IL COLPO DI GRAZIA
Marguerite Yourcenar
Marguerite Yourcenar
Traduzione di Maria Luisa Spaziarli
Feltrinelli
[...]
Certo, ero meno colpevole verso di lei di quanto non lo fossi stato all'inizio della nostra intesa, ma siamo sempre puniti fuori stagione. Tuttavia Sofia era abbastanza generosa da conservare nei miei confronti delle premure affettuose, e tanto più lo era perché forse cominciava a giudicarmi. Io mi ingannavo dunque sulla fine di quest'amore come mi ero ingannato sul suo inizio. Talvolta mi capita ancora di credere che ella mi amò fino all'ultimo respiro. Ma diffido di un'opinione nella quale il mio orgoglio è talmente implicato[...]
Titolo dell'opera originale
LE COUP DE GRÀCE
© 1939, Editions Gallimard
Traduzione dal francese di
MARIA LUISA SPAZIANI
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano
Prima edizione nella collana
"Biblioteca di letteratura. I Classici moderni" giugno 1962 Prima edizione nella collana "Impronte" gennaio 1984
Prima edizione nella collana "Universale Economica" giugno 1980
Seconda edizione gennaio 1990
Prefazione dell'Autore
Il colpo di grazia, questo breve romanzo situato nella scia della guerra del 1914 e della rivoluzione russa, fu scritto a Sorrento nel 1938 e pubblicato circa tre mesi prima della seconda guerra mondiale, quella del 1939. A una ventina d'anni di distanza, quindi, dall'incidente che narra. Il soggetto è per noi lontanissimo e vicinissimo insieme; lontanissimo, perché infiniti episodi di guerre civili si sono in vent'anni sovrapposti a quelli; vicinissimo, perché lo smarrimento morale che vi è descritto è il medesimo in cui ancor oggi, e più che mai, ci troviamo immersi. Il libro è ispirato a un avvenimento autentico, e i tre personaggi, che qui si chiamano rispettivamente Eric, Sofia e Corrado, sono rimasti press'a poco quali me li aveva descritti uno dei migliori amici del principale interessato.
L'avventura mi commosse, come spero commuoverà il lettore. Inoltre, e dal solo punto di vista letterario, mi parve racchiudere in sé tutti gli elementi dello stile tragico e di conseguenza prestarsi mirabilmente a entrare nella cornice del racconto francese tradizionale, che sembra aver conservato talune caratteristiche della tragedia. Unità di tempo, di luogo e, come la definiva con singolare felicità d'espressione certa terminologia classica, unità di rischio; possibilità di estrema concentrazione e di sfrondamento volontario di tutto ciò che non è l'essenziale; azione limitata a due o tre personaggi, uno dei quali, almeno, è abbastanza lucido per conoscersi e per tentare di giudicarsi; infine, inevitabilità dello svolgimento tragico al quale la passione tende sempre, ma che di solito prende forme più insidiose o più invisibili. Tutto, fino allo sfondo delle guerre civili in un angolo perduto della regione baltica mi pareva, per ragioni che Racine ha così perfettamente dedotto nella prefazione al Bajazet, entrare nelle condizioni dell'azione tragica liberando l'avventura di Sofia e di Eric da ogni contingenza abituale e dando all'attualità di ieri quella prospettiva nello spazio che è quasi l'equivalente dell'allontanamento nel tempo.
Scrivendo questo libro, la mia intenzione non era dunque di ricostruire un ambiente o un'epoca, o non lo era che in modo secondario. Ma la verità psicologica che noi cerchiamo è troppo connessa all'individuale e al particolare perché noi si possa con buona coscienza, come prima di noi lo fecero i nostri modelli dell'epoca classica, .ignorare o sottintendere quelle realtà esterne che condizionano un'avventura. Il luogo che io chiamo Kratowice non poteva ridursi a un mero scenario di tragedia, né quegli episodi sanguinosi di guerra civile a un vago fondale rosso per una storia d'amore. Essi avevano creato nei personaggi un certo stato di disperazione permanente senza il quale i loro fatti e gesti non si spiegherebbero. Quell'uomo e quella donna che io non conoscevo se non attraverso un breve riassunto delle loro avventure non potevano esistere plausibilmente che nella luce loro propria e, fin dove fosse possibile, in circostanze storicamente autentiche. Ne deriva che questo soggetto, scelto perché mi offriva un conflitto di passioni e di volontà pressoché puro, ha finito con l'obbligarmi a svolgere mappe di stato maggiore, a spigolare particolari offerti da altri testimoni oculari, a cercare vecchi giornali illustrati per tentare di trovarvi l'esile eco o l'esile riflesso che in quell'epoca potessero far giungere nell'Europa occidentale quelle oscure operazioni militari alla frontiera di un paese sperduto. Più tardi, e più di una volta, uomini che avevano partecipato a quelle stesse guerre in regione baltica sono venuti spontaneamente ad assicurarmi che II colpo di grazia somigliava ai loro ricordi, e nessuna critica favorevole è stata mai capace di rassicurarmi di più sulla sostanza di uno dei miei libri.
Il racconto è scritto in prima persona e messo in bocca al personaggio principale, procedimento per il quale io ho una certa predilezione perché elimina dal libro il punto di vista dell'autore, o almeno i suoi commenti, e perché permette di mostrare un essere umano che fronteggia la sua stessa vita e si sforza più o meno onestamente di spiegarla e innanzitutto di ricordarsela. Bisogna tuttavia tener presente che un lungo racconto orale fatto dal protagonista di un romanzo a un uditorio compiacente e silenzioso è, checché se ne dica, una convenzione letteraria: è nella Sonata a Kreutzer o nell'Immoralista che un eroe si racconta con tanta precisione di particolari e tanta logica discorsiva, e non nella vita reale dove di solito le confessioni sono più frammentarie o più iterative, più imbrogliate o più vaghe. Le stesse riserve valgono per il racconto che Eric von Lhomond fa in una sala d'aspetto di stazione ad alcuni compagni che l'ascoltano distrattamente. Una volta ammessa tuttavia questa convenzione iniziale, dipende dall'autore far passare o meno in un racconto del genere un essere nella sua totalità con le sue qualità e i suoi difetti espressi dagli stessi tic del linguaggio, i giudizi giusti o falsi, i pregiudizi che egli non sa di avere, le menzogne che confessano o le confessioni che mentono, le reticenze e perfino le lacune. Raccontata che sia così l'avventura da parte del protagonista, la regola del gioco obbliga il lettore a raddrizzare gli avvenimenti e gli esseri visti attraverso il narratore, come oggetti colti attraverso l'acqua. Essa esige da lui quella collaborazione attenta che in altri tempi fu quella del lettore tutto teso ad analizzare un monologo di tragedia. Nella maggior parte dei casi l'angolazione di un racconto in prima persona favorisce il personaggio che si immagina esprimersi così; nel Colpo di grazia la deformazione inevitabile alla quale va soggetto chi parla di sé, agisce invece a detrimento del narratore. Un uomo del tipo di Eric von Lhomond tratta se stesso a contropelo; il suo orrore dell’autoillusione lo spinge a scegliere per i suoi atti, in caso di dubbio, l'interpretazione peggiore; il suo timore di ogni cedimento lo chiude in una corazza di durezza alla quale non si sottoporrebbe un uomo autenticamente duro; la sua fierezza mette senza tregua la sordina al suo orgoglio. Ne risulta che il lettore ingenuo rischia di prendere Eric von Lhomond per un sadico (le cui caratteristiche sono tuttavia ben diverse), un bruto gallonato, senza pensare che un bruto, appunto, non sarebbe ossessionato dal ricordo di aver fatto soffrire; o ancora di scambiare per un antisemita professionale quest'uomo in cui lo scherno verso gli ebrei fa parte di un conformismo di casta, ma che lascia affiorare la sua ammirazione per il coraggio della rigattiera israelita e fa entrare Grigori Loew nel cerchio eroico degli amici e dei morti di campo opposto. È, beninteso, nei complicati rapporti dell'amore e dell'odio che prende il massimo rilievo la differenza fra ciò che viene descritto e ciò che è stato. Eric sembra relegare in secondo piano Corrado de Reval, questo amico ardentemente amato di cui egli non ci dà che un'immagine molto imprecisa, innanzitutto perché egli non è uomo da insistere su ciò che lo tocca di più, inoltre perché non c'è molto da dire, a un uditorio indifferente, su questo compagno scomparso prima di essersi affermato o formato. Un orecchio avvertito potrebbe forse riconoscere nelle sue allusioni all'amico quel tono di fittizia disinvoltura o di impercettibile irritazione che si ha per ciò che si è troppo amato. Riserva invece il primo posto a Sofia e la mostra, nonostante le apparenze, nella luce più favorevole, non soltanto perché l'amore della ragazza lo lusinga e magari lo rassicura, ma perché il codice di Eric lo obbliga, nel rendiconto dei suoi rapporti con Sofia, a mettere in bella luce quell'avversario che è una donna che non possiamo amare. Altre visuali di sbieco sono meno volontarie. Quest'uomo, di solito così chiaroveggente, riduce a sistema, senza volerlo, certi slanci e certi rifiuti che erano appartenuti alla sua prima giovinezza: è stato preso forse più di quanto non dica; certamente è più geloso di Sofia di quanto la sua vanità gli permetta di riconoscere; e del resto la sua ripugnanza e la sua rivolta di fronte all'insistente passione della ragazza sono meno eccezionali di quanto si creda, effetti quasi banali dello choc che un uomo subisce trovandosi per la prima volta faccia a faccia con il terribile amore. Al di là dell'aneddoto della ragazza che si offre e del giovane che rifiuta, l'argomento centrale del Colpo di grazia è soprattutto questa somiglianza di specie, questa solidarietà di destino in tre creature sottomesse alle stesse privazioni e agli stessi pericoli. Eric e Sofia, soprattutto, la fanciulla impetuosa e il giovane irrigidito nella disciplina, si assomigliano per la loro intransigenza e per il gusto appassionato di andare fino in fondo a se stessi. Gli smarrimenti di Sofia sono fatti del bisogno di darsi anima e corpo, ben più che del desiderio di andare a letto con qualcuno o di piacere a qualcuno. L'attaccamento di Eric per Corrado è ben più di una questione fisica o magari sentimentale; per paradossale che possa parere, la sua inclinazione corrisponde a un certo ideale di austerità, a una chimera di cameratismo eroico; fa parte di una concezione della vita. Quando il giovane e la ragazza si incontrano di nuovo alla fine del libro, io ho tentato di mostrare, attraverso le poche parole che valeva la pena si scambiassero, questa familiarità più forte dei conflitti della passione carnale o dei pretesti politici, più forte perfino dei rancori del desiderio frustrato o della vanità ferita, quel legame fraterno tanto stretto da riunirli qualunque cosa facciano e che spiega la profondità stessa delle loro ferite. Al punto in cui sono, poco importa quale dei due dia o riceva la morte. Poco importa, perfino, che si siano o no odiati o amati.
So di andare contro una corrente della moda se aggiungo che una delle ragioni che mi hanno indotta a scrivere II colpo di grazia è stata la nobiltà intrinseca dei personaggi. Bisogna intendersi sul senso di questa parola, che per me significa assenza totale di calcoli interessati. Sono conscia dell'equivoco pericoloso che consiste nel parlare di nobiltà in un libro i cui tre principali personaggi appartengono a una casta privilegiata di cui sono gli estremi rappresentanti.
Sappiamo fin troppo bene che le due nozioni di nobiltà e di aristocrazia non sono sempre sovrapponibili, tutt'altro. D'altra parte si cadrebbe nell'attuale pregiudizio popolare rifiutando di ammettere che l'ideale della nobiltà del sangue, per artificioso che sia, abbia favorito in talune nature lo sviluppo di una certa indipendenza o di una certa integrità di sentimenti, di una certa fedeltà o di quel disinteresse che sono per definizione nobili. Questa dignità essenziale che tanto spesso la letteratura contemporanea convenzionalmente rifiuta ai suoi personaggi, nel Colpo di grazia ha del resto una così scarsa radice sociale che Eric, nonostante i suoi pregiudizi, la riconosce a Grigori Loew e la rifiuta all'abile Volkmar che pure è del suo ambiente e del suo campo.
Rammaricandomi di dover così sottolineare ciò che dovrebbe essere ovvio, voglio ricordare, per finire, che II colpo di grazia non si propone lo scopo di esaltare o di screditare alcun gruppo né alcuna classe, alcun paese né alcun partito. Il fatto stesso di aver deliberatamente attribuito a Eric von Lhomond un nome e degli antenati francesi, per potergli probabilmente attribuire quell'aspra lucidità che non è una particolare caratteristica germanica, nega l'interpretazione che vorrebbe fare di questo personaggio un ritratto idealizzato, o al contrario un ritratto negativo, di un certo tipo di aristocratico o di ufficiale tedesco. È per il suo valore di documento umano (se valore c'è) e non politico, che Il colpo di grazia è stato scritto, ed è in questa luce che dev'essere giudicato.
30 marzo 1962
Romanzo
Erano le cinque del mattino, pioveva, e Eric von Lhomond, ferito davanti a Saragozza, curato a bordo d'una nave ospedale italiana, aspettava al bar della stazione di Pisa il treno che lo avrebbe riportato in Germania. Bello nonostante i suoi quarant’anni, pietrificato in una specie di dura giovinezza, Eric von Lhomond doveva ai suoi antenati francesi, al padre prussiano e alla madre baltica, la sua alta statura, il profilo stretto, i pallidi occhi azzurri, l'arroganza dei rari sorrisi e quello sbattere di tacchi che gli era ormai vietato dalla frattura ai piede e dalle bende. Si approssimava quell'ora del crepuscolo mattutino in cui le creature sensibili si aprono alle confidenze e i criminali confessano, quell'ora in cui perfino i più silenziosi lottano contro il sonno a colpi di storielle o di ricordi. Eric von Lhomond, che si era sempre ostinatamente tenuto sul lato destro della barricata, apparteneva a quel tipo di uomini troppo giovani nel millenovecentoquattordici per aver fatto qualcosa di più che sfiorare il pericolo, e che i disordini dell'Europa del dopoguerra, l'inquietudine personale, l'incapacità di soddisfarsi e insieme di rassegnarsi, trasformarono in soldati di ventura al servizio di ogni causa semipersa o semivinta. Aveva preso parte ai diversi movimenti che nell'Europa centrale sfociarono nell'avvento di Hitler; lo si era visto al Chaco e in Manciuria, e un tempo, prima di militare agli ordini di Franco, aveva comandato un corpo di volontari che partecipavano alla lotta antibolscevica in Curlandia. Con il suo piede ferito, fasciato come un bambino, egli riposava di sbieco su una seggiola, e sempre parlando tormentava distrattamente il bracciale fuori moda di un enorme orologio d'oro, di un cattivo gusto così assoluto da costringere ad ammirarlo, come una prova di coraggio, al polso di chi lo portava. Di tanto in tanto, per un tic che faceva ogni volta trasalire i suoi due compagni, egli colpiva il tavolo, non con il pugno ma con la palma della mano destra appesantita da un massiccio anello con stemma, e il tintinnio dei bicchieri risvegliava regolarmente il ragazzo italiano paffuto e ricciuto che dormiva dietro il banco. Dovette interrompere più volte il suo racconto per strapazzare con voce aspra un vecchio fiaccheraio cieco di un occhio, ruscellante di sudore come una grondaia, che veniva intempestivamente a proporgli ogni quarto d'ora una passeggiata notturna alla Torre Pendente; uno dei due uomini approfittava della diversione per ordinare un altro caffè; si sentiva lo scatto di un portasigarette; e il tedesco, all'improvviso accasciato, esausto, sospendeva un istante l'interminabile confessione che in fondo non faceva che a se stesso e arcuava le spalle per chinarsi sull'accendino.
Una ballata tedesca dice che i morti vanno in fretta: ma non diversamente i vivi. Io stesso, a quindici anni di distanza, fatico a ricordare quegli intricati episodi della lotta antibolscevica in Livonia e in Curlandia, quell'angolo di guerra civile che ora divampava all'improvviso, ora si trascinava e complicava a tradimento, simile a un fuoco male spento o a una malattia della pelle. Ogni regione del resto ha la guerra che gli somiglia : la guerra è un prodotto locale come la segala e le patate. I dieci mesi più ricchi della mia vita io li ho passati a comandare in quel distretto perduto i cui nomi russi, lettoni o germanici non destavano nulla nella mente dei lettori dei giornali né in Europa né altrove. Boschi di betulle, laghi, campi di barbabietole, piccole sordide città, pidocchiosi villaggi dove i nostri uomini trovavano di tanto in tanto la fortuna inaspettata di un maiale da scannare, vecchie dimore signorili saccheggiate all'interno, scalfite all'esterno dalla traccia delle palle che avevano liquidato il proprietario con tutta la famiglia, usurai ebrei dilaniati tra la voglia di far fortuna e la paura delle baionette; armate che si sfilacciavano in bande di avventurieri più ricche di ufficiali che di soldati, composte come sempre di illuminati e di maniaci, di giocatori e di gente per bene, bravi ragazzi, abbrutiti e alcoolizzati. Quanto alla crudeltà, i boia rossi, lettoni quanto mai specializzati, avevano perfezionato un'arte della sofferenza che poteva far onore alle grandi tradizioni mongole. Il supplizio cinese della mano era riservato in particolare agli ufficiali a causa dei loro leggendari guanti bianchi che del resto, nello stato di miseria e di accettata umiliazione in cui noi tutti si viveva, non erano più che un ricordo. Diciamo soltanto, per dare un'idea delle raffinatezze di cui è capace la furia umana, che il paziente veniva schiaffeggiato con la pelle scorticata della sua stessa mano viva. Potrei ricordare altri particolari ancora più spaventosi, ma racconti del genere stanno a metà strada fra il sadismo e la pura grullaggine. I peggiori esempi di ferocia non servono che ad indurire qualche fibra in più nell'ascoltatore, e siccome il cuore umano ha già press'a poco la mollezza di una pietra, non credo davvero che insistere su questo punto sia necessario. Quanto a fantasia inventiva i nostri uomini non erano certo da meno, ma quanto a me, mi contentavo per lo più della morte senza frasi. La crudeltà è un lusso da oziosi, come le droghe e le camicie di seta. Anche in amore io sono partigiano della perfezione semplice.
Inoltre, quali che siano i pericoli che ha scelto di affrontare, un avventuriero (e io lo ero diventato) prova sovente una specie d'incapacità a impegnarsi totalmente nell'odio. È probabile che io generalizzi un simile caso d'impotenza assolutamente personale: di tutti gli uomini che conosco, io sono il meno adatto a procurarmi eccitanti ideologici per i sentimenti di rancore o d'amore che i miei simili possono ispirarmi; e non ho accettato di correre rischi se non per cause alle quali non credevo. Provavo verso i bolscevichi un'ostilità di casta, quanto mai ovvia in un'epoca in cui le carte non erano state imbrogliate come tanto sovente lo sono oggi, né con trucchi tanto abili. Ma il dolore dei Russi bianchi non risvegliava in me che una ben scarsa sollecitudine, e il destino dell'Europa non mi ha mai impedito di dormire. Preso nell'ingranaggio baltico, mi bastava sostenervi il più sovente possibile la parte della ruota di metallo piuttosto di quella del dito schiacciato. Che altro restava a un ragazzo il cui padre s'era fatto ammazzare davanti a Verdun non lasciandogli come eredità, in tutto e per tutto, che una croce di ferro, un titolo valido nella migliore delle ipotesi a farsi sposare da un'americana, e debiti, e una madre semipazza che passava la vita a leggere i Vangeli buddistici e le poesie di Rabindranath Tagore?
In una simile esistenza continuamente deviata, Corrado era almeno un punto fisso, un nodo, un cuore. Era baltico con sangue russo; io ero prussiano con sangue baltico e francese; ci trovavamo a cavallo di due nazionalità vicine. Io avevo riconosciuto in lui quella facoltà, in me coltivata e compressa nello stesso tempo, di non tenere a niente, e insieme di gustare e di disprezzare tutto. Ma basta con le spiegazioni psicologiche su ciò che non è altro che intesa spontanea degli spiriti, dei caratteri, dei corpi, compreso quell'inesplicato brandello di carne che bisogna bene chiamare cuore, e che in noi batteva con un mirabile sincronismo benché un po' più debolmente nel suo petto che nel mio. Suo padre, che simpatizzava piuttosto con i tedeschi, era crepato di tifo in un campo di concentramento nei dintorni di Dresda, dove alcune migliaia di prigionieri russi marcivano nell'ipocondria e nei pidocchi. Il mio, fiero del nostro nome e delle nostre origini francesi, si era fatto spaccare il cranio in una trincea delle Argonne da un soldato negro al servizio della Francia. Tanti malintesi dovevano disgustarmi per sempre, da allora, di ogni convinzione men che personale. Nel 1915, fortunatamente, la guerra e perfino il lutto non rappresentavano per noi che l'inizio di una lunga vacanza. Ci si sottraeva ai compiti, agli esami, a tutte le noie dell'adolescenza.
