martedì 28 aprile 2020


PIÙ INVECCHIO....
Estratto da Marguerite Yourcenar “Archivi del Nord”
(Citazione e foto  di Marialuisa Righi)
"Più invecchio anch’io, più mi accorgo che l’infanzia e la vecchiaia non solo si ricongiungono, ma sono i due stati più profondi in cui ci è dato vivere. In essi si rivela la vera essenza di un individuo, prima o dopo gli sforzi, le aspirazioni, le ambizioni della vita. [...] Gli occhi del fanciullo e quelli del vecchio guardano con il tranquillo candore di chi non è ancora entrato nel ballo mascherato oppure ne è già uscito. E tutto l’intervallo sembra un vano tumulto, un’agitazione a vuoto, un inutile caos per il quale ci si chiede perché si è dovuto passare."



RICORDI: LE VIOLETTE NEL BICCHIERE
Di Marianna Saraceno

Il profumo delle violette é da sempre  la chiave che  apre  la porta di una stanzetta contadina con un letto su cui un bimbo riposa dopo in intervento chirurgico di asportazione di tonsille e adenoidi senza anestesia.  Siamo all'imbrunire di un giorno del lontano 1960  ed un vecchio contadino torna ricurvo  dal duro lavoro dei campi, con un mazzolino di violette nelle sue grandi mani callose e le  depone con imbarazzata delicatezza in un bicchiere pieno d'acqua posto sul comodino accanto al letto. Il volto  scuro  e rugoso di quest'uomo si abbassa a baciare la fronte di quel bimbo e l'espressione dura  si ammorbidisce e gli occhi diventano lucidi. Una bimba intimidita guarda la scena nascosta in un angolo della piccola stanza affollata di donne premurose , nei suoi occhi si fissa così una scena che mai l'abbandonerá; ed  ora che quel fratello ha prematuramente raggiunto il vecchio nonno il profumo ed il colore delle violette a primavera sono  per lei un lenitivo del dolore  della sua anima ancora sanguinante.

All'amica Gabriella Colistra che mi incoraggia e comprende e condivide i moti della mia anima. 

lunedì 27 aprile 2020


SOLAR
Ian McEwan
Parte prima

Parte prima

   

  2000
    Apparteneva a quella categoria di uomini tendenzialmente spiacevoli, quasi sempre calvi, bassi, grassi, intelligenti che, per ragioni misteriose, attraggono certe belle donne. O cosi credeva, e pensarlo pareva bastare. Aiutava inoltre il fatto che alcune lo considerassero un genio bisognoso di redenzione. Ma l'attuale Michael Beard era un soggetto in condizioni mentali limitate, anedonico, monotematico, sofferente. Il suo quinto matrimonio si andava disgregando e lui avrebbe dovuto sapere come comportarsi, assumere una prospettiva lungimirante, riconoscere la propria colpa. I matrimoni, i suoi perlomeno, non si susseguivano forse l'uno all'altro al pari di fenomeni ondosi, o di maree? L'ultimo tuttavia era diverso. Non sapeva come comportarsi, la lungimiranza lo amareggiava e per una volta non aveva colpe da attribuirsi, a suo modo di vedere.
  

  Qui era sua moglie ad avere una relazione e anche in forma scoperta, punitiva e chiaramente senza il benché minimo rimorso. Lui intanto, travolto da una ridda di emozioni, si scopriva dentro momenti di intenso desiderio e di vergogna.

  Patrice si vedeva con un muratore, il loro muratore, quello che aveva rasato i muri di casa, montato la cucina a incastro, piastrellato il bagno, quello stesso individuo massiccio che una volta, durante una pausa di lavoro, gli aveva mostrato una foto del suo villino in finto Tudor, personalmente ristrutturato e rinascimentalizzato, con tanto di fuoribordo su carrello sotto il lampione in stile vittoriano nel vialetto in calcestruzzo, e perfino lo spazio su cui sarebbe sorto il monumento alla tradizionale cabina telefonica rossa ormai in pensione.

  Beard non si capacitava di quanto potesse rivelarsi complesso il ruolo del cornuto. L'infelicità non era facile.

  Che nessuno si azzardasse a sostenere che a quello stadio dell'esistenza era diventato immune a esperienze nuove. Se l'era meritato. Le quattro mogli precedenti, Maisie, Ruth, Eleanor, Karen, che tuttora nutrivano un remoto interesse per la sua vita, avrebbero esultato, perciò sperava che non venissero a saperlo.

  Nessuno dei suoi matrimoni era durato più di sei anni e l'essere rimasto senza figli costituiva una sorta di successo personale. Le mogli, intuendo per tempo quanto fosse misera o spaventosa la prospettiva di paternità che Michael aveva da offrire, si erano protette chiamandosi fuori.

  Gli piaceva pensare che, se le aveva fatte soffrire, non era mai stato per molto tempo; del resto, l'aver conservato rapporti civili con tutte le sue ex doveva pur significare qualcosa. Non con l'attuale consorte, tuttavia.

  In tempi migliori, avrebbe potuto prevedere da parte propria l'adozione tutta maschile di una politica dei due pesi e delle due misure, con accessi di furia micidiale, magari un episodio di schiamazzi ubriachi in cortile a notte fonda o la devastazione dell'auto di lei, accanto alla meticolosa ricerca di una partner più giovane, una soluzione alla muoia Sansone con tutti i filistei applicata al tempio coniugale.

  Si ritrovava invece paralizzato dalla vergogna, dalla portata della sua umiliazione. Peggio ancora: sorprendeva se stesso preda di una sconveniente voglia di lei.

  Di recente, il desiderio per Patrice lo aggrediva di punto in bianco, come un attacco di crampi allo stomaco. Era costretto ad appartarsi e aspettare che passasse.

  A quanto sentiva, esiste una specie di marito che trova eccitante il pensiero della propria moglie con altri uomini. Tipi simili possono farsi legare, imbavagliare e chiudere dentro l'armadio della camera da letto mentre la loro dolce metà ci dà dentro poco lontano. Che Beard si fosse alla fine scoperto un'indole sessualmente masochista.

  Nessuna donna gli era mai sembrata, a gesti o a parole, desiderabile quanto la moglie che all'improvviso non poteva più avere.

  Si recò platealmente a Lisbona a trovare una vecchia amica, ma furono tre notti malinconiche. Aveva bisogno di riavere sua moglie, e non osava rischiare di alienarsela a furia di urla, minacce o magistrali momenti di follia. Del resto non era neanche tipo da supplicare. Si sentiva bloccato, vigliacco, non riusciva a pensare ad altro.

  Forse che al primo biglietto.

  “ Stasera mi fermo da R. P. “

  Si era precipitato all'ex villino comunale in finto Tudor con motoscafo, coperto da telo e fermo su carrello e vasca idromassaggio allestita in giardino lillipuziano, per fracassare la testa dell'altro a colpi di chiave inglese.

  No, aveva guardato la televisione per cinque ore con il cappotto addosso, e si era scolato due bottiglie di vino tentando di non pensare. Senza riuscirci.

  Ma pensare era l'unica cosa che gli restava. Venute a conoscenza delle sue relazioni, le altre mogli si erano infuriate, chi con freddezza chi con crisi di pianto, quindi avevano preteso interminabili discussioni fino alle prime ore del mattino per dare sfogo alle loro opinioni sul concetto di fiducia tradita e poi concludere con le loro richieste riguardo alla separazione e ai successivi accordi.

  Al contrario, quando Patrice lesse per caso alcune email di Suzanne Reuben, una matematica della Humboldt University di Berlino, la sua reazione fu di una innaturale euforia.

  Il pomeriggio stesso trasferì il proprio guardaroba nella stanza degli ospiti. Far scorrere le porte dell'armadio e avere conferma dell'accaduto fu uno shock per Michael. Si rese conto che quelle file di abiti in cotone e seta avevano costituito un lusso e un conforto, come altrettante versioni di Patrice allineate in bell'ordine, in attesa di compiacerlo. Tutto finito. Perfino le grucce erano sparite.

  Quella sera, lei si mostrò sorridente nel corso di tutta la cena, gli spiegò che desiderava sentirsi a sua volta «libera» e, in capo a una settimana, aveva dato inizio alla sua relazione. Che doveva fare un uomo di fronte a tanto.

  Un mattino a colazione le chiese scusa, le disse che la propria scappatella non aveva nessuna importanza, si profuse in promesse sensazionali che credeva sinceramente di poter mantenere.

  Fu quanto di più vicino a una supplica gli riuscì di formulare.

  Lei ribatté dicendo che il suo comportamento non le dava fastidio. Faceva lo stesso anche lei e a quel punto gli rivelò l'identità del suo amante, il muratore dal losco nome di Rodney Tarpin, quindici centimetri in più e vent'anni in meno del cornuto, uno le cui letture, come ebbe a confessare orgogliosamente al tempo in cui svolgeva per la famiglia Beard l'umile compito di stuccatore e livellatore di muri, si riducevano alle pagine sportive di un quotidiano popolare. Lo stress di Beard si manifestò inizialmente attraverso episodi di dismorfismo, o forse fu vero il contrario, vale a dire che Beard si ritrovò all'improvviso guarito da tale disturbo.

  Finalmente, si riconobbe per quello che era. Essendogli capitato di uscire dalla doccia e di cogliere di sfuggita una rosea sagoma conica sulla superficie appannata dello specchio a figura completa, Michael passò la mano sul vetro, vi si piazzò di fronte e si rivolse un'occhiata incredula.

  Quali meccanismi di autoconvincimento potevano averlo indotto per tanti anni a pensare che quella forma fisica fosse attraente?

  L'assurdo avanzo di chioma ad altezza lobo dell'orecchio che eroicamente contrastava la sua calvizie, il recente festone di adipe che gli penzolava sotto le ascelle, l'ottusa innocenza del turgore accumulato su stomaco e didietro.

  Un tempo era stato in grado di migliorare il proprio corpo riflesso tirando indietro le spalle, rizzando la testa, contraendo gli addominali. Ma ormai uno strato di grasso drappeggiava tutti i suoi sforzi.

  Che possibilità aveva di tenersi accanto una donna giovane e bella come lei Si era onestamente convinto che bastasse il prestigio, che il Premio Nobel potesse tenerla dentro il suo letto? Una volta nudo, si riduceva a uno scandalo, un deficiente, un rammollito.

  Una serie da otto flessioni consecutive era già troppo per lui.

  Laddove Tarpin riusciva a fare di corsa le scale fino alla camera da letto dei Beard con un sacco di cemento da cinquanta chili sotto il braccio. Cinquanta chili? Ma quello era più o meno il peso di Patrice.

  Lei lo teneva a distanza con micidiale allegria. Erano supplementi di offesa tanto i suoi cinguettanti saluti, quanto il dettagliato elenco dei suoi impegni domestici e dei movimenti serali, e dire che nulla di tutto ciò avrebbe avuto importanza se fosse riuscito a disprezzarla un tantino e a pianificare di scaricarla.

  A quel punto si sarebbero potuti dedicare al breve e raccapricciante smantellamento di un matrimonio senza figli durato cinque anni. Era chiaro che lei lo stava punendo, ma quando Beard azzardò l'ipotesi, la reazione fu una scrollata di spalle e il commento che si sarebbe potuto benissimo sostenere altrettanto di lui.

  Chiaramente non aspettava altro che quell'occasione, le disse, al che lei rise e replicò che in tal caso gliene era riconoscente.

  In preda a uno stato confusionale, Beard si convinse di aver trovato la moglie perfetta nel momento preciso in cui la stava perdendo.

  Quell'estate del 2000, Patrice aveva cambiato modo di vestirsi, si aggirava per casa diversa dal solito: jeans stretti scoloriti, sandali infradito, un vecchio golf rosa sopra una maglietta di cotone, capelli biondi tagliati corti, gli occhi azzurro chiaro improvvisamente più inquieti e più blu.

  Essendo di corporatura minuta, adesso sembrava una ragazzina. Dalle borse sgargianti con manici in corda lasciate vuote sul tavolo insieme alla carta velina affinché lui le potesse trovare, dedusse che si stava comprando biancheria nuova da farsi levare di dosso da Tarpin. Con i suoi trentaquattro anni suonati, Patrice conservava la freschezza fruttata di una ventenne.

  Con lui non scherzava, né faceva moine, né lo sfotteva il che sarebbe comunque stata una forma di comunicazione ; si limitava a perfezionare con metodo l'indifferenza lampante con la quale intendeva annientarlo.

  Era necessario smettere di ritenerla necessaria; ma con il desiderio le cose stavano diversamente. Lui voleva avere voglia di lei.

  Una notte afosa, sdraiato fuori dalle lenzuola, Beard cercò nella masturbazione una via verso la libertà.

  Lo irritò constatare di non riuscire a vedersi i genitali a meno di tenere la testa appoggiata su due cuscini; inoltre la sua fantasia erotica era costantemente interrotta da Tarpin il quale continuava ad aggirarsi sulla scena, come un cretino addetto alla pulizia del teatro che si presenti armato di secchio e scala a pioli.

  Esisteva sulla faccia del pianeta un altro individuo, oltre a lui, impegnato in quel momento a darsi piacere fantasticando sulla propria moglie che stava pochi metri più in là, in fondo al pianerottolo La domanda svuotò di senso la sua determinazione.

  E poi faceva troppo caldo. Gli amici erano soliti ripetergli che Patrice somigliava a Marilyn Monroe, perlomeno da certe angolazioni e sotto una certa luce. Lui accoglieva con gioia il paragone prestigioso, ma non era mai riuscito a trovarlo calzante.

  Ora ci riusciva. Patrice era cambiata. C'era un turgore nuovo nel suo labbro inferiore, la promessa di guai nel suo sguardo schivo, mentre i capelli corti le si accomodavano sulla nuca in riccioli fuori moda, seducenti.

  Era di certo più bella della Monroe, quando il sabato e la domenica fluttuava tra casa e giardino in una bionda foschia di rosa e di azzurri.

  Che gioco cromatico infantile, quello di cui si era innamorato, e alla sua età, per giunta. Aveva compiuto cinquantatre anni a luglio senza che lei naturalmente registrasse l'evento, salvo poi fingere di ricordarsene tre giorni dopo, con la spensieratezza ostentata negli ultimi tempi.

  Gli regalò una cravatta verde menta carico di quelle con il nodo grosso, dicendogli che lo stile anni Sessanta era tornato di moda.

  Eh si, i weekend erano i momenti peggiori.

  Patrice si presentava nella stanza dove stava lui, senza aver voglia di parlare, ma forse con il desiderio di farsi vedere e, dopo essersi guardata intorno un po' sorpresa, si dileguava. Stava rivalutando da capo ogni cosa, non solo lui.

  A Beard capitava di vederla in fondo al giardino, sotto l'ombra cupa dell'ippocastano, sdraiata sull'erba con i giornali, in attesa che incominciasse la serata.

  Dopodiché si ritirava nella stanza degli ospiti a farsi la doccia, vestirsi, truccarsi e profumarsi. Come se gli leggesse nel pensiero, si applicava uno strato abbondante di rossetto rosso.

  Magari Rodney Tarpin incoraggiava la somiglianza con Marilyn un cliché che a questo punto Michael era costretto a condividere. Se era ancora a casa quando lei usciva (si sforzava in tutti i modi di tenersi le sere impegnate) gli risultava irresistibile incrementare il suo senso di desiderio struggente osservandola da una finestra del piano di sopra, per vederla tuffarsi nell'aria di Belsize Park e percorrere il sentiero del giardino che slealtà da parte del cancelletto arrugginito, cigolare nel modo di sempre e infine salire sulla sua auto, una frivola Peugeot nera di piccola cilindrata, con un bello scatto in ripresa.

  Patrice era talmente dinamica mentre dava gas al motore e si scostava dal cordolo; Michael sentiva la propria douleur raddoppiare, ben sapendo che lei sapeva che la stava osservando. Poi la sua assenza persisteva nel crepuscolo estivo, come il fumo di un falò nel giardino di casa, un invisibile particolato erotico che lo costringeva a restare di guardia ancora per molti insensati minuti.

  Non era pazzo, continuava a ripetersi, ma un assaggio, un'amara sorsata di follia, li aveva provati. A impressionarlo era la sua capacità di non pensare ad altro.

  Mentre leggeva un libro, teneva un discorso, in realtà era a lei che pensava, oppure a lei e Tarpin.

  Restare a casa quando Patrice andava a trovare l'amante era una pessima idea; d'altra parte, dopo Lisbona, gli era del tutto passata la voglia di mettersi in cerca di vecchie fiamme. Accettò invece una serie di conferenze serali sulla teoria quantistica dei campi, presso la Royal Geographical Society, partecipò a dibattiti radiofonici e televisivi, e di tanto in tanto sostituì qualche collega malato.

  Si illudessero pure del contrario i vari filosofi della scienza; la fisica restava libera da ogni contaminazione umana: descriveva un mondo che sarebbe esistito anche in assenza di uomini e donne e di tutte le loro sofferenze.

  Su questo punto Beard era in perfetto accordo con Albert Einstein.

  Ma anche quando cenava tardi con gli amici, di solito rincasava prima di lei, e si vedeva costretto, volente o nolente, ad aspettare il suo ritorno dopo il quale peraltro non succedeva nulla.

  Patrice saliva direttamente a dormire, e lui si rintanava a sua volta in camera, per non incontrarla sulle scale in condizioni di spossatezza postcoitum.

  Era quasi meglio quando si fermava da Tarpin.

  Quasi, ma gli costava una notte di sonno.

  Una notte di fine luglio, verso le due, Beard era sul letto in vestaglia ad ascoltare la radio, quando la senti rientrare e d'impulso improvvisò una sceneggiata allo scopo di ingelosirla, demolire la sua sicurezza e metterle voglia di tornare da lui.

  Al notiziario internazionale della Bbc, una reporter illustrava le usanze dei villaggi curdi in Turchia spiegando come queste influenzino la vita domestica: un ronzio suadente che riferiva di crudeltà, insensatezza e ingiustizie.

  Abbassando il volume, senza staccare le dita dalla manopola, Beard intonò un frammento di filastrocca. Immaginò che, dall'altra stanza, Patrice avrebbe sentito la sua voce, senza distinguere le parole.

  Appena ebbe finito la frase, alzò per qualche secondo il volume della voce femminile per interromperlo ancora con un rigo della conferenza che aveva tenuto quella sera, lasciando poi alla donna uno spazio più ampio per la risposta.

  Continuò il giochetto per circa cinque minuti: la sua voce, quindi quella della reporter, talvolta anche sapientemente sovrapposte. La casa taceva, in ascolto, evidentemente. Beard entrò in bagno, apri un rubinetto, tirò lo sciacquone e scoppiò in una bella risata. Patrice doveva sapere che la sua amante era spiritosa.

  Poi finse di soffocare un'esclamazione impellente. Patrice doveva sapere che lui se la stava spassando. Non dormi molto quella notte. Alle quattro, dopo un prolungato silenzio che doveva suggerire una quieta intimità, apri la porta della sua stanza improvvisando un mormorio insistente, e scese le scale alla rovescia, chinandosi per battere con le mani sugli scalini il ritmo dei presunti passi della sua compagna, alternati ai suoi. Ecco il piano logico cui solo una mente malata avrebbe potuto aderire.

  Dopo aver accompagnato la sua ospite all'ingresso, averla salutata con uno scambio di baci silenziosi e aver chiuso la porta dietro di lei con una determinazione che risuonò per tutta la casa, Beard tornò di sopra e si assopì finalmente alle sei passate, ripetendosi piano: «Ride bene chi ride ultimo».

  Un'ora dopo era in piedi, per essere certo di imbattersi in Patrice prima che uscisse per andare al lavoro, e per mostrarle l'entità del suo improvviso buonumore. Già sulla soglia di casa con le chiavi dell'auto in mano, lei si fermò: la cinghia della cartella strapiena di libri le segava la spalla della camicetta a fiori.

  Non c'era dubbio: era sconvolta, sfinita, a dispetto del timbro di voce squillante come al solito. Gli disse che quella sera intendeva invitare a cena Rodney il quale poi si sarebbe probabilmente fermato a dormire, e perciò avrebbe gradito se lui, cioè Michael, si fosse tenuto alla larga dalla cucina. Il caso volle che quello fosse il giorno in cui Beard si doveva recare al Centro, a Reading.

  Frastornato dalla stanchezza, cominciò il viaggio fissando dal finestrino sporco del treno il prodigioso miscuglio di caos e monotonia offerto dalla periferia londinese, e maledicendo se stesso per la follia commessa. Era dunque venuto il suo turno di origliare da una stanza all'altra? Impossibile, si sarebbe fermato fuori, da qualche parte.

  Cacciato di casa dall'amante della moglie Impossibile, sarebbe rientrato per affrontarlo. Una scazzottata con Tarpin?

  Impossibile, si sarebbe ritrovato steso sul palchetto d'ingresso. Evidentemente non era in condizioni di decidere alcunché né di ideare strategie, perciò da quel momento avrebbe dovuto tener conto dell'inaffidabilità del suo stato mentale e agire prudenzialmente, esponendosi il meno possibile, con onestà, senza infrangere regole, senza concedersi gesti estremi.

  Di li a qualche mese avrebbe violato ogni singolo articolo di tale risoluzione, ma per il momento fu tutto dimenticato entro l'ora di cena, perché Patrice tornò dal lavoro senza aver fatto la spesa (il frigo era vuoto) e il muratore non venne.

  Beard la vide una sola volta quella sera: attraversava l'ingresso con in mano un tazzone di tè e aveva l'aria grigia e derelitta, meno simile a un'icona del cinema che a una maestra elementare esausta, con una vita privata in frantumi.

  Che si fosse sbagliato, rimproverandosi tanto aspramente durante il viaggio in treno, che il suo piano avesse in effetti funzionato e Patrice, disperata, si fosse vista costretta ad annullare tutto.

  Riflettendo sulla sera precedente, reputò straordinario il fatto che, dopo un'intera esistenza passata a collezionare infedeltà, la serata con una partner immaginaria avesse dato esiti non meno eccitanti.

  Per la prima volta da settimane provò una vaga allegria, fischiettò perfino la sigla di un programma mentre si riscaldava la cena al microonde e, cogliendo la propria immagine nello specchio dorato stile Luigi XIV appeso nel guardaroba al pianterreno, pensò che la sua faccia si era un po' affilata e aveva assunto un'espressione risoluta, rivelando, alla luce di una lampadina da trenta watt, l'ombra di uno zigomo e una certa nobiltà, grazie forse agli effetti abbatticolesterolo della bevanda allo yogurt dolcificato che si costringeva a ingoiare ogni mattina.

  Quando si ritirò in camera, tenne la radio spenta e, sdraiato sul letto a luci basse, attese di udire il picchiettio mortificato delle unghie di lei sulla porta.

  Non accadde, ma non ne fu turbato. Che passasse pure una notte in bianco, a tirare le somme della vita e di quello che davvero conta, che provasse a depositare sui piatti della bilancia, da un lato il calloso Tarpin con la sua barca incappucciata, e dall'altro l'etereo Beard con la sua fama planetaria.

  Le cinque sere successive Patrice rimase a casa, per quanto ne seppe, mentre lui fu impegnato in conferenze e in una serie di incontri e di cene e, rientrando, di solito dopo la mezzanotte, si augurava che il suo passo sicuro potesse dare alle stanze buie l'impressione di un uomo di ritorno da un convegno segreto.

  La sesta sera, Beard finalmente non dovette uscire, ma lo fece lei, dopo aver trascorso più tempo del consueto tra doccia e asciugacapelli.

  Dalla sua postazione, una piccola finestra incassata nella parete dell'ammezzato, lui la osservò percorrere il sentiero del giardino e sostare accanto a un ciuffo alto di malvone vermiglio, fermarsi come per una riluttanza a proseguire e allungare una mano a esaminare" un fiore.

  Lo colse, schiacciandolo tra le unghie appena laccate di pollice e indice, lo tenne un istante in osservazione, e infine se lo lasciò cadere ai piedi. L'abito estivo, in seta beige, sbracciato, con un solo piegone sul dietro, era nuovo: un segnale che Beard non era sicuro di saper interpretare.

  Patrice prosegui verso il cancello e lui vide una certa fatica nei suoi passi, o comunque un ridursi della abituale impazienza, finché la Peugeot si staccò dal cordolo a velocità pressoché normale.

  Quella sera tuttavia, aspettando in casa, fu meno contento, di nuovo incerto su come pensarla, di nuovo propenso a credere di avere avuto ragione allora, quando riteneva che lo scherzetto della radio l'avesse rovinato. Per chiarirsi le idee si versò uno scotch e guardò una partita.

  Non cenò, ma si concesse una vaschetta da un litro di gelato alla fragola, sgranocchiandosi intanto un mezzo chilo di pistacchi. Era inquieto, lo turbava un bisogno sessuale indefinito, e si trovò a concludere che tanto valeva iniziare o recuperare una relazione vera e propria. Si intrattenne per un poco sfogliando le pagine della sua agendina, fissò a lungo il telefono, ma non si decise ad alzarlo.

  Bevve mezza bottiglia e, prima delle undici, si addormentò vestito sul letto, con la luce accesa, tanto che gli ci vollero alcuni secondi per capire dove si trovava quando, qualche ora dopo, fu svegliato dal suono di una voce proveniente dal piano di sotto. L'orologio sul comodino segnava le due e mezza.

  Era Patrice che parlava con Tarpin, e Beard, ancora ringalluzzito dall'alcol, si sentiva pronto a scambiare due chiacchiere.

  Raggiunse stordito il centro della stanza, barcollando un po' mentre si infilava la camicia dentro i pantaloni. Apri la porta senza fare rumore.

  Le luci in casa erano tutte accese, e gli stava bene cosi: già scendeva le scale senza preoccuparsi delle conseguenze.

  Patrice stava ancora parlando e, mentre attraversava l'ingresso per dirigersi alla porta aperta del soggiorno, gli sembrò di sentirla ridere o cantare; a quanto pareva, stava per interrompere un piccolo festeggiamento.

  Invece lei era sola e piangeva, rannicchiata sul divano con le scarpe abbandonate di traverso sul lungo tavolino di cristallo. Emetteva un rumore strano, doloroso, soffocato. Se mai aveva pianto in questo modo per lui, doveva essere successo in sua assenza.

  Beard si fermò sulla soglia e in un primo tempo lei non lo vide. Che scena penosa. Si tormentava tra le mani un fazzoletto o un kleenex, le esili spalle chine sussultavano, e Beard si commosse.

  Percepì la possibilità reale di una riconciliazione; a Patrice occorreva solo una carezza, qualche parola gentile e nessuna domanda, per abbandonarsi tra le braccia di lui, che l'avrebbe presa e portata di sopra, anche se nemmeno in quell'improvviso slancio d'amore Beard potè dimenticare che non ce l'avrebbe mai fatta, neanche usandone due di braccia. Appena mosse i primi passi nella stanza, un asse del pavimento scricchiolò e lei si volse.

  I loro sguardi si incrociarono, ma fu questione di un attimo, perché subito le sue mani si precipitarono al viso per nasconderlo, mentre si girava in direzione opposta.

  Beard pronunciò il suo nome e lei scosse la testa. Dandogli le spalle, si alzò malamente dal divano e procedendo quasi di lato, inciampò sulla pelle d'orso bianco che aveva il difetto di scivolare facilmente sul palchetto incerato.

  Una volta era mancato poco che Beard ci rimettesse una caviglia, e da allora non poteva soffrire quel tappeto.

  Ne detestava anche la bocca spalancata, famelica, e le zanne nude ingiallite per la prolungata esposizione alla luce. Ad assicurarlo al pavimento non avevano mai provveduto, e buttarlo via era fuori questione, trattandosi di un regalo di nozze del padre di lei. Recuperata la stabilità, Patrice si ricordò di raccogliere le scarpe e, coprendosi gli occhi con la mano libera, gli passò accanto di corsa, si sottrasse al suo tentativo di sfiorarle il braccio, tornò a scoppiare in lacrime, ormai più liberamente, e si precipitò su per le scale.

  Beard spense le luci nella stanza e si sdraiò sul divano.

  Inutile seguirla, dato che lei non lo voleva, e poi non aveva importanza al momento, perché comunque aveva visto quel che c'era da vedere. Era arrivata troppo tardi la sua mano, a nascondere il livido che da sotto l'occhio destro si espandeva sulla parte alta della guancia, dove il nero sfumava nel rosso acceso dei bordi e gonfiava la palpebra inferiore spingendola a forza contro l'altra.

  Diede in un rumoroso sospiro di rassegnazione. Era inevitabile, il suo dovere era chiaro: doveva mettersi in macchina subito, raggiungere Cricklewood, appendersi al campanello, tirare Tarpin giù dal letto e dargli una lezione proprio li, sotto la finta lampada a petrolio, sorprendere l'odiato rivale con una stupefacente manifestazione di prontezza e determinazione.

  Riconsiderò l'intera sequenza a occhi socchiusi, soffermandosi sul dettaglio del suo destro che sfondava la cartilagine del naso di Tarpin, dopodiché, senza correggere più molto, rivalutò la scena a occhi chiusi e non si mosse da quella posizione fino al mattino dopo, quando a svegliarlo fu il rumore della porta che accompagnava l'uscita di Patrice, diretta al lavoro.

  A Beard era stata conferita una cattedra ad honorem presso l'Università di Ginevra, dove tuttavia non insegnava; autorizzava l'utilizzo del proprio nome e titolo Professor Beard, Premio Nobel su carta intestata e per istituzioni varie, aderiva con una firma a «iniziative» di livello internazionale, faceva parte di una Royal Commission per la raccolta di fondi destinati alla ricerca scientifica, concedeva interventi informali alla radio su Einstein, i fotoni o la meccanica quantistica, dava una mano nella richiesta di sovvenzioni, era consulente di tre riviste specialistiche, stendeva lettere di presentazione e peer reviews, si interessava alle chiacchiere e alla politica della scienza, alle prese di posizione, ai patrocini speciali, all'agghiacciante nazionalismo, all'estorsione di colossali somme di denaro a ministri e burocrati ignoranti per l'ennesimo acceleratore di particelle o per l'affitto di spazi satellitari, presenziava a gigantesche convention negli Stati Uniti, undicimila fisici, raccolti in un'unica sede , ascoltava ricercatori postdoc esporre i risultati del proprio lavoro, ripeteva con variazioni minime la medesima serie di lezioni sui calcoli alla base della Conflazione Beard Einstein che gli era valsa il Nobel, a sua volta conferiva riconoscimenti, e teneva discorsi ed encomi conviviali per colleghi prossimi alla pensione o alla cremazione. All'interno di un mondo chiuso e specialistico e per gentile concessione dell'Accademia di Stoccolma, era una celebrità, e cosi procedeva, un anno dopo l'altro, vagamente stanco di sé e privo di alternative. Imprevedibilità e fermento erano appannaggio della vita privata. Forse poteva bastare, forse aveva raggiunto il massimo risultato possibile durante una splendida estate della sua giovinezza.

  Una cosa era certa: erano passati vent'anni dall'ultima volta che si era trovato seduto per ore in assorto silenzio, penna e taccuino alla mano, a pensare, a produrre un'ipotesi originale, per poi giocarci, pedinarla, trascinarla dentro la vita. Non si presentava mai l'occasione no, che misera scusa.

  Gli mancavano la volontà, il materiale, era venuta meno la scintilla. Non aveva idee nuove. Ma alla periferia di Reading, tra il fragore del traffico della tangenziale est e gli effluvi di una fabbrica di birra giusto sopravvento, era sorto un nuovo istituto di ricerca nazionale. Il Centro in teoria avrebbe dovuto ricordare il National Renewable Energy Laboratory di Golden, Colorado, nei pressi di Denver e condividerne le mire, sebbene non le dimensioni e la consistenza dei fondi. Michael Beard era il direttore capo del Centro, anche se il vero lavoro lo gestiva un alto funzionario statale, certo Jock Braby.

  Gli edifici amministrativi, i cui muri non portanti contenevano amianto, non erano nuovi, e lo stesso valeva per i laboratori, un tempo adibiti al controllo di materiali tossici per l'edilizia. L'unica novità era costituita da una barriera in filo spinato e paletti in cemento alta tre metri e intervallata a spazi regolari da cartelli di divieto d'accesso, che era stata eretta lungo il perimetro del Centro nazionale per le energie rinnovabili senza il consenso di Beard, né di Braby.

  L'iniziativa, come ebbero presto a scoprire, aveva assorbito il diciassette per cento del budget del primo anno di vita dell'istituto. Erano in seguito stati acquistati da un agricoltore locale venti fradici acri di terreno i cui lavori di bonifica erano al momento allo stadio progettuale. Beard non era del tutto scettico in materia di cambiamenti climatici. Rappresentavano una delle svariate voci nell'elenco delle tragedie incombenti che fanno da sfondo ai notiziari; lui si teneva informato, deplorava moderatamente la situazione e si aspettava che il governo prendesse seri provvedimenti. Naturalmente sapeva che una molecola di biossido di carbonio assorbe energia nella banda dell'infrarosso, e che l'umanità stava immettendo ragguardevoli quantità di tali molecole nell'atmosfera. A livello personale, tuttavia, aveva altri pensieri.

  E poi lo lasciavano tiepido certi dissennati commenti sui presunti «pericoli» del mondo, sulla catastrofe verso la quale era avviata l'umanità, sulle metropoli costiere destinate a scomparire travolte dalle acque, i raccolti votati alla distruzione, e le centinaia di milioni di profughi pronti a spostarsi in massa da una nazione all'altra, da un continente all'altro, sospinti da siccità, alluvioni, carestie, uragani e incessanti conflitti a causa delle risorse sempre più scarse.

  Percepiva un'eco di Vecchio Testamento in quei moniti, un sentore di piagadiulceri e pioggiadirane, qualcosa che suggeriva la radicata tendenza dell'uomo, perpetuata nei secoli, a credere da sempre di vivere alla fine dei tempi, a considerare la propria morte indissolubilmente legata all'estinzione del mondo e in quanto tale depositaria di un senso, o comunque un po' meno irrilevante.

  La fine del mondo non cadeva mai nel presente, dove sarebbe stato possibile smascherarla per la fanfaluca che era, ma sempre nell'immediato futuro e, al suo non verificarsi, si provvedeva a far emergere una nuova istanza, a fissare una data ulteriore. Il vecchio mondo, purificato dalla violenza incendiaria, lavato dal sangue dei non salvati, ecco l'idea delle sette cristiane millenariste: morte ai miscredenti! E quella dei comunisti sovietici: morte ai kulaki! E dei nazisti con la loro fantasia di impero millenario: morte ai giudei!

  E infine, la democraticissima versione contemporanea della guerra nucleare planetaria: morte a tutti! Allorché quest'ultima non ebbe luogo, e dopo che l'impero sovietico implose divorato dalle sue stesse contraddizioni, e in assenza di una nuova angoscia incombente a parte la grigia, inesorabile povertà globale, la vocazione apocalittica si era inventata l'ennesimo mostro.

  Beard tuttavia era alla costante ricerca di incarichi ufficiali debitamente retribuiti. Erano da poco scaduti i termini di due sinecure di lunga durata, e lo stipendio universitario, seppure unito ai compensi di conferenze e interventi sui media, non copriva mai tutte le sue esigenze.

  Per fortuna, intorno al giro di secolo, il governo Blair si era mostrato desideroso di essere, o quanto meno di apparire, non solo idealmente, bensì attivamente impegnato sul fronte dei mutamenti climatici, e aveva annunciato una serie di iniziative, una delle quali era stata il Centro, struttura destinata alla ricerca di base e bisognosa di un mortale incipriato di polvere magica di Stoccolma cui affidare la direzione.

  A livello politico fu nominato un nuovo ministro, un ambizioso manchesteriano di impronta populista, uomo fiero del passato industriale della sua città, il quale nel corso di una conferenza stampa si dichiarò deciso a «sfruttare il genio» del popolo britannico invitando chiunque a sottoporre idee e progetti sul tema dell'energia pulita. Di fronte alle telecamere promise che ogni progetto inviato avrebbe ricevuto risposta.

  In capo a sei settimane la squadra di Braby una mezza dozzina di ricercatori postdottorato sottopagati, di stanza presso quattro baracche provvisoriamente erette in un mare di fango ricevette centinaia di proposte. La maggior parte arrivava da individui solitari che per laboratorio avevano la rimessa in giardino; qualcuna, da nuove imprese, baldanzose nel marchio e ancora «in attesa di brevetto».

  Nell'inverno del 1999, durante le sue visite settimanali al sito, Beard scorreva rapidamente le carte suddivise in pile sopra un tavolo improvvisato. Dentro quella valanga di sogni ricorrevano con chiarezza certi temi. Alcune proposte indicavano l'acqua come carburante per le auto, riciclando le emissioni di vapore acqueo nel motore; altre non erano che versioni del motore o generatore elettrico la cui energia in uscita superava quella in entrata e pareva sfruttare l'energia del vuoto vale a dire quella che si suppone latente nello spazio vuoto o fondarsi, a giudizio di Beard, su una serie di violazioni della Legge di Lenz.

  Tutte indistintamente costituivano varianti della macchina a moto perpetuo.

  Gli inventori autodidatti sembravano immemori della lunga storia delle loro trovate e di come queste ultime avrebbero, in caso di effettivo funzionamento, distrutto i fondamenti della fisica moderna. Gli inventori nazionali erano decisi a sfidare la prima e la seconda legge della termodinamica, un muro di piombo compatto. Uno dei postdoc propose di suddividere le idee in base alle leggi violate: prima, seconda, entrambe. Esisteva un altro elemento comune.

  Certe buste non contenevano disegni, ma solo una lettera, a volte della lunghezza di mezza pagina, a volte di dieci. Gli autori sempre di sesso maschile spiegavano con rammarico di non poter allegare i progetti giacché era risaputo come le agenzie governative avessero parecchio da temere dal tipo di energia gratuita che la loro invenzione avrebbe garantito, in quanto ne sarebbe derivato il taglio di rilevanti risorse fiscali. Oppure sarebbero state le forze armate a impadronirsi dell'idea, bollandola come top secret, per poi realizzarla a proprio uso e consumo.

  O ancora, certi produttori di energie convenzionali avrebbero sguinzagliato i loro sgherri con l'ordine di ridurre l'inventore in poltiglia allo scopo di mantenere la propria supremazia sul mercato.

  O infine, qualcuno avrebbe potuto rubare l'idea per sé e ricavarne una fortuna. Esistevano esempi tristemente noti di circostanze simili, aggiungeva magari lo scrivente. I disegni pertanto potevano essere visionati soltanto a un determinato indirizzo, da un'unica persona, non accompagnata, del Centro, e solo con il coinvolgimento di intermediari. Il tavolo nella «Baracca Due» cinque semplici assi piazzate su cavalletti sosteneva qualcosa come milleseicento lettere e email stampate, suddivise in base alla data. Se si voleva salvare la faccia al ministro, occorreva rispondere a tutte. Braby, un tipo curvo e mascelluto, era furibondo per la perdita di tempo.

  Furibondo, ma remissivo. Beard era dell'idea di inoltrare ogni cosa al dipartimento ministeriale di Londra, insieme a qualche modello di risposta prestampata. Ma Braby era in lizza per un cavalierato al quale la sua signora teneva parecchio, e irritare un ministro noto per i suoi buoni rapporti con Downing Street poteva significare perdere il treno. Perciò, i postdoc furono messi al lavoro e il primo progetto del Centro la progettazione di una turbina eolica per tetti urbani subì un ritardo di mesi.

  Altro tempo guadagnato per Beard il quale, non ancora uscito dal pressoché silenzioso epilogo del suo quinto matrimonio, aveva modo di analizzare i cosiddetti «geni» esaminati dai postdoc. Ad attrarlo era l'odore di paranoia, di insonnia, di assillo e, soprattutto, di esaltazione che si levava da quelle carte. Stava forse ritrovando, in certe lettere, un'altra versione di sé, di un Michael Beard parallelo al quale sesso, alcol, droga o pura e semplice iella avessero sottratto la disciplina necessaria per il raggiungimento di un'istruzione formale in matematica e fisica.

  Qualcuno che si era perso, ma che non aveva smesso di voler pensare, armeggiare, offrire un proprio contributo. Alcuni di questi uomini erano veramente geniali, ma si lasciavano trascinare dalle loro esagerate ambizioni a reinventare prima la ruota, poi, centoventi anni dopo Nikola Tesla, il motore a induzione, per avvicinarsi infine in modo goffo ed eccessivamente ottimista alla teoria quantistica dei campi e arrivare a scoprire il combustibile salvifico che andavano cercando giusto sotto il loro naso, nelle nicchie di aria vuota delle rimesse o delle stanze degli ospiti in cui lavoravano: l'energia di punto zero.

  La meccanica quantistica. Che ricettacolo, quale discarica di umane aspirazioni, terra di confine nella quale il rigore matematico aveva la meglio sul buonsenso, dove logica e fantasia irragionevolmente convergevano.

  Qui, gli inclini alla mistica trovavano tutto quel che volevano, chiamando in causa la scienza a riprova delle loro tesi. Chissà che splendida musica ultraterrena dovevano essere per quegli ingegni della domenica la asimmetria spettrale, le risonanze, l'entanglement, gli oscillatori armonici quantistici, quali seducenti antiche melodie, l'armonia delle sfere celesti capace di trasmutare un muro di piombo in oro, e di creare un motore di fatto azionato dal nulla, da particelle virtuali che non emettevano sostanze dannose e che avrebbero fornito energia al progetto dell'uomo, oltre a salvarlo.

  Beard si sentiva commosso dagli aneliti di questi uomini solitari. E chissà poi perché pensarli solitari Non era semplice presunzione a farglieli immaginare cosi. Gente che non ne sapeva abbastanza, ma comunque troppo per trovare qualcuno con cui chiacchierare. Quale amico in attesa al pub o alla British Legion, quale moglie oberata di fatica tra figli, lavoro fuori casa e faccende domestiche, sarebbero stati disposti a seguirli nelle gallerie di tarlo del continuum spazio temporale, fino al tunnel gravitazionale, lungo la scorciatoia verso una soluzione definitiva del problema energetico globale.

  Prendendo spunto dall'ufficio brevetti statunitense, Beard concepì una norma in base alla quale ogni inventore che sottoponesse progetti per la costruzione di macchine a moto perpetuo e overunity, doveva allegare alla documentazione un modello funzionante. Non ne arrivò neanche uno.

  Concentrato sul raggiungimento delle proprie ambizioni, Braby tenne d'occhio i postdoc durante lo smaltimento delle pile di carta. Ogni singolo progetto doveva ricevere una risposta specifica, seria, cortese.

  Ma su quelle assi non c'era nulla di nuovo, o quanto meno nessuna novità utile. L'inventore solitario che rivoluziona le scienze era una fiaba uscita dalla cultura del popolo, e da quella del ministro. Con una lentezza letargica il Centro cominciò a prendere forma. Si provvide a sistemare delle tavole in legno sul fango di per sé un ragguardevole passo avanti , poi si livellò e seminò il terreno, cosicché in capo all'estate già c'erano prati attraversati da sentieri e, con il passare del tempo, il luogo venne ad assomigliare a ogni altro grigio istituto del mondo.

  Si sistemarono i laboratori, e finalmente si procedette alla demolizione delle baracche provvisorie. Il campo adiacente venne bonificato, si fecero gli scavi delle fondazioni e si cominciò a costruire. Si assunse nuovo personale: custodi, inservienti, impiegati, tecnici, perfino scienziati, oltre a una squadra di addetti alle risorse umane che si occupasse di reperirli.

  Una volta raggiunta la massa critica, si allestì il servizio di mensa. Inoltre, in una bella portineria in mattoni presso la barriera automatica a strisce bianche e rosse, alloggiava una decina di guardie di sicurezza in uniforme blu scuro, uomini assai cordiali tra loro e ostili in pratica con il resto del mondo, apparentemente convinti di essere i legittimi proprietari del luogo e che tutti gli altri fossero intrusi.

  Per tutto quel tempo, non uno solo dei sei ricercatori postdoc accettò incarichi meglio retribuiti al Caltech o al Mit. Anche in un ambiente gremito di prodigi di ogni tipo, costoro vantavano curricula d'eccezione.

  Beard aveva da sempre difficoltà a memorizzare le facce, specie quelle maschili, e per un bel pezzo non riuscì o non volle distinguerli. Avevano un'età variabile tra i ventisei e i ventotto anni e superavano tutti il metro e ottanta.

  Due si facevano la coda di cavallo, quattro portavano identici occhiali senza montatura, due si chiamavano Mike, due avevano l'accento scozzese, tre esibivano delle cordicelle colorate legate intorno ai polsi, tutti indistintamente indossavano jeans scoloriti, scarpe da ginnastica e giacche della tuta.

  Molto meglio trattarli allo stesso modo, con un certo distacco, o come se fossero un sol uomo. Soprattutto, meglio non offendere uno dei Mike riprendendo una conversazione magari avviata con l'altro, o presumere che il giovane in coda di cavallo e occhiali, con accento scozzese e senza cordicelle al polso potesse essere unico, o non chiamarsi Mike.

  Lo stesso Jock Braby si riferiva a tutti e sei definendoli «le code di cavallo».

  E nessuno di quei giovanotti dava l'impressione di provare una particolare soggezione al cospetto del Premio Nobel, Michael Beard, non quanta lui avrebbe ritenuto adeguata, comunque. Il suo lavoro lo conoscevano, questo era chiaro, ma durante le riunioni lo nominavano appena, per inciso, liquidandolo in un borbottio a bassa voce, quasi che fosse ormai ampiamente superato, quando era vero l'esatto contrario, visto e considerato che la Conflazione Beard Einstein resisteva tetragona su tutti i manuali, inattaccabile sul piano sperimentale. Ai tempi del loro corso di laurea, le code di cavallo dovevano senz'altro aver assistito a una dimostrazione dell'«Intreccio di Feynman», che illustrava l'essenza topografica del suo lavoro.

  Eppure, ai raduni informali in sala mensa, quei giganteschi bambini si trasformavano in pionieri della fisica teorica, scavalcando a parole la Conflazione che trattavano come si tratterebbe un polveroso enunciato di Sir Humphry Davy, e inanellando rimandi ellittici a blg o a qualche complicatissimo mistero nella Mteoria o all'algebra di Nambu Lie, come se non si trattasse neppure di un argomento diverso.

  E proprio li stava il problema.

  Il più delle volte Beard non sapeva che cosa stessero dicendo. Le code di cavallo parlavano in fretta, sulla nota ascendente di un eterno interrogativo che gli faceva scattare un muscolo sconosciuto in fondo alla gola. Non completavano mai un enunciato, limitandosi a esternare il pensiero fino a quando un altro del gruppo mormorava un «Esatto! », che li traghettava d'un balzo alla successiva porzione di enunciato (non si poteva definirla frase). Ma c'era di peggio. Alcuni argomenti di fisica che costoro davano per scontati gli risultavano ignoti. Quando andava a cercarseli a casa, si innervosiva per la lunghezza e la complessità dei calcoli che prevedevano.

  A Beard piaceva pensarsi un veterano, uno che sa il fatto suo in materia di teoria delle stringhe e relative varianti principali. Al giorno d'oggi però si era semplicemente subissati di aggiunte e modifiche. Una volta, ai tempi in cui Beard era uno scolaro di dodici anni, il suo insegnante di matematica aveva detto alla classe che se un quesito d'esame dava come risultato undici diciannovesimi, o tredici ventisettesimi, si poteva essere certi di aver sbagliato. Troppo astruso per essere giusto. In due ore di ininterrotta assorta lettura, roba da farlo svegliare il mattino dopo con la fronte ancora rigata dai segni della concentrazione, cercò di aggiornarsi sugli ultimi sviluppi, su Bagger, Lambert e Gustavsson (ma certo! Ecco scoperto l'arcano del blg) e la loro formulazione lagrangiana di membrane coincidenti. Difficile stabilire se Dio abbia o no giocato a dadi con l'universo, ma di sicuro non è mai stato neanche lontanamente cosi presuntuoso e immodesto.

  Era semplicemente da escludere che il mondo materiale potesse essere tanto complicato. _Quello domestico al contrario ci riusciva. Tirando le somme dei suoi vincoli matrimoniali spezzati, nessuno come il quinto, l'ultimo, risultava essere stato protratto da lui in modo più assurdo, nessuno lo aveva mortificato allo stesso modo e nessuno aveva prodotto fantasticherie altrettanto ridicole, accompagnate da aumento di peso e private aberrazioni. Nel corso di quei lunghi mesi non ci fu un solo momento in cui gli parve di essere nel pieno delle proprie facoltà, senza contare che in capo a poco tempo Beard scordò completamente il se stesso di sempre per accomodarsi in una condizione di moderata e diffusa psicosi. Dopo tutto sentiva delle voci e vedeva cose che in seguito decretò inesistenti, come l'inopinata, radiosa bellezza di Patrice.

  Gli effetti somatici del fenomeno avevano caratteristiche da manuale. Una serie di infezioni non gravi disarmò il sistema immunitario che avrebbe dovuto proteggerlo. Agenti patogeni attraversarono in massa il fossato delle sue difese e sciamarono sulle mura del castello armati di febbri, ulcere labiali, spossatezza, dolori articolari, gorgoglii intestinali, acne nasale, blefariti sintomo nuovo, quest'ultimo: una deturpante infiammazione delle palpebre accompagnata dall'insorgenza di orzaioli modello Monte Fuji innevato che esercitavano pressione sui globi oculari e gli annebbiavano la vista.

  Anche insonnia e fissazioni contribuivano ad alterargli la percezione del mondo e, quando finalmente era sul punto di prendere sonno, sentiva la voce di un telecronista ricordargli la sua condizione pietosa, sebbene non con parole che riuscisse effettivamente a distinguere. Oltre tutto ciò, soffriva della ragionevole disperazione di un cornuto la cui consorte, a dispetto di un occhio nero in via di guarigione, continuava ad aggirarsi per casa con aria trionfale, artificiosamente allegra, per dileguarsi non appena lui tentava di avviare una conversazione seria.

  E notò come la bocca sia sovrarappresentata a livello cerebrale, perciò anche la più piccola ragade al centro del labbro inferiore finiva col sembrargli un'orrenda cicatrice, un marchio del destino. Come avrebbe fatto Patrice a baciarlo ancora Non avrebbe mai più accettato di lasciarsi coinvolgere, sfidare, accusare, e nemmeno amare, non certo da lui. Si, è vero, era stato un donnaiolo bugiardo, se l'era voluta, ma adesso che la resa dei conti era arrivata, che doveva fare, a parte accettare il castigo.

  A quale divinità ci si aspettava porgesse le proprie scuse Ne aveva avuto abbastanza. Dopo essersi aggrappato con ostile cocciutaggine a speranze stupide, cominciò a tenere d'occhio posta e email, in attesa dell'invito che, portandolo lontano da Belsize Park, avrebbe restituito un pizzico di vitalità autonoma alla sua devastata persona.

  Ne arrivava una mezza dozzina circa ogni settimana dell'anno, ma fino a quel momento nessuna delle allettanti richieste di tenere conferenze sulle rive di laghi a cinque stelle in Italia settentrionale, o in qualche banale Schloss tedesco, l'aveva catturato, e d'altra parte si sentiva troppo debole e dolente per discettare della Conflazione in una sala affollata di colleghi a Los Angeles o a Delhi.

  Non aveva idea di che cosa stesse aspettando, ma pensava che avrebbe saputo riconoscere l'invito giusto, quando si fosse presentato. Frattanto gli era perlopiù di conforto salire una mattina alla settimana su un lurido treno a Paddington, farsi venire a prendere alla stazione vittoriana di Reading, schiacciata tra isolati di edifici bassi, e percorrere i pochi chilometri da li al Centro, a bordo di un prototipo di Toyota Prius, guidata da un non meglio identificato rappresentante delle code di cavallo.

  Alla partenza, Beard si sentiva una corda tesa vibrata su un'unica nota, ma più si lasciava la casa alle spalle, più si attenuavano le oscillazioni, mano a mano che si avvicinava alla costosa recinzione perimetrale. Le vibrazioni cessavano poi del tutto allorché, con un dito alzato, ricambiava il saluto cordiale delle guardie di sicurezza che passione avevano per i superiori! e passava rapido oltre la sbarra bianca e rossa prontamente sollevata. Di solito Braby gli veniva incontro e, con si e no un velo di ironia da accademici, gli apriva perfino la porta dell'auto, perché ad arrivare non era un cornuto qualunque, bensì l'ospite illustre, il Grande Capo, colui che avrebbe tenuto alto il nome del Centro di fronte ai mezzi di comunicazione, incoraggiato le industrie energetiche a interessarsi, e scucito altre duecentocinquantamila sterline a quel fanfarone del ministro.

  I due colleghi bevevano un caffè insieme a inizio giornata. Si procedeva a elencare progressi e ritardi dei lavori, Beard annotava quanto di sua spettanza e visitava il sito. Sin dall'inizio della collaborazione, parlando a braccio, aveva dichiarato che gli sarebbe stato più facile ottenere altri fondi se avesse potuto presentare il Centro come sede di un unico grandioso progetto che tanto il contribuente quanto i media potessero comprendere.

  Era nata pertanto la Wudu o Wind turbine for Urban Domestic Use, un accrocco di turbina eolica che ogni privato poteva farsi installare sul tetto di casa allo scopo di produrre una quantità di energia sufficiente a garantirgli un significativo risparmio sulla bolletta elettrica. Sui tetti urbani il vento non soffia uniforme da un'unica direzione, come succede con i generatori eolici eretti in aperta campagna, perciò a fisici e ingegneri fu chiesto di realizzare un modello ideale di pala a vento per condizioni di turbolenza atmosferica.

  Beard si era appoggiato a un vecchio amico del Royal Aircraft Establishment di Farnborough per ottenere l'accesso a una galleria del vento, ma prima occorreva lavorare a complessi calcoli di matematica e aerodinamica, certe ramificazioni della teoria del caos con le quali personalmente tendeva a spazientirsi. Il suo interesse per la tecnologia era perfino più fiacco di quello che nutriva per la climatologia. In principio pensava che si sarebbe trattato di sistemare i calcoli matematici del progetto, costruire tre o quattro prototipi e collaudarli nella galleria. Si era invece dovuto ricorrere all'assunzione di nuovo personale, mano a mano che problematiche secondarie erano state introdotte nelle istanze all'ordine del giorno: vibrazioni, impatto acustico, costi, altezze, shear del vento, precessione giroscopica, stress ciclico, resistenza dei tetti, materiali, ingranaggi, efficienza, fasi di allacciamento alla rete, permessi di costruzione.

  Quello che era sembrato uno scherzo aveva assunto le proporzioni di un mostro, e andava divorando tutta l'attenzione e le risorse di un Centro tuttora in via di costruzione. In compenso era troppo tardi per tirarsi indietro. Beard preferiva aggirarsi da solo per il sito e constatare colpevolmente gli effetti della sua proposta avventata. Entro l'estate del 2000 ciascuno dei postdoc già disponeva di un piccolo ufficio tutto suo.

  Separare i membri del gruppo aveva aiutato, come pure affiggere targhette nominali sulle rispettive porte, ma Beard attribuiva soprattutto alla propria perspicacia il fatto che, in capo a sette , otto mesi, ognuno dei giovani andasse acquisendo un'identità definita. Gli era bastata una mezza dozzina di viaggi a bordo della Prius dalla stazione di Reading per rendersi conto, alzando lo sguardo dal testo di un discorso preparato per quella sera a Oxford, che chiaramente era sempre stata la stessa persona a venirlo a prendere al treno.

  Si trattava di uno dei due effettivamente dotati di coda di cavallo, un giovane alto, dal viso affilato, la bocca stipata di dentoni, e un sorriso scemo.

  Era originario della zona di Swaffham nel Norfolk, come Beard ebbe a scoprire nel corso di quella loro prima conversazione consapevole, e aveva studiato all'Imperial College, poi a Cambridge, e infine due anni alla Caltech di Pasadena, ma nessuna di tali favoleggiate istituzioni aveva stemperato la purezza del suo accento contadino, gli ingenui su e giù della sua voce né quel tono costantemente interrogativo che a Beard faceva ricordare scenari campestri con alte siepi e covoni di fieno. Si chiamava Tom Aldous.

  Durante la loro prima chiacchierata disse al Grande Capo di aver fatto domanda per essere assunto al Centro perché pensava che il pianeta fosse in pericolo e che le sue conoscenze di fisica delle particelle potessero rivelarsi di qualche aiuto, e aggiunse che quando aveva saputo che a capo della squadra ci sarebbe stato proprio Beard, il Beard della Conflazione Beard Einstein, lui, vale a dire Tom Aldous, aveva entusiasticamente ritenuto che il Centro avrebbe concentrato le ricerche sull'energia solare, e in special modo sulla fotosintesi artificiale, e su ciò che gli piaceva definire la nanosolare, riguardo alla quale, a suo giudizio...

  Energia solare? Beard disse bonario.

  Sapeva benissimo di che cosa si stava parlando, ma quei termini conservavano alle sue orecchie un alone sospetto, evocavano scenari New Age, con gente paludata da druido che, al crepuscolo di mezza estate, danzava intorno a Stonehenge. Tendeva inoltre a diffidare di chiunque si riferisse al «pianeta» per dare a intendere quanto pensava in grande.

  Esatto ! Aldous sorrise con tutti i denti nello specchietto retrovisore.

  Non poteva nemmeno sfiorarlo il pensiero che il Grande Capo non fosse un esperto in materia. E tutta a nostra disposizione, non dobbiamo far altro che capire come sfruttarla; a quel punto non riusciremo a capacitarci di aver bruciato carbone, petrolio et similia per tanto tempo. Beard era affascinato da come Aldous pronunciava l'espressione «et similia». Detta cosi, sembrava gettare una luce ironica su quanto stava dicendo.

  Procedevano su una bretella autostradale a quattro corsie divise da una siepe di biancospino in fiore che spandeva la propria inutile fragranza sul traffico in corsa.

  La sera precedente, disperando di poter prendere sonno, Beard si era coricato in vestaglia e aveva letto tutta la notte aspettando Patrice che non era rientrata. Si trattava di una raccolta inedita di lettere indirizzate a vari colleghi da Paul Dirac, uomo completamente assorbito dalla scienza, e del tutto privo di colloquialità e di una serie di altre umane attitudini. Alle sei e quarantacinque, Beard aveva messo giù il manoscritto per andare in bagno a farsi la barba. Il sole già cominciava a filtrare sghembo tra i rami della betulla in giardino, disegnando motivi sul pavimento di marmo sotto i suoi piedi.

  Che spreco, che fallimento in termini di amministrazione oculata, avere il sole cosi alto tanto di buon'ora. Non sopportava l'idea di calcolare, pensò spostando il rasoio sui peli in ricrescita tra le sopracciglia che si tagliava per darsi un tocco più giovanile, tutte le ore di luce che si era perso in estate.

  Del resto, che cosa avrebbe potuto fare, che c'era da fare alle sette del mattino in qualunque stagione dell'anno, a parte dormire o andare al lavoro? Intanto, il suo deficit di sonno si accumulava da settimane. Lei crede che potremmo mai cavarcela, domandò, soffocando uno sbadiglio, senza carbone, petrolio e gas Aldous guidava veloce su una gigantesca rotonda, vasta e trafficata quanto un circuito di gara dalla quale, per forza centrifuga, si sarebbero immessi su una bretella in discesa e avrebbero infine imboccato l'autostrada con il suo fragore impetuoso di raddoppiati veicoli in corsa, autotreni della lunghezza di cinque villini a schiera sfreccianti in direzione Bristol ai centodieci all'ora, e il resto del traffico in coda, nell'attesa di schizzare al sorpasso. Ecco appunto: quanto poteva ancora durare tutto ciò? Beard, reso fiacco e conciliante dall'insonnia, si senti infragilito.

  La M4 parlava di una passione per la vita che non poteva più condividere. Lui era in sintonia con le comunali, le stradicciole, i sentieri. Stringendosi nella sua Harris di tweed, si rassegnò all'ascolto di Tom Aldous il quale parlava con la melodiosa certezza di un primo della classe deciso a fornire al maestro le risposte che crede si aspetti. Noi siamo il prodotto di carbone prima e petrolio poi, ma adesso sappiamo che bruciare quella roba ci porterà alla rovina.

  Abbiamo bisogno di un carburante diverso se non vogliamo soccombere, sprofondare. C'è di mezzo una nuova rivoluzione industriale. Inutile girarci intorno, il futuro è affidato all'idrogeno e all'elettricità, le uniche due fonti energetiche che sappiamo pulite e rinnovabili.

  Altra energia nucleare, insomma. Il giovane distolse lo sguardo dalla strada per incrociare nello specchietto quello di Beard troppo a lungo, però, tanto che il più anziano si irrigidì sul sedile posteriore e riportò gli occhi sul caos esterno, nella speranza di incoraggiare l'autista a fare altrettanto. Sporca, pericolosa, antieconomica. Ma come lei sa già ce l'abbiamo la nostra centrale nucleare funzionante e sicura, in grado di convertire idrogeno in elio a costo zero, e comodamente installata a centoquaranta milioni di chilometri di distanza.

  Lo sa che cosa penso sempre, professor Beard Penso che se un alieno arrivasse sulla terra e vedesse tutta questa luce solare sarebbe sconvolto di scoprire che siamo convinti di avere un problema energetico. Fotovoltaico! Ho letto Einstein, ho letto lei, sull'argomento. La sua Conflazione è geniale. Il dono più grande che ci ha fatto Dio è senz'altro questo: che quando un fotone colpisce un semiconduttore libera un elettrone. Le leggi della fisica sono talmente benevole, talmente generose.

  Senta qua.

  C'è un uomo in una foresta, sotto la pioggia, e sta morendo di sete. Ha con sé un'accetta e comincia a tirar giù gli alberi per bere la linfa. Un sorso per ogni albero. Intorno gli si fa il deserto, niente più piante e animali, e l'uomo sa che per colpa sua la foresta scomparirà presto. Allora come si spiega che non apre la bocca e non si beve la pioggia Per il semplice motivo che è molto bravo a tirar giù alberi, perché ha sempre fatto cosi, e perché considera un po' suonato chi propone di bere la pioggia.

  Ecco, professor Beard, la luce del sole è come quella pioggia. Inonda il nostro pianeta, condiziona il nostro clima e la sopravvivenza. Una dolcissima pioggia di fotoni e tutto quel che dobbiamo fare è tendere i bicchieri e raccoglierla! Da qualche parte ho letto un articolo in cui si diceva che meno di un'ora di luce solare sulla terra basterebbe a soddisfare i bisogni del mondo intero per un anno.

  Tutt'altro che impressionato, Beard replicò: E che misura utilizzava l'autore del suo articolo per l'irradianza solare Un quarto della costante solare. Troppo ottimistico. Bisognerebbe dimezzarla. Non cambia il punto, professor Beard.

  I raggi solari che piovono su una porzione minuscola dei vari deserti del mondo potrebbero fornirci tutta l'energia di cui abbiamo bisogno. Il tono bucolico del ragazzo del Norfolk, tanto in contrasto con quanto andava dicendo, cominciava a esacerbare il cattivo umore di Beard. Disse scontroso: Sempre che si riesca a distribuirla. Esatto. Nuove linee a corrente continua. E solo questione di soldi e ricerca.

  Ben spesi, trattandosi del pianeta! Del nostro futuro, professor Beard! Beard sfogliò rumorosamente le pagine del suo discorso allo scopo di lasciare intendere che la conversazione era giunta alla fine. La prima essenziale caratteristica del fanatico è quella di ritenere che tutti i mali del mondo possano ridursi a un unico problema, e che quel problema possa essere risolto. La seconda, è quella di insistere sul punto in continuazione. Purtroppo, Tom Aldous non aveva ancora finito.

  Mentre arrivavano al Centro e la sbarra d'ingresso veniva sollevata, prosegui rifiutandosi di registrare alcuna interruzione nel discorso: E per questo che, con il dovuto rispetto, ritengo che si stia solo perdendo del tempo, con questa storia della microturbina eolica. La tecnologia c'è già. E sufficiente che il governo si inventi degli incentivi, sarà un attimo, e il mercato farà il resto.

  C'è da guadagnarci montagne di soldi. Per il solare invece per il traguardo della fotosintesi artificiale occorre parecchia ricerca sulle nanotecnologie. Potrebbe toccare a noi, professore! Aldous tenne aperta la porta e Beard usci stancamente dall'auto: La ringrazio di avermi messo a parte dei suoi pensieri. Ma impari anche a non staccare gli occhi dalla strada . E si volse per stringere la mano a Braby.

  Nel corso delle sue visite settimanali, di conseguenza, Beard sperava di non incrociare mai Aldous a tu per tu, giacché il giovane cercava di convincerlo della necessità del fotovoltaico, o di propinargli la sua personale spiegazione quantistica del medesimo, o comunque di rovesciargli addosso cordialità ed entusiasmo, ignorando apparentemente la scontrosità del professore ogni qualvolta lui partiva con la manfrina sull'opportunità di abbandonare il progetto Wudu.

  Ovvio che sarebbe stato meglio rinunciare, visto che, oltre ad assorbire quasi metà del budget, l'iniziativa andava perdendo interesse e accumulando difficoltà. Ma si dà il caso che l'idea fosse stata di Beard e tornare indietro avrebbe costituito un fallimento personale. Gli diventò quindi sempre meno simpatico il giovanotto col faccione stupido e ossuto e le narici dilatate, la coda di cavallo, il lurido braccialetto di cordicella rossa e verde al polso, la dieta integralista a base di yogurt e insalate consumata in sala mensa, il vizio di piazzare il vassoio, e senza chiedere il permesso, il più vicino possibile al Grande Capo imponendogli il tedio di ascoltare il racconto di come Aldous avesse gareggiato per il Norfolk nei campionati di pugilato, e preso parte alle regate universitarie di Cambridge, oltre ad essersi piazzato settimo nella maratona di San Francisco.

  C'erano poi dei romanzi dicasi romanzi! che Aldous avrebbe voluto fargli leggere, novità musicali sulle quali a suo giudizio Beard avrebbe dovuto aggiornarsi, e film di particolare interesse, documentari sui cambiamenti climatici che Aldous aveva già visto un paio di volte almeno, ma che sarebbe stato lieto di rivedere una terza, se soltanto il Grande Capo avesse accettato di condividere l'esperienza.

  La mente di Aldous, coadiuvata da un accento del Norfolk, pareva fatta apposta per elargire instancabili consigli e raccomandazioni, per manifestare entusiasmo ora per un viaggio, ora per una vacanza, un libro o un integratore vitaminico, una mente insomma che già di per sé era uno strumento di persuasione.

  Niente minava di più la buona volontà di Beard che sentirsi ripetere che avrebbe dovuto trascorrere un mese nella valle di Swat. Nell'edificio dove in passato si erano studiati gli effetti tossici di isolanti in fibra di vetro e della polvere di mattone, Beard si aggirava tra i laboratori e ascoltava relazioni sullo stato di avanzamento dei lavori redatte da ingegneri, progettisti e ineffabili consulenti energetici, responsabili della stesura di un circostanziato documento dal titolo Alla scoperta della Micro Eolica 4.2 di cui non riuscì a finire di leggere nemmeno il primo paragrafo.

  Nel corso di quell'estate le assunzioni presso il dipartimento di Risorse umane, a sua volta appena costituitosi, furono talmente numerose, che ogni settimana Beard si vedeva costretto a chiarire il proprio ruolo di fronte a una mezza dozzina di estranei. Erano davvero pochissime le persone non coinvolte nel progetto Wudu e, con l'andare del tempo, Beard si sentì scoraggiato.

  A dispetto di tanta fatica, a Farnborough non erano affatto pronti per i collaudi, nessuno si era veramente impegnato a risolvere il problema della turbolenza, e nessuno pensava un granché a che cosa sarebbe potuto accadere in assenza di vento, perché nessuno aveva un'idea efficace riguardo alla possibilità di accumulare energia elettrica a basso costo. Quello sì che sarebbe stato un progetto rivoluzionario: inventare una nuova batteria per la fornitura domestica di elettricità, ma ormai era troppo tardi per suggerirlo, con il personale impegnato in massa sulla Wudu, e poi, quella era precisamente la ricerca che Tom Aldous si ostinava a caldeggiare.

  Molto meglio costruire un elegante reattore nucleare sulla costa giurassica del Dorset che devastare un milione di tetti con lo shear e la vibrazione, la forza di reazione e il momento torcente delle forze e la torsione di un inutile gadget che di rado avrebbe ricevuto vento abbastanza teso da riuscire a produrre corrente utilizzabile.

  Com'era potuto succedere, si chiese con un filo di vittimismo Beard uscendo da un ufficio per dirigersi mesto nel successivo, che un suo commento casuale avesse precipitato tutti quanti in quella ricerca insensata.

  La risposta era semplice. La sua idea aveva scatenato una serie di relazioni, la compilazione di centonovantasette pagine di proposte dettagliate, preventivi di spese e computi metrici che lui aveva sistematicamente siglato senza leggere.

  E perché mai Ma perché in quel periodo Patrice incominciava a frequentare Tarpin, e lui non era in grado di pensare ad altro. Di ritorno nel corridoio per andare a consultarsi con un tecnico dei materiali, passò accanto all'ufficio di Braby che lo aspettava elettrizzato sulla soglia della stanza e gli fece segno di entrare.

  Alle sue spalle, uno dei due Mike codadicavallo assicurava con del nastro adesivo un disegno su una lavagna bianca. Secondo me qui abbiamo qualcosa, disse Braby chiudendo la porta dopo che Beard era entrato. Me l'ha appena portato Mike. Non si faccia un'idea sbagliata, professor Beard, disse Mike. Non è opera mia. L'ho trovato.

  Braby afferrò Beard per la manica e lo trascinò verso la lavagna. Dacci solo un'occhiata. Ho bisogno del tuo parere. Su un grande foglio di carta campeggiava un disegno eseguito in dettaglio e circondato da una dozzina di schizzi scarabocchi dal tratto pieno ma irregolare, stile taccuini di Leonardo.

  Sotto lo sguardo intenso degli altri due, Beard prese a fissare il disegno al centro: una colonna massiccia composta di una matassa di linee e sezioni, terminanti in un'elica quadrupla che, completando un giro su se stessa, si congiungeva alla base con l'abbozzo geometrico di un generatore.

  Uno degli schizzi mostrava il profilo di un tetto sovrastato da un'antenna televisiva e dall'elica montata su un paletto verticale assicurato a fianco del comignolo: l'impianto lasciava decisamente a desiderare.

  Beard osservò in silenzio per un paio di minuti. Allora? disse Braby. Beh, mormorò Beard. E qualcosa. Braby scoppiò a ridere. Lo dicevo io. Non so come funzioni, ma me lo sentivo. E una variante della macchina a vento Darrieus, il vecchio sbattiuova . Nei giorni remoti di quando era ancora felicemente, o comunque meno morbosamente sposato, Beard aveva trascorso un pomeriggio a leggersi la storia delle turbine eoliche. Al tempo gli erano sembrate piuttosto semplici sul piano della fisica. Ma quello che cambia qui è che le pale sono inclinate di sessanta gradi all'interno dell'elica. E che ce ne sono quattro, per distribuire il momento torcente delle forze e favorirne forse l'autoavviamento.

  Probabilmente funziona bene, con un flusso d'aria ascendente. Magari anche su un tetto, non si sa mai. Allora, chi ha avuto l'idea? Ma conosceva già la risposta e la sua stanchezza raddoppiò. Ascoltare il Bardo di Swaffham celebrare la svolta, l'alba di una nuova era nel campo delle turbine eoliche sarebbe stato più di quanto potesse tollerare al presente. Si sarebbe dovuto aspettare la settimana successiva, perché al momento l'unica cosa che desiderava era sedersi in un angolo tranquillo e pensare a Patrice, portare se stesso verso uno stato di eccitazione senza sbocchi.

  Ecco come si era ridotto.

  Mike si grattò l'attaccatura della coda di cavallo dove apparivano tracce ribelli di fili grigi, come impunture nascoste su una coperta. Era sulla scrivania di Tom. Abbiamo immaginato che l'avesse lasciato li perché lo vedessimo. Poi ci siamo esaltati, non siamo riusciti a trovare Tom da nessuna parte. Abbiamo fatto fare una copia per gli ingegneri che ne sono già entusiasti. Jock Braby circumnavigò inquieto il suo ufficio, tornò alla scrivania e prese la giacca appesa allo schienale della sedia.

  Il lato snob che era in Beard avrebbe voluto prendere da parte il funzionario e dirgli che era dai tempi di Bletchley Park, o quanto meno dai tempi in cui lui frequentava l'università, che nessuno se ne andava più in giro con una sfilza di penne a sfera dentro il taschino della giacca. Purtroppo, i consigli a lui capitava sempre soltanto di pensarli, e mai di elargirli. In una condizione di trattenuta euforia, Braby guadagnò dignità, rivolgendosi benevolmente ai colleghi con un tono di voce virile e pacato, come se il tocco di una spada gli avesse fatto rialzare il ginocchio da un cuscino regale.

  Voglio parlare con Aldous e accompagnarlo in Progettazione. Ci servono dei disegni ben fatti. Possono mettersi a lavorare insieme e intanto tu, Mike, e i ragazzi vi occuperete dei calcoli matematici, Legge di Brecht e cosi via, d'accordo? Legge di Betz. Esatto .

  E sparì.

  Quando ebbe finito il suo giro, Beard si ritirò con un piatto di biscotti al cioccolato e un tazzone del caffè troppo carico preso al bollitore nella sala comune deserta, dietro la mensa, il locale che per molto tempo fu l'unico posto accogliente di tutto il Centro, e si concesse di vagare con il pensiero all'oggetto della sua ossessione, soffermandosi, con una spossatezza fisica quasi piacevole, su certi dettagli che di recente aveva trascurato.

  Prima però dovette issarsi con fatica dalla sedia e attraversare la sala per andare a spegnere il televisore ronzante, perennemente sintonizzato su un canale di informazione. Bush contro Al Gore, ecco cosa assorbiva il prezioso ascolto della maggioranza di popolazione mondiale che non aveva il diritto di votarli.

  Beard tornò a sistemarsi e riprese possesso del piatto. Patrice era di gran lunga la più avvenente delle sue mogli, o meglio, in quel suo modo spigoloso e biondo, l'unica moglie davvero avvenente che avesse mai avuto, per come la vedeva al momento. Le altre quattro avevano mancato la bellezza di un soffio un naso troppo sottile, una bocca troppo larga, una fronte o un mento appena imperfetti, appena troppo sfuggenti e si erano rivelate gradevoli, quelle mogli inferiori, soltanto in grazia di una prospettiva particolare, o di uno sforzo di volontà o di immaginazione, o ancora, in virtù di un desiderio ingannevole. E poi, c'erano alcuni dettagli in Patrice...

  Quelle sue natiche cosi strette, ad esempio. La spanna di una grossa mano sarebbe bastata a misurarle. E la pelle lattea ed elastica che collegava le sporgenze del suo osso pelvico. Lo stupefacente polimorfismo che aveva prodotto i suoi bei peli pubici biondissimi. Avrebbe mai più rivisto quei tesori? Infine, per quanto poco sensuale fosse il pensiero, dovette concentrarsi sul livido che Patrice aveva sotto l'occhio.

  Lei non gliene voleva parlare, perciò forse non avrebbe mai saputo la verità. Poteva solo giocare di congetture. Chissà, forse il suo piano aveva davvero funzionato, forse la donna in camera sua, quella di cui aveva battuto lo scalpiccio dei passi con le mani sulle scale, anziché farla infuriare, aveva riannodato il legame con Patrice, le aveva fatto sentire il desiderio di riavere ciò che credeva di essere sul punto di perdere, l'aveva incoraggiata a dire a Tarpin che la storia tra loro era finita, perché lei tornava da suo marito e, cosi facendo, aveva provocato la sua ira. In tal caso, quello zigomo bluastro significava che Patrice era quasi di nuovo sua, di Beard.

  Troppa grazia, cosi. E allora con gesto meccanico, Beard si portava i biscotti dal piatto alla bocca. Chissà, forse tutto quel groviglio avrebbe preso un corso inatteso. Quasi ogni cosa al mondo era improbabile.

  C'erano donne picchiate e distrutte che non sapevano stare lontane dai loro compagni violenti. Quante volte i responsabili di organizzazioni in difesa della donna si lamentavano di questa assurdità della natura umana. Se anche Patrice era vittima di tale dipendenza dal proprio destino, si sarebbero verificati altri casi di occhi pesti. La sua bellissima Patrice. Insopportabile. Inconcepibile. E alloraì Magari Patrice avrebbe finito per non poterne più tanto della comprensione di Michael quanto della violenza di Rodney e avrebbe desiderato liberarsi di entrambi.

  Oppure gli poteva succedere di entrare in camera una sera e di trovarla già li ad aspettarlo, nuda sul letto matrimoniale, sdraiata come un tempo sulla schiena, a gambe divaricate, mentre lui le si avvicinava, bisbigliando il suo nome, nudo a sua volta. Sarebbe stato tutto facile, l'avrebbe raggiunta, le si sarebbe accomodato accanto prendendole nella coppa della mano...

  Ma Beard non era più solo, e non ebbe bisogno di alzare lo sguardo per sapere a chi appartenesse la sagoma in controluce sulla porta. Senza servirsi di caffè non si concedeva stimolanti ed era persuaso che anche Beard avrebbe dovuto fare altrettanto Aldous sedette vicino al Grande Capo e, venendo subito al punto, disse: Le consiglio vivamente di leggere l'articolo sui film sottili per il fotovoltaico che uscirà la prossima settimana su «Nature». Una parte delle risorse di sangue in teoria destinate al cervello di Beard erano tuttora impegnate a irrorargli il pene, sebbene andassero rapidamente defluendo, altrimenti avrebbe forse conservato la presenza di spirito di invitare Aldous a levarsi di torno. Gli disse invece: Braby la sta cercando.

  L'ho saputo. Lei ha visto tutti i disegni della mia turbina.

  E probabile che sia nel suo ufficio, al momento. Ostentando una sorta di sfinimento professionale, Aldous si sfilò il berretto da baseball e si accasciò in poltrona chiudendo gli occhi: Avrei dovuto distruggerli. E roba piuttosto promettente, ammise Beard, ben poco volentieri.

  Non nutriva alcuna fiducia in chi indossa un berretto da baseball lontano da un campo da baseball, indipendentemente dal verso della visiera. E questo il punto. E roba rivoluzionaria, in effetti. Altro che torsione smorzata! Ottima angolazione di attacco per qualsiasi direzione del flusso di vento. Problema della turbolenza, risolto! Non mi fraintenda, professor Beard, è geniale, lo so.

  Ma se il Centro decide di lavorarci su, sprecheremo tre anni in ricerche di sviluppo su un progetto che una azienda commerciale qualsiasi potrebbe svolgere in prospettiva di guadagno. E non è abbastanza importante, la microturbina eolica non ci risolverà il problema, professore. Sono troppo pochi i centri abitati che possono contare su vento abbastanza teso. Abbiamo bisogno di una nuova fonte energetica per la civiltà tutta. Non c'è più tanto tempo.

  Dovremmo concentrarci sui principi fondamentali del solare, prima che tedeschi e giapponesi se la battano con il malloppo, prima che si sveglino gli americani. Perfino con il nostro clima di merda, gli infrarossi non mancano. Ma si può sapere perché sto dicendo tutto questo proprio a lei Dobbiamo tornare a occuparci di fotosintesi, vedere che c'è li da imparare. Ho grandi idee anche in quel campo. Sto raccogliendo i dati in un fascicolo per lei. E chi ti vedo, invece Mr Braby, che corre in Progettazione con i miei stupidi disegni in mano. Gesù! Si premette una mano sugli occhi ancora chiusi in un'ulteriore esibizione di stoica pazienza, questa volta di fronte a un patimento immeritato. Io sono un uomo semplice, professore.

  Chiedo solo di fare quello che è giusto per il mio pianeta. Capisco, disse Beard, improvvisamente incapace di affrontare l'ultimo biscotto che gli si era materializzato in mano. Lo rimise sul piatto e, con non poca fatica, si alzò. Devo proprio avviarmi, adesso. Ho bisogno di un passaggio alla stazione. E inutile, ribatté Aldous alzandosi di scatto e attraversando in tre falcate la sala per raggiungere il televisore; cambiò canale, aspettando che il programma saltasse al successivo, e infine alzò il volume. Sembrò che avesse evocato la notizia a beneficio della propria causa, che avesse ridotto lui una coppia di anziani coniugi alla miseria e alla disperazione per poi convincerli a gettarsi mano nella mano davanti al treno LondraOxford.

  Il notiziario locale non trasmetteva nulla di più cruento delle interviste a viaggiatori irritati che si erano visti costretti a lasciare la stazione di Reading, e ad altri già in attesa di fantomatici autobus sostitutivi. Il giovane scortò Beard alla porta, come si potrebbe accompagnare al bagno un paziente psichiatrico. Abito non lontano da Belsize Park e sto per andarmene.

  Non avrò una Prius, ma fino alla porta di casa sua ci posso arrivare. Beard non aveva idea di come facesse Aldous a sapere il suo indirizzo, ma ritenne inutile chiedere. E siccome al momento intendeva fare ritorno al quartier generale della sua infelicità, non aveva interesse a mandare Aldous in cerca di Jock Braby.

  Di li a pochi minuti, il Grande Capo si ritrovò seduto su una Ford Escort tutta arrugginita, costretto a fingere di ascoltare una dettagliata relazione su quanto ci si poteva aspettare di leggere nel prossimo rapporto della Commissione internazionale sui cambiamenti climatici. A quel punto la traiettoria di sguardo dell'autista doveva deviare di ben novanta gradi dalla strada per incontrare quella del passeggero, a tratti anche per parecchi secondi di seguito, durante i quali, in base ai calcoli di Beard, l'auto avrebbe percorso svariate centinaia di metri. Non è necessario guardarmi in faccia per parlarmi, avrebbe voluto dirgli, fissando il traffico dal parabrezza e cercando di prevedere l'attimo in cui si sarebbe dovuto impossessare del volante.

  Ma perfino Beard aveva difficoltà a richiamare all'ordine il proprio ospite, l'uomo che gli stava offrendo un passaggio. Meglio morire o passare il resto della vita da tetraplegico bilioso piuttosto che mostrarsi scortese. Dopo avergli esposto quanto si aspettava di leggere sul rapporto della Cicc, Aldous ricordò a Beard era la quindicesima persona a farlo nell'arco di dodici mesi che dieci su dieci, o forse nove su dieci anni dell'ultimo decennio del ventesimo secolo erano stati i più caldi mai registrati. Prese poi a riflettere sulla sensibilità climatica, sull'aumento delle temperature dovuto a un'emissione di CO2 doppia rispetto ai livelli dell'era preindustriale.

  All'ingresso in Londra, si era passati all'irraggiamento forzato, seguito dalla solita litania sulla riduzione dei ghiacciai, il processo di desertificazione, il depauperamento delle barriere coralline, l'alterazione delle correnti oceaniche, l'innalzamento del livello dei mari, la scomparsa di questo e di quello, eccetera eccetera, mentre Beard sprofondava nello sconforto della disattenzione, non perché il pianeta fosse in pericolo di nuovo quell'espressione demenziale ma perché qualcuno glielo stava raccontando con tanto entusiasmo. Ecco che cosa non sopportava delle persone politicamente impegnate: che ingiustizie e catastrofi fossero il loro latte materno, la loro linfa vitale, la sorgente del loro piacere.

  Cosi, il cambiamento climatico aveva travolto Tom Aldous. Chissà se disponeva di altri argomenti. Purtroppo si. Era in pensiero per le emissioni della sua auto e aveva scovato un ingegnere a Dagenham disposto a dargli una mano per convertirla al funzionamento elettrico. La trazione era buona, il problema riguardava la batteria: gli sarebbe toccato ricaricarla ogni cinquanta chilometri. A stento sarebbe riuscito ad arrivare al lavoro, sempre che non superasse i trenta chilometri all'ora.

  Finalmente, Beard costrinse Aldous a rientrare nel mondo dei vivi domandandogli dove abitava. A Hampstead, in un monolocale in fondo al cortile di uno zio. Ogni fine settimana andava in macchina a Swaffham a trovare il padre, malato di polmoni. La madre era morta da un pezzo.

  La vicenda di quella morte stava per prendere il via quando l'auto accostò davanti a casa. Mentre Beard cercava di interrompere la conversazione per poterlo ringraziare, non vedendo l'ora di porre fine all'incontro, Aldous si era già fiondato fuori dalla macchina per precipitarsi ad aprirgli la portiera e aiutarlo a scendere dalla vettura.

  Ce la faccio, ce la faccio, disse Beard spazientito, ma, dato il recente aumento di peso, quasi quasi non era vero, tanto era basso quel vecchio catorcio di auto. Recuperati i modi da infermiere di reparto psichiatrico, Aldous lo accompagnò lungo il vialetto; poi, quando furono davanti alla porta d'ingresso e Beard si mise a cercare la chiave, chiese di poter approfittare del bagno.

  Come dire di no Mettendo piede in casa gli venne in mente che era il pomeriggio libero di Patrice, e infatti eccola, in cima alle scale, col suo disinvolto occhio nero, jeans attillati, maglioncino di cachemire verde pallido e babbucce, pronta a scendere loro incontro tutta sorrisi e a offrirsi di fare un caffè, subito dopo le presentazioni.

  Per una ventina di minuti sedettero al tavolo di cucina e Patrice si mostrò gentile, reclinò graziosamente la testa ascoltando la storia della madre di Tom Aldous, gli rivolse domande comprensive e raccontò della propria madre, morta a sua volta in giovane età. Poi il tono del discorso si fece più leggero e lo sguardo di Patrice incrociò quello di Beard a ogni risata e con quello lo includeva, ascoltava sorridente le sue parole, sembrava divertirsi alle sue battute e a un certo punto arrivò perfino a sfiorargli la mano per interromperlo. All'improvviso Tom Aldous si mostrò dotato di eloquenza e senso dell'umorismo e li fece ridere con il racconto di suo padre, un tempo temibile professore di storia, ormai ridotto a un invalido litigioso che consegnava i suoi pasti d'ospedale interamente a un famelico uccello rapace. Aldous non faceva che rigirarsi e sorridere, mentre una timida mano gli andava d'istinto su per il collo a tormentarsi la coda di cavallo.

  Nemmeno per un istante fece mente locale sui pericoli che stava correndo il pianeta. E cosi i coniugi armoniosamente intrattennero il giovanotto cordiale e, quando questi si alzò per andarsene, risultò chiaro che era accaduto qualcosa di stupefacente, che si era verificata una sostanziale trasformazione nell'atteggiamento di Patrice verso il marito.

  Dopo aver accompagnato Aldous alla macchina, Beard, non osando sperare che il suo espediente di evocare la presenza di una donna imitandone a mani nude il passo sulle scale potesse avere funzionato sul serio, tornò a precipitarsi in casa per saperne di più. Ma trovò la cucina deserta, le tazze sporche ancora sul tavolo, la casa di nuovo avvolta nel silenzio. Patrice si era ritirata in camera sua e, quando lui salendo le tamburellò sulla porta, gli disse semplicemente di andare via.

  Aveva solo voluto torturarlo con il ricordo fuggevole della vita che un tempo condividevano. Era la sua assenza che intendeva fargli assaporare. Beard non la vide più fino alla sera successiva, quando usci di casa lasciando dietro di sé una scia di profumo diverso dal solito. Le settimane passarono senza grandi cambiamenti. Alla scuola elementare di Patrice ebbe inizio il semestre autunnale. Nel tardo pomeriggio lei correggeva compiti e preparava lezioni, e tre o quattro volte la settimana usciva intorno alle sette o le otto per andare da Tarpin. Quando alla fine di ottobre, col ritorno all'ora solare, il sentiero in giardino lungo il quale si allontanava cominciò a essere immerso nel buio, l'assenza di lei risultò ancora più assoluta.

  Della sua intenzione di invitare l'amante a cena non si seppe più nulla, almeno non quando Beard era in casa.

  Ogni tanto gli capitava di fermarsi fuori città per lavoro e, al suo rientro, non trovava traccia del passaggio di Tarpin, a meno di volerla cogliere nel particolare nitore della cucina, nel tavolo in quercia della camera da pranzo più lustro del solito, in tegami e padelle tutti stranamente riposti. Ma all'inizio di novembre Beard entrò nella dispensa accanto alla porta sul retro di casa a cercare una lampadina.

  Era una stanza cieca, fredda, dotata di scaffalature in pietra e mattoni sulle quali piccoli elettrodomestici, ciarpame e regali indesiderati avevano a poco a poco invaso lo spazio destinato alle provviste. Sulla parete in fondo al locale si apriva l'unica fessura di aerazione da cui filtravano aghi di luce e, proprio li sotto, vide una sacca di tela sporca. Beard si fermò a guardarla sentendosi montare dentro la rabbia; poi, notando che non era chiusa, ne scostò i lembi con un piede.

  C'erano vari attrezzi martelli di diverse misure, piani d'appoggio e robusti cacciaviti e, in cima al mucchio, la carta di una tavoletta di cioccolata, un torsolo di mela marrone, un pettine e un rivoltante fazzolettino di carta appallottolato. Impossibile che la sacca fosse rimasta li dai tempi in cui Tarpin sistemava il loro bagno, perché i lavori risalivano a mesi prima e Beard era certo che se ne sarebbe accorto.

  Le cose erano piuttosto chiare. Mentre lui era a Parigi o Edimburgo, il muratore era passato a trovare Patrice a fine giornata, il mattino successivo si era scordato gli attrezzi, o non ne aveva avuto bisogno, e Patrice glieli aveva ritirati là dietro. Il primo pensiero fu quello di scaraventarli fuori immediatamente, ma i manici della sacca erano unti e luridi e a Beard faceva schifo toccare qualsiasi oggetto che appartenesse a Tarpin. Prese la lampadina che cercava e tornò di là a versarsi uno scotch.
Erano le tre del pomeriggio. Alle prime ore dell'indomani, una domenica fredda, trovò l'indirizzo di Tarpin su una fattura e, dopo aver deciso di fare a meno di radersi, aver bevuto tre tazze di caffè forte ed essersi infilato dei vecchi stivali che gli facevano guadagnare un paio di centimetri di statura e un maglione spesso che gli rimpannucciava a dovere gli avambracci, si avviò in macchina a Cricklewood. Alla radio, solo politica americana. I vari commentatori si stavano ancora occupando dell'attentato terroristico subito il mese prima dal cacciatorpediniere USS Cole ad opera di un gruppo di nome AlQaeda, ma il piatto forte di tutti i notiziari era sempre lo stesso, quello che aveva monopolizzato l'informazione e snervato lui per l'intera estate e ora anche l'autunno. Bush contro Al Gore.

  Beard non era cittadino americano, non aveva voce in capitolo in quella gara, eppure il servizio di informazione, per il quale era anche costretto a pagare un canone, lo obbligava a sciropparsi ogni insignificante sviluppo della vicenda. Beard era aggressivamente estraneo alla politica, fino alla cima dei capelli, come amava ripetere.

  Detestava i falsi dibattiti infervorati, gli sforzi compiuti da tutte le parti coinvolte per fraintendersi e screditarsi a vicenda, l'assenza di memoria che si srotolava a nastro dietro ogni cosiddetta «nuova istanza». Agli occhi di Beard, gli Stati Uniti erano quella affascinante realtà che possedeva i tre quarti del patrimonio scientifico mondiale. Tutto il resto era fuffa o, nel caso specifico, una faida elitaria il figlio di un ex presidente in competizione con l'altolocato rampollo di un senatore.

  A seggi ormai chiusi da un pezzo, si diceva, Gore aveva telefonato a Bush per ritirare la propria ammissione di sconfitta, il margine di scarto in Florida era risultato troppo esiguo, si sarebbe proceduto a un riconteggio automatico. «Sono mutate le circostanze dalla mia prima chiamata»: questo, l'understatement utilizzato dal vicepresidente Al Gore.

  Una volta in carica, i due candidati si sarebbero dovuti misurare con le stesse limitazioni, sarebbero stati inchiodati dai medesimi eventi, consigliati da identici centri universitari, ammaestrati a perseguire analoghe ortodossie politiche: Beard nutriva scarso interesse per i dettagli. Non poteva fare una significativa differenza per il mondo in generale ecco la sua illuminata opinione mentre attraversava in auto Swiss Cottage se a diventare presidente per i primi quattro o i primi otto anni del ventunesimo secolo sarebbe stato George Bush o Al Gore, se Tuidoldàm o Tuidoldii.

  Lo scotch del pomeriggio e della sera precedenti gli aveva lasciato in eredità una visione di incauta chiarezza, unita a una gradevole sensazione di invincibilità. Attualmente si rendeva conto di aver preso le cose troppo sul serio. Moglie infedele? Prenditene un'altra! Coi suoi rari passanti per le strade, Cricklewood aveva un'aria pacificata, da postumi di una sbornia, e la tranquillità della domenica mattina gli ricordò che il senso della sua missione era semplicemente quello di soddisfare la propria curiosità.

  Era suo diritto scoprire dove Patrice passava una notte su due e come viveva il suo rivale. Poco più di un chilometro oltre, e dopo aver preso svariate vie laterali, la strada di casa Tarpin si rivelò una statale a quattro corsie che collegava per un breve tratto due arterie urbane: una zona provvisoria e accidentale nella quale gli edifici villette bifamiliari anteguerra avevano un'aria imbarbarita ed esposta alle intemperie.

  Parcheggiò in una piazzola di sosta appena fuori dell'ingresso e rimase a fissare la casa che aveva visto in fotografia: le assi in pino scurito inchiodate sulla facciata a creare un effetto sedicesimo secolo, il motoscafo scomodamente issato sul suo carrello ma per quel che si indovinava sotto la fodera in plastica sbrindellata poteva anche trattarsi di una barchetta a remi , il vecchio lampione montato su un palo nero accanto alla porta in stile georgiano e, audace acquisto recente, una fiammante cabina telefonica adagiata su un fianco sopra il cemento e circondata da aiuole ben curate. In mezzo alle travi pressoché nere, la casa risultava di un bianco accecante, e le tendine a fiori e volant erano aperte, dietro finestre dai vetri a piombo.

  Beard non era un fanatico di architettura di esterni o di interni, non aveva pregiudizi contro lampade da giardino e simili, e lo sforzo di conferire un tocco elisabettiano a villini di periferia costruiti negli anni Trenta gli pareva sintomo di un innocuo patriottismo. Se non avesse detestato Rodney Tarpin, avrebbe pensato che quella casa suggeriva un senso di decoro e operosità, oltre a uno sprovveduto ottimismo.

  Da conversazioni ormai vecchie sapeva che la signora Tarpin se n'era andata l'anno prima portandosi appresso i tre figli e che ora viveva in Costa Brava insieme a un geometra gallese, perciò il modo in cui Rodney si occupava della casa era perfino toccante. Ma quello era il posto in cui Patrice veniva regolarmente a farsi scopare, e di conseguenza ogni dettaglio, compreso il piccolo pozzo dei desideri con il suo manipolo di nanetti ammucchiati accanto al manico, gli trasmetteva un'ostilità che lui ricambiava.

  Tarpin aveva forse intenzione di erigere la cabina telefonica in onore di Patrice Gli pareva di sentirla mentre fingeva di trovarla deliziosa. «Che bella idea, amore, com'è originale...» Basta cosi! Beard scese dall'auto. Poiché sua moglie aveva fatto quel percorso già molte volte e lui in passato aveva ricoperto il ruolo di datore di lavoro di Tarpin, Beard si senti perfettamente a suo agio avviandosi su per il vialetto d'accesso alla casa.

  Da una delle grondaie pitturate di vernice lucida nera giungeva uno sgocciolio d'acqua, mentre dal tubo di scolo in basso si alzava nell'aria novembrina un pennacchio di vapore. Il padrone di casa era intento alle sue abluzioni, a sciacquarsi di dosso il Dna della signora Beard. La porta d'ingresso dotata di portico palladiano dava l'impressione di essere utilizzata assai poco, perciò Beard prosegui tra l'edificio e una staccionata in legno lungo un sentierino in cemento che conduceva a una porta laterale e, da li, al cortile posteriore, passando per un cancello aperto. Si ricordava di aver sentito Tarpin vantarsi di possedere una vasca idromassaggio e voleva constatare.

  Non importava se Patrice l'avesse o no utilizzata; Beard si sentiva animato da un sentimento di accuratezza, aveva bisogno di sapere ogni cosa. Un fazzoletto di prato incolto risultava separato su tre lati dalle proprietà dei vicini per mezzo di una rete metallica appena oltre la quale un grosso traliccio ingombrava il terreno tra una casa e l'altra, e Beard udì il rassicurante crepitio dei cavi elettrici.

  Elettroni cosi durevoli, così fondamentali. Aveva trascorso gran parte della giovinezza a occuparsene. All'età di ventun anni aveva letto carico di meraviglia la versione completa dell'Equazione di Dirac del 1928, in cui si preconizzava lo spin dell'elettrone. Una cosa di pura bellezza, quell'equazione, una delle più significative imprese intellettuali mai portate a termine, che postulava correttamente l'esistenza di antiparticelle e spalancava dinanzi agli occhi del giovane lettore i vasti orizzonti del «mare di Dirac».

  Al tempo, Beard era uno scienziato, mentre adesso era diventato un burocrate e agli elettroni non pensava più. A metà degli anni Novanta si era trovato in mezzo a una piccola folla raccoltasi a Westminster Abbey per ascoltare il discorso di Stephen Hawking di fronte al cippo commemorativo in pietra sul quale era incisa, nella sua squisita eleganza, l'equazione ridotta z'yÒ^ = m\p e, per l'ultima volta, Beard aveva registrato un brivido di vecchio entusiasmo.

  Poi più nulla. In prossimità della casa, su una piazzola quadrata, c'erano un appendiabiti arrugginito, parti di un frigorifero, vari arredi da giardino in plastica bianca accatastati gli uni sugli altri e, infine, eccola, proprio li, nei pressi del mucchio: una grossa tinozza in legno poco più di due metri per due, con coperchio lucchettato sul quale appoggiavano le spire di una manichetta per l'acqua in gomma nera.

  Beard constatò con sollievo che la vasca non aveva niente del sogno californiano che inconsciamente aveva immaginato niente sequoie, cicale, niente Sierra Nevada. Tuttavia, tornando sui propri passi in direzione della porta laterale, senti che la tristezza non l'aveva abbandonato, perché a quel punto non poteva più sussistere alcun dubbio: doveva trattarsi di sesso. Che altro avrebbe mai potuto trascinarla in quella discarica? E d'altra parte, nelle condizioni in cui versava, non era proprio infelicità quella che Beard andava cercando Mentre formulava il pensiero, udì un suono provenire dall'alto e, sollevando lo sguardo verso il primo piano, vide una finestra dai serramenti in alluminio e i vetri appannati aprirsi e incorniciare la faccia rosa e bagnata di Tarpin. Ehi!

  Subito dopo la faccia sparì, ma dalla finestra ancora spalancata il vapore continuava a fuoriuscire a fiotti, mentre dall' 'interno dell'abitazione arrivava la scalpiccio attutito di piedi nudi in corsa sulla moquette delle scale. Aspettando accanto alla porta laterale con le mani incrociate sul petto, Beard non aveva un piano, neanche la minima idea di che cosa volesse dire al rivale.

  Aveva passato troppo tempo a rimuginare, aspettare, e ormai si augurava che succedesse qualcosa. Una cosa qualunque, non gli importava. Scattarono due chiavistelli, la maniglia in acciaio si abbassò di colpo, la porta fu risucchiata all'interno e l'amante di sua moglie gli comparve davanti sull'uscio di casa. Beard ritenne importante parlare per primo. Signor Tarpin. La saluto.

  E lei che cazzo vuole L'enfasi della domanda era posto sul «lei». L'uomo indossava un modesto asciugamano rosso stretto attorno a un giro vita considerevole. Alcune goccioline d'acqua gli grondavano dalla testa alle spalle per andare a insinuarsi tra i peli del petto secondo traiettorie zigzaganti da palline del flipper.

  Ho pensato di venire a dare un'occhiata. Ah sì? E crede di poter entrare cosi? Mia moglie lo fa. Tarpin parve spiazzato dalla franchezza di quella risposta, come se la ritenesse scorretta, o un po' troppo spudorata. Ancora un po' fumante, avanzò sul sentiero, senza dar segno di badare al freddo, ai due gradi, cioè, registrati sul display dell'auto. Beard, in tutto il suo metro e settanta con gli stivali, stava a un paio di metri da lui a braccia tuttora conserte, e non accennò a spostarsi quando Tarpin gli si piazzò di fronte.

  Anche a piedi nudi era di statura notevole, decisamente robusto dalla vita in su, benché magro a livello di arti inferiori (tipica struttura da manovale), con il petto un tantino cascante a causa di una recente fascia adiposa diffusa su tutta la massa muscolare, e con un'anguria da birra e fast food che, per espansione laterale, batteva di gran lunga quella di Beard. L'asciugamano gli stava su per miracolo. Che cosa poteva mai cercare Patrice in un energumeno simile, se non la perfezione, la forma ideale di suo marito? La faccia di Tarpin era un fenomeno strano.

  Aveva un'aria un po' sfatta, non del tutto priva di fascino, sebbene risultasse troppo piccola rispetto alla testa. I lineamenti irsuti e curiosi di un uomo gracile parevano essere stati calcati o imposti su una superficie che non erano in grado di occupare. Tarpin sbirciava dal proprio cranio come se avesse addosso un chador fuori misura. Dall'ultimo incontro con Beard, aveva perso un dente, un incisivo superiore. Beard fu deluso di non rintracciare un tatuaggio da qualche parte: un rettile, una motocicletta o un motto d'amore per la sua mamma.

  Ma lo scienziato riconobbe di sfuggita che a influenzarlo qui era la voce dell'attempato signore perbene incline a ragionare in base a stereotipi. Tarpin era troppo vecchio per un piercing, tuttavia sul profilo di una spalla gli spuntava di un buon centimetro un'escrescenza di pelle ritorta, un marchio di fabbrica, simile a un minuscolo orecchio umano, o alla miniatura di un pappagallo da marinaio.

  Con un paio di giri ben stretti di filo interdentale avrebbe potuto liberarsene in capo a una settimana, ma forse le donne si commuovevano per quel difetto, quella manifestazione di vulnerabilità su un uomo di tale stazza, un impresario con tre operai alle sue dipendenze. Chissà quante volte la lingua di Patrice ne aveva esplorato le piccole pieghe. Quello che faccio con sua moglie, sono affari miei, disse Tarpin ridendo della propria arguzia. E veda di levarsi dai coglioni.

  Per un attimo Beard si bloccò, perché la battuta non era male, e nell'intervallo capi che cosa voleva, anzi, che cosa decisamente intendeva fare da un secondo all'altro, vale a dire sferrare un calcio violento negli stinchi nudi di Tarpin, quanto bastava per fracassargli un osso. La prospettiva lo esaltò e gli fece battere forte il cuore. Non si ricordava se fossero quegli stivali, o un altro paio eliminato da un pezzo, ad avere la punta in acciaio. Non aveva importanza.

  Che strano: quell'uomo che un tempo aveva inconsapevolmente un po' disprezzato come un semplice intruso nella sua pace domestica, con i suoi trapani, le canzonette stonate che fischiettava, la quantità illimitata di polvere che riusciva a produrre, la stazione puerile su cui teneva accesa la radiolina giocattolo per interi pomeriggi, quel mercenario insomma, adesso era assurto al rango di suo rivale in uno scontro tra pari.

  Soltanto Beard lo avrebbe visto cosi. Per lunghi anni i colleghi avevano rilevato, talvolta anche con sconcerto, che in fatto di scontri compresi ovviamente quelli di fisica teorica Beard possedeva il dono, o la sventura, della sconsideratezza. Lei ha picchiato mia moglie, disse, con la voce strozzata dal batticuore.

  Già aveva abbassato lo sguardo e visto il piano angolare dello stinco di Tarpin, bianco, irto di radi peli neri come un tacchino spiumato male. Ed ecco che Beard, in passato un discreto sportivo nonostante la statura, spostò tutto il peso del corpo sul piede sinistro. Non avrebbe dimenticato di divaricare le braccia per consolidare il proprio equilibrio e, tempo permettendo, poteva anche decidere di attardarsi a pestare l'alluce dell'avversario con il tacco. Non rifletté su quanto dovesse apparire ovvia l'imminenza dell'assalto. Il suo petto robusto si era fatto affannoso, le braccia sottili erano tese in alto, la faccia appariva concentrata, assorta nel solipsismo di un'intenzione esaltante. Probabilmente Tarpin si era trovato in parecchie zuffe in età adulta.

  Prima che Beard riuscisse a schivare, Tarpin aveva già il braccio pronto a calare un solenne ceffone sulla guancia e l'orecchio destro del vecchio. A Beard esplosero i sensi in fondo ai globi oculari e per alcuni secondi il mondo si ridusse a un vasto biancore ronzante. Quando la realtà riprese a filtrare, Tarpin stava ancora li e si reggeva l'asciugamano allentatosi nello scatto. Il prossimo farà male, disse.

  Era il tipo di trattamento che gli eroi cinematografici vecchia maniera riservavano alla donna amata, per calmarla. Il muratore non riteneva Beard degno di un pugno come si deve. Ma chiaramente, stava per arrivare dell'altro.

  Per fortuna proprio in quel momento giunsero dalla porta accanto voci infantili sempre più vicine al sentiero, esclamazioni e sghignazzi soffocati dovuti alla vista di quel tarchiato vicino di casa praticamente nudo. Poi, tre facce spaurite ad altezze diverse e relativi occhioni scuri sbarrati sbucarono dallo steccato. Tarpin si precipitò in casa. Magari era entrato a prendere un telo da bagno più grosso, o una vestaglia; in ogni caso a Beard sembrò un buon momento per cominciare ad avviarsi.

  Ma non aveva perso la dignità e badò a non dare l'impressione di andare di fretta. Percorrendo il vialetto, oltre il motoscafo sghembo dentro la sua invasatura e la cabina sdraiata sul fianco, si sentiva la faccia indolenzita e bollente nell'aria fredda la sberla gli aveva fatto davvero male mentre dentro l'orecchio aveva un rumore continuo, una specie di sibilo elettrico.

  Quando raggiunse la macchina, gli girava la testa ed era mezzo sordo. Avviando il motore lanciò un'occhiata alla casa e, manco a dirlo, ecco Tarpin avanzare spedito in tuta e scarpe da jogging. Beard non vide alcun buon motivo per trattenersi più a lungo a Cricklewood. Nelle restanti tre settimane di quell'anno, tutto cominciò a cambiare.

  Arrivò un invito al Polo Nord quanto meno, in questi termini Beard raccontò l'avvenimento a se stesso e agli altri. In realtà la destinazione si trovava ben sotto l'ottantesimo parallelo e, stando alle promesse della brochure, Beard avrebbe viaggiato a bordo di una «nave ben equipaggiata e comodamente riscaldata, con corridoi lussuosamente moquettati, pannellati in legno di quercia e dotati di eleganti abatjour», un'imbarcazione che si sarebbe placidamente bloccata tra i ghiacci di un fiordo pressoché inaccessibile, a un ragguardevole tragitto in motoslitta a nord di Longyearbyen, sull'isola di Spitsbergen.

  I tre disagi cui andava incontro si sarebbero ridotti alle dimensioni della sua cabina, alle limitazioni sull'accesso alla posta elettronica e a una lista di vini che comprendeva un solo vin de pays nordafricano.

  Il gruppo contava una ventina di scienziati e artisti sensibili all'istanza dei cambiamenti climatici e, con opportuna regolarità, a meno di venti chilometri, un ghiacciaio in sensazionale fase di ritiro staccava dalle azzurrissime falesie blocchi di ghiaccio grandi come palazzi che prendevano il largo in direzione del fiordo.

  Uno chef italiano di «rinomanza internazionale» avrebbe prestato servizio a bordo e, in caso di bisogno, una guida armata di fucile di grosso calibro avrebbe tenuto a bada gli orsi polari predatori. Non si richiedeva svolgimento di attività didattica la presenza di Beard sarebbe stata sufficiente e la fondazione avrebbe coperto l'intero ammontare delle spese, mentre alla colpevole emissione di biossido di carbonio prodotta da venti voli andata e ritorno più scorribande in motoslitta e sessanta pasti al giorno serviti in un ambiente polare si sarebbe rimediato con la posa di tremila alberi in Venezuela, non appena si fosse riusciti a individuare un sito e a corrompere i funzionari locali.

  Ben presto al Centro si sparse la voce che Beard andava al Polo Nord per «constatare di persona gli effetti del riscaldamento globale»; qualcuno prese a sostenere che avrebbe viaggiato su una slitta trainata da cani, altri che avrebbe trainato lui stesso la slitta. Perfino Beard si senti in imbarazzo e fece sapere che avrebbe trascorso buona parte del tempo «al campo base», mentre l'effettivo raggiungimento del Polo era assai improbabile. Jock Braby si meravigliò della dedizione di Beard alla causa e si offri di organizzare una festa di commiato nella sala comune.

  La stessa settimana della convocazione al Polo, Beard avviò una relazione con una ragioniera non giovanissima incontrata in treno, invitandola fuori a cena. La donna era simpaticamente oca, lavorava per una multinazionale produttrice di fertilizzanti e, in capo a tre settimane, la storia si concluse.

  Il risvolto cruciale della vicenda, tuttavia, fu che l'ossessione per la moglie ne risultò indebolita in forma minima e non sempre, ma Beard seppe comunque di aver varcato una linea di confine. Lo rattristava la consapevolezza che di li a poco avrebbe cessato del tutto di desiderarla, perché ne ricavava l'acquisizione di una verità incontestabile, e cioè che tra loro era ormai tutto finito, che si sarebbe dovuto procedere alla spartizione della bella villa e di tutte le loro cose e che tra un anno o due lui e Patrice avrebbero potuto perdersi di vista una volta per tutte.

  La visita a Tarpin lo aveva inoltre aiutato a iniziare la fase di disaffezione. Come era possibile amare ancora una donna che si era scelta un uomo del genere Perché punire se stessa in modo tanto assoluto al semplice scopo di offendere il marito Che altro non conosceva di lei? Una risposta arrivò poco prima di Natale, nel corso di una conversazione a lungo rimandata che assunse i contorni di un litigio pacato ma di una spietata inappellabilità. Da un anno e mezzo ormai Patrice sapeva che Suzanne Reuben, la matematica della Humboldt, non costituiva che una frazione minima della vicenda.

  Era al corrente di pressoché tutta la verità e, tormentando a passo nervoso il palchetto del soggiorno con i tacchi a spillo, prese a elencargli lucidamente nomi, località e date approssimative, un intero dossier mandato a memoria con una maniacalità non lontana dalla sua. La spigliata allegria che aveva ostentato in casa, gli disse, era solo una copertura della sua angoscia, e la relazione con Tarpin era nata in teoria per riscattarla dall'umiliazione. Pretese di sapere come Beard intendesse spiegare qualcosa come undici tradimenti in cinque anni. Lui era sul punto di ricordarle il primato imbattuto di sua madre, quando Patrice usci dalla stanza. Era venuta per dire la sua, non per ascoltare. Eccola finalmente, la resa dei conti che Beard aveva aspettato per mesi.

  Ora non si capacitava del perché. Accasciato sul divano con le gambe sopra al tavolino, chiuse gli occhi e senti il primo spasmo di desiderio per l'aria gelida e pura del deserto artico. A fine febbraio decise di partire per Heathrow dal Centro, perciò la festicciola di addio in sala mensa ebbe luogo mentre fuori lo aspettava il taxi e, sulla porta, la borsa contenente il suo vecchio abbigliamento da sci.

  A quel punto le persone assunte a tempo pieno erano sessantuno e quasi tutte accorsero ad ascoltare il discorso di Jock Braby, perché quello era qualcosa di più di un congedo, era un festeggiamento in onore dell'arnese in acciaio fiammante che troneggiava su due cassette in centro sala, un prototipo della turbina eolica a elica quadrupla di Tom Aldous, progettato e realizzato in tempi record e pronto per il collaudo nelle gallerie del vento di Farnborough. Molti fecero notare quanto somigliasse, in forma più complessa, al modello di Crick e Watson senza basi appaiate, e qualcuno tentò di ricordare e adattare alla circostanza le parole famose di Rosalind Franklin quando commentò che era troppo bello per non essere vero o, nel caso specifico, per non funzionare.

  Nel suo discorso, Braby raccomandò alla squadra di rimandare le congratulazioni, dato che il lavoro da fare era ancora molto, ma volle che tutti constatassero gli effettivi progressi del progetto e le sue prospettive rivoluzionarie.

  Con insolito lirismo, evocò uno scorcio cittadino contemplato da un'altura vicina, con i suoi cinquemila tetti sui quali, alla luce del crepuscolo, avrebbero scintillato altrettante turbine eoliche rotanti di gran lunga più belle, a suo dire, delle antenne televisive che avevano trasformato il paesaggio urbano negli anni Cinquanta.

  Per tutto il tempo Tom Aldous si mantenne scrupolosamente defilato dietro la folla dando l'impressione di voler evitare Beard. Meglio cosi: entrambi sapevano come il progetto fosse destinato a fallire e sarebbe perciò stato di cattivo gusto fare combutta mentre gli altri si mostravano tanto entusiasti.

  A quel punto, Braby rivolse a Beard gli auguri per il suo viaggio di otto settimane che di certo non gli avrebbe risparmiato rischi e difficoltà. Ricordò alla squadra che secondo i modelli climatici elaborati, i primi e più allarmanti segnali di riscaldamento del pianeta si sarebbero registrati nell'Artico, e si disse fierissimo che il Grande Capo risatine affettuose accolsero il titolo avesse deciso di sfidare l'estrema avversità per rendersi conto della situazione di persona.

  Dopodiché Beard si fece avanti per dire due parole. Non aveva idea di dove Braby avesse rimediato l'idea che dovesse stare via otto settimane. Il viaggio prevedeva sei pernottamenti, ma contraddire un collega in pubblico non era certamente appropriato. Non fece nemmeno menzione della nave comodamente riscaldata e delle eleganti abatjour; confessò in compenso di sentirsi emozionato e orgoglioso di essere parte di un'istituzione destinata a realizzare «grandi cose» non volle concedersi precisazioni ulteriori e predisse che un bel giorno il loro Centro avrebbe superato il rivale americano di Golden, Colorado.

  Un brindisi, un giro di applausi, una rapida serie di strette di mano e pacche sulle spalle, e Beard si avviava al suo taxi, con Jock Braby che gli portava personalmente il bagaglio; le code di cavallo intanto accompagnavano la partenza dell'auto con urla trionfanti e colpi sul tettuccio, ma Aldous non era tra loro.

  A dispetto di tante ore trascorse sui mezzi di trasporto, Beard non era un viaggiatore sereno, e non per paura o disorganizzazione, ma perché i lunghi percorsi lo mettevano sempre di fronte a una sorta di inadeguatezza mentale, un vuoto, un tedio irrequieto che come pensò, allacciandosi la cintura di sicurezza era espressione del suo autentico stato esistenziale, d'abitudine dissimulato dalla routine diurna o dal sonno.

  In aereo non era in grado di leggere seriamente. Non che sulla terraferma arrivasse mai alla fine di un intero volume in edizione integrale. Apparteneva alla categoria dei viaggiatori che guardano fuori dal finestrino, indipendentemente da quello che si vede, o si concentrano sul sedile davanti, oppure scorrono all'inverso le pagine della pubblicazione pubblicitaria di bordo. Tutt'al più si dedicava a riviste scientificodivulgative tipo il «Scientific American» che aveva ora tra le mani, allo scopo di tenersi al passo con i progressi della fisica in generale a livello di curioso non addetto ai lavori. Purtroppo anche in quei casi la fastidiosa abitudine inveterata di cercare il proprio nome metteva a rischio la qualità della sua concentrazione.

  Riusciva a individuarlo come se fosse sempre stampato in grassetto. Gli saltava all'occhio da un doppio paginone a caratteri minuscoli non ancora letto; a volte era addirittura in grado di percepirne l'imminente arrivo prima di voltare una pagina. Una seconda fonte di distrazione era costituita dalla consapevolezza sovrasviluppata della precisa collocazione lungo il percorso del corridoio del carrello degli alcolici, con il classico tintinnio attutito e il fenomeno di avvicinamento asintotico. Inoltre, con o senza l'aiuto di un drink, l'altitudine gli stimolava incoerenti fantasticherie erotiche, o ricordi, o una miscela di entrambi. Ma con l'entusiasmo dei colleghi ancora nelle orecchie, Beard fece del proprio meglio, mentre il velivolo si predisponeva alla rotta in direzione nord, per mostrarsi serio e dedicarsi alla lettura di un articolo, vistosamente illustrato, su fotoni e antimateria.

  Manco a dirlo, in capo a cinque minuti, ecco manifestarsi il piccolo tuffo al cuore che accompagnava la vista, in parentesi, della citazione per intero: la Conflazione Beard Einstein. Non già il Condensato di BoseEinstein, non il Paradosso di EinsteinPodolskyRosen, e nemmeno il puro e semplice Einstein, bensì proprio lei, e la comprensibile fitta di gioia gli fece desiderare anche più intensamente il carrello, tuttora a un paio di metri e mezzo di distanza. Beard era ben consapevole della stranezza grazie alla quale il minuscolo veicolo del suo talento, pari diciamo al triciclo di un bambino, si fosse guadagnato un passaggio a bordo del mastodontico automezzo di un genio di fama mondiale. Einstein aveva sconvolto la concezione del genere umano in fatto di luce, gravità, spazio, tempo, energia e materia, fondato la cosmologia moderna, detto la sua sulla democrazia, su Dio e sulla sua assenza, difeso l'atomica, condannato l'atomica, suonato il violino, timonato barche a vela, messo al mondo dei figli, donato i soldi del Nobel alla prima moglie, inventato un frigorifero.

  Beard non disponeva d'altro che della sua Conflazione, o meglio della sua metà della stessa. Come un naufrago si era aggrappato a quell'unico asse galleggiante, considerandosi un privilegiato. Come poteva essere toccata proprio a lui Forse era vero che il Comitato, fieramente diviso sulla candidatura di tre grandi, alla fine aveva trovato un accordo su un quarto. Ma comunque il nome di Beard si fosse infilato in elenco, era convinzione diffusa che fosse arrivato il turno della fisica britannica anche se, a livello di alte sfere, si mormorava che, nella smania di giungere a un compromesso, i membri del Comitato avessero confuso Michael Beard con Sir Michael Bird, talentuoso pianista dilettante che lavorava alla spettroscopia neutronica.

  A parte tali ingenerose dicerie, quale fuggevole stato di grazia e beatitudine furono quei mesi trascorsi nella vecchia canonica sui South Downs, tra calcoli frenetici e revisioni, con l'immancabile colonna sonora offerta dalle proteste di Maisie, la sua prima moglie, e dai continui pianti degli indistinguibili bebé dei coinquilini. Che impresa di concentrazione ! Era passato cosi tanto tempo, ormai era quasi impossibile ricordare la persona determinata di allora, o l'autentico sapore di quei giorni.

  Certe volte a Beard pareva di aver vissuto di rendita sul lavoro di un oscuro giovanotto, un fisico teorico di gran lunga più intelligente e impegnato di quanto lui potesse mai sperare di dimostrarsi. Tanto valeva ammetterlo: quel fisico ventunenne era un genio. Ma dove era finito Come pensare di essere ancora lo stesso Michael Beard il cui articolo aveva infiammato di entusiasmo Richard Feynman, al punto da fargli interrompere lo svolgimento del Congresso di Solvay del 1972.

  Poteva interessare ancora a qualcuno il famoso «momento magico» di Solvay? Quanto ai gemelli urlanti, aveva potuto personalmente constatare l'anno prima, al matrimonio di uno dei due, che si erano ormai trasformati in trentenni sovrappeso indistinguibilmente spocchiosi: uno come odontoiatra e l'altro come esperto in fondi di investimento alternativi. Coetanei della Conflazione.

  Dopo qualche drink, il pranzo e qualche altro drink, Beard lasciò scivolare la rivista che teneva in grembo e, fissando il poussoir sulla fodera del poggiatesta antistante (non era seduto accanto al finestrino), sprofondò nelle consuete fantasticherie, interpretando come segno di salute mentale in rapida ripresa il fatto che Patrice non ne fosse l'unica ispiratrice. Gli erano pervenute brevi note biografiche e fotografie dei futuri compagni di viaggio sui fiordi glaciali ed era rimasto colpito dal sorriso di una artista concettuale, certa Stella Polkinghorne, il cui nome era noto perfino a lui.

  La più recente tempesta mediatica che l'aveva travolta riguardava un'accusa per violazione di diritto d'autore mai arrivata in aula di tribunale. L'artista aveva costruito per la Tate Modem un modello ingigantito del Monopoli, sistemandolo su un campo da gioco di Catford: ogni lato del tabellone dipinto era lungo cento metri e si poteva perciò passeggiare tra edifici di dimensioni pressoché normali su Park Lane e Old Kent Road, edifici nei quali era possibile entrare e osservare personalmente l'iniqua distribuzione della ricchezza.

  Nelle dimore vuote dei signori del Mayfair si trovavano arazzi, incisioni di Dùrer e vecchie bottiglie di champagne, mentre su Old Kent Road, tra i poveri dell'East End, c'erano cartacce di hamburger, siringhe usate, e un televisore che trasmetteva telenovelas.

  I dadi erano alti due metri, le carte delle Probabilità venivano calate al loro posto per mezzo di gru, le banconote consunte di compensato stavano adagiate sull'erba in pile barcollanti di venticinque metri.

  Il tutto, si supponeva, costituiva un atto d'accusa contro una cultura ossessionata dal denaro.

  La carta «Non passare dal via» fu celebrata, vilipesa, fotografata dall'alto da passeggeri in atterraggio su Heathrow.

  I bambini adoravano scorrazzare in branco sul tabellone e sgattaiolare sotto il segnaposto a forma di cilindro. I produttori del Monopoli avviarono una causa legale, ma la abbandonarono in seguito al dileggio del pubblico e all'aumento di vendite del gioco da tavolo. Anche una piccola finanziaria con sede su Old Kent Road intentò causa, o minacciò di farlo, ma non se ne seppe nulla. Il sorriso disincarnato della Polkinghorne aleggiò sulle malinconiche riflessioni di Beard riguardo alla fine del suo matrimonio. Provava un garbato miscuglio di rabbia, tristezza, nostalgia (quei primi mesi furono un paradiso) e un'affettuosa indulgenza per il proprio fallimento.

  E per la sua reiterazione. Cinque tentativi potevano bastare. Non intendeva passarci un'altra volta e con quel pensiero venne anche l'ormai nota consapevolezza della recuperata libertà. Una volta sistemate le cose, si sarebbe comprato un piccolo alloggio a Londra e, rientrato in possesso della propria vita, avrebbe custodito ferocemente la sua indipendenza e sarebbe guarito dallo strano vizio di sposarsi sempre. Era di amanti che aveva bisogno, non di mogli. Accolse con atteggiamento passivo le code aeroportuali sia a Oslo, sia a Trondheim.

  Il volo per Longyearbyen subì un ritardo di due ore e mezza, durante le quali rimase seduto su una sedia di plastica a leggere 1'«Herald Tribune» in assoluta concentrazione e senza la minima capacità di ritenere quanto letto.

  Erano le tre del mattino quando il taxi si fermò accanto a giganteschi cumuli di neve davanti al suo hotel. Beard non mangiava da ore. In maglione, giacca a vento e calzamaglia, si coricò su un letto che lo incassava per tre lati dentro grosse travi di legno, e divorò prima tutti gli snack salati del minibar, poi tutti quelli dolci e, quando alle otto dell'indomani l'addetto alla ricezione lo svegliò per informarlo che tutti gli altri lo stavano aspettando da basso, Beard si trovò ancora tra le mani la carta vuota di un Mars.

  Il primo bisogno da soddisfare fu la sete, ma l'acqua del rubinetto era talmente gelida, così violento l'impatto sulle labbra e tanta l'ingordigia con cui bevve da rimediarne fitte lancinanti a faccia e tempie che ancora non si erano spente del tutto quando, bagaglio alla mano e tuttora intontito dalla mancanza di sonno, scese nella hall dell'albergo per incontrare i compagni del gruppo, già sazi di colazione, chiassosi e intenti a infilarsi nelle speciali tute da motoslitta.

  Tra la luce fioca della sala illuminata a pannelli solari e la ressa di corpi infagottati, Beard non riuscì a riconoscere Stella Polkinghorne. Eccola qui, come scordarsela, la sconsiderata allegria degli inglesi in gruppi numerosi.

  Da angoli diversi del locale affollato giungevano scrosci improvvisi di risate singole seguite da sghignazzi corali. Ed erano solo le otto e venti del mattino. Costringendosi a sorridere e mascherando eroicamente il senso di angoscia, Beard strinse parecchie mani e ascoltò nomi e cognomi senza memorizzarne nessuno, perché il suo pensiero era fisso sul caffè che non avrebbe fatto in tempo a bere.

  Come avrebbe potuto iniziare la giornata? Il bricco era vuoto, e la ragazza che già andava sparecchiando il tavolo della colazione non parlava inglese, anzi, non era nemmeno in grado di capire una parola di comprensibilità planetaria come «caffè», sebbene pronunciata con voce forte e chiara, ma intanto uno degli organizzatori, una specie di immenso uomoalce di nome Jan gli stava dicendo che era troppo tardi per il caffè e lo guidava verso il mucchio di indumenti da esterni destinato a lui, raccomandandogli di fare in fretta, perché in capo a due ore era prevista tormenta e quindi il gruppo doveva avviarsi.

  Il locale si stava svuotando e Beard non era pronto. Un individuo molto vecchio con la barba piena di neve e una sigaretta bagnata appoggiata sul labbro inferiore entrò con fare scorbutico, afferrò la borsa di Beard, la caricò su un rimorchio agganciato a una motoslitta e partì. Intanto erano scomparsi sia le cameriere che Jan, e Beard si ritrovò da solo nella hall. L'esperienza lo riportava a una condizione sepolta nei suoi ricordi dai tempi della scuola: non solo essere in ritardo, ma sentirsi anche ignorante, incompetente e infelice, al contrario di tutti gli altri che per ragioni misteriose sapevano, quasi si fossero alleati contro di lui. Beard Palladilardo, sempre ultimo, un inetto assoluto nei giochi di squadra. Il ricordo trascinò con sé ulteriore insicurezza e goffaggine.

  Benché già indossasse parecchi strati di indumenti da sci, era previsto che si calasse dentro quell'altra scorza, e perfino che si infilasse con i doposcì dentro un secondo paio di calzature. C'erano inoltre doppie paia di guanti, il secondo dei quali di dimensioni gigantesche, un passamontagna pesante realizzato in schiuma poliuretanica da indossare sopra il suo, occhiali di protezione e un casco da moto. Infilò la tuta che doveva pesare una decina di chili , si mise il passamontagna impolverato, ficcò la testa nel casco, indossò entrambe le paia di guanti e solo allora si rese conto che con quelli addosso non sarebbe riuscito a mettere gli occhiali, quindi tornò a levarsi i guanti, sistemò gli occhiali, si rimise i guanti ma a quel punto si ricordò che doveva ancora ritirare dal sedile li accanto il burro di cacao, la fiaschetta e le sue cose da sci personali, guanti e occhiali.

  Perciò si sfilò le due paia di guanti, sistemò la propria roba in una tasca interna della giacca, dopo non poco armeggiare con la cerniera della tuta esterna, poi rimise i guanti e scopri che, con l'aria umida e calda della hall e la traspirazione prodotta dal nervosismo, gli si stavano appannando gli occhiali.

  Spiacevolmente accaldato e stanco, si alzò di scatto in preda all'esasperazione e, voltandosi, andò a sbattere con immenso fragore contro una trave o un pilastro: non avrebbe saputo dire quale dei due, perché non ci vedeva. Meno male che l'illustre Premio Nobel indossava il casco. La scatola cranica era salva, in compenso sulla lente dell'occhiale sinistro si era tracciata una fenditura diagonale, una linea pressoché diritta che rifrangeva diffondendola la fioca luce gialla della hall.

  Per sfilarsi casco e passamontagna e asciugare la condensa dagli occhiali, Beard fu costretto a togliersi i quattro guanti, operazione assai poco agevole, ora che le mani avevano preso a sudargli. Una volta sfilati gli occhiali, risultò piuttosto automatico avvicinarsi a uno dei tavoli quasi sparecchiati e servirsi di un tovagliolino appallottolato, sporco ma non troppo, per pulire le lenti.

  Poteva essere burro, o forse porridge o magari marmellata, quello che imbrattò la plastica già graffiata della lente, ma se non altro il problema della condensa era risolto e fu a quel punto abbastanza facile, dopo aver ricalzato il passamontagna, assicurare gli occhiali intorno al casco, infilarci la testa, rimettere i doppi guanti e ritenersi finalmente pronto ad affrontare le intemperie. La sua capacità visiva doveva essere notevolmente compromessa dalla patina commestibile di recente acquisizione, altrimenti non gli sarebbero sfuggite le calzature abbandonate sotto la sua sedia.

  Via di nuovo le due paia di guanti era determinato a non perdere le staffe e, dopo aver armeggiato un poco coi lacci, Beard scelse di vederci meglio evitando di rimettere gli occhiali di protezione. Recuperata la vista, ebbe conferma del fatto che gli scarponi erano decisamente troppo piccoli, di tre misure almeno, e si concesse il sollievo di constatare che non tutta l'incompetenza si era concentrata in lui.

  Ma ormai Beard era pronto a tutto e pensò che ci avrebbe provato ancora una volta, e fu cosi che Jan, entrando nella hall insieme a una folata d'aria gelida, lo trovò impegnato a spingere un piede calzato di scarpone da montagna dentro un doposcì bordato di pelliccia. Mio Dio, ma sei scemo o cosa Il gigantesco uomo alce si inginocchiò davanti a Beard, gli sfilò a strattoni impazienti gli scarponi, li legò per i lacci e glieli appese al collo. Prova adesso. I piedi entrarono senza fatica, Jan provvide velocemente ai lacci e si alzò. Su, amico. Andiamo! Probabilmente fu l'imbarazzo a favorire l'ulteriore appannarsi degli occhiali, ma Beard si era ormai fatto un'idea abbastanza precisa di dove fosse la porta, e poteva contare sul contorno sfuocato della spalla di Jan a guidarlo.

  Già portato una motoslitta prima Si, certo, menti. Bene bene. Voglio prendere gli altri. Quanto manca alla nave Centoquindici chilometri. Appena misero piede fuori, il vento lo colpi in faccia con non meno violenza di Tarpin e con lo stesso bruciore postumo. La condensa all'interno degli occhiali gelò all'istante fatta eccezione per una macchiolina, attraverso la cui patina di marmellata Beard fu in grado di scorgere la sagoma di Jan allontanarsi per un sentiero tagliato nella neve alta e serpeggiante in mezzo agli edifici. Dieci minuti dopo, avevano raggiunto i confini dell'abitato e si trovarono davanti a una vasta superficie bianca che sfumava nella foschia.

  Poteva trattarsi di un aerodromo, perché poco lontano una manica a vento arancione vibrava in posizione orizzontale. Ferme nei pressi di un fosso, due motoslitte pompavano rumorosamente nell'aria i loro vapori nerastri. Io seguo, disse Jan. Minimo cinquanta all'ora per arrivare prima della tormenta. Ok? Ok. Ma non andava bene per niente. Il vento era teso e soffiava in direzione nettamente opposta a quella che avrebbero preso loro. All'interno del casco, Beard si sentiva le orecchie già indolenzite, come pure la punta del naso e delle dita dei piedi. Per vedere qualcosa era costretto a inclinare la testa dirigendo l'angolo visuale verso una zona di parziale chiarezza in progressiva diminuzione, e doveva al contempo evitare la fenditura illuminata sulla sua lente sinistra.

  Ma quelli erano dettagli: dolore fisico e cecità non lo spaventavano.

  Di gran lunga più urgente era invece il problema che prese a tormentarlo mentre si dirigeva alla sua motoslitta. Fretta e dabbenaggine quella mattina gli avevano fatto saltare i passaggi della consueta routine. Non si era lavato e nemmeno sbarbato e in bagno aveva messo piede giusto per tracannare una gran quantità d'acqua gelida. Dopodiché si era precipitato fuori della stanza con il bagaglio. Ora, a meno ventisei, con vento forza cinque, in tensione per il poco tempo, con una bufera in arrivo, e Jan già in sella che dava gas al veicolo, Beard, intrappolato dentro strati su strati di laboriosi indumenti, doveva urinare.

  Per quanto possibile, si guardò intorno. Le case più vicine erano a quattrocento metri di distanza e presentavano muri compatti a parte un paio di finestrine minuscole sicuramente finestre di servizi igienici.

  Oh essere li, nel piastrellato tepore di un bagno, a piedi scalzi in pigiama, e concedersi una tranquilla pisciata prima di tornare a infilarsi sotto il piumone per un'altra ora di sonno. Ma poteva anche risolvere la cosa li, dentro il fosso, dare la schiena al vento, sfilarsi i guanti, trafficare a mani nude con il robusto cursore gelato della cerniera della tuta da motoslitta, cercarsi sotto la giacca le fibbie della salopette e in qualche modo abbassarle, superare maglione, camicia, maglia della salute di seta, calzamaglia, mutande, e guadagnarsi alla fine il momento della liberazione su cui non osava neppure soffermare il pensiero. No, troppo complicato, bisognava rimandare.

  E comunque, Beard si senti subito meglio, appena ebbe preso posto a sedere sul sellino della motoslitta. Si trattava di una moto depotenziata montata su pattini, piuttosto facile da guidare. Bastava una smanettata di acceleratore sulla destra del manubrio e il veicolo schizzava avanti con il fracasso di un motore su di giri producendo una nuvola di fumo nero. In capo a pochi secondi Beard sobbalzava sulla distesa di neve, seguendo attraverso gli spiragli liberi degli occhiali le tracce lasciate dal resto del gruppo, provvidenzialmente illuminate di taglio dal sole nascente.

  Il vento, ormai trasformatosi in una bufera da sessantacinque chilometri all'ora, gli attraversava i vari strati di indumenti, i peli delle narici si erano fatti duri come aghi d'acciaio, i denti, nessuno escluso, gli facevano male e gli pareva di avere la faccia scorticata. Per un prodigio di osmosi, ogni singolo suo respiro si rifaceva strada dentro gli occhiali dove gelava, cosicché, di li a dieci minuti, Beard non vide più altro che cristalli indistinti e fu costretto a fermarsi. Jan gli si accostò, mostrandosi stranamente comprensivo. Cosi fai. Sollevò uno sportellino in lamiera e incastrò gli occhiali proprio sopra il motore. Si trovavano su una lingua di terra larga più o meno trecento metri che correva in mezzo a due laghi, o forse era invece una baia, forse erano già in riva al mare.

  Beard aveva troppo freddo per chiedere. La sconfinata distesa di neve si presentava arancione nella luce del mattino; la pista davanti a loro procedeva dritta verso una catena di montagne basse piuttosto lontane sulle quali o dietro le quali incombeva il lungo cilindro di una nuvola scura. Beard avrebbe voluto scendere a liberarsi la vescica mentre aspettavano, ma il vento a quel punto era anche più forte e forse il suo bisogno non era poi cosi urgente. Era incredibile, anzi, no, era criminale che la popolazione di Spitsbergen potesse ritenere ragionevole andare in giro in quel clima su una specie di motocicletta, quando esistevano pietosi veicoli chiusi, dotati di riscaldamento e di autentici parabrezza e sedili con tanto di schienale automobili! che avrebbero potuto salvare un paio di vite umane.

  Il moto di indignazione lo distrasse per un istante e fu solo quando si fu risistemato in sella con i suoi occhiali scongelati ed ebbe ripreso a sfrecciare in un rombo di aria pungente, che si rese conto di aver raggiunto il momento che imponeva una scelta immediata: fermarsi e pisciare subito, lasciarsi esplodere la vescica, con conseguente possibilità di decesso per infezione interna, o farsela addosso e morire assiderato.

  Ciononostante, continuò a viaggiare. Calcolò che restavano altri cento chilometri da percorrere, e che procedeva ai quaranta all'ora. Due ore e mezza. Chiaramente impensabile. Eppure non si fermò. Si distrasse cercando di ricordare l'ultima volta che aveva urinato. Doveva essere stato senz'altro all'aeroporto di Longyearbyen, mentre attendeva il bagaglio, nel cuore della notte di due giorni prima.

  Trentacinque ore senza pisciare. Poteva semplicemente essergli passato di mente Era davvero tanto occupato Nel momento in cui si rese conto che era stato il freddo a confonderlo e a fargli contare un giorno in più, si fermò con tale foga che rischiò di cadere dalla motoslitta e ritrovarsi sulla pista. Udì il mezzo di Jan urtare contro il retro del suo, ma evitò di voltarsi, mentre si allontanava di corsa. Il terreno su cui si trovavano era cambiato. Il loro tragitto segnava una S poco profonda dentro una gola racchiusa su entrambi i lati da pareti di roccia e ghiaccio alte una decina di metri.

  Un avanzo di pudore lo condusse ai piedi di una di quelle muraglie, come a un orinatoio; si piegò in avanti, dando le spalle al vento, e usò i denti per sfilarsi il guanto esterno della mano destra. Senti Jan che lo stava chiamando, ma non era il momento di ascoltare chi gli parlava. Mordendo la punta di un dito per volta, riuscì a levarsi anche il sottoguanto. La mano gli si indolenzì istantaneamente, facendosi lenta.

  Gli ci vollero due minuti buoni per abbassare la lampo della tuta da motoslitta, e a quel punto capì che avrebbe avuto bisogno di entrambe le mani per infilarsi sotto la giacca e raggiungere le bretelle della salopette perciò, con la destra dalla mobilità rallentata, si tolse anche i guanti della sinistra.

  Ancora una volta gli si stavano annebbiando e gelando gli occhiali. Ma Beard dovette ammirare la propria flemma, mentre entrava a frugare sotto i vari strati, mentre il suo prezioso calore corporeo si disperdeva nel gelo feroce dell'aria e il vento che gli turbinava intorno alla schiena andava a picchiare contro la roccia e gli prendeva a schiaffi la faccia. Soltanto verso gli ultimi secondi, quando con la goffa mano rosa, tanto gelata da sembrargli di un altro, raggiunse la meta delle mutande, temette in effetti di poter perdere l'autocontrollo. Alla fine però, in un grido di gioia che si dileguò nella furia del vento, diresse il flusso sul muro di ghiaccio.

  L'errore fu quello di attendere alcuni secondi a operazione conclusa, come tendono a fare gli uomini di una certa età, per assicurarsi che non ci sia altro in arrivo. Avrebbe invece dovuto girarsi a sentire quello che Jan gli stava gridando.

  O forse avrebbe potuto scampare all'inevitabile solo se avesse accettato uno qualsiasi degli altri inviti, alle Seychelles, a Johannesburg o a San Diego o se, come ebbe a riflettere in seguito con un po' di amarezza, il cambiamento climatico e il drastico riscaldamento al di sopra del Circolo polare artico fosse stata una realtà constatabile e non solo il frutto dell'immaginazione ecoattivista.

  Giacché una volta terminata la sua incombenza scopri che il pene gli si era incollato alla cerniera della tuta, che gli si era congelato per tutta la sua lunghezza come succede alla carne viva a contatto con una superficie metallica sottozero. Beard sprecò istanti preziosi, fissando sgomento la situazione. Quando alla fine provò timidamente a tirare, senti un dolore acuto.

  Che si aggiunse alla sofferenza prodotta dal freddo. Rimase in piedi a gambe divaricate, con la faccia rivolta alla parete di roccia. Non osava procedere come si sarebbe potuto fare con un cerotto adesivo, vale a dire staccando tutto d'un colpo. Gli era capitato di leggere di un escursionista americano solitario al quale era rimasto un braccio incastrato sotto un masso e che si era amputato l'arto ad altezza del gomito con un coltello a serramanico. Beard tuttavia non si riconosceva la stessa dedizione e, dopo tutto, gomito, mano e avambraccio, avendo comunque un doppio, risultavano in un certo senso più sacrificabili.

  Mentre il vento polare ruggiva contro la scarpata rocciosa rimbalzando sulla sua sagoma tremebonda, Beard osservò il progressivo rattrappimento del proprio pene che andava accartocciandosi sempre di più intorno alla cerniera. E non si limitava a rimpicciolire sotto i suoi occhi: diventava anche bianco.

  Non del bianco di un foglio di carta, piuttosto del candore argenteo di una palla di Natale. Era prossimo al panico, ma non riusciva a chiedere aiuto. Non farsi prendere dal terrore era anche più difficile, avendo la testa schiacciata sotto uno strato di schiuma poliuretanica e un casco pesante, e con quegli occhiali a visibilità limitata.

  Non sapendo che altro fare, si copri con la mano a coppa, una mano che ormai era un piccolo blocco di ghiaccio. Cominciava intanto a sentirsi indolente, quasi assonnato, come si dice succeda in condizioni di freddo estremo, e anche i pensieri sbandavano al rallentatore. Vedeva Jock Braby in tv recitare il suo necrologio con un sorriso indulgente: «Era in missione per constatare di persona il riscaldamento globale». Stupidaggini, ma certo che si sarebbe salvato. A quelle condizioni, però: una vita intera senza pene. Che spasso per le sue ex mogli, specie per Patrice.

  Ma lui non l'avrebbe fatto sapere a nessuno. Sarebbe vissuto custodendo in silenzio il proprio segreto. Ritirandosi in un monastero, facendo del bene, visitando i bisognosi. Mentre cercava a stento di alzarsi, si domandò per la prima volta da quando era adulto se si potesse supporre un calcolato disegno nelle vite degli uomini, se potessero esistere entità simili agli dèi greci, in grado di imporre agli umani i loro scherzi, le loro vendette, la loro sommaria giustizia.

  Ma il razionalista era duro a morire, in Michael Beard. C'era un problema, e a lui toccava cercare di risolverlo. Intanto infilava mestamente la mano nella tasca interna della giacca. Per qualche anno, alla fine del dottorato, aveva lavorato sulla fisica delle basse temperature, ma le nozioni di base le conosceva dai tempi delle medie, quando era ancora Beard Palladilardo, negato per i giochi di squadra e secchione nelle materie scientifiche. Il punto di congelamento dell'etanolo puro è 1140, come tutti sanno.

  Un brandy con una percentuale di etanolo dell'ottanta per cento avrà un titolo alcolometrico pari a 40°, e di conseguenza una temperatura di congelamento di 45,6°. Finalmente, la mano aveva trovato la fiaschetta il cui tappo fu estratto senza grosse difficoltà; Beard offri la sua generosa libagione e, in capo a pochi secondi, era libero.

  Quando lo ritirò, il suo povero uccello era ancora duro come un pezzo di ghiaccio, ma non più bianco. E gli faceva anche male, come se ci avesse conficcato dentro un ago rovente, il che rallentò i suoi sforzi di rivestirsi. Dieci minuti dopo, finalmente ricomposto, si voltò e percorse barcollando la pista dove la sua guida lo stava aspettando. Chiedo scusa, ma quando la natura chiama... Jan lo afferrò per il gomito: Brutta faccia, amico. Guarda, sono caduti gli scarponi dal collo.

  Andiamo con la mia slitta insieme. Dopo torniamo per la tua. Beard si lasciò condurre al mezzo dell'altro e fu li che la catastrofe infine ebbe luogo. Mentre sollevava una gamba per piazzarsi dietro la guida, ebbe la sensazione, perfino acustica, di un terribile strappo all'altezza dell'inguine, uno schiocco e uno squarcio, come un parto, o un distacco di ghiacci. Diede in un grido e Jan si girò per aiutarlo a sistemarsi. Un'ora, solo. Ce la fai. Qualcosa di freddo e di rigido gli si era staccato dall'inguine per scendere lungo la calzamaglia e andare a fermarsi giusto sopra la rotula.

  Si portò una mano in mezzo alle gambe e non trovò niente. Se la portò al ginocchio e quel coso orrendo, meno di cinque centimetri in tutto, era li, duro come un sasso. Non sembrava affatto, o non sembrava più, una parte di lui. Jan avviò il motore azionando il pedale, e partirono a una velocità senza senso, sbandando su dossi di ghiaccio duri come cemento, sterzando intorno a pendii pressoché verticali, come piloti spericolati in un velodromo. Ma perché non era a casa sua, nel suo letto Beard cercava di acquattarsi al riparo dal vento dietro l'ampia schiena di Jan.

  Il bruciore inguinale si andava espandendo; l'uccello, dopo essergli rotolato giù per la gamba, si era trovato una nicchia nell'incavo del ginocchio, e per giunta adesso correvano a tutto gas nella direzione sbagliata, precipitandosi a nord, verso il Polo, verso le più remote regioni selvagge, nel buio dei ghiacci, quando avrebbero dovuto scapicollarsi verso Longyearbyen, verso un pronto soccorso ben attrezzato.

  Per fortuna, il freddo estremo doveva lavorare a suo vantaggio, mantenendo l'organo in vita. Ma... microchirurgia A Longyearbyen, millecinquecento abitanti Beard pensò che avrebbe dato di stomaco, e invece infilò le mani dentro la cintura dietro la giacca di Jan, abbandonò il capo sulla spina dorsale del suo protettore e prese sonno, tanto che solo il silenzio improvviso del motore spento tornò a svegliarlo, e Beard vide incombere in mezzo ai ghiacci lo scafo nero dell'imbarcazione sulla quale avrebbe trascorso la settimana. Venne fuori che Beard era l'unico scienziato in una banda di artisti impegnati. Il mondo intero con tutte le sue follie, una delle quali era quella di riscaldare il pianeta, si dispiegava in direzione di un Sud che pareva irraggiarsi ovunque sotto di loro.

  La sera stessa prima di cena in sala mensa l'organizzatore Barry Pickett, un tipo avvizzito e benevolo che aveva attraversato l'Atlantico a remi in solitaria prima di dedicare la vita alla registrazione della musica della natura (il fruscio delle foglie, il fragore delle onde), rivolse un benvenuto ai partecipanti del Seminario ottanta gradi latitudine nord. Siamo una specie sociale, esordi facendo ricorso a una retorica biologica di cui Beard solitamente diffidava, perciò non possiamo sopravvivere in assenza di alcune regole base.

  Regole che quassù, in queste condizioni, diventano ancora più essenziali. La prima riguarda lo spogliatoio. Era abbastanza semplice. Sotto la timoniera si trovava un angusto sgabuzzino male illuminato. Chiunque salisse a bordo doveva fare tappa li, spogliarsi e appendervi tutta l'attrezzatura da esterno. Per nessuna ragione indumenti bagnati o incrostati di neve o di ghiaccio dovevano arrivare negli alloggiamenti.

  Tra gli articoli vietati comparivano caschi, occhiali di protezione, passamontagna, guanti, doposcì, calze bagnate e tute da motoslitta. Tutti questi oggetti, anche se asciutti, dovevano rimanere nello spogliatoio.

  Per i trasgressori era prevista la condanna a morte. Scrosci di risa benevole corsero tra i rosei artisti buontemponi e assennati in maglione e camicie a scacchi. Beard, rintanato in un angolo con il suo quinto bicchiere di vin de pays libico, frastornato dagli analgesici e dal dolore, costituzionalmente ostile al concetto di gruppo, simulò un sorriso. Detestava far parte della compagnia, ma non voleva che la compagnia venisse a saperlo. Seguirono altre regole e punti alla voce gestione delle responsabilità, mentre la sua attenzione cominciava a diminuire. Dalla cucina di bordo che si apriva alle spalle di Pickett, dietro una parete foderata in pannelli di quercia, arrivavano il profumo di aglio e carne arrostita, il rumore di cucchiai contro bordi di casseruole, e il ringhio intimidatorio dello chef internazionale alle prese con un povero sottoposto.

  Difficile ignorare la cucina quando si erano fatte le otto e venti e non si mangiava niente da ore. Mangiare quando ne aveva voglia era una delle libertà che Beard si era lasciato alle spalle nello stolido Sud. Per l'intera giornata il sole non aveva superato i cinque gradi al di sopra della linea dell'orizzonte e alle due e mezza, quasi come uno che rinunci a portare a termine un lavoro mal fatto, si era deciso a calare. Beard aveva osservato il fenomeno da un oblò accanto alla sua cuccetta, sulla quale era rimasto sdraiato a soffrire. Vide la vastità innevata del fiordo diventare azzurra, e poi nera.

  Ma come gli era venuto in mente che stare in un luogo chiuso diciotto ore al giorno con altre venti persone potesse aprire la strada alla libertà? All'arrivo, attraversando la sala mensa in cerca del proprio alloggio, la prima cosa che aveva notato appoggiata in un angolo era una chitarra acustica di sicuro in attesa dello strimpellatore di turno e del tirannico obbligo a unirsi al coro.

  Un'ampia sezione dello scaffale libreria era occupata da giochi da tavolo e vetusti mazzi di carte. Tanto valeva farsi ricoverare in casa di riposo. Non poteva mancare la scatola del Monopoli, ed ecco, a proposito, un ulteriore motivo di rammarico. Dopo averlo aiutato a smontare dalla motoslitta, Jan lo aveva quasi portato di peso sulla passerella e accompagnato fino allo spogliatoio. Lentamente, tra gemiti e grugniti, Beard aveva cominciato a liberarsi dei vari strati esterni, abbassando con terrore la cerniera della tuta in previsione di quello che stava per scoprire.

  Nella fitta penombra del locale gli ci volle un po' per trovarsi una postazione libera alla quale appendere l'equipaggiamento e, appena l'ebbe individuata nella numero ventotto, udì alle proprie spalle una bella voce profonda di donna dirgli cortesemente: Le è caduto questo dal fondo dei pantaloni. Si voltò. Era Stella Polkinghorne, con in mano un piccolo oggetto grigio. Lo teneva così, tra pollice e indice.

  Credo sia il suo burro di cacao. Disse il proprio nome, lui fece lo stesso, si strinsero la mano. Stella si dichiarò onoratissima di fare la conoscenza di un grande scienziato, lui si definì un vecchio ammiratore delle sue opere. Solo a quel punto si lasciarono la mano. La faccia di lei non era precisamente bella, ma aperta e cordiale, con qualche ciocca di capelli biondi che spuntava da un berretto di lana. A Beard piacque il modo in cui lo sguardo curioso di lei sosteneva il suo.

  Un incisivo scheggiato le conferiva un'aria sbarazzina, spiritosa. Stella disse che era stata molto ansiosa di conoscerlo, Beard ribatté che valeva lo stesso per lui, e la donna rimase per un istante interdetta, come se non volesse ancora congedarsi e non riuscisse a farsi venire in mente altro da dire, né ci riusciva lui, distratto com'era dal dolore fisico. Infine lei disse: Beh, allora, ci vediamo, e si avviò verso l'interno della nave. Per tutto il pomeriggio Beard rimase sdraiato in cuccetta in una ottenebrata alternanza di assurdi progetti e rimpianti, continuando a esaminare i danni subiti dalla sua pelle, mettendo a punto piani di fuga immediata e riproiettandosi nella mente la scena dell'incontro. Poteva spedirsi una email richiamandosi urgentemente in Inghilterra.

  Ma il pensiero del tragitto in motoslitta fino all'aeroporto gli risultava insostenibile. Ci sarebbe voluto un elicottero da Longyearbyen. Quanto poteva costare? Grosso modo mille sterline l'ora. Anche tre ore allora, che sarebbero valse fino all'ultimo centesimo di spesa, pur di non dover cantare in coro Ten Green Bottles. Non vedeva l'ora di conoscerlo. Poteva voler dire di tutto. Macché, voleva dire una sola cosa.

  E che fortuna: leggendo un orario affisso in bacheca aveva scoperto di essere l'unico ospite in cabina singola. Peccato che sarebbe stato fuori combattimento, forse per settimane. Si diede un'altra occhiata. La lesione ricordava una scottatura; era roseo e gonfio, aveva bisogno di restare solo, voleva tornarsene a casa, avrebbe dovuto cercare di sedersi vicino a lei a tavola, quella sera. Ma se non sarebbe nemmeno stato presente.

  Era in arrivo l'elicottero. Però di notte l'elicottero non avrebbe viaggiato. Potevano sempre fare sesso in modi diversi, poteva soddisfarla altrimenti. Ma che senso avrebbe avuto? Forse stava già migliorando. Si diede un'altra sbirciatina.

  Alla fine a stanarlo dalla cabina era stata la fame, unita al bisogno di bere qualcosa. Dopo il discorso di Pickett, Beard non fece in tempo a lasciare il proprio angolo per andare a prendere posto accanto a Stella Polkinghorne e si ritrovò invece incastrato tra la paratia e un celebre scultore di ghiaccio originario di Maiorca di nome Jesus: un uomo anziano dalla faccia mesta, con un paio di baffi a manubrio giallastri che olezzavano potentemente di sigaro e una specie di fischio ronzante nella voce, tipo il verso che fanno certi orsi di pezza. Dopo le presentazioni, Beard azzardò che dovesse essere complicato dedicarsi a quella professione, alle Baleari. Jesus gli spiegò che ai vecchi tempi le ghiacciaie scavate nelle montagne assicuravano ai pescivendoli di Palma la fornitura di enormi blocchi di ghiaccio per tutta l'estate, ed era stato cosi che suo nonno aveva imparato l'arte poi passata al figlio il quale a sua volta l'aveva passata a lui.

  Jesus aveva vinto parecchie competizioni di sculture di ghiaccio in varie città del mondo il trionfo più recente era stato a Riyad e la sua specialità erano i pinguini. Quando non scolpiva faceva l'importatore di whisky; aveva nove figli, quattro maschi e cinque femmine, e vent'anni prima aveva fondato una scuola per bambini ciechi fuori dal porto di Andratx. Sua moglie e due dei figli maschi mandavano avanti le vigne e gli uliveti che la famiglia possedeva sulle alte scogliere della Tramuntana, una quindicina di chilometri a sud di Pollensa e non lontano dalla famosa Cova de ses Bruixes, o Grotta delle Streghe.

  Il dolore di Beard andava diminuendo, gli analgesici avevano un forte effetto euforizzante. Non aveva mai gustato niente di più squisito della bistecca con patate fritte, insalata e vino rosso che aveva davanti. Quanto a Jesus (pur sapendo che in Spagna non era una rarità, personalmente era la prima volta che conosceva qualcuno con quel nome), gli pareva la persona più interessante incontrata da anni.

  Rispondendo alla domanda ricambiata, Beard dichiarò di essere un fisico teorico. Suonava sempre come una bugia. Lo scultore tacque un momento, forse ripassando mentalmente l'inglese, e infine formulò un quesito inatteso. Il Señor Beard doveva perdonare l'ingenuità e l'ignoranza di un uomo poco istruito, ma la curiosa realtà descritta dalla meccanica quantistica descriveva il mondo reale, o era solo un sistema che casualmente funzionava Contagiato dalla raffinata eloquenza del maiorcano, Beard si congratulò con lui per il quesito. Lui stesso non avrebbe saputo articolarlo meglio; infatti non esisteva interrogativo più appropriato riguardo alla teoria dei quanti.

  La questione aveva dominato anni e anni della vita di Einstein e l'aveva portato a definire la teoria corretta ma incompleta. A livello intuitivo, lo scienziato non accettava che la realtà potesse non esistere in assenza di un osservatore, o che fosse comunque definita da quell'osservatore, come sembravano invece sostenere Bohr e compagni. Secondo l'espressione memorabile di Einstein esisteva là fuori una «realtà di fatto».

  «Lo stato dell'universo si modifica, si era domandato una volta, se un topo lo osserva?» La meccanica quantistica pareva suggerire che la misurazione dello stato di una particella A era in grado di determinare istantaneamente lo stato della particella B, anche se molto lontana. Ma questo, dal punto di vista di Einstein, significava fare dello «spiritismo», compiere una «azione misteriosa a distanza», giacché nulla poteva spostarsi a una velocità superiore a quella della luce.

  Il realista in Beard era solidale con Einstein e con la lunga e fallimentare battaglia da lui ingaggiata con l'accolita di geniali pionieri della quantistica, ma bisognava ammettere che la verifica sperimentale suggeriva la possibilità di effettive correlazioni misteriose a lungo raggio, e che la consistenza della realtà su piccola e larga scala costituiva una autentica sfida al buonsenso. Einstein era altresì convinto che la matematica necessaria a descrivere l'universo si sarebbe alla fine rivelata elegante e relativamente semplice. Ma era ancora vivo quando furono scoperte due nuove forze fondamentali e, da allora, lo scenario aveva continuato a complicarsi per l'aggiungersi di una serie di nuove particelle e antiparticelle, come pure di svariate dimensioni immaginarie e di ogni genere di sistemazione disordinata. Beard tuttavia si aggrappava alla speranza che insieme a ulteriori rivelazioni, sarebbe prima o poi nato un genio capace di proporre una teoria che combinasse tutto quanto in una formula di sorprendente bellezza.

  Dopo tanti anni (ecco la battutina, pronunciata appoggiando confidenzialmente una mano sul braccio gracile di Jesus) aveva alla fine rinunciato a sperare di poter essere lui, il mortale prescelto per il ritrovamento di quel Sacro Graal. Beard disse tutto ciò soverchiando il vociare crescente dei venti artisti impegnati sul fronte del cambiamento climatico che, mentre i tavoli venivano sparecchiati, passavano a .concentrarsi sul vino. Jesus non colse o volle ignorare l'autoironia di Beard e, voltando la faccia mesta e cascante e dirigendo lo sguardo sulla sala affollata, dichiarò in tono solenne che abbandonare la speranza era un errore a qualsiasi stadio della vita.

  I suoi pinguini migliori, quelli più realistici e più espressivi nel senso della forma pura, li aveva realizzati tutti negli ultimi due anni, e di recente si era perfino lanciato sugli orsi polari, creature minacciatissime dall'aumento delle temperature e in passato decisamente al di là delle sue capacità artistiche. A suo modesto parere, era importante non smarrire mai la fiducia nella possibilità di profonde trasformazioni interiori.

  Di sicuro, uno scienziato della levatura del Señor Beard doveva battersi per la sua teoria, per quella bellezza, perché in fondo a che cosa si riduceva la vita senza ambizioni di altissimo livello Come avrebbe potuto Beard confessare a Jesus che da anni ormai non si occupava più seriamente di scienza, e che non credeva nelle profonde trasformazioni interiori Solo un inesorabile decadimento esteriore e interiore.

  Cercò di riportare il discorso sul più sicuro terreno di orsi polari e pinguini scolpiti nel ghiaccio, ma cosi facendo avverti che il suo buonumore tramontava. L'effetto degli analgesici scemava, il vino, lo stesso di prima, cominciava a sembrargli annacquato e acidulo, l'allegria circostante non faceva che ricordargli la fine del suo matrimonio. Si senti stanco, e troppo cinico in confronto al resto della compagnia.

  Il brio che aveva dimostrato nella conversazione si rivelò fasullo, frutto dello shock, dei farmaci e dell'alcol. Tagliò corto e si congedò da Jesus, bofonchiando qualche scusa. Poi si fece strada in mezzo alla calca dei commensali. Passando, udì solo discorsi su arte e cambiamenti climatici. Al tavolo accanto al suo, una coreografa che non aveva notato prima, elegante, bellissima e traboccante di buone intenzioni, descriveva con accento francese una danza geometrica che aveva pensato di realizzare sui ghiacci.

  No, non poteva reggere, tutto quell'ottimismo lo devastava. A parte lui, erano tutti preoccupati del riscaldamento del pianeta e tutti lietissimi; l'unico depresso era Beard. Aveva soltanto voglia di buio e silenzio. Restò per un pezzo sdraiato in cuccetta nella sua cabina senz'aria, tenuto sveglio dal doloroso pulsare ad altezza dell'inguine il battito cardiaco pareva essersi trasferito in quella zona , ad ascoltare le voci e le risa e a domandarsi se la misantropia lo avrebbe accompagnato per tutta la settimana. L'idea dell'elicottero, ora lo capiva, era assurda.

  Lasciare la propria routine nella remota Belsize Park per questa landa deserta lo aveva messo di fronte all'idiozia della propria esistenza. Patrice, Tarpin, il Centro e tutto lo pseudolavoro al quale si dedicava per mascherare tanta irrilevanza. A che cosa si riduceva la vita senza ambizioni di altissimo livello La risposta era esattamente questa: all'ennesima, dimenticabile notte insonne. Due ore più tardi stava per addormentarsi quando udì il suono della chitarra in fase di accordatura e grugni, voltandosi furibondo su un fianco. Ma dalla parete di legno non furono i soliti cori e le strimpellate ad arrivargli, bensì una melodia pensosa, eseguita con dolcezza, forse spagnola, dotata di un tocco di precisione leggera, come certi brani di Mozart.

  Al mattino avrebbe scoperto che si trattava di uno studio di Fernando Sor. Sdraiato al buio assoluto sul suo lettino, Beard seppe per certo che a suonarlo doveva essere Jesus, quasi dedicandolo a lui. E furono quegli accordi malinconici a cullarlo alla fine nel sonno. Era tarda mattinata, il sole era sorto e splendeva eroicamente di sbieco sulla superficie abbacinante del fiordo, mentre Beard si aggirava con fatica nella penombra dello spogliatoio, in cerca della sua roba.

  Stava di fronte all'attaccapanni numero diciotto al quale il giorno prima aveva appeso, ne era sicurissimo, la sua tuta da motoslitta. Proprio sotto il piolo c'era un cestino di rete metallica nel quale aveva buttato gli occhiali di protezione, il casco e altri articoli di piccole dimensioni, mentre più giù ancora, sotto una panca di legno, si trovava il vano in cui aveva ritirato le calzature.

  Perfino da quaggiù, direttamente sotto la timoniera, udiva il rombo di svariate motoslitte: a quanto pareva, metterle in moto a quell'ora era un'autentica impresa. Una comitiva di sei persone, più Jan armato di fucile, era in partenza per l'osservazione del ghiacciaio lungo il fiordo. Cinque membri del gruppo e la guida erano già fuori a battere i piedi sul ghiaccio e ad agitare le braccia per tenersi caldi; Beard come sempre era l'ultimo. Qualcuno gli aveva preso l'attrezzatura, o almeno una parte.

  La tuta non era appesa al suo piolo, il cesto di rete era stato spinto alla postazione diciannove; solo gli scarponi ammesso che fossero proprio quelli si trovavano dove li aveva lasciati. I suoi ben poco desiderabili occhiali rotti giacevano a terra. Beard prese una tuta doveva essere la sua dopo tutto dal piolo numero diciassette. Scopri invece che era almeno due misure più grande del dovuto ma, una volta infilata, non aveva certo più voglia di togliersela. Gli scarponi, in compenso, erano una misura di meno.
Tra gli articoli minori dentro il cesto, mancava solo un sottoguanto, e Beard si arrangiò prendendone uno dalla postazione numero ventitre e ripromettendosi di restituirlo. La fenditura sopra la lente non gli dava più alcun fastidio. Emerse sul ponte accolto dall'applauso scherzoso della squadra in attesa sul ghiaccio e, volendo entrare nello spirito di gruppo, Beard accennò un inchino.

  Nonostante la fretta, ebbe tempo di osservare la scena dalla rampa bassa della passerella. C'erano parecchie sagome sul ghiaccio intorno alla nave. I caschi alteravano le proporzioni delle teste, le tute ingigantivano i deretani, cosicché da lontano ricordavano degli infanti nel cortile di una scuola materna. La coreografa stava marcando la sua danza geometrica insieme a tre amici; due sagome costruivano una specie di omino e di statua di neve; un solitario, Pickett probabilmente, montava un microfono tra due coni di ghiaccio; un tale armato di motosega aiutava qualcuno, Jesus di sicuro, a caricare quattro blocchi di ghiaccio sopra una slitta; un altro stava in ginocchio a lustrare una lente di ghiaccio del diametro di un metro. Un'altra figura girava in tondo con una bandiera rossa e un fischietto, a beneficio di una telecamera montata su un treppiede.

  Beard aveva sbalordito se stesso offrendosi cosi presto volontario per un secondo giro in motoslitta. A convincerlo a uscire era stato il senso di claustrofobia, unito alla luce, tantè che dalle finestre della sala mensa si vedeva battere sul fiordo, e al fatto che allontanarsi senza una guida armata non era comunque permesso in nessun caso. Montò in sella all'ultima motoslitta e il convoglio parti in fila indiana sul ghiaccio, approssimativamente diretto a est, verso l'interno del fiordo. In teoria avrebbe dovuto essere uno spasso rimbalzare su un ampio corridoio di neve e ghiaccio, in mezzo a strapiombi di montagne su entrambi i lati. Peccato che anche questa volta, il vento si facesse strada tra i vari strati di indumenti, gli occhiali rotti tendessero ad appannarsi e gelare nel giro di pochi minuti e Beard a quel punto non riuscisse a distinguere altro che la chiazza grigiastra del veicolo che lo precedeva. Si trovava dritto nella scia di sei tubi di scappamento.

  Per una decina di chilometri, Jan mantenne una velocità folle. Nei punti in cui il vento aveva spazzato via la neve, la superficie del fiordo era un foglio di lamiera ondulata su cui le motoslitte sferragliavano e sgroppavano. Venti minuti più tardi si fermarono in un silenzio improvviso a un centinaio di metri dal fronte del ghiacciaio, un muro irregolare di azzurro che si estendeva nella valle per una lunghezza di quindici chilometri. L'impressione era quella di una città in rovina, devastata e sporca, ingombraci macerie, torri crollate e immensi crepacci. Poiché la temperatura si aggirava intorno ai ventotto gradi sottozero, spiegò Jan, la giornata era troppo fredda per osservare eventuali distacchi di ghiacci dovuti al riscaldamento del Polo. Trascorsero un'ora a scattare fotografie e camminare su e giù. Poi qualcuno vide un'impronta sulla neve.

  Vi fecero capannello attorno, quindi lasciarono alla guida, armata di fucile in spalla, il privilegio di dare prova della propria competenza. L'orma era di orso polare, ovviamente, e molto fresca. Essendoci appena un velo di neve in quel punto, non risultò facile individuarne un'altra. Jan scrutò l'orizzonte con il binocolo. Ecco, disse pacatamente, adesso credo che andiamo. Indicò con la mano e, da principio, non videro nulla. Ma quando si mosse, l'immagine diventò abbastanza chiara.

  A poco più di un chilometro di distanza, un orso avanzava lemme lemme nella loro direzione. Ha fame, commentò Jan comprensivo. Alle slitte. Perfino con la prospettiva di essere sbranati, la dignità ebbe la meglio e si avviarono ai veicoli accennando appena una corsa leggera. Già mentre si avvicinava al suo mezzo, Beard sapeva che cosa aspettarsi. Ogni esperienza di quel viaggio aveva contribuito a mortificarlo. Perché mai la sorte avrebbe dovuto cambiare proprio adesso.

  Premette il pulsante dell'accensione. Niente. Perfetto. Tanto valeva rassegnarsi a essere spolpato vivo. Provò un'altra volta, e un'altra ancora. Intorno a lui, nubi di fumo azzurro, e rombi assordanti: autentica espressione di un disinibito terrore, finalmente. Una metà del gruppo già era schizzata in direzione della nave. La parola d'ordine era sisalvichipuò. Beard non volle sciupare energie imprecando. Tirò la levetta dell'aria ben sapendo che era un errore, perché il motore era ancora caldo. Riprovò ad accendere. Niente, di nuovo. Senti odore di benzina. Aveva ingolfato il motore; si meritava di morire. Ormai se n'erano andati tutti, compresa la guida, sulla cui inadempienza Beard era deciso a fare rapporto a Pickett, o al re di Norvegia. Intanto, l'agitazione gli appannava gli occhiali e, come sempre, la condensa si congelava. Inutile guardarsi indietro quindi, ma lo fece lo stesso e vide cristalli di ghiaccio incorniciati da uno scorcio di fiordo innevato.

  Era ragionevole supporre che l'orso stesse ancora avanzando, ma Beard doveva avere decisamente sottovalutato la velocità dell'animale su terra, perché proprio in quel momento ricevette un gran colpo sulla spalla. Per non voltarsi e farsi strappare la faccia, Beard incurvò la schiena e si mise in attesa del peggio. Il suo ultimo pensiero vale a dire che, non avendo per avventatezza modificato il testamento, stava per lasciare ogni suo avere a Patrice, a vantaggio di Tarpin sarebbe stato avvilente, ma ciò che udì fu la voce della guida. Faccio io. Il Premio Nobel aveva continuato a premere il pulsante di accensione del fanale anteriore. Il veicolo partì al primo colpo. Vai, disse Jan. Io sono dietro.

  A dispetto della situazione di pericolo in cui si trovava, e per amor di leggenda, Beard tornò a guardarsi indietro nella speranza di scorgere almeno di sfuggita la bestia che stava per distanziare. Nell'esiguo perimetro di discreto nitore che circondava la chiazza gelata degli occhiali, qualcosa in effetti si muoveva, ma poteva trattarsi di una mano della guida come pure di un lembo del suo passamontagna.

  Nel resoconto dei fatti che avrebbe divulgato per il resto dei suoi giorni, in quello che diventò il suo autentico ricordo dell'esperienza, quando la motoslitta alla fine si avviò, un orso polare a fauci spalancate gli stava a una ventina di metri di distanza e gli correva incontro; e questo non perché, o non solo perché, Beard fosse un bugiardo, ma anche perché sapeva istintivamente quanto sia sbagliato non rendere onore a una bella storia. Rombando a tutta velocità sulla superficie del ghiaccio, Beard si lasciò sfuggire un grido di gioia, ma l'urlo si spense nella tempesta gelida che gli soffiava in faccia.

  Com'era liberatorio scoprire che anche a lui, moderno abitante della metropoli, cittadino sedentario la cui vita si svolgeva davanti a schermo e tastiera, poteva capitare di essere inseguito e predato, di trasformarsi in pasto, in fonte di nutrimento per altri esseri viventi. Forse quella fu l'apoteosi di tutta la settimana. Gli parve che fosse questione di pochi minuti prima che riguadagnassero la base. All'una e tre quarti appena, il freddo si era fatto già più pungente e una luce serale illuminava di arancio i pochi artisti che ancora non si erano ritirati a bordo. Sentendosi l'inguine molto dolente, Beard volle aspettare che gli altri fossero entrati, prima di risalire la passerella camminando all'indietro.

  In quel modo gli faceva meno male. Sostò all'ingresso dello spogliatoio in attesa che gli occhi si abituassero alla poca luce, ma ben presto non ebbe dubbi: qualcuno aveva appeso l'attrezzatura al suo attaccapanni. Con spirito pratico, Beard spostò tutto quanto, calzature comprese, a una postazione libera d'angolo. Si sfilò il passamontagna di lana che gli scivolò a terra con un tonfo e da li parve fissarlo incredulo a bocca aperta. Ma che ci faceva lui in quel posto Ritirò l'equipaggiamento, si avviò in sala mensa, salutò la mezza dozzina di persone presenti, si portò in cabina una bevanda calda e si coricò in cuccetta. Era pura casualità cartografica quella che collocava il Polo Sud al di sotto del Polo Nord, ma Beard non riusciva a liberarsi dell'impressione di essere in cima al mondo e di dominare il resto del genere umano, Patrice compresa.

  Godeva perciò di una visione d'insieme e diventarono un appuntamento fisso della settimana quei pomeriggi nel crepuscolo artico durante i quali, sorseggiando una cioccolata, Beard rammentava a se stesso che la sua vita si stava ridimensionando e lui avrebbe dovuto ricominciare, riprendere il controllo di sé, perdere peso, recuperare la forma fisica, vivere in modo semplice, organizzato. E finalmente fare sul serio con il lavoro, anche se non aveva la minima idea di quali attività potesse mai svolgere che non dipendessero o non fossero agevolate dalla sua fama personale.

  Era forse destinato a tenere per sempre lo stesso ciclo di conferenze sul tema del proprio minuscolo contributo, far parte di commissioni, diventare una Presenza? Non aveva risposte, ma riflettere lo confortava e gli capitò più volte di addormentarsi nel buio delle tre del pomeriggio e poi di svegliarsi con la fame e un rinnovato desiderio di vin de pays. A parte l'essere scampato alle fauci di un orso polare, il resto della settimana non gli riservò nulla di avventuroso. I più temerari uscivano in escursione sulle montagne con una guida, o costruivano un igloo, o perlustravano in motoslitta un vallone tra alte pareti rocciose al fondo del fiordo.

  Ogni giorno, Beard trascorreva due o tre ore fuori della nave a trastullarsi in vari modi con gli altri. Lo utilizzavano come assistente per reggere il capo di una corda, tagliare blocchi di ghiaccio per Jesus, aiutare Pickett a installare microfoni, unirsi alla danza. In questo caso si trattava di farsi filmare mentre dietro a una dozzina di altre persone si procedeva in fila indiana su un rettilineo lungo più o meno duecento metri per poi svoltare ad angolo retto e avanzare di altri duecento metri nella nuova direzione.

  Era rilassante, Beard gradiva il fatto di non dover pensare a niente e di ricevere istruzioni sul da farsi. In un clima meno inclemente, potendo contare su una salute migliore, forse ci avrebbe provato con la coreografa, la snella Elodie, originaria di Montpellier, soprattutto se lei non si fosse trascinata appresso anche il marito, quel microcefalo di un fotografo, ex giocatore di rugby nella nazionale francese. Anche Stella Polkinghorne era sposata, con Barry Pickett, l'organizzatore.

  La vita di Beard risultò, pertanto, semplificata. Nutrendo scarso interesse per l'arte e per i cambiamenti climatici e ancor meno per l'arte ispirata ai cambiamenti climatici, si teneva per sé le proprie considerazioni e poteva mostrarsi affabile, tanto che fini per sorprendersi della discreta popolarità rimediata. Gli si svuotava la testa, mentre svolgeva le varie attività sul ghiaccio. Una volta, verso l'ora di pranzo, scese dalla nave con delle ciotole di zuppa al pomodoro, il contenuto delle quali giunse in fondo alla passerella surgelato e fu inserito dentro una scultura.

  L'umore di Beard migliorò, o comunque smise di peggiorare. Ricominciò a pensare alla propria forma fisica. Fino a dieci, dodici anni prima si difendeva piuttosto bene sul campo da tennis, ovviando al problema della statura con una volée di diritto violenta come una pugnalata. Ed era anche stato uno sciatore più che discreto. Otto anni prima riusciva ancora a toccarsi la punta dei piedi con le dita. Era senz'altro possibile interrompere il processo di aumento di peso mensile che lo avrebbe portato a morte sicura, no Programmò una passeggiata quotidiana sul fiordo, un circuito di circa tre chilometri intorno alla nave, scortato da Jan armato di fucile.

  Dopo la seconda escursione, sdraiato in cuccetta con le gambe indolenzite, redasse un elenco mentale degli alimenti che non intendeva più toccare. Aveva accumulato sette o otto chili di troppo. L'alternativa era agire subito, o morire giovane. Si impegnò a rinunciare alle solite cose: latticini, carni rosse, fritti, dolciumi, noci salate. E patatine varie, per le quali aveva un debole particolare. Mancavano altre voci, ma si addormentò prima di completare l'inventario. Durante gli ultimi tre giorni del viaggio si attenne al nuovo regime dietetico. A partire dal secondo giorno, il disordine nello spogliatoio si era fatto evidente perfino agli occhi di Beard.

  Aveva il sospetto di non aver infilato due volte di seguito lo stesso paio di scarponi. Pur avendo avvolto gli occhiali (un paio integro, in effetti) nel passamontagna di lana il terzo giorno, già il quarto erano spariti, mentre il passamontagna stava per terra a inzupparsi. Quella mattina notò inoltre parecchie tute da motoslitta abbandonate sul pavimento. Avevano un'aria assai malconcia e, senza controllare a fondo, Beard stabili che nessuna poteva essere la sua.

  Mentre erano fuori a registrare la musica del vento tra il sartiame, Pickett gli confessò di aver indossato per ben due volte due scarpe sinistre. Lui però era un tipo coriaceo e non sembrava farci caso. Beard ci badava invece. Non era persona animata da un forte spirito di gruppo, ma tendeva a esigere da se stesso e perciò anche dagli altri il rispetto delle convenienze minime. Ritirava sempre la sua roba sopra e sotto lo stesso attaccapanni, il numero diciassette, e lo sconcertò constatare che altri faticassero a rispettare procedure tanto semplici. I guanti costituivano un problema speciale, perché fuori era impossibile farne a meno. Per precauzione, Beard li infilò dentro le scarpe, insieme ai sottoguanti. L'indomani, non c'erano le scarpe. Le serate gli piacevano.

  Quando la gente cominciava a radunarsi in sala mensa in attesa della cena, fuori era ormai buio da almeno cinque ore. La fase degli aperitivi si protraeva per un paio d'ore, prima che arrivasse qualcosa da mangiare. Il vino proveniva da una regione sperduta della Libia. Di solito Beard partiva con il bianco, passava al rosso fino a nausearsi, e poi ripassava al bianco, e di solito, prima di andare a dormire, rimaneva ancora tempo per un ulteriore passaggio. Dopo cena, naturalmente, il tema delle conversazioni era uno solo. Perlopiù, Beard stava a sentire. Non gli era mai capitato di incontrare una simile concentrazione di idealisti e l'esperienza gli procurò dalla curiosità, all'imbarazzo, al senso di oppressione. La terza sera, quando Pickett gli chiese di raccontare un po' del suo lavoro, Beard si alzò in piedi per prendere la parola.

  Descrisse il Centro e la turbina eolica da tetto a elica quadrupla, attribuendosene la plausibile paternità. Si trattava di un modello rivoluzionario, e ne abbozzò uno schizzo da far girare tra i presenti. Avrebbe abbassato gli importi delle bollette anche dell'ottantacinque per cento, un risparmio in grado di coprire gli ipotetici costi di costruzione di... non ancora sbronzo del tutto, Beard buttò là un numero ventitre centrali di media grandezza. Dal pubblico giunsero alcune rispettose domande, alle quali lui rispose con avveduta lucidità. Trovandosi in mezzo a degli analfabeti della scienza, avrebbe potuto sparare qualsiasi cosa. Ci fu un'appassionata dichiarazione di sostegno da parte di Stella Polkinghorne.

  Disse che Beard era l'unico tra i presenti a fare davvero qualcosa per l'ambiente; subito l'intera sala si entusiasmò tributandogli un caloroso applauso. A Beard non era mai importato granché dell'opinione altrui, ma in quel momento com'era caduto in basso non potè mascherare la commozione di sentirsi, almeno per qualche minuto, il beniamino di tutta la nave. A parte questo, si limitò a bere e ascoltare.

  Dopo due o tre bicchieri di bianco, il rosso andava giù senza fatica, come acqua, almeno all'inizio. C'erano temi ricorrenti , alcuni si inseguivano in una sorta di canone affannoso, altri invece, in forma di fuga polifonica, correvano simultanei, come la delusione e l'amarezza: il secolo si era concluso e il cambiamento climatico restava una preoccupazione marginale, Bush aveva stracciato le «modeste proposte» di Bill Clinton, gli Stati Uniti intendevano voltare le spalle a Kyoto, Blair non sembrava avere il pieno controllo della situazione, le antiche speranze di Rio si erano dissolte. La delusione, regolarmente incalzata dall'allarmismo, finiva per esserne travolta.

  La Corrente del Golfo sarebbe scomparsa, gli europei sarebbero morti assiderati nei loro letti, l'Amazzonia si sarebbe desertificata, interi continenti avrebbero preso fuoco, altri sarebbero stati sommersi dalle acque ed entro il 2085 non ci sarebbe stata più traccia dei ghiacci estivi dell'Artico e, di conseguenza, anche degli orsi polari. Beard non era nuovo a queste previsioni alle quali tuttavia non aveva mai creduto.

  O comunque, non se ne era mai allarmato.

  Come uomo di una certa età, senza figli, al capolinea del quinto matrimonio, era in grado di concedersi un pizzico di nichilismo. Il pianeta terra poteva fare a meno di Patrice e Michael Beard.

  E anche qualora si fosse scrollata di dosso tutti gli altri esseri umani, la biosfera avrebbe tenuto duro e, in capo ad appena dieci milioni di anni, avrebbe potuto pullulare di altre curiose forme di vita, nessuna delle quali, forse, dotata dell'intelligenza di un primate.

  A quel punto chi si sarebbe mai rammaricato del fatto che nessuno ricordasse Shakespeare, Bach, Einstein, o la Conflazione Beard Einstein.

  Frattanto, mentre il buio e un freddo ancora più intenso avvolgevano la nave alla fonda nel remoto fiordo, e dagli oblò filtrava il coraggioso barlume di luce gialla, sola illuminazione e unico segno di vita per centinaia di chilometri sulle sconfinate distese crepitanti di ghiaccio, una nuova sinfonia di argomenti di conversazione si andava sviluppando: che cosa era necessario fare, quali accordi occorreva stipulare tra nazioni litigiose, quali deroghe e benefici, nel loro stesso interesse, i paesi ricchi dovevano concedere a quelli poveri. Nell'umido tepore postprandiale della sala mensa, ai titolari di altrettante pance strapiene di cibo e di vino sembrava che la ragione fosse senz'altro destinata ad avere la meglio sul miope egoismo e l'avidità, che solo il buonsenso fosse in grado, a furia di avvertimenti, di tracciare il quadro pur nebuloso di un futuro catastrofico nel quale all'umanità intera sarebbe toccato arrostire, morire di freddo o annegare.

  Il discorso su sovranità nazionali e trattati internazionali risultava pacatamente laico, in confronto a un altro leitmotiv in grado di evocare una discreta misura di austerità da canto gregoriano, una litania puritana che sapeva di vecchie giornate in difesa dell'ambiente, scetticismo nei riguardi delle manipolazioni tecnologiche, e certezza che l'unica soluzione risiedesse in uno stile di vita diverso per tutti, in un passo più leggero sulla preziosa filigrana .degli ecosistemi, nell'adesione pressoché religiosa a nuove regole di realizzazione esistenziale, allo scopo di garantirsi uno sviluppo al di là di supermercati, aeroporti, cemento armato, automobili e perfino centrali energetiche: idee espresse da una minoranza, ma accolte con colpevole rispetto da tutti coloro che avevano appena scorrazzato sul territorio incontaminato a bordo di pestilenziali motoslitte.

  Ascoltando come era solito fare dal suo angolo in sala mensa, con Jesus seduto a fianco, Beard intervenne un'unica volta, l'ultima sera, allorché un allampanato romanziere di nome Meredith, scordandosi evidentemente della presenza di un fisico, dichiarò che il Principio di indeterminazione di Heisenberg, in base al quale quanto più sappiamo circa la posizione di una particella, tanto meno possiamo conoscere sulla sua velocità, e viceversa, riassumeva la perdita, ai giorni nostri, di una «bussola morale», dell'attuale difficoltà a formulare giudizi assoluti.

  L'interruzione di Beard suonò spazientita.

  Valeva la pena di essere precisi, commentò, rivolto al compagno di viaggio dai capelli a spazzola e gli occhiali senza montatura.

  Non si parlava di velocità, bensì di momento, vale a dire di massa per velocità. La precisazione capziosa fu accolta da brontolii sommessi. Beard aggiunse che il principio non era applicabile alla sfera morale.

  Al contrario, la meccanica quantistica era uno straordinario indicatore della probabilità statistica di uno stato fisico. Il romanziere avvampò ma non volle darsi per vinto. Non sapeva forse con chi stava parlando?

  Benissimo, si, d'accordo, probabilità statistica, incalzò, che però non voleva dire certezza. Ma Beard, ormai all'ottavo bicchiere di vino e sentendosi crescere tra naso e labbro una smorfia beffarda nei confronti di un ignorante invasore del terreno altrui, affermò a voce alta che il principio non era incompatibile con la conoscenza precisa dello stato di un fotone, ad esempio, a patto che si potesse ripeterne l'osservazione. In termini etici, l'analogia avrebbe previsto l'eventualità di riesaminare una questione morale diverse volte prima di giungere a una conclusione.

  Ma proprio lì stava il punto: il Principio di Heisenberg sarebbe stato applicabile solo se dividere la somma di giusto e sbagliato per la radice quadrata di due avesse avuto un senso. Il silenzio in sala fu più imbarazzato che stupefatto. Meredith fissò inerme Beard calare con violenza un pugno sul tavolo. Allora? Sentiamo. Mi dica come intende applicare Heisenberg alla morale.

  Giusto più sbagliato fratto radice quadrata di due. Ma che accidenti vuol dire? Niente! Intervenne Barry Pickett a traghettare oltre la discussione. Si trattò di una nota discordante isolata. Il fenomeno sorprendente e memorabile invece si verificava ogni sera, di solito sul tardi, e assumeva i toni squillanti di una banda di ottoni, o la sonorità di un insieme di voci all'unisono che, nell'entusiasmo dell'intento comune, dimenticavano temporaneamente ogni delusione, ogni amarezza.

  Beard non avrebbe mai ritenuto pensabile di potersi ritrovare in una stanza a bere con tante persone conquistate dalla stessa stravagante ipotesi, e cioè che sarebbe stata l'arte nelle sue forme più nobili, dalla poesia alla scultura alla danza, dalla musica assoluta all'arte concettuale, a sollevare la questione del cambiamento climatico, a esaltarla, analizzarla, a rivelarne tutto l'orrore e la bellezza perduta e la spaventosa minaccia, e a indurre il pubblico a riflettere e reagire in prima persona o a esigere altrettanto dagli altri. Lui restava seduto in un silenzioso sbigottimento.

  L'idealismo era cosi estraneo alla sua indole che non sarebbe stato in grado di formulare obiezioni. Si scopriva in un territorio nuovo, circondato da una cordiale tribù di gente strana. Le sentinelle di neve erette a guardia della passerella, il suono registrato del vento mugghiante tra il sartiame, il disco lustro di ghiaccio sul quale si rifrangeva un sole eternamente calante, i trenta pinguini di Jesus, e i suoi tre orsi polari in marcia sui ghiacci oltre la prua della nave, gli aspri e inaccessibili brani di un romanzo disseminato di invettive che Meredith aveva letto, o meglio strepitato per loro una sera; tutte quelle manifestazioni, come preghiere, come danze totemiche, erano ideate allo scopo di deviare il corso di una catastrofe.

  Tali erano l'incanto e la musica di quelle conversazioni navali sul cambiamento climatico. Frattanto, al di là di una parete che Beard aveva imparato a chiamare paratia, proseguiva il degrado dello spogliatoio. Entro metà settimana mancavano all'appello quattro caschi, insieme a tre pesanti tute da motoslitta e a una serie di articoli minori.

  Non più di due terzi della compagnia poteva ormai lasciare la nave contemporaneamente. Uscire voleva dire rubare. Lo stato in cui versava lo spogliatoio, l'accumulo di entropia, diventò un tema ricorrente negli annunci serali di Barry Pickett. Mentre Beard, dimentico del proprio ruolo attivo nella vicenda, della sua generosa collaborazione a determinarne le condizioni iniziali, non potè fare a meno di meditare a lungo sullo stato postedenico del fenomeno. Quattro giorni prima, la stanza era partita in ordine, con tutto l'equipaggiamento appeso o ritirato sotto i vari attaccapanni numerati.

  Risorse limitate, equamente distribuite, che risalivano all'età dell'oro di un passato recente.

  E adesso, solo rovina. Ancora più arduo si rivelò imporre l'ordine una volta che la stanza divenne ingombra di zaini e borsoni di tela e sacchetti di plastica pieni di guanti di scorta, sciarpe e tavolette di cioccolato.

  Nessuno, pensò Beard, ammirando la propria magnanimità, si era comportato male; tutti, nella circostanza immediata, volendo uscire sul ghiaccio, si erano attenuti a una rigorosa razionalità, guarda caso scoprendo in un posto insolito il loro passamontagna scomparso. Era cinico e morboso da parte sua divertirsi all'idea, ma non poteva farci niente: come pensavano di riuscire a salvare un pianeta tanto più vasto dello spogliatoio Sempre ammettendo che il pianeta ne avesse bisogno, cosa di cui Beard dubitava. La mattina dell'ultimo giorno fecero colazione con il baccano dell'intera flotta di motoslitte accese in sottofondo.

  Poi uscirono sul ghiaccio, molti con qualche articolo di equipaggiamento in meno. A Beard mancava il casco.

  Mentre aspettava il segnale di partenza, scaldò gli occhiali di protezione sul motore e si legò una sciarpa intorno alla testa. Il sole arancione splendeva basso in un cielo senza nubi, avrebbero goduto di un buon vento a favore, e sembrava che il tragitto di ritorno a Longyearbyen potesse perfino rivelarsi gradevole, a patto di essere adeguatamente coperti. Dal ponte della nave giunse un grido.

  Con l'aiuto di un membro dell'equipaggio, Barry Pickett scese dalla passerella trasportando un enorme sacco di plastica rinforzata del tipo utilizzato dai muratori per la sabbia. Oggetti smarriti. Fecero capannello intorno al tesoro frugando nel contenitore. Beard rimediò un casco della sua misura e stabili che doveva essere il suo. Nessuno pareva vergognarsi, o sentirsi minimamente in imbarazzo.

  Ecco la loro roba.

  Dov'era andata a finire per tutto quel tempo.

  Salutarono il personale di bordo e, tra rombi molesti e fumi ammorbanti, si avviarono in fila indiana lungo il fiordo, in direzione di Longyearbyen, mantenendo una solenne velocità di venticinque chilometri orari per evitare la sferza del vento contrario.

  Tenendosi il più curvo possibile sul veicolo nel tentativo di farsi arrivare in faccia un minimo di calore corporeo, Beard si scopri bendisposto, stato d'animo per lui insolito, la mattina.

  Non risentiva nemmeno dei postumi dell'alcol. Sulle gelide rive del fiordo rallentarono fino a procedere a passo d'uomo sui solchi profondi, vere e proprie trincee nel ghiaccio. Non se li ricordava, dal viaggio di arrivo.

  Ovvio del resto, dal momento che l'aveva fatto dormendo sulla schiena di Jan. Poi raggiunsero una lunga pista innevata e superarono una baracca nella quale, secondo quanto avevano saputo dalle guide, un tempo aveva abitato da solo un tipo molto strambo.

  Se un giorno, pensò Beard, avesse mai viaggiato verso un'altra galassia a bordo di una navicella spaziale, avrebbe presto provato una inconsolabile nostalgia per quelle persone, per i fratelli e le sorelle che aveva davanti a sé, e poi per tutti, ex mogli comprese. Si senti invadere dalla gradevole illusione di amare la gente. Tutti perdonabili, nessuno escluso. Tutti in qualche misura disposti a collaborare, ma anche egoisti, talvolta crudeli, ma soprattutto divertenti. Le motoslitte stavano attraversando il vallone stretto, scenario della sua vergogna, di un momento che era meglio seppellire nella dimenticanza.

  Preferiva ricordare la sua fuga elegante dalle fauci dell'orso assassino.

  Comunque, si, provava un insolito affetto per il genere umano. Pensò addirittura che potesse essere ricambiato.

  Ciascuno di noi, tutti quanti, destinati senza scampo ad affrontare individualmente l'oblio, eppure nessuno che si lamenti troppo. Come specie, non certo la migliore immaginabile, ma di sicuro la migliore, anzi, la più interessante fra quelle esistenti. Che dire tuttavia di quella condivisa vergogna che era lo spogliatoio.

  Questione di natura umana, era innegabile. E come illudersi di poter imparare la lezione e cambiare La scienza era certo una bella cosa, e chissà, magari anche l'arte, ma forse la soluzione non poteva risiedere nell'autoconsapevolezza.

  Occorrevano buoni sistemi organizzativi per fare in modo che delle creature fallaci potessero utilizzare correttamente uno spogliatoio. Meglio non affidare nulla alla scienza, all'arte, o all'idealismo.

  Solo delle buone leggi potevano salvare lo spogliatoio. Delle buone leggi, e dei cittadini che le rispettassero. Tali pensieri clementi verso gli altri e verso se stesso lo sostennero fino all'arrivo in albergo per il pranzo.

  Quanto tempo sembrava essere passato dall'ultima volta che erano stati li. Restituirono le tute da motoslitta e il resto dell'equipaggiamento, si congedarono da Jan e, in capo a un'ora erano in aereo diretti a Trondheim. Beard aveva un volo prenotato per Oslo su una compagnia diversa.

  Agli altri restavano ancora quattro ore d'attesa. Nello spazio limitato del piccolo aeroporto tutti parevano riluttanti a separarsi. Presero d'assalto il bar e, tra una birra e un hot dog, rispolverarono presto la loro musica, i cori e le lamentazioni sulla calamità globale. Fu li che Beard li andò a cercare per salutarli.

  Passò una ventina di minuti a scambiare indirizzi di posta elettronica e abbracci. Stella Polkinghorne lo baciò sulle labbra, Jesus gli diede il suo biglietto da visita. Mentre Beard usciva dal bar, gli tributarono un sonoro urrà, ricordandogli tutti insieme che, grazie alla sua disponibilità a svolgere lavoretti di poco conto sul ghiaccio e a fingersi interessato alle turbine eoliche, si era guadagnato un insolito livello di popolarità.

  Perfino l'ossuto romanziere se l'era stretto al petto rachitico. Beard sorrideva ancora tra sé e sé mezz'ora più tardi, mentre il suo bimotore sobbalzava sulla pista gelata e virava a sud per riportarlo all'inferno che era quasi riuscito a dimenticare.

  Si fermò a Oslo per la notte, anticipò la partenza alle sei del mattino e arrivò a Heathrow tre ore prima del previsto. Quando l'aereo si abbassò su Windsor Park diluviava, il cielo all'alba era di un nero verdastro e le auto sulle strade convergenti viaggiavano tutte con le luci accese.

  All'uscita dal terminal, mentre aspettava un taxi, seppe che un maxitamponamento aveva causato più di quindici chilometri di coda sulla statale M4, perciò fece dietrofront, scese a prendere un treno per Paddington e, solo da li, un taxi. Quando giunse davanti a casa, aveva smesso di piovere, ma i rami anneriti dei sorbi grondavano acqua sul marciapiede.

  Il taxi riparti e Beard, fermo con il bagaglio al cancello del giardino, si guardò intorno meravigliandosi che alle dieci di mattina di un giorno feriale, tra edifici tanto densamente popolati, non si vedesse anima viva, non si sentisse nemmeno una voce o il suono di una radio. Belsize Park non sembrava meno disabitata dell'Artico.

  Ed ecco casa sua, il contenitore di tutte le sue personali miserie, puro stile vittoriano di prima metà Ottocento, in mattone grigio di Londra, con finestre gotiche in pietra al pianoterra, eretta su un giardino d'inverno con la sua betulla spoglia al centro e il vecchio melo su un lato. Non erano tante le case londinesi a poter vantare una trentina di metri di terreno antistante, un vialetto in mattone sfogliato a spina di pesce che disegnava una breve curva fino alla porta d'ingresso, e muretti coperti di muschio a delimitare i confini.

  Dal punto di vista architettonico, era la migliore di tutte le sue residenze matrimoniali, e ora sarebbe toccato venderla, dividerne il contenuto come si dividevano i proprietari, non perché nel complesso non si piacessero, sebbene in quel preciso periodo Patrice potesse detestarlo, ma perché lui aveva avuto undici relazioni in cinque anni e lei una sola.

  Un punteggio iniquo, e ora dovevano vivere e soffrire nel rispetto di regole misteriose. Quando lo apri con una spinta, il cancelletto produsse il solito cigolio, che suonò più come clangore di un commiato. Beard era triste, ma aveva superato l'angoscia.

  La bella signora sul treno di cui non ricordava il nome, la visita a casa di Tarpin e la sua casta parentesi all'ottantesimo parallelo (nel frattempo era quasi completamente guarito) costituivano nuovi strati di una imbottitura di protezione.

  Per quanto in piccola misura, era un uomo diverso. Pieno di rimpianti, desolato di non conoscere il trucco per farsi amare da Patrice, ma rassegnato. Era sul punto di entrare e dare inizio allo smantellamento del palcoscenico del suo matrimonio. Intendeva incominciare a fare i bagagli il giorno stesso.

  Nel corso dei bui pomeriggi trascorsi sulla nave bloccata tra i ghiacci aveva avuto tempo di riflettere e aveva deciso che avrebbe portato via solo le sue cose personali. Lei poteva tenersi il resto, divani, tappeti, quadri, posate e, se fosse riuscita a convincere suo padre, direttore di una banca d'affari, ad acquistare la sua metà, perfino la casa. Beard intendeva rendere la separazione il più indolore ed efficiente possibile. Per quanto gliene importava, Patrice poteva pure sistemarsi con Tarpin.

  Non mancava di certo lo spazio, sul prato soffice antistante la villa, per una barca, un lampione e una cabina del telefono. Le ruotine del trolley facevano un ticchettio mesto sul vialetto d'ingresso. Il suo ultimo ritorno.

  Fu sollevato al pensiero che, essendo in anticipo, Patrice non sarebbe stata a casa a non salutarlo e a ignorare il suo arrivo, perché era venerdì, giornata completa di scuola e, nel pomeriggio, decine di bambini seduti a gambe incrociate si univano in cori stonati al suo pianoforte. Simili dettagli della vita di Patrice presto sarebbero finiti nel dimenticatoio, o gli sarebbero stati negati.

  Arrivato alla porta e chinatosi con fatica sul recente cordone di adipe addominale per rovistare nella valigetta e cercare la chiave, Beard notò un cambiamento.

  Il cestello metallico color panna che conteneva le bottiglie del latte ed era dotato di quadrante sul quale una freccina rossa informava il lattaio della quantità di prodotto richiesta per la giornata, non si trovava al solito posto.

  Qualcuno l'aveva spostato, o allontanato con un calcio, circa mezzo metro più a destra, lasciando sul gradino in pietra un vago segno rettangolare che ne ripeteva la griglia. Attualmente il cestello era riverso in diagonale e mostrava al muro il proprio lato comunicativo. Beard non lo mise a posto.

  A che scopo Ben presto si sarebbe trasferito altrove si immaginava un alloggetto dalle pareti bianche, libero da ogni ingombro, la sua personale Spitsbergen dalla quale si sarebbe inventato un nuovo futuro, avrebbe perso peso, sarebbe diventato agile e granitico nella sua determinazione a realizzare nuovi impegni, la cui natura restava per il momento da chiarire. Trovò la chiave, apri la porta e, già trascinando il bagaglio nell'ingresso, registrò una seconda differenza, un aleggiante sentore di trasformazione.

  L'aria era umida, tiepida, forse tutte e due le cose, e profumata in modo insolito. Ancora più evidente risultò il parquet bagnato, con una vergognosa pista di impronte, o di pozze delle dimensioni di un piede, che, dal fondo delle scale, conduceva al soggiorno. Qualcuno Tarpin senz'altro, l'essere eternamente in bagno era uscito sbadatamente dalla doccia, e si comportava come fosse a casa sua.

  D'impulso, senza altro pensiero che quello di sbattere fuori l'intruso, Beard segui la pista bagnata ed entrò nella stanza. Più chiaro di cosi non poteva essere: era infatti sul divano, coi capelli grondanti e la vestaglia addosso, la vestaglia di Beard, quella di seta nera a disegni cashmere, regalo di Patrice per un San Valentino, e stava seduto dritto, sbigottito, con il giornale aperto in grembo.

  Ma non era Tarpin quella fu la rettifica difficile da operare, un riordino mentale che richiese a Beard qualche secondo. L'uomo sul divano era Aldous, Tom Aldous, il ricercatore postdoc, il Cigno di Swaffham, dalla cui coda di cavallo si liberò una gocciolina che atterrò su un cuscino del divano mentre i due si fissavano in silenzio.

  Il processo di adeguamento psicologico di Beard fu rallentato da una serie di domande e risposte irrilevanti. Avrebbe mai voluto rimettersi addosso quella vestaglia Riteneva di no. Quante probabilità poteva avere di incontrare entrambi gli amanti di Patrice completamente fradici? Pochissime.

  Naturalmente il silenzio sembrò durare un po' di più del vero, e fu infine interrotto da Aldous con un risolino, una specie di nitrito nervoso che il giovane cercò di nascondere con la mano. Si era realizzato il suo massimo terrore.

  Forse c'era anche stata una frazione di secondo durante la quale si era detto che la sagoma di Beard sulla porta era una allucinazione, la conseguenza paranoide di una mente iperattiva. Ma ormai sapeva che le cose non stavano cosi.

  Forse, nel breve interludio che precedette l'inizio dello scambio tra i due, Aldous poteva anche aver scorto una seconda e più convincente apparizione: quella della propria carriera in frantumi. La fisica teorica era un villaggio, sul cui campo, là dov'era l'unico pozzo, Beard era ancora parecchio influente.

  Pensava forse Aldous, il genio cresciuto in serra all'interno del Centro, di potersi cavare fuori d'impiccio a parole? La mano che aveva utilizzato per soffocare la risatina si allungò verso il tavolino di cristallo davanti al divano.

  Accanto a una pila di riviste c'era una tazza da caffè alta, di fine porcellana bianca, parte di un servizio da sei che Patrice aveva acquistato da Henri Bendel, a New York. Aldous se la portò alle labbra. Se l'intento era quello di mostrare la propria disinvoltura o innocenza, il gesto risultò compromesso dal giornale che, scivolandogli dalle ginocchia, andò ad ammucchiarsi capovolto sul pavimento.

  Con gli occhi ancora fissi sul padrone di casa, Aldous bevve un sorso insolente di caffè. Beard fece un passo avanti. Metta giù quella tazza. E si alzi. Fu un bene che Aldous decidesse di ubbidire, perché Beard, con una spanna buona di statura in meno, i trent'anni in più e le braccia flaccide, non disponeva di strumenti fisici per imporre la propria volontà. Dalla sua aveva giusto la rettitudine, lo sdegno e tutta l'autorevolezza che può far capo a un cornuto.

  Mani sui fianchi e schiena dritta per non sprecare nulla del suo metro e sessantotto in tutto, Beard osservò Aldous alzarsi faticosamente e precipitarsi a riannodare il cordone della vestaglia sotto la quale per un attimo fu evidente che era nudo.

  Allora, signor Aldous. Ascolti, professor Beard, disse Aldous, abbassando le mani in un gesto conciliante, ne possiamo parlare.

  Possiamo darci del tu.

  No.

  La prego, cerchiamo di non assumere dei ruoli che altri hanno pensato per noi, quando... Beard fece un ulteriore passo avanti. Non gli passò neanche per la mente che si potesse arrivare alla violenza fisica, ma non gli dispiaceva dare l'impressione di pensarlo, invece. Che ci fa in casa mia? L'accento da profondo Norfolk parve all'improvviso adattarsi bene al particolare tipo di implorazione.

  In toni analoghi potevano in passato i fittavoli supplicare il signore feudale di ridurre i costi di locazione in tempi di carestia.

  Volevo solo finire il caffè, mi creda, vestirmi, riordinare e andarmene. Avrei chiuso a doppia mandata dall'esterno, come mi è stato detto di fare, e infilato la chiave nella cassetta delle lettere. Se non fosse rientrato prima, non ci sarebbe stato...

  Le ho chiesto che ci fa in casa mia. Utilizzando nuovamente le mani aperte in segno di disarmata sincerità, Aldous disse: Ho cenato con Patrice e mi sono fermato a dormire.

  Senta, professore, posso essere franco Si interruppe, come se aspettasse sul serio una risposta. Non ricevendola, prosegui: Lei e io siamo gente che apprezza la razionalità.

  Ci abbiamo costruito sopra una carriera.

  Perciò, non ci facciamo trascinare da reazioni a questo punto inadatte alle circostanze.

  Sappiamo tutti e due che il suo matrimonio è finito. Tecnicamente parlando, lei e Patrice siete marito e moglie, ma è da tempo immemorabile che nemmeno vi rivolgete la parola, e lei ora salta su a fare la parte del coniuge offeso, del marito furibondo che sorprende l'amante della moglie con le mani nel sacco, quando è probabile che stesse già pensando di trasferirsi.

  Questa almeno è l'impressione di Patrice, e di sicuro la sua speranza. Beard attese il resto. Quello che voglio dire, professor Beard (mi sentirei davvero meglio se mi permettesse di darle del tu), è che potremmo evitarci tutta la parte della rabbia e dello strazio, potremmo affrontare la situazione in modo pratico e rimanere addirittura amici.
Capisco .

  La domanda che poi rivolse ad Aldous gli si formulò in testa spontaneamente e, solo mentre la pronunciava, pensò che avrebbe potuto causare un danno proficuo o come minimo garantirgli un momento per riflettere.

  E Rodney Tarpin? Che gli è successo? Aldous stava riuscendo a suggerire l'impressione dell'uomo imperturbabile. Legò ancora una volta la cintura della vestaglia di Beard, senza fretta. Tarpin non mi fa paura.

  Ho anche registrato due sue telefonate e consegnato una sua cartolina alla polizia. Quell'uomo è uno squilibrato, ma se non altro non cerca di nasconderlo. Beard intervenne: Ha picchiato Patrice.

  Si, mostruoso, esclamò il giovane, scorgendo la possibilità di una causa comune che gli assicurasse l'alleanza del professore. Come avrà potuto fare una cosa simile a una donna cosi bella E mi ha anche aggredito.

  Mi ha colpito in faccia. Dovrebbe stare in galera. Quanto meno adesso se la prenderà con lei, e non con me. La polizia le ha offerto protezione? Beh, sa come vanno queste cose, hanno detto di avere molto da fare al momento.

  Il desiderio di vendetta produsse in Beard un fremito di eccitazione non dissimile dall'amore.

  Disse: Secondo me, è deciso a ucciderla.

  Fossi in lei girerei con un coltello; non che mi importi di quello che le succede, comunque. Nonostante gli sforzi di Beard, Aldous non sembrava spaventato da Tarpin. Si limitò a dire: Non mi fa paura, professor Beard. Immagino che Patrice gli avrà detto dove lavora... dove lavorava, voglio dire.

  L'impassibilità del giovane svanì all'istante. Tornò ad assumere il ruolo di supplice, di chi vede il proprio lavoro messo a repentaglio. Qh avanti, professor Beard. Sta prendendo la cosa troppo sul serio. Torniamo al punto. Siamo ragionevoli... Molto irragionevole, disse Beard, portarsi a letto la moglie del capo. Che diamine, la questione va posta in termini più profondi. Sono stato un idiota, so di avere ancora molto da imparare. Ma qui io mi riferisco a un potente substrato di logica...

  Beard scoppiò a ridere. Substrato! Era come osservare uno scacchista tentare di salvarsi da uno scacco matto in arrivo.

  Non aveva in mente una circostanza particolare, ma sapeva di essersi trovato in situazioni simili a sua volta, magari subito dopo che una moglie furibonda gli aveva demolito la sua ultima scusa, quand'ecco che lui, d'impeto, se n'era uscito con un colpo di genio, una mossa del cavallo lanciata nell'undicesima dimensione, una formidabile proiezione verso l'alto a partire dalla realtà piatta del gioco convenzionale. Sì, questa del potente substrato di logica gli piaceva.

  Si mise in ascolto.

  Aldous parlava trafelato. Tre settimane fa le ho sentito dire a uno del nostro gruppo che secondo lei, a parte la relatività generale, l'Equazione di Dirac sarebbe quanto di più bello la nostra civiltà abbia prodotto.

  Non sono d'accordo. Lei fa torto a se stesso. Non c'è niente che regga il confronto con la Conflazione, niente di più elegante, di più vero div questa elaborazione del fotovoltaico, professor Beard. E universalmente riconosciuto. Nessuno tuttavia l'ha ancora studiata a fondo dal punto di vista della scienza applicata, in riferimento alla crisi del mutamento climatico.

  Nessuno, tranne il sottoscritto. Io ho capito il potenziale del suo lavoro in relazione alla fotosintesi. Il fatto è che nessuno sa precisamente come funzionino le piante, al contrario di quanto si vuole far credere. Nessuno capisce davvero come i fotoni possano convertirsi tanto efficacemente in energia chimica.

  La fisica classica non è in grado di spiegarlo. Il discorso del trasferimento elettronico è un assurdo, non regge. Il modo in cui una qualsiasi foglia riesce a trasferire energia da un sistema molecolare all'altro rimane pressoché miracoloso. Ma proprio qui sta il punto: la sua Conflazione spalanca nuovi orizzonti.

  E la coerenza quantistica la chiave di questa efficienza, con il sistema che campiona tutti i percorsi energetici insieme. E per come si sta muovendo la nanotecnologia, potremo applicare questo processo al materiale giusto, e scomporre l'acqua a prezzi contenuti per poi immagazzinare idrogeno su scala domestica e industriale. Magnifico! Io però non sono niente, non sono nessuno.

  Voglio mostrarle le mie idee e, dopo che ci avrà dato un'occhiata, sono sicuro che si appassionerà. La gente la starà a sentire. La coerenza quantistica applicata alla fotosintesi non è una novità, ma adesso sappiamo anche dove guardare e che cosa cercare. Lei potrebbe guidare la ricerca, riuscire a farsi finanziare un prototipo. E troppo importante per lasciar perdere; è del nostro futuro, anzi del futuro del pianeta intero che stiamo parlando. Ecco perché non possiamo permetterci di essere nemici.

  Beard aveva fatto il pieno di discorsi sul pianeta intero di recente. Non aveva mai visto granché di buon occhio la tendenza della biologia ad arruolare la meccanica quantistica alla propria causa. E nutriva un pregiudizio irrefrenabile nei riguardi dei fisici che defezionavano in favore della biologia, tipo Schroedinger, Crick e compagni, gente convinta che il loro geniale riduzionismo avrebbe trascinato con sé il consenso unanime.

  A dirla tutta era proprio la flora in generale dal giardinaggio alle scampagnate nel verde, dai movimenti di protesta alla fotosintesi, passando per le insalate a non essere nelle sue corde. Quanto tempo è che si scopa mia moglie Aldous sospirò e parve sul punto di obiettare qualcosa.

  Poi invece si incassò nelle spalle, rassegnato. Più o meno da un mese dopo il nostro primo incontro.

  Dopo che io vi ho presentati. Esatto, professore. Lei era via per la notte, a Birmingham o forseManchester. Sono passato mentre tornavo a casa per vedere se a Patrice serviva qualcosa... E, in effetti. Ed ecco rispuntare il tono mellifluo, degno di un fittavolo medievale. Le giuro, professor Beard, che non avevo mire su sua moglie. E decisamente fuori del mio raggio d'azione.

  Manco ce l'ho, io, un raggio d'azione. Prima mi ha fatto entrare, poi mi ha invitato a cena: è cominciata cosi. Dopo mi ha anche detto che tra voi due era tutto finito, e io mi sono in un certo senso convinto che a lei...

  Che non mi avrebbe dato fastidio Beard già lo sapeva, eppure provò rabbia, anzi peggio, dolore sentendo per la seconda volta, ora per bocca di Aldous, Patrice sostenere che per lei il loro matrimonio era finito.

  Era dalla fine dell'estate scorsa che si incontrava con Aldous, non con Tarpin. O magari con tutti e due.

  Quel babbeo di un postdoc le si era presentato sulla porta di casa una sera d'agosto e lei aveva acchiappato al volo l'occasione di punire suo marito. Qualcuno le ha mai detto quanto è ingenuo, Aldous Il giovane accolse l'attributo con gioia. Ingenuo, si, professor Beard! Io mi occupo di scienza, e basta.

  Sono un ingenuo perché non frequento nessuno, non esco mai. Torno a casa e mi metto a lavorare nel monolocale di mio zio in fondo al cortile, spesso faccio mattina. Sono cosi da sempre. Il mio lavoro però è a sua completa disposizione. Le ho preparato un fascicolo apposta. Soltanto per lei. La prego, mi dica che lo leggerà.

  E importantissimo. Fino a quel momento i due uomini si erano affrontati a una certa distanza, con Aldous in piedi accanto al divano a braccia serrate, quasi volesse difendersi da una sorte avversa o impedire che la vestaglia di Beard potesse languidamente aprirsi. Beard cominciò a retrocedere.

  Era stanco di stare a sentire, voleva rimanere solo. Disse: Ora può andarsene. Domani vengo al Centro e voglio vederla alle undici nell'ufficio di Jock Braby. Mentre Beard attraversava la stanza, Aldous prese a implorarlo quasi gridando. Non mi darà più un lavoro nessuno. Lei lo sa, vero Questa faccenda è troppo importante per metterci di mezzo la vendetta personale. Quando giunse alla porta del soggiorno, Beard si voltò per dire:

  E prima di andarsene, ripulisca la schifezza che ha combinato nell'ingresso. Professore! Aldous stava per corrergli incontro a braccia tese, scuotendo la testa in segno di diniego, con le labbra tese sui dentoni; probabilmente intendeva gettarsi in ginocchio davanti a Beard e implorare pietà.

  E l'avrebbe di certo ottenuta, visto che Beard non aveva il minimo desiderio di spiattellare davanti a Braby e di conseguenza davanti a tutto il Centro la propria umiliazione domestica. Il Grande Capo tradito, fatto fesso da una delle code di cavallo.

  Aldous tuttavia non avrebbe mai raggiunto Beard, perché la sua avanzata non superò il paio di metri di corsa. Ad aspettarlo c'era il tappeto d'orso polare steso sul pavimento lustro. Prese vita.

  Mentre il piede destro di Aldous atterrava sulla schiena dell'orso, la bestia balzò avanti a fauci spalancate affondando in aria le zanne gialle.

  Le gambe di Aldous spiccarono il volo e ci fu un momento in cui la sua considerevole lunghezza viaggiò parallela a terra; dopodiché, le gambe schizzarono ancora più in alto e, benché le braccia si agitassero d'istinto verso il basso per attutire la caduta, fu la sua nuca a stabilire il primo contatto, non già con il pavimento e nemmeno con il bordo del tavolino di cristallo, bensì con lo spigolo smussato di quest'ultimo che si andò a conficcare con forza tra capo e collo.

  Un silenzio intenso e opprimente calò nel soggiorno; passarono parecchi secondi. No, no, ti supplico, no, mormorò Beard attraversando la stanza.

  Aldous era lì, lungo e disteso sul pavimento di legno come fosse stato composto da un becchino, con le braccia quasi accostate al torso, gli occhi spalancati, le labbra socchiuse e la vestaglia pudicamente allacciata.

  Beard si inginocchiò accanto alla spalla del giovane. Non respirava, il polso era assente. Sotto la testa aveva un'aureola di sangue di una trentina di centimetri, che per qualche ragione non si stava allargando.

  Poi Beard notò che il sangue filtrava, o meglio scorreva copioso negli interstizi dell'assito.

  Sarebbe bastata l'emorragia a condannare Aldous a morte. Oh cazzo... oh cazzo... sussurrava nevroticamente Beard tra sé e sé.

  Era successa una cosa impossibile che lui cercava ora di annullare con la volontà, di revocare, di disdire per il semplice fatto che non poteva essere così. Troppo improbabile. Eppure, con il passare dei secondi, la nuova realtà progrediva, facendo da parte ogni suo sforzo e guadagnando spazio. Era vero. Beard pensò anche a quel che in teoria avrebbe dovuto fare: massaggio cardiaco, respirazione bocca a bocca.

  Come tutti coloro che lavoravano in laboratorio, anche a lui era toccato imparare quelle tecniche. Tuttavia, al riparo oltre i confini della sua angoscia, qualcosa di immobile e al tempo stesso di autorevole, più una presenza, si sarebbe detto, che una voce, gli suggeriva di non toccare il corpo. Si alzò e si diresse al telefono.

  Tremava.

  Il silenzio fermo di Belsize Park si addensò, mentre la sua mano esitava sul ricevitore. La stessa presenza assennata gli propose di valutare attentamente se comporre o no il numero. Di norma Beard non era un indeciso.

  Che cosa gli stava succedendo? Si senti la mano indolenzita. Gli ci vollero alcuni minuti prima di mettersi al passo con il suo stesso buonsenso e interpretare la situazione come avrebbero potuto fare gli altri. Ecco come appariva: un uomo torna da un viaggio all'estero e trova in casa l'amante della moglie. Tra i due nasce un alterco. Venti minuti più tardi l'amante è morto in seguito a un colpo violento alla nuca. E scivolato, ve l'ho detto, è scivolato sul tappeto mentre correva verso di me. «Ah si? E come mai la vittima correva, Mr Beard?» Per gettarmi le braccia intorno alle ginocchia e implorarmi di non farlo licenziare, e supplicarmi di collaborare con lui a salvare il pianeta dal cambiamento climatico. Qualcuno avrebbe potuto mostrarsi scettico.

  «Per l'ultima volta, Mr Beard, è stato lei a sporcare di sangue l'angolo del tavolino? E come si è liberato dell'arma del delitto, Mr Beard» Sarebbe costata parecchio la tesi dell'innocenza. Avrebbe dovuto combattere per guadagnarsela. L'interesse dei media sarebbe stato devastante. Sesso, tradimento, violenza, una bella donna, un eminente scienziato, un amante defunto: perfetto. Patrice, in buona o cattiva fede, sarebbe stata la sua prima accusatrice.

  Due anni a non pensare ad altro. Ecco il Premio Nobel, il cervellone in odore di calvizie, il luminare incaricato dal governo, alla sbarra, costretto a lottare per tenersi fuori di galera. Al pensiero, Beard si senti le gambe deboli, come se gli cedessero i tendini dietro le ginocchia, ma non si sedette. Era evidente. Gli avrebbe creduto solo chi lo amava. E non lo amava nessuno. Gli ci sarebbero voluti dei figli, delle figlie già adulte, pronte a indignarsi per lui, a difenderlo. Attraversò la stanza dirigendosi verso l'ingresso ma tornò indietro. Non sapeva cosa fare.

  Poi lo seppe. Lasciò il soggiorno e raggiunse l'ingresso, scavalcò con prudenza la scia di impronte bagnate ed entrò in cucina dirigendosi al cassetto dove stavano i rotoli di alluminio, pellicola trasparente e carta da forno. Nello stesso cassetto c'era anche una confezione di guanti di gomma monouso.

  Ne estrasse un paio.

  Non c'era nulla di criminale in quel gesto, ma appena ebbe infilato le mani nei guanti, un senso di invisibilità, di invincibilità si impossessò di lui, dell'intero suo corpo.

  Uno stato mentale, senza dubbio, ma ne conosceva altri per caso.

  Non aveva un piano, si limitava ad agire. Era il suo corpo ad avere un piano. E Beard lo eseguì come se si trattasse di un esperimento, con la convinzione di poterlo revocare a ogni passo, di poter ricominciare tutto da capo, senza perdere né compromettere nulla. Ogni suo movimento obbediva a un semplice principio precauzionale.

  Poteva sempre tornare al telefono, poteva chiamare il pronto intervento. Ma giusto nel caso non l'avesse fatto, era necessario essere preparati. Pur nel suo delirio, ragionava lucidamente. Dalla porta sul retro in cucina entrò nella dispensa cieca dove tenevano lampadine e ciarpame vario di casa. Eccola là, esattamente nello stesso posto, la lurida sacca di tela con dentro gli attrezzi. Ne rovesciò il contenuto e, tra i tanti, trovò un martello con la testa sottile che gli parve fare al caso suo.

  Mentre frugava, individuò altri oggetti che pensò potessero tornargli utili. Il pettine, il fazzolettino usato, il torsolo di mela rattrappito. Sistemò la sacca in modo che sembrasse intonsa, tornò in cucina con i quattro articoli e li mise dentro una borsa di plastica. Poi strappò parecchi pezzi di carta da cucina e ne inzuppò alcuni nell'acqua; stava per rientrare in soggiorno, quando cambiò idea.

  Tornò in dispensa, prese la sacca degli attrezzi e andò a posarla nell'ingresso davanti alla porta. Tom Aldous non era cambiato ma, inginocchiandosi accanto al cadavere, Beard trovò macabro il ghigno immobile del tappeto.

  Ciascuno dei duri occhi vitrei della bestia specchiava in un parallelogramma convesso una finestra del soggiorno, e aveva assunto un'espressione assassina. Era dagli orsi polari morti che ti dovevi guardare. Beard estrasse dalla borsa di plastica i quattro oggetti e li dispose in bell'ordine, fissando l'avanzo di torsolo secco e chiedendosi in che modo potesse servirgli. Non riuscendo a escogitarne un utilizzo, lo ritirò nel sacchetto. Mentre prendeva in mano il martello capi che i suoi calcoli riguardo al principio precauzionale, vale a dire alla possibilità di ricominciare da capo, dalla telefonata, erano completamente sbagliati. Ciò che stava per fare non poteva essere revocato.

  Avrebbe significato lasciarsi la propria innocenza alle spalle. Intinse la testa del martello nella pozza di sangue, sporcò il manico e mise l'attrezzo da parte ad asciugare. Poi prese il fazzolettino usato e macchiò pure quello, prima di spingerlo sotto il divano, ben lontano dalla vista. Col pettine la faccenda fu più complicata, come aveva previsto. Ne trasse dai denti alcuni capelli che in parte riuscì a infilare tra le dita di Aldous. I capelli si appiccicarono ai guanti, ma Beard non si preoccupò.

  Ormai la testa del martello era asciutta per metà e catturò un capello senza fatica, come fece anche il manico. Beard depose un altro capello sul bracciolo della poltrona. Poi con lo strofinaccio da cucina ripulì e asciugò bene il bordo e l'angolo del tavolino di cristallo, anche se già non vi si scorgeva traccia di sangue, a occhio nudo. Finalmente si alzò e si chiese se stesse per caso commettendo qualche errore banale.

  Finora no.

  Mise martello, pettine e strofinaccio dentro il sacchetto di plastica e si diresse alla porta di casa. Senza sfilarsi i guanti, percorse pacatamente il vialetto d'ingresso e si fermò al cancello a guardarsi intorno.

  Non c'era nessuno. Estrasse il martello, lo gettò nei cespugli presso il muro della facciata e rientrò in casa, si tolse i guanti e li ritirò insieme al torsolo, al pettine e alla carta da cucina, poi avviluppò il sacchetto in modo che non spuntassero i manici sporchi di sangue e lo cacciò in uno scompartimento esterno del trolley, con chiusura a cerniera.

  Per quanto riusciva a vedere, non c'era traccia di sangue sulla sua persona, né sulle scarpe, né sui vestiti. Prese il trolley e la sacca degli attrezzi e uscì di casa, tirandosi dietro la porta con un piede.

  Grazie al costante processo di residenzializzazione di Belsize Park non ebbe difficoltà a trovare un cassonetto entro poche centinaia di metri. Ci buttò dentro la sacca. Pochi minuti dopo era a Haverstock Hill e saliva su un taxi, diretto a Portland Place. Riteneva che il suo stato di imperturbabilità fosse dovuto allo shock subito e che si sarebbe presto dissolto. Sperava perciò di incontrare prima qualcuno che lo riconoscesse.

  Il taxi lo lasciò davanti all'istituto di Fisica, di cui era stato un tempo vicepresidente; prima di entrare si liberò del sacchetto di plastica gettandolo in un cestino dei rifiuti. Dentro l'istituto, andò tutto più o meno come aveva sperato.

  Aveva qualche piccola commissione da sbrigare e si intrattenne a conversare con un impiegato dell'amministrazione che lo conosceva di vista. Beard raccontò di essere stato a Spitsbergen e poi, come per caso, aggiunse che arrivava direttamente in taxi da Heathrow e che era stato bloccato in un ingorgo.

  L'impiegato si mostrò solidale. Acconsentì a tenere d'occhio il bagaglio mentre Beard si recava alla British Library.

  Sul taxi che lo portava a Euston Road, come indipendenti dal resto del corpo, le gambe gli si misero a tremare.

  Comunque, riuscì ad attraversare il cortile antistante la biblioteca come un qualunque studioso, quindi entrò nell'edificio e si trovò un box di lettura. Richiese certi documenti del materiale storico relativo a una conferenza che doveva preparare e ci sudò sopra per svariate ore, in attesa che si facessero grosso modo le quattro e un quarto, quando prevedeva che avrebbe sentito il telefono vibrargli in tasca.

  Chino sulle sue carte, non lesse una riga, ma si impose di prendere qualche appunto scritto. Era sbigottito da quanto era accaduto.

  Ogni volta che ci tornava, il pensiero sembrava inedito. Si meravigliava di quanto aveva fatto e di aver agito con tanta flemma, d'istinto, comportandosi come un assassino che rimuova le proprie tracce, mentre cancellava anche la verità che avrebbe potuto salvarlo. Adesso c'era dentro fino al collo, unico testimone della propria innocenza.

  Di fatto, anche mentre credeva di agire con lucidità, si era lasciato prendere dal panico. Che ne sapeva uno come lui di indagini della scientifica.

  Come minimo non era escluso che le impronte digitali fresche di giornata, le sue, fossero notevolmente diverse da quelle che aveva lasciato in giro nelle settimane e nei mesi precedenti. In tal caso, si sarebbe potuto accertare che quella mattina lui era stato in casa, e cosi sarebbe diventato sospettabile.

  Quali altri errori aveva commesso, quali invisibili vicini avevano osservato da una finestra il suo arrivo o la sua partenza?

  O l'avevano magari visto gettare qualcosa dentro il cassonetto Aveva fatto bene a portarsi via la sacca degli attrezzi Quando si era chinato sul corpo di Aldous chissà quale pioggia di frammenti di epidermide e peli e altri composti microscopici poteva essersi riversata sul giovane, e sulla vestaglia. Ma la vestaglia era sua, già ricettacolo di tracce organiche della sua esistenza. Niente di grave, dunque.

  Se la casa era piena di indizi che portavano a lui, quella sarebbe stata la sua copertura. Sempre a patto che non si potesse datare un'impronta digitale. Da qualche parte, sugli scaffali di quell'edificio, dovevano esserci migliaia di testi in grado di fornirgli una risposta, ma Beard non osava richiederne neanche uno.

  Ormai non avrebbe fatto nessuna differenza in ogni caso. Alle tre e cinquanta si alzò indolenzito dalla sua postazione privata e raggiunse il caffè della biblioteca dove avrebbe atteso la telefonata che sapeva in arrivo.

  Passò il tempo preparandosi e cercando di ricordare i fatti di cui doveva mostrarsi all'oscuro: che Aldous si trovasse in casa sua, che fosse l'amante di Patrice, che fosse morto. Poteva forse esserci un quarto dettaglio che doveva fingere di non conoscere, ma era troppo nervoso per farselo tornare in mente.

  Magari ce n'era addirittura un quinto. Concentrarsi non era facilissimo, perché la solenne biblioteca e le sue sale non erano più l'ambiente serio e silenzioso di un tempo. Il caffè pullulava di ragazzi, studenti universitari. Giacche e zaini ingombravano i passaggi tra i tavoli, mentre i giovani si aggiravano negli spazi aperti al pubblico, sulle ampie scalinate, ridendo e chiacchierando in un tono di voce naturale e rilassato. Magari era una specie di giorno di visita per le scuole. L'atmosfera era da sala di ricreazione in una università moderna: mancavano giusto il bar, il flipper e il tavolo da pingpong.

  A Beard stava benissimo la sensazione di anonimato tra la folla, ma poco mancò che si perdesse la telefonata quando alla fine arrivò, con un'ora di ritardo rispetto ai suoi calcoli, mentre lui ancora non era riuscito a ricordare la quarta e quinta cosa che doveva fingere di non sapere. Gli toccava fidarsi di se stesso e fare conto che quei dettagli non esistessero. Patrice disse: Dove sei? La sua voce era spenta e, nonostante tutto, Beard non potè reprimere una certa sciocca speranza: finalmente, a Patrice importava di sapere dove fosse. Glielo disse e poi chiese: Che succede? C'è qui la polizia.

  Devi venire a casa. Beard disse: Patrice, che sta succedendo? Lei aveva appoggiato la mano sul ricevitore. Beard udì il mormorio di una voce maschile, poi di nuovo Patrice che diceva: Vieni a casa e basta. Sono venuti i ladri Ancora un vociare tutto intorno. Dovevano esserci decine di persone in casa. Patrice stava per ripetersi con inflessione monotona, quando diede in un grido improvviso, come se l'avessero pugnalata a un braccio e, mescolando l'urlo al pianto, disse: E stato Rodney, ha ammazzato qualcuno... ma la voce di un uomo si intromise chiamando: Mrs Beard... e subito dopo, la comunicazione fu interrotta.

  Beard tornò alla saletta privata a radunare gli appunti che si era preso la pena di scrivere, poi attraversò di corsa il cortile della biblioteca, superò il Newton di Eduardo Paolozzi e soltanto quando si ritrovò già in strada, nell'atto di sollevare il braccio per chiamare un taxi, gli tornò in mente quello che aveva deciso di fare ore prima: sarebbe stato meglio presentarsi a casa con il bagaglio.

  Chiese al taxi di aspettare su Portland Place ed entrò all'istituto per ringraziare l'impiegato. Durante il tragitto verso Belsize Park, Beard si chiese se quel passaggio vale a dire non precipitarsi subito a casa, ma fare la deviazione per andare a ritirare la valigia potesse essere uno dei dettagli, la quarta o la quinta cosa, che si sarebbe dovuto ricordare. Ma non riuscì a venirne a capo. Fu interrogato a lungo in quattro diverse occasioni, e la sua ultima testimonianza non si discostò minimamente dalla prima.

  Quando si è sottoposti alla intensa pressione di un interrogatorio di polizia, l'onestà si rivela uno strumento inattaccabile e, come uomo di scienza, Beard nutriva un innato rispetto per la coerenza interna di una dichiarazione. La verità era imbattibile. Nessun bisogno di ricordare che cosa si è detto la volta precedente, se si ha la possibilità di riandare direttamente alla fonte.

  Perciò, si, il volo del mattino presto da Oslo lo aveva portato a Heathrow entro le otto. Si era subito messo in coda per un taxi e poi ecco la sua unica menzogna, perché tutto il resto era semplice omissione aveva accumulato un notevole ritardo sulla M4, con la conseguenza che fino a metà mattina non era riuscito a raggiungere Portland Place. Comunque, aveva preso moltissimi taxi da Heathrow in vita sua, si era trovato in tanti ingorghi ed essendo la memoria molle come cera, presto l'invenzione gli si scrisse nella mente come un ricordo autentico, vago e sicuro al tempo stesso. Aveva davvero la sensazione di aver perso un'ora nel traffico.

  Che cosa aveva fatto durante il lungo tragitto in taxi? Aveva letto l'articolo di un collega che doveva recensire.

  Concentrazione assoluta. Non aveva mai alzato gli occhi per controllare se il blocco si fosse verificato sulla corsia di transito, su quella di sorpasso, o chissà che altro. Il resto era verità nuda e cruda: la tappa all'istituto.

  La giornata di lavoro in biblioteca interrotta alla fine dalla telefonata di Patrice nel momento in cui, per caso, aveva deciso di concedersi una pausa. Con amara sincerità ammise di aver saputo della relazione della moglie con Mr Tarpin e di averne sofferto. Tuttavia, lui stesso aveva avuto svariate relazioni: quello era purtroppo il loro genere di unione matrimoniale, un'unione peraltro probabilmente agli sgoccioli. Attenendosi ai fatti, Beard riferì dell'occhio nero di Patrice, della propria visita domenicale a Cricklewood, dello scontro con Tarpin e del manrovescio ricevuto e concluse che, non essendo un uomo avvezzo alla violenza, se n'era poi andato di corsa per ragioni di sicurezza personale.

  Superando un certo imbarazzo, fornì all'ispettore incaricato delle indagini un dettagliato resoconto del pomeriggio in cui aveva presentato Tom Aldous a sua moglie aggiungendo che, no, non aveva notato nulla di insolito tra i due, né aveva sospettato che mentre lui eia in viaggio al Polo e chissà, magari anche da mesi prima, Patrice stesse andando a letto con Aldous. Inoltre, si, ovvio, conosceva il ragazzo, un giovane scienziato di talento che spesso lo andava a prelevare alla stazione ferroviaria di Reading.

  No, non del genere che sta sempre simpatico.

  Troppo narcisista, limitato, maldestro in compagnia. Del resto molta gente rispondeva a quella descrizione, nel suo ambiente. A dispetto di tante verità, gli interrogatori furono logoranti, il primo addirittura lo terrorizzò, perché Beard non poteva avere la certezza che nessuno lo avesse visto entrare in casa alle dieci per poi uscirne quarantacinque minuti più tardi.

  L'ansia tuttavia fu facilmente tradotta in una presunta e comprensibile condizione di stress. Le cose si fecero più tranquille nel corso dei successivi tre incontri che ebbero tutti luogo dopo l'arresto di Tarpin, anche se occorreva comunque una discreta dose di concentrazione. A una settimana dall'inizio della vicenda, Beard lesse sul giornale la prevedibile buriana infuriava: c'erano fotografi appostati al cancello del giardino tutto il giorno e gran parte della notte che la mattina della morte di Aldous nessuno aveva visto Tarpin. La pioggia intensa aveva trattenuto il muratore in casa da solo, privandolo di un possibile alibi fornito dai colleghi.

  Quella fu senz'altro una scoperta confortante.

  Come pure le fughe di notizie che dalla polizia raggiunsero la stampa, a proposito della cartolina minatoria spedita da Tarpin ad Aldous e delle due telefonate che il giovane aveva con tanta saggezza registrato.

  Gli ultimi due interrogatori di Beard si ridussero a mere formalità, una sorta di riepilogo di dati rimasti in sospeso, come gli assicurarono sorridendo gli inquirenti. Sembrava ormai chiaro che la polizia aveva messo le mani sul colpevole. Beard firmò la propria dichiarazione con uno svolazzo.

  Al Centro, tuttavia, Jock Braby non fu altrettanto soddisfatto. Beard si recò a parlargli a otto giorni dall'accaduto, subito dopo il terzo interrogatorio. Optò per la macchina, preferendo evitare di essere seguito in treno fino a Reading dalla stampa. Il ruolo di vittima sventurata, di svagato e tonto sognatore con moglie intraprendente e irriducibile al fianco, aveva fatto di lui un oggetto di particolare interesse.

  Alla sbarra d'ingresso del Centro lo aspettava un branco di cronisti mentre, al passaggio dell'auto, gli addetti alla sicurezza, molto colpiti e solidali, si precipitarono a tributare a Beard vigorosi saluti militari portandosi le dita alla visiera. I due uomini bevvero un tè nell'ufficio di Braby, e Beard gli raccontò tutta la storia fino all'ultimo dettaglio, come aveva fatto con la polizia.

  II malumore di Braby andò visibilmente aumentando, mentre indicava un punto vago al di là del muro, in direzione dei cancelli d'ingresso. Questa storia non mi piace, disse più di un paio di volte, per poi dare inizio a un lungo discorso farraginoso pieno di tentennamenti, ripetizioni collusioni a concetti quali «accesso ai fondi», «reputazione», «fare un passo indietro» e «mostrarsi disponibili», grazie ai quali, nel giro di una decina di minuti, divenne chiaro, o diciamo meno oscuro, che Braby voleva le dimissioni di Beard, ma fu solo dopo un paio di accenni al «fronte domestico» che si chiari il riferimento a Mrs Braby e, con lei, alla possibilità di compromettere da una parte la nomina a cavaliere e dall'altra una certa dose di tranquillità familiare.

  Pur essendo, in teoria, un inferiore, Braby gli stava chiedendo di farsi da parte! Beard doveva per caso considerarsi colpevole del fatto che un amante della moglie ne avesse fatto fuori un altro Ma riuscì a mascherare la sua estrema indignazione, fingendo di fraintendere. Jock, lasciali dire quel che vogliono al ministero in questo momento, ma non fare la cazzata di dimetterti.

  Ce la metto io, una buona parola. Tu per un paio di mesi non alzare la testa e vedrai che verrà messo tutto a tacere. Date le circostanze, Braby non ebbe altra scelta che quella di cambiare argomento.

  Parlarono di Aldous e si trovarono d'accordo nell'antipatia che il giovane ispirava a entrambi, pur riconoscendo che per il Centro sarebbe stata una perdita. La polizia aveva perquisito il suo stanzino senza trovare niente di interessante relativo al caso. Qualche oggetto personale era addirittura già stato spedito nel Norfolk, al padre sconvolto dal dolore. Braby disse: Michael, c'era un fascicolo per te, classificato come strettamente personale. L'ho controllato bene. Tutta chimica inorganica, calcoli matematici, vaneggiamenti, direi, e per di più fatti durante l'orario di lavoro . Gli consegnò un grosso fascicolo. Beard lo prese e si alzò, per fare intendere che la conversazione era finita.

  Dopo tutto, era ancora lui il Grande Capo.

  Braby lo accompagnò per un breve tratto di corridoio. Credo che potremmo onorare la sua memoria realizzando il suo coso, sai, la microturbina eolica. Glielo dobbiamo proprio. Ah, già, disse Beard. Certo.

  Sarà il suo monumento. E si separarono con una stretta di mano. E del matrimonio, che ne fu.

  Dopo la rimozione del cadavere e l'uscita di scena della polizia scientifica, quando la casa cessò di essere luogo del delitto e i giornalisti smisero di accalcarsi al cancello del giardino, almeno per il periodo che precedette il processo di Tarpin, mentre una squadra di operai assunti da Beard si occupava di levigare e lucidare il parquet del soggiorno per eliminare la chiazza profonda di sangue, Michael e Patrice fecero momentaneamente ritorno dai rispettivi alloggi alla casa coniugale che occorreva sgomberare e mettere in vendita prima della separazione.

  Furono giornate assolate di marzo, ma con un vento talmente forte da pettinare l'erba alta del prato in una distesa argentea e da ammucchiare contro i muretti muschiosi del giardino le vecchie foglie che nessuno aveva rastrellato.

  Un clima tonificante e purificatore, almeno per Beard. Fedele al proprio progetto e con soddisfazione di Patrice, Beard rinunciò alla sua parte di beni contenuti nella casa l'elenco era di una lunghezza insopportabile e si prese giusto i libri, gli abiti e alcuni oggetti personali.

  Non solo intendeva perdere peso e tornare a essere un uomo asciutto e prestante; si proponeva anche una più snella qualità di vita, nel sobrio appartamento che ancora doveva trovarsi. A rendere tutto più semplice contribuiva naturalmente il venir meno del suo amore, o della sua ossessione, per la moglie.

  Nel corso di una delle loro sporadiche conversazioni, le spiegò che la sua condotta amorosa aveva prodotto solo distruzione e sofferenza a un povero padre malato di Swaffham, oltre che privato l'intera nazione di uno dei suoi scienziati più promettenti. L'aspetto che lo sbalordiva era quanto lui stesso si andasse convincendo della verità del racconto in cui tutti credevano, e come fosse in grado di evocare con disinvoltura emozioni e ricordi compatibili con quella versione.

  Non era forse vero che, se Patrice non avesse avuto una relazione con Tom Aldous, il giovane sarebbe stato ancora vivo? E non era forse altrettanto probabile che Tarpin avrebbe voluto Aldous morto Beard non aveva alcun bisogno di fingere: era sinceramente rincresciuto del gesto commesso da Tarpin, e riteneva sacrosanto chiederne conto a Patrice. Sua moglie gli doveva delle scuse.

  Manco a dirlo, lei la vedeva in modo diverso. In gramaglie per la perdita di colui che riteneva ormai l'amore della sua vita, pensava che le sue scuse fossero dovute unicamente all'uomo che non poteva più udirle.

  Non si perdonava di aver introdotto Tarpin nella vita di Aldous, di non aver saputo proteggere il giovane, di non aver preso più seriamente le minacce. Inoltre tutta la fatica di imballaggio e trasloco dei mobili gravava sulle sue spalle, perché lei invece voleva ogni cosa, compresi il tappeto e il tavolino che il caso aveva trasformato in responsabili della morte del suo amante.

  Si aggirava per casa muta e afflitta, passando in rassegna i vari elenchi con inebetita efficienza. Il marito le era tutt'al più estraneo, anche se Beard sospettava che Patrice ora lo odiasse per ragioni imprecisate, o senza buone ragioni del tutto. Il suo silenzio, comunque, era preferibile alla micidiale allegria con la quale aveva cercato di annientarlo ai tempi di Tarpin. Beard non aveva voglia di aiutarla a mettere in ordine cose che ormai erano sue, ma si rendeva utile in altri modi.

  Dal momento che tra loro non esisteva controversia sul piano legale, suggerì di fare ricorso a un unico avvocato. Ne conosceva uno in gamba. E conosceva anche l'agente immobiliare giusto a cui affidare la vendita della casa. Era un esperto in quel genere di operazioni. Se ne andò per primo, trasferendosi in un seminterrato in affitto in Dorset Square, sul lato settentrionale di Marylebone Road e fu lì che, tre mesi più tardi, stravaccato su un lurido divano a fiori che puzzava di cane cominciò a leggere il fascicolo classificato «Per il professor M. Beard. Strettamente personale».

  Roba noiosa, chimica organica e inorganica, intrecciata ad alcuni concetti di informatica quantistica e a certe sottosezioni più oscure della Conflazione. Tali elementi miravano alla descrizione dello scambio energetico che si verifica nella fotosintesi. L'intenzione doveva essere quella di arrivare a suggerire, nelle pagine successive del fascicolo, che il processo poteva essere in qualche modo imitato e adattato, ma l'attenzione di Beard cominciò a venir meno, in primo luogo perché il materiale era inaccessibile, poi perché doveva occuparsi di comprare un appartamento e infine perché, a cinque mesi esatti dal giorno della morte di Tom Aldous, ebbe inizio il processo contro Rodney Tarpin.

  Non aveva la minima possibilità di cavarsela, e sembrava che lo sapesse. Il pubblico ministero espose il caso quasi in tono di scuse: l'ovvio movente di Tarpin, le minacce telefoniche e scritte, la comprovata indole violenta, i capelli sull'arma del delitto gettata nella siepe, nonché nella mano della vittima, il fazzolettino contenente tracce disidratate tanto del suo muco nasale quanto del sangue di Aldous, la mancanza di un alibi.

  Quando arrivò il suo turno, Beard andò dritto al punto. Non era forse un cittadino rispettoso della legge Forni un resoconto dettagliato dei propri movimenti la mattina in questione, poi dell'occhio pesto della moglie, della sua visita all'abitazione dell'imputato e delle percosse ricevute.

  La situazione di Tarpin era già abbastanza compromessa, ma a dargli il colpo di grazia fu Patrice, convocata a deporre dall'accusa. La stampa ne riportò la presenza al banco dei testimoni descrivendola come una donna bellissima e micidiale, carica di disprezzo nei confronti dell'uomo che aveva ucciso il suo amante. Dovendo testimoniare a sua volta, Beard non ebbe accesso al tribunale durante la deposizione della moglie e dovette accontentarsi di leggere la relativa rassegna stampa. Non l'avrebbe mai detta capace di parlare così bene, con tanta chiarezza e vigore. Seppe incantare i presenti in aula come l'intera nazione, con il suo ritratto della brutalità e della gelosia morbosa di Tarpin, delle sue incontenibili ire.

  Era un maniaco, disse, un pazzo visionario, ed era arrivato a chiederle di uccidere Aldous nel sonno alla prima occasione. Si rifiutava di restituirle la sua libertà, cosicché quella che per lei doveva essere una relazione breve e occasionale si era trasformata in un incubo della durata di mesi. La violenza di lui la terrorizzava, ma non aveva il coraggio di negarglisi sessualmente.

  La picchiava durante l'amplesso. E questo a lei non dà piacere, Mrs Beard? le domandò il damerino che difendeva Tarpin, nel corso del controinterrogatorio. No, ribatté secca Patrice. A lei si Dal pubblico in balconata giunse uno scroscio di risa.

  Ma le sue parole più celebri, quelle più frequentemente riportate dalla stampa, doveva essersele provate davanti allo specchio. L'assassino del mio Tommy ha privato il paese di un genio, disse, e me dell'unico uomo che io abbia mai amato. La giuria si ritirò in camera di consiglio per tre ore appena e nessuno, compreso lo stesso Tarpin, potè sorprendersi del verdetto. Fu durante i sei giorni di intervallo tra l'annuncio del primo giurato e la sentenza pronunciata dal giudice che Beard riprese in mano il fascicolo di Aldous. Era il meno che potesse fare per onorare il defunto, e poi si sentiva agitato, aveva bisogno di distrazione. Tornandoci sopra per la seconda volta, cominciò a capirne di più, a interessarsi, perfino a entusiasmarsi, in certa misura.

  Il compito che Aldous si era assegnato era di scoprire, e quindi ricostruire, il comportamento delle piante, perfezionato empiricamente in tre miliardi di anni di processo evolutivo. Impegnando tecniche e materiali di cui si parlava solo in nanotecnologia, l'intenzione era di sfruttare direttamente l'energia solare per dissociare l'acqua in idrogeno e ossigeno, utilizzando speciali tinture fotosensibili al posto della clorofilla, e catalizzatori contenenti calcio e manganese. I gas immagazzinati sarebbero stati assorbiti da una cella a combustibile allo scopo di produrre elettricità. Una seconda idea, analogamente derivata dalla vita delle piante, era di combinare il biossido di carbonio presente nell'atmosfera con l'acqua e la luce solare per ottenere un combustibile liquido multiuso. Tutto ciò era geniale, o folle Beard non sapeva decidere.

  Intestando ogni pagina con la data dell'anno precedente, cominciò a buttare giù qualche appunto personale, ma dovette interrompersi perché l'indomani, martedì, si riuniva la corte e l'imputato avrebbe conosciuto il proprio destino. Tarpin ascoltò il giudice con lo stesso distacco assorto e sognante con cui aveva seguito tutte le udienze e con cui, senz'altro in modo troppo sommesso, si era dichiarato innocente.

  Secondo i giornali, aveva sempre fissato in direzione di Patrice (Beard non ebbe difficoltà a immaginare il suo sguardo indiscreto, da roditore), la quale invece aveva ostentatamente rivolto la faccia altrove.

  Sulla scalinata del tribunale, Patrice dichiarò ai cronisti di stampa e televisioni che la sentenza non era abbastanza severa, considerato il danno commesso. Nel corso della settimana, alcuni commentatori si dissero d'accordo con lei, mentre altri ritennero il verdetto troppo inclemente per un delitto che in Francia si sarebbe potuto definire passionale. Tuttavia quella sera, sdraiato sul divano fetido in mutande e calzini davanti al televisore, nel ritrovato degrado del suo appartamento da scapolo, con le pagine di Tom Aldous in grembo, Beard valutò che sedici anni fossero grosso modo il giusto.