giovedì 18 giugno 2020

LE STRATEGIE FATALI 
Jean Baudrillard


1. L’estasi e l'inerzia 

  Le cose hanno trovato un modo di sottrarsi alla dialettica del senso, che le tediava: quello di proliferare all'infinito, di potenziarsi, di passare il limite della loro essenza, in una crescita fino agli estremi, in un'oscenità che per esse sta ormai in luogo di finalità immanente, e di ragione insensata.

  Niente impedisce di pensare che si possano ottenere gli stessi effetti nell’ordine inverso - un’altra sragione, anch’essa vittoriosa. La sragione è vittoriosa in tutti i sensi - proprio questo è il principio del Male.

  L’universo non è dialettico - è votato agli estremi, non all’equilibrio. All’antagonismo radicale, non alla riconciliazione, né alla sintesi. Tale è anche il principio del Male, e si esprime nello scaltro genio dell’oggetto, si esprime nella forma estatica dell’oggetto puro, nella sua strategia trionfante su quella del soggetto.

  Noi conseguiremo forme sottili di radicalizzazione delle qualità segrete, e combatteremo l’oscenità con le sue stesse armi. Al più vero del vero opporremo il più falso del falso. Non opporremo il bello e il brutto, cercheremo il più brutto del brutto: il mostruoso. Non opporremo il visibile al nascosto, cercheremo il più nascosto del nascosto: il segreto.

  Non cercheremo il cambiamento e non opporremo il fisso e il mobile, cercheremo il più mobile del mobile: la metamorfosi... Non distingueremo il vero dal falso, cercheremo il più falso del falso: l’illusione e l’apparenza...

  In questa crescita fino agli estremi, può darsi che si debba opporli radicalmente, ma può darsi che si debba cumulare gli effetti dell’oscenità e quelli della seduzione.

  Noi cercheremo qualcosa di più rapido della comunicazione: la sfida, il duello. La comunicazione è troppo lenta, è un effetto di lentezza, avviene mediante il contatto e la parola. Lo sguardo è più veloce, è il medium dei media, il più rapido. Tutto deve svolgersi istantaneamente. Non si comunica mai. Nell’andare e ritornare della comunicazione, l’istantaneità dello sguardo, della luce, della seduzione è già perduta.

  Ma cercheremo pure, contro l’accelerazione delle reti e dei circuiti, la lentezza - non la lentezza nostalgica dello spirito, ma l’immobilità insolubile, il più lento del lento: l’inerzia e il silenzio. L’inerzia insolubile dallo sforzo, il silenzio insolubile dal dialogo. Anche in questo c’è un segreto.

   

  Come il modello è più vero del vero (essendo la quintessenza degli aspetti significativi di una situazione) e perciò procura una sensazione vertiginosa di verità, così la moda ha il carattere favoloso del più bello del bello: è affascinante. La seduzione che essa esercita è indipendente da ogni giudizio di valore. Oltrepassa la forma estetica nella forma estatica della metamorfosi incondizionata.

  Forma immorale, mentre la forma estetica implica sempre la distinzione morale del bello e del brutto. Se c’è un segreto della moda, al di là dei piaceri propri dell’arte e del gusto, è questa immoralità, questa sovranità dei modelli effimeri, questa passione fragile e totale che esclude ogni sentimento, questa metamorfosi arbitraria, superficiale e regolata che esclude ogni desiderio (a meno che non sia questo il desiderio).

  Se è questo il desiderio, nulla vieta di pensare che anche nel sociale, nel politico e in tutti i territori diversi dall’abbigliamento, il desiderio si volga di preferenza verso forme immorali, ugualmente intaccate da questa negazione potenziale di ogni giudizio di valore e massimamente votate a quel destino estatico che strappa le cose alla loro qualità “soggettiva” per lasciarle in balia soltanto dell'attrazione esercitata dall’aspetto raddoppiato, dalla definizione raddoppiata, che le strappa alle loro cause “oggettive” per lasciarle in balia della sola potenza dei loro effetti sfrenati.

   

  A ogni carattere in tal modo elevato alla potenza superlativa, preso in una spirale di raddoppiamento - il più vero del vero, il più bello del bello, il più reale del reale -, è assicurato un effetto di vertigine indipendente da ogni contenuto o da ogni qualità propria, e che oggi tende a diventare la nostra passione esclusiva. Passione del raddoppiamento, della scalata, della crescita in potenza, dell'estasi - di qualunque qualità si tratti purché, cessando di essere relativa al suo contrario (il vero del falso, il bello del brutto, il reale dell’immaginario), diventi superlativa, positivamente sublime in quanto ha come assorbito tutta l’energia del suo contrario. Immaginate qualcosa di bello che abbia assorbito tutta l’energia del brutto: e avete la moda... Immaginate il vero che abbia assorbito tutta l’energia del falso: e avete la simulazione...

  Perfino la seduzione è vertiginosa in questo, che si ottiene da un effetto non di semplice attrazione, ma di attrazione raddoppiata da una sorta di sfida, o di fatalità della sua essenza - “Io non sono bella, sono peggio che bella”, diceva Marie Dorval.

  Siamo entrati vivi nel mondo dei modelli, in quello della moda, in quello della simulazione: forse Caillois aveva ragione con la sua terminologia, e tutta la nostra cultura è sul punto di scivolare dai giochi di competizione e di espressione a quelli d’azzardo e di vertigine. La stessa incertezza sul contenuto ci spinge alla moltiplicazione vertiginosa delle qualità formali. Dunque alla forma dell’estasi. L'estasi è la qualità propria a ogni corpo che gira su se stesso fino alla perdita di senso e che risplende allora nella sua forma vuota e pura. La moda è l’estasi del bello: forma pura e vuota di un’estetica che gira su se stessa. La simulazione è l’estasi del reale - basta che guardiate la televisione: tutti gli avvenimenti reali vi si succedono in un rapporto perfettamente estatico, e cioè negli aspetti vertiginosi e stereotipati, irreali e ricorrenti, che consentono il loro concatenamento insensato e ininterrotto. Estasiato: tale è l’oggetto nella pubblicità, e il consumatore nella contemplazione pubblicitaria - il girare su se stessi del valore d'uso e del valore di scambio, fino all’annullamento nella forma pura e vuota della marca...

  Ma bisogna spingersi oltre: l’antipedagogia è la forma estatica, e cioè pura e vuota, della pedagogia. L’antiteatro è la forma estatica del teatro: niente più scena, niente più contenuto, il teatro nella strada, senza attori, teatro di tutti per tutti, che si confonderebbe al limite con l’esatto svolgersi delle nostre vite senza illusione - dove la potenza dell’illusione, se essa si estasia a rappresentare la nostra vita quotidiana e a trasfigurare il nostro posto di lavoro? Ma è così, è questo il modo in cui l’arte oggi cerca di uscire da se stessa, di negarsi da sé, e più cerca per questa via di realizzarsi, più si iperrealizza, più si trascende nella sua essenza vuota. Vertigine anche in questo caso, vertigine, mise en abyme,1 e stupefazione. Niente ha contribuito con più efficacia a rendere stupefacente l’atto “creatore” e a farlo risplendere nella sua forma pura e vacua che, a un certo punto, l’esporre, come fece Duchamp, una rastrelliera per bottiglie in una galleria d’arte. L’estasi di un oggetto comune conduce al tempo stesso l'atto pittorico alla sua forma estatica - senza oggetto ormai esso sta per girare su se stesso e in qualche modo per scomparire, non senza esercitare su di noi una fascinazione definitiva. L’arte oggi non esercita altro che la magia della sua scomparsa.

  Immaginate un bene che risplenda di tutta la potenza del Male: è Dio, un dio perverso che crea il mondo per sfida e gli intima di distruggersi da sé...

   

  Ciò che lascia fantasticare, ancora, è l’oltrepassa-mento del sociale, l’irruzione del più sociale del sociale la massa -, anche qui un sociale che ha assorbito tutte le energie inverse dell'antisociale, dell'inerzia, della resistenza, del silenzio. La logica del sociale trova qui il suo estremo - il punto in cui inveite le sue finalità e raggiunge il suo punto d’inerzia e di sterminio, ma nello stesso tempo in cui tocca l’estasi. Le masse sono l’estasi del sociale, la forma estatica del sociale, lo specchio in cui esso si riflette nella sua immanenza totale.

  Il reale non cede a vantaggio dell'immaginario, cede a vantaggio del più reale del reale: l'iperreale. Più vera del vero: tale è la simulazione.

  La presenza non cede di fronte al vuoto, cede di fronte a un raddoppiamento di presenza che cancella l'opposizione della presenza e dell'assenza.

  Nemmeno il vuoto cede di fronte al pieno, ma di fronte alla pletora e alla saturazione - più pieno del pieno, tale è la reazione del corpo nell'obesità, del sesso nell'oscenità, la sua abreazione al vuoto.

  Il movimento non scompare tanto nell'immobilità quanto nella velocità e nell'accelerazione - nel più mobile del movimento, se così si può dire, e che lo conduce all'estremo mentre lo spoglia di senso.

  La sessualità non dilegua nella sublimazione, nella repressione e nella morale, è molto più certo il suo dileguare nel più sessuale del sessuale: il porno. L’ipersessuale contemporaneo dell’iperreale.

  Più in generale, le cose visibili non trovano fine nell’oscurità e nel silenzio - svaniscono nel più visibile del visibile: l’oscenità.

   

  Un esempio di questa ex-centricità delle cose, di questa deriva nell’escrescenza, è l’irruzione, nel nostro sistema, del caso, dell’indeterminazione, della relatività. La reazione a questo nuovo stato di cose non è stato un abbandono rassegnato degli antichi valori, ma piuttosto una surdeterminazione folle, un esacerbare quei valori di riferimento, di funzione, di finalità, di causalità. Forse la natura ha veramente orrore del vuoto, perché è lì, nel vuoto, che nascono per scongiurarlo i sistemi pletorici, ipertrofici, saturi - è sempre qualcosa di ridondante ciò che s’installa dove non ce più niente.

  La determinazione non lascia il posto all’indeterminazione, ma a un’iperdeterminazione - ridondanza della determinazione nel vuoto.

  La finalità non scompare a vantaggio dell’aleatorio, ma a vantaggio di un’iperfinalità, di un’iperfunzionalità: più funzionale del funzionale, più finalistico del finalistico - ipertelia.

  Poiché il caso ci ha sprofondato in un’incertezza anormale, noi abbiamo reagito con un eccesso di causalità e di finalità. L’ipertelia non è un accidente nell’evoluzione di qualche specie animale, è questa sfida per la finalità che reagisce a un’indeterminazione crescente. In un sistema in cui le cose sono sempre più in balia del caso, la finalità si fa delirio, e si sviluppano per sé degli elementi anche troppo capaci di superare il loro fine, e tendenti a invadere l’intero sistema.

  Ciò avviene per il comportamento della cellula cancerosa (ipervitalità in una sola direzione) come per l’iperspecializzazione degli oggetti e degli uomini, per l’operatività del minimo particolare, per l’ipersi-gnificazione del minimo segno: è leitmotiv delle nostre vite quotidiane, ma anche ulcera segreta di tutti i sistemi obesi e cancerosi, quelli della comunicazione, dell’informazione, della produzione, della distruzione - poiché tutti hanno oltrepassato da tempo i limiti della loro funzione, del loro valore d’uso, per entrare in un’escalation fantomatica delle finalità.

   

  Isteria inversa a quella delle finalità: l’isteria di causalità, corrispondente alla cancellazione simultanea delle origini e delle cause - ricerca ossessiva dell’origine, della responsabilità, del riferimento, tentativo di esaurire i fenomeni fino nelle loro cause infinitesimali. Ma anche il complesso della genesi e della genetica, in cui rientrano a diverso titolo la palingenesi psicoanalitica (tutto lo psichismo ipostatizzato nella prima infanzia, tutti i segni diventati sintomi), la biogenetica (tutte le probabilità saturate dal concatenamento fatale delle molecole), l’ipertrofia della ricerca storica, il delirio di spiegare tutto, imputare tutto, assegnare a tutto un riferimento... Tutto ciò diventa d’un ingombro fantastico - i riferimenti vivono tutti gli uni degli altri e a spese gli uni degli altri. Anche qui si sviluppa un sistema escrescente d’interpretazione senza alcun rapporto col suo obiettivo. Tutto ciò deriva da una fuga in avanti a fronte dell’emorragia delle cause oggettive.

   

  I fenomeni d'inerzia accelerano. Le forme bloccate proliferano, e la crescita s'immobilizza nell'escrescenza. È questa la forma dell'ipertelia di ciò che va oltre il proprio fine: il crostaceo che s'allontana dal mare (per quali segreti fini?) non avrà mai più tempo per tornarvi. Il gigantismo crescente delle statue dell'isola di Pasqua.

  Tentacolare, protuberante, escrescente, ipertelico: questo è il destino d'inerzia di un mondo saturato. Negare la propria fine mediante iperfinalità: questo non è anche il processo del cancro? Rivincita della crescita nell’escrescenza. Rivincita e coazione alla velocità nell’inerzia. Anche le masse sono catturate in questo gigantesco processo d’inerzia per accelerazione. La massa è questo processo escrescente, che precipita ogni crescita verso la sua rovina. Essa è questo circuito cortocircuitato da una finalità mostruosa.

  Exxon: il governo americano richiede alla multinazionale un rapporto globale su tutte le sue attività nel mondo. Risultato: dodici volumi di mille pagine, la cui lettura, per non parlare dell’analisi, richiederebbe parecchi anni di lavoro. Dov’è l’informazione?

  È necessario trovare una dietetica dell'informazione? Bisogna far dimagrire gli obesi, i sistemi obesi, e creare istituti di disinformazione?

  Incredibile sovrapotenzialità distruttrice degli armamenti strategici - non ha pari se non nell’escrescenza demografica mondiale. Per quanto possa sembrare paradossale, i due fenomeni sono della stessa natura e corrispondono a una stessa logica di escrescenza e di inerzia. Trionfo dell’anomalia: nessun principio di diritto o di misura può temperare luna più che l’altra, si trascinano reciprocamente. E quel ch'è peggio è che non siamo in presenza di alcuna sfida prometeica, di alcun eccesso dovuto alla passione e all’orgoglio. Semplicemente pare che la specie abbia raggiunto un punto specifico misterioso, a partire dal quale sia impossibile tornare indietro, decelerare, rallentare.

   

  Un’idea penosa: che la storia, a partire da un dato momento, non sia più stata reale. Senza accorgersene, l’umanità tutta intera avrebbe d’improvviso abbandonato la realtà; tutto ciò che accadde da quel momento in poi non sarebbe affatto reale; noi però non potremmo accorgercene. Nostro compito sarebbe ora di scoprire quel momento, e finché non ci fossimo riusciti dovremmo restare nell’attuale distruzione.2

   

  Canetti

   

  Dead point: il punto morto dove ogni sistema oltrepassa questo limite sottile di reversibilità, di contraddizione, di rimessa in causa per entrare vivo nella non contraddizione, nella propria contemplazione sconfinata, nell’estasi...

  Qui comincia una patafisica dei sistemi. Questo oltrepassamento logico, questa scalata non offre d’altronde solo inconvenienti, anche se assume sempre la forma di una catastrofe al rallentatore. Così avviene per i sistemi di distruzione e di armamento strategico. Quando le forze di distruzione sorpassano la soglia, ha fine la scena della guerra. Non c’è più una correlazione utile tra il potenziale d’annientamento e il suo obiettivo, e diventa insensato servirsene. Il sistema si dissuade da sé, e questo è l’aspetto paradossalmente benefico della dissuasione: non c’è più spazio per la guerra. Bisogna dunque augurarsi la persistenza di questa escalation nucleare, e di questa corsa agli armamenti. È il prezzo pagato per la guerra pura,3 cioè per la forma pura e vuota, per la forma iperreale ed eternamente dissuasiva della guerra, dove per la prima volta possiamo rallegrarci dell’assenza di avvenimenti. Anche la guerra, come il reale, non avrà mai più luogo. A meno che le potenze nucleari non riescano precisamente a operare la loro de-escalation e non giungano a circoscrivere nuovi spazi di guerra. Se la potenza militale, al prezzo di una de-escalation di questa follia meravigliosamente utile a un secondo livello, ritrova una scena della guerra, uno spazio limitato, e diciamo pure umano, della guerra, allora le armi ritroveranno il loro valore d’uso e il loro valore... di scambio: sarà nuovamente possibile scambiare guerra. Nella sua forma orbitale ed estatica, la guerra è diventata uno scambio impossibile, e questa dimensione orbitale ci protegge.

  Che ne è del voto di Canetti di recuperare quel punto cieco al di là del quale le cose hanno cessato di essere vere, la storia ha cessato di esistere, senza che noi ce ne rendessimo conto - recupero senza il quale non potremmo che perseverare nella distruzione attuale?

  Supposto che noi possiamo determinare quel punto, che cosa faremmo? Per quale miracolo la storia tornerebbe a essere vera? Per quale miracolo si potrebbe risalire il tempo per ovviare alla sua scomparsa? Perché quel punto è anche quello della fine del tempo lineare, e tutti i prodigi della fantascienza per "risalire nel tempo” sono inutili se già ora esso non esiste più, se dietro di noi il passato a rigore è già scomparso.

  Quali precauzioni si sarebbero dovute prendere per evitare questo collasso storico, questo coma, questa volatilizzazione del reale? Abbiamo commesso qualche errore? Il genere umano ha fatto qualche errore, violato qualche segreto, commesso qualche imprudenza fatale? È altrettanto vano domandarselo quanto interrogarsi sulla ragione misteriosa per cui una donna vi ha lasciato: in ogni modo niente avrebbe potuto essere cambiato. L’aspetto terrificante di un evento di quest’ordine è che, passata una certa soglia, tutti gli sforzi per esorcizzarlo non fanno che affrettarlo, nessun presentimento è mai servito a niente, ogni evento dà interamente ragione a quello che l’ha preceduto. È l’ingenuità d’imputare ogni avvenimento a delle cause che ci fa pensare che avrebbe potuto non prodursi - l’evento puro, senza cause, non può che avvenire ineluttabilmente -, d’altra parte esso non può mai essere riprodotto, mentre ciò è sempre possibile per un processo causale. Ma proprio per questo non è più un evento.

  Quello di Canetti è dunque un pio desiderio, se la sua ipotesi è radicale. Il punto di cui parla è impossibile scoprirlo per definizione, poiché se si potesse coglierlo, sarebbe il tempo a esserci restituito. Il punto a partire dal quale si potrebbe invertire il processo di dispersione del tempo e della storia ci sfugge - è proprio perché l’abbiamo oltrepassato senza accorgercene, e, certo, senza averlo voluto.

   

  D'altra parte, il punto di Canetti forse non esiste affatto. Esiste solo se si può esibire la prova che ci sia stata storia nel passato - ciò che diventa impossibile una volta superato quel punto. In una sfera estranea alla storia, la storia stessa non può più riflettersi, né sperimentarsi. È per questo che noi intimiamo a tutte le epoche anteriori, a tutti i modi di vivere e di storicizzarsi, di raccontarsi adducendo prove e documenti in appoggio (tutto diventa documentario): è che noi sentiamo vivamente che tutto ciò è infirmato nella nostra sfera, che è quella della fine della storia.

  Non possiamo né tornare indietro, né accettare questa situazione. Alcuni hanno allegramente risolto il dilemma: hanno scoperto il punto anti-Canetti, quello di una decelerazione che permetterebbe di rientrare nella storia, nel reale, nel sociale, come un satellite disperso nell’iperspazio che facesse ritorno nell’atmosfera terrestre. Una falsa radicalità ci aveva fatto smarrire in spazi centrifughi, un soprassalto vitale ci riconduce alla realtà. Tutto ritorna vero, tutto riacquista un senso, una volta scongiurata questa ossessione dell’irrealtà della storia, di un improvviso sprofondamento del tempo e del reale.

  Può darsi che abbiano ragione. Può darsi che si debba arrestare questa emorragia del valore. Basta con la radicalità terrorista, basta coi simulacri - recrudescenza della morale, della credenza, del senso. Abbasso le analisi crepuscolari!

   

  Al di là di questo punto non ci sono che avvenimenti senza conseguenze (e teorie senza conseguenze), esattamente perché essi assorbono il loro senso in se stessi, non rifrangono nulla, non presagiscono nulla.

  Al di là di questo punto non ci sono che catastrofi.

  Perfetto è l’evento o il linguaggio che assume il proprio modo di sparizione, sa metterlo in scena e raggiungere così il massimo di energia delle apparenze.

  La catastrofe è l’evento bruto massimo, anche qui più evenemenziale dell’evento - ma l’evento senza conseguenze e che lascia il mondo in sospeso.

  Una volta finito il senso della storia, una volta superato questo punto d’inerzia, ogni evento diviene catastrofe, diventa evento puro e senza conseguenze (ma è questa la sua potenza).

  L’evento senza conseguenze - come l’uomo senza qualità di Musil, come il corpo senza organi, come il tempo senza memoria.

   

  Quando la luce è captata e inghiottita dalla propria fonte, allora c’è involuzione brutale del tempo nell’evento stesso. Catastrofe in senso letterale: l’inflessione o la curvatura che fa coincidere, in una cosa, la sua origine e la sua fine, che fa tornare la fine sull’origine per annullarla, lascia posto a un evento senza precedenti e senza conseguenze - evento puro.

  E' anche la catastrofe del senso: l’evento senza conseguenze si segnala per il fatto che tutte le cause possono essergli indifferentemente imputate senza che niente permetta di scegliere... La sua origine è inintelligibile, e così pure la sua destinazione. Non si può risalire né il corso del tempo né il corso del senso.

   

  Ogni evento oggi è virtualmente senza conseguenze, si apre a tutte le interpretazioni possibili, nessuna saprebbe fissare il senso: uguale probabilità di tutte le cause e di tutte le conseguenze - imputazione multipla e aleatoria.

  Se le onde del senso, se le onde della memoria e del tempo storico intorno all’evento si restringono, se le onde della causalità intorno all’effetto si cancellano (e l’evento oggi ci giunge proprio come un’onda, non solo viaggia “sulle onde”, è un’onda indecifrabile in termini di linguaggio e di senso, decifrabile soltanto istantaneamente in termini di colore, di tatto, di atmosfera, in termini di effetti sensoriali), significa che la luce rallenta, significa che in qualche luogo un effetto gravitazionale fa sì che la luce dell’evento, quella che porta il suo senso al di là dello stesso evento, la luce conduttrice dei messaggi, rallenta fino ad arrestarsi; così avviene anche per la luce del politico e della storia, che riceviamo ormai debolmente, e così avviene per la luce del corpo, della quale non riceviamo che simulacri attenuati.

  Bisogna cogliere la catastrofe che ci minaccia nel rallentamento della luce - più la luce è lenta, meno sfugge alla sua fonte -, così le cose e gli eventi hanno la tendenza a non lasciare più sfuggire il loro senso, a rallentarne l’emanazione, a captare ciò che prima rifrangevano per assorbirlo in un corpo nero.

   

  La fantascienza è sempre stata attratta dalle velocità superiori a quella della luce. Tuttavia molto più strano è il registro delle velocità inferiori alle quali la luce potrebbe scendere.

  La velocità della luce protegge la realtà delle cose, infatti ci garantisce la contemporaneità delle immagini che ne riceviamo. Tutta la verosimiglianza di un universo causale verrebbe meno con un cambiamento sensibile di questa velocità. Tutte le cose interferirebbero in un disordine completo. Tant’è vero che questa velocità è il nostro punto di riferimento, il nostro Dio, e sta per noi come un assoluto. Se la luce cade in velocità relative, niente più trascendenza, niente più Dio per riconoscere ciò che ci attiene, l’universo cade nell’indeterminazione.

  E' quel che si produce oggi, quando, con i media elettronici, l’informazione comincia a circolare dappertutto alla stessa velocità della luce. Non c'è più un assoluto a cui commisurare il resto. Ma dietro a questa accelerazione qualcosa comincia a rallentare in modo assoluto. Siamo forse noi che cominciamo a rallentare assolutamente.

  E se la luce rallentasse fino a scendere a velocità ‘umane’’? Se ci bagnasse con un flusso d’immagini rallentato, fino a diventare più lenta di noi?

  Bisognerebbe allora generalizzare il fatto che ci proviene la luce da stelle da lungo tempo scomparse - la loro immagine attraversa gli anni luce per giungerci ancora. Se la luce fosse infinitamente più lenta, una folla di cose, e tra le più vicine, avrebbe già subito il destino di quelle stelle: le vedremmo, sarebbero lì, ma non sarebbero già più esistenti. Lo stesso reale non ci sarebbe in questo caso: qualcosa di cui ci giunge ancora l'immagine, ma che già non è più? Analogia con gli oggetti mentali, e l’etere mentale.

  Oppure i corpi potrebbero avvicinarsi a noi, supponendo la luce molto lenta, più veloci della loro immagine, e che cosa succederebbe? Ci urterebbero senza che noi li avessimo visti arrivare. Si potrebbe d’altra parte immaginare, al contrario del nostro universo, in cui dei corpi lenti si muovono tutti a velocità di molto inferiori a quella della luce, un universo in cui gli oggetti si spostano a velocità prodigiose, tranne la luce, che, invece, è molto lenta. Un caos totale, che non sarebbe più regolato dall’istantaneità dei messaggi luminosi.

  La luce come il vento, con velocità variabili: in caso di bonaccia, non ci giungerebbe alcuna immagine dalle zone colpite.

  La luce come un profumo: differente da corpo a corpo, essa non diffonde niente al di là delle immediate vicinanze. Una sfera di messaggi luminosi che si attenuano. Le immagini del corpo non si propagano affatto oltre un certo territorio luminoso: al di là, il corpo non esiste più.

  O ancora la luce che si sposta con la lentezza dei continenti, delle placche tettoniche, che scivolano l’u-na sull'altra provocando sismi e distorcendo così tutte le nostre immagini e la nostra visione dello spazio.

  E se si immagina una rifrazione lenta dei volti e dei gesti, come movimenti di nuotatori in acqua pesante? Come guardare qualcuno negli occhi, come sedurlo se non si è sicuri che sia ancora lì? Se un rallentatore cinematografico s’impadronisse dell’universo intero? Esaltazione comica della proiezione accelerata, che trascende il senso per esplosione - ma incanto poetico del rallentatore, che distrugge il senso per implosione.

  La suspense e il rallentamento sono la nostra forma del tragico, dopo che l’accelerazione è diventata nostra condizione comune. Il tempo non è evidentemente più nel suo svolgersi naturale, dopo che si è disteso, che si è allargato alla dimensione fluttuante della realtà. Non è più illuminato dalla volontà. Anche lo spazio non è più illuminato dal movimento. Poiché la loro destinazione è perduta, bisogna che intervenga nuovamente una sorta di predestinazione per restituire loro qualche effetto tragico. Questa predestinazione la si legge nella suspense e nel rallentamento. Ciò sospende a tal punto lo svolgersi della forma che il senso non si cristallizza più. Oppure sotto il discorso del senso, se ne muove un altro con lentezza e implode sotto il primo.

  Con la lentezza con cui si raggrinzirebbe su se stessa fino ad arrestarsi del tutto nella sua progressione, la luce introdurrebbe a una suspense totale dell'universo.

