giovedì 4 giugno 2020


LA COPPA D'ORO
Henry James

INTRODUZIONE

Ecco una coppa ricolma fino all’orlo...
W. Shakespeare, Pericle
Ah, rotta è la coppa d’oro!
Lo spirito fuggito per sempre!
E.A. Poe, Lenore
La Coppa dorata, oggetto simbolico vistoso e ossessivo, accoglie e offre i segreti e i sensi del romanzo più mondano e abissale di Henry James – romanzo di perfezione classica, di imperiosa intelligenza. La maniera del Maestro, «stravolta e immobile, capziosa e meditatamente enfatica», come la definisce Giorgio Manganelli1 – vi è più impervia che mai. È il movimento del chiasmo, simile a una marea che riporta quel che ha tolto, toglie quel che ha portato, rivelando un fiabesco labirinto di acqua e sabbia. L’identità segreta dei contrari e il loro fluido abbraccio scorrono nel «circolo vizioso» delle ragioni che ciascun interessato offre all’altro. I quattro protagonisti, in ordine di presentazione, il principe, Maggie Verver, Charlotte, Adam Verver, si accoppiano e si incrociano formando il perverso nodo del chiasmo. Se c’è un ethos delle figure retoriche, il chiasmo non è drammatico, ma elegante, infido, gode di una sua intima sicurezza. Non assomiglia all’antitesi, ma all’ossimoro. Non è una «contraddizione tragicamente proclamata», ma «paradisiacamente assunta»,2 come nel nostro caso. C’è infatti molto di felicemente, paradisiacamente assunto e taciuto nei lunghi silenzi, negli sguardi intensi, nei delicati ma impavidi interrogativi che condizionano i dialoghi della Coppa d’oro; di pacatamente sensuale nella prontezza dell’occhio a farsi strumento, punta, della narrazione. Nella Prefazione, scritta circa cinque anni dopo la prima edizione, James definisce la sua «visione indiretta e obliqua» e la sua ricerca dell’espressione la «più diretta e fedele possibile». Anche la comunicazione, a suo parere, consiste nella doppia coppia di effetti contrari e insieme allacciati, «fedeltà e fascino, convinzione e illusione», rilanciati l’uno dall’altro.
La Coppa del titolo, Bowl, è anch’essa sottoposta allo spirito ironico e retrogrado del chiasmo: concava e convessa, unica e moltiplicata nei più quotidiani cup e glass. È la coppa del desiderio per Charlotte e Maggie, il monocolo-coppa con cui Adam Verver assaggia la vita, il bicchiere ricolmo di una severa intenzione, o dell’impeto di un discorso taciuto, o di una comunicazione piena ed esaltante. Bicchieri, vasi, coppe sono simbolici contenitori degli accidenti della vita. Ma la Coppa dorata, lucente e inquietante nella sua massiccia eleganza, è oggetto di verità e menzogna, perdita e ritrovamento. In quanto icona del sesso femminile è in stretto rapporto con Charlotte e Maggie e Fanny – le tre innamorate del principe. Non è neanche un oggetto d’oro ma di cristallo, non è integra ma ha una crepa che la segna e determinerà la sua fine. Quando il principe lo fa notare, aspramente, a Charlotte, lei non può che arrossire. Tuttavia, come la lampada di Aladino, la Coppa genera la sua ricchezza, il suo significato che non è raccolto nell’incavo, un contenuto nel contenente, ma inerente alla sua forma visibile e invisibile. I primi a vederla nel negozio di un antiquario ebreo sono il principe e Charlotte che vorrebbe comprarla come dono di nozze per Maggie, sua amica d’infanzia in procinto di sposare il principe, suo ex amante. È questa segreta, pericolosa passeggiata all’aria aperta che tradirà la coppia – la prima in ordine di tempo –, destinata a divenire nuovamente una coppia di amanti. Quattro anni dopo Maggie, moglie e figlia e madre felice, esce improvvisamente dal lussuoso fortino familiare per recarsi al British Museum a dare uno sguardo alla nutrita bibliografia della illustre famiglia di suo marito, una festosa panoplia di papi, avventurieri, amanti, palazzi e veleni in stile italiano. Soddisfatta, quasi eccitata, Maggie – che non diversamente dall’Autore è in adorazione erotica del principe – si ferma nello stesso negozio per comprare qualcosa di speciale per il compleanno del padre. Il piccolo, fiabesco ebreo che parla correttamente italiano e inglese, le vende la Coppa a un prezzo esorbitante. Poi la raggiunge al palazzo, le rivela, pentito, che la Coppa è incrinata, e avendo scorto la fotografia di Charlotte e del principe, riferisce a Maggie di quella visita e dell’acquisto mancato. La Coppa ha dunque un servitore, un suo Aladino, che l’aiuta nel difficile compito di rappresentare il veleno della Verità. È lui che la esibisce con arte, la trasporta come una drammatica reliquia, seduce le due compratrici con un fine apprezzamento delle loro qualità femminili: la bellezza di Charlotte, la grazia suprema di Maggie. La Coppa trova in lui un esegeta sottile che adatta il significato all’acquirente. Per suo mezzo essa esprime l’enfatica cognizione del tradimento e Fanny, una pittoresca ebrea americana, la scaraventerà sul pavimento di marmo. Un gesto improvviso, spettacolare, fulminante. In realtà è avvenuto un misterioso scontro tra maghi ebrei in quel deserto dove, secondo James, le azioni della letteratura – e della magia – non vanno perdute. La Coppa si spezza, lungo la fessura, in tre parti che Maggie ansiosamente raccoglie e mostra al marito. Ma i tre profili indicano solamente Maggie – il piedistallo – e Charlotte e Amerigo – le due metà del calice? ossia la fedeltà coniugale violata, la gratitudine calpestata, la fiducia tradita? E non anche, simultaneamente, Maggie e i due irrinunciabili amori della sua vita, uno velato, l’altro conclamato – il padre e il marito – e la sua ansiosa e amorosa anima filiale?

Un matrimonio principesco

L’Autore ha nominato aiutanti di campo, stretti collaboratori nella narrazione, il principe nella prima metà del libro e la principessa nella seconda. Non parlano in prima persona, essendo invischiati, attori essi stessi presi nell’intrigo narrativo, ma la loro coscienza è specchio limpido e registro accuratissimo. Se per coscienza si intende conoscenza dei segni visibili e occulti del mondo, abilità e prontezza a leggerli, anzi a presentirli, a interpretarli con un colpo d’occhio dato da lontano, a testimoniarli e accoglierli, allora il principe è un vedente straordinario, un cristallo che riceve e rifrange luce. Destinato per l’antica discendenza da Amerigo Vespucci a portare il nome del celebre navigatore, entra a vele spiegate nel romantico cuore di Maggie Verver. È perfettamente consapevole di rappresentare lui stesso un segno nobilissimo, storico e artistico non meno del suo palazzo, e come tale si espone, si dispone, si fa graziosamente acquistare o sedurre. «Gli occhi azzurro scuro del principe erano di una grande bellezza, e a volte, letteralmente, a nulla somigliavano tanto quanto ai finestroni di un palazzo romano, di una storica facciata disegnata da uno di quei grandi artisti di un tempo, aperta in un giorno di festa all’aria dorata». L’anima del principe si affaccia da quella finestra e da lassù tenta di penetrare con lo sguardo l’abbagliante biancore che cela il suo avventuroso matrimonio americano – una fortuna troppo bella per essere vera, sospettano i parenti romani. Quel matrimonio dovrebbe segnare l’approdo alle Isole Felici, suggerisce Fanny Assingham che lo ha amorosamente preparato. Abituato a nere e fosche cortine che promettono quel che celano, il principe è ancora più allarmato. Né può permettersi di divergere dal ferreo principio dei suoi antenati: conquistare, possedere, pur restando adorabile, virile, erotico nella sua morbida posa rinascimentale. Questo è il suo speciale potere personale. Ma è il sapere della sua razza, arrogante, cupida, spesso abominevole, che lo trattiene entro un involucro invisibile ma coercitivo, che è odore del suo corpo, segreto e permanente. L’infame papa, il celebre navigatore, tutti «loro», disegnano il percorso che egli deve compiere per salvare in lui loro stessi, affinché quella storia di delitti, follie, bêtises, si reincarni nel presente e si giustifichi. Come il Pericle di Shakespeare – il nobilissimo principe di Tiro, l’eccellente stando al nome –, Amerigo si è messo in mare in cerca di una sposa adeguata alla loro storia e ai suoi debiti. E si imbatte anche lui in una coppia padre-figlia strettamente unita che gli pone l’enigma, bianco, accecante, vistosissimo del loro inattaccabile attaccamento. Alla vigilia del matrimonio si sente come il naufrago Gordon Pym, alla deriva su una piccola barca, che «si trovò dinanzi uno spesso strato di aria bianca simile a un’abbagliante cortina di luce, che celava così come cela l’oscurità, ma era del colore del latte o della neve». Il principe sollecita spiegazioni, direzioni, consigli; li accumula grato della premura, ma indifferente ai contenuti. Mai si ritiene umiliato, anzi pratica una machiavellica specie di umiltà per cui precisa elegantemente il rovinoso stato della coscienza morale suo e dei suoi connazionali. Ma è l’enorme energia propulsiva della coscienza morale degli americani che lo preoccupa vivamente. «Sei quel che si dice un morceau du musée», gli ha spiegato la fidanzata, un pregiatissimo pezzo vivente del grandioso museo che il padre di lei si accinge a donare alla mitica American City. Ma Amerigo, che parla l’inglese perfettamente, forse ha letto il Pericle e ne prende un’immagine. La principessa Taisa, la seconda per cui Pericle combatte – essendosi la prima rivelata madre e moglie e figlia di re Antioco – appena lo vede esclama «... tutto quello che mangio mi sembra senza sapore, perché vorrei mangiare lui» (I, 3, vv. 30-32). Nel colloquio iniziale con Maggie il nostro principe dichiara con disinvoltura «... sono tutt’al più un pollastro, fatto a pezzi e affogato nella salsa; ridotto a crême de volaille, in parte cucinato e in parte no. Tuo padre è il pollastro vivo che corre per la basse-cour. Piume, movimenti, voce: ecco ciò che di me non è stato cucinato [...] Ebbene, tuo padre me lo sto mangiando vivo; non c’è altro modo per sentirne il gusto». Qual è il valore che Adam Verver gli assegna? cosa si aspetta da lui? quale torneo Amerigo dovrà vincere? quale enigma dovrà sciogliere?

