia. I pensieri salivano più ardenti aicervelli.
Il generale Larivière si misea sognare.
– Quando m'avranno tagliatol'orecchio – disse alla sua vicina – andrò a vivere a Tours, acoltivare dei fiori.
E si vantò d'essere un buongiardiniere. Avevano dato il suo nome ad una rosa, ed egli ne eralusingato.
Schmoll domandò ancora seconoscevano la parabola dei Tre Anelli.
Intanto la principessastuzzicava il deputato.
– Non sapete dunque, signorGarain, che le stesse cose possono farsi per motivi bendifferenti?
Montessuy non le diedetorto.
– È ben vero quello che dite,signora, che le azioni non provano niente. Questo pensiero colpiscein un episodio della vita di don Giovanni, che non è statoconosciuto ne da Molière, nè da Mozart, e che è rivelato da unaleggenda inglese che m'ha insegnato il mio amico James Lovell, diLondra. Essa narra che il grande seduttore perdette il suo tempocon tre donne. Una di loro era una buona borghese, che amava suomarito; l'altra una religiosa, che non consentì a violare i suoivoti. La terza, che aveva da molto tempo condotto una vitadissoluta, diventata brutta, faceva la serva in un bugigattoloqualunque. Dopo tutto quello che aveva fatto, dopo tutto quello chevedeva, l'amore non l'interessava più. Queste tre donne tennero lastessa condotta per ragioni ben differenti. Un'azione non provaniente per se stessa. È l'insieme delle azioni, il loro peso, laloro somma, che forma il valore d'un essereumano.
– Alcune nostre azioni – dissela signora Martin – hanno il nostro aspetto, il nostro viso: sonofiglie nostre. Altre invece non ci somiglianoaffatto.
Si alzò e prese il braccio delgenerale.
Passando in salotto abraccetto di Garain, la principessa disse:
– Ha ragione, Teresa… Dellealtre non ci somigliano affatto. Sono come delle piccole negre chesi sono avute dormendo.
Le ninfe degli arazzisorridevano vanamente, nella loro freschezza appassita, agli ospitiche non le vedevano.
La signora Martin servì ilcaffè insieme alla sua giovane cugina, signora Bellème diSaint-Nom. Fece a Paolo Vence dei complimenti per quello che avevadetto a tavola.
– Avete parlato di Napoleonecon una libertà di spirito che è assai rara nelle conversazioni cheascolto. Avevo notato che i bambini, se sono molto belli, hannol'aria, quando fanno il broncio, di Napoleone la sera di Waterloo.Voi m'avete fatto sentire le ragioni molto profonde di questasomiglianza.
Poi, voltandosi versoDechartre:
– E voi, amateNapoleone?
– Signora, io non amo laRivoluzione. E Napoleone, è la Rivoluzione in stivaloni dasoldato.
– Perchè non lo avete detto,signor Dechartre, durante il pranzo? Ma capisco: voi vi degnate diavere dello spirito soltanto negli angoliappartati.
Il conte Martin-Bellèmecondusse gli uomini nel salotto da fumo. Paolo Vence rimase solocolle signore: La principessa Seniavine gli chiese se aveva finitoil suo romanzo e qual'era il soggetto. Era uno studio, in cui eglitentava di raggiungere quella verità formata da un seguirsi logicodi verosimiglianze che, aggiuntele une alle altre, assumonol'aspetto dell'evidenza.
– In questo modo – egli disse– il romanzo acquista una forza morale che, nella sua pesantefrivolezza, la storia non ha avuto mai.
Ella volle sapere se era unlibro adatto per le signore, e lo scrittore disse dino.
– Avete torto, signor Vence,di non scrivere per le signore. È tutto quello di meglio che unuomo superiore può fare per loro.
E poich'egli voleva saperecome avesse quell'idea:
– Perchè – rispose – vedotutte le donne intelligenti prendere degli imbecilli. – Che leannoiano…
– Senza dubbio. Ma gli uominisuperiori le annoierebbero di più. Avrebbero maggiori risorse perriuscirvi… Ma raccontatemi il soggetto del vostroromanzo.
– Ci teneteproprio?
– Io non tengo aniente.
– Ebbene! ecco: è uno studiodi costumi popolari, la storia di un giovane operaio sobrio ecasto, bello come una fanciulla, con un'anima da vergine, un'animachiusa. È cesellatore e lavora bene. La sera, accanto a sua madre,che ama, egli studia; legge dei libri. Nel suo spirito semplice enudo, le idee penetrano come delle palle in un muro. Egli ha pochibisogni; non ha le passioni nè i vizi che ci attaccanoall'esistenza. È solitario e puro. Dotato di forti virtù, ne provaorgoglio. Vive in mezzo a dei miserabili bruti. Vede soffrire. Hadella devozione senza umanità; quella carità fredda che si chiamaaltruismo; non è umano, perchè non èsensuale.
– Ah! Bisogna essere sensuale,per essere umano?
– Certamente, signora. Lapietà è nelle viscere, come la tenerezza è sulla pelle. Egli non èabbastanza intelligente per dubitare. È un credente: crede quelloche ha letto. Ed ha letto che per realizzare la felicità universalebastava distruggere la società. La sete del martirio lo divora. Unamattina, dopo avere baciato sua madre, esce; va ad appostare ildeputato socialista del suo collegio, lo vede, si getta sopra dilui e gli pianta un bulino nel ventre, gridando «Viva l'anarchia!».Lo arrestano, lo misurano, lo fotografano, lo interrogano, logiudicano, lo condannano a morte e lo ghigliottinano. Ecco il mioromanzo.
– Non sarà molto divertente –disse la principessa. – Ma non è colpa vostra: i vostri anarchicisono altrettanto timidi e moderati quanto tutti gli altri Francesi.I Russi, quando ci si mettono, hanno assai più audacia e piùfantasia.
La contessa Martin venne achiedere a Paolo Vence se conosceva quel signore molto mellifluo,che non diceva niente e girava intorno a sè i suoi sguardi da canesperduto. Lo aveva invitato suo marito; essa non sapeva nè il suonome, nè niente.
Paolo Vence poteva diresoltanto che era un senatore. Lo aveva visto, un giorno, per caso,nel palazzo del Luxembourg, nella galleria che serve da bibliotecaai senatori.
– Ero andato là per esaminarela cupola in cui Delacroix ha dipinto, sopra uno sfondo di mirtiazzurrognoli, gli eroi ed i savi dell'antichità. Aveva questastessa aria povera e meschina; si scaldava. Mandava un odore dipanni fradici. Discorreva con dei vecchi colleghi, e diceva,fregandosi le mani: «Per me, quello che prova che la Repubblica èil migliore dei governi, è il fatto che, nel 1871, ha potutofucilare in una settimana, sessantamila insorti, senza diventareimpopolare. Dopo una simile repressione, qualunque altro regimesarebbe stato impossibile».
– Ma allora è un pessimosoggetto – disse la signora Martin. – Ed io che provavo pietà perlui, vedendolo così timido e cosìimbarazzato!
La signora Garain, col mentomollemente chinato, sul petto, sonnecchiava nella pace della suaanima casalinga, e pensava al suo orto sul poggio della Loira, incui venivano a salutarla i musicanti delpaese.
Giuseppe Schmoll e il generaleLarivière uscirono dal salotto dei fumatori, coll'occhio ancorascintillante per i discorsi grassi che avevano fatto. Il generalesi sedette fra la principessa Seniavine e la signoraMartin.
– Ho incontrato stamattina alBosco la baronessa Warburg, che cavalcava una bestia superba. M'hadetto: «Generale, come fate dunque per avere sempre dei beicavalli?» Le ho risposto: «Signora, per avere dei bei cavalli,bisogna essere o molto ricco, o moltofurbo.»
Era così soddisfatto di questarisposta, che la ripetè due volte, strizzandol'occhio.
Paolo Vence si avvicinò allacontessa Martin:
– Ho saputo il nome delsenatore: si chiama Loyer, è vice-presidente d'un gruppo, e autored'un libro di propaganda intitolato:Il Delitto del 2Dicembre.
Il generale continuò:
– Faceva un tempo da cani. Misono rifugiato sotto la tettoia. C'era Le Ménil. Ero di cattivoumore; ed egli, in cuor suo, si rideva di me: l'ho capito. Eglis'immagina, perchè sono generale, che debba amare il vento, lagrandine e la neve. È assurdo! M'ha detto che il cattivo tempo nongli dispiaceva, e che la settimana ventura sarebbe andato allacaccia della volpe con degli amici.
Vi fu un momento di silenzio;poi il generale riprese
– Gli auguro buon divertimento, ma non lo invidio. La caccia alla volpe è tutt'altro che piacevole.
– Ma è utile – disse Montessuy.
Il generale crollò lespalle:
– La volpe non è dannosa per il pollaio che in primavera, quando ha i piccoli da nutrire.
– La volpe – replicò Montessuy– preferisce la conigliera aperta, al pollaio. È una cacciatrice difrodo che fa meno danno ai fittavoli che ai cacciatori. Io men'intendo.
Teresa, distratta, nonascoltava la principessa che le parlava.Pensava:
«Non m'ha nemmeno avvisato chese n'andava!»
– A che pensate,cara?
– A niented'interessante.

Capitolo4


Nella cameretta oscura,silenziosa, soffocata da tende, portiere, cuscini, pelli d'orso etappeti orientali, le spade, ai bagliori del fuoco ravvivato,scintillavano sulla tappezzeria delle pareti, fra i cartoni di tiroa bersaglio e gli sbiaditi orpelli delle vesti di tre inverni. Unostipo di legno di rosa era sormontato da una coppa d'argento, unpremio vinto da qualche società sportiva. Sulle lastre diporcellana dipinta del tavolinetto, un vaso di cristallo ornato difregi in bronzo dorato, portava dei rami di lilla bianco; e da ogniparte delle luci palpitavano nell'ombra calda. Teresa e Roberto,cogli occhi abituati all'oscurità, si muovevano facilmente traquegli oggetti familiari. Egli accese una sigaretta, mentr'ellariannodava i suoi capelli, in piedi, colla schiena verso il fuoco,davanti allo specchio in cui si vedeva appena. Ma non volevalampade nè candele. Prendeva le spille nella piccola coppa di vetrodi Boemia che era sulla tavola, a portata di mano, da tre anni;Egli la guardava passare rapidamente, nelle onde d'oro fulvo dellasua capigliatura, le dita luminose, mentre il viso, duro eabbronzato dall'ombra, prendeva un'espressione misteriosa, quasiinquietante. Ella non parlava.
Ledisse:
– Sei ancora in collera,cara?
E, insistendo perchèrispondesse, perchè dicesse qualcosa:
– Che volete che dica, amicomio? Non posso che ripetere quel che vi ho detto venendo. Trovostrano che debba essere informata dei vostri progetti dal generaleLarivière.
Egli sapeva bene ch'era ancorairritata, ch'era rimasta vicino a lui fredda e contrariata, senzal'abbandono che di solito la rendeva così deliziosa. Ma finse dicredere che si trattasse di un piccolo broncio che stava perfinire.
– Mia cara, vi ho già spiegatola cosa. V'ho detto e vi ripeto che; quando ho incontratoLarivière, avevo ricevuto proprio allora una lettera di Caumont chemi ricordava la mia promessa d'andare a cacciare la volpe nel suobosco, e gli avevo risposto a volta di corriere. Contavo diavvertirvi oggi. Mi dispiace che l'abbia fatto prima il generaleLarivière, ma la cosa non ha importanza.
Colle braccia alzate ad ansasulla testa, Teresa voltò su lui uno sguardo tranquillo, ch'eglinon comprese.
