giovedì 18 giugno 2020


MEMORIE DI ADRIANO
Marguerite Yourcenar
ANIMULA VAGULA BLANDULA  
Mio caro Marco, 

Sono andato stamattina dal mio medico, Ermogene, recentemente rientrato in Villa da un lungo viaggio in Asia. Bisognava che mi visitasse a digiuno ed eravamo d'accordo per incontrarci di primo mattino. Ho deposto mantello e tunica; mi sono adagiato sul letto. Ti risparmio particolari che sarebbero altrettanto sgradevoli per te quanto lo sono per me, e la descrizione del corpo d'un uomo che s'inoltra negli anni ed è vicino a morire di un'idropisia del cuore. Diciamo solo che ho tossito, respirato, trattenuto il fiato, secondo le indicazioni di Ermogene, allarmato suo malgrado per la rapidità dei progressi del male, pronto ad attribuirne la colpa al giovane Giolla, che m'ha curato in sua assenza. E' difficile rimanere imperatore in presenza di un medico; difficile anche conservare la propria essenza umana: l'occhio del medico non vede in me che un aggregato di umori, povero amalgama di linfa e di sangue. E per la prima volta, stamane, m'è venuto in mente che il mio corpo, compagno fedele, amico sicuro e a me noto più dell'anima, è solo un mostro subdolo che finirà per divorare il padrone. Basta...Il mio corpo mi è caro; mi ha servito bene, e in tutti i modi, e non starò a lesinargli le cure necessarie. Ma, ormai, non credo più, come finge ancora Ermogene, nelle virtù prodigiose delle piante, nella dosatura precisa di quei sali minerali che è andato a procurarsi in Oriente. E' un uomo fine; eppure, m'ha propinato formule vaghe di conforto, troppo ovvie per poterci credere; sa bene quanto detesto questo genere d'imposture, ma non si esercita impunemente più di trent'anni la medicina. Perdono a questo mio fedele il suo tentativo di nascondermi la mia morte. Ermogene è dotto; è persino saggio; la sua probità è di gran lunga superiore a quella d'un qualunque medico di corte. Avrò in sorte d'essere il più curato dei malati. Ma nessuno può oltrepassare i limiti prescritti dalla natura; le gambe gonfie non mi sostengono più nelle lunghe cerimonie di Roma; mi sento soffocare; e ho sessant'anni. 
Non mi fraintendere: non sono ancora così a mal partito da cedere alle immaginazioni della paura, assurde quasi quanto quelle della speranza, e certamente assai più penose. Se occorresse ingannarmi, preferirei che lo si facesse ispirandomi fiducia; non ci rimetterei più che tanto, e ne soffrirei meno. Non è detto che quel termine così vicino debba essere imminente; vado ancora a letto, ogni sera, con la speranza di rivedere il mattino. Nell'ambito di quei limiti invalicabili di cui t'ho fatto cenno poc'anzi, posso difendere la mia posizione palmo a palmo, e persino riconquistare qualche pollice di terreno perduto. Ciò nonpertanto, sono giunto a quell'età in cui la vita è, per ogni uomo, una sconfitta accettata. Dire che ho i giorni contati non significa nulla; è stato sempre così; è così per noi tutti. Ma l'incertezza del luogo, del tempo, e del modo, che ci impedisce di distinguere chiaramente quel fine verso il quale procediamo senza tregua, diminuisce per me col progredire della mia malattia mortale. Chiunque può morire da un momento all'altro, ma chi è malato sa che tra dieci anni non ci sarà più. Il mio margine d'incertezza non si estende più su anni, ma su mesi. Le probabilità che io finisca per una pugnalata al cuore o per una caduta da cavallo diventano quanto mai remote; la peste pare improbabile; la lebbra e il cancro sembrano definitivamente allontanati. Non corro più il rischio di cadere ai confini, colpito da una ascia caledonia o trafitto da una freccia partica; le tempeste non hanno saputo profittare delle occasioni loro offerte, e sembra avesse ragione quel mago a predirmi che non sarei annegato. Morirò a Tivoli, o a Roma, tutt'al più a Napoli, e una crisi di asfissia sbrigherà la bisogna. Sarà la decima crisi a portarmi via, o la centesima? Il problema è tutto qui. Come il viaggiatore che naviga tra le isole dell'Arcipelago vede levarsi a sera i vapori luminosi, e scopre a poco a poco la linea della costa, così io comincio a scorgere il profilo della mia morte. 
Vi sono già zone della mia vita simili alle sale spoglie d'un palazzo troppo vasto, che un proprietario decaduto rinuncia a occupare per intero. Non vado più a caccia: se non ci fosse altri che io a disturbarli, mentre ruminano e giocano, i caprioli dei monti d'Etruria potrebbero vivere tranquilli. Con la Diana delle foreste, ho avuto sempre i rapporti mutevoli e appassionati d'un uomo con l'oggetto amato: adolescente, la caccia al cinghiale m'ha offerto le prime occasioni di conoscere l'autorità e il pericolo; mi ci dedicavo con passione; i miei eccessi in questo esercizio mi attirarono le rampogne di Traiano. La spartizione della preda in una radura della Spagna è stata la mia prima esperienza della morte, del coraggio, della pietà per le creature, e del piacere tragico di vederle soffrire. Uomo fatto, la caccia mi rilassava da tante lotte segrete contro avversari di volta in volta troppo sottili o troppo ottusi, troppo deboli o troppo forti per me; è una lotta pari tra l'intelligenza umana e l'astuzia delle fiere e sembrava stranamente pulita in paragone con gli agguati degli uomini. Imperatore, le cacce in Etruria mi sono servite per giudicare il coraggio o le capacità dei miei alti funzionari: ivi ho scartato o prescelto più d'un uomo di Stato. Più tardi, in Bitinia, in Cappadocia, le grandi battute di caccia mi fornirono un pretesto di feste, di trionfi autunnali nei boschi dell'Asia. Ma il compagno delle mie ultime cacce è morto giovane, e il desiderio di questi piaceri violenti è molto scemato in me dopo la sua dipartita. Pure, persino qui a Tivoli, basta l'improvviso sbuffare d'un cervo sotto le fronde perchè trasalisca in me un istinto più antico di tutti gli altri, grazie al quale mi sento gattopardo quanto imperatore. Chissà, forse sono stato così parco di sangue umano perchè ho versato tanto quello delle fiere: benché talvolta, segretamente, le preferissi agli uomini. La loro immagine, comunque, mi torna alla memoria più spesso, e m'è difficile non abbandonarmi ogni sera a interminabili racconti di caccia che mettono a dura prova la pazienza dei miei invitati. Certo, il ricordo del giorno della mia adozione mi è dolce, ma quello dei leoni uccisi in Mauretania lo vale. 
Rinunciare al cavallo è un sacrificio ancora più penoso per me: una belva non è che un avversario, ma il cavallo era un amico. Se mi si fosse lasciata la scelta della mia condizione, avrei optato per quella di Centauro. Tra Boristene e me i rapporti erano d'una precisione matematica: obbediva a me come al suo cervello, non come al padrone. Ho mai ottenuto altrettanto da un uomo? Un'autorità così totale comporta, come qualsiasi altra, il rischio d'un errore per chi la esercita, ma il piacere di tentare l'impossibile in fatto di salti all'ostacolo era troppo grande per rimpiangere la lussazione d'una spalla o la frattura d'una costola. Il mio cavallo surrogava i mille concetti inerenti al titolo, alla funzione, al nome, che complicano le amicizie umane, con la sola conoscenza del mio peso esatto. I miei slanci erano per metà suoi; conosceva con precisione, e forse meglio di me, il momento in cui la mia volontà divergeva dalle mie forze. Ma non infliggo più al successore di Boristene il peso d'un malato dai muscoli afflosciati, troppo debole per issarsi in groppa da solo. In questo momento, il mio aiutante di campo, Celere, lo sta addestrando sulla strada di Preneste; tutte le mie esperienze di velocità mi consentono di condividere il piacere del cavaliere e quello dell'animale, di valutare le sensazioni d'un uomo lanciato a briglia sciolta in una giornata di sole e di vento; quando Celere balza da cavallo, io riprendo contatto col suolo insieme a lui. Lo stesso accade col nuoto: io vi ho rinunciato, ma partecipo ancora alla delizia del nuotatore carezzato dall'acqua. Correre, perfino sul più breve dei percorsi, oggi mi sarebbe impossibile quanto lo sarebbe a una statua massiccia, a un Cesare di pietra, ma ricordo le mie corse di fanciullo sulle arse colline della Spagna, il gioco che si fa con se stesso allorché, trafelati sino ai limiti della resistenza, si sa che il cuore saldo, i polmoni intatti ristabiliranno l'equilibrio; e provo, con il più oscuro tra gli atleti che si allenano alla corsa di fondo nello stadio, un'intesa che l'intelletto da solo non saprebbe darmi. Così, da ciascuna delle arti che praticai a suo tempo traggo una conoscenza che mi compensa in parte dei piaceri perduti. Ho creduto, e nei miei momenti migliori lo credo ancora, che in tal modo si potrebbe partecipare all'esistenza di tutti; e questa simpatia essere uno degli aspetti meno revocabili dell'immortalità. Ho avuto momenti in cui questa comprensione ha tentato di oltrepassare la sfera dell'umano, si è rivolta dal nuotatore all'onda. Ma, poichè in questo campo non c'è nulla di preciso a rendermi edotto, entro nella sfera delle metamorfosi, che appartengono al sogno. 
Mangiar troppo è un vizio romano, sono stato sobrio con voluttà. Ermogene non ha dovuto modificar nulla del mio regime, se non forse frenare l'impazienza che m'ha sempre fatto divorare ovunque, a qualsiasi ora, un cibo qualsiasi, come per troncare d'un colpo le esigenze della fame. Un uomo ricco, che non ha mai conosciuto altre privazioni che quelle volontarie, o non ne ha sperimentate se non a titolo provvisorio, come uno degli incidenti più o meno eccitanti della guerra e dei viaggi, dimostrerebbe cattivo gusto se si vantasse di non satollarsi. Impinzarsi i giorni di festa è stata sempre l'ambizione, la gioia, e l'orgoglio naturale dei poveri. Mi piaceva l'aroma delle carni arrostite, il rumore delle marmitte raschiate, nelle festività militari, e che i banchetti al campo (o ciò che al campo costituiva un banchetto) fossero ciò che dovrebbero essere sempre, un compenso rozzo e festoso alle privazioni dei giorni di lavoro; tolleravo discretamente l'odor di fritto nelle pubbliche piazze al tempo dei Saturnali. Ma i conviti di Roma m'ispiravano ripugnanza e tedio tanto che se alle volte - durante un'esplorazione o una spedizione militare - ho visto la morte vicina, per farmi coraggio mi son detto che almeno sarei liberato dei pranzi. Non mi farai l'ingiuria di prendermi per un rinunciatario qualsiasi: una operazione che si verifica due o tre volte al giorno, e serve ad alimentare la vita, merita certamente le nostre cure. Mangiare un frutto significa far entrare in noi una cosa viva, bella, come noi nutrita e favorita dalla terra; significa consumare un sacrificio nel quale preferiamo noi stessi alla materia inanimata. Non ho mai affondato i denti nella pagnotta delle caserme senza meravigliarmi che quella miscela rozza e pesante sapesse mutarsi in sangue, in calore, fors'anche in coraggio. Ah, perchè il mio spirito, nei suoi giorni migliori, non possiede che una parte dei poteri di assimilazione di un corpo? 
A Roma, durante i lunghi pranzi ufficiali, mi è accaduto di pensare alle origini relativamente recenti del nostro lusso; a questo popolo di coloni parsimoniosi e di soldati frugali, satolli d'aglio e di orzo, improvvisamente immersi dalla conquista nelle delizie della cucina asiatica che ingozza manicaretti con la voracità rustica dei contadini. I nostri Romani si rimpinzano di cacciagione, s'inondano di salse, e s'intossicano di spezie. Un Apicio va fiero della successione di portate, di quella serie di vivande piccanti o dolci, grevi o delicate, che compongono l'armonica disposizione dei suoi banchetti; e passi ancora se ciascuno di tali cibi fosse servito separatamente, assimilato a digiuno, sapientemente assaporato da un buongustaio dalle papille intatte. Ma serviti così, giornalmente, alla rinfusa, in mezzo a una profusione banale, essi formano nel palato e nello stomaco di chi mangia una confusione detestabile, nella quale odori, sapori, sostanze perdono il loro rispettivo valore, la loro squisita identità. Un tempo quel povero Lucio si dilettava a prepararmi qualche piatto raro; i suoi pasticci di fagiano, dove prosciutto e spezie vanno sapientemente dosati, erano il risultato di un'arte, esattamente come quella del musico o del pittore; eppure, rimpiangevo la carne pura e semplice del bel volatile. 
In Grecia se ne intendono di più: quel vino che sa di resina, quel pane al sesamo, quei pesci girati sulla griglia in riva al mare, anneriti irregolarmente dal fuoco, insaporiti qua e là da un granello di sabbia che scricchiola sotto i denti si limitavano a placare l'appetito, senza sovraccaricare di complicazioni il più elementare dei piaceri. Ho assaporato, in qualche bettola di Egina o al Falero, cibi così freschi che restavano divinamente puliti a onta delle dita sudice dello sguattero che mi serviva; così sobri ma al tempo stesso così sostanziosi che pareva contenessero, nella forma più condensata possibile, un'essenza di immortalità. Anche la carne, arrostita la sera dopo la caccia, conteneva questa qualità direi quasi di sacramento, ci riportava indietro, alle origini selvagge delle razze; così il vino ci inizia ai misteri vulcanici del suolo, ai suoi misteriosi tesori: bere una coppa di vino di Samo, a mezzogiorno, col sole alto, o piuttosto sorseggiarlo una sera d'inverno, quando si è in quello stato di fatica che consente di sentirlo immediatamente colare caldo nella cavità del diaframma, e diffondersi nelle vene ardente e sicuro, sono sensazioni quasi sacre, persino troppo violente, per la mente umana. Non le ritrovo altrettanto genuine quando esco dalle cantine numerate di Roma, e mi spazientisce la pedanteria dei conoscitori di vigneti. Così, con un gesto ancor più devoto, bere l'acqua nel cavo delle mani o direttamente alla sorgente, fa sì che penetri in noi il sale più segreto della terra, e la pioggia del cielo. Ma, oggi, anche l'acqua è una voluttà che un malato come me deve concedersi con misura. Non importa: anche nell'agonia, mescolata all'amaro delle ultime pozioni, mi sforzerò di sentirne sulle labbra la freschezza insapore. 
Nelle scuole di filosofia, dove è di prammatica provare una volta per tutte ogni regola di condotta, ho sperimentato per breve tempo il regime vegetariano, e, più tardi, in Asia, ho visto i ginnosofisti indiani volgere il capo alla vista degli agnelli fumanti e dei quarti di gazzella serviti sotto la tenda di Osroe. Ma quest'astinenza, nella quale si compiace la tua austerità giovanile, esige attenzioni complicate, più della golosità: trattandosi di una funzione che si svolge quasi sempre in pubblico, il più delle volte sotto il segno della pompa o dell'amicizia, finirebbe per distinguerci troppo dagli altri. Preferisco nutrirmi tutta la vita di oche ingrassate e di galline faraone anziché farmi accusare dai commensali, a ogni pasto, di un'ostentazione di ascetismo. Già mi è stato tutt'altro che facile, con l'aiuto di poche frutta secche, o di una coppa sorseggiata lentamente, nascondere agli invitati che i manicaretti creati dai miei cuochi erano destinati a essi più che a me, e che la mia curiosità per quelle vivande cessava assai prima della loro. Un principe, in questo campo, non ha la libertà di un filosofo, non può concedersi troppe singolarità tutte insieme, e gli dèi sanno se quelle per le quali mi distinguevo non erano gia troppo numerose, a onta della mia illusione che molte di esse fossero invisibili. Quanto agli scrupoli religiosi dei ginnosofisti e la ripugnanza che provano alla vista della carne sanguinolenta, mi colpirebbero di più se non mi venisse fatto di chiedere a me stesso in che cosa la sofferenza dell'erba falciata differisca essenzialmente da quella di un montone sgozzato, e se l'orrore che proviamo nel vedere trucidare un animale non dipenda soprattutto dal fatto che la nostra sensibilità appartiene al medesimo regno. Pure, in certi momenti della vita, a esempio nei periodi di digiuno rituale, o durante le iniziazioni religiose, ho apprezzato i vantaggi, nonché i pericoli, per lo spirito, delle diverse forme d'astinenza, persino dell'inedia volontaria, di quegli stati prossimi alla vertigine, durante i quali il corpo, in parte libero dal suo peso, entra in un mondo che non è fatto per lui, che gli offre in anticipo un'immagine della gelida levità della morte. In altri momenti, queste esperienze mi hanno consentito di baloccarmi con l'idea del suicidio progressivo, la morte per inedia, che fu quella di qualche filosofo; una specie di orgia alla rovescia, nella quale si perviene grado a grado all'esaurimento della sostanza vitale. Ma aderire totalmente a un sistema non mi sarebbe piaciuto mai, né avrei mai voluto che uno scrupolo mi privasse del diritto di saziarmi di carne d'ogni specie, se per caso ne avessi avuto voglia, o se quel nutrimento fosse stato il solo a mia disposizione. 
I cinici e i moralisti si trovano d'accordo nel collocare le voluttà dell'amore tra i piaceri cosiddetti volgari, tra quello del mangiare e quello del bere, pur dichiarandole meno indispensabili, poiché, ci assicurano, se ne può fare a meno. Dal moralista mi aspetto di tutto: ma mi stupisce che s'inganni il cinico. Ammettiamo che gli uni come gli altri abbiano paura dei loro demoni - sia che resistano sia che cedano a essi - e che cerchino con ogni mezzo di avvilire il piacere per cercar di sottrargli la potenza quasi terribile alla quale soccombono, il mistero dal quale si sentono travolti. Accetterò di assimilare l'amore alle gioie puramente fisiche (ammettendo che ve ne siano) quando avrò visto un ghiottone anelare di piacere davanti alla sua pietanza favorita come un innamorato sulla spalla dell'essere amato. Di tutti i nostri giochi, questo è il solo che rischi di sconvolgere l'anima, il solo altresì nel quale chi vi partecipa deve abbandonarsi al delirio dei sensi. Non è necessario per un bevitore abdicare all'uso della ragione, ma l'innamorato che conservi la sua non obbedisce fino in fondo al suo demone. In qualsiasi altro caso, l'astinenza o la sregolatezza non impegnano che l'individuo; salvo il caso di Diogene, le cui privazioni, il cui lucido pessimismo si definiscono da sè, ogni atto sensuale ci pone in presenza dell'ALTRO, ci coinvolge nelle esigenze e nelle servitù della scelta. Non ne conosco altre ove l'uomo sia spinto a risolversi da motivi più elementari e ineluttabili, ove l'oggetto della scelta venga valutato con maggiore esattezza per il peso di piaceri che offre, ove chi ama il vero abbia maggiori possibilità di giudicare la creatura umana nella sua nudità. Stupisco nel veder formarsi di nuovo ogni volta - nonostante un abbandono che tanto eguaglia quello della morte, un'umiltà che supera quella della sconfitta e della preghiera - quel complesso di dinieghi, di responsabilità, di promesse: povere confessioni, fragili menzogne, compromessi appassionati tra i nostri piaceri e quelli dell'ALTRO, legami che sembra impossibile infrangere e che pure si sciolgono così rapidamente. Questo gioco misterioso che va dall'amore di un corpo all'amore d'un essere umano, m'è sembrato tanto bello da consacrarvi tutta una parte della mia vita. Le parole ingannano: la parola piacere, infatti, nasconde realtà contraddittorie, implica al tempo stesso i concetti di calore, di dolcezza, d'intimità dei corpi, e quelli di violenza, d'agonia, di grida. La piccola frase oscena di Poseidonio - che t'ho visto ricopiare sul tuo quaderno di scuola con una diligenza da primo della classe - a proposito dell'attrito di due piccole parti di carne, non definisce il fenomeno dell'amore, così come la corda toccata dal dito non rende conto del miracolo infinito dei suoni. Più ancora che alla voluttà, essa reca ingiuria alla carne, a questo strumento di muscoli, di sangue, di epidermide, a questa rossa nube di cui l'anima è la folgore. 
Confesso che la ragione si smarrisce di fronte al prodigio dell'amore, strana ossessione che fa sì che questa stessa carne, della quale ci curiamo tanto poco quando costituisce il nostro corpo, preoccupandoci unicamente di lavarla, di nutrirla, e fin dov'è possibile - d'impedirle che soffra, possa ispirarci una così travolgente sete di carezze sol perchè è animata da una individualità diversa dalla nostra, e perchè è dotata più o meno di certi attributi di bellezza su i quali, del resto, anche i giudici migliori son discordi. Di fronte all'amore, la logica umana è impotente, come in presenza delle rivelazioni dei Misteri: non s'è ingannata la tradizione popolare, che ha sempre ravvisato nell'amore una forma di iniziazione, uno dei punti ove il segreto e sacro s'incontrano. E per un altro aspetto ancora, l'espressione sensuale si può paragonare ai Misteri, in quanto il primo contatto appare al non iniziato un rito più o meno pauroso, violentemente diverso dalle funzioni consuete del sonno, del bere e del mangiare, oggetto di scherno, di vergogna o di terrore. L'amore, non altrimenti della danza delle Menadi e del delirante furore dei Coribanti, ci trascina in un universo insolito, ove in altri momenti è vietato avventurarci, e dove cessiamo di orientarci non appena l'ardore si spegne e il piacere si placa. Avvinto al corpo amato come un crocifisso alla sua croce, ho appreso sulla vita segreti che ormai si dileguano nei ricordi, per opera di quella stessa legge che impone al convalescente guarito di dimenticare le verità misteriose del suo male; al prigioniero, una volta libero, di obliare la tortura, e al trionfatore la gloria, quando l'ebbrezza del trionfo è svanita. 
A volte, ho sognato di elaborare un sistema di conoscenza umana basato sull'EROTICA: una teoria del contatto, nella quale il mistero e la dignità altrui consisterebbero appunto nell'offrire al nostro IO questo punto di riferimento d'un mondo diverso. In questa filosofia, la voluttà rappresenterebbe una forma più completa, ma anche più caratterizzata dei contatti con l'ALTRO, una tecnica in più messa al servizio della conoscenza del non IO. Anche nei rapporti più alieni dai sensi, l'emozione sorge o si attua proprio nel contatto: la mano ripugnante di quella vecchia che mi sottopone una supplica, la fronte madida di mio padre nei suoi ultimi istanti, la piaga detersa di un ferito, persino i rapporti più intellettuali o più anodini si istituiscono attraverso questo sistema di segnali del corpo: il lampo d'intesa che illumina lo sguardo del tribuno al quale si spieghi una manovra prima della battaglia, il saluto impersonale d'un subalterno che al nostro passaggio s'immobilizza in un atteggiamento di obbedienza, lo sguardo amichevole d'uno schiavo che ringrazio per avermi portato un vassoio, l'espressione da intenditore d'un vecchio amico davanti al dono d'un cammeo greco. Con la maggior parte degli esseri umani, i più lievi, i più superficiali di questi contatti bastano, o persino superano l'attesa; ma se essi si ripetono, si moltiplicano attorno a un unico essere sino ad avvolgerlo interamente; se ogni particella d'un corpo umano si impregna per noi di tanti significati conturbanti quante sono le fattezze del suo volto; se un essere solo, anziché ispirarci tutt'al più irritazione, piacere o noia, ci insegue come una musica e ci tormenta come un problema, se trascorre dagli estremi confini al centro del nostro universo, e infine ci diviene più indispensabile che noi stessi, ecco verificarsi il prodigio sorprendente, nel quale ravviso ben più uno sconfinamento dello spirito nella carne che un mero divertimento di quest'ultima. 
Opinioni come queste sull'amore possono indurre a una carriera di seduttore. Se non l'ho seguita, senza dubbio dipende dal fatto che mi son dedicato a cose diverse, se non migliori. Una carriera del genere, in mancanza d'estro, richiede una serie di attenzioni, persino di stratagemmi, per i quali non mi sentivo portato. Tendere insidie sempre eguali, percorrere la solita strada, che si limita a perpetui approcci, e alla quale la conquista segna il traguardo, son cose che mi hanno tediato. La tecnica del vero seduttore esige, nel passaggio da un soggetto a un altro, una disinvoltura, un'indifferenza che io non provo e che, comunque perdevo prima di abbandonarle intenzionalmente: non ho mai compreso come si possa essere sazio di un essere umano. La molteplicità delle conquiste contrasta con il desiderio di enumerare esattamente le ricchezze che ogni nuovo amore ci reca, di osservarlo mentre si trasforma; fors'anche, mentre invecchia. 
Un tempo, ho creduto che un certo gusto per la bellezza avrebbe surrogato in me la virtù, e avrebbe saputo immunizzarmi dalle tentazioni troppo volgari. M'ingannavo. Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d'oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell'intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni. Per un uomo di gusto, poi, l'ostacolo più grave consiste nel fatto di occupare una posizione preminente, che implica ineluttabilmente il rischio dell'adulazione e della menzogna. Il pensiero che in mia presenza qualcuno snaturi, sia pure di un'ombra, l'esser suo, può giungere a farmelo compiangere, disprezzare, odiare persino. Ho sofferto di questi inconvenienti della mia fortuna come un povero di quelli della sua miseria. Ancora un passo, e avrei accettato la finzione che consiste nel pretendere di sedurre, quando si sa bene che ci si impone: ma di qui si comincia a esser nauseati, o forse imbecilli. Si finirebbe per preferire agli accorgimenti leggeri della seduzione le verità brutali della dissolutezza se anche qui non regnasse la menzogna. Sono pronto ad ammettere che la prostituzione non sia che un'arte, alla stessa stregua del massaggio e della pettinatura, ma mi riesce già difficile andare di buon grado dal barbiere o dal massaggiatore. Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici. L'occhiata obliqua dell'oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un essere umano ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l'immagine bassa e deforme di me stesso, che mi offre un altro in quei momenti, mi farebbe preferire i tristi effetti dell'ascetismo. Se la leggenda non ha esagerato gli eccessi di Nerone e le ricerche sapienti di Tiberio, quei voraci consumatori di piaceri dovevano avere sensi molto inerti per andar cercando apparati così complicati, e uno straordinario disprezzo degli uomini per tollerare che si ridesse o si abusasse di loro fino a quel punto. E tuttavia, se ho quasi rinunciato a queste forme troppo meccaniche del piacere, o almeno non mi sono spinto molto avanti, lo devo più alla mia buona sorte che a una virtù che non sa resistere a nulla. Potrei ricadervi, ora che invecchio, come in una sregolatezza qualunque, o nel tedio. La malattia, la morte ormai imminente, mi salveranno forse dalla ripetizione monotona degli stessi gesti; e come il compitare stentato d'una lezione imparata a memoria. 
Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l'agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un'appendice dell'amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m'interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per se stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l'uomo, ignudo, solo, inerme, s'avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta - i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c'impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l'arte consistono nell'abbandonarsi deliberatamente a quest'incoscienza felice, nell'accettare di esser sottilmente più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell'esser nostro. Tornerò in seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni fulminei dell'adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d'un tratto entro un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si assaporava, per così dire, il senso puro dell'essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo estenuanti battute di caccia: mi destava l'abbaiare dei cani, o le loro zampe ritte sul mio petto. Era un'eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto ridestarmi diverso, e mi sorprendevo - mi dolevo, a volte - della disposizione rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell'angusta particella di umanità che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell'uomo vuoto di sè, quell'esistenza senza passato? 
D'altro canto, anche la malattia e l'età hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d'altri tempi. Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato, una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l'altra, queste attività differenti, per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me, non per sospetto - tutt'altro - come si immagina, ma perchè così mi concedo il lusso d'esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai. 
La clessidra mi provò che avevo dormito appena un'ora; un breve momento di abbandono totale, all'età mia, equivale ai sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più brevi. Ma era bastata un'ora sola per compiere l'umile e sorprendente prodigio: il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso a operare, quasi di buona lena; la vita fluiva come una fonte non molto copiosa, ma sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m'aveva fatto ricuperare il dispendio dovuto all'attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di ristoro consiste nell'operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto della sua persona, come l'acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna pena di sapere chi beve alla sorgente. 
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno che assorbe almeno un terzo dell'esistenza di ognuno di noi perchè è necessaria una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide il giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi, non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia porta. Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il suo rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o alla saggia follia dei sogni? L'uomo che non dorme - da qualche mese a questa parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso - si rifiuta più o meno consapevolmente di affidarsi al flusso delle cose. Fratello della morte... S'ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l'iperbole d'un retore. Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so bene; mi sfuggivano, anche. E non c'è uomo che non provi vergogna del proprio viso, guasto dal sonno. Quante volte, levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...  




Poco a poco, questa lettera cominciata per informarti dei progressi del mio male è diventata lo sfogo d'un uomo che non ha più l'energia necessaria per applicarsi a lungo agli affari dello Stato; la meditazione scritta d'un malato che dà udienza ai ricordi. Ora, mi propongo ancor più: ho concepito il progetto di raccontarti la mia vita. Certo, l'anno scorso ho steso un resoconto ufficiale dei miei atti, sul frontespizio del quale Flegone, il mio segretario, ha messo il suo nome. Ivi, ho mentito il meno possibile. Tuttavia ragioni di interesse pubblico e di decoro mi hanno costretto a ritoccare alcuni avvenimenti. La verità che mi propongo d'esporre qui non è particolarmente scandalosa, o meglio non lo è se non nella misura in cui non c'è verità che non susciti scandalo. Non m'aspetto che i tuoi diciassette anni ne capiscano qualcosa; ci tengo, tuttavia, a istruirti, fors'anche a urtarti. I precettori che t'ho scelto io stesso ti hanno impartito una educazione severa, sorvegliata, forse troppo protetta, dalla quale tutto sommato m'aspetto un gran bene per te e per lo Stato. Qui, ti offro, a guisa di correttivo, un racconto scevro di preconcetti e di astrazioni, tratto dall'esperienza d'un uomo, me stesso. Ignoro a quali conclusioni mi trascinerà questo racconto. Conto su questo esame dei fatti per definirmi, forse anche per giudicarmi o, almeno, per conoscermi meglio prima di morire. 
Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l'esistenza umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo; l'osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi s'adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono tra le righe. Ho letto, più o meno, tutto quel che è stato scritto dai nostri storici, dai nostri poeti, persino dai favolisti, benché questi ultimi siano considerati frivoli, e son loro debitore d'un numero d'informazioni, forse, maggiore di quante ne abbia raccolte nelle esperienze pur tanto varie della mia stessa vita. La parola scritta m'ha insegnato ad ascoltare la voce umana, press'a poco come gli atteggiamenti maestosi e immoti delle statue m'hanno insegnato ad apprezzare i gesti degli uomini. Viceversa, con l'andar del tempo, la vita m'ha chiarito i libri. 
Ma questi mentono, anche i più sinceri. I meno abili, in mancanza di parole e di frasi nelle quali racchiuderla, colgono, della vita, un'immagine povera e piatta; altri, come Lucano, l'appesantiscono, l'ammantano di una dignità che non possiede. Altri ancora, al contrario, come Petronio, l'alleggeriscono, ne fanno una palla vuota e saltellante, che è facile prendere e lanciare in un universo senza peso. I poeti ci trasportano in un mondo più vasto, o più bello, più ardente o più dolce di quello che ci è dato; per ciò appunto, diverso, e, in pratica, pressoché inabitabile. I filosofi sottopongono la realtà, per poterla studiare allo stato puro, press'a poco alle stesse trasformazioni che subiscono i corpi sotto l'azione del fuoco o del macero: di un essere o di un avvenimento, quali li abbiamo conosciuti noi, pare non sussista nulla in quei cristalli o in quella cenere. Gli storici ci propongono una visione sistematica del passato, troppo completa, una serie di cause ed effetti troppo esatta e nitida per aver mai potuto esser vera del tutto; rimodellano questa docile materia inanimata, ma io so che anche a Plutarco sfuggirà sempre Alessandro. I narratori, gli autori di favole milesie altro non fanno che appendere in mostra sul banco, a guisa di macellai, piccoli pezzi di carne graditi alle mosche. Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è li che si trova la realtà, dato che non vi è per intero. 
L'osservazione diretta degli uomini è una norma ancora meno completa, limitata com'è, nella maggior parte dei casi, alle constatazioni piuttosto grette di cui la maldicenza umana si pasce. Il rango, la posizione, i casi della nostra vita restringono inoltre il campo visivo dell'osservatore: il mio schiavo ha possibilità di osservarmi completamente diverse da quelle che ho io per osservar lui; e tanto brevi quanto le mie. Son venti anni che il vecchio Euforione mi porge il flacone dell'olio e la spugna, ma la mia conoscenza di lui si ferma al suo compito, e la sua di me al mio bagno; e qualsiasi tentativo per saperne di più fa presto a sembrare indiscrezione, sia all'imperatore sia allo schiavo. Quel che sappiamo sul conto degli altri è quasi tutto di seconda mano. Se per caso qualcuno si confida, non fa che perorare la sua causa; la sua apologia è già pronta. Se lo osserviamo, non è solo. Mi è stato rimproverato di leggere con piacere i rapporti della polizia di Roma; vi scopro continuamente di che stupire; amici o sospetti, sconosciuti o familiari, questa gente mi sorprende; le loro follie mi servono di scusante alle mie. Non mi stanco mai di paragonare la persona tutta vestita all'uomo nudo. Ma questi rapporti ingenuamente circostanziati aumentano il fascio dei miei documenti e non mi danno l'ombra d'un aiuto per emettere un verdetto. Che il tale magistrato dall'aspetto austero abbia commesso un delitto non mi consente affatto di conoscerlo meglio. Ormai, mi trovo in presenza di due fenomeni anziché di uno solo, l'apparenza del magistrato, e il suo delitto. 
Quanto all'osservazione di me stesso, mi ci costringo, non foss'altro che per entrare a far parte di questo individuo in compagnia del quale mi toccherà vivere fino all'ultimo giorno; ma una familiarità che dura da quasi sessant'anni comporta ancora parecchie probabilità di errore. Nel profondo, la mia conoscenza di me stesso è oscura; interiore, inespressa, segreta come una complicità. Dal punto di vista più impersonale, è gelida, tanto quanto le teorie che posso elaborare sui numeri: mi valgo di quel po' d'intelligenza che ho per esaminare più dall'alto, da lontano, la mia vita, che, in tal modo, diventa la vita di un altro. Ma questi due procedimenti della conoscenza di sè sono difficili, ed esigono, l'uno che ci si cali entro se stessi, l'altro che ci si ponga all'esterno. Per inerzia, tendo come tutti a sostituirvi mezzi meramente consuetudinari, un'idea della mia vita parzialmente modificata dall'idea che se ne forma il pubblico: giudizi bell'e fatti, cioè a dire mal fatti, come un modello già preparato sul quale un sarto maldestro adatti a fatica la nostra stoffa. Strumenti di valore ineguale, utensili più o meno logori; ma non ne possiedo altri: me ne servo per foggiarmi alla meglio un'idea del mio destino d'uomo. 
Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe. L'esistenza degli eroi, quella che ci raccontano, è semplice: va diritta al suo scopo come una freccia. E gli uomini, per lo più, si compiacciono di riassumere la propria esistenza in una formula - talvolta un'ostentazione, talvolta una lamentela, quasi sempre una recriminazione; la memoria compiacente compone loro una esistenza chiara, spiegabile. La mia vita ha contorni meno netti: come spesso accade, la definisce con maggiore esattezza proprio quello che non sono stato: buon soldato, NON grande uomo di guerra; amatore d'arte, NON artista come credette d'essere Nerone alla sua morte; capace di delitti, ma NON carico di delitti. Mi vien fatto di riflettere che i grandi uomini emergono proprio in virtù d'un atteggiamento estremo, e che il loro eroismo consiste nel mantenervisi per tutta la vita: essi sono i nostri poli, o i nostri antipodi. Io ho occupato volta a volta tutte le posizioni estreme, ma non vi sono rimasto: la vita me ne ha fatto sempre slittare. E malgrado ciò, non posso neppure, come una brava persona che abbia fatto l'agricoltore o il facchino, vantarmi d'aver vissuto sempre al centro. 
Si direbbe che il quadro dei miei giorni come le regioni di montagna, si componga di materiali diversi agglomerati alla rinfusa. Vi ravviso la mia natura, già di per se stessa composita, formata in parti eguali di cultura e d'istinto. Affiorano qua e là i graniti dell'inevitabile; dappertutto, le frane del caso. Mi studio di ripercorrere la mia esistenza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d'oro, il fluire d'un corso d'acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria. Di tanto in tanto, credo di riconoscere la fatalità in un incontro, in un presagio, in un determinato susseguirsi di avvenimenti, ma vi sono troppe vie che non conducono in alcun luogo, troppe cifre che a sommarle non danno alcun totale. In questa difformità, in questo disordine, percepisco la presenza di un individuo, ma si direbbe che sia stata sempre la forza delle circostanze a tracciarne il profilo; e le sue fattezze si confondono come quelle di un'immagine che si riflette nell'acqua. Io non sono di quelli che dicono che le loro azioni non gli assomigliano: bisogna bene che le mie mi assomiglino, dato che esse costituiscono la sola misura dell'esser mio, il solo mezzo di cui dispongo per affidare me stesso alla memoria degli uomini, e persino alla mia; dato che forse l'impossibilità di continuare a esprimersi e a modificarsi con nuove azioni costituisce la sola differenza tra l'esser morti e l'esser vivi. Pure, tra me e queste azioni che mi configurano si apre uno jato indefinibile, e la prova ne è che sento senza posa il bisogno di soppesarle, di spiegarmele, di rendermene conto. Vi sono lavori di breve durata, senza dubbio trascurabili; ma altre occupazioni, che si prolungarono tutta la vita, non hanno maggior significato. Per esempio, nel momento in cui scrivo, mi sembra a malapena essenziale d'esser stato imperatore. 
D'altronde, i tre quarti della mia vita sfuggono a una definizione fornita dalle azioni: il complesso delle mie velleità, dei miei desideri, persino dei miei progetti resta vago ed evanescente quanto un fantasma. Il resto, la parte tangibile, più o meno autenticata dai fatti, si distingue poco più nettamente, e gli avvenimenti si susseguono nel modo confuso dei sogni. Mi son fatto una cronologia tutta mia, che è impossibile concordare con quella basata sulla fondazione di Roma, o sull'era delle Olimpiadi. Quindici anni sotto le armi son durati per me meno di una mattinata ad Atene; vi sono persone che ho frequentato tutta la vita e che non riconoscerò agli Inferi. I piani spaziali si sovrappongono anch'essi; l'Egitto e la valle di Tempe son vicinissimi, e non sempre sto a Tivoli quando ci sono. Talora la mia vita mi appare banale al punto da non meritare non dico di scriverla, ma neppure di ripensarvi a lungo, e non è affatto più importante, neppure ai miei occhi, di quella del primo che capita. Talora mi sembra unica, e perciò appunto senza valore; inutile, perchè è impossibile adeguarla all'esperienza comune. Nulla vale a spiegarmela: i miei vizi, le mie virtù, sono assolutamente insufficienti; vi riesce di più la mia gioia; ma a intervalli, senza continuità, e soprattutto senza un serio motivo. Ma ripugna allo spirito umano accettare la propria esistenza dalle mani della sorte, esser null'altro che il prodotto caduco di circostanze alle quali nessun dio presieda, soprattutto non egli stesso. Una parte di ogni vita umana, persino di quelle che non meritano attenzione, trascorre nella ricerca delle ragioni dell'esistenza, dei punti di partenza, delle origini. La mia incapacità di scoprirle mi fece inclinare a volte verso le interpretazioni magiche, mi indusse a ricercare nei deliri dell'occulto ciò che il senso comune non mi offriva. Quando tutti i calcoli astrusi si dimostrano falsi, quando persino i filosofi non hanno più nulla da dirci, è scusabile volgersi verso il cicaleccio fortuito degli uccelli, o verso il contrappeso remoto degli astri.  
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Il mio avo Marullino credeva negli astri. Era un vegliardo alto, scarno, scolorito dagli anni. Mi concedeva lo stesso affetto schivo di tenerezza, di manifestazioni esteriori, quasi direi di parole, che aveva per gli animali della sua fattoria, per le sue terre, per la sua collezione di meteoriti. Discendeva da una lunga serie di antenati stabilitisi in Spagna dall'epoca degli Scipioni. Apparteneva alla classe senatoria, terzo di quel nome: prima, la nostra famiglia era stata d'ordine equestre. Sotto Tito, aveva preso parte alla vita pubblica, in posizioni di secondo piano. Era un provinciale; ignorava il greco, e pronunciava il latino con un rauco accento spagnolo, che mi trasmise, cosa che in seguito destò la derisione. Pure, non era totalmente incolto: dopo la sua morte, s'è trovata in casa sua una cassa piena di strumenti matematici e di libri, che non toccava da vent'anni. Aveva molte nozioni, per metà scientifiche, per metà contadine, quel misto di pregiudizi gretti e di antica saggezza che furono la caratteristica del vecchio Catone. Ma Catone fu per tutta la vita l'uomo del Senato romano e della guerra contro Cartagine, l'autentico rappresentante della dura Roma repubblicana. La rigidezza quasi impenetrabile di Marullino traeva da più lontano, da epoche più remote: egli era l'uomo della tribù, l'incarnazione d'un mondo ancestrale, quasi pauroso, di cui più tardi ebbi a ritrovar le vestigia presso i nostri necromanti etruschi. Andava sempre a capo scoperto, e anch'io mi son fatto criticare, in seguito, per lo stesso motivo; i suoi piedi incalliti facevano a meno dei sandali. Gli abiti che indossava i giorni feriali si distinguevano a malapena da quelli dei vecchi mendicanti, dei campagnoli gravi, accoccolati al sole. Si diceva che esercitasse la magia, e la gente del paese evitava il suo sguardo; ma era dotato di poteri singolari sugli animali: l'ho visto avvicinar cauto, con dimestichezza, la sua testa canuta a un nido di vipere, ho visto le sue dita nodose eseguire una specie di danza davanti a una lucertola. Le notti d'estate, mi conduceva con sè ad osservare il cielo, in cima a una collina arida; mi addormentavo in un solco, stanco d'aver contato le stelle, ed egli rimaneva seduto, il capo levato, ruotando impercettibilmente col moto degli astri. Certo, doveva aver conosciuto i sistemi di Filolao e di Ipparco, e quello di Aristarco di Samo che io ho prescelto in seguito, ma queste speculazioni non lo interessavano più. Gli astri per lui erano solo i punti incandescenti, gli oggetti, come le pietre, come gli insetti lenti dai quali traeva egualmente presagi, le parti costitutive d'un universo magico che comprendeva altresì le volontà degli dei, l'influenza dei demoni, e la sorte riservata agli uomini. Aveva ricostruito dal giorno della nascita il mio destino: una notte venne da me, mi scosse per destarmi, e mi preannunciò l'impero del mondo con quella stessa brusca laconicità con la quale avrebbe predetto un buon raccolto ai contadini della fattoria. Poi, colto da diffidenza, andò a prendere un fuscello incandescente dal focherello di sarmenti che alimentava per riscaldarci nelle ore fredde, me lo avvicinò alla mano, e lesse in quel rozzo palmo di undicenne non so quale conferma alle linee tracciate nel cielo. Il mondo, per lui era un blocco unico: una mano confermava gli astri. Tale annuncio mi stupì assai meno di quel che si potrebbe supporre: qualsiasi bambino s'aspetta di tutto. In seguito, ritengo ch'egli abbia dimenticato la sua stessa profezia, per quell'indifferenza verso gli avvenimenti presenti e futuri che è propria della vecchiaia. Lo trovarono un mattino nel bosco di castagni ai confini della proprietà, già freddo, beccato da uccelli rapaci. Prima di morire, aveva cercato d'insegnarmi la sua arte, ma senza successo: la mia curiosità naturale saltava subito alle conclusioni senza indugiare nei dettagli complicati e anche un po' ripugnanti della sua scienza. Ma il gusto di certe esperienze temerarie m'è rimasto, fin troppo. 
Mio padre, Elio Afro Adriano, era un uomo sopraffatto dalla virtù. La sua vita era trascorsa in amministrazioni senza gloria; in Senato la sua voce non aveva contato mai. Contrariamente a quel che avviene di solito, la carica di governatore d'Africa non l'aveva arricchito; da noi, nel municipio spagnolo d'Italica, si esauriva a comporre dissidi locali. Immune da ambizioni, privo di gioie, come avviene a tanti che a questa maniera finiscono per contare sempre meno, s'era ridotto a dedicare un'attenzione maniaca alle piccole cose alle quali limitava i suoi interessi. Le ho conosciute anch'io, le tentazioni onorevoli della minuzia e dello scrupolo. Le esperienze avevano sviluppato in lui uno scetticismo straordinario riguardo agli esseri umani, e vi includeva anche me, benché ancora bambino. I miei successi, se avesse potuto conoscerli, non l'avrebbero stupito per nulla. Era così forte l'orgoglio familiare, che non si sarebbe mai ammesso ch'io potessi aggiungervi qualche cosa. Avevo dodici anni, quando quest'uomo logorato ci lasciò, e mia madre si chiuse in una vedovanza austera per il resto dei suoi giorni. Dal giorno in cui partii per Roma, chiamatovi dal mio tutore, non l'ho più rivista. Serbo intatto il ricordo, rinverdito dal busto di cera sulla parete degli avi, del suo viso allungato di spagnola, soffuso d'una dolcezza malinconica: aveva, delle fanciulle di Cadice, i piccoli piedi calzati da sandali stretti; e quella giovane matrona irreprensibile aveva il molle ancheggiare delle danzatrici della regione. 
Ho riflettuto spesso sull'errore che commettiamo nel supporre che un uomo, una famiglia, necessariamente partecipino alle idee o agli avvenimenti del secolo nel quale si trovano a vivere. L'eco degli intrighi di Roma giungeva a malapena ai miei genitori in quell'angolo di Spagna, benché, all'epoca della rivolta contro Nerone, per una notte mio nonno abbia offerto ospitalità a Galba. Si viveva del ricordo d'un certo Fabio Adriano, bruciato vivo dai Cartaginesi nell'assedio di Utica, di un secondo Fabio, soldato sfortunato, che rincorse Mitridate sulle strade dell'Asia Minore - oscuri eroi da archivi sprovvisti di gloria. Degli scrittori contemporanei, mio padre ignorava quasi tutto: gli erano ignoti Lucano e Seneca, benché fossero, come noi, originari di Spagna. Elio, il mio prozio, che era un uomo colto, limitava le sue letture agli autori più noti del secolo d'Augusto. Il disdegno delle mode li risparmiò da molti errori di gusto: a esso erano debitori d'essere immuni da ampollosità. L'ellenismo e l'Oriente erano ignorati, o guardati alla larga, con severo cipiglio: credo non ci fosse una sola statua greca pregevole in tutta la penisola. La parsimonia s'accompagnava alla ricchezza; una certa rusticità, a una solennità quasi pomposa. Mia sorella Paolina era seria, taciturna, quasi arcigna, ed era andata sposa ancor giovane a un uomo vecchio. La rettitudine era rigorosa ma si trattavano duramente gli schiavi. Non si avevano curiosità di nessun genere; si badava ad avere, su qualsiasi cosa, l'opinione che si conviene a un cittadino romano. Tutte virtù, se sono effettivamente tali, che sarebbe toccato a me dissipare... 
La convenzione ufficiale vuole che un imperatore romano sia nato a Roma, ma io sono nato a Italica; a quel paese arido e tuttavia fertile ho sovrapposto in seguito tante regioni del mondo. La convenzione ha del buono: dimostra che le decisioni dello spirito e della volontà hanno la meglio sulle circostanze. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri. In minor misura, le scuole. Quelle di Spagna risentivano dell'ozio della provincia. La scuola di Terenzio Scauro, a Roma, faceva conoscere mediocremente filosofi e poeti, ma preparava abbastanza bene alle vicissitudini della vita: i maestri esercitavano su gli alunni una tirannia che io arrossirei d'imporre agli uomini; ciascuno, nei limiti angusti del proprio sapere, disprezzava i colleghi, i quali possedevano, con identica ristrettezza, nozioni diverse. Quei pedanti si facevano rauchi a furia di vane logomachie. Conflitti di precedenza, intrighi e calunnie m'hanno abituato a ciò che in seguito avrei incontrato in tutti gli ambienti nei quali ho vissuto; vi si aggiungeva la brutalità dell'infanzia. Purtuttavia, ho voluto bene ad alcuni dei miei maestri, mi sono stati cari quei rapporti stranamente intimi e stranamente evasivi che si stabiliscono tra insegnante e alunno, e le Sirene che cantano in fondo a una voce chioccia quando vi rivela per la prima volta un capolavoro o vi palesa un'idea nuova: il più grande seduttore, in fin dei conti, non è Alcibiade, è Socrate. 
I metodi dei grammatici e dei retori, forse, sono meno assurdi di quel che mi apparissero allorché vi ero sottoposto. La grammatica, con quella sua mescolanza di regole logiche e di usi arbitrari, fa pregustare ai giovani quel che gli offriranno in seguito le dottrine riguardanti la condotta umana, il diritto o la morale, tutti sistemi nei quali l'uomo ha codificato la sua esperienza istintiva. Quanto alle esercitazioni di retorica, nelle quali impersonavamo volta a volta Serse e Temistocle, Ottaviano e Marc'Antonio, mi inebriarono: mi sentii Proteo, imparai a penetrare volta a volta nel pensiero di ciascuno, a comprendere che ciascuno si determina, vive e muore secondo proprie leggi. La lettura dei poeti produsse in me effetti ancor più conturbanti: non sono del tutto certo che conoscere l'amore sia più inebriante che scoprire la poesia. Quest'ultima mi trasformò: l'iniziazione alla morte non mi inoltrerà più avanti in un mondo diverso di quanto abbia fatto un crepuscolo virgiliano. In seguito, ho preferito la rusticità di Ennio, così vicino alle origini sacre della razza, o l'amarezza da saggio di Lucrezio, o anche l'umile frugalità di Esiodo alla opulenza di Omero. Ho amato soprattutto i poeti più ermetici e oscuri, che costringono il pensiero alla ginnastica più ardua, sia i recentissimi sia gli antichi, quelli che mi aprono sentieri completamente nuovi, o mi aiutano a rintracciare piste smarrite. Ma, in quell'epoca, amavo soprattutto nella poesia quel che tocca con immediatezza i sensi, la lucentezza metallica di Orazio, Ovidio e la sua mollezza carnale. Scauro mi gettò nella disperazione dichiarandomi che non sarei stato mai altro che un poeta mediocre: mi mancavano infatti il talento e l'applicazione. Per lungo tempo credetti che si fosse sbagliato: conservo sotto chiave, chissà dove, un paio di volumi di versi d'amore, per lo più plagiati da Catullo. Ma, ormai, m'importa ben poco che le mie produzioni personali siano detestabili. 
Fino alla fine dei miei giorni sarò riconoscente a Scauro per avermi costretto a studiare il greco per tempo. Ero ancora bambino, quando tentai per la prima volta di tracciare con lo stilo quei caratteri d'un alfabeto a me ignoto: cominciava per me la grande migrazione, i lunghi viaggi, e il senso d'una scelta deliberata e involontaria quanto quella dell'amore. Ho amato quella lingua per la sua flessibilità di corpo allenato, la ricchezza del vocabolario nel quale a ogni parola si afferma il contatto diretto e vario delle realtà, l'ho amata perchè quasi tutto quel che gli uomini han detto di meglio è stato detto in greco. Vi sono altre lingue, lo so bene: alcune sono pietrificate, altre dovranno nascere ancora. Alcuni sacerdoti egiziani m'hanno mostrato i loro antichi simboli, segni più che parole, antichissimi conati di classificazione del mondo e delle cose, idioma sepolcrale d'una razza morta. Durante la guerra ebraica, il rabbino Giosuè m'ha decifrato lettera per lettera alcuni testi di quella lingua di fanatici, tanto invasati del loro dio da trascurare l'umano. Quand'ero alle armi, mi sono impratichito nella lingua degli ausiliari celti; ricordo soprattutto i loro canti... Ma i dialetti barbari valgono tutt'al più perchè rappresentano una riserva di parole alla espressione umana e per tutto quello che senza dubbio esprimeranno in avvenire. Il greco, al contrario, ha già dietro di sè tesori di esperienza, quella dell'individuo e quella dello Stato. Dai tiranni jonici ai demagoghi ateniesi, dalla pura austerità di Agesilao agli eccessi di Dionigi o di Demetrio, dal tradimento di Dimarate alla fedeltà di Filopemene, tutto quel che ciascuno di noi può tentare per nuocere ai suoi simili o per giovar loro, almeno una volta, è già stato fatto da un greco. Altrettanto avviene delle nostre scelte interiori: dal cinismo all'idealismo, dallo scetticismo di Pirrone ai sogni sacri di Pitagora, i nostri rifiuti, i nostri consensi non facciamo che ripeterli; i nostri vizi, le nostre virtù hanno modelli greci. La bellezza d'un iscrizione latina, votiva o funeraria, non ha pari: quelle poche parole incise sulla pietra riassumono con maestà impersonale tutto quel che il mondo ha bisogno di sapere sul conto nostro. L'impero, l'ho governato in latino; in latino sarà inciso il mio epitaffio, sulle mura del mio mausoleo in riva al Tevere; ma in greco ho pensato, in greco ho vissuto. 
Avevo sedici anni: tornavo da un periodo di addestramento nella Settima Legione, che a quei tempi si trovava acquartierata in pieni Pirenei, in una regione selvaggia della Spagna Citeriore, assai diversa dalle parti meridionali della penisola, dov'ero cresciuto. Acilio Attiano, il mio tutore, ritenne opportuno farmi alternare con un periodo di studio quei mesi di vita rude e di aspre cacce. Ebbe il buon senso di lasciarsi persuadere da Scauro a mandarmi ad Atene, presso il sofista Iseo, un uomo brillante, dotato soprattutto d'una rara capacità d'improvvisazione. Atene mi affascinò immediatamente; lo studentello un po' goffo ch'io ero, l'adolescente dall'animo schivo si trovò ad assaporare per la prima volta quell'aria viva, quelle conversazioni rapide, quell'andare a zonzo nelle lunghe sere rosate, quella disinvoltura senza pari nella discussione e nella voluttà. Mi lasciai prendere, di volta in volta, dalle matematiche e dalle arti: ricerche parallele; ed ebbi occasione di seguire, ad Atene, un corso di medicina di Leotichide. Mi sarebbe piaciuta la professione medica: in sostanza, non differisce, nello spirito, da quello che ho cercato di infondere al mio mestiere d'imperatore. Mi appassionai a questa scienza, troppo vicina a noi per non essere incerta, esposta a entusiasmi e a errori, ma modificata senza posa dal contatto con l'immediato e con la nuda realtà. Leotichide affrontava le cose dal punto di vista più positivo: tra l'altro, aveva elaborato un sistema mirabile di riduzione delle fratture. La sera passeggiavamo lungo le rive del mare: quell'uomo universale s'interessava alla struttura delle conchiglie e alla composizione del fondo marino. Gli mancavano i mezzi per dedicarsi agli esperimenti, rimpiangeva i laboratori e le sale di anatomia del Museo d'Alessandria, che aveva frequentato da giovane, e i contrasti di opinioni, le ingegnose competizioni umane. Spirito pratico, m'insegnò a preferire le cose alle parole, a diffidare delle formule, a osservare piuttosto che a giudicare. Quel greco amaro, m'insegnò il metodo. 
Ad onta delle leggende che vanno in giro sul conto mio, ho amato assai poco la giovinezza, e la mia meno di qualsiasi altra. Considerata in se stessa, questa giovinezza tanto vantata il più delle volte mi appare come un'epoca ancora rozza della nostra esistenza, un'età opaca e informe, malsicura e fuggevole. Va da sè che conosco un certo numero di eccezioni incantevoli a questa regola, due o tre perfino ammirevoli, delle quali tu, Marco, sei certo la più pura. Per quel che mi riguarda, a vent'anni ero press'a poco come sono ora, ma lo ero senza consistenza. Non tutto era cattivo in me, ma tutto poteva esserlo: il buono o il meglio respingevano il peggio. Non posso ripensare senza rossore alla mia ignoranza del mondo, che pure credevo di conoscere, alla mia impazienza, a una sorta di frivola ambizione, di avidità grossolana. Dovrò confessarlo? Nel bel mezzo dei miei studi ad Atene, dove tutti i piaceri trovavano posto con misura, rimpiangevo non già Roma in se stessa, ma l'atmosfera del luogo ove si fanno e si disfanno continuamente le vicende del mondo, il cigolio stesso degli organi della macchina del potere. Il regno di Domiziano volgeva alla fine; mio cugino Traiano, che s'era coperto di gloria sulle frontiere del Reno, si atteggiava a grand'uomo del popolo; la tribù spagnola si stabiliva a Roma. Al confronto con quel mondo dell'azione immediata, la dolce provincia greca mi sembrava sonnecchiare in una polvere di idee già respirate; l'insensibilità politica dei Greci mi appariva una forma meschina di rinuncia. La mia sete di potenza, di danaro - da noi spesso quest'ultimo apre la strada a quella - e di gloria - se vogliamo dare questo bel nome appassionato alla nostra smania di sentir parlare di noi - era innegabile. Vi si mescolava confusamente il sentimento che Roma, benché inferiore alla Grecia sotto tanti aspetti, recuperava vantaggio per la dimestichezza con affari di Stato che esigeva dai suoi cittadini, almeno da quelli dell'ordine senatoriale ed equestre. M'ero convinto, ormai, che la discussione più banale a proposito dell'importazione di cereali dall'Egitto mi avrebbe insegnato di più, sullo Stato, che non tutta La Repubblica di Platone. Gia qualche anno prima, quando ero un giovane avvezzo alla disciplina militare, avevo creduto d'accorgermi che comprendevo i soldati di Leonida e gli atleti di Pindaro meglio dei miei professori. Lasciai dunque Atene, arida e dorata, per la città dove uomini ammantati in toghe pesanti affrontano il vento di febbraio, dove lusso e sregolatezza sono sgraziati, ma dove ogni minimo provvedimento si riflette sulle sorti d'una parte del mondo, e dove un giovane provinciale avido, ma non del tutto ottuso, convinto sulle prime di obbedire soltanto ad ambizioni grossolane, le avrebbe perdute via via che le vedeva attuate, avrebbe imparato a misurare se stesso in rapporto agli uomini e alle cose, a comandare, e infine - ed è forse questa in definitiva la cosa meno futile - a servire. 
Non tutto era bello in quell'avvento d'una classe media laboriosa che s'affermava a sostegno d'un cambiamento di regime imminente: l'onestà politica vinceva la partita ma si serviva di stratagemmi alquanto loschi. Il Senato, affidando poco a poco tutte le cariche nelle mani di uomini suoi, portava a termine l'esautoramento di Domiziano, che ormai era agli ultimi aneliti; gli uomini nuovi, ai quali mi legavano vincoli di famiglia, forse non erano poi tanto diversi da quelli che si accingevano a soppiantare: erano, più che altro, meno insudiciati dal potere. I cugini e i nipoti di provincia s'aspettavano solo qualche carica secondaria e si esigeva ancora che la occupassero con integrità. Ne toccò una anche a me: fui nominato giudice del tribunale a cui erano demandate le questioni ereditarie. Da quella posizione modesta assistetti alle ultime fasi del duello a morte tra Domiziano e Roma. In città, l'imperatore aveva perduto autorità; non si reggeva più che a colpi di esecuzioni, e queste ne affrettavano la fine; l'esercito al completo tramava la sua morte. Non compresi gran che di quel duello, ancor più mortale di quelli dell'arena; mi contentavo di assistervi col disprezzo arrogante d'un alunno dei filosofi verso il tiranno agli estremi. E, obbediente ai buoni consigli di Attiano, feci il mio mestiere senza occuparmi troppo di politica. 
Fu un anno di lavoro, non molto diverso da quelli di studio: ignoravo il diritto; ma per mia buona sorte, mi fu collega in tribunale Nerazio Prisco, il quale si prese la briga di istruirmi, ed è rimasto mio consigliere legale e amico sino al giorno della sua morte. Apparteneva a quella categoria di spiriti rarissimi, i quali, benché profondi conoscitori d'una dottrina, in grado di vederla per così dire dal di dentro, da un punto di vista inaccessibile ai profani, conservano tuttavia il senso della relatività del suo valore nell'ordine delle cose, la misurano in termini umani. Più esperto di chiunque nella prassi della legge, non esitava mai di fronte a innovazioni utili. Alcune riforme, in seguito, riuscii a farle attuare proprio per merito suo. 
Altri compiti s'imponevano. Avevo conservato l'accento di provincia, e il primo discorso che pronunciai in tribunale fece ridere i presenti. Misi a profitto la familiarità che avevo con la gente di teatro, che scandalizzava tanto i miei: le loro lezioni di dizione costituirono per lunghi mesi il mio compito più arduo ma anche il più piacevole e il segreto più gelosamente conservato della mia vita. Persino la dissolutezza diventava una materia di studio durante quegli anni difficili: cercavo di mettermi al passo con i bellimbusti di Roma; ma non ci son riuscito mai del tutto. Per una viltà propria di quell'età, in cui l'audacia puramente fisica si prodiga altrove, non osavo fidarmi di me stesso che sino a un certo limite; e, nella speranza di somigliare agli altri, attenuavo o accentuavo le caratteristiche della mia natura. 
Non ero molto amato; ma, del resto, che motivo c'era perchè mi amassero? Alcuni tratti del mio carattere - per esempio, l'amore per l'arte - passavano inosservati in uno studente di Atene, e sarebbero stati più o meno generalmente ammessi nell'imperatore; urtavano, però, in un funzionario, in un magistrato ai primi passi della carriera. Il mio ellenismo faceva sorridere, tanto più che, secondo i casi, me ne compiacevo e lo dissimulavo goffamente. In Senato, mi chiamavano «lo studente greco». Cominciava a crearsi la mia leggenda, quel riflesso luccicante, bizzarro, fatto per metà dalle nostre azioni, per metà di quel che di esse pensa il volgo. C'era chi, per vincere una causa, spudoratamente mi mandava la moglie, se veniva a sapere che avevo un'avventura con la consorte d'un senatore, o il figlio, quando ostentavo follemente la mia passione per qualche giovane mimo. Era divertente confondere gente di quella risma con l'indifferenza. I più meschini eran quelli che, per riuscirmi simpatici, m'intrattenevano di letteratura. La tecnica che mi toccò elaborare in quella posizione mediocre, mi servì più tardi, nelle udienze imperiali. Appartenere completamente a ciascuno durante la breve durata dell'udienza, fare del mondo una tabula rasa sulla quale in quel momento non esiste che il tale banchiere, il tal veterano, la tale vedova; accordare a persone tanto varie, benché naturalmente chiuse entro i limiti angusti di una categoria, tutta l'attenzione cortese che nei momenti migliori si concede a se stessi, e vederli immancabilmente profittare dell'occasione per gonfiarsi come la rana della favola; dedicare infine seriamente pochi momenti a pensare al loro problema, al loro affare... Eccoci di nuovo nel gabinetto del medico. Vi mettevo a nudo antichi odi tremendi, una lebbra di menzogne: mariti contro mogli, padri contro figli, parenti contro tutti: quel po' di rispetto che ho personalmente verso l'istituto della famiglia non vi ha resistito molto. 
Non ch'io disprezzi gli uomini: se lo facessi, non avrei alcun diritto, né alcuna ragione, di adoperarmi a governarli. So bene che sono vanitosi, ignoranti, avidi, irrequieti, capaci quasi di tutto pur di arrivare, pur di farsi valere, anche solo ai propri occhi, o anche soltanto per evitare di soffrire. Lo so bene: sono fatto anch'io come loro, almeno in alcuni momenti, o avrei potuto esserlo. Sono troppo tenui le differenze che scorgo tra gli altri e me, perchè contino nel totale. Perciò, faccio del mio meglio affinché il mio atteggiamento si discosti tanto dalla fredda albagia del filosofo quanto dall'arroganza del Cesare. Non manca un barlume di luce neppure nel più opaco degli uomini: un assassino suona il flauto con garbo; un aguzzino che lacera la schiena degli schiavi con le frustate è forse un figlio eccellente; un idiota può essere pronto a dividere con me l'ultimo cantuccio di pane che gli resta. E ce n'è ben pochi, di uomini, a cui non sia possibile insegnare qualcosa a dovere. Il nostro errore più grave è quello di cercare di destare in ciascuno proprio quelle qualità che non possiede, trascurando di coltivare quelle che ha. Anche qui, nel ricercare queste virtù frammentarie, dovrò rifarmi a quel che dicevo prima, voluttuosamente, a proposito della ricerca del bello. Ho conosciuto esseri assai più nobili e virtuosi di me, per esempio tuo padre Antonino; ho frequentato parecchi eroi, e perfino qualche saggio. Nella maggior parte degli uomini, ho riscontrato scarsa fermezza nell'operare il bene, ma altrettanto nel compiere il male; la loro diffidenza, la loro indifferenza più o meno ostile cedeva quasi troppo presto quasi in modo abietto, e con eccessiva facilità si mutava in gratitudine, in rispetto, sentimenti del resto altrettanto effimeri; persino il loro egoismo avrebbe potuto esser indirizzato a fini utili. Tuttora mi meraviglia che siano stati così pochi a odiarmi; nemici accaniti ne avrò avuti due o tre, e, come sempre avviene, in parte per colpa mia. Alcuni mi hanno amato: e m'hanno dato molto più di quel ch'io non avessi diritto di esigere, neppure di sperare da loro: la loro morte, a volte la loro vita. E il dio che portano in sè spesso si rivela al momento della morte. 
C'è un punto solo nel quale mi sento superiore alla generalità degli uomini: io sono più libero e, al tempo stesso, più sottomesso di quel che non osino esserlo gli altri. Quasi tutti ignorano del pari in che cosa consista la loro autentica libertà e il loro vero servaggio. Imprecano alle loro catene; a volte, si direbbe che se ne vantino. D'altro canto, trascorrono il tempo in trasgressioni vane; non sanno imporre a se stessi il giogo più lieve. Quanto a me, ho cercato la libertà più che la potenza, e quest'ultima soltanto perchè, in parte, secondava la libertà. Quel che m'interessava non era una filosofia dell'uomo libero - mi hanno sempre tediato tutti, quelli che vi si provano- ma bensì una tecnica: volevo trovare la cerniera ove la nostra volontà s'articola al destino; ove la disciplina, anziché frenarla, asseconda la natura. Comprendimi bene: qui non si tratta della dura volontà degli stoici, di cui tu ti esageri il potere, e neppure di una qualsiasi accettazione, o di astratto diniego, che offende le condizioni reali del nostro mondo che è pieno, continuo, formato di sostanze e di corpi. Io ho aspirato a una acquiescenza, a un consenso più segreto, più duttile. La vita, per me, era un destriero, di cui si sposano i movimenti, ma dopo averlo addestrato quanto meglio ci riesce. Dato che in fin dei conti tutto consiste in un atto volitivo interiore - lento, insensibile, tale da implicare anche l'adesione del corpo- mi studiavo di raggiungere gradualmente questa condizione di libertà, o di sottomissione, quasi allo stato puro. A questo fine mi dava grande aiuto la ginnastica; e anche la dialettica. Sulle prime, non cercai che una libertà fatta di vacanze, di momenti liberi: non c'è esistenza ben regolata che non ne abbia, e chi non sa trovarseli non sa vivere. Poi, andai oltre: anelai a una libertà di simultaneità, nella quale fossero possibili due condizioni allo stesso tempo, o due azioni: a esempio, imparai a dettare, come faceva Cesare, parecchi testi nello stesso momento, a conversare mentre leggevo. Scoprii un "modus vivendi" per il quale poter adempiere perfettamente al compito più gravoso senza impegnarsi interamente; a dire il vero, a volte ho osato proporre a me stesso di eliminare perfino la sensazione fisica di stanchezza. In altri momenti, mi sono esercitato a godere di una libertà a ritmo alterno: le emozioni, le idee, i lavori, in qualsiasi momento dovevo essere in grado di interromperli e riprenderli; la certezza di poterli mettere in un canto o richiamarli a guisa di schiavi toglieva loro ogni possibilità di signoreggiarmi, e a me qualsiasi sensazione di schiavitù. Feci ancor di più: mi studiai di trascorrere una giornata intera intorno a un'idea prediletta, senza lasciarla un istante; tutto ciò che avrebbe dovuto distogliermene o distrarmene, progetti o lavori d'altro ordine, parole senza importanza, i mille incidenti della giornata si attorcevano su quell'idea come i pampini al fusto d'una colonna. Altre volte, invece, mi davo a dividere all'infinito: ogni pensiero, ogni avvenimento, lo frantumavo, lo sezionavo in un numero grandissimo di pensieri o avvenimenti più piccoli, più agevoli da tenere in pugno. Le risoluzioni più ardue si sbriciolavano in una miriade di decisioni minuscole, da adottare una per una, che menavano l'una all'altra, e che a questo modo diventavano inevitabili e facili. 
Ma la conquista nella quale ho impegnato tutto me stesso - la più ardua - è stata quella della libertà di assentire. Io volevo lo stato in cui ero; durante gli anni in cui dipesi dagli altri, la mia sottomissione perdeva il suo contenuto amaro, e persino indegno, se mi adattavo a considerarla un esercizio utile. Ciò che avevo, ero stato io a sceglierlo costringendomi soltanto a possederlo totalmente, e ad assaporarlo quanto più possibile. I lavori più aridi li eseguivo agevolmente, solo che mi sforzassi a prenderci gusto. Se un soggetto mi ripugnava, ne facevo argomento di studio; avevo l'accortezza di ricavarne motivo di gioia. Di fronte a un caso imprevisto, o disperato, un'imboscata, un fortunale - una volta prese tutte le misure concernenti gli altri - facevo del mio meglio per rallegrarmi del caso, per godere dell'imprevisto che mi si offriva, e l'imboscata o la tempesta s'inserivano senza fatica nei miei progetti o nei miei sogni. Persino immerso nella sciagura più tremenda, ho percepito l'istante in cui lo sfinimento le sottraeva un poco del suo orrore, in cui la facevo MIA accettando di accettarla. Se mi capiterà mai di subire la tortura - e s'incaricherà la malattia, senza dubbio, d'impormela, non sono assolutamente certo di ottenere da me stesso, a lungo, l'impassibilità d'un Trasea, ma avrò almeno la risorsa di rassegnarmi ai miei lamenti. E in questo modo, con un misto di riserva e di audacia, di sottomissione e di rivolta ben concertate, di esigenze estreme e di concessioni prudenti, ho finito per accettare me stesso.  