   

  Questa sorta di gioco dei sistemi intorno al punto d’inerzia s’illustra con la forma di catastrofe congenita all’era della simulazione: la forma sismica. Quella in cui il suolo viene a mancare, quella della faglia e del cedimento, dello spacco e della crepa, quella in cui immense placche, falde intere scivolano le une sotto le altre e producono intensi fremiti alla superficie. Non è più il fuoco divorante del cielo a colpirci: quel fulmine generatore, che era ancora una punizione e una purificazione, e che inseminava la terra. Non è il diluvio: esso è piuttosto una catastrofe materna, che sta all’origine del mondo. Sono queste le grandi forme leggendarie e mitiche che ci turbano. Più recentemente è quella dell’esplosione, culminata nell’ossessione della catastrofe nucleare (ma, in senso opposto, ha alimentato il mito del Big Bang, dell’esplosione come origine dell’universo). Ancora più attuale è la forma sismica, a tal punto è vero che le catastrofi sposano la forma della loro cultura. Anche le città si distinguono per le forme di catastrofe che ipotizzano, e che sono parte viva del loro fascino. New York è King Kong, o il black out, o il bombardamento verticale: Inferno di cristallo. Los Angeles è la faglia orizzontale, la frattura e la deriva della California nel Pacifico: Terremoto. È una forma più vicina, più evocatrice: dell’ordine della fissione e della propagazione istantanea, dell’ordine dell’ondulatorio, dello spasmodico e della commutazione brutale. Non è più il cielo a crollarci sulla testa, sono i territori che scivolano via. Siamo in un universo fissile, banchise erratiche, derive orizzontali. Lo sprofondamento interstiziale, questo è l’effetto del sisma, anche mentale, che ci minaccia. Lo spaccarsi delle cose più suggellate, il fremito delle cose che si restringono, che si ripiegano sul loro vuoto. Perché in fondo (!) non è mai esistito il suolo, ma solo una epidermide screpolata, e nemmeno la profondità, di cui si sa che è in fusione. Sono i sismi a dirlo, che sono il requiem dell’infrastruttura. Non spieremo più gli astri o il cielo, ma le divinità sotterranee che ci minacciano di uno sprofondamento nel vuoto.

  Noi sogniamo di catturare anche quell’energia, ma è puramente folle. Quanto catturare quella degli incidenti automobilistici, o dei cani schiacciati, o di tutte le cose che sprofondano. (Nuova ipotesi: se le cose hanno piuttosto la tendenza a scomparire e a sprofondare, forse le principali fonti d’energia nel futuro saranno l’incidente e la catastrofe.) Una cosa è certa: se anche non si riesce a catturare l’energia sismica, non per questo l’onda simbolica del terremoto è sul punto di placarsi: l’energia simbolica, se così si può dire, cioè la potenza affascinante e beffarda, che un tale evento dispensa, non è commensurabile alla distruzione materiale.

  È quella potenza, quell’energia simbolica dirompente, che in realtà ci si sforza di catturare in questo progetto delirante, o nell’altro, più immediato, di prevenire i sismi con messe in scena di evacuazione. Il fatto più curioso ci viene dai calcoli degli esperti: lo stato d’emergenza decretato in previsione di un sisma scatenerebbe un tale panico che i suoi effetti sarebbero più disastrosi di quelli della stessa catastrofe. Anche qui siamo in piena beffa: in mancanza di catastrofe reale, sarà lecito scatenare una catastrofe per simulazione, che non sarà inferiore all’altra e potrà sostituirla. Ci si domanda se non sia questo ciò che volteggia nelle fantasie degli “esperti" - è esattamente la stessa cosa nel campo nucleare: tutti i sistemi di prevenzione e di dissuasione non equivalgono forse a focolai virtuali di catastrofe? Col pretesto di sventarla, ne materializzano tutte le conseguenze nell’immediato. Tanto è vero che non si può contare sul caso per provocare la catastrofe: bisogna trovare il suo equivalente nel dispositivo di sicurezza.

  Così, è evidente che uno stato o un potere abbastanza sofisticato da prevedere i terremoti e prevenirne tutte le conseguenze costituirebbe un pericolo per la comunità e la specie più formidabile degli stessi sismi. I terremotati dell’Italia meridionale hanno violentemente attaccato lo stato italiano per la sua negligenza (i media sono arrivati prima dei soccorsi, un segno evidente della gerarchia attuale delle urgenze), hanno a buon diritto imputato la catastrofe all’ordine politico (nella misura in cui esso ha la pretesa di un’universale sollecitudine verso le popolazioni), ma non si sognerebbero mai di auspicare un ordine capace di una tale dissuasione delle catastrofi: il prezzo da pagare sarebbe tanto elevato che tutti in fondo preferiscono la catastrofe - questa, con le sue miserie, corrisponde per lo    meno all’esigenza profetica di sparizione violenta. Corrisponde per lo meno all’esigenza profonda di farsi beffe dell'ordine politico. Lo stesso dicasi per il terrorismo: che cosa sarebbe uno stato capace di dissuadere e di annientare ogni terrorismo sul nascere (la Germania)? Dovrebbe esso stesso armarsi di un uguale terrorismo, dovrebbe generalizzare il terrore a tutti i livelli. Se è questo il prezzo della sicurezza, è vero che è il    sogno profondo di tutti?

   

  Pompei. Tutto è metafisico in questa città, fino alla sua geometria sognante, che non è quella dello spazio, ma una geometria mentale, quella dei labirinti - poiché il congelamento del tempo è più acuto ancora nel calore del Sud.

  Magnifica è per la psiche la presenza tattile di queste rovine, la loro suspense, le loro ombre che ruotano, la loro quotidianità. Si coniugano la banalità della passeggiata e l’immanenza di un altro tempo, di un altro istante, unico, che fu quello della catastrofe. È la presenza micidiale, ma abolita, del Vesuvio che dà alle strade morte il fascino dell’allucinazione - l'illusione di essere qui e ora, alla vigilia dell’eruzione, e la stessa persona risuscitata duemila anni più tardi, per un miracolo di nostalgia, nell’immanenza di una vita anteriore.

  Pochi luoghi lasciano una tale impressione d’inquietante stranezza (non meraviglia che Jensen e Freud vi abbiano ambientato l’azione psichica di Gradiva). È tutto il calore della morte quello che si sente qui, reso più vivo dai segni fossili e fuggitivi della vita corrente: i solchi delle ruote nella pietra, l’usura delle vere dei pozzi, il legno pietrificato di una porta socchiusa, la piega della toga di un corpo sepolto sotto la cenere.

  Nessuna storia s’interpone tra queste cose e noi, quella storia che dà il loro prestigio ai monumenti: esse si materializzano qui, immediatamente, nel calore stesso in cui la morte le ha prese.

  Né la monumentalità né la bellezza sono essenziali a Pompei, ma l'intimità fatale delle cose, e il fascino della loro istantaneità come del simulacro perfetto della nostra propria morte.

  Pompei è così una sorta di trompe-l’oeil e di scena primitiva: la stessa vertigine di una dimensione in meno, quella del tempo - la stessa allucinazione di una dimensione in più, quella della trasparenza dei minimi dettagli, come la visione precisa di alberi immersi vivi in fondo a un lago artificiale mentre, nuotando, quasi li sorvolate.

  Tale è l’effetto mentale della catastrofe: arrestare le cose prima che giungano alla fine, e mantenerle così nella suspense del loro apparire.

   

  Pompei nuovamente distrutta dal terremoto. Che cos’è questa catastrofe che si accanisce su delle rovine? Che cos e una rovina che ha bisogno di essere nuovamente smantellata e sepolta? Ironia sadica della catastrofe: essa attende in segreto che le cose, anche le rovine, riacquistino la loro bellezza e il loro senso per abolirle di nuovo. Essa veglia gelosamente e distrugge l’illusione di eternità, ma pure vi gioca, perché irrigidisce le cose in una seconda eternità. È questo, questa rigidità paralizzata, questa siderazione di una presenza grondante di vita a opera di un’istantaneità catastrofica, è questo che dava fascino a Pompei. La prima catastrofe, quella del Vesuvio, era riuscita bene. L’ultimo sisma è molto più problematico. Sembra obbedire alla regola del raddoppiamento degli eventi in un effetto parodistico. Ripetizione pietosa di una grande prima. Compimento di un grande destino attraverso il tocco di una divinità miserabile. Ma forse ha un altro senso: sta ad avvertirci che non sono più tempi di crolli grandiosi e di resurrezioni, di giochi della morte e dell’eternità, ma di piccole frantumazioni, di annientamenti delicati, mediante slittamenti progressivi, e ormai senza domani, perché sono le tracce stesse ciò che questo nuovo destino cancella. Esso ci introduce all’era orizzontale degli eventi senza conseguenza, ove l’ultimo atto è messo in scena dalla stessa natura in un bagliore di parodia.

   

   

  Note

  1. La mise en abyme designa, specie in pittura, una tecnica compositiva consistente nel ripetere in un particolare il soggetto del dipinto; si pensi agli specchi nel Ritratto dei coniugi Arnolfini di van Eyck o in Las Meninas di Velázquez. [N.d.T.]

  2. Questo e i seguenti brani di Canetti sono tratti da La provincia dell’uomo, Adelphi, Milano 1978. [N.d.T.]

  3. Cfr. i lavori di Paul Virilio.

2. Figure del transpolitico

   

   

   

   

   

  Il transpolitico è la trasparenza e l’oscenità di tutte le strutture in un universo destrutturato, la trasparenza e l’oscenità del cambiamento in un universo destoricizzato, la trasparenza e l’oscenità dell’informazione in un universo privato di avvenimenti, la trasparenza e l’oscenità dello spazio nella promiscuità delle reti, la trasparenza e l’oscenità del sociale nelle masse, del politico nel terrore, del corpo nell’obesità e nella donazione genetica... Fine della scena della storia, fine della scena del politico, fine della scena del fantasma, fine della scena del corpo - irruzione dell’osceno. Fine del segreto - irruzione della trasparenza.

  Il transpolitico è il modo di sparizione di tutto ciò (non è più il modo di produzione, è il modo di sparizione a essere avvincente), questa curvatura malefica che mette fine all’orizzonte del senso. La saturazione dei sistemi li conduce al loro punto d’inerzia: l’equilibrio del terrore e della dissuasione, il girotondo orbitale dei capitali fluttuanti, delle bombe H, dei satelliti d’informazione..., e delle teorie, anch’esse fluttuanti, satelliti di un sistema di riferimento assente. Obesità dei sistemi di memoria, delle informazioni immagazzinate che non sono già più trattabili - obesità, saturazione di un sistema di distruzione nucleare che eccede già ora i suoi fini, escrescente, ipertelico. Il transpolitico è anche questo: il passaggio dalla crescita all’escrescenza, dalla finalità all’ipertelia, dagli equilibri organici alle metastasi cancerose. È il luogo di una catastrofe, non più di una crisi. Le cose vi si precipitano al ritmo di qualche tecnologia, comprese le tecnologie dolci e psichedeliche, che ci trascinano sempre più lontano da ogni reale, da ogni storia, da ogni destino.

  Ma se il segreto è sempre più braccato dalla trasparenza, se la scena (non solo quella del senso, ma anche la potenza d’illusione e di seduzione delle apparenze) è sempre più braccata dall’osceno, tuttavia l’enigma, consolatevi, resta intatto - compreso quello del transpolitico.

   

  L’era del politico fu l’era dell'anomia: crisi, violenza, follia e rivoluzione. L’era del transpolitico è l’era dell’anomalia; aberrazione senza conseguenza, contemporanea all'avvenimento senza conseguenza.

  L’anomia è ciò che sfugge alla giurisdizione della legge, l’anomalia è ciò che sfugge alla giurisdizione della norma. (La legge è un’istanza, la norma è una curva, la legge è una trascendenza, la norma è una media.) L’anomalia si presenta in un campo aleatorio, statistico, un campo di variazioni e di modulazioni che non conosce più né i margini né le trasgressioni, caratteristiche di quello della legge, dato che tutto è inghiottito nell’equazione statistica e operativa. Un campo talmente normalizzato che l’anormalità non vi ha più posto, foss’anche sotto le specie della follia e della sovversione. Resta però l’anomalia.

  Essa ha qualcosa di misterioso, perché non si sa esattamente da dove venga. Quanto all’anomia, si sa di che si tratta: si suppone che la legge sia conosciuta, e l’anomia non è un’aberrazione, è un’infrazione a un sistema determinato. Mentre per l’anomalia si è in dubbio perfino sulla legge a cui sfugge, e sulla regola che infrange. Questa legge non esiste più, o non è conosciuta. C’è infrazione, o piuttosto erranza in rapporto a uno stato di cose di cui non si sa più se sia un sistema di cause e di effetti.

  L’anomalia non ha più l’aspetto tragico dell’anormalità, e neppure l’aspetto pericoloso e deviante del-l’anomia. È in qualche modo anodina, anodina e inesplicabile. È dell’ordine dell’apparire puro e semplice, è l’affiorare alla superficie di un sistema, il nostro, di qualcosa venuto da altrove. Da un altro sistema?

  L’anomalia non ha incidenza critica nel sistema. La sua figura è piuttosto quella del mutante.

   

   

  L’obeso

   

  Voglio parlare di un’anomalia, di quell’obesità affascinante nella quale ci s’imbatte ovunque negli Stati Uniti. Di quella sorta di conformità mostruosa allo spazio vuoto, di difformità per eccesso di conformità, che traduce la dimensione eccessiva di una socialità a un tempo satura e vuota, ove si sono perdute la scena del sociale e quella del corpo.

  Questa obesità è strana: non è più quella di un grasso protettivo né quella, nevrotica, della depressione. Non è né l’obesità compensatoria del sottosviluppato, né quella alimentare dell’ipernutrito. Paradossalmente essa è un modo di sparizione del corpo. La regola segreta che delimita la sfera del corpo è scomparsa. La forma segreta dello specchio, attraverso la quale il corpo veglia su se stesso e sulla sua immagine, è abolita, e ha lasciato posto alla ridondanza senza freno di un organismo vivente. Più nessun limite, più nessuna trascendenza: è come se il corpo non si opponesse più a un mondo esterno, ma cercasse di digerire lo spazio all’interno della propria apparenza.

  Questi obesi sono affascinanti per il loro oblio totale della seduzione. D’altra parte non se ne preoccupano più, e si vivono senza complessi, con disinvoltura, come se non gli restasse nemmeno l’ideale dell’io. Non sono ridicoli, e lo sanno. Aspirano a una sorta di verità, e non a torto: ostentano qualcosa del sistema, della sua inflazione a vuoto. Ne sono l'espressione nichilista, quella dell’incoerenza generale dei segni, delle morfologie, delle forme dell’alimentazione e della città - tessuto cellulare ipertrofico e proliferante in tutte le direzioni.

  Obesità fetale, primaria, placentare: è come se fossero incinti del loro corpo e non riuscissero a liberarsene. Il corpo ingrossa, ingrossa senza giungere a partorirsi. Ma anche obesità secondaria, obesità di simulazione a immagine dei sistemi attuali, che sono gravidi di quantità d’informazione che non partoriscono mai, obesità caratteristica della modernità operativa, nel suo delirio di immagazzinare tutto e di memorizzare tutto, di spingersi, nell’inutilità più totale, ai limiti dell’inventario del mondo e dell'informazione, e, nello stesso tempo, di dispiegare una potenzialità mostruosa della quale non c’è più rappresentazione possibile, e che non è più nemmeno possibile mettere in atto, una ridondanza vana che evoca un secolo dopo, ma in un universo cool, freddo e senza ironia, senza acido patafisico, la celebre gidouille di Pére Ubu.

  Patafisica o metafisica, questa isteria di gravidanza è in ogni caso uno dei segni più strani della cultura americana, di quell’ambiente spettrale ove è lasciata in qualche modo a ogni cellula (a ogni funzione, a ogni struttura), come nel cancro, la possibilità di ramificarsi, di moltiplicarsi all’infinito, di occupare virtualmente tutto lo spazio da sola, di monopolizzare tutta l'informazione su se stessa (il feedback è già una struttura obesa, è la matrice di tutte le obesità strutturali), e di cullarsi in una felice ridondanza genetica. Ogni molecola felice nel paradiso della propria formula...

   

  Dunque in causa non è l’obesità di qualche individuo, è quella di tutto un sistema, è l'oscenità di tutta una cultura. È quando il corpo perde la sua regola e la sua scena che raggiunge questa forma oscena dell'obesità. È quando il corpo sociale perde la sua regola, la sua scena e la sua posta che raggiunge anch'esso questa forma pura e oscena che ben conosciamo: la sua operatività visibile e troppo visibile, la sua ostentazione, l’investimento e il soprainvestimento di tutti gli spazi da parte del sociale, pur non cambiando tutto ciò nulla del carattere spettrale e trasparente dell’insieme.

  Questa obesità è anch’essa spettrale - senza alcuna pesantezza si libra in una buona coscienza di socialità. Incarna la forma informe, la morfologia amorfa del sociale di oggi: paradigma individuale ideale della riconciliazione, della nicchia chiusa, autogestita. A rigore, non sono più corpi, ma campioni di una certa inorganicità cancerosa che ormai ci minaccia da ogni parte.

  Per restare nel campo orale (benché questa obesità non abbia nulla di un impulso o di una regressione orale), si può dire che il sociale condivide la stessa sorte del gusto nella cucina americana. Gigantesca impresa di dissuasione dal gusto degli alimenti: il loro sapore è come isolato, depurato e risintetizzato sotto forma di salse burlesche e artificiali. È il flavour, come al cinema cera il glamour: espunzione di ogni carattere personale a vantaggio di un’aura da teatro di posa e di un fascino dei modelli. Così il sociale: proprio come la funzione del gusto è isolata nella salsa, il sociale è isolato come funzione in tutte le salse terapeutiche sulle quali galleggiamo. Sociosfera del contatto, del controllo, della persuasione e della dissuasione, dell'esibizione delle inibizioni a dose massiccia o omeopatica (“Have a problem, we solve it!”): è questa l’oscenità. Tutte le strutture rivoltate, esibite, tutte le operazioni rese visibili. In America, questo va dall’inverosimile tessuto di fili telefonici ed elettrici aerei (tutte le reti sono alla superficie) alla demoltiplica concreta di tutte le funzioni del corpo nell’habitat, la litania degli ingredienti sulla più piccola scatoletta di alimenti, l’esibizione del reddito o del qi, passando per la segnaletica sovrabbondante, l’ossessione di mettere in mostra le viscere della potenza, pari al furore di localizzare la funzione critica nei lobi del cervello...

  La determinazione vivente si perde in una programmazione disperata, ogni cosa s’inventa la sua sur-determinazione e cerca la sua ipostasi isterica. Così il sociale, una volta specchio del conflitto, della classe, del proletariato, trova la sua ipostasi definitiva negli handicappati. Le contraddizioni storiche hanno assunto la forma patafisica della deficienza mentale o fisica. C’è qualcosa di strano in questa conversione isterica del sociale - la diagnosi più probabile è che nell’handicappato, come nel debilitato o nell’obeso, il sociale sia ossessionato dalla sua sparizione. Avendo perduto la sua credibilità e la regola del suo gioco politico, il sociale cerca nei suoi residui viventi una sorta di legittimità transpolitica - dopo la gestione della crisi, l’autogestione aperta del deficit e della mostruosità.1

  Una volta si diceva: "A ciascuno secondo i suoi meriti”; poi: “A ciascuno secondo i suoi bisogni”; più tardi: “A ciascuno secondo i suoi desideri”; oggi: “A ciascuno secondo la sua deficienza”.

   

  L’obeso sfugge in qualche modo alla classificazione sessuale, alla divisione in sessi, mediante il carattere indiviso del corpo pieno. Risolve l’apertura del sesso mediante l’assorbimento dello spazio circostante. È incinto, simbolicamente, di tutti gli oggetti da cui non ha saputo separarsi, o di quelli con i quali non ha trovato la distanza per amarli. Non separa il corpo dal non corpo. Il suo corpo è uno specchio convesso o concavo, non è riuscito a produrre lo specchio piano che lo rifletterebbe.

  Lo stadio dello specchio, che consente al bambino, grazie alla distinzione dei limiti, di aprirsi alla scena dell'immaginario e della rappresentazione - questa rottura, in lui, non c’è stata, e, mancato l’accesso a questa divisione interna, egli entra nella moltiplicazione indivisa di un corpo senza immagine.

  Non ci sono animali obesi, come non ci sono animali osceni. Forse perché l’animale non è mai di fronte alla scena, o alla sua immagine? Non essendo sottoposto a questo obbligo scenico, non può essere osceno. Invece, nell’uomo, questo obbligo è assoluto, e nell’obeso c’è quasi una rescissione di questo obbligo, di ogni dignità della rappresentazione, di ogni velleità seduttrice - la perdita del corpo come volto. La patologia dell’obeso non è dunque di natura endocrina, è una patologia della scena e dell’osceno.

  È molto difficile dire che cosa costituisca la scena del corpo. Almeno questo: è là che esso gioca, e in particolare è là che gioca da solo, che fugge nell’ellissi delle forme e del movimento, nella danza, è là che sfugge alla sua inerzia, nel gesto, che si scioglie, nell’aura dello sguardo, è là che si fa allusione e assenza - insomma, è là che si offre come seduzione. È l’assenza di tutto ciò che trasforma l’obeso in una massa oscena.

  Improvvisamente l’obeso, nella sua ridondanza, fa apparire il sesso come qualcosa di troppo. Ha questo in comune con il clone - altro mutante mai apparso ancora, ma che l’obeso prefigura abbastanza bene. Questi non coltiva forse il sogno di diventare ipertrofico per dividersi un giorno in due esseri simili? A suo modo transessuale non aspira a superare la riproduzione sessuata e a ritrovare quella degli esseri scissipari? La proliferazione del corpo non è lontana dalla proliferazione genetica...

  Il paradosso della clonazione, infatti, è di fabbricare esseri identici al loro genitore genetico (non edipico!), e dunque sessuati, quando in questa vicenda la sessualità è diventata perfettamente inutile. Il sesso del clone è superfluo, non di quella superfluità eccessiva di Bataille - è semplicemente un residuo inutile, come certi organi o appendici animali di cui non si comprende più la finalità e che appaiono anomali e mostruosi. Il sesso è diventato un’escrescenza, una differenza eccentrica che non produce più senso in quanto tale (cumuli di differenze morte segnano la nostra storia e quella della specie).

  Forse c’è in ogni unità organica la pulsione a svilupparsi per pura contiguità, una tendenza alla monotonia lineare e cellulare? È ciò che Freud chiamava la pulsione di morte: nient’altro che l’escrescenza indifferenziata del vivente. Questo processo non conosce né crisi né catastrofe: è ipertelico, nel senso che non ha altro fine se non la crescita, senza considerazione dei limiti.

  Qualcosa, in un certo momento, ferma questo processo. Nell’obesità, questo processo non si arresta. Il corpo, perdendo i suoi tratti specifici, prosegue l’espansione monotona dei suoi tessuti. Non è più né individuato né sessuato, non è che un’estensione indefinita: metastatica.

   

  Franz von Baader qualifica la metastasi, assimilata all’estasi - nel suo saggio Uber den Begriff der Ekstasis als Metastasis (Sul concetto di estasi come metastasi) -, come anticipazione della morte, dell’al di là della propria fine, in seno alla vita stessa. E certo c’è qualcosa di questo genere nell’obeso, di cui si può pensare che da vivo abbia inghiottito il proprio corpo morto - ne risulta un troppo di corpo, e improvvisamente il corpo appare come di troppo. È l’ingorgo di un organo inutile. Ha in qualche modo inghiottito il suo sesso, ed è questo inghiottimento del sesso che costituisce l’oscenità di quel corpo ipertrofico.

  Questa forma estatica, o metastatica, di Baader, quella del morto che viene a ossessionare il vivente e a farlo apparire come un’incarnazione inutile, può benissimo estendersi ai sistemi attuali d’informazione, anch’essi metastatici nel senso di una anticipazione del senso morto nella significazione vivente, e mediante ciò produzione di un troppo di senso, produzione di senso di troppo, come una protesi inutile. Lo stesso accade anche nel pomo: la sua atmosfera fantomatica gli viene dall’anticipazione del sesso morto nella sessualità vivente, dal peso di tutto il sesso morto (come si è parlato del peso di tutto il lavoro morto sul lavoro vivo). Improvvisamente, anche il pomo fa sembrare la sessualità come di troppo - è questo che è osceno: non è che ci sia troppo sesso, in definitiva è che il sesso è di troppo. Ciò che rende osceno l’obeso non è che abbia troppo corpo, è che il corpo è di troppo.

   

  A quale fine segreto si mira in questo modo (perché ce ne deve pur essere uno)? Quale demone lubrico può porgere al corpo questo specchio deformante (perché c’è una lubricità in tutto ciò)?

  Che si tratti di una rivolta, come nel cancro? Una volta le rivolte erano politiche, erano fatte da gruppi o individui oppressi nel loro desiderio, nella loro energia o    nella loro intelligenza. Oggi ribellioni di questo tipo non ne scoppiano più. Nel nostro universo quaternario, la rivolta è diventata genetica. È la rivolta delle cellule nel cancro, sono le metastasi: vitalità incoercibile e proliferazione indisciplinata. Anche questa è una rivolta, ma non dialettica - subliminale - e che ci sfugge. Ma chi conosce il destino delle formazioni cancerose? La loro ipertelia corrisponde forse all’iperrealtà delle nostre formazioni sociali. È come se il corpo, le cellule si rivoltassero contro il decreto genetico, contro i comandamenti (termine appropriato) del dna. Il corpo si rivolta contro la propria definizione “oggettiva”. È un atto patologico (come avviene nella perdita di regola da parte degli anticorpi)? Nella patologia tradizionale, somatica o psicosomatica, il corpo reagisce ad aggressioni esterne, fisiche, sociali, psicologiche: reazione essoterica. Mentre nel caso del cancro si tratta di una reazione esoterica: il corpo si rivolta contro la propria organizzazione interna, scompiglia il proprio equilibrio strutturale. È come se la specie ne avesse abbastanza della sua definizione propria e si lanciasse in un delirio organico.2

   

  Anche l’obeso è in preda al delirio. Infatti non solo è grosso, di quella grossezza che si oppone alla morfologia normale: egli è più grosso del grosso. Non ha più senso in un’opposizione distintiva, ma nel suo eccesso, nella sua ridondanza, nella sua iperrealtà.

  L’obeso eccede la sua patologia, è per questo che tanto facilmente sfugge alla dietetica e alla psicoterapia e raggiunge un’altra logica, quella strategia esponenziale per cui le cose private della loro finalità o del loro riferimento si raddoppiano in una sorta di gioco en abyme.

  L’obesità può dunque essere un buon esempio di questa peripezia che ci minaccia, di questa rivoluzione nelle cose che non sta più nel loro superamento dialettico (Aufhebung), ma nel loro potenziamento (Steigerung), nel loro elevarsi alla seconda potenza, all’ennesima potenza, di questo salire agli estremi in assenza di regola del gioco.

  A immagine e somiglianza della velocità - l’unica espressione perfetta della mobilità, perché diversamente dal movimento, che ha un senso, essa non ne ha più, essa non si dirige in alcun luogo, non ha più quindi niente a che vedere con il movimento: ne è l’estasi -così c’è qualcosa del corpo di cui, nella sua aberrazione, l’obesità è la perfetta verifica, la verità estatica, perché in essa il corpo, invece di riflettersi, si assume a proprio specchio ingrandente. “Solo le frasi tautologiche sono perfettamente vere,” dice Canetti.

   

   

  L’ostaggio

   

  La violenza è anomica, il terrore è anomalo.

  Anch’esso, come l’obesità, è una sorta di specchio convesso e deformante dell’ordine e della scena politica. Specchio della sua scomparsa. Anch’esso sembra emergere da un’altra concatenazione, aleatoria e vertiginosa, da un panico per contiguità, e non corrispondere più alle sole determinazioni della violenza. Più violento del violento, tale è il terrorismo, la cui spirale transpolitica corrisponde allo stesso spingersi fino agli estremi in assenza di regola del gioco.