– Allorapartite?
– La settimana prossima,martedì o mercoledì. Resterò assente dieci giorni almassimo.
Ella si metteva il cappellinodi lontra, sul quale era appuntato un rametto divischio.
– È proprio una cosa che nonpotete rimandare?
– Oh, no! La pelle di volpenon varrebbe più niente fra un mese. Eppoi Caumont ha invitato deibuoni amici ai quali la mia assenzadispiacerebbe.
Appuntandosi il cappello sullatesta con un lungo spillo, ella corrugò lesopracciglia.
– Questa caccia è propriomolto interessante?
– Sì, interessantissima,perchè la volpe ha delle astuzie che bisogna sventare.L'intelligenza di quegli animali è veramente straordinaria. Hoosservato, la notte, delle volpi che davano la caccia ai conigli.Avevano organizzato una vera battuta, con i loro battitori. Viassicuro che non è facile sloggiare una volpe dalla sua tana.Queste partite di caccia sono molto allegre. Caumont haun'eccellente cantina. Per conto mio m'importa poco, ma essa èmolto apprezzata. Figuratevi che uno dei suoi coloni è venuto adirgli che aveva imparato da uno stregone il segreto di acchiapparela volpe, pronunziando delle parole magiche. Non mi servirò certo,di quest'arma; e m'impegno di portarvi una mezza dozzina di bellepelli.
– Che cosa volete che me nefaccia?
– Se ne fanno dei graziositappeti.
– Ah!… E caccerete per ottogiorni?
– Non tanto. Trovandomi vicinoa Sémanville, andrò a passare due giorni da mia zia di Lannoix.M'aspetta. L'anno scorso, a quest'epoca, c'era là una bellacompagnia. C'erano con lei le sue due figlie e le sue tre nipoti,coi loro mariti; sono tutt'e cinque belle, allegre, graziose einappuntabili. Le troverò certamente, ai primi del mese prossimo,tutte riunite per la festa di mia zia, e mi fermerò due giorni aSémanville.
– Ma, amico mio, restatecipure quanto vi pare e piace. Mi dispiacerebbe molto che dovesteabbreviare un soggiorno così piacevole, per colpamia.
– Ma voi,Teresa?
– Quanto a me, amico mio, mela caverò in qualche modo.
Il fuoco s'affievoliva, el'ombra s'addensava fra loro. Ella disse in tono fantastico, e comein una vaga attesa:
– Veramente, non è troppoprudente lasciare una donna sola.
Si avvicinò a lei, cercando ilsuo sguardo nell'oscurità, e le prese lamano.
– Miami?
– Oh! vi assicuro che non amonessun altro… Ma…
– Che vuoldire?
– Niente. Penso… penso chesiamo separati tutta l'estate; che, d'inverno, vivete colla vostrafamiglia e coi vostri amici la metà del tempo; e che, se ci si deveveder così poco, non val la pena di vederciaffatto.
Egli accese le candele. Il suoviso s'illuminò duro e franco. La guardava con una fiducia chederivava meno dalla fatuità comune a tutti gli amanti, che non daun bisogno di dignità regolare che era in lui. Credeva in lei perun pregiudizio d'educazione forte e d'intelligenzasemplice.
– Teresa, io t'amo, e tu miami; lo so. Perchè vuoi tormentarmi? Qualche volta hai dellecattiverie, delle durezze veramentepenose.
Ella scosse bruscamente la suatestolina.
– Che volete? Io sono aspra eostinata. L'ho nel sangue: deriva da mio padre. Voi conosceteJoinville, avete visto il castello, i soffitti di Lebrun, letappezzerie fatte al Maincy da Fouquet; i giardini disegnati suipiani di Le Nôtre, il parco, le cacce, – dicevate che in Francianon ce n'erano di più belle; – ma non avete visto il gabinetto dalavoro di mio padre: una tavola di legno bianco e una scansia dimogano. Tutto esce di lì, amico mio. Su quel tavolo, davanti aquegli scaffali, mio padre ha scritto delle cifre per quarant'anni,prima in una piccola camera, in piazza della Bastiglia, poinell'appartamento di Via di Maubeuge, dove sono nata. In queitempi, non eravamo ancora molto ricchi. Ho visto il piccolo salottodi damasco rosso col quale mio padre ha messo su casa, e che miamadre amava tanto. Sono una figlia di borghesi arricchiti, o diconquistatori, che è la stessa cosa. Siamo della gente interessata,noi. Mio padre ha voluto guadagnar del danaro, possedere quello chesi paga, cioè tutto. Io voglio guadagnare e conservare… che cosa?…non lo so… la felicità che provo… e che mi manca. Sono cupida amodo mio, avida di sogni, d'illusioni. Oh! so bene che tutto questonon vale la pena che ci procuriamo; ma è la pena in sè, che vale,perchè la mia pena, sono io, è la mia vita. Sono avida nel goderequello che amo, quello che ho creduto di amare. Non voglio perdere.Sono come papà: reclamo quel che mi viene.Eppoi…
Abbassò lavoce:
– Eppoi, ho dei sensi, io.Ecco, mio caro! V'annoio: che farci?… Non bisognavaprendermi.
Questa vivacità di linguaggio,a cui egli non era abituato, gli avvelenava il piacere. Ma non sene allarmava. Sensibile a tutto quello che essa faceva, non l'eraaltrettanto a ciò che diceva, e non dava importanza alle parole,specialmente quando venivano da una donna. Essendo di poche parole,era mille miglia lontano dall'immaginarsi che le parole sonoanch'esse delle azioni.
Benchè la amasse, o piuttostoperchè l'amava con forza e con fiducia, credeva dover resistere adelle fantasie che giudicava assurde. Gli riusciva far da padronequando non la contrariava; e, ingenuamente, lo facevasempre.
– Sai bene, Teresa, che io nonvoglio contrariarti in niente. Non fare dunque dei capricci conme.
– E perchè non ne farei convoi? Se mi sono lasciata prendere… o data, non è stato certo perragione, nè per dovere. È stato per…capriccio.
Egli la guardò, sorpreso eaddolorato.
– La parola vi rincresce,amico mio? Mettiamo pure che sia stato per amore. E veramente èstato di cuore e perchè sentivo che mi amavate. Ma l'amoredev'essere un piacere, e se io non ci trovo la soddisfazione diquello che chiamate i miei capricci, e di quello che è il miodesiderio, la mia vita, il mio amore stesso, non ne voglio piùsapere, preferisco viver da sola. Siete straordinario! I mieicapricci! C'è forse qualche altra cosa nella vita? La vostra cacciaalla volpe, non è forse un capriccio?
Roberto rispose, con grandesincerità:
– Se non l'avessi promesso, tigiuro, Teresa, che ti sacrificherei molto volentieri questo piccolopiacere.
Ella sentì che diceva laverità. Lo sapeva molto preciso nel mantenere i suoi impegni neipiù piccoli affari. Sempre legato, dalla sua parola, portava nellerelazioni mondane una minuziosa esattezza di coscienza. Sentì che,insistendo, avrebbe ottenuto di non farlo partire. Ma era troppotardi: non voleva più vincere. Non cercava ormai che il piacereviolento di perdere. Fece mostra di prender sul serio quellaragione, che trovava assai frivola:
– Ah! se avetepromesso!
E cedette,perfidamente.
Dapprima sorpreso, egli sicompiacque ben presto dentro di sè di averle fatto capir laragione. L'afferrò per la vita, le mise sulla nuca e sulle palpebredei piccoli baci puri come una ricompensa. Mostrò una certa premuraa consacrarle le sue giornate di Parigi.
– Noi possiamo, mia cara,rivederci tre o quattro volte prima della mia partenza, e piùancora, se vuoi. Ti aspetterò da me qualunque momento che vorraivenire. Vuoi domani?
Ella si prese la soddisfazionedi non poter tornare, nè all'indomani, nè gli altri giorni. Conmolta dolcezza, spiegava gli impedimenti. L'ostacolo sembravadapprima leggero: delle visite da restituire, un vestito daprovare, una vendita di beneficenza, delle esposizioni, dellestoffe che voleva vedere, e forse comprare. Esaminandole, ledifficoltà s'ingrandirono, si accumularono: le visite non potevanorinviarsi; non era una vendita, ma tre vendite a cui doveva andare;le esposizioni stavano per chiudersi, gli arazzi partivano perl'America. Insomma, era impossibile che lo rivedesse prima dellasua partenza.
Siccome era nel suo caratteredi dare importanza a delle ragioni di questo genere, egli nons'accorse che per Teresa non era naturale di sollevarle. Avvolto inquel tessuto leggero di obblighi mondani, non resistè, rimase mutoe addolorato.
Col braccio sinistro, alzatosul capo, ella sollevò la portiera, posò la mano destra sullachiave della porta; e là, tra le grandi tende di tela orientalecolor zaffiro e rubino, la testa voltata verso l'amica cheabbandonava, gli disse, in tono un po' canzonatorio e quasitragico:
– Addio, Roberto! divertitevimolto. Le mie visite, i miei giri, i vostri piccoli viaggi, è robada poco. È vero, però, che la fatalità è formata da questepiccolezze. Addio!
Uscì. Egli avrebbe volutoaccompagnarla, ma aveva scrupolo a farsi vedere per la strada conlei, quand'ella non lo costringevaassolutamente.
Fuori, Teresa si sentì ad untratto sola, sola al mondo, senza gioia e senza dolore. Tornò acasa a piedi, come al solito. Era notte, l'aria era gelata etranquilla. Ma le grandi strade che seguiva in un'ombra costellatadi luci, l'avvolgevano in quel tepore delle città, così dolce, eche si prova anche nel freddo dell'inverno. Camminava tra file dicasette, di chioschi, e di bicocche, resti dei tempi campestrid'Auteuil, interrotte qua e là da alte case che mostravano comeannoiate le loro pietre addentellate. Quelle botteghe di piccoliesercenti, quelle finestre monotone, non le dicevano nulla. Eppuresi sentiva avvolta nel mistero dell'amicizia delle cose, e lesembrava che le pietre, le porte delle case, quelle luci, là inalto, dietro i vetri, le fossero favorevoli. Era sola e volevaesser sola.
Quei passi che faceva tra ledue file di case, che le erano familiari, quei passi che avevafatto tante volte, oggi le sembravano senza ritorno. Perchè? Checos'era successo di nuovo, in quella giornata? Appena unacontrarietà, nemmeno una lite. Eppure, quella giornata aveva unsapore scialbo, strano, persistente, un gusto sconosciuto che nonsvanirebbe più. Cos'era successo? Niente. E questo nientecancellava tutto. Essa provava una specie d'oscura certezza che nonsarebbe mai più tornata in quella camera, che fino a pochi minutiprima racchiudeva quel che c'era di più segreto e di più caro nellasua vita. Era un legame serio. S'era data colla gravità d'una gioianecessaria. Fatta per l'amore, e molto ragionevole, non avevaperduto, nell'abbandono della sua persona, quell'istinto diriflessione, quel bisogno di sicurezza che erano in lei moltoforti. Non aveva scelto: difficilmente si sceglie. Nemmeno s'eralasciata prendere a caso e di sorpresa. Aveva fatto quello cheaveva voluto, per quanto è possibile fare ciò che si vuole, incerte cose. Non rimpiangeva niente. Erano stati, per lei quello chesi doveva essere: bisognava giustamente riconoscerlo, verso un uomomolto ricercato in società e che aveva tutte le donne che voleva.Eppure sentiva, malgrado tutto, che era finita, e che ciò eranaturale. Pensava con fredda malinconia: «Tre anni della mia vita,un onest'uomo che mi ama e che io amavo, poichè lo amavo davvero.Era necessario, perchè mi dessi a lui. Non sono una donna perduta.»Ma non poteva più ritrovare i sentimenti di quel tempo, gl'impulsidella sua anima e della sua carne quando s'era data. Si ricordavadelle circostanze piccole e affatto insignificanti: i fiori dellatappezzeria e i quadri della camera; era una camera d'albergo.Ricordava le parole un po' ridicole e quasi commoventi ch'egli leaveva detto. Ma le sembrava che l'avventura fosse successa adun'altra donna, ad un'estranea ch'essa non amava molto, che noncomprendeva bene.