Kratowice era situata non lungi dalla frontiera, in una specie di gola dove le simpatie e le relazioni familiari si sostituivano sovente ai passaporti, in quel tempo in cui la disciplina di guerra incominciava ad allentarsi. Benché baltica e cugina dei conti di Reval a causa della sua vedovanza prussiana, mia madre non venne riammessa dalle autorità russe; ma sulla presenza di un ragazzo di sedici anni si chiuse a lungo un occhio. La mia giovinezza mi serviva da lasciapassare per vivere con Corrado al fondo di quella proprietà perduta dove ero stato affidato alle cure di sua zia, zitella pressoché idiota che rappresentava la parte russa della famiglia, e a quelle del giardiniere Michele che aveva gli istinti di un eccellente cane da guardia. Ricordo i bagni nell'acqua dolce dei laghi o all'aurora nell'acqua salmastra degli estuari, e le orme identiche dei nostri piedi sulla sabbia ben presto distrutte dal risucchio profondo del mare; e le sieste nel fieno quando discutevamo i problemi del tempo masticando indifferentemente tabacco o fili d'erba, certissimi di essere infinitamente migliori degli adulti, senza sospettare che il destino si limitasse a tenerci in serbo per catastrofi differenti e differenti follie. Rivedo le nostre corse sui pattini e certi pomeriggi invernali trascorsi a giocare all'" angelo," ossia a buttarci nella neve ruotando le braccia in modo da imprimervi sopra la traccia delle ali; e le buone notti di sonno pesante nella camera d'onore delle fattorie lettoni, sotto il miglior piumino delle contadine che il nostro appetito di sedici anni inteneriva e spaventava insieme, in quei tempi di restrizioni alimentari. Né le ragazze mancavano in quell'Eden settentrionale isolato nel cuore della guerra: Corrado si sarebbe volentieri attaccato alle loro gonne variopinte se io non avessi ostentato disprezzo per simili infatuazioni; ed egli era una di quelle creature scrupolose e delicate che il disprezzo colpisce sul vivo, e che dubitano delle loro più care predilezioni non appena vengano poste in ridicolo da un'amante o da un amico. La differenza morale fra Corrado e me era assoluta e sottile come quella fra il marmo e l'alabastro. La mollezza di Corrado non era soltanto una questione di età : era una natura, la sua, di quelle che prendono e conservano ogni piega con la morbidezza carezzevole di un bel velluto. Lo si immaginava benissimo a trent'anni, piccolo proprietario terriero abbrutito, sempre a caccia delle ragazze o dei ragazzi della fattoria; o giovane ufficiale della Guardia, elegante, timido e buon cavaliere; o docile funzionario sotto il regime russo; o ancora, dopoguerra aiutando, poeta a rimorchio di T. S. Eliot o di Jean Cocteau nei bar di Berlino. Le differenze tra di noi non erano del resto che morali : quanto al fisico eravamo simili, slanciati, duri, agili, con lo stesso tono di abbronzatura e la stessa sfumatura di occhi. I capelli di Corrado erano di un biondo più pallido, ma non è importante. Nelle campagne la gente ci prendeva per fratelli, ciò che sistemava tutto agli occhi di chi non ha il senso delle amicizie ardenti; quando lo negavamo, mossi da una passione della verità letterale, accettavano al massimo di allentare questa parentela così verosimile e ci dichiaravano cugini germani. Se mi capita di perdere una notte che avrebbe potuto essere consacrata al sonno o al piacere o semplicemente alla solitudine, per chiacchierare in un caffè all'aperto con intellettuali insidiati dalla disperazione, io li sbalordisco sempre affermando che io la felicità l'ho conosciuta, la vera, l'autentica, la moneta d'oro inalterabile che si può scambiare con una manciata di soldoni o un rotolo di marchi del dopoguerra ma che non per questo si sfigura né corre il pericolo di inflazioni. Il ricordo di un simile stato di cose guarisce dalla filosofia tedesca; aiuta a semplificare la vita, e anche a complicarla. E se questa felicità emanasse da Corrado o semplicemente dalla mia giovinezza ha ben poca importanza, dal momento che la mia giovinezza e Corrado sono morti insieme. La durezza dei tempi e l'odioso tic che scardinava il viso della zia Prascovia non impedivano dunque che Kratowice fosse una specie di grande paradiso calmo, senza divieti e senza serpente. Quanto alla ragazza, era mal pettinata, trascurabile, s'imbottiva di libri che le prestava uno studentello ebreo di Riga e disprezzava i ragazzi.
Venne tuttavia l'epoca in cui io dovetti svignarmela attraverso la frontiera per presentarmi come recluta in Germania, senza di che avrei tradito ciò che nonostante tutto era la parte più onesta di me stesso. Feci istruzione sotto l'occhio di sergenti indeboliti dalla fame e dal mal di ventre, che non pensavano se non a procurarsi tessere del pane, e circondato da compagni alcuni dei quali, simpatici, preludevano già al gran baccano del dopoguerra. Due mesi in più, e io sarei servito a riempire una breccia aperta nelle nostre file dall'artiglieria alleata, e ora sarei forse tranquillamente amalgamato alla terra francese, ai vini di Francia, alle more che raccolgono i ragazzi francesi. Ma arrivavo proprio in tempo per assistere alla disfatta completa dei nostri eserciti e alla mancata vittoria di quelli di fronte. Cominciavano i bei tempi dell'armistizio, della rivoluzione e dell'inflazione. Ero rovinato, beninteso, e condividevo con sessanta milioni di uomini una totale mancanza di avvenire. Avevo l'età ideale per abboccare all'amo sentimentale di una dottrina di destra o di sinistra, ma simili verminai di parole non li ho mai potuti inghiottire. Vi ho detto che solo i determinanti umani agiscono su di me, nella più totale assenza di pretesti: le mie decisioni sono sempre state quel particolare viso, quel particolare corpo. La caldaia russa sul punto di scoppiare spandeva sull'Europa una fumata di idee che passavano per nuove; a Kratowice era rifugiato uno stato maggiore dell'armata rossa; le comunicazioni fra la Germania e i paesi baltici si facevano precarie e del resto Corrado apparteneva alla razza di quelli che non scrivono. Io mi credevo adulto : era la mia sola illusione di giovane uomo, e in ogni caso, paragonato agli adolescenti e alla vecchia pazza di Kratowice, va da sé che io rappresentassi l'esperienza e l'età matura. Stava sorgendo in me un senso squisitamente familiare delle responsabilità spinto fino a uno scrupolo di protezione verso la ragazza e la zia.
Nonostante le sue predilezioni pacifiste, mia madre approvò il mio arruolamento nel corpo dei volontari del generale e barone von Wirtz, che partecipava alla lotta antibolscevica in Estonia e in Curlandia. La povera donna aveva in quel paese certe proprietà minacciate dai contraccolpi della rivoluzione bolscevica, e le rendite che gliene venivano, sempre più incerte, erano la sua sola garanzia contro la prospettiva di finire stiratrice o cameriera d'albergo. Ciò detto, non è men vero che il comunismo all'est e l'inflazione in Germania cadevano a proposito per permetterle di dissimulare alle sue amiche che noi eravamo rovinati ben prima che il Kaiser, la Russia o la Francia trascinassero l'Europa nella guerra. Era meglio passare per la vittima di una catastrofe che per la vedova di un uomo che si era lasciato dissanguare a Parigi dalle donne di strada e a Montecarlo dai croupier. Avevo degli amici in Curlandia; conoscevo il paese, ne parlavo la lingua e perfino alcuni dialetti. Nonostante tutti i miei sforzi per raggiungere Kratowice, impiegai tre mesi per varcare quel centinaio di chilometri o poco più che la separavano da Riga. Tre mesi di un'estate umida e ovattata di nebbie, ronzante delle offerte di usurai ebrei venuti da New York per riscattare a poco prezzo i gioielli degli emigrati russi. Tre mesi di disciplina ancora stretta, di pettegolezzi di stato maggiore, di operazioni militari sconclusionate, di fumate di tabacco e di un'inquietudine sorda o lancinante come un dolore di denti. Al principio della decima settimana, pallido ed estatico come Oreste nei primi versi di una tragedia di Racine, vidi ricomparire un Corrado tutto attillato in un'uniforme che doveva essere costata uno degli ultimi diamanti della zia, segnato al labbro da una piccola cicatrice che gli dava l'aria di masticare distrattamente delle violette. Aveva serbato un'innocenza infantile, una dolcezza da fanciulla e quella bravura da sonnambulo che un tempo impiegava per arrampicarsi sul dorso di un toro o di un'onda; e passava le serate a connettere cattivi versi nel gusto di Rilke. Fin dal primo colpo d'occhio compresi che durante la mia assenza la sua vita si era fermata; e mi fu più duro dover ammettere, nonostante le apparenze, che era stato lo stesso per me. Lontano da Corrado io avevo vissuto come in viaggio. Tutto in lui m'ispirava una confidenza assoluta di cui in seguito nessun altro è mai stato capace. Al suo fianco, spirito e corpo godevano di un perfetto riposo, rassicurati da tanta semplicità e franchezza, e in tal modo liberi di badare al resto con la massima alacrità. Era il compagno di guerra ideale, come era stato l'ideale compagno d'infanzia. L'amicizia è prima di tutto certezza, ed è questo che la differenzia dall'amore. È anche rispetto, e accettazione totale di un altro essere. E che il mio amico mi abbia rimborsato fino all'ultimo centesimo le somme di stima e di confidenza che avevo messo a suo nome, è ciò che egli mi ha provato con la sua morte. Gli svariati talenti di Corrado gli avrebbero permesso molto meglio che a me di trarsi d'impaccio in paesaggi meno desolati di quelli della rivoluzione o della guerra; i suoi versi sarebbero piaciuti; la sua bellezza anche; egli avrebbe potuto trionfare a Parigi nei salotti delle signore che proteggono le arti o smarrirsi a Berlino negli ambienti che ne partecipano. In quell'imbroglio baltico dove ogni occasione favorevole stava a sinistra, io non mi c'ero cacciato, in fondo, che per lui; e fu ben presto chiaro che egli non ci rimaneva che per me. Seppi da lui che Kratowice aveva subito un'occupazione rossa di breve durata e singolarmente inoffensiva, grazie forse alla presenza del piccolo ebreo Grigori Loew, ormai travestito da tenente dell'armata bolscevica e che un tempo, commesso in una libreria di Riga, consigliava rispettosamente Sofia nelle sue letture. Da allora il castello, ripreso dalle nostre truppe, si era trovato in piena zona di combattimenti, esposto alle sorprese e agli attacchi delle mitragliatrici. Durante l'ultimo allarme le donne si erano rifugiate in cantina di dove Sonia - si aveva il cattivo gusto di chiamarla così - aveva insistito per uscire, con il coraggio della follia, per portare a spasso il cane.
La presenza delle nostre truppe al castello m'inquietava quasi quanto la vicinanza dei Rossi e doveva fatalmente prosciugare le ultime risorse del mio amico. Cominciavo a conoscere i retroscena della guerra civile in un esercito in dissoluzione: i furbi si sarebbero evidentemente costituiti dei quartieri d’inverno in località capaci di offrire l'allettamento di una provvista pressoché intatta di vini e di ragazze. Non erano la guerra né la rivoluzione a rovinare il paese, bensì i suoi liberatori. Di questo m'importava ben poco, ma m'importava Kratowice. Feci ben capire che le mie conoscenze della topografia e delle risorse del distretto potevano essere utilizzate. Dopo tergiversazioni interminabili, finirono con l'accorgersi di ciò che balzava agli occhi, e io dovetti alla complicità degli uni e all'intelligenza degli altri l'ordine di andare a riorganizzare le brigate dei volontari nella zona sud-est del paese. Misero incarico di cui prendemmo possesso, Corrado e io, in uno stato ancor più miserando, inzaccherati fino agli occhi e a tal punto irriconoscibili da scatenare i cani di Kratowice, dove arrivammo soltanto al termine della più fitta e tenebrosa delle notti. Grazie alla mia competenza in fatto di topografia, avevamo vagabondato tutta la notte impantanandoci nelle paludi, a due passi dagli avamposti rossi. I nostri fratelli d'arme stavano alzandosi da tavola - c'erano anzi ancora - e ci fecero generosamente indossare due vestaglie che in tempi migliori erano state di Corrado, e che trovammo adorne di macchie e di bruciature di sigari. Tante emozioni avevano aggravato il tic di zia Prascovia: le sue smorfie avrebbero gettato il panico in una armata nemica. Quanto a Sofia, ella aveva perduto l'aspetto paffuto dell'adolescenza; era bella; la moda dei capelli corti le donava. Sul suo viso accigliato, all'angolo delle labbra, s'incideva una piega amara; non leggeva più, ma passava le serate ad attizzare rabbiosamente il fuoco nel salone, con i sospiri annoiati di una eroina ibseniana disgustata di tutto. Ma sto anticipando, e sarebbe meglio descrivere esattamente l'attimo del ritorno, la porta aperta da Michele infagottato nella livrea sopra ai calzoni di soldato, e quella lanterna di scuderia che teneva alta sul capo nel vestibolo dai lampadari ormai sempre spenti. Le pareti di marmo bianco conservavano quell'aspetto glaciale che faceva pensare a una decorazione murale Luigi XV ricavata dalla parete di neve di una casa eschimese. Come dimenticare l'espressione di dolcezza intenerita e di disgusto profondo che passò sul viso di Corrado al momento di ritornare in quella casa abbastanza intatta perché ogni piccolo guasto gli facesse l'effetto di un oltraggio, dalla grande stella irregolare ritagliata da un proiettile sullo specchio della scalinata d'onore fino alle impronte digitali sulla maniglia delle porte? Le due donne vivevano pressoché recluse in un salotto del primo piano; il suono limpido della voce di Corrado le indusse ad avventurarsi sulla soglia; vidi apparire sull'alto delle scale una testa arruffata e bionda. Sofia arrivò in fondo alla scala come volando, con il cane che le uggiolava dietro. Buttò le braccia al collo del fratello, poi al mio, con risate e salti di gioia: "Sei tu? È lei?"
" Presente," disse Corrado. " Ma no, è il principe di Trebisonda! "
E afferrò la sorella per farle fare un giro di valzer nel vestibolo. Abbandonata quasi subito dal suo cavaliere, che si precipitava a mani tese verso un compagno, ella si arrestò davanti a me, rossa in viso come alla fine di un ballo:
" Eric! Com'è cambiato! "
" Vero? " feci io. " Assolutamente irriconoscibile."
" No, " disse lei scuotendo la testa. "
Alla salute del fratello prodigo! " esclamò il piccolo Franz von Aland in piedi sulla soglia della sala da pranzo, e con in mano un bicchiere d'acquavite si dette ad inseguire la ragazza. " Andiamo, Sofia, una lacrimetta! "
" Che cosa non daresti se ci riuscissi? " disse l'adolescente con una smorfia monellesca, infilando la testa sotto il braccio del giovane ufficiale. E sparendo nella fessura della porta a vetri che immetteva nell'ufficio, gridò:
"Vado a farvi preparare da mangiare!"
Intanto la zia Prascovia, appoggiata con i gomiti alla ringhiera del primo piano, imbrattandosi dolcemente la faccia di lacrime, attribuiva la mia sopravvivenza alle sue preghiere e tubava come una vecchia tortorella ammalata. La sua camera, che puzzava di cera e di morte, era zeppa di icone annerite dal fumo dei ceri, e ce n'era una antichissima le cui palpebre d'argento recavano incastonati due smeraldi. Durante la breve occupazione bolscevica, un soldato aveva fatto saltare le pietre preziose, e ora era davanti a questa protettrice cieca che zia Prascovia pregava. Un istante dopo Michele risaliva dalla cantina con un piatto di pesce affumicato. Corrado chiamò inutilmente la sorella, e Franz von Aland ci assicurò con una scrollata di spalle che per tutta la sera non sarebbe ricomparsa. Cenammo senza di lei.
Dal giorno dopo la rividi da suo fratello; ogni volta trovò la maniera di eclissarsi con un'agilità di giovane gatta ridiventata selvatica. Eppure, nella prima emozione del ritorno, ella mi aveva baciato sulle labbra, e non potevo impedirmi di pensare con una certa malinconia che era quello per me il primo bacio di una ragazza; perché mio padre non mi aveva dato una sorella? Nei limiti del possibile ero senz'altro disposto ad adottare Sofia.
La vita al castello seguiva il suo corso negli intervalli della guerra, con il personale ridotto in tutto e per tutto a una vecchia cameriera e al giardiniere Michele, ostacolata dalla presenza di alcuni ufficiali russi evasi da Kronstadt, simili agli invitati di una noiosa partita di caccia che non finisse mai. Due o tre volte, svegliati da cannonate lontane, ingannammo la lunghezza di quelle notti interminabili giocando tutti e tre a carte con il morto, e a questo morto ipotetico del bridge potevamo quasi sempre dare un nome e un cognome, il nome e il cognome d'uno dei nostri uomini recentemente ucciso da una palla nemica. La durezza di Sofia si scioglieva di tanto in tanto senza toglierle niente della sua grazia stralunata e selvaggia, come quei paesi che conservano un'asprezza invernale anche al volgere della primavera. L'illuminazione prudente e concentrata di una lampada avara rendeva radioso il pallore del suo viso e delle sue mani. Sofia aveva esattamente la mia età, ciò che avrebbe dovuto mettermi sull'avviso, ma nonostante la pienezza del suo corpo, mi colpiva soprattutto quella sua aria di adolescenza ferita. Era evidente che due soli anni di guerra non erano bastati a modificare ogni tratto di quel viso, improntandolo di ostinazione e di tragedia. Certo all'età dei primi balli aveva dovuto subire i pericoli dei proiettili, l'orrore dei racconti di violenze e di supplizi, talvolta la fame e sempre l'angoscia, l'assassinio dei suoi cugini di Riga spiaccicati contro il muro della loro casa da uno squadrone rosso; e lo sforzo che le era costato abituarsi a spettacoli tanto diversi dai suoi sogni di fanciulla era stato più che sufficiente ad aprirle dolorosamente gli occhi. Ma, a meno che io mi sbagli molto, Sofia non era tenera : era soltanto infinitamente generosa di cuore, e si sa che i sintomi di queste due malattie vicine vengono spesso confusi. Sentivo che per lei era accaduto qualcosa di più essenziale dello sconvolgimento del suo paese e del mondo, e cominciavo finalmente a capire che cosa avessero significato quei mesi di promiscuità con uomini che per via dell'alcool e del sovraeccitamento continuo del pericolo avevano perso il controllo di sé. Dei bruti, che due anni prima non sarebbero stati per lei che cavalieri al ballo, le avevano insegnato troppo in fretta la realtà nascosta sotto i discorsi galanti. Quanti colpi battuti di notte alla porta della sua camera di ragazza, quante braccia tese ad afferrarla alla vita e da cui aveva dovuto svincolarsi violentemente a rischio di sciupare il povero vestitino già liso e i giovani seni... Avevo davanti a me una ragazzina oltraggiata dal sospetto stesso del desiderio; e con tutta quella parte di me che mi differenzia al massimo dai banali cacciatori di avventure per i quali ogni occasione femminile è buona, non potevo che trovarmi perfettamente solidale con la disperazione di Sofia. Un mattino, finalmente, nel parco dove Michele estraeva delle patate, venni a conoscenza del segreto conosciuto da tutti e che tuttavia i nostri camerati ebbero l'eleganza di tener sempre cosi ben nascosto da evitarne a Corrado sia pure il sospetto. Sofia era stata violentata da un sergente lituano, ferito in seguito ed evacuato nelle retrovie. L'uomo era ubriaco, e il giorno dopo era venuto ad inginocchiarsi nel salone davanti a trenta persone per chiedere perdono piagnucolando; e questa scena aveva dovuto essere per la ragazzina ancor più ripugnante del brutto quarto d'ora della vigilia. Per settimane e settimane l'adolescente aveva vissuto di quel ricordo e del terrore di una possibile gravidanza. Per grande che fosse diventata in seguito la mia intimità con Sofia, non ho mai avuto il coraggio di fare allusione a quella sventura: era un argomento sempre evitato e sempre presente fra di noi. E tuttavia, stranamente, quel racconto me la rese più vicina. Del tutto innocente o del tutto difesa, Sofia non mi avrebbe ispirato che i sentimenti di vaga noia e di segreto imbarazzo da me provati a Berlino, a contatto delle figlie delle amiche di mia madre; profanata com'era, la sua esperienza era analoga alla mia, e l'episodio del sergente bilanciava in me, per bizzarro che possa sembrare, il ricordo unico e odioso di una casa di tolleranza a Bruxelles. Poi, distratta da sofferenze peggiori, ella parve dimenticare del tutto quell'incidente sul quale il mio pensiero ritornava senza tregua, e una diversione così profonda è forse la mia unica scusa ai tormenti che le avrei causato io. La mia presenza e quella del fratello le restituivano a poco a poco il suo rango di padrona di casa a Kratowice, rango ch'ella aveva perduto fino al punto di non essere più a casa sua che una prigioniera atterrita. Ella accettò di presiedere ai pasti con una specie di patetica spavalderia; gli ufficiali le baciavano la mano. Per breve tempo i suoi occhi riacquistarono quel candido splendore che non era se non lo sfavillio di un'anima regale. In seguito, quegli occhi che dicevano tutto si turbarono di nuovo, e non li ho visti più brillare di una mirabile limpidezza che una volta sola e in circostanze la cui memoria non mi abbandona mai.
Perché le donne vanno proprio ad invaghirsi degli uomini che non sono loro destinati, costringendoli così a scegliere fra lo snaturarsi e il detestarle? Il giorno seguente il mio ritorno a Kratowice, i profondi rossori di Sofia, le sue scomparse improvvise, quello sguardo obliquo così poco in armonia con la sua dirittura, mi fecero credere ad un turbamento naturalissimo di ragazza ingenuamente attirata da un nuovo venuto. Imparai più tardi ad interpretare meno scorrettamente quei sintomi di mortale umiliazione che rivelava anche in presenza del fratello. Ma in seguito, e per troppo tempo, continuai ad accontentarmi di questa spiegazione che era stata giusta, e quando nell'intera Kratowice si parlava con tenerezza o con malizia della passione di Sofia per me, io non mi staccavo ancora dal mito della fanciulla spaventata. Impiegai settimane e settimane ad accorgermi che quelle guance ora più pallide ora più rosee, quel viso e quelle mani insieme tremanti e dominate, e quei silenzi, e quel flusso di parole precipitate, significavano ben altro che la vergogna e perfino ben più del desiderio. Non sono fatuo: è assai facile esserlo, per un uomo che disprezza le donne e che, quasi per rafforzarsi nell'opinione che ha di loro, ha scelto di non frequentare che le peggiori. Ero dunque destinato a ingannarmi nei confronti di Sofia, e tanto più a ingannarmi in quanto la sua voce dolce e rude, i capelli quasi tosati, le piccole bluse, le grosse scarpe sempre incrostate di fango, facevano di lei ai miei occhi il fratello di suo fratello. Caddi in errore, poi riconobbi il mio errore, fino al giorno in cui finalmente scoprii proprio in quell'errore la sola parte di verità sostanziale in cui, per tutta la mia vita, io sia riuscito a mordere. Intanto provavo per giunta, nei confronti di Sofia, quel cameratismo facile che un uomo ha per i ragazzi quando non li ama. Una posizione tanto falsa era ancor più pericolosa in quanto Sofia, nata nella mia stessa settimana e votata agli stessi astri, era lungi dall'esser per me una sorellina da proteggere, e anzi aveva su di me il vantaggio di chi ha più lungamente patito. Da un certo punto in poi, fu lei a condurre il gioco; e il suo gioco fu tanto più serrato in quanto la posta ne era la sua stessa vita. Inoltre la mia attenzione era forzatamente parziale; la sua era intera. Per me c'erano Corrado, e la guerra, e alcune ambizioni in seguito gettate a mare. Ben presto per lei non ci fui che io solo, come se l'intera umanità intorno a noi si fosse mutata in accessori da tragedia. Aiutava la serva nei lavori della cucina e del cortile perché io mangiassi secondo la mia fame, e quando si prese degli amanti non fu che per esasperarmi. Io ero fatalmente destinato a perdere, anche se non nel senso della sua gioia, e tutta la mia inerzia mi bastò appena per resistere a una creatura che s'abbandonava alla china con tutta la forza del suo peso.