Se fosse durata troppo a lungo, la vita di Roma m'avrebbe inasprito, corrotto o logorato. Tornare alle armi mi salvò. La vita militare comporta anch'essa qualche compromesso, ma meno impegnativo. Partire per l'esercito significava viaggiare: partii folle di gioia. Ero stato promosso tribuno alla Seconda Legione, l'Adiutrice: trascorsi qualche mese d'un autunno piovoso sulle sponde dell'alto Danubio, senz'altra compagnia che l'ultima opera di Plutarco. In novembre fui trasferito alla Quinta Legione Macedone, acquartierata a quei tempi (come tuttora) alle foci di quello stesso fiume, sulle frontiere della Mesia Inferiore. La neve che bloccava le strade m'impedì di viaggiare via terra; m'imbarcai a Pola; ed ebbi appena il tempo, cammin facendo, di rivedere Atene, dove più tardi avrei vissuto a lungo. La notizia dell'assassinio di Domiziano, annunciata pochi giorni dopo il mio arrivo al campo, non meravigliò nessuno e rallegrò tutti. Ben presto, Traiano fu adottato da Nerva; l'età avanzata del nuovo principe rendeva questa successione una faccenda di mesi, al più tardi: la politica di conquiste, nella quale si sapeva che mio cugino si proponeva d'impegnare i concentramenti di truppe che cominciavano a effettuarsi, il progressivo irrigidirsi della disciplina tenevano l'esercito in uno stato di fervore e di attesa. Quelle legioni danubiane operavano con la precisione d'una macchina di guerra ben lubrificata; non somigliavano affatto alle guarnigioni intorpidite dall'inerzia che avevo conosciute in Spagna; quel che più conta, l'attenzione dell'esercito non si rivolgeva più alle discordie di palazzo, e tornava agli affari esteri dell'impero; le nostre truppe non si riducevano più a una banda di littori pronti ad acclamare o a sgozzare il primo venuto. I più intelligenti tra gli ufficiali cercavano d'individuare un piano generale in quelle riorganizzazioni alle quali prendevano parte, di prevedere l'avvenire, e non soltanto il proprio. D'altro canto, su questi eventi ancora nella fase iniziale venivano scambiati non pochi commenti ridicoli, e ogni sera, sulla superficie del tavolino, si abbozzavano piani strategici, gratuiti oltreché insensati. Il patriottismo romano, la fede incrollabile nei benefici della nostra autorità su tutte le genti, nella missione di Roma di governarle, in quegli uomini del mestiere assumevano forme brutali, alle quali non ero ancora assuefatto. Alle frontiere, proprio là dove sarebbe stato saggio usare diplomazia, almeno sul momento, per conciliarci alcuni capi nomadi, i militari eclissavano completamente i politici; le prestazioni obbligatorie e le requisizioni in natura davano luogo ad abusi di cui nessuno si sorprendeva più. 
Grazie alle discordie perpetue tra barbari, la situazione a nord-est a conti fatti era la più favorevole che si potesse sperare: dubito persino che le guerre ulteriori l'abbiano migliorata in qualche modo. Gli incidenti di frontiera ci provocavano scarse perdite, preoccupanti solo perchè reiterate; riconosco però che quello stato di allarme permanente serviva almeno a tener desto lo spirito di corpo. Tuttavia, ero persuaso che si sarebbe riusciti, con un dispendio minore, ma esercitando maggiore perspicacia, a soggiogare alcuni capi, ad attirarci le simpatie degli altri; e stabilii di consacrarmi in particolar modo a quest'ultimo compito, che tutti trascuravano. 
Mi ci spingeva la mia inclinazione verso tutto ciò che è esotico: frequentare i barbari mi piaceva. Il vasto paese che si estende tra le bocche del Danubio e quelle del Boristene, un triangolo del quale ho percorso almeno due lati, vanta alcune tra le regioni più sorprendenti del mondo, almeno per noi, nati sulle rive del Mare Interno, avvezzi ai paesaggi nitidi e aridi del Sud, alle colline, alle penisole. Laggiù, m'è accaduto di adorare la dea Terra, come qui adoriamo la dea Roma; e non parlo tanto di Cerere, quanto d'una divinità più antica, anteriore persino alla scoperta delle messi. Il nostro suolo greco o latino, sostenuto ovunque dall'ossatura delle rocce, ha l'eleganza schietta d'un corpo virile: la terra scita aveva l'opulenza un po' greve d'un corpo riverso di donna. La pianura si confondeva con il cielo. Non finivo mai di stupirmi di fronte al miracolo dei fiumi: quella vasta terra vuota rappresentava soltanto un declivio e un alveo. I corsi d'acqua da noi sono brevi: non ci si sente mai lontano dalle sorgenti. Ma quel flusso enorme che sfociava in estuari intricati trascinava il fango di un continente sconosciuto, i ghiacci di regioni inabitabili. Non c'è freddo più intenso che quello di un altipiano di Spagna, ma laggiù mi trovavo faccia a faccia per la prima volta con l'inverno autentico; nei nostri paesi, esso non fa che apparizioni più o meno fugaci, ma laggiù s'insedia per periodi interminabili, di mesi, e più a settentrione s'indovina immutabile, senza inizio e senza fine. La sera del mio arrivo al campo, il Danubio era un'immensa pista di ghiaccio purpureo, poi si fece turchino; il lavorìo sotterraneo delle correnti lo striava di solchi profondi come quelli dei carri. Ci proteggevamo dal freddo con pellicce. La presenza di quel nemico impersonale, quasi astratto, produceva in noi un'esaltazione straordinaria, un senso di energia più intensa. Si lottava per conservare il calore come altrove il coraggio. Vi erano giorni in cui la neve, sulla steppa, cancellava tutti i contorni, già appena discernibili; si galoppava in un mondo di spazio puro, di atomi puri. Il gelo donava alle cose più banali, alle più molli, una trasparenza, e nello stesso tempo una durezza celeste. Ogni canna infranta si trasformava in un flauto di cristallo. Al crepuscolo, Assar, la mia guida caucasica, fendeva il ghiaccio per abbeverare i cavalli. Quegli animali, del resto, rappresentavano una delle occasioni più utili di contatto con i barbari: si stabiliva tra noi una specie di dimestichezza nelle compravendite, nelle discussioni interminabili; nasceva un certo rispetto reciproco, per qualche prodezza equestre. A sera, i fuochi dei bivacchi illuminavano le piroette straordinarie di quei loro danzatori dalla vita sottile, e i loro bizzarri braccialetti d'oro. 
Quante volte, in primavera, quando il disgelo mi consentì di avventurarmi nelle regioni dell'interno, m'è accaduto di volgere le spalle all'orizzonte del Sud, che racchiudeva i mari e le isole note, a quello dell'Occidente, ove in qualche posto il sole tramontava su Roma, e di sognare d'inoltrarmi in quelle steppe, oltrepassare i contrafforti del Caucaso, verso nord, o verso gli estremi confini dell'Asia. Quali climi, quale fauna, quali razze d'uomini avrei scoperto, quali imperi, ignari di noi come noi di loro, o tutt'al più informati della nostra esistenza grazie a qualche mercanzia, giunta loro attraverso lunghe serie di mercanti, rara per essi quanto lo è per noi il pepe dell'India, il chicco d'ambra delle regioni baltiche? 
A Odessos, un mercante tornato da un viaggio di vari anni in quei luoghi mi donò una pietra verde, quasi diafana, che pare sia considerata sacra in un regno immenso di cui egli aveva solo costeggiato i confini, e di cui quell'individuo, inteso solo al suo profitto, non aveva osservato i costumi né gli dèi. Quella gemma bizzarra fece su me la stessa impressione d'una pietra caduta dal cielo, una meteora d'un altro mondo. Conosciamo ancora piuttosto male la configurazione della terra; e non capisco come ci si rassegni a tale ignoranza. Invidio coloro che riusciranno a compiere il giro dei duecentocinquantamila stadi greci calcolati così bene da Eratostene, percorrendo i quali ci si ritroverebbe al punto di partenza. M'immaginavo nell'atto di prendere semplicemente la decisione di continuare a camminare davanti a me, sulla pista che ormai sostituiva le nostre strade. Questa idea mi piaceva... Esser solo, senza beni, senza prestigio, senza alcuno dei benefici d'una qualsiasi cultura, tra uomini nuovi, nel cuore di mondi vergini... Va da sè che era solo un sogno, il più breve di tutti. Quella libertà che inventavo non esisteva che nella mia fantasia: presto, mi sarei creato di nuovo tutto quello a cui avrei rinunciato. Dappertutto non sarei stato altro che un romano in esilio: una specie di cordone ombelicale mi legava all'Urbe. Forse, in quegli anni, al rango di tribuno, mi sentivo legato all'impero più strettamente di quel che non lo sia oggi, da imperatore, per la stessa ragione che le ossa del polso sono meno libere del cervello. Ciò nonostante, quel sogno mostruoso, che avrebbe fatto fremere i nostri avi, saggiamente confinati nella loro terra del Lazio, io l'ho fatto, e l'averlo avuto solo un istante mi rende diverso da essi per sempre.  




Traiano si trovava alla testa delle truppe, nella Germania Inferiore; l'armata del Danubio mi inviò a recare i suoi rallegramenti al nuovo erede dell'impero. Mi trovavo a tre giorni di marcia da Colonia, in piena Gallia, quando, durante la tappa della sera, ci fu annunciata la morte di Nerva. Fui tentato di precedere il corriere imperiale, e di recare io stesso la notizia del suo avvento a mio cugino. Partii al galoppo e viaggiai senza fermarmi in nessun luogo, salvo a Treviri, ove risiedeva mio cognato Serviano, in qualità di governatore. Cenammo insieme. La mente vacua di Serviano era piena di fumi imperiali. Quell'uomo tortuoso cercava di nuocermi, o almeno d'impedirmi di aver successo, e almanaccò di prevenirmi inviando un suo messo a Traiano. Due ore dopo, al guado d'un corso d'acqua, subii un'aggressione: i sicari ferirono la mia ordinanza, e uccisero i nostri cavalli. Riuscimmo tuttavia a catturare uno dei nostri aggressori, un antico schiavo di mio cognato, e costui confessò ogni cosa. Serviano avrebbe dovuto rendersi conto che non si ferma tanto facilmente un uomo risoluto di proseguire il suo cammino, a men di non giungere fino al delitto, davanti al quale la sua viltà indietreggiava. Mi toccò fare a piedi circa dodici miglia prima d'incontrare un contadino che mi vendette il suo cavallo. Giunsi a Colonia la sera stessa, precedendo di poche lunghezze il messo di mio cognato. Questa singolare avventura ebbe successo, e le accoglienze nell'armata furono ancora migliori. L'imperatore mi trattenne presso di sè in qualità di tribuno della Seconda Legione, la Fedele. 
Aveva appreso la notizia del suo avvento con disinvoltura ammirevole. Se l'aspettava da tempo: i suoi progetti non ne venivano modificati affatto. Restava quello che era stato sempre, quel che sarebbe stato fino alla morte: un capo delle forze armate, ma la sua virtù consisteva nell'aver acquisito, grazie a una concezione tutta militare della disciplina, un'idea di quel che è l'ordine nello Stato. Tutto si disponeva attorno a questa idea, per lo meno agli inizi; persino i suoi piani di guerra e i suoi progetti di conquista. Imperatore-soldato, sì, ma non soldato-imperatore. Non mutò nulla della sua vita; la sua modestia non aveva bisogno né di affettazione né di boria. Mentre l'esercito faceva festa, egli accettava le responsabilità nuove come una parte del suo lavoro quotidiano, e mostrava la sua contentezza, agli intimi, con semplicità. 
Gli ispiravo scarsissima fiducia. Era mio cugino, di ventiquattro anni più vecchio di me, e, dopo la morte di mio padre, mio cotutore. Adempiva i suoi doveri verso la famiglia con la serietà che si usa in provincia, pronto a far di tutto per promuovermi, se ne ero degno, ma a trattarmi con maggior rigore di chiunque altro se mi mostravo incompetente. Per le mie follie giovanili, aveva mostrato un'indignazione non del tutto ingiustificata, ma di quelle che si hanno solo tra parenti; i miei debiti, del resto, lo scandalizzavano più delle mie sregolatezze. Altri aspetti della mia natura lo impensierivano: uomo di scarsa cultura, nutriva un rispetto commovente verso i filosofi e i letterati, ma altro è ammirarli alla lontana, altro avere al proprio fianco un giovane luogotenente invasato di letteratura. Ignorando ove si trovassero i miei principi, i miei freni, riteneva che ne fossi sprovvisto, e alla mercè degli istinti. Però, non avevo commesso mai l'errore di trascurare il servizio: la mia reputazione di ufficiale lo rassicurava, ma, per lui, non ero che un giovane tribuno promettente, da sorvegliare da vicino. 
Poco mancò che un incidente privato non mi pregiudicasse: un bel volto mi conquistò. Mi legai appassionatamente a un giovinetto che anche l'imperatore aveva adocchiato. Era un'avventura pericolosa, e proprio per questo la godevo di più. Un certo Gallo, segretario di Traiano, che da un pezzo si faceva un dovere di fornirgli ogni particolare sui miei debiti, ci denunciò all'imperatore. Egli s'irritò enormemente: fu un momento difficile. Qualche amico, tra i quali Acilio Attiano, s'interpose per impedirgli d'intestardirsi in un rancore ridicolo; finì per cedere alle loro insistenze, e questa riconciliazione, sulle prime poco sincera da ambo le parti, fu più umiliante per me di quel che non fossero state le sue scenate. Confesso d'aver conservato un odio senza pari contro quel tale Gallo. Molti anni dopo, l'uomo fu dichiarato colpevole di falso in atto pubblico, e mi vidi vendicato con gioia. 
La prima spedizione contro i Daci fu lanciata l'anno seguente. Io mi sono sempre opposto, sia per inclinazione che per politica, a tutte le guerre, ma sarebbe stato troppo al di sopra- o al di sotto - dell'umano non inebriarsi per quelle grandiose imprese di Traiano. Visti nell'insieme, a distanza, quegli anni di guerra, posso annoverarli tra quelli felici. Gli inizi furono duri, o almeno tali mi parvero. Sulle prime, occupai posti subalterni; non avevo ancora guadagnato interamente la benevolenza di Traiano. Ma conoscevo bene il paese; sapevo d'essere utile. Quasi a mia insaputa, un inverno dopo l'altro, un accampamento dopo l'altro, una battaglia dopo l'altra, sentivo crescere in me le obiezioni alla politica dell'imperatore; obiezioni che in quell'epoca, non avevo né il diritto né il dovere di esprimere a voce alta; e del resto, nessuno m'avrebbe dato retta. Quanto più ero messo in disparte, al quinto grado o addirittura al decimo, tanto meglio conoscevo le truppe, e partecipavo alla loro vita. Possedevo ancora una certa libertà d'azione, o piuttosto consideravo con un certo distacco l'azione in se stessa - cose che ci si permettono difficilmente una volta giunti al potere, e varcati i trent'anni. E avevo qualche vantaggio al mio attivo: la simpatia per quel paese inclemente, la passione per tutte le forme volontarie, e del resto intermittenti, di privazioni e di austerità. Ero forse il solo tra gli ufficiali giovani a non avere nostalgia di Roma. Più si prolungavano gli anni nel fango e nella neve, più si mettevano in evidenza le mie qualità. 
Vissi laggiù tutta un'epoca di esaltazione straordinaria, dovuta in parte all'influenza d'un gruppo di luogotenenti che avevo intorno; essi, dalle più remote guarnigioni d'Asia, erano venuti a conoscenza di strane divinità. Il culto di Mitra, che allora era meno diffuso di quel che non sia divenuto dopo le nostre spedizioni contro i Parti, mi attirò qualche tempo con le esigenze di quell'arduo ascetismo, che tendeva duramente l'arco della volontà, con l'ossessione della morte, del ferro e del sangue, che elevava al livello di spiegazione del mondo i banali disagi della nostra esistenza di soldati. Nulla poteva contrastare di più con le opinioni che cominciavo a formarmi sulla guerra; ma quei riti barbari, che creano tra gli affiliati legami di vita e di morte, lusingavano le fantasticherie più recondite d un giovane impaziente del presente, incerto dell'avvenire, e proprio per questo accessibile agli dei. Fui iniziato in una torre di legno e di canne in riva al Danubio, fu mio padrino Marcio Turbo, un compagno d'armi. Ricordo che il peso del toro agonizzante fu lì lì per far crollare il pavimento a graticci sotto cui stavo per ricevere l'aspersione di sangue. In seguito, ho riflettuto ai pericoli che possono rappresentare per lo Stato, sotto un principe debole, siffatte società segrete, e ho finito per infierire contro di esse, ma confesso che quando si è in presenza del nemico esse conferiscono agli adepti una forza quasi sovrumana. Ciascuno di noi era convinto di sfuggire ai limiti angusti della propria condizione umana, si sentiva se stesso e l'avversario simultaneamente, assimilato al dio di cui non si sa più se muore nelle spoglie di bestia o se uccide sotto forma umana. Quei sogni bizzarri, che a volte oggi mi sgomentano, non differivano poi profondamente dalle teorie di Eraclito sull'identità dell'arco e del bersaglio. Allora, mi aiutavano a tollerare la vita. La vittoria e la sconfitta si mescolavano, si confondevano, erano raggi diversi d'una stessa luce solare. Quei fanti daci che calpestavo sotto gli zoccoli del cavallo, quei cavalieri sarmati abbattuti in seguito nei corpo a corpo dove i nostri cavalli impennati si mordevano al petto, m'era tanto più facile colpirli in quanto m'identificavo con loro. Se fosse rimasto abbandonato sul campo di battaglia, il mio corpo spoglio delle vesti non sarebbe stato tanto diverso dal loro. Identico sarebbe stato l'urto dell'ultimo colpo di spada. Ti confesso qui pensieri singolari, tra i più segreti della mia vita, e un'ebbrezza strana, che non ho mai più ritrovata esattamente sotto quella forma. 
Un certo numero di azioni brillanti, che forse, compiute da un semplice soldato, non si sarebbero nemmeno notate, mi procurarono una reputazione a Roma e una certa notorietà nell'armata. La maggior parte delle mie sedicenti prodezze, d'altro canto, non erano che bravate inutili; oggi vi scopro, non senza vergogna, la mia bassa voglia di successo a qualunque prezzo, e di emergere, insieme a quell'esaltazione quasi sacra di cui ti parlavo poc'anzi. Fu così che un giorno d'autunno traversai a cavallo il Danubio gonfiato dalle piogge, avendo indosso l'armatura pesante dei militi batavi. Di questo fatto d'arme, se tale lo si può chiamare, il mio cavallo ebbe maggior merito di me. Ma quel periodo di eroiche follie m'ha insegnato a distinguere tra i diversi aspetti del coraggio: quello che mi piacerebbe possedere sempre dovrebbe essere gelido, indifferente, scevro da qualsiasi esaltazione fisica, impassibile come l'equanimità d'un dio. Non mi lusingo di averlo raggiunto mai. In seguito, mi sono servito d'una contraffazione di esso; ma questa, nei miei giorni peggiori, non era che cinica noncuranza della vita, e, in quelli migliori, senso del dovere, al quale m'aggrappavo. Ma ben presto, per poco che durasse il pericolo, l'uno o l'altro sentimento cedevano il posto a un delirio d'intrepidità, specie di strano orgasmo dell'uomo unito al suo destino. All'età che avevo, questo coraggio insensato persisteva incessante. Un essere ebbro di vita non pensa alla morte; la morte non esiste; ciascuno dei suoi gesti la nega. Se ne è colpito, probabilmente non se ne accorge; per lui, essa non è che un colpo, uno spasimo. Sorrido amaramente nel ripetermi che oggi, su due pensieri, uno lo dedico alla fine, come se si dovessero far tante storie per convincere all'inevitabile questo nostro corpo logorato. A quei tempi, invece, un giovane che avrebbe perduto molto a non vivere qualche anno di più, rischiava il suo avvenire allegramente ogni giorno. 
Sarebbe facile mostrare quel che t'ho raccontato finora come la storia d'un soldato troppo letterato che vuol farsi perdonare le sue letture: ma semplificare così la prospettiva è falso. Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi, nessuno dei quali molto a lungo; ma presto quello esautorato riconquistava il potere: l'ufficiale meticoloso, fanatico della disciplina, pronto a dividere con gioia le privazioni della guerra con i suoi uomini; il malinconico sognatore di dei, l'amante pronto a tutto per un istante di ebbrezza; il giovane luogotenente altero che si ritira sotto la tenda, studia le sue carte alla luce d'un lume, e non fa mistero agli amici del suo disprezzo per come va il mondo; finanche il futuro statista. Ma non dimentichiamo neppure il cortigiano ignobile, che, per non dispiacere, accetta di ubriacarsi alla tavola imperiale; il giovincello che sentenzia dall'alto su ogni questione con sicumera ridicola; il parlatore frivolo, capace di perdere un amico per una battuta; il soldato, che compie con precisione meccanica i suoi bassi compiti da gladiatore. E ricordiamo pure quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso tanto quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null'altro che un corpo, disteso sul letto da campo, distratto da un profumo, preoccupato d'un soffio, vagamente attento al ronzio incessante di un'ape. Poco a poco, entrava in funzione un nuovo venuto, un direttore di compagnia, un regista. Conoscevo i nomi dei miei attori; regolavo loro entrate e uscite plausibili; tagliavo le risposte inutili; evitavo con cura gli effetti volgari. Imparavo, infine, a non abusare del monologo. Poco a poco, le mie azioni mi formavano. 
I successi militari avrebbero potuto attirarmi l'invidia d'un uomo che fosse stato meno grande di Traiano. Ma il coraggio era la sola lingua che egli comprendesse immediatamente, le cui parole gli parlassero al cuore. Finì per vedere in me un secondo se stesso, quasi un figlio, e nulla di ciò che avvenne in seguito potè mai separarci completamente. Da parte mia, alcune riserve alle sue opinioni, che nascevano in me, furono messe in disparte, per il momento almeno, obliate al cospetto del suo mirabile genio militare. M'è piaciuto sempre vedere un grande specialista al lavoro: l'imperatore, nel suo campo, era d'un'abilità, d'una sicurezza senza pari. Messo alla testa della Legione Minervina, la più gloriosa di tutte, fui comandato a distruggere le ultime trincee del nemico nella regione delle Porte di Ferro. Accerchiata la cittadella di Sarmizegetusa, entrai al seguito dell'imperatore nella sala sotterranea dove i consiglieri del re Decebalo s'erano appena avvelenati, durante l'ultimo banchetto; ed ebbi dall'imperatore l'incarico di dar fuoco a quel singolare coacervo di morti. La sera stessa, tra i dirupi del campo di battaglia, Traiano m'infilò al dito l'anello di diamanti che aveva ricevuto da Nerva, e ch'era rimasto quasi il pegno della successione al potere. 
Quella notte m'addormentai contento. 




La mia fama nascente diffuse sul mio secondo soggiorno a Roma quel sentimento d'euforia che avrei ritrovato più tardi, molto più intenso, durante i miei anni felici. Traiano mi aveva dato due milioni di sesterzi da elargire al popolo; erano naturalmente insufficienti, ma ormai amministravo la mia fortuna, piuttosto considerevole, e le preoccupazioni finanziarie non mi angustiavano più. Avevo perduto in gran parte la mia bassa paura di dispiacere. Una cicatrice al mento mi fornì il pretesto per portare la barba corta dei filosofi greci. Nel vestire, adottai una semplicità, che accentuai all'epoca imperiale: era passato per me il tempo dei braccialetti e dei profumi. Poco importa che quella sobrietà fosse ancora un atteggiamento. M'abituavo lentamente alla privazione per se stessa, e al contrasto, che mi colpì poi, tra una collezione di pietre preziose e le mani nude del collezionista. Per parlare ancora dei miei abiti, durante l'anno in cui ebbi la carica di tribuno della plebe, mi capitò un incidente dal quale furono tratti presagi. Un giorno in cui dovevo parlare al pubblico, e pioveva a dirotto, perdetti il mantello da pioggia, di grossa lana gallica. Costretto a pronunciare il discorso con una toga, nelle cui pieghe l'acqua si raccoglieva come in una grondaia, mi passavo senza posa la mano sulla fronte per scacciare la pioggia che mi riempiva gli occhi. Raffreddarsi, a Roma, è un privilegio da imperatore, dato che con qualsiasi tempo gli è interdetto di coprirsi eccetto che con la toga: da quel giorno, la rivenditrice dell'angolo e il mercante di cocomeri giurarono sulla mia assunzione al trono. 
Si parla spesso dei sogni della giovinezza; si dimenticano troppo i suoi calcoli. Sono sogni anch'essi, e non meno folli degli altri. Non ero il solo a farne durante quel periodo delle feste romane: tutto l'esercito si avventava sulle onorificenze. Assunsi con sufficiente buonumore la parte dell'ambizioso, una parte che non ho mai recitata a lungo con convinzione, né senza aver bisogno dei servigi costanti d'un suggeritore. Accettai di adempiere con lo scrupolo più onesto la funzione noiosa di segretario del Senato; seppi rendere tutti i servigi utili. Lo stile laconico dell'imperatore, mirabile al fronte, era insufficiente a Roma; l'imperatrice, i cui gusti letterari s'avvicinavano ai miei, lo convinse a lasciare a me il compito di scrivergli i discorsi. Fu quello il primo dei buoni uffici che Plotina mi rese. Ci riuscii benissimo, dato che avevo l'abitudine a quel genere di cortigianerie: al tempo dei miei difficili inizi, avevo redatto spesso per qualche senatore a corto d'idee o di frasi tornite orazioni di cui finivano per credersi autori. A lavorare allo stesso modo per Traiano, provavo un piacere esattamente identico a quello che m'avevano dato, adolescente, gli esercizi di retorica; solo nella mia camera, mentre ne provavo gli effetti allo specchio, mi sentivo imperatore. Se vogliamo, imparavo a esserlo; audacie di cui non mi sarei creduto capace diventavano agevoli quando avrebbe dovuto addossarsele un altro. Presi familiarità col pensiero dell'imperatore, semplice, ma disarticolato, e perciò oscuro; m'illudevo di conoscerlo meglio di quel che non si conoscesse lui stesso. Mi piaceva scimmiottare lo stile militare del capo, udirlo in Senato pronunciare frasi che sem ravano tipicamente sue, e di cui ero io il solo responsabile. Altre volte, se b Traiano restava in camera, ebbi l'incarico di leggere io stesso quei discorsi dei quali egli non prendeva nemmeno più visione, e il mio modo di pronunciarli - impeccabile orm i - faceva onore alle lezioni dell'attore tragico Olimpio. a
Queste funzioni quasi segrete mi valsero l'intimità dell'imperatore, persino la sua fiducia, ma l'antica antipatia perdurava. Essa aveva ceduto momentaneamente al piacere che prova un principe ormai avanti negli anni a vedere un giovane del suo stesso sangue iniziare una carriera che egli immagina, con qualche ingenuità, destinata a continuare la sua. Ma quell'entusiasmo forse non avrebbe zampillato tanto alto sul campo di battaglia di Sarmizegetusa se non si fosse aperto faticosamente il varco attraverso molteplici strati di diffidenza. Ritengo anzi che vi fosse qualche cosa di più dell'animosità inestirpabile basata su dissidi composti a stento, su diversità di temperamento, o semplicemente su umori d'un uomo che avanza negli anni. L'imperatore detestava d'istinto i subalterni indispensabili. Sarebbe stato più disposto a comprendere, da parte mia, un misto di zelo e d'irregolarità nel servizio; a furia d'essere irreprensibile, gli apparivo quasi sospetto. Lo si potè constatare quando l'imperatrice credette di giovare alla mia carriera combinandomi un matrimonio con la nipote di Traiano. Traiano vi si oppose ostinatamente, adducendo la mia mancanza di virtù domestiche, la giovinezza estrema della fanciulla, e persino quelle storie di debiti, ormai lontane. L'imperatrice si ostinò, e mi ci misi di puntiglio anch'io: a quell'età, Sabina non era completamente sprovvista di fascino. Questo matrimonio, benché temperato da una lontananza quasi continua, in seguito ha rappresentato per me una tale fonte di irritazioni e di fastidi che mi costa uno sforzo ricordare che fu un trionfo per un ambizioso ventottenne quale ero. 
Ero più che mai di famiglia; fui costretto, più o meno, a viverci. Ma tutto mi spiaceva in quell'ambiente, salvo il bel viso di Plotina. Le comparse spagnole, i cugini di provincia abbondavano alla mensa imperiale, così come li ritrovai più tardi ai pranzi di mia moglie, durante i miei rari soggiorni a Roma; e non dirò neppure che li ritrovai invecchiati, perchè sembravano centenari già a quei tempi. Esalava da costoro una saggezza ottusa, una specie di prudenza irrancidita. La vita dell'imperatore era trascorsa quasi tutta alle armi, conosceva Roma infinitamente meno bene di me. Metteva un lodevole impegno a circondarsi di tutto ciò che l'Urbe gli offriva di meglio, o che gli veniva presentato per tale. Il gruppo ufficiale degli intimi si componeva di uomini rispettabili per dignità e onorabilità, ma di cultura un po' goffa, di filosofia senza consistenza, che non si spingeva al fondo delle cose. Non m'è andata mai molto a genio l'amabilità affettata di Plinio, e l'inflessibilità sublime di Tacito mi pareva racchiudere una visione del mondo da repubblicano reazionario, fermo all'epoca della morte di Cesare. I veri intimi, erano d'una volgarità disgustosa, il che per il momento m'evitò di correre ancora dei rischi. Usavo però la cortesia indispensabile verso tutte quelle persone tanto diverse: deferente verso gli uni, compiacente verso gli altri, triviale quando occorreva, abile, ma non troppo. La versatilità m'era necessaria; ero multiforme per calcolo, incostante per gioco. Camminavo su di un filo. I corsi che avrei dovuto seguire non erano quelli d'un attore, ma d'un acrobata.  




In quell'epoca mi si rimproverò qualche adulterio con le patrizie. Due o tre di questi legami tanto biasimati durarono, più o meno, sino agli inizi del mio principato. Roma, incline alla dissolutezza, non ha mai approvato l'amore in coloro che governano: ne hanno saputo qualcosa Marc'Antonio e Tito. Le mie avventure erano più modeste; ma, dati i costumi che abbiamo, non vedo come avrebbe fatto altrimenti a entrare in intimità con le donne un uomo che le cortigiane hanno disgustato sempre, e che già era seccato a morte del matrimonio. I miei nemici, primo tra tutti quel detestabile Serviano, il mio vecchio cognato - al quale l'aver trenta anni più di me consentiva di usarmi le sollecitudini del pedagogo unitamente a quelle della spia pretendevano che in quegli amori c'entrassero ambizione e curiosità più della passione vera e propria; che l'intimità con le mogli mi introduceva a poco a poco nei segreti politici dei mariti, e che le confidenze delle amanti equivalevano per me ai rapporti di polizia di cui mi dilettai in seguito. E' ben vero che ogni legame di qualche durata finiva per procurarmi quasi inevitabilmente l'amicizia di un marito, gracile o corpulento, pretensioso o timido, quasi sempre cieco; ma per solito ne cavavo scarso diletto e meno ancora profitto. Anzi, devo pur confessare che certi racconti indiscreti che le mie amanti mi sussurravano nel talamo, finivano per destare in me una simpatia per quei mariti tanto derisi e così incompresi. Quei legami, piacevoli se con donne esperte, diventavano conturbanti se erano belle. Studiavo le arti; mi familiarizzavo con le statue; imparavo a conoscere meglio la Venere di Cnido o la Leda tremante sotto il peso del cigno. Era il mondo di Tibullo e di Properzio: malinconia, ardori un po' manierati, ma che stordivano come una melodia frigia, baci furtivi sulle scale, sciarpe fluttuanti sui seni, commiati all'alba, e serti di fiori lasciati sulle soglie. 
Di quelle donne ignoravo quasi tutto: la parte che mi donavano della loro esistenza stava tra due porte socchiuse; l'amore, di cui parlavano continuamente, a volte mi sembrava fatuo come una delle loro ghirlande, un gioiello alla moda, un accessorio costoso e fragile; e sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto. La mia vita non era meno misteriosa per loro, e non desideravano affatto conoscerla, preferivano sognarla a modo loro. Finivo per comprendere che lo spirito del gioco esigeva quei travestimenti incessanti, quegli eccessi nelle confessioni e nei rimproveri, quel piacere a volte ostentato e a volte dissimulato, quegli incontri studiati come figure di danza. Persino nei bisticci, si attendeva da me una risposta già prevista, e la bella in lacrime si torceva le mani come sulla scena. 
Ho pensato spesso che coloro che amano appassionatamente le donne sono sedotti dal tempio e dal rituale del culto quanto dalla dea in persona: si dilettano delle dita arrossate dall'henné, dei profumi, dei mille accorgimenti che danno risalto alla bellezza e a volte la costruiscono per intero. Idoli teneri, assai diversi dalle grandi femmine barbare, o dalle nostre contadine massicce e dure; esse nascevano dalle volute dorate delle grandi città, dalle arti del tintore o dal vapore rorido delle terme come Venere da quello dei flutti greci. Si stentava a dissociarle dalla dolcezza febbrile di certe serate d'Antiochia, dall'eccitazione delle mattinate romane, dai nomi famosi che portavano, da quel lusso di cui l'ultima trovata era di mostrarsi nude, ma mai senza gioielli. Avrei desiderato molto di più: la creatura umana spoglia, sola con se stessa, come a volte bisognava bene che fosse, per una malattia, o dopo la morte d'un primo figlio, o quando allo specchio appare la prima ruga. Un uomo che legge, o che pensa, o che fa calcoli, appartiene alla specie, non al sesso; nei suoi momenti migliori sfugge persino al concetto dell'umano. Ma le mie amanti pareva si facessero una gloria di non pensare se non da donne; lo spirito, l'anima, che cercavo, non era anch'essa che un profumo. 
Doveva pur esserci qualche altra cosa: nascosto dietro una tenda, come il personaggio d'una commedia, in attesa del momento propizio, spiavo con curiosità i rumori d'una casa sconosciuta, il suono particolare d'un cicalare di donne, lo scoppio d'una collera o d'una risata, i mormorii di un'intimità, tutto quello che cessava quando si sapeva che ero là. I bambini, il pensiero incessante dei vestiti, le angustie economiche, certo in mia assenza assumevano di nuovo un'importanza che mi si teneva nascosta; il marito stesso, tanto beffato, diventava essenziale, fors'anche amato. Confrontavo il volto delle mie amanti al viso arcigno delle donne di casa mia, le econome e le ambiziose, occupate senza posa a verificare i conti della spesa e a sorvegliare che si avesse cura dei busti degli antenati; mi chiedevo se quelle gelide matrone non si offrivano anch'esse a un amante, sotto la pergola del giardino, o se le mie facili bellezze non aspettavano che l'atto di congedarmi per ripiombare in una disputa con l'amministratore. Cercavo alla meglio di far legare insieme questi due volti del mondo femminile. 
L'anno scorso, poco dopo la cospirazione nella quale Serviano ha finito per perdere la vita, una delle mie amanti d'altri tempi s'è preso il disturbo di venire in Villa per denunciarmi uno dei suoi generi. Non ho tenuto conto dell'accusa, che poteva derivare dal rancore di una suocera quanto dal desiderio d'essermi utile; ma m'interessarono le sue lamentazioni: si trattava soltanto, come in altri tempi al tribunale delle successioni, di testamenti, di macchinazioni tenebrose tra parenti, di matrimoni inattesi o disgraziati. Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l'amore. Certe acrimonie, e una specie di ruvida lealtà, m hanno ricordato la mia insopportabile Sabina. I tratti del volto parevano appiattiti, sfatti, come se la mano del tempo fosse passata e ripassata brutalmente su una maschera di cera molle; quel che per breve tempo avevo consentito a prendere per bellezza non era stato mai che un fiore di giovinezza effimera. Ma l'artificio regnava ancora: quel viso rugoso si serviva maldestramente del sorriso. I ricordi di voluttà trascorse, se mai ce n'erano state, s'erano per me cancellati del tutto; restava uno scambio di frasi affabili con una creatura segnata come me dagli acciacchi e dall'età, la stessa benevolenza annoiata che avrei mostrato a una vecchia cugina spagnola, a una lontana parente piovuta da Narbona. 
Faccio di tutto per ritrovare un istante le volute di fumo, le bolle d'aria iridate d'un gioco infantile. Ma è facile dimenticare... Sono passate tante cose, dopo quei lievi amori, che senza dubbio ne disconosco il sapore; mi piace soprattutto affermare che non mi fecero mai soffrire. E tuttavia, tra tutte queste amanti, ce n'è almeno una che ho deliziosamente amata. Era al tempo stesso più delicata e più salda, più tenera e più dura delle altre; quel suo torso esile e pieno faceva pensare a una canna. Mi è piaciuta sempre la bellezza delle capigliature, quell'onda serica e fluttuante; ma, nella maggior parte delle nostre donne, le chiome sono torri, labirinti, barche, o grovigli di vipere. La sua, consentiva a essere quel che mi piace che siano: il grappolo d'uva delle vendemmie, o un'ala. Distesa sul dorso, appoggiando su di me la piccola testa altera, mi parlava dei suoi amori con mirabile inverecondia. Amavo in lei il furore e il distacco nel piacere, i gusti raffinati, la smania di tormentarsi l'anima. Sapevo che aveva dozzine d'amanti; ne perdeva il conto; io non ero che una comparsa che non esigeva la fedeltà. S'era innamorata d'un danzatore chiamato Batilla, così bello da giustificare qualsiasi follia. Tra le mie braccia, singhiozzava il suo nome; la mia approvazione la incoraggiava. In altri momenti, quanto abbiamo riso insieme! Morì, giovane, in un'isola malsana dove l'aveva esiliata la famiglia, in seguito a un divorzio che fece scandalo. Me ne rallegro per lei, perchè aveva paura d'invecchiare: ma è un sentimento che non proviamo mai verso coloro che abbiamo veramente amato. Aveva bisogno di somme enormi. Un giorno, mi chiese di prestarle centomila sesterzi. Glieli portai l'indomani. Sedette in terra, nitida come la figuretta d'una giocatrice di dadi, vuotò il sacco sull'impiantito, e si mise a dividere in mucchietti quel cumulo lucente. Sapevo che per lei, come per tutti noi prodighi, quei pezzi d'oro non erano monete di zecca, segnate dalla testa d'un Cesare, ma una materia magica, un danaro personale, battuto sull'effige d'una chimera, al conio del danzatore Batilla. Io non esistevo più. Era sola. Quasi brutta, con la fronte aggrottata, in una indifferenza incantevole per la propria bellezza, faceva e rifaceva sulle dita, con una smorfia da scolaretta, le addizioni difficili. Non mi piacque mai tanto come quel giorno. 




La notizia delle incursioni sarmate giunse a Roma durante la celebrazione del trionfo di Traiano sui Daci. Questa festa, differita per tanto tempo, durava da otto giorni. C'era voluto quasi un anno per far venire dall'Africa e dall'Asia gli animali selvatici che si volevano uccidere in massa nell'arena; la strage di dodicimila belve, lo sgozzamento metodico di diecimila gladiatori rendevano Roma un tetro luogo di morte. Quella sera, mi trovavo sulla terrazza in casa di Attiano, in compagnia di Marcio Turbo e del nostro ospite. La città illuminata era orrenda nel suo giubilo fragoroso: quella dura guerra, alla quale Marcio e io avevamo consacrato quattro anni della nostra giovinezza, diventava per la plebaglia un pretesto di bagordi avvinazzati, un brutale trionfo di seconda mano. Non era opportuno far sapere al popolo che quelle vittorie tanto vantate non erano definitive, e che un nuovo nemico calava sui nostri confini. L'imperatore, già tutto rivolto ai suoi progetti d'Asia, si disinteressava quasi del tutto della situazione a nord-est, e preferiva considerarla appianata una volta per sempre. Quella prima guerra sarmata fu presentata come una semplice spedizione punitiva; io vi fui inviato con la carica di governatore della Pannonia e i poteri di generale in capo. 
La guerra durò undici mesi, e fu atroce. Ritengo tuttora che l'annientamento dei Daci sia stato quasi giustificato: non v'è capo di Stato che tolleri di buon grado l'esistenza d'un nemico organizzato alle porte. Ma il crollo del regno di Decebalo aveva creato in quelle regioni un vuoto nel quale si precipitarono i Sarmati; bande scaturite da chissà dove infestarono un paese devastato da anni di guerra, arso e riarso dalle nostre truppe, nel quale i nostri effettivi insufficienti mancavano di punti d'appoggio: pullularono come vermi sul cadavere delle nostre vittorie sui Daci. I successi recenti avevano minato la nostra disciplina; agli avamposti ritrovavo un po' la noncuranza triviale delle feste romane. Alcuni tribuni mostravano una sicumera idiota di fronte al pericolo: rischiosamente isolati in una regione di cui la sola parte di cui fossimo esperti era il nostro antico confine, per seguitare a vincere facevano affidamento sul nostro armamento che vedevo scemare di giorno in giorno per effetto delle perdite e dell'usura, e su rinforzi che non m'aspettavo di veder arrivare, ben sapendo che ormai tutte le nostre risorse sarebbero state concentrate contro l'Asia. 
Un altro pericolo cominciava a profilarsi: quattro anni di requisizioni ufficiali avevano rovinato i villaggi dietro le linee; sin dalle prime campagne daciche, per ogni mandria di montoni o di buoi solennemente sottratti al nemico, avevo visto sfilate innumerevoli di bestiame strappato ai civili. Se quello stato di cose perdurava, s'avvicinava il momento in cui le popolazioni contadine, stanche di sopportare la nostra gravosa macchina militare, avrebbero finito per preferire i barbari a noi. Le rapine della soldatesca ponevano un problema forse meno essenziale, ma più vistoso. Ero però abbastanza popolare per imporre senza timori le più rigide restrizioni alle truppe: lanciai la moda d'una austerità che praticai per primo; inventai il culto della Disciplina Augusta che più tardi mi riuscì di estendere a tutto l'esercito. Rimandai a Roma gli imprudenti e gli ambiziosi, che mi intralciavano il lavoro, e, in cambio, feci venire qualche esperto, di cui difettavamo. Fu necessario restaurare le opere difensive che l'orgoglio delle recenti vittorie ci aveva fatto stranamente trascurare, abbandonai una volta per tutte quelle che sarebbe stato troppo costoso mantenere. Gli amministratori civili, insediati solidamente nel disordine che segue ogni guerra, passavano gradualmente al rango di capi semindipendenti, capaci di qualsiasi esazione nei confronti dei nostri sudditi e di qualunque tradimento nei confronti nostri. Anche qui vedevo prepararsi, in un avvenire più o meno prossimo, le rivolte, lo spezzettamento futuro. Non credo che eviteremo questi disastri, così come non eviteremo la morte, ma dipende da noi ritardarli di qualche secolo. Cacciai i funzionari incapaci; feci giustiziare i peggiori. Scoprii d'essere spietato. 
A un'estate umida successe un autunno nebbioso, poi un inverno rigido. Mi servirono molto le antiche nozioni di medicina, prima d'ogni altra cosa per curare me stesso. Quella vita di frontiera a poco a poco mi riduceva al livello dei Sarmati: la corta barba del filosofo greco diventava quella del capo tribù barbaro. Rividi, sino alla nausea, quello che si era già visto durante le campagne daciche. I nostri nemici bruciavano vivi i prigionieri, e noi cominciammo a sgozzare i nostri, in mancanza di mezzi di trasporto per avviarli ai mercati di schiavi di Roma o dell'Asia. I pali delle nostre staccionate furono irti di teste mozze. Il nemico torturava gli ostaggi: così morirono molti dei miei amici. Uno di essi si trascinò sino al campo sulle gambe insanguinate, sfigurato al punto che, in seguito, non mi riuscì mai più di ricordarne il viso intatto. L'inverno prelevò le sue vittime: gruppi di cavalleria restarono presi nel ghiaccio o trascinati dalle piene del fiume, malati dilaniati dalla tosse rantolavano sotto le tende, si congelavano i moncherini dei feriti. Un gruppo, animato da una buona volontà ammirevole, mi si strinse intorno; la schiera, esigua ma rigorosamente scelta, ai miei ordini, era dotata della forma più alta di virtù, l'unica che io sopporti ancora: la ferma determinazione di esser utile. Un disertore sarmata, che avevo fatto mio interprete, rischiò la vita per tornare a fomentare rivolte o tradimenti nella sua tribù; mi riuscì di venire a patti con quell'orda, e da quel giorno i suoi uomini combatterono ai nostri avamposti, proteggendo i nostri soldati. Qualche colpo di audacia, imprudente di per sè, ma abilmente sfruttato, provò al nemico l'assurdità di attaccare Roma. Uno dei capi sarmati seguì l'esempio di Decebalo; lo trovarono morto nella sua tenda di feltro, accanto alle sue mogli strangolate e a un fagotto orrendo che conteneva i loro bambini. Quel giorno, il mio naturale disgusto per lo sperpero inutile si estese anche alle perdite dei barbari; rimpiansi quei morti che Roma avrebbe potuto assimilare per valersene un giorno, come alleati, contro orde ancor più selvagge. I nostri assalitori sbandati si dileguarono come erano venuti, in quella regione oscura, dalla quale si leveranno senza dubbio ben altre procelle. La guerra non era finita. Dovetti riprenderla e condurla a termine qualche mese dopo essere salito al trono. L'ordine, per il momento almeno, regnava su quei confini. 
Tornai a casa coperto d'onori; ma ero invecchiato. 




Il mio primo consolato fu anch'esso un anno di guerra, una lotta segreta, ma continua, in favore della pace. Ma non la combattevo da solo. Prima del mio ritorno, s'era verificato nell'atteggiamento di Licinio Sura, di Attiano, di Turbo, un cambiamento analogo a quello che si era prodotto in me, come se, a onta della severa censura che praticavo sulle mie lettere, i miei amici mi avessero già compreso, preceduto, o seguito. In altri tempi, gli alti e bassi della mia sorte mi impacciavano soprattutto riguardo a essi; paure, impazienze che da solo avrei sopportato a cuor leggero, si facevano opprimenti se mi vedevo costretto a celarle alla loro sollecitudine o a infliggerne loro la confidenza; mi risentivo di quell'affetto che li angustiava per me più di me stesso, e che mai li portava a scoprire, sotto le agitazioni esteriori, l'essere tranquillo, al quale nulla importa davvero, e che per conseguenza può sopravvivere a tutto. Ma, ormai, mi mancava il tempo per interessarmi a me stesso, come del resto per disinteressarmene. Calava nell'ombra la mia persona, proprio perchè il mio punto di vista cominciava a contare. Ciò che importava, era che qualcuno si opponesse alla politica di conquiste, ne valutasse le conseguenze e la fine, e si preparasse, se possibile, a ripararne gli errori. 
Il mio posto alla frontiera m'aveva svelato un aspetto della vittoria che non figura sulla Colonna Traiana. Tornare all'amministrazione civile mi consentì di raccogliere, contro i guerrafondai, una documentazione ancor più decisiva di tutte le prove accumulate in guerra. I quadri delle legioni e la guardia pretoriana, per intero, son formati esclusivamente da elementi italiani; quelle guerre lontane esaurivano le riserve d'un paese già povero d'uomini. Quelli che non morivano, erano perduti quanto gli altri, per la patria vera e propria, dato che venivano dislocati d'autorità nelle terre di recente conquista. Anche in provincia, verso quell'epoca, il sistema di reclutamento provocò gravi rivolte. Un viaggio in Spagna, che intrapresi qualche tempo dopo per sorvegliare lo sfruttamento delle miniere di rame appartenenti alla mia famiglia, mi provò il disordine che la guerra aveva condotto in tutti i rami dell'economia; mi convinse pienamente, alfine, la fondatezza delle proteste degli uomini d'affari che frequentavo a Roma. Non avevo l'ingenuità di credere che dipendesse solo e sempre da noi evitare qualsiasi guerra; ma volevo che si combattessero solo quelle difensive: sognavo un esercito addestrato a conservare l'ordine sulle frontiere; ero pronto a rettificarle purché fossero sicure. Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell'impero, mi faceva l'effetto d'una escrescenza malsana, un cancro, un'idropisia che avrebbe finito per ucciderci. 
Nessuna di queste opinioni avrebbe potuto essere prospettata all'imperatore. Era giunto in quella fase dell'esistenza, variabile per ciascuno, in cui l'essere umano si abbandona al suo demone o al suo genio, segue una legge misteriosa che gli ingiunge di distruggere o superare se stesso. Nell'insieme, il suo principato era stato ammirevole; ma le opere della pace, alle quali lo avevano saggiamente indotto i suoi consiglieri migliori, i progetti grandiosi dei legislatori e degli architetti, avevano sempre contato meno d'una sola vittoria. La follia dello sperpero s'era impadronita di quell'uomo che era d'una parsimonia lodevole quando si trattava delle sue esigenze personali. L'oro dei barbari, ripescato sotto il letto del Danubio, i cinquecentomila lingotti del re Decebalo erano stati sufficienti a risarcire le elargizioni concesse al popolo, le donazioni militari, di cui avevo ricevuto la mia parte anch'io, il lusso insensato dei giochi, le spese iniziali dei grandiosi progetti militari in Asia. Queste ricchezze malefiche diffondevano una illusoria euforia sullo stato reale delle finanze. Quella fortuna che proveniva dalla guerra tornava a essere inghiottita dalla guerra. 
In questo frattempo morì Licinio Sura. Tra i consiglieri privati dell'imperatore era il più moderato. La sua morte fu per noi una battaglia perduta. Per me, Sura aveva mostrato sempre una sollecitudine paterna; da qualche anno ormai, le deboli forze che gli lasciava il male non gli consentivano più la diuturna fatica dell'ambizione personale, ma gli furono sempre sufficienti a servire un uomo di cui condivideva le opinioni. La conquista dell'Arabia era stata intrapresa contro i suoi consigli; lui solo, se avesse vissuto, avrebbe potuto evitare allo Stato le tribolazioni e gli sperperi immani della campagna contro i Parti. Divorato già dalla febbre, dedicava le sue ore insonni a discutere con me progetti che lo sfibravano, ma il cui esito gli stava a cuore più che qualche briciola ancora di vita. Al suo capezzale ho vissuto in anticipo, sino al più minuto particolare amministrativo, alcune delle fasi future del mio regno. Le critiche di quell'agonizzante risparmiavano l'imperatore, ma egli sentiva che quel po' di saggezza che restava al regime moriva con lui. Se avesse vissuto due o tre anni di più, forse mi sarebbero state evitate certe vie traverse di cui fu improntata la mia scalata al potere; sarebbe riuscito a persuadere l'imperatore a compiere l'adozione più presto, allo scoperto. Ma le parole estreme di quell'uomo di Stato, che mi lasciava in eredità il suo compito arduo, sono state per me un'investitura imperiale. 
Se aumentava il gruppo dei miei sostenitori, altrettanto accadeva a quello dei miei nemici. Il più pericoloso dei miei avversari era Lusio Quieto, nelle cui vene scorreva sangue romano e arabo; i suoi squadroni numidi avevano avuto una parte considerevole nella seconda campagna dacica; era un fautore esagitato della guerra in Asia. Tutto mi era detestabile in quell'individuo: il lusso esotico, gli svolazzi pretensiosi dei suoi veli bianchi orlati d'un cordone d'oro, quei suoi occhi sfuggenti e insieme arroganti, la sua crudeltà indicibile verso i Popoli vinti e assoggettati. Quei capi del partito militare si decimavano tra loro nelle lotte intestine, ma coloro che restavano non facevano che cementare sempre più il loro potere, e io ero esposto sempre più alla diffidenza di Palma e all'odio di Celso. La mia posizione personale, per fortuna, era quasi inespugnabile. L'amministrazione civile era sempre più nelle mie mani, da quando l'imperatore attendeva esclusivamente ai suoi progetti di guerra. I miei amici, i quali soltanto avrebbero potuto soppiantarmi per la loro capacità e la conoscenza degli affari, dimostravano una modestia nobilissima preferendomi a se stessi. Nerazio Prisco, nel quale l'imperatore aveva una grande fiducia, si limitava ogni giorno di più, deliberatamente, alla sua attività legale. Attiano organizzava la sua esistenza nella finalità di servirmi; avevo la cauta approvazione di Plotina. Un anno prima della guerra, fui promosso alla carica di governatore della Siria, alla quale in seguito si aggiunse quella di legato presso l'esercito. Incaricato di controllare e di organizzare le nostre basi, divenni così una delle leve di comando di un'impresa che giudicavo insensata. Esitai qualche tempo, poi accettai: rifiutare significava precludersi la strada maestra per il potere proprio in un momento in cui il potere mi stava a cuore più che mai. E significava altresì privarsi dell'unica possibilità di rappresentare la mia parte di moderatore. 
Durante quei pochi anni che precedettero la grande crisi, avevo preso una decisione che mi fece giudicare definitivamente frivolo dai miei nemici, e che in parte aveva proprio lo scopo di suscitare tale giudizio e parare così ogni attacco: ero andato a passar qualche mese in Grecia. La politica, almeno in apparenza, non entrava per nulla in questo viaggio. Fu un'escursione di piacere e di studi: ne riportai qualche coppa incisa, e alcuni libri che divisi con Plotina. Laggiù ricevetti, tra tutti i miei onori ufficiali, quello che accettai con gioia più viva: fui nominato arconte di Atene. Mi concessi qualche mese di operosità e di svaghi facili, di passeggiate, in primavera, sulle colline disseminate di anemoni, di contatti amichevoli col marmo nudo. A Cheronea, dove ero andato a commuovermi sulle antiche coppie di amici del Battaglione Sacro, fui per due giorni ospite di Plutarco. Il mio Battaglione Sacro l'avevo avuto anch'io, ma, come mi accade spesso, la mia vita privata mi commoveva meno della storia. Andai a caccia nell'Arcadia; pregai a Delfi. A Sparta, sulle rive dell'Eurota, i pastori m'insegnarono un'antichissima aria sul flauto, un singolare canto di uccello. Nei pressi di Megara, c'era una festa di nozze tra contadini che durò tutta la notte; i miei compagni e io ci avventurammo nelle danze, il che ci sarebbe stato vietato dai rigidi costumi di Roma. 
Erano dappertutto visibili le tracce dei nostri crimini: le mura di Corinto demolite da Memnio, e, nel fondo dei santuari, le nicchie rimaste vuote in seguito alla rapina di statue organizzata durante lo scandaloso viaggio di Nerone. La Grecia menava una vita grama, in un'atmosfera di grazia pensosa, di sottile lucidità, di saggia voluttà. Nulla era mutato dall'epoca in cui l'allievo del retore Iseo aveva respirato per la prima volta quell'odore di miele tiepido, di sale e di resina: nulla, insomma, era mutato da secoli. La sabbia delle palestre era sempre bionda come l'antica; non le frequentavano più Fidia e Socrate, ma i giovinetti che vi si esercitavano somigliavano ancora al delizioso Carmide. A volte, mi sembrava che lo spirito greco non avesse spinto sino alle sue conclusioni estreme le premesse del proprio genio: restavano da cogliersi i frutti; le spighe maturate al sole e già recise rappresentavano poca cosa accanto alla promessa eleusina del grano celato in quella bella terra. Persino presso i miei selvaggi nemici, i Sarmati, avevo trovato qualche vaso dalla linea pura, uno specchio adorno d'una immagine d'Apollo: barlumi di Grecia, simili a un pallido sole sulla neve. Intravvedevo la possibilità di ellenizzare i barbari, di atticizzare Roma, di imporre pian piano al mondo la sola cultura che un giorno si sia affrancata dal mostruoso, dall'informe, dall'inerte, che abbia inventato una definizione del metodo, una teoria della politica e del bello. Il sottile disdegno dei Greci, che non ho mai cessato di avvertire anche dietro i loro omaggi più fervidi, non mi offendeva affatto; lo trovavo naturale; quali che fossero le virtù che mi distinguevano da loro, sapevo che sarei stato sempre meno sagace d'un marinaio di Egina, meno saggio d'un'erbivendola dell'Agorà. Accettavo senza irritarmi la compiacenza un po' altera di quella razza fiera; accordavo a tutto un popolo i privilegi che ho sempre così facilmente concesso alle persone amate. Ma per lasciare ai Greci il tempo di continuare l'opera loro, di portarla a compimento, era indispensabile qualche secolo di pace, e gli ozi indisturbati, le libertà moderate che la pace consente. La Grecia contava su di noi affinché le facessimo da guardiani, dato che in fin dei conti pretendiamo d'essere i suoi padroni. Promisi a me stesso di vegliare sul dio disarmato.  