Un adulterio

Se a una storia esemplare occorrono personaggi esemplari, illustri secondo Aristotele, per un adulterio malriuscito basta una donna del ventesimo secolo, una versione più disinvolta di madame Bovary. Charlotte Stant, una americana cresciuta nella campagna toscana, forse con qualche misconosciuta mescolanza di sangue locale – il malizioso sospetto è del principe – è la she-villain, la cattiva, la sperduta, chiamata dentro la famiglia Verver, e nel quadrilatero narrativo, per servire allo scambio finale delle donne che gli uomini eseguiranno. All’Autore – come al principe – ispira «pietà e profitto». È disegnata alla Sargent e la vediamo attraverso gli occhi del suo ex amante «... la straordinaria finezza del suo busto flessuoso, stelo di un fiore sbocciato, che la faceva rassomigliare anche a una borsa di seta lunga e morbida». Su anime semplici produce lo stesso effetto del «vino dei Borgia». Il principe è attratto dalla sua abiezione appassionata, unita all’abilità inquietante di dissimulare, e all’altra misteriosa abilità di parlare lingue diverse con assoluta padronanza, di percepire a distanza comportamenti e situazioni, di leggergli nel pensiero – se non di scrivervi il suo desiderio. È vinto dallo sfacciato e pericoloso richiamo, è spinto a sfidare il padre-re Adam Verver – una sfida che gli corre nel sangue sin dall’inizio.
L’umile cognome destina Charlotte a esporsi e porsi a disposizione di ogni occorrenza: lei sta lì, col suo bellissimo corpo ruotante sotto lo sguardo compiaciuto del principe o al laccio invisibile ma ferreo del marito. Non appartiene al triangolo mitico: padre-re, figlia-oggetto di amore, principe-pretendente, ma costituisce una
variante moderna che corregge e ricopre il nucleo originario, che è tabù. Con lei si entra nella comedy, nella commedia della seduzione, nella ludica macchina dell’adulterio, nel turbine di femminee passioni: gelosie e languori, assalti e fughe, ricatti, sconfitte e trionfi. Tutto in lei «evocava venti e marosi e luoghi di dogana, paesi lontani e lunghi viaggi, il saper come fare e dove andare e l’abitudine, fondata sull’esperienza, a non aver paura». Usata, umiliata, giocata, costantemente alla deriva per amore del suo principe, Charlotte erotizza la scrittura. Mentre Maggie è voce sommessa, sussurri, sospiri, silenzi, sottrazione apparente e costrizione reale, Charlotte è movimento, volume, colore e fiammeggianti isterismi. Quanto Maggie è delicata sinopia classica, tanto Charlotte è moderna e usa le cose della vita: un ombrello bagnato, un vestitino nero, un cappellino, un bellissimo boa, un parasole, un libro che non legge. Tuttavia compie azioni indimenticabili: protende un piede verso la fiamma del camminetto, se ne sta splendente e assorta in attesa del principe in cima a uno scalone, si inquadra in una finestra del castello di Matcham, compare sul balcone con l’amante a testa nuda e lei in blusa ma con un cappellino provocante, elargisce esasperanti lezioni di storia dell’arte a malcapitati ospiti. Nella scena in cui seduce il principe con la rapidità e la sicurezza di un grande stratega scopre appena una caviglia. Ma sa dargli il tempo e comunicargli il movimento giusto. L’Autore gioca di anticipo sull’abbraccio finale degli amanti con l’allegoria della passione tra Tempo Passato e Tempo Futuro. «Il senso del passato risorse per lui, nondimeno, come mai era accaduto finora: e fece sì che il tempo andato chissà come incontrasse l’avvenire con esso avvinto e confuso, sotto i suoi occhi attenti, come nella lunga unione di un abbraccio e di un bacio, e brancicasse e malmenasse il presente a tal punto che questa misera quantità quasi più non sussistesse, quasi non rimanesse  in misura sufficiente per essere ferita o colpita» (corsivo dell’autore). La passione rinata conferisce una qualità nuova, elastica al tempo, anche a quello atmosferico: si cadenza sul languore della pioggia, coglie l’impulso di un mattino di aprile. In un mattino così a Matcham, Charlotte appare a una finestra «Vieni giù subito! – disse lui in italiano, con voce non alta ma fonda. – Vengo, vengo! – rilanciò lei, con voce altrettanto netta, ma con tono più leggero...» (corsivo dell’autore). «Glo’ster, Glo’ster» canticchia lui. La cattedrale di Gloucester sarà la meta, in realtà solo la scusa, di una visita lunga un pomeriggio. Ogni loro apparizione in coppia è esibita al massimo, come se, invece di nascondersi, volessero esporsi e trionfare di fronte alla coppia padre-figlia, chiusa nella sua radiosa intimità. Una differenza si è stabilita negli sguardi di Charlotte e Amerigo: altre luci, altre intensità e fermezze.

Una coppia di interpreti

Se la Sfinge inaugura ogni destino straordinario, necessario e misterioso, allora è pertinente che Fanny, una sfinge in formato ridotto per uso mondano, sia una impenitente combinatrice di matrimoni, prima avidamente consultata, poi quasi castigata, ironicamente lasciata vagare nel buio. Dopo avere trionfalmente concluso le nozze tra la ricca ereditiera americana e il principe romano, per correggere i pericolosi vuoti così creati, immediatamente progetta quelle tra Charlotte e Adam Verver. Lei e il marito, il colonnello Assingham, sembrano esclusivamente occupati ad assegnare i significati giusti ai segni che appaiono fulminei e minacciosi nello spazio crepuscolare delle relazioni personali. Di sicuro tutti i personaggi della Coppa d’oro sono intensamente presi dall’operazione di lettura dei segni, siano frasi ambigue o lasciate a metà, citazioni, ripetizioni, sguardi, gesti, mutismi improvvisi. Ma agli Assingham, in virtù del loro cognome che seminasconde l’azione verbale originale assign/them, spetta questo compito precipuo. Come i corteggiatori di tante temibili principesse, rischiano la vita nel gioco, la loro ragione d’essere nel beau monde romanzesco. La chiave deve aprire lo scrigno giusto, a meno di non essere così perversi e abili da adattare lo scrigno alla chiave. È una questione di affinata intelligenza, ma genera anche ansie e fraintendimenti. Ossia, letteratura. Fanny si dimostra in genere una interprete insicura, troppo presa a sublimare motivi e azioni e caratteri in una specie di fissazione simbolica, esaltata e quasi profetica. Il colonnello, un tipo speciale di dottor Watson, gioca crudamente al ribasso, alla svalutazione, alla sardonica contraddizione della lettura sublime operata da Fanny. Bob Assingham è anche una spiritosa caricatura dello scrittore amico e rivale di Henry James, Robert Louis Stevenson. Basta confrontare il ritratto verbale che ne fa James – invecchiandolo un po’ – e i due ritratti a olio eseguiti da Sargent: Stevenson seduto su una poltrona di bambù rossa (1884) o in piedi, magrissimo, e di scorcio la moglie, di nome appunto Fanny, seduta all’estremo opposto, rivestita d’un velo dorato (1885) – lo stesso vistoso abbigliamento esotico della Fanny di James. Bob Assingham «dava l’idea d’un’abitudine alle isole tropicali, di una eterna poltrona di vimini, di un governatorato esercitato all’ombra di vaste verande. La sua testa rotonda e liscia, con la tinta particolare dei capelli bianchi, era come un vaso d’argento rovesciato; gli zigomi e le setole dei suoi baffi erano degni di Attila l’Unno [...] Forse, sotto lontani e confusi climi, in antiche campagne di crudeltà e licenza, aveva avuto rivelazioni tali e conosciuto tali sbigottimenti da non aver più altro da imparare». James non aveva dimenticato l’attacco che il caro Louis aveva consapevolmente sferrato alla sua tecnica narrativa: «1° guerra all’aggettivo; 2° morte al nervo ottico. Dovete ammettere che viviamo in un’epoca in cui il nervo ottico la fa da padrone in letteratura. Ma per quanti secoli la letteratura è andata avanti senza che ve ne fosse traccia?». Deliziosa vendetta quella di James, compiuta proprio con l’arma infallibile del nervo ottico e quella ausiliaria ma affilata dell’aggettivo. Bob Assingham-Stevenson è costretto a vedere i segni premonitori dell’adulterio, ma quanto a lui non è visto, né letto né interpretato da nessuno. Stevenson aveva sempre privilegiato l’udito: «Sento i personaggi parlare, ne comprendo le azioni, e mi pare che la narrativa sia soprattutto questo». Gli acuti commenti di Bob, laconici e stringenti, per la moglie assediata, ma non vinta, diventano grumi di vile materia: «gesti fisici privi di senso o tic nervosi». Eppure parlano tanto gli Assingham, e forse più di altri personaggi di James, si alimentano di parole, offrono parole per alimento. Se i personaggi di Ritratto di signorasono al mondo solo per parlare, come ha scritto Pietro Citati, gli Assingham possono vantare di avere questa unica giustificazione per abitare il romanzo: è per loro passione e azione. Praticano quel tipo di conversazione «... aguzza, ellittica, ingegnosa, fatta di pointes, allusioni e piccoli enigmi, dove i personaggi giocano un perfetto e crudele gioco di scherma, l’oscurità brilla per un istante, e poi torna ad estendersi»3. Sono gli attivi collaboratori «più o meno sanguinanti» dell’Autore e alla sua velata maestà e felice irresponsabilità oppongono l’astuzia e l’affetto di osservatori minori, ma stretti alla cosa, all’impresa comune, affascinati come ne fossero i primi lettori, modelli pittoreschi e drammatici di quelli a venire.