Contrariamente alla grande maggioranza degli uomini più o meno razionali, io non ho l'abitudine di disprezzarmi più di quanto non abbia amor proprio; sono troppo consapevole di quanto sia completo, necessario ed inevitabile ogni atto anche se un minuto prima è imprevisto e un minuto dopo sorpassato: Preso in una serie di decisioni immancabilmente definitive, simile a un animale, io non avevo avuto tempo di costituirmi ai miei propri occhi come un problema. Ma se l'adolescenza è un'epoca di inadattamento all'ordine naturale delle cose, ero certamente più adolescente e più inadattato di quanto credessi, se la scoperta di questo semplice amore di Sofia provocò in me uno stupore che sfiorava lo scandalo. Nelle circostanze in cui mi trovavo, provare stupore significava essere in pericolo, e essere in pericolo significava scattare. Avrei dovuto odiare Sofia; e lei non ha mai sospettato quanto merito ci fosse, da parte mia, nel non farlo. Ma ogni innamorato respinto conserva il vantaggio di un ricatto quanto mai basso sul nostro orgoglio: cospirano verso questo risultato la compiacenza di sé e lo stupore di vedersi infine giudicato come si è sempre sperato di esserlo: e ci si rassegna a sostenere il ruolo di Dio. Devo anche dire che l'infatuazione di Sofia era meno insensata di quanto paresse: dopo tante sventure ella trovava finalmente un uomo del suo ambiente e della sua infanzia, e tutti i romanzi che aveva letto fra i dodici e i diciotto anni le avevano insegnato che l'amicizia per il fratello si conclude con l'amore per la sorella. Questo oscuro calcolo dell'istinto era giusto, dal momento che non le si poteva rimproverare di non tenere conto di una singolarità imprevedibile. Di nascita discreta, piuttosto bello, abbastanza giovane da autorizzare ogni speranza, io ero fatto per incarnare tutte le aspirazioni di una ragazzina sequestrata fino ad allora fra quattro bruti imbecilli e il più seducente dei fratelli, ma che la natura non sembrava aver dotata di alcuna velleità per l'incesto. E perché l'incesto stesso non mancasse a completare il quadro, la magia dei ricordi mi trasformava in fratello maggiore. È impossibile rifiutarsi di giocare quando si hanno tutte le carte in mano: non potevo che saltare un giro, ossia pur sempre giocare. Ben presto tra Sofia e me si stabilì un'intimità da vittima a boia. La crudeltà non era il mio forte; le circostanze intervenivano; e non è certo che non ci prendessi gusto.
L'accecamento dei fratelli vale quello dei mariti, giacché Corrado non sospettava nulla. Era una di quelle nature impastate di sogni che, grazie a un felicissimo istinto, trascurano tutto il lato irritante e falsato della realtà per ricadere con tutto il loro peso sulla evidenza delle notti, sulla semplicità dei giorni. Sicuro della presenza di un'anima fraterna di cui non doveva esplorare ogni angolo recondito, egli dormiva, leggeva, metteva a repentaglio la vita, faceva il suo turno al telegrafo e scribacchiava versi che non erano se non il riflesso scialbo di un'anima squisita. Per settimane e settimane Sofia attraversò tutte le angosce delle innamorate che si credono incomprese e s'infuriano di esserlo; poi, irritata da ciò che ella interpretava come mia stupidaggine, si stancò di una situazione che può piacere soltanto ai cuori romantici; e romantica quella ragazzina non lo era più di quanto lo possa essere un coltello. Ebbi dichiarazioni che si credevano complete e che erano sublimi di sottintesi.
" Come si sta bene qui ! " diceva sedendosi vicino a me in una delle capanne del parco durante uno di quei brevi momenti di solitudine che riuscivamo a procurarci con astuzie proprie, in genere, degli amanti; e sparpagliava con un colpo secco attorno a sé le ceneri della sua corta pipa da contadina.
" Si, si sta bene, " ripetevo io, inebriato da quella tenerezza cosi recente come dall'introduzione di un nuovo tema musicale nella mia vita, e sfioravo goffamente le sue braccia sode appoggiate davanti a me sulla tavola del giardino, un po' come avrei accarezzato un bel cane o un cavallo che mi fosse giunto in dono.
" Hai fiducia in me ? "
" La luce non è più pura del fondo del tuo cuore, amica mia. "
" Eric, " ed ella appoggiava pesantemente il mento sulle mani intrecciate, "preferisco dirti subito che mi sono innamorata di te... quando vorrai, capisci, e anche se non è una cosa seria... " " Con te è sempre una cosa seria, Sofia. "
" No, " disse, " vedo che non mi credi. "
E gettando indietro la faccia imbronciata in un movimento di sfida più dolce di tutte le sue carezze:
" Però non devi pensare che sia così buona con tutti. "
Eravamo tutti e due troppo giovani per essere assolutamente semplici, ma Sofia aveva una sconcertante dirittura che moltiplicava le possibilità di errore. Una tavola di pino odoroso di resina mi separava da quella creatura che si concedeva senza sotterfugi, e io continuavo a tracciare con l'inchiostro su un foglio sgualcito di stato maggiore una traccia punteggiata via via sempre meno sicura. Come per evitare sia pure il sospetto di cercare in me qualche complicità, Sofia si era scelto il vestito più vecchio, un viso senza trucco, due sgabelli di legno e la vicinanza di Michele che spaccava legna nel cortile. In quel momento in cui ella credeva di toccare il colmo dell'impudicizia, la sua ingenuità senza riserve avrebbe incantato qualsiasi madre. Come abilità, del resto, un simile candore superava la peggiore delle astuzie: se avessi amato Sofia sarebbe stato per quel colpo deciso assestato da un essere nel quale mi compiacevo di riconoscere il contrario di una donna. Battevo in ritirata valendomi di un qualsiasi pretesto, e per la prima volta trovavo un sapore ignobile nella verità. Intendiamoci: ciò che la verità aveva di ignobile stava precisamente nel costringermi a mentire a Sofia. Da quel momento sarebbe stato saggio evitare la ragazza, ma a parte il fatto che una fuga non era facile in quella nostra vita da assediati, fui ben presto incapace di fare a meno di quell'alcool di cui ero ben deciso a non ubriacarmi. Riconosco che una simile autocompiacenza non merita che pedate, ma l'amore di Sofia mi aveva ispirato i primi dubbi sulla legittimità delle mie opinioni sulla vita; quel suo dono completo mi consolidava, invece, nella mia dignità o nella mia vanità di uomo. Il lato comico della storia era che proprio le mie qualità di freddezza e di rifiuto mi avevano fatto amare : e lei mi avrebbe respinto con orrore se durante i nostri primi incontri avesse visto nei miei occhi quella luce che ora moriva di non vedere. Per una resipiscenza sempre facile nelle nature probe, ella si credette perduta per l'audacia della sua confessione: voleva dire non sospettare che l'orgoglio, come la carne, ha le sue riconoscenze. Saltando all'altro estremo, ella si votò ormai alla costrizione più assoluta, come una donna d'altri tempi che eroicamente stringesse ancora i lacci del busto. Non ebbi più davanti a me se non un viso dai muscoli tesi, contratto per non tremare. Di colpo ella raggiungeva la bellezza degli acrobati, dei martiri. Con un colpo d'anca la ragazzina era balzata fino alla piattaforma stretta dell'amore senza speranza, senza riserve e senza domande: era certo che non vi si sarebbe mantenuta a lungo. Niente mi commuove come il coraggio: un sacrificio così totale meritava da parte mia una confidenza ancora più completa. Non ha mai creduto che gliel'avessi accordata, non sospettando nemmeno fin dove potesse giungere la mia diffidenza nei confronti degli altri esseri. Nonostante le apparenze io non rimpiango di essermi affidato a Sofia fin dove mi era possibile : fin dalla prima occhiata avevo riconosciuto in lei una natura inalterabile con la quale era possibile concludere, come con un elemento, un patto tanto pericoloso quanto sicuro : possiamo fidarci del fuoco a condizione di sapere che la sua legge è di estinguersi o di bruciare.
Spero che la nostra vita fianco a fianco abbia lasciato in Sofia alcuni ricordi belli come i miei: del resto importa poco, poiché non ha vissuto abbastanza da tesaurizzare il suo passato.
La neve fece la sua prima apparizione a San Michele. Sopravvenne il disgelo, seguito da nuove nevicate. La notte, spenti tutti i fuochi, il castello sembrava una nave abbandonata, incastrata in una banchisa. Corrado lavorava solo nella torre; io mi concentravo sui dispacci che mi si ammonticchiavano sullo scrittoio; Sofia entrava nella mia camera a tastoni, con precauzioni da cieco. Si sedeva sul letto, faceva ondeggiare le gambe dalle caviglie affondate in spessi calzerotti di lana. Benché dovesse rimproverarsi come un crimine quel tradimento alle condizioni del nostro silenzioso accordo, Sofia non poteva rinunziare ad esser donna più di quanto le rose possano rinunziare a esser rose. Tutto in lei gridava un desiderio al quale l'anima era mille volte più interessata della carne. Le ore si trascinavano; la conversazione languiva o naufragava negli insulti; Sofia inventava pretesti per non lasciare la mia camera: sola con me, cercava senza volere quelle occasioni che sono lo stupro delle donne. Per quanta fosse la mia irritazione, amavo quella specie di scherma snervante in cui il mio viso portava una maschera e il suo era nudo. La camera fredda e soffocante, contaminata dall'odore di una stufa spenta, si trasformava in una palestra di ginnastica dove un giovane uomo e una ragazza, perpetuamente sulle difese, si sovraeccitavano in una lotta che non finiva che all'alba. Le prime luci del giorno ci riportavano Corrado, affaticato e contento come un ragazzo all'uscita da scuola. Qualche camerata, pronto a partire con me per gli avamposti, infilava la testa nella fessura della porta e chiedeva di bere con noi la prima acquavite della giornata. Corrado si sedeva accanto a Sofia per insegnarle a fischiare, fra matte risate, qualche battuta di una canzone inglese, e attribuiva all'alcool se le mani di lei tremavano.
Mi son detto sovente che forse Sofia aveva accolto con un segreto sollievo il mio primo rifiuto, e che nella sua offerta c'era una buona parte di sacrificio. Era ancora troppo vicina al suo unico triste ricordo per non portare nell'amore fisico più audacia, ma anche più timore delle altre donne. Inoltre Sofia era timida: e questo spiegava i suoi accessi di coraggio. Era troppo giovane per sospettare che l'esistenza non è fatta di slanci improvvisi e di ostinata costanza, ma di compromessi e di oblio. Da questo punto di vista ella sarebbe rimasta sempre troppo giovane, anche se fosse morta a sessant'anni. Ma Sofia superò ben presto il periodo in cui il dono di sé resta un atto appassionato di volontà, per arrivare allo stadio in cui darsi è tanto, naturale quanto alla vita il respiro. Io fui da quel momento la risposta che ella dava a se stessa, e le sue precedenti sventure presero ad apparirle sufficientemente spiegate dalla mia assenza. Ella aveva sofferto perché l'amore non era ancora sorto sul paesaggio della sua vita, e questa mancanza di luce aggravava la difficoltà dei tristi cammini sui quali le vicissitudini dei tempi l'avevano fatta marciare. Ora che amava, si liberava a una a una delle sue ultime esitazioni, con la semplicità di un viaggiatore intirizzito che si toglie al sole i vestiti inzuppati, e si poneva davanti a me nuda come mai lo era stata un'altra donna. E forse, avendo orribilmente esaurito in un solo colpo tutti i suoi terrori e le sue resistenze all'uomo, non poteva ormai offrire al suo amore se non l'inebriante dolcezza di un frutto che si propone insieme alla bocca e al coltello. Una simile passione accetta tutto e si contenta di poco: bastava che io entrassi in una stanza dove lei si trovava, ed ecco che il viso di Sofia assumeva immediatamente l'espressione riposata che si ha a letto. Quando la toccavo avevo l'impressione che tutto il sangue delle sue vene si trasformasse in miele. Il migliore dei mieli fermenta, alla lunga: e io non dubitavo affatto che avrei dovuto pagare un prezzo centuplicato per ognuno dei miei errori, e che la rassegnazione con cui Sofia li aveva accolti mi sarebbe stata conteggiata a parte. L'amore aveva messo
Sofia tra le mie mani come un guanto dal tessuto insieme morbido e tenace; quando la lasciavo, mi capitava di ritrovarla allo stesso posto, delle mezze ore più tardi, come un oggetto abbandonato. Io ebbi per lei insolenze e tenerezze alternate, tendenti tutte allo stesso scopo che era di costringerla ad amare e a soffrire di più, e la vanità mi compromise nei suoi confronti come l'avrebbe fatto il desiderio. Più tardi, quando Sofia cominciò a contare per me, soppressi le tenerezze. Ero sicuro che non avrebbe confessato ad anima viva le sue sofferenze, ma stupisco che non abbia scelto Corrado come confidente delle nostre rare gioie. Doveva già esserci tra di noi una tacita complicità se eravamo cosi d'accordo di trattare Corrado da bambino.
Abbiamo l'abitudine di parlare come se le tragedie si svolgessero nel vuoto: ma chi le condiziona è lo sfondo. La nostra parte di gioia o di dolore a Kratowice trovava una sua definizione in quei corridoi dalle finestre sprangate dove si inciampava continuamente, in quel salone da cui i bolscevichi non si erano portati via che una panoplia di armi cinesi e dove il ritratto di una dama, bucato da un colpo di baionetta, ci guardava dall'alto di un trumeau, come divertito da quell'avventura; nell'offensiva che aspettavamo con impazienza e nella continua probabilità di morire. I vantaggi che le altre donne ottengono dai loro cosmetici, dai conciliaboli con il parrucchiere e con la sarta, da tutti i giochi di specchi di una vita diversa, nonostante tutto, da quella dell'uomo, e spesso meravigliosamene protetta, Sofia, li doveva all'imbarazzante promiscuità di una casa trasformata in caserma, alla sua biancheria di lana rosa che era pur costretta a rammendare davanti a noi sotto la lampada, alle nostre camicie che lavava con un sapone fabbricato sul posto e che le screpolava le mani. Quegli attriti continui di un'esistenza fondata sul chi vive, ci lasciavano nello stesso tempo scorticati e induriti. Ricordo la sera in cui Sofia si incaricò di sgozzare e spiumare per noi qualche pollastro malaticcio: non ho mai visto su un viso tanto energico una simile mancanza di crudeltà. Tolsi ad una ad una qualche piuma che le era rimasta impigliata fra i capelli; uno scipito odore di sangue le saliva dalle mani. Rientrava da simili incombenze oppressa dal peso delle sue scarpacce piene di neve, gettava in un angolo qualsiasi la sua pelliccia umida, rifiutava di mangiare o assaliva golosamente certe disgustose frittelle che si ostinava a prepararci con farina guasta. Un simile regime la faceva dimagrire. Il suo zelo si rivolgeva a noi tutti, ma bastava un sorriso a farmi capire che ero io solo, tuttavia, a essere servito. Doveva essere buona se tanto sovente perdeva l'occasione di farmi soffrire. Di fronte a uno scacco che le donne non perdonano, ella fece ciò che fanno i cuori ben nati ridotti alla disperazione: per suo tormento cercò le peggiori spiegazioni di se stessa e si giudicò come l'avrebbe fatto la zia Prascovia, se la zia Prascovia ne fosse stata capace. Si credette indegna: una simile innocenza farebbe inginocchiare chiunque. Nemmeno per un istante, del resto, ella pensò di revocare quel dono di sé, per lei altrettanto definitivo che se io lo avessi accettato. Era un tratto caratteristico della sua natura altera : non riprendeva l'elemosina rifiutata da un povero. Che mi disprezzasse ne sono sicuro, e lo spero per lei, ma tutto il disprezzo del mondo non avrebbe impedito che in uno slancio d'amore potesse baciarmi le mani. Spiavo con avidità un moto di collera, un rimprovero meritato, qualsiasi atto che potesse essere per lei l'equivalente di un sacrilegio, ma ella si tenne instancabilmente al livello di ciò che io chiedevo al suo amore assurdo. Qualche mancanza di gusto, da parte di un cuore come il suo, mi avrebbe insieme rassicurato e deluso. Mi accompagnava nelle mie ricognizioni attraverso il parco: dovevano essere per lei passeggiate di dannati. Io amavo la pioggia fredda sulle nostre nuche, i suoi capelli incollati come i miei, la tosse che soffocava nel cavo della mano, le sue dita che tormentavano una canna lungo lo stagno liscio e deserto su cui galleggiava quel giorno un cadavere nemico. D'un tratto appoggiava il dorso contro un albero, e per un quarto d'ora lasciavo che mi parlasse d'amore. Una sera, inzuppati fino alle ossa, dovemmo rifugiarci nelle rovine del padiglione di caccia; ci svestimmo, gomito a gomito nella piccola stanza ancora munita di un tetto: c'era in me una specie di sfida nel trattare da amico quell'avversaria. Ravvolta in una coperta da cavallo, ella fece asciugare davanti al fuoco, che aveva acceso, la mia divisa e il suo vestito di lana. Al ritorno dovemmo più volte scansarci per evitare i proiettili; io la prendevo alla vita, come un'amante, per distenderla a forza vicino a me in qualche fosso, con un'energia che dimostrava pur sempre come non desiderassi la sua morte. Fra tanti tormenti mi irritavo di veder salire senza tregua nei suoi occhi una mirabile speranza: c'era in lei quella certezza del loro diritto che le donne conservano fino al martirio. Una così patetica mancanza di disperazione dà ragione alla teoria cattolica che destina in purgatorio le anime pressoché innocenti, senza precipitarle all'inferno. Di noi due è lei che avrebbe ispirato pietà: ed era lei ad avere la parte migliore.
L'orrenda solitudine di una creatura che ama, Sofia l'aggravava con le sue idee diverse da noi tutti. Aveva simpatie per i Rossi: per un cuore come il suo l'eleganza suprema stava evidentemente nel dare ragione al nemico. Abituata a pensare contro se stessa, metteva forse la stessa generosità nel giustificare l'avversario e nell'assolvere me. Queste sue tendenze risalivano all'epoca dell'adolescenza, e Corrado le avrebbe condivise se non avesse sempre accolto in blocco le mie vedute sulla vita. Quel mese d'ottobre fu uno dei più disastrosi della guerra civile: quasi del tutto abbandonati da von Wirtz che si era rifugiato nel cuore delle province baltiche, noi tenevamo nell'ufficio dell'amministratore di Kratowice dei conciliaboli da naufraghi. Sofia assisteva a queste sedute con la schiena appoggiata allo stipite della porta; senza dubbio lottava per conservare una specie di equilibrio fra certe convinzioni che erano dopo tutto il suo unico bene personale, e quel cameratismo di cui sentiva il dovere nei nostri riguardi. Deve avere desiderato più di una volta che una bomba arrivasse a metter fine alle nostre tiritere di stato maggiore, e il suo desiderio è stato più volte sul punto di essere esaudito. Era del resto così poco tenera da assistere senza una parola di protesta alla fucilazione di prigionieri rossi sotto le sue finestre. Io sentivo che ognuna delle decisioni approvate in sua presenza provocava in lei un'esplosione interiore di odio; nei particolari di ordine pratico, invece, ella dava il suo parere con un buon senso da contadina. Faccia a faccia discutevamo sulle conseguenze della guerra e sull'avvenire del marxismo con una violenza in cui entrava da ambo le parti il bisogno di un alibi; ella non mi nascondeva le sue preferenze ; era la sola, cosa che la sua passione non avesse pregiudicato. Incuriosito di vedere fin dove arrivasse in Sofia una bassezza che era sublime, perché apparteneva di sua natura all'amore, più d'una volta ho tentato di porre la ragazza in contraddizione con i suoi principi, o meglio con le idee che le aveva inculcato Loew. Ci riuscivo meno facilmente di quanto si possa credere; ella esplodeva in proteste indignate. C'era in lei uno strano bisogno di odiare tutto quello che io rappresentavo, salvo me stesso. Ma la fiducia che aveva in me non restava perciò meno totale, e su questa via la spingeva altresì a farmi confessioni compromettenti che non avrebbe fatto a nessuno. Un giorno riuscii a costringerla a portare sulle spalle un carico di munizioni fino in prima linea; ella accettò con avidità questa probabilità di morte. Ma al nostro fianco non accondiscese mai a sparare un colpo. Peccato : a sedici anni, nelle battute di caccia, aveva dimostrato di essere una perfetta tiratrice. Cercò di scoprirsi delle rivali. In queste inchieste che mi esasperavano, c'era forse meno gelosia che curiosità. Come un malato che si senta perduto, cercava ancora spiegazioni là dove non poteva più sperare rimedi. Pretese dei nomi che io ebbi l'imprudenza di non inventare. Mi assicurò un giorno che a vantaggio di una donna amata avrebbe saputo rinunziare senza dolore; voleva dire conoscersi male: se questa donna fosse esistita, Sofia l'avrebbe dichiarata indegna di me e avrebbe tentato di farmela abbandonare. L'ipotesi romanzesca di un'amante lasciata in Germania sarebbe stata assai debole contro quell'intimità dei giorni, quella vicinanza delle notti; d'altra parte, nella nostra vita raccolta su se stessa, i sospetti non potevano cadere che su due o tre creature la cui condiscendenza non avrebbe spiegato nulla, ed erano quindi sospetti che non potevano soddisfare nessuno. Sopportai scene assurde a proposito di una contadina dai capelli rossi che si incaricava di cuocerci il pane. Fu in una di quelle sere che ebbi la brutalità di dire a Sofia che se avessi avuto bisogno di una donna lei era proprio l'ultima che sarei andato a cercare. Ed era vero, ma per ben altre ragioni che la mancanza di bellezza. Apparteneva, troppo al suo sesso per non pensare, invece, che la causa fosse quella; la vidi vacillare come una serva d'albergo stordita dal pugno di un ubriaco. Usci di corsa, sali le scale afferrandosi alla ringhiera; la sentii singhiozzare e inciampare su per i gradini.