Occupavo da un anno la carica di governatore in Siria, quando Traiano mi raggiunse ad Antiochia. Veniva a ispezionare gli ultimi preparativi della spedizione d'Armenia che, nei suoi disegni, preludeva all'attacco contro i Parti. L'accompagnavano come sempre Plotina e la nipote Matidia, la mia indulgente suocera, che da anni lo seguiva al campo in qualità d'intendente. Celso, Palma, Nigrino, i miei vecchi nemici, sedevano ancora nel Consiglio e dominavano lo Stato maggiore. Tutti costoro si accomodarono alla meglio nel palazzo, in attesa che la campagna avesse inizio; e ripresero, con rinnovato vigore, gli intrighi di corte. Ciascuno faceva il suo gioco, in attesa che la guerra gettasse i suoi dadi. 
L'esercito mosse quasi subito verso il Nord. E io vidi allontanarsi con esso la fitta calca di alti funzionari, di ambiziosi, e di inutili. L'imperatore e il suo seguito fecero a Commagena una sosta di pochi giorni, in occasione di feste già trionfali; i piccoli re d'Oriente, riuniti a Satala, fecero a gara per protestargli una lealtà sulla quale, al posto di Traiano, non avrei fatto troppo affidamento per l'avvenire. Lusio Quieto, il mio rivale più pericoloso, alla testa degli avamposti, nel corso d'una vasta incursione militare, occupò le sponde del lago di Van; la parte settentrionale della Mesopotamia, evacuata dai Parti, fu annessa senza difficoltà; Abgar, il re d'Osroene, fece atto di sottomissione a Edessa. L'imperatore tornò ad Antiochia a occupare i suoi quartieri d'inverno, rinviando a primavera l'invasione vera e propria dell'impero partico, ma già deciso a non accettare alcuna proposta di pace. Tutto si era svolto secondo i suoi piani. La gioia di tuffarsi finalmente in quell'avventura, differita per tanto tempo, restituiva quasi una nuova giovinezza a quell'uomo di sessantaquattro anni. 
Le mie previsioni, però, restavano cupe. L'elemento ebreo e quello arabo erano sempre più ostili alla guerra; i grandi proprietari delle province si irritavano di dover indennizzare le spese provocate dal passaggio delle truppe; le città mal tolleravano l'imposizione di nuovi tributi. Sin dal ritorno dell'imperatore, si verificò una prima sciagura, preludio di tutte le altre; un terremoto, nel cuore d'una notte di dicembre, distrusse in pochi istanti quasi una metà di Antiochia. Traiano, contuso per la caduta d'un trave, continuò eroicamente a occuparsi dei feriti, e tra le persone più intime attorno a lui vi furono dei morti. La plebaglia siriana subito andò a caccia dei responsabili del sinistro: l'imperatore, derogando per una volta dai suoi principi di tolleranza, commise l'errore di lasciar massacrare un gruppo di cristiani. Personalmente ho pochissima simpatia verso quella setta, ma lo spettacolo di quei vecchi frustati con le verghe e dei bambini torturati contribuì all'inasprimento degli spiriti e rese ancor più tetro quel sinistro inverno. Mancava il danaro per sanare immediatamente gli effetti della sciagura: la notte, s'accampavano sulle piazze migliaia di persone senza tetto. I miei giri d'ispezione mi rivelavano l'esistenza d'un sordo malcontento, d'un odio segreto e insospettato dagli alti dignitari che ingombravano il palazzo. E tra quelle rovine, l'imperatore proseguiva i preparativi per la campagna imminente; fu adoperata una foresta intera per la costruzione di ponti mobili e di pontoni per traversare il Tigri. L'imperatore aveva ricevuto con gioia tutta una serie di titoli nuovi decretati dal Senato; non vedeva l'ora di finirla con l'Oriente per tornare a Roma da trionfatore. Il minimo indugio scatenava in lui furori che lo squassavano come attacchi. 
L’uomo che percorreva a gran passi con impazienza le vaste sale di quel palazzo già costruito dai Seleucidi - io stesso (che noia!) l'avevo decorato in suo onore di iscrizioni laudatorie e di panoplie daciche - non era più quello che m'aveva accolto al campo di Colonia quasi vent'anni prima. Persino le sue qualità erano invecchiate. Quella giovialità un po' goffa che, in altri tempi, mascherava una autentica bontà, ormai non era più che un vezzo triviale; la sua fermezza s'era mutata in ostinazione; le sue attitudini per le decisioni immediate e pratiche, in un totale rifiuto di pensare. Il tenero rispetto verso l'imperatrice e l'affetto burbero che dimostrava alla nipote Matidia s'erano trasformati in una sudditanza senile verso quelle donne, ai consigli delle quali, tuttavia, opponeva sempre maggior resistenza. Le sue crisi di fegato allarmavano il suo medico, Crito; ma egli non se ne dava pensiero. I suoi piaceri avevano sempre mancato d'eleganza; con l'età, il loro livello era sceso ancora più in basso. Poco importava che l'imperatore, compiuta la sua giornata, si abbandonasse a bagordi da caserma, in compagnia di giovinetti nei quali trovava qualche attrattiva o avvenenza; ma era piuttosto grave che tollerasse male il vino, di cui abusava, e che quella corte di subalterni sempre più mediocri, scelti e manovrati da loschi liberti, fosse in condizioni di assistere a tutte le mie conversazioni con lui e di riferirle ai miei avversari. Di giorno, vedevo l'imperatore soltanto alle riunioni di Stato maggiore, interamente dedicate al perfezionamento dei piani, durante le quali non si dava mai l'occasione per esprimere apertamente un'opinione. In qualsiasi altro momento, egli evitava i colloqui in privato. Il vino suggeriva a quest'uomo di scarsa finezza un arsenale di astuzie grossolane. Da un pezzo s'erano dileguate le antiche suscettibilità; egli insisteva per associarmi ai suoi piaceri; il chiasso, le risate scomposte, le facezie più scipite dei giovincelli erano sempre ben accolte, quasi fossero altrettanti modi per farmi intendere che non era il momento per le cose serie; spiava l'istante in cui un bicchiere di più mi avrebbe fatto sragionare. Tutto mi girava attorno in quella sala dove le teste dei buoi selvatici dei trofei barbari pareva mi ridessero in viso. Le giare si succedevano; qua e là zampillava un canto avvinazzato, o il riso lascivo e insolente d'un paggio; l'imperatore, posando sul tavolo una mano sempre più malferma, murato in una ebrezza forse in parte simulata, sperduto, lontano da tutto, sulle strade dell'Asia, sprofondava gravemente nelle sue visioni... 
Disgraziatamente, erano visioni piene di bellezza: le stesse che, in altri tempi, m'avevano fatto pensare di abbandonare qualsiasi cosa per seguire al di là del Caucaso le vie settentrionali dell'Asia. Quell'incantesimo al quale l'imperatore ormai vecchio cedeva in uno stato di sonnambulismo, Alessandro l'aveva subito prima di lui; egli aveva realizzato pressappoco gli stessi sogni, e ne era morto, a trent'anni. Ma l'insidia peggiore di quei piani grandiosi consisteva appunto nella loro ragionevolezza: come sempre, abbondavano le ragioni pratiche per giustificare l'assurdo, per indurre all'impossibile. Da secoli ci preoccupava il problema dell'Oriente; sembrava naturale risolverlo una volta per tutte. I nostri scambi di derrate con l'India e con il misterioso Paese della Seta erano interamente alla mercè dei mercanti ebrei e degli esportatori arabi, i quali godevano la franchigia nei porti e sulle strade dei Parti. Una volta annientato l'impero vasto e fluttuante dei cavalieri Arsacidi, avremmo avuto contatti diretti con quei ricchi confini del mondo: l'Asia, unificata finalmente, sarebbe stata per Roma nient'altro che una provincia di più. Il porto di Alessandria d'Egitto era l'unico dei nostri sbocchi verso l'India che non dipendesse dalla compiacenza dei Parti; anche lì, ci trovavamo continuamente in urto con le esigenze e le rivolte delle comunità ebraiche. Il successo della spedizione di Traiano ci avrebbe consentito di ignorare quella città insicura. Ma tutte queste ragioni non m'avevano persuaso mai del tutto: mi avrebbe soddisfatto di più qualche abile trattato commerciale e intravvedevo già la possibilità di ridurre la funzione di Alessandria, creando una seconda metropoli greca nelle vicinanze del Mar Rosso, ciò che feci in seguito, quando fondai Antinopoli. L'Asia, quel mondo tanto complesso, cominciavo ormai a conoscerlo. I piani semplici, di sterminio totale, che erano riusciti in Dacia, non erano attuabili in questo paese brulicante di una vita più molteplice, dalle radici più profonde: da essa dipendeva inoltre la ricchezza del mondo. Al di là dell'Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei miraggi, le sabbie ove si affonda, le strade che finiscono senza metter capo in nessun luogo. Il minimo rovescio avrebbe prodotto come risultato una scossa al nostro prestigio, tale che qualsiasi catastrofe avrebbe potuto derivarne; non si trattava soltanto di vincere, ma di vincere sempre, e in questa impresa si sarebbero logorate le nostre forze. Già l'avevamo tentata una volta: pensavo con orrore alla testa di Crasso, lanciata di mano in mano come una palla durante una rappresentazione delle "Baccanti" di Euripide, data da un re barbaro con un'infarinatura di ellenismo la sera d'una vittoria su di noi. Traiano sognava di vendicare quella antica sconfitta; io, soprattutto di far sì che non si ripetesse. Prevedevo l'avvenire con sufficiente esattezza: non è impossibile, in fin dei conti, quando si conoscono in gran parte gli elementi del presente: prevedevo qualche vittoria inutile, che avrebbe attirato troppo avanti le nostre armate, pericolosamente sottratte ad altre frontiere; l'imperatore in punto di morte si sarebbe coperto di gloria e su di noi, che dovevamo vivere, vedevo pesare il compito di risolvere tutti i problemi e rimediare a tutti i mali. 
Aveva ragione Cesare a preferire d'essere il primo in un villaggio che il secondo a Roma. Non per ambizione o per vanagloria, ma perchè chi occupa un ruolo secondario non ha altra scelta se non tra i pericoli dell'obbedienza, quelli della rivolta e quelli, ancor più gravi, del compromesso. E io non ero neppure il secondo, a Roma. L'imperatore, in procinto di partire per una spedizione irta di pericoli, non aveva ancora designato il suo successore: ogni passo in avanti offriva un'occasione propizia ai capi di Stato maggiore. Quell'uomo quasi ingenuo, in quel momento mi sembrava più complicato di me stesso; solo le sue asprezze mi rassicuravano: l'imperatore mi trattava rudemente, come un figlio. In altri momenti, mi aspettavo d'esser soppiantato da Palma, o soppresso da Quieto, non appena fosse possibile fare a meno dell'opera mia. Ero privo d'ogni potere: non mi riuscì neppure d'ottenere un'udienza per i membri influenti del Sinedrio di Antiochia, i quali temevano quanto noi i colpi di forza degli agitatori giudei, ed erano in grado d'illuminare Traiano sui maneggi dei loro correligionari. Non ottenne ascolto neppure Latinio Alessandro, un amico mio che discendeva da una delle più antiche famiglie reali dell'Asia Minore, e godeva di grandissimo prestigio sia per il nome sia per la fortuna. Plinio, inviato in Bitinia quattro anni prima, vi era morto senza aver avuto il tempo d'informare l'imperatore sullo stato esatto degli animi e delle finanze - ammesso che il suo ottimismo incurabile glielo avrebbe concesso. I rapporti segreti del mercante licio Opramoa, molto addentro nella situazione asiatica, furono messi in ridicolo da Palma. I liberti profittavano dei giorni di malessere che seguivano le serate di ubriachezza dell'imperatore, per escludermi dalla sua camera: l'ordinanza, un certo Fedima, uomo onestissimo ma ottuso e montato contro di me, due volte me ne ricusò l'accesso, mentre il consolare Celso, un mio nemico, una sera si chiuse con Traiano in un conciliabolo che durò per ore, in seguito al quale mi credetti perduto. Mi cercai alleati ove potei: corruppi a prezzo d'oro antichi schiavi che volentieri avrei mandato alle galere; blandii repulsive teste arricciate. Il diamante di Nerva non sprizzava più nessuna luce. 
Fu allora che mi apparve il più saggio dei miei geni tutelari: Plotina. Conoscevo l'imperatrice da quasi vent'anni. Appartenevamo allo stesso ambiente, avevamo più o meno la stessa età. L'avevo vista vivere senza scomporsi un'esistenza fatta di costrizioni quasi quanto la mia, e più spoglia di avvenire. Nei momenti difficili, mi aveva appoggiato, senza avere l'aria d'accorgersene ella stessa. Ma, in quelle giornate amare d'Antiochia, la sua presenza mi divenne indispensabile, come poi mi restò sempre la sua stima: e la ebbi, sino alla sua morte. Mi abituai a quella figura dalle candide vesti, semplici quanto possono esserlo quelle di una donna, ai suoi silenzi, alle sue parole misurate che erano soltanto risposte, le più precise che sia possibile. In quel palazzo, più antico degli splendori di Roma, non era fuor di posto la sua figura: quella donna d'estrazione recente era ben degna dei Seleucidi. Eravamo d'accordo quasi su ogni cosa. Avevamo entrambi la passione di abbellire indi denudare le nostre anime, di mettere il nostro spirito a prove d'ogni genere. Ella era incline alla filosofia di Epicuro, quel giaciglio angusto ma pulito, sul quale, a volte, ho disteso il mio pensiero anch'io. Il mistero degli dei, che per me costituiva un tormento, non era motivo di inquietudine per lei; e non provava neppure la mia attrazione appassionata per la carne. Era casta per disdegno delle cose facili, generosa per elezione più che per natura, saggiamente diffidente, ma pronta ad accettare tutto da un amico, persino gli errori inevitabili. L'amicizia era un fatto elettivo per lei, e vi s'impegnava tutta intera, vi si abbandonava totalmente, come a me è accaduto solo con l'amore. Nessuno mi ha conosciuto quanto lei: ho lasciato che vedesse cose che ho accuratamente dissimulate a chiunque altro: per esempio, qualche viltà segreta. Mi piace credere che anch'essa, per parte sua, non mi abbia taciuto quasi nulla. L'intimità dei corpi, che non è mai esistita tra noi, è stata compensata da questo contatto di due spiriti intimamente fusi l'un con l'altro. 
La nostra intesa non ebbe bisogno di confessioni, di spiegazioni, di reticenze: i fatti bastavano da soli. Ed ella li osservava meglio di me. Sotto le trecce pesanti che la moda le imponeva, la sua fronte pura era quella di un giudice. La sua memoria serbava un'immagine esatta degli oggetti più trascurabili; non le capitava mai, come a me, di esitare troppo a lungo, o di decidersi troppo presto. Le bastava un'occhiata per scoprire le piste dei miei avversari più nascosti, e valutava i sostenitori con saggia freddezza. A dire il vero, eravamo complici, ma chiunque avrebbe stentato a riconoscere tra noi gli indizi d'un accordo segreto. Non commise mai l'errore grossolano di lamentarsi dell'imperatore con me, né quello più sottile di scusarlo o di farne gli elogi. Da parte mia, la mia lealtà non era messa in questione. Attiano, appena arrivato da Roma, prendeva parte a quei colloqui che a volte duravano tutta la notte: ma pareva che nulla stancasse quella donna fragile e imperturbabile. Era riuscita a far nominare consigliere privato il mio antico tutore, eliminando così Celso, mio nemico. La diffidenza di Traiano, o l'impossibilità di trovare qualcuno che potesse svolgere i miei compiti nelle retrovie, mi avrebbero trattenuto ad Antiochia: e io contavo su di essi per tenermi informato di tutto ciò che non avrei appreso dai bollettini. Qualora fosse avvenuto un disastro, essi avrebbero saputo guadagnarmi la fedeltà di una buona parte dell'esercito; i miei avversari avrebbero dovuto fare i conti con la presenza di quel vegliardo gottoso, che partiva soltanto per essermi utile, e di quella donna, capace di esigere da se stessa la dura resistenza d'un soldato. 
Li vidi allontanarsi: l'imperatore a cavallo, sicuro, d'una placidità ammirevole, il gruppo paziente delle donne in lettiga, le guardie pretoriane confuse tra gli esploratori numidi del temibile Lusio Quieto. All'arrivo del capo, l'esercito, che aveva svernato in riva all'Eufrate, si mise in marcia: la campagna contro i Parti s'iniziava davvero. Le prime notizie furono lusinghiere: Babilonia conquistata, il Tigri traversato, Ctesifonte caduta. Come sempre, tutto cedeva alla maestria sorprendente dell'imperatore. Il principe dell'Arabia Saracena dichiarò la sua sottomissione aprendo così l'intero corso del Tigri alle flotte romane: l'imperatore s'imbarcò per il porto di Caraci, in fondo al Golfo Persico. Approdava ai lidi favolosi. Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Peggio ancora, dubitavo di me stesso: m'ero macchiato di quella bassa incredulità che ci impedisce di individuare la grandezza in quelli che conosciamo troppo da vicino. Avevo dimenticato che certi esseri spostano i limiti del destino, e mutano il corso della storia. Avevo bestemmiato contro il Genio dell'imperatore. Là, nel mio posto, mi rodevo: se per caso si fosse verificato l'impossibile, poteva darsi che io ne fossi escluso? Dato che tutto era sempre più agevole della saggezza, mi veniva voglia di tornare a indossare la cotta di maglia delle guerre sarmate, di utilizzare l'influenza di Plotina per farmi richiamare alle armi. Invidiavo al più umile soldato la polvere delle strade asiatiche, l'urto con le falangi corazzate persiane. Questa volta, il Senato decretò per l'imperatore il diritto di celebrare non già un trionfo, ma una serie intera di trionfi, che sarebbero durati quanto la sua vita. Feci io stesso quel che si doveva fare: ordinai feste, e salii sulla vetta del monte Cassio a compiere sacrifici. 
Improvvisamente, l'incendio che covava in quella terra d'Oriente divampò dappertutto nello stesso istante. Qualche mercante ebreo si rifiutò di pagare l'imposta a Seleucia; immediatamente, Cirene si ribellò, e l'elemento orientale massacrò i Greci; le strade che portavano il grano egiziano fino alle nostre truppe furono interrotte da una banda di Zeloti di Gerusalemme; a Cipro, i residenti greci e romani furono catturati dalla plebaglia ebrea, che li costrinse a trucidarsi a vicenda combattendo da gladiatori. In Siria, riuscii a mantenere l'ordine, ma scorgevo una fiamma nell'occhio dei mendicanti accosciati alla soglia delle sinagoghe, un ghigno sommesso sulle labbra tumide dei cammellieri, un odio che in fin dei conti non meritavamo. Sin dall'inizio, Giudei e Arabi avevano fatto causa comune contro una guerra che minacciava di rovinare i loro traffici; ma Israele ne profittava per scagliarsi contro un mondo dal quale lo escludevano i suoi furori religiosi, la sua liturgia singolare, l'intransigenza del suo Dio. L'imperatore, rientrato in fretta a Babilonia, ordinò a Quieto di punire le città ribelli: Cirene, Edessa, Seleucia, le grandi metropoli elleniche dell'Oriente, furono abbandonate alle fiamme in punizione dei tradimenti meditati durante le soste delle carovane o macchinati nei quartieri ebrei. Più tardi, visitando città da riedificare, ho camminato sotto colonnati cadenti, tra lunghe file di statue infrante. L'imperatore Osroe, che aveva sobillato quelle rivolte, prese immediatamente l'offensiva: Abgar insorse e rientrò a Edessa, ormai in cenere; i nostri alleati armeni, sui quali Traiano aveva creduto di poter contare, prestarono man forte ai satrapi. L'imperatore si trovò bruscamente al centro d'un immenso campo di battaglia nel quale bisognava far fronte al nemico da ogni lato. 
Perdette l'inverno nell'assedio di Hatra, un nido d'aquile pressoché inespugnabile, situato in pieno deserto, che costò migliaia di morti al nostro esercito. La sua ostinazione assumeva sempre più la forma di coraggio personale: quell'uomo malato si rifiutava di lasciare la presa. Da Plotina sapevo che Traiano, benché avvertito da una leggera paralisi, si rifiutava di nominare il suo erede. Se questo imitatore di Alessandro fosse morto a sua volta di febbri o di intemperanze in qualche angolo malsano dell'Asia, la guerra contro lo straniero si sarebbe aggravata d'una guerra civile; tra i miei partigiani e quelli di Celso o di Palma sarebbe scoppiata una lotta cruenta. Improvvisamente, le notizie cessarono quasi del tutto; la esile linea di comunicazione tra l'imperatore e me era tenuta soltanto dalle bande numide del mio nemico peggiore. Fu allora che incaricai il mio medico di segnarmi per la prima volta sul petto, con inchiostro rosso, il posto del cuore: se fosse avvenuto il peggio, non ci tenevo a cader vivo nelle mani di Lusio Quieto. Agli altri obblighi della mia carica si aggiungeva il difficile compito di pacificare le isole e le province limitrofe, ma il lavoro estenuante delle giornate non era nulla, in paragone delle lunghe notti insonni. Ero sopraffatto da tutti i problemi dell'impero ma il mio personale pesava di più. Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire. 
 Ero prossimo ai quarant'anni. Se fossi morto a quel momento, di me non sarebbe rimasto null'altro che un nome, tra una serie di alti funzionari, e un'iscrizione in greco in onore dell'arconte di Atene. In seguito, tutte le volte che ho visto sparire un uomo giunto a metà della sua vita, del quale il pubblico ritiene di poter valutare esattamente i successi e le sconfitte, mi sono ricordato che a quell'età io non esistevo ancora se non per me e per pochissimi amici, i quali certamente in qualche momento dubitavano di me come ne dubitavo io stesso. Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. 
Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti. Sembravano vani i compiti più urgenti, dal momento che mi era vietato assumere, da supremo moderatore, le decisioni riguardanti l'avvenire; avevo bisogno d'esser certo che avrei regnato per ritrovare il gusto d'esser utile. Quel palazzo d'Antiochia, dove pochi anni dopo avrei vissuto momenti di ebbrezza, non era che un carcere per me, forse il carcere d'un condannato a morte. Inviai messaggi segreti agli oracoli, a Giove Ammone, a Castalia, al Giove Dolicheno. Feci venire dei maghi; giunsi fino a far prelevare nelle celle di Antiochia un criminale destinato alla crocifissione, al quale uno stregone tagliò la gola in mia presenza, nella speranza che la sua anima, sospesa un istante tra la vita e la morte, mi avrebbe svelato l'avvenire. Quel miserabile ci guadagnò di sfuggire a un'agonia più lunga, ma le domande rimasero senza risposta. La notte, mi trascinavo da una finestra all'altra, da un balcone all'altro, attraverso le sale di quel palazzo dalle mura ancora screpolate dal terremoto, tracciando calcoli astrologici sulle lastre di marmo, interrogando le tremule stelle. Ma i segni dell'avvenire andavano cercati sulla terra. 
Finalmente l'imperatore tolse l'assedio ad Hatra, e si decise a ritraversare l'Eufrate, che non si sarebbe dovuto attraversare mai. Il caldo già torrido, e le scorrerie degli arcieri parti resero ancor più disastroso quell'amaro ritorno. Una torrida sera di maggio, andai fuori le porte della città, in riva all'Oronte, a incontrare quell'esiguo gruppo provato dalle febbri, dall'angoscia, dalla stanchezza: l'imperatore malato, Attiano e le donne. Traiano volle percorrere a cavallo il tragitto sino alla soglia del palazzo: si sosteneva appena. Quell'uomo così pieno di vita sembrava un altro, per l'approssimarsi della morte. Crito e Matidia lo sostennero su per le scale, lo condussero a distendersi, presero posto al suo capezzale. Attiano e Plotina mi raccontarono alcuni incidenti della guerra, di cui non avevano potuto farmi cenno nei loro brevi messaggi. Uno di questi racconti mi commosse tanto da iscriversi per sempre tra i miei ricordi più intimi, i miei simboli personali. Non appena giunto a Caraci, l'imperatore stremato era andato a sedersi sulla ghiaia, a contemplare le torbide acque del Golfo Persico. Si era ancora all'epoca in cui non dubitava della vittoria; eppure, per la prima volta, fu sopraffatto dall'immensità del mondo, dal terrore della vecchiaia, da quello dei limiti che ci rinserrano tutti. Grosse lacrime rigarono il volto di quell'uomo che si credeva incapace di piangere. L'imperatore, che aveva portato le aquile romane su lidi inesplorati fino a quel giorno, comprese che non si sarebbe imbarcato mai su quel mare tanto vagheggiato: l'India, la Battriana, tutto l'Oriente oscuro di cui s'era inebriato a distanza sarebbe restato per lui un nome, una visione. L'indomani, notizie funeste lo costrinsero a ripartire. Tutte le volte che il destino mi ha detto no, ho ricordato quelle lacrime versate una sera, su una sponda lontana, da un vecchio che forse per la prima volta guardava in faccia la sua vita. 
Il giorno seguente, salii dall'imperatore. Mi sentivo filiale, fraterno verso di lui. Quell'uomo, che s'era sempre fatto una gloria di vivere e di pensare come un qualsiasi soldato del suo esercito, finiva i suoi giorni in solitudine completa: disteso sul letto, seguitava a congetturare piani grandiosi ai quali non s'interessava più nessuno. Come sempre, il suo linguaggio arido e tagliente deformava il suo pensiero: stentando enormemente a pronunciare le parole mi parlò del trionfo che gli si preparava a Roma. Negava la sconfitta così come negava la morte. Due giorni dopo, ebbe un secondo attacco. I miei conciliaboli ansiosi con Plotina, con Attiano ricominciarono. L'imperatrice, nella sua previdenza, aveva fatto elevare recentemente il mio vecchio amico alla posizione potentissima di prefetto del pretorio, ponendo così la guardia imperiale ai nostri ordini. Per fortuna, Matidia, che non lasciava la camera del malato, era tutta per noi: del resto, quella donna semplice e molle era come cera nelle mani di Plotina. Ma nessuno di noi osava rammentare all'imperatore che la questione della successione era tuttora insoluta. Forse, come Alessandro, aveva stabilito di non nominare da sé il proprio successore; forse, aveva assunto verso il partito di Quieto impegni noti a lui solo; o, più semplicemente, si rifiutava di prendere in considerazione la propria fine: allo stesso modo, in alcune famiglie si vedono vecchi ostinati morire senza aver fatto testamento. Non si tratta, per loro, di serbare fino all'ultimo i loro tesori, o il loro impero, dal quale le dita intorpidite si vanno già staccando, quanto piuttosto di non collocarsi troppo presto nella posizione di chi non ha più decisioni da prendere, sorprese da suscitare, minacce o promesse da fare ai vivi. Lo compiangevo: eravamo troppo diversi perché potesse trovare in me quel continuatore docile, vincolato in anticipo agli stessi metodi, persino agli stessi errori, che quasi sempre cerca disperatamente al letto di morte chi ha esercitato un'autorità assoluta. Ma il mondo, attorno a lui, era privo di uomini di Stato: io ero il solo che egli potesse prendere senza venir meno ai suoi doveri di buon funzionario e di grande sovrano; quel capo, abituato a esaminare attentamente lo stato di servizio dei suoi dipendenti, era quasi costretto ad accettarmi; e questa, del resto, era un'ottima ragione per odiarmi. Poco a poco, la sua salute si ristabilì quanto bastava per consentirgli di uscire dalla camera. Parlava d'intraprendere una nuova campagna; ma non ci credeva nemmeno lui. Crito, il medico, che temeva per lui il caldo eccessivo, riuscì finalmente a persuaderlo a imbarcarsi per Roma. La sera che precedette la sua partenza, mi fece chiamare a bordo della nave che doveva riportarlo in Italia, e mi nominò comandante in capo, in sua vece. Si impegnò fino a tanto: ma non era l'essenziale. 
Contrariamente agli ordini ricevuti, iniziai immediatamente, in tutta segretezza, trattative di pace con Osroe. Puntavo sul fatto che probabilmente non avrei avuto più da render conto all'imperatore. Non erano trascorsi dieci giorni, che fui destato nel cuore della notte da un messaggero: riconobbi subito un uomo di fiducia di Plotina. Mi recava due missive. Con una, ufficiale, mi s'informava che Traiano, non essendo in grado di sopportare il mare, era stato sbarcato a Selinunte, in Cilicia, dove giaceva gravemente infermo in casa d'un mercante. Una seconda lettera, segreta, m'annunciava la sua morte, che Plotina mi garantiva di tener nascosta il più a lungo possibile, offrendomi così il vantaggio di essere avvertito per primo. Partii immediatamente per Selinunte, dopo aver preso tutte le misure necessarie per essere sicuro delle guarnigioni siriache. Appena in cammino, un nuovo messo mi annunciò ufficialmente il decesso dell'imperatore. Il suo testamento, che mi designava a successore, era stato appena allora inviato a Roma, in mani sicure. Tutto quel che da dieci anni era stato febbrilmente bramato, vagheggiato, discusso o taciuto, si riduceva ormai a un messaggio di due righe, vergato in greco con mano ferma dalla scrittura minuta di una donna. Attiano, che era ad attendermi al molo di Selinunte, fu il primo ad apostrofarmi con il titolo d'imperatore. 
E qui, nell'intervallo tra lo sbarco del vecchio imperatore malato e la sua morte, s'inserisce una di quelle successioni di avvenimenti che mi sarà sempre impossibile ricostruire, e sulle quali tuttavia è fondato il mio destino. Quei pochi giorni trascorsi da Attiano e dalle donne in casa di quel mercante hanno deciso per sempre della mia esistenza, ma di essi ne sarà in eterno lo stesso che d'un certo pomeriggio sul Nilo: cioè non ne saprò mai nulla, precisamente perché mi sarebbe stato a cuore saperne tutto. L'ultimo dei pettegoli, a Roma, ha la SUA opinione su questi episodi della mia vita; e io, al riguardo, sono il meno informato degli uomini. I miei nemici hanno accusato Plotina di aver profittato dell'agonia dell'imperatore per far vergare dal morente le poche parole che mi lasciavano il potere. Denigratori ancor più grossolani hanno descritto un letto chiuso da cortine, alla luce incerta d'un lume, e il medico Crito che dettava le ultime volontà di Traiano con una voce che imitava quella del morto. Si è sottolineato il fatto che la sua ordinanza, Fedima, che mi odiava, e il cui silenzio i miei amici non avrebbero a nessun prezzo potuto comprare, molto opportunamente sia perito di febbri maligne l'indomani del decesso dell'imperatore. In questi aspetti di violenza e d'intrigo vi è qualcosa che colpisce l'immaginazione popolare; e persino la mia. Non mi dispiacerebbe affatto che pochi uomini onesti siano stati capaci di giungere sino al delitto per me, né che l'imperatrice sia stata trascinata a quel punto dalla sua dedizione. Ella conosceva i pericoli che comportava per lo Stato una decisione mancata: la onoro abbastanza per credere che abbia consentito davvero a perpetrare una frode necessaria, qualora ve l'abbiano spinta la saggezza, il buon senso, l'interesse pubblico e l'amicizia. In seguito, ho avuto tra le mani quel documento contestato dai miei avversari con tanto furore: non sono in grado di pronunciarmi pro o contro l'autenticità di quelle ultime parole d'un malato. Certo, preferisco supporre che Traiano in persona, sacrificando i propri pregiudizi personali prima di morire, abbia di sua volontà lasciato l'impero a colui che, dopotutto, giudicava il più degno. Ma bisogna pur confessare che, in questo caso, m'importava più il fine che i mezzi: l'essenziale è che l'uomo, giunto comunque al potere, in seguito abbia dimostrato che meritava di esercitarlo. 
Il corpo di Traiano fu cremato sulla spiaggia, poco dopo il mio arrivo, in attesa delle esequie trionfali che sarebbero state celebrate a Roma. Quasi nessuno presenziò a quella cerimonia estremamente semplice, che ebbe luogo all'alba, e fu solo l'estremo episodio delle lunghe cure domestiche rese dalle donne alla persona di Traiano. Matidia piangeva a calde lacrime; la vibrazione dell'aria attorno al rogo confondeva i tratti di Plotina. Calma, distante, leggermente consunta dalla febbre, ella restava come sempre visibilmente impenetrabile. Attiano e Crito vigilavano affinché tutto fosse consunto per bene. La piccola nube di fumo si dissolse nell'aria pallida di quel mattino senz'ombre. Nessuno dei miei amici riandò agli incidenti dei pochi giorni che avevano preceduto la morte dell'imperatore. Evidentemente, la loro parola d'ordine era di tacere; e la mia fu di non rivolgere domande pericolose. 
Quel giorno stesso, l'imperatrice vedova e i familiari s'imbarcarono per Roma. Io rientrai ad Antiochia, accompagnato lungo il cammino dalle acclamazioni delle mie legioni. Una calma straordinaria era scesa su di me: l'ambizione e la paura sembravano un incubo dileguato. Qualunque cosa avvenisse, ero stato sempre deciso a difendere fino all'ultimo le mie probabilità di diventare imperatore, ma l'adozione semplificava ogni cosa. La mia vita non mi preoccupava più: potevo nuovamente pensare al resto degli uomini. 
TELLUS STABILITA  




La mia vita era rientrata nell'ordine, non l'impero. Il mondo che avevo ereditato somigliava a un uomo nel fiore degli anni, ancora robusto, nel quale però l'occhio del medico scorge indizi impercettibili di logorio, come chi è appena uscito dagli spasimi d'una malattia grave. S'intavolarono nuovi negoziati di pace, ormai alla luce del sole; feci diffondere per ogni dove la voce che Traiano stesso me ne avesse affidato l'incarico prima di morire. Cancellai con un tratto di penna le annessioni pericolose: non soltanto la Mesopotamia, dove in ogni caso non avremmo potuto restare, ma anche l'Armenia, troppo eccentrica e lontana, che serbai solo al rango di Stato vassallo. Due o tre difficoltà, un po' spinose, che avrebbero fatto durare per anni una conferenza della pace, se i principali interessati avessero avuto interesse a tirarla per le lunghe, furono appianate grazie all'abilità del mercante Opramoas, il quale godeva la fiducia dei satrapi. Cercai d'infondere, nell'avviare i negoziati, quell'ardore che altri riserva al campo di battaglia: forzai la pace. Il mio competitore, d'altro canto, la anelava quanto me: i Parti non aspiravano ad altro che a riaprire le loro strade ai grossi traffici tra l'India e noi. Pochi mesi dopo la grande crisi, ebbi la gioia di veder formarsi nuovamente la fila delle carovane in riva all'Oronte; le oasi si ripopolavano di mercanti che commentavano le notizie alla luce dei bivacchi, e che ogni mattina, insieme alle loro merci, starei per dire caricavano, per trasportarle in paesi sconosciuti, parole, pensieri, costumi intimamente nostri, che poco a poco avrebbero dilagato nel mondo in modo più sicuro che non le legioni in marcia. La circolazione dell'oro, il passaggio delle idee, sottile come quello del sangue nelle arterie, riprendevano nel grande corpo del mondo: ricominciava a battere il polso della terra.
A sua volta, la febbre della ribellione cedeva. In Egitto, era stata così violenta che era stato necessario reclutare in tutta fretta una milizia tra i contadini, in attesa delle nostre truppe di rinforzo. Incaricai immediatamente Marcio Turbo di ristabilire l'ordine in quelle contrade, ed egli lo fece con saggia fermezza. Ma non mi bastava l'ordine per le strade; volevo, se possibile, ristabilirlo negli animi, o meglio, farcelo regnare per la prima volta. Un soggiorno d'una settimana a Pelusa fu interamente dedicato a equilibrare i rapporti tra Greci e Giudei, in uno stato d'incompatibilità perenne. Non vidi nulla di quel che avrei desiderato vedere: né le sponde del Nilo, né il Museo di Alessandria, né le statue del tempio; trovai a malapena il modo di consacrare una notte alle gradevoli orge di Canopo. Sei giornate interminabili trascorsero in quella specie di tino bollente del tribunale, a malapena protetto dal caldo da lunghi tendaggi di canne che frusciavano al vento. La notte, zanzare enormi ronzavano intorno alle lampade. Tentai di dimostrare ai Greci che non sempre erano i più saggi, ai Giudei che non erano affatto i più puri. Le canzoni satiriche con le quali quegli elleni di bassa lega tormentavano gli avversari erano stupide né più né meno come le grottesche imprecazioni degli Ebrei. Quelle razze che vivevano porta a porta da secoli non avevano avuto mai né il desiderio di conoscersi, né la dignità di sopportarsi a vicenda. I difensori che, stremati, a tarda sera abbandonavano il campo, all'alba mi ritrovavano al mio banco, ancora intento a districare il groviglio di sudicerie delle false testimonianze; i cadaveri pugnalati che mi venivano offerti come prove a carico, erano spesso quelli di malati morti nei loro letti e sottratti agli imbalsamatori. Ma ogni ora di tregua era una vittoria, anche se precaria come tutte; ogni dissidio sanato creava un precedente, un pegno per l'avvenire. M'importava assai poco che l'accordo ottenuto fosse esteriore, imposto, probabilmente temporaneo; sapevo che il bene e il male sono una questione d'abitudine, che il temporaneo si prolunga, che le cose esterne penetrano all'interno, e che la maschera, a lungo andare, diventa il volto. Dato che l'odio, la malafede, il delirio hanno effetti durevoli non vedevo perché non ne avrebbero avuti anche la franchezza, la giustizia, la benevolenza. A che valeva l'ordine alle frontiere se non riuscivo a convincere quel rigattiere ebreo e quel macellaio greco a vivere l'uno a fianco all'altro tranquillamente?
La pace era il mio traguardo, ma non il mio idolo; e persino la parola «ideale» mi spiace perché troppo lontana dal reale. Avevo pensato di spingere sino all'estremo il mio rifiuto delle conquiste, abbandonando la Dacia, e l'avrei fatto se avessi potuto capovolgere bruscamente la politica del mio predecessore senza turbamenti; ma era meglio fare il miglior uso possibile di quei profitti anteriori al mio regno e già entrati nella storia. Il bravissimo Giulio Basso, primo governatore di quella provincia recentemente organizzata, era morto sfibrato, e anch'io ero stato sul punto di soccombere durante l'anno trascorso alle frontiere sarmate, sopraffatto da quell'impresa senza gloria che consiste nel pacificare instancabilmente un paese che si crede sottomesso. Gli ordinai, a Roma, esequie trionfali, quali si usano soltanto per gli imperatori; questo omaggio a un subalterno fedele, morto d'un sacrificio oscuro, fu la mia ultima e discreta protesta contro la politica di conquiste: non serviva più che la denunciassi clamorosamente, dal momento che ero padrone di farla cessare di punto in bianco. Purtroppo, s'imponeva una repressione militare in Mauretania, dove gli agenti di Lusio Quieto fomentavano disordini; la mia presenza non era, però, immediatamente necessaria. Lo stesso accadeva in Bretagna, ove i Caledoni avevano profittato del ritiro di truppe avvenuto in occasione della guerra d'Asia per decimare le guarnigioni insufficienti lasciate alle frontiere. Giulio Severo s'incaricò dei problemi più urgenti creati da quei torbidi, in attesa che la sistemazione degli affari di Roma mi consentisse di intraprendere quel viaggio lontano. Ma mi stava più a cuore portare a termine personalmente la guerra sarmata ch'era in sospeso, e, questa volta, impiegarvi truppe quante ne servivano per farla finita con le scorrerie dei barbari. Dato che anche in questo caso, come in tutti gli altri, mi rifiutavo di sottomettermi a un sistema. Accettavo la guerra come un mezzo per giungere alla pace, se i negoziati non potevano bastare, come fa il medico, che si risolve a cauterizzare un tumore dopo aver sperimentato i semplici. Tutto è così complicato negli affari degli uomini, che anche il mio regno, così pacifico, avrebbe avuto i suoi periodi di guerra così come la vita d'un grande capitano, si voglia o no, ha i suoi intervalli di pace.
Prima di risalire verso il Nord, per regolare definitivamente i conti con i Sarmati, rividi Quieto. Il sanguinario di Cirene era ancora temibile. Il mio primo provvedimento era stato di sciogliere le sue colonne di esploratori numidi; gli restava però il seggio in Senato, il grado nell'esercito regolare, e quell'immenso dominio nelle sabbie occidentali del quale egli poteva farsi, a suo talento, un trampolino o un asilo. M'invitò a una caccia in Misia, in piena foresta, e ingegnosamente macchinò un incidente nel quale, se avessi avuto minore fortuna o minore agilità fisica, senza alcun dubbio avrei perduto la vita. Ma era preferibile aver l'aria di non sospettar nulla, pazientare, attendere. Poco più tardi, nella Mesia Inferiore, quando la capitolazione dei principi sarmati mi consentiva di far progetti per un sollecito ritorno in Italia, uno scambio di dispacci cifrati col mio antico tutore m'informò che Quieto, tornato di precipizio a Roma, aveva avuto un abboccamento con Palma. I nostri nemici barricavano le loro posizioni, riformavano le loro truppe. Non era possibile sentirsi sicuri sino a che quei due uomini tramavano contro di noi. Scrissi ad Attiano di agire. Quel vegliardo colpì come la folgore. Andò oltre i miei ordini, e in un colpo solo mi sbarazzò di tutti i nemici (dichiarati) che mi restavano. Lo stesso giorno, a poche ore di distanza, Celso fu giustiziato a Baia, Palma nella sua villa a Terracina, Nigrino a Faventia, sulla soglia della sua casa di campagna. Quieto perì in viaggio, uscendo da un conciliabolo con i suoi complici, sul predellino della carrozza che lo riportava in città. Un'ondata di terrore si riversò su Roma. Il mio vecchio cognato Serviano, che in apparenza s'era rassegnato alla mia fortuna, ma che avidamente contava sui miei errori futuri, dovette provarne un impulso di gioia, senza dubbio la voluttà più intensa della sua vita. Tutte le voci sinistre che correvano sul mio conto trovarono nuovo credito.
Mi furono comunicate queste notizie sul ponte della nave che mi riconduceva in Italia. Rimasi annientato. Esser liberato dei propri avversari è sempre una soddisfazione, ma il mio tutore aveva mostrato l'indifferenza dei vecchi per le conseguenze lontane del suo gesto: aveva dimenticato che toccava a me vivere più di vent'anni con le conseguenze di quelle morti. Pensai alle proscrizioni di Ottaviano, che avevano macchiato per sempre la memoria di Augusto, ai primi crimini di Nerone, ai quali altri crimini erano seguiti. Riandai con la mente agli ultimi anni di Domiziano, quell'uomo mediocre, niente affatto peggiore d'un altro, disumanato quasi dalla paura inflitta e subita, e infine morto in pieno palazzo come una fiera accerchiata nei boschi. Già mi sfuggiva dalle mani la mia vita pubblica: la prima riga dell'iscrizione recava, profondamente incise, parole che non avrei cancellato mai più. Il Senato, quel gran corpo tanto debole, ma che bastava perseguitare per vederlo diventare potente, non avrebbe dimenticato mai che erano stati giustiziati sommariamente per ordine mio quattro uomini usciti dai suoi ranghi; così, tre odiosi intriganti e un bruto feroce avrebbero fatto la figura di martiri. Intimai immediatamente ad Attiano di raggiungermi a Brindisi per rispondermi delle sue azioni.
Mi aspettava a due passi dal porto, in una delle camere di quella locanda, volta a oriente, dove un giorno era morto Virgilio. Venne zoppicando a ricevermi sulla soglia; soffriva d'una crisi di gotta. Non appena solo con lui, lo rimproverai aspramente: un regno che volevo moderato, esemplare, s'iniziava con quattro esecuzioni sommarie, delle quali una soltanto era indispensabile, alle quali, per di più, si era incautamente trascurato di dare una sembianza di legalità. Quell'abuso di potere mi sarebbe stato tanto più rimproverato quanto più in seguito mi sarei messo d'impegno a mostrarmi clemente, scrupoloso o giusto; se ne sarebbero serviti per provare che le mie cosiddette virtù non erano che una maschera, e m'avrebbero fabbricata una banale leggenda di tiranno che, forse, mi avrebbe seguito sino alla fine della storia. Confessai la mia paura: non mi sentivo esente dalla crudeltà più che da qualsiasi altra tara umana: accettavo perfino il luogo comune che vuole che il delitto chiami delitto, l'immagine della belva che ha assaggiato il sangue. Un vecchio amico, la cui lealtà m'era parsa sicura, si emancipava già, profittava delle debolezze che aveva creduto d'osservare in me; sotto l'aspetto di rendermi un servigio, aveva fatto in modo di regolare un conto personale con Nigrino e con Palma. Comprometteva la mia opera di pacificazione; mi preparava, infine, il più tetro dei ritorni a Roma.
Il vecchio chiese il permesso di mettersi a sedere; posò su di uno sgabello la gamba avvolta in bende. E io, mentre continuavo a parlare, andavo ricoprendo con una coperta quel piede infermo. Mi lasciava sfogare, con il sorriso d'un grammatico che ascolta un alunno cavarsela abbastanza bene in una recitazione difficile. Quando ebbi finito, mi domandò con tono pacato che cosa contavo di fare dei nemici del regime. Se era necessario, si sarebbe potuto fornire prove del fatto che quei quattro uomini avevano tramato la mia morte: in ogni caso, sarebbe stato loro reale interesse il farlo. Non c'è cambio della guardia che non comporta le sue epurazioni; e s'era incaricato lui di quest'ultima, per lasciarmi le mani nette. Se l'opinione pubblica reclamava una vittima, non c'era nulla di più semplice che destituirlo dalla carica di prefetto del pretorio. Questa misura l'aveva prevista, mi consigliava perfino di adottarla. E se per conciliarmi il Senato bisognava andare oltre, mi avrebbe approvato anche qualora mi fossi deciso a relegarlo o esiliarlo.
Attiano era stato per me il tutore al quale si spillano quattrini, il consigliere dei giorni difficili, la guida fedele, ma era la prima volta ch'io guardavo con attenzione quel viso molle dalle guance ben rase, quelle mani rattrappite tranquillamente incrociate sul pomo d'un bastone d'ebano. Le diverse componenti di quella prospera esistenza di uomo mi erano sufficientemente note: la moglie, che gli era cara, e la cui salute era tuttora precaria, le figlie maritate, i loro bambini, per i quali egli nutriva ambizioni modeste e tenaci, così come erano state le sue; il suo gusto per la cucina raffinata; la passione per i cammei greci e le danzatrici giovinette. Eppure, aveva dato a me la precedenza su tutte queste cose; da oltre trent'anni, il suo primo pensiero era stato di proteggermi, di servirmi. E io, finora, non avevo dato la precedenza a null'altro che a progetti, a idee - tutt'al più a una immagine futura di me stesso: la devozione comunissima di quell'uomo mi appariva prodigiosa, insondabile. Nessuno ne è degno; e tuttora non riesco a spiegarmela. Seguii il suo consiglio: fu destituito dalla carica. Il suo lieve sorriso mi dimostrò che s'aspettava di essere preso in parola. Sapeva bene che non c'era al mondo sollecitudine intempestiva verso un vecchio amico, che avrebbe potuto trattenermi dall'adottare il provvedimento più saggio; quel sottile politico d'altronde, non m'avrebbe voluto diverso. Non va neppure esagerata l'entità della sua disgrazia: dopo qualche mese di eclissi, riuscii a farlo entrare in Senato, l'onore supremo che potessi accordare a un uomo dell'ordine equestre. Ebbe una vecchiaia facile, da ricco cavaliere romano, garantito dall'influenza che gli valeva la sua perfetta conoscenza delle famiglie e degli affari; spesso, sono stato ospitato da lui nella sua villa sui colli Albani. Non importa: come Alessandro alla vigilia di una battaglia, prima di entrare a Roma avevo sacrificato alla Paura: e mi accade di contare Attiano nel numero delle mie vittime.  




Attiano aveva visto giusto: l'oro puro del rispetto era troppo molle se non s'aggiungeva nella lega una dose di paura. Dell'assassinio dei quattro consolari avvenne come della storia del testamento contraffatto: gli spiriti onesti, i virtuosi si rifiutarono di credermi implicato; i cinici supposero il peggio, ma mi ammirarono a maggior ragione. Roma si calmò, quando si seppe che i miei rancori cessavano di colpo; la gioia che ciascuno provava di sentirsi rassicurato fece rapidamente obliare quei morti. Ci si meravigliava della mia mitezza, poiché la si riteneva premeditata, voluta, preferita, giorno per giorno a una violenza che mi sarebbe stata altrettanto facile; si lodava la mia semplicità, perché si credeva di scorgervi il calcolo. Le virtù modeste, Traiano le possedeva in gran parte; le mie sorprendevano di più: ancora un poco, e vi avrebbero scorto una forma raffinata di vizio. Ero lo stesso d'un tempo, ma ciò che era stato tenuto in dispregio passava per sublime: una cortesia estrema, nella quale gli spiriti grossolani avevano ravvisato una forma di debolezza, fors'anche di viltà, parve il fodero levigato e lucente della forza. La mia pazienza verso i postulanti, le mie frequenti visite agli ospedali militari, la mia familiarità con i reduci veterani, vennero portate alle stelle. Tutto ciò non differiva dal modo con il quale per tutta la vita avevo trattato i servitori e i coloni delle mie fattorie. Ciascuno di noi ha più qualità di quel che non si creda, ma solo il successo le mette in luce, forse perché allora ci si aspetta di vederci smettere d'esercitarle. Gli esseri umani confessano le proprie debolezze peggiori quando stupiscono che il padrone del mondo non sia stupidamente indolente, presuntuoso o crudele.
Avevo rifiutato tutti i titoli. Nei primi mesi del mio regno, il Senato, a mia insaputa, m'aveva ornato di quella lunga serie di appellativi onorifici che si drappeggia come uno scialle frangiato attorno al collo di alcuni imperatori: Dacico, Partico, Germanico: a Traiano erano cari questi bei suoni di musiche guerriere, simili ai cimbali e ai tamburi delle milizie dei Parti; destavano in lui echi lontani, risposte. Io, invece, ne restavo irritato, stordito. Li feci abolire tutti, e respinsi altresì, provvisoriamente, il titolo di Padre della patria, che Augusto accettò solo al termine del suo regno, e di cui ancora non mi reputavo degno. Lo stesso avvenne del trionfo: sarebbe stato ridicolo accettarlo per una guerra che avevo l'unico merito di aver conchiusa. S'ingannarono, coloro che ravvisarono in questo rifiuto un segno di modestia, così come quelli che me ne rimproverarono per un presunto orgoglio. Il mio calcolo mirava meno all'effetto sugli altri che non ai vantaggi per me. Volevo che il mio prestigio fosse personale, che aderisse a me e si misurasse immediatamente in termini di agilità mentale, di forza, di imprese compiute. I titoli, se dovevano venire, sarebbero venuti più tardi; e altri titoli, testimonianze di vittorie più recondite, alle quali ancora non osavo pretendere. Per il momento, avevo abbastanza da fare per diventare o per essere il più possibile Adriano.
Mi si accusa di amare Roma troppo poco. Era bella, tuttavia, durante quei due anni in cui lo Stato e io ci misurammo a vicenda, la città dalle vie anguste, dai Fori ingombri, dai mattoni che hanno il colore della carne dei vecchi. A ritornarci dopo il soggiorno in Oriente e in Grecia, Roma si rivestiva d'una specie di esotismo che un romano nato e vissuto sempre nell'Urbe non sospetterebbe. Tornavo ad abituarmi ai suoi inverni umidi e nebbiosi, alla sua estate africana, temperata dal fresco delle cascate di Tivoli e dei laghi di Alba, al suo popolo quasi rustico, legato con attaccamento provinciale ai sette colli, nel quale tuttavia l'ambizione, la lusinga del guadagno, i casi delle conquiste e della schiavitù riversano a poco a poco tutte le razze del mondo, il negro tatuato, il germano villoso, il greco smilzo, l'orientale corpulento. Mi sbarazzai di alcune fisime: frequentai i bagni pubblici nelle ore popolari, imparai a sopportare i ludi del circo, nei quali fino ad allora non avevo visto che sperpero feroce. La mia opinione in proposito non era mutata: detestavo quei massacri in cui le belve non hanno una possibilità di salvezza, ma a poco a poco ne scorgevo il valore rituale, gli effetti di purificazione tragica sulla folla incolta; volevo che lo splendore delle feste eguagliasse quelle di Traiano, ma con arte, con ordine maggiori. Mi costringevo ad apprezzare la scherma esatta dei gladiatori, ma a condizione che nessuno fosse costretto a esercitare quel mestiere suo malgrado. Imparavo a conversare con la folla, attraverso la voce degli araldi, dall'alto della tribuna del circo; a imporle silenzio con una deferenza che essa mi rendeva centuplicata, a non accordarle se non quello che aveva ragionevolmente diritto di aspettarsi, a non rifiutarle nulla senza indicare le ragioni del mio rifiuto. Non portavo i miei libri nel palco imperiale, come fai tu: è un insulto per gli altri aver l'aria di sdegnare i loro piaceri. Se lo spettacolo mi disgustava, lo sforzo di sopportarlo costituiva per me un esercizio più valido che non la lettura di Epitteto.
La morale è una convenzione privata; il decoro è una faccenda pubblica: qualsiasi licenza allo scoperto m'ha fatto sempre l'effetto d'un'ostentazione di bassa lega. Interdissi i bagni misti, ch'erano motivo di risse quasi continue; feci fondere e riversare nelle casse dello Stato il colossale servizio di vasellame di argento ordinato dall'oltraggiosa avidità di Vitellio. I nostri primi Cesari si son fatti una reputazione odiosa di braccatori di eredità: io mi feci una regola di non accettare né per lo Stato né per me alcun legato al quale qualche erede diretto potesse credere d'aver diritto. Cercai di sfoltire il numero esorbitante di schiavi della casa imperiale, e soprattutto d'infrenarne l'audacia che spesso li induce a mettersi alla pari con i cittadini migliori, e, a volte, a terrorizzarli: un giorno, uno dei miei apostrofò un senatore con impertinenza; lo feci schiaffeggiare. Il mio odio per il disordine giunse fino a far fustigare in pieno Circo alcuni dissipatori, oberati di debiti. Per evitare ogni equivoco, insistetti affinché in città si portasse toga e laticlavio, indumenti ingombranti, come del resto tutto ciò che è onorifico, e io stesso m'imposi di indossarli solo a Roma. Mi alzavo per ricevere i miei amici; restavo in piedi durante le udienze, per reagire alla disinvoltura della posizione distesa o seduta. Feci ridurre il numero insolente delle vetture a cavalli che ingombravano le nostre strade: è il lusso della velocità che si annulla da sé, dato che un pedone supera cento vetture quando sono l'una in fila all'altra nelle svolte della Via Sacra. Per le mie visite, presi l'abitudine di farmi portare in lettiga sin nell'interno delle case private, risparmiando così all'ospite la fatica di aspettarmi o di riaccompagnarmi fuori, sotto il sole o il vento stizzoso di Roma.
Ritrovavo i miei: ho sempre avuto una certa tenerezza per mia sorella Paolina, e persino Serviano mi sembrava meno odioso che in altri tempi. Mia suocera, Matidia, aveva riportato dall'Oriente i primi sintomi d'una malattia mortale: feci del mio meglio per distrarla dalle sue sofferenze con qualche festa frugale, cercai di divagare innocentemente quella matrona capace di ingenuità come una giovinetta. L'assenza di mia moglie, la quale, in uno dei suoi momenti di malumore, s'era rifugiata in campagna, non toglieva nulla a questi piaceri di famiglia. Tra tutti gli esseri, mia moglie è forse quello alla quale sono riuscito meno a piacere: è vero, però, che mi ci son provato ben poco. Frequentavo la casetta dove l'imperatrice vedova si dedicava ai piaceri austeri della meditazione e dei libri. Ritrovavo il bel silenzio di Plotina. Scendeva soavemente nell'ombra; quel giardino, quelle stanze chiare diventavano ogni giorno di più il recinto d'una Musa, il tempio d'una imperatrice già divina. La sua amicizia restava esigente; ma non erano che esigenze piene di saggezza.
Rividi i miei amici; riassaporai il piacere squisito di riprendere contatto con essi dopo lunghe assenze, di giudicare, di esser giudicato di nuovo. Il mio compagno dei piaceri e dei lavori letterari d'altri tempi, Vittorio Voconio, era morto; mi assunsi l'incarico di redigere l'orazione funebre per lui; si sorrise nel vedermi citare tra le virtù del defunto una castità che negavano sia i suoi poemi sia la presenza ai funerali di Testilio, un fanciullo dai riccioli di miele, che un tempo Vittorio chiamava il suo bel tormento. La mia ipocrisia era meno grossolana di quel che sembra: qualsiasi piacere se preso con ardore mi sembra casto.
Dirigevo Roma come una casa dalla quale il proprietario intenda potersi allontanare senza che essa abbia a soffrire della sua assenza: collaboratori nuovi fecero le loro prove; avversari riconciliati pranzarono al Palatino con gli amici dei tempi difficili. Nerazio Prisco tracciava alla mia tavola i suoi progetti di legislazione; l'architetto Apollodoro ci sottoponeva i suoi disegni; il ricchissimo patrizio Ceionio Commodo, discendente da una vecchia famiglia etrusca di sangue quasi reale, eccellente conoscitore di vini e di uomini, m'aiutava a progettare le prossime manovre in Senato.
Il figlio Lucio Ceionio, che allora aveva appena diciott'anni, rallegrava quelle feste che volevo austere con la sua grazia ridente di giovine principe. Aveva già manie assurde e deliziose: la passione di ammannire piatti rari agli amici, il gusto squisito delle decorazioni floreali, la passione dei giochi d'azzardo e delle maschere. Marziale era il suo Virgilio: recitava quelle poesie lascive con sfrontatezza deliziosa. Gli feci promesse che in seguito mi procurarono parecchi grattacapi: quel faunetto demoniaco riempì di sé sei mesi della mia vita.
Durante gli anni che seguirono, ho perduto tante volte di vista Lucio, e tante volte l'ho ritrovato, che rischio di serbare di lui una immagine fatta di memorie sovrapposte che nel complesso non corrisponde a nessuna stagione della sua rapida esistenza. L'arbitro lievemente insolente delle eleganze romane, l'oratore agli esordi, timidamente curvo sugli esempi di stile, che invocava la mia opinione su qualche brano difficile, l'ufficialetto inquieto che tormentava la sua barba rada, l'infermo divorato dalla tosse che ho vegliato fino all'agonia, sono esistiti molto più tardi. L'immagine di Lucio adolescente si limita a ricordi molto più segreti: un volto, un corpo d'alabastro pallido e rosato, l'equivalente esatto d'un epigramma amoroso di Callimaco, di pochi versi nitidi e nudi di Stratone.
Ma avevo fretta di andar via da Roma. I miei predecessori, fino a quel momento, se ne erano assentati soprattutto per la guerra: i grandi progetti, le attività pacifiche, la mia vita stessa, per me cominciavano fuori di quelle mura.
Restava un ultimo dovere da compiere: tributare a Traiano quel trionfo che era stato l'assillo dei suoi sogni di malato. Il trionfo si addice solo ai morti. Da vivi, c'è sempre qualcuno disposto a rimproverarci le nostre debolezze, come avvenne a Cesare per la calvizie e gli amori. Ma un morto ha diritto a questa specie di inaugurazione nella tomba, a quelle poche ore di pompa clamorosa, prima che sopravvengano i secoli di gloria e i millenni di oblio. La fortuna d'un morto è al sicuro dai rovesci; persino le sue sconfitte acquistano lo splendore delle vittorie. L'ultimo trionfo di Traiano commemorava non un successo più o meno opinabile sui Parti, ma la tenacia onorevole che aveva improntato tutta la sua esistenza. Ci eravamo riuniti per celebrare l'imperatore migliore che Roma avesse conosciuto dopo Augusto, il più assiduo al lavoro, il più onesto, il meno ingiusto. I suoi difetti, persino, erano soltanto quei tratti caratteristici che fanno riconoscere la somiglianza perfetta d'un busto di marmo con il viso ch'esso raffigura. L'anima dell'imperatore saliva al cielo, sollevata dalla spirale immobile della Colonna Traiana. Il mio padre adottivo diventava dio: aveva preso il suo posto nella serie delle incarnazioni guerriere dell'eterno Marte, che vengono a sconvolgere e rinnovare il mondo di secolo in secolo. Al balcone del Palatino, misuravo la mia differenza: io mi disponevo a perseguire finalità più pacate. Cominciavo a sognare una sovranità olimpica.