E quel ch'era avvenuto pocofa, quelle carezze che recava ancor sopra di sè, tutto questo eralontano. Il letto, i lilla nel vaso di cristallo, la piccola coppadi vetro in cui trovava i suoi spilli: vedeva tutto come attraversouna finestra, quando si passa per la via. Era senza amarezza, edanche senza tristezza. Non aveva niente da perdonare, ahimè!Quell'assenza d'una settimana, non era un tradimento, non era unacolpa verso di lei, era niente, ed era tutto. Era la fine. Losapeva; voleva romperla; lo voleva, come la pietra che cade, vuolcadere. Era un consenso a tutte le forze segrete del suo essere edella natura. Diceva fra sè: «Io non ho motivi per amarlo meno.Forse non l'amo più? L'ho mai amato?» Non lo sapeva, e le eraindifferente saperlo.
Tre anni, durante i qualis'era data due e quattro volte per settimana. C'erano stati deimesi in cui s'erano visti tutti i giorni. Non era dunque nulla,tutto questo? Ma la vita non è gran cosa; e quel che vi si mettedentro, che miseria!
Infine, non aveva dalamentarsi. Ma era meglio farla finita. Tutte le sue riflessioni lariconducevano a questo punto. Non si trattava di una risoluzione;le risoluzioni si cambiano. Era una cosa più grave: uno statod'animo e del cuore.
Giunta sulla piazza che ha inmezzo una vasca, e ad un lato della quale si eleva una chiesa instile rustico, lasciando vedere la sua campana in un'arcata apertasul cielo, si ricordò il mazzo di violette da due soldi ch'egli leaveva offerto una sera, sul Piccolo Ponte, vicino a Notre-Dame.Quel giorno, forse, s'erano amati con un abbandono e una fantasiamaggiori del solito. Il suo cuore s'intenerì a quel ricordo. Cercò,ma non trovò niente. Il mazzolino restava solo, povero scheletrinodi fiori, nel suo ricordo.
Mentre camminavafantasticando, dei passanti, ingannati dalla semplicità del suovestito, la seguivano. Uno di loro le fece delle proposte: una cenain un gabinetto particolare e il teatro. Dentro di sè, ne fulusingata e distratta. Non era affatto sconvolta: non si trattavadi una crisi. Pensò: «Come fanno le altre donne? Ed io che mirallegravo di non sperperare la mia vita… Per quello che vale, lavita!»
In vista della lanternaneo-ellenica del Museo delle Religioni, trovò il suolo sconvolto dalavori sotterranei. Sopra una trincea profonda, fra mucchi di terranera, di ciottoli e di pezzi di pietra, una passerella era gettata,fatta da una tavola stretta e flessibile. Vi s'era incamminata,quando vide all'estremità, davanti a lei, un uomo fermo adaspettarla. L'aveva riconosciuta e la salutava. Era Dechartre. Leparve notare, passando davanti a lui, che fosse felice diquell'incontro; lo ringraziò con un sorriso. Egli le chiese ilpermesso di far qualche passo con lei. Ed entrarono insieme in unlargo spazio pieno d'aria viva. In quel punto le alte caseindietreggiano, si staccano e scoprono una parte delcielo.
Egli le disse che l'avevariconosciuta da lontano, al ritmo della linea e dei movimenti, cheerano tutti suoi.
– I bei movimenti – aggiunse –sono la musica degli occhi.
Teresa rispose che le piacevamolto camminare; che era il suo piacere e la suasalute.
Anch'egli provava piacerenelle lunghe corse a piedi, nelle città popolose e nelle bellecampagne. Il mistero delle grandi strade lo attraeva. Amava iviaggi: benchè diventati adesso comuni e facili, conservavano perlui il loro fascino possente. Aveva visto dei giorni dorati e dellenotti trasparenti, la Grecia, l'Egitto, e il Bosforo. Ma è inItalia che tornava sempre, come alla patria dell'animasua.
– Ci vado la settimanaprossima – disse. Voglio rivedere Ravenna, addormentata fra i pinineri della riva sterile. Siete mai stata a Ravenna, signora? È unsepolcro incantato, in cui appariscono dei fantasmi scintillanti.La magia della morte è là. I mosaici di San Vitale, e dei dueSant'Apollinare, coi loro angeli barbari e le loro imperatriciaureolate, fanno provare le delizie mostruose dell'Oriente.Spogliata oggi dalle sue làmine d'argento, la tomba di GallaPlacidia è spaventevole, sotto la sua cripta luminosa e tetra.Quando si guarda da una fessura del sarcòfago, par di vedere ancorala figlia di Teodosio, seduta sulla sua seggiola d'oro, drittanella sua veste costellata di brillanti e ricamata di scenedell'Antico Testamento; il suo bel viso crudele conservato duro enero dagli aromati, e le sue mani d'ebano immobili sulle ginocchia.Per tredici secoli, conservò quella funebre maestà, finchè unragazzo, passando una candela dall'apertura della tomba, bruciò ilcorpo colla dalmatica.
La signora Martin-Bellèmechiese che cosa aveva fatto da viva quella morta, così ostinata nelsuo orgoglio.
– Due volte schiava, – disseDechartre – tornò due volte imperatrice.
– Era senza dubbio bella –disse la signora Martin. – Me l'avete fatto ben capire dalla suatomba: essa mi fa paura. Non andrete a Venezia, signor Dechartre? Osiete stanco delle gondole, dei canali fiancheggiati da palazzi edei colombi di Piazza San Marco? Vi confesso che amo ancoraVenezia, dopo esserci stata parecchievolte.
Egli le diede ragione: amavaanch'egli Venezia. Ogni volta che ci andava, da scultore diventavapittore e faceva degli studi. È l'aria, che avrebbe volutodipingere.
– Altrove – egli disse – anchea Firenze, il cielo è lontano, altissimo, molto in fondo. AVenezia, è dappertutto; accarezza la terra e l'acqua, avvolge conamore le cupole di piombo e le facciate di marmo, e lancia nellospazio iridato: le sue perle e i suoi cristalli. La bellezza diVenezia sta nel suo cielo e nelle sue donne. Le Veneziane, chedeliziose creature! e che personale! e quelle forme sottili esnelle, che si indovinano così piene, sotto lo scialle nero! Anchese di quelle donne non restasse che un osso, si ritroverebbe inquest'osso il fascino della loro squisita struttura. La domenica,in chiesa, formano dei gruppi ridenti, agitati, un insieme difianchi un po' sporgenti, di nuche eleganti, di sorrisi fioriti, disguardi infiammati. E tutto questo, s'inchina con una morbidezzafelina di giovani animali, al passaggio d'un prete dalla testa diVitelio, che, chino il mento sulla pianeta, porta il Calice,preceduto da due chierici.
Egli camminava con passoineguale, secondo le sue idee, talvolta tumultuose, talvolta lente.Ella camminava più regolarmente e tendeva a sorpassarlo. E,guardandola di profilo, le trovava l'andatura morbida e fermach'egli amava. Notava la piccola scossa che ogni tanto la sua testadava ai rametti di vischio appuntati alcappello.
Senza pensarci, subiva ilfascino di quell'incontro quasi intimo, con una giovine signoraquasi sconosciuta.
Erano arrivati al punto in cuila larga strada dispiega le sue quattro file di platani. Seguivanoil parapetto di pietra sormontato da una siepe di busso che coprefortunatamente la bruttezza delle costruzioni militari stendentisidi faccia sull'argine. Di là, s'indovinava il fiume, da quel vaporelattiginoso che, nei giorni senza nebbia, riposa sulle acque. Ilcielo era limpido. Le luci della città si mescolavano alle stelle.Al sud, brillavano i tre chiodi d'oro del Balteod'Orione.
– L'anno scorso, a Venezia,tutte le mattine, uscendo di casa, trovavo davanti alla sua porta,che era tre gradini più alta del canale, una ragazza meravigliosa,dalla testa piccola, il collo tondo e forte, il fianco armonioso.Stava là, nel sole e nel sudiciume, pura come un'anfora, inebriantecome un fiore. Sorrideva: che bocca! Il gioiello più ricco nellaluce più bella. Mi accorsi poi che quel sorriso era diretto ad ungarzone macellaio, fermo dietro di me, col paniere intesta.
All'angolo della breve stradache scende sull'argine, tra due file di giardinetti, la signoraMartin rallentò il passo.
– È vero; – disse – a Veneziale donne sono belle.
– Sono quasi tutte belle,signora. Parlo delle ragazze del popolo, delle sigaraie, dellepiccole operaie delle vetrerie. Le altre sono comedappertutto.
– Le altre, volete dire lesignore; non le amate, quelle?
– Le donne di mondo? Oh! ce nesono delle graziose. Quanto ad amarle, è un'altracosa.
– Credeteproprio?
Gli tese la mano e voltòbruscamente l'angolo della strada.

Capitolo5


Quella sera pranzava sola con suo marito. La tavola ristretta non portava nè il vaso dalle aquile d'oro, nè le Vittorie alate. I candelabri non illuminavano, sopra le corte, i cani d'Oudry. Mentre egli parlava delle cose del giorno, Teresa si sprofondava in una fantasticheria malinconica. Lesembrava di attraversare una nebbia, di andare, perduta e lontanada tutto. Era una sofferenza blanda e quasi dolce. Vedevavagamente, attraverso la bruma, la piccola camera di Via Spontinitrasportata da angeli neri sopra una delle vette dell'Himalaya. Edegli, nello sconvolgimento d'una specie di fine del mondo, erascomparso, molto semplicemente, infilandosi i guanti. Si tastò ilpolso per sentire se non avesse la febbre. Bruscamente, un colpolimpido d'argenteria sulla tavola, la risvegliò. Sentì suo maritoche diceva:
– Cara amica, Gavaut hapronunziato oggi alla Camera un magnifico discorso sulla Cassapensioni. È straordinario, come abbia migliorato le sue idee e comeadesso tocchi nel giusto. Oh! ha fatto moltoprogresso.
Ella non potè a meno disorridere.
– Ma, amico mio, Gavaut, è unpovero diavolo che non ha mai pensato ad altro che ad uscire dallamassa degli affamati e ad arrivare. Gavaut ha il cervello neigomiti… Ma lo prendono proprio sul serio, nel mondo politico?Credete pure che non è mai riuscito ad illudere nessuna donna,nemmeno sua moglie. Eppure, per dare delle illusioni di questogenere, ci vuole ben poco, ve l'assicuroio.
E bruscamenteaggiunse:
– Sapete che Miss Bell m'hainvitato a passare un mese da lei, a Fiesole? Ho accettato, eparto.
Meno sorpreso che malcontento,le chiese con chi partiva.
Ella trovò subito edisse:
– Colla signoraMarmet.
Egli non aveva niente a cheridire. La signora Marmet era una specie di dama di compagniaperfettamente onorevole, e designata in modo speciale per l'Italia,in cui suo marito, Marmet l'Etrusco, aveva fatto degli scavi nellenecropoli. Chiese soltanto:
– L'avete avvisata? E quandoavete intenzione di partire?