Dovette passar la notte curva sullo specchio incorniciato di bianco della sua camera di ragazza, a domandarsi se davvero il suo viso e il suo corpo non potessero piacere che a sergenti ubriachi, e se i suoi occhi, la bocca e i capelli pregiudicassero davvero l'amore che il suo cuore nutriva. Lo specchio le rimandò degli occhi infantili e angelici, un largo viso un po' informe che era la terra stessa alla svolta della primavera, un paese, e dolci campagne attraversati da ruscelli di lacrime; guance color di sole e di neve; una bocca il cui sconvolgente rosato faceva quasi tremare; e capelli biondi come quel buon pane che ormai ci mancava. Ella ebbe orrore di tutte queste cose che la tradivano, che non le erano di alcun soccorso davanti all'uomo amato, e disperatamente paragonandosi ai ritratti di Pearl White e dell'imperatrice di Russia appesi alla parete, pianse fino all'alba senza giungere a sciupare le sue palpebre di ventenne. Il giorno dopo mi accorsi che per la prima volta aveva dimenticato di mettersi per la notte quei bigodini che nelle notti d'allarme le davano l'aspetto di una Medusa dalla chioma di serpenti. Accettando definitivamente la bruttezza, ella acconsentiva con eroismo a comparirmi davanti con i capelli diritti. Io approvai quella pettinatura liscia; come avevo previsto, ella riprese coraggio; ma un residuo di inquietudine per la sua pretesa mancanza di fascino non servi che a conferirle una nuova sicurezza quasi che, liberata dal timore di esercitare su di me il ricatto della bellezza, si sentisse tanto più forte del diritto di essere considerata amica. Ero andato a Riga a discutere le condizioni dell'imminente offensiva, portando con me due compagni nell'epilettica Ford degna delle comiche americane. Le operazioni dovevano avere Kratowice come base, e Corrado era restato sul luogo per spingere i preparativi con quel miscuglio di energia e di noncuranza che non ho visto che in lui, e che rassicurava i nostri uomini. Se certe ipotesi dell'avvenire si fossero avverate, egli sarebbe stato l'ammirevole aiutante di campo di quel Bonaparte che io non mi sono curato di diventare, uno di quei discepoli ideali senza i quali il maestro non si spiegherebbe. Arrancando per due ore lungo le strade ghiacciate, fummo esposti a tutte le varietà di morti che rischia un automobilista deciso a passare in Svizzera le vacanze di Natale. Io ero esasperato dalla piega che la guerra e le mie faccende personali stavano prendendo. Partecipare alla difesa antibolscevica in Curlandia non significava soltanto pericolo di morte; la contabilità, i malati, il telegrafo e la presenza massiccia o sorniona dei nostri compagni avvelenavano a poco a poco i miei rapporti con il mio amico. La tenerezza umana ha bisogno di una cintura di solitudine e di un minimo di calma nell'insicurezza. Si fa male l'amore, o l'amicizia, in una camerata, fra due turni di lavoro al letamaio. Contro ogni aspettativa, quel letamaio era appunto ciò che, era diventata per me la vita a Kratowice. Soltanto Sofia teneva duro in quell'atmosfera di uggia sinistra e realmente mortale, ed è assai naturale che l'infelicità resista meglio alle seccature che non il suo contrario. Ma era appunto per sfuggire Sofia che io mi ero proposto per Riga.
In quel tempo di novembre la città era più lugubre che mai. Non ricordo se non l'irritazione che ci provocarono i temporeggiamenti di von Wirtz, e lo champagne atroce che bevemmo in un locale notturno russo accanto ad un'autentica ebrea di Mosca e a due donne ungheresi che si facevano passare per francesi, il cui accento parigino mi avrebbe fatto urlare. Da due mesi non sapevo più niente della moda e stentavo ad abituarmi ai ridicoli cappelli femminili conficcati fino alle orecchie. Verso le quattro del mattino mi ritrovai in una camera del solo albergo passabile di Riga in compagnia di una delle ungheresi, abbastanza lucido di spirito per dirmi che malgrado tutto avrei preferito l'ebrea. Mettiamo che in un simile conformismo alle usanze ci fosse per il novanta per cento un desiderio di non passare per un originale agli occhi dei nostri compagni, e per il resto una sfida verso me stesso: non è sempre in direzione della virtù che ci si impongono le prove maggiori. Le intenzioni di un uomo formano una matassa così imbrogliata che mi è impossibile, a tanta distanza da tutto ciò, decidere se cosi facendo speravo di avvicinarmi a Sofia per vie indirette, oppure insultarla confondendo un desiderio che sapevo essere quanto di più puro ci fosse al mondo, a una mezz'ora passata su un letto in disordine fra le braccia della prima venuta. Un po' del mio disgusto doveva necessariamente ricadere su di lei, il mio disprezzo era forse sul punto di dover essere fortificato. Non mi nascondo affatto che un timore assai basso di impegnarmi a fondo contribuiva a rendermi prudente nei confronti della ragazza; l'idea di legarmi mi ha sempre fatto orrore, e qual è la donna innamorata con la quale non ci si lega? Quella cantante da caffeuccio, a Budapest, almeno non pretendeva di impicciarsi nel mio avvenire. Bisogna tuttavia dire che si attaccò a me, durante quei quattro giorni di Riga, con una tenacia da polipo al quale le lunghe dita guantate di bianco facevano appunto pensare. In simili cuori aperti al primo venuto, c'è sempre un posto vuoto sotto un paralume rosa dove esse tentano disperatamente di installare chiunque arrivi. Lasciai Riga ripetendomi con una specie di ostinato sollievo che con quella gente, quella guerra, quel paese io non avevo in comune niente di più di quanto non avessi con quei rari piaceri inventati dall'uomo per distrarsi dalla vita. Pensando per la prima volta al domani, feci dei progetti di emigrazione in Canada con Corrado, immaginai di vivere in una fattoria sulla riva dei grandi laghi, senza pensare affatto che stavo così sacrificando parecchi dei gusti del mio amico.
Corrado e la sorella mi aspettavano sui gradini della scalinata, sotto la tettoia, alla quale le cannonate dell'estate precedente non avevano risparmiato nemmeno un vetro, così che quell'intelaiatura di ferro vuota sembrava un'enorme foglia morta e scorticata di cui non restassero che le nervature. Cadeva una pioggia obliqua, e Sofia s'era legata sul capo un fazzoletto, alla contadina. Tutti e due si erano stancati a sostituirmi durante la mia assenza: Corrado aveva un pallore madreperlaceo, e le mie inquietudini per la sua salute, che sapevo fragile, quella sera mi fecero dimenticare tutto il resto. Sofia aveva fatto portare per noi una delle ultime bottiglie di vino francese dissimulate in fondo alla cantina. I miei compagni, sbottonandosi i cappotti, presero posto a tavola e presero a raccontare con tono scherzoso quelle che per loro erano state le ore di spasso a Riga; Corrado sollevava le sopracciglia con un'espressione di sorpresa divertita e cortese; aveva fatto con me l'esperienza di simili squallide serate in reazione a se stesso, e un'ungherese di più o di meno non era per lui una sorpresa. Sofia si morse le labbra accorgendosi di aver sparso un po' di Borgogna mentre si sforzava di riempirmi il bicchiere. Uscì per andare a cercare una spugna, e per far scomparire quella macchia mise la stessa cura che avrebbe impiegato per cancellare la traccia di un crimine. Da Riga avevo portato dei libri: e quella sera, sotto il paralume improvvisato con l'aiuto di un tovagliolo, guardai Corrado addormentarsi di un sonno infantile nel letto vicino, nonostante il rumore dei passi della zia Prascovia che al piano superiore camminava su e giù notte e giorno borbottando le preghiere alle quali attribuiva la nostra relativa preservazione. Dei due, fratello e sorella, era Corrado che paradossalmente rispondeva di più all'idea che ci si fa di una fanciulla dagli antenati principeschi. La nuca abbronzata di Sofia, le sue mani screpolate strette intorno alla spugna mi avevano improvvisamente ricordato Karl, il giovane garzone di fattoria che aveva l'incarico di strigliare i poney della nostra infanzia. Dopo il viso unto, incipriato e pesto della mia ungherese, ella era insieme sciatta e incomparabile.
La prodezza di Riga torturò Sofia senza sorprenderla : per la prima volta io mi comportavo secondo la sua aspettativa. La mia intimità con lei non diminuì per questo; aumentò, anzi; e del resto simili relazioni mal definite sono pressoché indistruttibili. Eravamo, uno per l'altra, di una franchezza disordinata. Bisogna ricordare che la moda dell'epoca metteva al di sopra di tutto la sincerità totale. Invece di parlare d'amore noi parlavamo dell'amore, ingannando con l'aiuto delle parole un'irrequietudine che un altro avrebbe risolto con dei gesti, e alla quale le circostanze ci vietavano di sottrarci con la fuga. Sofia parlava senza la minima reticenza della sua unica esperienza amorosa, senza accennare, tuttavia, al fatto che fosse stata involontaria. Da parte mia io non dissimulavo niente, tranne l'essenziale. Quella ragazzina dalle sopracciglia corrugate seguiva con un'attenzione quasi grottesca le mie storie di puttane. Credo che abbia cominciato a prendersi degli amanti solo per assurgere ai miei occhi al grado di seduzione che attribuiva alle donne perdute. C'è così poca distanza fra l'innocenza totale e l'abbrutimento completo, che ella scese d'un sol colpo fino a quel livello di bassezza sensuale al quale tentava di ridursi per piacere, e io la vidi trasformarsi sotto i miei occhi in modo altrettanto sbalorditivo e quasi altrettanto convenzionale che su un palcoscenico. Da principio non furono che dei particolari, patetici per troppa ingenuità: trovò il mezzo di procurarsi dei cosmetici, scoprì le calze di seta. Quegli occhi impiastricciati di rimmel (e non ne avevano affatto bisogno per sembrar pesti), quegli zigomi rossi e sporgenti, non riuscivano a disgustarmi di quel viso più di quanto l'avrebbero potuto le cicatrici dei miei stessi colpi. Mi pareva che quella bocca un tempo divinamente pallida non mentisse poi tanto sforzandosi di fingere di sanguinare. Due o tre ragazzi, e Franz von Aland fra gli altri, tentarono di catturare quella grande farfalla divorata sotto i loro occhi da una fiamma inesplicabile. Io stesso, tanto più sedotto in quanto lo erano gli altri, mentre attribuivo in malafede le mie esitazioni a degli scrupoli, arrivavo a rimpiangere che Sofia dovesse proprio essere la sorella della sola creatura verso la quale io mi sentissi legato da una specie di patto. Eppure non l'avrei guardata nemmeno una seconda volta se non avesse avuto per me i soli occhi che importavano.
L'istinto delle donne è così corto che è facile con loro sostenere la parte dell'astrologo: quel ragazzo mancato segui la grande strada polverosa delle eroine di tragedia : si stordì per dimenticare. Le chiacchiere, i sorrisi, le danze selvagge al suono di un grammofono stridente, le passeggiate arrischiate nella zona del fuoco, ripresero con dei giovani che meglio di me seppero profittarne. Franz von Aland fu il primo a beneficiare di quella fase tanto inevitabile nelle donne innamorate e insoddisfatte, quanto il periodo agitato nelle paralisi totali. Egli aveva concepito per Sofia un amore press'a poco altrettanto servile di quello che la ragazza provava per me. Accettò con gioia di essere un surrogato: le sue ambizioni non miravano a tanto. Quand'era solo con me, Franz aveva l'aria di prepararsi a offrirmi le banali giustificazioni di un escursionista che si è spinto su una strada privata. Sofia doveva vendicarsi di lui, di me e di se stessa raccontandogli instancabilmente del nostro amore: la sottomissione sgomenta di Franz non era l'ideale per riconciliarmi con l'idea della felicità che viene dalle donne. Ripenso ancor oggi con una specie di pietà a quella sua aria di cane intento a leccare lo zucchero che gli veniva, nonostante tutto, dalle minime compiacenze di una Sofia sdegnosa, esasperata e facile. Quel buon ragazzo sfortunato che nel corso della sua breve esistenza era riuscito ad accumulare ogni sorta di disdette, dai tempi del collegio da cui si era fatto espellere per un furto che non aveva commesso, fino al massacro della famiglia da parte dei bolscevichi nel 1917 e poi fino ad una grave operazione d'appendicite, doveva cader prigioniero qualche settimana più tardi: il suo cadavere di suppliziato fu scoperto con una piaga nerastra intorno al collo, prodotta dalla lunga miccia flessibile di uno stoppino consumato. Sofia apprese la notizia dalla mia bocca, con tutte le attenuanti possibili, e non mi accorò constatare che quell'immagine atroce non faceva che sovrapporsi in lei a tante altre, senza una particolare sfumatura di dolore. Ci furono nuovi episodi carnali provocati dal medesimo bisogno di far tacere un momento quell'insopportabile monologo d'amore che non cessava di perpetrare al fondo di se stessa, episodi poi interrotti con un senso di vergogna dopo qualche goffo abbraccio, dalla stessa incapacità di dimenticare. La più odiosa fra queste vaghe comparse fu per me un certo ufficiale russo scampato alle prigioni bolsceviche, che stette otto giorni con noi prima di partire per la Svezia, incaricato di una misteriosa e fantomatica missione presso uno dei Granduchi. Fin dalla prima sera avevo colto sulle labbra di quell'ubriacone certe incredibili storie di donne dai particolari appassionatamente circostanziati che mi aiutarono fin troppo a immaginarmi ciò che succedeva tra Sofia e lui sul divano di cuoio della casetta del giardiniere. Sarei stato ormai incapace di tollerare la vicinanza della ragazza se avessi letto sia pure una sola volta sul suo viso qualcosa che si avvicinasse alla felicità. Ma lei mi confessava tutto. Le sue mani mi toccavano ancora con certi piccoli gesti scoraggiati che assomigliavano a brancolamenti da cieco più che a carezze, e ad ogni nuovo mattino mi vedevo davanti una donna ridotta alla disperazione perché l'uomo che amava non era quello con cui aveva passato la notte.
Una sera, circa un mese dopo il mio ritorno da Riga, stavo lavorando in cortile insieme a Corrado che faceva del suo meglio per trarre qualche boccata di fumo da una lunga pipa tedesca. Ero appena rientrato dal villaggio dove i nostri uomini con l'aiuto di pali si sforzavano di consolidare alla meno peggio le trincee di fango; era una di quelle notti di nebbia fitta, le più rassicuranti di tutte, in cui da una parte e dall'altra le ostilità si interrompevano essendosi il nemico del tutto dileguato. La mia blusa inzuppata stava fumando sulla stufa alimentata da Corrado con pezzetti di orribile legna umida sacrificati ad uno ad uno con il sospiro di rimpianto di un poeta che veda incendiarsi i suoi alberi, quando il sergente Chopin entrò per consegnarmi un messaggio. Dal vano della porta la sua faccia rossa e inquieta mi ammiccò al di sopra della testa reclina di Corrado. Lo seguii sul pianerottolo; questo Chopin, che nella vita civile era impiegato di banca a Varsavia, era figlio di un intendente polacco del conte di Reval; aveva moglie, due figli, del buon senso e un'adorazione tenera per Corrado e la sorella che lo trattavano da fratello di latte. Fin dagli inizi della rivoluzione aveva raggiunto Kratowice dove da allora assolveva l'incarico di uomo di fiducia. Mi bisbigliò che attraversando l'interrato aveva trovato Sofia completamente ubriaca appoggiata alla grande tavola della cucina, sempre deserta a quell'ora, e che nonostante le sue insistenze senza dubbio malaccorte, non era riuscito a convincere la ragazza a risalire in camera sua. " Insomma, signore," mi disse (mi chiamava signore), " pensi che vergogna proverebbe domani se qualcuno la vedesse in quello stato... "
L'eccellente uomo credeva ancora al pudore di Sofia, e lo strano è che non si sbagliava. Scesi la scala a chiocciola sforzandomi di non far scricchiolare sui gradini i miei stivali induriti dalla mancanza di lucido. In quella notte di tregua, nessuno era sveglio a Kratowice; un russare confuso giungeva dal salone del primo piano dove trenta ragazzi esausti dormivano come un solo uomo. Sofia era seduta in cucina davanti alla grande tavola di legno bianco; si dondolava mollemente sui piedi ineguali di una sedia il cui schienale faceva con il pavimento un angolo preoccupante, ed esibiva ai miei occhi delle gambe in- guainate di seta rosa, più degne di un giovane dio che di una giovane dea. Una bottiglia con un fondo di liquore oscillava in cima al suo braccio sinistro. Era incredibilmente ubriaca, e alla luce della stufa mostrava un viso chiazzato di rosso. Le posai una mano sulla spalla: per la prima volta ella non ebbe a contatto di me quel suo fremito orribile e delizioso di uccello ferito; l'euforia del cognac l'immunizzava contro l'amore. Volse verso di me un viso dallo sguardo vacuo e mi disse con una voce turbata come i suoi occhi :
" Vai a dar la buona notte a Texas, Eric. È sdraiato nell'ufficio. "
Accesi un fiammifero per dirigermi in quello sgabuzzino dove s'inciampava su montagnole crollanti di patate germogliate. Il buffo cagnolino era steso sotto lo scheletro di una vecchia carrozzina da bambini; seppi in seguito che era stato ucciso dallo scoppio di una granata seppellita nel parco, che lui si era sforzato di dissotterrare con la punta del suo musetto nero, quasi si trattasse di un tartufo. Così maciullato sembrava un botolino schiacciato da un tram in un'arteria di grande città. Io sollevai con grande precauzione quel ripugnante involto, presi una zappa e uscii in cortile per scavargli una buca. La superficie del suolo era stata sgelata dalla pioggia; e seppellii Texas in quel fango dove, da vivo, si rotolava con tanto piacere.
Quando rientrai in cucina Sofia si era appena scolata l'ultima goccia di cognac; gettò la bottiglia fra le braci dove le pareti di vetro scoppiarono con rumore sordo, si alzò goffamente e appoggiandosi alla mia spalla disse con voce molle: " Povero Texas... in fondo è davvero un peccato. Non c'era che lui a volermi bene..."
La sua bocca emanava odore di alcool. Sulla scala le gambe le vennero meno e io la sostenni sotto le braccia lungo i gradini sui quali lasciò una lunga traccia di vomito; avevo l'impressione di ricondurre in cabina una viaggiatrice colta dalla nausea. Piombò su una poltrona nella sua cameretta in disordine mentre io mi occupavo di rivoltarle la coperta del letto. Aveva le mani e le gambe gelate. Le ammonticchiai addosso parecchie coperte e un mantello. Appoggiata a un gomito ella continuava a vomitare senza accorgersene, la bocca aperta come la statua di una fontana. Infine si distese nel centro del letto, inerte, piatta, sudaticcia come un cadavere; i capelli incollati alle guance sembravano bionde cicatrici sul suo viso. Il suo polso andava alla deriva sotto le mie dita, follemente agitato e insieme quasi insensibile. Doveva aver conservato al fondo del suo essere quella lucidità che è tipica dell'ubriachezza, della paura e della vertigine se riuscì a raccontarmi di aver provato per tutta quella notte le sensazioni di un viaggio in slitta o su un taboga da montagne russe, e i soprassalti, il freddo, il sibilo del vento e delle arterie, l'impressione di filare immobile e a tutta velocità verso un abisso di cui non si ha nemmeno più paura. Conosco questo sentimento di mortale velocità che dà l'alcool a un cuore che cede. Ella ha sempre creduto che quella veglia da buon samaritano al capezzale del suo letto sudicio mi abbia, lasciato uno dei ricordi più ripugnanti della mia vita. Sarebbe difficile per me dirle che quel pallore, quelle chiazze, quel rischio e quell'abbandono più completo che nell'amore, erano rasserenanti e belli; e quel corpo pesantemente rilasciato mi ricordava quello dei miei compagni ricoverati nello stesso stato, e di Corrado stesso... Ho dimenticato di dire che liberandola dei vestiti avevo osservato all'altezza del seno sinistro una lunga cicatrice da coltello che si era limitata ad incidere profondamente la carne. Ella mi confessò in seguito un maldestro tentativo di suicidio. Apparteneva al mio periodo o a quello del satiro lituano? Non l'ho mai potuto sapere. E fin dove è possibile, non mento.
Il sergente Chopin non si era sbagliato : in seguito a questo incidente Sofia cadde in una confusione da collegiale che abbia bevuto troppo champagne a un pranzo di nozze. Io beneficiai per qualche giorno di un'amica malinconica e ragionevole, ogni sguardo della quale sembrava dir grazie o domandare scusa. Nei baraccamenti avevamo qualche caso di tifo; ella insistette per curare i malati, e né io né Corrado riuscimmo a dissuaderla; finii per abbandonare al suo destino quella pazza decisa, pareva, a morirmi sotto gli occhi. Non passò una settimana e dovette mettersi a letto. La si credette contagiata. Non soffriva che di scoraggiamento, di esaurimento, delle stanchezze di un amore che cambiava senza tregua di forma come una malattia nervosa che ogni giorno presenti nuovi sintomi; di una mancanza e insieme di un eccesso d'amore. Era il mio turno, ora, di entrare ogni mattina all'alba nella sua camera. Tutta Kratowice ci credeva amanti, e questo la lusingava, suppongo, ed in fondo a me conveniva. M'informavo della sua salute con una sollecitudine da amico di famiglia; seduto sul suo letto, ero ridicolmente fraterno. Se la mia dolcezza fosse stata calcolata per tormentare ancor più Sofia, il risultato non avrebbe potuto essere più perfetto. Con le ginocchia sollevate sotto le coperte e il mento nelle mani, ella fissava su di me gli enormi occhi stupiti, gonfi di inesauribili lacrime. Quelle attenzioni, quella tenerezza, quelle mani carezzevoli passate nei suoi capelli, com'era lontano il tempo in cui Sofia se ne sarebbe deliziata con buona coscienza. Il ricordo degli amorazzi dei mesi precedenti le davano quella voglia di fuggire chissà dove purché fuori di sé, che è ben nota agli infelici che non si sopportano più. Come un'ammalata sul punto di morire tentava di sollevarsi dal letto. Io la facevo ridistendere; la avviluppavo in quelle lenzuola dove sapevo che dopo la mia uscita si sarebbe disperatamente rivoltolata. Se alzavo le spalle dichiarando che tutti quei suoi esercizi fisici non avevano importanza, con il pretesto di calmare i suoi rimorsi infliggevo al suo amor proprio la più perfida delle ferite. A quel qualcosa di più profondo, anzi, di più essenziale dell'amor proprio che è l'inconscia stima che un corpo ha di se stesso. Alla luce di questa nuova indulgenza, le mie durezze, i miei dinieghi, i miei stessi sorrisi presero per lei l'aspetto di una prova di cui non aveva colto bene l'importanza, di un esame che non era ancora riuscita a superare. Come un nuotatore esausto, sentiva che stava affondando a due bracciate dalla riva, nel momento in cui forse avrei cominciato ad amarla. L'avessi presa ora, avrebbe pianto di orrore pensando che non aveva avuto il coraggio di aspettarmi. Sofferse tutti i tormenti delle donne adultere punite con la dolcezza, e questa disperazione veniva ancora aggravata dai rari istanti di lucidità in cui Sofia ricordava che dopotutto non doveva serbarmi il suo corpo. Tuttavia la collera, la ripugnanza, l'intenerimento, un vago rimorso da parte mia e un odio nascente da parte sua, tutti gli opposti, insomma, ci incollavano l'uno all'altro come due amanti o due danzatori. Quel legame tanto desiderato esisteva davvero fra di noi, e il peggior supplizio della mia Sofia è stato certamente di sentirlo così soffocante e insieme così impalpabile.