Padre e figlia

Maggie e Adam Verver sono stati battezzati dall’Autore con nomi archetipici. Ver-ver è una doppia evocazione della primavera: Maggie appartiene al maggio che è il mese menzionato in prima pagina, e anche il mese in cui il principe sente per la prima volta parlare di lei. Adam prende il nome del primo uomo dalla cui costola Dio formò la donna e lei non poté che essere la figlia e la moglie del proprio padre. Una ferrea simbiosi racchiude Maggie e Adam in una mandorla paradisiaca, eternamente primaverile. Il loro colore è il bianco, il colore dell’enigma. Passeggiano in un giardino che è il ricordo terreno del loro Eden originario. Anche il cancellino di quel giardino è, curiosamente, «... un cancellino bianco, di un bianco intenso e netto fra tutto quel verde, attraverso il quale giunsero passo passo dove si stendevano fitti gli alberi più maestosi e dove si poteva trovare il luogo di più intensa quiete». Parlano il linguaggio amoroso e allusivo dei complici, comprano oggetti d’arte e amanti bellissimi, si avventurano in luoghi incredibili a cercare le «cose belle». Per i ritratti dei Verver, James ha mescolato nella palette i colori di Keats con quelli di Pater, e lo dichiara apertamente. Adam Verver ha letto il sonetto di Keats, On first looking into Champman’s Homerche gli è stato viatico per la conquista e la rapina delle sue Isole d’oro. Ha un corpo agile, giovane, da predatore, stomaco concavo, occhi azzurri aperti sul confine della visione: il dentro e il fuori vi si incontrano. Il volto essenziale e «chiaro» – scritto così tra virgolette – lo indicano della razza dei diafani eroi di Walter Pater, dei o semidei, che pur stando al margine della scena, sono i padroni della storia. La ricchezza è per lui quello che la magia è per Prospero. La sua regalità e la sua speciale irresponsabilità sono i segni sacri del re-bambino che presiede al rito conviviale: «... a dispetto di tutto ciò egli, laggiù a capotavola, somigliava tanto ad un fanciullino che intrattenesse timidamente gl’invitati in virtù di qualche rango avito, che in verità non poteva essere altro che una potenza, il rappresentante di una forza; proprio come un re fanciullo è il rappresentante di una dinastia». Non stupisce di Adam Verver la temerarietà e la mitezza, l’insignificanza e l’invincibilità, la doppia funzione di salvatore e vittima del sacrificio. In Adam arde la fiamma dura e lucente come gemma, secondo la famosa immagine di Pater, fredda e immota secondo James, dell’idea estetica – che è anche prensile lingua verso il mondo esterno protesa a gustare gli atomi di bellezza, sparsi nel mondo. Elemento divoratore, possessivo e aggettante, ma anche legge, disciplina e diafaneità dell’esteta. «... fragile, pallido, imbarazzato, squisito Pater!» scrive Henry James nella lettera a Edmund Gosse, dopo la sua morte. Adam Verver, pur tanto simile a Pater e allo stesso James, è arricchito di qualcosa in più rispetto a loro: sperimenta la materializzazione di Core, «la danzatrice», plasmata su reminescenze classiche. Anche se il saggio sui due archetipi Il fanciullo e la Core fu scritto da Jung molto tardi, nel 1940-41, fu lui ad attirare l’attenzione di Freud sulla fantasia pompeiana di W. Jensen, Gradiva —«l’avanzante» –, pubblicata nel 1903. In certi strani momenti Adam vede, nel senso pieno che James dà al verbo, oltre la logica, oltre l’umanità, la figlia mutata nella ninfa che scende dal piedistallo, o che muove attorno all’urna greca «... un’esile figura antica dai lievi drappeggi dei Musei Vaticani o del Capitolino, figura d’un’epoca tarda, raffinata, pura come una nota e immortale come una fiaccola [...] gli occhi velati e assenti, la testa anonima, liscia ed elegante, l’impersonale palpito di una creatura sperduta nel passato». Nel cuore della distanza di Adam è posta la distanza della ninfa, il possesso irraggiungibile, l’essere che sfugge all’essere e si accampa là dove c’è seduzione, perdita, follia. La ninfa nega l’individualità, la presenza, la presa, essendo infinita e insondabile coercizione dell’uomo. È il padre esteta che vorrebbe disincarnare la figlia, stilizzarla e fissarla nell’archetipo «una figura con la quale la sua parentela umana veniva quasi rotta». Un tentativo di sciogliersi o di chiudersi definitivamente nel suo abbraccio d’ombra? Maggie propone sostituzioni, deleghe; gioca con l’assenza e il vuoto; lo avvolge in un chiasmo inquietante. «Come se tu non potessi essere disponibile, quando eri sposato con me. O meglio, come se fossi io, senza mia colpa, a tener lontana la gente, per il fatto di esser sposata con te. Ora che sono sposata con qualcun altro, tu, di conseguenza, non sei sposato con nessuna. Perciò puoi sposarti con chiunque, non importa chi sia. Le altre non vedono perché non dovresti sposarti con loro» (corsivi dell’autore). Il padre è preso in un labirinto senza tempo e senza orizzonte, in un gemellaggio ostinato e provocante: lui è giovane quanto lei, è il suo coetaneo, il suo «diletto». Il labirinto notturno che Adam passivamente contempla improvvisamente si illumina dello strano sole di mezzanotte e si scioglie in lineamenti nuovi, precisi, esaltati da una ardita bellezza. Una sola parola salita dall’inconscio ha provocato la scoperta e l’intensa allucinazione: matrimonio, ossia matrimonio con Charlotte che ha la stessa età della figlia, matrimonio come gesto uguale e parallelo a quello della figlia, compiuto per amore della figlia. «E poi, non era stata soltanto la parola, con uno scatto, ad adattarsi all’enigma, era stato l’enigma che in maniera perfetta si era adattato alla parola». Una parola che promette un’uscita dal labirinto dell’incesto, lo supera ma lo ribadisce quando al centro della coppia padre-figlia si stabilisce il bambino nato da lei, e regalmente donato al padre. La passione di Maggie per il marito è raccontata, aperta ad Adam, quasi sfida o offerta estrema. La figlia-anima lo assedia e lo abbaglia con le sue evoluzioni nel caldo mare estivo dell’eros. «Se ne rimaneva seduto al suo posto, come se fosse cosciente di essere ridotto al silenzio, rimproverato quasi, e non per la prima volta [...] La bellezza dello stato di lei lo manteneva comunque, lo sentiva bene, in vista del mare, del quale, anche se per lui era ormai passato il tempo di tuffarvisi, riusciva a cogliere tutto lo splendore, mentre l’aria, gli spruzzi, i giochi con l’acqua divenivano una sensazione anche sua». La capacità di Adam di possedere e sottrarsi al possesso gli fa godere del bambino come dell’ultima felice rapina, ricchezza da custodire, sé dei suo sé. L’uomo «con l’impenetrabile cuore racchiuso nella freschezza costante e impeccabile del panciotto bianco» protegge i sogni del bambino, benché anche lui addormentato e indifeso, col capo riverso. A Maggie sembra di indovinarne lo sguardo tra le palpebre socchiuse, si arresta di fronte al gruppo degli eroibambini, padre e figlio, e rientra nelle sue stanze rinunciando a far valere il suo privilegio di madre per godere ancora del suo privilegio di figlia.
Nelle ultime righe della Coppa d’oro c’è un decisivo gioco di sguardi: gli occhi del principe, distolti per sempre da Charlotte, si rivolgono a Maggie «... non vedo che te» (corsivo dell’autore). Maggie per «pietà e terrore» seppellisce i suoi occhi nel petto del marito. La commedia termina nel cono d’ombra della tragedia, la figlia con quel gesto entra nelle tenebre, folgorata dallo stesso lampo accecante di Edipo. Nel punto dove il racconto scompare alla vista, divampa l’aristotelica definizione di catarsi: un effetto che sorprende e svela nel testo la piaga nascosta. Pietà e terrore. Maggie come coscienza finale, punto focale, e corpo fragile e raccolto nell’abbraccio del marito, è preda della arcaica forza distruttrice e redentrice della catarsi. In lei, ammutolita nel vortice del patimento sublime, James spegne la propria anima affabulatoria e l’equivoca e predace ansia di amore.