– La settimanaprossima.
Ebbe la furberia di nonobiettar niente per il momento, pensando che l'opposizione nonfarebbe che rafforzare un capriccio senza consistenza, e temendo didar corpo a quella idea pazzesca. Scivolòsull'argomento:
– Certo, i viaggi sono unapiacevole distrazione. Ho pensato che si potrebbe, in primavera,visitare il Caucaso, il Turchestan, il Transcaspio. Ecco un paeseinteressante e poco conosciuto. Il generale Annenkoff metterebbe anostra disposizione delle vetture, dei treni interi, sulla ferroviache ha costruito. È un mio amico; ha molta simpatia per voi. Cifornirà una scorta di cosacchi. Sarà una cosainteressante.
Si ostinava a volerla prenderedal lato della vanità, non potendo credere che non avesse l'animamondana e, come lui, spinta dall'amor proprio. Essa risposedistrattamente che sarebbe forse un viaggio piacevole. Allora eglivantò le montagne del Caucaso, le città antiche, i bazars, icostumi, le armi. Aggiunse:
– Condurremo con noi qualcheamico, la principessa Seniavine, il generale Larivière, fors'ancheVence e Le Ménil.
Essa rispose con un risolinosecco, che c'era ben tempo a scegliere gliinvitati.
Divenne attento,premuroso:
– Voi non mangiate. Viguasterete lo stomaco.
Senza credere ancora a quellapronta partenza, tuttavia n'era inquieto. Avevano ripreso ciascunola propria libertà, ma egli non amava sentirsi solo. Non si sentivaa posto che con sua moglie e colla casa in ordine. Eppoi avevadeciso di dare due o tre grandi banchetti politici durante lasessione. Vedeva il suo partito far progressi. Era il momento diaffermarsi, di comparire sfarzosamente. Disse con aria dimistero:
– Può presentarsi l'occasionein cui avremo bisogno del concorso di tutti i nostri amici. Nonseguite il corso degli avvenimenti,Teresa?
– No, amicomio.
– Mi dispiace. Sieteintelligente, avete una grande larghezza di spirito. Se avesteseguito il corso degli avvenimenti, sareste rimasta colpita dallacorrente che riconduce il paese alle idee moderate. Il paese èstanco di eccessi. Respinge gli uomini compromessi nella politicaradicale e nelle persecuzioni religiose. Bisognerà, un giorno ol'altro, rifare un ministero Casimir-Perier con degli altri uomini,e quel giorno… .
S'interruppe, perchè essa loascoltava veramente troppo poco e troppomale.
Teresa pensava, triste edelusa. Le sembrava che quella graziosa donna che, laggiù,nell'ombra calda della camera chiusa, tuffava i suoi piedi nudinella pelliccia dell'orso bruno, ed alla quale un amico dava deibaci sulla nuca, mentre essa intrecciava i capelli davanti allospecchio, non fosse lei, non fosse nemmeno una donna che conoscessemolto, nè che volesse conoscere; ma una signora i cui affari non lainteressavano. Uno spillone male appuntato nei suoi capelli, unodegli spilli della coppa di vetro di Boemia, le scivolò per ilcollo. Ebbe un brivido.
– Bisognerà pure – disseMartin-Bellème – dare tre o quattro pranzi ai nostri amicipolitici. Metteremo i vecchi radicali con della gente del nostromondo. Sarà bene trovare anche qualche bella signora. Si puòbenissimo invitare la signora Bérard de la Malle: sono due anni chenon si parla più di lei. Che ne pensate?
– Ma, amico mio, dal momentoche parto la settimana prossima… .
Egli rimasecosternato.
Passarono entrambi, muti e cupi, nel salottino incui Paolo Vence aspettava. Egli veniva spesso, la sera,familiarmente.
Teresa gli porse lamano.
– Sono ben contenta divedervi. Vi dico addio, un breve addio. Parigi è freddo e nero;questo tempo mi stanca e mi rattrista. Vado a passare sei settimanea Firenze, da Miss Bell.
Il signor Martin-Bellème alzògli occhi al cielo.
Vence domandò se non era giàstata parecchie volte in Italia.
– Tre volte. Ma non ho vistoniente. Stavolta voglio vedere, buttarmi, tuffarmi nelle cose. DaFirenze farò delle gite in Toscana, nell'Umbria. E, per finire,andrò a Venezia.
– Farete bene. Venezia è ilriposo della domenica, nella grande settimana dell'Italia creatricee divina.
– Il vostro amico Dechartrem'ha parlato con entusiasmo di Venezia, dell'aria di Venezia,seminata di perle.
– Sì, a Venezia il cielo ècolorista. A Firenze è spirituale. Un vecchio autore ha detto «Ilcielo di Firenze, leggero e sottile, nutrisce le belle idee degliuomini.» Ho vissuto delle giornate deliziose, in Toscana. Vorreiviverne delle altre.
– Venite atrovarmi.
Eglisospirò:
– I giornali, le riviste, illavoro quotidiano!…
Martin-Bellème disse chebisognava inchinarsi davanti a queste ragioni, e che si era troppofelici di leggere gli articoli e i libri di Paolo Vence, pervolerlo distrarre dal suo lavoro.
– Oh, i miei libri!… Non sidice niente, in un libro, di quel che si vorrebbe dire. Esprimersi,è impossibile!… Eh! già, colla mia penna so parlare come un altro.Ma parlare, scrivere, che pietà! È una vera miseria, quando sipensa a quei piccoli segni da cui sono formate le sillabe, leparole, le frasi. Che diventa l'idea, la bella idea, sotto queicattivi geroglifici, ad un tempo comuni e bizzarri? Che ne fa illettore, della mia pagina di scritto? Un insieme di falseinterpretazioni, di controsensi e di nonsensi. Leggere, ascoltare,è tradurre. Vi sono delle belle traduzioni, forse; ma non ce nesono di fedeli. Cosa m'importa che ammirino i miei libri, dalmomento ch'è quello che essi vi han messo, che ammirano? Ognilettore sostituisce le sue visioni alle nostre. Noi gli forniamo diche solleticare la sua immaginazione. È orribile, fornire argomentoa simili esercizi: è una professioneinfame.
– Voi scherzate – disseMartin.
– Non credo – soggiunseTeresa. – Egli riconosce che le anime sono impenetrabili alleanime, e ne soffre. Si sente solo quando pensa, solo quando scrive.Qualunque cosa si faccia, si è sempre soli al mondo. Ecco quel chevuol dire. Ha ragione. Ci si spiega sempre; non ci si comprendemai.
– Vi sono i gesti – dissePaolo Vence.
– Non vi sembra, signor Vence,che si tratti di un altro genere di geroglifici?… Datemi notiziedel signor Choulette. È un pezzo che non lovedo.
Vence rispose che Chouletteera molto occupato per il momento a riformare il terz'ordine di SanFrancesco.
– L'idea di quest'opera,signora, gli è venuta in un modo meraviglioso, un giorno che andavaa visitare Maria nella strada dove abita, dietro l'Ospedale, unastrada sempre umida, dalle case che pendono. Voi sapete che Maria èla santa e la martire che espia i peccati del popolo. Egli tirò ilcordone del campanello, ingrassato da due secoli di visitatori: Siache la martire si trovasse dal mercante di vino in cui era solitaandare, sia che fosse occupata nella sua camera, non aprì.Choulette suonò a lungo, e così forte, che la maniglia collacordicella gli restò fra le mani. Esperto nel concepire i simboli,e nel penetrare il significato occulto delle cose, comprese subitoche quel cordone non s'era staccato senza il permesso delle potenzespirituali. Stette in meditazione. La cordicella era coperta da ungrasso nero e vischioso. Se ne fece una cintura, e conobbe così cheera chiamato a ricondurre alla primitiva purezza il terz'ordine diSan Francesco. Rinunziò alla bellezza delle donne, alle deliziedella poesia, agli splendori della gloria, e studiò la vita e ladottrina del Poverello d'Assisi. Frattanto ha venduto al suoeditore un libro intitolato LeBlandizie, che racchiude, dice, ladescrizione di tutte le sorta d'amore. Egli si vanta d'esservisimostrato criminale con una certa eleganza. Ma, lungi dalcontrastare alle sue imprese mistiche, questo libro le favorisce,nel senso che, corretto da un'opera ulteriore, diventeràonestissimo ed esemplare; e perchè l'oro – anzi egli dice «gli ori»– che ha ricavato in pagamento, e che non gli avrebbero dato peruno scritto più casto, gli serviranno a compiere un pellegrinaggioad Assisi.
La signora Martin, che sidivertiva, domandò cosa ci fosse proprio di vero in questa storia.Vence rispose che non bisognava cercar disaperlo.
Confessava quasi d'essere lostorico idealista del poeta, e le avventure che raccontava non sidovevano prendere nel senso letterale egiudaico.
Certo era che Choulettepubblicava LeBlandizie, e voleva visitare lacella e la tomba di San Francesco.
– Ma allora – esclamò lasignora Martin – lo conduco in Italia. Signor Vence, cercatelo eportatemelo. Parto la settimana prossima.
Il signor Martin si scusò dinon poter fermarsi di più: bisognava che terminasse un rapporto chedoveva esser consegnato all'indomani.
La signora Martin disse che nessuno la interessavapiù di Choulette. Anche Paolo Vence lo riteneva un uomod'eccezione:
– Non è molto diverso daisanti di cui leggiamo la vita straordinaria. È sincero come loro,d'una delicatezza squisita di sentimenti e d'una violenza d'animoterribile. Se egli riesce urtante in molte sue azioni, si deve alfatto che è più debole, meno rigido, e forse più osservato davicino. Eppoi ci sono dei cattivi santi, come dei cattivi angeli:Choulette è un cattivo santo: ecco tutto! Ma i suoi poemi sono deiveri poemi spirituali, e molto più belli di quelli che fecero, inquesto genere, nel diciassettesimo secolo, i vescovi di corte ed ipoeti di teatro.
Essal'interruppe:
– Mentre ci pensa, vogliofarvi gli elogi del vostro amico Dechartre. È uno spiritobrillante.
Aggiunse:
– Forse un po' troppo chiusoin se stesso.
Vence le ricordò di averledetto che Dechartre le sarebbe piaciuto.
– Lo conosco a fondo, è unamico d'infanzia.
– Avete conosciuto la suafamiglia?
– Sì. È il figlio unico diFilippo Dechartre.
–L'architetto?…
– L'architetto che, sottoNapoleone III, restaurò tanti castelli e tante chiese in Turenna enell'Orleanese. Aveva buon gusto e abilità. Solitario e mitissimodi carattere, ebbe l'imprudenza d'attaccare Viollet-le-Duc, alloraonnipotente. Gli rimproverava di voler restaurare gli edifizisecondo il loro piano primitivo, come erano stati o avrebberodovuto essere all'origine. Filippo Dechartre voleva, al contrario,che si rispettasse tutto quello che i secoli avevano a poco a pocoaggiunto ad una chiesa, ad un'abbazia, ad un castello. Farescomparire gli anacronismi e ricondurre un edifizio alla suaprimitiva unità, gli sembrava una barbarie scientifica, cosìtemibile come quella dell'ignoranza. Diceva, ripeteva senza tregua:«È un delitto cancellare le impronte successive impresse nellapietra dalla mano e dall'anima dei nostri avi. Le pietre nuove,tagliate in un vecchio stile, sono dei falsi testimoni.» Voleva chela funzione dell'architetto archeologo si limitasse a sostenere econsolidare i muri. Aveva ragione. Gli diedero, torto. Finì dirovinarsi, morendo giovane, nel pieno trionfo del suo rivale.Tuttavia lasciava alla vedova e a suo figlio una fortunarispettabile. Giacomo Dechartre fu allevato da sua madre, che loadorava. Non credo che la tenerezza materna sia mai stata cosìimpetuosa. Giacomo è un simpatico figliuolo, ma è un ragazzoallevato male.