Una notte (poiché ormai quasi tutti i miei ricordi di Sofia sono notturni tranne l'ultimo che ha il colore pallido dell'alba), una notte, dunque, di bombardamento aereo, mi accorsi che un quadrato di luce si stagliava sul balcone di Sofia. Quel genere di attacco era stato raro fino allora nella nostra guerra di uccelli di palude; era la prima volta a Kratowice che la morte ci cadeva dal cielo. Era inammissibile che Sofia volesse richiamare il pericolo, non soltanto su di sé, ma sui suoi e su noi tutti. Ella abitava al secondo piano, nell'ala sinistra; la porta era chiusa, ma senza chiavistello. Sofia era seduta davanti al tavolo, nell'alone luminoso di una grossa lampada a petrolio. La porta-finestra, aperta, incorniciava il paesaggio chiaro di una notte ghiacciata. I miei sforzi per chiudere le imposte gonfiate dalle recenti piogge d'autunno mi ricordarono le finestre sprangate in fretta, nelle sere di temporale, negli alberghi di montagna ai tempi della mia infanzia. Sofia mi guardava fare, con una smorfia triste. Finalmente mi disse:
"Eric, ti secca che io muoia? "
Detestavo quelle inflessioni rauche e tenere che aveva adottato da quando s'era messa a sostenere la parte di una ragazza da strada. Il fracasso di una bomba mi evitò di rispondere. Era all'est, dalla parte dello stagno, e ciò mi fece sperare che l'uragano si allontanasse. Seppi il giorno dopo che la granata era caduta sulla capanna: canne falciate galleggiarono sull'acqua per qualche giorno mescolate ai ventri bianchi dei pesci morti e ai frammenti di un canotto squartato.
" Si," riprese lentamente con il tono di chi cerca di chiarirsi a se stesso, " ho paura, ed è sbalorditivo, se ci penso. Infatti dovrebbe essermi indifferente, no? " " Come preferisci, Sofia, " risposi io con durezza, " ma quella vecchia disgraziata abita in una camera a due passi dalla tua. E Corrado... "
" Oh, Corrado, " disse con un accento di infinita stanchezza, e si alzò appoggiandosi con le due mani al tavolo come un'inferma che esiti nel lasciare la poltrona.
La sua voce implicava tanta indifferenza nei confronti del fratello da farmi sospettare che avesse cominciato a odiarlo. Ma era semplicemente arrivata a quello stato di abbrutimento dove più niente conta, e aveva cessato di preoccuparsi del bene dei suoi e insieme di ammirare Lenin.
" Sovente, " disse avvicinandosi a me, " penso che non avere paura sia un male. Ma se io fossi felice," continuò, e aveva ritrovato quella voce insieme rude e dolce che nonostante tutto, è mio malgrado, mi commuoveva come le note basse di un violoncello, " mi sembra che non m'importerebbe niente della morte. Cinque minuti di felicità sarebbero come un segno che Dio mi mandasse. E tu, sei felice,
Eric? "
" Si, sono felice, " io dissi controvoglia, accorgendomi all'improvviso di dire una menzogna.
" Ah, davvero non ne hai l'aria, " riprese con un tono malizioso da cui traspariva la scolara d'un tempo. " Ed è perché sei felice che non t'importa niente di morire?" Aveva l'aria di una piccola serva malamente risvegliata a mezzanotte da un colpo di campanello, con lo scialle nero e liso sopra la camicia di flanella da collegiale. Io non saprò mai perché feci quel gesto ridicolo e assurdo di riaprire la finestra. Il taglio degli alberi tanto deplorato da Corrado aveva messo a nudo il paesaggio; la vista spaziava fino al fiume dove, come tutte le notti, si rispondevano colpi di fuoco intermittenti e inutili. L'aereo nemico girava ancora nel cielo verdastro, e il silenzio era pieno del mormorio inutile del motore, come se tutto lo spazio non fosse che una camera dove una vespa gigantesca stesse goffamente volteggiando. Trascinai Sofia sul balcone come un amante nel chiaro di luna; guardavamo in basso il grosso pennello luminoso della lampada oscillare sulla neve in capo al suo filo. Non doveva esserci molto vento se il riflesso muoveva appena. Con il braccio passato intorno alla vita di Sofia, io avevo l'impressione di auscultare il suo cuore; quel cuore affaticato esitava, poi ripartiva, con un ritmo che era quello stesso del coraggio, e il mio solo pensiero, a quanto ricordo, era che se avessimo dovuto morire quella notte era nonostante tutto vicino a lei che avrei voluto che succedesse. All'improvviso un terribile fracasso scoppiò vicino a noi; Sofia si turò le orecchie come se quel frastuono fosse più spaventoso della morte. Questa volta la granata era caduta a meno di un tiro di pietra, sul tetto di lamiera ondulata della scuderia: quella notte due dei nostri cavalli pagarono per noi. Nell'incredibile silenzio che seguì, sentimmo ancora il rumore di un muro in mattoni che non la finiva più di rovinare in piccoli crolli successivi, e il nitrito orribile di un cavallo che muore. Alle nostre spalle il vetro si era frantumato, e rientrammo nella camera camminando su scaglie che si sbriciolavano. Spensi la lampada come la si riaccende dopo aver fatto l'amore.
Ella mi seguì nel corridoio. Là, un'innocua lampada velata continuava ad ardere ai piedi di una delle pie immagini della zia Prascovia. Il respiro di Sofia era precipitato; aveva il viso radiosamente pallido, e questo mi dimostrò che mi aveva capito. Con la mia Sofia io ho vissuto momenti ancora più tragici, ma nessuno fu più solenne di quello, né più vicino a uno scambio di giuramenti. Nella mia vita, la sua ora è stata quella. Alzò le mani striate dalla ruggine della ringhiera dov'eravamo stati appoggiati insieme, e si gettò sul mio petto come se in quello stesso momento fosse stata ferita.
Quel gesto che ella aveva impiegato qualcosa come dieci settimane per compiere, io lo accettai, e questa è la cosa più sorprendente. Ora che lei è morta e che io ho cessato di credere ai miracoli, sono riconoscente a me stesso di aver baciato almeno una volta quella bocca e quei capelli ispidi. Quella donna, simile a un immenso paese conquistato in cui io mi fossi proibito di entrare, in ogni caso mi ricordo l'esatto grado di tepore che aveva quel giorno la sua saliva, e l'odore della sua viva pelle. E se mai avessi potuto amare Sofia con tutta la semplicità dei sensi e del cuore, sarebbe stato proprio in quel minuto in cui avevamo tutti e due un'innocenza da resuscitati. Ella palpitava contro di me, e nessun incontro femminile dovuto alla prostituzione o all'avventura mi aveva preparato a una simile violenta, orribile dolcezza. Quel corpo insieme disfatto e irrigidito dalla gioia mi pesava fra le braccia con un peso altrettanto misterioso di quello che avrebbe avuto la terra se qualche ora prima io fossi entrato nella morte. Non so in che momento la delizia si trasformò in orrore, scatenando in me il ricordo di quella stella di mare che un tempo mia madre mi aveva messo a forza nella mano, sulla spiaggia di Scheveningen, provocando in tal modo in me, fra lo sbigottimento dei bagnanti, una crisi di convulsioni. Mi strappai a Sofia con uno scatto selvaggio che dovette sembrar ben crudele a quel corpo che la felicità privava di difese. Riaprì le palpebre (le aveva chiuse) e vide sul mio viso qualcosa senza dubbio più insopportabile dell'odio o dello spavento giacché indietreggiò, si coprì la faccia con il gomito alzato, simile a una bambina schiaffeggiata, e fu l'ultima volta che la vidi piangere sotto i miei occhi. Ebbi ancora con lei due incontri senza testimoni, prima che ogni cosa si compisse. Ma a partire da quella sera tutto avvenne come se uno di noi fosse già morto: io, per quello che la riguardava, o lei, in quella parte di se stessa che a forza di amarmi mi aveva aperto un credito illimitato.
Ciò che può sembrare più simile alle fasi monotone di un amore, sono le infaticabili e sublimi tiritere dei quartetti di Beethoven. Durante quelle cupe settimane di Avvento - e la zia Prascovia, moltiplicando i giorni di digiuno ci faceva rispettare alla lettera il calendario della Chiesa, - la vita continuò per noi con la solita percentuale di miserie, irritazioni e catastrofi. Io vidi o appresi la morte di qualcuno dei miei rari amici; Corrado fu ferito leggermente; del villaggio, preso e ripreso per tre volte, non sussisteva che qualche spezzone di muro che andava sbriciolandosi sotto la neve. Quanto a Sofia era calma, risoluta, servizievole e tetragona. Fu verso quest'epoca che Volkmar installò al castello i suoi quartieri d'inverno, con gli avanzi di un reggimento che ci mandava con Wirtz. Dopo la morte di Franz von Aland il nostro piccolo corpo di spedizione tedesco si era andato sfilacciando di giorno in giorno, rimpiazzato da un miscuglio di elementi baltici e russi bianchi. Io conoscevo quel Volkmar per averlo odiato a quindici anni dal professore di matematica dove andavamo a Riga tre volte la settimana. Mi somigliava come una caricatura somiglia al modello: era corretto, arido, ambizioso e interessato. Apparteneva a quel tipo di uomini insieme stupidi e nati per il successo, incapaci di accorgersi di un fatto nuovo se non nella misura in cui ne profittano, e che fondano i loro calcoli sulle costanti della vita. Senza la guerra Sofia non sarebbe stata per lui; ed egli si gettò sull'occasione. Sapevo già che una donna sola in piena caserma acquista sugli uomini un prestigio che sta fra l'operetta e la tragedia. Ci avevano creduto amanti, ciò che era letteralmente falso; non passarono quindici giorni e già li davano per fidanzati. Io avevo sopportato senza soffrire gli incontri di una Sofia semisonnambula che non servivano, se servivano, che a procurarle qualche momento di oblio. Il legame con Volkmar mi inquietò perché lei me lo nascose. Non dissimulava nulla; mi toglieva semplicemente il diritto di guardare nella sua vita. Certo, ero meno colpevole verso di lei di quanto non lo fossi stato all'inizio della nostra intesa, ma siamo sempre puniti fuori stagione. Tuttavia Sofia era abbastanza generosa da conservare nei miei confronti delle premure affettuose, e tanto più lo era perché forse cominciava a giudicarmi. Io mi ingannavo dunque sulla fine di quest'amore come mi ero ingannato sul suo inizio. Talvolta mi capita ancora di credere che ella mi amò fino all'ultimo respiro. Ma diffido di un'opinione nella quale il mio orgoglio è talmente implicato. C'era in Sofia una salute di base abbastanza solida da garantirle tutte le convalescenze amorose: mi capita talvolta di immaginarla moglie di Volkmar, padrona di casa circondata da bambini, con un corpo leggermente ingrossato di quarantenne, stretto in un busto elastico color rosa. Ciò che pregiudica questa visione è che la mia Sofia è morta nell'esatta atmosfera e nella luce che appartenevano al nostro amore. In questo senso, come si diceva allora, ho dunque l'impressione di aver vinto la guerra. Per esprimermi in modo meno odioso, diciamo semplicemente che io avevo visto più giusto nelle mie deduzioni che non Volkmar nei suoi calcoli, e che tra Sofia e me esisteva senza dubbio un'affinità di specie. Ma durante quella settimana di Natale, Volkmar ebbe l'asso nella manica.
Mi capitava ancora di bussare la notte alla porta di Sofia per umiliarmi nel constatare che non era sola; un tempo, ossia un mese prima, le risate false e provocanti di Sofia nelle stesse circostanze mi avrebbero rassicurato quasi come l'avrebbero potuto le sue lacrime. Ma la porta mi veniva aperta; la gelida correttezza della scena contrastava con l'antico disordine di biancheria sparsa e di fiaschette di liquore: e Volkmar mi tendeva con un gesto secco l'astuccio delle sigarette. Essere risparmiato è per me la prova più difficile; giravo i tacchi immaginando i bisbigli e i baci scialbi che sarebbero ricominciati dopo la mia uscita. Parlavano di me, del resto, e avevo ragione di esserne certo. Fra Volkmar e me esisteva un odio cosi cordiale che talvolta mi domando se non avesse gettato gli occhi su Sofia soltanto perché l'intera Kratowice ci considerava in coppia. Ma bisogna pure che io abbia tenuto a quella donna più appassionatamente di quanto credessi se faccio tanta fatica ad ammettere che quell'imbecille abbia potuto amarla.
Non ho mai visto una veglia di Natale più allegra di quella di Kratowice durante quell'inverno di guerra. Irritato dai preparativi ridicoli di Corrado e di Sofia, io mi ero eclissato con la scusa di un rapporto da finire. Verso mezzanotte la curiosità, la fame, il rumore delle risate e il suono un po' logoro di uno dei miei dischi preferiti mi spinsero verso il salone dove i danzatori volteggiavano alla luce di un fuoco di legna e di due dozzine di lampade scompagnate. Ancora una volta avevo l'impressione di non partecipare all'altrui allegria: e benché l'esclusione fosse dovuta alla mia volontà, me ne veniva una certa amarezza. Una cena di prosciutto crudo, di mele e di whisky era stata preparata su una delle mensole dalla pesante doratura; Sofia aveva fatto il pane con le sue stesse mani. L'enorme mole di Paul Rugen mi nascondeva metà della camera; con un piatto sulle ginocchia, quel gigante liquidava rapidamente la sua parte di vettovaglie, impaziente come sempre di raggiungere il suo ospedale installato nelle antiche rimesse del principe Pietro; avrei perdonato a Sofia se avesse fatto cenno a lui piuttosto che a Volkmar. Chopin che aveva una solitaria predilezione per i giochi di società, si ingegnava a costruire un edificio di fiammiferi usati nella pancia sventrata di una bottiglia; Corrado s'era tagliuzzato un dito con la sua solita goffaggine tentando di distribuire il prosciutto in fette estremamente sottili; con un fazzoletto annodato intorno all'indice sfruttava il profilo di quella fasciatura per variare sul muro le ombre proiettate dalle sue mani. Era pallido e zoppicava ancora per via della recente ferita. Di tanto in tanto smetteva di gesticolare per dare la corda al grammofono.
La Paloma aveva ceduto il posto a non so quale primizia dal suono nasale: ad ogni giro Sofia cambiava cavaliere. Ballare era ancora la cosa che sapeva far meglio : turbinava come una fiamma, ondeggiava come un fiore, scivolava come un cigno. Aveva messo il vestito di tulle azzurro alla moda del 1914, la sola toilette da ballo che abbia posseduto in vita sua, in tutto messa, che io sappia, non più di due volte. Quel vestito fuori moda e insieme nuovo fiammante bastava per trasformare in un'eroina da romanzo la nostra compagna della vigilia. Poiché le sole invitate alla festa erano le innumerevoli fanciulle in tulle blu che gli specchi ci rimandavano, il resto dei giovani erano ridotti a ballare in coppia fra di loro. Il mattino stesso, nonostante la sua gamba malata, Corrado si era ostinato ad arrampicarsi in cima ad una quercia per impadronirsi di un cespo di vischio; una simile imprudenza da monello, aveva provocato la prima delle due sole liti che io abbia mai avuto con il mio amico. L'idea del vischio veniva da Volkmar; sospeso al buio lampadario che nessuno di noi aveva acceso dal tempo dei Natali della nostra infanzia, serviva da pretesto ai giovani per baciare la ballerina. Ognuno di quei ragazzi incollò a turno le sue labbra a quelle di una Sofia altera, divertita, condiscendente, bonaria o tenera. Quando entrai nel salone era la volta di Volkmar; ella scambiò con lui un bacio nel quale fatalmente dovevo riconoscere il contrario dell'amore, ma che senza dubbio voleva dire allegria, confidenza, accordo. La frase:
" Eccoti dunque, Eric, non si aspettava più che te ! " di Corrado obbligò Sofia a volgere la testa. Io stavo nel vano di una porta, lontano dalle luci, dalla parte della sala dei concerti. Sofia era miope; tuttavia mi riconobbe giacché socchiuse gli occhi. Appoggiò le mani su quelle odiate spalline che i Rossi inchiodavano talvolta nella carne degli ufficiali bianchi prigionieri, e slanciandosi una seconda volta verso il viso di Volkmar gli diede un bacio che era una sfida. Il suo compagno si curvava su di lei con un viso insieme intenerito ed illuminato; se questa espressione è tipica dell'amore, le donne sono pazze a non fuggirci, e la mia diffidenza nei loro confronti non è senza ragione. Con le spalle nude nel suo vestito azzurro e gettando indietro i corti capelli che si era bruciacchiati nel tentativo di arricciarli con il ferro, Sofia presentava a quella canaglia le labbra più invitanti e più false che mai attrice cinematografica abbia offerto guardando con la coda dell'occhio la macchina da presa. Era troppo. Io la presi per un braccio e la schiaffeggiai. L'urto o la sorpresa furono così grandi che ella indietreggiò, fece un giro su se stessa, inciampò contro una sedia e cadde. Un po' di sangue dal naso aggiunse una nota di ridicolo a tutta la scena.
Lo stupore di Volkmar fu tale che ebbe un attimo di esitazione prima di gettarsi su di me. Rugen s'interpose, e mi pare proprio che mi fece sedere di prepotenza su una poltrona Voltaire. Una scena di pugilato rischiò tuttavia di metter fine alla festa ; in pieno tumulto Volkmar si sgolava a pretendere scuse; ci credettero ubriachi, ciò che sistemò la faccenda. Partivamo il giorno dopo per una missione pericolosa e non ci si batte con un compagno, la notte di Natale, per una donna di cui non ci importa niente. Mi fecero stringere la mano di Volkmar e non mi restò che imprecare contro me stesso. Quanto a Sofia, era scomparsa in un gran fruscio di tulle. Strappandola al suo ballerino avevo rotto il fermaglio dell'esile filo di perle che portava al collo e che le era stato regalato dalla nonna Galitzine nel giorno della cresima. Quel ninnolo inutile veniva trascinato qua e là sul pavimento. Mi chinai e con un gesto meccanico me lo misi in tasca. Non ho mai avuto occasione di restituirlo a Sofia. Ho pensato sovente di venderlo, in uno dei miei periodi di magra, ma le perle erano ingiallite e nessun gioielliere ne avrebbe voluto sapere. Le ho ancora, o piuttosto le avevo ancora, al fondo di una valigetta che quest'anno mi è stata rubata in Spagna. Ci sono degli oggetti che conserviamo, così, chissà perché.
Quella notte i miei andirivieni dalla finestra all'armadio fecero il paio, per regolarità, con quelli della zia Prascovia. Ero scalzo, e i miei passi sull'impiantito non potevano svegliare Corrado addormentato dietro le cortine del letto. Per dieci volte, cercando nel buio le scarpe e la giacca, decisi di andare a raggiungere Sofia nella sua camera dove questa volta ero sicuro di trovarla sola. Mosso dal ridicolo bisogno di chiarezza proprio di un cervello appena adulto, ero ancora al punto di domandarmi se amavo quella donna. Certo era mancata fin qui a questa passione la prova di cui i meno grossolani fra di noi si servono per dare autenticità all'amore, e a questo proposito Dio sa se serbavo rancore a Sofia per le mie proprie esitazioni. Ma la disgrazia di quella fanciulla abbandonata al primo venuto era che con lei non ci si poteva impegnare se non per tutta la vita. In un'epoca in cui tutto andava alla malora, io mi dicevo che quella donna, almeno, era solida come la terra sulla quale si può costruire o distendersi. Sarebbe stato bello ricominciare il mondo con lei, in una solitudine da naufraghi. Sapevo che fino a quel momento non avevo vissuto che nei miei limiti; la mia posizione sarebbe diventata insostenibile; Corrado sarebbe invecchiato, io anche, e la guerra non avrebbe giustificato tutto per sempre. Ai piedi dell'armadio a specchi, certi dinieghi che non erano tutti ignobili riprendevano il sopravvento su certi consensi che non erano tutti disinteressati. Mi domandavo con un supposto sangue freddo che cosa contavo di fare di quella donna, e certo non ero preparato a immaginarmi cognato di Corrado. Non si butta a mare, per un dubbio intrigo con la sorella, un amico divinamente giovane e vecchio di vent’anni. Poi, come se la mia spola nella camera mi avesse ricondotto all'altra estremità del pendolo, ridiventavo per qualche minuto quel personaggio così bravo nel farsi beffe delle sue complicazioni personali, e che senza dubbio assomigliava in ogni tratto a tutti quelli della mia razza che prima di me si erano cercati una fidanzata. Quel ragazzo più semplice di me stesso palpitava come uno qualsiasi al ricordo di un seno bianco.
Un po' prima dell'ora in cui il sole si sarebbe levato, se avesse potuto levarsi nella bruma di quei giorni, sentii quel dolce rumore di fantasma che fanno le vesti femminili tremolanti nel vento di un corridoio, il raspare simile a quello di un animale di casa che chieda di farsi aprire dal padrone e quel respiro affrettato di donna che ha corso fino al fondo del suo destino. Sofia parlava a voce bassa, con la bocca premuta contro la parete di quercia, e le quattro o cinque lingue che le erano familiari compreso il francese e il russo le servivano per variare quelle goffe parole che sono in ogni paese le più trite e le più pure:
" Eric, " disse infine. " Eric, mio solo amico, ti supplico di perdonarmi. " " Sofia, cara, sto per partire... trovati stamane in cucina all'ora della partenza.