La pagoda

Esattamente all’inizio della parte seconda, «La principessa», una fantastica pagoda si presenta allo sguardo e al tatto di Maggie, calata misteriosamente nel giardino in fiore. Per esaltarlo o per opprimerlo? «... una costruzione rivestita di porcellana dura e lucente, ricca di colori e di fregi, e adornata, sulle grondaie spioventi, di campanelli d’argento che mandavano un tintinnio quanto mai delizioso se li scoteva una fortuita brezza. Ci aveva camminato e camminato intorno, ecco la sua impressione; aveva tirato avanti la sua esistenza nello spazio a lei concesso per circolare, uno spazio che a volte sembrava vasto e a volte angusto; senza smetter mai di guardare in su, verso la bella costruzione che si estendeva così vastamente e si elevava tanto in alto, ma non riuscendo mai a capire a pieno di dove avrebbe potuto entrare se l’avesse desiderato...». La perfetta simmetria dell’incesto genera l’altra perfetta simmetria dell’adulterio, che poggia sul primo: una torre d’avorio. Gli sposi sono doppiamente sposati, esposti e saldati in modo particolare al loro doppio contrario. Maggie si avvicina troppo: la pagoda minacciosamente si muta in una moschea musulmana, una coppa rovesciata sotto cui palpita un cuore di tenebra. Non c’è porta per entrare, ma se ci fosse sarebbe rischioso varcarla. Maggie dà un colpetto alle preziose piastrelle. Anche se non sa perché: volontà di profanazione o futile fatalità? La mano poggiata sulla superficie levigata e lucente avverte un suono, «un suono sufficiente a farle capire che il suo farsi più vicina era stato notato». Maggie è la reversibilità stessa. La sua mano cattura e si fa catturare dalla pelle scintillante della pagoda. Quella ambigua e proteiforme cosa-creatura sente e teme a sua volta la sua insistente pressione, la sua paura esigente. Il tocco diventa un suono. Maggie tocca carnalmente e intellettualmente le cose e le persone e le situazioni, benché si mantenga al tempo stesso universale e generale — come la ninfa che muove attorno all’urna greca. Discesa dall’urna preserva quella particolare forma d’essere: è costante e tangibile, capace di porsi a specchio o in continuità con l’altro. È eroticamente schiava del marito al quale, confessa, si attaccherebbe ancor di più se la picchiasse, ma ne esalta o spegne le capacità amatorie, le fa affiorare in un campo di forze più ampio e significativo. Lei getta i dadi del loro destino. Per Adam, l’ermafrodito originario, è l’anima-specchio, la con-sorte ideale. Cosa avrà rappresentato il soggetto sacro davanti al quale padre e figlia si dicono addio per sempre? Vi è incorniciato il volto spirituale di lui, suggerisce l’Autore. Adam si sacrifica alla volontà della figlia, torna in America, ma getta l’arpione di una feroce nostalgia «... egli faceva tutto quel che poteva per lasciare a lei una parte del suo io materiale», quasi stretto tra le sue braccia. Maggie aveva confidato a Fanny: «Perché sono loro ad essere salvati. E siamo noi ad essere perduti. Perduti? Perduti l’uno per l’altra... mio padre ed io».
Maggie è personaggio del chiasmo: ne rappresenta l’avventura e la dolcezza, la porosità e la penetrabilità. È anche l’agile spaniel che si scrolla dai marosi della passione e corre per i campi della memoria a stanare la selvaggina, «la specie o idea di quelle cose che si propone di rappresentare»4. È l’immaginazione dell’Autore che trascende la storia e punta all’assoluto diminuito che il romanzo consente. Anche se è trafitta dagli sguardi che la fissano attraverso un segreto «... e negandolo», anche se è abbagliata dalla «selvaggia carovana d’Oriente», Maggie-James non cede a Stevenson, a quel «fare» dei suoi personaggi che è la loro potenza. Sceglie invece la vibrazione del silenzio, e l’inclinazione delle cose verso la loro mortale passività; sente il profumo del fiore che è già nel mazzo «prima che si possa sospettarne la presenza o sentirne la mancanza», apre il testo alla sua vita segreta.
Anni dopo, revisionando La coppa d’oro, James si sente guardato dalle «vigili creature alate» che abitano i picchi aguzzi della sua scrittura. Quasi retrocessa, sfumata, la storia visibile, palpita l’incrocio di sguardi tra lui e quei termini percettivi ed espressivi che «in una frase, un passo o una pagina, guardavano al di là dei termini esistenti». La breve marcia nella stanza, dettando alla dattilografa il romanzo, si è trasformata in una felice marcia sul luminoso campo di neve della pagina, un’esperienza fresca e rigenerante «quanto per una mente filosofica una improvvisa, ampia percezione dell’Assoluto».
Quell’assoluto senza maiuscola del romanziere che non misconosce gli affetti e i doveri della paternità-maternità dell’Autore nei confronti delle proprie opere «una discesa di bimbi imbarazzati dalla nursery al salotto, dietro il gentile richiamo di visitatori curiosi, forse interessati». Sono i bimbi riottosi di James, pervicacemente intenti ai loro giochi metafisici.
 
VIOLA PAPETTI


LA COPPA D'ORO 

CAPITOLO I

Al principe, ogni qualvolta gli si era fatta incontro, la sua Londra era sempre piaciuta; egli era uno di quei romani d’oggigiorno che trovano in riva al Tamigi una immagine della verità dell’antico impero più convincente di quante ne hanno lasciate in riva al Tevere. Cresciuto nella leggenda della Città cui pagava tributo il mondo, in misura molto maggiore che nella Roma del suo tempo egli riconosceva le dimensioni effettive di siffatto caso nella Londra attuale. Se era questione di un Imperium, diceva a se stesso, e se uno, in quanto romano, aspirava a ritrovarne un poco il senso, il luogo per farlo era sul ponte di Londra, o anche, in un bel pomeriggio di maggio, in Hyde Park Corner. Non era però né all’uno né all’altro luogo che questi motivi della sua predilezione, assai vaghi al postutto, avevano, nel momento in cui ci occupiamo di lui, guidato i suoi passi; egli aveva, abbastanza semplicemente, deviato per Bond Street, e qui la sua immaginazione, operando in un raggio di relativa brevità, lo faceva arrestare di quando in quando di fronte ad una vetrina nella quale oggetti massicci e grevi, d’argento e d’oro, in quelle forme cui dànno ornamento le pietre preziose, oppure di cuoio, d’acciaio o di bronzo, intesi a cento usi ed abusi, erano ammassati alla rinfusa quasi fossero stati, nell’arroganza dell’Impero, il bottino di remote vittorie. I movimenti del giovane, però, non tradivano nessuna coerenza d’attenzione: nemmeno, nella fattispecie, quando una delle sue pause era nata da possibilità còlte su volti tenuti in ombra, mentre gli passavano accanto sul marciapiede, da enormi cappelli ornati di nastri, o ai quali dava una tinta più delicata ancora la seta ben tirata di parasoli tenuti perversamente in bilico in carrozze in attesa. E il pensiero vago del principe era sintomatico non poco, poiché, per quanto la season fosse già sul finire e l’afflusso nelle strade avesse cominciato a diradarsi, le possibilità dei volti erano tuttavia, nel pomeriggio di agosto, una delle caratteristiche della scena. Egli era troppo irrequieto, ecco la verità, per ogni genere di concentrazione, e l’ultima idea che sotto ogni rapporto avrebbe potuto venirgli in mente adesso era quella di andar dietro ad una donna.
Erano sei mesi che faceva proprio questo, e lo faceva come non gli era mai successo in vita sua; e ciò che lo aveva reso inquieto, nel momento in cui ci uniamo a lui, era la sensazione del modo in cui era stato ricompensato. La cattura aveva coronato l’inseguimento... oppure, come avrebbe potuto anche dire, il successo era stato la ricompensa della virtù; per cui la consapevolezza di queste cose lo rendeva, per il momento, piuttosto serio che lieto. Una gravità che avrebbe potuto andare associata al fallimento posava sul suo bel viso, costituzionalmente regolare e austero, ma nello stesso tempo stranamente e, in certo modo, funzionalmente pressoché radioso, con gli occhi di un cupo azzurro, i baffi castano scuro e l’espressione non più spiccatamente «forestiera», all’occhio inglese, di quel tanto che aveva fatto dire talvolta di lui, con superficiale efficacia, che sembrava un irlandese «distinto». Ciò che era accaduto era che poco prima, alle tre, era stato praticamente posto il suggello al suo destino, e che, anche a non aver pretesa alcuna di opporvisi, il momento aveva qualcosa del sinistro stridere di una chiave entro la serratura più robusta che potesse venir costruita. Non c’era altro da fare, ormai, che sentire quello che già si era fatto, e ciò appunto sentiva il nostro personaggio mentre vagava senza mèta. Era come se fosse già sposato, tanta era la precisione con cui i legali, alle tre, avevano fatto sì di fissare la data, e tanto pochi erano i giorni che a quella data mancavano. Alle otto e mezzo doveva pranzare con la signorina in nome della quale, e in nome del padre della quale, i legali londinesi avevano raggiunto un ispirato accordo col suo uomo d’affari, il povero Calderoni, appena giunto da Roma e che ora si trovava con ogni evidenza nella mirabile situazione di venir condotto a «veder Londra», prima di ripartirne celermente, dal signor Verver in persona, quel signor Verver la cui disinvoltura rispetto ai propri milioni aveva condannato a un così scarso rilievo, nelle transazioni, il principio della reciprocità. La reciprocità che in questi momenti colpiva più di tutto il principe era la concessione da parte di Calderoni della propria compagnia per andare a vedere i leoni. Se, in questa congiuntura, c’era una cosa al mondo che il giovane intendeva a chiare note, era quella di essere molto più decoroso, come genero, di quanto non si fossero dimostrati sotto tale profilo i moltissimi individui a cui riusciva a pensare. A tali individui, dai quali tanto si differenziava, egli pensava in inglese; usava mentalmente il termine inglese per definire tale differenza, poiché avendo avuto dimestichezza con la lingua fino dai suoi primi anni, sì che in lui, sia nel parlare che nell’ascoltare, non rimaneva traccia del suo essere straniero, la trovava comoda, nella vita, per il più gran numero di rapporti. La trovava comoda, strano a dirsi, anche per i rapporti con se stesso; pur non essendo immemore che, col tempo, avrebbero potuto essercene anche dei nuovi (includenti in sé un grado più intimo di quello), i quali sarebbero andati in cerca, e fors’anche con violenza, della più vasta o, chissà? più sottile espressione della lingua natìa. La signorina Verver gli aveva detto che parlava inglese troppo bene... non aveva altro difetto che questo, ed egli nemmeno per farle cosa grata era riuscito a parlare peggio. «Quando parlo peggio, vedi, io parlo francese» aveva detto; volendo così sottintendere che c’erano delle sfumature, di un genere senza dubbio irritante, per cui quella lingua si prestava meglio. La ragazza l’aveva presa, e non glielo nascose, come una riflessione sul suo proprio francese, che aveva sempre sognato tanto di rendere buono, di migliorare; per tacere del pensiero evidente in lui che quell’idioma presupponesse un’intelligenza che ella non era persona da attingere. La risposta del principe a tali osservazioni — cordiale, amabile, come ogni risposta che le parti di questa sua nuova transazione avevano sinora ricevuto da lui — fu che egli si esercitava a parlare americano al fine di conversare come si deve, e in effetti su un piede di uguaglianza, col signor Verver. Il suo futuro suocero ne aveva una tale padronanza, disse, che in ogni discussione lo poneva in condizione d’inferiorità; e inoltre... be’, inoltre egli aveva fatto alla ragazza l’osservazione che senza meno, di tutte le osservazioni da lui fatte sinora, l’aveva più sottilmente commossa.
— Sai che lo stimo un vero galantuomo1... «non si sbaglia». Ce ne sono tanti fasulli. Mi sembra semplicemente l’uomo migliore che abbia mai conosciuto in vita mia.
— Ebbene, mio caro, perché non dovrebbe esserlo? — aveva chiesto tutta lieta la fanciulla.
Era stato proprio questo discorso a dar origine alle riflessioni del principe. Tutte, o molte, di quelle cose che avevano reso il signor Verver ciò che era, sembravano in pratica gettare il peso del discredito sulle altre cose che, nei riguardi delle altre persone note al giovane, avevano mancato di conseguire risultati simili.
— Be’, il suo «stile» — egli aveva replicato — avrebbe potuto far dubitare.
— Lo stile del babbo? — Lei non se ne era mai accorta. — Mi fa l’effetto che non ne abbia.
— Non ha il mio... e nemmeno il tuo.
— Grazie per il «nemmeno» ! — l’aveva canzonato la ragazza.
— Oh, il tuo, mia cara, è tremendo. Ma tuo padre ne ha uno tutto suo. Io l’ho scoperto. Perciò puoi starne certa. Ma in che senso questo stile lo ha valorizzato? ecco il punto.
— È stata la sua bontà a valorizzarlo — aveva ribattuto qui la nostra giovane donna.
— Ah, mia cara, la bontà, penso, non ha mai valorizzato nessuno. La bontà, quando è autentica, riesce appunto a tener la gente piuttosto in ombra. — Aveva preso gusto alle sue precisazioni, che lo divertivano. — No, sono i suoi modi. Sono modi tutti suoi.
Ma lei aveva continuato ad essere scettica.
— Sono i modi americani. Ecco tutto.
— Precisamente: ecco tutto. Ecco tutto, lo dico anch’io! Sono i modi che gli si adattano; per cui devono servirgli a qualcosa.
— Pensi che potrebbero servire a te? — aveva risposto Maggie Verver con un sorriso.
E qui la risposta di lui era stata proprio delle più felici.
— Ho l’impressione, mia cara, se lo vuoi proprio sapere, che ormai niente possa servirmi a gran che, in bene o in male. Così come sono... ma lo vedrai da te. Puoi dire, tuttavia, che sono un galantuomo1, e spero umilmente che tu lo faccia; sono, tutt’al più, come un pollastro, fatto a pezzi e affogato nella salsa; ridotto a crême de volaille2, in parte cucinato e in parte no. Tuo padre è il pollastro vivo che corre per la basse-cour. Piume, movimenti, voce: ecco ciò che, di me, non è stato cucinato.
— Ah, ma è naturale... visto che non si può mangiare un pollo vivo!
Queste parole non avevano contrariato il principe, ma egli era stato esplicito.
— Ebbene, tuo padre me lo sto mangiando vivo; non c’è altro modo per sentirne il gusto. Intendo continuare a farlo, e poiché è quando parla americano che è più vivo, così devo imparare anch’io, per trarne piacere. In nessuna lingua potrebbe riuscire a rendersi gradito come in questa.
Poco importava se la ragazza aveva continuato a porre obiezioni. A questo modo non faceva che esprimere la sua gioia.
— Credo che a te riuscirebbe a rendersi gradito anche in cinese.
— Sarebbe un fastidio superfluo. Ciò che voglio dire è che egli è una sorta di conseguenza del suo inevitabile accento. La mia simpatia va di conseguenza all’accento che ha reso un tale uomo possibile.
— Oh, lo udrai anche troppo — rise lei — prima di averla fatta finita con noi.
Solo queste parole, a dire il vero, lo avevano fatto accigliare un poco.
— Che cosa intendi dire, scusa, con questo «averla fatta finita»?
— Be’, aver scoperto su di noi tutto quello che c’è da scoprire.
Era riuscito davvero agevolmente a prenderlo come uno scherzo.
— Oh, amore mio, è di qui che ho cominciato.So abbastanza, lo sento, da non poter aver mai delle sorprese. Siete voialtri invece — proseguì — a non saper nulla, in fin dei conti. Vi sono due parti in me — sì, si era sentito spinto a continuare. — Un uomo è fatto della storia, delle azioni, dei matrimoni, dei delitti, delle follie, delle bêtisessconfinate degli altri; specialmente del loro infame sperpero di denaro che avrebbe potuto giungere fino a me. Sono cose scritte..., sì, alla lettera, in file di volumi, nelle biblioteche; sono tanto di pubblico dominio quanto abbominevoli. Tutti possono accedervi, e voi, tutti e due, le avete guardate in faccia in un modo meraviglioso. Ma c’è un’altra parte, assai più piccola senza dubbio, che, così com’è, rappresenta il mio proprio io, la mia ignota e priva d’importanza (priva d’importanza per tutti fuorché per te) personalità. Su di essa non hai scoperto nulla.
— Tanto meglio, mio caro — aveva risposto bravamente la fanciulla; — perché allora che accadrebbe, scusa, del modo in cui mi riprometto di occupare il mio avvenire?
Il giovane ricordava ancora come era apparsa straordinariamente limpida — non avrebbe saputo definirla altrimenti —nella sua grazia, mentre diceva così. Ricordava anche che cosa gli era venuto fatto di rispondere.
— I regni più felici, ce l’hanno insegnato, lo sai, sono i regni senza storia.
— Oh, non ho paura della storia! — Ne era ben sicura, lei. — Di’ pure che è il lato negativo, se vuoi... ma in te certo sprizza da ogni poro. Che cosa se non questo — aveva detto inoltre Maggie Verver — mi fece in un primo tempo pensare a te? Non certo, come direi che tu debba avere inteso, ciò che tu definisci la tua personalità ignota, il tuo io particolare. Furono le generazioni che ti stanno dietro, le follie e i delitti, le ruberie e lo sperpero; quel tristo papa, il personaggio più infame di tutti, del quale parlano tanti volumi della tua biblioteca di famiglia. Se non ne ho letti che due o tre sinora, tanto più, non appena avrò tempo, mi dedicherò agli altri. Che cosa dunque — gli aveva ripetuto — saresti stato senza i tuoi archivi, i tuoi annali, le tue infamie?
Si rammentava di ciò che aveva, con gravità, risposto a questo.
— Avrei potuto trovarmi in una situazione finanziaria migliore.
Ma la sua situazione da questo particolare punto di vista importava loro senz’altro così poco che, essendosi sprofondato in quel momento ad assaporare la sua buona sorte, egli non aveva serbato nessuna idea della risposta della fanciulla. Ciò non aveva fatto altro che addolcire le acque nelle quali ora galleggiava, che tingerle come per l’azione di una essenza, versata da una fiala dalla punta d’oro per profumare un bagno. Nessuno prima di lui, mai — nemmeno il papa infame — si era immerso fino al collo in un bagno simile. Ciò dimostrava, nella fattispecie, quanto poco uno della sua razza riuscisse a sfuggire, dopo tutto, alla storia. Che cosa era, se non storia, e storia di un genere veramente loro,questo suo aver la sicurezza di fruire di più denaro di quanto il costruttore del palazzo in persona non sarebbe riuscito nemmeno a sognare? Era questo l’elemento sul quale galleggiava e nel quale Maggie versava, di tanto in tanto, le sue squisite gocce di colore. Erano del colore... del colore di che cosa mai al mondo? di che cosa mai, se non della straordinaria buonafede americana? Erano del colore dell’innocenza di lei, e tuttavia, al tempo stesso, della di lei immaginazione, colore del quale i loro rapporti, quelli di lui e quelli di queste persone, erano tutti soffusi. Ciò che egli aveva detto poi, nell’occasione della quale noi lo rappresentiamo ora nell’atto di trarre l’eco dai suoi propri pensieri intanto che andava senza mèta; ciò che egli aveva detto poi gli tornò in mente, poiché era stata la voce stessa della sua fortuna, il suono carezzevole che non lo lasciava mai.
— Voi americani siete quasi incredibilmente romantici.
— Certo che lo siamo. È proprio questo che rende tutto così bello per noi.
— Tutto? — Egli era rimasto perplesso.
— Be’, tutto ciò che c’è di bello. Il mondo, questo mondo così bello ... o tutto ciò che in esso è bello. Voglio dire che noi vediamo tante cose.
Egli l’aveva guardata un momento; e sapeva bene fino a che punto, di questo mondo così bello, ella gli era apparsa una delle bellezze, una delle bellezze più eccelse. Ma ecco ciò che aveva risposto.
— Vedete troppe cose... è questo che a volte vi può creare delle complicazioni. A meno che, invece — si era corretto dopo averci ripensato — non vediate troppo poco. — Ma aveva dato piena assicurazione di capire ciò che ella voleva dire, e il suo avvertimento era forse inutile. Egli aveva conosciuto le follie della disposizione romantica, ma nella loro sembrava, chissà come, che non ci fosse nessuna follia; niente, lo si doveva riconoscere, se non piaceri innocenti, piaceri senza punizioni. Il goderne era un tributo agli altri senza essere una perdita per loro stessi. Soltanto, la cosa buffa, le aveva suggerito rispettosamente, era che suo padre, per quanto più vecchio e più saggio, e uomo per di più, non era peggio, ovverosia meglio, di lei.
— Oh, è meglio — aveva liberamente dichiarato la ragazza — ovverosia peggio. Il suo rapporto con le cose a cui tiene, e ciò mi par bello, è assolutamente romantico. Tutta la sua vita qui è a questo modo; è la cosa più romantica che io conosca.
— Vuoi dire la sua idea per la città dov’è nato?
— Sì... la collezione, il museo del quale desidera dotarla, ed a cui pensa, come sai, più che a ogni altra cosa al mondo. È l’opera della sua vita, è la ragione di tutto quello che fa.
Il giovane, dato il suo presente umore, avrebbe potuto sorridere anche ora... sorridere con delicatezza, come le aveva sorriso allora.
— È stato per questa ragione che mi ha permesso di averti?
— Ma sì, mio caro, senza dubbio... o in un certo senso — aveva detto lei. — American City non è, tra parentesi, la sua città natìa, poiché, anche se lui non è un uomo vecchio, la città è giovane in confronto: più giovane di lui. Ma ha cominciato là, ha un debole per essa, e il luogo si è ingrandito, così dice lui, come il programma di una recita di beneficenza. Comunque tu sei un elemento della sua collezione — ella aveva spiegato — una di quelle cose che si possono trovare soltanto qui. Sei una rarità, un bell’oggetto, un oggetto di valore. Non sarai forse assolutamente unico, ma sei così singolare e notevole che come te ce ne sono molto pochi; appartieni ad una classe di cui si sa tutto. Sei quel che si dice un morceau de musée.
— Vedo. Ho la prova vera — egli aveva azzardato — che costo un mucchio di soldi.
— Non ho la minima idea — ella aveva risposto gravemente — di quello che tu costi — ed egli aveva addirittura adorato, sul momento, quel suo modo di dirlo. Si era sentito, sul momento, persino volgare. Ma ne aveva fatto l’uso migliore.
— Non vorresti saperlo se si trattasse di separarti da me? In tal caso il mio valore dovrebbe essere stimato.
L’aveva guardato con i suoi occhi incantevoli, come se il valore ch’egli aveva se lo vedesse bene dinanzi.
— Sì, se vuoi dire che preferirei pagare piuttosto che perderti.
E qui gli tornò in mente ciò che queste parole gli avevano fatto dire.
— Non parlare di me... sei tu che non sei del nostro tempo. Tu sei una creatura di un tempo più audace e più nobile, e il Cinquecento1, nei suoi momenti più aurei, non si sarebbe vergognato di te. Ma di me sì, e se non conoscessi qualcuno dei pezzi che tuo padre ha acquistato, avrei piuttosto paura, per American City, della critica degli esperti. Non avresti per caso l’idea — aveva chiesto poi con una punta di tristezza — di mandarmi là, per sicurezza?
— Be’, può darsi che ci arriviamo, a questo punto.
— Anderò dovunque tu voglia.
— Staremo a vedere... lo faremo soltanto se dovremo farlo. Vi sono cose — ella aveva continuato — che il babbo mette da parte, le più grosse e le più ingombranti, naturalmente, che egli deposita, che ha già depositato in gran quantità, qui e a Parigi, in Italia, in Spagna, in magazzini, in sotterranei, in banche, in casseforti, in straordinari luoghi segreti. Siamo stati come una coppia di pirati... pirati proprio da commedia, di quelli che si strizzano l’occhio l’un l’altro e fanno «ehm! ehm!» quando arrivano dove è sepolto il loro tesoro. Il nostro è sepolto un po’ dappertutto, eccetto quel che ci piace vedere, quel che viaggia con noi e che ci circonda. Questi, i pezzi più piccoli, sono le cose che tiriamo fuori e sistemiamo come possiamo, per rendere un po’ meno brutti gli alberghi dove alloggiamo e le case che prendiamo in affitto. È un pericolo, senza dubbio, e dobbiamo fare attenzione. Ma il babbo ama i bei pezzi, ama, come dice lui, il loro lato buono, e per aver la compagnia di qualcuna delle sue cose è disposto a correre qualche rischio. E abbiamo avuto una fortuna straordinaria — questa precisazione Maggie l’aveva fatta; — finora non abbiamo mai perduto nulla. E gli oggetti più belli spesso sono i più piccoli. Il valore, in moltissimi casi, lo saprai anche tu, non ha niente a che fare con le dimensioni. Ma non c’è niente, per quanto minuscolo — aveva concluso — che abbiamo perduto.
— Mi piace la categoria — egli aveva riso per questo — in cui mi metti! Io sarò uno dei piccoli pezzi che tu sballi negli alberghi, o alla peggio nelle case d’affitto, come questa splendida casa qui, e metti fuori con le fotografie di famiglia e gli ultimi numeri delle riviste. Ma è già qualcosa non essere così grosso da dover essere sepolto.
— Oh — aveva ribattuto lei — non sarai sepolto, mio caro, prima di essere morto. A meno che per te venire ad American City non voglia dire esser sepolto.
— Prima di pronunciarmi, vorrei vedere la mia tomba. — Così, secondo la sua abitudine, aveva avuto lui l’ultima parola nel loro colloquio, a parte la sorte di un’osservazione che gli era salita alle labbra da principio, che egli aveva allora repressa, e che ora gli ritornava in mente. — Buona, cattiva, o indifferente, spero che una cosa almeno ci sia di cui tu sia sicura nei miei riguardi.
Il suo tono era parso solenne, perfino a lui, ma ella l’aveva presa allegramente.
— Ah, non tenermi ferma a una cosa sola! Nei tuoi riguardi, mio caro, sono sicura di un numero di cose tale che me ne resterà sempre qualcuna anche se alla maggior parte di esse capiterà di andare in frantumi. Su questo ho preso le mie misure. La mia fiducia in te l’ho suddivisa in compartimenti stagni. Dobbiamo badare di non far naufragio.
— Dunque lo credi, che non sono un ipocrita? Riconosci che non mentisco, né dissimulo, né inganno? Questo è un compartimento stagno?
La domanda, nella quale aveva messo una certa intensità, l’aveva lasciata, egli se ne rammentava, stupita per un istante, mentre arrossiva come se le fosse risonata più strana di quanto egli non avesse voluto. Aveva intuito subito che ogni seria discussione sulla sincerità, sulla lealtà, o piuttosto sull’assenza di esse, in pratica la prendeva alla sprovvista, come qualcosa di assolutamente nuovo per lei. L’aveva notato altre volte: era il segno inglese, il segno americano che la doppiezza, come amore, andava presa alla leggera. Non la si poteva «approfondire». Così il tono della sua domanda era — be’, per non dir altro — prematuro; un errore che valeva la pena di aver commesso, però, per la comicità quasi eccessiva in cui la risposta di lei istintivamente cercò rifugio.
— Un compartimento stagno... il più grande di tutti? Be’, è la cabina migliore e il ponte superiore, e la sala delle macchine, e la dispensa di bordo! È la nave stessa... è tutta quanta la compagnia di navigazione! È la tavola del capitano e tutto il bagaglio... e i libri da leggere in viaggio. — Aveva immagini, come questa, prese da piroscafi e da treni, da una dimestichezza con le «linee», da una padronanza degli scompartimenti «riservati», da un’esperienza di continenti e di mari, che per ora egli non era in grado di emulare; immagini prese da meccanismi e comodità vasti, moderni, dei quali egli doveva ancora fare la conoscenza ma a proposito dei quali costituiva parte dell’interesse della sua situazione attuale il fatto che poteva figurarsi senza nemmeno trasalire un avvenire con ogni verosimiglianza irto di quelle cose.
Per quanto soddisfatto fosse del suo fidanzamento e per quanto incantevole gli sembrasse la sua promessa sposa, era di fatto la concezione ch’egli aveva di quei dato contorno a costituire più che altro il lato «romantico» per il nostro giovane; e a un punto tale che creava nel suo stato d’animo un conflitto che egli era abbastanza intelligente da avvertire. Era abbastanza intelligente da provare l’umiltà più completa, da desiderare di non essere nemmeno un poco duro o avido, da non insistere sulla parte che aveva in quel contratto, da tenersi in guardia contro l’arroganza e contro la cupidigia. Abbastanza strano era, in verità, il senso ch’egli aveva di questo ultimo pericolo; e ciò può anche servire a illustrare il suo atteggiamento generale contro i pericoli sorgenti dall’intimo. Personalmente, rifletteva, era esente dai vizi in questione; tanto meglio così. La sua razza, d’altro canto, li aveva posseduti piuttosto in larga misura, e in certo modo egli era pieno della sua razza. La presenza di essa in lui era come la coscienza di un qualche invincibile odore nel quale i suoi abiti, tutta la sua persona, le sue mani e i capelli che aveva in capo fossero stati tuffati come in una sorta di bagno chimico: senza che se ne avvertisse l’effetto in nessun punto preciso, egli si sentiva tuttavia costantemente alla mercé della causa. Conosceva la storia anteriore alla sua nascita, la conosceva in ogni particolare, ed era tale da mantenergli sempre bene in vista le cause. Che cos’era il franco giudizio ch’egli dava su tanta parte della bruttura di quella storia, chiedeva a se stesso, se non parte del suo sforzo di coltivare l’umiltà? Che cos’era questo passo così importante da lui appena compiuto se non il desiderio di un po’ di storia nuova che per quanto fosse possibile contraddicesse ed anche, se necessario, apertamente svergognasse quella antica? Se ciò che gli era stato tramandato non andava bene, egli doveva costruire qualcosa di diverso. Riconosceva perfettamente — sempre nella sua umiltà — che il materiale per la costruzione dovevano essere i milioni del signor Verver. Non c’era per lui sulla terra nient’altro con cui costruire; aveva già tentato prima, ma aveva dovuto guardarsi intorno e riconoscere la realtà. Umile com’era, al tempo stesso, non era però tanto umile quanto lo sarebbe stato se avesse dovuto riconoscersi frivolo o sciocco. Egli aveva l’idea — che potrebbe essere divertente per il suo storico — che quando uno è sciocco abbastanza da sbagliarsi su un tale soggetto, se ne accorge. Perciò egli non si era sbagliato: il suo o avvenire avrebbe potuto essere scientifico. Non c’era niente in lui, comunque, ad impedirlo. Stava stringendo alleanza con la scienza, perché che cosa era la scienza se non la mancanza di pregiudizi spalleggiata dalla presenza del denaro? La sua vita sarebbe stata piena di quei meccanismi che erano un antidoto contro la superstizione, la quale era a sua volta, e troppo, la conseguenza, o per lo meno l’effluvio, degli archivi. Pensava a queste cose — al suo non essere comunque futile, e alla sua accettazione assoluta dell’evoluzione dell’epoca futura — per ristabilire l’equilibrio delle opinioni così diverse che si avevano su di lui. I momenti nei quali più trasaliva erano quelli in cui si sorprendeva a credere che, in verità, a lui sarebbe stato perdonato l’esser futile. Perfino con ciò, in tale assurda prospettiva, egli sarebbe andato abbastanza bene. Tanto era, nei Verver, il lassismo dello spirito romantico. Poveri cari, non lo sapevano proprio che cosa fosse in quel senso — il senso dell’esser futile — la realtà. Ma lui sì, per averlo visto, per averlo provato, per averne preso la misura. Era in verità un ricordo da coprire senza meno allo sguardo, un po’ come, proprio dinanzi a lui mentre camminava, la serranda di ferro di un negozio, chiudendo presto nella morta giornata estiva, rotolava giù al giro di una manovella. Era un meccanismo anche questo; e così le vetrine lucenti, tutto intorno a lui, erano denaro, erano potere, il potere dei ricchi. Ebbene, ormai era dei loro, dei ricchi; era dalla loro parte... se non era un modo quasi più piacevole di definir la cosa dire che erano loro dalla parte sua.
Cose di questo genere erano ad ogni modo la morale e il mormorìo della sua passeggiata. Ciò sarebbe stato ridicolo — una morale siffatta da una fonte siffatta — se non avesse in qualche modo armonizzato con la gravità dell’ora, la gravità registrando l’oppressione della quale ho dato inizio al racconto. Un altro tratto era l’incombere immediato dell’arrivo del contingente familiare. Doveva andare a prenderli a Charing Cross l’indomani: il fratello più giovane, che si era sposato prima di lui, ma la moglie del quale, di razza ebraica, con una dote che aveva indorato la pillola, non era in condizioni di viaggiare; la sorella col marito, il più anglicizzato dei milanesi; lo zio materno, il più archiviato dei diplomatici; e il cugino romano, Don Ottavio, il più disponible degli ex-deputati e dei parenti: una manciata scarsa di consanguinei che, a dispetto dell’invocazione di Maggie ad un intimo imeneo, lo avrebbero accompagnato all’altare. Non era una grande schiera, ma sarebbe stato verosimilmente un drappello più numeroso di quel che avrebbe potuto riunir da parte sua la sposa, non avendo ella gran copia di congiunti tra cui fare la sua scelta e non rimediandovi, d’altra parte, con inviti allargati. L’attitudine in proposito della fanciulla l’aveva interessato, ed egli vi aveva aderito in pieno, trovandovi come vi trovava un barlume, senza dubbio gradevole, del tipo di distinzioni dalle quali essa doveva essere governata di solito; e che venivano proprio a coincidere coi suoi gusti personali. Non avevano, lei e suo padre, parenti naturali, gli aveva spiegato; così non si sarebbero nemmeno provati a riempire il vuoto con parenti artificiali, o fittizi, o trovati battendo campi e strade. Oh, non mancavano certo loro le conoscenze... ma il matrimonio è una cosa intima. Le conoscenze si invitano quando si hanno amici e parenti; s’invitano, allora, a destra e a manca. Ma non si invitano loro soltanto, per coprire la propria nudità e per farli apparire ciò che non sono. Lei sapeva quel che voleva e quello che le piaceva, ed egli era più che pronto ad accettare ciò, trovando in ambedue questi punti un felice auspicio. Si attendeva, bramava, che ella fosse una donna di carattere; sua moglie doveva essere così, ed egli non temeva che lo fosse troppo. Quando era più giovane aveva dovuto trattare con molte persone di questo genere; più che altro con quei tre o quattro ecclesiastici, il cardinale prozio in primo luogo, che avevano dato una mano e rivestito una parte nella sua educazione: l’effetto complessivo della quale non era mai stato tale da deluderlo. Egli stava dunque assolutamente di vedetta per scoprire il temperamento della più intima, poiché tale doveva divenire, dei suoi sodali. E, quando lo vedeva trapelare, lo stimolava.
Si sentiva perciò, in quel preciso momento, come se tutti i suoi documenti fossero in ordine, come se i suoi conti fossero in pareggio così come mai nella sua vita lo erano stati, ed egli potesse chiudere d’un colpo il suo portacarte. Si sarebbe riaperto, non c’era dubbio, da sé, per l’arrivo dei romani; si sarebbe fors’anche aperto per il pranzo di stasera a Portland Piace, dove il signor Verver aveva piantato una tenda che evocava quella di Alessandro ornata delle spoglie di Dario. Ma ciò che nel frattempo denotava in lui il segno della crisi, come ho detto, era la sensazione ch’egli aveva delle due o tre ore immediatamente successive. Si fermava sugli angoli, agli incroci; e per lui continuava a salire, a ondate, quella coscienza, acuta in quanto a origine ma vaga in quanto a fine, parlando della quale ho dato inizio al racconto: la coscienza di una voce che gli diceva di fare una qualche cosa, prima che fosse troppo tardi, per se stesso. Da qualsiasi amico al quale avesse potuto farne menzione, questa voce sarebbe stata francamente derisa. Per che cosa, per chi invero se non per se stesso e per gli alti vantaggi che gliene derivavano, era sul punto di sposare una ragazza dal fascino straordinario, e le cui «prospettive» di ordine solido erano garantite come la sua avvenenza? Egli non lo avrebbe fatto, di sicuro, soltanto per lei. Si dava il caso, però, che il principe tanto riuscisse a sentire e tuttavia tanto poco a formulare, che dopo un poco gli sorse dinanzi, ben precisa, l’immagine di un’amica nella quale sovente aveva trovato dell’ironia. Egli ritirò il tributo dell’attenzione ai volti che passavano solo per far sì che il suo impulso crescesse. Gioventù e bellezza non gli facevano volgere il viso, ma l’immagine della signora Assingham gli fece subito fermare uno hansom1. La gioventù di lei, la sua bellezza erano cose che appartenevano più o meno al passato, ma trovarla a casa, come forse non era impossibile, avrebbe voluto dire «fare» ciò che era ancora in tempo a fare, avrebbe dato un qualche motivo alla sua inquietudine, e di conseguenza l’avrebbe probabilmente placata. Riconoscere l’opportunità di questo particolare pellegrinaggio — ella abitava a una discreta distanza, laggiù a Cadogan Piace — era già di fatto eliminarla un poco. La percezione dell’opportunità di ringraziarla formalmente, e di fare ciò proprio nel momento in cui lo stava facendo, questa, lo scoprì per la strada, era ovviamente la causa della sua irrequietezza. Era vero che egli aveva male interpretato il suo umore attuale, l’aveva quasi scambiato, superficialmente, per un impulso a volgersi dalla parte opposta... la parte opposta a quella in cui si erano accumulati i suoi impegni. La signora Assingham, precisamente, rappresentava, incarnava i suoi impegni... era, con la sua simpatica persona, la forza che uno dopo l’altro li aveva messi in movimento. Ella aveva fatto il suo matrimonio, proprio come il suo papale antenato aveva fatto la sua famiglia... anche se egli non riusciva a darne nessun’altra ragione all’infuori del fatto che era anche lei pervicacemente romantica. Egli non aveva usato nei riguardi di lei né adescamenti, né persuasione, non le aveva dato niente... finora quasi nemmeno un ringraziamento esplicito; sicché per lei tutto il vantaggio, per pensarla volgarmente, avrebbe dovuto venire dalla parte dei Verver.
Tuttavia egli era lontano, poteva ancora ricordarlo a se stesso, dal supporre che le fosse stata data una grossolana ricompensa. Era perfettamente sicuro di no; perché se c’erano persone che accettavano regali e altre che non li accettavano lei sarebbe stata completamente dalla parte giusta, in mezzo al genere altero. Ma, d’altro canto, il suo disinteresse era allora discretamente orribile: implicava, cioè, tali abissi di fiducia in se stessa. Era straordinariamente affezionata a Maggie, per la quale possedere un’amica simile poteva inoltre definirsi come uno dei punti al suo «attivo»; ma la prova suprema del suo attaccamento era stata quella di averli, con il suo piano, uniti. Avendolo conosciuto un inverno a Roma, avendolo incontrato di nuovo a Parigi, ed avendo simpatia per lui, come gli aveva a tempo debito fatto capire sin dal principio, l’aveva designato di proprietà della sua giovane amica e l’aveva perciò, inequivocabilmente, presentato in una data luce. Ma l’interesse che ella nutriva per Maggie — ecco il punto — non avrebbe approdato a gran cosa senza l’interesse che nutriva per lui.Su che cosa posava tale sentimento, né sollecitato, né ricompensato com’era? che cosa mai, anche in questo caso — perché la domanda somigliava assai a quella che egli si poneva nei riguardi del signor Verver — aveva fatto di buono per lei? La via per la quale il principe concepiva di poter ricompensare le donne — simile in questo a quella per cui concepiva di chieder loro qualcosa – era più o meno quella di far loro la corte. Ora egli non aveva fatto, ne era certo, nemmeno un briciolo di corte alla signora Assingham, e neanche pensava che ella, per un momento, lo avesse potuto supporre. In questi giorni gli piacevano, per farne la lista, le donne che non aveva corteggiato: vi si rappresentava, e proprio questo gli era gradito, uno stadio dell’esistenza diverso dal tempo in cui gli piaceva far la lista delle donne alle quali la corte l’aveva fatta. Ma, nonostante tutto questo, la signora Assingham non si era mostrata né aggressiva né risentita. In quale occasione, mai, aveva avuto l’aria di trovare qualche manchevolezza in lui? Queste cose, i motivi di questa gente, erano oscuri, e in modo un poco allarmante; davano forza a quell’elemento imperscrutabile che da solo attenuava leggermente in lui la sensazione della sua buona sorte. Si rammentava di aver letto, da bambino, un racconto fantastico di Allan Poe, compatriota della sua futura sposa, che era proprio fatto, tra parentesi, per dimostrare che tipo di immaginazione possono avere gli americani: la storia del naufrago Gordon Pym1, che, andando alla deriva in una piccola barca e spingendosi verso il Polo Nord (o era il Polo Sud?) più di quanto avesse mai fatto nessuno, a un dato momento si trovò dinanzi uno spesso strato di aria bianca simile ad un’abbagliante cortina di luce, che celava così come cela l’oscurità, ma era del colore del latte o della neve. C’erano momenti in cui egli sentiva la sua propria barca aggirarsi per un mistero simile. Lo stato mentale dei suoi nuovi amici, ivi compresa la signora Assingham, aveva delle affinità con una grande cortina bianca. Egli non aveva conosciuto che cortine di un colore così violaceo da dar sul nero... ma così atte a produrre, quando erano calate, una oscurità prevista e presaga. Quando esse erano disposte in modo da celare delle sorprese, le sorprese erano tali da dare forti emozioni.
Ma, da questi abissi tutt’affatto diversi, non erano delle emozioni che egli riteneva ragionevole attingere; ciò che piuttosto gli sembrava di non aver ancora misurato era qualcosa che, a volergli dare un nome, avrebbe definito la quantità della fiducia riposta in lui. In non pochi momenti del mese precedente egli era rimasto inchiodato dal pensiero, appena formato o rinnovantesi, della generale aspettativa — per dirla in parole brusche — della quale era l’oggetto. Il fatto singolare era che non sembrava tanto l’aspettativa di qualcosa in particolare quanto una presunzione vasta, blanda, indeterminata di meriti quasi al di là di ogni definizione, di una qualità e di un valore essenziali. Come se egli fosse stato un’antica moneta a sbalzo, della purezza di un oro non più usato, con su impresse armi gloriose, una moneta medioevale, meravigliosa, il «valore» della quale, anche soltanto al cambio moderno in sovrane e mezze-corone, sarebbe abbastanza elevato, ma che sarebbe superfluo ridurre in pezzi simili, dato che esistono modi più raffinati di adoperarla. Ecco qual era l’immagine dello stato di sicurezza nel quale gli era aperto di rimanere; egli doveva costituire una proprietà, ma doveva sfuggire al rischio di essere ridotto agli elementi di cui era composto. Che cosa poteva voler dire questo se non che, in pratica, non doveva essere mai né giudicato né messo alla prova? Che cosa poteva voler dire se non che, poiché non lo «cambiavano», non avrebbero saputo — e non l’avrebbe saputo nemmeno lui — quante sterline, scellini e pence poteva in effetti fornire? Ad ogni modo queste, per ora, erano domande cui non si poteva dar risposta; c’era una cosa sola di fronte a lui, il fatto che era stato investito di attributi. Era stato preso sul serio. Sperduta là, nella nebbia bianca, c’era la serietà loro, che aveva fatto sì che prendessero lui in tal modo. Ce n’era persino nella signora Assingham, anche se lei aveva, come aveva mostrato sovente, uno spirito più ironico. Tutto ciò che egli poteva dire, finora, era di non aver fatto niente, al fine di rompere l’incanto. Che cosa gli sarebbe toccato fare poi, se avesse avuto in animo di chiederle francamente quello stesso pomeriggio che cosa c’era, moralmente parlando, dietro il loro velo? Si sarebbe giunti alla domanda su quel che loro si aspettavano che facesse. Ella gli avrebbe risposto, probabilmente: «Oh, sapete, ciò che conta è quello che ci aspettiamo che voi siate!», e qui egli non avrebbe avuto altra risorsa che professare la sua ignoranza. Avrebbe rotto l’incantesimo, questo suo dire di non averne idea? Che idea poteva averne poi? Anche lui si prendeva sul serio... se ne faceva un punto d’onore; ma non si trattava soltanto di fantasia o di presunzione. Con la stima che aveva di sé egli vedeva di quando in quando il modo di venire a patti; ma quella che ne avevano loro, prima o poi, potevano dire quello che volevano, l’avrebbe messo alla prova pratica. Poiché la prova pratica, di conseguenza, sarebbe stata naturalmente proporzionata al gran mucchio dei suoi attributi, si giungeva ad una scala di valori sulla quale, onestamente, egli non era uomo da saper fare calcoli. Chi, se non un miliardario, avrebbe saputo dire qual era il cambio giusto per un miliardo? Quella misura era l’oggetto velato; ma in verità, quando la sua carrozza si arrestò in Cadogan Piace, egli si sentì un po’ più vicino al velo. Si ripromise, virtualmente, di dare a quest’ultimo una tiratina.