  Né morto né vivo, l’ostaggio è sospeso a una scadenza incalcolabile. Non è il suo destino che lo assilla, né la sua propria morte, è un caso anonimo che non può apparirgli che come un arbitrio assoluto. Non ci sono più regole nemmeno nel gioco della sua vita e della sua morte. Per questo è al di là dell’alienazione, al di là dei termini dell’alienazione e dello scambio. È in uno stato d’emergenza radicale, di sterminio virtuale.

  Non può nemmeno più correre il rischio della propria vita: essa gli è rubata per servire da copertura. È questo il peggio in qualche modo: che l’ostaggio non rischia più niente, è perfettamente al riparo, è strappato al suo destino.

  Non è più affatto una vittima, perché non è lui che muore, e non fa che rispondere della morte di un altro. La sua sovranità non è nemmeno alienata - è congelata.

  Avviene così in guerra, secondo una legge degli equivalenti che non è propriamente quella di guerra: dieci ostaggi fucilati per un ufficiale abbattuto. Ma interi popoli possono servire da ostaggi al loro capo: il popolo tedesco fu votato alla morte da Hitler salvo che non ottenesse la vittoria. E, nella strategia nucleare, le popolazioni civili e le grandi metropoli urbane servono da ostaggi agli stati maggiori: la loro morte e la loro distruzione servono da argomento di dissuasione.

  Siamo tutti degli ostaggi. Serviamo ormai tutti da argomento di dissuasione. Ostaggi obiettivi: rispondiamo collettivamente di qualcosa, ma di che cosa? Una sorta di predestinazione truccata, di cui non siamo nemmeno più in grado di individuare chi l'ha manomessa, ma noi sappiamo che la bilancia della nostra morte non è più nelle nostre mani, e che siamo ormai in uno stato di suspense e d’emergenza permanente, del quale il nucleare è il simbolo. Ostaggi oggettivi di una divinità terrificante, non sappiamo nemmeno da quale evento, da quale accidente dipenderà la manipolazione definitiva.

  Ma anche ostaggi soggettivi. Rispondiamo di noi stessi, ci serviamo di coperture, rispondiamo di persona dei nostri rischi. È la legge della società previdenziale, in cui tutti i rischi devono essere coperti. Questa situazione corrisponde a quella dell’ostaggio. Siamo ospedalizzati dalla società, presi in ostaggio. Né la vita né la morte: questa è la sicurezza - questo è anche paradossalmente lo statuto dell'ostaggio.

  Forma limite e caricaturale della responsabilità: quella anonima, statistica, formale e aleatoria messa in gioco dall'atto terroristico o dalla presa in ostaggio. Ma se ci si pensa bene, il terrorismo non è che il carnefice di un sistema che, anch’esso, mira nello stesso tempo e contraddittoriamente all’anonimato totale e alla responsabilità totale di ciascuno di noi. Attraverso la morte di uno qualsiasi, esso esegue la sentenza d’anonimato che è già fin d’ora la nostra, quella del sistema anonimo, del potere anonimo, del terrore anonimo delle nostre vite reali. Il principio dello sterminio non è la morte, è l’indifferenza statistica. Il terrorismo non è che lo strumento di realizzazione di un concetto che si nega realizzandosi: quello della responsabilità illimitata e indeterminata (chiunque è responsabile di qualunque cosa in un qualsiasi momento). Esso non fa che dar seguito, fino alla sua estrema conseguenza, alla stessa massima dell’umanesimo liberale e cristiano: tutti gli uomini sono solidali, anche tu, qui, sei solidale e responsabile della miseria del paria di Calcutta. A forza d’interrogarsi sulla mostruosità del terrorismo, ci si dovrebbe forse domandare se non discende da una tesi di responsabilità universale anch’essa mostruosa e terroristica nella sua essenza.

   

  La nostra situazione paradossale è la seguente: poiché niente ha più senso, tutto dovrebbe funzionare alla perfezione. Poiché non c’è più un soggetto responsabile, ogni evento, per quanto minimo, deve essere disperatamente imputato a qualcuno o a qualcosa - tutti sono responsabili, aleggia una responsabilità inaudita, pronta a investirsi in un qualsiasi incidente. Ogni anomalia dev'essere giustificata, ogni irregolarità deve trovare il suo colpevole, la sua concatenazione criminale. Anche questo è terrore, anche questo è terrorismo: questa ricerca di responsabilità senza alcuna proporzione con l'evento - questa isteria di responsabilità che è essa stessa una conseguenza della scomparsa delle cause e dell'onnipotenza degli effetti.

  Il problema della sicurezza, come si sa, ossessiona le nostre società e da tempo si è sostituito a quello della libertà. Non è tanto un cambiamento filosofico o morale, quanto un’evoluzione dello stato oggettivo dei sistemi:

  -    uno stato relativamente a maglie larghe, diffuso, estensivo del sistema produce la libertà;

  -    uno stato differente del sistema (più denso) produce la sicurezza (l’autoregolazione, il controllo, il feedback ecc.);

  -    uno stato ulteriore del sistema, quello della proliferazione e della saturazione, produce il panico e il terrore.

   

  Non c’è alcuna metafisica in tutto ciò: sono stati oggettivi del sistema. Potete applicare la tesi alla circolazione automobilistica o al sistema di circolazione della responsabilità - è la stessa cosa. Libertà, sicurezza, terrore: abbiamo oltrepassato queste tappe successive in tutti i campi. Responsabilità personale, poi controllo (assunzione della responsabilità da parte di un’istanza oggettiva), poi terrore (responsabilità generalizzata e ricatto della responsabilità).

  È per correre ai ripari, per far cessare lo scandalo della morte accidentale (inaccettabile per il nostro sistema di libertà, di diritto e di produttività) che s’insediano i grandi sistemi di terrore, cioè di prevenzione della morte accidentale attraverso la morte sistematica e organizzata. È questa la nostra situazione insieme mostruosa e logica: i sistemi di morte mettono fine alla morte come accidente. Ed è questa logica che il terrorismo cerca disperatamente di spezzare sostituendo alla morte sistematica (al terrore) una logica elettiva: quella dell’ostaggio.

  (Anche il papa, offrendosi come vittima sostitutiva agli ostaggi di Mogadiscio, cerca di sostituire al terrore anonimo una morte elettiva, un sacrificio, simile al modello cristico del riscatto universale - ma questa offerta è parodistica senza volerlo: infatti essa indica una soluzione e un modello affatto impensabili nei nostri sistemi attuali, la cui risorsa è precisamente non il sacrificio, ma lo sterminio, non la vittima eletta, ma l’anonimato spettacolare.) Anche il sacrifìcio dei terroristi, che tentano di risolvere la situazione con la loro stessa morte, non ha niente di espiatorio, non fa che sollevare per un istante il velo del terrore anonimo.

  Non c’è niente da riscattare, perché gli uni come gli altri, i terroristi come gli ostaggi, hanno perduto il loro nome: sono diventati tutti innominabili.

  Non hanno più nemmeno territorio. Si è parlato dello “spazio del terrorismo”: gli aeroporti, le ambasciate, gli spazi suddivisi, le zone non territoriali. L’ambasciata è lo spazio minimo attraverso il quale si può prendere tutto un paese straniero in ostaggio. L’aereo, con i suoi passeggeri, è una particella, la molecola errante di un territorio nemico, dunque non è già quasi più un territorio, dunque è già quasi un ostaggio, dato che prendere qualcosa in ostaggio è strapparlo al suo territorio per trasferirlo nell’equilibrio del terrore. Esso oggi è ovunque la nostra condizione normale e silenziosa, ma si materializza in modo più visibile nello spazio orbitale, lo spazio siderale che oggi ovunque incombe sul nostro.

  È sulla no man’s land del terrore che ormai si regge l’ordine del mondo: è da questo luogo, in qualche modo extraterritoriale, extraplanetario, che il mondo è letteralmente preso in ostaggio. Ecco il significato dell’equilibrio del terrore: il mondo è reso collettivamente responsabile dell’ordine che vi regna - se qualcosa dovesse pericolosamente infrangere questo ordine, il mondo dovrebbe essere distrutto... E donde può essere più efficacemente distrutto se non da quei luoghi fuori del mondo che sono i satelliti e le bombe in orbita? E' di lì, da quel luogo che non è definitivamente più un territorio, che tutti i territori sono idealmente neutralizzati e tenuti in ostaggio. Siamo diventati satelliti dei nostri satelliti.

  Lo spazio del terrorismo non è differente dallo spazio orbitale del controllo. Con i satelliti e i voli spaziali, civili quanto militari, lo spazio planetario viene messo en abyme, sospeso a un’imminenza incerta così come avviene all’ostaggio nello spazio della sua detenzione: ex-stasiato in senso letterale, per essere in seguito sterminato.3

  Come c’è uno spazio del terrorismo, c’è una circolazione degli ostaggi. Ogni rapimento, ogni atto terroristico risponde all’altro, e si ha l’impressione, a livello mondiale, che esista una catena, una concatenazione degli atti transpolitici del terrorismo (la scena politica, invece, non dà affatto questa impressione di reazione a catena), come un circuito ininterrotto, anch’esso orbitale, che veicola da un punto all’altro del pianeta una sorta d’informazione sacrificale, un po’ come la “kula” circolava attraverso l’arcipelago della Melanesia.

  Niente assomiglia a questa messa in circolazione degli ostaggi - come della forma assoluta della convertibilità umana, come della forma pura e impossibile dello scambio - più della messa in circolazione degli eurodollari e dei petroldollari e di altre monete fluttuanti, a tal punto deterritorializzate, al di là dell’oro e delle monete nazionali, che in realtà esse non si scambiano virtualmente più, ma proseguono tra loro il loro ciclo orbitale, incarnando il delirio astratto e mai realizzato dello scambio totale, come i satelliti terrestri artificiali incarnano il delirio astratto di trascendenza e di controllo. Ed è anche la forma pura e impossibile della guerra quella che s’incarna nelle bombe orbitali.

   

  Siamo tutti degli ostaggi, siamo tutti dei terroristi. Questo circuito ha rimpiazzato l’altro, quello dei padroni e degli schiavi, quello dei dominanti e dei dominati, quello degli sfruttatori e degli sfruttati. Finita la costellazione dello schiavo e del proletario, è ormai subentrata quella dell’ostaggio e del terrorista. Finita la costellazione dell’alienazione, siamo ormai in quella del terrore. È peggio dell’altra, ma almeno ci libera dalle nostalgie liberali e dalle astuzie della storia. Comincia l’era del transpolitico.

  Non è solo nella sfera “politica”, è ovunque che siamo entrati nella costellazione del ricatto. È ovunque che questa demoltiplicazione insensata della responsabilità opera come dissuasione.

  Fino alla nostra identità di cui siamo gli ostaggi: ci viene intimato di assumerla, di risponderne personalmente (questa è la sicurezza, si dice, eventualmente la sicurezza sociale) -, ci viene intimato di essere noi stessi, di parlare, di gioire, di realizzarci - sotto pena di... sotto quale pena? È una provocazione. La provocazione, al contrario della seduzione che permette alle cose di giocare e di manifestarsi nel segreto, nel duello e nell’ambiguità, non vi lascia liberi di essere, vi intima di rivelarvi tali e quali siete. È sempre un ricatto dell’identità (e dunque un omicidio simbolico, poiché non siete mai quella cosa, se non precisamente per esservi condannati).

  Tutta la sfera della manipolazione è dello stesso ordine. La manipolazione è una tecnologia dolce della violenza che si serve del ricatto. E il ricatto si esercita sempre attraverso la presa in ostaggio di una particella dell’altro, un segreto, un affetto, un desiderio, un piacere, la sua sofferenza, la sua morte - è su questo che facciamo leva nella manipolazione (che copre tutto il campo psicologico), è il nostro modo di far sorgere per sollecitazione coatta una domanda equivalente alla nostra.

  Nel regime interindividuale della domanda (contrariamente che nell’amore, nella passione o nella seduzione), siamo sottoposti al ricatto affettivo, siamo l’ostaggio affettivo dell’altro: “Se non mi dai questo, sarai responsabile della mia depressione - se non mi ami, sarai responsabile della mia morte”; e senza dubbio: “Se non ti lasci amare, sarai responsabile della tua stessa morte”. In breve, un aggiramento isterico - intimazione e sollecitazione a rispondere.

  Per non essere presi, prendete gli altri in ostaggio. Non esitate. In ogni caso, è la regola comune, è la condizione generale. La sola condizione transpolitica è quella delle masse. Il solo atto transpolitico è il terrorismo, quello che rivela la nostra miseria transpolitica e ne trae le conseguenze estreme. E questo, per disgrazia dei nostri spiriti critici, qualunque sia la sua ispirazione di parte. Non c’è messaggio di fronte alla presa d’ostaggio, essa non ha senso, né efficacia politica. E' un evento senza conseguenze (sbocca sempre su un binario morto). Ma gli avvenimenti politici offrono da parte loro qualcosa che non sia una falsa continuità? È la soluzione di continuità a essere interessante. Un tempo si presentava come rivoluzione, oggi non porta ad altro che a degli effetti speciali. E lo stesso terrorismo non è che un gigantesco effetto speciale.

  Tuttavia ciò non avviene perché manchi una volontà di significato. Contro la trasparenza generale, il terrorismo vuole ingiungere alle cose di ritrovare il loro senso, ma non fa altro che accelerare questa sentenza di morte e d’indifferenza. Il suo effetto però è di un genere abbastanza particolare perché deve essere distinto e opposto agli altri come forma catastrofica della trasparenza, forma cristallina, forma intensiva - contro tutte le forme estensive che ci circondano. Esso riflette questo dilemma, nel quale siamo disgraziatamente imprigionati, che non c’è senza dubbio soluzione all’estensione latente del terrore se non nella sua intensificazione visibile.

  L'unica rivoluzione nelle cose oggi non sta più nel loro superamento dialettico (Aufhebung), ma nel loro potenziamento, nel loro elevarsi alla seconda potenza, all’ennesima potenza, sia quella del terrorismo, dell’ironia o della simulazione. Non più la dialettica, ma l’estasi è la moneta corrente. Così il terrorismo è la forma estatica della violenza, così lo stato è la forma estatica della società, così il pomo è la forma estatica del sesso, l'osceno la forma estatica della scena ecc. Sembra che le cose, avendo perduto la loro determinazione critica e dialettica, non possano che raddoppiarsi nella loro forma esacerbata e trasparente. Ecco la guerra pura di Virilio: l’estasi della guerra irreale, eventuale e ovunque presente. Non c’è niente, fino all’esplorazione spaziale, che non sia una mise eri abyme di questo mondo. Ovunque il virus del potenziamento e della mise en abyme trionfa, ci trasporta verso un’estasi che è anche quella dell’indifferenza.

   

  Il terrorismo, il rapimento, sarebbe un atto politico se fosse soltanto opera di oppressi disperati (può ancora essere tale, in certi casi). Ma in realtà è diventato il comportamento normale, generalizzato di tutte le nazioni e di tutti i gruppi. Così l'’Urss non liquida Sakharov, non annette l’Afghanistan: prende Sakharov in ostaggio, prende l’Afghanistan in ostaggio: “Se squilibrate il rapporto di forze, allora mi irrigidisco nella guerra fredda...”. I giochi olimpici servono agli Stati Uniti come ostaggio contro l'Urss: "Se non vi ritirate, i giochi sono morti...”. Il petrolio serve da ostaggio ai paesi produttori contro l’Occidente. Non serve deplorare questa situazione in nome dei diritti umani o altro. Siamo già ben oltre, e chi prende ostaggi non fa che tradurre apertamente la verità del sistema della dissuasione (è per questo che gli si oppone il sistema della morale).

  Più in generale, siamo allo stesso modo tutti ostaggi del sociale: “Se non partecipate, se non amministra-tè il vostro capitale in denaro, salute, desiderio... Se non siete sociali, vi distruggete con le vostre mani”. L’idea barocca di prendere se stesso in ostaggio per soddisfare le proprie esigenze non è dunque così singolare -'è d'altra parte l'atto al quale giungono i “forsennati” che si barricano e resistono fino alla morte.

  Il ricatto è peggio della proibizione. La dissuasione è peggio della sanzione. Con la dissuasione non viene più detto: "Non devi fare questo”, ma: “Se tu non fai questo...''. E qui la frase si ferma - l'eventualità minacciosa è lasciata in sospeso. Tutta l'arte del ricatto e della manipolazione sta in questa sospensione - la “suspense” che è propriamente quella del terrore (esattamente come nella presa dell'ostaggio questi è sospeso, non condannato: sospeso a una scadenza che gli sfugge). Inutile dire che nello stesso modo noi viviamo collettivamente sotto il ricatto nucleare, non sotto la minaccia diretta, ma sotto il ricatto del nucleare, che è a rigore un sistema non di distruzione, ma di manipolazione planetaria.

  Il ricatto istituisce un tipo affatto differente di rapporto e di potere da quello che si fondava sulla violenza della proibizione. Infatti quest’ultimo aveva un riferimento a un oggetto determinato, e dunque ne era possibile la trasgressione. Mentre il ricatto è allusivo, non si fonda più su un imperativo né sull’enunciazione di una legge (si dovrebbe inventare il modo dissuasivo che riposa sulla non-enunciazione della legge, e sulla ritorsione fluttuante), si serve della forma enigmatica del terrore.

   

  Il terrore è osceno in questo, che mette fine alla scena della proibizione e della violenza, che per lo meno ci era familiare.

  Il ricatto è osceno perché mette fine alla scena del lo scambio.

  Anche l'ostaggio è osceno. E' osceno perché non rappresenta più niente (è la definizione stessa dell’oscenità). È in uno stato di esibizione pura e semplice. Oggetto puro, senza immagine. Scomparso prima di essere morto. Congelato in uno stato di scomparsa. A suo modo ibernato.

  Fu questa la vittoria delle Brigate Rosse nel rapimento di Aldo Moro: il dimostrare, mettendolo fuori gioco (con la complicità della Dc che si prodigò per lasciarlo morire), che non rappresentava niente, e nello stesso tempo facendone l’equivalente nullo dello stato. Il potere, così ridotto alla sua spoglia anonima, non ha nemmeno più importanza come cadavere, e può finire nel portabagagli di un’automobile, in un modo vergognoso per tutti, e anche in questo caso osceno, non avendo nemmeno più un significato (nell’ordine politico tradizionale, non si sarebbe mai preso un re o un principe in ostaggio: eventualmente lo si uccide, e anche allora il suo cadavere è potente).

  L’oscenità dell’ostaggio si verifica nell’impossibilità di sbarazzarsene (le Br ne hanno fatto esperienza anche con Moro). È l’oscenità di qualcuno che è già morto - è per questo che è inutilizzabile politicamente. Osceno attraverso la scomparsa, diventa lo specchio dell’oscenità visibile del potere (questo alle Br è riuscito perfettamente - la sua morte, invece, fu molto problematica, perché se è vero che non serve a niente morire, bisogna saper scomparire, è anche vero che non serve a niente uccidere, bisogna saper far scomparire).

  Si pensi anche al giudice D’Urso, trovato legato e imbavagliato in un’automobile - non morto, ma con cuffia e musica sinfonica a tutto volume: transistorizzato. Merda sacra che ogni volta le Br sono andate a gettare ai piedi del partito comunista.

  Questa oscenità, questo partito preso esibizionistico del terrorismo, contrariamente al partito inverso del segreto nel sacrificio e nel rito, spiega la sua affinità con i media - che sono lo stadio osceno dell’informazione. Si dice: senza i media non ci sarebbe il terrorismo. Ed è vero che il terrorismo non esiste in sé, come atto politico originale: è l’ostaggio dei media, esattamente come questi sono i suoi ostaggi. Non c'è fine in questa catena del ricatto - tutti sono ostaggi dell’altro, è il colmo della raffinatezza del nostro rapporto cosiddetto "sociale”. D’altra parte c’è un altro termine dietro a tutto ciò, che è come la matrice di questo ricatto circolare: le masse, senza le quali non ci sarebbero né media né terrorismo.

  Le masse sono il prototipo assoluto dell’ostaggio, della cosa presa in ostaggio, e cioè annullata nella sua sovranità, abolita e inesistente come soggetto, ma - attenzione! - radicalmente non scambiabile come oggetto. Come per l’ostaggio, non si sa che fame, e non si sa come sbarazzarsene. È questa la rivincita indimenticabile dell’ostaggio, è questa la rivincita indimenticabile delle masse. Tale è la fatalità della manipolazione, che non può mai essere una strategia né sostituirla.

  È ancora, a dire il vero, per nostalgia che distinguiamo un manipolatore attivo da un manipolato passivo - facendo balenare così i vecchi rapporti di dominio e di violenza nella nuova era delle tecnologie dolci. Se si prende una delle figure della manipolazione, l’unità minimale domanda/risposta nelle interviste, nei sondaggi e in altre forme di sollecitazione guidata, la risposta vi è introdotta dalla domanda, non c’è dubbio, ma chi pone la domanda non ha una maggiore autonomia: non può porre che le domande che abbiano delle probabilità di ricevere una risposta circolare - egli è dunque preso esattamente nello stesso circolo vizioso. Non può esservi strategia da parte sua, c'è manipolazione da entrambe le parti. Il gioco è uguale, o piuttosto la posta è ugualmente nulla.

  Il caso Moro offriva già un bell’esempio di questa strategia a somma zero la cui scatola nera sono i media e l’amplificatore le masse inerti e stregate. Gigantesco ciclo con quattro protagonisti, nel quale circola una responsabilità introvabile. Scena girevole del transpolitico.

  Nella persona translucida di Moro è lo stato vuoto, assente (il potere che ci attraversa senza colpirci, quello che attraversiamo anche noi senza colpirlo), a essere preso in ostaggio dai terroristi, anch’essi clandestini e inafferrabili - l’uno e gli altri mimano disperatamente il potere e il contropotere. Impossibile ogni negoziato, la morte di Moro significa che non c’è più niente da negoziare tra due giocatori diventati l’uno ostaggio dell’altro, come in ogni sistema a responsabilità illimitata. (La società tradizionale è una società a responsabilità limitata, è per questo che può funzionare - in una società a responsabilità illimitata, e cioè dove i termini dello scambio non scambiano più niente, ma si scambiano continuamente tra loro, tutto gira su se stesso, non producendo altro che effetti di vertigine e di fascinazione. Bisogna notare che l’Italia, che ha già offerto alla storia i suoi spettacoli più belli, il Rinascimento, Venezia, la Chiesa, il trompe-l’œil, l’opera, ci consegna ancor oggi, con lo spettacolo del terrorismo, l’episodio più fertile e più barocco, nel quadro di una complicità globale di tutta la società italiana: terrorismo dell’arte!)

  Con il rapimento del giudice D’Urso, lo scenario è cambiato. Non è più tanto lo stato ufficiale contro i terroristi liberi e clandestini, sono i terroristi detenuti, nominati giudici nel fondo delle loro prigioni (mentre il giudice D’Urso diventa simbolicamente un detenuto), contro il segreto dell’informazione (i media insistono nell’ignorare la loro esistenza). I poli sono cambiati: i terroristi prigionieri, in qualche modo liberatisi della clandestinità, negoziano non più con la classe politica, ma con la classe dei media.

  In realtà, anche in questo caso appare eyidente che:

  -    non c’è niente da negoziare: i testi di cui le Br esigono la diffusione sono politicamente ridicoli, e inoltre sono un segreto di Pulcinella;

  -    lo stato non sa che farsene dei detenuti, ancora più ingombranti in prigione che nella clandestinità, più di quanto le br sappiano che farsene del loro ostaggio.

  Quel che resta è l’effetto di responsabilità che gira su se stessa che le Br sono riuscite a creare, e in cui lo stato, la classe politica, e gli stessi media si ritrovano responsabili dell’eventuale morte di D’Urso al pari dei terroristi. Far circolare un massimo di responsabilità a vuoto equivale a far esplodere l'irresponsabilità generale, e dunque a far saltare il contratto sociale. La regola del gioco politico è abolita non da un preciso esercizio della violenza, ma dalla circolazione impazzita di atti e di imputazioni, di effetti e di cause, dalla messa in circolazione forzata dei valori di stato, come la violenza, la responsabilità, la giustizia ecc.

  Questa pressione è fatale per la scena politica. Si accompagna a un ultimatum implicito che è più o meno il seguente: "Che prezzo volete pagare perché vi si liberi dal terrorismo?". Sottinteso: il terrorismo è ancora un male minore dello stato poliziesco capace di venirne a capo. È verosimile che noi siamo segretamente consenzienti con questa proposizione fantastica, non è necessaria la “coscienza politica”, è un segreto bilancio del terrore a farci capire che l’eruzione spasmodica della violenza è preferibile al suo esercizio razionale nel quadro dello stato, alla sua prevenzione totale al prezzo di un controllo programmato e totale.

  È in ogni caso preferibile che qualcosa faccia da contrappeso all’onnipotenza dello stato. Se le mediazioni che assicuravano questo equilibrio relativo e al tempo stesso la regola del gioco politico sono scomparse, se il contratto sociale è scomparso contemporaneamente alla possibilità per ognuno di inventare il suo essere sociale, e cioè di sacrificare una particella della sua libertà in vista del benessere collettivo, perché tutto ciò è già virtualmente preso in carico dallo stato (anche in questo si manifesta la fine dello scambio: l’individuo non può più nemmeno negoziare la sua particella di libertà, senza di che si vede come un ostaggio, un assicurato a vita) -, allora è inevitabile che lo stato susciti, con la scomparsa di questa scena politica, una forma, insieme radicale e fantomatica, di contestazione: il fantasma del terrorismo, che gioca il suo stesso gioco, e col quale lo stato stipula una sorta di nuovo contratto sociale perverso.

  In ogni caso, questo ultimatum lascia lo stato senza risposta, perché gli ingiunge di diventare più terrorista dei terroristi. E getta i media in un dilemma irrisolvibile: se non volete più terrorismo, bisognerà rinunciare anche all’informazione.

   

  Il problema dell’ostaggio è appassionante perché pone la questione dell’impermutabile. Lo scambio è la nostra regola, e lo scambio ha le sue regole. Ebbene, siamo in una società in cui lo scambio diventa sempre più improbabile, in cui sempre meno le cose possono realmente essere negoziate perché se ne sono perdute le regole, o perché lo scambio, generalizzandosi, ha fatto emergere gli ultimi oggetti irriducibili allo scambio, e perché questi sono diventati la vera posta in gioco.

  Viviamo la fine dello scambio. E, d’altra parte, solo lo scambio ci protegge dal destino. Laddove lo scambio non è più possibile, ci si trova in una situazione fatale, una situazione di destino.

  L’impermutabile è l’oggetto puro, quello la cui potenza impedisce sia di possederlo, sia di scambiarlo. Qualcosa di molto prezioso di cui non si sa come sbarazzarsi. Questo brucia tra le mani, questo non si negozia. Questo si uccide, ma si vendica. Il cadavere gioca sempre questo ruolo. Anche la bellezza. E il feticcio. Questo non ha valore, ma non ha prezzo. È un oggetto senza interesse, e simultaneamente assolutamente singolare, senza equivalente e per così dire sacro.

  L’ostaggio è nello stesso tempo due cose: è un oggetto annullato, abolito, anonimo, e un oggetto assolutamente differente, eccezionale, ad alta intensità, pericoloso, sublime (pericoloso come il terrorista: domandate ai responsabili della liberazione degli ostaggi se questi non ispirano, con la loro sola esistenza, con la loro stessa presenza, lo stesso terrore che suscita il terrorista - d’altronde, per risolvere la situazione, la soppressione degli ostaggi è obiettivamente equivalente a quella dei terroristi: i governi sceglieranno ora l’una ora l’altra secondo le circostanze).