Bisogna che ti parli... perdonami. "
" Eric, sono io che ti chiedo perdono... "
Chi pretenda di ricordare tutta una conversazione parola per parola, mi è sempre sembrato un bugiardo o un mitomane. A me non ne restano mai che frammenti, un testo pieno di lacune, simile a un documento corroso dai tarli. Le mie stesse parole io non le capisco più, nemmeno nell'istante in cui le pronuncio. Quanto a quelle del mio interlocutore, esse mi sfuggono, e io non ricordo che il movimento di una bocca a portata delle mie labbra. Tutto il resto non è che una arbitraria e falsa ricostruzione, ed è così per tutte le frasi che cerco qui di richiamarmi alla memoria. Se mi ricordo press'a poco tutte le povere banalità scambiate fra di noi quella notte, è senza dubbio perché furono le ultime dolcezze che Sofia mi abbia detto in vita sua. Dovetti rinunziare a far girare senza rumore la chiave della serratura. Si crede di esitare, o di essersi deciso, ma è con le piccole ragioni accidentali che le leve segrete si tradiscono. La mia viltà o il mio coraggio non arrivavano fino a porre Corrado faccia a faccia con una spiegazione. Corrado aveva avuto l'ingenuità di non vedere nel mio gesto della sera prima se non una protesta contro la confidenza che il primo venuto poteva prendersi con sua sorella : ancor oggi non so se mi sarei mai rassegnato a confessargli che per quattro mesi, giorno su giorno, io gli avevo mentito per omissione. Il mio amico si agitava nel sonno, con i gemiti involontari che gli strappava l'attrito della gamba malata contro il lenzuolo; io tornai a stendermi sul letto con le mani sotto la nuca e mi sforzai di non pensare che alla spedizione del giorno dopo. Se avessi posseduto Sofia quella notte, credo che avrei goduto avidamente di quella donna che agli occhi di tutti avevo marchiato come una cosa che mi appartenesse in proprio. Sofia finalmente felice sarebbe stata senza dubbio pressoché invulnerabile agli attacchi che ben presto ci avrebbero separati per sempre: l'iniziativa della rottura sarebbe dunque fatalmente partita da me. Dopo qualche settimana di delusione o di delirio, il mio vizio che era insieme disperante e indispensabile mi avrebbe riguadagnato; e comunque lo si pensi, questo vizio riguarda molto meno l'omosessualità che la solitudine. Nella solitudine le donne non possono vivere e immancabilmente la saccheggiano, non fosse che sforzandosi di costruirvi un giardino. L'essere che malgrado tutto mi costituisce in ciò che ho di più inesorabilmente personale avrebbe ripreso il sopravvento e, volente o nolente, io avrei abbandonato Sofia come un capo di stato abbandona una provincia troppo lontana dalla metropoli. L'ora di Volkmar sarebbe di nuovo immancabilmente suonata per lei o, mancando lui, l'ora del marciapiede. Vi sono cose più limpide di una simile successione di strazi e di bugie tanto simili all'idillio del viaggiatore di commercio con la serva, e mi pare oggi che la sciagura abbia aggiustato tutto nel migliore dei modi. Vero è che probabilmente ho perduto una delle occasioni che la vita mi offriva. Ma è altresì vero che ci sono anche delle occasioni a cui, a nostro dispetto, l'istinto si rifiuta.
Verso le sette del mattino scesi in cucina dove Volkmar già pronto mi aspettava. Sofia aveva riscaldato il caffè e preparato delle provviste con gli avanzi della sera prima; in quelle premure da moglie di soldato era perfetta. Ci disse addio nel cortile press'a poco nel punto dove in una sera di novembre avevo seppellito Texas. Non restammo soli nemmeno un istante. Disposto a legarmi a lei al momento del ritorno, non mi dispiaceva tuttavia mettere fra la mia dichiarazione e me una pausa che forse avrebbe avuto l'ampiezza della morte. Tutti e tre sembravamo aver dimenticato gli incidenti della sera prima : una simile cicatrizzazione per lo meno apparente era tipica della nostra vita cauterizzata senza tregua dalla guerra. Volkmar ed io baciammo la mano che ci veniva tesa e che continuò a farci di lontano dei segni di saluto che ognuno di noi interpretava a proprio esclusivo vantaggio. I nostri uomini ci aspettavano accanto ai baraccamenti, rannicchiati intorno a un fuoco di brace. Nevicava, ciò che avrebbe aggravato le fatiche del cammino ma ci avrebbe anche garantito, forse, da sorprese. I ponti erano saltati, ma il fiume gelato era sicuro. Il nostro scopo era di raggiungere Munau dove Brussarov si trovava immobilizzato in una posizione più esposta della nostra, e di proteggere in caso di forza maggiore un suo ripiegamento sulle nostre linee.
Le comunicazioni telefoniche erano tagliate da qualche giorno tra Munau e noi, e non sapevamo se bisognasse darne colpa alla tempesta o al nemico. In realtà, il villaggio era caduto nelle mani dei Rossi la vigilia di Natale; i resti, duramente provati, delle truppe di Brussarov erano accantonati a Gòrna. Brussarov stesso era gravemente ferito; morì una settimana dopo. In assenza di altri capi, la responsabilità della ritirata dovevo assumerla io. Tentai un contrattacco su Munau nella speranza di rientrare in possesso dei prigionieri e del materiale bellico, ciò che ebbe l'unico risultato di indebolirci ancora. Nei suoi momenti di lucidità Brussarov si ostinava a non abbandonare Gòrna di cui esagerava l'importanza strategica; del resto quel preteso eroe dell'offensiva del 1914 contro la nostra Prussia orientale m'è sempre sembrato un incapace. Era ormai indispensabile che uno di noi andasse a cercare Rugen a Kratowice e poi si incaricasse di portare a von Wirtz un rapporto esatto sulla situazione, o meglio due rapporti, quello di Brussarov e il mio. Se ho scelto Volkmar per questa missione, è che lui solo possedeva l'elasticità necessaria per trattare con il comandante in capo e anche per indurre Rugen a raggiungerci ; non ho detto, infatti, che una delle caratteristiche di Paul era di nutrire nei confronti degli ufficiali della Russia imperiale un'avversione che era eccezionale perfino nelle nostre file, rivolta tuttavia con la stessa irriducibile ostilità tanto contro gli emigrati quanto contro gli stessi bolscevichi. Inoltre, e per via di una curiosa deformità professionale, la devozione con cui Paul si consacrava ai feriti non oltrepassava i muri della sua ambulanza; Brussarov morente a Gòrna aveva per lui minor interesse di uno qualsiasi dei suoi operati della vigilia.
Intendiamoci: non voglio che mi si giudichi più perfido di quanto sappia essere. Non tentavo affatto di sbarazzarmi di un rivale (la parola fa sorridere) accollandogli una missione pericolosa. Partire, del resto, non era più pericoloso che restare, e non credo che Volkmar mi accusasse di esporlo ad un rischio maggiore. Forse se lo aspettava; se gli fosse capitato, avrebbe fatto lo stesso con me. L'alternativa era di rientrare io stesso a Kratowice e di lasciare a Volkmar mano libera a Gòrna dove Brussarov, delirante, non aveva più alcun potere. Mi ha serbato rancore, sulle prime, di avergli affidato il ruolo di minore importanza; in seguito, data la piega delle cose, ha dovuto essermi grato di essermi assunto la responsabilità più grave. Ed è altrettanto falso che io l'abbia rimandato a Kratowice per offrirgli l'ultima occasione di soppiantarmi definitivamente nell'amore di Sofia: sono finezze, queste, di cui ci si crede capaci soltanto retrospettivamente. Non avevo nei confronti di Volkmar quella diffidenza che forse tra di noi avrebbe dovuto essere normale: contro ogni aspettativa si era comportato da buon diavolo nei pochi giorni passati fianco a fianco. In ciò, come in molte altre cose, il fiuto mi faceva difetto. Le virtù cameratesche di Volkmar non erano, a dire il vero, un rivestimento ipocrita, ma una specie di stato di grazia militare rivestito e smesso assieme all'uniforme. Bisogna anche dire che egli aveva per me un vecchio odio animalesco, e non soltanto interessato.
Io ero ai suoi occhi un oggetto di scandalo, forse altrettanto ripugnante di un ragno. Deve aver pensato che fosse suo dovere mettere in guardia Sofia contro di me; e devo ancora essergli grato di non aver giocato prima questa carta. Sapevo bene che correvo un pericolo rimettendolo faccia a faccia con Sofia, ammettendo che di Sofia m'importasse qualcosa, ma il momento non era adatto a considerazioni del genere, e in ogni modo il mio orgoglio mi avrebbe impedito di fermarvi l'attenzione. Quanto a sparlare di me con von Wirtz, sono sicuro che non l'ha fatto. Quel Volkmar era fino a un certo punto un uomo onesto. Come tutti, d'altronde.
Rugen arrivò qualche giorno dopo seguito da un corteo di camion blindati e da un'autoambulanza. Non potendosi ulteriormente prolungare la sosta a Gòrna, ,io mi presi la responsabilità di trasportar via a forza Brussarov che, come era da prevedersi, morì per strada, e doveva dimostrarsi da morto tanto ingombrante come lo era stato da vivo. Fummo attaccati sul tratto superiore del fiume, e non riuscii a riportare a Kratowice che un pugno di uomini. I miei errori nel corso di questa ritirata in. miniatura mi vennero utili qualche mese dopo durante le operazioni sul confine polacco, e ognuno di quei morti di Gòrna mi fece risparmiare in seguito una dozzina di vite. Poco importa: i vinti hanno sempre torto, e io meritavo tutti i biasimi che mi si rovesciarono addosso, salvo quello di non aver obbedito agli ordini di un malato dal cervello già in disgregazione. La morte di Paul mi sconvolse più di tutto il resto: non avevo altro amico. Mi rendo conto che una simile affermazione può stonare con tutto ciò che ho detto fin qui: per poco che ci si pensi è tuttavia assai facile accordare queste contraddizioni. Passai la prima notte dopo il ritorno nei baraccamenti su un pagliericcio formicolante di pidocchi che aggiungevano a tutti i nostri rischi il tifo esantematico, ma il mio sonno fu pesante come quello di un morto. Non avevo cambiato idea nei confronti di Sofia (il tempo mi mancava, del resto, per pensare a lei) ma forse temevo di rimettere immediatamente il piede nella tagliola dove accettavo di essere preso. Quella notte tutto mi sembrava ignobile, inutile, abbrutente e grigio.
Il giorno dopo, in una sporca mattina di neve fusa e di vento occidentale, varcai la breve distanza fra i baraccamenti e il castello. Per salire all'ufficio di Corrado presi lo scalone d'onore, ingombro di paglia e di casse sfondate, invece della solita scala di servizio. Senza essermi lavato né fatto la barba, ero in stato di inferiorità assoluta in caso di rimproveri o di scenate amorose. Lo scalone era buio, filtrava soltanto qualche raggio dalla fessura di un'imposta sprangata. Fra il primo e il secondo piano mi trovai all'improvviso faccia a faccia con Sofia che scendeva. Aveva la pelliccia, gli stivaletti da neve e un piccolo scialle di lana buttato sul capo, simile a uno di quei fazzoletti di seta con cui si conciano le donne quest'anno al mare. Reggeva in una mano un fagotto fatto con un fazzoletto annodato ai quattro angoli, ma io l'avevo vista sovente portarne di simili nelle sue visite all'ambulanza o alla moglie del giardiniere. Non c'era niente di nuovo, e la sola cosa che avrebbe potuto avvertirmi era il suo sguardo. Ma ella evitò i miei occhi.
" Ebbene, Sofia, vuoi proprio uscire con un tempo simile? " dissi in tono scherzoso tentando di afferrarla al polso.
" Si, " disse lei, " parto. "
Dalla sua voce capii che si trattava di una cosa seria e che davvero partiva.
" E dove vai ? "
" Non ti riguarda, " disse liberandosi il polso con un gesto brusco, e la sua gola ebbe quella contrazione leggera che fa pensare al collo di una colomba e che denuncia la presenza di un singhiozzo ringoiato.
"E si può sapere perché parti, mia cara? "
" Ne ho abbastanza, " ripeté con un movimento convulso delle labbra che per un istante ricordò il tic di zia Prascovia. " Ne ho abbastanza."
E passando dal braccio sinistro al braccio destro quel ridicolo involto che le dava l'aria di una serva licenziata, ebbe uno scatto come se volesse fuggire e non riuscì che a scendere un gradino, ciò che suo malgrado ci avvicinò. Allora, appoggiandosi al muro in modo da lasciare fra di noi il più grande spazio possibile, per la prima volta alzò su di me degli occhi traboccanti di orrore.
" Ah, " fece, " tutti mi disgustate, tutti... "
Sono sicuro che le parole che poi buttò fuori a caso non nascevano da lei, e non è difficile indovinare da chi le venissero. Sembrava una fontana che sputasse fango. Il suo viso aveva assunto un'espressione di volgarità contadina: in ragazze del popolo mi è capitato di vedere simili esplosioni di oscenità indignata. Poco importava che simili accuse fossero assurde o no; e tutto quello che si dice sull'argomento è sempre falso giacché le verità sensuali sfuggono al linguaggio e non sono fatte che per i balbettii da bocca a bocca. La situazione si schiariva: avevo di fronte a me un'avversaria vera e propria, e aver sempre subodorato l'odio nell'abnegazione di Sofia serviva almeno a rassicurarmi sulla mia chiaroveggenza. Può darsi che una confidenza totale da parte mia potesse impedirle di passare così al nemico, ma si tratta di considerazioni altrettanto vane di quelle che riguardano la possibilità di vittoria che aveva Napoleone a Waterloo. " Ed è a Volkmar, suppongo, che devi tutte queste scoperte? "
" Oh, quello là, " disse con un'aria che non lasciò alcun dubbio sui sentimenti che provava per lui. In quel momento doveva confonderci nello stesso disprezzo, confonderci con tutto il resto degli uomini.
" Lo sai che cosa mi sorprende ? È che tutte queste belle idee non ti siano venute molto tempo prima," feci io con il tono più leggero possibile, cercando tuttavia di trascinarla in una di quelle discussioni nelle quali due mesi prima si sarebbe smarrita.
" Si, si, " rispose distrattamente. " Ma non ha importanza. "
Non mentiva: per le donne niente ha importanza al di fuori di loro stesse, e ogni scelta che non le riguardi non la giudicano se non una follia cronica o un'aberrazione passeggera. Stavo per domandarle duramente che cosa avesse importanza per lei, allora, quando vidi il suo viso e i suoi occhi decomporsi e fremere sotto una nuova ondata di disperazione come nella fitta profonda di una nevralgia.
" Comunque, non avrei creduto che tu potessi mescolare Corrado a tutto ciò. " Distolse debolmente la testa, e le sue guance pallide s'infiammarono come se la vergogna di una tale accusa fosse troppo grande per non ricadere anche su di lei. Capii allora che quell'indifferenza verso i familiari che mi aveva così a lungo scandalizzato in Sofia non era che un sintomo illusorio, un'astuzia dell'istinto per tenerli al di fuori della miseria e dello schifo in cui lei si credeva caduta; e che la sua tenerezza per il fratello aveva continuato a sgorgare attraverso la sua passione per me, invisibile come una sorgente nell'acqua salata del mare. Anzi, ella aveva investito Corrado di tutti i privilegi, di tutte le virtù alle quali lei rinunciava, come se quel ragazzo fragile fosse stato la sua innocenza. L'idea che ella prendesse le sue difese contro di me mi colpì nel punto più sensibile della mia cattiva coscienza. Tutte le risposte sarebbero state buone, salvo quella su cui io inciampai per irritazione, per timidezza, per fretta di contraccambiare la ferita. Al fondo di ognuno di noi c'è un pendaglio da forca insolente e ottuso, e fu lui che rispose : " Le ragazze da marciapiede non devono assumersi la difesa della morale pubblica, cara amica. "
Mi guardò con sorpresa, come se nonostante tutto la cosa fosse imprevedibile, e io mi accorsi troppo tardi che avrebbe accettato con gioia una rettifica, e che una confessione non avrebbe potuto accompagnarsi in lei che a un torrente di lacrime. Curva in avanti, con le sopracciglia aggrottate, ella cercò una risposta a quella piccola frase che ci separava più di una menzogna o di un vizio; non si trovò nella bocca che un po' di saliva e mi sputò in faccia. Appoggiato alla ringhiera io me ne stetti stupidamente a guardarla scendere, con un passo insieme appesantito e rapido. Arrivata in basso, si impigliò per disattenzione con la pelliccia al chiodo arrugginito di una cassa da imballaggio e tirò, strappando tutto un lembo del mantello di lontra. Un istante dopo sentii richiudersi la porta del vestibolo. Mi pulii il viso con la manica prima di entrare da Corrado. Quel rumore da mitragliatrice e da macchina per cucire che fa il telegrafo crepitava al di là dei battenti socchiusi. Corrado lavorava con la schiena rivolta alla finestra, i gomiti appoggiati a un enorme tavolo di quercia scolpita, in mezzo a quella stanza dove un nonno maniaco aveva accumulato una grottesca collezione di ricordi di caccia. Una serie stramba e sinistra di animaletti imbalsamati si allineava sulle mensole, e mi ricorderò sempre di un certo scoiattolo infagottato in un costume tirolese sopra il pelo corroso dalle tarme. Ho passato alcuni fra i momenti più critici della mia vita in quella camera puzzolente di canfora e di naftalina. Corrado alzò appena, vedendomi entrare, la faccia pallida segnata dalla fatica e dall'inquietudine. Osservai .che la ciocca bionda che si ostinava a cadergli sulla fronte si stava facendo meno folta e meno luminosa d'un tempo; a trent'anni si sarebbe stempiato. Nonostante tutto Corrado era troppo russo per non essere un fanatico di Brussarov; mi dava torto, e tanto più forse per via delle angosce che aveva patito per me. M'interruppe fin dalle prime parole: " Volkmar non credeva che Brussarov fosse mortalmente ferito. "
" Volkmar non è un medico, " dissi, e il trauma che mi provocò quel nome fece traboccare in me tutto il rancore che dieci minuti prima lo stesso personaggio non mi ispirava. " Paul ha capito subito che Brussarov non ne aveva per più di quarantott’ore...
" E siccome Paul non c'è più, bisogna bene credere alla tua parola. "
" Di' pure che avresti preferito non vedermi ritornare. "
" Ah, tutti voi mi disgustate ! " disse prendendosi la testa fra le mani esili, e io fui colpito dall'identità di quel grido con quello della fuggitiva. Fratello e sorella erano ugualmente puri, intolleranti ed irriducibili.
Il mio amico non mi perdonò mai la perdita di quel vecchio imprudente e male informato, ma in pubblico sostenne sempre quel mio comportamento che fra di sé giudicava imperdonabile. In piedi davanti alla finestra io ascoltavo Corrado parlare, senza interromperlo; anzi, lo sentivo appena. Una figurina stagliata su un fondo di neve, di fango e di cielo grigio occupava la mia attenzione, e la mia sola paura era che Corrado si alzasse zoppicando e venisse a sua volta a buttare un'occhiata oltre il vetro. La finestra dava sul cortile, e oltre l'antico forno del pane si scorgeva la svolta della strada che portava al villaggio di Màrba, sull'altra sponda del lago. Sofia camminava a fatica, strappando pesantemente dal suolo gli stivaletti che si lasciavano dietro orme enormi; teneva la nuca piegata, senza dubbio accecata dal vento, e il suo fagottino la rendeva simile, di lontano, a una venditrice ambulante. Trattenni il respiro fino al momento in cui la sua testa avvolta in uno scialle fu scomparsa dietro le macerie del muretto che fiancheggiava la strada. Il biasimo che la voce di Corrado continuava a rovesciarmi addosso, io l'accettavo in cambio di tutti i giustificati rimproveri che avrebbe avuto il diritto di farmi se avesse saputo che lasciavo Sofia allontanarsi sola, in direzione ignota e senza speranza di ritorno. Sono sicuro che in quel momento ella aveva appena il coraggio necessario per camminare diritto davanti a sé senza volger la testa indietro; Corrado ed io l'avremmo facilmente raggiunta e riportata a forza, ma è proprio quello che io non volevo. Per rancore prima di tutto, e perché, dopo quanto era avvenuto tra lei e me, non potevo più sopportare l'idea di vedersi ristabilire e durare fra di noi quella stessa situazione monotona e tesa. Per curiosità anche, non fosse che per lasciare agli eventi una possibilità di svilupparsi da soli. Una cosa almeno era chiara: non andava certo a buttarsi nelle braccia di Volkmar. Contrariamente anche all'idea che per un momento mi aveva attraversato la mente, quell'alzaia abbandonata non la conduceva agli avamposti rossi. Conoscevo troppo Sofia per ignorare che non l'avremmo mai più rivista viva a Kratowice, ma nonostante tutto conservavo la certezza che un giorno o l'altro ci saremmo ritrovati faccia a faccia. Anche se avessi saputo in quali circostanze, credo che non avrei fatto nulla per ostacolarle la strada. Sofia non era una bambina, e a modo mio rispetto abbastanza gli esseri umani per impedir loro di assumersi le loro responsabilità.
Per strano che possa parere, passarono circa trenta ore prima che ci si accorgesse della scomparsa di Sofia. Com'era prevedibile, fu Chopin a dare l'allarme. Aveva incontrato Sofia la vigilia, verso mezzogiorno, nel punto in cui la strada di Màrba si stacca dalla riva per infilarsi nel boschetto dei pini. Sofia gli aveva chiesto una sigaretta e lui, trovandosi a corto, aveva diviso con lei l'ultima di un pacchetto. Si erano seduti vicini sulla vecchia panchina che si trovava in quel punto, stridente testimonianza di un'epoca in cui l'intero stagno era compreso nella cinta del parco, e Sofia aveva chiesto notizie della moglie di Chopin che aveva partorito in una clinica dì Varsavia. Lasciandolo, gli aveva raccomandato di non parlare del loro incontro.
" Niente pettegolezzi, soprattutto, hai capito ? Capisci, vecchio mio, è Eric che mi manda."