– Eppure ha un'aria cosìindifferente, così alla buona, così lontana datutto!
– Non credetelo. Ha unafantasia tormentata e tormentante.
– Gli piacciono ledonne?
– Perchè mi domandatequesto?
– Oh! non è certo per unmatrimonio.
– Sì, le ama. Vi ho detto cheè un egoista. Non ci sono che gli egoisti, che amino veramente ledonne. Dopo la morte di sua madre, ha avuto una lunga relazione conun'artista nota, Jeanne Tancrède.
La signora Martin si ricordavaun poco di Jeanne Tancrède, non molto bella, ma ben fatta, d'unagrazia un po' languida nelle sue parti diamorosa.
– Proprio lei – riprese PaoloVence. – Essi convivevano in una casetta della città dei Gelsomini,ad Auteuil. Andavo spesso a visitarli. Lo trovavo perduto nei suoisogni, dimenticando di modellare una figura che seccava sotto ilini, seguendo la sua idea, assolutamente incapace di ascoltarnessuno; mentre lei provava le sue parti, col viso arso dalbelletto, gli occhi teneri, graziosa d'intelligenza e d'attività.Si lamentava con me che egli fosse distratto, di malumore,scontroso. Lo amava davvero, e non lo ingannava che per necessitàdella professione. E, quando l'ingannava, era una cosa passeggera;dopo, non ci pensava più. Una donna seria. Ma poi si lasciò vedere,si mise in mostra con Giuseppe Springer, nella speranza che lafacesse entrare nella Comédie Française. Dechartre s'indignò eruppe la relazione. Adesso, essa trova più conveniente vivere coisuoi direttori, e Giacomo preferisceviaggiare.
– La rimpiangeforse?
– Come volete si sappia quelche passa in un'anima inquieta e mobile, egoista e appassionata,avida di darsi, pronta a riprendersi, che ama generosamente sestessa in tutto quello che trova di bello nelmondo?
Ella cambiò bruscamentediscorso.
– E il vostro romanzo, signorVence?
– Sono all'ultimo capitolo,signora. Il mio piccolo operaio cesellatore è stato ghigliottinato.È morto con quell'indifferenza delle vergini senza desiderio, chenon hanno mai provato sulle labbra il gusto caldo della vita. Igiornali e il pubblico approvano come si deve l'atto di giustiziacompiuto. Ma, in una soffitta, un altro operaio, sobrio, triste estudioso di chimica, giura di compiere il delittoespiatorio.
Si alzò e prese congedo. Essalo richiamò:
– Signor Vence, ho detto sulserio: portatemi Choulette.
Quando risalì nella sua stanza, suo marito, sulpianerottolo, l'aspettava, in veste da camera di felpa dorata, conuna specie di berretto da doge che inquadrava il suo viso pallido einfossato. Aveva un'aria di gravità. Dietro di lui, per la portaaperta del suo gabinetto da lavoro, apparivano, sotto la lampada,un ammasso di scartafacci e di documenti con copertine azzurre, ilibroni aperti dei bilanci annuali. Prima che essa potesseraggiungere la sua camera, le fece segno che aveva daparlarle.
– Cara amica, non riesco acapirvi. Siete d'una leggerezza che può farvi un gran torto.Disertate la vostra casa senza un motivo, senza nemmeno unpretesto. E volete andare in giro per l'Europa con chi? con unmattoide, un ubbriacone come Choulette.
Ella rispose che avrebbeviaggiato colla signora Marmet, e che non c'era niente di male inquesto.
– Ma voi annunziate a tutti lavostra partenza, e non sapete nemmeno se la signora Marmet potràaccompagnarvi.
– Oh! la signora Marmet fapresto a fare le sue valigie. Non c'è che il suo cane che latrattenga a Parigi. Ve lo lascerà, e ne avretecura.
– E vostro padre, è informatodei vostri progetti?
La sua risorsa consistevanell'invocare l'autorità di Montessuy, quando la sua non erariconosciuta. Sapeva che sua moglie temeva molto di scontentare ilpadre e di essere da lui mal giudicata.Insistè:
– Vostro padre è pieno dibuonsenso e di tatto. Sono felice d'essermi spesso trovatod'accordo con lui nei consigli che mi sono permesso di darvi.Anch'egli ritiene che la casa della signora Meillan non siaconveniente per una donna come voi. Ci sono troppi intrighi, e lapadrona di casa li favorisce. Avete un gran torto, devo dirvelo:non tenete abbastanza conto dell'opinione del mondo. Son certo cheanche vostro padre troverà strano che partiate con tanta…leggerezza. E la vostra assenza sarà tanto più notata, mia caraamica, in quanto, nel corso di questa legislazione, permettetemi diricordarvelo, le circostanze m'hanno messo in vista. Il mio merito,certo, non entra per niente in questa situazione. Ma, se avesteacconsentito ad ascoltarmi durante la cena, vi avrei dimostrato cheil gruppo di uomini politici a cui appartengo è vicino al potere.Non è in un momento simile che dovete rinunziare ai vostri doveridi padrona di casa. Voi stessa locomprendete.
Essa glirispose:
– Non miseccate
E, voltandogli le spalle, andòa chiudersi nella sua camera.
Quella, sera, nel suo letto,aperse un libro, come al solito, prima di addormentarsi. Era unromanzo. Voltava le pagine distrattamente, quando trovò questerighe:
«L'amore è come la devozione: giunge tardi. Non si ètroppo amanti nè devote a vent'anni, salvo una disposizionespeciale, una santità nativa. Anche le predestinate lottano a lungocontro questa grazia dell'amore, più terribile della folgore chepiombò sulla via di Damasco. Una donna, il più delle volte, noncede all'amore-passione che nell'età in cui la solitudine non fapiù paura; perchè la passione, in realtà, è un deserto arido, unaTebaide ardente. La passione, è l'ascetismo profano, altrettantorude quanto l'ascetismo religioso.
«Così vediamo che le grandiamatrici sono rare quanto le grandi penitenti. Quelli che conosconobene la vita e il mondo, sanno che le donne non mettono volentierisul loro petto delicato il cilicio d'un vero amore. Sanno cheniente è meno comune di un lungo sacrificio. E considerate quelloche una mondana deve immolare quando ama. Libertà, quiete, giuochipiacevoli di un'anima libera, civetteria, divertimenti, piaceri:tutto vi perde.
«Ilflirt è permesso.Esso si concilia con tutte le esigenze della vita elegante; l'amorenon si concilia affatto. È la meno mondana delle passioni, la piùantisociale, la più selvaggia, la più barbara. Perciò il mondo logiudica più severamente della galanteria e della leggerezza deicostumi. In un certo senso, ha ragione. Una Parigina che ama,smentisce la sua natura e vien meno alla sua funzione, che è quelladi esser di tutti, come un'opera d'arte. Infatti n'è una, e la piùmeravigliosa che l'industria dell'uomo abbia mai prodotto. È unprodigioso artificio, dovuto al concorso di tutte le artimeccaniche e di tutte le arti liberali; è l'opera comune, il benecomune. Il suo dovere è quello dicomparire.»
Teresa chiuse il libro, e pensò che si trattava disogni di romanzieri che non conoscono la vita. Lo sapeva bene, lei,che nella realtà non c'era nè Carmelo della passione, nè ciliciodell'amore, nè vocazione bella e terribile, alla quale lapredestinata resisteva invano; lo sapeva, che l'amore era soltantouna piccola ebbrezza breve, da cui si usciva un po' tristi… Eppure,se essa non sapesse tutto, se esistessero davvero degli amori incui si sprofondasse deliziosamente?… Spense la lampada. I sognidella sua prima giovinezza, dal fondo del passato, le ritornavano.

Capitolo6


Pioveva. La signoraMartin-Bellème vedeva confusamente, attraverso i vetri gocciolantidella sua carrozza, la moltitudine degli ombrelli camminare cometartarughe nere sotto l'acqua del cielo. Pensava, e i suoi pensierierano grigi e indistinti, come gli aspetti delle vie e delle piazzeche la pioggia velava.
Non sapeva più perchè le fossevenuta l'idea di andare a passare un mese da miss Bell. E veramentenon lo aveva mai saputo bene. Era come una sorgente, dapprimanascosta fra l'erba, che, adesso, formava una corrente d'acquaprofonda e rapida. Si ricordava bene che il martedì sera, a cena,aveva ad un tratto detto che voleva partire, ma non risaliva allaprima origine di quel desiderio. Non era la voglia di agire conRoberto Le Ménil com'egli agiva con lei. Senza dubbio, le sembravauna cosa eccellente di andare a passeggio alle Cascine, mentre egliera alla caccia alla volpe: ciò le sembrava d'una piacevolesimmetria. Roberto, che era sempre contento di ritrovarla, non laritroverebbe più al suo ritorno. Trovava giusto dargli questapiccola contrarietà. Ma essa, a tutta prima, non ci aveva pensato.E poi, non ci pensava molto, e veramente non partiva per il piaceredi dargli un dolore e il gusto d'una piccola vendetta. Provavaverso di lui un sentimento meno pungente, più sordo e più duro.Sopra tutto, non voleva rivederlo troppo presto. Senza che la lororelazione fosse per niente rotta, egli era diventato per lei unestraneo. Le sembrava un uomo come gli altri, migliore dellamaggior parte, bellissimo d'aspetto, di maniere, d'un caratteredegno di stima, e che non le dispiaceva, ma non la interessavatroppo. Ad un tratto era uscito dalla sua vita. Non si ricordavavolentieri quanto vi fosse stato mescolato: l'idea di appartenerglila urtava, le sembrava una sconvenienza. La previsione che sisarebbero ritrovati insieme nell'appartamentino di Via Spontini leera così penosa, che subito la allontanava. Preferiva credere cheun avvenimento imprevisto, inevitabile, impedirebbe la lororiunione: la fine del mondo, per esempio. Il signor Lagrange,dell'Accademia delle Scienze, le aveva parlato, il giorno prima,dalla signora Morlaine, d'una cometa che, venuta dalle profonditàcelesti, incontrerebbe forse un giorno la terra, l'avvolgerebbenella sua chioma ardente, la brucerebbe col suo alito, farebberespirare agli animali e alle piante dei veleni sconosciuti efarebbe morire tutti gli uomini in un riso frenetico o in un cupostupore. Era questo, o qualche altra cosa del genere che leoccorreva, per il mese prossimo. Non era dunque inesplicabile cheavesse voluto partire. Ma che al suo desiderio di andarsene simescolasse una gioia vaga, che essa fosse già sotto il fascino diquel che avrebbe trovato, non ci vedeva una ragione. La vettura lacondusse all'angolo della piccola via LaChaise.
Era là, sotto il tetto diun'alta casa, lungo il terrazzo, dietro cinque finestre riscaldateal mattino dal sole, che, in un appartamento ristretto e benpulito, abitava la signora Marmet, dopo la morte di suomarito.
La contessa Martin era venutaa vederla nel giorno indicato. Trovò nel salotto modesto e lucenteil signor Lagrange, che sonnecchiava in una poltrona, in facciaalla buona signora, dolce e tranquilla sotto la sua corona dicapelli bianchi.