  Per tutte queste ragioni, segretamente, l’ostaggio non è più negoziabile. Proprio a causa della sua convertibilità assoluta. Non c’è situazione in cui questo paradosso sia altrettanto compiutamente realizzato: strappato al circuito dello scambio, l’ostaggio diventa permutabile con qualsiasi cosa. Diventato sacro per sottrazione, per lo stato d'emergenza radicale in cui è posto, l'ostaggio diventa l’equivalente fantastico di tutto il resto.

  L’ostaggio non è lontano dal feticcio, o dal talismano - oggetto anch’esso ritagliato dal contesto del mondo per diventare il centro di un’operazione singolare, quella dell’onnipotenza del pensiero. Il gioco, e in particolare il gioco d’azzardo, non persegue niente di diverso: il denaro ritirato dalla circolazione e destinato alla perdita diventa la posta di una convertibilità prodigiosa, di una moltiplicazione mentale attraverso il pensiero, che non è possibile se non quando il denaro ha preso la forma dell’oggetto puro, perfettamente artificiale: fattizio, feticcio.

  Ma si sa che né il feticcio può essere restituito al mondo comune (che esclude l’onnipotenza del pensiero), né il denaro del gioco può essere riversato nel circuito economico - è la legge segreta dell’altro circuito. Ugualmente ci sono difficoltà gigantesche per convertire l’ostaggio in valori fiduciari o politici. È quésta l’illusione del terrorista - l’illusione terrorista in generale: lo scambio non ha mai avuto luogo, lo scambio è impossibile - esattamente come nella tortura, d’altra parte, nella quale le sofferenze del torturato non sono convertibili in vantaggi politici, e nemmeno in piacere per il torturatore. Così il terrorista non può mai veramente riconvertire l'ostaggio, l’ha in qualche modo strappato troppo violentemente alla realtà per poterglielo restituire.

  La presa d’ostaggio è il tentativo disperato di radicalizzare il rapporto di forza e di ricreare uno scambio al vertice, di attribuire a un oggetto o a un individuo un valore inestimabile mediante il rapimento e la sparizione (dunque mediante la scarsità assoluta), e nello stesso tempo lo scacco paradossale di questo tentativo: poiché il rapimento equivale a un annullamento del soggetto, questo valore di scambio si dissolve nelle mani dei terroristi. D’altra parte, nella situazione così creatasi, il sistema molto rapidamente si dispone ad accorgersi che può funzionare senza quell’individuo (Moro ad esempio) e che, in un certo senso, conviene non recuperarlo, perché un ostaggio rilasciato è più pericoloso di un ostaggio morto: è contaminato, il suo unico potere è quello di una contaminazione malefica (questa sarebbe stata una buona strategia da parte delle Br: dopo averlo annullato come uomo di stato, il rimettere in gioco questo morto vivente che nessuno voleva più, questa carta avvelenata che avrebbe perturbato tutta la mappa politica. E sbarazzarsene sarebbe stato allora un compito della controparte).

  Se la convertibilità è impossibile, in definitiva risulta che il terrorista non scambia mai altro che la propria vita contro quella dell’ostaggio. E ciò spiegala strana complicità che finisce per unirli. Sottraendo violentemente l’ostaggio al circuito del valore, anche il terrorista si sottrae al circuito del negoziato. Sono entrambi fuori del circuito, complici nel loro stato d’emergenza, e quella che si stabilisce allora tra l’uno e l’altro è una figura duale, forse la figura della seduzione - l’unica figura moderna della morte condivisa, essendo nello stesso tempo la figura estrema della morte indifferente -, impermutabile, tanto è indifferente.

  Oppure bisogna pensare che la presa d’ostaggio non abbia mai per fine il negoziato: essa produce l’impermutabile. Il "come sbarazzarsene?" è un falso problema. La situazione è originale per il fatto di essere inestricabile. Bisogna concepire il terrorismo come un atto utopico che proclama con violenza, di primo acchito, l’impermutabilità, mettendo sperimentalmente in scena uno scambio impossibile, e verificando in tal modo una situazione comune, la nostra, quella della perdita storica della scena dello scambio, della regola dello scambio, del contratto sociale. Infatti dovè ormai l’altro con cui negoziare quel che resterebbe di libertà e di sovranità, con cui giocare il gioco della soggettività e dell’alienazione, con cui negoziare la mia immagine allo specchio?

  Proprio questo è scomparso, quella bella vecchia alterità del rapporto, quel bel vecchio investimento del soggetto nel contratto e nello scambio razionale, luogo a un tempo della convenienza e della speranza. Tutto ciò lascia il posto a uno stato d’emergenza, a una speculazione insensata, che ha qualcosa sia del duello, sia della provocazione. La presa in ostaggio è una speculazione di questo ordine - effimero, insensato, istantaneo. La sua essenza non è dunque politica, si inscrive completamente come sogno di una trattativa fantastica, sogno di uno scambio impossibile, denuncia dell’impossibilità di questo scambio.

   

   

  L’osceno    

   

  Tutte queste figure, che appaiono come le figure di un’indifferenza esacerbata, di un’esacerbazione del vuoto, quella dell’obesità, quella del terrore, sono anche le figure della perdita dell’illusione, del gioco e della scena, dunque delle figure dell'OSCENO.

  Perdita della scena del corpo nell’obeso, perdita della scena dello scambio nell’ostaggio, perdita della scena sessuale nell’oscenità ecc. Ma anche dispersione della scena del sociale, del politico, della scena teatrale. Ovunque una perdita del segreto, della distanza e della padronanza dell’illusione.

  Si è completamente dimenticata quella forma di sovranità che consiste nell’esercizio dei simulacri in quanto tali. Eppure la cultura non è mai stata qualcosa di diverso: comunanza collettiva dei simulacri, alla quale oggi si oppone per noi la comunanza coatta del reale e del senso. La sola sovranità è nella padronanza delle apparenze, la sola complicità è nella comunanza collettiva dell’illusione e del segreto.

  Tutto ciò che dimentica questa scena e questa padronanza dell'illusione per dedicarsi alla semplice ipotesi e alla padronanza del reale cade nell’osceno. Il modo di apparizione dell’illusione è la scena, il modo di apparizione del reale è l’osceno.

   

  Esiste un terrore, nello stesso tempo che un fascino, nella generazione perpetua dello stesso da parte dello stesso. Questa confusione è esattamente quella della natura, è la confusione naturale delle cose, e solo l’artificio può metterle fine. Solo l’artificio può scongiurare questa indifferenziazione, questo accoppiamento dello stesso con lo stesso.

  Non c’è niente di peggio di ciò che è più vero del vero. Tale è il clone, o l’automa nella storia dell’illusionista. In quest’ultimo caso, quel ch’è terrificante non è la scomparsa del naturale nella perfezione dell’artificiale (l’automa fabbricato dall’illusionista imitava perfettamente tutti i movimenti umani, fino a non essere più distinguibile dallo stesso illusionista), è al contrario la scomparsa dell’artificio nell’evidenza del naturale. Vi è una sorta di scandalo insopportabile. Questa indifferenziazione ci rinvia a una natura terrificante. È per questo che l’illusionista, di rimando, falsificherà il vero automa, con la rigidità un po’ meccanica dei gesti, ripristinando così, contro il terrore della somiglianza, il gioco e la potenza dell’illusione.

  Ciò che non suscita più l’illusione è morto, e ispira il terrore. Così avviene al cadavere, ma anche al clone, e più in generale a tutto ciò che si confonde con se stesso al punto di non essere più nemmeno capace di giocare con la propria apparenza. Questo limite della disillusione è la morte.

  Contro il vero del vero, contro il più vero del vero (che diventa immediatamente pomografico), contro l’oscenità della evidenza, contro questa promiscuità immonda con se stessi che si chiama la somiglianza, bisogna ripristinare l’illusione, ritrovare l’illusione, questa potenza insieme immorale e malefica di strappare lo stesso allo stesso che si chiama seduzione. La seduzione contro il terrore: è questa la posta, non ce n’è altra.

  Cancellazione di ogni scena, di ogni potenza d’illusione, cancellazione della distanza, di quella distanza che reggeva il cerimoniale o la regola del gioco - trionfo della promiscuità in tutti i campi. L’erotizzazione, la sessualizzazione non sono che l’espressione di questa mescolanza, di questa confusione di tutti i ruoli. La psicologia, in particolare, sempre ambigua e infelice, è legata alla perdita degli spazi scenici distinti e di ogni regola del gioco. L’"altra scena”, quella dell'inconscio e del fantasma, non può consolarci della perdita della scena, fondamentale, dell’illusione.

   

  L’illusione non è falsa, infatti non usa segni falsi, usa segni insensati. Per questo delude la nostra esigenza di senso, ma incantevolmente.

  Lo stesso fa l’immagine in generale, più sottile del reale, poiché non ha che due dimensioni, e dunque sempre più seducente (è veramente il diavolo che ne ha popolato l’universo). Lo stesso fa il trompe-l’oeil: aggiungendo alla pittura l’illusione del reale, è in qualche modo più falso del falso - è un simulacro al secondo grado.

  Anche la seduzione è più falsa del falso, poiché usa segni che sono già dei sembianti per fargli perdere il loro senso - trae in inganno i segni e gli uomini. Chi, in seguito a una parola o a uno sguardo, non ha mai smarrito il senso non sa che cosa sia questo perdersi, l’abbandonarsi all’illusione totale dei segni, all’ascendente immediato delle apparenze, e cioè l’andare al di là del falso, nell’abisso assoluto dell’artificio.

  Il falso non fa che incuriosire il nostro senso del vero, il più falso del falso ci travolge oltre, ci avvince irrevocabilmente. Nel mondo reale, il vero e il falso si bilanciano, e quel che è acquistato dall’uno è perduto per l’altro. Nel movimento della seduzione (si pensi anche all’opera d’arte), è come se il falso risplendesse di tutta la potenza del vero. È come se l’illusione risplendesse di tutta la potenza della verità. Che cosa possiamo contrapporvi? Non c’è più reale o significato che tenga. Quando una forma risplende dell’energia inversa, quando l’energia del falso risplende della potenza del vero, o quando il Bene risplende dell’energia del Male - quando, invece di contrapporli, una sorta di anamorfosi singolare presiede al trasparire di una forma in un’altra, al trasparire di un’energia nell’energia inversa, che cosa si può opporre a questo singolare movimento?

   

  In questa crescita fino agli estremi è operante la logica della simultaneità degli effetti inversi. Forse bisogna opporre radicalmente gli effetti dell’oscenità e quelli della seduzione, ma forse bisogna anche cumularli, e coglierli insieme nella loro anamorfosi inestricabile?

  Così nel gioco in cui si punta del denaro si risolvono luna nell’altra in una maniera clamorosa l’oscenità totale e l’illusione segreta del valore.

  Il gioco è grande perché è nello stesso tempo il luogo dell’estasi del valore e il luogo della sua sparizione. Non il luogo della sua trasgressione nel potlach e nella spesa - questa è ancora l’utopia trascendente di Bataille, l’ultimo sogno dell’economia politica. No, nel gioco il denaro non viene né prodotto né distrutto, scompare come valore e risorge come apparenza, è restituito alla sua apparenza pura, nella reversibilità immediata del guadagno e della perdita.

  L’oscenità del gioco è totale, perché non vi si fa più appello a una qualche profondità o valore; il denaro è nudo, ha subito la metamorfosi in circolazione pura, in fascinazione pura, in passione formale, in godimento trasparente, freddo e superficiale. Lubricità disincarnata, forma estatica del valore.

  Ma anche il segreto del gioco è totale: è che il denaro non esiste. È come il segreto del potere: che non esiste - o quello della seduzione: che il desiderio non esiste. Il denaro non esiste né come essenza, né come sostanza, né come valore. E il gioco lo restituisce a questa inesistenza.

  Avviene esattamente il contrario che nell'economia politica e nello scambio, in cui il denaro ha il peso di tutta l’operazione simbolica del valore. Qui c’è il retaggio del denaro come simulacro puro, sollevato di tutta l’oscenità per circolare soltanto secondo la regola arbitraria del gioco.

  Il segreto del gioco è che il denaro non ha senso. Non esiste che come apparenza. E la sostanza del valore è volatilizzata dal gioco delle apparenze, dall’arbitrio della regola.

  Se può generarsi da sé follemente, come le cifre possono essere moltiplicate con una semplice operazione mentale, ciò è possibile perché non esiste. È come nel gioco che consiste nel memorizzare il maggior numero possibile di termini: ci si spinge infinitamente più avanti quando si riesce a dimenticare il senso delle parole.

  Non si tratta di consumo o di spesa: perché bisogna credere appassionatamente al denaro e al valore per consumarli, come bisogna credere appassionatamente alla legge per trasgredirla. Sono passioni calde. Ma in questo caso non si deve credere a niente, bisogna avere un segreto, quello dell’inesistenza del denaro, se non come potenza di apparire e di subire metamorfosi (o, il che è lo stesso, bisogna credere alla potenza di simulazione assoluta del gioco). È una passione fredda, una forma di estasi fredda. Ne fa parte il calcolo, così come la regola e tutto ciò che partecipa del rituale selvaggio delle apparenze. Il calcolo vi ha la funzione di una maschera, ha la stessa intensità di una maschera. Esso regola, al di là delle apparenze, il gioco di divinità mobili, l’oggettività occulta dietro la soggettività delle apparenze.

   

  Ma se il falso può avere in trasparenza tutta la potenza del vero - tale è la forma sublime dell’illusione e della seduzione -, anche il vero può avere in trasparenza tutta la potenza del falso - ed è la forma dell’oscenità.

  E' questo l’osceno, è il più vero del vero, è il culmine del sesso, l’estasi del sesso, è la forma pura e vuota, la forma schiettamente tautologica della sessualità (solo la tautologia è perfettamente vera). È l’accoppiamento dello stesso con lo stesso. È il sesso colto nella sua esibizione, irrigidito nella sua escrescenza organica, orgasmica, come il corpo nell’obesità, come le cellule nelle metastasi cancerose. Non una forma avvilita, caricaturale e semplificata della sessualità, ma l’esacerbarsi logico della funzione sesso, il più sesso del sesso, il sesso elevato alla potenza sessuale - non è la copulazione dei corpi a essere oscena, è la ridondanza mentale del sesso, è l’escalation di verità che conduce alla vertigine fredda della pornografia.

  Ebbene, è lo stesso processo che conduce alla vertigine incantata della seduzione. Il pieno dove non traspare che il vuoto (il fallimento dell’universo pomografico, questa assenza spettacolare di sensualità e di piacere): ecco l’osceno. L’estenuazione del senso, l’effimero del segno in cui traspare il culmine del piacere: ecco la seduzione. Ma in entrambi i casi, è una qualità che rilancia oltre se stessa verso la sua forma pura, verso il suo irraggiamento estatico.

  E non è soltanto una qualità che può in questo modo estasiarsi, può farlo anche l’assenza di qualità: c’è un irraggiamento estatico di ciò che è neutro, anche il neutro può potenziarsi. Ciò produce un non so che di mostruoso, in cui rientra in buona parte l’osceno. La pornografia è esattamente un’arte dell’esibizione di ciò che è neutro, dell’irraggiamento forzato del neutro.

   

  L’oscenità di tipo sessuale è pietosa e ipocrita, perché ci distoglie dal concepire l'oscenità nella sua forma generale. Questa caratterizza ogni forma che s’irrigidisce nel suo apparire, che perde l’ambiguità dell’assenza per esaurirsi in una visibilità esacerbata.

  Più visibile del visibile, tale è l’osceno.

  Più invisibile dell’invisibile, ecco il segreto.

  La scena è dell’ordine del visibile. Ma non c’è più una scena dell’osceno, non c’è che la dilatazione della visibilità di ogni cosa fino all’estasi. L’osceno è la fine di ogni scena. Inoltre, è di cattivo augurio, è il suo nome a indicarlo. Infatti questa ipervisibilità delle cose è anche l’imminenza della loro fine, il segno dell’apocalisse. Tutti i segni l’hanno su di sé, e non solo i segni infrasessuali e disincarnati del sesso. Essa è, con la fine del segreto, la nostra condizione fatale. Se tutti gli enigmi sono risolti, le stelle si spengono. Se tutto il segreto è restituito al visibile, e più che al visibile: all’evidenza oscena, se ogni illusione è restituita alla trasparenza, allora il cielo diventa indifferente alla terra. Nella nostra cultura tutto si sessualizza prima di scomparire. Non è più una prostituzione sacra, ma una sorta di lubricità spettrale, che s’impadronisce degli idoli, dei segni, delle istituzioni, del discorso - l’allusione, l’inflessione oscena che s’impadronisce di tutti i discorsi, è questa a dover essere considerata come il segno più certo della loro scomparsa.

   

  Non c'è oscenità quando il sesso è nel sesso, quando il sociale è nel sociale, e non altrove. Ma oggi il sociale straripa ovunque, come la sessualità - si parla del “rapporto” sociale come del “rapporto” sessuale. Non è più una socialità mitica e trascendente, è una socialità patetica della vicinanza, del contatto (come le lenti), della protesi, della rassicurazione. È un sociale a lutto, un’allucinazione incessante da parte del gruppo sulla sua determinazione perduta. Il gruppo è assillato dalla socialità come l’individuo lo è dal sesso - entrambi sono sessualmente assillati dalla loro scomparsa.

  Oggi siamo tutti dei lavoratori sociali. Che cos'è questo sociale che non è altro che un lavoro? Che non crede nemmeno più alla propria esistenza di fatto o di diritto, che non crede ad altro che alla sua riproduzione forzata, nel quadro di un mercato in cui si trova sottoposto, come una merce qualunque, alla legge della scarsità, della produzione e dello scambio? Compresa la pubblicità, poiché ovunque nei media, nell’ideologia e nei discorsi, è il sociale a farsi pubblicità.

  In un mondo in cui l’energia della scena pubblica, l’energia del sociale come mito e come illusione (la cui intensità è massima nelle utopie), sta venendo meno, il sociale diventa mostruoso e obeso, si dilata, diventa avvolgente e protettivo, un corpo mammario, cellulare, ghiandolare, che un tempo si inorgogliva dei suoi eroi, e oggi si ancora ai suoi handicappati, ai suoi tarati, ai suoi degenerati, ai suoi debilitati, ai suoi asociali, in una gigantesca azienda di maternità terapeutica.

  Il sociale ha esistenza solo all’interno di certi limiti, quelli in cui s’impone come posta, come mito, direi quasi come destino, come sfida, e mai come realtà, nel qual caso si annienta nel gioco della domanda e dell’offerta. Anche il corpo si annienta nel gioco della domanda e dell’offerta sessuale, anch’esso perde quella potenza mitica che ne fa un oggetto di seduzione...

  Per quanto riguarda il sociale, si può dire che la sua oscenità oggi è pienamente realizzata, è quella del cadavere del quale non si sa come sbarazzarsi, a essere più esatti, esso entra nella fase maledetta che è quella della putrefazione. È allora, prima di rinsecchire e di assumere la bellezza della morte, che il corpo passa per una fase veramente oscena e deve a ogni costo essere scongiurato ed esorcizzato, perché non rappresenta più niente, non ha più nome, e la sua contaminazione innominabile invade ogni cosa.

  Tutto ciò che s’impone mediante la sua presenza obiettiva, e cioè abietta, tutto ciò che non ha più né il segreto né la lievità dell’assenza, tutto ciò che, come il corpo in putrefazione, è abbandonato alla sola materialità del suo decomporsi, tutto ciò che, senza possibilità d’illusione, è abbandonato al solo operare del reale, tutto ciò che, senza maschera, senza belletto e senza volto, è abbandonato all’azione pura del sesso o della morte - tutto ciò può essere detto osceno e pornografico.

  Molte cose sono oscene perché hanno troppo senso, perché occupano troppo spazio. Esse raggiungono così una rappresentazione esorbitante della verità, e cioè l’apogeo del simulacro.

   

  Quando tutto è politico, è la fine della politica come destino, è l’inizio della politica come cultura, e la miseria immediata di questa cultura politica.

  Quando tutto diventa culturale, è la fine della cultura come destino, è il principio della cultura come politica, e la miseria immediata di questa politica culturale.

  Lo stesso avviene per il sociale, la storia, l’economia, il sesso. Il punto di massima estensione di queste categorie un tempo distinte e specifiche segna il loro punto di banalizzazione e l’inaugurazione di una sfera transpolitica che è immediatamente quella della loro scomparsa. Fine delle strategie fatali - inizio delle strategie banali.

  Si è creduto di fare una scoperta sovversiva affermando che il corpo, lo sport, la moda fossero politici. Così non si è fatto che precipitare la loro indifferenziazione in una nebbia analitica e ideologica - un po’ come per la scoperta che tutte le malattie sono psicosomatiche. Bella scoperta, che non progredisce in nessuna direzione: è attribuire loro una categoria di più bassa capacità di definizione.

  Per ogni cosa l’evidenza ricevuta da una generalità di quest’ordine - politica, culturale, sociale, sessuale, psicologica - è un decreto di morte. La multidiscipli-narità in tutte le sue forme ne è sintomo: ogni disciplina si conforma ai concetti degenerati dell’altra.

  Oppure si dovrebbe pensare, nella mescolanza dei concetti e delle categorie come nel miscuglio e nella promiscuità delle razze, a effetti barocchi di trasfigurazione - effetti visibili negli Stati Uniti nella violenza dell’indifferenza, nella violenza della giustapposizione, nella violenza della promiscuità -, nuova scena dell’osceno. Ma allora l’oscenità è come trasfigurata dall’accelerazione, dalla velocità corpuscolare dei corpi, dei segni, delle immagini.

   

  L’oscenità assume tutti i volti della modernità. Siamo abituati a vederla innanzi tutto nella perpetrazione del sesso, ma essa s’estende a tutto ciò che può essere perpetrato nel visibile - diventa la perpetrazione dello stesso visibile. Prostituzione omicida, a immagine di certe riprese iperreali nell’America del Sud, ove le violenze sadiche sullo schermo sono perpetrate di fatto durante le riprese. Aberrazione omicida? Non è così certo, perché ciò si pone sulla via maestra del fantasma di restituire integralmente il reale, di far risorgere il dettaglio, che sono caratteristiche del porno, ma altrettanto del rétro nel registro del passato, o dell’“espressività" e del "vissuto” nel registro della vita tout court.

  Il porno mira all’espressività del sesso, il rétro mira alla espressività dell’evento, del carattere culturale, del personaggio storico. Allucinante per il gusto dei dettagli, purgato di ogni nostalgia a forza di segni troppo esatti. Si tratta proprio di un' evacuazione: si espellono le cose nel reale, qui le si costringe a manifestarsi. Ma forse le cose non sono mai “vere” che a questo prezzo: di essere portate sotto una luce troppo cruda, con un indice di fedeltà troppo forte.

  È così che da ora tutto il reale è passato nell’iperrealtà pomo, che tutto il presente è passato nel rétro, che tutta la musica lieve del senso è passata nella stereofonia dei segnali che ci cullano.

  È l’oscenità di tutto ciò che viene instancabilmente filmato, filtrato, riveduto e corretto sotto il grandangolo del sociale, della morale e dell’informazione. Questa gente a cui si estorce la vita alla televisione, tutta la Francia sommersa che è cascata nella trappola della confidenza e della confessione pubblica, anche gli animali sono sottoposti al ricatto educativo: prima si poteva vedere una giraffa partorire in diretta - che meraviglia! -, oggi la trasmissione viene proiettata in una scuola, e noi vediamo gli animali visti dai bambini ecc. Non verrà proiettato nemmeno un filmetto, se non a prezzo di una discussione oziosa e debilitante: tecnologia dolce della cultura, socializzazione a oltranza, oscenità strisciante del commento sociale ininterrotto.

  Sollecitazione, sensibilizzazione, diramazione, individuazione dell’obiettivo, contatto, connessione-tutta questa terminologia appartiene a un ’oscenità bianca, a una deiezione, a un’abiezione ininterrotta. È l’oscenità del cambiamento, di questa liquidità feroce dei segni, dei valori, di questa estroversione totale dei comportamenti nella dimensione operativa... Oscenità bianca e impersonale dei sondaggi e delle statistiche - le masse devono svelare il loro segreto, anche se non ne hanno. Tutti devono svelare il loro segreto, varcare la soglia del silenzio ed entrare nello spazio immanente della comunicazione, là dove si cancella perfino la dimensione minima dello sguardo. Lo sguardo non è mai osceno, checché se ne dica. È osceno, al contrario, ciò che non può più essere guardato, né dunque sedotto, tutto ciò che, animato o inanimato, non può più essere avvolto dalla seduzione minima dello sguardo ed è votato, nudo, senza segreto, al divoramento immediato.

  L’oscenità è la prossimità assoluta della cosa vista,  il nascondersi dello sguardo nella televisione - ipervisione in primissimo piano, dimensione senza spazio per indietreggiare, promiscuità totale dello sguardo con ciò che vede. Prostituzione.    

  È singolare come noi occidentali divoriamo i volti come fossero sessi, nella loro nudità psicologica, nella loro ostentazione di verità e di desiderio. Denudati dì maschere, di segni, di cerimoniale, invero essi risplendono dell’oscenità della loro domanda. E noi ci sottomettiamo alla sollecitazione di questa verità introvabile, perdiamo tutte le nostre energie in questo decifrare a vuoto. Solo le apparenze, e cioè dei segni che non lasciano filtrare il senso, ci proteggono da questa irradiazione, da questa dispersione di sostanza nello spazio vuoto della verità.

  Il volto spogliato delle sue apparenze è ridotto a un sesso, il corpo spogliato delle sue apparenze è nudo e osceno (benché la nudità possa rivestire il corpo e proteggerlo dall’oscenità).

  E' senza dubbio impossibile spogliare totalmente un corpo o un volto delle sue apparenze per lasciarlo alla pura concupiscenza dello sguardo, spogliarlo della sua aura per lasciarlo alla pura concupiscenza del desiderio, spogliarlo del suo segreto per abbandonarlo al puro atto della decifrazione. Ma non bisogna sottovalutare la potenza dell’osceno, la sua potenza di sterminio di ogni ambiguità e di ogni seduzione per lasciarci in balia della fascinazione definitiva dei corpi senza volto, dei volti senza occhi, degli occhi senza sguardi. Ma forse questo già ci attira: un universo perfettamente estatico e osceno di oggetti puri, trasparenti gli uni agli altri, e che si fracasseranno gli uni sugli altri, come puri nuclei di verità.

  Questa oscenità trascina con sé quel che restava di un'illusione intorno alla profondità, e l’ultima domanda che si poteva ancora porre a un mondo disincantato: c’è un senso nascosto? Quando tutto è sovraccarico di senso, il senso stesso diventa impossibile a cogliersi. Quando tutti i valori sono sovraesposti, in una sorta di estasi indifferente (compreso il sociale nel socialismo della Francia attuale), è il credito di questo valore a essere annientato.

  Così poteva esserci una sorta di astuzia nella pornografìa tradizionale. Il porno in fondo dice: c’è del buon sesso da qualche parte, visto che io ne sono la caricatura. C’è una misura, visto che io ne sono l’eccesso. Ebbene, la domanda è tutta qui: c’è del buon sesso da qualche parte, del sesso come valore ideale del corpo, come “desiderio”, e che dev’essere liberato? Lo stato virtuale delle cose, quello di una esplicitazione totale del sesso, risponde: no. Il sesso può essere completamente liberato, perfettamente trasparente, e senza desiderio, senza piacere (ma funzionante).

  Era la stessa domanda posta all’economia politica: al di là del valore di scambio che incarna l’astrazione e l’inumanità del capitalismo, c’è una sostanza buona del valore, un valore d’uso ideale della merce, che possa e debba essere liberato? È noto che le cose non stanno così, che il valore d’uso è scomparso dall'orizzonte del valore di scambio, e che non si trattò che di un sogno paradossale dell’economia politica.