Chopin era abituato a vederle portare per conto mio dei messaggi rischiosi, e a non disapprovarmi che in silenzio. Tuttavia il giorno dopo mi domandò se avevo incaricato la ragazza di una missione dalle parti di Màrba. Io dovetti accontentarmi di alzare le spalle; Corrado, inquieto, insistette; non mi restò che mentire e dichiarare che non avevo visto Sofia dopo il mio ritorno. Sarebbe stato più prudente ammettere che l'avevo incrociata sulle scale, ma quasi sempre mentiamo per nostro esclusivo vantaggio, per tentare di soffocare un ricordo. Il giorno dopo, certi rifugiati russi da poco giunti a Kratowice fecero qualche allusione a una giovane contadina impellicciata che avevano incontrato in cammino, al riparo di una capanna dove si erano fermati a riposarsi durante una tempesta di neve. Avevano scambiato con lei qualche saluto e qualche frase scherzosa, resa goffa dalla loro ignoranza del dialetto. E lei aveva loro offerto un po' del suo pane. Alle domande che uno di essi le aveva posto in tedesco, ella aveva ribattuto scuotendo la testa come se non conoscesse che il gergo locale. Chopin convinse Corrado a battere i dintorni per cercarla, ma tutto fu vano. Da quel lato ogni fattoria era stata abbandonata, e le orme solitarie che avvistarono sulla neve avrebbero potuto benissimo appartenere a un vagabondo o a un soldato. Il giorno dopo il tempo cattivo indusse lo stesso Chopin ad abbandonare le esplorazioni, e un nuovo attacco dei Rossi ci costrinse ad occuparci d'altro. Corrado non mi aveva incaricato della sorveglianza della sorella, e dopo tutto non ero stato io a spingere volontariamente Sofia verso la fuga. Tuttavia, nel corso di quelle lunghe notti, l'immagine della ragazza arrancante nel fango ghiacciato ossessionò la mia insonnia con l'ostinazione di un fantasma. E in realtà, Sofia morta non è mai ritornata a perseguitarmi come a quell'epoca lo faceva Sofia scomparsa. A forza di riflettere sulle circostanze della sua partenza scoprii una pista che tenni per me solo. Sospettavo da tempo che la riconquista di Kratowice da parte dei Rossi non avesse del tutto interrotto le relazioni tra Sofia e l'antico commesso di libreria Grigori Loew. Ora, la strada di Màrba portava anche a Lilienkron, dove la madre di Loew esercitava la doppia e redditizia professione di levatrice e di sarta. Suo marito, Jacob Loew, aveva praticato il mestiere quasi altrettanto ufficiale e ancor più redditizio dell'usura, all'insaputa, spero bene, e per il maggior disgusto di suo figlio. Nel corso di rappresaglie fatte dalle truppe antibolsceviche, papà Loew era stato abbattuto sulla soglia del suo ricettacolo, ed era assurto ormai nella piccola comunità ebraica di Lilienkron alla interessante dignità di martire. Quanto a sua moglie, benché sospetta da tutti i punti di vista dal momento che il figlio aveva un posto di comando nell'armata bolscevica, era riuscita fino ad allora a starsene nel paese, e tanta abilità o bassezza non mi predisponeva affatto in suo favore. Dopotutto, il lampadario di porcellana e il salotto di pesante seta scarlatta della famiglia Loew erano stati la sola esperienza personale di Sofia fuori di Kratowice, e dal momento che ci lasciava non poteva, che dirigersi là. Io sapevo che aveva consultato la madre di Loew al tempo in cui si era creduta in pericolo di una malattia o di una gravidanza in seguito a quello stupro che era stata la sua prima sciagura. Per una ragazza come lei, essersi già confidata una volta a quella matrona ebrea era una ragione per confidarsi di nuovo e sempre. Del resto (e io dovevo essere assai perspicace per essermene accorto alla prima occhiata nonostante i miei pregiudizi più cari), il viso di quella creatura affondata nella pinguedine recava l'impronta di una greve bontà. Data la vita di caserma che noi avevamo imposto a Sofia, restava sempre fra loro due la segreta massoneria delle donne. Con il pretesto dei contributi di guerra, partii per Lilienkron in un vecchio camion corazzato, portando con me pochi uomini. Lo scricchiolante veicolo si fermò alla soglia della casa mezzo rurale e mezzo cittadina dove la madre di Loew aveva steso il bucato al sole di febbraio, profittando del giardino abbandonato dai suoi vicini fuggiti. Sopra il vestito nero e il grembiule di tela bianca , riconobbi il pellicciotto lacerato di Sofia, nel quale il corpo pesante della vecchia appariva grottescamente infagottato. La perquisizione non rivelò che il previsto numero di catini di smalto, di macchine per cucire, di antisettici e di logori giornali di moda di Berlino, risalenti a due anni prima. Mentre i miei soldati mettevano a soqquadro gli armadi pieni di stracci che le contadine a corto di denaro avevano lasciato in pegno alla levatrice, la vecchia Loew mi fece sedere sul divano rosso della sala da pranzo. Pur rifiutando di spiegarmi come fosse entrata in possesso della pelliccia di Sofia, insisteva per farmi prendere almeno un bicchiere di tè, in un miscuglio di disgustoso ossequio e di ospitalità biblica. Una simile cortesia raffinata finì per sembrarmi sospetta, e piombai in cucina appena in tempo per impedire che la lingua di fiamma del samovar consumasse una decina di lettere del caro Grigori. La vecchia Loew aveva conservato per superstizione materna quelle carte compromettenti, l'ultima delle quali, tuttavia, portava la data di quindici giorni prima e che quindi non potevano rivelarmi nulla di ciò che m'importava. Sospetta di connivenza con i Rossi, la vecchia ebrea stava rischiando il plotone di esecuzione anche se quei foglietti mezzo bruciacchiati non contenevano che futili testimonianze di affetto filiale : a meno che non si trattasse di un codice. Le prove erano più che sufficienti per giustificare un arresto, perfino agli occhi stessi dell'interessata. Quando riprendemmo posto sul divano rosso, la vecchia si rassegnò dunque a cercare una via di mezzo fra il silenzio e la confessione. Raccontò che Sofia, esausta, era venuta a riposarsi da lei la sera di giovedì ed era ripartita nel cuore della notte.
Quanto allo scopo della visita, non riuscii sulle prime ad ottenere il minimo chiarimento.
" Voleva vedermi, ecco tutto, " disse con tono enigmatico la vecchia ebrea, ammiccando nervosamente ora con l'uno ora con l'altro dei suoi occhi rimasti belli nonostante il peso delle palpebre gonfie.
" Era incinta ? "
Non era soltanto una brutalità gratuita. Un uomo a corto di certezze si spinge lontano nel campo delle ipotesi. Se l'ultima avventura di Sofia avesse avuto conseguenze, la ragazza mi avrebbe fuggito senza dubbio esattamente come aveva fatto, e la disputa sullo scalone avrebbe potuto servire a camuffare le ragioni segrete di quella partenza.
" Ma via, signor ufficiale. Una persona come la contessina è ben diversa da una contadina qualsiasi. "
Finì per confessare che Sofia era venuta a Lilienkron con l'intenzione di farsi prestare qualche vestito da uomo che Grigori avesse lasciato.
" Li ha provati proprio lì dove si trova lei, signor ufficiale. Non potevo mica rifiutarle un favore del genere. Ma era troppo alta, i vestiti non le andavano." Mi ricordavo difatti che Sofia, a sedici anni, sorpassava già di tutta la testa lo smilzo commesso di libreria. Era comico immaginarla mentre si sforzava di infilare i calzoni e la giacca di Grigori.
La vecchia Loew le aveva offerto dei vestiti da contadina, ma Sofia non aveva cambiato idea e si era finito per tirarle fuori qualche indumento maschile possibile. Le era anche stata data una guida.
" Chi è? "
" Non è ancora ritornato, " si contentò di rispondere la vecchia ebrea le cui guance cascanti si misero a tremare.
" Ed è proprio perché non è tornato che questa settimana lei è senza lettere di suo figlio. Dove sono? "
" Se lo sapessi, signore, credo proprio che non glielo direi," fece con una certa nobiltà. " Ma se anche l'avessi saputo qualche giorno fa, può immaginare come sarebbero ormai superate le mie informazioni."
Era un buon senso lampante, e quella grossa donna che suo malgrado rivelava tutti i segni del dolore fisico, non mancava di un segreto coraggio. Le sue mani incrociate sul ventre avevano un fremito convulso, ma le baionette sarebbero state impotenti, nel suo caso, come con la madre dei Maccabei. Ero già deciso a lasciar salva la vita a quella creatura che dopotutto non aveva fatto che entrare nell'oscura partita che Sofia ed io giocavamo l'uno contro l'altro. Ma fu inutile, giacché la vecchia ebrea si fece massacrare dai soldati qualche settimana più tardi. Per quanto mi riguardava, tuttavia, avrei potuto schiacciarla con la stessa indifferenza con cui avrei schiacciato un verme. Sarei stato meno indulgente se in quel momento mi fossi trovato di fronte Grigori o Volkmar.
" E la signorina de Reval le aveva certo confidato da tempo il suo progetto? "
" No. Se ne era parlato l'autunno scorso, " fece con la timida occhiata di chi cerca di capire se l'interlocutore è informato. "Da allora non me ne ha più parlato. ". " Va bene, " feci alzandomi e infilandomi in una delle tasche il pacchetto bruciacchiato delle lettere di Grigori.
Avevo fretta di abbandonare quella stanza dove la pelliccia di Sofia, buttata sull'angolo del divano, mi rattristava come la presenza di un cane senza padrone. Per tutta la vita nessuno mi toglierà l'idea l'idea che la vecchia ebrea l'avesse pretesa in pagamento del suo aiuto.
" Sa a quale rischio si è esposta aiutando la signorina de Reval a farsi condurre nelle linee nemiche ? "
" Mio figlio mi ha detto di mettermi al servizio della contessina, " mi rispose la levatrice che sembrava preoccuparsi ben poco della fraseologia richiesta dai tempi nuovi. " Se è riuscita a raggiungerlo," aggiunse quasi suo malgrado, e la sua voce non riuscì a nascondere un fremito d'orgoglio, " penso che il mio Grigori e lei si saranno sposati. Anche questo facilita le cose."
Nel camion che mi riportava a Kratowice scoppiai a ridere pensando a tutte le mie preoccupazioni nei confronti della giovane signora Loew. Con ogni probabilità il corpo di Sofia si trovava ormai steso in un fossato o dietro una siepe, con le ginocchia piegate e i capelli sporchi di terra, simile al cadavere di una pernice o di una fagiana colpita da un bracconiere. Fra tutte le soluzioni possibili avrei naturalmente scelto quella.
Non nascosi nulla a Corrado delle informazioni ottenute a Lilienkron. Senza dubbio avevo bisogno di assaporarne l'amarezza con qualcuno. Era chiaro che Sofia aveva obbedito a quell'impulso che spinge una ragazza sedotta o una donna abbandonata, che pur non abbiano il gusto delle risoluzioni estreme, a entrare in convento o in un bordello. Soltanto Loew mi guastava un po' quella partenza vista in una simile luce, ma a quell'epoca avevo già l'esperienza sufficiente per sapere che non sta in noi scegliere le comparse della nostra vita. Io ero stato per Sofia l'unico ostacolo che impedisse lo sviluppo del germe rivoluzionario; dal momento che strappava da sé questo amore, non le restava che impegnarsi a fondo su una strada scaglionata di letture adolescenti, dell'eccitante cameratismo con il piccolo Grigori e di quel disgusto che le anime disincantate serbano per l'ambiente che le ha viste crescere. Ma Corrado soffriva di quella tara nervosa che impedisce di accettare i fatti allo stato naturale senza ambigui prolungamenti di interpretazioni o di ipotesi. Io avevo lo stesso vizio, ma in me le supposizioni restavano così com'erano, senza trasformarsi in miti o in romanzi vissuti. Più Corrado rifletteva a quella partenza segreta, senza una lettera, senza un bacio di addio, più sospettava nella scomparsa di Sofia motivi loschi che era meglio lasciar nell'ombra. Quel lungo inverno a Kratowice aveva fatto del fratello e della sorella due perfetti estranei, come solo possono diventare due membri di una stessa famiglia. Dopo il mio ritorno da Lilienkron, Sofia non fu più per Corrado che una spia la cui presenza fra di noi bastava a spiegare i nostri insuccessi e anche il mio recente disastro a Gòrna.
Io ero sicuro dell'integrità di Sofia come del suo coraggio, e queste accuse cretine aprirono una falla nella nostra amicizia. Ho sempre scoperto qualche bassezza in coloro che credono cosi facilmente all'indegnità degli altri. La mia stima per Corrado ne uscì diminuita, fino al giorno in cui compresi che trasformare Sofia in una Mata-Hari da film o da romanzo d'appendice era forse per il mio amico un modo ingenuo di onorare la sorella, di prestare a quel viso dai grandi occhi folli quella bellezza commovente che il suo accecamento di fratello non gli aveva fin qui permesso di cogliere. Peggio ancora: Chopin fu talmente sbalordito e indignato da accettare senza discutere le spiegazioni romanzesche e poliziesche di Corrado. Chopin aveva adorato Sofia; la delusione era troppo forte per impedirgli di sputare sul suo idolo ormai passato al nemico. Di noi tre io ero certo il meno puro di cuore, ma io solo, tuttavia, facevo credito a Sofia, io solo tentavo già di pronunciare su di lei quel verdetto di assoluzione che Sofia ha dovuto concedere a se stessa al momento della morte. Il fatto è che i cuori puri albergano una buona dose di pregiudizi, la cui assenza compensa forse nei cinici quella degli scrupoli. Vero è che per quell'avvenimento io ero il solo a guadagnare più di quanto perdessi, e che non potevo impedirmi, come tanto sovente mi è accaduto in vita mia, di strizzare un occhio complice a una simile disgrazia. Si dice che il destino sia maestro nello stringere il cappio intorno al collo del paziente; che io sappia, è maestro soprattutto nello spezzare le fila. Alla lunga, si voglia o no, ci trae d'impaccio sbarazzandoci di tutto.
Da quel giorno Sofia fu per noi definitivamente sotterrata come se io avessi riportato da Lilienkron il suo cadavere trafitto da una palla. Il vuoto aperto dalla sua partenza fu sproporzionato al posto che avevamo creduto occupasse fra di noi. Era bastata la scomparsa di Sofia per far regnare in quella casa priva di donne (giacché la zia Prascovia era tutt'al più un fantasma) la calma caratteristica dei conventi di frati e della tomba. Il nostro gruppo, via via sempre più ridotto, rientrava nella grande tradizione dell'austerità e del coraggio virile; Kratowice ridiventava ciò che era stata in tempi che si credevano passati per sempre, un avamposto dell'Ordine Teutonico, una cittadella avanzata dei Cavalieri del Sacro Brando. Quando, nonostante tutto, penso a Kratowice come a una certa nozione della felicità, mi ricordo di quel periodo come mi ricordo dell'infanzia. L'Europa ci tradiva; il governo di Lloyd George favoriva i Sovieti; von Wirtz raggiungeva la Germania abbandonando definitivamente l'imbroglio (n.d.r. in italiano nel testo) russo baltico; i negoziati di Dorpart avevano da tempo tolta ogni legalità, e quasi ogni senso, al nostro nucleo di resistenza ostinata e inutile; dall'altro lato del continente russo, Wrangel sostituiva Denikin ed era sul punto di firmare la pietosa dichiarazione di Sebastopoli press'a poco come un uomo che sottoscriva la propria condanna a morte, e le due offensive vittoriose dei mesi di maggio e d'agosto sul fronte polacco non erano ancora giunte a suscitare fra di noi quelle speranze che dovevano subito spegnersi con l'armistizio di settembre e il consecutivo schiacciamento della Crimea... Ma il riassunto che qui vi do è fatto con il senno di poi, come la Storia, e non toglie che io abbia vissuto in quelle settimane libero da inquietudini come sapendo di dover morire il giorno dopo o vivere in eterno. Il pericolo estrae il peggio dall'anima umana, e anche il meglio. E poiché il peggio in genere è in quantità maggiore, alla resa dei conti l'atmosfera della guerra è la più disgustosa che ci sia. Ma ciò non mi renderà ingiusto verso quei rari momenti di grandezza di cui è stata tuttavia capace. Se l'atmosfera di Kratowice era mortale ai microbi della bassezza, vuol dire senza dubbio che io ho avuto il privilegio di viverci a fianco di esseri naturalmente puri. Nature come quella di Corrado sono fragili, e non si possono sentir meglio che all'interno di un'armatura. Buttati nel mondo, fra le donne, gli affari e i successi facili, la loro sorda dissoluzione mi ha sempre fatto pensare al ripugnante avvizzimento degli ireos, quei cupi fiori in forma di lance, la cui vischiosa agonia contrasta con il disseccamento eroico delle rose. Credo di aver conosciuto quasi tutti i sentimenti bassi, ognuno almeno una volta nella mia vita, e non posso dire di essere refrattario alla paura. In fatto di timore Corrado era assolutamente vergine. Ci sono altresì degli esseri, e sono sovente i più fragili tra di noi, che vivono a loro agio nella morte come nel loro elemento naturale. Si parla sovente di quella specie di investitura dei tubercolotici destinati a morir giovani; ma mi è capitato di vedere, in ragazzi destinati a una morte violenta, quella levità che è insieme la loro virtù e il loro privilegio di dei.
Verso il tre di maggio, in un giorno di polvere bionda e di luce tenera, abbandonammo malinconicamente Kratowice ormai impossibile da difendere, con il suo triste parco destinato a divenire di lì a poco un campo sportivo per gli operai sovietici, e la sua foresta devastata dove fino ai primi anni della guerra si aggiravano ancora gli unici branchi di buoi selvatici sopravvissuti dai tempi preistorici. La zia Prascovia si era rifiutata di partire e noi l'avevamo abbandonata alle cure di una vecchia cameriera. Ho saputo in seguito che era riuscita a sopravvivere a tutte le nostre disgrazie. Dietro di noi la strada era tagliata, ma io speravo di poter operare il congiungimento con le forze antibolsceviche a sud-ovest del paese, e infatti riuscii cinque settimane più tardi a raggiungere l'armata polacca ancora in piena offensiva. Per riuscire a realizzare questa sortita disperata contavo sulla rivolta dei contadini del distretto, esausti per la carestia; non mi ingannavo; ma quegli infelici non furono in grado di approvvigionarci, e la fame e il tifo se ne portarono via una buona parte prima del nostro arrivo a Vitna. Ho detto poco fa che la Kratowice degli inizi della guerra era Corrado, non era la mia giovinezza; può darsi anche che quel miscuglio di miseria e di grandezza, di marce forzate e di chiome di salici immerse nei campi inondati dai fiumi in piena, di raffiche e di improvvisi silenzi, di crampi allo stomaco e di stelle tremanti nella notte pallida come mai in seguito le ho viste tremare, volessero dire per me Corrado, e non la guerra, e l'avventura ai margini di una causa perduta. Quando penso a quegli ultimi giorni di vita del mio amico mi vien sempre fatto di evocare un quadro poco conosciuto di Rembrandt che un mattino di noia e di tempesta di neve mi fece scoprire per caso qualche anno dopo alla Galleria Frick di New York, dove mi parve un fantasma munito del cartellino con il numero e inserito nel catalogo. Quel giovane uomo ritto su un cavallo pallido, quel viso insieme sensibile e selvaggio, quel paesaggio desolato dove la bestia allarmata sembra fiutare la disgrazia, e la Morte e la Follia infinitamente più presenti che nella vecchia incisione tedesca se per sentirle vicinissime non si ha nemmeno bisogno del loro simbolo... Sono stato un mediocre ufficiale in Manciuria, e mi lusingo di non aver sostenuto in Spagna che la più insignificante delle parti. Le mie qualità di capo non si sono rivelate completamente se non nel corso di quella ritirata, e di fronte ad un pugno di uomini ai quali mi legava il mio solo patto umano. Paragonato a quegli Slavi che si inabissavano vivi nella sventura, io rappresentavo lo spirito di geometria, la mappa di stato maggiore, l'ordine. Nel villaggio di Novegrodno fummo attaccati da un distaccamento di cavalieri cosacchi. Corrado, Chopin, una cinquantina di uomini ed io ci trovammo asserragliati nel cimitero, separati dal grosso delle nostre truppe accantonate in un gruppo di casupole da un avvallamento press'a poco simile alla palma di una mano. Verso sera gli ultimi cavalli nemici disparvero nei campi di segala, ma Corrado ferito al ventre stava ormai agonizzando.
Temevo che il coraggio gli venisse meno all'improvviso di fronte a quel cattivo quarto d'ora più lungo di tutta la sua vita, quello stesso coraggio che sovente nasce a un tratto in coloro che fino a quel momento hanno tremato. Ma quando mi fu finalmente possibile occuparmi di lui, egli aveva già varcato quella linea ideale di confine oltre la quale la morte non è più temibile. Chopin aveva stipato nella piaga uno di quei pacchetti di medicazione che economizzavamo con tanta cura; per le ferite meno gravi si adoperava del muschio secco. Cominciava a far notte: con una voce debole, ostinata, infantile, Corrado chiedeva un po' di luce come se l'oscurità, nella morte, fosse la cosa peggiore. Io accesi una di quelle lanterne di ferro che in quei paesi si sospendono sulle tombe. Quella lampada da notte visibile da molto lontano nella notte chiara poteva attirarci qualche fucilata ma io me ne infischiavo, come potete immaginare. Soffriva tanto che più di una volta ho pensato di finirlo; se non l'ho fatto fu per vigliaccheria. Nel corso di poche ore lo vidi cambiare di età e quasi cambiar di secolo; assomigliò di volta in volta a un ufficiale ferito durante le campagne di Carlo XII, a un cavaliere del Medioevo steso su una tomba, infine a un qualsiasi moribondo senza speciali caratteristiche di casta né di epoca, a un giovane contadino, a un battelliere di quelle province nordiche da cui proveniva la sua famiglia. Morì all'alba, irriconoscibile e pressoché incosciente, rimpinzato di rhum di volta in volta da Chopin e da me; ci davamo il cambio per tenergli all'altezza delle labbra il bicchiere pieno fino all'orlo e per scacciargli dal volto uno sciame ostinato di zanzare.