Roma non è più Roma: dovrà riconoscersi nella metà del mondo o perire. I tetti, le terrazze, gli isolati che il sole al tramonto colora di rosa e d'oro non sono più, come al tempo dei re, timorosamente circondati di mura: queste, le ho ricostruite in gran parte io stesso lungo le foreste della Germania, nelle lande della Britannia.
Tutte le volte che, alla svolta d'una strada assolata, ho levato lo sguardo da lunge su un'acropoli greca, sulla sua città, perfetta come un fiore, unita alla sua collina come il calice allo stelo, ho sentito che quella pianta incomparabile trovava un limite nella sua stessa perfezione, raggiunta in un dato punto dello spazio, in una definita frazione di tempo. Come quella delle piante, l'unica sua possibilità di espandersi consiste nel seme: quel germe di idee mediante le quali la Grecia ha fecondato il mondo. Ma Roma, più opulenta, più informe, adagiata senza contorni netti lungo il suo fiume, nella sua pianura, si disponeva verso sviluppi più vasti: la città è divenuta lo Stato. Avrei voluto che lo Stato si ampliasse ancora, divenisse ordine del mondo, ordine delle cose. Le virtù che erano sufficienti per la piccola città dai sette colli avrebbero dovuto farsi duttili, varie, per adeguarsi a tutta la terra. Roma, che io per primo osai qualificare eterna, si sarebbe assimilata sempre più alle dee madri dei culti dell'Asia: progenitrice di giovinetti e di messi, con leoni e alveari stretti al seno. Ma qualsiasi creazione umana che pretenda all'eternità è costretta a adattarsi al ritmo mutevole dei grandi eventi della natura, conformarsi al mutare degli astri.
La nostra Roma non è ormai più la borgata pastorale dei tempi di Evandro, culla d'un avvenire che in parte è già passato; la Roma predatrice della Repubblica ha già svolto la sua funzione, la folle capitale dei primi Cesari tende già a rinsavire da sé; altre Rome verranno e io non so immaginarne il volto; ma avrò contribuito a formarlo. Quando visitavo le città antiche, città sacre, ma morte, senza alcun valore attuale per la razza umana, mi ripromettevo di evitare alla mia Roma quel destino pietrificato d'una Tebe, d'una Babilonia, d'una Tiro. Roma sarebbe sfuggita al suo corpo di pietra, e come Stato, come cittadinanza, come Repubblica si sarebbe composta un'immortalità più sicura. Nei paesi ancora barbari, in riva al Reno e al Danubio, sulle sponde del Mare dei Batavi, ogni villaggio difeso da una palizzata di legno mi ricordava la capanna di canne, il mucchio di strame dove dormirono i nostri gemelli sazi del latte della lupa: quelle metropoli future riprodurranno Roma. All'entità fisica delle nazioni e delle razze, agli accidenti della geografia e della storia, alle esigenze disparate degli déi e degli avi, noi avremmo sovrapposto per sempre, pur senza nulla distruggere, l'unità d'una condotta umana, l'empirismo d'una saggia esperienza. Nella più piccola città, ovunque vi siano magistrati intenti a verificare i pesi dei mercanti, a spazzare e illuminare le strade, a opporsi all'anarchia, all'incuria, alle ingiustizie, alla paura, a interpretare le leggi al lume della ragione, lì Roma vivrà. Roma non perirà che con l'ultima città degli uomini.
"Humanitas, Felicitas, Libertas": queste belle parole incise sulle monete del mio regno, non le ho inventate io. Qualsiasi filosofo greco, qualsiasi romano colto si propone del mondo la stessa immagine che mi propongo io. Ho sentito Traiano, messo di fronte a una legge ingiusta perché troppo rigorosa, protestare che la sua applicazione non rispondeva più allo spirito dei tempi. Ma, a questo spirito dei tempi, forse sarò stato io il primo a subordinare coscientemente tutte le mie azioni, a farne qualcosa di diverso dai sogni nebulosi del filosofo, dalle aspirazioni vaghe del buon principe. E ringraziavo gli déi per avermi concesso di vivere in un'epoca, in cui il compito che m'era toccato in sorte consisteva nel riorganizzare prudentemente un mondo già vivo, e non nell'estrarre dal caos una materia ancora informe, o nel distendermi su di un cadavere per cercar di risuscitarlo. Mi rallegravo che il nostro passato fosse antico abbastanza per fornirci esempi eccellenti, e non tanto pesante da schiacciarci con essi; che lo sviluppo della nostra tecnica fosse pervenuto al punto da facilitare l'igiene delle città e la prosperità dei popoli, ma non a quell'eccesso in cui rischierebbe di sommergere l'uomo con acquisizioni inutili; che le nostre arti, alberi un poco esausti per la gran copia dei loro doni, fossero ancora capaci di qualche frutto squisito. Mi rallegravo che le nostre religioni vaghe e venerabili, purificate da intransigenze e da riti feroci, ci associassero misteriosamente ai sogni più antichi dell'uomo e della terra, ma senza inibirci una spiegazione «laica» dei fatti, un'intuizione razionale della condotta umana. Mi piaceva infine che queste stesse parole, Umanità, Felicità, Libertà non fossero ancora avvilite da tante applicazioni ridicole.
A ogni sforzo per migliorare la condizione umana si oppone una obbiezione: forse, gli uomini non ne sono degni. Ma mi è facile eluderla: sino a che resterà irrealizzato il sogno di Caligola, e il genere umano tutt'intero non si ridurrà a una sola testa offerta alla scure, ci toccherà tollerarlo, raffrenarlo, volgerlo ai nostri fini; la cosa più vantaggiosa per noi sarà di servirlo. Questo principio si basava su una serie di osservazioni compiute da tempo su me stesso: non c'è mai stata una spiegazione chiara che non mi abbia convinto, un'amabilità che non mi abbia conquistato, una gioia che non m'abbia quasi sempre reso migliore. E ascoltavo a metà i bene intenzionati i quali affermano che la felicità snerva, che la libertà infiacchisce, che la dolcezza vizia coloro sui quali si esercita. Può darsi: ma, se consideriamo come va il mondo, seguire costoro è come rifiutarsi di nutrire a sufficienza un uomo emaciato, per paura che tra qualche anno gli capiti di diventare pletorico. Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell'uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l'amore non corrisposto, l'amicizia respinta o tradita, la mediocrità d'una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l'ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo. Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l'inerzia dei giudici. Le leggi più antiche non sono esenti da quella selvatichezza che miravano a correggere, le più venerabili rimangono ancora un prodotto della forza. La maggior parte delle nostre leggi penali - e forse è un bene - non raggiungono che un'esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da adattarsi all'immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi; pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli. E tuttavia, da questo cumulo di innovazioni pericolose e di consuetudini antiquate emerge qua e là, come in medicina, qualche formula utile. I filosofi greci ci hanno insegnato a conoscere un po' meglio la natura umana; i nostri migliori giuristi da qualche generazione rivolgono le loro cure nella direzione del senso comune. Ho posto in atto anch'io talune di quelle riforme parziali che sono le sole durevoli. Ogni legge trasgredita troppo spesso è cattiva; spetta al legislatore abrogarla o emendarla, per impedire che il dispregio in cui è caduta quella stolta ordinanza si estenda ad altre leggi più giuste. Mi proposi d'eliminare cautamente le leggi superflue e di promulgare con fermezza un piccolo numero di saggi decreti. Sembrava giunta l'ora di riesaminare, nell'interesse dell'umanità, tutte le prescrizioni antiche.
In Spagna, nei dintorni di Tarragona, un giorno in cui visitavo da solo una miniera semiabbandonata, uno schiavo, la cui intera esistenza era trascorsa in quelle gallerie sotterranee, si scagliò su di me con un pugnale. Non mancava di logica se cercava di vendicarsi sull'imperatore dei suoi quarantatré anni di servaggio. Lo disarmai senza fatica, lo consegnai al mio medico, e il furore cadde di colpo: egli si trasformò in quel ch'era veramente, un essere non meno sensato e più fedele di molti altri. La legge, se crudelmente applicata, avrebbe fatto giustizia immediatamente, di quello sciagurato; e invece, egli divenne per me un servo eccellente. La maggior parte degli uomini somiglia a quello schiavo: troppo sottomessi, interrompono lunghi periodi di torpore con rivolte brutali quanto inutili. Volevo sperimentare se la libertà, saggiamente intesa, non avrebbe dato migliori frutti, e mi stupisco che un'esperienza simile non abbia tentato un maggior numero di principi. Quel barbaro condannato a lavorare nelle miniere divenne per me l'emblema di tutti i nostri schiavi, di tutti i nostri barbari. Non mi sembrava impossibile trattarli come avevo trattato quell'uomo, renderli inoffensivi a forza di bontà, purché sapessero anzitutto che la mano che li disarmava era ferma. Fino a oggi, tutti i popoli sono periti per mancanza di generosità: Sparta sarebbe sopravvissuta più a lungo se avesse interessato gli Iloti alla sua sopravvivenza. Viene il giorno che Atlante cessa di sostenere il peso del cielo e la sua rivolta squassa la terra. Avrei voluto allontanare il più possibile, evitarlo, se si poteva, il momento in cui i barbari dall'esterno, gli schiavi dall'interno si sarebbero avventati su un mondo che si pretende essi rispettino da lontano o servano dal basso, ma i cui benefici sono a loro interdetti. Tenevo a che la più diseredata delle creature, lo schiavo che sgombra le cloache delle città, il barbaro famelico che si aggira minaccioso alle frontiere, avessero interesse a veder durare Roma.
Non credo che alcun sistema filosofico riuscirà mai a sopprimere la schiavitù: tutt'al più, ne muterà il nome. Si possono immaginare forme di schiavitù peggiori delle nostre, perché più insidiose: sia che si riesca a trasformare gli uomini in macchine stupide e appagate, che si credono libere mentre sono asservite, sia che si imprima in loro una passione forsennata per il lavoro, divorante quanto quella della guerra presso le razze barbare, tale da escludere gli svaghi, i piaceri umani. A questa schiavitù dello spirito o dell'immaginazione umana, preferisco ancora la nostra schiavitù di fatto. Qualunque cosa avvenga, la condizione orribile che mette l'uomo alla mercé d'un altro uomo esige un'attenta regolamentazione giuridica. Ho provveduto affinché lo schiavo non sia più una mercanzia anonima che si vende senza tener conto dei legami di famiglia che si è creati, un oggetto spregevole la cui testimonianza non viene accolta dal giudice se non dopo averlo sottoposto alla tortura, invece di accettarla sotto giuramento. Ho proibito che lo si obbligasse a mestieri disonoranti o rischiosi, che lo si vendesse ai tenutari di postriboli o alle scuole per gladiatori. Coloro che si compiacciono di queste professioni, le esercitino pure: le eserciteranno meglio. Nelle fattorie, dove gli amministratori abusano delle sue forze, spesso ho rimpiazzato lo schiavo con coloni liberi. Le nostre raccolte di aneddoti rigurgitano di storie di crapuloni che gettano i domestici alle murene, ma i crimini scandalosi, facilmente punibili, son poca cosa di fronte alle mille e mille angherie oscure, perpetrate ogni giorno da persone cosiddette perbene, ma dal cuore arido, che nessuno si sogna di molestare. Si è protestato quando bandii da Roma una patrizia, facoltosa e stimata, perché maltrattava i suoi vecchi schiavi: qualsiasi ingrato che trascura i genitori infermi scuote di più la coscienza pubblica, ma io non vedo molta differenza tra queste due forme di crudeltà inumana.
La condizione della donna è determinata da strani costumi: esse sono sottoposte e protette allo tempo stesso, deboli e potenti, troppo disprezzate e troppo rispettate. In questo caos di usanze contraddittorie, i rapporti sociali si sovrappongono a quelli di natura: anzi, non è facile distinguerli. Questo stato di cose confuso è ovunque più stabile di quel che non sembri: in generale, le donne vogliono essere quel che sono, resistono ai cambiamenti o li volgono esclusivamente ai propri fini. La libertà delle donne di oggigiorno, più grande o almeno più apparente che ai tempi antichi, in fondo non è altro che uno degli aspetti della maggiore facilità della vita propria delle epoche prospere; i principi, e anche i pregiudizi d'altri tempi, in realtà non sono stati seriamente intaccati. Gli elogi tributati in sede ufficiale e le iscrizioni tombali, sincere o no, continuano ad attribuire alle nostre matrone quelle stesse virtù di operosità, di castità, di austerità che si esigevano da loro sotto la Repubblica. Le modifiche, vere o presunte, non hanno apportato il minimo cambiamento nell'eterna sregolatezza del popolo, o nella perpetua affettazione di pudore della borghesia; solo il tempo proverà se sono durature. La debolezza delle donne, come quella degli schiavi, dipende dalla loro condizione legale; la loro forza si prende la rivincita nelle piccole cose, e qui il potere che esercitano è quasi illimitato. Di rado ho visto una casa dove le donne non regnassero; spesso, vi ho visto regnare anche l'amministratore, il cuoco, il liberto. Sul terreno finanziario, esse restano sottoposte a una forma qualsiasi di tutela, ma, in pratica, in qualsiasi bottega della Suburra di solito è la pollivendola o l'erbivendola che fa da padrona, al banco. La moglie di Attiano amministrava i beni della famiglia come un eccellente uomo d'affari. Le leggi dovrebbero differire il meno possibile dalle usanze: ho accordato alla donna una maggior libertà di amministrare la propria fortuna, di far testamento o di ereditare. Ho insistito affinché nessuna fanciulla sia data in moglie senza il suo consenso: lo stupro legale è ripugnante quanto qualsiasi altro. Il matrimonio è la faccenda dominante, per loro; è troppo giusto che lo concludano solo se è di loro pieno piacimento.
Una parte dei nostri mali dipende dal fatto che troppi uomini sono oltraggiosamente ricchi, o disperatamente poveri. Per fortuna, ai nostri giorni tende a stabilirsi un equilibrio tra questi due estremi: le fortune colossali degli imperatori e dei liberti son cose del passato: sono morti Trimalaone e Nerone. Ma c'è ancora molto da fare per ridimensionare il mondo secondo criteri razionali. Assumendo il potere, ho rinunciato alle contribuzioni volontarie offerte dalle città all'imperatore; non sono che un furto mascherato. Ti consiglio di rinunciarvi a tua volta. Cancellare del tutto i debiti dei privati verso lo Stato era una misura più ardita, ma fu necessaria, per far "tabula rasa" dopo dieci anni di economia di guerra. Da un secolo in qua, la nostra moneta si è pericolosamente svalutata: tuttavia l'eternità di Roma viene valutata al tasso delle nostre monete d'oro; spetta a noi reintegrare il loro valore e il loro peso, solidamente misurati in beni. Le nostre terre sono coltivate a caso: solo qualche distretto privilegiato, l'Egitto, l'Africa, la Toscana e pochi altri, hanno saputo crearsi comunità contadine sapientemente addestrate alla cultura del grano e dei vigneti. Sostenere questa classe, trarne istruttori per le popolazioni contadine più primitive o più consuetudinarie, meno capaci, è stata una delle mie cure. Ho messo fine allo scandalo delle terre lasciate incolte dai grandi proprietari poco solleciti del bene pubblico: d'ora in avanti, ogni campo non coltivato da cinque anni apparterrà all'agricoltore che s'incaricherà di trarne buon partito.
Pressappoco lo stesso avviene per le miniere. La maggior parte dei ricchi offre donazioni ingenti allo Stato, alle istituzioni pubbliche, al sovrano; molti lo fanno per interesse, alcuni per virtù, quasi tutti, per profittarne. Ma io avrei voluto che la loro generosità prendesse forme diverse da quella della beneficenza ostentata; avrei voluto insegnare loro a incrementare saggiamente i loro beni nell'interesse della comunità, come fino a oggi hanno fatto solo al fine di arricchire i loro figli. Io stesso ho preso in mano la gestione del patrimonio imperiale con questo proposito: nessuno ha diritto di trattare la terra come l'avaro il suo gruzzolo d'oro.
I nostri mercanti, a volte, sono i nostri migliori geografi, i nostri migliori astronomi, i naturalisti più sapienti. Tra i nostri banchieri, vi sono i più abili conoscitori d'uomini. Ho utilizzato le competenze, ho lottato con tutte le mie forze contro gli usurpatori. L'appoggio prestato agli armatori ha moltiplicato i nostri scambi con le nazioni straniere; così, con poca spesa, sono riuscito a rafforzare la costosa flotta imperiale: l'Italia è un'isola, riguardo alle importazioni dall'Oriente e dall'Africa, e rimane alla mercè dei mediatori di grano per la propria sussistenza, dato che non vi sopperisce più da sola; l'unico mezzo per ovviare ai pericoli di questa situazione è di trattare alla stregua di funzionari strettamente sorvegliati questi indispensabili uomini d'affari. Negli ultimi anni, le nostre vecchie province son salite a un livello di prosperità che non è forse impossibile incrementare ancora; ma l'importante è che questa prosperità serva a tutti, e non solamente alla banca di Erode Attico o al piccolo speculatore che incetta l'olio d'un villaggio greco. Una legge non sarà mai abbastanza dura, se consente di ridurre il numero di intermediari che formicolano nelle nostre città: razza oscena e avida, che sussurra in tutte le taverne, affolla tutti i banchi di mescita, pronta a sabotare qualsiasi politica che non le frutti un profitto immediato. Una ripartizione oculata dei granai dello Stato contribuisce a frenare l'inflazione scandalosa dei prezzi, che si verifica in tempi di scarsità; ma io contavo soprattutto sull'organizzazione dei produttori, dei vignaioli di Gallia, dei pescatori del Ponto Eusino, il cui compenso vilissimo vien divorato dagli importatori di caviale e di pesce salato che prosperano sul loro lavoro e sui loro rischi. Il giorno in cui riuscii a persuadere un gruppo di marinai dell'Arcipelago ad associarsi in corporazione e a trattare direttamente con i rivenditori delle città fui davvero contento. Mai ho sentito di più l'utilità del mio principato.
Troppo spesso, per l'esercito la pace non è che un periodo di disoccupazione turbolenta tra due battaglie: l'alternativa all'inazione o al disordine è la preparazione, in vista d'una guerra determinata; poi la guerra. Ho rotto con queste consuetudini: le mie visite insistenti agli avamposti non erano che un mezzo tra tanti per tenere in una sana attività quell'esercito pacifico. Dappertutto, in pianura, tra i monti, al limitare delle foreste, in pieno deserto, la legione estende o concentra le sue costruzioni, sempre le stesse; crea i campi per le manovre, i baraccamenti destinati, a Colonia, a resistere alla neve, a Lambesia, a fronteggiare le tempeste di sabbia; i magazzini - dei quali avevo fatto vendere il materiale inutile, il circolo degli ufficiali, al quale presiede una statua del principe. Ma questa uniformità è solo apparente: questi alloggiamenti interscambiabili contengono la folla delle truppe ausiliarie, diversa ogni volta; tutte le razze apportano all'esercito le loro virtù, le loro armi particolari, la loro specie di fanti, di cavalieri, di arcieri. Vi ritrovavo, allo stato bruto, quella varietà nell'unità che fu il mio fine imperiale. Ho permesso ai soldati di usare il loro grido di guerra nazionale, di impartire e ricevere ordini nelle loro lingue; ho sanzionato le unioni dei veterani con donne barbare, ho legittimato i loro figli. Ho fatto di tutto anche per attenuare la durezza della vita al campo, per trattare quegli uomini semplici da uomini. A rischio di renderli meno mobili volli che si affezionassero a quell'angolo di terra che erano destinati a difendere; non esitai a «regionalizzare» l'esercito. Speravo di ristabilire, su scala imperiale, l'equivalente delle milizie della giovane Repubblica, quando ogni uomo difendeva il suo campo, la sua fattoria. Ho inteso, soprattutto, sviluppare l'efficienza tecnica delle legioni; volevo servirmi di quei centri militari come d'una molla di civilizzazione, d'un cuneo tanto solido da penetrare a poco a poco là dove gli strumenti più delicati della vita civile si sarebbero spuntati. L'esercito diveniva così un tramite tra le popolazioni delle selve, delle steppe, delle paludi, e i raffinati abitatori delle città; una scuola elementare per barbari, scuola di resistenza e di responsabilità per il greco letterato, o per il giovane cavaliere avvezzo agli agi di Roma. Conoscevo di persona gli aspetti penosi di quella vita, nonché le sue facilitazioni, i suoi sotterfugi. Abolii i privilegi; interdissi i congedi troppo frequenti accordati agli ufficiali; feci sbarazzare gli accampamenti delle sale di banchetti, dei padiglioni di piacere, dei costosissimi giardini. Quegli edifici inutili divennero infermerie, ospizi per i veterani. Noi reclutavamo i nostri soldati in età troppo acerba, e li trattenevamo in servizio per troppi anni; e questo era allo stesso tempo antieconomico e crudele. Ho cambiato tutto ciò. La Disciplina Augusta deve a se stessa di partecipare all'umanità del mio secolo.
Noi siamo funzionari dello Stato, non siamo Cesari. Aveva ragione quella postulante, che m'ero rifiutato un giorno di ascoltare fino alla fine, quando esclamò che se mi mancava il tempo per darle retta, mi mancava il tempo per regnare. Le scuse che le feci non erano solo formali. E, tuttavia, il tempo mi manca: più l'impero si estende, più i vari aspetti dell'autorità tendono a concentrarsi nelle mani del funzionario in capo; quest'uomo oberato necessariamente deve scaricare su altre persone una parte dei suoi compiti; il suo genio consisterà sempre più nel circondarsi di gente fidata. Il peggior crimine di Claudio e di Nerone fu di lasciare pigramente che i loro liberti o i loro schiavi s'impadronissero di queste funzioni di agenti, consiglieri, delegati del capo supremo. Ho trascorso una parte della mia vita e dei miei viaggi a scegliere i capi d'una burocrazia nuova, a esercitarli, e adeguare con il maggior fiuto possibile le capacità alle mansioni; a creare utili possibilità d'impiego per questa classe media dalla quale dipende lo Stato. Il pericolo che si cela in questi eserciti civili non mi sfugge; lo si può definire in una parola: la mentalità burocratica. Questi ingranaggi, destinati a durare per secoli, si guasteranno se non vi si bada: spetta al padrone regolarne i movimenti, senza posa, prevederne, o ripararne l'usura. Ma l'esperienza dimostra che, a onta della cura estrema che poniamo nella scelta dei successori gli imperatori mediocri saranno sempre i più frequenti, e che per ogni secolo c'è almeno un insensato sul trono. In tempi di crisi, questa burocrazia perfettamente organizzata potrà seguitare a sbrigare l'essenziale e colmare l'interregno, a volte molto lungo, tra un principe saggio e un altro. Certi imperatori si trascinano dietro cortei di barbari in catene, processioni interminabili di vinti. Ben altro è il mio seguito: è l'eletta schiera di funzionari che ho inteso formare. Il Consiglio del principe; grazie a coloro che lo compongono, ho potuto assentarmi da Roma per anni, e tornarvi solo di passaggio. Corrispondevo con i membri del Consiglio attraverso i corrieri più rapidi; in caso di pericolo, mediante i segnali dei semafori. Essi, a loro volta, hanno formato altri ausiliari egregi: la loro competenza è opera mia, la loro attività ben regolata m'ha permesso di impiegare me stesso altrove, e mi consentirà senza eccessive inquietudini di assentarmi nella morte.
Su venti anni di potere, dodici li ho trascorsi senza fissa dimora. Ho abitato di volta in volta i palazzi dei mercanti in Asia, le oneste case greche, le belle ville munite di bagni e stufe dei residenti romani in Gallia, i tuguri, le fattorie. La tenda, quella leggera architettura di tela e di corde, era ancora l'abitazione che preferivo. Non meno varie le navi delle abitazioni; ebbi la mia, provvista di un ginnasio e d'una biblioteca, ma diffidavo troppo di qualsiasi forma di stabilità per legarmi a una dimora, anche se mobile: la barca di piacere d'un ricco siriano, i vascelli d'alto bordo della nostra flotta o il caicco d'un pescatore greco andavano per me egualmente bene. L'unica mia esigenza era la velocità e tutto ciò che la seconda: i cavalli migliori, le vetture più molleggiate, i bagagli meno ingombranti, gli abiti, le suppellettili più adatte al clima. Ma la grande risorsa era, innanzi tutto, lo stato perfetto del corpo: una marcia forzata di venti leghe non era niente; una notte insonne la consideravo null'altro che un invito a pensare. Sono pochi gli uomini che amano viaggiare a lungo; è una frattura continua di tutte le abitudini, una smentita inflitta incessantemente a tutti i pregiudizi. Ma io facevo di tutto per non aver alcun pregiudizio, e pochissime abitudini. Apprezzavo la delizia d'un letto soffice, ma anche il contatto, l'odore stesso della terra nuda, le disuguaglianze di ogni segmento della circonferenza del mondo. Ero avvezzo alla varietà degli alimenti, all'orzo britannico e ai frutti africani. Un giorno, mi capitò di assaggiare perfino la selvaggina semiputrefatta, considerata una ghiottoneria presso certe tribù germaniche: la rigettai, ma l'esperienza fu tentata.
Benché nettamente deciso nelle mie preferenze in amore, persino lì paventavo la consuetudine. Il mio seguito, che si limitava a persone indispensabili o squisite, mi isolava ben poco dal resto del mondo; vigilai che i miei movimenti restassero liberi, facile l'accesso alla mia persona. Le province, quelle grandi unità ufficiali alle quali io stesso avevo scelto gli emblemi, la Britannia sul suo seggio di rocce, la Dacia con la sua scimitarra, si trasformavano per me nelle foreste di cui avevo cercato l'ombra, nei pozzi ai quali avevo bevuto, negli individui incontrati nelle soste, visi noti, a volte amati. Mi era noto ogni miglio delle nostre strade, forse sono il più bel dono che Roma abbia fatto alla terra. Ma il momento indimenticabile era quello in cui la strada cessava, sul fianco d'una montagna, e di crepaccio in crepaccio, di roccia in roccia, ci s'inerpicava per assistere all'aurora dall'alto d'una cima dei Pirenei o delle Alpi.
Già altri uomini prima di me avevano percorso la terra: Pitagora, Platone, una dozzina di saggi, e un buon numero di avventurieri. Per la prima volta, però, quel viaggiatore era al tempo stesso il padrone, libero al tempo stesso di vedere e di riformare, libero di creare. Era la mia sorte; e mi rendevo conto che forse sarebbero trascorsi secoli prima che si ristabilisse quel felice accordo di una funzione, d'un temperamento, d'un mondo. E mi accorsi quanto sia vantaggioso essere un uomo nuovo, solo, quasi esente da vincoli matrimoniali, senza figli, quasi senza avi, un Ulisse senz'altra Itaca che quella interiore. Conviene che io faccia qui una confessione che non ho fatto a nessuno: non ho mai avuto la sensazione di appartenere completamente a nessun luogo, neppure alla mia dilettissima Atene, neppure a Roma. Straniero dappertutto, non mi sentivo particolarmente isolato in nessun luogo. Cammin facendo, esercitavo le diverse professioni di cui si compone il mestiere di imperatore: indossavo la vita militare come un vestito che è diventato comodo a furia d'esser portato. Senza sforzo, ritrovavo tra le mie labbra il gergo degli accampamenti, quel latino deformato dall'incalzare delle lingue barbare, punteggiato di bestemmie rituali e di facezie scontate; mi riabituavo all'equipaggiamento ingombrante delle manovre, a quella tensione d'equilibrio che imprime su tutto il corpo il carico dello scudo massiccio al braccio sinistro. Il tedioso mestiere di contabile mi teneva, dovunque, ancor più legato, sia che si trattasse di verificare i conti delle province d'Asia o quelli d'una piccola borgata britannica indebitata per la costruzione d'uno stabilimento termale. Del mestiere di giudice ho già parlato. Mi si affacciavano alla mente analogie con altre attività: pensavo al medico ambulante che visita le persone di porta in porta, all'operaio chiamato a riparare un argine o rinsaldare una conduttura d'acqua, al sorvegliante che percorre avanti e indietro il ponte della nave, incitando i rematori, ma servendosi il meno possibile della sferza. E oggi, sulle terrazze della Villa, mentre osservo gli schiavi potare i rami o sfrondare le siepi, penso soprattutto all'onesto andirivieni del giardiniere.
Gli artigiani che conducevo con me nelle ispezioni di rado mi procurarono grattacapi: la loro passione per i viaggi era pari alla mia. Ma con gli uomini di lettere ebbi qualche difficoltà. L'insostituibile Flegone, ad esempio, ha i difetti d'una vecchia zitella, ma è il solo segretario che abbia resistito: è tuttora con me. Il poeta Floro, al quale offrii un segretariato in lingua latina, è andato a proclamare ai quattro venti che non avrebbe mai voluto essere Cesare, se doveva sopportare i freddi sciti e le piogge bretoni. Le lunghe marce non lo attiravano affatto. Da parte mia, gli lasciavo ben volentieri le delizie dei cenacoli letterari romani, le taverne dove ci s'incontra per scambiarsi ogni sera le stesse arguzie e farsi punzecchiare fraternamente dalle stesse viete battute. Avevo affidato a Svetonio l'incarico di curatore degli archivi, che gli consentì di accedere a quei documenti segreti che gli bisognavano per le sue biografie dei Cesari. Quest'uomo abile, giustamente detto Tranquillo, era fuori di luogo dovunque, meno che in una biblioteca; rimase così a Roma, e divenne uno dei familiari di mia moglie, in quella cerchia ristretta di conservatori malcontenti che si riunivano da lei per criticare un po' tutti. Quel gruppo non mi andava a genio: mandai in pensione Tranquillo, il quale si ritirò nella sua casetta sui monti Sabini a pensare in tutta pace ai vizi di Tiberio. Favorino D'Arles resse per qualche tempo un segretariato greco: quel nano dalla voce flautata non era sprovvisto di acume. E' uno spirito d'una doppiezza come ne ho incontrati pochi: si discuteva, ma la sua erudizione m'incantava. Mi divertivano le sue manie, come quella di occuparsi della sua salute come un amante della donna amata. Un servo indù gli preparava il riso che faceva venire dall'Oriente con forte spesa; disgraziatamente, questo cuoco esotico parlava il greco malissimo, e quasi nessun'altra lingua; non m'insegnò nulla sulle meraviglie del suo paese natale. Favorino si vantava d'aver compiuto nella vita tre cose piuttosto rare: da Gallo, s'era ellenizzato meglio di chiunque; uomo di umili origini, poteva bisticciarsi continuamente con l'imperatore, e non ne riportava alcun danno - singolarità, questa, che però tornava tutta a mio onore -; infine, benché impotente, pagava continue ammende per adulterio. Ed è proprio vero che le sue ammiratrici di provincia gli procurarono dei guai, dai quali mi toccò tirarlo fuori più d'una volta. Mi stancai di lui, e il suo posto fu preso da Eudemone. Ma, nell'insieme, sono stato eccezionalmente ben servito. Il rispetto di questo piccolo gruppo di amici e di subalterni s'è conservato intatto, Dio sa come, a onta dell'intimità brutale dei viaggi; la loro discrezione è stata, se possibile, ancor più sorprendente della loro fedeltà. Gli Svetoni dell'avvenire avranno ben pochi aneddoti da raccontare sul mio conto: quel che il pubblico conosce della mia vita, l'ho rivelato io stesso. I miei amici hanno serbato i miei segreti, sia quelli politici, sia gli altri; è giusto dire che spesso ho fatto altrettanto nei loro riguardi.
Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa delle città. Quanta cura, per escogitare la collocazione esatta d'un ponte e d'una fontana, per dare a una strada di montagna la curva più economica che è al tempo stesso la più pura!... L'ampliamento della strada di Megara trasformava il paesaggio delle rocce schironiane; quelle duecento miglia di via lastricata, dotate di cisterne e di guarnigioni, che uniscono Antinoa al Mar Rosso, hanno creato nel deserto l'era della sicurezza dopo quella del pericolo. Il reddito di cinquecento città asiatiche non era di troppo per costruire una rete d'acquedotti nella Troade; l'acquedotto di Cartagine compensava, in certo modo, le asprezze delle guerre puniche. Elevare fortificazioni in fin dei conti equivale a costruire dighe: equivale a trovare la linea sulla quale si può difendere una sponda o un impero, il punto dove sarà contenuto, arrestato, infranto, l'assalto delle onde o quello dei barbari. Costruire un porto, significa fecondare la bellezza d'un golfo. Fondare biblioteche, è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire.
Ho ricostruito molto: e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di «passato», coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti. La nostra vita è breve: parliamo continuamente dei secoli che han preceduto il nostro o di quelli che lo seguiranno, come se ci fossero totalmente estranei; li sfioravo, tuttavia, nei miei giochi di pietra: le mura che faccio puntellare sono ancora calde del contatto di corpi scomparsi; mani che non esistono ancora carezzeranno i fusti di queste colonne. Più ho meditato sulla mia morte, e specialmente su quella d'un altro, più ho cercato di aggiungere alle nostre esistenze queste appendici quasi indistruttibili. A Roma, ho adottato, di preferenza, il mattone eterno, che assai lentamente torna alla terra donde deriva, e il cui cedimento, lo sbriciolamento impercettibile avviene in tal guisa che l'edificio resta una mole, anche quando ha cessato d'essere una fortezza, un circo, una tomba. In Grecia e in Asia, ho adoperato il marmo natio, la bella sostanza che, una volta tagliata, resta fedele alla misura umana, tanto che la pianta del tempio intero resta contenuta in ogni frammento di tamburo spezzato. L'architettura è ricca di possibilità più varie di quel che non farebbero supporre i quattro ordini di Vitruvio; i blocchi, come i toni musicali, sono suscettibili d'infinite variazioni. Per il Pantheon, sono risalito ai monumenti dell'antica Etruria degli indovini e degli aruspici; il santuario di Venere, al contrario, innalza al sole forme joniche, una profusione di colonne bianche o rosate, attorno alla dea di carne da cui discende la progenie di Cesare. L'Olympieion di Atene non poteva non rappresentare il contrappeso esatto del Partenone adagiato nella pianura come l'altro si erge sulla collina, immenso dove l'altro è perfetto: l'ardore ai piedi della calma, lo splendore ai piedi della bellezza. Le cappelle di Antinoo, i suoi templi, stanze magiche, monumenti d'un misterioso passaggio tra la vita e la morte, oratori d'un dolore e d'una felicità indicibili, erano il luogo della preghiera e della riapparizione: lì mi abbandonai al mio lutto. La mia tomba in riva al Tevere riproduce, su scala gigantesca, gli antichi sepolcri della via Appia, ma le sue stesse proporzioni la trasformano, fanno pensare a Ctesifone, a Babilonia, alle terrazze e alle torri attraverso le quali l'uomo si avvicina agli astri. L'Egitto funerario ha disposto gli obelischi, i viali di sfinge del cenotafio che impone a una Roma vagamente ostile la memoria dell'amico mai pianto abbastanza. La Villa era la tomba dei viaggi, l'ultimo accampamento del nomade, l'equivalente, in marmo, delle tende da campo e dei padiglioni dei principi asiatici. Quasi tutto ciò che il nostro gusto consente di tentare, già lo fu nel mondo delle forme: io volli provare quello del colore: il diaspro, verde come i fondi marini, il porfido poroso come le carni, il basalto, l'ossidiana opaca... Il rosso denso dei tendaggi si ornava di ricami sempre più raffinati; i mosaici delle mura e degli impiantiti non erano mai abbastanza dorati, bianchi, o cupi a sufficienza. Ogni pietra rappresentava il singolare conglomerato d'una volontà, d'una memoria, a volte d'una sfida. Ogni edificio sorgeva sulla pianta d'un sogno.
Plotinopoli, Andrinopoli, Antinopoli, Adrianotera... Ho moltiplicato quanto più possibile questi alveari umani. Idraulici e muratori, ingegneri e architetti presiedono alla fondazione di nuove città; ma è una funzione che esige altresì alcune doti di stregoneria. In un mondo ancor dominato, più che per metà, dalle selve, dal deserto, dalla terra incolta, è bello lo spettacolo d'una via lastricata, d'un tempio dedicato a un dio qualsiasi, di bagni e latrine pubblici, della bottega dove il barbiere commenta con i suoi clienti le notizie di Roma, il banco del pasticcere o del sandalaio, fors'anche una libreria, un'insegna di medico, un teatro nel quale di tanto in tanto si recita una commedia di Terenzio. Vi sono raffinati, tra noi, che si lamentano dell'uniformità delle nostre città: soffrono di trovar dappertutto le stesse statue d'imperatori, lo stesso acquedotto. Hanno torto: la bellezza di Nìmes è diversa da quella di Arles. Ma questa stessa uniformità, su tre continenti, appaga i viaggiatori come quella d'una pietra miliare; persino le più insignificanti, tra le nostre città, godono del prestigio rassicurante d'essere un posto di ristoro, una guarnigione o un rifugio. La città: uno schema, una costruzione umana, monotona se si vuole, ma così come sono monotone le arnie colme di miele; un luogo di contatti e di scambi, dove i contadini vanno a vendere i loro prodotti o si attardano stupefatti a contemplare le pitture d'un porticato... Le mie città nascono da incontri: il mio con un angolo della terra, quello dei miei piani imperiali con gli incidenti della mia esistenza d'uomo... Plotinopoli è nata dal bisogno di stabilire nuove banche agricole in Tracia, ma altresì dall'affettuoso desiderio di onorare Plotina. Adrianotera è destinata a servire d'emporio agli stranieri dell'Asia Minore: sulle prime, fu per me il ritiro estivo, la foresta ricca di selvaggina, un padiglione di tronchi squadrati ai piedi della collina di Attys, il torrente coronato di spuma nel quale ci si bagna ogni mattina. Adrianopoli, in Epiro, riapre un centro urbano nel mezzo d'una provincia impoverita, e nasce da una mia visita al santuario di Dodona. Andrinopoli, città agreste e militare, centro nevralgico ai margini delle regioni barbare, è popolata di veterani delle guerre sarmate; conosco personalmente ciascuno di quegli uomini, il lato buono e il lato cattivo, i nomi, il numero degli anni di servizio, le loro ferite. Antinopoli, la più cara, sorta nel luogo della sventura, è serrata tra il fiume e la roccia su una fascia angusta di terreno arido. Ecco perché tenevo ad arricchirla con altre risorse: il commercio dell'India, i trasporti fluviali, le attrattive raffinate d'una metropoli greca. Non c'è luogo sulla terra che io desideri meno di rivedere; pochi a cui abbia consacrato maggiori premure. Quella città è un perpetuo peristilio. Sono in corrispondenza con il suo governatore, Fido Aquila, a proposito dei propilei del tempio, delle sue statue; ho scelto i nomi dei raggruppamenti urbani e dei rioni, simboli palesi e segreti, catalogo completo dei miei ricordi. Ho tracciato io stesso il disegno dei colonnati che, lungo le rive, corrispondono allo sfilare regolare delle palme. Ho percorso mille volte nel pensiero quel quadrilatero quasi perfetto, percorso da strade regolari, tagliato da un viale trionfale che va da un teatro greco a un sepolcro.
Siamo ingombri di statue, rimpinzati di capolavori della pittura e della scultura; ma questa abbondanza è illusoria; non facciamo che riprodurre all'infinito poche decine di capolavori che non saremmo più in grado di inventare. Io stesso, ho fatto copiare per la mia Villa l'Ermafrodito e il Centauro, la Niobide e la Venere, ansioso di vivere il più possibile tra queste melodie della forma. Ho secondato le esperienze con il passato, l'arcaismo sapiente che ritrova il senso di intenzioni e tecniche perdute. Ho tentato le variazioni che consistono nel riprodurre in marmo rosso un Marsia scorticato di marmo bianco e trasferirlo così nel mondo delle figure dipinte; o trasporre nei toni del marmo pario la grana nera delle statue egizie, e mutare l'idolo in fantasma. La nostra arte è perfetta, cioè a dire raffinata, ma la sua perfezione è suscettibile di modulazioni varie quanto quelle d'una voce pura: dipende da noi questo gioco abile, che consiste nell'accostarsi e nell'allontanarsi perpetuamente da soluzioni trovate una volta per tutte, di spingerci sino al fondo del rigorismo o della ridondanza, e racchiudere un numero sconfinato di creazioni entro la stessa sfera. I mille termini di paragone alle nostre spalle tornano tutti a nostro vantaggio, ci consentono di continuare intelligentemente Scopas o contraddire voluttuosamente Prassitele. I miei contatti con le arti barbare mi hanno indotto a ritenere che ogni razza si limita a determinati soggetti, a determinate esperienze tra tutte quelle possibili; ogni epoca, per di più, opera una cernita tra le possibilità offerte a ogni razza. In Egitto, ho visto déi e re colossali; al polso dei prigionieri sarmati, ho trovato bracciali che ripetono all'infinito lo stesso cavallo al galoppo o gli stessi serpenti che si divorano l'un l'altro. Ma la nostra arte (quella dei Greci, voglio dire) ha preferito attenersi all'uomo. Noi soli abbiamo saputo mostrare in un corpo immobile la forza e l'agilità ch'esso cela; noi soli abbiamo fatto d'una fronte levigata l'equivalente d'un pensiero. Io sono come i nostri scultori: l'umano mi appaga. Vi trovo tutto, persino l'eternità. La foresta tanto amata si racchiude tutta nell'immagine del centauro; mai la tempesta soffia più impetuosa che nel velo gonfio d'una déa marina. Gli oggetti della natura, gli emblemi sacri, valgono solo se pregni di riferimenti umani: la pigna fallica e funerea, la vasca circondata di colombe che suggerisce la siesta in riva alle fonti, il grifone che trasporta in cielo il nostro diletto.
L'arte del ritratto m'interessava ben poco. I ritratti romani non hanno altro valore che quello della cronaca: copie del vero, contrassegnate da rughe esatte, o da verruche uniche, calchi di modelli che sfioriamo distrattamente per via e che dimentichiamo non appena scompaiono dalla nostra vista. I Greci, al contrario, hanno amato la perfezione umana al punto da curarsi ben poco della varietà dei volti umani. Non gettavo più d'uno sguardo alla mia propria immagine; il marmo candido snatura il mio volto abbronzato, dagli occhi bene aperti, la bocca sottile e carnosa, controllata sino a tremare. Ma il volto d'un altro mi ha sempre interessato molto di più. Non appena egli cominciò a contare nella mia vita, l'arte ha smesso d'esser un lusso, è diventata una risorsa, una forma di soccorso. Ho imposto al mondo questa immagine: oggi, esistono più copie dei ritratti di quel fanciullo che non di qualsiasi uomo illustre, di qualsiasi regina. Sulle prime, mi stava a cuore far registrare dalle statue la bellezza successiva d'una forma nel suo mutare; in seguito, l'arte divenne una specie di magia, capace di evocare un volto perduto. Le immagini colossali mi sembravano un mezzo per esprimere le vere proporzioni che l'amore conferisce agli esseri; queste immagini, le volevo enormi come un volto visto da vicino, alte e solenni come le visioni degli incubi, pesanti come il ricordo che mi perseguita. Esigevo una finitezza perfetta, una perfezione assoluta, quella divinità che rappresenta per coloro che lo hanno amato ogni essere morto a vent'anni; e, oltre la somiglianza esatta, volevo la presenza familiare, tutte le irregolarità d'un viso più caro della bellezza stessa. Quante controversie per stabilire l'esatto spessore d'un sopracciglio, la curva lievemente tumefatta d'un labbro! Contavo disperatamente sull'eternità della pietra, sulla fedeltà del bronzo, per perpetuare un corpo perituro o già distrutto, ma insistevo anche perché il marmo, a cui facevo dare ogni giorno una politura d'olio e di acidi, assumesse la lucentezza, quasi la morbidezza delle carni adolescenti. Quel viso unico, lo ritrovavo dappertutto: amalgamavo le persone divine, i sessi e gli attributi eterni, la dura Diana delle foreste al Bacco malinconico, l'Ermes vigoroso delle palestre al dio duplice che dorme, la testa reclinata sul braccio, con l'abbandono d'un fiore. Constatavo sino a che punto un giovinetto che pensa somiglia alla virile Atena. I miei scultori vi si smarrivano; i più mediocri cadevano qua e là nella mollezza o nell'enfasi; tuttavia, tutti, più o meno, hanno partecipato al mio sogno.
Vi sono statue e ritratti del giovinetto da vivo, quelle che riflettono il paesaggio immenso e mutevole che va dai quindici anni ai vent'anni: il profilo compunto del bambino buono; e quella statua in cui uno scultore di Corinto ha osato cogliere l'abbandono del fanciullo che, il ventre in avanti e le spalle cascanti, la mano al fianco, sembra sostare all'angolo d'una strada a sorvegliare una partita ai dadi. E c'è quel marmo di Papias di Afrodisia nel quale è tracciato un corpo assai più che nudo, inerme, d'una freschezza fragile di narciso. E Aristea ha scolpito sotto i miei ordini, in una pietra lievemente rugosa, quella piccola testa imperiosa e fiera... Poi, vi sono i ritratti dopo la morte; ivi, la morte è passata: sono grandi volti dalle labbra sapienti, dense di segreti che non sono più i miei, poiché non sono più quelli della vita. C'è quel bassorilievo nel quale Antoniano Cario ha dotato d'una grazia che non è di questa terra il vendemmiatore vestito di seta grezza, il muso del cane che gli si accosta amichevolmente alla gamba nuda. E quella maschera quasi tragica, d'uno scultore di Cirene, nella quale piacere e dolore si fondono e si combattono a vicenda sullo stesso volto, come due onde sulla stessa roccia. E quelle statuette d'argilla, da un soldo, che sono servite alla propaganda imperiale: TELLUS STABILITA, il Genio della Terra pacificata, con l'aspetto d'un giovinetto disteso che regge frutta e fiori.
TRAHIT SUA QUEMQUE VOLUPTAS: ciascuno la sua china; ciascuno il suo fine, la sua ambizione se si vuole, il gusto più segreto, l'ideale più aperto. Il mio era racchiuso in questa parola: IL BELLO, di così ardua definizione a onta di tutte le evidenze dei sensi e della vista. Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo. Volevo che le città fossero splendide, piene di luce, irrigate d'acque limpide, popolate da esseri umani il cui corpo non fosse deturpato né dal marchio della miseria o della schiavitù, né dal turgore d'una ricchezza volgare; che gli alunni recitassero con voce ben intonata lezioni non fatue; che le donne al focolare avessero nei loro gesti una sorta di dignità materna, una calma possente; che i ginnasi fossero frequentati da giovinetti non ignari dei giochi né delle arti; che i frutteti producessero le più belle frutta, i campi le messi più opime. Volevo che l'immensa maestà della pace romana si estendesse a tutti, insensibile e presente come la musica del firmamento nel suo moto; che il viaggiatore più umile potesse errare da un paese, da un continente all'altro, senza formalità vessatorie, senza pericoli, sicuro di trovare ovunque un minimo di legalità e di cultura; che i nostri soldati continuassero la loro eterna danza pirrica alle frontiere; che ogni cosa funzionasse senza inciampi, l'officina come il tempio; che il mare fosse solcato da belle navi e le strade percorse da vetture frequenti; che, in un mondo ben ordinato, i filosofi avessero il loro posto e i danzatori il proprio. A questo ideale, in fin dei conti modesto, ci si avvicinerebbe abbastanza spesso se gli uomini vi applicassero una parte di quell'energia che van dissipando in opere stupide o feroci. E durante l'ultimo quarto di secolo, la sorte propizia mi ha consentito di realizzarlo in parte. Arriano di Nicomedia, uno degli spiriti più eletti del nostro tempo, si compiace di rammentarmi i bei versi nei quali il vecchio Terpandro ha definito in tre parole l'ideale di Sparta, il "modus vivendi" perfetto, sognato, e mai raggiunto, da Lacedemone: la FORZA, la GIUSTIZIA, le MUSE. La Forza stava alla base, e senza il suo rigore non può esserci Bellezza, senza la sua stabilità non v'è Giustizia. La Giustizia componeva l'equilibrio delle parti, le proporzioni armoniose che nessun eccesso deve turbare. Ma la Forza e la Giustizia non erano che uno strumento agile e duttile nelle mani delle Muse: consentivano di tener lontane tutte le miserie e le violenze come altrettante offese al bel corpo dell'umanità. Ogni nequizia era come una nota falsa da evitare nella armonia delle sfere.




In Germania mi trattennero quasi un anno le fortificazioni e gli accampamenti da costruire o da restaurare, le strade da aprire o da riparare; nuovi bastioni, eretti per un percorso di settanta leghe lungo il Reno, rafforzarono le nostre frontiere. Quel paese di scialbi vigneti e di corsi d'acqua spumeggianti non mi offriva nulla d'imprevisto; vi ritrovavo le orme del giovane tribuno che recò a Traiano la notizia del suo avvento al trono. Vi ritrovavo pure, oltre il nostro fortilizio estremo, fatto di tronchetti d'abete, lo stesso orizzonte monotono e cupo, lo stesso mondo che ci è precluso, dopo il cuneo imprudente che v'insinuarono le legioni di Augusto: l'oceano di alberi, l'immensa riserva di uomini bianchi e biondi. Una volta compiuta quell'opera di riorganizzazione, ridiscesi sino alla foce del Reno, lungo le pianure belghe e batave. Dune desolate componevano quel paesaggio nordico tagliato da erbe sibilanti; le case del porto di Noviomagus, innalzate su palafitte, si affiancavano alle navi ormeggiate quasi alla loro soglia; sul tetto, si appollaiavano gli uccelli marini. Amavo la malinconia di quei luoghi, che apparivano detestabili ai miei aiutanti di campo, quel cielo imbronciato, quei fiumi fangosi che si scavano il letto in una terra informe, senza una luce, senza un dio che ne abbia modellato il limo.
Una barca dal fondo quasi piatto ci trasportò nell'isola di Britannia. Più volte il vento ci respinse verso la costa che avevamo lasciata; e quella traversata contrastata mi concesse qualche straordinaria ora vuota. Nubi gigantesche sorgevano dal mare tempestoso, intorpidito dalle sabbie incessantemente smosse nel suo fondo. Come un tempo, presso i Daci e i Sarmati, avevo contemplato religiosamente la Terra, qui scorgevo per la prima volta un Nettuno più caotico del nostro, un infinito mondo liquido. Avevo letto in Plutarco una leggenda di naviganti, riguardante un'isola situata in quei mari prossimi al Mare Tenebroso; da secoli gli déi vittoriosi dell'Olimpo vi avrebbero relegato i Titani vinti. Quei grandi prigionieri delle rocce e delle onde, eternamente flagellati dall'oceano insonne, votati anch'essi a un'insonnia perenne, ma intenti senza posa a sognare, continuerebbero a opporre all'ordine olimpico la loro violenza, la loro angoscia, il loro desiderio perpetuamente frustrato. Ritrovavo in quel mito, ambientato ai confini del mondo, le teorie dei filosofi di cui m'ero nutrito: ogni uomo, nel corso della sua breve esistenza, deve scegliere eternamente tra la speranza insonne e la saggia rinuncia a ogni speranza, tra i piaceri dell'anarchia e quelli dell'ordine, tra il Titano e l'Olimpico. Scegliere tra essi, o riuscire a comporre, tra essi, l'armonia.
Le riforme civili poste in atto in Britannia fanno parte della mia opera amministrativa, della quale t'ho parlato altrove. Quello che importa qui, è che io fui il primo tra gli imperatori che si sia insediato pacificamente in quell'isola situata ai confini del mondo conosciuto, dove il solo Claudio s'era azzardato a sostare per qualche giorno in qualità di comandante in capo. Per un inverno intero, Londinium divenne, per mia elezione, quel centro effettivo del mondo che Antiochia era stata durante la guerra partica. Così, ogni viaggio spostava il centro di gravità del potere, lo collocava per un periodo di tempo in riva al Reno o lungo le prode del Tamigi, mi permetteva di valutare la convenienza o gli svantaggi d'una simile sede imperiale. Quel soggiorno in Britannia mi fece prendere in considerazione l'ipotesi d'uno Stato accentrato in Occidente, d'un mondo atlantico: intuizioni dello spirito, prive di qualsiasi valore pratico: ma cessano d'essere assurde non appena chi le ipotizza si concede un volger d'anni abbastanza esteso per i suoi piani.
Solo tre mesi prima del mio arrivo, la Sesta Legione Vittoriosa era stata trasferita in territorio britannico. Veniva a sostituirvi la sventurata Nona Legione che i Caledoni avevano decimato durante i disordini in Britannia, orrendo contraccolpo della nostra spedizione contro i Parti. Per impedirne che un disastro simile si replicasse, due misure s'imponevano: che le nostre truppe venissero rinforzate mediante la creazione d'un corpo ausiliario indigeno: a Eboracum, dall'alto d'una collina verde, ho visto manovrare per la prima volta quell'armata britannica di formazione recente. Nello stesso tempo, feci erigere una muraglia che tagliava l'isola in due nel punto più stretto a proteggere le regioni fertili e civilizzate del Sud contro gli attacchi delle tribù del Nord. Ho ispezionato di persona buona parte dei lavori, iniziatisi simultaneamente lungo un crinale di ottanta leghe; fu per me un'occasione per sperimentare, lungo quello spazio ben limitato che si estende da una costa all'altra, un sistema difensivo che in seguito si potrebbe applicare ovunque. Ma già quell'opera, puramente militare, secondava la pace, incrementava la prosperità di quella regione della Britannia; si creavano villaggi; si produceva un moto di afflusso verso le nostre frontiere. Gli sterratori della legione erano secondati da squadre indigene, nel loro compito; per molti di quei montanari, ieri ancora indomi, quel muro rappresentava la prima prova irrefutabile della potenza tutelatrice di Roma; il soldo della paga, la prima moneta romana che passava per le loro mani. Quel baluardo divenne l'emblema della mia rinuncia alla politica di conquista: ai piedi del bastione più avanzato, feci erigere un tempio al dio Termine.
Tutto mi piacque in quella terra piovosa: le frange di bruma sui fianchi delle colline, i laghi votati a Ninfe ancor più estrose delle nostre; quella razza malinconica, dagli occhi grigi. Avevo, per guida, un giovane tribuno del corpo ausiliario britannico: quel dio biondo aveva imparato il latino, balbettava in greco, e s'ingegnava timidamente a comporre versi d'amore in quella lingua. Una fredda notte d'autunno, ne feci il mio interprete presso una Sibilla. Sedevamo nella capanna affumicata d'un carbonaio celta, a riscaldarci le gambe ravvolte in grosse pezze di lana ruvida, quando vedemmo strisciare verso di noi una vecchia fradicia di pioggia, scarmigliata dal vento, selvatica e furtiva come un animale della foresta. Si avventò su piccoli pani di avena che si cuocevano al focolare. La mia guida riuscì a blandire quella profetessa, ed ella acconsentì a interrogare per me le volute del fumo, le scintille che scoppiettavano improvvise, le fragili architetture degli arbusti in fiamme e della cenere. Vide le città che si edificavano, le folle plaudenti, ma anche città in fiamme, cupe sfilate di vinti che smentivano i miei progetti di pace, e un viso giovane e dolce che prese per un volto di donna, e al quale mi rifiutai di credere; si trattava, probabilmente, d'uno spettro bianco, forse una statua, oggetto più misterioso ancora di un fantasma per quella abitatrice di boschi e di lande. E, a distanza di un numero imprecisato di anni, la mia morte, che avrei prevista egualmente anche senza di lei.
La prospera Gallia, l'opulenta Spagna mi trattennero meno a lungo della Britannia. Nella Gallia Narbonense, ritrovai la Grecia, che ha sciamato fin là: le splendide scuole d'eloquenza, i bei portici sotto un limpido cielo. Sostai a Nìmes per ordinare la fondazione di una basilica dedicata a Plotina, e destinata a divenire un giorno il suo tempio. L'imperatrice era legata a quella città da ricordi di famiglia, che me ne rendevano più caro il paesaggio asciutto e dorato.
Ma la rivolta in Mauretania ancora divampava. Abbreviai la traversata della Spagna, trascurando persino, tra Cordova e il mare, di fermarmi un istante a Italica, la città della mia infanzia e dei miei avi. A Gades, m'imbarcai per l'Africa.
I vigorosi guerrieri tatuati delle montagne di Atlante vessavano ancora le città costiere dell'Africa. Vissi là, per brevissimi giorni, l'equivalente numida dei disordini sarmati; rividi le tribù soggiogate ad una ad una, l'altera sottomissione dei capi prosternati nel deserto, al centro d'un viluppo di donne, di masserizie, di bestie inginocchiate. E la sabbia rimpiazzava la neve.
Mi sarebbe stato caro, una volta tanto, trascorrere interamente a Roma la primavera, ritrovare la Villa incominciata, le carezze capricciose di Lucio, l'amicizia di Plotina. Ma questo mio soggiorno in città fu presto interrotto da allarmanti voci di guerra. Erano appena tre anni dacché s'era conclusa la guerra con i Parti, e già sull'Eufrate erano sorti gravi incidenti. Partii immediatamente per l'Oriente.  




Ero deciso a reprimere quei torbidi di frontiera con mezzi meno banali che le legioni in marcia. Fu combinato un incontro di persona con Osroe. Riconducevo in Oriente la figlia dell'imperatore, fatta prigioniera quasi in culla, quando Traiano aveva occupato Babilonia, e poi trattenuta a Roma come ostaggio. Era una ragazzetta gracile, dai grandi occhi. La sua presenza e quella delle sue donne mi fu di qualche impaccio, durante quel viaggio che si doveva, oltretutto, compiere senza indugio. Quel gruppo di creature velate fu sballottato a dorso di cammello attraverso il deserto siriaco, sotto un baldacchino dalle cortine severamente abbassate. E ogni sera, alle tappe, mandavo a sentire se la principessa desiderava qualcosa.
Mi fermai un'ora in Licia, per convincere il mercante Opramoas, che aveva già dato prova delle sue eccellenti qualità di negoziatore, ad accompagnarmi in territorio partico. Per mancanza di tempo, non poté sfoggiare il suo lusso abituale. Quell'uomo infiacchito dall'opulenza era tuttavia un ammirevole compagno di viaggio, avvezzo a tutti gli imprevisti del deserto.
Il luogo dell'incontro si trovava sulla riva sinistra dell'Eufrate, poco lungi da Doura. Traversammo il fiume su una zattera. I soldati della guardia imperiale partica, con le corazze dorate, su cavalli altrettanto splendidi, formavano una linea abbagliante lungo le sponde. Il mio inseparabile Flegone era pallidissimo. Persino gli ufficiali che mi accompagnavano non celavano la loro apprensione: quell'incontro poteva nascondere un tranello. Opramoas, avvezzo a fiutare l'aria dell'Asia, si trovava a suo agio, si fidava di quel pericoloso amalgama di silenzio e di tumulto, d'immobilità e di galoppate improvvise, di quel lusso profuso nel deserto come un tappeto sulla sabbia. Quanto a me, ero straordinariamente calmo: come Cesare si fidava della sua barca, così io di quelle tavole su cui andava la mia sorte. Detti una prova di questa fiducia rendendo subito la principessa a suo padre, anziché tenerla sotto custodia nelle nostre linee fino al mio ritorno. Promisi anche che avrei reso il trono d'oro della dinastia Arsacide, che Traiano aveva portato via, e di cui non sapevamo che farci, laddove la superstizione orientale vi annetteva un immenso valore.
Il fasto di questi incontri con Osroe fu soltanto esteriore: in sostanza, non differivano gran che dagli abboccamenti di due vicini che cercano di comporre amichevolmente una questione di muro divisorio. Ero alle prese con un barbaro raffinato, che si esprimeva in greco, tutt'altro che stupido, non necessariamente più perverso di me; tuttavia, tanto indeciso da sembrare malsicuro. Le mie singolari discipline mentali m'aiutavano a captare quel pensiero sfuggente: seduto in faccia all'imperatore dei Parti, imparavo a prevedere, e ad orientare le sue risposte: entravo nel suo gioco; mi figuravo d'essere io Osroe nell'atto di contrattare con Adriano. Detesto i vaniloqui, nei quali ciascuno sa in anticipo che cederà, o che non cederà: la franchezza, negli affari, mi piace soprattutto come mezzo per semplificare le cose, e progredire in fretta. I Parti ci temevano; noi paventavamo i Parti: da questa reciproca paura poteva nascere la guerra. I satrapi la istigavano, per interesse personale: non tardai ad accorgermi che anche Osroe aveva i suoi Quieto, i suoi Palma. Farasmane, il più turbolento di quei principi semindipendenti assegnati alle frontiere, era ancor più pericoloso per l'impero partico che per noi. Mi hanno accusato di aver fiaccato con l'elargizione di sussidi quell'ambiente molle e malefico: era danaro investito bene. Ero troppo sicuro della superiorità delle nostre forze per irrigidirmi su un amor proprio idiota: ero pronto a tutte le concessioni formali, fatte solo di prestigio, ma a nessun'altra. La cosa più difficile fu persuadere Osroe che, se facevo poche promesse, era perché intendevo mantenerle. Tuttavia mi credette; o finse di credermi. L'accordo concluso tra noi durante quella visita dura ancora; da quindici anni a questa parte, nessuno di noi ha turbato la pace alle frontiere. Conto su di te affinché questo stato di cose perduri dopo la mia morte.
Una sera, sotto la tenda imperiale, durante una festa data in mio onore da Osroe, scorsi tra le donne e i paggi dalle lunghe ciglia, un uomo ignudo, scheletrico, completamente immobile, i cui occhi sbarrati pareva ignorassero quel trambusto di piatti carichi di vivande, di acrobati, di danzatrici. Gli rivolsi la parola a mezzo del mio interprete: non si degnò di rispondermi. Era un saggio. Ma i suoi discepoli erano più loquaci. Appresi così che quei pii vagabondi venivano dall'India, e il loro maestro apparteneva alla potente casta dei Bramini. Compresi che le sue meditazioni lo inducevano a ritenere che tutto l'universo non è che un tessuto di illusioni e di errori: l'austerità, la rinuncia, la morte, erano per lui il solo mezzo per eludere questo flusso mutevole delle cose, dal quale, al contrario, il nostro Eraclito s'è fatto portare, onde raggiungere, oltre il mondo dei sensi, quella sfera del divino, quel firmamento immobile e vuoto che anche Platone ha sognato. Presentii, pure attraverso le inesattezze degli interpreti, alcune delle idee che non furono del tutto ignorate da qualcuno dei nostri saggi, ma che l'indiano esprimeva in forma più definitiva e più netta. Quel Bramino era giunto in quello stadio in cui nulla, all'infuori del suo corpo, lo separava più dal dio intangibile, senza sostanza né forma, al quale aspirava a unirsi: aveva deciso, infatti, di farsi ardere vivo l'indomani. Osroe mi invitò a questa solenne cerimonia. Fu innalzato un rogo di arbusti odoriferi, l'uomo vi si tuffò e scomparve senza un grido. I discepoli non mostrarono il minimo rimpianto: per loro, era tutt'altro che una cerimonia funebre.
Ripensai a lungo a quel rogo, la notte che seguì. Ero disteso su di un tappeto di lana preziosa, sotto una tenda drappeggiata di pesante stoffa iridata. Un paggio mi massaggiava i piedi. Dall'esterno, mi giungevano radi i brusii di quella notte asiatica: la conversazione di due schiavi che sussurravano alla mia porta; il lieve fruscio d'una palma; Opramoas che russava dietro una tenda; il picchiare dello zoccolo d'un cavallo impastoiato: più lontano, dagli appartamenti delle donne, veniva il tubare mesto d'una canzone. Il Bramino aveva disdegnato tutto questo. Quell'uomo ebbro di rinuncia s'era abbandonato alle fiamme come un amante al suo talamo. Aveva respinto le cose, gli esseri, infine se stesso, come altrettante vesti che gli celavano quella presenza unica, quel centro invisibile e vuoto che preferiva a ogni altra cosa.
Mi sentivo diverso, pronto anch'io ad altre scelte. L'austerità, la rinuncia, la negazione non mi erano del tutto estranee: le avevo assaporate, come accade quasi sempre, a vent'anni. Non li avevo ancora quando, a Roma, condottovi da un amico, ero andato a visitare il vecchio Epitteto nel suo tugurio alla Suburra, pochi giorni prima che Domiziano lo esiliasse. L'antico schiavo, al quale un padrone brutale anni prima aveva spezzato una gamba senza riuscire a strappargli un lamento, il fragile vecchio che sopportava paziente i lunghi tormenti dei calcoli renali, m'era sembrato in possesso d'una libertà quasi sovrumana. Avevo contemplato con ammirazione quelle grucce, quel pagliericcio, quella lampada di terracotta, il mestolo di legno nella ciotola di creta, gli utensili semplici di una vita pura. Ma Epitteto rinunciava a troppe cose, e ben presto m'ero reso conto che, per me, nulla era più insidiosamente grato della rinuncia. L'indiano, più logico, ricusava addirittura la vita. Avevo molto da imparare da quei puri fanatici, ma a condizione di volgere in un altro senso la lezione ch'essi m'impartivano. Quei saggi si affannavano a trovare il loro dio al di là dell'oceano di forme, a ridurlo a quella qualità di unico, intangibile, incorporeo a cui egli ha rinunciato il giorno che ha voluto essere l'universo. Io intuivo diversi i miei rapporti col divino. M'immaginavo nell'atto di secondarlo nel suo sforzo d'imprimere al mondo una forma e un ordine, di sviluppare e moltiplicarne le circonvoluzioni, le ramificazioni. Io ero uno dei segmenti di quella ruota, uno degli aspetti di questa forza unica impegnata nella molteplicità delle cose: aquila e toro, uomo e cigno, fallo e cervello insieme, Proteo e insieme Giove.
Fu verso quell'epoca che cominciai a sentirmi dio. Non mi fraintendere: ero sempre, ero più che mai lo stesso uomo, nutrito dei frutti e degli animali della terra, che rende al suolo i resti dei suoi alimenti, sacrifica al sonno a ogni rivoluzione degli astri, irrequieto sino alla follia quando gli manca troppo a lungo la calda presenza dell'amore. La mia forza, la mia agilità fisica e mentale erano conservate accuratamente intatte, attraverso una ginnastica completamente umana. Ma che altro dirti, se non che tutto ciò io lo vivevo divinamente? Erano cessate le avventure temerarie della giovinezza, e quella urgenza di godere il tempo che passa. A quarantaquattro anni, mi sentivo senza impazienze, sicuro di me, perfetto quanto me lo consentiva la mia natura: eterno. E, comprendimi bene, si trattava d'un'ideazione dell'intelletto: i deliri, se devo assegnar loro questo nome, vennero più tardi. Ero dio, semplicemente, perché ero uomo. I titoli divini che la Grecia mi accordò in seguito non fecero che proclamare ciò che da tempo avevo constatato da me stesso. Credo che mi sarebbe stato possibile sentirmi dio anche nelle prigioni di Domiziano o nelle viscere d'una miniera. Se ho l'audacia di pretenderlo, vuol dire che questo sentimento mi appare assai poco straordinario, e per nulla raro. Anche altri, oltre che io stesso, l'hanno provato, o lo proveranno in avvenire.
Ho detto che i miei titoli aggiungevano ben poco a questa sorprendente certezza: essa, al contrario, trovava conferma nei gesti più semplici del mio mestiere d'imperatore. Se Giove è il cervello del mondo, ogni uomo incaricato di organizzare e moderare gli affari terreni può ragionevolmente considerarsi una parte di quel cervello che a tutto presiede. A torto o a ragione, quasi sempre l'umanità ha concepito il suo dio in termini di Provvidenza; le mie funzioni mi costringevano a essere, per una parte del genere umano, questa Provvidenza incarnata. Più lo Stato si sviluppa, serrando l'uomo nelle sue maglie fredde e rigorose, più la fiducia umana aspira a collocare al polo estremo di questa interminabile catena l'immagine adorata d'un uomo protettore. Lo volessi o no, le popolazioni orientali dell'impero mi trattavano da dio. Persino in Occidente, e a Roma, dove solo dopo morti siamo proclamati ufficialmente divini, la oscura pietà popolare sempre più si compiace di deificarci ancor vivi. Ben presto, la riconoscenza dei Parti elevò templi all'imperatore romano che aveva instaurata e serbata la pace: e a Vologesa, nel cuore di quel vasto mondo straniero, sorse il mio santuario. Lungi dallo scorgere in quelle dimostrazioni di culto i pericoli di follia o di prepotenza per l'uomo che le accetta, io vi ravvisavo un freno, l'impegno a delinearsi conforme un modello eterno, ad associare alla potenza umana una parte di sapienza divina. Esser dio, in fin dei conti, obbliga a un maggior numero di virtù che non essere imperatore.
Diciotto mesi dopo, mi feci iniziare a Eleusi. In un certo senso, questa visita a Osroe aveva segnato una svolta nella mia vita. Invece di tornare a Roma, avevo deciso di dedicare qualche anno alle province greche e orientali dell'impero: Atene diventava sempre più la mia patria, il mio centro. Ci tenevo molto a piacere ai Greci, e anche a ellenizzarmi il più possibile; ma quella iniziazione, motivata in parte da considerazioni politiche, costituì tuttavia una esperienza religiosa senza pari. Quei riti solenni non fanno che simboleggiare gli avvenimenti dell'esistenza umana, ma il simbolo va oltre l'atto, spiega ciascuno dei nostri gesti in termini di meccanica eterna. L'insegnamento che si riceve a Eleusi deve restare segreto: del resto, ha ben poche probabilità di venir divulgato, in quanto è, per sua natura, ineffabile. Una volta formulato, non condurrebbe che alle certezze più banali: in questo appunto risiede la sua profondità. I gradi più elevati che mi vennero conferiti in seguito, nel corso di conversazioni private con lo ierofante, nulla, o quasi nulla aggiunsero all'emozione iniziale, che il più oscuro dei pellegrini, partecipando alle abluzioni rituali o dissetandosi a quella sorgente, prova in egual misura. Avevo sentito le dissonanze risolversi in accordo; per un istante mi ero posato su una sfera diversa, avevo contemplato da lungi, ma anche molto da vicino, quella teoria umana e divina nella quale occupo il mio posto anch'io, quel mondo nel quale esiste ancora il dolore, non più l'errore. La sorte umana, quel vago tracciato al quale un occhio meno esercitato attribuisce tante imperfezioni, scintillava come le scie del cielo.
A questo punto conviene ch'io ti accenni un'abitudine che per tutta la vita mi indusse a percorrere sentieri meno segreti di quelli di Eleusi, ma che, in fin dei conti, vi corrono paralleli; voglio intendere lo studio degli astri. Sono stato sempre amico degli astronomi e cliente degli astrologhi. La scienza di questi ultimi è incerta, falsa nelle singole parti, forse veritiera nell'insieme; dato che l'uomo, particella dell'universo, è governato dalle leggi medesime che presiedono al cielo, non è poi così assurdo cercare lassù i temi delle nostre esistenze, le fredde simpatie che partecipano ai nostri successi e ai nostri errori. Non c'è sera d'autunno in cui io mancai mai di salutare, a sud dell'Acquario, il Coppiere celeste, il Dispensatore insigne sotto il cui segno sono nato. Non mancavo mai di riconoscere, in ciascuna delle loro evoluzioni, Giove e Venere, i moderatori della mia vita, né di misurare l'influenza del funesto Saturno. Ma se questa strana proiezione dell'umano sulla volta stellare spesso turbava le mie veglie, ancor più fortemente mi interessavo alle matematiche celesti, speculazioni astratte alle quali i grandi corpi incandescenti c'inducono. Uniformandomi ad alcuni più temerari tra i nostri sapienti, ero incline a ritenere che la terra partecipi anch'essa a quel periplo notturno e diurno del quale le processioni sacre di Eleusi rappresentano, tutt'al più, il simulacro umano. In un mondo dove tutto non è che turbine di forze, danza di atomi, dove tutto si trova contemporaneamente in alto e in basso, al centro e alla periferia, non riuscivo a farmi convinto dell'esistenza d'un globo immobile, d'un punto fisso che non fosse al tempo stesso in moto.
Altre volte, i calcoli sul ricorso degli equinozi, già stabilito da Ipparco di Alessandria, assillavano le mie veglie notturne: vi ritrovavo sotto forma di dimostrazione e non più favola o simbolo, lo stesso mistero eleusino dei corsi e ricorsi. La Spiga della Vergine, ai nostri giorni, non si trova più in quel punto della carta dove l'ha segnata Ipparco; e questa variazione è il compimento d'un ciclo, che conferma le ipotesi dell'astronomo. Lentamente, ineluttabilmente, il firmamento tornerà a essere quello che era ai tempi di Ipparco: e sarà nuovamente quello che è oggi, ai tempi di Adriano. Quel disordine s'integrava nell'ordine; il mutamento faceva parte d'un piano che l'astronomo era in grado di prevedere in anticipo; lo spirito umano rivelava la sua partecipazione all'universo per il fatto d'aver concepito teoremi esatti così come a Eleusi con le grida rituali e le danze. L'uomo che contempla gli astri, e gli astri contemplati ruotano ineluttabilmente verso la loro fine, segnata in qualche punto del cielo. Ma ogni momento di questa caduta rappresentava un tempo d'arresto, un riferimento, il segmento d'una curva, solida quanto una catena d'oro. Ogni slittamento ci riconduceva a quel punto che, oggi, dato che per caso ci siamo trovati a viverci, ci appare un centro.
Sin dalle notti della mia infanzia, quando col braccio levato Marullino m'indicava le costellazioni, l'interesse per le cose del cielo non mi ha mai abbandonato. Al campo, durante le veglie forzate, ho contemplato la luna che corre tra le nubi dei cieli barbari; più tardi, nelle limpide notti dell'Attica, ho ascoltato l'astronomo Terone di Rodi spiegarmi il suo sistema del mondo; disteso sul ponte d'una nave, in pieno Egeo, osservavo il lento moto oscillante dell'albero maestro spostarsi tra le stelle, andare dall'occhio acceso del Toro al pianto delle Pleiadi, dal Pegaso al Cigno; e ho risposto come meglio sapevo alle domande serie e ingenue del giovinetto che contemplava quello stesso cielo con me. Qui, in Villa, ho fatto costruire un vero osservatorio, ma oggi il mio male m'impedisce di ascenderne i gradini. Una volta, nella mia vita, ho fatto di più: ho offerto il sacrificio d'una intera notte alle costellazioni. Ciò avvenne dopo la mia visita a Osroe, durante la traversata del deserto siriaco. Disteso supino, gli occhi bene aperti, tralasciando per qualche ora ogni pensiero umano, mi sono abbandonato dal tramonto all'aurora a quel mondo di cristallo e di fiamma. E' stato il più bello dei miei viaggi. Il grande astro della Lira, stella polare degli uomini che vivranno quando noi da dozzine di migliaia d'anni non saremo più, splendeva sul mio capo. I Gemelli rilucevano d'una luce tenue negli estremi bagliori del tramonto; il Serpente precedeva il Sagittario; l'Aquila saliva allo zenit, le ali aperte, e ai suoi piedi splendeva quella costellazione non ancora designata dagli astronomi alla quale in seguito ho dato il più caro dei nomi. La notte, che non è mai così totale come credono coloro che vivono e dormono nelle stanze, si fece più cupa, poi si rischiarò. Si spensero i fuochi, che s'erano lasciati accesi per fugare gli sciacalli; quel mucchio di brace ardente mi rammentò il nonno, in piedi nella sua vigna, le sue profezie che ormai erano il presente, e che sarebbero state ben presto il passato. Ho cercato di aderire al divino sotto molte forme; e ho conosciuto molte estasi. Ve ne sono di atroci; altre, d'una dolcezza struggente. Quella della notte siriaca fu singolarmente lucida. Mi tracciò i movimenti celesti con una precisione che nessuna osservazione parziale mi avrebbe mai consentito di raggiungere. Nel momento in cui scrivo, io so esattamente quali stelle passano qui, a Tivoli, sopra questo soffitto ornato di stucchi e di pitture preziose, e altrove, laggiù, su un sepolcro. Qualche anno dopo, la morte doveva diventare l'oggetto delle mie meditazioni costanti, il pensiero al quale ho dedicato tutte quelle forze del mio spirito che lo Stato non assorbiva. E chi dice morte esprime anche quel mondo misterioso al quale forse per suo mezzo si accede. Dopo tante riflessioni ed esperienze, talvolta condannabili, ignoro ancora quello che accade dietro quella buia cortina. Ma la notte siriaca rappresenta la mia parte consapevole d'immortalità.  
SAECULUM AUREUM  
 