Questo vecchio scienziatomondano le era rimasto fedele. Era lui che, l'indomani dei funeralidi Marmet, aveva riferito all'infelice vedova il velenoso discorsodi Schmoll, e che, credendo di consolarla, l'aveva vista soffocaredi collera e di dolore. Essa era svenuta fra le sue braccia. Lasignora Marmet trovava che egli mancava di discrezione. Era il suomigliore amico: pranzavano spesso insieme nelle casesignorili.
La signora Martin, elegante esnella nel suo vestito di zibellino semiaperto sopra un'onda ditrine, risvegliò collo splendore dei suoi occhi grigi ildabbenuomo, che era assai sensibile alla bellezza delle donne. Leaveva detto, il giorno prima, che sarebbe venuta la fine del mondo.Le chiese se non aveva avuto paura, la notte, rivedendo quel quadrodella terra divorata dalle fiamme, o morta di freddo, bianca comela luna. Mentre le parlava con una galanteria affettata, essaguardava la biblioteca d'acajou, che occupava tutto il fondo delsalotto opposto alle finestre. Non v'erano restati molti libri, masul palchetto inferiore si allungava uno scheletro colle sue armi.Era una cosa impressionante, vedere presso quella buona signoraquel guerriero etrusco, che conservava attaccato al suo cranio uncasco di bronzo verde, e portava sul petto scheletrito le laminecorrose della sua corazza. Egli dormiva, disfatto e feroce, frascatolette di dolciumi, vasi di porcellana dorata, madonnine distucco e ninnoli di legno traforati, ricordi di Lucerna e delRighi. La signora Marmet, nelle ristrettezze della sua vedovanza,aveva venduto i libri di studio lasciati da suo marito; di tuttigli oggetti antichi raccolti dall'archeologo, non aveva conservatoche quell'Etrusco. Non già che non avessero tentato diprenderglielo. I vecchi colleghi di Marmet avevano trovato dacollocarlo. Paolo Vence aveva ottenuto dall'amministrazione deiMusei che si comprasse per il Louvre. Ma la buona vedova non avevavoluto separarsene. Le sembrava che, con quel guerriero dal cascodi bronzo verde, cinto da un leggero fogliame d'oro, avrebbeperduto il nome che portava degnamente, e cessato d'essere lavedova di Luigi Marmet, dell'Accademia delleIscrizioni.
– Rassicuratevi, signora; unacometa non verrà così presto ad urtare la Terra. Questi incontrisono straordinariamente poco probabili.
La signora Martin rispose chenon ci vedeva nessun inconveniente serio, se la Terra e l'umanitàfossero annientate subito.
Il vecchio Lagrange protestòcon profonda sincerità. Gli premeva molto che il cataclismaritardasse.
Essa lo guardò. Il suo cranioarido nutriva appena pochi capelli tinti in nero. Le sue palpebrescendevano come dei piccoli stracci sopra i suoi occhi ancorasorridenti; la pelle cadeva sulla sua faccia gialla, e sotto gliabiti s'indovinava un corpo disseccato.
Teresa pensò: – Egli ama lavita!
Anche la signora Marmet nonvoleva che la fine del mondo fosse cosìvicina.
– Signor Lagrange – disse lacontessa Martin – voi abitate, non è vero, una graziosa casetta lecui finestre, tappezzate di glicine, guardano il Giardino dellePiante? Mi sembra che debba essere una gioia, vivere in quelgiardino che mi fa pensare alle arche di Noè della mia infanzia eal paradiso terrestre delle vecchieBibbie.
Ma egli non era contento. Lacasa era piccola, male ammobiliata, infestata datopi.
Ella riconobbe che non sistava bene da nessuna parte, e che dappertutto c'erano dei topi,reali o simbolici, delle legioni di piccoli esseri che citormentavano. Tuttavia, amava il Giardino delle Piante; volevaandarci sempre e non ci andava mai. C'era anche il Museo, dove nonera mai entrata e che era curiosa divisitare.
Sorridente, felice, egli siofferse di fargliene gli onori. Era la sua casa. Le avrebbemostrato gli aereoliti: se ne conservavano là deimagnifici.
Essa non sapeva affatto checosa fosse un aereolito. Ma si ricordò d'aver sentito dire che alMuseo si vedevano degli ossi di renna lavorati dagli uominiprimitivi, delle placche d'avorio su cui erano incisi degli animalila cui razza era da molto tempo scomparsa. Domandò se fosse vero.Lagrange non sorrideva più. Rispose con una indifferenza annoiatache quegli oggetti riguardavano uno dei suoicolleghi.
– Ah! – disse la signoraMartin – non è la vostra vetrina.
Si accorgeva che gliscienziati non sono curiosi, e che è indiscreto interrogarli sopraciò che non si trova nella loro vetrina. È vero che Lagrange avevafatto la sua fortuna scientifica colle pietre cadute dal cielo.Questo, lo aveva condotto a considerare le comete. Ma egli era unsaggio: da vent'anni non si occupava più che di pranzare incittà.
Quando fu partito, la contessaMartin disse alla signora Marmet quel che desiderava dalei.
– Vado la settimana prossima aFiesole, da Miss Bell, e voi venite conme.
La buona signora Marmet, dallafronte placida sopra degli occhietti scrutatori, stette un momentoin silenzio, rifiutò debolmente, si fece pregare, e accondiscese.

Capitolo7


Il diretto di Marsiglia erapronto, e sui marciapiede i facchini spingevano i carretti in mezzoal fumo e al rumore, sotto il chiarore livido che scendeva dalleinvetriate. Davanti agli sportelli aperti, i viaggiatori investaglia andavano e venivano. All'estremità della galleriaoffuscata dalla fuliggine e dalla polvere, appariva, come in fondoad un canocchiale, un piccolo arco di cielo. Grande come la mano,era l'infinito del viaggio. La contessa Martin e la buona signoraMarmet erano già nella loro vettura, sotto la reticella carica divaligie, coi giornali gettati vicino a loro sui cuscini. Choulettenon veniva ancora, e la signora Martin non lo aspettava più. Eppureegli aveva promesso di trovarsi alla stazione. Aveva fatto i suoipreparativi per il viaggio, e riscosso dall'editore il pagamentodelleBlandizie. PaoloVence l'aveva portato, una sera, al palazzo della riva Debilly.Egli s'era mostrato dolce, cortese, pieno di spirituale gaiezza edi gioia ingenua. Teresa si aspettava, da allora, un certo piacerea viaggiare con un uomo di genio, così originale, d'una piacevolebizzarria, vecchio fanciullone smarrito, pieno di vizi sinceri ed'innocenza. Gli sportelli si chiudevano: non lo aspettava più. Nonavrebbe dovuto far assegnamento su quell'anima impulsiva evagabonda. Nel momento in cui la macchina cominciava a lanciare deisibili rauchi, la signora Marmet, che guardava dallo sportello,disse tranquillamente:
– Mi sembra di vedere ilsignor Choulette.
Infatti correva lungo labanchina, zoppicando con una gamba, il cappello all'indietro sulsuo cranio bitorzoluto, la barba incolta, e trascinando una vecchiavaligia di tela. Era quasi terribile; e, malgrado i suoicinquant'anni, aveva un aspetto giovanile, tanto i suoi occhiazzurri erano chiari e lucenti, tanto il suo viso ingiallito erugoso aveva conservato d'audacia ingenua, tanto scaturiva da quelvecchio cadente l'eterna adolescenza del poeta e dell'artista.Vedendolo, Teresa si pentì di avere scelto un compagno così strano.Egli camminava, lanciando in ogni vettura uno sguardo brusco, chediventava a poco a poco cattivo e diffidente. Ma, quando, giuntoallo scompartimento delle due signore, riconobbe la contessaMartin, sorrise così graziosamente e le dette il buongiorno con unavoce così carezzevole, che non gli restava più niente del ferocevagabondo errante sulla banchina, nient'altro che la vecchiavaligia di tappezzeria che egli tirava per le maniglie mezzorotte.
La collocò sulla reticella conuna cura minuziosa, fra le valigie eleganti, coperte di telagrigia, tra le quali essa mise una macchia vivace e sordida. Sivide allora che era dipinta a fiori gialli, sopra uno sfondo colorsangue.
Quando fu comodamente a posto,fece i complimenti alla signora Martin per la sua mantiglia cheaveva diversi baveri alla carmelitana.
– Scusatemi, signore – disse –temevo di essere in ritardo. Sono andato stamattina alla messadelle sei a San Severino, la mia parrocchia, nella cappella dellaVergine, sotto quelle graziose colonne assurde che salgono verso ilcielo contorcendosi, come noi, miseripeccatori,
– Allora – chiese la signoraMartin – oggi siete un uomo pio?
Gli domandò pure se aveva consè il cordone dell'ordine che stavafondando.
Egli assunse un'aria grave econtristata.
– Temo assai, signora, chePaolo Vence vi abbia raccontato, a questo proposito, un mucchio dimenzogne assurde. M'hanno riferito che andava dicendo nei salottiche il mio cordone è un cordone di campanello, e di qualecampanello! Sarei addolorato se si prestasse fede un momento adelle invenzioni così miserabili. Il mio cordone, signora, è uncordone simbolico. È rappresentato da un semplice filo che si portasotto il vestito, dopo che un povero lo ha toccato, in segno che lapovertà è santa, e che essa salverà il mondo. Non v'è bene che inlei; e da quando ho ricevuto il prezzo delleBlandizie, mi sentoingiusto e duro. È bene sapere che ho messo, nella mia valigiaqualcuna di quelle cordicelle mistiche.
E mostrando col ditol'orribile tappezzeria color sangueaggrumato:
– Ci ho messo pure un'ostiache un cattivo prete m'ha dato; le opere di De Maistre, dellecamicie e diverse altre cose.
La signora Martin alzò gliocchi, un po' sgomenta. Ma la buona signora Marmet conservava lasua abituale placidità.
Mentre il treno correvaattraverso le brutture dei sobborghi, su quella zona nera che cingetristemente la città, Choulette cavò di tasca un vecchioportafoglio nel quale si mise a frugare. Lo scriba, nascosto sottoil vagabondo, si rivelava. Choulette era un imbrattacarte, senzavolerlo sembrare. Affermò che non aveva perduto nè i pezzi di cartasui quali notava al caffè le sue idee per i poemi, nè la dozzina dilettere lusinghiere che, sporche, macchiate, tagliate in tutte lepieghe, portava costantemente con sè, pronto a leggerle a deicompagni che incontrava, la notte, sotto i fanali a gas. Avendoriconosciuto che non gli mancava niente, levò dal portafoglio unalettera piegata in una busta aperta. L'agitò a lungo nella mano conun'aria di misteriosa impudenza, poi la tese alla contessa Martin.Era una lettera di presentazione che la marchesa De Rieu gli avevadato per una principessa della casa di Francia, una parentevicinissima del conte di Chambord, che, povera e vecchia, vivevaritirata alle porte di Firenze. Godendo dell'effetto che speravaproducesse, disse che vedrebbe forse questa principessa; che erauna persona buona e devota.
– Una vera grande signora –aggiunse – e che non dimostra la sua magnificenza con dei vestiti edei cappelli. Porta le camicie sei settimane e qualche volta dipiù. I gentiluomini del suo seguito le hanno visto delle calzebianche, molto sporche, che le cadevano sui tacchi. Le virtù dellegrandi regine di Spagna rivivono in lei. Oh, quelle calze sporche,quale vera gloria!
Riprese la lettera e larichiuse nel suo portafoglio. Poi, essendosi armato di un coltellodal manico di corno, attaccò colla punta una figura appena sbozzatanel manico del suo bastone. Intanto si lodava dasè.
– Sono abile in tutte le artidei mendicanti e dei vagabondi. So aprire le serrature con unchiodo, e scolpire il legno con un coltelletto datasca.
La testa cominciava acomparire: era un viso magro di donna chepiangeva.
Choulette voleva esprimervi lamiseria umana, non già semplice e commovente, come l'avevano potutasentire gli uomini d'altri tempi, in un mondo misto di ruvidezza edi bontà; ma ripugnante e imbellettata, in quello stato dibruttezza perfetta in cui l'avevano ridotta i borghesi liberipensatori e i militari patriotti, usciti dalla Rivoluzionefrancese. Secondo lui, il regime attuale non era che ipocrisia ebrutalità. Il militarismo gli facevaorrore.
La caserma è una odiosaistituzione dei tempi moderni. Essa non risale che aldiciassettesimo secolo. Prima, non c'erano che i buoni corpi diguardia, dove i vecchi soldati giuocavano alle carte e raccontavanole storie di Melusina. Luigi XIV è un precursore della Convenzionee di Bonaparte. Ma il male ha raggiunto il colmo dopo l'istituzionemostruosa del servizio obbligatorio per tutti. Aver fatto agliuomini un obbligo di uccidere, è la vergogna degli imperatori edelle repubbliche, il delitto dei delitti. Nelle epoche che sidicono barbare, le città ed i principi affidavano la loro difesa adei mercenari, che facevano la guerra da gente esperta e prudente;certe volte non c'erano che cinque o sei morti in una grandebattaglia. E quando i cavalieri andavano alla guerra, almeno nonc'erano forzati; si facevano ammazzare per loro piacere. Senzadubbio non erano capaci che di questo. Nessuno, ai tempi di SanLuigi, avrebbe avuto l'idea di mandare alla battaglia un uomo dottoe giudizioso. E nemmeno si strappava il lavoratore alla terra, permandarlo a combattere. Adesso, si costringe un povero contadino adesser soldato. Lo strappano dalla casetta il cui tetto fuma nelsilenzio dorato della sera, dalle grasse praterie in cui pascono ibuoi, dai campi, dai boschi paterni; gli insegnano, nel cortile diuna brutta caserma, ad uccidere regolarmente degli uomini; lominacciano, lo insultano, lo mettono in prigione; gli dicono che èun onore; e, se di questo onore non vuol saperne, lo fucilano. Egliobbedisce perchè è soggetto alla paura, e fra tutti gli animalidomestici è il più mite, il più allegro e il più docile. Noi siamosoldati, in Francia, e siamo cittadini. Altro motivo d'orgoglio,esser cittadini! Ciò consiste, per i poveri, a mantenere econservare i ricchi nella loro potenza e nel loro ozio. Essi devonolavorare, di fronte alla maestosa uguaglianza della legge, cheproibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, dichieder la carità per la strada e di rubar del pane. È uno deibenefici della Rivoluzione. Siccome questa rivoluzione è statafatta da dei pazzi e degli imbecilli, a profitto degliaccaparratori di beni nazionali, e in sostanza non si risolve chenell'arricchimento dei contadini scaltri e dei borghesi usurai,essa elevò, sotto il nome di uguaglianza, l'impero della ricchezza.Essa ha dato la Francia in balia dei finanzieri, che da cent'annila divorano. Essi vi stanno da padroni e signori. Il governoapparente, composto di poveri diavoli, meschini, gretti, paurosi enefasti, è al soldo dei finanzieri. Da un secolo, in questo paeseavvelenato, chiunque ama i poveri è ritenuto un traditore dellasocietà. E si è considerati pericolosi quando si afferma che visono dei miserabili. Si sono fatte persino delle leggi control'indignazione e la pietà. E quello che dico adesso, non sipotrebbe stampare.
Choulette si animava, agitavail suo coltello, mentre, sotto il sole pallido, passavano i campidi terra bruna, i gruppi violacei degli alberi spogliatidall'inverno, e le file di pioppi in riva ai fiumiargentei.
Guardò con tenerezza la figurascolpita nel suo bastone.
– Eccoti – le disse poveraUmanità, magra e piangente, istupidita dalla vergogna e dallamiseria, come t'hanno ridotto i tuoi padroni, il soldato e ilricco!
La buona signora Marmet, cheaveva un nipote capitano d'artiglieria, un giovanotto simpatico,attaccato alla sua professione, era urtata dalla violenza con cuiChoulette attaccava l'esercito. La signora Martin non ci vedeva cheuna piacevole fantasia. Le idee di Choulette non la spaventavanoaffatto: essa non aveva paura di niente; ma le trovava un po'assurde; non pensava affatto che il passato fosse mai statomigliore del presente.
– Io credo, signor Choulette,che gli uomini sieno sempre stati quel che sono oggi: egoisti,violenti, avari e senza pietà. Credo che le leggi ed i costumisieno sempre stati duri e crudeli per gliinfelici.
Fra La Roche e Digione, fecerocolazione nel vagone ristorante e vi lasciarono Choulette solocolla sua pipa, il suo bicchierino di «benedettino» e la sua animairritata.
Nello scompartimento, lasignora Marmet parlò con una placida tenerezza del marito perduto.Egli l'aveva sposata per amore: le faceva dei versi mirabili, cheessa aveva conservato e che non mostrava a nessuno. Era moltovivace e allegro. Non si sarebbe creduto, nel vederlo più tardistanco dal lavoro, indebolito dalla malattia. Egli aveva studiatofino all'ultimo momento. Soffrendo di un'ipertrofia di cuore, nonpoteva coricarsi, e passava la notte nella sua poltrona, coi suoilibri sopra una tavoletta. Due ore prima di morire, tentò ancora dileggere. Era affettuoso e buono; nella sua sofferenza conservòtutta la sua dolcezza.
La signora Martin, non sapendocome confortarla, le disse:
– Avete avuto dei lunghi annifelici, e ne conservate il ricordo; è già una parte di felicità, inquesto mondo.
Ma la buona signora Marmetsospirò; una nube passò sulla sua frontetranquilla.
– Sì – disse – Luigi fu ilmigliore degli uomini e il migliore dei mariti. Eppure, m'ha resoben infelice. Non aveva che un solo difetto, ma ne ho crudelmentesofferto. Era geloso. Lui, così buono, così tenero, così generoso,per questa passione diventava ingiusto, tirannico, violento. Viassicuro che la mia condotta era irreprensibile. Non ero civetta.Ma ero giovane e fresca; passavo quasi per bella. Bastava questo.Egli m'impediva di uscire da sola, mi proibiva di ricever visite insua assenza: quando eravamo insieme al ballo, tremavo in anticipoper le scene che m'avrebbe fatto invettura.
E la buona signora Marmetaggiunse sospirando:
– È vero che amavo il ballo.Ma ho dovuto rinunziarvi: egli soffrivatroppo.
La contessa Martini mostravala sua sorpresa. Si era sempre figurato Marmet come un vecchiosignore timido e assorto, un po' ridicolo, tra sua moglie grassa,bianca, così dolce, e lo scheletro rivestito di bronzo e d'oro delsuo guerriero etrusco. Ma l'eccellente vedova le confidò che acinquantacinque anni, quando lei ne aveva cinquantatre, Luigirestava geloso come il primo giorno.
E Teresa pensò che Roberto nonl'aveva mai tormentata colla sua gelosia. Era, da parte sua, unaprova di tatto e di buon gusto, un segno di fiducia, oppure non laamava abbastanza per farla soffrire? Non lo sapeva, e non sisentiva la forza di cercar di saperlo. Sarebbe stato necessariofrugare nei ripostigli della sua anima, che non volevaaprire.
Mormorò, senza farciattenzione:
– Noi vogliamo essere amate; equando ci si ama, ci si tormenta o ci siannoia.
La giornata terminò fraletture e fantasticherie. Choulette non s'era fatto rivedere. Lanotte, a poco a poco, coprì colle sue ceneri grige i gelsi delDelfinato. La signora Marmet si addormentò d'un sonno pacifico,riposando su se stessa come sopra un ammasso di guanciali. Teresala guardò e pensò:
«Davvero essa è felice, perchèsi compiace dei suoi ricordi.»
La tristezza della notte leentrò in cuore. E quando la luna si levò sui campi d'olivi, vedendopassare quelle dolci linee di pianure e di poggi, e scendere leombre azzurre, Teresa, in quel paesaggio in cui tutto parlava dipace e d'oblio, e niente le parlava di lei, rimpianse la Senna,l'Arco di Trionfo e la sua raggiera di strade, i viali del Bosco,in cui, almeno, gli alberi e le pietre laconoscevano.
Ad un tratto, con una violenzasorniona, Choulette si precipitò nel vagone. Armato del suo nodosobastone, la faccia e la testa tutte avvolte di lana rossa e dipelli feroci, le fece quasi paura. Era quel che cercava. I suoiatteggiamenti violenti e il suo aspetto selvaggio erano semprestudiati. Occupato sempre di effetti puerili e bizzarri, sicompiaceva nel sembrare terribile. Facile egli stesso allospavento, era contento d'ispirare i terrori che provava. Un momentoprima, mentre fumava la pipa, solo, in fondo al corridoio, avevaprovato, vedendo la luna correre fra le nuvole sulla Camargue, unadi quelle paure senza motivo, una di quelle paure da bambino, chesconvolgevano la sua anima fantasiosa e leggera. Perciò era venutoa rassicurarsi vicino alla contessaMartin.
– Arles disse. – ConosceteArles? È la pura bellezza! Ho visto nel chiostro di S. Trofimodelle colombe posarsi sulle spalle delle statue, ed ho visto lepiccole lucertole grige scaldarsi al sole sui sarcofagi degliAliscampi. Le tombe sono adesso collocate dai due lati della stradache conduce alla chiesa. Hanno la forma di tino, e la notte servonoda letto agli infelici. Una sera, passeggiando con Paolo Arène,incontrai una buona vecchia che stendeva delle erbe secche nellatomba di una vergine antica, spirata il giorno delle sue nozze. Leaugurammo la buona notte. Rispose: «Dio vi ascolti! Madisgraziatamente questo tino è aperto dalla parte del maestrale. Sel'apertura si trovasse dall'altra parte, dormirei come la reginaGiovanna.»
Teresa non rispose nulla. Eraassopita. E Choulette ebbe un brivido, nel freddo della notte,avendo paura della morte.