Faceva giorno; bisognava partire; ma io mi attaccavo selvaggiamente all'idea di una specie di funerale; non potevo farlo seppellire come un cane in un angolo saccheggiato di quel cimitero. Lasciando Chopin vicino a lui, traversai l'allineamento delle tombe inciampando nell'incerto crepuscolo su altri feriti. Andai a bussare alla porta della canonica situata all'estremità del giardino. Il prete aveva passato la notte in cantina, temendo a ogni istante una ripresa delle raffiche; era paralizzato dal terrore e credo di ricordare che lo snidai di là con il calcio del fucile. Un po' rassicurato accettò di seguirmi, con il suo libro in mano; ma appena reintegrato nella sua funzione, che era la preghiera, l'immancabile grazia del suo stato si produsse, e la breve assoluzione fu data con la stessa solennità che avrebbe avuto nel coro di una cattedrale. Avevo il bizzarro sentimento d'aver portato Corrado in porto: ucciso dal nemico, benedetto da un prete, rientrava in una categoria del destino che i suoi antenati avrebbero approvata; e intanto sfuggiva ai giorni venturi. I rimorsi personali non hanno niente a che fare con quel giudizio che non ho mutato mai un solo giorno nel corso di questi ultimi vent'anni, e l'avvenire non riuscirà probabilmente a farmi cambiare opinione sulla fortuna rappresentata dalla sua morte.
In seguito, e tranne per ciò che riguarda i particolari puramente strategici, c'è una lacuna nella mia memoria. Credo che in ogni vita ci siano periodi in cui un uomo esiste realmente, e altri in cui egli non è che un agglomerato di responsabilità, di fatiche e, per le teste deboli, di vanità. La notte, non potendo chiudere occhio, sdraiato su dei sacchi in un granaio, leggevo un volume spaiato dei Mémoires di Retz preso alla biblioteca di Kratowice, e se la mancanza completa di illusioni e di speranze è ciò che caratterizza i morti, quel giaciglio non differiva essenzialmente da quello in cui Corrado cominciava a dissolversi. Ma so bene che fra i morti e i vivi ci sarà sempre uno scarto misterioso di cui ignoriamo la natura, e che i più avveduti fra di noi sono informati sulla morte più o meno come una zitella sull'amore. Se la morte crea una specie di superiorità gerarchica, non contesto a Corrado un simile misterioso passaggio di rango. Quanto a Sofia, mi era completamente uscita dalla mente. Come una donna abbandonata a un'uscita di métro perde la sua individualità via via che si allontana, e non è più nella distanza se non una passante qualsiasi, le emozioni che ella mi aveva procurato affondavano di lontano nell'insignificante banalità dell'amore; non me ne restava che uno di quei ricordi sbiaditi che fanno alzare le spalle quando li si ritrova al fondo della memoria simili a una fotografia sfocata o presa contro luce nel corso di una gita dimenticata. In seguito l'immagine si è schiarita grazie al bagno in un acido. Ero estenuato, e il mese che segui il mio ritorno in Germania lo passai a dormire. Tutta la fine di questa storia si snoda per me in un'atmosfera che non è quella del sogno né dell'incubo, ma quella del sonno pesante. Dormivo anche in piedi, come un cavallo stanco. Non ho la minima intenzione di fingermi irresponsabile: il male che avevo potuto fare a Sofia era ormai fatto da tempo e la più deliberata delle volontà non avrebbe potuto aggiungervi molto. È certo che in tutto quest'ultimo atto io non sono stato che una comparsa sonnambolica. Mi direte che nei melodrammi romantici esistevano simili ruoli muti e vistosi di carnefici. Ma ho la netta impressione che da un certo momento in poi Sofia avesse preso nelle sue mani le leve del suo destino e so che non mi sono sbagliato se ho avuto la bassezza di non soffrirne. Lasciamole almeno, in mancanza di altri possessi, l'iniziativa della sua morte.
Il destino strinse il suo cerchio nel piccolo villaggio di Kovo, alla confluenza di due corsi d'acqua dai nomi impronunciabili, pochi giorni dopo l'arrivo delle truppe polacche. Il fiume era uscito dal suo alveo alla fine delle grandi piene di primavera, trasformando il distretto in un isolotto slavato e fangoso sul quale eravamo almeno un po' protetti contro ogni attacco proveniente dal nord. Quasi tutte le truppe nemiche accantonate in quei paraggi erano state richiamate all'ovest per fronteggiare l'offensiva polacca. Paragonati a quel paese, i dintorni di Kratowice erano una regione prospera. Occupammo senza quasi trovare resistenza il villaggio decimato dalla carestia e dalle recenti esecuzioni, come pure i locali della stazioncina inutilizzata dalla fine della guerra dove vagoni di legno stavano marcendo sulle rotaie arrugginite. I resti di un reggimento bolscevico duramente provato sul fronte di Polonia erano accantonati negli antichi laboratori della filanda installata a Kovo prima della guerra da un industriale svizzero. Pressoché privi di munizioni e di viveri, essi erano tuttavia ancora abbastanza ricchi per aiutarci in seguito con le loro riserve a resistere fino all'arrivo della divisione polacca che ci salvò. La filanda Warner sorgeva in pieno terreno inondato: vedo ancora quella fila di capannoni bassissimi contro il cielo fumoso, già lambiti dalle acque grigie del fiume la cui piena si faceva disastrosa dopo le ultime tempeste. Molti dei nostri uomini affogarono in quel fango dove si affondava fino al ventre come cacciatori di anatre selvagge in una palude. La tenace resistenza dei Rossi non cedette che a una nuova salita delle acque che trascinò con sé una parte dei casamenti minati da cinque anni di intemperie e di abbandono. I nostri uomini si accanirono come se quei capannoni presi d'assalto li aiutassero a regolare un vecchio conto con il nemico. Grigori Loew fu uno dei primi cadaveri che incontrai nel corridoio della fabbrica Warner. Aveva conservato nella morte la sua aria di studente timido e di commesso ossequioso, ciò che non gli impediva di avere la sua propria dignità, una dignità che quasi ogni morto conserva. Ero destinato a ritrovare prima o poi i miei due soli nemici personali, forti di situazioni infinitamente più stabili della mia, e che mi annullavano ogni idea di vendetta. Ho rivisto Volkmar durante il mio viaggio nell'America del Sud; rappresentava il suo paese a Caracas; aveva davanti a se una brillante carriera e, quasi a rendere ancor più assurda ogni velleità di vendetta, aveva dimenticato. Grigori Loew era ancor più fuori portata. Gli feci frugare addosso senza trovargli nelle tasche un solo pezzo di carta che potesse informarmi sulla sorte di Sofia. Aveva invece su di sé una copia del Libro d'ore di Rilke che anche Corrado aveva amato. Quel Grigori era stato probabilmente il solo uomo in quel paese e a quell'epoca con il quale avrei potuto intrattenermi con piacere per un quarto d'ora. Bisogna riconoscere che la sua ebraica idea fissa di elevarsi al di sopra del paterno negozietto da rigattiere aveva prodotto in Grigori Loew i bei frutti psicologici che sono la devozione a una causa, il gusto della poesia lirica, l'amicizia per una ragazza ardente e, infine, il privilegio ormai un po' logoro di una bella morte.
Un pugno di soldati resisteva ancora nel fienile, sull'alto di una casa colonica. La lunga galleria ritta su vacillanti palafitte sprofondò finalmente sotto la spinta delle acque lasciando qualche uomo aggrappato a un'enorme trave. Costretti a scegliere fra l'annegamento e il plotone di esecuzione, i sopravvissuti dovettero fronteggiare senza troppe illusioni il destino che li attendeva. Né da una parte né dall'altra si facevano più prigionieri : e come trascinarsi dietro dei prigionieri in simile devastazione? A uno a uno, sei o sette uomini esausti scesero con passo da ubriachi la rigida scaletta che portava dal fienile al capannone ingombro di balle di lino marcito, e che un tempo era adibito a magazzino. Il primo, un giovane gigante biondo ferito all'anca barcollò, mancò un gradino e precipitò al suolo dove qualcuno si incaricò di finirlo. Improvvisamente riconobbi sull'alto della scala una chioma arruffata e splendente, identica a quella che avevo visto scomparire sotto la terra tre settimane prima. Il vecchio giardiniere Michele, che mi aveva seguito con vaghe funzioni di intendente, alzò la faccia abbrutita da tanti avvenimenti e da tante fatiche e gridò stupidamente:
" Signorina... "
Era proprio Sofia, e con la testa mi fece di lontano il segno indifferente e distratto di una donna che riconosce qualcuno ma non desidera essere avvicinata. Vestita e calzata come gli altri, la si sarebbe detta un giovane soldato. Attraversò con un lungo passo elastico il piccolo gruppo incerto ammassato nella polvere e nel crepuscolo, si avvicinò al giovane gigante biondo steso ai piedi della scala, gli gettò lo stesso sguardo duro e tenero che in una sera di novembre aveva concesso al cane Texas e si inginocchiò per chiudergli gli occhi. Quando si fu rialzata, il suo viso aveva ripreso la sua espressione vacante, monotona e tranquilla, simile a quella dei campi arati sotto un cielo d'autunno. Costringemmo i prigionieri ad aiutarci nel trasporto delle riserve di munizioni e di viveri fino alla stazione di Kovo. Sofia chiudeva la marcia, le mani pendule; aveva l'aria indifferente di un ragazzo che sia stato esonerato da un lavoro pesante, e fischiava il Tipperary. Chopin ed io stavamo al passo, a qualche distanza, e i nostri volti costernati dovevano ricordare quelli dei parenti a un funerale. Tacevamo, e ognuno di noi desiderando salvare la ragazza, sospettava l'altro di opporsi al progetto. Per lo meno in Chopin questa crisi d'indulgenza svanì ben presto se qualche ora dopo era deciso a impiegare il massimo rigore come al suo posto l'avrebbe fatto Corrado. Per guadagnar tempo io mi credetti in dovere d'interrogare i prigionieri. Li chiudemmo in un carro bestiame dimenticato sui binari, e li facemmo sfilare a uno a uno nell'ufficio del capostazione. Il primo interrogato, un contadino della piccola Russia, non capì una sola parola delle domande che gli ponevo per la forma, reso ebete com'era a forza di stanchezza, di coraggio rassegnato e di indifferenza a tutto. Aveva trent'anni più di me, e io non mi sono mai sentito giovane come davanti a quel fattore che avrebbe potuto essere mio padre. Disgustato, lo mandai via. Finalmente Sofia fece la sua comparsa fra due soldati che avrebbero potuto essere benissimo due valletti incaricati di annunciare il suo nome durante una serata mondana. Per un istante io le lessi sul viso quella particolare paura che altro non è se non il timore di mancar di coraggio. Si avvicinò al tavolo di legno bianco al quale appoggiavo i gomiti e disse in fretta : "Non aspettarti informazioni da me, Eric. Non dirò niente e non so niente." " Non è per avere informazioni che ti ho fatta venire, " dissi indicandole una sedia. Ella esitò, poi sedette.
" Allora perché? "
" Per qualche schiarimento. Lo sai che Grigori Loew è morto? "
Curvò solennemente la testa, senza dolore. Aveva lo stesso aspetto a Kratowice quando le annunciavano la morte di quelli fra i nostri compagni che le erano insieme indifferenti e cari.
" Ho visto sua madre a Lilienkron il mese scorso. Sosteneva che tu avresti sposato Grigori. "
" Io ? Quelle idée! " e bastò il suono di quella frase per riportarmi alla Kratowice d'un tempo.
"Eppure andavate a letto insieme. "
" Quelle idée! " ripetè. " Proprio come per Volkmar: ti sei messo in mente che fossimo fidanzati. Sai bene che ti dicevo tutto," fece con la sua tranquilla semplicità infantile. E aggiunse con tono sentenzioso :
" Grigori era un uomo di prim'ordine. "
" Comincio a crederlo, " dissi io. " Ma quel ferito di cui ti sei occupata poco fa...?" " Si, " fece. " Siamo proprio, rimasti più amici di quanto non pensassi, Eric, dal momento che hai indovinato. "
Congiunse pensosamente le mani e il suo sguardo riprese quell'espressione fissa e vaga, che va ben oltre l'interlocutore, e che è propria dei miopi ma anche degli esseri assorti in un'idea o un ricordo.
" Era tanto buono. Non so come avrei fatto senza di lui, " disse nel tono di una lezione imparata a memoria. " Hai avuto tempi duri laggiù ? "
" No. Stavo bene. "
Ricordai che anch'io ero stato bene in quella sinistra primavera. La serenità che emanava da lei era quella che non si può mai completamente togliere a una creatura che abbia conosciuto la felicità nelle sue forme più elementari e più sicure. L'aveva trovata vicino a quell'uomo, o quella tranquillità proveniva dalla vicinanza della morte e dall'abitudine al pericolo? Comunque fosse, in quel momento ella non mi amava più: non si preoccupava più dell'effetto che poteva produrre su di me.
" E ora ? " dissi indicandole una scatola di sigarette aperta sul tavolo.
Rifiutò con un gesto della mano.
" Ora ? " disse con un tono di sorpresa.
" Hai qualche parente in Polonia ? "
" Ah," fece, " hai l'intenzione di rimandarmi in Polonia. È anche l'idea di
Corrado?"
" Corrado è morto, " dissi nel modo più semplice possibile.
" Mi dispiace, Eric, " fece lei dolcemente, come se quella perdita non riguardasse che me.
" Ci tieni dunque tanto a morire ? "
Le risposte sincere non sono mai nette né rapide. Rifletteva, aggrottando le sopracciglia, ciò che le dava la fronte aggrinzata che avrebbe avuto vent'anni dopo. Assistevo a quel misterioso sforzo che Lazzaro fece senza dubbio troppo tardi, e dopo la sua resurrezione, dove la paura fa da contrappeso alla fatica, la disperazione al coraggio, il sentimento di aver vissuto abbastanza alla voglia di fare ancora qualche pranzo, di dormire ancora qualche notte e di vedere il mattino sorgere ancora. Aggiungiamoci due o tre dozzine di ricordi felici o infelici che, a seconda delle nature, contribuiscono a trattenerci o a precipitarci nella morte. Ella disse infine, e la sua risposta era senza dubbio la più pertinente possibile:
" Che cosa ne farai degli altri ? "
Io non risposi, e non rispondere era dire tutto. Si alzò con l'aria di qualcuno che non ha concluso un affare ma che in questo affare non è impegnato personalmente.
" Per quello che ti riguarda, " dissi levandomi a mia volta, " tu sai che farò l'impossibile. Non prometto niente di più. "
" Non ti domando tanto, " fece lei. E, volgendosi a metà, tracciò con il dito sul vetro appannato qualche cosa che subito cancellò.
" Preferisci non dovermi niente ? "
" Non è nemmeno questo, " disse con un tono che si disinteressava del colloquio. Avevo fatto qualche passo verso di lei, affascinato mio malgrado da quella creatura rivestita ai miei occhi del doppio prestigio della moribonda e del soldato. Se avessi potuto abbandonarmi per la mia china, credo che avrei balbettato qualche sconnessa parola di tenerezza che lei si sarebbe certo compiaciuta di respingere con disprezzo. Ma dove trovare parole che non fossero da gran tempo falsate al punto da divenire inservibili? Riconosco del resto che ciò è vero soltanto perché c'era in noi qualcosa di profondamente deteriorato, una tetra esperienza che ci impediva di far credito alle parole e non soltanto alle parole. Un amore autentico poteva ancora salvarci, salvare lei dal presente e me dall'avvenire. Ma questo amore autentico Sofia non l'aveva trovato che in un giovane contadino russo che era stato appena ucciso in una fattoria.
Posai goffamente le mani sul suo petto, come per rassicurarmi che il suo cuore batteva ancora. Dovetti accontentarmi di ripetere ancora una volta:
" Farò il possibile. "
" Non tentare più, Eric," disse lei sottraendosi, senza che io potessi capire se si riferiva a quel gesto da amante o alla mia promessa. " Questo non è da te. " E avvicinandosi al tavolo agitò un campanello dimenticato sullo scrittoio del capostazione. Un soldato comparve. Quando fu uscita mi accorsi che aveva svuotato la scatola delle sigarette.
Nessuno riuscì a dormire quella notte, senza dubbio, e Chopin meno degli altri. Avremmo dovuto dividerci lo stretto divano del capostazione; tutta la notte io lo vidi andare e venire per la camera trascinandosi dietro sul muro la sua ombra di uomo grasso schiantato a forza di sventura. Due o tre volte si fermò davanti a me, mi posò la mano sulla manica e scosse la testa, per riprendere subito dopo con passo pesante il suo andirivieni rassegnato. Sapeva come me che ci saremmo inutilmente disonorati se avessimo proposto ai nostri compagni di risparmiare quella sola donna, e una donna che (lo sapevano tutti) era passata al nemico. Io mi voltai dalla parte del muro per non vederlo ; avrei fatto fatica a trattenermi dal fargli una scenata; eppure era lui, soprattutto, che compiangevo. Quanto a Sofia, non potevo pensare a lei senza sentire alla bocca dello stomaco una specie di nausea da odio che mi faceva pensare con sollievo alla sua morte. La reazione veniva, e io picchiavo la testa contro l'inevitabile come un prigioniero contro il muro della sua cella. L'orrore, per me, non era tanto la morte di Sofia quanto la sua ostinazione a morire. Sentivo che un uomo migliore di me avrebbe trovato qualche meraviglioso espediente, ma io non mi sono mai fatto illusioni sulla mia mancanza di genio del cuore. La scomparsa della sorella di Corrado avrebbe almeno liquidato la mia giovinezza passata, avrebbe tagliato gli ultimi ponti fra quel paese e me. Infine riandavo con la mente alle altre morti alle quali avevo assistito, quasi potessero giustificare l'esecuzione di Sofia. Poi, pensando al basso prezzo della derrata umana, mi dicevo che stavo dando troppa importanza a un cadavere di donna sul quale mi sarei appena intenerito se l'avessi trovato già freddo nel corridoio della fabbrica Warner.
Il mattino seguente Chopin mi precedette sul terrapieno situato tra la stazione e la fattoria comunale. I prigionieri raggruppati su uno dei tracciati della rimessa sembravano un po' più morti del giorno prima; quelli dei nostri uomini che si erano dati il cambio per sorvegliarli, esausti da quella fatica supplementare, sembravano anche loro all'estremo delle forze. Ero stato io a proporre che si aspettasse il giorno dopo; lo sforzo al quale mi ero creduto obbligato per salvare Sofia non aveva avuto altro risultato che di infliggere a tutti una cattiva notte in più. Sofia era seduta su una catasta di legna; le sue mani pensose le pendevano fra le ginocchia allargate; e i tacchi delle sue grosse scarpe avevano meccanicamente scavato una traccia profonda nel terreno. Fumava senza tregua le sigarette del giorno prima; era l'unico segno della sua angoscia, e l'aria fresca del mattino le metteva sulle guance un bel colorito sano. I suoi occhi distratti non parvero rilevare la mia presenza. Senza dubbio il contrario mi avrebbe fatto urlare. Ma assomigliava troppo a suo fratello perché io non avessi l'impressione di vederlo morire due volte.
Era sempre Michele che in simili occasioni assumeva la parte del boia, come se continuasse a ricoprire cosi le funzioni di macellaio che aveva esercitato per noi a Kratowice quando capitava qualche capo di bestiame da abbattere. Chopin aveva dato l'ordine che Sofia venisse giustiziata per ultima; ancor oggi ignoro se lo fece per un eccesso di rigore o per dare ad uno di noi la possibilità di difenderla. Egli cominciò dal piccolo russo che io avevo interrogato la vigilia. Sofia gettò un'occhiata rapida e obliqua su quanto succedeva alla sua sinistra, poi volse il capo come una donna che si sforzi di non vedere un atto osceno che si compia al suo fianco. Quattro o cinque volte echeggiò la detonazione, con quel rumore di scatola esplosa di cui, fino a quel momento, mi sembrò di non aver colto tutto l'orrore. All'improvviso Sofia rivolse a Michele un segno discreto e perentorio da padrona di casa che alla presenza degli invitati dia un ultimo ordine al domestico. Michele avanzò curvando la schiena con la stessa stupefatta sottomissione che avrebbe avuto sul volto al momento di ucciderla, e Sofia mormorò qualche parola che dal movimento delle sue labbra non riuscii a capire.
" Bene, signorina. "
L'antico giardiniere mi si avvicinò e mi disse all'orecchio con un tono burbero e deprecatorio da vecchio servitore intimidito, conscio che un simile messaggio gli costerà il licenziamento:
" Ella ordina... La signorina chiede... vuole che sia lei... "
Mi tese una pistola; io presi la mia e avanzai automaticamente d'un passo. Durante il breve tragitto ebbi il tempo di ripetermi dieci volte che forse Sofia aveva un ultimo appello da rivolgermi, e che un simile ordine non era che un pretesto per poterlo fare a voce bassa. Ma non mosse le labbra: con un gesto distratto aveva cominciato a sbottonarsi la camicia come se dovessi mirare al cuore. Devo dire che i miei rari pensieri andavano a quel corpo vivo e caldo che l'intimità della nostra vita comune mi aveva reso familiare come quello di un amico; e mi sentivo sconvolgere da una specie di assurdo rimorso per i figli che quella donna avrebbe potuto mettere al mondo e che avrebbero ereditato il suo coraggio e i suoi occhi. Ma popolare gli stadi o le trincee dell'avvenire non è compito nostro. Ancora un passo e mi trovai così vicino a Sofia che avrei potuto baciarla sulla nuca o posare la mano sulla sua spalla agitata da piccole scosse quasi impercettibili, ma già non vedevo più di lei che il contorno di un profilo perduto. Respirava un po' troppo rapida, e io mi aggrappavo all'idea che un giorno avrei voluto finire Corrado e che in fondo era la stessa cosa. Sparai con la testa voltata, un po' come un ragazzo terrorizzato che faccia scoppiare un petardo durante la notte di Natale. Il primo colpo non fece che portarle via una parte del viso, ciò che mi impedirà per sempre di sapere quale espressione Sofia avrebbe adottato nella morte. Al secondo colpo, tutto fu compiuto.
Sulle prime ho pensato che chiedendomi di compiere un simile gesto, ella intendesse darmi una estrema prova d'amore, e la più definitiva di tutte. Ho capito in seguito che voleva soltanto vendicarsi e lasciarmi un'eredità di rimorsi. Il suo calcolo era esatto: ne ho, qualche volta. Con simili donne si è sempre presi in trappola.