 
 
 
L'estate successiva al mio incontro con Osroe, la trascorsi in Asia Minore: sostai nella Bitinia per sorvegliare di persona il taglio delle foreste di Stato. A Nicomedia, città luminosa, civile, raffinata, presi alloggio in casa del procuratore della provincia, Cneo Pompeo Proculo, nell'antica residenza del re Nicomede, ancora impregnata dei ricordi voluttuosi di Giulio Cesare giovane. La brezza della Propontide ventilava quelle sale fresche e buie. Proculo, un uomo di gusto, organizzò qualche riunione letteraria in mio onore: sofisti di passaggio, gruppi di studenti e di letterati si riunirono nei suoi giardini, in riva a una sorgente dedicata al dio Pan. Di tanto in tanto, un servo vi immergeva una grande anfora di argilla porosa; e i versi più limpidi sembravano opachi a paragone di quell'acqua pura. 
Una sera, si dette lettura d'un lavoro piuttosto astruso di Lycofrone, che mi è caro, peraltro, per le folli combinazioni di armonie, di allusioni e di immagini, quel suo sistema complesso di riflessi e di echi. Un giovinetto in disparte ascoltava quelle strofe ardue con un'attenzione pensosa e distratta al tempo stesso, e io pensai subito a un pastore nel cuore della foresta, vagamente in ascolto del grido misterioso d'un uccello. Non aveva né tavolette né stilo, con sé. Seduto sui bordi della vasca, sfiorava quella bella superficie levigata con le dita. Seppi che suo padre aveva occupato una modesta carica nell'amministrazione dei vasti domini imperiali; affidato giovanissimo alle cure d'un suo avo, lo scolaretto era stato inviato presso un ospite dei suoi genitori, ch'era armatore a Nicomedia, e che a quella povera famiglia appariva ricco. 
Quando gli altri si furono allontanati, lo trattenni. Era poco istruito, ignaro quasi di tutto, ma riflessivo, ingenuo. Conoscevo Claudiopoli, la sua città natale: riuscii a farlo parlare della sua casa, al limitare delle grandi foreste di pini che forniscono l'albero maestro alle nostre navi, del tempio di Attys situato sulla collina, di quelle musiche stridenti che gli erano care, dei bei cavalli del suo paese, delle strane sue divinità. Quella voce lievemente velata s'esprimeva in greco con accento asiatico. Improvvisamente, nel sentirsi ascoltato, o fors'anche osservato, il ragazzo si confuse, arrossì, ricadde in uno di quei silenzi ostinati ai quali mi abituai ben presto. Si abbozzò, comunque, un'intimità. In seguito, mi accompagnò in tutti i miei viaggi; e cominciarono per me alcuni anni favolosi. 
Antinoo era greco: sono risalito, nelle memorie di quella famiglia antica e oscura, sino all'epoca dei primi coloni arcadi sulle sponde della Propontide. Ma l'Asia aveva prodotto su quel sangue un po' acre l'effetto della goccia di miele che rende torbido e aromatico un vino puro. Ritrovavo in lui le superstizioni d'un discepolo d'Apollonio, il culto monarchico d'un suddito orientale del Gran Re. La sua presenza era straordinariamente silenziosa: m'ha seguito come un animale, o come un genio familiare. Aveva le infinite capacità di allegria e d'indolenza d'un cucciolo, la selvatichezza, la fiducia. Quel bel levriero, ansioso di carezze e di ordini, si distese sulla mia vita. Ammiravo quell'indifferenza quasi altera verso tutto ciò che non costituiva il suo piacere o il suo culto: essa suppliva in lui al disinteresse, allo scrupolo, a tutte le virtù volute, austere. Mi stupiva quella sua aspra dolcezza; quella devozione torva, che impegnava l'essere intero. E, tuttavia, quella sottomissione non era cieca: quelle palpebre tante volte abbassate nell'acquiescenza o nel sogno, si levavano; gli occhi più attenti del mondo mi scrutavano in viso; mi sentivo giudicato. Ma lo ero, come lo è un dio da un suo fedele: le mie asprezze, i miei attacchi di diffidenza (ne ebbi, più tardi) erano pazientemente, gravemente accettati. Sono stato padrone assoluto una volta sola, e di un solo essere. 
Se non ho detto ancora nulla d'una bellezza così evidente, non bisogna credere che l'abbia fatto per una sorta di reticenza, il silenzio d'un uomo avvinto in modo troppo totale. Ma i volti che noi cerchiamo disperatamente ci sfuggono: è sempre solo un istante... Ritrovo una testa reclina sotto una capigliatura disfatta dal sonno, degli occhi che le palpebre allungate facevano parere obliqui, un giovane viso, come disteso. Quel tenero corpo s'è modificato di continuo, a guisa d'una pianta, e alcune di queste alterazioni sono imputabili all'opera del tempo. Il fanciullo mutava: si faceva grande. Bastava una settimana d'indolenza per intorpidirlo; un pomeriggio di caccia gli rendeva la solidità, lo scatto dell'atleta. Un'ora di sole lo faceva mutare dal colore del gelsomino a quello del miele. Le gambe un po' pesanti del puledro si andavano man mano allungando; la gota perdeva la delicata rotondità infantile, s'incavava leggermente sotto lo zigomo sporgente; il torace gonfio d'aria del giovane corridore allo stadio lungo assumeva le curve lisce e polite d'un seno di Baccante. Il broncio delle labbra s'impregnava d'un'amarezza ardente, d'una sazietà triste. In verità, quel volto mutava, come se ogni notte e ogni giorno io lo avessi scolpito. 
Quando mi volgo indietro a quegli anni, mi sembra di ritrovare l'Età dell'Oro. Tutto era facile: le fatiche d'altri tempi erano compensate da una facilità quasi sovrumana. Viaggiare era un gioco, un piacere controllato, noto, e abilmente praticato. Il lavoro incessante non era che un altro modo di godere. La mia vita, in cui tutto è arrivato tardi - il potere, la felicità -, assumeva lo splendore del meriggio, la radiosità solare delle ore di siesta, quando tutto è soffuso di un'atmosfera dorata, gli oggetti della nostra camera e il corpo disteso al nostro fianco. La passione appagata ha la sua innocenza, fragile quasi quanto ogni altra: il resto della bellezza umana declinava al rango di spettacolo, cessava d'esser quella selvaggina di cui ero stato il cacciatore. Quell'avventura iniziata in modo banale arricchiva la mia vita, ma la rendeva, d'altro canto, più semplice: l'avvenire contava poco; cessavo d'interrogare gli oracoli; le stelle non furono più, d'allora in poi, che disegni mirabili sulla volta del cielo. Non avevo osservato mai con altrettanto rapimento il pallore dell'alba sull'orizzonte delle isole, la frescura delle grotte consacrate alle Ninfe, abitate da uccelli migratori, il lento volo delle quaglie al crepuscolo. Mi diedi a rileggere i poeti: alcuni mi sembrarono migliori, la maggior parte peggiori di prima. Scrissi versi che mi parvero meno mediocri del solito. 
Vi fu il mare d'alberi: le foreste di sughero e le pinete della Bitinia; il padiglione di caccia dalle aperte gallerie nelle quali il giovinetto, ripreso dall'indolenza del suo paese natio, disseminava a caso le frecce, la daga, la cintura dorata, si rotolava con i cani sui divani di cuoio. Le pianure avevano trattenuto la calura della lunga estate; un vapore umido fumigava dalle praterie lungo le rive del Sangario, dove galoppavano branchi di cavalli bradi; allo spuntar del giorno, scendevamo a bagnarci sulle sponde del fiume, sfiorando lungo il cammino le erbe alte imperlate di rugiada notturna, sotto un cielo da cui pendeva la sottile falce di luna che serve di emblema alla Bitinia. Quel paese fu colmato di favori: assunse persino il mio nome. 
L'inverno piombò su di noi a Sinope; con un freddo degno della Scizia, inaugurai le opere d'ampliamento del porto, intraprese dai marinai della flotta ai miei ordini. Sulla strada di Bisanzio, a ogni villaggio i notabili avevano fatto accendere fuochi immensi, e le mie guardie vi si riscaldavano. La traversata del Bosforo sotto una bufera di neve fu bellissima; poi, le cavalcate nella foresta tracia, il vento pungente che si ingolfava nelle pieghe dei mantelli, il crepitio innumerevole della pioggia sulle foglie e sul tetto della tenda, la sosta al campo dei muratori dove sarebbe sorta Adrianopoli, le ovazioni dei veterani delle guerre daciche, la terra molle dalla quale ben presto sarebbero sorte e torri e mura. A primavera una visita alle guarnigioni del Danubio mi ricondusse in quella borgata prospera che oggi è Sarmizegetusa; il fanciullo di Bitinia recava al polso un bracciale del re Decebalo. Il ritorno in Grecia lo compimmo dal nord: mi attardai qualche giorno nella valle del Tempe, tutta percorsa da acque vive; ci venne incontro la bionda Eubea, poi l'Attica dal colore del vino rosato; Atene la sfiorammo appena; a Eleusi, durante le mie iniziazioni ai Misteri, trascorsi tre giorni e tre notti confuso tra la folla dei pellegrini che s'iniziavano anch'essi durante quella stessa festa: la sola precauzione fu di proibire agli uomini di portare il coltello. 
Condussi Antinoo nell'Arcadia dei suoi avi; le foreste vi restavano impenetrabili come ai tempi in cui vi avevano abitato quegli antichi cacciatori di lupi. A volte, con un colpo di frusta, un cavallerizzo fugava una vipera; sulle cime sassose, il sole era rovente come nel pieno dell'estate; il giovinetto, addossato alla roccia, sonnecchiava, la testa reclinata sul petto, i capelli sfiorati dalla brezza, simile a un Endimione del giorno. Una lepre, che il mio cacciatore giovinetto aveva addomesticata con infinita pazienza, fu sbranata dai cani: fu l'unico dispiacere di quei giorni senza nubi. La popolazione di Mantinea scoprì antichi vincoli di parentela con quella famiglia di coloni bitini, sconosciuti fino a quel giorno: la città, nella quale in seguito il fanciullo ebbe i suoi templi, fu arricchita e abbellita da me. L'antichissimo santuario di Nettuno ormai, caduto in rovina, era così venerato che se ne vietava l'accesso a chiunque: dietro quelle porte perennemente sprangate si perpetuavano misteri più antichi forse della stessa razza umana. Edificai lì un nuovo tempio, assai più vasto, e l'edificio antico è racchiuso ormai all'interno di esso come il nocciolo nel cuore d'un frutto. Lungo le strade, non lontano da Mantinea, feci restaurare la tomba dove Epaminonda, ucciso in combattimento, riposa accanto a un giovane compagno colpito al suo fianco: vi fu innalzata a mia cura una colonna, sulla quale venne inciso un poema, per commemorare quel ricordo d'un tempo in cui tutto, visto a distanza, sembra sia stato nobile e semplice: la tenerezza, la gloria, la morte. In Acaia, i giochi istmici furono celebrati con uno splendore che non si era più visto dai tempi antichi; ripristinando le grandi feste elleniche, speravo di rifare della Grecia una unità viva. La caccia ci condusse nella valle d'Elicona, dorata dalle porpore estreme dell'autunno; sostammo in riva alla sorgente di Narciso, presso il santuario dell'Amore: la spoglia d'una giovane orsa, un trofeo sospeso con chiodi d'oro alla parete del tempio, fu offerta a quel dio, il più saggio di tutti. 
La barca, che il mercante Erasto di Efeso mi cedeva per navigare nell'arcipelago, gettò l'ancora nella baia di Falero: mi stabilii ad Atene come un uomo che torna a casa sua. Osai metter mano a quella bellezza, tentai di rendere perfetta quella città ammirevole. Dopo una lunga decadenza, Atene si ripopolava nuovamente, e ricominciava a crescere dopo un lungo periodo di declino: ne raddoppiai l'estensione; mi prefiguravo un'Atene rinnovata, lungo l'Ilisso, la città di Adriano al fianco di quella di Teseo. Tutto era da riordinare, da ricostruire. Sei secoli innanzi era stato abbandonato, appena iniziato, il grande tempio consacrato a Giove Olimpico. I miei operai si misero al lavoro: Atene conobbe di nuovo l'attività gioiosa che non aveva assaporata più dai tempi di Pericle. Condussi a termine ciò che un Seleucide aveva tentato invano di compiere; riparai le rapine del nostro Silla. L'ispezione dei lavori richiese un via vai quotidiano in un dedalo di macchine, di carrucole sapienti, di fusti semieretti, di blocchi candidi ammucchiati negligentemente sotto un cielo turchino. Vi ritrovavo un poco l'atmosfera, l'eccitazione dei cantieri navali; un bastimento in disarmo tornava in servizio per l'avvenire. La sera, l'architettura cedeva il posto alla musica, edificio invisibile. Potrei dire d'aver praticato tutte le arti, ma quella dei suoni è l'unica in cui mi sia esercitato costantemente, e nella quale possa vantare una certa abilità. A Roma, dissimulavo questa mia passione: ad Atene, potevo abbandonarmi a essa, se pure con discrezione. Nella corte, dove sorgeva un cipresso, si radunavano i musici, ai piedi d'una statua di Ermes. Erano sei o sette soltanto: un'orchestra di flauti e di lire, alla quale a volte si univa un virtuoso armato di cetra. Molto spesso io tenevo il grande flauto traverso. Suonavamo arie antiche, quasi dimenticate, e melodie nuove, composte per me. Amavo l'austerità virile della musica dorica, ma non detestavo affatto le melodie voluttuose o appassionate, patetiche o sapienti, sdegnate come perturbatrici dei sensi e del cuore dalle persone gravi, la cui virtù consiste nel paventare ogni cosa. Tra le corde, scorgevo il profilo del mio giovane compagno, tutto intento a far la sua parte nel complesso, e il moto attento delle sue dita lungo le corde tese. 
Quell'inverno delizioso fu ricco di contatti amichevoli: il ricchissimo Attico, la banca del quale finanziava i miei lavori edilizi, non senza congruo profitto, m'invitò nei suoi giardini di Chefissia, dove viveva circondato da una corte di poeti estemporanei e di scrittori alla moda; suo figlio, il giovane Erode, era un conversatore avvincente e sottile al tempo stesso, e divenne un commensale indispensabile delle mie cene ad Atene. Aveva largamente superato quella timidezza che l'aveva fatto restare di stucco alla mia presenza, all'epoca in cui gli efebi ateniesi me l'avevano inviato alle frontiere sarmate per rallegrarsi della mia ascesa al trono; ma la sua vanità crescente mi appariva, oggi, piacevolmente patetica. Il retore Polemone, il grand'uomo di Laodicea, che rivaleggiava con Erode in eloquenza, e soprattutto in ricchezza, m'incantò con quel suo stile asiatico, ampio e mosso come le onde d'un Pactole: quell'uomo, abile nell'accostare le parole, viveva come parlava, con fasto. Ma il più prezioso dei miei incontri fu quello con Arriano di Nicomedia, il mio migliore amico. Di dodici anni circa più giovane di me, aveva già iniziato quella brillante carriera politica e militare nella quale continua a farsi onore e a servire lo Stato. La sua esperienza, la sua conoscenza dei cavalli, dei cani, di tutti gli esercizi del corpo, lo mettevano infinitamente al di sopra dei semplici frasaioli. Da giovane, era stato travolto da una di quelle singolari passioni dello spirito, senza le quali forse non può esserci vera saggezza, né autentica grandezza: due anni della sua vita li aveva trascorsi a Nicopoli, in Epiro, nella stanzetta fredda e spoglia dove Epitteto agonizzava: s'era imposto il compito di raccogliere e trascrivere, parola per parola, gli ultimi aforismi del vecchio filosofo infermo. Quel periodo d'entusiasmo aveva lasciata la sua impronta su di lui: ne serbava un mirabile rigore morale, una specie di candida austerità. Praticava in segreto astinenze che nessuno avrebbe sospettato. Ma il prolungato tirocinio della disciplina stoica non l'aveva irrigidito in un atteggiamento da saggio di maniera: era troppo intelligente per non accorgersi che agli eccessi di virtù accade quel che avviene a quelli dell'amore, e cioè che il loro merito consiste precisamente nella loro eccezionalità, nel loro carattere di eccellenza unica, di magnifica follia. La serena intelligenza, la perfetta probità di Senofonte ormai costituivano il suo modello. Scriveva la storia del suo paese, la Bitinia. Avevo posto sotto la mia giurisdizione personale quella provincia, per lungo tempo male amministrata dai proconsoli; mi offrì i suoi consigli nei miei piani di riforme. Assiduo lettore dei dialoghi socratici, nulla ignorava dei tesori di eroismo, di devozione, di saggezza a volte, onde la Grecia ha saputo nobilitare l'amicizia e mostrava una tenera deferenza verso il mio giovane favorito. Bitini entrambi, parlavano quel dolce dialetto jonico, dalle desinenze quasi omeriche, che in seguito persuasi Arriano a usare nelle sue opere. 
In quell'epoca, Atene aveva il suo filosofo della vita sobria: in una capanna di Colono, Demonace conduceva un'esistenza esemplare e serena. Non era Socrate: non ne aveva né l'acume né l'ardore, ma mi era cara la sua bonaria ironia. L'attore comico Aristomene, che interpretava con brio le vecchie commedie attiche, fu un altro di quegli amici dal cuore semplice. Lo chiamavo la mia pernice greca: basso, tarchiato, allegro come i bambini o gli uccelli, ne sapeva più di chiunque altro a proposito di riti, di poesia e ricette di cucina d'altri tempi. Mi divertì, mi istruì a lungo. Fu in quel periodo che Antinoo suscitò l'affetto del filosofo Cabria, un seguace di Platone intriso d'orfismo, l'uomo più innocente del mondo, il quale consacrò al fanciullo una fedeltà da cane da guardia, e più tardi la riversò su di me. Undici anni di vita alla mia corte non l'hanno ancora mutato; è sempre lo stesso: candido, devoto, castamente assorto nei sogni, cieco agli intrighi e sordo alle chiacchiere. A volte mi tedia, ma non me ne separerò che alla mia morte. 
I miei rapporti con il filosofo stoico Eufrate furono di minor durata. Dopo brillanti successi a Roma, s'era ritirato ad Atene; lo assunsi come lettore, ma le sofferenze che da un pezzo gli provocava un ascesso al fegato, e l'indebolimento che ne seguiva, lo persuasero che la vita non gli offriva più nulla che valesse la pena di vivere. Mi chiese il permesso di lasciare il mio servizio col suicidio. Non sono stato mai contrario all'uscita di scena volontaria; ci avevo pensato anch'io come a una fine possibile al momento della crisi che precedette la morte di Traiano. A quel tempo, il problema del suicidio, che in seguito doveva ossessionarmi, mi appariva facile da risolvere. Eufrate, in ogni caso, ottenne l'autorizzazione che implorava; gliela feci portare dal mio fanciullo, forse perché io stesso avrei gradito ricevere dalle mani d'un simile messaggero quel responso finale. Quella sera, il nostro filosofo si presentò a palazzo per una conversazione che non differiva in nulla dalle precedenti; si uccise l'indomani. Parlammo più volte di questo incidente; il fanciullo ne rimase contristato per qualche giorno. Quello splendido essere sensuale guardava la morte con orrore; non mi accorgevo che ci pensava già molto. Quanto a me, stentavo a comprendere che si lasciasse volontariamente un mondo che mi appariva tanto bello; che non si esaurisse fino in fondo, a onta di tutti i mali, l'estrema possibilità di pensiero, di contatti, di spettacolo persino. Ma ho cambiato idea, in seguito. 
Le date mi si confondono: la mia memoria compone un affresco solo, dove si affastellano incidenti e viaggi di svariate stagioni. La barca lussuosamente arredata del mercante Erasto di Efeso volse la prua verso l'Oriente, poi verso il Sud, finalmente verso quest'Italia che diventava l'Occidente per me. Rodi fu toccata due volte; Delo, accecante di candore, la visitai una prima volta in un mattino d'aprile, poi sotto la luna piena del solstizio; il cattivo tempo sulla costa dell'Epiro mi consentì di prolungare una visita a Dodona. In Sicilia, ci attardammo qualche giorno a Siracusa per esplorarvi il mistero delle sorgenti: Aretusa, Cyané, le belle ninfe azzurre. Dedicai un pensiero a Licinio Sura, il quale un tempo aveva consacrato i suoi ozi di statista a studiare il mistero delle acque. Avevo sentito parlare delle iridescenze stupende dell'aurora sul Mare Jonio, quando la si contempla dalla vetta dell'Etna. Stabilii di intraprendere l'ascensione di quella montagna; passammo dalla regione delle vigne a quella della lava, poi della neve. Il fanciullo dalle gambe di danzatore correva su quelle ripide chine; i sapienti che mi accompagnavano salirono a dorso di muli. Sulla cima, era stato costruito un rifugio ove poter attendere l'alba. Questa alfine spuntò: un'immensa sciarpa d'Iride si distese da un orizzonte all'altro; strani fuochi brillarono sui ghiacci della vetta; la vastità terrestre e marina si dischiuse al nostro sguardo sino all'Africa, visibile, e alla Grecia che s'indovinava. Fu uno dei momenti supremi della mia vita. Non vi mancò nulla, né la frangia dorata d'una nube, né le aquile, né il coppiere dell'immortalità. 
Stagioni d'Alcione, solstizio dei miei giorni... Lungi dall'accrescere nel ricordo la felicità trascorsa, devo lottare per non sbiadire la sua immagine; persino il suo ricordo, oggi, è troppo forte per me. Più sincero della maggior parte degli uomini, confesso senza reticenza le cause segrete di questa felicità: quella calma, tanto propizia alle opere e alle discipline dello spirito, mi sembra uno degli effetti più belli dell'amore. E mi sorprende che queste gioie così precarie, così raramente perfette nel corso d'una vita umana - quale che sia, del resto, l'aspetto sotto il quale noi le abbiamo cercate o ricevute - vengano guardate con tanta diffidenza da presunti saggi, i quali ne paventano l'assuefazione o l'eccesso anziché temerne la privazione o la perdita; sì che trascorrono a soggiogare i propri sensi quel tempo che impiegherebbero assai più utilmente ad abbellire la propria anima. In quell'epoca, nel consolidare la mia felicità, nell'assaporarla, nel valutarla persino, ponevo l'attenzione costante che ho sempre prestata ai particolari più futili delle mie azioni; e che cos'è la stessa voluttà se non un momento di attenzione appassionata del corpo? Qualsiasi felicità è un capolavoro: il minimo errore la falsa, la minima esitazione la incrina, la minima grossolanità la deturpa, la minima insulsaggine la degrada. Alla mia non può imputarsi alcuna di quelle imprudenze che più tardi l'hanno infranta: sino a che ho agito nella direzione ch'essa m'indicava, sono stato saggio. Ritengo tuttora che a un uomo più saggio di me sarebbe stato possibile essere felice fino alla morte. 
Qualche tempo più tardi, nella Frigia, sui confini dove la Grecia e l'Asia si confondono, ho avuto l'immagine più lucida e completa di quella felicità. Eravamo accampati in una località deserta e selvaggia, dov'è la tomba di Alcibiade, il quale morì laggiù, vittima delle macchinazioni dei satrapi. Avevo fatto collocare su quel sepolcro abbandonato da secoli una statua di marmo pario, l'effige di quell'uomo, che fu tra quelli che la Grecia ha amato di più. Avevo ordinato altresì che ogni anno vi si celebrassero riti commemorativi: gli abitanti del villaggio vicino s'erano aggregati alle persone del mio seguito per la prima di quelle cerimonie; fu sacrificato un torello, e una parte della sua carne fu riservata per il festino della sera. Fu improvvisata una corsa di cavalli nella pianura, si ebbero danze alle quali il fanciullo di Bitinia prese parte con grazia impetuosa; più tardi, quando fu spento l'ultimo fuoco, gettò indietro la sua bella gola e cantò. Mi piace stendermi al fianco dei morti per misurarmi con loro: quella sera, paragonai la mia vita a quella di quel gaudente già prossimo alla vecchiaia, che era caduto in quel luogo, trafitto dalle frecce, difeso strenuamente da un amico giovinetto, e pianto da una cortigiana ateniese. La mia giovinezza non aveva preteso il prestigio di quella di Alcibiade: ma la mia varietà eguagliava o sorpassava la sua. Avevo goduto quanto lui, avevo meditato più intensamente, avevo lavorato molto di più; possedevo, come lui, la fortuna singolare d'essere amato. Alcibiade ha sedotto tutti, persino la Storia; tuttavia, lasciò dietro di sé cumuli di morti ateniesi abbandonati nelle cave siracusane, una patria vacillante, le divinità dei crocevia scioccamente mutilate dalle sue mani. Io avevo governato un mondo infinitamente più vasto di quello nel quale l'ateniese era vissuto; vi avevo mantenuto la pace; l'avevo attrezzato come una bella imbarcazione ben munita per un viaggio che durerà molti secoli; avevo lottato in ogni modo per secondare il senso del divino nell'uomo, senza tuttavia sacrificare a esso l'umano. La mia felicità era il mio compenso. 
 
 
 
 
C'era Roma. Ma non ero più costretto a destreggiarmi, a lusingare, a piacere. Le opere del mio principato s'imponevano; le porte del tempio di Giano, che si aprono in tempo di guerra, restavano chiuse; le mie buone intenzioni davano i loro frutti; la prosperità delle province rifluiva nella metropoli. Non rifiutai più il titolo di Padre della Patria, che mi era stato proposto all'epoca del mio avvento. 
Plotina non era più. Durante un mio precedente soggiorno nell'Urbe, avevo rivisto per l'ultima volta quella donna dal sorriso un po' stanco, che il protocollo ufficiale mi attribuiva per madre, e che era per me assai di più: la mia unica amica. Questa volta, non ritrovai di lei che una piccola urna, deposta sotto la Colonna Traiana. Assistei di persona alle cerimonie dell'apoteosi; in contrasto con l'uso imperiale, presi il lutto per un periodo di nove giorni. Ma la morte modificava ben poco quella intimità che da anni faceva a meno della presenza; l'imperatrice restava quella che era sempre stata per me: uno spirito, un pensiero, al quale il mio s'era unito. 
Giungevano a termine alcuni grandi lavori di costruzione: il Colosseo restaurato, purificato dei ricordi di Nerone che lo funestavano ancora, era adorno, invece che dell'immagine di quell'imperatore, d'una effige colossale del Sole, Helio-Re, per un'allusione al mio nome gentilizio, Elio. Si dava l'ultima mano al tempio di Venere e Roma, costruito anch'esso nel luogo della scandalosa "Domus Aurea", dove Nerone aveva fatto pompa ignobile d'un lusso mal conseguito. "Roma, Amor": per la prima volta, la divinità della Città Eterna s'identificava con la Madre dell'Amore, ispiratrice di ogni gioia. Era una delle idee della mia vita. Così, la potenza romana assumeva quel carattere sacrale, cosmico, quella forma pacifica e tutelare che io ambivo imprimerle. A volte, mi accadeva di assimilare l'imperatrice defunta a quella Venere saggia, consigliera divina. 
Tutti gli déi mi apparivano sempre più misteriosamente fusi in un Tutto, quali emanazioni infinitamente varie, manifestazioni eguali d'una medesima forza: le loro contraddizioni non erano che un aspetto del loro accordo. Mi si era imposta la costruzione d'un tempio a tutti gli déi, d'un pantheon; ne avevo scelto l'area sulle rovine delle antiche terme pubbliche offerte al popolo romano da Agrippa, genero di Augusto. Del vecchio edificio non restava null'altro che un portico e la lastra di marmo d'una dedica al popolo di Roma, che fu ricollocata accuratamente, così com'era, sul frontone del nuovo tempio. Poco mi importava che figurasse il mio nome su quel monumento, che esprimeva il mio pensiero. Al contrario, mi piaceva che un'iscrizione antica d'un secolo e più lo associasse agli inizi dell'impero, al regno pacificato di Augusto. Anche là dove rinnovavo, mi piaceva sentirmi anzitutto un continuatore. Al di là di Traiano e di Nerva, divenutimi ufficialmente padre e avo, mi riattaccavo persino a quei dodici Cesari tanto denigrati da Svetonio: la lucidità di Tiberio, ma non la sua durezza; l'erudizione di Claudio, non la sua debolezza; l'amore delle arti di Nerone, esente però da ogni sciocca vanità; la bontà di Tito, ma non così dolciastra; la parsimonia di Vespasiano, senza la sua lesina ridicola, costituivano altrettanti esempi che mi proponevo. Quei principi avevano rappresentato la loro parte nelle cose umane; ormai, spettava a me scegliere tra i loro atti quelli che era bene continuare, consolidare i migliori, correggere i peggiori, sino al giorno in cui altri uomini, più o meno qualificati di me, ma egualmente responsabili, si sarebbero incaricati di fare altrettanto con i miei atti. 
La consacrazione del tempio di Venere e Roma fu una specie di trionfo, accompagnato da corse di bighe, da spettacoli pubblici, da elargizioni di spezie e profumi. I ventiquattro elefanti che avevano trascinato fino al cantiere quei blocchi enormi, riducendo così il lavoro forzato degli schiavi, figurarono anch'essi nel corteo, monoliti viventi. La data prescelta per questa festa era il giorno anniversario della nascita di Roma, l'ottavo giorno che segue gli idi di aprile, dell'anno 882 dopo la fondazione dell'Urbe. Mai la primavera romana era stata più dolce, più intensa, più azzurra. Lo stesso giorno, con solennità più austera, ma quasi in sordina, ebbe luogo una cerimonia dedicatoria all'interno del Pantheon. Avevo ritoccato di persona i progetti troppo cauti dell'architetto Apollodoro. Delle arti della Grecia volli servirmi per le decorazioni, come per un lusso supplementare, ma per la struttura dell'edificio ero risalito ai tempi primitivi e favolosi di Roma, ai templi rotondi dell'Etruria antica. Avevo voluto che quel santuario di tutti gli déi riproducesse la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. Era quella, inoltre, la forma di quelle capanne ancestrali nelle quali il fumo dei più antichi focolari umani usciva da un orifizio aperto alla sommità. La cupola, costruita d'una lava dura e leggera che pareva partecipe ancora del movimento ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro. Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco del giorno vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d'oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli déi. Quella festa fu per me una di quelle ore nelle quali tutto confluisce. In piedi, nel fondo di quel pozzo di luce, avevo al mio fianco le gerarchie del mio principato, e la sostanza di cui si materiava il mio destino, ormai edificato più che a metà. 
Riconoscevo l'austera energia di Marcio Turbo, servitore fedele; la dignità, non aliena dalle rampogne, di Serviano, le cui critiche sussurrate a voce sempre più sommessa, non mi sfioravano più; l'eleganza regale di Lucio Seionio; e, un po' in disparte, in quella densa penombra che si addice alle apparizioni divine, il volto pensoso del giovinetto greco nel quale avevo incarnato la mia fortuna. Mia moglie, presente anch'essa, aveva appena ricevuto il titolo di imperatrice. 
Già da un pezzo preferivo le favole degli amori e delle contese tra i numi ai maldestri commentari dei filosofi sulla natura divina; accettavo d'essere l'immagine terrestre di quel Giove che quanto più è uomo tanto più è dio, sostegno del mondo, giustizia incarnata, ordine delle cose, amante dei Ganimedi e delle Europe, sposo negligente di una Giunone amara. Il mio spirito, incline in quel giorno a disporre ogni cosa in una luce senz'ombre, paragonava l'imperatrice a quella dea alla quale, durante una mia recente visita ad Argo, avevo consacrato un pavone d'oro adorno di pietre preziose. Col divorzio, avrei potuto agevolmente sbarazzarmi di quella donna che non amavo; se fossi stato un privato non avrei esitato a farlo. Ma mi dava così poco fastidio, e nulla, nella sua condotta, giustificava un insulto così clamoroso. Quando era ancora giovane sposa, s'era adontata delle mie sregolatezze, ma pressappoco come lo zio s'irritava dei miei debiti. Oggi, assisteva senza mostrare di accorgersene alle manifestazioni d'una passione che s'annunciava duratura. Come molte donne poco sensibili all'amore, non ne valutava il potere; ignoranza che escludeva al tempo stesso l'indulgenza e la gelosia. Si allarmava soltanto se riteneva minacciati i suoi titoli o la sua sicurezza; e questo non era il caso. Non era rimasta alcuna traccia in lei di quella grazia di adolescente che, in altri tempi, m'aveva attratto per breve tempo. Era una spagnola precocemente invecchiata, dura, austera. Dovevo alla sua frigidità se non s'era fatta un amante; mi piaceva che sapesse portare con dignità i suoi veli da matrona, che erano quasi da vedova; mi piaceva che sulle monete romane figurasse un profilo di imperatrice, e sul retro un'iscrizione, al Pudore o alla Quiete. Mi veniva fatto di pensare a quelle nozze fittizie che hanno luogo tra la grande sacerdotessa e lo Ierofante, la sera delle feste di Eleusi; nozze che non sono un'unione e neppure un contatto, bensì un rito, e come tali vengono consacrate. 
La notte che seguì quelle celebrazioni, da una terrazza guardai divampare Roma. Erano fuochi di gioia e valevano bene gl'incendi voluti da Nerone: ed erano quasi altrettanto paurosi. Roma: crogiolo e fornace al tempo stesso, metallo che ribolle; martello sì, ma anche incudine, prova visibile dei mutamenti e dei ricorsi della storia, uno dei luoghi al mondo dove l'uomo avrà vissuto più tumultuosamente. La conflagrazione di Troia, donde un profugo era scampato, portando con sé il vecchio padre, il figlio giovinetto e i suoi Lari, si concludeva quella sera in quelle alte, gioiose fiammate. Pensavo pure, con una sorta di terrore sacro, agli incendi dell'avvenire. Quei milioni di vite passate, presenti e future, quegli edifici recenti, nati su edifici antichi e seguiti a loro volta da edifici ancora da costruirsi, mi sembrava si susseguissero nel tempo, simili alle onde; per un caso, quella notte gl'immensi marosi venivano a infrangersi ai miei piedi. Taccio gli istanti di delirio in cui la porpora imperiale, il tessuto sacro, che così raramente mi risolvevo a indossare, fu gettata sulle spalle dell'essere che diveniva per me il mio Genio; mi piaceva, certo, contrapporre quel rosso profondo all'oro pallido d'una nuca, ma soprattutto costringere la mia Felicità, la mia Fortuna, entità vaghe e incerte, a incarnarsi in quella forma tanto terrestre, ad assumere il calore e il peso vivo della carne. Le solide mura di quel Palatino che abitavo tanto poco, ma che avevo appena ricostruito, oscillavano come i fianchi d'un'imbarcazione; i tendaggi dischiusi perché la notte romana invadesse le mie stanze erano quelli d'un padiglione di poppa; le grida della folla erano il sibilo del vento tra le sartie. Lo scoglio immane che si scorgeva in lontananza, nell'ombra, le mura gigantesche della mia tomba che cominciava a sorgere allora in riva al Tevere, non m'ispiravano né terrore, né rimpianto, né inani meditazioni sulla brevità della vita. 
 
 
 
 
A poco a poco, la luce cambiò. Dopo due anni e più, si notavano le orme del tempo, dei progressi d'una giovinezza che si forma, s'indora, sale quasi allo zenit; la voce fonda del fanciullo s'abituava a dare ordini a nocchieri e capicaccia; la falcata più lunga del corridore; le gambe del cavaliere che stringono la cavalcatura con maggiore esperienza; l'alunno, che a Claudiopoli aveva imparato a memoria lunghi frammenti di Omero, e si appassionava di poesia lasciva e raffinata, ora si estasiava di alcuni brani di Platone. Il mio pastorello diventava un giovane principe. Non era più il fanciullo zelante che, alle soste, si gettava da cavallo per offrirmi l'acqua delle sorgenti attinta nel cavo delle sue palme; ora, il donatore conosceva il valore immenso dei suoi doni. Durante le cacce organizzate nelle terre di Lucio, in Etruria, m'ero divertito a mescolare quel volto perfetto alle fisionomie grevi e aggrottate dei grandi dignitari, ai profili acuti degli Orientali, alle rozze grinte dei cacciatori barbari, a costringere il mio diletto alla parte difficile di amico. A Roma, s'erano orditi intrighi intorno alla sua giovane testa, s'erano esercitati sforzi abietti per catturare la sua influenza e sostituirvene qualche altra. La capacità di chiudersi in un pensiero unico dotava quel diciottenne d'una sorta d'indifferenza che manca ai più saggi: aveva saputo sdegnare tutte quelle trame, o ignorarle. Ma la sua bella bocca aveva assunto una piega amara che non sfuggì agli scultori. 
Offro qui ai moralisti un'occasione facile per trionfare di me. I miei censori si apprestano già a scoprire, all'origine della mia sventura, le conseguenze d'un traviamento, il risultato d'un eccesso. Mi è difficile contraddirli in quanto non riesco a scorgere in che cosa mi sia traviato, in che cosa io abbia ecceduto. Mi sforzo di ridurre il mio delitto, se tale dobbiamo chiamarlo, a proporzioni esatte; mi dico che il suicidio non è poi così raro, che è un fatto abbastanza comune morire a vent'anni. La morte di Antinoo è un problema, oltreché una sciagura, per me solo. Può darsi che questa sciagura sia stata inseparabile da un eccesso di gioia, da un sovrappiù d'esperienza, di cui non avrei consentito a privarmi, né a privare il mio compagno di pericolo. I miei rimorsi, a poco a poco, sono divenuti anch'essi un aspetto amaro di possesso, un modo per assicurarmi d'esser stato sino alla fine lo sventurato padrone del suo destino. Ma non ignoro che bisogna fare i conti con le iniziative personali di quell'estraneo affascinante che resta, malgrado tutto, ogni essere amato. Se m'assumo tutta la colpa, riduco quella giovane figura alle proporzioni d'una statuetta di cera che io avrei modellata, e poi infranta con le mie stesse mani. Non ho il diritto di avvilire quel raro capolavoro che fu la sua fine; devo lasciare a quel fanciullo il merito della propria morte. 
Naturalmente, non ne faccio una colpa al fattore dei sensi - molto ovvio, del resto - che determinava la mia scelta in amore. Di passioni consimili ne erano passate spesso, nella mia vita; ma quegli amori, frequenti, non m'erano costati che un minimo di promesse, di menzogne, di pene. La breve esaltazione per Lucio non m'aveva trascinato che a poche follie, e rimediabili. Nulla vietava che sarebbe accaduto lo stesso di questa mia tenerezza suprema; nulla, salvo precisamente quella qualità unica che la distingueva dalle altre. L'assuefazione ci avrebbe condotti a quella fine senza gloria, ma anche senza disastri, che la vita procura a tutti coloro che non le ricusano il lene logorio del tempo. Avrei assistito al mutarsi della passione in amicizia, come pretendono i moralisti, oppure in indifferenza, il che è più frequente. Un essere giovane si sarebbe staccato da me nel momento in cui il nostro legame avrebbe cominciato a pesarmi; altre consuetudini sensuali, o le stesse, sotto forme diverse, si sarebbero insediate nella sua vita; il suo avvenire avrebbe contenuto un matrimonio, né migliore né peggiore di tanti altri, una carica nell'amministrazione delle province, la gestione d'un possedimento rurale in Bitinia; o anche l'inerzia, la vita di corte proseguita in qualche posizione subalterna; nel peggiore dei casi, una di quelle carriere di favorito decaduto che si trasforma in confidente o in lenone. La vera saggezza, se ci capisco qualcosa, consiste nella consapevolezza di tutte queste eventualità, che costituiscono la vita stessa, salvo a far di tutto per scartare le peggiori. Ma né quel fanciullo né io eravamo saggi. 
Non avevo atteso la presenza di Antinoo per sentirmi un dio. Ma il successo moltiplicava le occasioni di vertigine, intorno a me; pareva che le stagioni collaborassero con i poeti e i musici del mio seguito per rendere la nostra esistenza tutta una festa olimpica. Il giorno del mio arrivo a Cartagine, ebbe termine una siccità che durava da cinque anni; la folla in delirio sotto la pioggia scrosciante acclamò in me il dispensatore di benefici sovrumani; i grandi acquedotti d'Africa, poi, altro non furono che un modo per canalizzare quella prodigalità celeste. Qualche tempo prima, durante una sosta in Sardegna, un temporale ci spinse a cercar rifugio in una capanna di contadini; Antinoo aiutò il nostro ospite a rigirare sulla brace un paio di trance di tonno; mi sembrò d'esser Zeus che visita Filemone in compagnia di Ermes. Quel giovinetto dalle gambe ripiegate sul letto era Ermes in persona, che si scioglie i sandali; era Bacco, mentre coglieva un grappolo o assaggiava per me una coppa di vino rosato; le sue dita, indurite dalla corda dell'arco, erano quelle di Eros. Fra tante trasfigurazioni, in mezzo a tante magie, mi accadde di dimenticare la persona umana, il fanciullo che s'affannava invano a imparare il latino, o pregava l'architetto Decriano di dargli lezioni di matematica, poi vi rinunciava, e, al minimo rimprovero, si rifugiava imbronciato a prua della nave a guardare il mare. 
Il viaggio d'Africa ebbe termine in pieno luglio nei nuovi quartieri di Lambesa; il mio compagno indossò con gioia puerile la corazza e la tunica militare; io fui per qualche giorno il Marte nudo, che, l'elmo in testa, prende parte alle esercitazioni del campo, l'Ercole atletico ebbro della consapevolezza del suo vigore ancor giovane. Nonostante il caldo, e i lunghi lavori di sterro eseguiti prima del mio arrivo, l'esercito operò, come tutto il resto, con divina scioltezza: sarebbe stato impossibile costringere quel corridore a un altro salto d'ostacolo, imporre a quel cavallerizzo un nuovo volteggio, senza nuocere all'armonia medesima di quelle manovre, senza infrangere in qualche punto quel giusto equilibrio di forze che ne costituisce la bellezza. Dovetti far osservare agli ufficiali un solo errore, ma impercettibile: un gruppo di cavalli lasciati allo scoperto durante un attacco, simulato, in aperta campagna; Comeliano, il mio prefetto, mi contentò in tutto. Un ordine sapiente guidava quelle masse d'uomini, di bestie da tiro, di donne barbare accompagnate da fanciulli robusti che si affollavano intorno al pretorio per baciarmi le mani. Questa reverenza non era servile; quell'ardore selvaggio s'impegnava a sostenere il mio programma di sicurezza; nulla era costato troppo caro; nulla era stato trascurato. Pensai di far redigere da Arriano un trattato di tattica militare, puntuale come un organismo ben fatto. 
Più tardi, ad Atene, la consacrazione dell'Olympieion diede occasione a feste che ricordavano le solennità romane, ma quel che a Roma s'era svolto sulla terra laggiù avvenne in pieno cielo. In un dorato meriggio autunnale, presi posto sotto quel portico concepito per la statura sovrumana di Zeus; il tempio di marmo eretto nel punto ove Deucalione vide cessare il diluvio, pareva perdere peso, fluttuare come una densa nube bianca; le mie vesti rituali s'intonavano con i colori della sera, sull'Imetto contiguo. Avevo incaricato Polemone di pronunciare il discorso inaugurale; e, in quella occasione, la Grecia mi assegnò quegli attributi divini nei quali ravvisavo al tempo stesso una fonte di prestigio e il fine più segreto dell'opera della mia vita: Evergete, Olimpico, Epifane, Signore del Tutto. E il più bello di questi titoli, il più arduo da meritare tra tutti: Jonico, Filelleno. Polemone recitava un poco, ma nella mimica d'un grande commediante traspare a volte un'emozione alla quale partecipa tutta una folla, tutto un secolo. Levò gli occhi, si concentrò un istante prima dell'esordio, parve racchiudere in sé tutti i doni contenuti in quell'istante del tempo. Avevo collaborato con i secoli, con la stessa vita greca; l'autorità che esercitavo, più che un potere, era una potenza misteriosa, che sovrasta l'uomo, ma che agisce efficacemente solo attraverso la mediazione dell'uomo; le nozze di Atene e Roma erano consumate; il passato ritrovava il volto dell'avvenire; la Grecia ripartiva come una nave lungamente immobilizzata dalla bonaccia, che torna a sentire la spinta del vento nelle vele. Fu allora che mi strinse il cuore la malinconia d'un istante: pensai che le parole adempimento, perfezione, contengono in sé la parola fine: forse, non avevo fatto che offrire una nuova preda al Tempo divoratore. 
Penetrammo poi all'interno del tempio, dove gli scultori erano ancora intenti al lavoro: l'immenso abbozzo del Zeus d'avorio e d'oro rischiarava vagamente la penombra: ai piedi dell'impalcatura, il grande serpente, che avevo fatto cercare in India per consacrarlo in quel santuario greco, riposava già nella sua cesta di filigrana, animale divino, emblema strisciante dello spirito della Terra, da sempre associato al giovinetto nudo che simboleggia il Genio dell'imperatore. Antinoo, compenetrandosi sempre più in questa parte, servì lui stesso al serpente la sua razione di colombe dalle ali tarpate. Poi, levate le braccia al cielo, pregò. Sapevo che questa preghiera, fatta per me, non s'indirizzava che a me solo, ma non ero abbastanza dio per indovinarne il senso, né per sapere se, un giorno o l'altro, sarebbe stata esaudita. Che sollievo, uscire da quel silenzio, da quella penombra turchina, ritrovare le strade di Atene rischiarate dalle lampade, la familiarità del popolo, le grida nell'aria densa della sera. La giovane figura che ben presto avrebbe adornato tante monete del mondo greco diveniva per la folla una presenza amica, un prodigio. 
Non l'amavo di meno; l'amavo anzi di più. Ma il peso dell'amore, come quello d'un braccio teneramente posato sul petto, a poco a poco si rendeva pesante. 
Riapparvero le comparse: ricordo quel giovane asciutto e sottile, che mi accompagnò durante un soggiorno a Mileto, e al quale, però, rinunciai. Ricordo una serata a Sardi: il poeta Stratone ci condusse da un luogo di perdizione a un altro, in compagnia di losche conquiste. Quello Stratone, che aveva preferito la libertà oscura nelle taverne asiatiche alla mia corte, era uno squisito motteggiatore, avido di provare la vanità di tutto quel che non è il piacere, forse per scusarsi di aver sacrificato ad esso tutto il resto. Poi, vi fu quella notte di Smirne, in cui costrinsi il mio giovane amico a subire la presenza d'una cortigiana. Il fanciullo s'era fatto dell'amore un'idea che restava austera, perché era esclusiva; il suo disgusto giunse fino alla nausea. Poi, ci si abituò. Quelle vane prove si spiegano con la mia inclinazione alle sregolatezze; vi si mescolava la speranza d'inventare un'intimità nuova, nella quale il compagno di piacere non avrebbe cessato d'essere l'amico, il prediletto; vi si mescolava la bramosia d'istruirlo, di far passare la sua giovinezza attraverso le stesse esperienze che erano state quelle della mia; fors'anche, più inconfessata, l'intenzione di degradarlo a poco a poco al livello dei piaceri banali che non impegnano. 
Il mio bisogno di ferire quella tenerezza ombrosa, che rischiava di costituire un impaccio nella mia vita, non era esente da angoscia. Durante un viaggio nella Troade, visitammo la pianura dello Scamandro, sotto un livido cielo da bufera; l'inondazione, i cui danni ero venuto a ispezionare sul luogo, trasformava in isolotti gli antichi sepolcri. Per alcuni istanti mi raccolsi sulla tomba di Ettore; Antinoo andò a sognare su quella di Patroclo. Non seppi riconoscere nel cerbiatto che m'accompagnava l'emulo del camerata di Achille, schernii le fedeltà appassionate che fioriscono soprattutto nei libri; e la bella creatura insultata arrossì a sangue. La franchezza era sempre più la sola virtù alla quale mi costringevo; mi accorgevo che le discipline eroiche di cui la Grecia ha pervaso l'affetto d'un uomo maturo per un compagno più giovane spesso non sono per noi che ipocrite smancerie. Ero rimasto più sensibile di quel ch'io credessi ai pregiudizi di Roma; ricordavo che essi concedono al piacere la sua parte, ma stimano l'amore una mania disdicevole; ero ripreso dalla furia di non dipendere da nessun essere in maniera esclusiva. Mi esasperavano bizzarrie ch'erano proprie della giovinezza, e come tali inseparabili dal mio compagno; finivo per ritrovare, in questa passione tanto dissimile, tutto quel che m'aveva irritato nelle amanti romane: i profumi, la ricercatezza, il lusso freddo delle acconciature ripresero posto nella mia vita. In quel cuore malinconico s'insinuarono i primi timori, quasi ingiustificati; lo vidi preoccuparsi d'aver presto diciannove anni. Qualche capriccio pericoloso, collere che, squassando su quella fronte caparbia gli anelli di Medusa dei capelli, si alternavano a una malinconia che somigliava al torpore, a una dolcezza sempre più stanca. Mi accadde di percuoterlo; ricorderò sempre quei suoi occhi atterriti. Ma l'idolo offeso era pur sempre l'idolo, e cominciavano i sacrifizi espiatori. 
Tutti i Misteri asiatici erano lì ad accentuare quella voluttuosa sregolatezza con le loro armonie dissonanti. Era ormai trascorso il tempo di Eleusi. Le iniziazioni ai culti segreti o stravaganti, pratiche più tollerate che consentite, il legislatore che si celava in me le guardava con diffidenza; ma si adattavano a quel momento della vita in cui la danza si fa vertigine, il canto si chiude nel pianto. Nell'isola di Samotracia, ero stato iniziato ai Misteri dei Cabiri, antichi e osceni, sacri come la carne e il sangue; serpenti sazi di latte nell'antro di Trofonio si strofinarono alle mie caviglie; le feste trace di Orfeo dettero luogo a selvaggi riti di fraternità. L'uomo di Stato che aveva interdetto, ordinando per i trasgressori le pene più severe, tutte le forme di mutilazione, consentì ad assistere alle orge della dea Siriana; ho visto il turbinio orrendo delle danze sanguinose; il mio compagno giovinetto, ipnotizzato come un capretto in presenza d'un rettile, contemplava atterrito quegli uomini che preferivano una mutilazione definitiva quanto la morte, e forse più atroce, alle esigenze dell'età e del sesso. Ma il colmo dell'orrore lo avemmo durante un soggiorno a Palmira, durante il quale il mercante arabo Meleo Agrippa ci ospitò per tre settimane in un lusso splendido e barbarico. Un giorno, al levar delle mense, questo Meleo, gran dignitario del culto di Mitra, che prendeva ben poco sul serio i suoi doveri di pastoforo, propose ad Antinoo di partecipare al sacrificio del toro sacro. Il giovinetto sapeva che in altri tempi io m'ero sottoposto a una cerimonia del genere; e si offrì con ardore. Non pensai di dovermi opporre a quel suo capriccio, per attuare il quale si richiese un minimo di purificazioni e astinenze. Accettai di fungere io stesso da assistente, insieme a Marco Ulpio Castora, il mio interprete per l'arabo. All'ora prestabilita, scendemmo nel sotterraneo sacro. Il bitino si distese per ricevere l'aspersione sanguinosa. Ma, quando vidi emergere dalla fossa quel corpo striato di sangue vermiglio, quella chioma impastata di melma vischiosa, quel volto tutto chiazzato di macchie che non si potevano lavare, ma bisognava lasciar asciugare da sé, mi strinse alla gola la nausea e l'orrore per quei culti sotterranei e torbidi. Qualche giorno più tardi, feci interdire alle truppe acquartierate a Emeso l'accesso al negro Mitreo. 
Ho avuto anch'io i miei presagi: come Marc'Antonio prima dell'ultima battaglia, ho udito allontanarsi nella notte la marcia del cambio della guardia: gli déi propizi se ne andavano... La udivo senza badarvi. La mia sicurezza era ormai quella del cavaliere che un talismano protegge da qualsiasi caduta. A Samosata, ebbe luogo sotto i miei auspici un congresso di piccoli re orientali; durante le cacce in montagna, Abgar, re d'Osroene, m'insegnò di persona l'arte del falconiere; alcune battute, ordite come scene di teatro, fecero cadere nelle reti di porpora interi branchi di antilopi; Antinoo s'inarcava con tutta la sua energia per trattenere l'ardore d'una coppia di pantere che strappavano il pesante collare d'oro. Ma dietro quegli splendori, si concludevano accordi; le trattative mi furono sempre favorevoli; restavo il giocatore che vince tutte le partite. Trascorsi l'inverno in quel palazzo di Antiochia dove, in altri tempi, avevo chiesto agli stregoni d'illuminarmi sull'avvenire. Ma, ormai, l'avvenire non poteva recarmi più nulla, o almeno nulla che potesse aver l'aspetto di un dono. La mia vendemmia era fatta: il mosto della vita colmava i miei tini. Avevo cessato, è vero, di regolare il mio destino, ma le discipline accuratamente elaborate d'altri tempi m'apparivano ormai solo lo stadio iniziale d'una vocazione d'uomo; erano simili a quelle catene che il danzatore si costringe a portare per balzare più alto quando se ne libera. L'antica austerità durava in certi punti; continuavo a proibire che si servisse il vino prima della seconda veglia notturna: ricordavo bene d'aver visto, su quella stessa tavola di legno lucido, la mano tremolante di Traiano. Ma esistono ebbrezze diverse. Non si profilava ombra alcuna sui miei giorni, né la morte, né la sconfitta, né quella disfatta più dura che ci s'infligge da sé, né la vecchiaia che tuttavia avrebbe finito per giungere. E, tuttavia, mi affrettavo, come se ciascuna di quelle ore fosse al tempo stesso la più bella e l'estrema. 
I frequenti soggiorni in Asia Minore mi avevano messo a contatto con un gruppetto di sapienti seriamente dediti allo studio delle arti magiche. Ogni secolo ha le sue audacie: gli spiriti migliori del nostro, stanchi d'una filosofia che si degrada sempre più al livello di declamazione scolastica, si compiacciono di tentare quelle frontiere vietate all'uomo. A Tiro, Filone di Biblo mi aveva rivelato alcuni segreti dell'antica magia fenicia: mi seguì ad Antiochia. Ivi, della teoria di Platone sulla natura dell'anima, Noumenio dava un'interpretazione che restava cauta, ma che avrebbe portato lontano uno spirito più ardito del suo. I suoi discepoli evocavano i demoni: un gioco come un altro. Tra le volate d'un fumo di resina, mi apparvero strane figure, che sembravano fatte della sostanza stessa dei miei sogni; oscillarono, e si dileguarono, lasciandomi solo la vaga sensazione d'una somiglianza con un viso vivo e a me noto. Forse, tutto ciò non era che il trucco d'un prestigiatore: in questo caso, il prestigiatore sapeva bene il fatto suo. Ripresi gli studi di anatomia, tentati appena nella mia giovinezza, ma non più per studiare la struttura del corpo umano: mi aveva riafferrato la curiosità di quelle zone intermedie dove l'anima e la carne si confondono, dove il sogno si adegua alla realtà, e a volte la previene, dove la vita e la morte si scambiano attributi e sembianze. Ermogene, il mio medico, disapprovava queste esperienze; nondimeno mi introdusse in una piccola cerchia di praticanti, che lavoravano in questo campo. Insieme a loro, tentai d'individuare la sede dell'anima, di scoprire i legami che la saldano al corpo, di misurare il tempo che le occorre per distaccarsene. Alcuni animali furono sacrificati per quelle ricerche. Il chirurgo Satiro mi condusse nella sua clinica, per assistere a qualche agonia. Fantasticavamo ad alta voce: l'anima non è dunque che l'espressione suprema del corpo, fragile manifestazione della pena e del piacere di vivere? O, al contrario, è più antica di questo corpo modellato a sua immagine, e che, bene o male, le serve momentaneamente di strumento? La si può richiamare all'interno della carne, si può ristabilire tra l'una e l'altra quell'intimo legame, quella combustione che chiamiamo vita? Se le anime possiedono una loro identità propria, possono scambiarsi, andare da un essere a un altro, come la parte d'un frutto, come il sorso di vino che due amanti si passano in un bacio? Non v'è sapiente che su queste cose non muti opinione venti volte ogni anno; in me, lo scetticismo era in conflitto con l'ansia di sapere, e l'entusiasmo con l'ironia. M'ero convinto che la nostra intelligenza non lascia filtrare fino a noi che uno scarno residuo dei fatti, e m'interessavo sempre più al mondo oscuro delle sensazioni, quella nera notte dove folgorano e turbinano soli accecanti. In quell'epoca, Flegone, che collezionava storie di spettri, ci raccontò una sera quella della "Fidanzata di Corinto", di cui ci garantì l'autenticità. Quell'avventura, nella quale l'amore riusciva a richiamare un'anima sulla terra e, se pure per poco, le rendeva un corpo, commosse tutti noi, ma in grado diverso. Parecchi tentarono di richiamarsi a esperienze analoghe: Satiro si sforzò di rievocare il maestro Aspasio, il quale aveva stretto con lui uno di quei patti, mai mantenuti, secondo i quali chi muore promette di dar conto di sé ai vivi. Antinoo mi fece una promessa dello stesso genere, e io la presi alla leggera, poiché non avevo nessuna ragione di credere che quel fanciullo dovesse morire prima di me. Filone cercò di farci apparire la moglie morta. Io permisi che si pronunciassero i nomi di mio padre e di mia madre, ma una specie di pudore m'impedì di evocare Plotina. Nessuno di quei tentativi riuscì. Ma s'erano aperte strane porte. 
Pochi giorni prima di partire da Antiochia, mi recai, come in altri tempi, a sacrificare in vetta al monte Cassio. L'ascensione fu fatta di notte: come per l'Etna, condussi con me solo una piccola cerchia di amici dai muscoli provati. Non mi proponevo soltanto di compiere un rito propiziatorio in quel santuario, più sacro d'ogni altro: volevo rivedere di lassù il fenomeno dell'aurora, quel prodigio quotidiano, che non ho mai contemplato senza un segreto palpito di gioia. Sulla vetta, il sole fa risplendere gli ornamenti di rame del tempio, i volti illuminati sorridono in piena luce, mentre le pianure dell'Asia e il mare sono ancora immersi nell'ombra: per pochi istanti, l'uomo che prega sulla cima è il solo a godere del mattino. Tutto fu approntato per un sacrificio: prendemmo a salire da prima a cavallo, poi a piedi, lungo ardui sentieri fiancheggiati da ginestre e lentischi, che si riconoscevano di notte dal profumo. L'aria era densa; quella primavera bruciava come, altrove, l'estate. Per la prima volta in un'ascensione in montagna, mi mancò il respiro: dovetti appoggiarmi un istante sulla spalla del mio prediletto. Un temporale, previsto da tempo da Ermogene, che se ne intende di meteorologia, si scatenò a un centinaio di passi dalla cima. I sacerdoti uscirono per venirci incontro al bagliore dei lampi: l'esigua compagnia, fradicia fino alle ossa, si affrettò attorno all'altare disposto per il sacrificio. Questo stava per compiersi, allorché un fulmine, balenando su di noi uccise d'un colpo solo il vittimario e la vittima. Passato il primo istante di orrore, Ermogene si chinò con l'interesse dei medici sul gruppo fulminato; Cabria e il gran sacerdote proruppero in grida d'ammirazione: l'uomo e il cerbiatto sacrificati da quella folgore divina s'univano all'eternità del mio Genio: quelle vite prolungavano la mia. Antinoo aggrappato al mio braccio tremava, non già di terrore, come credetti allora, ma percosso da un'idea che compresi più tardi. Un essere che aveva orrore della decadenza fisica, della vecchiaia, da tempo aveva dovuto ripromettersi di suicidarsi al primo indizio di quella decadenza, o anche molto prima. Oggi, giungo a credere che questo impegno, che molti di noi si giurano, senza poi mantenerlo, in lui fosse radicato da moltissimo tempo, dall'epoca di Nicomedia, di quell'incontro in riva alla sorgente. Quest'impegno spiegava la sua indolenza, il suo ardore nel piacere, la sua malinconia, la sua indifferenza totale per il futuro. Ma bisognava ancora che quella sua fine non avesse l'aria d'una rivolta, non contenesse la minima recriminazione. La folgore del monte Cassio gl'indicava una soluzione: la morte poteva diventare una forma estrema di devozione, l'ultimo dono, il solo che sarebbe rimasto. La luminosità dell'aurora fu una povera cosa accanto al sorriso che si aprì su quel viso turbato. Qualche giorno dopo, rividi lo stesso sorriso, ma più schivo, velato d'ambiguità: a cena, Polemone, che s'interessava di chiromanzia, volle esaminare la mano del giovinetto, quel palmo dove spaventava anche me una paurosa caduta di stelle. Il fanciullo ritirò la sua mano, la richiuse, con un gesto soave, quasi pudico. 
Voleva serbare il segreto del suo gioco e quello della sua fine. 
 