Capitolo8


Nel suo calessino inglese, cheguidava da sè, Miss Bell aveva condotto dalla stazione di Firenze,per i pendii della collina, la contessa Martin-Bellème e la signoraMarmet, alla sua casa di Fiesole che, rosea e cinta da una coronadi balaustre, guardava la città incomparabile. La cameriera venivadietro coi bagagli. Choulette, alloggiato, per cura di Miss Bell,presso la vedova d'un sagrestano, nell'ombra del duomo di Firenze,era aspettato soltanto per colazione. Brutta ma simpatica, coicapelli corti, in vestaglia, con una camicia da uomo sul suo pettomaschio, quasi graziosa, coi fianchi poco sporgenti, la poetessafaceva alle sue amiche francesi gli onori della casa che riflettevale delicatezze ardenti del suo gusto. Alle pareti del salotto,delle Vergini senesi, pallide, colle mani affusolate, regnavanopacificamente, in mezzo ad angeli, a patriarchi, a santi, nellebelle cornici dorate dei trittici. Sopra un piedistallo si ergevauna Maddalena, avvolta nei suoi capelli, impressionante di magrezzae di vecchiaia, qualche mendicante della strada di Pistoia, arsadal sole e dalle nevi, che aveva copiato nell'argilla, con unafedeltà orribile e commovente, un ignoto precursore di Donatello. Edappertutto le armi gentilizie di Miss Bell: delle campane e deicampanelli. Le più grandi elevavano la loro cupola di bronzo agliangoli della camera; altre, toccandosi, formavano una catena apiede dei muri. Delle più piccole correvano lungo le cornici. Cen'erano sulla stufa, sui cofani e sui cassettoni. Le vetrine eranopiene di campane d'argento o dorate. Grosse campane di bronzo,segnate col giglio fiorentino, campanelle del XVI° secolo, formateda una dama che indossava un largo guardinfante, campanelle ditrapassati, decorate di lagrime e d'ossa, campanelle traforate,coperte d'animali simbolici, e di fogliami, che suonavano nellechiese al tempo di San Luigi, campanelle da tavola del XVII°secolo, che avevano una statuetta per manico, campanelle piatte echiare delle mucche nelle vallate del Rutli, campane indiane che sifanno risuonare dolcemente con un corno di cervo, campane cinesi informa cilindrica: erano venute là da tutti i paesi e da tutti itempi, all'appello magico di quella piccola MissBell.
– Voi guardate le mie armiparlanti – disse alla signora Martin. – Credo che tutte questesignorine Bell[2] stienovolentieri qui, e non mi meraviglierei se un giorno si mettessero acantare insieme. Ma non si debbono ammirare tutte ugualmente.Bisogna serbare le lodi più pure e più ferventi perquesta.
E, battendo col dito unacampana scura e nuda, che rese un suonoflebile:
– Questa – disse – è una santacampagnuola del quinto secolo. È una figlia spirituale di SanPaolino da Nola, che per primo fece cantare il cielo sulle nostreteste. È d'un metallo raro, che si è chiamato bronzo di Campania.Presto vi mostrerò vicino ad essa una fiorentina tutta gentile, laregina delle campane. Sta per arrivare. Ma iov'annoio,darling, con questefanfaluche; e annoio pure la buona signora Marmet. Non stabene.
Le condusse alle lorocamere.
Un'ora dopo, la signoraMartin, riposata, fresca, in veste da camera, di seta e di pizzo,scese sulla terrazza dove l'attendeva Miss Bell. L'aria umida,intiepidita da un sole ancor debole e già generoso, era pienadell'inquieta dolcezza di primavera. Teresa, affacciata allabalaustrata, tuffava lo sguardo nella luce. Ai suoi piedi, icipressi inalzavano i loro pennacchi neri e gli olivi tremolavanosu per le chine. In fondo alla valle, Firenze distendeva le suecupole, le sue torri e la moltitudine dei suoi tetti rossi,attraverso la quale l'Arno lasciava appena indovinare la sua lineaondulata. In lontananza, spiccavano le collineazzurrognole.
Ella cercava di riconoscere igiardini di Boboli, in cui era stata in un primo viaggio, leCascine che non le piacevano troppo, il palazzo Pitti, Santa Mariadel Fiore. Poi l'infinito delizioso del cielo l'attrasse: seguìnelle nuvole le forme che svaniscono.
Dopo un lungo silenzio,Viviana Bell stese la mano versol'orizzonte.
Darling, nonposso dire, non so dire. Ma guardate,darling, guardateancora. Quello che vedete è uno spettacolo unico al mondo, Innessuna parte la natura è così sottile, elegante e fine. Il dio chefece le colline di Firenze era un artista. Oh! egli era,gioielliere, incisore di medaglie, scultore, fonditore in bronzo epittore; era un Fiorentino. Non ha fatto, che questo, almondo,darling! Il resto èd'una mano meno delicata, d'un lavoro meno perfetto. Come voleteche quella collina violetta di San Miniato, d'un rilievo così fermoe puro, sia dell'autore del Monte Bianco? Non è possibile. Questopaesaggio,darling, ha labellezza d'una medaglia antica e d'una pittura preziosa. È unaperfetta e misurata opera d'arte. Ed ecco un'altra cosa che non sodire, che non so comprendere, e che è vera. In questo paese, misento – e voi vi sentirete come me,darling – metà vivae metà morta; in uno stato nobilissimo, tristissimo e dolcissimo.Guardate, guardate bene; scoprirete la malinconia di queste collineche circondano Firenze, e vedrete una tristezza deliziosa saliredalla Terra dei morti.
Il sole scendevaall'orizzonte. Le punte delle cime si spegnevano una dopo l'altra,mentre le nuvole s'infiammavano nel cielo.
La signora Marmetstarnutò.
Miss Bell fece portare degliscialli, e avvertì le Francesi che le serate erano fresche etraditrici.
E ad untratto:
– Darling – chiese – conosceteGiacomo Dechartre? Ebbene, m'ha scritto che sarà a Firenze lasettimana prossima. Sono contenta che il signor Dechartres'incontri con voi nella nostra città. Ci accompagnerà nelle chiesee nei musei, e sarà una buona guida. Egli comprende le cose belleperchè le ama. Ha uno squisito talento di scultore. Le sue figure ei suoi medaglioni sono ancor più ammirati in Inghilterra che inFrancia. Oh, sono così contenta che il signor Giacomo Dechartres'incontri a Firenze con voi,darling!
Nel suo calessino inglese, cheguidava da sè, Miss Bell aveva condotto dalla stazione di Firenze,per i pendii della collina, la contessa Martin-Bellème e la signoraMarmet, alla sua casa di Fiesole che, rosea e cinta da una coronadi balaustre, guardava la città incomparabile. La cameriera venivadietro coi bagagli. Choulette, alloggiato, per cura di Miss Bell,presso la vedova d'un sagrestano, nell'ombra del duomo di Firenze,era aspettato soltanto per colazione. Brutta ma simpatica, coicapelli corti, in vestaglia, con una camicia da uomo sul suo pettomaschio, quasi graziosa, coi fianchi poco sporgenti, la poetessafaceva alle sue amiche francesi gli onori della casa che riflettevale delicatezze ardenti del suo gusto. Alle pareti del salotto,delle Vergini senesi, pallide, colle mani affusolate, regnavanopacificamente, in mezzo ad angeli, a patriarchi, a santi, nellebelle cornici dorate dei trittici. Sopra un piedistallo si ergevauna Maddalena, avvolta nei suoi capelli, impressionante di magrezzae di vecchiaia, qualche mendicante della strada di Pistoia, arsadal sole e dalle nevi, che aveva copiato nell'argilla, con unafedeltà orribile e commovente, un ignoto precursore di Donatello. Edappertutto le armi gentilizie di Miss Bell: delle campane e deicampanelli. Le più grandi elevavano la loro cupola di bronzo agliangoli della camera; altre, toccandosi, formavano una catena apiede dei muri. Delle più piccole correvano lungo le cornici. Cen'erano sulla stufa, sui cofani e sui cassettoni. Le vetrine eranopiene di campane d'argento o dorate. Grosse campane di bronzo,segnate col giglio fiorentino, campanelle del XVI° secolo, formateda una dama che indossava un largo guardinfante, campanelle ditrapassati, decorate di lagrime e d'ossa, campanelle traforate,coperte d'animali simbolici, e di fogliami, che suonavano nellechiese al tempo di San Luigi, campanelle da tavola del XVII°secolo, che avevano una statuetta per manico, campanelle piatte echiare delle mucche nelle vallate del Rutli, campane indiane che sifanno risuonare dolcemente con un corno di cervo, campane cinesi informa cilindrica: erano venute là da tutti i paesi e da tutti itempi, all'appello magico di quella piccola MissBell.
– Voi guardate le mie armiparlanti – disse alla signora Martin. – Credo che tutte questesignorine Bell stieno volentieriqui, e non mi meraviglierei se un giorno si mettessero a cantareinsieme. Ma non si debbono ammirare tutte ugualmente. Bisognaserbare le lodi più pure e più ferventi perquesta.
E, battendo col dito unacampana scura e nuda, che rese un suonoflebile:
– Questa – disse – è una santacampagnuola del quinto secolo. È una figlia spirituale di SanPaolino da Nola, che per primo fece cantare il cielo sulle nostreteste. È d'un metallo raro, che si è chiamato bronzo di Campania.Presto vi mostrerò vicino ad essa una fiorentina tutta gentile, laregina delle campane. Sta per arrivare. Ma iov'annoio,darling, con questefanfaluche; e annoio pure la buona signora Marmet. Non stabene.
Le condusse alle lorocamere.
Un'ora dopo, la signoraMartin, riposata, fresca, in veste da camera, di seta e di pizzo,scese sulla terrazza dove l'attendeva Miss Bell. L'aria umida,intiepidita da un sole ancor debole e già generoso, era pienadell'inquieta dolcezza di primavera. Teresa, affacciata allabalaustrata, tuffava lo sguardo nella luce. Ai suoi piedi, icipressi inalzavano i loro pennacchi neri e gli olivi tremolavanosu per le chine. In fondo alla valle, Firenze distendeva le suecupole, le sue torri e la moltitudine dei suoi tetti rossi,attraverso la quale l'Arno lasciava appena indovinare la sua lineaondulata. In lontananza, spiccavano le collineazzurrognole.
Ella cercava di riconoscere igiardini di Boboli, in cui era stata in un primo viaggio, leCascine che non le piacevano troppo, il palazzo Pitti, Santa Mariadel Fiore. Poi l'infinito delizioso del cielo l'attrasse: seguìnelle nuvole le forme che svaniscono.
Dopo un lungo silenzio,Viviana Bell stese la mano versol'orizzonte.
Darling, nonposso dire, non so dire. Ma guardate,darling, guardateancora. Quello che vedete è uno spettacolo unico al mondo, Innessuna parte la natura è così sottile, elegante e fine. Il dio chefece le colline di Firenze era un artista. Oh! egli era,gioielliere, incisore di medaglie, scultore, fonditore in bronzo epittore; era un Fiorentino. Non ha fatto, che questo, almondo,darling! Il resto èd'una mano meno delicata, d'un lavoro meno perfetto. Come voleteche quella collina violetta di San Miniato, d'un rilievo così fermoe puro, sia dell'autore del Monte Bianco? Non è possibile. Questopaesaggio,darling, ha labellezza d'una medaglia antica e d'una pittura preziosa. È unaperfetta e misurata opera d'arte. Ed ecco un'altra cosa che non sodire, che non so comprendere, e che è vera. In questo paese, misento – e voi vi sentirete come me,darling – metà vivae metà morta; in uno stato nobilissimo, tristissimo e dolcissimo.Guardate, guardate bene; scoprirete la malinconia di queste collineche circondano Firenze, e vedrete una tristezza deliziosa saliredalla Terra dei morti.
Il sole scendevaall'orizzonte. Le punte delle cime si spegnevano una dopo l'altra,mentre le nuvole s'infiammavano nel cielo.
La signora Marmetstarnutò.
Miss Bell fece portare degliscialli, e avvertì le Francesi che le serate erano fresche etraditrici.
E ad untratto:
– Darling – chiese – conosceteGiacomo Dechartre? Ebbene, m'ha scritto che sarà a Firenze lasettimana prossima. Sono contenta che il signor Dechartres'incontri con voi nella nostra città. Ci accompagnerà nelle chiesee nei musei, e sarà una buona guida. Egli comprende le cose belleperchè le ama. Ha uno squisito talento di scultore. Le sue figure ei suoi medaglioni sono ancor più ammirati in Inghilterra che inFrancia. Oh, sono così contenta che il signor Giacomo Dechartres'incontri a Firenze con voi,darling!