  È la domanda stessa rivolta al sociale: al di là, al di qua di questa socialità terrorista e iperreale, di questo ricatto onnipresente della comunicazione, c’è una sostanza buona del sociale, un livello ideale del rapporto sociale che possa e debba essere liberato? La risposta è evidentemente negativa: l’equilibrio, l’armonia di un certo tipo di contratto sociale sono scomparsi dalla storia, e noi siamo votati a questa oscenità diafana del cambiamento. E non si deve credere che viviamo la realizzazione di una cattiva utopia - viviamo la realizzazione dell’utopia tout court, cioè il suo sprofondamento nel reale.

   

  Lo stesso avviene per il teatro e per l’illusione scenica.

  Il teatro barocco è ancora una sorta di stravaganza della rappresentazione. Inseparabile dalla festa, dai giochi d’acqua, dai fuochi d’artificio, dagli artifici meccanici (le grandi tecniche meccaniche s’inaugurano qui, nella produzione dell’illusione teatrale), l’illusione scenica vi regna indisturbata. Come nel simulacro contemporaneo del trompe-l’œil, più reale del reale, ma senza il tentativo di confondersi con esso, al contrario: con le macchine, l’artefatto, la tecnica e la contraffazione, il reale viene sfidato secondo le sue stesse regole. Lo stesso vale per la prospettiva nella pittura e nell’architettura dal xvi al xvii secolo: se ne fa un uso molto spesso illusionistico e spettacolare. Essa resta una messa in scena, una strategia delle apparenze, non del reale - l’illusione conserva tutta la sua potenza senza svelare il suo segreto (non ve n’è alcuno).

  Ma ben presto glielo si farà confessare. Si prenderà il teatro nella trappola della rappresentazione. A partire dal xviii secolo, si fa carico del “reale”, la scena si allontana dalla simulazione della macchina e dalla metafisica dell'illusione : è la vittoria della forma naturalista. La scena scambia le suggestioni della metamorfosi col fascino discreto della trascendenza. Comincia l’era critica del teatro, contemporanea agli antagonismi sociali, ai conflitti psicologici, all’era critica del reale in genere.

  Rimane tuttavia una posta in gioco al livello della rappresentazione. Il teatro, se non ha più l’energia della metamorfosi né gli effetti sacri dell’illusione, conserva un’energia critica, e una sorta di fascino sacrilego -espressi nella frattura della scena e della sala, forma critica anch’essa, spazio della trascendenza e del giudizio.

  Artaud è senza dubbio l’ultimo a voler salvare il teatro strappandolo allo scenario putrescente del reale, anticipando la fine della rappresentazione e iniettandogli di nuovo, grazie alla crudeltà, qualcosa di anteriore perfino all’illusione e al simulacro, qualcosa dell’azione selvaggia del segno sulla realtà, o della loro indistinzione che ancora caratterizza i teatri non realisti (l’Opera di Pechino, il teatro di Bali, e lo stesso sacrificio come scena dell’illusione omicida).

  Oggi questa energia critica della scena, per non parlare a maggior ragione della sua potenza d’illusione, la si sta spazzando via. Tutta l’energia teatrale si trasferisce nella negazione dell’illusione scenica e nell’antiteatro in tutte le sue forme. Se c’è stato un periodo in cui la forma teatro e la forma del reale giocavano dialetticamente tra loro, oggi è la forma pura e vuota del teatro a giocare con la forma pura e vuota del reale. Messa al bando l’illusione, abolita la frattura della scena e della sala, il teatro scende nella strada e nella quotidianità, pretende di investire tutto il reale, di sciogliersi in esso, e nello stesso tempo di trasfigurarlo. Il paradosso è al colmo. Fioriscono allora tutte le forme “scoppiate” di animazione, di creatività e di espressione, di happening e di acting out - il teatro prende forma di psicodramma terapeutico generalizzato. Non è più la famosa catarsi aristotelica delle passioni, è una cura di disintossicazione e di rianimazione. L’illusione non vi ha più corso: è la verità che esplode nell’espressione libera. Siamo tutti attori, tutti spettatori, non c’è più scena, la scena è dappertutto, non c’è più regola, ognuno interpreta il suo dramma, improvvisa sul canovaccio dei suoi fantasmi.

  Forma oscena dell’antiteatro, presente ovunque.

  Ma lo stesso si dica di quella dell’antipedagogia, dell’antipsichiatria, in cui il sapere e la follia si perdono nella complicità psicodrammatica, dell’antipsicoanalisi, in cui analista e analizzato finiscono per scambiare i loro ruoli: ovunque scompare una scena, ovunque i poli che sottendevano un’intensità o una differenza sono caduti nell’inerzia.

  O la resurrezione artificiale, che è una delle forme della oscenità. È una delle peripezie più significative il vedere la scena del lavoro, anch’essa in via di scomparire, riattivata sotto vuoto, per così dire, nelle fabbriche-simulacro tedesche ove viene conservato a uso dei disoccupati, e in assenza di ogni produzione “reale”, il vissuto psicosociale del processo lavorativo. Meravigliosa allucinazione del mondo moderno: i disoccupati sono pagati per rifare gratuitamente, se così si può dire, gli stessi gesti della produzione, in una sfera ormai perfettamente inutile. È a pieno titolo l’estasi del lavoro, essi vivono la forma estatica del lavoro. Niente di più osceno al contempo, di più melanconico di questa parodia del lavoro. Il proletario vi diviene una puttana sotto cellophane.

   

  Questa oscenità bianca, questa escalation della trasparenza, raggiunge il suo apice nello sprofondamento della scena politica.

  Dal xviii secolo, essa si moralizza e diventa seria. Diventa il luogo di un significato fondamentale: il popolo, la volontà del popolo, le contraddizioni sociali ecc. È tenuta a rispondere all’ideale di una buona rappresentazione.    

  Mentre la vita politica anteriore, come quella della corte, si svolgeva secondo modalità teatrali, fatte di gioco e di macchinazione, ormai esiste uno spazio pubblico e un sistema di rappresentazione (la frattura avviene simultaneamente alla separazione della scena e della sala a teatro). È la fine di un’estetica, e l’inizio di un’etica del politico, consegnato ormai, come uno spazio figurativo, non più all’illusione scenica, ma all’oggettività storica.

  Questa cristallizzazione etica della scena politica comporta un lungo processo di rimozione (esattamente come la strutturazione linguistica comporta un rimosso del segno). L’osceno nasce qui, tra le quinte, nelle tenebre del sistema di rappresentazione. Dapprima è dunque oscuro: è ciò che dà scacco alla trasparenza della scena, come l’inconscio e il rimosso danno scacco alla trasparenza della coscienza. Quel che non è né visibile, né rappresentabile, e dunque possiede un'energia di rottura, di trasgressione, una violenza nascosta. Tale è l'oscenità tradizionale, quella del rimosso sessuale o sociale, di ciò che non è né rappresentato, né rappresentabile.

  Per noi è diverso: oggi al contrario l’oscenità è quella della sovrarappresentazione. La nostra oscenità, la nostra oscenità radicale, non è più quella del nascosto e del rimosso, è quella della trasparenza dello stesso sociale, quella della trasparenza del sociale (e del sesso) come senso, come riferimento, come evidenza. Ha avuto luogo un totale ribaltamento. E se una volta l’oscenità non era che un carattere secondario del rimosso - era l’inferno della rappresentazione, così come si parla dell'inferno della Biblioteca nazionale -, e aveva il fascino del proibito, dei suoi fantasmi e delle sue perversioni, oggi essa esplode come carattere principale: fa esplodere la scena del visibile in una sorta di estasi della rappresentazione.

  Al principio c'era il segreto, ed era la regola del gioco delle apparenze. Poi ci fu il rimosso, e fu la regola del gioco della profondità. Infine ci fu l'osceno, e fu la regola del gioco di un universo senza apparenze e senza profondità - di un universo della trasparenza. Oscenità bianca.

  Tutto fa superficie, ma non c’è più un segreto di queste cose superficiali. Ciò che era tenuto segreto, o anche che non esisteva, sì è trovato espulso a forza nel reale, rappresentato al di là di ogni necessità e di ogni verosimiglianza. Forcing della rappresentazione. Ad esempio il porno: l’orgasmo a colori e in primo piano non è né necessario né verosimile - è solo implacabilmente vero, anche se non è la verità di un bel niente. È solo abiettamente visibile, anche se non è la rappresentazione di alcunché.

  Perché una cosa abbia un senso, ci vuole una scena, e perché ci sia una scena, ci vuole un’illusione, un minimo di illusione, di movimento immaginario, di sfida al reale, che vi coinvolga, che vi seduca, che vi ripugni. Senza questa dimensione propriamente estetica, mitica, ludica, non c’è nemmeno scena del politico, in cui qualcosa possa essere un evento. E questo minimo di illusione è scomparso per noi: non c’è alcuna necessità né alcuna verosimiglianza per noi negli avvenimenti del Biafra, del Cile, della Polonia, del terrorismo o dell’inflazione, o della guerra nucleare. Ne abbiamo una sovrarappresentazione attraverso i media, ma non una vera immaginazione. Tutto ciò è per noi semplicemente osceno, poiché attraverso i media è fatto per essere visto senza essere guardato, allucinato in filigrana, assorbito come il sesso assorbe il voyeur: a distanza. Né spettatori, né attori, siamo dei voyeur senza illusioni.

  Se siamo anestetizzati, è perché non c’è più estetica (in senso forte) della scena politica, non più posta, non più regola del gioco. Infatti l’informazione e i media non sono una scena, uno spazio prospettico, o qualcosa che si gioca, ma uno schermo senza profondità, una scheda perforata di messaggi e di segnali a cui corrisponde una lettura anch’essa perforata del recettore.

  Niente può compensare questa perdita di ogni scena e di ogni illusione - nella simulazione automatica del sociale, nella simulazione automatica del politico. Soprattutto non i discorsi degli uomini politici, tutti costretti a simulare con una gesticolazione patetica - pornografi dell’indifferenza, la cui oscenità ufficiale raddoppia e sottolinea l’oscenità di un universo senza illusione. D'altronde tutti se ne infischiano. Siamo nell’estasi del politico e della storia - perfettamente informati e impotenti, perfettamente solidali e paralizzati, perfettamente stereotipati nella stereofonia mondiale -, transpoliticizzati vivi.

   

  Oggi non vi è più trascendenza, ma la superficie immanente dello svolgersi delle operazioni, superficie liscia, operazionale, della comunicazione. Il periodo faustiano, prometeico della produzione e del consumo lascia il posto all’era proteica delle reti, all’era narcisista e proteiforme della ramificazione, del contatto, della contiguità, del feedback, dell’interfaccia generalizzata. Sull’immagine della televisione, tutto l’universo che ci circonda, e il nostro corpo, si fa schermo di controllo.

  Le mutazioni decisive degli oggetti e dell’ambiente moderno provengono da una tendenza all’astrazione formale, operazionale, degli elementi e delle funzioni, alla loro omogenizzazione in un unico processo virtuale, al trasferimento delle gestualità, dei corpi, degli sforzi in comandi elettrici o elettronici, alla miniaturizzazione nel tempo e nello spazio dei processi la cui vera scena - ma non è più una scena - è quella della memoria infinitesimale e del microprocessore.

  Sono giunti i tempi di una miniaturizzazione del tempo, del corpo, dei piaceri. Di queste cose non c’è più un principio ideale a scala umana. Non ne restano che effetti nuclearizzati. Questo passaggio dalla scala umana alla scala nucleare è sensibile ovunque: questo corpo, il nostro corpo, in fondo appare superfluo, inutile nella sua estensione, nella molteplicità e nella complessità dei suoi organi, dei suoi tessuti, delle sue funzioni, dal momento che tutto oggi si concentra nel cervello e nella formula genetica, che riassumono da soli la definizione operativa dell’essere. La campagna, l’immensa campagna geografica sembra un corpo desertico la cui stessa estensione è priva di necessità (e ci si annoia eventualmente ad attraversarla) dal momento che tutti gli avvenimenti si cristallizzano nelle città, an-ch’esse in via di riduzione a qualche luogo cruciale miniaturizzato. E il tempo: che dire di questo immenso tempo lìbero che ci è lasciato, un eccesso di tempo che ci avvolge come un terreno indefinito, una dimensione ormai inutile nel suo trascorrere, dal momento che l’istantaneità della comunicazione ha miniaturizzato i nostri scambi in una successione d’istanti?

   

  Non siamo più nel dramma dell’alienazione, siamo nell’estasi della comunicazione.

  Alienante, l’universo privato lo era senza alcun dubbio, poiché vi separava dagli altri, ma raccoglieva anche il beneficio simbolico dell’alienazione, che consiste nel fatto che l’alterità si può giocare, nel bene e nel male. Così la società dei consumi fu vissuta sotto il segno dell’alienazione, come società dello spettacolo, ma, appunto, lo spettacolo è ancora spettacolo, non è mai osceno, l’oscenità comincia quando non c’è più scena, quando tutto diventa di una trasparenza inesorabile.

  Marx denunciava già l’oscenità della merce legata al principio abietto della sua circolazione libera. L’oscenità della merce deriva dal fatto che essa è astratta, formale e leggera, di fronte alla pesantezza e alla densità dell’oggetto. La merce è leggibile: al contrario dell’oggetto, che non confessa mai il suo segreto, la merce manifesta sempre la sua essenza visibile, che è il suo prezzo. Essa è il luogo formale di trascrizione di tutti gli oggetti possibili: attraverso le merci tutti sono in comunicazione - è il primo grande medium di comunicazione del mondo moderno. Ma il messaggio che essa consegna è estremamente semplificato, ed è sempre lo stesso: è il valore di scambio. Dunque, in fondo, il messaggio non esiste già più, è il medium che s’impone nella sua circolazione pura.

  Basta prolungare questa analisi di Marx sull’oscenità della merce per decifrare l’universo della comunicazione.

  Non è solo il sessuale a diventare osceno nella pornografia, oggi c’è tutta una pornografia dell’informazione e della comunicazione, dei circuiti e delle reti, una pornografia delle funzioni e degli oggetti nella loro leggibilità, fluidità, disponibilità, regolazione, polivalenza nel loro significato forzato, nella loro espressione libera... È l’oscenità di ciò che è solubile tutto intero nella comunicazione.

   

  All’oscenità nera subentra l’oscenità bianca - all’oscenità calda subentra l’oscenità fredda. Entrambe implicano una forma di promiscuità: una è quella delle viscere in un corpo, degli oggetti stipati nell’universo privato, di ciò che brulica nel silenzio della rimozione - promiscuità organica, viscerale, carnale -, l’altra è quella di una saturazione in superficie, di una sollecitazione incessante, di uno sterminio degli spazi interstiziali.

  Sollevo il mio apparecchio telefonico, ci siamo, tutta la rete marginale mi aggancia, mi molesta, con tutta la buona fede insopportabile di tutto ciò che pretende di comunicare. Le radio libere: si parla, si canta, ci si esprime, molto bene, c'è la fantasia dei contenuti. In termini di medium, il risultato è il seguente: uno spazio, quello della banda FM, si trova saturato, qui le stazioni si scavalcano, si mescolano, al punto che non si comunica più del tutto. Qualcosa che era libero non lo è più del tutto - non riesco più a sapere quel che voglio, tanto lo spazio è saturato, tanto è forte la pressione di tutto ciò che vuol farsi ascoltare.

  Cado nell’estasi negativa della radio.

  C’è sicuramente uno stato proprio di fascinazione legato a questo delirio di comunicazione, e dunque un piacere singolare. Se si segue Caillois nella sua classificazione dei giochi - giochi d’espressione, giochi di competizione, giochi d’azzardo, giochi di vertigine -, tutta la tendenza della nostra cultura contemporanea ci condurrebbe a una relativa scomparsa delle forme dell’espressione e della competizione a vantaggio delle forme dell’alea e della vertigine, che non sono più giochi di scena, di specchio, di sfida, giochi duali, ma piuttosto dei giochi estatici, solitari e narcisistici, il cui piacere non è più quello, scenico ed estetico, essoterico, del senso, ma quello aleatorio, psicotropico, della fascinazione pura. E questo non è un giudizio negativo. C'è sicuramente una mutazione originale delle forme di percezione e di piacere. Noi non ne valutiamo bene le conseguenze. Volendo applicare i nostri antichi criteri e riflessi di sensibilità, senza dubbio disconosciamo quel che può significare l’avvento di questa nuova sfera sensoriale.

  Una cosa è certa: la scena ci appassiona, l’osceno ci affascina. Con la fascinazione e l’estasi, la passione scompare. Investimento, desiderio, passione, seduzione, o ancora, secondo Caillois, espressione e competizione: questo è l’universo caldo. Estasi, oscenità, fascinazione, comunicazione, o ancora, secondo Caillois, alea e vertigine: questo è l’universo freddo, cool (la vertigine è fredda, anche quella della droga).

   

  In ogni caso, dobbiamo soffrire questa estroversione forzata di ogni interiorità e questa irruzione forzata di ogni esteriorità in cui esattamente consiste l’imperativo categorico della comunicazione. Bisogna appoggiarsi a metafore patologiche? Se l’isteria fu la patologia della messa in scena esacerbata del soggetto, patologia dell’espressione, della conversione teatrale e spettacolare del corpo - se la paranoia fu la patologia dell’organizzazione e di una struttura rigida e gelosa del mondo -, con la comunicazione, l’informazione, con la promiscuità immanente di tutte le reti, con questo diramarsi continuo, saremmo piuttosto in una nuova forma di schizofrenia. Non più isteria, non più paranoia proiettiva, a rigore, ma lo stato particolare che costituisce il terrore dello schizofrenico: l’eccessiva vicinanza di tutto, la promiscuità immonda di ogni cosa, che entra in contatto con lui, lo investe, lo penetra senza trovare resistenza: nessuna aureola protettiva, nemmeno il corpo, lo avvolge più. Lo schizofrenico è privato di ogni scena, aperto a tutto senza volerlo nella più grande confusione. È anch’egli osceno, la preda oscena dell’oscenità del mondo. Ciò che lo caratterizza non è tanto l’allontanamento del reale ad anni luce, la frattura radicale, quanto la prossimità assoluta, l’istantaneità totale delle cose, senza difesa, senza spazio per arretrare, la fine dell’interiorità e dell’intimità, la sovraesposizione e la trasparenza al mondo, che lo attraversa senza che egli possa opporre un ostacolo. Il punto è che egli non può più produrre i limiti del suo essere, e non può più riflettersi: non è altro che uno schermo assorbente, una piattaforma girevole e insensibile di tutte le reti d’influenza.

  Potenzialmente siamo tutti così.

   

  Se questo è vero, se è possibile, questa estasi oscena e generalizzata di tutte le funzioni sarebbe proprio lo stato di trasparenza desiderato, lo stato di riconciliazione del soggetto e del mondo, in fondo per noi sarebbe il Giudizio finale, ed esso avrebbe già avuto luogo.

  Due eventualità, forse equivalenti: non è ancora successo niente, la nostra infelicità deriva dal fatto che in fondo niente è veramente cominciato (liberazione, rivoluzione, progresso...) - utopia finalistica. L’altra eventualità è che tutto sia già accaduto. Siamo già al di là della fine. Tutto ciò che era metafora si è già materializzato, sprofondato nella realtà. Ecco il nostro destino: è la fine della fine. Siamo in un universo transfinito.

   

   

  Note

  1. Ma la gestione “deficitaria" del sociale ha come esito, è noto, ogni sorta di vicolo cieco. Eccone un’allegoria: ovunque negli Stati Uniti si sono predisposti dei marciapiedi per gli handicappati motorizzati. Ma i ciechi, che avevano nel dislivello dei marciapiedi un punto di riferimento, sono disorientati e si fanno frequentemente investire. Donde l’idea di una rotaia per i ciechi lungo le strade. Ma allora sono gli handicappati che devono vedersela con le rotaie a bordo delle loro carrozzelle...

  2. Si può notare che la patologia connessa al corpo metaforico, con la sua divisione e la sua rimozione, non è più operante in questa fase metastatica. Questo corpo, quello dell’obeso, quello del clone, quello del cancro, è una protesi, una metastasi, un'escrescenza - non è più una scena, e il fantasma così come la rimozione non valgono più per esso. In qualche modo non ha più inconscio, ed è la fine della psicoanalisi. Ma senza dubbio è l’inizio di un’altra patologia: è nota quella malinconia clonica (cronica) degli esseri divisibili all’infinito, quella dei protozoi scissipari asessuati, che procedono per estensione ed espulsione, e non per pulsione e intensità, che non procedono più per crescita, ma per escrescenza, che non procedono più per seduzione, ma per trasduzione (quella dei corpi diventati reti e che passano rasenti alle reti). È nota questa malinconia dell’essere e della società narcisisti per indivisione e per indefinizione - di fronte alla quale la psicoanalisi non può più nulla. In ogni modo, la psicoanalisi ha qualcosa da dire soltanto nel campo della metafora, che è quello dell'ordine simbolico. Non ha niente da dire in un ordine differente né in quello della metamorfosi, né, all’altro estremo, in quello della metastasi.

  3. L’astrazione del controllo orbitale non deve nasconderci che questo equilibrio del terrore è presente a livello infinitesimale e individuale: siamo resi responsabili dell'ordine che regna in noi. Se questo ordine dovesse essere seriamente minacciato, noi siamo psicologicamente programmati per distruggerci...

3. Le strategie ironiche






Abbiamo trasgredito tutto, compresi i limiti della scena e quelli della verità.
Siamo davvero al di là. L’immaginazione è al potere, i lumi, l’intelligenza sono al potere, viviamo o ben presto vivremo la perfezione del sociale, tutto è dato, il cielo è sceso sulla terra, il cielo dell’utopìa, e quella che si profilava come una prospettiva radiosa si vive ormai come una catastrofe al rallentatore. Già assaporiamo il gusto fatale dei paradisi materiali, e la trasparenza, che fu la parola d’ordine ideale dell’era dell’alienazione, si compie oggi sotto la forma di uno spazio omogeneo e terroristico - iperinformazione, ipervisibilità.
Non è più la magia nera del divieto, dell’alienazione e della trasgressione, ma la magia bianca dell'estasi, della fascinazione e della trasparenza. È la fine del pathos della legge. Non ci sarà Giudizio finale. Siamo passati al di là senza rendercene conto.
Tanto peggio. Siamo in paradiso. L’illusione non è più possibile. Essa, che da sempre ha messo un freno al reale, ha ceduto, e noi assistiamo al dilagare del reale in un mondo senza illusione. Anche l’illusione storica, che conservava la speranza di una convergenza all’infinito del reale e del razionale, e attraverso questa una tensione metafisica, si è dissipata: il reale è divenuto il razionale - questa congiunzione si è realizzata sotto il segno dell’iperreale, forma estatica del reale.
Ogni tensione metafisica si è dissipata, lasciando il posto a un’atmosfera patafisica, e cioè alla perfezione tautologica e grottesca dei processi di verità. Ubu: l’intestino tenue e lo splendore del vuoto. Ubu: forma piena e obesa, di un’immanenza grottesca, di una verità dirompente, figura geniale, rotonda, di chi ha assorbito tutto, e splende nel vuoto come una soluzione immaginaria.

Dio sarebbe caduto in questa strategia indegna di lui di riconciliare l’uomo con la sua propria immagine, al termine di un Giudizio finale che lo avvicinerebbe indefinitivamente al suo fine ideale? Fortunatamente no: la strategia di Dio è tale da mantenere l’uomo in sospeso, ostile alla sua immagine, e che eleva il Male alla potenza di un principio, e meravigliosamente sensibile a ogni seduzione che lo distoglie dal suo fine.
Non c’è principio di realtà, né di piacere. Non c’è che un principio finalistico di riconciliazione e un principio infinito del Male e della Seduzione.
Al di là dell’estasi del sociale, dell’estasi del sesso, del corpo, dell’informazione, veglia il principio del Male, lo scaltro genio del sociale, lo scaltro genio dell’oggetto, l’ironia della passione.

Al di là del principio finalistico del soggetto si erge la reversibilità fatale dell’oggetto, oggetto puro, l’evento puro (il fatale), la massa-oggetto (il silenzio), l’oggetto feticcio, la femminilità-oggetto (la seduzione). Ovunque, dopo secoli di soggettività trionfante, oggi è l’ironia dell’oggetto a incombere su di noi, ironia oggettiva leggibile nel cuore stesso dell’informazione e della scienza, nel cuore stesso del sistema e delle sue leggi, nel cuore del desiderio e di ogni psicologia.


Lo scaltro genio del sociale

Non sono né la moralità né il sistema positivo di valori di una società a farla progredire, ma la sua immoralità e il suo vizio.    
Non sono mai né il Bene né il Buono, siano quelli ideali e platonici della morale, o quelli, pragmatici e oggettivi, della scienza e della tecnica, a presiedere al cambiamento o alla vitalità di una società - l’impulso motore viene dalla corruzione, sia quella delle immagini, delle idee, o dei segni.
I sistemi razionali della morale, del valore, della scienza, della ragione presiedono soltanto all'evoluzione lineare delle società, alla loro storia visibile. Ma l’energia profonda che dà impulso anche a queste cose viene da altrove. Dal prestigio, dalla sfida, da tutti gli impulsi seduttivi o antagonisti, e anche suicidi, che non hanno niente a che vedere con una morale sociale o una morale della storia o del progresso.
La rivalità è più potente di ogni moralità, e la rivalità è immorale. La moda è più potente di ogni estetica, e la moda è immorale. La gloria, avrebbero detto i nostri avi, è più potente del merito, e la gloria è immorale. La corruzione dei segni, in ogni campo, è ben più potente della realtà, e la corruzione dei segni è immorale. Il gioco, le cui regole sono immemorabili, è più potente del lavoro, e il gioco è immorale. La seduzione, in tutte le sue forme, è più potente dell’amore o dell’interesse, e la seduzione è immorale.
Questa non è, nemmeno in Mandeville, una visione filosofica cinica, è una visione oggettiva della società, e forse di tutti i sistemi. La stessa energia del pensiero è cinica e immorale: nessun pensatore, obbedendo soltanto alla logica dei suoi concetti, ha mai visto più lontano della punta del suo naso. O essere cinici o perire: e ciò, se così si può dire, non è immorale, è il cinismo proprio dell’ordine segreto delle cose.
Ciò non significa che gli individui o i gruppi obbediscano a un qualche istinto segreto, ma resta il fatto che i poteri che hanno voluto estirpare questa disobbedienza, questa corruzione, questo genio maligno, annientando perfino le motivazioni “irrazionali” nello spirito degli uomini, li hanno sempre votati a una morte più o meno lenta. L’energia del vizio è insostituibile, proprio perché è un’energia di fissione e di rottura, alla quale con grande ingenuità si è preteso di sostituire un’energiameccanica di produzione.
Come funzionano le nostre società che si pretendono razionali e programmate? Che cosa fa andare avanti, che cosa fa correre le popolazioni? Il progresso della scienza, l’informazione “obiettiva”, la crescita della felicità collettiva, l’intelligenza dei fatti e delle cose, la punizione reale del colpevole o la qualità della vita? Niente affatto: tutto ciò non interessa a nessuno, tranne che nelle risposte ai sondaggi. Ciò che affascina tutti è la corruzione dei segni, è che la realtà, sempre e ovunque, sia corrotta dai segni. Questo sì che è un gioco interessante, ed è ciò che avviene nei media, nella moda, nella pubblicità - più in generale nello spettacolo della politica, della tecnologia, della scienza, nello spettacolo di qualunque cosa, perché la perversione della realtà, la distorsione spettacolare dei fatti e delle rappresentazioni, il trionfo della simulazione hanno il fascino di una catastrofe, e in effetti sono una catastrofe, una deviazione vertiginosa di tutti gli effetti di senso. Per questo effetto di simulazione o, se si vuole, di seduzione, siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo, molto più che per la qualità “reale” della nostra vita.
È il segreto della pubblicità, della moda, del gioco, di tutti i sistemi lubrichi, che spezzano le energie morali e liberano le energie immorali, quelle che si nutrono allegramente del solo regno delle cose, sfidando la loro verità - in questo modo esse raggiungono le energie magiche e arcaiche, che hanno sempre scommesso sull’onnipotenza del pensiero contro la potenza del mondo reale -, energia immorale che spezza il senso, che attraversa i fatti, le rappresentazioni, i valori tramandati, ed elettrizza le società bloccate nella loro immagine platonica.

Un buon esempio di questa potenza “diabolica” di cambiamento, di questa energia immorale di trasformazione, nei riguardi e contro tutti i sistemi di valore, è costituito dagli Stati Uniti. Malgrado la loro moralità, il loro puritanesimo, la loro ossessione virtuosa, il loro idealismo pragmatico, tutto vi cambia irresistibilmente secondo un impulso che non è affatto quello del progresso, lineare per definizione - no, il vero motore è l’abiezione della circolazione libera. Paese ancor oggi asociale e selvaggio, refrattario a ogni progetto coerente di società: tutto vi viene sottoposto a test, tutto vi si paga, tutto vi si fa valere, tutto vi fallisce. Le musiche dell’Ovest, le terapie, le “perversioni" sessuali, i building dell’Est, i leader, i gadget, i movimenti artistici, tutto vi sfila e vi si succede senza provocare discontinuità. E il nostro inconscio culturale, profondamente nutrito di cultura e di senso, può irritarsi di fronte a questo spettacolo, ma resta il fatto che è là, nella promiscuità immorale di tutte le forme, di tutte le razze, nello spettacolo violento del cambiamento, che risiede il successo di una società e il segno della sua vitalità.
Pubblicità, circolazione astratta, abietta degli eurodollari, di valori quotati in Borsa, immoralità dei cicli della moda, tecnologie inutili e di prestigio, parate elettorali, escalation degli armamenti, tutto ciò non è solamente il segno storico dell’influenza del capitale, è la prova più decisiva di un fatto ancora più importante del capitale - la prova che nessun progetto sociale degno di questo nome è mai veramente esistito, che nessun gruppo in fondo s'è mai veramente concepito come sociale, cioè come solidale ai propri valori e coerente nel suo progetto collettivo, in breve: che non c’è mai stata nemmeno l’ombra, o l’embrione, di un soggetto collettivo responsabile, né la possibilità stessa di un progetto di quest’ordine.

Morale pubblica, responsabilità collettiva, progresso, razionalizzazione dei rapporti sociali: fesserie! Quale gruppo ha mai coltivato questo sogno? I sociologi e gli ideologi, certo, e i politici, che hanno giusto perso il senso del politico, di quella finzione, di quella fallacy del politico, che non è altro che quella del Principe, di Machiavelli, ma che, se si segue Mandeville negli abissi del sociale, è il machiavellismo di ogni società nel suo funzionamento reale.
L’energia del sociale in quanto tale, l’energia del contratto sociale e della sua idealizzazione nel socialismo è un’energia debole. È un'energia ragionevole, un’energia lenta e artificiale. Ma è evidente che i popoli non obbediscono a questo, che non è altro che la loro storia. Anche la rivoluzione, che può essere presa per il punto culminante di questa energia “cosciente”, non ci rivela l’esatto svolgimento dei fatti. Come dice Rivarol: "Il popolo non voleva veramente la rivoluzione, non ne desiderava che lo spettacolo”. Esiste qualcosa di più subdolo? Di più immorale (soprattutto quando si tratta della rivoluzione! - ma rassicuratevi: il popolo, anche quando sembra desiderare l’ordine, non ne. desidera che lo spettacolo)?
Se la nostra perversione è questa: che non desideriamo mai l’evento reale, ma il suo spettacolo, mai le cose, ma il loro segno, e la derisione segreta del loro segno - ciò significa che non abbiamo poi tanta voglia che le cose cambino, bisogna ancora che questo cambiamento ci seduca. La rivoluzione, per avere luogo, deve sedurci, e non può farlo che mediante i segni - è nella stessa situazione dell’ultimo degli uomini politici di fronte alla prova delle elezioni. Ma si può pagare il prezzo più alto per essere sedotti: poiché la rivoluzione può essere storicamente determinante, ma solo il suo spettacolo è sublime. E che cosa scegliamo? Perché i popoli, che avevano pagato un così caro prezzo per la rivoluzione, l’hanno, contrariamente alle speranze dei loro difensori, così spesso lasciata cadere nell’indifferenza, infischiandosene fatalisticamente di questo “evento”, dopo aver sacrificato la loro vita allo spettacolo della rivoluzione?
È che questa pulsione beffarda ci libera dal terrore.

Altro esempio di una società immorale e che vive di un’immoralità profonda: l'Italia. Perché l'Italia non è triste (a differenza della Francia, anche di quella socialista)?
Senza dubbio perché è la sola società ad aver oltrepassato collettivamente la linea virtuale della simulazione - una virtuosità collettiva da vivere nell'ordine a un tempo beffardo e sottile della simulazione. Che non si difende disperatamente - ed è per questo, in definitiva, che la vita vi è più felice - contro questa perdita di sostanza, di valore e di senso, che costituisce la disgrazia degli altri paesi e la loro infelicità. Le altre nazioni vivono in uno stato di simulazione irritato, l’Italia, fatte le debite proporzioni, vive in uno stato di simulazione gioiosa. La legge vi ha già, forse vi ha sempre, ceduto il posto a un gioco e a una regola del gioco. Tutti gli italiani, dalle BR ai servizi segreti, dalla mamma alla mafia, dai terremotati alla cellula P2 (miracolo dello stato che si è fatto società segreta!), sono in qualche modo complici, intrattengono una connivenza ironica sulla teatralità, sulla simulazione, già da oggi, del potere, della legge, dell’ordine e del disordine vigente - un patto segreto sulla strategia delle apparenze che domina tutto ciò. Sull’effetto di trompe-l'oeil del politico e del sociale che si rappresentano e si eludono in un batter d’occhio, e sul godimento degli effetti (il modello del Rinascimento non è lontano). Il vero retaggio sociale attuale è il retaggio collettivo della seduzione.
Esiste forse un cemento più fantastico di questo?
Che cosa si può trovare, collettivamente o individualmente, al di là della fissione degli universi referenziali, se non la finzione, la strategia ironica delle apparenze? E non sarà il socialismo francese d’oltretomba a smentirci, perché anch’esso non fa che rappresentare apparenze infelici del sociale, incarnato nella statua funebre del commendatore Mitterrand e nella burocrazia morale dei sottocommendatori.

Questa disobbedienza segreta di un gruppo ai suoi propri principi, questa immoralità e questa doppiezza profonda non riflettono forse lordine universale? Bisogna risvegliare il principio del Male che vive nel manicheismo e in tutte le grandi mitologie per affermare, contro il principio del Bene, non proprio la supremazia del Male, ma la duplicità fondamentale che vuole che un ordine qualsiasi esista solo per essere disobbedito, attaccato, esasperato, smantellato.
Le popolazioni selvagge non la vedevano diversamente; si sa che avevano dei loro dei una visione completamente diversa dalla nostra: li inventavano solo per metterli a morte, e attingevano la loro energia in questo sacrificio intermittente. Presso gli Aztechi, gli dei stessi si sacrificavano a uno a uno per dare vita al sole, alla luna, agli uomini. Perché qualcosa viva bisogna che muoia il dio che l’incarna.
La regola fondamentale è questa: perché un gruppo, perché un individuo viva, non deve mai mirare dritto al proprio bene, al proprio interesse, al proprio ideale. Deve sempre mirare altrove, di lato, oltre, di sbieco, come il combattente nell’arte marziale giapponese. Non serve a niente la volontà di riconciliare i due principi. La duplicità è strategica, è fatale.
È proprio quel che prospettava Bataille attraverso il concetto di spesa e di parte maledetta. L’essenziale è il superfluo, è l’eccedente. Dove convergono tutte le poste in gioco, là si fomenta l’energia di una società. Allora il sociale non è più per niente un’organizzazione contrattuale per la gestione degli interessi del gruppo (che non è d’altra parte altro che la gestione della penuria, anche e soprattutto della penuria del sociale stesso - il principio di economia parte dal fatto che non c’è mai abbastanza per tutti, quello di Bataille parte dal fatto che c’è sempre troppo per tutti, e che l’eccesso è il nostro destino), ma un’organizzazione avventurosa, eventualmente assurda, un progetto d’energia devastatrice, un’antieconomia, un prodigio, una sfida alla natura conservatrice. Il sociale è un lusso. Il nostro sociale non fa che caratterizzare la miseria delle nostre società.
Altro segno incoraggiante: la straordinaria fascinazione collettiva, la passione di un popolo per sacrificare o veder sacrificare il suo capo, quando si presenta l’occasione. Non bisogna sottovalutare questa passione propriamente politica dei popoli che consiste nel portare al potere degli uomini o una casta che successivamente faranno di tutto per veder sprofondare o per spingere alla rovina. Non si tratta che della versione politica della legge di reversibilità e di una forma d’intelligenza del politico per lo meno uguale, se non superiore, a quella del contratto sociale e della delega di potere, che essa esalta per poi smentirla. Certo, i popoli eleggono i loro capi e obbediscono loro; certo, investono i loro rappresentanti di potere e di legittimità. Ma si può supporre che non sussista sempre l’esigenza logica di vendicarsene? Il potere, qualunque esso sia e da qualunque luogo provenga, è un omicidio simbolico, e dev'essere espiato con l’omicidio. Di ciò si può giurare che qualunque società sia consapevole, nel momento stesso in cui essa lo porta al potere, e che l’uomo al potere, se è intelligente, ne sia anch’egli perfettamente cosciente.
Si stabilisce così un collegamento con la regola del gioco secondo la quale un gruppo o un individuo non devono mai mirare alla propria conservazione. Neanche il potere, se vuole veramente esercitarsi, deve mai mirare alla propria continuità: deve prospettare in qualche luogo la sua morte. Altrimenti cade nell’illusione del potere, nel ridicolo della generazione perpetua, della concessione perpetua di potere. Se non comprende ciò, sarà spazzato via. Se il gruppo non lo comprende, sarà anch’esso perduto. L’istituzione del potere si riflette nell’uguale necessità del suo assassinio.
Anche i leader moderni, benché assillati dalla loro permanenza e poco inclini al sacrifìcio rituale, hanno il presentimento di questa regola e non esitano a mettere in scena la peripezia della loro morte, grazie ad attentati più o meno orchestrati. Alcuni d’altronde non vi sfuggono, ma non è qui l’importante, perché anche in questo caso non serve a niente morire, bisogna saper scomparire. E la caratteristica dei nostri sistemi moderni, burocratici o gestionari, è di non saper più morire, e di non saper più fare altro che subentrare a se stessi. I dirigenti attuali credono nella loro virtù perché credono nella designazione dei popoli. Essi non dispongono che di una strategia banale del potere. Ma altri politici hanno saputo che il potere non è mai questa facoltà unilaterale di disporre della volontà degli altri, ma sempre l’esercizio sottile e ambiguo della propria sparizione. Essi sanno che il potere, come la verità, è quel luogo vuoto che bisogna essere capaci di non occupare mai, ma che bisogna essere capaci di produrre perché gli altri vi si riversino. Il potere che occupa quel posto, il potere che incarna il potere è osceno e immondo, e presto o tardi sprofonda nel sangue o nel ridicolo.
D’altra parte, la strategia di una sovversione intelligente è sempre quella, anche qui, di non mirare frontalmente al potere e di non opporvisi, ma di condurlo a occupare quella posizione oscena della verità, quella posizione oscena di assoluta evidenza. Infatti è là che, scambiandosi per reale, esso cade nell’immaginario - è là che non esiste più per aver violato il suo segreto.
Era la tattica non concertata del Maggio '68: far coincidere, attraverso mille esche, il potere con il suo esercizio non simulato, far apparire il potere come repressivo. Obiettivo apparentemente ingenuo e inutile.
A che cosa serve sacrificarsi per darne la prova? Ma la trappola era proprio questa: condurlo a essere più repressivo di quanto in realtà non lo fosse - i manifestanti esercitavano dunque in verità un potere di simulazione, costringendo il potere ad aggiungere alla repressione l’oscenità della repressione. Ed è questo che uccide: la simulazione è sempre l’arma più efficace. Basta annientarsi di fronte a chi ci nega per farlo rivolgere contro se stesso con tutta la sua forza d’inerzia. Il Maggio ’68 non era dunque un’azione offensiva (il potere avrebbe vinto in anticipo), ma una simulazione difensiva, quella di rubare al potere il suo segreto (e cioè che non esiste) e lasciarlo così senza difesa di fronte alla propria enormità.
Bisogna ricordarsi che il potere ruota intorno a una mostruosità segreta, e che innalzare qualcuno al potere è buttarlo nell’esercizio difficile, sempre al limite del ridicolo, di un privilegio senza contropartita. Non può cavarsela che mediante l’ambiguità e la duplicità. Se voi togliete ogni incertezza all’esercizio della sua potenza, in quello stesso momento lo condannate.
Il principio stesso del Male è nell’ironia oggettiva e nelle strategie che ne conseguono.

Tutte le epoche, tutte le filosofie, tutte le metafisiche (manichee, eretiche, catare, magiche, ma anche quelle di Nerval, di Jarry, di Lautréamont) a un certo punto hanno fatto l’ipotesi di una derisione, di una fondamentale irrealtà del mondo, e cioè, in realtà, di un principio del Male, e sono sempre state maledette e messe al rogo per questo, che è il peccato assoluto. L’irrealtà del mondo e il suo corollario, l’onnipotenza del pensiero, sono state pensate con tutto il dovuto rigore soltanto dalle società senza reale (piuttosto che senza storia o senza scrittura). Tutte le mitologie, tutte le religioni nascenti sono vissute di una violenta negazione del reale, di una violenta sfida all’esistenza. E tutto ciò che nega e sfida il reale è certamente più vicino al mondo mediante il pensiero.
Si è fatto dell’ironia una forma mefistofelica, ma essa è soltanto ciò che filtra tutte le cose e le preserva dalla confusione. Essa filtra le parole, gli spiriti e i corpi, filtra i concetti e i piaceri, e li preserva dalla promiscuità e dalla coagulazione amorosa. Passa da una forma all’altra, nell’anamorfosi, passa da una specie all’altra, nella metamorfosi - così la copulazione tra dei e uomini, nel mito greco, è ironica. La differenza tra dei e uomini, tra uomini e animali, è un filtro di seduzione. Quando lo stesso si accoppia allo stesso, tutto diventa osceno. La necessità dell’ironia, come quella del piacere, fa parte della necessità del Male.


Lo scaltro genio dell’oggetto

Dall’inizio del xx secolo la scienza riconosce che ogni dispositivo d’osservazione a livello microscopico provoca una tale alterazione nell’oggetto da metterne in forse la conoscenza. Questa è già una rivoluzione poiché si pone fine all’ipotesi convenzionale di una realtà e di una scienza oggettive, ma in sé il principio della sperimentazione resta intatto. Quel che si mette in gioco è soltanto la certezza, e si appronta una nuova convenzione, quella dell’incertezza. I risultati diventano relativi al funzionamento stesso della scienza come medium - ma questa relativizzazione è in qualche modo testimonianza di un supremo orgoglio. "La mia certezza si ferma alla lettura degli strumenti,” afferma un microfisico. O ancora: “La lastra sulla quale si ferma quel granulo di luce non ne è forse in effetti la causa’? Si può veramente parlare di fotone prima (o dopo) averlo visto su uno schermo o su una lastra fotografica?”. Nelle scienze umane, il presentimento equivalente, ma mai analizzato nelle sue conseguenze estreme, è la presupposizione e l'induzione di ogni risposta possibile dalla stessa domanda, e dunque la vanità dell’analisi e dell’interpretazione (ma non per tutti è detta l’ultima parola).
Tuttavia non si tratta che di una rivoluzione limitata, nella misura in cui non viene mai fatta altra ipotesi se non quella di un oggetto alterato, che subisce la violenza del dispositivo d’osservazione senza potervi rispondere (se non rimandandolo alla difficoltà insolubile di non potere, come Orfeo con Euridice, far spuntare il suo oggetto senza farlo scomparire) - o, ancora, di un oggetto votato alla simulazione totale, e cioè proiettato nella forma aleatoria dei modelli.
Non viene mai fatta l’ipotesi, al di là della sua distorsione, di una ritorsione attiva da parte dell’oggetto al fatto di essere interrogato, sollecitato, violato.
Forse, indispettito di essere alienato dall’osservazione, l’oggetto ci inganna? Forse inventa delle risposte originali, e non solo quelle che gli vengono sollecitate? Forse non vuole affatto essere analizzato e osservato e, prendendo questo comportamento per una sfida (il che è vero), vi risponde con un’altra sfida? Questa astuzia vittoriosa dell’oggetto analizzato si coglie molto bene nelle scienze cosiddette umane (a meno che non si preferisca dimenticarla). Si può già parlare di un punto di non ritorno in cui non solo la posizione del soggetto analizzante è completamente sottoposta alla relatività e all’incertezza, ma in cui la supremazia è del tutto rovesciata: l’oggetto analizzato oggi trionfa ovunque,proprio attraverso la sua posizione di oggetto,sul soggetto dell’analisi. Gli sfugge ovunque, lo rimanda alla sua posizione introvabile di soggetto. Mediante la sua complessità non solo aggira, ma annulla le domande che l’altro può porgli. Rendendosi reversibili, anche i processi materiali eludono ogni sollecitazione (la reversibilità è l’arma assoluta contro la determinazione, qualunque essa sia, che si vuole imporre ai fenomeni, ma non risparmia nemmeno l’indeterminazione, infatti la reversibilità non appartiene all’ordine dell’aleatorio, è piuttosto una sorta di esatta determinazione inversa e simultanea, di controdeterminazione perversa). Spinti nelle loro trincee dall’analisi, diventano reversibili, così come tutte le apparenze, spinte nelle loro trincee dal senso, si danno alla metamorfosi. Il soggetto dell’analisi è diventato ovunque fragile, e questa rivincita dell’oggetto sta solo cominciando. Fa anch’essa parte di una reversibilità generale.
Peggio: il soggetto forse un giorno si vedrà sedotto dal suo oggetto (il che è molto naturale), e tornerà a essere preda delle apparenze - ed è la cosa certamente migliore che possa capitargli, a lui e alla scienza.
Questa forma di reversibilità, di trasformazione del sapere in un duello enigmatico del soggetto e dell’oggetto, questa forma, finora leggibile nella sfera del linguaggio, anche i fisici la indovinano ai confini delle “scienze esatte" della materia.
Le misurazioni fatte su una particella non permettono di dire quel che avverrebbe di un’altra particella prodotta nelle stesse condizioni... La misurazione operata su un corpuscolo, un fotone ad esempio, perturba completamente il dispositivo sperimentale, in modo tale che un altro corpuscolo separato dal primo da una distanza infinita, equivalente sulla nostra scala a numerosi anni luce, produce istantaneamente un’eco di questa misurazione.
Una misurazione propaga i suoi effetti a distanza a una velocità superiore a quella della luce... I fotoni si avvertono, fanno risalire l’informazione alla sorgente luminosa, giocano d’astuzia per evitare la perturbazione del dispositivo d’osservazione. I fotoni comunicano tra loro: è fantastico! E per farlo pare che usino interazioni istantanee a distanza - senza trovare un limite nella velocità della luce. Dell’energia proveniente dal futuro potrebbe modificare lo stato attuale di un sistema...
Come resistere all’ironia sovraluminale di questi fotoni che con i loro servizi segreti ultrarapidi sfidano l’apparecchio d’analisi? In ogni caso, l’ipotesi di una risposta attiva, refrattaria, di una non-inerzia della “materia”, di un antagonismo irriducibile, o, ancora, di un duello mortale tra il soggetto, qualunque sia, così come si è ipostatizzato nell’analisi, e l’oggetto, qualunque sia, che il soggetto pretende di asservire ai suoi calcoli e alle sue manipolazioni, questa ipotesi è affascinante. Se ci si pensa, è di un’evidenza fantastica. È l’ipotesi (“scientifica”) di un’oggettività morta dell’universo a essere inverosimile. Se si vuole essere materialisti, allora bisogna supporre che la materia non abbia questa inerzia e questa passività, ma del genio, e cioè uno scaltro genio atto a eludere tutti i tentativi di asservirla.
Fino a ora, in effetti, la reversibilità è rimasta di ordine metafisico ("Se l’universo può essere spiegato in modo causale, è perché la causa e l’effetto non possono essere considerati come termini equivalenti e intercambiabili. Come una mescolanza di acqua e d’inchiostro non può mai dividersi nuovamente in due liquidi distinti..., ogni fenomeno fisico resta sottoposto all’irreversibilità della catena delle cause e degli effetti...”), ma forse è sul punto di infastidire l’ordine fisico e di scuoterne le fondamenta.
Con la reversibilità scompare il principio razionale che vieta che l’effetto ritorni sulla sua causa per annullarla, che l’effetto sial’annullamento della causa - o anche che non ci siano mai state cause, ma un puro e semplice concatenamento di effetti. La reversibilità uccide ab ovo ogni principio determinista (o indeterminista) della causalità. E quando dico “ab ovo", è avendo in mente l’uovo e la gallina - quale viene prima? -, famosa aporia del concatenamento causale: anche lordine causale non sfugge a una circolarità parodistica, che è in qualche modo la rivincita dell’ordine reversibile.
Le storielle sulla reversibilità sono sempre le più divertenti, come quella del topo e dello psicologo: il topo racconta come è perfettamente riuscito a condizionare lo psicologo che ora gli dà un pezzetto di pane ogni volta che alza lo sportellino della sua gabbia. Sul modello di questa storiella, si potrebbe immaginare, a livello di osservazione scientifica, che tutte le esperienze siano state truccate - non volontariamente alterate dall’osservatore, ma truccate dall’oggetto, con il proposito di divertirsi o di vendicarsi (si pensi alle incomprensibili traiettorie delle particelle), o meglio ancora: che l’oggetto finga di obbedire alle leggi della fisica solo perché fa molto piacere all’osservatore.
Questa sarebbe la patafisica (la scienza delle soluzioni immaginarie), che minaccia ogni fìsica alle sue estremità inconfessabili.

Precedere il desiderio dell'altro, riflettere la sua domanda come uno specchio, cioè anticiparla: è diffìcile immaginare quale potenza di delusione, di assorbimento, di lusinga, di sviamento, insomma di rivincita sottile, ci sia in questa seduzione istantanea. Del tutto analogo è il modo che hanno le masse, come la materia, di sfumare in quanto realtà all’orizzonte dei dispositivi simulatori di cattura come i sondaggi o gli schermi fotografici delle particelle. O, ancora, si pensi a quel modo che hanno gli avvenimenti di sottrarsi dietro lo schermo dei media e della televisione. Perché è vero che gli avvenimenti, come le particelle, hanno esistenza probabile soltanto su quello schermo deflettore - e non più riflettente come uno specchio. Lo specchio era il luogo di produzione immaginaria del soggetto, lo schermo (e con ciò intendo certamente anche le reti, i circuiti, i nastri perforati, i nastri magnetici, i modelli di simulazione, tutti i dispositivi di registrazione e di controllo, tutte le superfici d’iscrizione) è propriamente il luogo della sua scomparsa. La luce della tv, è stato detto, è endogena, proviene dall'interno e non riflette nulla - è come se lo stesso schermo fosse la causa e il luogo d’origine dei fenomeni che vi si producono -, è questa la conseguenza della sofisticazione attuale dei dispositivi di cattura “oggettiva”, che hanno annientato l’oggettività stessa del loro processo.
L’altro, l’oggetto, scompare all’orizzonte della scienza. L’evento, il senso scompaiono all’orizzonte dei media.
Ma bisogna considerare che la sparizione può essere anch'essa una strategia - e non una conseguenza forzata del dispositivo d’informazione, ma una strategia propria dell’oggetto, al quale lo schermo di controllo servirebbe in qualche modo da schermo di sparizione. A questa superficie catodica di registrazione l’individuo o la massa rispondono con un comportamentoparodistico di scomparsa. Che cosa sono, che cosa ci fanno dietro a questo schermo? Si fanno essi stessi superficie impenetrabile e inintelligibile, il che è un modo di scomparire. Si eclissano, si fondono nello schermo superficiale, e così pure la loro realtà, esattamente come quella delle particelle di materia, forse radicalmente messa in dubbio senza che ciò cambi niente all’analisi probabilistica del loro comportamento. In “realtà”, dietro a questo riparo “oggettivo” delle reti e dei modelli che credono di captarli, e ove si muove tutta la popolazione dei ricercatori, degli analisti, degli scienziati, degli osservatori (ma anche degli uomini dei media e dei politici), passa tutta un’onda di derisione, di reversione e di parodia che è lo sfruttamento attivo, la messa in opera parodistica da parte dell’oggetto stesso del suo modo di sparizione!
I media fanno scomparire l’evento, l’oggetto, il riferimento. Ma così non servono forse da supporto a una strategia di sparizione che è quella dell’oggetto stesso?
Le masse fanno scomparire, eclissano l’individuo. Ma non è che forse esse sono per l’individuo la sognata occasione per scomparire?
I media sono senza risposta. Ma non è che sono la superficie della quale le masse approfittano per tacere?
Che si tratti allora ancora di seduzione, ma esattamente al contrario, non più di sviamento delle masse a opera dei media, ma di sviamento dei media da parte delle masse, nella loro strategia di sparizione all’orizzonte dei media?
Come l’osservazione di una particella in condizioni date non permette di concludere sul comportamento di un’altra particella nelle stesse condizioni, così è come se gli individui e le masse non ottemperassero tanto bene ai modelli d’analisi e di sondaggio che per renderli più indecidibili. Infatti i sondaggi sono indecidibili, è per così dire il loro fascino, e lo sono perché sono schermi dietro i quali l’oggetto è a tal punto scomparso che nulla può più essere affermato intorno alla sua esistenza causale, o alla conseguenza effettiva del modello. Donde risulta un sospetto o un'impertinenza generale e giustificata quanto al valore dei sondaggi, una sorta di "verdetto di simulazione” spontaneo. Verdetto d’incredulità, di diffidenza, che oggi si estende a tutto ciò che ci è consegnato attraverso il canale dei media e dell’informazione, e anche attraverso quello della scienza. Noi registriamo tutto, ma non vi crediamo poiché noi stessi siamo diventati degli schermi, e chi può chiedere a uno schermo di credere a ciò che registra? Alla simulazione rispondiamo con la simulazione, siamo diventati anche noi dei dispositivi simulatori. C’è gente, oggi (sono i sondaggi a dirlo!), che non crede nemmeno alla navicella spaziale! Qui non si tratta più di dubbio filosofico riguardo all’essere e alle apparenze, si tratta dell ’indifferenza profonda al principio di realtà conseguente alla perdita di ogni illusione. Tutti gli antichi dispositivi di conoscenza, il concetto, la scena, lo specchio, cercano di creare illusione, sottolineano dunque una proiezione veridica del mondo. Le superfici elettroniche, invece, sono senza illusione, producono qualcosa d’indecidibile.
E questo fa sì che il buon vecchio giudizio critico e ironico non sia più possibile. Si poteva dire, per denunciarne la retorica: “Questa è letteratura!”. Si poteva dire, per denunciarne l'artificio: "Questo è teatro!”. Si poteva dire, per denunciarne la mistificazione: “Questo è cinema!”. Non si può dire per denunciare alcunché: “Questa è televisione!”. Perché non c’è più un universo di riferimento. Perché l’illusione è morta, o perché è totale. Il giorno in cui nella stessa maniera potremo dire: “Questa è televisione! Questa è informazione!” vorrà dire che tutto sarà cambiato.
Forse quando si saranno moltiplicate esperienze come quella di Capricorn One, in cui una spedizione su Marte, capitale per il prestigio degli Stati Uniti, essendo impedita all’ultimo momento, la si fa svolgere per intero negli studi televisivi del deserto, con trasmissione simulata, ma perfetta, su tutti gli schermi della terra. Perché no? Non c’è delitto di simulazione. La credibilità non è che un effetto speciale, e anche lo spazio, lo spazio cosmico, per noi non è che uno schermo di simulazione senza profondità. L’effetto spaziale vi raggiunge l’effetto speciale.

Uno schermo non rappresenta niente, né quello della televisione né quello dei sondaggi. È un errore pensare che i sondaggi possano essere rappresentativi di qualcosa, un’immagine della realtà o un volto dei sentimenti interiori. Il sistema elettorale può ancora pretendere di essere rappresentativo, perché mette in scena una dialettica relativa dei rappresentanti e dei rappresentati. Qui non c’è nulla del genere. Il modello, al contrario del concetto, non è dell’ordine della rappresentazione, ma dell’ordine della simulazione (virtuale, aleatorio, dissuasivo, non referenziale), ed è un completo controsenso l’applicargli la logica di un sistema di rappresentazione. Di qui provengono tutti i malintesi e le polemiche indefinite e inutili sul loro valore e sul loro “buon uso" (come per la pubblicità: Séguéla/Mitterrand, chi ha fatto passare il socialismo?). Assurdo e insolubile: si mescolano due sistemi eterogenei i cui dati non possono essere trascritti dall’uno all’altro. Proiezione illogica di un sistema operazionale, statistico, informatico, simulativo su un sistema di valori tradizionali, su un sistema di rappresentazione, di volontà e di opinione. Il malinteso basta a cristallizzare tutta una filosofia morale dell’informazione.
In qualunque modo li si perfezioni, i sondaggi non rappresenteranno mai niente, perché la loro regola del gioco non è quella della rappresentazione. La loro logica è perfettamente accordata con quella dell'oggettività, ma non c’è più oggetto al termine di questo processo: è dunque l’oggettività allo stato puro. Meravigliosa derisione! Ciò vale per tutti i media: quando si è nella simulazione, e cioè nel né vero né falso, ogni deontologia è perfettamente ipocrita. È ugualmente inverosimile parlare di una deontologia dei sondaggi (o dei media) che di una deontologia della moda - introvabile giacché il movente della moda non è più quello di giocare su un’opposizione del bello e del brutto, ma sulla loro indistinzione e sul loro turbinare indifferenziato in un effetto generalizzato di seduzione.
D’altronde, supponendo che si possano portare i sondaggi a un grado di affidabilità totale, supponendo che si possa accreditare l’informazione di una qualunque verità, qui comincerebbe il dramma. Perché questo cliché ideale che si otterrebbe del sociale equivarrebbe ad assolverci dalla sua eventualità drammatica. Questa verità significherebbe che il sociale è stato sconfitto dalla tecnica del sociale. Ed è questo infatti l’obiettivo diabolico di ogni simulazione. E' qui che comincia la tecnologia dolce dello sterminio. È per questo che il vero problema comincia con l’ipotesi di un buon funzionamento, poiché quel che è grave non sono le distorsioni di verità all’interno della macchina, è la distorsione di tutto il reale attraverso l’affidabilità oggettiva di questa macchina.
Come era bella l’informazione all’epoca della verità! Come era bella la scienza all’epoca del reale! Come era bella l’oggettività all'epoca dell’oggetto! Come era bella l’alienazione all’epoca del soggetto! Eccetera.

Non bisogna dunque dare ragione né a quelli che esaltano l’impiego benefico dei media né a quelli che gridano alla manipolazione, per la ragione che non c’è alcun rapporto tra un sistema di senso e un sistema di simulazione. Pubblicità e sondaggi sono incapaci di alienare la volontà di chicchessia, per la ragione che non giocano nello spazio-tempo della volontà e della rappresentazione in cui si forma il giudizio. Per la stessa ragione, è per loro altrettanto impossibile illuminare la volontà o l’opinione di chicchessia, poiché sono estranei a quella scena dell’opinione, a un tempo teatrale e rappresentativa, che costituiva la scena stessa del politico. Così dunque rassicuriamoci: non sapranno distruggerla. Ma non facciamoci illusioni: non sapranno nemmeno informarla.
È questa frattura tra i due sistemi che ci precipita oggi collettivamente in uno stato di ebetudine, d’incertezza quanto alla nostra volontà di scelta, di opinione, di giudizio. Non si saprà mai se una pubblicità o un sondaggio abbiano influito realmente sulle volontà, ma non si saprà nemmeno che cosa sarebbe successo se non ci fossero stati né pubblicità né sondaggi. Lo schermo con cui i media (l’informazione) ci circondano è uno schermo di totale incertezza. E di un’incertezza del tutto nuova- poiché non è più quella che risulta da una mancanza d’informazione, ma quella che risulta dalla stessa informazione, e dall’eccesso di informazione. Contrariamente all’incertezza tradizionale che poteva sempre essere risolta, questa è dunque irreparabile, e non sarà mai tolta.
Questo è il nostro destino di sondati, di informati e di statisticati: messi di fronte alla verifica anticipata dei nostri comportamenti, assorbiti da questa rifrazione permanente, non siamo mai di fronte alla nostra volontà, né a quella dell’altro. Non siamo nemmeno più alienati, poiché non c’è più un altro; la scena dell’altro, come quella del sociale e del politico, è scomparsa. Ogni individuo è costretto alla coerenza indivisa delle statistiche. Estroversione irrimediabile, come l’incertezza.

L’oscenità propria dei sondaggi non deriva dal fatto che essi tradiscano il segreto di un’opinione, l'intimità di una volontà, o che essi violino un qualche diritto imprescindibile dell’individuo privato (se il segreto esistesse veramente, nessuno, nemmeno il suo detentore, sarebbe in grado di tradirlo), ma dall’esibizionismo statistico, da quel voyeurismo continuo del gruppo su se stesso: deve in ogni momento sapere ciò che vuole, sapere che cosa pensa, vedersi sullo schermo video delle cifre, decifrare le sue variazioni di temperatura, in una sorta di follìa ipocondriaca - il sociale è assillato da se stesso, diventa il suo proprio vizio, la sua propria perversione. Sovrinformato, diventa obeso di se stesso.
Anche le masse sono fatte di questa sovrinformazione inutile che pretende di illuminarle quando non fa altro che ingombrare lo spazio e annullarsi in un’equivalenza silenziosa. Nessuno può farci nulla contro questa circolarità delle masse e dell’informazione. I due fenomeni sono fatti l’uno sulla misura dell’altro: né la massa ha opinione, né l’informazione l’informa; l’una e l’altra continuano ad alimentarsi mostruosamente - la velocità di rotazione dell’informazione accresce soltanto il peso della massa, e niente affatto la sua presa di coscienza.
Tutto ciò sarebbe drammatico se ci fosse una verità oggettiva dei bisogni, una verità oggettiva dell’opinione pubblica. L’influenza della pubblicità, dei sondaggi, dei media, dell’informazione (polluzione della democrazia, polluzione delle coscienze), tutto ciò sarebbe drammatico se avessimo la certezza che esiste d’altra parte unà natura dell'uomo, un’essenza del sociale, con suoi valori propri, una sua volontà propria. Poiché ciò porrebbe l’eterno problema della sua alienazione.
Bisognerebbe anche spingerci molto più lontano e rivedere tutte le utopie legate alla teoria dell'informazione. Le cose sono andate velocemente dall’inizio del secolo. Oggi è l’informazione stessa, l’eccesso di informazione che ci conduce sulla via di un'involuzione generale.
Oggi il sapere sull’evento non è che la forma degradata di quello stesso evento. Una forma più bassa dell’energia evenemenziale. Così il sapere sull’opinione non è che una forma degradata di questa opinione.
Quando il sapere, attraverso i suoi modelli, anticipa l’evento, o, detto altrimenti, quando l’evento (o l’opinione) è preceduto dalla sua forma degradata (o dalla sua forma simulata), è tutta la sua energia a essere assorbita nel vuoto.
La prevedibilità totale dell’universo, che è una pretesa della scienza, costituisce in questo senso la forma più degradata dell’universo. Forse che la (contro)fina-lità della scienza e dell’informazione sia di precorrere la fine dell’universo attraverso una degradazione sistematica benché inconscia, e spesso smarrita nell’utopia contraria, quella di salvare il mondo attraverso l’informazione (anche se sembrano levarsi alcuni bagliori di cattiva coscienza)?
L’accumulazione di un massimo d’informazione sull'universo può mettere fine al mondo. È come nella favola dei nove miliardi di nomi di Dio: quando, grazie alla memoria centrale del calcolatore, si è potuto declinarli tutti, il mondo finisce, le stelle si spengono.
L’informazione sarebbe così l’unico modo di mettere fine all’universo, che senza di essa non si esaurirebbe mai.

Ma c’è forse un altro modo, più gioioso, di vedere le cose, e di sostituire infine all’etema teoria critica una teorìa ironica.
Se in effetti si considera l’indecidibilità dei sondaggi, l’incertezza dei loro effetti, vicina a quella di una meteorologia divinatoria, se si considera che qualunque cosa dicano già la si sapeva, non ci si crede e non ce ne si fa niente (ma se ne vuole sempre di più), e la loro possibilità di verificare simultaneamente fatti o tendenze contraddittori, o, quando i risultati sono inaccettabili, di falsificare pietosamente l’oggettività (è questo il caso dei sondaggi dell’IFOP sulla pena di morte e sugli immigrati), ma soprattutto là smentita perpetua a cui li sottoponiamo, anche e soprattutto se "verificano’’ il nostro comportamento - se si considera tutto ciò, si vede che nessuno accetta di essere “verificato”, né di coincidere con le sue probabilità, nessuno può vivere nell’immagine anticipata di quel che è, né nello specchio esorbitante della sua verità statistica. (Un esempio divertente di questa negazione ostinata del caso statistico nel cuore stesso della sua applicazione: “Se questo può rassicurarvi, la RATP ha calcolato che su cinquanta persone che prendessero il mètro due volte al giorno per sessant’anni, una sola rischierebbe di essere aggredita. Ebbene, non c'è ragione perché siate voi!”.) Non più di quanto il giocatore creda al caso - crede piuttosto nella Fortuna (con la maiuscola: la Grazia, non la probabilità) -, così nessuno rinuncia al destino, ed è per questo che nessuno crede alla statistica.
In ogni modo, la grandezza delle statistiche non sta nella loro oggettività, ma nel loro humour involontario.
Ed è così che bisogna prendere le cose: in termini di humour. AH’impertinenza con la quale in fondo i sondaggi trattano il sociale e i fenomeni sociali, viene risposto, nella loro lettura e nel loro utilizzo, con un’impertinenza per lo meno uguale. E alla serietà con la quale pretendono di trattare il sociale, viene risposto con l’ironia feroce del loro stesso scacco, e di tutte queste distorsioni aleatorie. C’è come una provvidenza umoristica che interviene a guastare questa macchina troppo bella, e che fa sì che s’intrappoli da sé nello specchio dell’oggettività. Una sorta di arma assoluta emerge dal fondo del sociale (?), quella di una dissimulazione radicale in risposta alla simulazione di risposta messa in scena dai sondaggi e dalle statistiche. È quel che si potrebbe definire lo scaltro genio dell’oggetto, lo scaltro genio delle masse, lo scaltro genio del sociale, che mettono continuamente in scacco la verità del sociale e la sua analisi.
Il fatto è che l’oggetto non è mai innocente, esiste e si vendica. La cattiva rifrazione del raggio luminoso dell’informazione sulla "materia” del sociale non è un incidente o un’imperfezione nel dispositivo, proviene dal genio dell'oggetto,da una resistenza offensiva del sociale alla sua investigazione, e che prende la forma di un duello occulto tra esperti in sondaggi e oggetto sondato, tra masse e classe politica ecc. In questo duello, l’ingenuità è tutta dalla parte dei manipolatori, per i quali è convenuto che si possa in ogni modo spingere l’oggetto a svelare la sua verità per il suo stesso bene. Se non comprende la domanda, se vi risponde male, se vi risponde troppo bene, se esso stesso pone delle domande, va da sé che non è altro che una forma di mancato adattamento al dispositivo analitico. La scienza, per un’aberrazione fantastica, crede di poter sempre contare sulla complicità del suo oggetto! Essa sottovaluta i suoi vizi, la derisione, l’impertinenza, la falsa complicità, tutto ciò che pùò comportarsi ironicamente nei processi, tutto ciò che alimenta la strategia originale, eventualmente vittoriosa, dell’oggetto contrapposta a quella del soggetto.
Presi per questo verso, si vede che i sondaggi funzionano esattamente al contrario del loro obiettivo dichiarato. Funzionano come spettacolo dell’informazione (l’informazione è come la rivoluzione: il popolo non ne vuole che lo spettacolo), dunque come derisione dell’informazione - ma soprattutto funzionano come derisione del politico e della classe politica.
Lo humour involontario dei sondaggi (e l’astuto piacere che proviamo di fronte a questa fantasmagoria "scientifica”) deriva dal fatto che cancellano ogni credibilità politica. Che cosa sono questi uomini che hanno bisogno di sondaggi per decidere, per i quali i test prendono il posto di una strategia? Sono spossessati di ogni iniziativa, e ciò attraverso la stessa trappola del medium al quale affidano la loro potenza. Tutti i media nascondono questa splendida trappola: annientano la funzione politica di una società, e danno così soddisfazione all’inconscio ironico delle folle, la cui pulsione profonda continua a essere l’omicidio simbolico della classe politica.
Il popolo, che è sempre servito da alibi al sistema rappresentativo, si risarciva dandosi lo spettacolo della scena politica. Oggi si vendica dandosi lo spettacolo della sua sparizione. Si crede di sondarlo, ma è lui che si proietta giorno per giorno il cinema a domicilio delle fluttuazioni della sua propria opinione nella lettura dei sondaggi.
È solo in questo senso che vi crediamo, che noi tutti vi crediamo, come a un gioco di pronostici su una scadenza maliziosa, una martingala sul tappeto verde. Gioco dell’equifinalità di tutte le tendenze, degli effetti di verità, della circolarità delle domande e delle risposte ecc. Forse che così inauguriamo una forma collettiva di esistenza ironica che, nella sua estrema saggezza, non s’interroga più sui propri fondamenti e non accetta altro che di appassionarsi allo spettacolo della sua sparizione?

Il più bell'esempio è quello delle masse. Non sono per nulla un oggetto di oppressione e di manipolazione. Le masse non devono essere liberate e non lo possono. Tutta la loro potenza (transpolitica) è di esserci come oggetto puro, cioè di opporre il loro silenzio, la loro assenza di desiderio a ogni velleità politica di farle parlare. Tutti cercano di sedurle, di sollecitarle, di investirle. Atone, amorfe, abissali, esse esercitano una sovranità passiva, opaca, non dicono nulla, ma sottilmente, come le bestie forse nella loro indifferenza animale (benché le masse siano piuttosto d’essenza ormonale o endocrina, sono degli anticorpi), esse neutralizzano tutta la scena e il discorso politico. Se questi ultimi oggi appaiono tanto vuoti, se nessuna posta, nessun progetto possono più commuovere la scena politica, che resta in preda alla drammatizzazione artificiale e agli effetti di potere inutile, ciò è dovuto all’oscenità massiccia di questo enorme anticorpo silenzioso, ciò è dovuto alla retrattilità di questa “cosa” innominabile che ha la potenza bestiale, assurda, di suzione, di assorbimento, dei mostri della fantascienza, che in effetti nutre la sua inerzia con tutta l’energia d’accelerazione del sistema, con la miriade d’informazioni che esso secerne per tentare di esorcizzare questa inerzia e questa assenza. Niente da fare: la massa è un oggetto puro, cioè quel ch'è scomparso all’orizzonte del soggetto,quel ch'è scomparso all’orizzonte della storia - come il silenzio è l’oggetto puro che scompare all’orizzonte della parola, come il segreto è l’oggetto puro che scompare ogni giorno all’orizzonte del senso.
Potenza stupefacente dell’oggetto massa. Le masse incarnano l’oggetto puro del politico, e cioè l’ideale di un potere assoluto, di un potere dì morte sul corpo sociale, esse sono l’incarnazione di un sogno terrificante di potere - e nello stesso tempo esse ne sono l’oggetto vuoto, la materializzazione nulla, l’anticorpo radicale, inaccessibile a ogni soggettività politica, e dunque perfettamente inutile e pericoloso. Lo scenario del politico si ribalta: non è più il potere a trascinare la massa nella sua scia, è la massa a trascinare il potere nella sua caduta. È così che gli uomini politici che vogliono sedurre le masse farebbero bene a domandarsi se in càmbio non si lasciano cannibalizzare e se non pagano il loro simulacro di potere con l’essere divorati, come il maschio dalla femmina dopo l’accoppiamento.
Tutto ciò che è stato un giorno costituito come un oggetto da un soggetto rappresenta per questi una virtuale minaccia di morte. Come lo schiavo non accetta la sua servitù, l'oggetto non accetta la sua oggettività coatta. Il soggetto non può che averne una padronanza immaginaria, in ogni modo effimera, ma non sfuggirà a questa insurrezione dell’oggetto - l’unica rivoluzione ormai, ma una rivoluzione silenziosa.
Non sarà dunque simbolica, esplosiva e soggettiva, sarà oscura e ironica. Non sarà dialettica, sarà fatale. Contro la seduzione di ogni oggetto spogliato del suo senso, contro la possibilità per un qualsiasi oggetto di essere oggetto di seduzione e di terrore, tutte le strategie saranno buone.
Tutta l’informazione, l’attività incessante dei media, la massa di messaggi non fanno altro che scongiurare questa contaminazione mortale. L’energia dell'informatica, dei media, della comunicazione, spesa oggi, viene spesa soltanto per strappare una particella di senso, una particella di vita a questo anticorpo freddo e indifferente, a questa massa silenziosa che continua ad accrescere la sua attrazione. Bisogna coalizzare tutte le forze centrifughe per sfuggire a questa forza d’inerzia. In fondo, da oggi l’informazione non avrà più altro senso che questo.

C’è e ci sarà sempre qualche difficoltà insormontabile ad analizzare i media e la sfera dell’informazione attraverso le categorie tradizionali della filosofia del soggetto: volontà, rappresentazione, scelta, libertà, sapere e desiderio. Infatti è palese che esse in questa sfera sono assolutamente contraddette, e che il soggetto vi è perfettamente alienato nella sua sovranità. C'è una distorsione di principio tra questa sfera, quella dell’informazione, e la legge morale che sempre ci domina, e che afferma: tu sarai ciò che sono la tua volontà e il tuo desiderio. Sotto questo riguardo, i media, ma anche le tecniche e le scienze, non ci insegnano nulla, hanno piuttosto arretrato i confini della volontà e della rappresentazione, hanno imbrogliato le carte e sottratto a ogni soggetto la disposizione del suo corpo proprio, del suo desiderio proprio, della sua scelta e della sua libertà.
Ma questa idea di alienazione non è mai stata che una prospettiva ideale, da filosofo, a uso di masse ipotetiche. Non ha mai espresso altro che l’alienazione del filosofo stesso, cioè di colui che si pensa altro. A questo proposito, Hegel è molto chiaro nel suo giudizio sull'Aufklàrer, sul filosofo dei Lumi, quello che denuncia “l’impero dell’errore” e lo disprezza.
Basta dunque rovesciare l’idea di una massa alienata dai media per valutare come tutto l’universo dei media, e forse anche tutto l’universo della tecnica, risultino da una strategia segreta di questa massa che si pretenderebbe alienata, da una forma segreta di rifiuto della volontà, da una sfida in-volontaria a tutto ciò che la filosofia e la morale esigevano dal soggetto, e cioè a ogni esercizio della volontà, del sapere e della libertà.
Si tratterebbe in qualche modo non più di una rivoluzione ma di una devoluzionemassiccia, di una delega massiccia del potere e della responsabilità ad apparati sia politici e intellettuali, sia tecnici e operativi. De-volizione massiccia, desistenza massiccia della volontà. Non per alienazione o servitù volontaria (il cui mistero resta intatto da La Boétie in poi, giacché il problema è posto in termini di consenso del soggetto alla sua propria servitù, in termini di rinuncia del soggetto al suo essere proprio - ma, appunto, ce n’è uno?), bensì attraverso un’altra filosofia sovrana dell’antivolontà, una sorta di antimetafisica il cui segreto è che le masse (o l’uomo) sanno profondamente che esse non sono tenute a pronunciarsi su se stesse e sul mondo, che non sono tenute a volere, che non sono tenute a sapere, che non sono tenute a desiderare. Il desiderio più profondo è forse quello di affidarsi al desiderio dell’altro. Strategia di disillusione del loro “proprio” desiderio, di disillusione della loro “propria” volontà, strategia d’investimento ironico, strategia di espulsione verso gli altri dell’imperativo filosofico, morale e politico..
I chierici son fatti apposta, i tenenti e i luogotenenti del concetto e del desiderio. Tutta la pubblicità, tutta l’informazione, tutta la classe politica sono fatte per dirci quel che vogliamo, per dire alle masse quel che esse vogliono - e noi, in fondo, assumiamo gioiosamente questo trasferimento massiccio di responsabilità, semplicemente perché non è evidente né interessante sapere, volere, potere, desiderare. Chi ci ha imposto tutto ciò se non i filosofi?
La scelta è un imperativo ignobile. Ogni filosofia che assegna all’uomo il compito dell’esercizio della sua volontà non può che gettarlo nella disperazione. Infatti, se niente è più lusinghiero per la coscienza che sapere ciò che vuole, al contrario niente è più seducente per l’altra coscienza (l’inconscio?), quella oscura e vitelle che fa dipendere la felicità dalla disperazione della volontà, niente è più affascinante per essa che il non sapere ciò che vuole, l’essere liberata dalla scelta e distolta dalla propria volontà oggettiva. Tanto meglio affidarsi a qualche velleità insignificante che l’essere sospesi alla propria volontà o alla necessità di scegliere. Brummell aveva un servo addetto a questo compito. Di fronte a un paesaggio splendido costellato di laghi, si volta verso il suo valletto e gli domanda: “Which lake do you prefer?”.
Non solo la gente non ha certamente voglia che le si dica ciò che vuole, ma non ha nemmeno voglia, è certo, di saperlo, e non è nemmeno sicuro che abbia voglia di volerlo.Di fronte a una tale sollecitazione, è il suo genio scaltro che in fondo gli suggerisce di affidare all’apparato pubblicitario o all'informazione l’incarico di “persuaderla”, di fabbricarle una scelta (o alla classe politica l’incarico di valutare le cose) - esattamente come Brummell con il suo servitore.
Su chi si richiude la trappola?
La massa sa di non sapere nulla, e non ha voglia di sapere. La massa sa di non poter nulla, e non ha voglia di potere. Le viene violentemente rimproverato questo segno di stupidità e di passività. Ma non è affatto così: la massa è molto snob, fa come Brummell e delega sovranamente la facoltà di scegliere a qualcun altro, con una sorta di gioco dell’irresponsabilità, di sfida ironica, di sovrana mancanza di volontà, di segreta scaltrezza. Tutti i mediatori (politici, intellettuali, eredi dei filosofi dei Lumi nel disprezzo delle masse) in fondo non servono che a questo: amministrare per delega, per procura, questa fastidiosa faccenda del potere e della volontà, togliere alle masse la zavorra di questa trascendenza per il loro più grande piacere e offrirne loro per di più lo spettacolo.Vicarious: di questo tipo sarebbe, per riprendere il concetto di Veblen, lo statuto di queste classi “privilegiate”, la cui volontà sarebbe sviata a loro insaputa verso le finalità segrete di quelle stesse masse che disprezzano.
Noi viviamo tutto ciò, soggettivamente, in un modo paradossale, perché in noi quella massa coesiste con l’essere intelligente e volontario che la condanna e la disprezza. Nessuno sa che cosa veramente s’oppone alla coscienza. Se non quell’inconscio fatto di rimozione che la psicoanalisi ci ha imposto. Ma il nostro vero inconscio è forse in questa potenza ironica di remissione, di non-desiderio al contrario, di non-sapere, di silenzio, di assorbimento di tutti i poteri, diespulsione di tutti i poteri, di tutte le volontà, di tutti i lumi, di tutte le profondità del senso su istanze in tal modo avvolte da un’aureola di luce derisoria. Il nostro inconscio non sarebbe fatto di pulsioni proprie, votate al triste destino della rimozione, esso non sarebbe affatto rimosso, sarebbe fatto di questa espulsione gioiosa di tutte le sovrastrutture ingombranti dell’essere e della volontà.
Abbiamo sempre avuto una visione triste delle masse (alienate), una visione triste dell'inconscio (rimosso). Su tutta la nostra filosofia pesa questa triste correlazione. Tanto per cambiare, sarebbe interessante concepire la massa, l’oggetto massa, come detentrice di una strategia delusiva, illusiva, allusiva, correlata a un inconscio finalmente ironico, gioioso e seduttore.


Lo scaltro genio della passione

Dell’amore si può dir tutto, non si sa che dire. L’amore esiste, punto e basta. Si ama la propria madre, Dio, la natura, una donna, gli uccellini, i fiori: questo termine, diventato il leitmotiv della nostra cultura fondamentalmente sentimentale, è il più patetico della nostra lingua, ma anche il più diffuso, il più vago, il più incomprensibile. Confrontato allo stato cristallino della seduzione, l’amore è una soluzione liquida, o una soluzione gassosa. Tutto è solubile nell’amore, tutto è solubile dall’amore. Risoluzione, dissoluzione di tutte le cose in un'armonia appassionata o in una libido subconiugale, l’amore è una sorta di risposta universale, la speranza di una convivialità ideale, la virtualità di un mondo di rapporti di fusione. L’odio separa, l’amore riunisce. Eros è quello che lega, che accoppia, che unisce, che fomenta le associazioni, le proiezioni, le identificazioni. "Amatevi gli uni gli altri.” Chi avrebbe mai potuto dire: “Seducetevi gli uni gli altri”?
Io preferisco la forma della seduzione, che conserva l’ipotesi di un duello enigmatico, di una sollecitazione o di un’attrazione violenta, che non è la forma di una risposta, ma quella di una sfida, di una distanza segreta e di un antagonismo perpetuo, che permette il gioco di una regola - io preferisco questa forma e il suo pathos della distanza a quella dell’amore e alla sua vicinanza patetica. Preferisco la forma duale della seduzione alla forma universale dell’amore. (Eraclito: è l’antagonismo degli elementi, degli esseri e degli dei a creare il gioco del divenire, niente fluido universale, niente confusione amorosa, gli dei si affrontano e si seducono; l’amore, quando assurgerà con il cristianesimo a principio della creazione, metterà fine a questo grande gioco.)
È per questo che è possibile parlare della seduzione, perché è una forma duale e intelligibile, mentre l’amore è una forma universale e inintelligibile. Forse solo la seduzione è veramente una forma, mentre l’amore non è che la metafora diffusa di una caduta degli esseri nell’individuazione, con l’invenzione, in compenso, di una forza universale che inclinerebbe gli esseri gli uni verso gli altri - per quale effetto provvidenziale, per quale miracolo della volontà, per quale colpo di scena gli esseri sarebbero destinati ad amarsi, per quale immaginazione folle si può concepire che "ti amo”, che la gente si ami, che noi ci amiamo?... Siamo di fronte a una proiezione travolgente di un principio universale d'attrazione e d’equilibrio che è una pura fantasmagoria. Fantasmagoria soggettiva, passione moderna per eccellenza.
Là dove non c’è più gioco né regola, bisogna inventare una legge e un affetto, un modo di effusione universale, una forma di salvezza che sovrasta la divisione dei corpi e delle anime, che mette fine all’odio, alla predestinazione, alla discriminazione, al destino; tale è il nostro vangelo della sentimentalità, che di fatto mette fine alla seduzione come destino.

Questa elevazione dell’amore a un’eccellenza di diritto divino, a una forma etica di realizzazione universale (l’amore serve ancora e ovunque da giustificazione morale alla felicità) ha respinto la seduzione in una zona vagamente immorale, vagamente perversa, una forma di gioco preliminare all’amore. L’amore resta l’unica finalità seria o sublime, la sola assoluzione possibile a un universo impossibile. Ogni velleità di attribuire alla seduzione altri titoli di nobiltà urta contro i meccanismi di sublimazione e di idealizzazione dell’amore.
La seduzione non è legata agli affetti, ma alla fragilità delle apparenze, non ha dunque modello e non cerca alcuna forma di salvezza - è dunque immorale. Non obbedisce a una morale dello scambio, deriva dal patto, dalla sfida e dall’alleanza, che non sono forme universali e naturali, ma forme artificiali e iniziatiche. Essa è dunque apertamente perversa.
La cosa si complica attraverso il gioco dei termini. Non essendo né la seduzione né l’amore delle nozioni precise (non hanno posto nei grandi sistemi concettuali, né in psicoanalisi), possono facilmente alternarsi o confondersi. Così, se si ritiene che la seduzione sia una sfida, un gioco in cui i giochi non sono mai fatti, uno scambio rituale ininterrotto, un rilanciare all’infinito, una complicità segreta ecc., si può sempre ribattere: “Ma, così definita, la seduzione non è semplicemente l’amore?”.
Si può anche invertire il rapporto e fare dell’amore qualcosa di più tagliente, di più diffidente della seduzione. L’amore non è “realizzazione”, a meno che non lo si concepisca in modo, diciamo, narcisista: amo l’altro perché è simile a me, dunque mi raddoppio - amo l’altro perché è il mio contrario, dunque mi completo. Ma si può concepire l’amore come gratuità, come slancio verso l’altro che non attende risposta, come sfida che incita l’altro ad amarmi più di quanto io l’ami, dunque rilancio infinito. Mentre la seduzione la si può anche prendere come gioco finalizzato, come tattica che cerca di manipolare l’altro ai propri fini.
Non c’è nulla da dire contro questo rovesciamento dei termini. Seduzione e amore possono scambiare le loro accezioni più sublimi e più volgari, il che rende impossibile parlarne. Visto che oggi siamo presi in un revival del discorso amoroso, una riattivazione dell’affetto per noia, per saturazione. Un effetto di simulazione amorosa. L’amour fou, l’amore come passione sono definitivamente morti nel loro movimento eroico e sublime. Quel che è in gioco oggi è una domanda d’amore, d’affetto, di passione, in un’epoca in cui se ne fa sentire crudelmente il bisogno. È tutta la generazione che è passata per la liberazione del sesso e del piacere, è questa generazione stanca di sesso che reinventa l’amore come supplemento affettivo o passionale. Altre generazioni, romantiche o post-romantiche, l’hanno vissuto come passione, come destino. La nostra non è che una generazione neoromantica.
Dopo tanto pathos sessuale, ecco il neopatetico del rapporto amoroso. Dopo il libidico e il pulsionale, ecco il neoromanticismo della passione. Ma non si tratta più di predestinazione, né di fatalità, non si tratta che di liberare una potenzialità tra le altre e, dopo una così lunga fase di "desublimazione repressiva”, come direbbe Marcuse, di aprire la strada a una risublimazione progressiva.
Il sesso, come altrove i rapporti di produzione, era troppo semplice. Non è mai troppo tardi per passare al di là di Freud e di Marx.
C’è dunque una modalità d’amore che non è altro che la schiuma di una cultura del sesso, e non bisogna farsi troppe illusioni su questo nuovo dispositivo per creare atmosfera. Le forme di simulazione si riconoscono in ciò, che niente le oppone tra loro - sesso, amore, seduzione, perversione, porno, tutte possono coesistere su una stessa banda libidica, come su una banda stereo, senza esclusiva, e con la benedizione della psicoanalisi. Concerto stereofonico: si aggiunge dell’amore, della passione, della seduzione al sesso, come si è aggiunto della psicosociologia e della trattativa alla catena di montaggio.
Questa situazione è interessante come sintomo di affanno di tutta una costellazione oscena della sessualità (oscena non per via del sesso, ma per l’oscenità della verità quando è detta e rivelata). Siamo giunti all’estremità di un ciclo della sessualità come verità. Ciò rende di nuovo possibile una reversione sulle forme il cui profilo e il cui fascino si sono trovati eclissati dalla prospettiva egemonica del sesso.

Ritrovare una sorta di distinzione, di gerarchia di tutte queste figure, seduzione, amore, passione, desiderio, sesso, è senza dubbio una scommessa assurda, ma è l’unica che ci resta.
Nella nostra cultura, la seduzione ha conosciuto una sorta di età dell’oro, che va dal Rinascimento al xviii secolo: è a quel tempo, come la cortesia o le maniere di corte, una forma convenzionale, aristocratica, un gioco strategico senza troppi rapporti con l’amore. Questo ha per noi delle tonalità differenti, ulteriori, romantiche e romanzesche: non è più un gioco né un cerimoniale, è una passione, èun discorso. È la forza del desiderio che vi trascina, è la morte che vi chiama. Niente a che vedere con la seduzione. Certo, l’amore ha conosciuto anche delle forme cortesi, nella cultura mediterranea del xiii secolo. Ma per noi il significato che ha assunto si èforgiato a cavallo tra il xviii e il xix secolo,contro il gioco superficiale della seduzione. La rottura si opera tra una forma di gioco duale e d’illusione strategica e una finalità nuova, individuale, di realizzazione del desiderio - il grande avvento è infatti quello della costellazione del desiderio, sia quello, sessuale e psichico, dell'individuo, o quello politico delle masse. Qualunque cosa avvenga di questo desiderio e della sua "liberazione”, esso non ha più nulla a che vedere con il gioco aristocratico della sfida e della seduzione.
Inoltre: la seduzione è pagana, l’amore è cristiano. È Cristo che comincia a voler amare e farsi amare. La religione diventa affetto, sofferenza e amore, ciò di cui le culture e le mitologie arcaiche e antiche non si davano cura; per loro la sovranità del mondo risiede nel gioco regolato dei segni e delle apparenze, nei cerimoniali e nelle metamorfosi, dunque in atti di seduzione per eccellenza. Nessun affetto in tutto ciò, nessun amore, niente che somigli a un grande flusso divino o naturale, non c'è nemmeno bisogno di psicologia, di questa interiorità soggettiva in cui fiorirà il mito dell’amore.1
Esiste solo il rituale, e il rituale è dell’ordine della seduzione. L’amore nasce dalla distruzione delle forme rituali, dalla loro liberazione. La sua è un’energia di dissoluzione di queste forme, comprese quelle dei rituali magici di seduzione del mondo (che hanno avuto un seguito, attraverso le eresie cristiane, nelle forme di negazione manichee o massimaliste del mondo reale). Forme crudeli, rigorose, del segno nel suo funzionamento puro, opposto alla realtà del mondo, padronanza delle apparenze pure, senza psicologia, senza affetto, senza amore. Massima intensità di queste culture, dalle quali l’amore e tutta la sua metafisica di salvezza sono sorte quasi per decomposizione, effusione di forme fino ad allora segrete, iniziatiche, gelose di se stesse, intensive, mentre l’amore è un’energia del proselitismo, radiosa, estensiva - essoterica, mentre il rituale è esoterico. L’amore è espressione, calore, confessione, comunicazione, dunque passaggio dell’energia da uno stadio potenziale, concentrato, a uno stadio liberato, raggiante, calorico, e in tal modo anche a uno stadio endemico e degradato. Sarà dunque il fermento di una religione popolare, democratica, in opposizione agli ordini gerarchici e aristocratici, retti dalla regola.
L’amore è la fine della regola, e l’inizio della legge. E' l’inizio di uno sregolamento, in cui le cose si ordineranno secondo l’affetto, l’investimento affettivo, cioè una sostanza pesante, carica di senso, e non più secondo il gioco dei segni, sostanza più leggera, più duttile, più superficiale. Dio amerà il suo popolo, cosa che non aveva mai fatto, e il mondo non sarà più un gioco. Tutto ciò costituisce la nostra eredità - e l’amore non è che l’effetto di questa dissoluzione delle regole, e dell’energia liberata da questa fusione. La forma opposta all’amore resta dunque l’osservanza: ovunque si reinventino una regola e un gioco, l'amore scompare. In rapporto all’intensità regolata e altamente convenzionale del gioco o della cerimonia, l’amore è un dispositivo d’energia a circolazione libera. È dunque caricato di tutta l’energia della liberazione e della libera circolazione, è il pathos della modernità.

La caratteristica di una passione universale come l’amore è che essa è individuale e che ognuno vi si ritrova solo. La seduzione è duale: non posso sedurre se non sono già sedotto, nessuno mi può sedurre se non è già sedotto. Nessuno può giocare senza l’altro: è la regola fondamentale. Invece posso amare senza contropartita. Se amo senza essere amato, è un mio problema. Se non ti amo, è un tuo problema. Se qualcuno non mi piace, è un suo problema. È per questo che la gelosia è come una dimensione naturale dell’amore, mentre è estranea alla seduzione - il legame affettivo non è mai sicuro, mentre un patto sui segni è senza ambiguità e inappellabile. Inoltre, sedurre qualcuno non vuol dire investirlo o assorbirlo psicologicamente; la seduzione non conosce la gelosia territoriale propria dell’amore.
Non dico che l’amore non sia altro che gelosia, ma che vi è sempre una gelosia ben temperata, qualcosa di esclusivo, una rivendicazione soggettiva. Essa è forse perfino anteriore all’amore: una passione primordiale, come tra gli dei greci, che non conoscono né l’amore né la sentimentalità, ma sono già formidabilmente gelosi gli uni degli altri.
Amare qualcuno è isolarlo dal mondo, è cancellare le sue tracce, spossessarlo della sua ombra, trascinarlo in un avvenire di morte. È girargli intorno come un astro spento, e assorbirlo in una luce nera. Tutto si risolve in un'esorbitante esigenza di esclusività su un essere umano qualsiasi. È senza dubbio in questo che consiste una passione: il suo oggetto è interiorizzato come fine ideale, e noi sappiamo che non c’è oggetto ideale se non morto.

In rapporto alla seduzione, l’amore è dunque una forma più allentata, una soluzione più diluita, e anche una via di dissoluzione. Ma una dissoluzione patetica, per lo meno nelle sue forme più elevate, quelle che hanno prodotto il romanzo, ad esempio. Questo rilievo patetico scomparirà nello sviluppo ulteriore, che è semplicemente quello della sessualità. Questa non è altro che un modo relazionalearticolato sulla differenza “oggettiva” dei sessi. La seduzione è ancora cerimoniale, l’amore è ancora patetico, la sessualità non è altro che relazionale. Da una forma all’altra la posta dei segni s’impoverisce a vantaggio di un funzionamento organico, energetico ed economico basato sulla più piccola differenza possibile, che è la differenza dei sessi.
E' una mistificazione, infatti, il considerare la differenza sessuale come differenza originaria, fondamentale, quella da cui tutte le altre discendono o di cui non sono che metafore. Significa ignorare che in ogni epoca gli uomini hanno prodotto delle intensità differenziali ben più grandi attraverso dispositivi artificiali, che non a partire dal corpo e dalla biologia. Per lo meno non hanno mai considerato le differenze “naturali” che come un caso particolare delle differenze artificiali. Letteralmente, la differenza sessuale pura è priva d’interesse (lo Yin e lo Yang sono d’altro genere: sono due poli metafisici tra i quali giocano le tensioni che organizzano il mondo). In certe culture, le differenze guerriero/non guerriero, brahmino/non brahmino pesano infinitamente più della differenza sessuale: esse producono una maggiore energia differenziale, ordinano le cose con più rigore e più complessità. In tutte le culture tranne che nella nostra, la distinzione del morto e del vivente, del nobile e dell'ignobile, dell’iniziato e del non iniziato, è infinitamente più forte della distinzione dei sessi. Infatti la sessualità marca, con la sua evidenza biologica e pretenziosa, la differenza più debole e più povera, quella in cui le altre si perdono.
Ogni principio naturalistico di differenziazione è necessariamente più povero, è ben lontano dal poter dar luogo, come il potente artifìcio dei segni, a un ordine minuzioso, a una cerimonia del mondo.
-    La seduzione è l'epoca di una differenza estetica e cerimoniale tra i sessi;
-    l’amore (la passione) è l’epoca di una differenza morale e patetica tra i sessi;
-    la sessualità è l’epoca di una differenza psicologica, biologica e politica tra i sessi.
È per questo che la seduzione è più intelligibile dell’amore: perché si gioca su una forma più alta, la forma duale, forma differenziale perfetta. Il sesso, d’altra parte, di tutte le forme differenziali è quella che più si avvicina all’indifferenziazione. Quanto all’amore, esso si trova ogni volta a occupare un posto intermedio nello spettro di queste figure: dai confini della seduzione ai confini del sesso, descrive l’universo che va dalla forma pura della differenza alla forma pura dell’indifferenziazione - ma non ha una forma propria, e, in quanto tale, è indescrivibile. Non è la figura duale della seduzione a essere misteriosa, lo è piuttosto la figura individuale del soggetto in preda al proprio desiderio o alla ricerca della propria immagine.
Anche il destino s’impone con un’evidenza folgorante - è il non-destino che dev’essere spiegato. D’altronde non si può far altro che trovargli delle ragioni. Perché in qualche modo, profondamente, come per la banalità dell’amore, sul non-destino non c’è niente da dire.
La seduzione non è misteriosa, è enigmatica.
L’enigma, al pari del segreto, non è l’inintelligibile. È al contrario pienamente intelligibile, ma non può essere detto o rivelato. Tale è la seduzione, evidenza inesplicabile. Tale è il gioco: al cuore di qualunque gioco c'è una regola fondamentale e segreta: un enigma - tuttavia l’insieme del processo non è misterioso, niente di più intelligibile dello svolgimento di un gioco.
L’amore, invece, è caricato di tutti i misteri del mondo, ma non è enigmatico. È al contrario carico di senso, essendo dell’ordine, non dell’enigma, ma della soluzione. “La chiave dell'enigma è l’amore", o, più brutalmente: “La verità di tutto ciò è il sesso”. (Verità miracolosa rivelata al xx secolo; perché poi? Non credeteci: l’enigma resta intatto e conserva tutta la sua potenza di seduzione.)
Da una figura all’altra, dalla seduzione all’amore, poi al desiderio e alla sessualità, infine al puro e semplice porno, più si procede, più si va in direzione di un minor segreto, di un minor enigma, più si va in direzione della confessione, dell’espressione, dello svelamento, della disinibizione - della verità, insomma, che presto diventa, nell’oscenità della nostra cultura, l’espressione coatta della verità, la confessione coatta, lo svelamento coatto... ma di che cosa? Di nulla - non c’è proprio nulla da svelare.
Da dove può venire l’idea folle di poter svelare il segreto, esporre la sostanza nuda, toccare l’oscenità radicale? Anche questa è un’utopia - non c'è reale, non c’è mai stato il reale -, questo la seduzione lo sa, e ne preserva l’enigma. Tutte le altre forme, e in particolare l’amore, sono chiacchierone e prolisse. Dicono troppo, vogliono dire troppo. L’amore parla molto, è un discorso. Si dichiara, e spesso culmina in questa dichiarazione in cui finisce. Atto linguistico altamente ambiguo, quasi indecente - quelle cose non si dicono (come si può dire a qualcuno “Vi amo”?), sono troppo fragili per essere chiuse in un enunciato, a meno che non vivano d’altro che del loro enunciato, ma in questo caso non hanno più affatto un segreto. Quelle cose non vivono che del loro silenzio, o della loro antifrasi: “Non vi amo affatto”, o ancora: “Non vi parlo più” - frasi ancora cariche della sfida e della suspense della seduzione, imminenza dell’amore, ma che conserva ancora, col rifiuto di confessarlo, con la grazia della negazione, una qualità di gioco, la leggerezza della lusinga.
Fortunatamente, d’altronde, “Io vi amo” non vuol dire ciò che dice, e bisogna intenderlo diversamente: coniugato al seduttivo (tutti i verbi hanno un modo segreto: dietro all’indicativo e all’imperativo, il seduttivo). La seduzione è una modalità di ogni discorso, compreso il discorso d’amore (almeno bisogna sperarlo), che fa sì che il discorso giochi con la sua enunciazione e tocchi l'altro con il rovescio del suo enunciato. Perciò: "Io vi amo” non è fatto per dirvi che vi si ama, ma per sedurvi. È una proposizione che oscilla sui due versanti, e che così conserva il fascino insolubile dell’apparenza, di ciò che non ha senso, e dunque a cui è del tutto inutile e sconsiderato accordare una qualche fede. Credere a “Io vi amo” mette fine a tutto, compreso l'amore, poiché è accordare un senso a ciò che non ne ha.
Questo nel migliore dei casi, quando l’ambiguità regge ancora il discorso. Nel caso della domanda sessuale, non c’è più traccia d’ambiguità. Qui tutto vi è significato, tutto è detto, non c’è segreto nella domanda, tutto è nella sua espressione. Se la domanda consiste nella confessione del desiderio, allora basta trovare i termini della confessione: il gioco delle apparenze è inutile. E lo stesso "Ti amo” vi prende un’altra sfumatura: non è più per niente seduttivo, non è che un ottativo disperato - “Chiedo di amarti”, "Chiedo che tu mi ami”.
Si può essere d’accordo con Lacan: non c’è il rapporto sessuale, non c’è verità del sesso. O il “Ti amo” e il “Ti desidero” dicono tutt’altro: la seduzione, oppure non esprimono che una domanda d’amore, una domanda di desiderio - mai direttamente l’amore o il sesso. E' dunque sempre un incontro mancato, e la sessualità, come afferma Lacan, non è che la storia di questo incontro mancato. Ma non è l’ultima parola questa, perché la spirale più sottile della seduzione ci descrive non la storia, ma ilgioco di questo incontro mancato, e qual altro piacere essa sa trarre da questa affascinante e assurda differenza che la natura ha messo tra i sessi.

Così quel che era sfida e seduzione si compie nella sollecitudine. Sesso, desiderio, affetto come sollecitudine. Seducetemi, amatemi, fatemi godere, occupatevi di me. Un atteggiamento caratteristico e ossessivo che può giungere fino a una domanda quasi fetale d’amore (le strategie fetali). Vi è da due o tre secoli nella nostra cultura una surdeterminazione di tutte le forme d’amore (compreso quello della natura) da parte dell’amore materno e della sentimentalità che ne deriva. Solo la seduzione vi sfugge, poiché essa non è una domanda, ma una sfida - le si oppone come il duello può opporsi alla fusione.
Questo genere di amore non è altro che una sorta di libido fluttuante, che si distribuisce un po’ ovunque e cerca disperatamente d’investire il suo ambiente secondo un’economia che non è più quella dei sistemi passionali, ma quella dei sottosistemi d’intensità, dei sistemi freddi e svuotati di passione. Libido ecologica,prodotto specifico della nostra epoca: ovunque elargita a dosi omeopatiche e omeostatiche, essa è il minimo differenziale d’affetto che basta ad alimentare la domanda sociale e psicologica. Fluttuante, può essere drenata, derivata, magnetizzata da una nicchia all’altra, secondo il flusso: corrisponde idealmente a un ordine della manipolazione.
Così l’energia di dissoluzione della seduzione passa nell’ordine passionale dell’amore e finisce nell’ordine aleatorio della domanda.
Fortunatamente c'è un ritorno di fiamma che corregge tutto quanto ho appena detto sulla domanda. Infatti se le si risponde nei termini in cui essa si pone - o in cui fa forsefìnta di porsi - si corre il rischio di prendere un abbaglio. Forse essa semplicemente sollecita, nella sua stessa isteria, di essere smentita, rifiutata, delusa, e che le si risponda che le cose non stanno così. Come un qualsiasi discorso non lo si pronuncia se non nella speranza che venga negato ed esorcizzato, così la domanda può effettivamente giocare alla confessione del desiderio, all’appello, alla sollecitudine dell’altro per tendergli una trappola, per lusingarlo e dunque per sedurlo.
Se la domanda è in fondo questo, se è anche questo, allora l’errore consisterebbe nel risponderle. È proprio per questo che non si ha voglia di rispondere alla domanda (amami, seducimi, fammi godere), mentre la risposta a una sfida o alla seduzione è spontanea. Ma se l’ambivalenza della domanda nasconde qualcosa come un tentativo di seduzione, allora il modo migliore di risponderle è con la seduzione.
In tal modo tutte le forme finiscono col ruotare su se stesse - giro di fuoco della reversibilità - e questo spiega la difficoltà di parlarne. Ma non è più quella di non poterne parlare perché non c’è niente da dire in proposito, è quella che nasce dalla rivincita dell’ordine reversibile sull’ordine lineare del discorso. È una difficoltà che fortunatamente non si padroneggia mai, mentre si può sempre parlare quando non si ha niente da dire.

L’amore non è mai stato così bello come nelle leggende e nei romanzi. E' stata questa passione misteriosa a produrre la forma romanzesca, o è avvenuto il contrario? Questione insolubile. Ma soprattutto: esiste un movimento caratteristico dell’amore?
Tristano e Isotta. La storia più sublime, quella dell’amore fatale. È tuttavia notevole che in questa storia meravigliosa l’amore non si desti né viva da solo: ci vuole un filtro. Non è una qualche forma spontanea di desiderio a riunire i due amanti, niente affatto: questa predestinazione violenta èartificiale, nel senso che è un patto artificiale, accidentale e ineluttabile, e non un movimento naturale dell’anima. Il destino è sempre magico, passa sempre attraverso l’illusione tragica dei segni. Qui, il filtro (che sarebbe sbagliato interpretare psicologicamente come “metafora della passione”) è il segno dell'interruzione di questo effetto magico. La loro passione è tutta una sfida all’esistenza di diritto divino: è noto che i due amanti furono giudicati sacrileghi. Il punto è che il loro filtro è empio, in quanto sigilla un patto di seduzione e di predestinazione del tutto contrario alle leggi dell’amore di diritto divino, in cui i segni si scambiano nella loro forma idealizzata.
Torniamo sempre al solito punto: l’amore non esiste. Dovrebbe poter esistere, ma non esiste. Gli amanti dell’epoca romantica non hanno avuto altra soluzione che suicidarsi insieme per assolutizzare uno scambio impossibile. Il sublime dell’amore è nell’anticipazione della propria morte. L’amore come passione non trova compimento se non in questa vertigine antierotica, antinaturale, che non è mai una maniera di vivere. Niente in comune con il nostro modo di vivere l’amore, incontro ideale di due desideri e di due piaceri.
Ci si può d’altra parte domandare se questa forma di amore banalizzato e diventato involucro dello scambio (affettivo e sessuale) non sia stata inventata per sfuggire alla fatalità dell’altra.
Produrre uno scambio, e i segni dello scambio, è il solo modo di sfuggire al destino e ai segni insensati. Niente più filtro, niente più sfida. Un po’ di affetto e un po’ di tenerezza. E' così che la vita si difende contro le forme micidiali dell’artificio e del sacrificio. Contro la seduzione, che sia quella della morte, o dell’amore stesso, quando, da maniera di vivere e di amare, diventa una frivolezza micidiale che vi distoglie dal vostro proprio fine.
Tra le frivolezze essenziali figura quella dell’uso arbitrario del piacere e del dispiacere - il destino. Questo uso è riservato al solo Dio. Tra le frivolezze secondarie figura quella di amare e di essere amato. Essa è riservata agli umani - costellazione patetica di umori, desideri, volti.
I    più non vogliono affatto essere sedotti, preferiscono essere amati. Preferiscono la prova dell’affetto, del piacere o della domesticità. Forse bisogna esigere di essere amati per la paura di essere sedotti, senza dubbio bisogna amare per non sedurre più.
Amare è una sorta d’incesto psicologico, di avvicinarsi patetico contro il gioco crudele della seduzione.

In fondo l’amore non ha mai un movimento proprio (eppure si muove!). O si annulla nell’ordine della sfida e del destino. O si annulla nella forma dello scambio e della domanda. Come in questa storiella in cui due sposi litigano. La donna accusa il marito: "You give me love because you want sex!". (Tu mi dai dell'amore perché vuoi del sesso!) Al che l’uomo risponde: “You give me sex because you want love!”. (Tu mi dai del sesso perché vuoi dell’amore!)
Il sesso e l’amore, quando prendono la forma secolare di un’economia domestica, possono benissimo barattarsi nello scambio. Non appena si lascia la forma sublime del destino, si cade nella forma subliminale dello scambio. Lì tutte le compensazioni e le sostituzioni sono possibili: tu mi dai del sesso, io ti do dell’amore.
In tutto ciò che viene scambiato ci sono delle possibilità di scambio. Ma non nella seduzione, che infatti non è uno scambio, ma una sfida. Nella seduzione non ci può essere equilibrio, ottimizzazione delle relazioni di scambio, difficile ma sempre possibile al livello del sesso. E' per questo che l’unica deprivazione veramente mortale è quella della seduzione.
È d’altra parte questo il senso della storiella, infatti i due sposi, dietro al loro rancore, non fanno che denunciare questa stessa possibilità di scambio bilaterale. Quel che vogliono è un po’ di seduzione!
Quel che una donna non vi perdonerà mai, d’altronde, non è di non amarla (con l’amore o col sesso, ci si mette sempre d’accordo), è di non averla sedotta, o di non avervi mai sedotto. Solo questo è inespiabile, e nonostante l’amore o la tenerezza che le date finirà sempre per vendicarsene crudelmente. Non avendovi potuto sedurre, cercherà di annientarvi. I peccati di sesso o d’amore si possono assolvere tutti, perché non sono un’offesa. Solo la seduzione colpisce nel vivo dell’anima, che non ha pace se non nell’assassinio.
Di qui proviene quel che chiamerò lo scaltro genio della passione.
Nel cuore dei movimenti più appassionati, più belli e più disperati, c’è questo genio scaltro che veglia per prendere l’altro in trappola.
Stessa tentazione diabolica, nel momento più sincero e più travolgente dell’amore, di scongiurarlo ironicamente con un atto perverso.
C’è qualcosa di più forte della passione: l’illusione. Più forte del sesso o della felicità: la passione dell’illusione. Sedurre, sempre sedurre. Sventare la potenza erotica con la potenza imperiosa del gioco e dello stratagemma - perfino nella vertigine disporre delle trappole, e al settimo cielo conservare ancora la padronanza delle vie ironiche dell’inferno -, tale è la seduzione, tale è la forma dell’illusione, tale è lo scaltro genio della passione.


Note

1. Ma se si prende la seduzione nell’accezione cristiana, cambia tutto: la seduzione comincia con il cristianesimo, essa è il malefìcio diabolico che viene a inquinare l’ordine divino - oppure è lo stesso Cristo, secondo Nietzsche, il Cristo venuto a sedurre le genti alla sua persona, venuto a pervertirle con la psicologia e con l’amore. Al contrario, non c’è seduzione in Grecia, ove l’amore è omosessuale e pedagogico - una virtù, non una passione.