 
 
 
Sostammo a Gerusalemme. Qui studiai sul posto la pianta d'una città nuova, che mi proposi di costruire sul terreno della città ebraica distrutta da Tito. L'eccellente amministrazione della Giudea, l'incremento del commercio con l'Oriente rendevano necessario lo sviluppo d'una grande metropoli in quell'incrocio di strade. Mi configurai la solita capitale romana: Aelia Capitolina avrebbe avuto i suoi templi, i mercati, le terme pubbliche, il santuario della Venere romana. La mia simpatia di fresca data per i culti teneri e appassionati m'indusse a stabilire sul monte Moriah una grotta dove si sarebbero celebrate le feste Adonie. Tali progetti indignarono la plebe ebraica: quei diseredati preferivano le loro rovine a una grande città nella quale verrebbero offerti tutti i profitti del guadagno, del sapere e del piacere. Gli operai che davano il primo colpo di piccone a quelle mura crollanti furono molestati dalla folla. Passai oltre: Fido Aquila, che più tardi doveva impiegare il suo genio di organizzatore nella costruzione di Antinopoli, si mise all'opera a Gerusalemme. Mi rifiutai di vedere il rapido crescere dell'odio su quei cumuli di macerie. Un mese dopo, giungemmo a Pelusa. Mi affrettai a far restaurare la tomba di Pompeo. Più m'ingolfavo negli affari d'Oriente, più ammiravo il genio politico del mortale vinto dal grande Giulio. A volte, Pompeo, che aveva cercato di metter ordine in quel mondo malsicuro dell'Asia, mi sembrava avesse operato più efficacemente, per Roma, che non lo stesso Cesare. Quei lavori di restauro furono uno degli ultimi tributi che io resi ai morti della storia: presto, avrei avuto ben altri sepolcri a cui pensare. 
Il mio arrivo ad Alessandria avvenne con grande discrezione. L'ingresso trionfale era stato rimandato alla venuta dell'imperatrice. Avevano persuaso mia moglie, che viaggiava poco, a trascorrere l'inverno nel mite clima d'Egitto: Lucio, non ancora guarito da una tosse ostinata, doveva tentare lo stesso rimedio. Si adunava una flottiglia di barche in vista di un viaggio sul Nilo: il programma comportava una serie di ispezioni ufficiali, di feste, di banchetti, che minacciavano di esser faticosi quanto quelli d'una stagione al Palatino. Avevo organizzato io stesso tutto questo: il lusso, il prestigio d'una corte non erano privi di valore politico in quel paese antico, avvezzo ai fasti regali. 
Ma a maggior ragione mi stava a cuore dedicare alla caccia i pochi giorni che precedevano l'arrivo dei miei ospiti. A Palmira, Meleo Agrippa aveva organizzato per noi le battute nel deserto; ma non ci eravamo inoltrati abbastanza per incontrare i leoni. Due anni prima, l'Africa mi aveva offerto qualche bella caccia alle fiere; ad Antinoo, troppo giovane e troppo inesperto, non avevo dato il permesso di prendervi parte in prima linea; per lui, avevo le viltà alle quali non avrei mai pensato per me stesso. Cedendo, come sempre, gli promisi un ruolo di primo piano in quella caccia al leone. Non era più tempo di trattarlo da bambino, ed ero fiero di quella giovane forza. 
Partimmo per l'oasi di Ammone, a pochi giorni di marcia da Alessandria, quella stessa dove Alessandro aveva appreso un giorno dalla bocca dei sacerdoti il segreto della sua origine divina. Gl'indigeni avevano segnalato in quei paraggi la presenza d'una belva molto pericolosa, che varie volte aveva attaccato l'uomo. La sera, attorno ai fuochi del bivacco, paragonavamo allegramente le nostre future imprese a quelle di Ercole. Ma i primi giorni non ci fruttarono che qualche gazzella. Quella volta, stabilimmo di andare ad appostarci entrambi nei pressi d'uno stagno sabbioso ricoperto di canne. Dicevano che al crepuscolo il leone vi si dissetasse. I negri erano incaricati di spingerlo verso di noi con un frastuono di conchiglie, di cimbali, di grida; il resto della scorta fu lasciato a distanza. L'aria era calma e pesante; non era necessario nemmeno preoccuparsi della direzione del vento. Era forse appena passata l'ora decima; difatti Antinoo mi fece osservare sullo stagno che le ninfee rosse erano ancora tutte aperte. Improvvisamente tra un fruscio di canne calpestate, apparve la belva regale, volse verso di noi il suo terribile, magnifico muso, uno degli aspetti più divini che possa assumere il pericolo. Trovandomi un po' indietro, non ebbi il tempo di trattenere il fanciullo, il quale imprudentemente spronò il cavallo, lanciò la picca, poi i suoi due giavellotti, con arte, ma troppo da vicino. La belva, trafitta nel collo, crollò, battendo il suolo con la coda; la sabbia sollevata c'impediva di distinguere altro che una massa ruggente e confusa; infine, il leone si drizzò, raccolse le forze per slanciarsi sul cavallo e sul cavaliere disarmato. Avevo previsto questo pericolo; per fortuna, la cavalcatura di Antinoo non ebbe uno scarto: i nostri animali erano mirabilmente addestrati a quella sorta di giochi. Gettai nel mezzo il mio cavallo, esponendo il fianco destro; avevo l'abitudine a simili esercizi; non mi fu difficile finire la belva, già colpita a morte; rovinò per la seconda volta; il muso si voltolò nella melma; un rivoletto di sangue nero colò sull'acqua. Il grosso gatto color del deserto, del miele e del sole spirò con una maestà più che umana. Antinoo si precipitò giù dal cavallo coperto di schiuma, che tremava ancora; i compagni ci raggiunsero; i negri trainarono al campo l'immensa vittima morta. 
Fu improvvisato una specie di festino. Il giovinetto, disteso sul ventre davanti a un vassoio di rame, ci distribuì con le sue stesse mani le porzioni di agnello cotto sotto la cenere. In suo onore, si libò vino di palma. La sua esaltazione cresceva come un canto. Forse, egli esagerava il significato dell'aiuto che gli avevo prestato, dimentico che avrei fatto altrettanto per qualsiasi cacciatore in pericolo; tuttavia, ci sentivamo riportati in quel mondo eroico nel quale gli amanti muoiono l'uno per l'altro. La gratitudine e l'orgoglio si alternavano nella sua gioia come le strofe d'un'ode. I negri fecero miracoli: la sera stessa, la pelle scorticata oscillava sotto le stelle, sospesa a due pali, all'entrata della mia tenda. Malgrado gli aromi di cui l'avevano cosparsa, l'odore ferino ci assillò tutta la notte. L'indomani, dopo una colazione di frutta, lasciammo il campo; al momento della partenza, scorgemmo in un fosso quel che restava della belva regale della vigilia: non era più che una carcassa sanguinolenta sormontata da un nugolo di mosche. 
Pochi giorni dopo, rientrammo ad Alessandria. Il poeta Panciate ci organizzò una festa al Museo; in una sala da musica, erano stati riuniti strumenti preziosi: le vecchie lire doriche, più pesanti e meno complicate delle nostre, stavano accanto alle cetre ricurve della Persia e dell'Egitto, e ai pifferi frigi, acuti come voci di eunuchi, e ai delicati flauti indiani di cui ignoro il nome. Un Etiope batté a lungo su zucche africane. Una donna, la cui bellezza un po' fredda mi avrebbe conquistato se non avessi stabilito di semplificare la mia vita riducendola a ciò che mi era essenziale, sonò un'arpa triangolare dai toni tristi. Mesomede di Creta, il mio musico prediletto, accompagnò sull'organo ad acqua il recitativo del suo poema "La Sfinge", un'opera inquietante, sinuosa, sfuggente come la sabbia al vento. La sala da concerto si apriva su una corte interna: sull'acqua d'una vasca, si aprivano alcune ninfee, sotto le fiamme quasi roventi d'un pomeriggio di fine agosto. Durante un interludio, Pancrate volle farci ammirare da vicino quei fiori d'una varietà rara, vermigli come sangue, che fioriscono solo sul finir dell'estate. Riconoscemmo immediatamente le nostre ninfee scarlatte dell'oasi di Ammone; Pancrate si esaltò all'idea della belva ferita che spirava tra i fiori. Mi propose di mettere in versi quell'episodio di caccia: si sarebbe detto che era stato il sangue del leone a tingere i gigli delle acque. La formula non era nuova: tuttavia, passai l'ordine. Quel Pancrate, che aveva tutto del poeta di corte, seduta stante vergò pochi versi piacevoli in onore di Antinoo: la rosa, il giacinto, il chelidonio vi venivano sacrificati a quelle corolle di porpora, che ormai porteranno il nome del mio prediletto. Fu ordinato a uno schiavo di entrare nella vasca a coglierne un fascio. Il giovinetto, avvezzo agli omaggi, accettò compunto quei fiori densi come la cera, dagli steli molli e serpentini; si chiusero come palpebre quando scese la notte.  
 
 
 
 
In quei giorni giunse l'imperatrice. La lunga traversata l'aveva affaticata: diventava fragile, senza cessare d'essere dura. Le sue amicizie politiche non mi procuravano più grattacapi, come all'epoca in cui aveva scioccamente incoraggiato Svetonio; ormai, si circondava soltanto di inoffensive letterate. La sua confidente del momento, una certa Giulia Balbilla, componeva versi greci abbastanza bene. L'imperatrice e il suo seguito presero stanza al Lyceum, ed uscirono raramente. Lucio, al contrario, era, come sempre, avido di tutti i piaceri, compresi quelli del pensiero e degli occhi. 
A ventisei anni, non aveva perduto quasi nulla di quella bellezza prodigiosa che lo faceva acclamare per le strade dalla gioventù romana. Seguitava a essere assurdo, ironico e gaio. I suoi capricci d'altri tempi erano diventati manie; non si spostava senza il capocuoco; persino a bordo, i giardinieri gli componevano prodigiose aiuole di fiori rari; dappertutto, si tirava dietro il suo letto, di cui aveva disegnato il modello personalmente, composto di quattro materasse zeppe di quattro specie rare di aromi; un letto, sul quale giaceva circondato dalle sue giovani amanti come da altrettanti guanciali. I suoi paggi, dipinti, incipriati, acconciati come gli Zeffiri e l'Amore, si conformavano come meglio potevano a manie talvolta crudeli: dovetti intervenire per impedire che il piccolo Borea, del quale ammirava la figura sottile, si lasciasse morir di fame; tutte cose più irritanti che graziose. Visitammo insieme tutto quel che si visita ad Alessandria: il Faro, il Mausoleo di Alessandro, quello di Marc'Antonio, dove Cleopatra eternamente trionfa di Ottavia, senza tralasciare i templi, gli opifici, le fabbriche e neppure il quartiere degli imbalsamatori. Da uno scultore pregevole, comprai un blocco di Veneri, di Diane e di Ermes per Italica, la mia città natale, che mi proponevo di rimodernare, di abbellire. Il sacerdote del tempio di Serapide mi offrì un servizio di vetri opalini, che feci inviare a Serviano; per riguardo a mia sorella Paolina, cercavo di mantenere rapporti abbastanza cordiali con lui. Durante queste ispezioni, piuttosto fastidiose, studiammo insieme vasti progetti edilizi. 
Le religioni, ad Alessandria, sono varie quanto i negozi: la qualità del prodotto, però, è più dubbia. I cristiani, soprattutto, vi si distinguono per una incredibile varietà di sette, se non altro inutili. Due ciarlatani, Valentino e Basilide, intrigavano uno contro l'altro, sorvegliati strettamente dalla polizia romana. La feccia del popolo egizio approfittava di ogni manifestazione rituale per gettarsi sugli stranieri, col randello in pugno; provoca più sommosse ad Alessandria la morte del bue Api che non una successione imperiale a Roma. La gente alla moda cambia divinità come altrove cambia medico, ma senza risultati più apprezzabili. Ad Alessandria, il solo idolo è l'oro: in nessun luogo ho visto postulanti più sfrontati. Iscrizioni pompose furono sciorinate un po' dappertutto per esaltare i miei benefici, ma ben presto il mio rifiuto di esonerare la popolazione da una tassa, che era perfettamente in grado di pagare, mi alienò quella turba. I due giovinetti che mi accompagnavano furono insultati più volte; a Lucio si rimproverava il lusso, eccessivo del resto; ad Antinoo le origini oscure, sul conto delle quali correvano dicerie assurde; a entrambi, l'ascendente su di me che a loro si attribuiva. Asserzione ridicola, questa: Lucio, che pur giudicava i pubblici affari con perspicacia sorprendente, non aveva la minima influenza politica; Antinoo non tentava neppure di averne. Il giovane patrizio, che conosceva il mondo, non fece che ridere di quegli insulti. Ma Antinoo ne soffrì. 
Gli Ebrei, sobillati dai correligionari di Giudea, facevano del loro meglio per inasprire quella pasta già acida. La sinagoga di Gerusalemme delegò il suo membro più venerato, Akiba, un vegliardo quasi nonagenario, il quale non sapeva il greco, per convincermi a rinunciare ai progetti, già in corso di attuazione, a Gerusalemme. Assistito da interpreti, ebbi con lui parecchi colloqui, che, da parte sua, non furono che pretesti per monologhi. In meno di un'ora, mi sentii in grado d'intendere esattamente il suo pensiero, se non di sottoscriverlo; ma egli non compì lo stesso sforzo per quel che concerneva il mio. Quel fanatico non sospettava neppure che si potesse ragionare su premesse diverse dalle sue; offrivo a quel popolo denigrato un posto tra gli altri nella comunità romana: per bocca di Akiba, Gerusalemme mi faceva sapere la sua volontà di rimanere fino all'ultimo la fortezza d'una razza e d'un dio isolato dal genere umano. Questa risoluzione forsennata si esprimeva con sottigliezze estenuanti; dovetti subire una lunga serie di ragioni, sapientemente dedotte le une dalle altre, della superiorità di Israele. Al termine di otto giorni, quel negoziatore ostinato s'accorse tuttavia d'aver sbagliato strada, e m'annunciò che partiva. Detesto la sconfitta, persino quella altrui; mi commuove soprattutto quando il vinto è un vecchio. L'ignoranza di Akiba, il suo rifiuto di accettare tutto ciò che non fosse i suoi libri santi e il suo popolo, gli conferivano una sorta di candida innocenza. Ma era ben difficile intenerirsi per quel settario. Pareva che la longevità lo avesse spogliato di qualsiasi duttilità umana: quel corpo scarno, quello spirito asciutto erano dotati d'un vigore duro, da cavalletta. Pare che in seguito sia morto da eroe per la causa del suo popolo, o, piuttosto, della sua legge: ognuno si vota ai propri déi. 
Gli svaghi di Alessandria cominciavano a esaurirsi. Flegone, che in ogni luogo conosceva le curiosità locali, il lenone o l'ermafrodita celebre, propose di condurci da una maga. Codesta mediatrice dell'invisibile abitava a Canopo; ci recammo colà nottetempo, in barca, sul canale dalle acque dense. Il tragitto fu tetro. Come sempre, regnava tra i due giovani un'ostilità sorda: l'intimità alla quale li costringevo faceva crescere l'avversione che avevano l'uno per l'altro. Lucio celava la sua con una condiscendenza scherzosa; il mio giovane greco si chiudeva in uno dei suoi accessi d'umore nero. Ero piuttosto stanco anch'io; qualche giorno prima, rientrando da un'escursione in pieno sole, avevo avuto una breve sincope di cui unici testimoni erano stati Antinoo e il mio servo negro Euforione. Entrambi s'erano estremamente spaventati; ma avevo ingiunto loro di tacere. 
Canopo non è altro che uno scenario; la casa della maga sorgeva nella parte più sordida di questa città di piacere. Approdammo su di una loggia crollante. La strega ci attendeva all'interno, munita degli ambigui strumenti del suo mestiere; pareva davvero brava, non aveva nulla della negromante di teatro; non era neppure vecchia. 
Le sue predizioni furono sinistre. Da qualche tempo, gli oracoli non mi annunciavano ovunque che fastidi d'ogni genere, torbidi politici, intrighi di palazzo, malattie gravi. Oggi, ritengo che su quelle voci dell'ombra agissero influenze largamente umane, talvolta per ammonirmi, il più delle volte per incutermi terrore. Le autentiche condizioni d'una parte dell'Oriente vi si esprimevano più chiaramente che non nei rapporti dei nostri proconsoli. Accettavo con tutta calma quelle cosiddette rivelazioni, poiché il mio rispetto per il mondo invisibile non si spinge sino a dar credito a quei vaneggiamenti divini: dieci anni prima, poco dopo essere asceso al trono, avevo fatto chiudere l'oracolo di Dafne, presso Antiochia, che m'aveva predetto il potere, temendo che facesse lo stesso col primo pretendente venuto. Ma è sempre spiacevole sentir parlare di cose tristi. 
Dopo averci amareggiati il più che poteva, l'indovina ci propose i suoi servizi: uno di quei sacrifici magici, di cui gli stregoni d'Egitto vantano la specialità; sarebbe bastato per accomodare tutto, amichevolmente, col destino. Le mie incursioni nella magia fenicia già m'avevano fatto comprendere che l'orrore di quelle pratiche proibite risiede non tanto in quel che ci vien mostrato, quanto in quello che ci si nasconde: se non fosse stata nota la mia avversione per i sacrifici umani, probabilmente mi si sarebbe proposto d'immolare uno schiavo. Ci si contentò di chiedermi un animale domestico. 
La vittima, per quanto era possibile, doveva avermi appartenuto; non poteva trattarsi d'un cane, bestia che la superstizione egizia ritiene immonda; sarebbe stato opportuno un uccello, ma io non viaggio accompagnato da un'uccelliera. Il mio giovane amico mi propose il suo falcone. Le condizioni si sarebbero trovate adempiute; quel bell'uccello, gliel'avevo regalato io stesso dopo averlo ricevuto dal re d'Osroene. Il fanciullo lo nutriva con le sue mani; era una delle poche sue proprietà alle quali si fosse affezionato. Sulle prime rifiutai; insistette, serio; compresi che attribuiva un significato straordinario a quell'offerta, e accettai per farlo contento. Il mio corriere Menecrate, munito delle istruzioni più minuziose, partì per andare a prendere quell'uccello nei nostri appartamenti del Serapeo. Anche al galoppo, la corsa avrebbe richiesto più di un paio d'ore. Non era il caso di trascorrerle nella sudicia stamberga della maga, e Lucio si lamentava dell'umidità della barca. Flegone trovò un espediente: ci si installò alla meglio presso un mezzano, dopo esserci sbarazzati del personale della casa, e Lucio stabilì di dormire; io profittai di quell'intervallo per dettare alcuni dispacci; Antinoo si stese ai miei piedi. Il calamo di Flegone crepitava sotto la lampada. Toccavamo già l'ultima veglia della notte quando Menecrate riportò l'uccello, la manopola, il cappuccio, e la catena. 
Ritornammo dalla maga. Antinoo tolse il cappuccio al suo falcone, ne carezzò lungamente la testolina insonnolita e selvatica, lo consegnò all'incantatrice la quale diede inizio a una serie di riti magici. L'uccello, affascinato, si riaddormentò. Bisognava che la vittima non si dibattesse e che la morte sembrasse volontaria. L'animale, già inerte, cosparso di miele e di essenza di rose, fu deposto sul fondo d'una bacinella colma d'acqua del Nilo; la creatura annegata si assimilava a Osiris portata dalla corrente del fiume; gli anni terrestri dell'uccello si aggiungevano ai miei; la piccola anima solare si univa al Genio dell'uomo, al cui favore si sacrificava; ormai, quel Genio invisibile avrebbe potuto apparirmi e servirmi sotto quella forma. Le lunghe manipolazioni che seguirono non furono più interessanti d'una preparazione culinaria. Lucio sbadigliava. Le cerimonie imitarono fino all'ultimo i funerali umani: fumigazioni e salmodie si prolungarono fino all'alba. L'uccello fu racchiuso in una bara colma di aromi, che la maga sotterrò in nostra presenza in riva al canale, in un cimitero abbandonato. Poi, si accoccolò sotto un albero per contare a una a una le monete d'oro del suo compenso, che Flegone le aveva versato. 
Risalimmo in barca. Soffiava un vento singolarmente gelido. Lucio, seduto accanto a me, traeva a sé con la punta delle dita sottili le coltri di cotone ricamato; solo per cortesia seguitavamo a scambiarci saltuariamente qualche frase sulle faccende e gli scandali di Roma. Antinoo, disteso in fondo alla barca, mi aveva posato la testa sulle ginocchia; fingeva di dormire per isolarsi da quella conversazione da cui si sentiva escluso. La mia mano gli scivolava sulla nuca, tra i capelli. Così, sempre, nei momenti più vuoti e opachi, avevo la sensazione di restare a contatto con i grandi soggetti della natura, la densità delle foreste, il dorso muscoloso delle pantere, la pulsazione regolare delle sorgenti. Ma non v'è carezza che giunga fino all'anima. Quando giungemmo al Serapeo, il sole brillava; i mercanti di cocomeri gridavano nelle strade la loro merce. Dormii fino all'ora della seduta del Senato locale, alla quale presenziai. In seguito, seppi che Antinoo profittò di quell'assenza per persuadere Cabria ad accompagnarlo a Canopo. Tornò dalla maga.  
 
 
 
 
Il primo giorno del mese di Athir, l'anno secondo della duecentoventesimasesta Olimpiade... E' l'anniversario della morte di Osiris, il dio delle agonie: lungo il fiume, da tre giorni in tutti i villaggi echeggiavano acuti lamenti. I miei ospiti romani, meno avvezzi di me ai misteri dell'Oriente, mostravano una certa curiosità per quelle cerimonie d'una razza così differente, mentr'io, al contrario, ne ero esasperato. Avevo fatto ormeggiare la mia imbarcazione a qualche distanza dalle altre, lontano da qualsiasi luogo abitato: ma, in prossimità delle rive, sorgeva un tempio faraonico semidiroccato, che aveva ancora il suo collegio sacerdotale; e non mi sottrassi del tutto al frastuono di quelle lamentazioni. 
La sera precedente, Lucio mi aveva invitato a cena sulla sua barca, e vi ero andato al tramontar del sole. Antinoo aveva ricusato di seguirmi. Lo lasciai che giaceva sull'impiantito della mia cabina di poppa, disteso sulla sua pelle di leone, intento a giocare agli aliossi con Cabria. Una mezz'ora più tardi, in piena notte, mutò idea e fece chiamare un canotto. Con l'aiuto d'un solo battelliere, percorse contro corrente la distanza piuttosto considerevole che ci separava dalle altre imbarcazioni. Il suo ingresso sotto la tenda dove consumavamo la cena interruppe gli applausi provocati dalle contorsioni d'una danzatrice. S'era vestito d'una lunga tunica siriana, tenue come la buccia d'un frutto, tutta cosparsa di fiori e di ricami. Per remare più liberamente, aveva calato la manica destra; e il sudore imperlava quel suo petto levigato. Lucio gli gettò una ghirlanda che egli afferrò al volo; neppure un istante venne meno la sua gaiezza quasi stridula, sostenuta appena da una coppa di vino greco. Rientrammo insieme, nel mio canotto a sei remi, accompagnati dalla buonanotte tagliente di Lucio. L'allegria continuò. Ma, al mattino, per caso mi avvenne di toccare un viso gelato di lacrime. Chiesi ad Antinoo con impazienza la ragione di quel pianto; rispose umilmente, scusandosi d'essere stanco. Accettai quella menzogna. Mi riaddormentai. La sua vera agonia si svolse quella notte, in quel nostro letto, e al mio fianco. 
Era appena giunto il corriere da Roma; la giornata trascorse a leggere e a rispondere ai dispacci. Come sempre, Antinoo andava e veniva silenzioso nella stanza; non so in qual momento quel bel levriero è uscito dalla mia vita. Verso l'ora dodicesima, entrò da me Cabria, agitatissimo. Contro ogni regola, Antinoo aveva lasciato la nostra imbarcazione senza precisare la meta e la durata della sua assenza: e, dal momento della sua uscita, erano trascorse almeno due ore. Cabria ricordò strane frasi pronunciate la sera innanzi, una raccomandazione della stessa mattina, che mi riguardava, e mi comunicò i suoi timori. Ci affrettammo a scendere sulla riva. Il vecchio pedagogo si diresse d'istinto verso una cappella situata sulla sponda, piccolo edificio isolato che faceva parte delle dipendenze del tempio, e che Antinoo e lui avevano visitato insieme. Su un tavolo da offerte, c'erano le ceneri di un sacrificio, ancora tiepide. Cabria vi immerse le dita e ne trasse, quasi intatto, un ricciolo di capelli recisi. 
Non ci restava che esplorare le rive. Una serie di caverne, che in altri tempi avevano dovuto servire a cerimonie sacre, comunicavano con un'ansa del fiume: sulla sponda dell'ultima di esse, nel crepuscolo che scendeva rapido, Cabria scorse un abito ripiegato e un paio di sandali. Scesi quei gradini sdrucciolevoli: era disteso sul fondo, già affondato nella melma del fiume. Con l'aiuto di Cabria, riuscii a sollevare quel corpo che improvvisamente era diventato pesante come la pietra. Cabria lanciò un richiamo ad alcuni battellieri, i quali improvvisarono una barella di tela. Ermogene, chiamato d'urgenza, non poté far altro che constatarne la morte. Quel corpo tanto docile si rifiutava di lasciarsi riscaldare, di rivivere. Lo trasportammo a bordo. Tutto crollò attorno a me, tutto sembrò spegnersi. Zeus Olimpico, il Padrone di tutte le cose, il Salvatore del Mondo precipitò: non vi fu più che un uomo dai capelli grigi che singhiozzava, sul ponte d'una barca. 
Due giorni dopo, Ermogene riuscì a farmi pensare alle esequie. I riti di sacrificio di cui Antinoo aveva voluto circondar la sua fine c'indicavano una sola via da seguire: non era certo un caso se l'ora e il giorno di quella morte coincidevano con quelli in cui Osiris scende nella tomba. Mi recai a Ermopoli, sull'altra riva, dagli imbalsamatori: ad Alessandria, avevo visto all'opera i loro colleghi; sapevo quali oltraggi stavo per infliggere a quel corpo. Ma è orrendo anche il fuoco, che brucia e carbonizza quella carne che fu amata; e anche la terra, dove i morti imputridiscono. La traversata fu breve; accucciato in un angolo della cabina di poppa, Euforione salmodiava con voce sommessa non so quale funebre lamentela africana; quel canto rauco e soffocato mi sembrava quasi il mio stesso pianto. Trasportammo il morto in una sala lavata con acque copiose, che mi ricordava la clinica di Satiro; aiutai il modellatore a ungere d'olio quel volto caro, prima di applicarvi la cera. Tutte le metafore ritrovavano un senso: ho tenuto quel cuore tra le mani. Quando lo lasciai, il corpo vuoto non era più che una preparazione anatomica, il primo stadio d'un capolavoro atroce, una sostanza preziosa trattata con sale e mirra ben conservata, che l'aria e il sole non toccherebbero mai più. 
Al mio ritorno, visitai il tempio nei pressi del quale il sacrificio s'era consumato; parlai con i sacerdoti. Il loro santuario, rinnovato, tornerà a essere meta di pellegrinaggi da tutto l'Egitto; il loro collegio sarà arricchito, incrementato, e per l'avvenire si consacrerà al culto del mio dio. Neppure nei momenti più opachi, avevo dubitato che quella giovinezza fosse divina. La Grecia e l'Asia lo venereranno secondo le nostre usanze, con giochi, danze, offerte rituali ai piedi d'una sua statua bianca e ignuda. L'Egitto, che aveva assistito alla sua agonia, parteciperà anch'esso all'apoteosi; la più tenebrosa, la più segreta, la più dura: questo paese dovrà rappresentare, per lui, in eterno, il ruolo dell'imbalsamatore. Per secoli, i sacerdoti dal cranio rasato reciteranno salmodie nelle quali figurerà questo nome, per loro senza valore, ma che per me significa tutto. Ogni anno, la nave sacra trasporterà quella effigie sul fiume, il primo giorno del mese di Athyr, e le prefiche percorreranno quella sponda che io avevo percorso. Ogni ora ha la sua incombenza immediata, la sua ingiunzione che sovrasta ogni altra: quella del momento era di difendere contro la morte il poco che mi restava. Flegone aveva chiamato a raccolta per me sulla riva del fiume gli architetti e gli ingegneri del mio seguito; sostenuto da una specie di ebbrezza lucida, me li trascinai su per le colline sassose; spiegai loro il mio piano, il tracciato dei quarantacinque stadi di muro di cinta; segnai sulla sabbia il luogo dell'arco di trionfo, e quello della tomba. Qui sarebbe sorta Antinopoli; era già quasi vincere la morte, l'imporre a quella terra sinistra una città tutta greca, un bastione che avrebbe tenuto in soggezione i nomadi dell'Eritrea, un nuovo mercato sulle strade dell'India. Alessandro aveva celebrato le esequie di Efestio con devastazioni ed eccidi; mi sembrava più bello offrire al mio prediletto una città dove il suo culto sarebbe stato associato per sempre all'andirivieni di una pubblica piazza, dove il suo nome sarebbe tornato nelle conversazioni, ogni sera, e dove i giovani si sarebbero gettati ghirlande, all'ora dei banchetti. Ma, su questo punto, il mio pensiero esitava: mi sembrava impossibile abbandonare quel corpo in suolo straniero. Come chi è incerto della prossima tappa, e prenota l'alloggio in più di una locanda, così io gli ordinai a Roma un monumento in riva al Tevere, presso la mia tomba; e pensai pure alle cappelle egizie che, per capriccio, avevo fatto costruire nella Villa a che tutto a un tratto diventavano tragicamente utili. Stabilii il giorno delle esequie, che avrebbero avuto luogo allo scadere dei due mesi richiesti dagli imbalsamatori. Affidai a Mesomene l'incarico d'istruire cori funebri. Tornai a bordo assai tardi, nella notte. Ermogene mi preparò una pozione per conciliarmi il sonno.  
 
 
 
 
Continuammo a risalire il fiume, ma io navigavo sullo Stige. Nei campi dei prigionieri, in riva al Danubio, avevo visto una volta alcuni sventurati, adagiati a un muro, colpirsi continuamente la fronte con un moto selvaggio, dolce e insensato, ripetendo senza posa un nome. Nei sotterranei del Colosseo, mi avevano mostrato leoni che deperivano perché era stato portato via il cane con il quale li avevano abituati a vivere. Raccolsi le mie idee: Antinoo era morto. Da bambino, avevo urlato sul cadavere di Marullino beccato dalle cornacchie, ma così come urla di notte un animale privo della ragione. Mio padre era morto, ma l'orfanello dodicenne ch'io ero non aveva notato che il disordine della casa, i pianti della madre e il proprio terrore; non aveva saputo nulla dei momenti atroci che il morente aveva attraversato. Mia madre era morta molto più tardi, all'epoca della mia missione in Pannonia; non ne ricordavo neanche esattamente la data. Traiano non era stato che un infermo al quale si trattava di far fare testamento. Plotina, non l'avevo vista morire. Anche Attiano era morto: era vecchio. Durante le guerre trace, avevo perduto compagni d'arme che credevo di amare; ma eravamo giovani, la vita e la morte erano egualmente inebrianti e dolci. Antinoo era morto... Mi tornavano alla mente luoghi comuni uditi tante volte: si muore a tutte le età; muoiono giovani quelli che sono amati dagli déi. Anch'io avevo preso parte a questo infame abuso di parole: avevo detto: «morire di sonno», «morire di noia». M'ero espresso con le parole: «agonia», «lutto», «perdita» . E Antinoo era morto... 
L'Amore, il più saggio degli dèi... Ma l'amore non era responsabile di quella negligenza, di quelle asprezze, di quella indifferenza, mescolate alla passione come la sabbia all'oro trascinato da un fiume, di quell'accecamento grossolano d'uomo troppo felice, e che invecchia. Avevo potuto essere così sordidamente soddisfatto? Antinoo era morto... Lungi dall'amarlo troppo, come senza dubbio in quel momento Serviano pretendeva a Roma, non avevo amato abbastanza quel fanciullo da obbligarlo a vivere. Cabria, che, nella sua qualità di iniziato orfico, considerava il suicidio un delitto, insisteva sull'aspetto di quella fine; provavo io stesso una specie di gioia orrenda a ripetermi che quella morte era un dono. Ma ero solo a misurare quanto fiele fermenti nel fondo della dolcezza, quanta disperazione si celi nell'abnegazione, quanto odio si mescoli all'amore. Un essere oltraggiato mi gettava in viso quella prova di devozione; un fanciullo, nell'ansia di perder tutto, aveva trovato quel mezzo per legarmi per sempre a lui. Se con quel suo sacrificio aveva sperato di proteggermi, aveva dovuto credersi amato ben poco per non sentire che perderlo sarebbe stato per me il peggiore dei mali. 
Le lacrime cessarono: i dignitari che mi avvicinavano non dovevano più distogliere lo sguardo dal mio viso, come se il pianto fosse una vista oscena. Ricominciarono le ispezioni a fattorie modello e a canali d'irrigazione; poco importava come impiegare le ore. Già mille dicerie infondate correvano nel mondo a proposito della mia sciagura; persino nelle imbarcazioni che accompagnavano la mia, circolavano versioni atroci, a mio disdoro; non me ne curavo: la verità non era di quelle che si possono proclamare per le strade. Le più perfide invenzioni avevano una parvenza di verità, a modo loro; mi si accusava di averlo sacrificato, e, in un certo senso lo avevo fatto. Ermogene che mi riferiva fedelmente quelle dicerie, si fece latore di qualche messaggio da parte dell'imperatrice: si comportò con decoro: lo si fa quasi sempre, in presenza della morte. Quella compassione poggiava su un equivoco: si accettava di compiangermi, purché mi consolassi abbastanza presto. E io stesso, mi credevo quasi placato; ne arrossivo, quasi. Non sapevo che il dolore ripiega in labirinti strani, dove non avevo ancora finito di addentrarmi. 
Si tentava di tutto per distrarmi. Pochi giorni dopo l'arrivo a Tebe, seppi che l'imperatrice, col suo seguito, già due volte si era recata ai piedi del Colosso di Memnone, nella speranza di udire il suono misterioso che quella pietra manda all'aurora, un fenomeno celebre al quale tutti i viaggiatori sperano di assistere. Il prodigio non aveva avuto luogo; immaginavano superstiziosamente che si sarebbe operato in mia presenza. Acconsentii ad accompagnare le donne l'indomani: tutti i mezzi erano buoni per abbreviare la durata interminabile di quelle notti d'autunno. Quel mattino, verso l'ora undecima, entrò nella mia camera Euforione per ravvivare la lampada e aiutarmi a indossare le vesti. Uscii sul ponte; il cielo, ancora tutto nero, era come il cielo di bronzo dei poemi di Omero, indifferente alle gioie e alle sofferenze umane. Erano più di venti giorni che quella cosa era avvenuta. Presi posto nel canotto; e il breve percorso si svolse tra le grida e la paura delle donne. 
Approdammo poco lungi dal Colosso; una fiamma d'un rosa scialbo si allungò a Oriente; cominciava un altro giorno. Il suono misterioso si produsse tre volte; somiglia a quello che si fa spezzando la corda d'un rco. L a 'in sae urib eil Giulia B illa al snocciolò immediatamente una serie di poesie. Le donne iniziarono la visita ai templi; le accompagnai per un poco lungo le mura intarsiate di geroglifici monotoni. Ero tediato a morte da quelle figure colossali di re tutti eguali, seduti l'uno accanto all'altro, i piedi lunghi e piatti posati come oggetti; da quei blocchi inerti nei quali nulla è presente di quel che per noi è la vita, né il dolore, né la voluttà, né il moto che libera le membra, né il pensiero che organizza il mondo intorno a una testa reclina. I sacerdoti che mi guidavano sembravano male informati, come me, su quelle esistenze scomparse; di tanto in tanto, nasceva una discussione a proposito d'un nome. Si sapeva vagamente che ognuno di quei monarchi aveva ereditato un regno, governato i suoi popoli, e generato il suo successore: non restava nient'altro. Quelle dinastie oscure risalivano a età più antiche di Roma, più antiche di Atene, più ancora del giorno in cui Achille morì sotto le mura di Troia, più del ciclo astronomico di cinquemila anni calcolato da Menone per Giulio Cesare. Stremato, congedai i sacerdoti; mi riposai un po' all'ombra del Colosso prima di risalire in barca. Le gambe del Colosso erano coperte sino al ginocchio di iscrizioni greche tracciate da viaggiatori: nomi, date, una preghiera; un certo Servio Soave, un tale Eumene avevano sostato in quel punto medesimo sei secoli prima di me, un certo Panio aveva visitato Tebe sei mesi avanti... Sei mesi avanti... Mi prese un capriccio, che non avevo avuto più dall'epoca in cui, bambino, scrivevo il mio nome sulla corteccia dei castagni, in Spagna: l'imperatore che si rifiutava di far incidere i suoi titoli e i suoi attributi sui monumenti che aveva edificati, dié di piglio alla daga e incise su quella pietra dura poche lettere greche, una forma abbreviata e familiare del suo nome: ADRIANO... Era ancora un opporsi al tempo: un nome, una somma di vita di cui nessuno calcolerà gli elementi innumerevoli, un segno lasciato da un uomo smarrito in quella successione di secoli. Improvvisamente, mi tornò alla mente che eravamo al ventisettesimo giorno del mese di Athyr, il quinto, prima delle nostre calende di dicembre. Era il compleanno di Antinoo: se fosse vissuto, quel giorno avrebbe avuto vent'anni. 
Risalii a bordo; la piaga chiusa troppo presto si era riaperta; piansi, il viso affondato in un guanciale che Euforione mi passò sotto il capo. Quel cadavere e io partivamo alla deriva, trascinati in senso contrario da due correnti del tempo. Era il quinto giorno prima delle calende di dicembre, il primo del mese di Athyr: ogni istante che passava faceva affondare quel corpo, copriva quella fine. Risalivo la china sdrucciolevole: con le unghie tentavo d'esumare quella giornata morta. Flegone, seduto di fronte alla porta, non rammentava l'andirivieni nella cabina di poppa se non per quella striscia bianca di luce che l'aveva infastidito tutte le volte che una mano spingeva il battente. Come chi è accusato d'un delitto, tentavo di ricordare come avessi impiegato le mie ore: una dettatura, una risposta al Senato di Efeso; a quale gruppo di parole corrispondeva quell'agonia? Ricostruivo il cedere della passerella sotto i passi affrettati, le sponde aride, il lastricato piatto; il coltello che recide un ricciolo sulla tempia; il corpo inclinato; la gamba ripiegata per consentire alla mano di sciogliere il sandalo; e poi aprire le labbra, serrando gli occhi. C'era voluta una risoluzione disperata, da parte di quel buon nuotatore, per lasciarsi soffocare dalla melma nerastra. Cercai di percorrere col pensiero la rivoluzione attraverso la quale passeremo tutti, il cuore che s'arresta, il cervello che rinuncia al pensiero, i polmoni che cessano di aspirare la vita. Anch'io subirò uno sconvolgimento analogo; morirò, un giorno. Ma ogni agonia è diversa; i miei sforzi per figurarmi quella d'Antinoo non pervenivano che a una costruzione priva di valore: era morto solo. 
Ho resistito; ho lottato contro il dolore come contro una cancrena. Ho ricordato le sue caparbietà, le sue bugie; mi son detto che sarebbe mutato, ingrassato, invecchiato. Fatica sprecata: come un artigiano coscienzioso si logora a copiare un capolavoro, così io mi accanivo a pretendere dalla mia memoria una esattezza insensata. Ricreavo quel petto alto e curvo come una corazza; a volte, l'immagine scaturiva da sola; un'onda di dolcezza mi sommergeva; avevo rivisto un frutteto a Tivoli, l'efebo nell'atto di raccogliere le frutta dell'autunno nella tunica sollevata come un canestro. Mi mancava tutto: il compagno delle feste notturne, il giovinetto che si abbassava sui talloni per aiutare Euforione a disporre le pieghe della mia toga. A dar retta ai sacerdoti, anche l'ombra soffriva, rimpiangeva l'asilo caldo che era per lei il suo corpo, e frequentava gemendo i paraggi familiari, remota e vicina, momentaneamente troppo debole per farmi intendere la sua presenza. Se era vero, la mia sordità al suo richiamo era peggiore persino della morte. Ma avevo forse compreso, quella mattina, il giovane che ancor vivo mi singhiozzava al fianco? Una sera, Cabria mi chiamò per indicarmi una stella, nella costellazione dell'Aquila, che era stata appena visibile fino allora e che improvvisamente palpitava come una gemma, batteva come un cuore. Ne feci la sua stella, il suo segno. Ogni notte, mi esaurivo a seguirne il corso; ho scorto strane figure in quella parte del cielo. Mi ritennero folle. Ma non m'importava. 
La morte è penosa, ma anche la vita può esserlo. Ogni cosa aveva un volto deforme. La fondazione di Antinopoli non era che un gioco derisorio: una nuova città, un asilo offerto alle frodi dei mercanti, alle crudeli esazioni dei funzionari, alla prostituzione, al disordine, ai vili che piangono i loro morti prima di dimenticarli. L'apoteosi era vana: quegli onori pubblici non sarebbero serviti ad altro che a fare del fanciullo un pretesto a viltà o a ironie, un oggetto postumo di cupidigia o di scandalo, una di quelle leggende un po' marce che ingombrano i recessi della storia. Il mio lutto non era che una forma di incontinenza, una dissolutezza grossolana: restavo colui che profitta, colui che gode, colui che prova tutto: il mio prediletto mi consegnava la sua morte. Un uomo deluso piangeva su se stesso. Le idee stridevano, le parole giravano a vuoto; le voci avevano il ronzio delle cavallette o delle mosche su un mucchio di rifiuti; le nostre barche dalle vele turgide come petti di colombe trasportavano intrighi e menzogne; la stupidità faceva mostra di sè sulle fronti umane. Dappertutto trapelava la morte, sotto il suo aspetto di decrepitezza o di putrefazione: il frutto bacato, l'orlo della tenda impercettibilmente liso, una carogna sulla sponda, i foruncoli d'un viso, il segno delle vergate sulla schiena dei marinai. Le mie mani mi sembravano sempre un po' sporche. All'ora del bagno, quando tendevo agli schiavi le gambe da depilare, guardavo con disgusto questo corpo solido, questa macchina quasi indistruttibile, che digeriva, camminava, riusciva a dormire, e, un giorno o l'altro, sarebbe tornata ai gesti dell'amore. Non tolleravo più che la presenza dei pochi servi che si ricordavano del morto: a modo loro, anch'essi lo avevano amato. Il mio lutto trovava un'eco nel dolore un po' vano d'un massaggiatore, o del vecchio negro addetto alle lampade. Ma il dispiacere non gli impediva di ridere sommessamente tra loro, mentre prendevano il fresco sulla riva. Una mattina, mentr'ero appoggiato al parapetto, scorsi, nel quadrato delle cucine, uno schiavo che ripuliva uno di quei pollastrelli che l'Egitto fa pullulare a migliaia nei forni poco puliti; lo schiavo, a un certo punto, prese a piene mani il mucchio vischioso delle interiora, e lo gettò in acqua. Feci appena a tempo a voltar la testa per vomitare. Allo scalo di File, durante una festa offertaci dal governatore, un bimbo di tre anni, nero come il bronzo, figlio d'un numida, s'infilò nelle gallerie del primo piano per guardare le danze. Cadde di sotto. Fecero del loro meglio per nascondermi l'incidente; il padre tratteneva i singhiozzi per non disturbare gli ospiti del suo padrone; lo si fece uscire con il cadavere dalla porta di cucina; malgrado tutto, intravidi quelle spalle che si alzavano e si abbassavano convulse come sotto una sferza. Avevo la sensazione di assumere su di me quel dolore paterno come quello di Ercole, quello di Alessandro, quello di Platone che piangevano i loro amici scomparsi. Feci portare qualche moneta d'oro a quel misero; che cosa si può fare di più? Due giorni dopo, lo rividi; si spidocchiava beatamente, sdraiato sulla soglia. 
Affluirono i messaggi di cordoglio. Pancrate mi inviò il suo poema, finalmente terminato; non era che un mediocre centone di esametri omerici, ma, per me, il nome che vi tornava quasi ad ogni riga me lo rendeva più commovente di mille capolavori. 
Noumenio mi fece recapitare una Consolazione in piena regola: trascorsi una notte a leggerla, non vi mancava un solo luogo comune. Quelle esili barriere elevate dall'uomo contro la morte si sviluppavano su due linee: la prima consisteva nel presentarcela come un male inevitabile; nel ricordarci che né la bellezza, né la giovinezza, né l'amore sfuggono alla putrefazione; nel provarci infine che la vita e la sua infinita teoria di sciagure sono ancor più orrende che la morte, e val meglio perire che invecchiare: verità propinateci per indurci alla rassegnazione; ma esse giustificano soprattutto la disperazione. La seconda linea di argomenti è in contraddizione con la prima, ma i nostri filosofi non vanno molto per il sottile: non si tratta più di rassegnarsi alla morte, ma di negarla. Solo l'anima conta; e veniva posta con arroganza, come un dato di fatto, l'immortalità di questa entità vaga, che non abbiamo mai vista operare senza il suo corpo, prima ancora di darsi la pena di provarcene l'esistenza. Non ne ero affatto certo: svaniti il sorriso, lo sguardo, la voce, le realtà imponderabili, perché non l'anima? Essa non mi pareva necessariamente più immateriale del calore del corpo. Ci si discostava da quella spoglia entro la quale l'anima non era più: eppure, era la sola cosa che mi restasse, l'unica prova che avevo che quel vivente fosse esistito. L'immortalità della specie doveva mitigare il dolore di ogni morte umana: ma ben poco m'importava che generazioni di Bitini si succedessero fino alla fine dei tempi, in riva al Sangario. Si parlava di gloria, una bella parola che ci gonfia il cuore, ma si faceva di tutto per stabilire tra questa e l'immortalità una confusione ingannevole, come se la traccia d'un essere fosse la stessa cosa della sua presenza. Mi si mostrava il dio radioso, al posto del cadavere; quel dio l'avevo fatto io; io ci credevo a modo mio, ma il destino postumo più luminoso, tra le sfere stellari, non compensava quella breve esistenza; quel dio non sostituiva il vivo che avevo perduto. M'indignava quella smania dell'uomo di sdegnare i fatti a vantaggio delle ipotesi, di non riconoscere le sue fantasie per quel che sono. Ben diversamente vedevo i miei obblighi di sopravvissuto. Quella morte sarebbe stata vana se mi mancava il coraggio di guardarla in faccia, di attaccarmi a quelle realtà - il freddo, il silenzio, il sangue coagulato, le membra inerti, - che l'uomo s'affretta a rivestire di terra e d'ipocrisia; preferivo andare a tentoni nel buio senza l'aiuto di deboli lampade. Sentivo, intorno a me, che si cominciava a deplorare un dolore così lungo e così intenso. Del resto, scandalizzava più la sua veemenza che non la sua causa. Se mi fossi lasciato andare agli stessi lamenti per la morte d'un fratello o d'un figlio, mi si sarebbe rimproverato egualmente di piangere come una donna. La memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero abbandonato, dove giacciono senza onori i morti che essi hanno cessato di amare. Ogni dolore prolungato è un insulto al loro oblio. 
Le barche ci ricondussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli. Erano meno numerose che all'andata: Lucio, che avevo rivisto poche volte, era ripartito per Roma dove la sua giovane sposa aveva dato alla luce un bambino. La sua partenza mi liberava da parecchi intriganti e curiosi. I lavori iniziati alteravano l'aspetto delle coste; si profilava la pianta degli edifici futuri fra i mucchi di terreno sterrato; ma non riconobbi più il punto esatto del sacrificio. Gli imbalsamatori consegnarono la loro opera: la sottile bara di cedro fu deposta dentro un sepolcro di porfido, nella sala più segreta del tempio. Mi avvicinai timidamente al morto. Sembrava mascherato: la rigida acconciatura egizia gli copriva i capelli. Le gambe fasciate dalle bende non erano più che un lungo involucro bianco, ma il suo profilo di falco giovinetto non era mutato; le ciglia gettavano sulle gote dipinte un'ombra che riconoscevo. Prima di portare a termine la fasciatura delle mani, tennero a farmi ammirare le unghie d'oro. Ebbero inizio le litanie; per bocca dei sacerdoti, il morto dichiarava d'essere stato sempre veritiero, sempre casto, sempre caritatevole e giusto, e vantava virtù che, se le avesse praticate davvero, lo avrebbero messo per sempre al bando dei vivi. L'odore disfatto dell'incenso riempiva la sala; al di là d'una voluta, cercavo di dare a me stesso l'illusione del suo sorriso; e il bel viso immobile pareva tremare. Ho assistito ai riti magici mediante i quali i sacerdoti costringono l'anima del defunto a incarnare una particella di sé nelle statue che ne conserveranno la memoria; e ad altre ingiunzioni, ancor più singolari. Quando tutto fu finito, si applicò la maschera d'oro modellata sulla cera funebre: aderiva strettamente alle sue fattezze. Ben presto, quella bella superficie incorruttibile avrebbe riassorbito in sé ogni possibilità di luce e di calore; e sarebbe giaciuta per sempre in quella cassa ermeticamente chiusa, simbolo inerte d'immortalità. Fu posto un fascio d'acace sul petto. Una dozzina d'uomini sollevarono il pesante coperchio. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro. Ricordavo che, mentre avevo ordinato dappertutto feste e apoteosi, giochi funebri, monete di nuovo conio, statue sulle pubbliche piazze, avevo fatto un'eccezione per Roma: avevo temuto di aggravare ulteriormente l'animosità che circonda quasi tutti i favoriti stranieri. Mi dissi che io non sarei stato sempre a Roma, per proteggere quella sepoltura. Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi m'indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe circa dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri. Un carro tirato da buoi trascinò il sarcofago su quella salita. Con le corde, lo si fece scivolare giù per quei cunicoli da miniera; lo si addossò a una parete di roccia. Il fanciullo di Claudiopoli scendeva nella tomba come un Faraone, come un Tolomeo. Lo lasciammo solo. Entrava in quella durata senz'aria, senza luce, senza stagioni e senza fine, al cui confronto ogni vita appare breve; aveva raggiunto quella stabilità, quella calma forse. I secoli ancora celati nel seno opaco del tempo sarebbero passati a migliaia su quella tomba, senza rendergli l'esistenza, è vero, ma anche senza contribuire a quella morte, senza poter impedire che egli sia esistito. Ermogene mi afferrò per il braccio per aiutarmi a risalire all'aperto; fu quasi una gioia ritrovarsi alla superficie, rivedere il freddo cielo turchino tra due costoni di roccia fulva. Il resto del viaggio fu breve. Ad Alessandria, l'imperatrice s'imbarcò per Roma. 
DISCIPLINA AUGUSTA  
 
 
 
 
Tornai in Grecia via terra. Fu un viaggio lungo. Avevo ragione di credere che, senza alcun dubbio, sarebbe stato il mio ultimo viaggio ufficiale in Oriente; e a maggior ragione ci tenevo a ispezionare tutto di persona. Antiochia dove feci una sosta di poche settimane, m'apparve sotto un aspetto nuovo; ero meno sensibile che in altri tempi all'attrazione dei teatri, alle feste, ai piaceri dei giardini di Dafne, alla folla turbinante che mi sfiorava. Notai di più l'incostanza perenne di quel popolo maldicente o motteggiatore, che mi ricordava quello d'Alessandria, la vacuità dei pretesi esercizi intellettuali, lo sfoggio volgare del lusso da parte dei ricchi. Quasi nessuno di quei notabili afferrava l'insieme dei miei programmi di opere e di riforme in Asia: si contentavano di profittarne a vantaggio della città, e, soprattutto, proprio. Per un momento, ebbi l'idea d'incrementare l'importanza di Smirne o di Pergamo a danno dell'arrogante capitale siriaca; ma i vizi di Antiochia sono inseparabili da qualsiasi metropoli: non v'è grande città che possa andarne esente. 
Il disgusto per la vita di città m'indusse a volgermi ancor più, se possibile, alle riforme agrarie; detti l'ultimo tocco alla lunga e complessa riorganizzazione dei possedimenti imperiali in Asia minore; i contadini ne furono avvantaggiati, e anche lo Stato. In Tracia, volli visitare Andrinopoli, dov'erano affluiti i veterani delle campagne daciche e sarmate, attirati da elargizioni di terre e da sgravii d'imposte. Ad Antinopoli, risolsi d'adottare lo stesso programma. Da lunga data, avevo accordato in ogni luogo esenzioni analoghe a medici e a insegnanti, sperando di secondare la conservazione e lo sviluppo d'una classe media seria e dotta. Ne conosco bene i limiti, ma uno Stato dura soltanto per opera sua. 
Atene restava la mia sosta prediletta; mi stupiva ogni volta che il suo incanto fosse così poco legato alle memorie, mie personali o della storia: quella città sembrava nuova ogni mattina. Quella volta, mi stabilii in casa di Arriano. Iniziato a Eleusi, al pari di me, per questo motivo era stato adottato da una delle grandi famiglie sacerdotali del territorio attico, quella dei Kerykes, come io stesso lo ero stato da quella degli Eumolpidi. Lì, aveva preso moglie; aveva sposato una giovane ateniese fine e altera. Mi circondarono entrambi di premure discrete. La loro casa era situata a pochi passi dalla nuova biblioteca di cui da poco avevo dotato Atene. In essa, nulla mancava di quel che può secondare la meditazione (nonché la quiete che la precede): comodi sedili, riscaldamento adeguato durante l'inverno spesso pungente, scale agevoli per accedere alle gallerie nelle quali si conservano i libri, l'alabastro e l'oro d'un lusso sobrio e discreto. Era stata dedicata un'attenzione particolare alla scelta e alla collocazione delle lampade. Sentivo sempre più il bisogno di raccogliere e conservare antichi volumi, e d'incaricare scrivani coscienziosi di trarne nuove copie. Nobile compito; non meno urgente - pensavo - dell'aiuto ai veterani o dei sussidi alle famiglie prolifiche e disagiate; qualche guerra, dicevo a me stesso, la miseria che la segue, un periodo di volgarità e d'incultura sotto un cattivo principe basterebbero a far perire per sempre i pensieri pervenuti fino a noi mediante quei fragili oggetti di pergamena e d'inchiostro. Ogni uomo così fortunato da beneficiare, più o meno, di quei legati di cultura, mi sembrava responsabile verso tutto il genere umano. 
Durante quel periodo lessi molto. Avevo spinto Flegone a comporre, sotto il titolo di "Olimpiadi", una serie di cronache destinate a continuare le "Elleniche" di Senofonte, e a terminare con il mio regno: un piano audace, in quanto faceva dell'immensa storia di Roma nient'altro che un seguito di quella greca. Flegone scrive in uno stile sgradevole, arido, ma dar conto degli eventi, stabilirli, sarebbe stato già qualcosa. Questo progetto m'ispirò il desiderio di rileggere gli storici antichi; la loro opera, commentata dalla mia esperienza, mi riempì di foschi pensieri: l'energia, la buona volontà di ogni uomo di governo sembravano poca cosa di fronte agli svolgimenti fortuiti e fatali al tempo stesso, a quel torrente di eventi troppo confusi per poterli prevedere, dirigere o giudicare. Mi occupai anche dei poeti: amavo evocare le voci piene e pure di un lontano passato. Mi fu caro Teognide, l'aristocratico, l'esule, l'osservatore scevro di illusioni e d'indulgenza per le cose umane, sempre pronto a denunciare gli errori e le colpe che chiamiamo i nostri mali. Quell'uomo tanto lucido aveva assaporato le gioie dolorose dell'amore; e, ad onta di sospetti, gelosie, rancori reciproci, il suo legame con Cyrno era durato fino alla vecchiezza dell'uno, e all'età matura dell'altro: l'immortalità che aveva promesso al giovinetto di Megara era più che una vana parola, dato che il suo ricordo giungeva sino a me, dopo più di sei secoli. Ma, tra gli antichi poeti, amai soprattutto Antimaco: ne apprezzavo lo stile denso e involuto, le frasi ampie e tuttavia concentrate al massimo, grandi coppe di bronzo colme di un vino denso. Preferivo il suo racconto del periplo di Giasone alle "Argonautiche" più movimentate di Apollonio: Antimaco aveva compreso meglio il mistero degli orizzonti e dei viaggi, l'ombra che l'uomo, così effimero, proietta su paesaggi eterni. Aveva pianto appassionatamente sua moglie Lidia; aveva dato il suo nome a un lungo poema nel quale figuravano tutte le leggende di lutto e di dolore. E quella Lidia, che forse da viva mi sarebbe passata inosservata, diventava un'immagine familiare per me, più cara di tante figure femminili della mia stessa esistenza. Quelle poesie, tuttavia quasi obliate, a poco a poco mi restituivano fiducia nell'immortalità. 
Rilessi le mie opere: versi d'amore, componimenti di circostanza, l'ode in memoria di Plotina. Chissà che un giorno non possa venire a qualcuno la fantasia di leggerli. Esitai dinanzi a un gruppo di versi osceni: ma finii per includerveli. Da noi, le persone più serie ne scrivono, per diletto: avrei preferito che i miei fossero diversi, l'immagine esatta d'una verità nuda. Ma in questo argomento, come in tutto il resto, siamo avvinti nei lacci dei luoghi comuni: cominciavo a rendermi conto che non basta l'audacia di spirito per infrangerli, che il poeta non trionfa della maniera e non impone il proprio pensiero alle parole se non grazie a sforzi intensi e assidui quanto la mia opera d'imperatore. Da parte mia, non potevo pretendere ad altro che a un successo da dilettante: sarà già molto se mi sopravvivranno due o tre versi, da tutto quel guazzabuglio. Tuttavia, in quell'epoca, abbozzai un'opera un po' ambiziosa, metà in versi metà in prosa, nella quale avrei voluto mettere cose serie e ironiche al tempo stesso, i fatti singolari osservati durante la mia vita, le meditazioni, i sogni: il tutto tenuto insieme da un filo conduttore sottilissimo: una specie di "Satyricon", ma più aspro. Vi avrei esposto una filosofia che era ormai divenuta la mia, l'idea eraclitea del mutamento e del ritorno. Ma deposi quel progetto troppo impegnativo. 
Quell'anno, ebbi con la sacerdotessa che un tempo m'aveva iniziato a Eleusi (il suo nome deve restare segreto) parecchi colloqui, nel corso dei quali furono stabilite minutamente le modalità del culto di Antinoo. Gli augusti simboli di Eleusi continuavano a distillare una virtù salutare per me: può darsi che il mondo non abbia alcun senso, ma se ne ha uno, a Eleusi esso si esprime in forma più saggia e più nobile che altrove. Sotto l'influenza di quella donna, iniziai le ripartizioni amministrative di Antinopoli, i rioni, le strade, i blocchi urbani; un sistema del mondo divino insieme a un'immagine trasfigurata della mia vita. Tutto vi entrava, Hestia e Bacco, gli déi del focolare e quelli dell'orgia, le divinità celesti e quelle d'oltretomba. Vi posi i miei avi imperiali, Traiano, Nerva, divenuti parte integrante di quel sistema di simboli. Anche Plotina v'era compresa; la buona Matidia vi si vedeva assimilata a Demetra; e mia moglie, con la quale in quel periodo avevo rapporti abbastanza cordiali, figurava anch'essa in quel corteo di persone divine. Qualche mese più tardi, diedi il nome di mia sorella Paolina a uno dei quartieri di Antinopoli. Con la moglie di Serviano avevo rotto ogni rapporto; ma, dopo morta, Paolina ritrovava in quella città della memoria il suo posto unico di sorella. Quel luogo triste diventava la sede ideale delle riunioni e dei ricordi, i Campi Elisi d'una vita, il luogo dove le nostre contraddizioni si risolvono, dove tutto, al suo posto, è egualmente sacro. 
Alla finestra della casa di Arriano, nella notte costellata di stelle, ripensavo a quella frase che i sacerdoti egizi avevano fatto incidere sulla bara di Antinoo: «Ha obbedito all'ordine del cielo». Poteva esser vero che il cielo c'intimasse ordini, e che i migliori tra noi li udissero là dove il resto degli uomini altro non avverte se non un silenzio opprimente? La sacerdotessa di Eleusi e Cabria lo credevano. Avrei voluto dar loro ragione. Rivedevo nel pensiero il palmo di quella mano levigato dalla morte, quale l'avevo contemplato l'ultima volta il mattino dell'imbalsamazione: le linee che un tempo mi avevano preoccupato non c'erano più; era avvenuto di essa come delle piccole tavole di cera, da cui si cancella un ordine eseguito. Ma queste alte affermazioni c'illuminano senza riscaldarci, come il chiarore delle stelle; e la notte attorno è ancora più buia. Se in qualche luogo il sacrificio di Antinoo era stato pesato in mio favore su una bilancia divina, i risultati di quell'atroce dono di sé non si manifestavano ancora; quei benefici non erano quelli della vita e neppure quelli dell'immortalità. Osavo appena tentare di darvi un nome. A volte, in rari intervalli, un tenue barlume palpitava, gettava una pallida luce sull'orizzonte del mio cielo, ma non abbelliva né il mondo, né me stesso; continuavo a sentirmi più deteriorato che salvato. 
In quell'epoca, Quadrato, vescovo dei cristiani, m'inviò un'apologia della sua fede. Mi ero prefisso di seguire, per questa setta, la stessa linea di condotta rigidamente equa che Traiano s'era imposta nei suoi giorni migliori; avevo recentemente rammentato ai governatori delle province che la protezione delle leggi si estende a tutti i cittadini, e che i diffamatori di cristiani sarebbero stati puniti qualora li accusassero senza prove. Ma ogni tolleranza accordata ai fanatici li induce immediatamente a credere a una simpatia per la loro causa. Stento a credere che Quadrato sperasse di convertirmi al cristianesimo; comunque, volle provarmi l'eccellenza della sua dottrina, e soprattutto quanto essa fosse innocua per lo Stato. Lessi la sua opera, ed ebbi perfino la curiosità di far raccogliere da Flegone qualche informazione sulla vita del giovane profeta chiamato Gesù, il quale fondò quella setta e morì vittima dell'intolleranza ebraica circa cento anni fa. Pare che quel giovane sapiente abbia lasciato precetti che arieggiano quelli di Orfeo, al quale i discepoli talvolta lo paragonano. Attraverso la prosa singolarmente piatta di Quadrato, non mancai tuttavia di gustare il fascino commovente di quelle virtù da gente semplice, la loro dolcezza, la loro ingenuità, il loro affetto reciproco; sembravano le confraternite di schiavi o di poveri che si fondano qua e là in onore dei nostri déi, nei quartieri popolosi delle città; in un mondo che, malgrado tutti i nostri sforzi, seguita a essere spietato e indifferente alle pene e alle speranze degli uomini, queste piccole società di mutua assistenza offrono un appoggio e un conforto a molti sventurati. Ma non ero insensibile ad alcuni pericoli: quella esaltazione di virtù da fanciulli o da schiavi avveniva a discapito di qualità più virili e più ferme; dietro quell'innocenza insipida e ristretta, indovinavo l'intransigenza feroce del settario verso forme di vita e di pensiero che non sono le sue, l'orgoglio insolente che gli fa preferire se stesso al resto degli uomini, la sua visuale deliberatamente limitata da paraocchi. Mi stancai ben presto degli argomenti capziosi di Quadrato, di quelle briciole di filosofia scopiazzata dalle opere dei nostri saggi. Cabria, sempre ansioso del giusto culto da offrire agli déi, si preoccupava del progresso delle sette di questo genere tra la plebe delle grandi città; si sgomentava per le nostre vecchie religioni, che non impongono all'uomo il giogo di alcun dogma, si prestano a interpretazioni tanto varie quanto la natura stessa, e lasciano che i cuori austeri si foggino, se lo vogliono, una morale più alta, senza costringere le masse a precetti troppo rigidi per evitare che ne scaturiscano subito costrizione e ipocrisia. Arriano condivideva queste opinioni. Trascorsi una sera intera a discutere con lui l'ingiunzione di amare il prossimo come se stessi; essa è troppo contraria alla natura umana per essere sinceramente seguita dalle persone volgari, le quali non ameranno mai altri che loro stesse, e non si addice al saggio, il quale non ama particolarmente neppure se stesso. 
Su molti punti, d'altro canto, mi sembrava che il pensiero dei nostri filosofi fosse limitato, confuso e sterile anch'esso. Tre quarti dei nostri esercizi intellettuali non sono più che ricami nel vuoto; mi domandavo se tale crescente vacuità fosse dovuta a un decadimento dell'intelligenza o a un declinare del carattere; comunque, la mediocrità di spirito andava raramente disgiunta da una sorprendente bassezza d'animo. Avevo incaricato Erode Attico di sorvegliare la costruzione d'una rete di acquedotti nella Troade; ne profittò per sperperare vergognosamente il pubblico danaro; chiamato a renderne conto, fece rispondere con insolenza d'essere abbastanza ricco per coprire tutto il deficit: e la sua ricchezza, in se stessa, costituiva uno scandalo. Il padre, morto da poco, aveva fatto in modo di diseredarlo con discrezione moltiplicando le elargizioni ai cittadini ateniesi; Erode rifiutò di punto in bianco di tener fede ai legati paterni, e ne nacque un processo che dura ancora. A Smirne, Polemone, il mio antico compagno, si permise di mettere alla porta una deputazione di senatori romani che avevano creduto di poter fare affidamento sulla sua ospitalità. Se ne adirò persino tuo padre Antonino, l'essere più mite che ci sia; l'uomo di Stato e il sofista finirono per scendere a vie di fatto, gazzarra indegna d'un futuro imperatore, e ancor più d'un filosofo greco. Favorino, quel nano avido che avevo colmato di danaro e di onori, metteva in giro per ogni dove motteggi di cui io facevo le spese. Le trenta legioni che comandavo, a suo dire, erano i miei soli argomenti validi nelle competizioni filosofiche in cui avevo la vanità di compiacermi, e nei quali s'aveva cura di lasciare l'ultima parola all'imperatore. Equivaleva a tacciarmi di presunzione e di stupidità e, soprattutto, menar vanto d'una vigliaccheria singolare. Ma i pedanti si irritano sempre quando si conosce quanto loro il loro piccolo mestiere. Tutto serviva di pretesto a osservazioni maligne: avevo fatto includere nei programmi scolastici le opere troppo neglette di Esiodo e di Ennio; quei gretti conservatori mi attribuirono immediatamente il desiderio di detronizzare Omero, e il limpido Virgilio che pure citavo senza posa. Non c'era niente da fare con quella gente. 
Arriano era migliore. Con lui, mi piaceva conversare di qualsiasi argomento. Aveva serbato un ricordo fatto d'ammirazione rapita e di considerazione del giovinetto di Bitinia; gli ero riconoscente di aver posto questo amore, di cui era stato testimone, sul piano delle grandi passioni reciproche del passato; ne parlavamo, di tanto in tanto, ma, benché non fosse detta fra noi alcuna menzogna, a volte provavo l'impressione di avvertire un tono falso nelle nostre parole; la verità scompariva sotto il sublime. Cabria mi deludeva quasi altrettanto: aveva avuto per Antinoo la devozione cieca che il vecchio schiavo prova per il giovane padrone, ma, assorto com'era nel culto del nuovo dio, pareva quasi aver perduto ogni memoria del vivo. Il mio negro, Euforione, almeno, aveva osservato le cose più da vicino. Arriano e Cabria m'erano cari, e non mi sentivo affatto superiore a quei due galantuomini, ma, a volte, mi sembrava d'essere il solo che si sforzasse di conservare gli occhi bene aperti. 
Era pur sempre bella, Atene, e non mi rammaricavo d'aver imposto discipline greche alla mia esistenza; tutto quel che c'è in noi di armonico, cristallino e umano ci viene dalla Grecia. Ma mi veniva fatto, a volte, di dire a me stesso ch'era stato necessario il rigore un po' austero di Roma, il suo senso della continuità, il suo gusto del concreto, per trasformare ciò che in Grecia restava solo mirabile intuizione dello spirito, nobile slancio dell'anima, in realtà. Platone aveva scritto "La Repubblica" ed esaltato l'idea del Giusto, ma eravamo noi che, ammaestrati dai nostri stessi errori, ci adoperavamo faticosamente per far dello Stato una macchina atta a servire gli uomini, e che rischiasse il meno possibile di opprimerli. Il termine «filantropia» è greco, ma eravamo noi, il legislatore Salvio Giuliano e io, a tentare di modificare lo stato miserabile degli schiavi. L'assiduità, la serietà, l'impegno nei particolari che tempera l'audacia dei vasti piani, erano virtù che avevo appreso a Roma. E, nel fondo dell'animo, m'accadeva di ritrovare anche i vasti paesaggi malinconici di Virgilio, i suoi crepuscoli velati di lacrime; inoltrandomi ancor più a fondo, trovavo la tristezza ardente della Spagna, la sua violenza arida; pensavo alle gocce di sangue celta, iberico, fors'anche punico, che avevano dovuto infiltrarsi nelle vene dei coloni romani del municipio d'Italica; mi tornava alla mente che mio padre era stato soprannominato l'Africano. La Grecia mi aveva aiutato ad apprezzare tutti questi elementi, che pure non erano greci. Lo stesso avveniva per Antinoo: avevo fatto di lui l'immagine stessa di quel paese appassionato del bello: forse, ne sarebbe stato l'ultimo dio. E, tuttavia, la Persia raffinata e la Tracia selvaggia s'erano mescolate in Bitinia ai pastori dell'Arcadia antica; quel profilo delicatamente arcuato ricordava quello dei paggi di Osroe; il suo viso largo, dagli zigomi sporgenti, era quello dei cavalieri traci che galoppano sulle sponde del Bosforo e la sera erompono in canti rauchi e tristi. Non v'era alcuna formula così completa da poter contenere tutto. 
Quell'anno, portai a termine la revisione della costituzione ateniese, iniziata molto tempo prima. Per quanto possibile, mi rifacevo alle antiche leggi democratiche di Clistene. La riduzione del numero di funzionari alleviava le spese dello Stato; ostacolai l'appalto delle imposte, un sistema disastroso, disgraziatamente ancora adottato qua e là dalle amministrazioni locali. Qualche fondazione universitaria, stabilita nella stessa epoca, aiutò Atene a tornare a essere un importante centro di studi. I cultori del bello che erano affluiti in quella città prima di me s'erano accontentati di ammirarne i monumenti senza darsi pensiero della penuria in aumento dei suoi abitanti. Io, al contrario, avevo fatto di tutto per moltiplicare le risorse di quella terra depressa. Uno dei progetti più ambiziosi del mio regno giunse a compimento poco tempo prima della mia partenza: l'istituzione di ambascerie annuali, incaricate di trattare ad Atene gli affari del mondo greco, restituì a quella città limitata ma perfetta il suo rango di metropoli. Quel progetto aveva preso consistenza soltanto dopo negoziati irti di difficoltà con le città gelose della supremazia ateniese o animate da rancori secolari e ormai superati contro di lei; a poco a poco, però, la ragione e l'entusiasmo stesso prevalsero. La prima di queste assemblee coincise con l'apertura dell'Olympieion al culto pubblico: più che mai quel tempio diveniva il simbolo d'una Grecia rinnovata. 
In quest'occasione, nel teatro di Dionisio furono dati alcuni spettacoli di grande successo: io sedetti in un seggio appena sovrastante gli altri, accanto a quello dello Ierofante: il sacerdote di Antinoo ormai aveva il suo tra i notabili e il clero. Avevo fatto ingrandire la scena del teatro, bassorilievi nuovi la adornavano: uno di essi rappresentava il mio giovane bitinio nell'atto di ricevere dalle dee eleusine una specie di cittadinanza eterna. Nello stadio panatenaico, trasformato per qualche ora in una selva fiabesca, organizzai una caccia dove figurarono migliaia di bestie feroci, richiamando in vita così, per la durata effimera d'una festa, la città agreste e selvaggia d'Ippolito, servitore di Diana, e di Teseo, compagno d'Ercole. Pochi giorni più tardi, partii da Atene. Da allora, non vi ho fatto mai più ritorno. 
 
 
 
 
L'amministrazione dell'Italia, lasciata per secoli alla mercé dei pretori, non era stata mai definitivamente codificata. L'"Editto perpetuo", che la regola una volta per tutte, data di quell'epoca della mia vita; da molti anni, ero in corrispondenza con Salvio Giuliano circa queste riforme; il mio ritorno a Roma ne affrettò il compimento. Non si trattava di privare le città italiane delle loro libertà civili; al contrario, su questo punto come su tanti altri, abbiamo tutto da guadagnare a non imporre con la forza una unità fittizia, anzi, mi fa persino meraviglia che municipi spesso più antichi di Roma siano così pronti a rinunciare ai loro costumi, talvolta pieni di saggezza, per assimilarsi in tutto alla capitale. Il mio fine era semplicemente di diminuire quella massa di contraddizioni e di abusi che finiscono per far della procedura una boscaglia dove gli onesti non osano avventurarsi e dove prosperano i furfanti. Questi lavori mi costrinsero a spostarmi di frequente entro i confini della penisola. Soggiornai più d'una volta a Baia, nell'antica villa di Cicerone, che avevo comprata agli inizi del mio principato; m'interessavo a quella provincia campana, che mi ricordava la Grecia. Nella piccola città di Adria, sulla spiaggia Adriatica, donde quasi quattro secoli prima i miei avi erano emigrati in Spagna, fui insignito delle più alte cariche municipali; in riva a quel mare tempestoso di cui porto il nome, ritrovai qualche urna di famiglia, in un colombario in rovina. Ripensavo a quegli uomini di cui non sapevo quasi nulla, ma dai quali discendevo, e la cui razza s'estingueva con me. A Roma, si adoperavano per ingrandire il mio colossale mausoleo, di cui Decriano aveva abilmente rimaneggiato la pianta; ci lavorano ancora oggi. L'Egitto m'ispirò quelle gallerie circolari, quelle rampe che declinano verso sale sotterranee; avevo concepito il piano d'un palazzo della morte, che non avrebbe dovuto esser riservato solo a me o ai miei successori immediati, ma nel quale sarebbero venuti a riposare gli imperatori futuri, separati da noi da prospettive di secoli; principi ancora da venire hanno così già il loro posto segnato nella tomba. Mi occupai altresì di ornare il sepolcro elevato nel Campo di Marte alla memoria di Antinoo, per il quale una nave piatta, giunta da Alessandria, aveva scaricato obelischi e sfingi. C'era un nuovo progetto, che mi tenne occupato a lungo e mi ci tiene tuttora: l'Odeon, una biblioteca modello, munita di sale per lezioni e conferenze, destinata a costituire un centro di cultura greca a Roma. Non vi prodigai tanti tesori quanti ne profusi nella nuova biblioteca di Efeso, costruita tre o quattro anni prima, né la colmai dell'eleganza accogliente di quella di Atene. Di questa mia fondazione vorrei fare l'emula, se non l'eguale, del Museo d'Alessandria: lo sviluppo di essa, in futuro sarà compito tuo. Nell'occuparmene, penso spesso alla bella iscrizione che Plotina aveva fatto apporre sulla soglia della biblioteca istituita a sua cura in pieno Foro Traiano: «Ospedale dell'Anima». 
La Villa era ormai abbastanza a buon punto da potervi trasportare le mie collezioni, i miei strumenti di musica, le poche migliaia di libri acquistati un po' dovunque nel corso dei miei viaggi. Offrii una serie di feste in cui ogni cosa era prevista con cura, la lista delle vivande e il numero ristrettissimo dei miei ospiti. Ci tenevo che ogni cosa fosse in armonia con lo splendore pacato di questi giardini e di queste sale, che le frutta fossero squisite quanto i concerti, e il funzionamento dei servizi perfetto quanto il cesello dei piatti d'argento. Mi interessai per la prima volta alla scelta delle vivande: volli che si provvedesse a far venire le ostriche dal Lucrino e i gamberi fossero pescati nei fiumi della Gallia. In contrasto con la negligenza pomposa che troppo spesso distingue la tavola imperiale, stabilii la regola che mi si mostrasse ogni piatto prima di offrirlo, sia pure all'ultimo dei miei commensali; insistetti per verificare personalmente i conti dei cuochi e dei trattori: a volte, ricordavo che mio nonno era stato avaro. Non erano ancora terminati né il piccolo teatro greco della Villa, né quello latino, un po' più vasto, ma vi feci egualmente rappresentare qualche commedia. Per mio ordine, furono recitate tragedie e pantomime, drammi in musica e atellane. Mi piaceva soprattutto la ginnastica sottile delle danze, e scoprii d'avere un debole per le danzatrici con le nacchere, che mi ricordavano il paese di Gades, i primi spettacoli ai quali avevo assistito quando non ero che un bimbo. Amavo quel suono crepitante, le braccia levate, quei veli spiegati o ravvolti, quella danzatrice che cessa d'esser donna per diventare nuvola o uccello, onda o trireme. Per una di queste creature, ebbi persino una passioncella di breve durata. Durante le mie assenze, non erano stati trascurati i canili e le scuderie, e ritrovai il pelo duro dei cani, il manto serico dei cavalli, la bella muta dei paggi. Organizzai qualche caccia in Umbria, sulle sponde del Trasimeno, o, più vicino a Roma, nei boschi di Alba. Il piacere aveva ripreso il suo ruolo nella mia vita; il mio segretario, Onesimo, mi serviva da fornitore, sapeva quando bisognava evitare certe affinità, quando, al contrario, ricercarle. Ma questo amante frettoloso e distratto non era troppo amato. A volte, m'imbattevo in un essere più tenero, più fine degli altri, qualcuno che valeva la pena di ascoltar parlare, fors'anche di rivedere; casi fortunati ma rari, per colpa mia, senza dubbio. Di solito, mi bastava placare, o ingannare, la mia fame. In altri momenti, mi accadeva di provare una indifferenza da vegliardo per quei giochi. 
Nelle ore d'insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, a volte importunavo un artigiano intento a mettere a posto un mosaico; passando, esaminavo un Satiro di Prassitele; mi fermavo davanti ai simulacri del morto. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra. Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell'oscurità; a pochi passi da me, la lampada mi rivelava un'altra immagine; quelle grandi figure bianche non si distinguevano quasi dai fantasmi. Pensavo amaramente agli esorcismi mediante i quali i sacerdoti egizi avevano attirato l'anima del defunto dentro i simulacri di legno di cui si servono per il loro culto; avevo fatto anch'io come loro, avevo stregato pietre che mi stregavano a loro volta; non sarei sfuggito mai più a quel silenzio, a quel gelo che ormai mi era più vicino che non il calore, la voce dei vivi; guardavo quasi con rancore quel viso insidioso, dal sorriso sfuggente. Ma, poche ore dopo, nel mio letto, risolvevo d'ordinare a Papias di Afrodisia una nuova statua; avrei voluto un modellato più esatto delle gote, là dov'esse, insensibilmente, s'incavano sotto la tempia, un'inclinazione più lieve del collo sulla spalla; alle ghirlande di pampini e ai fermagli di pietre preziose avrei sostituito questa volta lo splendore dei riccioli nudi. Non dimenticavo mai di far scavare all'interno quei bassorilievi o quei busti per diminuirne il peso, e renderne più agevole il trasporto. Di queste immagini, le più somiglianti mi hanno accompagnato dovunque; non m'importa neanche più che siano belle oppure no. 
La mia vita, in apparenza, era normale; mi dedicavo con impegno sempre maggiore al mio mestiere d'imperatore, infondendo in quel compito forse un discernimento maggiore del fervore d'altri tempi. Avevo un poco perduto il gusto delle idee e degli incontri nuovi, e quell'agilità di spirito che un tempo mi consentiva di associarmi al pensiero altrui, di profittarne anche giudicandolo. La curiosità, nella quale una volta ravvisavo la molla intima del mio pensiero, uno dei fondamenti del mio metodo, non si esercitava più che su particolari molto futili; aprii lettere destinate ad amici, che se ne offesero; ma quell'occhiata ai loro amori e alle loro baruffe di famiglia mi divertì solo per un istante. Del resto, vi si mescolava un'ombra di sospetto: per qualche giorno, fui in preda alla paura del veleno, quel terrore atroce che un tempo avevo scorto nello sguardo di Traiano malato, e che un principe non osa confessare, poiché sembra grottesco, sino a che gli eventi non l'hanno giustificato. Sorprende un'ossessione del genere in un uomo immerso d'altro canto nella meditazione della morte; ma, in fin dei conti, non pretendo d'essere più coerente di chiunque altro. Di fronte a stupide inezie, a bassezze banali, mi coglievano furori segreti, impazienze selvagge, un disgusto dal quale non escludevo neppure me stesso. In una delle sue "Satire", Giovenale osò insultare il mimo Paride, che mi piaceva: ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l'Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l'ipocrisia. Nella sua qualità di letterato, aveva diritto però a certi riguardi, e lo feci chiamare a Tivoli per comunicargli di persona il decreto d'esilio. Questo spregiatore del lusso e dei piaceri di Roma ormai potrà studiare sul posto i costumi della provincia; i suoi insulti a Paride avevano segnato il termine della sua commedia. Nella stessa epoca, Favorino si insediò nel suo comodo esilio di Chio, dove abiterei volentieri anch'io, ma donde non poteva raggiungermi la sua voce pungente. Pressappoco nello stesso lasso di tempo, feci cacciare ignominiosamente da una sala del banchetto un mercante di saggezza, un sordido cinico che si lamentava di morir di fame, come se quella genia meritasse di meglio: mi divertii un mondo quando vidi quel chiacchierone piegato in due dalla paura svignarsela tra l'abbaiare dei cani e gli scherni canzonatori dei paggi; la canaglia dei filosofi e dei letterati non m'imponeva più alcuna soggezione. 
Ogni minima delusione della vita politica mi esasperava precisamente come, alla Villa, il più leggero dislivello d'un pavimento, la più piccola sbavatura di cera sul marmo d'una tavola, il minimo difetto d'un oggetto che si vorrebbe immune da imperfezioni, esente da impurità. Un rapporto di Arriano, nominato recentemente governatore della Cappadocia, mi mise in guardia contro Farasmane, che, nel suo piccolo regno sulle coste del Mar Caspio, continuava quel doppio gioco che ci era costato tanto caro sotto Traiano. Quel reuccio spingeva insidiosamente verso le nostre frontiere orde di barbari alani; i suoi conflitti con l'Armenia compromettevano la pace in Oriente. Convocato a Roma, si rifiutò di recarvisi, come già quattro anni prima si era rifiutato di assistere alla conferenza di Samosata. Per tutta scusa, m'inviò un omaggio di trecento abiti d'oro, vesti regali che feci indossare nell'arena ad alcuni criminali dati in pasto alle belve. Questo gesto inconsulto mi appagò come quello d'un uomo che si gratta a sangue. 
Avevo un segretario, personaggio mediocre, in verità, che tenevo al mio servizio perché conosceva a fondo il protocollo della cancelleria, ma che m'irritava per la sua sufficienza arcigna e testarda, il suo sdegno per le innovazioni, la mania di cavillare senza fine su minuzie superflue. Un giorno, quell'imbecille m'irritò più del solito; levai la mano per colpirlo; disgraziatamente, brandivo uno stilo, che gli accecò l'occhio destro. Non dimenticherò mai quel suo urlo di dolore, quel braccio goffamente alzato per parare il colpo, quel viso stravolto dal quale colava copioso il sangue. Feci chiamare immediatamente Ermogene, che gli prestò le prime cure, poi fu consultato l'oculista Capito. Ma invano; l'occhio era perduto. Pochi giorni dopo, quell'uomo riprese il suo lavoro; una benda gli traversava il volto. Lo invitai alla mia presenza; gli chiesi umilmente di fissare lui stesso il compenso che gli era dovuto. Mi rispose con un sorriso malvagio che mi chiedeva una cosa sola, un altro occhio destro. Finì tuttavia per accettare una pensione. Lo tengo tuttora in servizio: la sua presenza mi serve di ammonimento, forse di castigo. Non avevo desiderato accecare quel disgraziato. Ma non avevo desiderato neppure che un fanciullo che m'amava morisse a vent'anni. 
 
 
 
 
Gli affari ebraici andavano di male in peggio. A Gerusalemme, giungevano a compimento i lavori, malgrado violente opposizioni dei gruppi zeloti. Furono commessi alcuni errori, rimediabili in se stessi, ma di cui ben presto seppero profittare i mestatori. La Decima Legione di Spedizione ha per emblema un cinghiale; l'insegna fu affissa alle porte della città, com'è d'uso, e la plebaglia, poco avvezza ai simulacri dipinti o scolpiti di cui, da secoli, la tien priva una superstizione poco propizia ai progressi delle arti, prese quell'immagine per quella d'un porco e ravvisò in questo fatto insignificante un insulto ai costumi d'Israele. Le feste del Nuovo Anno ebraico, celebrate con grande frastuono di trombe e di corna di montone, davano luogo ogni anno a risse sanguinose; le nostre autorità vietarono la lettura pubblica d'un racconto leggendario, consacrato alle gesta d'una eroina ebrea, la quale, sotto falso nome, sarebbe divenuta la concubina d'un re di Persia, e avrebbe fatto massacrare ferocemente i nemici del popolo disprezzato e perseguitato donde proveniva. I rabbini riuscirono a leggere di notte quello che il governatore Tineo Rufo proibiva loro di leggere di giorno: quella storia feroce, nella quale Persiani ed Ebrei rivaleggiavano in atrocità, eccitava sino alla follia il furore nazionale degli Zeloti. Infine, sempre Tineo Rufo, uomo di grande prudenza, del resto, e non alieno da interesse per le favole e le tradizioni di Israele, decise di comminare anche per la circoncisione (pratica ebraica) le severe penalità della legge che di recente avevo promulgato contro l'evirazione; penalità volte soprattutto a reprimere le sevizie perpetrate contro giovani schiavi, per lucro o corruzione. Sperava di obliterare così uno di quei segni con i quali Israele pretende distinguersi dal resto del genere umano. Quando fui avvertito di tale misura, non mi resi conto del pericolo che essa comportava, dato che molti, tra gli Ebrei ricchi e illuminati che si incontrano ad Alessandria o a Roma, hanno cessato di sottomettere i figli a una pratica che li rende ridicoli nei bagni pubblici o nei ginnasi, e fanno del loro meglio per dissimularne le tracce su se stessi. Ignoravo sino a qual punto quei banchieri collezionisti di vasi mirrini differiscano dall'autentica Israele. 
L'ho detto: non c'era nulla di irreparabile; ma l'odio, il disprezzo, il rancore reciproco lo erano. In teoria, quella giudaica ha un posto tra le altre religioni dell'impero; ma, in realtà, da secoli Israele si rifiuta di essere un popolo tra gli altri, d'avere un dio tra gli déi. I Daci più selvaggi non ignorano che il loro Zalmosis si chiama Iuppiter a Roma; il Baal punico del monte Cassio s'è identificato facilmente col Padre che tiene la Vittoria in mano e da cui è nata la Saggezza; gli Egizi, pur tanto vani dei loro déi dieci volte secolari, consentono d'identificare in Osiris un Bacco dotato di attributi funerei; l'aspro Mitra sa di essere fratello di Apollo. Non v'è un altro popolo, all'infuori di Israele, così arrogante da pretendere di contenere la verità intera nei limiti angusti d'una sola concezione divina, insultando così la molteplicità del dio che tutto contiene; non v'è altro dio che abbia ispirato ai suoi fedeli disprezzo e odio per coloro che pregano ad are diverse. Tanto più tenevo a far di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest'ultimo prevalga. L'apertura di scuole dove s'insegnava il greco scandalizzò il clero della vecchia città; il rabbino Giosuè, un uomo colto e simpatico, con il quale ad Atene avevo avuto parecchie conversazioni, ma che faceva di tutto per farsi perdonare dai concittadini la sua cultura straniera e i rapporti con noi, ordinò ai discepoli d'astenersi da quegli studi profani, salvo a trovare, per dedicarvela, un'ora che non appartenesse né al giorno né alla notte, dato che la Legge ebraica deve essere studiata giorno e notte. Ismaele, un membro importante del Sinedrio, che si riteneva un convertito alla causa di Roma, lasciò morire il nipote Ben Dama piuttosto che accettare i servigi del chirurgo greco che Tineo Rufo gli aveva inviato. Mentre a Tivoli si cercavano ancora i mezzi per conciliare gli animi senza aver l'aria di cedere alle pretese dei fanatici, in Oriente gli eventi precipitarono: a Gerusalemme riuscì un colpo di mano degli Zeloti. 
Un avventuriero uscito dalla feccia della plebe, chiamato Simone, che si faceva chiamare anche Bar-Kochba, o Figlio della Stella, in quella rivolta ebbe la funzione della fiaccola ricoperta di bitume, dello specchio ustorio. Non posso giudicare quel Simone se non per sentito dire; la sua faccia, l'ho vista una volta sola, il giorno in cui un centurione mi portò la sua testa mozza. Ma son disposto a riconoscergli quella parte di genio che ci vuol sempre per salire tanto presto in alto nelle cose umane; non ci s'impone così se non si possiede almeno qualche abilità, anche rozza. I Giudei moderati sono stati i primi ad accusare quel preteso Figlio della Stella di simonia o d'impostura: credo piuttosto che quello spirito incolto fosse di quelli che credono alle proprie menzogne, e che in lui il fanatismo andasse di pari passo con l'astuzia. Simone si fece passare per l'eroe sul quale il popolo ebreo conta da secoli per le sue ambizioni e i suoi odi; quel demagogo si proclamò Messia e re d'Israele. L'antico Akiba, al quale girava un po' la testa, tenne la briglia al cavallo di quell'avventuriero per le strade di Gerusalemme; il gran sacerdote Eleazar riconsacrò il tempio che dicevano contaminato da quando visitatori non circoncisi ne avevano varcato la soglia; depositi d'armi sotterrati da una ventina d'anni furono distribuiti ai ribelli dagli agenti del Figlio della Stella; lo stesso avvenne dei pezzi difettosi intenzionalmente fabbricati, da anni, nei nostri arsenali, da operai ebrei, e che la nostra intendenza respingeva. Gruppi di Zeloti attaccarono le guarnigioni romane isolate e massacrarono i nostri soldati con raffinatezze crudeli che richiamavano alla memoria gli episodi peggiori della rivolta ebraica sotto Traiano; infine, Gerusalemme cadde interamente nelle mani degli insorti e i quartieri nuovi di Aelia Capitolina presero fuoco come una torcia. I primi distaccamenti della Ventiduesima Legione Deiotariana, inviata d'urgenza dall'Egitto agli ordini del legato di Siria Publio Marcello, furono messi in rotta da bande dieci volte superiori per numero. La rivolta era ormai guerra, e guerra implacabile. 
Due legioni, la Dodicesima Fulminatrice e la Sesta, la Legione di Ferro, immediatamente accorsero di rincalzo agli effettivi di stanza in Giudea; pochi mesi dopo, Giulio Severo, che un tempo aveva pacificato le regioni montuose della Britannia del Nord, assunse il comando delle operazioni militari; conduceva con sé alcuni esigui contingenti di ausiliari britannici avvezzi a combattere su terreni difficili. Le nostre truppe dall'equipaggiamento pesante, i nostri ufficiali, avvezzi alla formazione quadrata o alla falange delle battaglie predisposte, stentarono parecchio ad adattarsi a quella guerriglia fatta di scaramucce e di sorprese, e che, in aperta campagna, serbava una tecnica da sommossa. Simone, uomo notevole, a modo suo, aveva suddiviso i suoi partigiani in centinaia di squadre, in osservazione sulle creste dei monti, o imboscate al fondo delle caverne e delle cave abbandonate, o anche nascoste presso gli abitanti dei sobborghi formicolanti delle città. Severo non tardò a comprendere che questo nemico inafferrabile si poteva sterminare, ma non vincere; si rassegnò a una guerra d'usura. I contadini, resi fanatici o terrorizzati da Simone, sin dagli inizi fecero causa comune con gli Zeloti: ogni roccia divenne un bastione, ogni vigneto una trincea, ogni fattoria si dové prendere con la fame o conquistare d'assalto. Gerusalemme non fu ripresa che al principio del terzo anno, quando si constatò l'inutilità delle estreme negoziazioni; quelle zone della città giudaica che l'incendio di Tito aveva risparmiato furono ridotte in cenere. Severo s'era imposto di chiudere un occhio, per lungo tempo, sulla complicità flagrante delle altre grandi città; ma, divenute le fortezze estreme del nemico, esse furono attaccate più tardi e riconquistate a loro volta, strada per strada, rovina per rovina. In quei tempi di prove, il mio posto era al campo, in Giudea. Accordavo la fiducia più completa ai miei due luogotenenti, e appunto perciò era opportuno che mi trovassi sul posto anch'io per condividere la responsabilità delle decisioni da prendere: checché si facesse, si annunciavano atroci. Allo scadere della seconda estate di guerra, feci amaramente i miei preparativi; Euforione imballò ancora una volta gli oggetti necessari, un po' logorati dall'uso, che m'aveva fatto una volta un artigiano di Smirne, la cassa di libri e di carte, la statuetta d'avorio del Genio imperiale, la sua lampada d'argento; si era ai primi giorni dell'autunno, quando sbarcai a Sidone. 
La vita militare è la mia vocazione: non vi ho mai fatto ritorno senza essere ripagato dei sacrifici da certi compensi interiori; non rimpiango d'aver passato i due ultimi anni attivi della mia esistenza a dividere con le legioni l'asprezza, la desolazione della campagna di Palestina. Ero ridiventato l'uomo vestito di cuoio e di ferro, che trascura tutto ciò che non è l'immediato, sorretto dalle consuetudini semplici d'una vita dura; un po' più lento di prima a montare a cavallo o a scenderne, un po' più taciturno, forse più cupo, circondato come sempre (gli déi soli ne sanno il perchè) dalla devozione idolatra e fraterna al tempo stesso delle truppe. Durante quell'ultimo soggiorno alle armi, feci un incontro inestimabile: assunsi come aiutante di campo un giovane tribuno chiamato Celere, al quale mi affezionai molto. Tu lo conosci: non mi ha mai abbandonato. Ammiravo quel bel volto da Minerva con l'elmo in testa, ma per la verità, i sensi ebbero poca parte in questo affetto, quanta possono averne finché si è vivi. Ti raccomando Celere: ha tutte le qualità che si desiderano in un ufficiale subalterno; anzi, saranno proprio le sue virtù a impedirgli, finché vivrà, di passare in prima fila. Avevo trovato ancora una volta, in circostanze lievemente diverse dalle precedenti, uno di quegli esseri il cui destino è la dedizione: amare, servire. Da quando lo conosco, Celere non ha avuto un solo pensiero che non sia stato per il mio benessere o la mia sicurezza; mi appoggio ancora a questa solida spalla. 
Al terzo anno di guerra, in primavera, l'esercito strinse d'assedio la cittadella di Betar, nido d'aquile dove Simone e i suoi seguaci resistettero per circa un anno alle lente torture della fame, della sete e dello sconforto e dove il Figlio della Stella vide perire i suoi fedeli, uno a uno, senza arrendersi. Il nostro esercito soffriva quasi quanto i ribelli: ritirandosi, questi avevano bruciato i frutteti, devastato i campi, sgozzato il bestiame, inquinato i pozzi gettandovi i nostri morti; quei metodi feroci erano orrendi, più ancora perché applicati a una terra naturalmente povera e già logorata sino all'osso da lunghi secoli di follie e di furori. L'estate fu calda e malsana: la febbre e la dissenteria decimarono le nostre truppe; continuava a regnare una disciplina mirabile tra quelle legioni costrette all'inazione e alla vigilanza nello stesso tempo; l'esercito, sottoposto a molestie e a malattie, era sostenuto da una specie di furore silenzioso che mi si comunicava. Il mio corpo non sopportava più come prima le fatiche d'una campagna, i giorni torridi, le notti gelide o soffocanti, il vento aspro, la polvere che stride tra i denti; mi accadeva di lasciare nella gamella il lardo e le lenticchie bollite del rancio, e restare digiuno. A estate inoltrata, fui tormentato da una tosse maligna; e non ero il solo. Nella mia corrispondenza col Senato, abolii la formula d'obbligo che figura in cima ai comunicati ufficiali: «L'imperatore e l'esercito stanno bene». Al contrario, l'imperatore e l'esercito erano pericolosamente stremati. Alla sera, dopo l'ultima conversazione con Severo, l'ultima udienza ai disertori, l'ultimo corriere da Roma, l'ultimo messaggio di Publio Marcello ch'era incaricato di rastrellare i dintorni di Gerusalemme, o di Rufo intento a riorganizzare Gaza, Euforione misurava con parsimonia l'acqua del mio bagno in una vasca di tela incatramata; mi stendevo sul letto; cercavo di pensare. 
Non lo nego: quella guerra di Giudea era uno dei miei insuccessi. I delitti di Simone, la follia di Akiba non erano opera mia, ma mi rimproveravo d'esser stato cieco a Gerusalemme, distratto ad Alessandria, impaziente a Roma. Non avevo saputo trovare le parole che avrebbero prevenuto, o almeno procrastinato quella crisi di furore d'un popolo: non avevo saputo essere al momento giusto abbastanza duttile o abbastanza rigoroso. D'altro canto, non v'era di che preoccuparsi, e ancor meno disperarsi, per noi: gli errori, le incomprensioni, erano solo nei nostri rapporti con Israele; altrove, raccoglievamo ovunque il frutto di sedici anni di generosità in Oriente. Simone aveva creduto di poter puntare su di una rivolta del mondo arabo simile a quella che aveva contrassegnato gli ultimi, foschi anni del regno di Traiano; più ancora, aveva osato far assegnamento sull'aiuto dei Parti. S'era ingannato, e questo errore di calcolo era la causa della sua lenta fine nella cittadella accerchiata di Betar; le tribù arabe si distaccavano dalla solidarietà con le comunità ebraiche, i Parti restavano fedeli ai trattati. Le sinagoghe delle grandi città siriache si mostravano esse pure indecise o tiepide; le più ardenti si contentavano d'inviare segretamente danaro agli Zeloti; la popolazione ebraica di Alessandria, pur così turbolenta, restava calma; l'ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare; quel dito ammalato si poteva cauterizzare o amputare senza pericolo. E tuttavia, in un certo senso, pareva che ricominciassero i cattivi giorni che avevano immediatamente preceduto il mio regno. Un giorno, Quieto aveva incendiato Cirene, giustiziato i notabili di Laodicea, s'era impossessato di Edessa in rovina... Il corriere serale m'informava che eravamo appena tornati a occupare quel cumulo di pietre dirute che io chiamavo Aelia Capitolina e che gli Ebrei chiamavano ancora Gerusalemme; avevamo incendiato Ascalon; s'era dovuto procedere a esecuzioni in massa dei ribelli di Gaza... Se sedici anni del regno d'un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro. Mi sollevavo sul gomito, mi sentivo a disagio nel mio lettuccio da campo. Certo, v'era qualche ebreo esente dal contagio zelota: persino a Gerusalemme, v'erano Farisei che sputavano al passaggio di Akiba, e trattavano da vecchio pazzo quel fanatico che gettava al vento i vantaggi concreti della pace romana, e gli gridavano che gli sarebbe cresciuta l'erba nella bocca prima che si potesse vedere sulla terra la vittoria d'Israele. Ma preferivo ancora i falsi profeti a quegli uomini d'ordine, che ci disprezzavano pur contando su di noi per proteggere dalle esazioni di Simone l'oro che avevano investito presso banchieri siriaci, o le loro tenute in Galilea. Pensavo ai disertori che, poche ore prima, s'erano seduti sotto la mia tenda, umili, dimessi, servili, ma sempre disposti in modo da voltar la schiena alla immagine del mio Genio. Il nostro miglior agente, Elia BenAbayad, il quale faceva l'informatore e la spia a favore di Roma, era giustamente disprezzato da entrambi i contendenti; era tuttavia l'uomo più intelligente del gruppo, uno spirito liberale, un cuore offeso, dilaniato tra l'amore per il suo popolo e la passione per la nostra letteratura e per noi; lui pure, in fondo, non pensava che a Israele. Giosuè Ben Kisma, che predicava la pacificazione, non era che un Akiba più pavido o più ipocrita; persino presso il rabbino Giosuè, che per tanto tempo era stato mio consigliere nelle faccende ebraiche, avevo sentito, sotto la versatilità e il desiderio di piacere, le differenze insormontabili, il punto ove due pensieri di specie diversa non s'incontrano se non per combattersi. I nostri territori si estendevano su centinaia di leghe, migliaia di stadi, al di là di quell'orizzonte arido di colline, ma la roccia di Betar costituiva la nostra frontiera; potevamo ben radere al suolo le mura massicce di quella cittadella dove Simone commetteva con frenesia il suicidio, ma non potevamo impedire a quella razza di dirci di no. 
Una zanzara ronzava: Euforione, che si faceva vecchio, aveva trascurato di chiudere con attenzione le sottili tende di velo; libri, fogli gettati a terra frusciavano al vento basso che s'insinuava sotto la parete di tela. Mi sedevo sul letto, infilavo i calzari, cercavo a tastoni la tunica, il cinturone, la daga; uscivo per respirare l'aria della notte. Percorrevo le grandi strade regolari del campo, deserte nell'ora tarda, rischiarate come quelle delle città; alcune scolte mi salutavano solennemente al passaggio; costeggiando la baracca che serviva da ospedale, respiravo il lezzo dolciastro dei malati di dissenteria. Mi dirigevo verso la scarpata di terra che ci separava dal precipizio e dal nemico. Una sentinella marciava a lunghi passi regolari su quel sentiero di ronda, pericolosamente stagliata al lume di luna; in quell'andare su e giù, ravvisavo il moto d'un ingranaggio della macchina immensa di cui ero io il perno; mi commoveva un istante lo spettacolo di quella forma solitaria, di quella fiamma breve che ardeva nel petto d'un uomo, in mezzo a un mondo di pericoli. Una freccia sibilava, appena più importuna della zanzara che m'aveva disturbato sotto la tenda; appoggiavo i gomiti ai sacchi di sabbia del muro di cinta. 
Da qualche anno, mi si suppone in possesso di singolare chiaroveggenza, di sublimi segreti. E' tutto falso, non so nulla. Ma è pur vero che durante le notti di Betar ho visto sfilare sotto i miei occhi fantasmi inquietanti: le prospettive che si affacciavano allo spirito dall'alto di quelle colline spoglie erano meno maestose di quella del Gianicolo, meno dorate di quelle del Sunio; ne costituivano il rovescio, il nadir. Mi dicevo che è vano sperare, per Atene e per Roma, quell'eternità che non è accordata né agli uomini né alle cose, e che i più saggi tra noi negano persino agli déi. Quelle forme di vita complicate e sapienti, quelle civiltà adagiate nelle loro raffinatezze d'arte e di piacere, quella libertà dello spirito che s'informa e che giudica, dipendevano da circostanze innumerevoli e rare, da condizioni che era quasi impossibile provocare tutte simultaneamente e che non bisognava aspettarsi di vedere durare. Simone, lo avremmo annientato, Arriano avrebbe saputo proteggere la Siria dalle invasioni degli Alani. Ma altre orde sarebbero venute, altri falsi profeti, i nostri deboli sforzi per migliorare la condizione umana saranno continuati con scarso impegno dai nostri successori; il seme di errore e di morte che anche il bene contiene in sé crescerà mostruosamente nel corso dei secoli. Il mondo, stanco di noi, si cercherà nuovi padroni; quel che ci era parso saggio apparirà vano, quel che ci era parso bello apparirà orribile. Come l'iniziato mitriaco, forse anche l'umanità ha bisogno del bagno di sangue e di passare periodicamente nella fossa funebre. Vedevo tornare i codici feroci, gli déi implacabili, il dispotismo incontestato dei principi barbari, il mondo frantumato in Stati nemici, eternamente in preda al terrore. Altre sentinelle, minacciate da altri dardi, andranno su e giù di ronda nelle città future; il gioco stupido, osceno e crudele continuerà, e la specie umana invecchiando vi aggiungerà senza dubbio nuove raffinatezze d'orrore. La nostra epoca, di cui conoscevo meglio di chiunque altro le insufficienze e le tare, forse un giorno sarà considerata, per contrasto, come una delle età dell'oro dell'umanità. 
«Natura deficit, fortuna mutatur, deus omnia cernit». La natura ci tradisce, la fortuna muta, un dio dall'alto guarda ogni cosa. Giocherellavo con un anello che avevo al dito, sul castone del quale, un giorno di sconforto, avevo fatto incidere queste poche, tristi parole; mi spingevo più oltre nella delusione, forse nella bestemmia: finivo per trovar naturale, se non giusto, dover perire. Le nostre lettere si esauriscono, le nostre arti cadono in letargo, Pancrate non è Omero, Arriano non è Senofonte; quando ho cercato d'immortalare nella pietra la forma di Antinoo, non ho trovato Prassitele. Dopo Aristotele e Archimede, le scienze segnano il passo; i nostri progressi tecnici non resisterebbero all'usura d'una lunga guerra; persino i gaudenti, da noi, si tediano della felicità. L'incivilimento dei costumi, il progresso delle idee durante l'ultimo secolo è opera d'una minoranza esigua di spiriti illuminati; la massa resta ignara, feroce quando può, sempre egoista e gretta, e si può scommettere fondatamente che tale resterà sempre. 
Troppi procuratori o pubblicani avidi, troppi senatori diffidenti, troppi centurioni brutali hanno compromesso in anticipo l'opera nostra; e agli imperi non è concesso più tempo che agli uomini per imparare, a spese dei propri errori. Là dove un tessitore rattopperebbe la sua tela, dove un calcolatore abile correggerebbe i suoi errori, dove l'artista ritoccherebbe il suo capolavoro ancora imperfetto o appena danneggiato, la natura preferisce ricominciare dall'argilla, dal caos; e questo sperpero è ciò che si chiama l'«ordine delle cose». 
Sollevai il capo; mi mossi per togliermi di dosso il torpore. Bagliori indefiniti arrossavano il cielo sopra la cittadella di Simone, manifestazioni inesplicate della vita notturna del nemico. Soffiava il vento dall'Egitto; una tromba di polvere passava, simile a uno spettro; i profili piatti delle colline mi ricordavano la catena arabica sotto la luna. Rientrai lentamente, coprendomi la bocca con un lembo del mantello, irritato contro me stesso per aver dedicato a sterili meditazioni sull'avvenire una notte che avrei potuto impiegare a predisporre i piani per l'indomani, o a dormire. Il crollo di Roma, se doveva avvenire, avrebbe interessato i miei successori; in quell'anno ottocentottantasette dell'era romana, il mio compito consisteva nel reprimere la rivolta in Giudea, nel far tornare dall'Oriente, senza troppe perdite, un esercito deluso. Nel traversare lo spiazzo, sdrucciolavo, a volte, nel sangue d'un ribelle giustiziato la sera innanzi. Mi coricai tutto vestito sul mio letto; due ore dopo, le trombe dell'alba mi destarono.  
 
 
 
 
Tutta la vita, ero vissuto d'amore e d'accordo col mio corpo; avevo implicitamente contato sulla sua docilità, sulla sua forza. Quest'intima alleanza cominciava ad allentarsi; il mio corpo cessava d'operare d'accordo con la mia volontà, col mio spirito, con quella che bisogna pure ch'io chiami, goffamente, la mia anima; il compagno intelligente d'un tempo, ormai non era più che uno schiavo riluttante alla fatica. Il mio corpo aveva paura di me: sentivo continuamente nel petto la presenza oscura della paura, una morsa che non era ancora dolore, ma il primo passo in quel senso. Da un pezzo, m'ero abituato all'insonnia; ma, ormai, il sonno era peggio che non la sua mancanza: appena addormentato, avevo tremendi risvegli. Andavo soggetto a mali di testa che Ermogene attribuiva al clima torrido e al peso dell'elmo; a sera, dopo lunghe fatiche, crollavo a sedere di peso, e alzarmi per ricevere Rufo o Severo era uno sforzo che mi costava molto; i gomiti pesavano sui braccioli della mia poltrona; le gambe mi tremavano come quelle d'un corridore stremato. Il minimo gesto mi costava uno sforzo immenso, e di questi sforzi si componeva ormai la mia esistenza. 
Un incidente quasi banale, un'indisposizione pressoché infantile svelò la malattia che si celava sotto quello sfinimento tremendo: durante una riunione dello Stato maggiore, ebbi una emorragia dal naso; sulle prime non detti peso alla cosa; durante il pasto della sera persisteva ancora, e, la notte, mi destai tutto intriso di sangue. Chiamai Celere, il quale dormiva sotto la tenda vicina; ed egli, a sua volta, dette l'allarme a Ermogene; ma l'orribile colata tiepida continuò. Le mani premurose del giovane ufficiale asciugavano quel liquido che m'imbrattava il viso; all'alba, fui colto da sussulti come ne hanno a Roma quei condannati a morte che si aprono le vene nel bagno; riscaldarono alla meglio, con coperte e impacchi bollenti, questo mio corpo che si raggelava; per arrestare il flusso del sangue, Ermogene aveva prescritto la neve, ma non ce n'era al campo, e Celere, tra difficoltà innumerevoli, ne fece trasportare dalla vetta dell'Ermone. Più tardi, seppi che s'era disperato di salvarmi; e io stesso non mi sentivo più legato alla vita se non da un filo sottilissimo, impercettibile come quel mio polso troppo rapido che costernava il medico. Ebbe termine, tuttavia, quell'emorragia inesplicabile; mi alzai dal letto; mi forzai a vivere come al solito, ma senza riuscirvi. Una sera in cui, ancora non del tutto ristabilito, tentai incautamente una passeggiata a cavallo, ebbi un secondo avvertimento più serio del primo. Sentii, per la durata d'un secondo, affrettarsi il battito del mio cuore, poi rallentare, interrompersi, cessare, e mi parve precipitare come un sasso in una voragine buia, senza dubbio la morte. Se lo era, ci si inganna a descriverla silente: ero travolto da una cascata, assordito come un tuffatore dal rombo delle acque. Non toccai il fondo; riemersi alla superficie; ma soffocavo. In quell'istante che credetti l'ultimo, tutta la mia forza s'era concentrata nella mano che s'aggrappava al braccio di Celere ritto al mio fianco: più tardi, mi mostrò la traccia delle mie dita sulla sua spalla. Ma quella breve agonia, come tutte le esperienze del corpo, è inesprimibile, e volere o no resta un segreto dell'uomo che l'ha vissuta. In seguito, ho attraversato crisi analoghe, mai identiche; e senza dubbio non si riesce ad attraversare due volte quel terrore e quel buio senza morirne. Ermogene finì per diagnosticare un inizio di idropisia al cuore; bisognò accettare le restrizioni che m'imponeva il male, improvvisamente diventato il mio padrone; consentire a un lungo periodo di inazione, limitare per qualche tempo le prospettive della mia vita entro lo spazio d'un letto. Avevo quasi vergogna di quella malattia tutta interiore, quasi invisibile, senza febbre, senza ascessi, senza dolori viscerali, e che non ha altri sintomi se non il respiro un po' più ansimante e la traccia livida che la stringa del sandalo lascia sul piede gonfiato. 
Un silenzio straordinario si stabilì tutt'intorno alla mia tenda; pareva che il campo di Betar fosse diventato tutto la camera d'un malato. L'olio aromatico che ardeva ai piedi del mio Genio rendeva ancor più afosa l'atmosfera, sotto quella gabbia di tela; il pulsare di fucina delle mie arterie mi faceva vagamente pensare all'isola dei Titani al limitare della notte. In altri momenti, quel rombo intollerabile diventava quello d'un galoppo che calpesta la terra molle; lo spirito, tenuto per quasi cinquant'anni accuratamente imbrigliato, mi sfuggiva; il grande corpo navigava alla deriva; consentivo a essere l'uomo stanco che conta distrattamente le stelle e le losanghe della coperta; guardavo, nell'ombra, la macchia bianca d'un busto; dal fondo d'un abisso di quasi mezzo secolo, risaliva una cantilena in onore di Epona, la dea dei cavalli, che un tempo canticchiava con voce sommessa la mia nutrice spagnola, una donna alta e cupa, che somigliava a una delle Parche. Le mie giornate, e le notti, sembravano misurate dalle gocce brune che Ermogene contava una a una in una tazza di vetro. 
A sera, chiamavo a raccolta le mie forze per ascoltare il rapporto di Rufo; la guerra volgeva al termine: Akiba che, sin dall'inizio delle ostilità, in apparenza s'era ritirato dagli affari pubblici, si dedicava all'insegnamento del diritto rabbinico nella piccola città di Usfa, in Galilea: quell'aula di lezioni era divenuta il centro della resistenza zelota; quelle sue mani di nonagenario cifravano e trasmettevano messaggi segreti ai partigiani di Simone; fu necessario usare la forza per rimandare alle loro case gli scolari fanatizzati che circondavano quel vegliardo. Dopo lunghe esitazioni, Rufo si decise a far interdire, perché sedizioso, lo studio della legge ebraica; pochi giorni dopo, Akiba, che aveva contravvenuto a quel decreto, fu arrestato e giustiziato. Altri nove dottori della legge, l'anima del partito zelota, perirono con lui. Avevo approvato tutte quelle misure con un cenno del capo. Akiba e i suoi fedeli morirono, persuasi fino all'ultimo d'essere i soli innocenti, i soli giusti; non ve ne fu uno che abbia avuto l'idea d'accettare la sua parte di responsabilità nelle sciagure che opprimevano il suo popolo. L'invidierei, se si potessero invidiare i ciechi. Non nego il titolo di eroe a quei dieci forsennati; ma in ogni caso, non erano saggi. 
Tre mesi dopo, un freddo mattino di febbraio, mentr'ero seduto in cima a una collina, poggiato al tronco d'un fico spoglio delle foglie, assistetti all'assalto che precedette di poche ore la resa di Betar; vidi uscire uno a uno gli ultimi difensori della fortezza, smunti, laceri, orrendi e tuttavia magnifici come tutto ciò che è indomabile. Alla fine dello stesso mese, mi feci trasportare nel luogo - detto pozzo di Abramo - dove i ribelli, sorpresi con le armi in mano nei loro agglomerati urbani, furono radunati e venduti all'incanto; fanciulli ghignanti, già feroci, quasi deformati da convinzioni implacabili, si vantavano a voce altissima d'aver provocato la morte di dozzine di legionari; vegliardi assorti in un letargo da sonnambuli, matrone dalle carni molli, e altre ancora cupe e solenni come la Grande Madre dei culti d'Oriente, sfilarono sotto l'occhio freddo dei mercanti di schiavi; quella moltitudine mi passò davanti come una polvere. Giosuè Ben-Kisma, il capo dei cosiddetti moderati, che aveva miseramente fallito il suo compito di moderatore, soccombette verso la stessa epoca agli strascichi d'una lunga malattia, e morì invocando la guerra e la vittoria dei Parti su di noi. D'altra parte, gli Ebrei cristianizzati, che non avevamo molestati, e che serbano rancore agli altri appartenenti al popolo ebraico per aver perseguitato il loro profeta, scorsero in noi gli strumenti della collera divina. Durava ancora la lunga serie dei deliri e dei malintesi. 
Un'iscrizione posta sul luogo ove sorgeva Gerusalemme proibì agli Ebrei, pena la morte, di tornare ad abitare in quel cumulo di macerie; essa riproduceva parola per parola la frase che un tempo era scritta sulla porta del tempio, e che interdiceva l'ingresso ai non circoncisi. Un giorno all'anno, il nove del mese di Ab, agli Ebrei si accordava il diritto di piangere innanzi a un muro in rovina. I più devoti si rifiutarono di abbandonare la terra natìa, e si stabilirono alla meglio nelle regioni meno devastate dalla guerra; i più fanatici si trasferirono nel territorio dei Parti, altri emigrarono ad Antiochia, ad Alessandria, a Pergamo; i più scaltri si recarono a Roma, ove prosperarono. La Giudea fu cancellata dalla carta e, per mio ordine, assunse il nome di Palestina. Durante quei quattro anni di guerra, erano state saccheggiate e distrutte cinquanta fortezze, e più di novecento città e villaggi; il nemico aveva perduto quasi seicentomila uomini; i combattimenti, le febbri endemiche, le epidemie ce ne avevano rapiti quasi novantamila. Immediatamente dopo la guerra, il paese fu riordinato, fu ricostruita Aelia Capitolina sebbene su scala ridotta: c'è sempre da ricominciare. 
Mi riposai qualche tempo a Sidone, dove un mercante greco mi prestò la sua casa e i suoi giardini. In marzo, le corti interne erano già ricoperte di rose. Avevo ripreso le forze; anzi scoprii risorse prodigiose in questo corpo che era rimasto così prostrato dalla violenza della prima crisi. Non si comprendono le malattie se non se ne riconosce la strana somiglianza con le guerre e con l'amore: i compromessi, le finte, le esigenze, quell'amalgama unico e bizzarro che nasce dalla mescolanza d'un temperamento con un male. Stavo meglio, ma per giocare d'astuzia con il mio corpo, imporgli i miei voleri o cedere prudentemente ai suoi, mi ci voleva tanta abilità quanta ce n'era voluta in altri tempi per ampliare e regolare il mio universo, costruire la mia vita, abbellirla infine. Ripresi con moderazione gli esercizi del ginnasio; il medico non mi vietava più d'andare a cavallo, ma questo, ormai, era solo un mezzo di trasporto per me; avevo rinunciato ai rischiosi volteggi d'un tempo. Durante qualsiasi lavoro, qualsiasi piacere, l'essenziale non era più il lavoro o il piacere, ma l'uscirne senza fatica. Gli amici si meravigliavano d'una guarigione apparentemente così completa; si sforzavano di credere che quel male fosse dovuto solo agli sforzi eccessivi di quegli anni di guerra e che non sarebbe riapparso, ma io non la pensavo a quel modo; pensavo ai grandi abeti delle foreste di Bitinia, che il guardiaboschi passando segna d'un intacco; tornerà ad abbatterli la prossima stagione. Verso la fine della primavera, m'imbarcai per l'Italia su una grossa nave della flotta, e portai con me Celere, divenutomi indispensabile, e Diotimo di Gadara, giovane greco di nascita servile, che avevo incontrato a Sidone, e che era bello. La rotta del ritorno attraversava l'Arcipelago: per l'ultima volta, non v'ha dubbio, della mia vita, contemplai i delfini balzare nelle acque turchine; osservai, senza pensare ormai a trarne presagi, il lungo volo regolare degli uccelli migratori, che a volte, per riposarsi, si posano senza timori sul ponte della nave; assaporai quell'aroma di sale e di sole sulla pelle umana, il profumo di lentischio e di terebinto delle isole nelle quali si vorrebbe vivere, e dove si sa già che non si farà mai scalo. Diotimo ha ricevuto quella perfetta istruzione letteraria che spesso s'impartisce, per valorizzarli, ai giovani schiavi dotati di attrattive fisiche; al crepuscolo, disteso a poppa, sotto una tenda di porpora, lo ascoltavo leggermi qualche poeta del suo paese, sino a che la notte non cancellava del pari i versi che descrivono la tragica incertezza della vita umana e quelli che parlano di colombe, di serti di rose, di bocche baciate. Un alito umido esalava dal mare; le stelle salivano una a una al loro posto assegnato; la nave, inclinata dal vento, filava verso l'Occidente, ove si sfilacciava ancora un'ultima stria purpurea; dietro di noi, si allungava un solco fosforescente, ben presto ricoperto dalle masse nere delle onde. Mi dicevo che a Roma mi attendevano due soli affari importanti: uno era la scelta del mio successore, che interessava tutto l'impero; l'altro era la mia morte, e concerneva me solo. 
 
 
 
 
Roma m'aveva preparato un trionfo, e questa volta l'accettai. Non lottavo più contro questi costumi al tempo stesso venerabili e vani; mi appariva salutare, di fronte a un mondo così pronto all'oblio, tutto ciò che mette in rilievo lo sforzo dell'uomo, sia pure per la durata d'un giorno. Non si trattava soltanto della repressione della rivolta giudaica; era in un senso assai più profondo, noto a me solo, che avevo trionfato. Associai a quegli onori il nome di Arriano. Aveva inflitto alle orde alane una serie di disfatte che le ricacciava per molto tempo in quel centro oscuro dell'Asia dal quale avevano creduto evadere; l'Armenia era salva; il lettore di Senofonte se ne rivelava l'emulo; non era estinta la razza di quei letterati che in caso di necessità sanno comandare e combattere. Quella sera, rientrando nella mia casa di Tivoli, ero stanco nell'animo ma calmo, quando presi dalle mani di Diotimo il vino e l'incenso del sacrificio giornaliero al mio Genio. 
Da semplice privato, avevo cominciato a comprare e mettere insieme pezzo per pezzo i terreni che si estendono ai piedi dei monti Sabini, al limitare delle sorgenti, con l'ostinazione paziente d'un contadino che amplia le sue vigne; tra un giro di ispezione imperiale e l'altro, avevo posto le tende sotto quei boschetti invasi da muratori e architetti, dove un giovinetto imbevuto di tutte le superstizioni asiatiche chiedeva piamente che gli alberi fossero risparmiati. Di ritorno dal mio grande viaggio d'Oriente, m'ero messo con una specie di sacra frenesia a completare lo scenario immenso di quell'opera già quasi terminata. Questa volta vi feci ritorno per terminare i miei giorni il più dignitosamente possibile. Tutto era predisposto per regolare il lavoro così come il piacere: la cancelleria, le sale per le udienze, il tribunale dove avrei giudicato in ultimo appello la cause difficili, m'avrebbero risparmiato faticosi andirivieni fra Tivoli e Roma. Avevo dotato ciascuno di quegli edifici di nomi evocanti la Grecia: il Pecile, l'Accademia, il Pritaneo. Sapevo bene che quella valle angusta, disseminata d'olivi, non era il Tempe, ma ero giunto in quell'età in cui non v'è una bella località che non ce ne ricordi un'altra, più bella, e ogni piacere s'arricchisce del ricordo di piaceri trascorsi. Consentivo ad abbandonarmi a quella nostalgia ch'è la malinconia del desiderio. A un angolo particolarmente ombroso del parco, avevo persino dato il nome di Stige; a una prato costellato d'anemoni quello di Campi Elisi, preparandomi così a quell'altro mondo i cui tormenti somigliano tanto a quelli del nostro, ma le cui gioie nebulose non valgono le nostre. Ma, soprattutto, nel cuore di quel ritiro, m'ero fatto costruire un asilo ancor più celato, un isolotto di marmo al centro d'un laghetto contornato di colonne, una stanza segreta che un ponte girevole, così lieve che si può con una mano sola farlo scivolare nella sua corsia, unisce alla riva, o, piuttosto, segrega da essa. In quel padiglione feci trasportare due o tre statue a me care, e quel piccolo busto d'Augusto fanciullo che Svetonio m'aveva dato ai tempi della nostra amicizia; all'ora della siesta, mi recavo là per dormire, per pensare, per leggere. Sdraiato sulla soglia, il mio cane allungava innanzi a sé le zampe rigide; un riflesso di luce si riverberava sul marmo; Diotimo, per rinfrescarsi, posava la gota al fianco levigato d'una vasca. Io pensavo al mio successore. 
Non ho figli e non lo rimpiango. Certo, nelle ore di stanchezza e di debolezza, quando ci si rinnega, a volte mi son rimproverato di non essermi dato il fastidio di generare un figlio che mi avrebbe continuato. Ma questo rimpianto tanto vano poggia su due ipotesi egualmente incerte: che un figlio necessariamente ci continui, e che questo singolare miscuglio di bene e di male, questa somma di particolarità infime e bizzarre che costituiscono un individuo meriti davvero d'essere prolungata. Le mie virtù, le ho utilizzate come ho potuto. Dei miei vizi, ne ho fatto buon uso. Ma non ci tengo in modo speciale a lasciarmi in retaggio a qualcuno. Del resto, l'autentica continuità umana non si stabilisce attraverso il sangue: è Cesare l'erede diretto d'Alessandro, e non già quel bimbo gracile, nato da una principessa persiana in una cittadella asiatica; ed Epaminonda, morendo senza prole, aveva ben ragione di vantarsi d'avere per figlie le sue vittorie. La maggior parte degli uomini che contano nella storia, ha avuto una progenie mediocre, o ancor peggio: si direbbe che essi esauriscano in sé tutte le risorse d'una razza. L'affetto paterno, poi, è quasi sempre in conflitto con gl'interessi d'un capo di Stato, e anche se ciò non fosse il figlio dell'imperatore per di più deve sottostare ai pregiudizi d'una educazione principesca, la peggiore fra tutte, per un futuro imperatore. Fortunatamente, per quel poco che il nostro Stato ha saputo darsi una norma per la successione imperiale, essa è l'adozione: e anche in questo, io ravviso la saggezza di Roma. Conosco bene i pericoli d'una scelta, gli incerti ch'essa comporta; e non ignoro che l'accecamento non è esclusivo dell'affetto paterno; ma questa scelta a cui l'intelligenza presiede, o, quanto meno, partecipa, mi apparirà sempre infinitamente preferibile agli oscuri incontri del caso e della ottusa natura. L'impero al più degno: è bello che chi ha dato prova delle sue capacità nel maneggio degli affari di Stato scelga il successore, e che tale scelta, così gravida di conseguenze, sia, a un tempo, il suo estremo privilegio e l'estremo servigio ch'egli rende allo Stato. Ma proprio questa scelta così importante mi sembrava più ardua che mai. 
Avevo biasimato aspramente Traiano per aver tergiversato vent'anni, prima di prendere la risoluzione d'adottarmi, e per averlo fatto solo sul letto di morte. Ma erano già trascorsi quasi diciott'anni dal mio avvento al trono, e, malgrado i rischi d'un'esistenza avventurosa, avevo rimandato a mia volta a più tardi la scelta d'un successore. Mille chiacchiere erano corse, in proposito, false quasi tutte; erano state tentate mille ipotesi: ma quel che si credeva il mio segreto non era che il mio dubbio, la mia esitazione. Mi guardavo intorno: non difettavano i funzionari onesti, ma nessuno aveva la statura necessaria. Quarant'anni intemerati postulavano a favore di Marcio Turbo, il mio caro compagno d'altri tempi, il mio incomparabile prefetto del pretorio; ma aveva la mia stessa età, era troppo vecchio. Giulio Severo, generale eccellente, buon amministratore della Britannia, s'intendeva ben poco dei complessi affari d'Oriente; Arriano aveva fatto prova di tutte le qualità richieste a uno statista, ma era greco; e non è ancora il momento d'imporre un imperatore greco ai pregiudizi di Roma. 
Serviano viveva ancora; quella longevità aveva l'aria d'un lungo calcolo, da parte sua, d'una forma ostinata d'attesa. Da sessant'anni attendeva. Dal tempo di Nerva, l'adozione di Traiano l'aveva incoraggiato e, al tempo stesso, deluso; sperava di meglio; ma l'avvento al potere di quel cugino senza tregua preso dalle armi sembrava assicurargli un posto considerevole nello Stato, forse il secondo. Anche in questo, si sbagliava: non aveva ottenuto che una parte insignificante d'onori. Attendeva, dall'epoca in cui aveva incaricato i suoi schiavi di aggredirmi a una svolta, in un bosco di pioppi, lungo le rive della Mosella: il duello mortale iniziato quella mattina tra un giovane e un cinquantenne era continuato per vent'anni: era stato lui a seminare il malanimo contro di me nel padrone, aveva esagerato le mie sregolatezze, aveva profittato dei miei minimi errori. Un nemico simile è un maestro insigne di prudenza: a conti fatti, Serviano m'aveva insegnato molto. Dopo la mia accessione al trono, era stato così scaltro da aver l'aria d'accettare l'inevitabile; del complotto dei quattro consolari, se n'era lavato le mani, e io avevo preferito non accorgermi delle macchie su quelle dita ancora sporche. Da parte sua, s'era contentato di protestare solo a bassa voce, di scandalizzarsi solo a porte chiuse. Sostenuto in Senato dall'esiguo e potente partito di conservatori inamovibili che disturbavano le mie riforme, s'era comodamente insediato in quel ruolo di critico silenzioso del regno. Poco a poco, m'aveva alienato mia sorella Paolina. Non aveva avuto che una figlia da lei, sposata a un certo Salinatore, un giovane di buona famiglia, che elevai alla dignità consolare, ma che la tisi rapì presto; mia nipote gli sopravvisse per poco, e il loro unico figlio, Fusco, mi fu aizzato contro dall'avo perverso. Ma l'odio che regnava tra noi conservava le forme: non gli lesinavo la sua parte d'incarichi pubblici, pur evitando di apparire al suo fianco in quelle cerimonie nelle quali l'età avanzata gli avrebbe concesso la precedenza sull'imperatore. Ogni volta che facevo ritorno a Roma, consentivo per convenienza ad assistere a uno di quei pranzi di famiglia nei quali si sta in guardia; ci scambiavamo lettere; anzi, le sue non erano prive d'un certo spirito. Tuttavia, a lungo andare quell'insulsa ipocrisia mi venne a noia; uno dei pochi vantaggi che riconosco al fatto d'invecchiare consiste nella possibilità di gettar la maschera in ogni cosa: rifiutai di assistere alle esequie di Paolina. Al campo di Betar, nei momenti peggiori di spossatezza, di sconforto, l'amarezza suprema era stata il ripetermi che ormai Serviano giungeva alla meta, e per colpa mia; quell'ottuagenario così avaro delle sue forze sarebbe riuscito a sopravvivere a un malato di cinquantasette anni; se morivo "ab intestato", avrebbe saputo ottenere i suffragi dei malcontenti nonché l'approvazione di coloro che avrebbero creduto di restarmi fedeli eleggendo mio cognato; avrebbe profittato di quella tenue parentela per minare la mia opera. Per calmarmi, mi dicevo che l'impero potrebbe trovare padroni peggiori; Serviano, in fin dei conti, non era del tutto privo di virtù; e chissà che anche il torpido Fusco un giorno non sarebbe stato degno di regnare. Ma tutto quel che mi restava d'energia respingeva quella menzogna; mi auguravo di vivere per schiacciare quella vipera. 
Al mio ritorno a Roma, avevo ritrovato Lucio. Un tempo, avevo assunto verso di lui qualche impegno di quelli che generalmente non ci si preoccupa affatto di mantenere, ma ch'io avevo rispettati. Del resto, non è affatto vero che gli avessi promesso la porpora imperiale; son cose che non si promettono. Ma per una quindicina d'anni avevo pagato i suoi debiti, soffocato i suoi scandali, risposto senza indugio alle sue lettere, che erano deliziose, ma che finivano sempre con qualche richiesta di danaro per lui o di avanzamento per i suoi favoriti. Era legato troppo intimamente alla mia vita per potervelo escludere, qualora l'avessi voluto: ma non volevo niente di simile. Aveva una conversazione scintillante - quel giovane, che ritenevano frivolo, aveva fatto letture più scelte e più vaste dei letterati di mestiere. Era d'un gusto squisito in qualsiasi campo, si trattasse d'esseri umani, oggetti, usanze o della prosodia esatta d'un verso greco. Al Senato lo giudicavano abile, e s'era fatta una reputazione di prim'ordine come oratore: i suoi discorsi stringati e ricchi a un tempo servivano, così com'egli li pronunciava, di modello ai maestri d'eloquenza. L'avevo fatto nominare pretore, poi console; aveva esercitato queste funzioni con decoro. Pochi anni prima, gli avevo fatto sposare la figlia di Nigrino, uno dei consolari giustiziati all'inizio del mio regno; quell'unione divenne l'emblema della mia politica di pace. La giovane donna non fu troppo felice, si lamentava d'essere negletta; eppure, aveva avuto tre figli da lui, di cui uno maschio. Alle sue lagnanze quasi continue, egli rispondeva con cortesia glaciale che ci si sposa per la famiglia e non per sé, e che un contratto così grave non contempla i giochi spensierati dell'amore. Il suo modo di vivere esigeva delle amanti per farne mostra, e facili schiave per la voluttà. Si estenuava nel piacere, ma così come un artista si sfibra per realizzare un capolavoro: non sta a me rimproverarlo. 
Lo guardavo vivere. La mia opinione su di lui si modificava senza posa, il che accade solo per gli esseri che ci toccano da vicino: gli altri, ci contentiamo di giudicarli alla grossa, e una volta per tutte. A volte, mi turbavano in lui un'insolenza deliberata, una durezza, una frase scioccamente frivola; in genere, mi lasciavo trascinare da quello spirito gaio e leggero; un'osservazione tagliente pareva far presentire d'un tratto il futuro statista. Ne parlai a Marcio Turbo, il quale, dopo la sua faticosa giornata di prefetto del pretorio, veniva ogni sera a conversare con me degli avvenimenti del giorno e a disputare una partita ai dadi; prendevamo in esame minuziosamente le probabilità che Lucio aveva di adempiere con decoro ai doveri imperiali. I miei amici si meravigliavano dei miei scrupoli; c'era chi, scrollando le spalle, mi consigliava di fare a mio modo: quei tipi lì s'immaginano che si lasci a qualcuno la metà del mondo come gli si lascerebbe una casa di campagna. La notte, ci ripensavo: Lucio aveva appena trent'anni: che cos'era Cesare a trent'anni, se non un figlio di famiglia oberato di debiti, segnato a dito per gli scandali? Come durante i tristi giorni di Antiochia, prima della mia adozione da parte di Traiano, pensavo con una fitta al cuore che non c'è nulla tanto lento quanto la vera nascita d'un uomo: io stesso, avevo passato i trent'anni all'epoca in cui la campagna di Pannonia m'aveva aperto gli occhi sulle responsabilità del potere; a volte, Lucio mi sembrava più maturo di quel che non fossi io a quell'età. Mi risolsi bruscamente, in seguito a una crisi d'asfissia più grave delle altre, che sopravvenne a rammentarmi che non avevo più tempo da perdere. Adottai Lucio, il quale prese il nome di Elio Cesare. Era ambizioso, ma con noncuranza; era esigente senz'essere avido: da troppo tempo aveva l'abitudine di ottenere ogni cosa; e accettò la mia decisione con disinvoltura. 
Commisi l'imprudenza di dire che quel principe biondo sarebbe stato radioso sotto la porpora, e i malevoli si affrettarono a dichiarare che compensavo con un impero l'intimità voluttuosa d'un tempo: significava non comprender come funziona lo spirito d'un capo, per poco che meriti il titolo e il posto. Se considerazioni del genere avessero avuto il loro peso, non sarebbe stato Lucio il solo sul quale avrei potuto far cadere la scelta. 
Mia moglie era morta in quei giorni nella sua residenza al Palatino, ch'ella continuava a preferire a Tivoli, dove abitava circondata da una angusta corte di amici e parenti spagnoli, i soli che contavano per lei. A poco a poco, erano cessati tra noi i riguardi, le convenienze, le fragili velleità d'intesa, lasciando a nudo l'antipatia, l'astio, il rancore, e, da parte sua, l'odio. Negli ultimi tempi, le feci visita; la malattia aveva inasprito ulteriormente il suo carattere acre e tetro: quell'incontro le fornì l'occasione per recriminazioni violente, che la sollevarono, e alle quali ebbe l'indiscrezione di abbandonarsi davanti a testimoni. Disse che si rallegrava di morire senza figli: i miei figli mi avrebbero rassomigliato senza dubbio, ed ella avrebbe provato per loro la stessa avversione che provava per me. Questa frase, nella quale fermenta tanto rancore, è la sola prova d'amore che ella m'abbia dato. La mia Sabina: rievocavo i soli ricordi tollerabili che sempre sussistono d'un essere, quando ci si prende la pena di cercarli; rammentai una cesta di frutta che m'aveva inviata una volta, il giorno del mio anniversario, dopo una lite; passando in lettiga nelle anguste viuzze del municipio di Tivoli, davanti alla modesta casa da villeggiatura che un tempo apparteneva a mia suocera Matidia, evocavo con amarezza le notti d'un'estate lontana, quando avevo invano cercato di trovare il piacere in quella sposa frigida e dura. La morte di mia moglie mi turbò assai meno di quella della buona Areté, la direttrice della Villa, rapita l'inverno medesimo da un attacco di febbri. Dato che il male che uccise l'imperatrice, mal diagnosticato dai medici, le procurò verso la fine atroci dolori viscerali, mi si accusò di veneficio, e questa voce insensata trovò facilmente credito. Inutile dire che un delitto così superfluo non m'aveva tentato mai. 
Forse fu la morte di mia moglie, che indusse Serviano a tentare il tutto per tutto. L'ascendente di cui ella godeva a Roma gli era saldamente favorevole: crollava con lei uno dei suoi sostegni più rispettati. Per di più, era entrato allora nel novantesimo anno d'età; non aveva tempo da perdere, neanche lui. Si sforzava, da qualche mese, di attirare presso di sé piccoli gruppi di ufficiali della guardia pretoriana; a volte, osò sfruttare quel rispetto superstizioso che ispira l'estrema vecchiezza per farsi trattare da imperatore, tra quattro mura. Io, di recente, avevo rafforzato la polizia segreta militare, un'istituzione ripugnante, lo ammetto, ma che gli eventi dimostrarono utile. Non ignoravo nulla di quei conciliaboli segreti nei quali il vecchio Ursus insegnava al nipote l'arte dei complotti. L'adozione di Lucio non sorprese il vegliardo: da tempo riteneva le mie esitazioni in proposito una decisione ben dissimulata; ma profittò per agire del momento in cui l'atto d'adozione era ancora a Roma una materia controversa. Il suo segretario Crescente, stanco di quarant'anni di fedeltà mal retribuita, palesò il suo progetto, la data del colpo, il luogo, il nome dei complici. L'immaginazione dei miei nemici non s'era data molta pena; si contentavano di copiare semplicemente l'attentato meditato un tempo da Quieto e Nigrino; avrei dovuto essere trucidato durante una cerimonia religiosa in Campidoglio; e il mio figlio adottivo sarebbe caduto con me. 
La notte stessa, presi le mie precauzioni: il nostro nemico aveva vissuto fin troppo; avrei lasciato a Lucio un'eredità scevra di pericoli. Verso la dodicesima ora, in un'alba grigia di febbraio, si presentò in casa di mio cognato un tribuno che recava una sentenza di morte per Serviano e per suo nipote; gli era stato comandato di attendere nel vestibolo che l'ordine che lo conduceva fin lì fosse compiuto. Serviano fece chiamare il suo medico: tutto si svolse semplicemente. Prima di morire, m'augurò di spirare lentamente, fra i tormenti d'un male incurabile, senza avere come lui il privilegio d'una breve agonia. Il suo voto è già stato esaudito. 
Non avevo ordinato alla leggera quella duplice esecuzione; in seguito, non ne provai alcun rimpianto, e ancor meno rimorsi. Si saldava così un vecchio conto: ecco tutto. La vecchiaia non m'è mai sembrata una scusante alla perfidia umana; anzi, son più disposto a considerarla una circostanza aggravante. La sentenza di Akiba e dei suoi accoliti m'aveva fatto esitare più a lungo: vegliardo per vegliardo, preferivo ancora il fanatico al cospiratore. Quanto a Fusco, benché mediocre, e totalmente alienatomi dal suo odioso avo, era pur sempre il nipote di Paolina. Ma i legami del sangue sono molto deboli, checché se ne dica, quando non c'è un affetto a rinsaldarli; lo si può constatare presso i privati, durante le più banali questioni ereditarie. M'impietosiva un poco di più l'età giovanile di Fusco; aveva diciott'anni appena. Ma l'interesse di Stato esigeva quella soluzione, che il vecchio Ursus s'era quasi preso il gusto di rendere inevitabile. E, ormai, ero troppo vicino alla mia morte per aver tempo di meditare su quella duplice fine. 
Per qualche giorno, Marcio Turbo raddoppiò la vigilanza intorno a me; gli amici di Serviano avrebbero potuto vendicarlo. Ma non avvenne nulla, né attentati, né sedizioni, né mormorii. Non ero più il nuovo venuto che cercava di attirar dalla sua l'opinione pubblica dopo l'esecuzione di quattro consolari; pesavano in mio favore diciott'anni di giustizia; i miei nemici erano esecrati in blocco; la folla mi approvò per essermi sbarazzato d'un traditore. Fusco fu compianto, senza del resto essere giudicato innocente. Il Senato, lo so bene, non mi perdonava d'aver colpito ancora una volta uno dei suoi membri; ma tacque, e tacerà fino alla mia morte. Com'era avvenuto l'altra volta, una buona dose di clemenza mitigò presto quella dose di rigore; nessuno dei sostenitori di Serviano ebbe la minima molestia. La sola eccezione a questa regola fu l'insigne Apollodoro, astioso depositario dei segreti di mio cognato, il quale perì con lui. Quell'uomo di talento era stato l'architetto prediletto del mio predecessore; aveva disposto con arte i grandi blocchi della Colonna Traiana. Non c'era molta simpatia tra di noi: un tempo, aveva deriso i miei maldestri tentativi da dilettante, le mie coscienziose nature morte di zucche e cetrioli; da parte mia, avevo criticato le sue opere con la presunzione dei giovani. Più tardi, egli aveva denigrato le mie; non conosceva l'arte greca della grande epoca, e mi rimproverava d'aver popolato i nostri templi di statue colossali che, se si fossero alzate in piedi, avrebbero spezzato con la fronte la volta dei santuari: critica sciocca, che colpisce Fidia ancora più di me. Ma gli déi non si alzano in piedi: non si alzano né per avvertirci, né per proteggerci, né per ricompensarci, né per punirci. Non si levarono quella notte per salvare Apollodoro.  
 
 
 
 
In primavera, la salute di Lucio cominciò a ispirarmi timori abbastanza seri. Una mattina, a Tivoli, dopo il bagno scendemmo nella palestra dove Celere s'esercitava in compagnia di altri giovani; uno d'essi propose una di quelle gare nelle quali ogni partecipante corre armato d'uno scudo e d'un'asta; Lucio si schermì, com'era solito e, alla fine, cedette ai nostri amichevoli motteggi; nell'armarsi, si lamentò del peso dello scudo bronzeo: a confronto con la schietta bellezza di Celere, quel corpo esile sembrava fragile. Compiuti pochi passi di corsa, si fermò trafelato e cadde di schianto, in uno sbocco di sangue. L'incidente non ebbe seguito; Lucio si riprese facilmente. Ma io m'ero spaventato; e avrei dovuto aspettare a rassicurarmi. 
Opposi ai primi sintomi della malattia di Lucio la fiducia ottusa d'un uomo che è stato robusto tanto tempo, la sua fede implicita nelle riserve inesauribili della giovinezza, nel buon funzionamento degli organismi. E' vero che s'ingannava anche lui: una fiamma leggera lo sosteneva; la sua vivacità illudeva lui stesso quanto noi. I miei anni più belli erano trascorsi in viaggio o negli accampamenti o agli avamposti; avevo apprezzato le virtù d'una vita rude, l'effetto salutare delle regioni secche o ghiacciate. Stabilii di nominare Lucio governatore di quella stessa Pannonia dove avevo fatto le mie prime esperienze di capo. Su quella frontiera, la situazione era meno critica d'allora; il compito di Lucio si sarebbe limitato ai tranquilli lavori dell'amministratore civile o a ispezioni militari scevre di pericolo. Quel paese aspro lo avrebbe disabituato dalla mollezza romana: avrebbe imparato a conoscere meglio quel mondo immenso che l'Urbe governa e dal quale dipende. Egli temeva quei climi barbari; non comprendeva che si potesse godere la vita in altri luoghi che a Roma. Tuttavia, accettò con la compiacenza che aveva quando voleva piacermi. 
Lessi attentamente tutta l'estate i suoi rapporti ufficiali, e quelli, più segreti, di Domizio Rogato, un mio uomo di fiducia che gli avevo messo al fianco in qualità di segretario, con l'incarico di sorvegliarlo. Quei rapporti mi soddisfecero: in Pannonia, Lucio seppe dare prova di quella serietà che esigevo da lui, e della quale, forse, si sarebbe liberato dopo la mia morte. Anzi, ebbe una serie di scontri di cavalleria agli avamposti e ne uscì con onore. In provincia, come altrove, riusciva a incantare tutti; le sue maniere asciutte e un poco perentorie non lo danneggiavano: almeno, non sarebbe stato uno di quei principi bonari governati da una combriccola. Ma, sin dagli inizi dell'autunno, lo colse il freddo. Lo si credette presto guarito, ma si ripresentò la tosse; la febbre persistette e non lo lasciò più. Un miglioramento passeggero fu seguito da una ricaduta grave, nella primavera successiva. I bollettini dei medici mi costernarono; la posta pubblica che avevo istituito di recente, e comportava cambio di cavalli e di vetture su territori immensi, pareva funzionare soltanto per recarmi ogni mattina più prontamente notizie del malato. Non mi perdonavo d'essere stato inumano con lui per timore d'essere o di sembrare fiacco. Non appena si fu ripreso abbastanza da poter affrontare il viaggio, lo feci ricondurre in Italia. 
Andai di persona, accompagnato dal vecchio Rufo di Efeso, specialista in etisia, a incontrare il mio gracile Elio Cesare al porto di Baia. Il clima di Tivoli, benché migliore di quello di Roma, non è tuttavia abbastanza mite per i polmoni lesi; avevo stabilito di fargli trascorrere lo scorcio dell'anno in quel clima più sicuro. La nave gettò l'ancora in pieno golfo; una piccola imbarcazione portò a terra il malato e il suo medico. Il volto sparuto di Lucio appariva ancor più scarno sotto la folta barba di cui s'era fatto coprire le gote, per rassomigliarmi. Ma gli occhi avevano serbato quella fiamma fredda da pietra preziosa. Le sue prime parole furono per ricordarmi che tornava solo per ordine mio; la sua amministrazione era stata impeccabile; m'aveva obbedito in tutto. Si comportava come uno scolaretto che giustifica l'impiego delle ore. Lo feci alloggiare in quella villa di Cicerone dove un tempo aveva trascorso con me una stagione, a diciotto anni. Ebbe l'eleganza di non parlar mai di quell'epoca. I primi giorni parvero una vittoria sul male: quel ritorno in Italia era già di per se stesso un rimedio: in quel tempo, quel paese era di porpora e rosa. Ma cominciarono le piogge; dal mare grigio, soffiava un vento umido; la vecchia casa, costruita ai tempi della Repubblica, mancava delle comodità più moderne della villa di Tivoli; guardavo Lucio riscaldarsi malinconicamente davanti al braciere le lunghe dita cariche di anelli. Ermogene era appena tornato dall'Oriente, dove l'avevo mandato per rinnovare e completare la sua provvista di medicamenti; tentò su Lucio gli effetti d'un fango impregnato di sali minerali potenti; si credeva che quelle applicazioni potessero guarire ogni male. Ma non giovarono né ai suoi polmoni né alle mie arterie. 
La malattia metteva a nudo gli aspetti peggiori di quel carattere arido e leggero; la moglie gli fece visita, e, come sempre, l'incontro si concluse con parole amare. Ella non tornò più. Gli portarono il figlio, un bel bambino di sette anni, sdentato e ridente; lo guardò con indifferenza. S'informava con avidità delle notizie di Roma; vi s'interessava da giocatore, non da statista. Ma la sua frivolezza restava una forma di coraggio; si destava dopo lunghi pomeriggi di sofferenze o di torpore per impegnarsi in una di quelle conversazioni scintillanti d'altri tempi; quel viso madido di sudore sapeva ancora sorridere, quel corpo scarnito si levava con grazia per accogliere il medico. Sarebbe restato fino all'ultimo istante il principe d'avorio e d'oro. 
La sera, incapace di prender sonno, mi recavo nella camera del malato; Celere, che non era tenero con Lucio, ma troppo fedele per non servire con sollecitudine quelli che mi son cari, accettava di vegliarlo al mio fianco; dalle coperte saliva un rantolo. Mi sentivo invadere da un'amarezza profonda come il mare: non mi aveva amato mai; i nostri rapporti erano diventati ben presto quelli del figlio prodigo e del padre indulgente; la sua vita s'era svolta scevra di progetti ambiziosi, di pensieri gravi, di passioni ardenti; aveva dilapidato gli anni come un prodigo dispensa monete d'oro. Mi ero appoggiato a un muro crollante; pensavo stizzito alle somme enormi dilapidate per la sua adozione, ai trecento milioni di sesterzi distribuiti alle truppe. In un certo senso, ero perseguitato dalla mala sorte: avevo appagato il mio antico desiderio di dare a Lucio tutto quel che si può dare; ma lo Stato non ne avrebbe sofferto; non avrei rischiato d'essere disonorato da quella scelta. Nel fondo dell'animo, finivo col temere che migliorasse; se per caso si fosse trascinato ancora qualche anno, non potevo lasciare l'impero a quella larva. Senza mai farmi domande, pareva che penetrasse il mio pensiero su questo punto; i suoi occhi seguivano ansiosi ogni mio gesto, anche insignificante; l'avevo nominato console per la seconda volta; si preoccupava di non poterne adempiere le funzioni; l'angoscia di dispiacermi lo fece peggiorare. «Tu Marcellus eris...» Mi ripetevo i versi di Virgilio consacrati al nipote di Augusto, destinato all'impero anche lui, e che la morte aveva fermato sul suo cammino. «Manibus date lilia plenis... Purpureos spargam flores...» Quell'innamorato dei fiori non avrebbe ricevuto da me che vane corone funebri. 
Credette di star meglio, volle far ritorno a Roma. I medici ormai non discutevano più tra loro se non del tempo che gli restava da vivere; mi consigliarono di contentarlo; a piccole tappe, lo ricondussi alla Villa. La sua presentazione al Senato in qualità di erede dell'impero doveva aver luogo durante la prima seduta dell'anno nuovo; l'uso voleva che in quella occasione egli mi rivolgesse un discorso di ringraziamento: quel brano d'eloquenza lo preoccupava da mesi; ne limavamo insieme i passaggi più ardui. Vi lavorava una mattina delle calende di gennaio, quando fu colto da un'emorragia improvvisa; ebbe una vertigine; si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. La morte non fu che uno stordimento, per quell'essere leggero. Era il giorno di Capodanno; per non interrompere le celebrazioni pubbliche e le festività private, proibii che si diffondesse subito la notizia della sua morte; fu annunciata ufficialmente solo il giorno dopo. Fu sotterrato con semplicità nei giardini della sua famiglia. Alla vigilia di quella cerimonia, il Senato m'inviò una delegazione incaricata di porgermi le condoglianze e di offrire a Lucio gli onori divini, ai quali aveva diritto, in quanto figlio adottivo dell'imperatore. Rifiutai: tutta quella faccenda era già costata troppo allo Stato. Mi limitai a fargli costruire qualche cappella funeraria, a fargli erigere qua e là qualche statua, nei diversi luoghi dov'era vissuto: quel povero Lucio non era un dio. 
Questa volta, ogni minuto diventava urgente. Ma avevo avuto tutto il tempo di riflettere, al capezzale del malato; avevo fatto i miei piani. Avevo notato in Senato un certo Antonino, un uomo sulla cinquantina, di famiglia provinciale, imparentata alla lontana con quella di Plotina. M'aveva colpito per le cure tenere e deferenti di cui circondava il suocero, un vegliardo ormai inetto che gli sedeva accanto; rilessi il suo stato di servizio; in tutti i posti che aveva occupato, quell'uomo s'era mostrato un funzionario irreprensibile. La mia scelta si fissò su di lui. Più frequento Antonino, più la stima che ho per lui tende a mutarsi in rispetto. Quest'uomo semplice possiede una virtù alla quale avevo pensato ben poco fino a oggi, persino quando m'è accaduto di praticarla: la bontà. Non va immune dai modesti difetti del saggio: la sua intelligenza, applicata all'adempimento meticoloso dei compiti quotidiani, mira al presente più che all'avvenire; la sua esperienza del mondo è limitata dalle sue stesse virtù; i suoi viaggi si limitano a poche missioni ufficiali, del resto adempiute molto bene. S'intende pochissimo d'arte; è restio alle innovazioni. Le province, ad esempio, per lui non rappresenteranno mai quelle possibilità immense di sviluppo che non hanno cessato di essere per me; continuerà l'opera mia, più che ampliarla; ma la continuerà bene; lo Stato avrà in lui un servitore onesto e un buon padrone. 
Ma lo spazio d'una generazione mi sembrava poca cosa, quando si tratta d'assicurare la sicurezza al mondo; tenevo, se era possibile, a estendere oltre nel tempo la prudente discendenza adottiva, a preparare all'impero un ulteriore cambio della guardia lungo la strada del tempo. A ogni mio ritorno a Roma, non avevo mancato mai di andare a salutare i miei vecchi amici, i Veri, spagnoli come me, appartenenti a una delle famiglie più liberali dell'alta magistratura. Ti ho conosciuto in culla, piccolo Annio Vero, che oggi, per mio volere, ti chiami Marc'Aurelio. In uno degli anni più belli della mia vita, nell'epoca che segna l'erezione del Pantheon, per affetto verso i tuoi t'avevo fatto eleggere membro del santo collegio dei Fratelli Arvali, al quale presiede l'imperatore medesimo, e che perpetua piamente i più antichi costumi religiosi di Roma; durante il sacrificio, che quell'anno ebbe luogo in riva al Tevere, ti ho tenuto per mano; ho guardato con divertita tenerezza il tuo contegno di bimbetto di cinque anni, spaventato dalle strida del porcellino immolato, ma pure pronto a far del suo meglio per imitare il contegno grave dei grandi. Mi interessai dell'educazione di quel fanciullino troppo serio; aiutai tuo padre a sceglierti i maestri migliori. Vero, il Verissimo: scherzavo con il tuo nome: tu sei forse il solo essere che non mi abbia mentito mai. T'ho visto leggere con passione gli scritti dei filosofi, vestirti di lana ruvida, dormire sulla nuda terra, costringere il tuo corpo gracile a tutte le mortificazioni degli stoici: atteggiamenti che non mancano di eccesso; ma, a diciassette anni, l'eccesso è una virtù. A volte, mi chiedo contro quale scoglio farà naufragio tutto ciò, poiché si fa sempre naufragio: sarà una sposa, un figlio troppo amato, uno di quei tranelli legittimi nei quali restano impigliati i cuori più timorati e puri; o sarà più semplicemente l'età, la malattia, la stanchezza, il disinganno che ci avverte che, se tutto è vano, lo è anche la virtù? Immagino, al posto del tuo volto candido di adolescente, il tuo viso stanco di vecchio. Sento quanta dolcezza, quanta debolezza forse, si celi dietro la fermezza che hai imparata tanto bene, indovino in te la presenza d'un genio che non è necessariamente quello dell'uomo di Stato; il mondo sarà migliorato indubbiamente per sempre per averlo visto associato una volta al potere supremo. Ho fatto il necessario affinché tu fossi adottato da Antonino; con questo nome nuovo, che porterai un giorno nella lista degli imperatori, ormai tu sei mio nipote. Credo d'offrire agli uomini l'unica occasione che avranno mai di realizzare il sogno di Platone, di veder regnare su di loro un filosofo dal cuore puro. Hai accettato gli onori con ripugnanza; il tuo rango ti costringe a vivere a palazzo; Tivoli, questo luogo dove io raduno sino all'ultimo tutte le dolcezze che la vita offre, ti preoccupa per la tua giovane virtù; ti vedo aggirarti serio in volto sotto queste pergole fiorite di rose, ti guardo, con un sorriso, attratto dalle belle creature di carne poste sul tuo passaggio, esitare teneramente tra Veronica e Teodoro, e rinunciare subito a entrambi, in favore dell'austerità, mero fantasma. Non m'hai nascosto il tuo disdegno malinconico per questi effimeri splendori, per questa corte che si disperderà alla mia morte. Tu non mi ami molto; il tuo affetto filiale va piuttosto ad Antonino. Tu fiuti in me una saggezza opposta a quella che t'insegnano i tuoi maestri, e, nel mio abbandono ai sensi, un metodo di vita in antitesi alla severità del tuo, e che pur tuttavia gli è parallelo. Non importa: non è necessario che tu mi comprenda. Vi è pi— d'una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo: non è male che esse si alternino. 
Otto giorni dopo la morte di Lucio, mi feci portare in Senato in lettiga; chiesi il permesso di entrare così nella sala delle deliberazioni, e di pronunciare la mia allocuzione stando disteso, sostenuto da un mucchio di guanciali. Parlare mi stanca: pregai i senatori di stringersi in cerchio intorno a me, per non esser costretto ad alzare la voce. Feci l'elogio di Lucio; le mie poche frasi sostituirono nel programma della seduta il discorso che avrebbe dovuto pronunciar lui quello stesso giorno. Poi, annunciai la mia nuova decisione; nominai Antonino; pronunciai il tuo nome. Avevo fatto assegnamento sull'adesione unanime: l'ottenni. Espressi un'ultima volontà, che fu accettata come le altre: chiesi che Antonino adottasse pure il figlio di Lucio, che così avrà Marc'Aurelio per fratello; governerete insieme; conto su di te affinché tu abbia premure da fratello maggiore per lui. Ci tengo che lo Stato conservi qualche cosa di Lucio. 
Tornando a casa, per la prima volta dopo lunghi giorni, ebbi la tentazione di sorridere. Avevo giocato con abilità. I seguaci di Serviano, i conservatori ostili all'opera mia non avevano capitolato: tutte le cortesie da me usate a quell'augusto e antico corpo senatoriale, ormai sorpassato, non compensavano per loro i due o tre colpi che gli avevo inferto. Senza dubbio, essi profitteranno della mia morte per tentar d'annullare i miei atti. Ma i miei nemici più feroci non oseranno respingere il più integro tra i loro rappresentanti e il figlio d'uno dei loro membri più rispettati. La mia opera pubblica era compiuta: ormai, potevo far ritorno a Tivoli, rientrare in quel ritiro che la malattia rappresenta, compiere esperimenti con le mie sofferenze, abbandonarmi ai piaceri che mi restavano, riprendere in pace il mio dialogo interrotto con un fantasma. Il mio retaggio imperiale è al sicuro, tra le mani del pio Antonino e dell'austero Marc'Aurelio; e Lucio sopravvivrà anch'egli in suo figlio. Non avevo disposto male le cose. 
PATIENTIA  
Arriano mi scrive: 
 
"Conformemente agli ordini ricevuti, ho terminato la circumnavigazione del Ponto Eusino. Abbiamo chiuso il cerchio a Sinope, i cui abitanti ti saranno in eterno riconoscenti per i grandi lavori di restauro e d'ampliamento del porto, condotti a termine sotto la tua sorveglianza qualche anno fa... A proposito: ti hanno eretto una statua che non è né somigliante né bella: mandane loro un'altra, di marmo bianco... A Sinope, non senza emozione ho abbracciato con lo sguardo quello stesso Ponto Eusino, dalla vetta delle colline donde l'ha scorto un giorno per la prima volta il nostro Senofonte, e donde tu stesso lo contemplasti... 
Ho ispezionato le guarnigioni costiere: i comandanti meritano i più alti elogi per l'eccellenza della disciplina, l'adozione dei metodi d'addestramento più moderni, e l'ottima qualità di lavori del genio... Per tutta quella zona costiera, selvaggia e ancora mal conosciuta, ho fatto fare nuovi sondaggi e rettificato, dov'era necessario, le indicazioni dei navigatori che mi hanno preceduto... 
Abbiamo costeggiato la Colchide. So quanto t'interessi ai racconti degli antichi poeti, e perciò ho interrogato gli abitanti a proposito degli incantesimi di Medea e delle imprese di Giasone. Ma sembra ch'essi ignorino quelle favole... 
Sulle rive settentrionali di quel mare inospitale, abbiamo toccato una piccola isola che però è sconfinatamente grande, nella leggenda: l'isola di Achille. Tu lo sai bene: si narra che Tetide abbia fatto allevare il figlio su quell'isolotto sperduto nelle nebbie; ella saliva dal fondo del mare e veniva ogni sera sulla spiaggia a conversare col suo bambino. L'isola, oggi disabitata, non nutre che capre. Vi sorge un tempio di Achille. Gabbiani, grandi e piccoli, migratori, e uccelli marini la frequentano; il battito delle loro ali impregnate di salsedine rinfresca di continuo l'atrio del santuario. Ma quest'isola di Achille è, come si conviene, anche l'isola di Patroclo; e gli ex voto innumerevoli che adornano le pareti del tempio sono dedicati a entrambi, poiché naturalmente coloro che amano Achille nutrono del pari tenerezza e venerazione per la memoria di Patroclo. Achille in persona appare in sogno ai naviganti che visitano quei paraggi; li protegge, li avverte dei pericoli del mare, come altrove fanno i Dioscuri. E l'ombra di Patroclo appare al fianco di Achille. 
Ti riferisco queste cose perché credo valga la pena di conoscerle, e perché quelli che me le hanno riferite le hanno sperimentate di persona o le hanno apprese da testimoni degni di fede... A volte, Achille mi sembra il più grande degli uomini per coraggio e forza d'animo, le doti dello spirito accoppiate all'agilità del corpo, e per l'amore ardente del suo giovane compagno. E nulla in lui mi pare più grande della disperazione che gli fece disprezzare la vita e agognare la morte quand'ebbe perduto il suo diletto". 
 
 
Lascio ricadere sulle ginocchia il voluminoso rapporto del governatore della Piccola Armenia, del capo della squadra. Arriano, come sempre, ha fatto un buon lavoro. Ma, questa volta, ha fatto ancora di più: mi offre un dono necessario per morire in pace; mi invia un'immagine della mia vita quale avrei voluto che fosse. 
Arriano sa che ciò che conta è quello che non figurerà nelle biografie ufficiali, e non si iscrive sulle tombe; sa anche che il volgere del tempo non fa che aggiungere alla sventura un'ulteriore vertigine. Vista da lui, l'avventura della mia esistenza acquista un suo senso riposto, si compone come in un poema; l'unico amore si svincola dal rimorso, dall'impazienza, dalle tristi manie, come da altrettante nuvole di fumo, di polvere; il dolore si distilla; la disperazione si fa pura. Arriano mi schiude il profondo empireo degli eroi e degli amici: non me ne giudica indegno. La mia camera segreta al centro d'uno stagno della Villa non è un rifugio abbastanza segreto: vi trascino questo corpo invecchiato; vi soffro. Il mio passato, certo, mi propone qua e là qualche rifugio dove poter sfuggire almeno a una parte delle miserie presenti: la pianura coperta di neve lungo le sponde del Danubio, i giardini di Nicomedia, Claudiopoli gialla durante il raccolto dello zafferano in fiore, una qualsiasi strada di Atene, un'oasi ove le ninfee fluttuano sul limo, il deserto siriaco alla luce delle stelle, al ritorno dal campo di Osroe. Ma questi luoghi diletti troppo spesso sono associati alle premesse d'un errore, d'un disinganno, d'uno scacco noto a me solo: nei miei momenti peggiori, mi sembra che tutte le mie strade d'uomo felice conducano in Egitto, in una camera di Baia, o in Palestina. C'è di più: la stanchezza del mio corpo si comunica alla memoria; l'immagine delle gradinate dell'Acropoli è quasi insostenibile per un uomo che ansima se ascende gli scalini del giardino; il sole di luglio sul terrapieno di Lambesa mi opprime come se mi ci esponessi oggi, a capo scoperto. Arriano m'offre di meglio. A Tivoli, mentre s'accende un maggio ardente, odo sulle spiagge dell'isola d'Achille il lungo lamento delle onde; respiro quell'aria fredda e pura; erro senza fatica nell'atrio del tempio intriso di salsedine marina; vi scorgo Patroclo... Quel luogo, che non vedrò mai, diventa la mia residenza segreta, il mio supremo asilo. Ivi sarò, al momento della mia morte. 
Un giorno, ho accordato al filosofo Eufrate il permesso di suicidarsi. Nulla mi sembrava più semplice: un uomo ha il diritto di stabilire in quale momento la sua vita cessa d'essere utile. Non sapevo, allora, che la morte può divenire oggetto d'un ardore cieco, d'una fame come quella dell'amore. Non avevo previsto le notti in cui avrei arrotolato il balteo intorno alla mia daga, per costringermi a riflettere due volte prima di servirmene. Arriano solo ha intuito il segreto di questo duello senza gloria contro il vuoto, l'aridità, la stanchezza, il disgusto d'esistere, che sbocca nel desiderio di morire. Non si guarisce mai: a più riprese l'antica febbre m'ha schiantato; ne tremavo in anticipo, come un malato che presente l'imminenza d'un attacco. Tutto mi valeva a ritardare l'ora della lotta notturna: il lavoro, le conversazioni dissennatamente protratte fino all'alba, i baci, i libri. E' convenuto che un imperatore si suicidi solo se è messo le spalle al muro da ragioni di Stato; lo stesso Marc'Antonio aveva la scusa d'una battaglia perduta. E il mio severo Arriano ammirerebbe assai meno la disperazione che mi trascino dall'Egitto, se non ne avessi trionfato. Il mio codice vietava ai soldati la dipartita volontaria che accordavo ai saggi: e io non mi sentivo libero di disertare più di un legionario qualsiasi. Ma so bene cosa significhi sfiorare voluttuosamente con la mano la canapa d'una corda o la lama d'un coltello. Avevo finito col farmi del mio desiderio un baluardo contro esso stesso: la possibilità inalienabile del suicidio m'aiutava a sopportare l'esistenza con minore fastidio, così come la presenza a portata di mano d'una pozione sedativa fa star calmo un uomo che soffre d'insonnia. Per una contraddizione intima, quest'ossessione della morte ha cessato di dominare il mio spirito soltanto quando son sopraggiunti a distrarmene i primi sintomi del mio male; ho ricominciato a interessarmi a quella vita che m'abbandonava; nei giardini di Sidone, ho desiderato appassionatamente di godere del mio corpo qualche anno ancora. 
Volevo morire: non volevo soffocare; la malattia disgusta della morte; si vuol guarire, che è una maniera di voler vivere. Ma la debolezza, la sofferenza, mille miserie corporali dissuadono ben presto il malato dal provarsi a risalire la china: non si vuol saperne di tregue che sono tranelli, di forze vacillanti, di ardori incompleti, di questa perpetua attesa della prossima crisi. Mi spiavo: quel male sordo, al mio petto, era solo un malessere passeggero, la conseguenza di un pasto consumato troppo in fretta, o bisognava aspettarsi dal nemico un attacco che, questa volta, non sarà respinto? Non entravo in Senato senza dirmi che, forse, quella porta si chiudeva alle mie spalle per sempre, come se novello Cesare, fossi stato atteso da cinquanta congiurati armati di pugnali. Durante le cene di Tivoli, esitavo a usare la scortesia d'un subitaneo congedo dai miei convitati: avevo paura di morire nel bagno, o tra giovani braccia. Funzioni che un giorno m'erano facili, e persino gradevoli, mi diventavano umilianti da quando s'eran fatte malagevoli: ci si stanca d'offrire ogni mattina il vaso d'argento all'esame del medico. Il male principale s'accompagna a una lunga serie di mali secondari; il mio udito ha perduto l'acutezza d'un tempo; ancora ieri sono stato costretto a pregare Flegone di ripetere una frase intera: ne ho provato vergogna più che per un delitto. I mesi che seguirono l'adozione di Antonino furono orrendi: il soggiorno a Baia, il ritorno a Roma e le trattative avevano logorato le poche forze che mi restavano. Mi riprese l'ossessione della morte, ma, questa volta, a provocarla erano cause visibili, confessabili; non avrebbe potuto sorriderne neppure il mio peggiore nemico. Nulla mi tratteneva più: si sarebbe ben compreso che l'imperatore, ritiratosi nella sua casa di campagna dopo aver sistemato gli affari del mondo, prendesse le misure necessarie per facilitare la propria fine. Ma la sollecitudine dei miei amici equivale a una sorveglianza assidua: ogni malato è un prigioniero. Non mi sento più la forza che mi ci vorrebbe per immergere la daga nel punto esatto, segnato un giorno con inchiostro rosso all'altezza del cuore; non farei che aggiungere al male presente un intrico ripugnante di bende, di spugne sanguinolente, di chirurghi che discutono ai piedi del mio letto. Per preparare il suicidio avrei dovuto adottare le precauzioni d'un assassino che predispone il colpo. 
Sulle prime pensai al mio capocaccia, Mastore, il magnifico bruto sarmata, che da anni mi segue con una devozione da cane lupo, e che a volte ha l'incarico di vegliare alla mia porta, di notte. Profittai d'un momento di solitudine per chiamarlo e spiegargli quel che volevo da lui: sulle prime, non comprese. Poi, pian piano capì: e il terrore contrasse il suo ceffo. Mi crede immortale; vede i medici entrare mattina e sera nella mia camera; mi ode gemere per le punture senza che la sua fede ne sia scossa; è stato, per lui, come se il padrone degli déi, per tentarlo, scendesse dall'Olimpo per pretendere da lui il colpo di grazia. Mi strappò dalle mani la spada, della quale m'ero impadronito, e fuggì via urlando. Lo ritrovarono in fondo al parco, a smaniare sotto le stelle nel suo dialetto barbaro. Calmarono come poterono quella belva atterrita; nessuno mi disse di quell'incidente. Ma, l'indomani, m'accorsi che Celere aveva sostituito, sul tavolo da lavoro accanto al mio letto un calamo di metallo con uno di vimini. 
Cercai un alleato migliore. Avevo la fiducia più completa in Giolla, il giovane medico d'Alessandria che Ermogene s'era scelto come sostituto durante la sua assenza, l'estate scorsa. Conversavamo insieme; mi piaceva abbozzare con lui qualche ipotesi sulla natura e l'origine delle cose; amavo quello spirito ardito e sognante, la fiamma cupa di quegli occhi cerchiati. Sapevo che nel palazzo d'Alessandria aveva ritrovato la formula dei veleni straordinariamente sottili scoperti un giorno dal chimico di Cleopatra. L'esame dei candidati alla cattedra di medicina che ho istituita all'Odeon mi servì di scusa per allontanare Ermogene per poche ore, offrendomi così l'occasione d'un colloquio segreto con Giolla. Gli bastò un cenno per comprendermi; mi compiangeva; non poteva che darmi ragione. Ma il suo giuramento ippocratico gl'interdiceva di somministrare a un malato una droga nociva, sotto qualsiasi pretesto; rifiutò, irrigidendosi nel suo onore di medico. Insistetti; divenni perentorio; impiegai tutti i mezzi per tentare d'impietosirlo o corromperlo; sarà lui l'ultimo uomo che ho supplicato. Vinto, mi promise infine di andare a prendere la dose del veleno. L'attesi invano fino alla sera. Sul tardi, nella notte, seppi con orrore che l'avevano trovato morto nel laboratorio, una fiala di vetro tra le mani. Quel cuore schivo da compromessi aveva trovato questo mezzo per restare fedele al suo giuramento senza rifiutarmi nulla. 
L'indomani, Antonino mi si fece annunciare: quell'amico sincero tratteneva a stento le lacrime. L'idea che un uomo che egli s'era abituato ad amare e venerare come un padre soffrisse tanto da cercar la morte gli era insopportabile. Gli pareva d'aver mancato ai suoi obblighi di figlio. Mi prometteva di unire i suoi sforzi a quelli delle persone che mi stavano intorno per curarmi, per portare sollievo ai miei mali, rendermi la vita amabile e dolce sino all'ultimo, fors'anche guarirmi. Contava su di me perché continuassi a guidarlo e istruirlo il più a lungo possibile; si sentiva responsabile verso tutto l'impero del resto dei miei giorni. So quel che valgono queste povere dichiarazioni, queste ingenue promesse; vi trovo tuttavia un sollievo, un conforto. Le semplici parole di Antonino mi hanno convinto; prima di morire, riprendo possesso di me stesso. La morte di Giolla, fedele al suo dovere di medico, mi esorta a conformarmi sino all'ultimo alle convenienze del mio mestiere di imperatore. "Patientia": ieri, ho visto Domizio Rogato, divenuto procuratore delle monete, incaricato di presiedere a un nuovo conio; gli ho dato questo motto, la mia ultima parola d'ordine. La morte mi sembrava la più personale delle mie decisioni, il mio supremo rifugio d'uomo libero; m'ingannavo. La fede di milioni di Mastori non dev'essere scossa; altri Giolla non saranno messi alla prova. Ho compreso che il suicidio apparirebbe una prova d'indifferenza, fors'anche d'ingratitudine, alla piccola cerchia d'amici devoti che mi circondano; non voglio lasciare al loro affetto questa immagine del suppliziato che digrigna i denti, e non sa sopportare ancora una tortura. Altre considerazioni mi si sono presentate, lentamente, la notte che seguì la morte di 
Giolla; l'esistenza m'ha dato molto, o, perlomeno, io ho saputo ottenere molto da lei; in questo momento, come ai tempi in cui ero felice, e per ragioni completamente opposte, mi sembra che non abbia più niente da offrirmi; ma non sono certo di non aver più nulla da imparare da lei. Ascolterò sino all'ultimo le sue istruzioni segrete. Per tutta la vita, mi sono fidato della saggezza del mio corpo; ho cercato di assaporare con criterio le sensazioni che questo amico mi procurava; devo a me stesso d'apprezzarne anche le ultime. Non respingo più quest'agonia fatta per me, questa fine lentamente elaborata dal fondo delle mie arterie, forse ereditata da un antenato, preparata poco a poco da ciascuno dei miei atti nel corso della mia vita. L'ora dell'impazienza è passata; al punto in cui sono, la disperazione sarebbe di cattivo gusto tanto quanto la speranza. Ho rinunciato a precipitare la mia morte.  
 
 
 
 
Resta ancora tutto da fare. Voglio che i possedimenti africani, ereditati da mia suocera Matidia, diventino un modello d'agricoltura intensiva; i contadini del villaggio di Boristene, fondato, in Tracia, alla memoria d'un buon cavallo, hanno diritto a soccorsi dopo un inverno assai duro; bisogna invece rifiutare sussidi ai ricchi coltivatori della vallata del Nilo, sempre pronti a profittare della sollecitudine dell'imperatore. Giulio Vestino, prefetto agli studi, m'invia il suo rapporto sull'apertura di scuole pubbliche di grammatica; ho appena compiuto il rifacimento del codice commerciale di Palmira, dove tutto è previsto, dalla tariffa delle prostitute al pedaggio delle carovane. In questo momento, si riunisce un congresso di medici e di magistrati, incaricati di stabilire i limiti estremi d'una gravidanza, ponendo termine così a logomachie giudiziarie interminabili. I casi di bigamia si moltiplicano nelle colonie militari; faccio del mio meglio per persuadere i veterani a non fare cattivo uso delle nuove leggi che consentono loro il matrimonio e a non sposare che una donna per volta. Ad Atene, si erige un Pantheon a imitazione di quello di Roma; compongo io stesso l'iscrizione che verrà collocata sulle sue mura; perché servano da esempio e da impegni per l'avvenire, vi enumero i servigi resi da me alle città greche e ai popoli barbari; i servigi resi a Roma s'intuiscono da sé. Continua la lotta contro la brutalità giudiziaria: ho dovuto muovere aspre rampogne al governatore di Cilicia, che aveva l'ardire di far perire tra i supplizi i ladri di bestiame della sua provincia, come se la morte non bastasse da sola a punire un uomo e a sbarazzarsene. Lo Stato e i municipi abusavano delle condanne ai lavori forzati per procacciarsi mano d'opera a buon mercato; ho vietato questa pratica per gli schiavi come per gli uomini liberi; ma bisogna vigilare perché questo sistema esecrabile non riviva sotto altri nomi. I sacrifici di bambini si perpetrano ancora in alcune zone del territorio dell'antica Cartagine: bisogna saper vietare ai sacerdoti di Baal la gioia di attizzare i loro roghi. In Asia Minore, i diritti ereditari dei Seleucidi sono stati ignobilmente lesi dai nostri tribunali civili, sempre mal disposti verso le antiche dinastie; ho sanato questa lunga ingiustizia. In Grecia, il processo di Erode Attico dura ancora. La scatola dei dispacci di Flegone, i suoi raschini di pietra pomice, i suoi bastoni di cera rossa mi saranno accanto fino all'ultimo. 
Come ai miei tempi migliori, mi credono dio; continuano a darmi quest'attributo nello stesso momento in cui offrono al cielo i sacrifici affinché l'Augusta Salute si ristabilisca. T'ho già detto per quali motivi questa credenza, così benefica, non mi appare insensata. Una vecchia cieca è arrivata qui, a piedi dalla Pannonia; aveva intrapreso questo viaggio immenso per chiedermi di toccare con le dita le sue pupille spente; ha ricuperato la vista sotto le mie mani, come il suo fervore s'aspettava in anticipo; la sua fede nell'imperatore-dio spiega questo miracolo. Altri prodigi si son verificati; ci son malati che affermano d'avermi visto nei loro sogni, come i pellegrini di Epidauro vedono in sogno Esculapio; pretendono d'essersi destati guariti, o, quanto meno, sollevati. Non sorrido del contrasto tra i miei poteri taumaturgici e il mio male; accetto con gravità questi nuovi privilegi. Quella vecchia cieca che dal fondo d'una provincia barbara s'incammina alla volta dell'imperatore è divenuta per me quel ch'era stato in altri tempi lo schiavo di Tarragona: il simbolo delle popolazioni dell'impero che ho governate e servite. La loro immensa fiducia mi compensa di vent'anni di fatiche che in fondo non mi sono dispiaciute. Recentemente, Flegone m'ha letto l'opera d'un ebreo d'Alessandria che mi attribuisce anche lui poteri più che umani; ho accolto senza sarcasmi questa descrizione d'un principe dai capelli grigi che è stato visto andare e venire su tutte le strade della terra, scendere fra i tesori delle miniere, ridestare le forze generatrici del suolo, stabilire prosperità e pace in ogni luogo; dell'iniziato che ha ripristinato i luoghi santi di tutte le razze, dell'esperto d'arti magiche, del veggente che ha collocato un fanciullo in cielo. Quell'ebreo nel suo fervore mi avrà compreso meglio che non tanti senatori e proconsoli; questo avversario conciliato completa Arriano; mi stupisce che, agli occhi di alcuni, a lungo andare io sia divenuto quello che sempre ho sperato di essere, e che questo risultato sia fatto di tanto poco. La vecchiaia, la morte imminente ormai aggiungono la loro maestà al mio prestigio; gli uomini fanno largo religiosamente al mio passaggio; non mi paragonano più come un tempo al Giove calmo e radioso, bensì al Marte Gradivo, dio delle lunghe campagne militari e della disciplina austera, al grave Numa ispirato dagli déi; negli ultimi tempi, questo volto pallido e disfatto, questi occhi assorti, questo gran corpo irrigidito da uno sforzo di volontà ricorda loro Plutone, il dio delle ombre. Solo pochi intimi, pochi amici cari e provati sfuggono al contagio terribile del rispetto. Il giovane giurista Frontone, quel magistrato d'avvenire che sarà senza dubbio uno dei buoni servitori del tuo regno, è venuto a discutere con me un indirizzo da presentare al Senato: gli tremava la voce; ho letto nei suoi occhi quella stessa reverenza mista a un sacro timore. Le gioie pacate degli affetti umani non sono più per me: mi adorano tutti; mi venerano troppo per volermi bene. 
Mi è toccata una sorte analoga a quella di certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione umana vi ha preso radice. Il culto di Antinoo sembrava la più folle delle mie iniziative, lo straripare d'un dolore che non riguardava che me. Ma la nostra epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano al vino della vita un miele amaro d'oltretomba. A Delfi, il giovinetto è divenuto l'Ermes guardiano della soglia, padrone dei passaggi oscuri che conducono alle ombre. Eleusi, il luogo ove l'età e la sua qualità di straniero gli avevano impedito un giorno d'essere iniziato al mio fianco, ne fa il Bacco giovinetto dei Misteri, principe delle regioni confinanti tra i sensi e l'anima. L'Arcadia ancestrale lo associa a Pan e a Diana, divinità dei boschi; i contadini di Tivoli l'assimilano al dolce Aristeo, re delle api. In Asia, i devoti ritrovano in lui i loro teneri dèi infranti dall'autunno o divorati dall'estate. Al margine dei paesi barbari, il compagno delle mie cacce e dei miei viaggi ha preso l'aspetto del cavaliere Trace, del misterioso viandante che cavalca nelle boscaglie al chiaro di luna, e porta via le anime nelle pieghe del suo mantello. Tutto ciò poteva ancora essere null'altro che un'escrescenza del culto ufficiale, adulazione da parte dei popoli, servilismo di sacerdoti avidi di sussidi. Ma la figura del giovinetto mi sfugge; essa cede alle aspirazioni dei cuori semplici: mediante una di quelle reintegrazioni inerenti alla natura delle cose, l'efebo malinconico e soave è divenuto, per la pietà popolare, il sostegno dei deboli e dei miseri, il consolatore dei fanciulli morti. Il volto inciso sulle monete di Bitinia, il profilo del giovinetto quindicenne, dai riccioli al vento, dal sorriso ingenuo e stupefatto che ha conservato per così poco tempo, pende a guisa d'amuleto al collo dei neonati; in qualche cimitero di campagna, lo s'inchioda sulle piccole tombe. Un tempo, quando pensavo alla mia fine, come un pilota, noncurante di sé, trema però per i passeggeri e il carico della nave, mi dicevo amaramente che quel ricordo sarebbe affondato con me; mi sembrava così che quel giovane essere imbalsamato con tanta cura nel fondo della mia memoria dovesse perire una seconda volta. Questo timore, pur tanto giusto, s'è in parte placato: ho compensato come ho potuto quella morte precoce; per qualche secolo almeno sussisterà un'immagine, un riflesso, un'eco fievole di lui. Non si può far molto di più, in materia d'immortalità. 
Ho rivisto Fido Aquila, governatore di Antinopoli, in viaggio per la sua nuova sede di Sarmizegetusa. M'ha descritto i riti annuali celebrati in riva al Nilo in onore del dio morto, i pellegrini convenuti a migliaia dalle regioni del Nord e del Sud, le offerte di birra e di grano, le preci; allo scadere di ogni triennio, ad Antinopoli si svolgono giochi anniversari, così come ad Alessandria, a Mantinea e nella mia diletta Atene. Tali feste triennali si rinnoveranno l'autunno prossimo, ma non conto di durare fino a questo nono ritorno del mese di Athyr. A maggior ragione è importante stabilire in anticipo ogni particolare di queste solennità. L'oracolo del defunto agisce nella stanza segreta del tempio che è stato riedificato a mia cura; giornalmente, i sacerdoti distribuiscono centinaia di risposte già pronte alle domande poste dalla speranza o dall'angoscia umana. Mi è stato rimproverato di averne composte più d'una anch'io. Non intendevo con questo mancar di rispetto al mio dio, né di compassione per la moglie di quel soldato che chiede se il marito tornerà vivo da un presidio in Palestina, o per quell'infermo assetato di conforto, né per quel mercante le cui navi beccheggiano sui flutti del Mar Rosso, né per quella coppia che vorrebbe un figlio. Tutt'al più, così facendo, ho prolungato le parti del logografo, le sciarade in versi alle quali, talvolta, giocavamo insieme. E allo stesso modo, qualcuno s'è meravigliato che qui, alla Villa, intorno a questa cappella di Canopo nella quale il suo culto si celebra alla maniera egiziana, io abbia lasciato costruire i padiglioni di piacere di quel quartiere d'Alessandria che porta questo nome, con gli svaghi e le distrazioni che offro ai miei ospiti ed ai quali m'è accaduto di prender parte. Egli s'era avvezzato a queste cose; e non ci si chiude per anni in un pensiero unico senza farvi rientrare, a poco a poco, tutte le abitudini d'una esistenza. 
Ho fatto tutto quello che raccomandano: ho atteso. A volte, ho pregato. "Audivi voces divinas"... La sciocca Giulia Balilla credeva d'udire, all'alba, la voce misteriosa di Memnone: io ho ascoltato i fruscii della notte. Ho eseguito le unzioni di miele e di olio di rose che attirano le ombre; ho disposto la coppa di latte, la manciata di sale, la goccia di sangue, ciò che alimentava la loro esistenza, prima. Mi sono disteso sul pavimento di marmo del piccolo santuario; attraverso le fessure della parete, s'insinuava il chiarore degli astri, posava qua e là scintillii inquietanti, pallidi fuochi. Ho ricordato gli ordini sussurrati dai sacerdoti all'orecchio del morto, l'itinerario inciso sulla tomba: «Ed egli riconoscer… il suo cammino... E i guardiani della soglia lo lasceranno passare... E andrà e verrà intorno a coloro che l'amano per milioni di giorni...» A volte, a lunghi intervalli, ho creduto d'avvertire il lieve tocco di qualcuno che s'avvicina, leggero come il contatto delle Ciglia, tiepido come un palmo. «E l'ombra di Patroclo appare al fianco di Achille...» Non saprò mai se questo calore, se questa dolcezza emanavano solo dal più profondo dell'essere mio, prove estreme d'un uomo in lotta contro la solitudine e il freddo della notte. Ma la domanda, che si pone anche in presenza dei nostri amori viventi, oggi non m'interessa più: poco m'importa se i fantasmi da me evocati vengano dai limbi della mia memoria o da quelli d'un altro mondo. La mia anima, se pure ne posseggo una, è fatta della stessa sostanza degli spettri; questo corpo dalle mani gonfie, dalle unghie livide, questa triste carne già per metà in dissoluzione, quest'otre di mali, di ambizioni e di sogni, non è molto più solido né più consistente d'un'ombra. Non mi distinguo dai morti se non per la facoltà di soffocare qualche momento ancora; in un certo senso, la loro esistenza mi sembra più certa della mia. Antinoo e Plotina sono reali almeno quanto me. 
La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l'esodo più facile, ma non è questo quel ch'io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d'intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c'interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l'arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t'ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d'un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull'immortalità m'ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d'un giudizio. D'altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d'Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l'adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l'ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L'uomo che ha urlato sul petto d'un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato ormai sedentario per sempre s'interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch'io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. 
Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell'utilità della morte, ma nello stesso tempo m'ispira dubbi sulla totale efficacia di essa. 
In certi periodi della mia vita, ho preso nota dei sogni; ne discutevo il significato con i sacerdoti, i filosofi, gli astrologhi. La facoltà di sognare, attenuata da anni ormai, mi è stata ridata in questi mesi d'agonia; gl'incidenti dello stato di veglia ci appaiono meno reali, a volte meno importanti dei sogni. Se questo mondo larvale e spettrale, dove si miete l'informe e l'assurdo ancor più largamente che sulla terra, ci offre un'idea delle condizioni dell'anima separata dal corpo, senza dubbio trascorrerò l'eternità a rimpiangere il controllo squisito dei sensi e l'adattamento prospettico della ragione umana. E, tuttavia, non è privo di dolcezza questo immergersi nelle regioni vaghe dei sogni; ivi, possiedo per un istante segreti che subito mi sfuggono; mi disseto a sorgenti. L'altro giorno, mi trovavo nell'oasi di Ammone, la sera della caccia alle belve. Ero felice: tutto si è svolto come ai bei tempi della mia forza; il leone ferito è caduto, poi s'è rialzato; mi sono avventato per finirlo. Ma, questa volta, il mio cavallo, impennatosi, m'ha gettato a terra; l'orribile massa sanguinante mi è precipitata addosso; le sue zanne m'hanno lacerato il petto; sono tornato in me, nella mia camera di Tivoli, invocando aiuto. Ancor più di recente, ho rivisto mio padre, eppure ci penso ben poco; giaceva nel suo letto di malato, in una stanza della nostra casa d'Italica, che ho lasciata subito dopo la sua morte. Aveva sul tavolo una fiala piena d'una pozione sedativa, e l'ho supplicato di darmela. Mi sono destato senza che avesse avuto il tempo di rispondermi. Mi fa meraviglia che la maggior parte degli uomini abbia tanta paura degli spettri, mentre si acconsente così facilmente a parlare con i morti, in sogno. 
Anche i presagi si moltiplicano: ormai, tutto sembra un intimazione, un segno. Ho lasciato cadere e infrangersi una preziosa pietra, incastonata in un anello, sulla quale un artigiano greco aveva inciso il mio profilo. Gli auguri scrollano gravemente il capo; io rimpiango semplicemente quel capolavoro. Mi capita di parlare di me stesso al passato: in Senato, discutendo avvenimenti posteriori alla morte di Lucio, mi si è inceppata la lingua e varie volte mi son trovato a parlare di quelle circostanze come se avessero avuto luogo dopo la mia morte. Pochi mesi fa, il giorno del mio anniversario, mentre mi portavano in lettiga su per le scale del Campidoglio, mi son trovato faccia a faccia con un uomo in gramaglie che piangeva: ho visto il mio vecchio Cabria cambiar colore. In quell'epoca, uscivo ancora; continuavo a esercitare le mie funzioni di Pontefice Massimo, di Fratello Arvale, a celebrare io stesso quei riti antichi della religione romana che finisco per preferire alla maggior parte dei culti stranieri. In piedi davanti all'altare, m'apprestavo ad accendere la fiamma; offrivo agli dèi un sacrificio per Antonino. Improvvisamente, il lembo della toga che mi copriva la fronte scivolò e mi ricadde sulla spalla, lasciandomi a testa scoperta; passavo così dal rango di sacrificatore a quello di vittima. E, a dire il vero, è proprio la mia volta. 
La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici; i loro sciocchi rimedi m'hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d'altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l'ho punito. L'avvenire del mondo non mi angustia più; non m'affatico più per calcolare angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m'affido agli dèi. Non già ch'io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell'incuria e dell'errore. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l'ordine. La pace s'instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d'infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente. Se i barbari s'impadroniranno mai dell'impero del mondo saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d'essere il capo d'una cerchia d'affiliati o d'una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell'autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicissitudini di Roma eterna. 
Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l'enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d'esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m'abbia lasciato la lucidità sino all'ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell'estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell'indurimento, quella rigidità, quell'inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressappoco all'età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d'una metà più lunga di quella di mio padre, morto a quarant'anni. Tutto è pronto: l'aquila incaricata di recare agli dèi l'anima dell'imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di Elio Cesare fossero collocati al mio fianco. 
M'hanno portato a Baia; con questo caldo di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio. L'onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare le mie mani, che si muovono, mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene, galoppa il Cavaliere Trace... Il piccolo gruppo degl'intimi si stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all'ansia o alla stanchezza d'un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l'Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una scuola d'eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l'esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all'ultimo istante, Adriano sarà stato amato d'amore umano. 
Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti...