SPIAGGE STRANIERE
J.M. Coetzee
Saggi 1993-1999
Einaudi
«Cosa significa in termini concreti affermare che il classico è ciò che sopravvive? Come si manifesta nella vita degli individui una tale concezione del classico?»
A queste «domande» tenta di rispondere uno dei grandi scrittori del nostro tempo, J. M. Coetzee, Premio Nobel 2003, interrogando classici del passato e del Novecento: Bach, Defoe, Turgenev, Dostoevskij, Musil, T. S. Eliot, Borges, Mahfouz, Gordimer, Lessing, Breytenbach, Byatt, Rushdie, Oz.
Raccolti per la prima volta in volume alcuni saggi e le recensioni pubblicate sulla «New York Review of Books», in cui J. M. Coetzee, nella veste di lettore esigente e raffinato propone, in una prosa chiara e diretta, letture esperte e al tempo stesso non convenzionali che insegnano ad apprezzare la grandezza senza lesinare attacchi graffianti. Un’opera che aiuta a capire il rapporto di un grande autore con la letteratura altrui e che apre inattesi squarci di comprensione per la sua stessa opera creativa.
Che cos’è un classico?
I.
Nell’ottobre del 1944, mentre le Forze alleate combattevano in Europa continentale e i tedeschi bombardavano Londra, Thomas Stearns Eliot, all’età di cinquantasei anni, pronunciava il discorso inaugurale alla Virgil Society di Londra. Nella sua conferenza, Eliot non menziona la situazione bellica, tranne che per un unico riferimento – obliquo, sottotono, al meglio del suo stile inglese – agli «incidenti del tempo presente» che gli avevano reso difficile l’accesso ai libri di cui aveva bisogno per preparare la conferenza. È un modo per ricordare ai suoi ascoltatori che, da una certa prospettiva, la guerra è solo un intoppo, per quanto grave, nella vita dell’Europa.
La conferenza, intitolata Che cos’è un classico?, si prefiggeva di consolidare e riproporre una tesi che Eliot andava sostenendo da tempo, secondo cui la civiltà dell’Europa occidentale è una, discende da Roma attraverso la Chiesa di Roma e il Sacro Romano Impero, e il suo testo classico di riferimento non può che essere l’epica di Roma, l’Eneide di Virgilio1. Ogni volta che questa tesi era stata avanzata, a farlo era stata una persona investita di sempre maggiore autorità pubblica; nel 1944 era il poeta, drammaturgo, editore e commentatore culturale, senza dubbio la personalità dominante nel mondo letterario inglese. Un uomo che aveva puntato su Londra come metropoli del mondo anglofono e, con una modestia che nascondeva un’indeflettibile determinazione, se ne era autoeletto voce magistrale. Nel suo intervento sosteneva che quella di Virgilio era stata la voce dominante della Roma metropolitana e imperiale, anzi, di una Roma imperiale in modo trascendentale, un modo che Virgilio stesso all’epoca non poteva comprendere.
Che cos’è un classico? non è tra i saggi critici migliori di Eliot. La modalità de haut en bas, che aveva usato negli anni Venti, con grande efficacia, per imporre le sue personali predilezioni alla società letteraria di Londra, diventa qui affettazione. Persino nella prosa si avverte una certa stanchezza. E tuttavia, il saggio non scende mai sotto la soglia dell’intelligenza, e quando si comincia a esplorarne la genesi risulta piú coerente di quanto non appaia a una prima lettura. L’autore è ben consapevole che la fine della seconda guerra mondiale porterà a un nuovo ordine culturale, con nuove opportunità e nuove minacce. Ma, nel rileggere il discorso per la preparazione di questa conferenza, sono rimasto colpito piuttosto dall’assenza di qualsiasi riferimento da parte di Eliot alla propria americanità, o almeno alle proprie origini americane, e dunque dall’alquanto strana prospettiva che assume nel momento in cui rende omaggio a un poeta europeo di fronte a un pubblico europeo.
Dico «europeo», ma naturalmente anche l’identità europea del pubblico inglese di Eliot è problematica, come lo è la discendenza della letteratura inglese da quella di Roma. Uno degli scrittori che Eliot afferma di non avere potuto rileggere, nel preparare la conferenza, è Sainte-Beuve, che nelle sue conferenze su Virgilio lo aveva definito «il poeta di tutta la latinità», di Francia, Spagna e Italia ma non dell’Europa intera. La rivendicazione di Eliot di una discendenza da Virgilio deve cominciare pertanto con l’affermazione della piena identità europea di Virgilio; e anche con l’affermazione dell’identità europea dell’Inghilterra, un’identità a volte concessa malvolentieri e non sempre accolta a braccia aperte2.
Piuttosto che ripercorrere i passi che Eliot compie per collegare la Roma di Virgilio all’Inghilterra degli anni Quaranta, vorrei chiedermi le ragioni per cui Eliot divenne inglese per quel tanto che gli serviva3.
Perché dunque Eliot «divenne» inglese? Ritengo che da principio le motivazioni fossero complesse: in parte per anglofilia, in parte per solidarietà con il ceto medio intellettuale inglese, in parte per una sorta di travestimento protettivo in cui qualche imbarazzo per la barbarie americana potrebbe aver giocato un ruolo. Non ultimo come parodia da parte di un uomo che amava recitare: riuscire a passare per inglese è certamente una delle interpretazioni piú difficili. Suppongo che la strategia prevedesse in primo luogo prendere la residenza a Londra (piuttosto che in Inghilterra), poi assumere una identità sociale londinese e, successivamente, esprimere una serie di riflessioni sull’identità culturale, strategia che lo avrebbe portato alla fine a rivendicare una identità europea e romana, capace di includere, e al tempo stesso trascendere, l’identità londinese, quella inglese e quella anglo-americana4.
Nel 1944 l’investimento in questa identità era completo. Eliot era inglese, sebbene si considerasse un inglese romano. Aveva appena completato un ciclo di poesie in cui aveva nominato i suoi antenati e rivendicato East Coker nel Somersetshire come luogo di provenienza degli Elyot. «La casa è il punto da cui si parte», scrive. «Nel mio principio è la mia fine». «E ciò che avete è ciò che non avete» – o per dirla con parole diverse, ciò che non possedete è ciò che avete5. Non solo egli affermava ora quel radicamento che è cosí importante nella sua comprensione della cultura, ma si era dotato di una teoria della storia in cui l’Inghilterra e l’America venivano definite province di una metropoli eterna, Roma.
Si comprende meglio, a questo punto, perché nel 1944 Eliot non senta il bisogno di presentarsi alla Virgil Society come un outsider, un americano che parla a degli inglesi. Come si presenta invece?
Per essere un poeta che, all’apice della carriera, aveva ottenuto tanto successo nell’importare il criterio dell’impersonalità nella critica, la poesia di Eliot è straordinariamente personale, per non dire autobiografica6. Nel leggere la conferenza su Virgilio, non sorprende dunque scoprire che questa contenga un sottotesto né che tale sottotesto riguardi Eliot in persona. L’emblema di Eliot nella conferenza non è come ci si potrebbe aspettare Virgilio, bensí Enea, interpretato o addirittura trasformato nello stile a lui congeniale in un uomo di mezza età, stanco, il quale «avrebbe preferito rimanersene a Troia: diventa invece un esule … è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta». «Dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo», la sua «ricompensa [fu] poco piú che un’angusta testa di ponte e un matrimonio politico nella stanca maturità: sepolta la sua giovinezza».
Della piú importante vicenda romantica della vita di Enea, la relazione con la regina Didone che si conclude con il suicidio di lei, Eliot sceglie di menzionare non la forte passione degli amanti né il Liebestod di Didone ma quelle che lui definisce «le maniere civili» della coppia quando si incontrano successivamente agli inferi e il fatto che «Enea non perdona se stesso … sebbene si renda ben conto che tutto quanto ha fatto è stato per obbedire al destino». Non si può non scorgere in questa scelta un parallelo tra la storia degli amanti com’è narrata da Eliot e la storia del suo infelice primo matrimonio7.
Non mi interessa qui approfondire l’elemento che definirei di impulsività – il contrario dell’impersonalità – che spinge Eliot, nella sua conferenza davanti a quel particolare pubblico, ad articolare la storia di Enea come allegoria della propria vita. Quello che invece mi preme sottolineare è che in una lettura siffatta dell’Eneide Eliot non solo utilizza la favola dell’esilio seguita dalla fondazione della patria – «nel mio principio è la mia fine» – come modello della propria migrazione intercontinentale, migrazione che non definisco odissea proprio perché Eliot intende ratificare le peripezie di Enea decretate dal destino ben al di sopra degli oziosi vagabondaggi di Odisseo, ma sta anche cercando di avvalorare la propria tesi appropriandosi del peso culturale dell’epica.
In questo modo, nel palinsesto che pone davanti ai nostri occhi, Eliot non è solo il devoto (pius) Enea virgiliano che lascia il continente in cui è nato per preparare una testa di ponte in Europa (testa di ponte è un’espressione che nessuno avrebbe potuto usare nell’ottobre del 1944 senza evocare gli sbarchi in Normandia avvenuti pochi mesi prima, e quelli in Italia del 1943), ma anche il Virgilio di Enea. Se Enea viene riproposto come eroe eliotiano, Virgilio viene piuttosto caratterizzato come «autore colto» simile a Eliot, il cui compito è secondo lui «ri-scrivere la poesia latina» (la frase che Eliot preferiva per se stesso era «purificare il dialetto della tribú»).
Se ho dato l’impressione che nel 1944 Eliot stesse ingenuamente ponendosi come reincarnazione di Virgilio non v’è dubbio che lo starei denigrando: la sua teoria della storia e la sua concezione del classico sono ben piú sofisticate. Per Eliot può esserci un solo Virgilio perché c’è un solo Cristo, una sola Chiesa, una sola Roma, una sola civiltà cristiana occidentale, e un solo classico originario di quella civiltà romano-cristiana. Ciò nonostante, pur non arrivando a identificarsi con la cosiddetta interpretazione avventista dell’Eneide (secondo cui Virgilio profetizza una nuova era cristiana), lascia la porta aperta all’idea che Virgilio fosse lo strumento di una forza piú grande di lui per un fine di cui non poteva essere consapevole – e cioè che, nel piú ampio disegno della storia europea, avrebbe potuto svolgere un ruolo che poteva definirsi profetico8.
Letta da un punto di vista interno, la conferenza di Eliot si presenta come il tentativo di riaffermare l’Eneide come un classico non solo in termini oraziani – e cioè di lunga durata (est vetus atque probus, centum qui perfecit annos) – ma in termini allegorici: come l’opera capace di dare un senso all’epoca di Eliot. Senso che include non solo l’allegoria di Enea, il triste eroe vedovo di mezza età che ha molto sofferto, ma il Virgilio che appare nei Quattro quartetti come uno degli elementi del composito «defunto maestro» che parla al custode del fuoco Eliot tra le rovine di Londra, il poeta senza il quale, ancor piú di Dante, Eliot non sarebbe diventato quello che è. Letta da un punto di vista esterno, e in maniera critica, essa si presenta come il tentativo di conferire un supporto storico a un programma politico per l’Europa estremamente conservatore, un programma reso possibile dalla fine imminente delle ostilità e dalla sfida della ricostruzione. In termini schematici, si trattava di un programma per un’Europa di stati-nazione in cui si sarebbe fatto il possibile per tenere le popolazioni nei loro confini, in cui si sarebbero incoraggiate le culture nazionali e mantenuto il carattere cristiano – un’Europa in cui in effetti la Chiesa cattolica sarebbe rimasta la principale organizzazione sovranazionale.
Procedendo nella lettura esterna, a un livello personale ma non simpatetico, la conferenza su Virgilio può essere collocata nel vecchio programma eliotiano di ridefinire e ricollocare la nazionalità in maniera da non poter essere emarginato come un avido arriviste culturale americano che dà lezioni agli inglesi e/o agli europei sul loro patrimonio culturale con lo scopo di convincerli a esserne all’altezza. Uno stereotipo in cui troppo facilmente era caduto Ezra Pound, ex-collaboratore di Eliot. Piú in generale, la conferenza è il tentativo di affermare l’unità storico-culturale della cristianità occidentale europea, incluse le province, entro cui le culture delle singole nazioni troverebbero spazio solo come parti di un insieme piú grande.
Questo non è propriamente il programma che avrebbe seguito il nuovo ordine nord-atlantico apparso dopo la guerra – programma reso necessario da eventi che Eliot non poteva prevedere nel 1944 –, ma è tuttavia altamente compatibile con quello. Eliot sbagliò non rendendosi conto che il nuovo ordine sarebbe stato diretto da Washington, non da Londra, e certamente non da Roma. Guardando ancora piú avanti, Eliot sarebbe stato senz’altro deluso dalla forma in cui l’Europa occidentale si è andata evolvendo – la comunità economica e soprattutto l’omogeneità culturale9.
Sto descrivendo, estrapolandolo dalla conferenza di Eliot del 1944, uno fra i processi piú grandiosi, tra quelli a me noti, di scrittori che tentano di crearsi una nuova identità, rivendicandola non tanto sulla base dell’immigrazione, insediamento, residenza, addomesticamento, acculturazione, come fanno gli altri, o non solo attraverso questi mezzi – in quanto Eliot con straordinaria tenacia fece anche tutto questo – ma definendo la nazionalità nel modo a lui piú conveniente e poi usando tutta la sua autorità culturale per imporre tale definizione all’opinione colta, e ricollocando la nazionalità all’interno di un tipo specifico di internazionalismo o cosmopolitismo, in questo caso cattolico, in base a cui figurare non come l’ultimo arrivato, bensí come pioniere, anzi come una specie di profeta. La rivendicazione di una identità, inoltre, in cui si afferma una nuova e finora insospettata paternità – una genealogia che riguarda meno gli Eliot del New England e/o del Somerset che Virgilio e Dante, o almeno una genealogia in cui gli Eliot sono una diramazione eccentrica della grande linea Virgilio-Dante.
Pound definí il suo Hugh Selwyn Mauberley «nato in un paese quasi selvaggio, fuori moda»10. La sensazione di essere fuori moda, di essere nato troppo tardi per un’epoca, o di trovarsi a sopravvivere in maniera innaturale al di là del proprio tempo, pervade tutta la prima produzione poetica di Eliot, da Prufrock a Gerontion. Volere comprendere questa sensazione o questo destino, e naturalmente interpretarlo, fa parte dell’avventura della sua poesia e della sua critica. Si tratta di una forma di percezione di sé piuttosto comune tra i «coloni» – da Eliot inclusi nella categoria di provinciali – specialmente i giovani coloni che a fatica cercano di armonizzare il patrimonio culturale con l’esperienza quotidiana.
Per questi giovani la cultura alta della metropoli può arrivare nella forma di esperienze forti che non riescono tuttavia a essere facilmente inglobate nella vita, e che perciò sembrano esistere solo in una sfera trascendente. In casi estremi sono portati a pensare che sia l’ambiente in cui vivono a non essere all’altezza dell’arte e a spostarsi in un mondo fittizio. È il destino della provincia – Gustave Flaubert lo diagnosticò in Emma Bovary, dando al suo caso il sottotitolo Moeurs de province – ma è in particolar modo il destino della colonia, di quei «coloni» educati nella cultura generalmente definita della madre patria ma che in questo contesto meriterebbe piuttosto l’appellativo di padre patria.
Specialmente da giovane, Eliot era certamente aperto all’esperienza sia estetica sia reale, al punto da essere influenzabile e persino vulnerabile. Sotto molti aspetti la sua poesia rappresenta una riflessione e allo stesso tempo una lotta con tali esperienze; nel trasformarle in poesia egli trasforma se stesso in una nuova persona. Le esperienze non sono forse della stessa qualità di quelle religiose, ma sono dello stesso genere.
Dei vari modi in cui si può intendere il progetto di una vita come quella di Eliot ne sottolineo due. Uno, per lo piú simpatetico, consiste nel trattare queste esperienze trascendentali come il punto d’origine del soggetto e alla luce di queste leggere quello che ne resta. Questa modalità prenderebbe sul serio il richiamo di Virgilio che sembra arrivare a Eliot attraverso i secoli ripercorrendo quel processo di autocreazione nella scia del richiamo virgiliano come espressione di una vocazione poetica vissuta. Leggerebbe cioè Eliot alla luce dei suoi stessi principî, quelli da lui scelti nel definire la tradizione un ordine cui non si può sfuggire; ordine in cui puoi cercare di trovare collocazione ma in cui saranno le generazioni future a definire e ridefinire di continuo il tuo posto; un ordine, dunque, che trascende completamente quello personale.
L’altro modo per capire Eliot, e per lo piú non simpatetico, è quello socio-culturale che ho descritto poco fa: considerare i suoi sforzi come la magica impresa di qualcuno che, piuttosto che affrontare la realtà della sua non eccelsa posizione, quella di un uomo la cui istruzione eurocentrica e angustamente accademica l’aveva preparato a poco piú di una vita da mandarino in una torre d’avorio del New England, tenta di ridefinire il mondo che lo circonda, l’America, l’Europa.
II.
Vorrei approfondire ulteriormente queste due possibili letture – quella poetico-trascendentale e quella socio-culturale – e portarle piú vicine ai nostri tempi, seguendo un percorso autobiografico che può apparire metodologicamente avventato ma che ha il merito di drammatizzare il problema.
Una domenica pomeriggio dell’estate del 1955, all’età di quindici anni, mentre gironzolavo per il giardino di casa, alla periferia di Cape Town, chiedendomi cosa fare, essendo allora la noia il problema principale dell’esistenza, sentii una musica dalla casa accanto. Fino a quando la musica durò, rimasi paralizzato, non osavo neppure respirare. La musica mi parlava come mai aveva fatto prima.
Stavo ascoltando una registrazione per clavicembalo del Clavicembalo ben temperato di Bach. Ne appresi il titolo molto tempo dopo, quando familiarizzai con quella che a quindici anni conoscevo solo – nel modo sospettoso e a volte ostile, tipico dei ragazzi – come «musica classica». La casa accanto era abitata da studenti di passaggio; chi suonava il disco di Bach forse si trasferí subito dopo, o perse il gusto per Bach, perché per quanta attenzione facessi non lo sentii piú.
La mia non era una famiglia di tradizioni musicali. Nelle scuole che frequentavo non si offriva alcuna istruzione musicale, né l’avrei scelta se mi fosse stata offerta: in colonia la musica classica era roba per femminucce. Gli unici pezzi che conoscevo erano La danza delle spade di Khacaturjan, l’ouverture di Rossini del Guglielmo Tell, Il volo del calabrone di Rimskij-Korsakov – tutto qui. In casa non avevamo strumenti musicali, né grammofono. Alla radio si sentiva molta musica leggera americana (George Melachrino e i Silver Strings), roba che non mi attirava particolarmente.
Quella che sto descrivendo è la cultura musicale borghese dell’epoca di Eisenhower, cosí come la si poteva incontrare nelle ex-colonie inglesi che si stavano rapidamente trasformando in province culturali degli Stati Uniti. La cosiddetta componente classica di questa cultura musicale, pur essendo in origine europea, era pur sempre di un’Europa mediata e in un certo senso orchestrata dai Boston Pops.
Poi ci fu il pomeriggio in giardino, e la musica di Bach, dopo di che cambiò tutto. Un momento di rivelazione che non definirò di tipo eliotiano – sarebbe un insulto nei confronti dei momenti di rivelazione celebrati nella poesia di Eliot – ma tuttavia di grande significato nella mia vita: stavo per la prima volta vivendo l’effetto del classico.
In Bach non c’è niente di oscuro, nessun singolo passo è cosí miracoloso da non potere essere imitato, e tuttavia quando la catena dei suoni si realizza nel tempo, il processo di costruzione a un dato momento cessa di essere il risultato di unità collegate tra loro; le unità si coagulano in un oggetto di ordine superiore in un modo che posso solo descrivere per analogia come la materializzazione dei concetti di esposizione, peripezia e risoluzione, idee che sono piú generali della musica. Bach pensa in musica. La musica si pensa in Bach.
La rivelazione in giardino fu un evento cruciale nella mia formazione. Desidero ora tornare nuovamente a quel momento rifacendomi sia a ciò che ho detto finora su Eliot – e in particolare sulla figura del provinciale Eliot usandolo come modello e figura di me stesso – sia ponendomi, con maggiore scetticismo, quel genere di domanda che l’analisi culturale contemporanea si pone a proposito della cultura e degli ideali culturali.
La domanda che mi pongo, alquanto rozzamente, è la seguente: c’è un senso, non banale, in cui potrei affermare che fu lo spirito di Bach a parlarmi attraverso le epoche e attraverso i mari, proponendomi certi ideali; oppure ciò che mi accadde allora fu di eleggere simbolicamente l’alta cultura europea, e la padronanza dei codici di quella cultura, come il tragitto che mi avrebbe condotto fuori dalla mia condizione sociale nella società sudafricana bianca e, in ultimo, fuori da quello che doveva apparirmi, benché in maniera oscura o mistificata, come un vicolo cieco storico – una strada che mi avrebbe portato (di nuovo simbolicamente) fino in Europa, su una pedana, a tenere una conferenza davanti a un pubblico cosmopolita su Bach, T. S. Eliot e il problema del classico? In altri termini, quell’esperienza, per come io la percepivo, era un’esperienza estetica disinteressata e in un certo senso impersonale – o non era piuttosto l’espressione mistificata di un interesse materiale?
È quel tipo di domanda che ci riguarda intimamente e cui nessuno può illudersi di saper rispondere. Ma ciò non vuol dire che non bisognerebbe porla; e porre questa domanda significa porla in maniera giusta, in termini il piú possibile chiari e comprensivi. Nel tentativo di soddisfare questi criteri vorrei perciò chiedere che cosa voglio dire quando affermo che un classico mi ha parlato da epoche lontane.
Bach è un classico della musica in due delle tre accezioni possibili. Nella prima accezione, il classico è qualcosa che non è legato al tempo, che mantiene un senso per le epoche successive, che «vive». Nella seconda accezione, buona parte della musica di Bach rientra nella categoria genericamente definita «classici», quella parte del canone musicale europeo che viene ancora ampiamente eseguita, anche se non molto spesso né davanti a un pubblico particolarmente vasto. Il terzo significato, quello che Bach non soddisfa, è di non far parte della riscoperta, che si verifica a partire dal secondo quarto del XVIII secolo, dei cosiddetti valori classici nell’arte europea.
Non solo Bach era troppo vecchio, troppo fuori moda, per il movimento neoclassico: le sue affiliazioni intellettuali e tutto il suo orientamento musicale erano diretti verso un mondo che stava scomparendo. Nella tradizione popolare della sua vita, alquanto idealizzata, Bach, poco noto ai contemporanei in particolare negli ultimi anni, dopo morto sparí completamente dalla coscienza pubblica, per essere resuscitato solo un’ottantina di anni dopo, soprattutto per merito dell’entusiasmo di Felix Mendelssohn. Secondo questa tradizione popolare, per molte generazioni Bach non fu affatto un classico: non solo non era neoclassico, ma nell’arco di vita di queste generazioni non comunicò con nessuno. La sua musica non veniva pubblicata, e solo di rado eseguita. Faceva parte della storia della musica, era un nome che si incontrava nella nota di un libro, e niente piú.
Mi preme sottolineare questa vicenda poco ortodossa di fraintendimenti, oscurità e silenzio, che anche se non è esattamente storia intesa come verità è pur sempre una stratificazione del dato storico, allo scopo di mettere in questione ogni facile nozione del classico come senza tempo, come ciò che in maniera non problematica parla al di là di ogni confine. Il Bach classico è stato storicamente determinato, vorrei ricordare, da forze storiche identificabili e in un preciso contesto storico. Solo quando avremo riconosciuto questo punto saremo in grado di porre domande piú complesse: quali sono i limiti – se ce ne sono – della relativizzazione storica del classico? Che cosa resta, se resta ancora qualcosa, dopo che il classico è stato storicizzato, della pretesa di parlare attraverso le epoche?
Nel 1737, verso la metà della terza e ultima fase della sua vita professionale, gli fu dedicato un articolo su un importante periodico musicale. Nell’articolo, scritto da un suo ex allievo, Johann Adolf Scheibe, la musica di Bach veniva attaccata in quanto «turgida e sofisticata» anziché «semplice e naturale», e «cupa» quando voleva essere «elevata», e in genere guastata da segni evidenti di «fatica e … sforzo»11.
L’articolo di Scheibe, se letto come un attacco dei giovani nei confronti degli anziani, rappresenta il manifesto di un nuovo genere di musica basato sui valori illuministici del sentimento e della ragione, sprezzante del patrimonio intellettuale (scolastico) e del patrimonio musicale (polifonico) che stanno dietro la musica di Bach. Nel valutare la melodia sul contrappunto, l’unità, la semplicità, la chiarezza e il decoro sulla complessità architettonica, e il sentimento al di sopra dell’intelletto, Scheibe dà voce alla fiorente modernità, e di fatto trasforma Bach e con lui l’intera tradizione polifonica, nell’ultimo rantolo del Medioevo defunto.
Per quanto polemico possa apparire l’atteggiamento di Scheibe, se pensiamo che nel 1737 Haydn era un bambino di cinque anni e Mozart non era ancora nato, bisogna riconoscere che la sua percezione del futuro corso della storia era corretta12. Il verdetto di Scheibe era il verdetto dell’epoca. Nei suoi ultimi anni Bach era già un uomo del passato. Quel tanto di reputazione che aveva si basava su quello che aveva scritto prima dei quaranta anni.
In definitiva, dunque, non si trattò tanto del fatto che la musica di Bach venisse dimenticata dopo la sua morte quanto invece che essa non trovasse, nel corso della sua vita, un posto nella coscienza pubblica. Se dunque Bach era già un classico prima della riscoperta bachiana, lo era in maniera non solo invisibile ma anche muta. Era una serie di note su carta; non aveva alcuna presenza pubblica. Non solo non era un autore canonico. Nessuno lo conosceva.
Come fu dunque che Bach divenne Bach?
Bisogna dire che non fu per merito della qualità pura e semplice della musica, o perlomeno non per merito della qualità della musica finché questa non venne confezionata e presentata adeguatamente. Il nome e la musica di Bach sarebbero prima diventati parte di una causa, la causa del nazionalismo tedesco che si sviluppò come reazione a Napoleone, e del concomitante revival protestante. La figura di Bach divenne uno degli strumenti attraverso cui furono promossi il nazionalismo tedesco e il protestantesimo; e fu nel nome della Germania e del protestantesimo che Bach fu promosso a classico, impresa favorita dalla reazione romantica al razionalismo e dall’entusiasmo per la musica come l’unica arte che ha il privilegio di parlare direttamente all’anima.
Il primo libro su Bach, intitolato The Life, Art and Works of J. S. Bach: For Patriotic Admirers of Genuine Musical Art, pubblicato nel 1802, racconta gran parte di questa storia. Nell’introduzione l’autore, J. N. Forkel, scrive: «Questo grande uomo … era un tedesco. Sii orgogliosa di lui, patria tedesca … Le sue opere sono un inestimabile patrimonio nazionale con cui nessun’altra nazione può competere». La stessa enfasi sulla germanità e persino sulla nordicità di Bach si ritrova in riconoscimenti successivi. La figura e la musica di Bach divennero parte della costruzione della Germania e finanche della cosiddetta razza germanica.
Il punto di svolta dall’oscurità alla fama giunse con le esecuzioni della Passione secondo san Matteo, piú volte descritte, dirette da Mendelsshon a Berlino nel 1829. Ma sarebbe ingenuo affermare che Bach trovasse la sua giusta collocazione nella storia attraverso tali esecuzioni. Mendelssohn trascrisse lo spartito di Bach non solo in base alle piú ampie forze orchestrali e corali a sua disposizione, ma anche sulla base di ciò che di recente il pubblico di Berlino aveva apprezzato, un pubblico che aveva risposto in maniera entusiastica al nazionalismo romantico del Franco cacciatore di Weber. A Berlino in particolare La Passione secondo san Matteo fu ripetuta varie volte a grande richiesta. Al contrario, a Konigsberg, città di Kant e ancora centro del razionalismo, l’opera fu un fiasco e la musica fu criticata come «robaccia antiquata».
Non intendo criticare le esecuzioni di Mendelssohn perché tradivano il «vero Bach». Voglio semplicemente affermare che le esecuzioni di Berlino, e in verità tutta la riscoperta di Bach, furono eventi fortemente storicizzati, anche se gli spiriti che li animavano non ne erano consapevoli. Quanto alla nostra comprensione ed esecuzione di Bach, possiamo essere certi che anche quando – e forse in particolar modo – siamo animati dalle piú pure intenzioni, o le piú puriste, queste sono, senza che noi ce ne rendiamo conto, storicamente condizionate. Lo stesso vale per le opinioni sulla storia e sul condizionamento storico che sto esprimendo in questo momento.
Nel fare questa affermazione non voglio ricadere in un relativismo assolutista. Il Bach romantico fu in parte la costruzione di uomini e donne che rispondevano a una musica sconosciuta con un turbamento fortissimo analogo a quello da me provato in Sudafrica nel 1955, e in parte il prodotto di un’ondata di sentimenti collettivi che in Bach trovò il veicolo per esprimersi. Molte componenti di quel sentimento – la sua emotività estetica, il suo fervore nazionalista – sono andate perdute e non si ritrovano piú nelle attuali esecuzioni di Bach. La cultura successiva a Mendelssohn ci ha restituito un Bach diverso, mettendoci in grado di coglierne aspetti, come ad esempio il sofisticato scolasticismo luterano nel cui ambito egli aveva lavorato, ignorato da coloro che l’avevano riscoperto.
Tali ammissioni costituiscono un progresso effettivo nella comprensione storica. La comprensione storica è la comprensione del passato inteso come forza che incide sul presente. Nella misura in cui questa forza è concretamente avvertita nella nostra vita, la comprensione storica fa parte del presente. La nostra identità storica fa parte del nostro presente. È quella parte del nostro presente – e cioè quella parte che appartiene alla storia – che non riusciamo pienamente a comprendere, poiché richiederebbe che ci percepissimo non solo come oggetti di forze storiche ma come soggetti della percezione storica che abbiamo di noi stessi.
È dunque in un contesto di paradosso e di impossibilità che mi pongo la domanda: sono abbastanza lontano dal 1955, nel tempo e nell’identità, per cominciare a capire, in termini storici, la mia prima relazione col classico – che fu l’incontro con Bach? E che cosa significa affermare che nel 1955 un classico mi stava parlando quando l’io che pone la domanda riconosce che il classico – per non parlare dell’io – è storicamente determinato? Se per il pubblico berlinese di Mendelssohn nel 1829 Bach rappresentava l’occasione per incarnare e per esprimere, nella memoria e nella ri-esecuzione, aspirazioni, sentimenti, autolegittimazioni che riusciamo a identificare, diagnosticare, nominare, collocare e di cui possiamo persino prevedere le conseguenze, che cosa rappresentava Bach in Sudafrica nel 1955 e, in particolare, qual era l’occasione per la candidatura di Bach a classico? Se la nozione di classico come senza tempo viene indebolita da un pieno resoconto storico della ricezione di Bach, allora non sarà anche il momento in giardino – il genere di momento di cui anche Eliot fece esperienza, senza dubbio in maniera piú mistica e piú intensa, e che seppe tradurre nella sua piú grande poesia – a trovarsi analogamente compromesso? Sostenere oggi che qualcosa ci ha parlato da epoche lontane può farsi solo in malafede?
Per rispondere a questa domanda, spero in maniera negativa, e vedere cosa si può salvare della nozione di classico, vorrei tornare alla storia di Bach, a quella parte della storia che non è stata ancora raccontata.
III.
Una semplice domanda: se Bach era davvero un oscuro compositore, come mai Mendelssohn ne conosceva la musica?
Se seguiamo attentamente la fortuna della musica di Bach dopo la sua morte, badando non tanto alla reputazione del compositore quanto al numero delle esecuzioni, ci accorgeremo che, per quanto oscuro, Bach non era stato del tutto dimenticato come la tesi della riscoperta vorrebbe farci credere. Venti anni dopo la sua morte, c’era a Berlino un circolo di musicisti che ne eseguivano regolarmente la musica strumentale, in privato, quasi come una forma di ricreazione esoterica. L’ambasciatore austriaco in Prussia fu per anni membro di questo circolo e, al suo rientro, portò con sé gli spartiti di Bach che faceva eseguire nella sua casa viennese. Mozart, che faceva parte dello stesso circolo, fece una copia degli spartiti e studiò attentamente l’Arte della fuga. Anche Haydn faceva parte dello stesso circolo.
Esisteva dunque a Berlino una certa limitata tradizione bachiana, che non può definirsi ripresa in quanto non c’era stata alcuna interruzione dall’epoca di Bach, e che da qui si diramò a Vienna dove, per quanto confinata in esecuzioni private, si affermò tra musicisti professionisti e dilettanti seri.
Quanto alla musica corale, questa era in larga misura nota a professionisti come C. F. Zelter, direttore della Singakademie di Berlino e amico del padre di Mendelssohn. Fu alla Singakademie che il giovane Felix Mendelssohn si imbatté nella musica corale e, a dispetto della mancanza di collaborazione da parte di Zelter che considerava le Passioni come opere non eseguibili e di puro interesse specialistico, si fece fare una copia della Passione secondo san Matteo e si immerse completamente nell’adattamento per l’esecuzione.
Ho detto di puro interesse specialistico (o professionale). Ed è a questo punto che i paralleli tra letteratura e musica, i classici letterari e i classici musicali cominciano a non reggere piú, e dove le istituzioni e la pratica della musica appaiono come forse piú sane delle istituzioni e della pratica della letteratura. Infatti la professione musicale, per conservare ciò che ritiene di valore, ha dei metodi qualitativamente diversi dalle modalità con cui le istituzioni letterarie tengono in vita autori sommersi ma ritenuti di valore.
Poiché diventare musicisti, sia esecutori sia creativi, non solo nella tradizione occidentale ma nelle altre maggiori tradizioni del mondo, richiede lungo esercizio e apprendistato; poiché la natura dell’esercizio richiede, oltre alla memorizzazione, frequenti esecuzioni per orecchie altrui, attento ascolto e critica pratica; poiché una gamma di tipologie esecutive è istituzionalizzata, dal suonare per il proprio insegnante, al suonare per la propria classe, a una varietà di esecuzioni pubbliche – per tutte queste ragioni è possibile tenere la musica viva e vitale entro circuiti professionali, anche se non diventa parte della consapevolezza pubblica, neppure della cerchia colta.
Se c’è qualcosa che rende fiduciosi sullo statuto classico di Bach, sono le prove che ha dovuto superare in ambito professionale. Non solo questo mistico religioso di provincia è sopravvissuto alla svolta illuminista verso la razionalità e la metropoli, ma è sopravvissuto anche a quello che si rivelò un bacio della morte, e cioè l’essere stato promosso durante la ripresa ottocentesca come grande figlio del suolo tedesco. Anche oggi, ogni volta che un principiante incespica nel corso del primo preludio del Quarantotto, Bach viene nuovamente messo alla prova in ambito professionale. Oserei suggerire che il classico in musica è ciò che emerge intatto da questo processo continuo di prova.
Il criterio della sopravvivenza attraverso la messa alla prova non è quello pragmatico dell’oraziano standard minimo: Orazio dice in verità che se un’opera è ancora in circolazione un secolo dopo essere stata scritta, deve considerarsi un classico. È piuttosto un criterio che esprime una certa fiducia nella tradizione della messa alla prova, fiducia che nessun professionista dedicherebbe fatica e cura, generazione dopo generazione, per sostenere pezzi musicali la cui funzione vitale fosse esaurita.
È tale fiducia che mi consente di tornare con maggiore ottimismo al momento autobiografico al centro di questa conferenza e alle diverse letture da me proposte. A proposito della reazione da me avuta alla musica di Bach nel 1955 mi sono chiesto se si trattasse della risposta a una qualità intrinseca alla musica, piuttosto che di una scelta simbolica dell’alta cultura europea che facevo per trarmi fuori da un vicolo cieco sociale e storico. È chiaro che, in questo tipo di interrogazione scettica, il termine Bach vale come qualsiasi altro oggetto della cultura europea alta, che Bach o Bach non ha alcun valore di per sé – che anzi la nozione di «valore intrinseco» dovrebbe costituire l’oggetto dell’interrogazione scettica.
Spero, per non avere fatto ricorso ad alcuna giustificazione idealistica di «valore intrinseco», né di aver cercato di isolare una qualche qualità, qualche essenza del classico, che accomuni opere che sono sopravvissute al processo della messa alla prova, di avere consentito all’espressione «Bach, il classico» di emergere con un suo valore intrinseco, anche se quel valore è solo in primo luogo professionale e in seconda istanza sociale. Se a quindici anni capissi o meno quel che mi stava accadendo è fuori discussione: Bach rappresenta una sorta di pietra di paragone perché ha superato lo scrutinio di centinaia di migliaia di intelligenze prima di me, di centinaia di migliaia di altri esseri umani.
Cosa significa in termini concreti affermare che il classico è ciò che sopravvive? Come si manifesta nella vita degli individui una tale concezione del classico?
La risposta piú seria a questa domanda è quella che ci viene dal grande poeta del classico della nostra epoca, il polacco Zbigniew Herbert. Per Herbert l’opposto del classico non è il romantico ma il barbaro; classico e barbaro, inoltre, non sono tanto i termini di un’opposizione quanto di un confronto. Herbert scrive dalla prospettiva storica della Polonia, un paese con una cultura occidentale assediata, intrappolato tra vicini saltuariamente barbari. Agli occhi di Herbert, non è il possesso di una qualche qualità essenziale a far sí che il classico riesca a sostenere gli assalti dei barbari. Piuttosto, ciò che sopravvive alla peggiore barbarie, sopravvive perché generazioni di individui non riescono a farne a meno e perciò vi si aggrappano con tutte le forze – questo è il classico.
A questo punto ci troviamo di fronte a un paradosso. Il classico si definisce per la sua capacità di sopravvivenza. E dunque l’interrogazione del classico, per quanto ostile possa essere, fa parte della sua storia, è non solo inevitabile ma benvenuta. Fino a quando il classico avrà bisogno di essere protetto dall’attacco, non potrà essere dichiarato classico.
Ci si potrebbe avventurare piú in là su questa strada e affermare che è il classico a definire la funzione della critica: la critica ha il dovere di interrogare il classico. E dunque il timore che il classico non riesca a sopravvivere a una critica spiazzante può essere capovolto: piuttosto che essere nemica del classico, la critica – persino quella piú scettica – potrebbe essere il mezzo attraverso cui il classico definisce se stesso e si assicura la sopravvivenza. La critica in tal senso può essere considerata uno degli strumenti dell’astuzia della storia.
1 T. S. ELIOT, Che cos’è un classico?, in Sulla poesia e sui poeti (trad. di A. Giuliani), Bompiani, Milano 1956.
2 In un articolo apparso su «Criterion» nel 1926, Eliot afferma che la Gran Bretagna è parte di «una cultura comune dell’Europa Occidentale». Il punto è: «Quante persone in Gran Bretagna credono in quella cultura europea, nell’eredità romana; quanti sono convinti che la Gran Bretagna abbia un posto in quella cultura?» Due anni dopo Eliot attribuisce alla Gran Bretagna un ruolo di mediazione fra l’Europa e il resto del mondo: «È l’unico membro della comunità europea ad aver fondato un impero autentico – vale a dire universale, come lo è stato l’Impero romano – non soltanto europeo, ma punto d’incontro tra l’Europa e il resto del mondo».
3 Eliot lasciò Harvard per studiare in Germania; allo scoppio della prima guerra mondiale si trasferí a Oxford, sposò una donna inglese, quindi tentò di tornare ad Harvard per la discussione della sua tesi di dottorato, ma la nave su cui aveva prenotato una cuccetta non salpò mai. Cercò allora di ottenere un posto nella marina degli Stati Uniti ma non vi riuscí. A questo punto3, rassegnato, decise di prendere la cittadinanza britannica. Se la fortuna avesse girato diversamente, Eliot avrebbe con ogni probabilità preso il dottorato, accettato la cattedra che lo aspettava ad Harvard e ricominciato la sua vita americana.
4 Sulla sua decisione di abbandonare gli Stati Uniti, Eliot non fece alcuna dichiarazione pubblica. Tuttavia, in una lettera del 1928 indirizzata a Herbert Read, lamentò la sensazione di non avere radici nel suo paese natale: «Un giorno o l’altro voglio scrivere un saggio sulla prospettiva di un americano che non è mai stato americano, in quanto nato nel Sud e andato a scuola nel New England dove era un bambino con l’accento da negro, ma che neanche nel Sud si sentiva a casa, perché la sua famiglia veniva da uno stato di frontiera del Nord e guardava dall’alto in basso quelli del Sud e quelli della Virginia; cosí lui non è mai stato niente in nessun luogo e perciò si sentiva piú francese che americano e piú inglese che francese, ma nonostante tutto sapeva che fino a un centinaio di anni prima gli Stati Uniti erano come una grande famiglia» (T. S. Eliot: A Memoir in A. TATE (a cura di), T. S. Eliot: The Man and his Work, Delacorte, New York 1966, p. 15).
Tre anni dopo, cosí Eliot descriveva, su «Criterion», la condizione dell’intellettuale americano: «L’intellettuale americano di oggi, se rimane nella terra in cui è nato e nell’ambiente che i suoi antenati, per quanto umilmente, hanno contribuito a creare, non ha praticamente nessuna possibilità di crescita. È perciò destinato a diventare esule: sia che si trovi a languire in un’università di provincia, o all’estero, sia che si trovi a New York, il piú autentico degli esilii».
5 T. S. ELIOT, East Coker, in Quattro quartetti (trad. di F. Donini), Garzanti, Milano 1969, pp. 26, 36 e 40.
6 «La poesia non è un libero sfogo di sentimenti, ma un’evasione da essi; non è espressione della personalità, ma un’evasione dalla personalità» (ID., Tradizione e talento individuale (1919), in Il bosco sacro: saggi sulla poesia e la critica (trad. di V. Di Giuro e A. Orbetello), Bompiani, Milano 2003, p. 79).
7 Gareth Reeves cita il responso della Sibilla cumana a Enea (Eneide VI, 93-94, trad. di L. Canali, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1991): «Causa di tanto male di nuovo una moglie straniera [coniunx hospita] ai teucri, di nuovo forestieri talami». Le spose straniere che causano dolore a Troia sono la moglie di Menelao, Elena, la fenicia Didone e la latina Lavinia. Reeves scrive: «Il dolore di Eliot non è almeno in parte dovuto al suo matrimonio con Vivien, inglese e coniunx hospita?»
La lettura di Eliot dell’incontro fra Didone ed Enea nell’Ade come esempio, in primo luogo, di «maniere civili», è difficile da comprendere. Dopo che Enea si è rivolto a lei, Didone, «rivolta altrove teneva gli occhi fissi | al suolo, e il volto immobile all’intrapreso discorso, | piú che se fosse dura selce o roccia marpesia. | Infine si strappò di lí [sese corripuit] e fuggí | ostile [inimica] nel bosco pieno d’ombra» (Eneide VI, 469-73).
8 Nel saggio Virgilio e la Cristianità (1951), Eliot distingue tra l’«intento cosciente» di Virgilio e una qualità della sua ispirazione che rimane prudentemente indefinita ma che potrebbe corrispondere a una volontà superiore (Sulla poesia e sui poeti, Bompiani, Milano 1956, p. 143).
9 Appunti per una definizione della cultura, completato nel 1948, è di fatto una risposta a Karl Mannheim che, nell’Uomo e la società in un’età di ricostruzione, aveva affermato che i problemi dell’Europa industriale del futuro potevano essere risolti unicamente con una svolta verso la pianificazione sociale consapevole e, piú in generale, incoraggiando nuovi modelli di pensiero. La guida sarebbe stata affidata a una élite che trascende le restrizioni di classe.
Eliot si opponeva all’ingegneria sociale, alla pianificazione del futuro e, in generale, al dirigisme. Capiva che coltivare le élite avrebbe favorito la mobilità sociale e quindi la trasformazione della società. Riteneva che sarebbe stato meglio «se gli esseri umani avessero continuato a vivere nel posto in cui erano nati». L’autoconsapevolezza di cui parlava Mannheim doveva restare privilegio di una forma di aristocrazia o di classe dirigente.
La reazione di Eliot ai passi compiuti verso l’unità europea, rappresentati dalla Conferenza dell’Aja del 1948 (dove fu avanzata la proposta di un Parlamento europeo) e dall’istituzione del Consiglio d’Europa del 1949, è contenuta in una lettera pubblica del 1951 in cui, distinguendo le questioni culturali dalle decisioni politiche, egli auspica un impegno a lungo termine volto a persuadere la popolazione dell’Europa occidentale dell’esistenza di una cultura comune e a preservare e coltivare le diverse regioni, razze, lingue, ciascuna con una propria «vocazione» in relazione alle altre.
10 E. POUND, Le poesie scelte (trad. di A. Rizzardi), Mondadori, Milano 1961, p. 149.
11 F. BLUME, Two Centuries of Bach, Oxford University Press, London 1950, p. 12.
12 Anche il senso storico dei figli musicisti di Bach, Wilhelm Friedemann, Carl Philipp Emanuel e Johann Christian era ineccepibile: dopo la morte del padre, non solo non fecero nulla per promuoverne la musica e mantenerla in vita ma, in men che non si dica, si affermarono come esponenti di spicco della nuova musica della ragione e del sentimento.
Negli ultimi anni a Lipsia, Bach era considerato quello che Blume definisce «un intrattabile eccentrico, un vecchio trombone». Alla sua morte, le autorità della chiesa di San Tommaso, dove era cantore, furono visibilmente sollevate e poterono cosí nominare un uomo piú giovane e piú al passo con i tempi. Dei due suoi piú famosi contemporanei, Telemann e Händel, il primo sentenziò che i figli di Bach, in special modo Carl Philipp Emanuel, erano il dono piú grande che avesse fatto al mondo, mentre l’altro non se ne curò affatto (ibid., pp. 15-16, 23, 25-26).
Robinson Crusoe di Daniel Defoe
Robinson Crusoe, insieme al suo ombrello e pappagallo, è diventato una figura della coscienza collettiva dell’Occidente, come Odisseo in viaggio verso Itaca o Don Chisciotte in sella a Ronzinante. Il personaggio ha cioè superato di gran lunga il libro che ne celebra le avventure, con il folto seguito di edizioni, traduzioni, imitazioni e adattamenti, le cosiddette Robinsonate: dopo aver finto di appartenere alla storia, Robinson è approdato nella sfera del mito.
La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe, marinaio di York: scritte da sé medesimo, presentato come storia vera, apparve sul mercato nel 1719 riscuotendo un buon successo commerciale. Seguí, quattro mesi dopo, la seconda parte, Le ulteriori avventure di Robinson Crusoe, e l’anno seguente le Serie riflessioni nel corso della vita e delle sorprendenti avventure di Robinson Crusoe: con la sua visione del mondo angelico. Sulla scia del primo, il secondo volume ottenne un certo successo, ma oggi, quando parliamo di Robinson Crusoe, facciamo riferimento alle Straordinarie sorprendenti avventure.
Nelle Serie riflessioni, l’autore dei volumi precedenti ritiene necessario difendersi: era stato infatti accusato di aver inventato tutto, compreso il personaggio, e di aver spacciato per storia vera un semplice romanzo d’avventura. Scrisse nella prefazione:
Io, Robinson Crusoe, affermo che il racconto, benché allegorico, è anche storico … Dichiaro inoltre che esiste un uomo, per giunta ben noto a tutti, le cui gesta costituiscono l’argomento di questi volumi, e a cui la maggior parte se non tutto il racconto direttamente si riferisce … e me ne faccio garante1.
E con una bravata degna di Cervantes si firma Robinson Crusoe.
Oltre che sostenere l’ormai vieta finzione autobiografica, che cosa può voler dire l’autore quando afferma che «Robinson Crusoe» è una persona reale? Secondo l’interpretazione piú ovvia, almeno tra i contemporanei schierati dalla sua parte, e in particolare tra quelli educati nella tradizione religiosa nonconformista, Crusoe è Everyman, ogni uomo è un’isola e ogni vita, intesa allegoricamente, è una vita di solitudine sotto lo sguardo di Dio.
Ma la prefazione sembra alludere anche a un livello personale e forse confessionale:
... affermo di godere di una maggiore solitudine in mezzo a una gran massa di uomini, per esempio qui a Londra mentre scrivo queste righe, di quella che posso dire di aver goduta in ventotto anni di segregazione su un’isola desolata2.
Il naufrago, tornato in patria in tarda età, sembra ora fondersi con il cittadino londinese sessantenne che l’ha concepito, Daniel Defoe. Scrisse Edgar Allan Poe:
Non una sola persona su dieci, impegnata nella lettura di Robinson Crusoe, anzi non una su cinquecento, ha il minimo sospetto che per la sua creazione sia stata impiegata una qualche particella di genio o anche solo di talento comune! Nessuno guarda a quest’opera come a una costruzione letteraria. A Defoe non va nessun pensiero dei lettori – sono tutti per Robinson3.
Verrebbe da pensare che l’oscuramento dell’autore da parte di una delle sue creazioni sia da ritenersi un omaggio, per quanto ambiguo, all’autore. Il realismo letterario, almeno quello di un certo tipo, si compiace di nascondere la propria natura letteraria e Defoe viene spesso presentato come pioniere del realismo e, assieme a Fielding e a Richardson, come l’inventore del romanzo realista in Inghilterra. Ma se Defoe è realista, è difficile capire che cosa il suo realismo abbia in comune con quello di Fielding, che consiste piuttosto nel mettere insieme generi alti e bassi, linguaggi elevati e popolari, maniere e tipi di ogni ceto sociale; o con quello di Richardson, che consiste nell’affermare modelli e comportamenti borghesi, e nell’inglobare nella prosa narrativa gli incanti del romance privati degli ingranaggi soprannaturali e, pur senza utilizzare il verso, tutta l’intensità del dramma aulico.
Defoe somiglia ancora meno a quei grandi romanzieri europei del secolo successivo, i romanzieri della scuola realista, per i quali il termine realismo aveva un significato teorico. Madame Bovary non pretende di essere l’espressione o la creazione di Emma Bovary, casalinga di Tostes. Il romanzo realista del XIX secolo si affermò sulla base di una rete di taciti contratti tra scrittore e lettore su come si dovesse rappresentare «il reale». Per Defoe non esistono tali contratti, non solo perché nell’ambiente in cui lavorava l’idea di rappresentare la vita quotidiana senza alcun intento didattico sarebbe apparsa strana e sospetta, ma perché aveva un temperamento talmente solitario (e in questo non potrebbe essere piú diverso da Fielding) da non poter dar valore a taciti contratti.
In senso stretto Defoe è realista solo in quanto empirista, e l’empirismo è uno dei principî cardine del romanzo realista. In realtà Defoe è un caso piú semplice: un imitatore, un ventriloquo, persino un falsario. La peste di Londra è quanto di piú prossimo si possa immaginare alla falsificazione di un documento storico, pur senza l’uso dell’inchiostro e della carta antica. Il genere di «romanzo» che scrive (naturalmente Defoe non usò quel termine) è un’imitazione piú o meno letterale del tipo di racconto che il suo eroe, o eroina, avrebbe fatto se fosse veramente esistito. È una falsa autobiografia fortemente influenzata dal genere della confessione in punto di morte e dell’autobiografia spirituale.
Nel caso di Robinson Crusoe, si intuisce il tentativo – non del tutto riuscito – da parte di Defoe di manipolare la storia del suo avventuroso eroe entro i moduli di una scrittura di disobbedienza, punizione, pentimento e liberazione. Nelle prime pagine Crusoe riceve dal padre il consiglio di dedicarsi agli affari di famiglia, di accontentarsi di trascorrere «placidamente la vita» in una moderata agiatezza. Lui invece se ne va per mare, viene ridotto in schiavitú, fugge, diventa coltivatore in Brasile, si avventura a sua volta nel traffico degli schiavi, naufraga e passa metà della sua vita su un’isola, ha la meglio su cannibali e pirati, e finisce col diventare non solo fondatore di una colonia ma proprietario di una piantagione, molto piú ricco (per non dire famoso) di quanto non sarebbe stato se avesse ascoltato il padre e fosse rimasto a casa.
Lo stesso potrebbe dirsi, mutatis mutandis, di altri eroi ed eroine delle finte autobiografie di Defoe: Moll Flanders, il Colonnello Jack, Roxana. Nessuno di questi, se avesse scelto di trascorrere placidamente la vita, avrebbe avuto una biografia degna di essere raccontata. La disobbedienza che Crusoe ammette come suo peccato originale è il presupposto del racconto. Le storie di figli obbedienti sono prive di interesse.
Robinson Crusoe fu il primo tentativo di Defoe di scrivere un lungo romanzo in prosa. Non è la sua opera migliore: Moll Flanders è piú coerente; Roxana, per quanto opera discontinua, si leva a maggiori altezze. Robinson Crusoe risente di un lavoro affrettato e dell’assenza di revisione, esprime una morale confusa. L’ultima parte del libro, come le prime avventure di Crusoe, potrebbe essere stata scritta da qualsiasi scrittore provetto.
Inoltre, sebbene nel trattamento delle emozioni sia a tratti molto efficace – ad esempio quando Crusoe è sopraffatto da attacchi di depressione o di solitudine – Defoe è ancora troppo legato all’analisi dei moti dell’anima messa a punto dalla terapeutica cristiana per essere veramente moderno. Almeno in questo suo primo tentativo di romanzo, Defoe non lascia presagire il realismo delle opere successive, capace di rivelare la vita interiore in un gesto inconsapevole o in frammenti di discorso e di azione il cui significato sfugge al personaggio stesso. E tuttavia nel nucleo centrale di Robinson Crusoe – Crusoe solo sull’isola – Defoe dà il meglio di sé. Nella rappresentazione della disperazione del naufrago, il metodo della nuda descrizione empirica funziona alla perfezione: «Quanto ai miei compagni, non li vidi mai piú, né ne vidi altro segno che tre cappelli, un berretto e due scarpe scompagnate»4. E quando Crusoe deve risolvere centinaia di piccoli problemi pratici per portare a riva il contenuto della nave o per fabbricare una pentola di coccio, si sente che la scrittura acquista una marcia in piú, un grado di partecipazione piú intenso. Una pagina dopo l’altra – per la prima volta nella storia del romanzo – osserviamo una descrizione minuziosa e ordinata di come vengono fatte le cose. È una questione di pura concentrazione della scrittura, pura sottomissione alle esigenze di un mondo che, per essere assoggettato in uno stato cosí prossimo all’assorbimento spirituale, si trasfigura, diventa reale. Defoe è un grande scrittore, uno dei piú puri che ci siano mai stati. Ed è questo che Poe, e anche Virginia Woolf, hanno saputo riconoscere e con loro altri membri della vasta, e all’apparenza eterogenea, schiera di ammiratori di Defoe.
Crusoe naturalmente non abbandona la «sua» isola quando, insieme a Venerdí, viene tratto in salvo. La lascia popolata di ammutinati e di naufraghi e, pur tornandosene in Inghilterra, astutamente mantiene un punto d’appoggio nella colonia da lui fondata. Robinson Crusoe è un’opera di aperta propaganda per l’ampliamento della potenza mercantile inglese nel Nuovo Mondo e la fondazione di nuove colonie inglesi. Quanto alle popolazioni indigene delle Americhe e l’ostacolo che rappresentano, basti dire che Defoe sceglie di rappresentarle come cannibali. Il trattamento loro riservato da Crusoe è di conseguenza crudele.
Naturalmente c’è un’eccezione, costituita da Venerdí, il cannibale che Crusoe ha scelto di salvare:
Gli feci capire che il suo nome sarebbe stato Venerdí … ugualmente gli insegnai a dire Padrone, e poi gli feci sapere che doveva chiamarmi con quel nome5.
Venerdí diventa inseparabile da Crusoe, sua ombra in molti sensi. Ogni tanto gli è consentito di svolgere il ruolo di Sancho Panza nei confronti di Crusoe-Chisciotte e di esprimere opinioni sensate, ad esempio sugli aspetti piú enigmatici della fede cristiana. Per il resto Venerdí è visto solo attraverso gli occhi di Crusoe e trattato con compiaciuto paternalismo.
Venerdí non è l’unico personaggio di Defoe a mancare di autonomia. Tutti i personaggi secondari dei suoi romanzi narrati in prima persona tendono a essere unidimensionali. Ma l’evidente bontà d’animo di Venerdí sollecita Crusoe a riflettere sulla rilevanza della dottrina cristiana per le Americhe, e quindi su come il colonialismo occidentale abbia giustificato le sue attività in quei paesi, sulla diffusione del Vangelo. E se l’umanità, riflette Crusoe, fosse stata creata due volte e in due tempi distinti, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo; e se non ci fosse, nel Nuovo Mondo, una storia di ribellione nei confronti di Dio? E se Venerdí e la sua gente fossero creature non toccate dal peccato originale e pertanto non bisognose di redenzione?
La stessa domanda era stata posta, naturalmente, dai membri piú illuminati del clero spagnolo all’indomani della conquista. Presentare gli amerindi come cannibali e pertanto esclusi dal consorzio umano consente a Defoe di offuscare la questione piuttosto che cercare una risposta.
Eppure, ammettere la doppia creazione, e dunque la non rilevanza della redenzione del Vangelo per il Nuovo Mondo, non sarebbe necessariamente un vantaggio per le sue genti. Non dobbiamo infatti dimenticare che, alla stregua della teoria antropologica della poligenesi, la dottrina delle creazioni separate divenne una delle basi per classificare l’umanità in razze superiori e inferiori, e quindi per un razzismo scientifico.
Defoe è come uno di quei coraggiosi, oscuri e utili soldati che, con la pancia vuota e le spalle cariche, compiono il loro dovere immersi nel fango, restano tutto il giorno sotto il fuoco nemico … e muoiono da sergenti … aveva la mente adatta a tale duro servizio, solido, esatto, del tutto privo di raffinatezza, entusiasmo, simpatia. La sua immaginazione era quella di un uomo d’affari, non quella di un artista6.
Cosí afferma Hippolyte Taine nella sua influente History of English Literature. Si può ben comprendere la posizione di Taine e si può trovare una spiegazione per ciascuna accusa. Tuttavia tale giudizio non poteva nell’insieme essere piú sbagliato. Se si scorge in Defoe qualcosa del fante ostinato, è solo perché si guadagnava da vivere con la scrittura; pagato a pagina, escluso dal sistema del mecenatismo. Certo non è un artista, o almeno non il genere di artista che Taine aveva in mente, ma neppure avrebbe voluto esserlo. Defoe è, proprio come dice Taine, un uomo d’affari, che commercia in parole e idee e ha la percezione, propria dell’uomo d’affari, del peso e del valore di ogni parola o idea. Potrà essere un pensatore poco originale, ma la sua mente è acuta e curiosa di ogni aspetto della vita. Perseguí molte carriere produttive e interessanti. Niente di quello che ha scritto è men che intelligente; i temi dei romanzi della maturità – il crimine, la conquista, l’ambizione, la solitudine – continuano a essere interessanti oggi quanto lo erano tre secoli fa.
1 D. DEFOE, Le avventure di Robinson Crusoe seguite da Le ulteriori avventure e Serie riflessioni, a cura di G. Sertoli (trad. di A. Meo e G. Sertoli), Einaudi, Torino 1998, p. 551.
2 Ibid., pp. 558-59.
3 Recensione di Edgar A. Poe apparsa sul «Southern Literary Messenger» nel gennaio 1836 [N. d. C.].
4 D. DEFOE, Le avventure di Robinson cit., p. 45.
5 Ibid., p. 190.
6 H. TAINE, History of English Literature, vol. II, Colonial Press, London 1900, p. 404.
I Diari di Robert Musil
I.
Nato negli ultimi anni dell’Impero asburgico, Robert Musil era al servizio di Sua Maestà Reale e Imperiale durante la sanguinosa crisi che sconvolse il continente; morí nel corso di quella ben peggiore che seguí. Guardando al passato, Musil definirà quel tempo «l’epoca della maledizione», e si impegnò con tutte le sue forze per cercare di capire quello che l’Europa stava facendo a se stessa. La sua analisi è iscritta nelle sue opere: un grande romanzo incompleto, L’uomo senza qualità1, una serie di saggi e un gruppo di quaderni pubblicati col titolo Diari 1899-19412.
Musil divenne scrittore attraverso un percorso inconsueto: i genitori, membri dell’alta borghesia austriaca, non lo mandarono a studiare in un Gymnasium classico bensí in vari collegi militari, dove gli insegnarono, se non altro, a vestire in maniera elegante e a prendersi cura del corpo. All’università studiò dapprima ingegneria (disegnò e brevettò uno strumento ottico che ancora negli anni Venti veniva prodotto commercialmente), poi psicologia e filosofia. Conseguí il dottorato nel 1908.
All’epoca aveva già pubblicato una precoce opera prima, I turbamenti del giovane Törless (1906), ambientata in una scuola militare. Dopo avere abbandonato la carriera accademica, che in un primo tempo aveva inteso intraprendere, si dedicò completamente alla scrittura. Nel 1911 apparve Congiungimenti, due novelle di erotismo cerebrale.
Allo scoppio della guerra Musil combatté con distinzione sul fronte italiano. Dopo la guerra, angosciato dalla sensazione di venire defraudato dei migliori anni della sua vita creativa, abbozzò non meno di venti nuove opere, tra cui una serie di romanzi satirici. La commedia I fanatici (1921) e la raccolta di racconti Tre donne (1924) furono premiati. Fu eletto vicepresidente della sezione austriaca dell’Organizzazione degli scrittori austriaci. Sebbene gli mancasse una folta schiera di lettori, era sulla scena letteraria.
Presto i romanzi satirici furono abbandonati o assorbiti in un grandioso progetto: un romanzo in cui la crema della società viennese, incurante delle nuvole nere che si addensavano all’orizzonte, discute all’infinito di come organizzare un evento autocelebrativo. Avrebbe offerto, disse, una visione «grottesca» dell’Austria alla vigilia della guerra, un’Austria che sarebbe stata «un caso particolarmente lampante del mondo moderno». Col sostegno economico del suo editore e di un gruppo di ammiratori, investí tutte le sue energie nell’Uomo senza qualità.
Il primo volume uscí nel 1930 ed ebbe un tale successo sia in Austria sia in Germania che Musil – per altri aspetti una persona modesta – pensò di poter vincere il premio Nobel. Continuare fu molto piú difficile. Lusingato dal suo editore, e tuttavia colmo di incertezze, consentí alla pubblicazione, nel 1933, di un ampio frammento come secondo volume. «Il primo volume si chiude alla sommità di un arco» scrisse. Ma «dall’altro lato non c’è alcun sostegno». Cominciò a disperare di vedere la propria opera compiuta.
Dopo un breve soggiorno nel piú vivace ambiente intellettuale di Berlino, interrotto dall’ascesa al potere dei nazisti, Musil, accompagnato dalla moglie, fece ritorno a Vienna in un minaccioso clima politico; e qui cominciò a soffrire di depressione e altri disturbi di salute. Nel 1938, l’Austria fu annessa al Terzo Reich. La coppia si trasferí in Svizzera, dove intendeva fermarsi fino alla partenza per gli Stati Uniti, ma l’entrata in guerra degli Stati Uniti fece fallire il piano. Insieme a decine di migliaia di altri esiliati, si trovò in trappola.
«La Svizzera è rinomata per essere un paese libero, – aveva osservato Bertolt Brecht, – ma vale solo se sei un turista». Il mito della Svizzera come terra d’asilo fu pesantemente intaccato dal trattamento riservato ai rifugiati. Negli anni 1933-44, la priorità assoluta del governo svizzero fu quella di non inimicarsi la Germania. Il controllo degli stranieri residenti era nelle mani della Fremdenpolizei, il cui capo disprezzava le organizzazioni filantropiche per la loro «ingerenza sentimentale» e non faceva mistero di provare antipatia per gli ebrei. Spiacevoli scene si verificarono alla frontiera quando rifugiati privi di visti d’ingresso furono rispediti indietro. (Va detto tuttavia, a onore dei comuni cittadini svizzeri, che si levò un pubblico grido di indignazione).
Nel 1938 L’uomo senza qualità era stato messo all’indice sia in Germania sia in Austria (il divieto sarebbe stato successivamente esteso a tutti gli scritti di Musil). Nel fare richiesta di asilo al governo svizzero, Musil poteva dunque sostenere di non potersi mantenere come scrittore in nessun altro paese di lingua tedesca. E tuttavia, i Musil non si sentirono accettati da nessuna parte in Svizzera. La rete di sostegno svizzera li disprezzava; gli amici stranieri si diedero da fare per loro solo sporadicamente (o cosí sembrò a Musil); vivevano di carità. «Oggi ci ignorano. Ma quando saremo morti si vanteranno di averci dato asilo», disse Musil a Ignazio Silone. La depressione gli impediva di procedere col romanzo. «Non so perché non mi riesce di scrivere. È come una stregoneria» (Diari, p. 1495). Nel 1942, all’età di sessantuno anni, ebbe un infarto e morí.
«Pensava di avere ancora molto da vivere», disse la vedova. «Il peggio è che ha lasciato una massa enorme di materiale – appunti, note, aforismi, capitoli di romanzi, diari – in cui lui solo avrebbe potuto raccapezzarsi. Non so proprio cosa fare». Dopo avere ricevuto un rifiuto dagli editori commerciali, pubblicò privatamente il terzo e ultimo volume del romanzo, che consisteva di capitoli e stesure privi di un vero e proprio ordine. Dopo la guerra tentò di interessare gli editori americani alla traduzione dell’opera completa, ma non vi riuscí. Morí nel 1949.
II.
I diari di cui parla Martha Musil sono i quaderni che Musil aveva tenuto fin da quando aveva diciotto anni. Li aveva cominciati con l’intenzione di registrarvi la vita interiore, ma presto finirono col servire anche altri scopi. All’epoca della sua morte ne aveva riempiti piú di quaranta, alcuni dei quali andarono persi, rubati o distrutti negli anni del dopoguerra.
Per quanto Musil li chiami Hefte, quaderni, l’editore tedesco preferisce il termine Tagebücher, diari, e la traduzione inglese vi si adegua, sebbene le vere e proprie pagine di diario siano in realtà soverchiate da sommari ed estratti di libri, abbozzi di romanzi, stesure di saggi, appunti per conferenze e cosí via. Persino l’edizione tedesca esclude alcuni di questi scritti. L’edizione inglese dei Diari è meno della metà di quella tedesca e offre solo un’esile scelta degli abbozzi3. I lettori che si aspettano di seguire nei Diari lo sviluppo dell’Uomo senza qualità resteranno delusi: dovrebbero rivolgersi piuttosto alle ristampe delle stesure contenute nella traduzione del romanzo pubblicata da Knopf nel 1995. I Diari invece fanno emergere un ritratto di Musil in linea coi suoi tempi. Ciò è particolarmente vero negli ultimi anni, quando gli appunti divengono piú corposi forse perché il lavoro all’Uomo senza qualità languiva.
Nel saggio Robert Musil and the Crisis of European Culture, David S. Luft identifica due momenti cruciali nell’evoluzione politica di Musil, ambedue collegati alla prima guerra mondiale. Il primo coincide con l’esperienza dell’ondata di fervore patriottico che accompagnò lo scoppio della guerra, un fervore che si accorse con sorpresa di condividere con altri («l’estasi dell’altruismo – questa sensazione di avere per la prima volta qualcosa in comune con l’altro tedesco», Diari, p. 807). Il secondo fu il trattato di Versailles del 1919 e ciò che questo accordo punitivo rappresentava per coloro che avevano sperato che quella guerra faticosa avrebbe almeno dato origine a un nuovo ordine politico.
Il resoconto che Musil dà nei Diari dell’importanza delle umiliazioni di Versailles nell’ascesa del nazismo non potrebbe essere piú lucido. Secondo l’analisi di Musil il fascismo fu la reazione alle sfide della vita moderna – in particolare all’industrializzazione e all’urbanizzazione – alle quali il popolo tedesco non era preparato, reazione che presto diede luogo alla rivolta contro la civiltà stessa. Quando il Reichstag bruciò nel 1933, Musil capí che la Germania era sul punto di tradire se stessa. Scrive da Berlino:
Tutti i diritti liberali fondamentali sono ora aboliti, senza che si sia indignata fino all’estremo anche soltanto una persona … Lo si accetta come il brutto tempo ... Si potrebbe essere profondissimamente delusi su cose del genere, ma piú giusta è la conclusione che tutte le cose qui abolite non interessavano molto gli uomini (vol. II, pp. 1064-65).
Di Hitler scrive:
Noi tedeschi abbiamo prodotto il piú grande moralista della seconda metà del secolo scorso [cioè Nietzsche] e oggi produciamo la piú grande aberrazione della morale che sia mai stata dall’epoca del cristianesimo. Siamo forse smisurati sotto ogni riguardo? (p. 1093).
La vita di Musil fu, sotto ogni aspetto, influenzata dall’ascesa del nazismo, e dal rifiuto del nazismo della migliore tradizione tedesca. «[Secondo Hitler] devi credere nel futuro del nazismo oppure al tramonto della [Germania] … Come si può lavorare ancora in queste condizioni?» (p. 1095). (Nello scrivere tali parole a Vienna nel 1938, Musil per prudenza non nomina Hitler, ma usa invece il codice privato «Carlyle».) Il nazionalsocialismo rese Musil invisibile spingendolo all’esilio e vietando le sue opere; non si può non sospettare che la sua crescente disperazione rispetto al completamento dell’Uomo senza qualità derivasse, almeno in parte, dalla sensazione che il suo progetto, concepito in uno spirito che lui definiva di «dolce ironia», fosse stato superato dal corso della storia.
III.
Fin dall’inizio, Musil creò i personaggi dei suoi romanzi basandoli sulle persone che aveva intorno, inclusi amici e membri di famiglia. Nel primo quaderno (1899-1904) si trova il resoconto romanzato della sua infanzia e adolescenza, con un gruppo di personaggi che, alcuni decenni dopo, riemergeranno nell’Uomo senza qualità.
Nell’uso di materiale privato il caso che colpisce maggiormente è il racconto Tonka (in Tre donne), il cui personaggio principale ricalca molto da vicino Herma Dietz, una giovane donna proletaria con cui Musil ebbe una lunga e intensa relazione fieramente disapprovata dalla madre. Nei Diari Herma appare in una doppia funzione: da un lato è attentamente osservata dal Musil scrittore come modello per il personaggio di Tonka, dall’altro è fonte di turbamento nel Musil uomo. Benché lei negasse, Musil aveva motivo di ritenere che Herma gli fosse stata infedele. Ai suoi amici predicava la trascendenza della gelosia, ma in privato sentiva «un continuo veleno». Cosa fare?
Ciò che fece è tipico di Musil. Poiché non riusciva né ad abbandonarsi alla gelosia né, con un atto di volontà, a dominarla, si trasformò in un personaggio della storia di Herma/Tonka cercando di diventare, grazie alla distanza consentita dalla finzione, quello che avrebbe voluto essere sul piano etico.
A giudicare dalla chiarezza e dall’intensità della scrittura di Musil, sia nei passi del diario relativi a Herma che in seguito, nel racconto compiuto Tonka, l’esperimento etico-estetico funziona. Robert (o R, il suo alter ego nella finzione) cresce visibilmente sotto i nostri occhi, diventando meno giovanilmente irruento, meno cinico, piú tollerante, piú amabile. «La sua sciagura [di Herma/Tonka] con R, – scrive Musil nel diario, – è l’incarnazione simbolica del non poter … aver fiducia nell’intelletto» (p. 162). Se ama Herma deve credere alla sua innocenza. La finzione narrativa diventa cosí il luogo in cui analizzare i suoi rapporti con gli altri, un laboratorio per il perfezionamento dell’anima. Il giovane Musil sta imparando ad amare; e in uno strano modo, piú ama piú diventa lucido e intelligente.
Herma Dietz morí nel 1907. All’epoca Musil aveva già incontrato Martha Marcovaldi, che aveva lasciato il marito italiano per studiare arte a Berlino. Presto andò a vivere con Martha e i suoi figli; a tempo debito si sposarono. «[Martha] è qualcosa che io sono diventato e che è diventata “me”», scrive nei Diari. Il perfezionamento del loro amore – un amore che avrebbe incluso una perversa disposizione al tradimento – divenne un altro progetto etico nella sua vita.
IV.
Per Musil, l’aspetto piú ostinato e retrogrado della cultura tedesca (di cui faceva parte la cultura austriaca: non prese mai seriamente in considerazione l’idea di una cultura austriaca autonoma) era la tendenza a separare l’intelletto dal sentimento, a favorire la spontanea stupidità delle emozioni. Vedeva questa frattura piú chiaramente tra gli scienziati con cui lavorava: uomini di ingegno che vivevano rozze vite emotive.
Fin dai primi quaderni, Musil manifesta un certo interesse per l’eros e le relazioni tra eros ed etica. Gli sembra che l’educazione dei sensi attraverso il perfezionamento della vita erotica contenga la piú alta promessa di portare l’umanità a un piano etico superiore. Deplora i rigidi ruoli sessuali che la società borghese ha creato per le donne e gli uomini. «In conseguenza si sono persi e sono affondati interi paesi dell’animo», scrive.
Quando afferma che la relazione sessuale è la relazione culturale principale, e quando auspica la rivoluzione sessuale come passaggio al nuovo millennio, Musil ricorda stranamente il suo contemporaneo D. H. Lawrence. Ciò che lo differenzia da Lawrence è il suo rifiuto di escludere l’intelletto dalla vita erotica – anzi, il tentativo di eroticizzare l’intelletto. Come scrittore Musil è capace di osservazioni brutali e prive di moralismi che non rientrano nel repertorio di Lawrence. Osserva una giovane donna mentre guarda sua madre baciare un giovanotto. «Finora conosceva soltanto l’atteggiamento riservato della donna; questo però ricorda un cane che si avventa contro un altro» (p. 1149). Nonostante il suo interesse per le metamorfosi del desiderio, esplorate con straordinaria sottigliezza in Congiungimenti, Musil non provava alcuna simpatia per il movimento psicoanalitico: lo infastidiva il suo essere oggetto di culto, ne disapprovava le generalizzazioni e le affermazioni non dimostrate scientificamente. La psicoanalisi, egli afferma con disprezzo, non possiede che pochi concetti esplicativi; ciò che tali concetti non coprono viene lasciato incolto e «non ne diparte neanche il sentiero piú sottile … che porti oltre». Nella psicoanalisi, «scoperte di grande importanza [si mescolano] con cose impossibili, unilaterali, anzi dilettantesche». Lui preferisce quella che ironicamente definisce «la “piatta” psicologia sperimentale» (vol. II, pp. 1440-41, 1101, 1405).
I Diari offrono scarsa evidenza a sostegno dell’opinione alquanto diffusa secondo cui Musil sia debitore nei confronti di Freud piú di quanto egli stesso non riconosca. Il fatto è che sia Musil sia Freud fanno parte di una grande corrente di pensiero europeo. Nessuno dei due credeva che la forza della ragione potesse guidare la condotta umana; ambedue criticavano la civiltà mitteleuropea e i suoi malcontenti; e ambedue assunsero l’oscuro continente della psiche femminile come proprio territorio di esplorazione. Freud era per Musil un rivale piuttosto che una fonte d’ispirazione. La sua vera guida nel regno dell’inconscio restò Nietzsche.
In particolare, Musil ha forti resistenze nell’accettare l’universalità del desiderio edipico. Ripensando alla sua adolescenza, non riesce a ricordare alcun desiderio per la madre, solo disgusto per il suo corpo che invecchiava.
Non è questa la verità, quella triste e sana e non inventata? È il contrario della psicoanalisi. Non oggetto del desiderio è la madre ma ostacolo dello stato d’animo e spoliazione di ogni desiderio, qualora il caso offra al giovane una possibilità sessuale (p. 1138).
Sarebbe stato cosí sicuro di sé Musil se, prima di scrivere queste parole alla fine degli anni Trenta, avesse riletto il quaderno relativo al 1905-6? Qui il giovane Musil abbozza, in una prosa da romanzetto mozzafiato, una scena carica di erotismo in cui l’eroe del racconto si riconcilia con la madre. Alcuni decenni piú tardi, attingerà alla forza di questa scena per rappresentare l’amore incestuoso tra Ulrich, l’uomo senza qualità, e sua sorella Agathe.
V.
Musil utilizza i quaderni non tanto per esplorare i ricordi del passato quanto per catturare dati utili nel presente. Tra i passaggi piú vivaci ci sono lunghi promemoria: pagine di osservazione ravvicinata di mosche intrappolate nella carta moschicida (che piú tardi avrebbe utilizzato in un saggio), e di gatti che si accoppiano nel giardino della sua casa di Ginevra. Alcune sue osservazioni sono meraviglie di precisione: il canto degli uccelli è «come il tocco di mani delicate, premurose».
Gli appunti sulla visita a un manicomio a Roma nel 1913 costituiscono la base del capitolo della terza parte dell’Uomo senza qualità intitolato I pazzi danno il benvenuto a Clarisse, poi modificato in una serie di stesure incluse nella traduzione pubblicata da Knopf. Quando rielabora l’episodio, Musil lo arricchisce rendendolo attraverso lo sguardo perturbante di Clarisse, la fragile amica di infanzia, adoratrice di Nietzsche e piú tardi (in una delle possibili continuazioni della storia) amante di Ulrich. (Ciò che maggiormente colpisce in questi e in molti altri abbozzi è come siano pienamente concepiti e compiutamente scritti. L’unica cosa incerta è a quale punto dell’insieme sarebbero stati inseriti).
Tra i vari scrittori che contarono per Musil e di cui parla nei Diari, da Mallarmé nella gioventú a Tolstoj negli ultimi anni, la figura dominante resta Nietzsche. È stranamente indifferente nei confronti di James Joyce, ma sente un’affinità con G. K. Chesterton. (Per un periodo Musil e Joyce vissero a poche case di distanza a Zurigo, senza rivolgersi mai la parola).
Musil riconobbe come «decisiva» l’influenza di Nietzsche, da cui derivò lo stile filosofico di andamento saggistico piuttosto che sistematico; il riconoscimento dell’arte come forma di esplorazione intellettuale; l’affermazione che l’uomo si fa la sua storia; e un modo di trattare le questioni morali che va al di là delle polarità di bene e male. Lo chiama «Maestro della vita fluttuante interiore»4.
Alcuni degli obiter dicta dei Diari sono memorabili. Di Emily Brontë: «Basterebbe un pizzico di ironia e questa massaia con le sue oneste malefatte sarebbe una figura universale». Di Hermann Hesse: «Egli ha le debolezze di un uomo piú grande di lui».
Sulla cultura e la politica riesce a essere caustico quanto un autore di aforismi.
Il tedesco non sa cosa preferire, se il cielo o l’inferno. Ma il compito di organizzare uno dei due lo entusiasma. E probabilmente un poco di piú dar forma all’inferno (p. 1469).
Dopo che Goebbels ebbe emanato un decreto che vietava la «critica distruttiva», Musil scrive:
Dal momento che la critica è proibita devo dedicarmi all’autocritica. Non ci si scandalizzerà, dal momento che in Germania è ignota (p. 1363).
A un livello piú spicciolo, i Diari contengono liste di libri che ha letto, annotazioni in codice sulla vita sessuale con Martha e preoccupazioni sulla salute. Musil era un fumatore accanito. Fumare gli creava qualche problema (gli impediva di lavorare nelle biblioteche pubbliche), ma non riusciva a smettere. «Io tratto la vita come una circostanza spiacevole, che si può superare fumando!»
Un aspetto poco simpatico del carattere di Musil affiora nel risentimento per il successo di scrittori che reputa inferiori, tra cui Franz Werfel, Stefan George e Stefan Zweig, e negli attacchi di permalosità quando non viene omaggiato nel modo che ritiene gli sia dovuto.
Uno dei pochi amici degli ultimi anni di Musil, lo scultore Fritz Wotruba, ricorda la distanza esistente tra i rapporti cortesi che intratteneva con alcuni in pubblico e i violenti attacchi che lanciava loro in privato. In particolare era amareggiato dalla fama di Thomas Mann. Mann ha abbassato il suo livello per compiacere il pubblico, commenta con disprezzo nei Diari, mentre lui, Musil, scrive per le generazioni future.
I due scrittori si incrociarono brevemente in Svizzera, dove Mann era celebrato come un grande scrittore, Musil ignorato. Dalla Svizzera Mann proseguí per gli Stati Uniti dove, secondo Musil, fece ben poco per aiutare gli scrittori europei in difficoltà. In verità Mann inviò una bella lettera al PEN5 inglese proponendo all’associazione di sponsorizzare l’emigrazione del «nostro grande collega Robert Musil». Anche Hermann Broch, un altro contemporaneo che Musil disprezzava nella segretezza del suo diario, fece sentire la sua voce, «Robert Musil fa parte della schiera dei grandi scrittori epici di statura mondiale». Quando in seguito apprese ciò che Mann aveva scritto in suo favore, Musil si ricredette riconoscendo di essere stato ingiusto.
C’è una certa incoerenza nel fatto che Musil disprezzasse Mann perché si adatta al gusto dei lettori mentre accusa gli stessi lettori di trascurarlo. A volte Musil se ne rende conto e cerca di convincersi che può usare a suo vantaggio l’oscurità del suo «doppio esilio»: dalla patria e dall’attenzione del pubblico.
Ora sono io stesso, non soltanto nella mia debolezza ma anche nella mia forza, a non sentirmi in nessun luogo completamente al mio posto, in nessun luogo completamente estraneo. Ora sono di nuovo padrone di me stesso e del mio modo di affrontare il mondo (p. 1450).
L’atteggiamento nei confronti del mondo cui fa riferimento è, naturalmente, ironico. «L’ironia deve contenere un po’ di sofferenza. Altrimenti è saccenteria».
VI.
Musil aveva una certa astuta consapevolezza delle proprie capacità. «[Possiedo] una fantasia intellettuale». «Mi accorgo di processi dentro me e negli altri che alla maggior parte delle persone sfuggono». Altrettanto penetranti sono le sue intuizioni delle debolezze del proprio lavoro. Retrospettivamente, vede le novelle che formano Congiungimenti come carenti di tensione narrativa. Grigia, il racconto di Tre donne, basato sulle sue esperienze di guerra, viene liquidato e definito «un disastro». Anche L’uomo senza qualità è «sovraccarico di elementi saggistici che sfuggono e non restano impressi» (p. 1202).
Ci sono lunghi periodi di stallo in cui non riesce a scrivere. Al mattino si sveglia in uno stato di «disperazione intellettuale» e di «impotenza, mescolate con un terribile ribrezzo … nel dovermi rimettere al lavoro [sull’Uomo senza qualità]» (p. 1001). I suoi libri «mancano di una vera e propria urgenza», e lui non riesce a scoprire dentro di sé il «gesto» necessario a produrre tale urgenza. Ha voglia di abbandonare ogni cosa. E tuttavia va faticosamente avanti con la vaga sensazione che ciò che fa possa essere importante. La sua autoanalisi, dal momento che parte da una «crisi della vita» – una crisi di fallimento, personale e storica – potrebbe servire a «gettare … anche abbastanza luce sul tempo circostante» (p. 1402).
Ogni tanto aspetta con ansia il momento in cui il lavoro sul romanzo sarà finito e potrà guadagnarsi da vivere piú facilmente scrivendo saggi. Inventa titoli di saggi, prende appunti, abbozza interi passaggi. Ma le stesure sono confuse: è come se avesse la mente altrove.
Le pagine relative agli ultimi anni sono molto cupe. La libido va declinando e lui interpreta questo come «mancanza di volontà di vivere». «Cadono come bende dagli occhi. Esseri e attività amati li vedi spietatamente». Non gli piace quello che sta scrivendo eppure non vuole cambiarlo. «Sono completamente estraneo a me stesso e potrei sia giudicarmi che commentarmi»
VII.
Via via che la prospettiva di terminare L’uomo senza qualità cominciava ad apparirgli piú remota, Musil prese in considerazione l’idea di usare i quaderni come base per un nuovo progetto. «Ma dovrei scrivere di questi quaderni», si dice e inventa persino un titolo: I quaranta quaderni.
Immagina che la nuova opera risponda a due fini: rivolgersi al futuro della Germania, inclusa la sua colpa storica; e registrare il progresso della sua opera, presentandola «correttamente» (richtig: Musil non riflette ulteriormente sul senso di questa parola). Ritiene che non gli sarà difficile rintracciare l’origine «dell’attuale cerchia di problemi» che riguardano L’uomo senza qualità. Ma quando comincia a esplorare il piano in maggiore profondità, si scoraggia. Ha l’energia sufficiente per imbarcarsi nella «ricostruzione di una vita proprio incomprensibile»?
E tuttavia il progetto autobiografico lo attrae. «Questa epoca merita di essere tramandata come è … non distanziata come nell’Uomo senza qualità ma … vista da vicino, come una vita privata», scrive nel 1937.
Se io però descrivo la mia vita come esemplare, come una vita in un’epoca che voglio tramandare ad epoche successive, tutto questo è attenuabile con l’ironia e inoltre le obiezioni sollevate cadono. Anche la mia esplorazione della coscienza, l’osservazione dei miei errori e simili trova lí il suo posto come riproduzione dell’epoca (p. 1317).
Il progetto di Musil di trasformare i quaderni in qualcos’altro non fu mai realizzato. E tuttavia, stranamente, i Diari prendono vita proprio dal fatto di essere un’opera di scrittura che, per quanto diseguale e irrealizzabile, ha in sé le potenzialità per diventare una vera e propria opera letteraria. Nelle fasi finali, i Diari rappresentano in realtà l’ammissione di un grande scrittore, in un’epoca buia, di trovarsi in un vicolo cieco e di non riuscire a tirarsene fuori da solo attraverso un nuovo eroico progetto. Ciononostante egli ha qualche speranza che la registrazione dei suoi tormenti, resa integralmente e con tutte le prove del suo pieno e genuino impegno nell’epoca maledetta in cui è nato, possa costituire una prova a suo favore. Ciò conferisce ai Diari una dimensione emotiva, addirittura di pathos, che Musil non poteva prevedere e che li rendono un documento commovente.
VIII.
Il passaggio di Musil dall’oscurità degli anni di guerra alla celebrità e alla grandezza cominciò negli anni Cinquanta. I suoi piú efficaci sostenitori nel mondo anglofono furono i due traduttori-studiosi Ernst Kaiser e Eithne Wilkins, che sul «Times Literary Supplement» lo definirono «il piú importante romanziere di lingua tedesca della metà del secolo» e fecero seguire a questa asserzione una traduzione dell’Uomo senza qualità (in tre parti, 1953-60). Il libro fu bene accolto in Inghilterra ma non negli Stati Uniti, dove il recensore di «New Republic» lo definí un «gran pasticcio di metafisica teutonica».
I materiali in possesso di Martha Musil ammontavano a circa diecimila pagine scritte a mano. (Tale Nachlass è ora disponibile su CD-ROM. Cosí, ironia della sorte, finanche un giovane laureato è in grado di orientarsi nel labirinto di Musil con una facilità che lo stesso autore, nonostante il complesso sistema di riferimenti da lui elaborato, non ebbe mai). Le analisi degli studiosi cominciarono nel 1951; i primi frutti furono l’edizione tedesca dell’Uomo senza qualità a cura di Frisé che comprende le parti di testo piú o meno concluse da Musil con l’aggiunta di qualche stesura precedente. Sulla questione se Frisé fosse autorizzato o meno a scegliere uno dei due possibili finali di Musil, la sua preferenza per l’unione fisica tra Ulrich e sua sorella Agathe all’unione mistica suscitò una vera e propria battaglia di parole. I quattro volumi dei Gesammelte Werke del 1978 presentano il compromesso di Frisé. L’aggiunta delle stesure non viene piú data in una forma ambigua. Al contrario, prima vengono inseriti i capitoli completati e approvati da Musil; poi i capitoli su cui ancora stava lavorando all’epoca della sua morte (spesso con varianti); e infine, una scelta del materiale rimanente.
Musil non terminò il suo gigantesco romanzo e forse non avrebbe potuto terminarlo. L’opera, anche a livello della logica interna, è lungi dall’essere completa. Ci sono elementi della trama per cui non si riesce a intravedere nessuno sbocco, persino nelle stesure intermedie (si pensi alle conseguenze della falsificazione del testamento del padre da parte di Agathe); decisioni importanti che Musil sembra posporre (come quella, ad esempio, se Ulrich debba avere una relazione con Clarisse). A un livello piú sostanziale è lecito dubitare che l’impalcatura costruita da Musil sia in grado di reggere il peso sempre maggiore di contenuto storico che deve sostenere.
Gli appunti di Musil indicano che, fin dagli anni Venti, egli cominciò a chiedersi come mai si fosse imbarcato in un romanzo cosí decisamente datato. Sembra tuttavia che egli ritenesse la concezione del romanzo abbastanza flessibile da poter prevedere, almeno a livello di presagio, anche le realtà dell’Europa del dopoguerra. (In questo Musil sembra aver fatto troppo affidamento sul personaggio di Moosbrugger, lo psicopatico assassino, col quale intende rappresentare i violenti impulsi autoliberatori delle persone disorientate dalla condizione della vita moderna – impulsi che successivamente sarebbero stati sfruttati dai movimenti fascisti. Nel testo compiuto, Moosbrugger è un personaggio secondario, ma ha ampio spazio nelle stesure intermedie).
La decisione di Musil dell’ultimo momento di ritirare, nel 1938, i venti capitoli finali della terza parte, che già si trovavano nelle mani dei tipografi, appare sempre piú giusta. Questi capitoli consistono sostanzialmente nell’esposizione della teoria delle emozioni di Ulrich; sono gli ultimi capitoli ad avere avuto, o quasi, l’imprimatur dell’autore. Sono stati lodati per il loro lirismo, un lirismo che oggi appare piuttosto affettato e l’intera sequenza priva dell’acutezza di osservazione che caratterizza la migliore prosa di Musil.
I problemi non riguardano solo la scrittura ma anche il personaggio di Ulrich. A grandi linee il romanzo fa procedere due vicende in contrappunto: da un lato, un’Austria alla bancarotta spirituale cui viene consentito di vivere gli ultimi giorni, dall’altro Ulrich che, con e per mezzo della sorella, negozierà un ritiro erotico-mistico dalla società. «Per amore di un mondo che potrebbe ancora venire, bisogna mantenersi puri» afferma autogiustificandosi. Ma nel contesto fittizio dell’Europa del 1914, cui sempre piú spesso viene chiesto di accollarsi, a livello simbolico, anche il peso dell’Europa del 1938-39, il ritiro di Ulrich deve essere apparso – e qui bisogna ammettere che i Diari non aiutano – un gesto sempre meno adeguato e appropriato. Un divario sempre piú ampio si apre tra il piano etico e quello politico del romanzo.
La lettura dell’Uomo senza qualità sarà sempre un’esperienza insoddisfacente. Si giunge all’ultima delle circa 1500 pagine in uno stato di confusione, persino di delusione. Ma, considerata la ricchezza delle stesure, come pure l’ampiezza della crisi della cultura europea che Musil stava tentando di registrare, sia nell’Uomo senza qualità sia nel testo parallelo dei Diari, il troppo è da preferirsi al troppo poco.
1 R. MUSIL, L’uomo senza qualità (intr. di C. Cases, trad. di A. Rho), Einaudi, Torino 1962.
2 ID., Diari 1899-1941, a cura di A. Frisé (intr. e trad. di E. De Angelis), Einaudi, Torino 1980, 2 voll. Si veda anche R. MUSIL, Saggi e lettere, a cura di B. Cetti Marinoni, Einaudi, Torino 1995.
3 ID., Diaries, 1899-1941 (selezione, trad. e note di P. Payne; prefazione di P. Payne; cura e introduzione di M. Mirsky), Basic Books, New York 1998.
4 ID., L’uomo senza qualità cit., vol. II, p. 26.
5 PEN (Poets, Essayists and Novelists), associazione internazionale degli scrittori, fondata nel 1921, per la difesa della libertà di espressione [N. d. C.].
Dostoevskij: gli anni miracolosi
Dagli anni Cinquanta Joseph Frank è impegnato in uno dei grandi progetti biografici del nostro tempo, la vita di Fëdor Dostoevskij in cinque volumi. I volumi si possono leggere separatamente e sono tutti ugualmente appassionanti. Di particolare interesse è il quarto, apparso nel 1997, che copre gli «anni miracolosi» tra il 1865 e il 1871, gli anni di maggiore impegno di Dostoevskij, in cui scrisse Delitto e castigo (1866), L’idiota (1868) e I demonî (1871-72)1.
Nel 1864 morirono sia la prima moglie di Dostoevskij che il suo amato fratello maggiore Mikhail. Dostoevskij, che aveva un forte senso della famiglia, senza alcuna esitazione (ma anche senza comprendere in che cosa si stava imbarcando) si assunse la responsabilità della moglie e dei figli di Mikhail e degli enormi debiti da lui lasciati, nonché del figlio della sua defunta moglie, frutto di un precedente matrimonio. Queste persone sfruttarono senza pietà il senso del dovere di Dostoevskij, che avrebbe impiegato i successivi sette anni nello sforzo di guadagnare, con i suoi scritti, abbastanza denaro da riuscire a mantenerli nel benessere cui erano abituati.
Poiché scriveva per guadagnarsi da vivere, Dostoevskij era sempre incalzato da scadenze. Una di queste lo portò al secondo matrimonio. Impegnatosi a terminare un romanzo in breve tempo, assunse una stenografa, una giovane donna di nome Anna Grigorijevna Snitkina. La sottopose a una prova di dettatura, poi le offrí una sigaretta. Lei rifiutò, superando cosí senza saperlo la seconda prova: aveva dimostrato di non essere una donna emancipata e dunque, probabilmente, neppure nichilista. Nel giro di un mese, con l’aiuto della stenografa, Dostoevskij riuscí a dettare e a revisionare Il giocatore e fu cosí in grado di riprendere Delitto e castigo, il progetto interrotto. Si sposarono dopo tre mesi. Lui aveva quarantacinque anni, lei ventuno.
Dostoevskij non amava vivere da solo. Negli ultimi tempi, all’insaputa di Anna, in cerca di compagnia e di quella vita familiare cui anelava, aveva corteggiato senza successo molte giovani donne. Né si era del tutto ripreso dall’infatuazione per Apollinaria Suslova, la giovane radicale con cui aveva avuto una burrascosa relazione nel 1863.
Come marito Dostoevskij non era una proposta allettante: vedovo di maniere non proprio raffinate, con una sfilza di parenti affamati a rimorchio e un passato di sovversivo che lo aveva portato a una condanna a dieci anni in Siberia; come scrittore non aveva, agli occhi del pubblico, mantenuto le promesse del suo primo romanzo, Povera gente, pubblicato piú di venti anni prima. Anna tuttavia accettò la sua proposta e dimostrò di essere un’eccellente compagna, sostenendolo nei periodi di malattia e di miseria, e trasformandosi, dopo la sua morte, nella gelosa custode della sua memoria.
Il matrimonio non dovette essere molto appassionato, almeno all’inizio. Intanto perché Dostoevskij aveva un ritmo quotidiano che strideva completamente con quello di una giovane moglie e madre: restava seduto al tavolo dalle dieci di sera alle sei del mattino, dormiva tutta la mattina e faceva una passeggiata nel pomeriggio, fermandosi a un caffè a leggere i giornali. Quando i suoi amici letterati venivano a trovarlo, si ritirava assieme a loro, lasciando ad Anna ogni incombenza relativa ai suoi parenti che, da parte loro, la sentivano come un’intrusa.
Quando i creditori di Mikhail si fecero piú insistenti, Dostoevskij propose ad Anna di lasciare San Pietroburgo e andare a vivere all’estero. Anna accettò, fosse solo per liberarsi dalla famiglia di lui. Per quattro anni, dal 1867 al 1871, la coppia visse tra Germania, Svizzera, Italia e poi di nuovo Germania, in alberghi o appartamenti presi in affitto. Fu un periodo di cupezza estrema. Vivevano alla giornata, sugli anticipi di M. N. Katkov, l’editore di Dostoevskij, che era sempre stato tollerante. Anna fu spesso costretta a dare in pegno abiti e gioielli per pagare i conti.
Vivere all’estero confermò la tendenza dello scrittore per quella che Frank, in un raro momento censorio, definisce «la violenta xenofobia di Dostoevskij». Dostoevskij aveva molti pregiudizi contro i tedeschi: «Non c’è alcun limite al mio odio nei loro confronti!» Detestava Firenze perché i fiorentini cantavano per strada quando lui voleva dormire e a Ginevra si lamentava perché le case erano prive dei doppi vetri. Finanche la compagnia degli émigré russi non gli dava alcun piacere. Non aveva nulla in comune con i reazionari aristocratici che avevano lasciato la Russia indignati per l’abolizione della servitú della gleba. Nei confronti del piú famoso letterato in esilio, Ivan Turgenev, nutriva un rancore imperituro dopo che Turgenev gli aveva confessato che, essendosi stabilito in Germania, si considerava tedesco e non piú russo.
Correndo il rischio di esagerare, Frank definisce Dostoevskij «uno scrittore proletarizzato costretto a scrivere per guadagnarsi da vivere». Sulle circostanze che lo costringevano a tali ritmi di lavoro Dostoevskij provava una certa amarezza. Pur avendo già pubblicato Delitto e castigo – un enorme successo di pubblico – e L’idiota, sentiva un forte senso di inferiorità nei confronti di Turgenev e di Tolstoj, ambedue tenuti in maggiore considerazione e pagati piú di lui. Invidiava ai suoi rivali il tempo, l’agio e le ricchezze che avevano ereditato; aspettava il giorno in cui avrebbe potuto affrontare un tema veramente importante e si sarebbe dimostrato loro pari. Abbozzò con ricchezza di dettagli un’opera ambiziosa, dapprima intitolata Ateismo, poi Vita di un grande peccatore, che gli avrebbe portato il riconoscimento di scrittore serio. Ma dovette inglobare gran parte di questi abbozzi nei Demonî, e la grande opera fu nuovamente rimandata.
Dostoevskij riconobbe l’importanza cruciale di Padri e figli di Turgenev fin dalla sua pubblicazione nel 1861, ma il suo giudizio sugli scritti successivi risentí dell’antagonismo personale e politico (nel fatuo e affettato littérateur Karmazinov dei Demonî fa una caricatura di Turgenev). Quanto a Tolstoj, per tutta la vita si tenne a rispettosa distanza da lui e i due non si incontrarono mai. In privato Dostoevskij faceva un sol fascio degli scritti di Tolstoj e quelli di Turgenev definendoli «letteratura dei proprietari terrieri», roba di un’epoca ormai scomparsa.
Durante la permanenza all’estero Anna partorí due figli. Il primo morí all’età di tre mesi. I genitori ne furono sconvolti e la condivisione del dolore portò a una maggiore vicinanza. Inoltre, il saldo sostegno di Anna cominciava a fare effetto su Dostoevskij. Mentre la prima moglie aveva reagito con terrore e sgomento alla sua epilessia, Anna, nonostante la giovane età, lo curò durante gli attacchi sopportandone le conseguenze – giorni di irritabilità e litigiosità – con buona disposizione. A poco a poco egli imparò a rispettarne le opinioni e cominciò a parlarle dei suoi scritti.
Tuttavia, la cosa piú dura da sopportare per Anna non era tanto l’epilessia quanto il gioco. Dostoevskij era un giocatore accanito. Il gioco le rovesciò addosso non solo la miseria ma ogni sorta di degradazione morale: dover sospettare di un uomo che amava; sopportare menzogne e inganni ed essere costretta poi ad ascoltare confessioni, pentimenti e autorecriminazioni, che, in fin dei conti, non erano neppure sincere o non abbastanza.
Anna accantonava una parte dei soldi della gestione della casa per il gioco del marito che, dopo aver perso, tornava dicendole – lo scrive nel suo diario – che «lui non era degno di me, che era un porco e io un angelo», ma aveva bisogno di altro denaro. Generalmente cedeva, temendo che, in caso di rifiuto, si sarebbe agitato e avrebbe avuto un attacco. La sua mitezza non la portava da nessuna parte, e lui si lamentava che avrebbe preferito una moglie bisbetica: «Era fonte di dolore per lui il fatto che fossi cosí dolce». (Frank osserva che l’estrema dolcezza del principe Myshkin nell’Idiota, che Dostoevskij stava scrivendo all’epoca, genera un’analoga esasperazione nelle persone che lo circondano).
Sebbene Dostoevskij non tentasse di giustificare il suo attaccamento al gioco, riusciva a condannarlo solo secondo i suoi criteri, cioè come manifestazione della propria tendenza ad andare «sempre e dovunque … fino al limite estremo». È chiaro che per colui che aveva creato Marmeladov e che avrebbe tra poco dato vita a Stavrogin, si trattava allo stesso tempo di una vanteria e di un’autocondanna. Anna tuttavia rifiutava di giudicare il marito. E cosí come preferiva leggere i maltrattamenti del marito come segno dell’epilessia («Quando mi bistratta è a causa della malattia, non per malumore»), sembra anche essere riuscita – alla maniera di Dostoevskij, fa notare Frank – «a separare la sua ossessione per il gioco dalla sua personalità morale, a considerarla come qualcosa di estraneo alla sua vera personalità». Frank si astiene dal porre la domanda di fondo: se il demonio che possedeva Dostoevskij non gli apparteneva e non ne era responsabile, chi lo era dunque?
II.
Da giovane Dostoevskij era stato attratto dal socialismo utopico della variante Fourier. Ma quattro anni in un campo di prigionia in Siberia avevano scosso la sua fede nel socialismo. Non ci sono motivi per dubitare della spiegazione che egli stesso dà di questo cambiamento: lontano dal vivo dell’intellighenzia urbana dissidente e costretto a vivere fianco a fianco con persone semplici, per lo piú contadini russi, cominciò a rendersi conto che le idee importate dall’Europa non si potevano applicare nei loro confronti, neppure in buona fede. Le persone per cui lui e i suoi compagni cospiratori avevano lottato li guardavano con sospetto e persino ostilità: loro sarebbero sempre stati i «possidenti», e tra possidenti e contadini c’era un abisso. D’altra parte, qualsiasi crimine spaventoso questi contadini potevano aver commesso, bisognava ammettere che non erano miscredenti, né ribelli, né nichilisti: nella misura in cui potevano essere dei peccatori erano peccatori credenti, «portatori di Dio», secondo l’antica espressione russa. Cosí Dostoevskij riuscí a comprendere, per citare Frank, «quanto profondamente radicato fosse il mondo morale contadino, che era tutt’uno con il cristianesimo delle origini». Questa intuizione rese del tutto irrilevanti le fedi sociali di ateismo importate dall’Occidente.
Da qui deriva l’entusiasmo di Dostoevskij, al ritorno dalla Siberia, per la dottrina del pochvennichestvo, il ritorno alla terra, alle radici originarie, cui aggiunse, alla fine degli anni Sessanta, una sfumatura di messianismo russo: «La missione della Russia … consiste nel rivelare al mondo il Cristo russo». Sotto il dominio di un falso vangelo, il vangelo di Roma, l’Occidente era sulla via del declino; stava arrivando il momento per la Russia di offrire al mondo «un nuovo messaggio». «Il pensiero russo sta preparando un grandioso rinnovamento per il mondo intero … e ciò accadrà tra circa un secolo – è questa la mia convinzione appassionata».
Se aggiungiamo alla fede in un destino speciale della Russia su scala storica mondiale l’appello affinché l’egemonia russa venga estesa alle altre nazionalità slave, l’impegno nei confronti dell’imperialismo della Grande Russia, e persino la giustificazione della guerra come fuoco purificatore, avremo il ritratto di un estremista di destra – un ritratto di Dostoevskij che piú tardi sarebbe stato confermato dalla popolarissima rubrica «Diario di uno scrittore», tenuta per il quotidiano «The Citizen» e che poi continuò in maniera indipendente. In un’anticipazione dell’ultimo volume della biografia, Frank afferma che attraverso questa rubrica Dostoevskij sarebbe emerso come «la piú importante voce pubblica russa, le cui parole venivano avidamente attese, commentate e discusse».
Ma il ritratto di Dostoevskij come estremista arrabbiato non gli rende giustizia. Il suo sciovinismo non arrivò mai alla glorificazione del passato russo e, per quanto riguarda le problematiche sociali, Frank afferma che, come sostenitore delle riforme liberali con cui Alessandro II diede inizio al suo regno, tra cui quella cruciale dell’abolizione della servitú della gleba, egli si «colloca piuttosto al centro». Le sue lettere esprimono sgomento per il capovolgimento di questa politica, che si verificò a seguito dell’attentato alla vita di Alessandro nel 1866. Pur non nutrendo alcun dubbio che le dottrine dell’intellighenzia radicale avrebbero significato la rovina per la Russia, ammetteva che fossero animate da un reale «entusiasmo per il bene … e purezza di sentimenti». Anche l’acuta xenofobia degli anni trascorsi all’estero si esprime nelle lettere piuttosto che nei romanzi. L’idiota, il romanzo piú importante dei tardi anni Sessanta, intende rappresentare un uomo che agisce imitando Cristo – una visione di Cristo tipicamente russa – e non affermare la superiorità della teologia orientale su quella occidentale. Secondo Frank – che riesce a distinguere con grande lucidità nel pensiero di Dostoevskij il groviglio politico da quello religioso – i romanzi presentano soprattutto l’aspetto «universalistico-etico» del messianismo di Dostoevskij, in misura minore quello «imperialistico-egoistico».
Il contributo di Dostoevskij al dibattito sul futuro della Russia è fondamentale. Nelle opere maggiori degli anni 1864-80 – Memorie dal sottosuolo, Delitto e castigo, L’idiota, I demonî e I Fratelli Karamazov – egli svolge una serrata interrogazione della ragione – la ragione dell’Illuminismo – che ritiene alla base di una buona società, e in particolare della buona fede della Ragione (non ha forse la Ragione il suo programma segreto, che ha altrettanto a che vedere con il desiderio di potere quanto con la ricerca disinteressata della verità e della giustizia?). Questa interrogazione viene svolta con grande fervore non solo perché è nel carattere di Dostoevskij ma anche perché i libri scaturiscono da una crisi storica, ed è di questo che parlano, la crisi di modernizzazione della Russia. Questa crisi sarebbe culminata nella presa del potere bolscevica del 1917, che promise di affrancare il paese portandolo nella modernità ma riuscí solo a pietrificarlo.
L’inizio simbolico della crisi può collocarsi nel 1862, anno della pubblicazione di Padri e figli, in cui Turgenev punta il dito su un nuovo e pericoloso attore sociale, il nichilista Bazarov:
– Noi agiamo in forza di ciò che riconosciamo utile, – disse Bazarov. – Nei nostri tempi la cosa piú utile è la negazione, e noi neghiamo.
– Tutto?
– Tutto.
– Come? Non solo l’arte, la poesia… ma anche… ho paura di dirlo…
– Tutto, – ripeté con una tranquillità inesprimibile Bazarov2.
Sia Turgenev che Dostoevskij riconobbero che c’era qualcosa di puerile nel nichilismo. Rabberciato da frammenti di scientismo e di utilitarismo, poteva a malapena definirsi una dottrina politica. Per quanto i suoi adepti potessero essere stati animati dalla stessa pietà e rabbia di Dostoevskij e dei suoi confrère cospiratori del tempo, il nichilismo, nel suo autocompiacimento intellettuale (la «tranquillità inesprimibile» di Bazarov), la sua cieca distruttività, la sua hubris, e il malcelato disprezzo – a seguito del fallimento della rivolta contadina del 1863 – per coloro nel cui nome sosteneva di parlare, appariva a Dostoevskij non tanto una deviazione eretica dal collettivismo utopico degli anni Quaranta, quanto una sua perversa mutazione – o per usare la metafora dominante dei Demonî, uno spirito maligno – che si stava impossessando delle menti di una nuova generazione di giovani russi malamente istruiti.
Dostoevskij ammirò Padri e figli che lesse, secondo Frank, come la «denuncia in termini intensamente lirici» del nichilismo nascente. Tutto fa credere che Turgenev condividesse il punto di vista di Dostoevskij su Bazarov. La sinistra tuttavia preferí non riconoscere la dimensione critica del ritratto; e Turgenev incoraggiò tale lettura distorta dichiarando incomprensibilmente che Bazarov era lui stesso. Dostoevskij fu indignato dalla mossa di Turgenev che interpretò come un gesto opportunista nei confronti dei giovani di sinistra.
Si può immaginare che Dostoevskij, nella sua continua critica del nichilismo, proiettasse la carriera dell’eroe di Turgenev negli anni Sessanta, e Frank rintraccia le metamorfosi di Bazarov a opera di Dostoevskij, da Raskolnikov in Delitto e castigo al giovane Verkhovenskij nei Demonî («Bazarov ... indurito in un fanatico senza scrupoli»). Tale critica non viene condotta tuttavia semplicemente a livello politico. Nell’immaginazione escatologica di Dostoevskij, il nichilismo con il suo egoismo amorale e l’autoesaltazione proto-nietzscheana, rappresentava una malattia spirituale contagiosa: la Russia nelle mani dei nichilisti non sarebbe stata altro che la Russia sotto l’Anticristo.
III.
Dostoevskij era un avido lettore di giornali. Molti suoi romanzi sono ispirati a fatti di cronaca nera che considerava sintomi rivelatori del malessere dell’epoca. Esultò quando, dopo la pubblicazione di Delitto e castigo, la vita imitò l’arte e i giornali riportarono notizie di delitti analoghi a quelli commessi da Raskolnikov, perché ciò dimostrava che quel che lui definiva il «realismo fantastico» dei suoi romanzi lo avvicinava all’essenza profonda della vita russa molto piú della verosimiglianza programmatica dei realisti.
Il suo metodo compositivo, nella misura in cui il suo modus operandi può essere definito metodo, consisteva nel raccogliere e sviluppare una congerie di trame e narrative in attesa che il guizzo trasformatore dell’ispirazione gli suggerisse quale sarebbe valsa la pena di seguire e quali potessero essere messe insieme. Definiva «incarnazione» il momento in cui dal groviglio delle possibilità emergeva un personaggio possibile, capace di coagulare intorno a sé l’azione. Una volta deciso il personaggio principale e lo schema della storia, passava velocemente, e con una certa sicurezza, a definire i dettagli della scena, del personaggio e dell’azione via via che procedeva.
Frank illustra con chiarezza questo processo, basandosi non solo sul lavoro dei curatori russi dei quaderni di appunti di Dostoevskij, ma anche di studiosi americani del calibro di Edward Wasiolek e Robin Feuer Miller. Sfortunatamente, prima del ritorno in Russia, le prime stesure dell’Idiota e dei Demonî furono, nonostante le proteste della moglie, distrutte dall’autore. (Il suo passato di sovversivo gli faceva ritenere che alla frontiera sarebbe stato perquisito; non aveva voglia di portare valige piene di carte, temendo che sarebbero stati trattenuti per giorni fintanto che la polizia di frontiera potesse leggerle. Invece, alla stazione, suo figlio si mise a piangere cosí tanto che la polizia si affrettò a farli passare). L’analisi che Frank conduce sui taccuini e sulle stesure rimaste è particolarmente illuminante, consentendogli di spiegare la mancanza di unità dell’Idiota – la cui prima parte si collega debolmente con la seconda – e di mostrare come le tecniche narrative di Dostoevskij in Delitto e castigo si facessero piú audaci via via che il libro procedeva. Il modo in cui descrive la complessa genesi dei Demonî è di una chiarezza esemplare.
I demonî presenta problemi irriducibili per il lettore. Dai tempi di Nicola I fino a molto recentemente, la censura è stata un fattore costante nella vita intellettuale russa. Come la maggior parte dei sistemi di censura ben radicati, quello russo riusciva a far sí che scrittori, redattori ed editori si autocensurassero. Nel manoscritto che Dostoevskij consegna al «Russian Messenger», il giornale che pubblicava a puntate I demonî, c’è un capitolo in cui Stavrogin confessa a un prete di avere sedotto una ragazza e di non avere fatto nulla per impedirne il suicidio. Per motivi di ordine morale il direttore del giornale, Katkov, rifiutò il capitolo. Nonostante le numerose riscritture in cui Dostoevskij, per quanto gli fu possibile, attenuò il tono del capitolo, Katkov, che per altri versi era un uomo tollerante e comprensivo, non volle cedere.
Dostoevskij venne a trovarsi in una situazione estremamente difficile. Non potendo raccontare il crimine di Stavrogin, il personaggio risultava troppo enigmatico, eccessiva la sua disperazione spirituale, e immotivato il suo suicidio alla fine del libro. Dostoevskij dovette fare del suo meglio per minimizzare il danno causato dalla mancanza del capitolo censurato rielaborando il resto dei Demonî; in seguito revisionò il testo una seconda volta per la pubblicazione in volume. Frank ricostruisce queste revisioni, per quanto lo consentono le fonti frammentarie, mostrando che il libro in nostro possesso – nonostante la sua grandiosità – non è quello che Dostoevskij intendeva scrivere; e che inoltre, a questo punto, il capitolo soppresso non può essere reinserito nel romanzo per via della mole di revisioni secondarie sul contesto cui Dostoevskij era stato costretto.
IV.
L’orientamento attuale negli studi su Dostoevskij deriva in larga misura dall’opera di Mikhail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica3 (pubblicata la prima volta nel 1929, e nel 1963 in un’edizione rivista). Il concetto di dialogismo, definito da Bachtin, è diventato un termine critico corrente. Per romanzo dialogico si intende quello in cui non esiste una coscienza autoriale centrale e dominante, e dunque non vi è alcuna pretesa alla verità e all’autorità, ma solo voci e discorsi di pari valore. Secondo Bachtin, Dostoevskij fu l’inventore (o il re-inventore) e il maggiore rappresentante del romanzo dialogico, che lui derivò dalla fusione di generi diversi e in gran parte di statuto inferiore come il romanzo poliziesco, il racconto picaresco, l’agiografia, la confessione alla vigilia dell’esecuzione.
Nella critica accademica ortodossa, dialogico è diventato un termine positivo, monologico un termine negativo. Non è colpa di Bachtin se il suo pensiero è stato volgarizzato, e se monologismo e dialogismo (o il quasi sinonimo bachtiniano di polifonia) sono divenute alternative (alternative con importanti implicazioni ideologiche) che si offrono liberamente allo scrittore. Frank fa riferimento a Bachtin solo poche volte, soprattutto per correggerlo su questioni di dettaglio, ma perde, nel complesso, l’occasione di fornire lui stesso quello che manca in Bachtin, e cioè l’affermazione a chiare lettere che il dialogismo dei romanzi di Dostoevskij non è una questione ideologica, e ancor meno una tecnica di scrittura, ma un atto di grande coraggio intellettuale e spirituale. A proposito dell’Idiota Frank scrive:
Con una integrità che non si potrà mai lodare abbastanza, Dostoevskij sottopone senza alcun timore le sue piú venerate convinzioni alla stessa prova usata per quelle dei nichilisti – di quali sarebbero le conseguenze per la vita umana se venissero prese seriamente e alla lettera e vissute pienamente … Con esemplare onestà rappresenta l’estremismo morale del suo ideale escatologico, incarnato dal [principe Myshkin], come altrettanto incompatibile con le esigenze normali della vita sociale, e altrettanto scandaloso e dirompente come l’apparizione di Cristo nel mezzo dei compiaciuti e rispettabili farisei4.
Quello che Frank descrive in questo passo è, da una prospettiva piú ampia, lo stesso fenomeno che Bachtin chiama dialogismo. Ma implicito nel discorso di Frank è ciò che Bachtin omette: che, nella misura in cui il dialogismo dostoevskiano deriva dal carattere morale di Dostoevskij, dai suoi ideali e dalla sua identità di scrittore, esso è difficilmente imitabile.
La biografia di Joseph Frank, come egli stesso dichiarò fin dalla prefazione al primo volume, è una biografia letteraria: «Chi si aspetta di trovare, nelle pagine che seguono, una biografia convenzionale andrà incontro a una delusione … io non procedo dalla vita all’opera, ma piuttosto all’inverso. Il mio fine è interpretare l’arte di Dostoevskij». Tali intenzioni piuttosto austere vengono modificate nel secondo volume, dove Frank ammetterà che quello che sta veramente cercando di fare è fondere la biografia e la storia socio-culturale con la critica letteraria. Ciononostante, ciascun volume contiene una certa quantità di commento letterario, e singoli capitoli sono dedicati alle opere principali di Dostoevskij.
Frank è inoltre un teorico della letteratura, autore dell’importante saggio Spatial Form in the Modern Novel (1945), in cui applica la teoria modernista del montage allo studio del romanzo, mostrando che molti romanzi moderni si comprendono meglio se gli elementi narrativi che li compongono vengono disposti nello spazio piuttosto che essere svolti nel tempo. Influenzato dal New Criticism americano, dal formalismo russo e in una certa misura dallo strutturalismo letterario di Gérard Genette e per quanto le giunture restano evidenti, Frank riesce molto bene nell’insieme a inserire le analisi formali e astoriche in un piú ampio discorso storico e culturale.
Nel primo volume della biografia, Frank esprime forti dubbi sull’analisi di Freud delle origini dell’epilessia di Dostoevskij, mostrando i vari errori fattuali in cui incorre Freud. Ma lo scetticismo di Frank nei confronti della psicoanalisi come di altre importanti teorie della vita interiore ha qualche inconveniente. Ad esempio, non si riesce a ottenere da lui un’analisi veramente approfondita dell’intreccio di pietà e crudeltà caratteristico dei personaggi piú cupi di Dostoevskij. A un certo punto osserva che l’inconscio di Dostoevskij è «per lo piú morale» (nel senso che i messaggi che giungono ai suoi personaggi nei sogni o in improvvisi afflati di sentimenti sono generalmente sinceri). Ma non va a fondo nelle implicazioni di questa affermazione, che a me pare renda Dostoevskij meno inquietante di quanto realmente sia. (È difficile capire quante eccezioni Frank ammetta avendo usato «per lo piú»: Svidrigailov, ad esempio, è un’eccezione?)
Nelle sezioni biografiche del libro il lettore perde il senso della crescita e dello sviluppo del Dostoevskij uomo. D’altronde, come è stato notato da Sidney Monas, la nozione di sviluppo è tanto estranea alla sua immaginazione quanto è invece fondamentale nel caso di Tolstoj. I romanzi di Dostoevskij sono costruiti sulla base di scene, e procedono da una crisi all’altra. Forse lo stesso può dirsi della sua vita.
1 J. FRANK, Dostoevsky: The Miraculous Years, 1865-71, Princeton University Press, Princeton 1997.
2 I. S. TURGENEV, Padri e figli (trad. di G. Pochettino), Einaudi, Torino 1998, p. 58.
3 M. BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica (trad. di G. Garritano), Einaudi, Torino 1968.
4 J. FRANK, Dostoevsky cit., p. 341.
La narrativa di J. L. Borges
I.
Nel 1961, i direttori di sei importanti case editrici occidentali (Gallimard, Einaudi, Rowohlt, Seix Barral, Grove e Weidenfeld & Nicolson) si diedero appuntamento in un villaggio delle isole baleari, per discutere dell’istituzione di un premio letterario che intendeva selezionare scrittori che stavano attivamente trasformando il panorama mondiale della letteratura, un premio prestigioso che avrebbe potuto competere con il premio Nobel. Il primo Premio Internazionale degli Editori (noto anche come Prix Formentor) fu assegnato a Samuel Beckett e Jorge Luis Borges. Quello stesso anno il premio Nobel andò allo iugoslavo Ivo Andric, uno scrittore notevole ma poco innovativo. (Beckett vinse il Nobel nel 1969; Borges non l’ha mai avuto – secondo i suoi sostenitori a causa delle sue idee politiche).
La pubblicità che circondò il premio Formentor catapultò Borges sulla scena mondiale. Negli Stati Uniti la Grove Press pubblicò diciassette suoi racconti con il titolo Ficciones. Seguí la New Directions con Labirinti, ventitre racconti – alcuni già inclusi in Ficciones, ma in traduzioni diverse – piú alcuni saggi e parabole. Di pari passo seguirono le traduzioni in altre lingue.
Al di fuori della nativa Argentina, c’era un solo paese in cui il nome di Borges era già noto. Il critico e redattore francese Roger Caillois aveva trascorso gli anni 1939-35 in esilio a Buenos Aires. Dopo la guerra si fece promotore in Francia dell’opera di Borges, pubblicando Ficciones nel 1951 e Labirinti nel 1953 (quest’ultima raccolta in una versione completamente diversa da quella della New Directions: la bibliografia di Borges è di per sé un labirinto). Negli anni Cinquanta Borges godeva di maggiore considerazione e forse anche di un numero piú ampio di lettori in Francia che in Argentina. Da questo punto di vista la sua carriera somiglia stranamente a quella del suo precursore, maestro del romanzo filosofico-speculativo, Edgar Allan Poe, sostenuto da Baudelaire e accolto entusiasticamente dal pubblico francese.
Nel 1961 Borges aveva già superato i sessant’anni. I racconti che lo avevano reso famoso erano stati scritti negli anni Trenta e Quaranta. Aveva perso l’impulso creativo e per di piú guardava con sospetto a quei suoi primi pezzi «barocchi». Negli anni che lo separano dalla morte, avvenuta nel 1986, solo occasionalmente riuscí a riprodurre la stessa intensità e audacia intellettuale.
Fin dai primi anni Sessanta, Borges era stato riconosciuto in Argentina, insieme a Ernesto Sábato e a Julio Cortázar, un luminare della sua generazione letteraria. Nel corso del primo regime di Juan Perón (1946-55), la stampa lo aveva trasformato in una sorta di capro espiatorio, denunciandolo come extranjerizante (esterofilo), lacchè dell’élite terriera e del capitale internazionale. Subito dopo l’insediamento di Perón fu pubblicamente deposto dal suo lavoro nella biblioteca comunale e «promosso» a ispettore del pollame e dei conigli nel mercato municipale. Dopo la caduta di Perón tornò nuovamente in voga leggerlo; ma il sostegno da lui dato a cause impopolari (per esempio l’invasione della Baia dei Porci a Cuba) lo resero vulnerabile non solo alle denunce della sinistra ma anche a quelle dei nazionalisti e dei populisti.
La sua influenza sulla letteratura latino-americana – i cui scrittori avevano tradizionalmente cercato in Europa i propri modelli – è stata enorme. Borges è stato lo scrittore piú innovativo nel linguaggio del romanzo e ha spianato la via a una notevole generazione di romanzieri ispano-americani. Gabriel García Marquez, Carlos Fuentes, José Donoso e Mario Vargas Llosa hanno tutti riconosciuto un debito nei suoi confronti. «L’unica cosa che ho comprato [a Buenos Aires] è stata il volume delle opere complete di Borges» ha detto García Marquez. «Lo porto in valigia; lo leggerò ogni giorno, anche se si tratta di uno scrittore che detesto [per motivi politici]».
Per circa dieci anni dalla morte di Borges nel 1986, la mancanza di accordo tra gli eredi sulle clausole del suo testamento ne ha lasciato il patrimonio letterario in uno stato di confusione. Per fortuna le cose sono state sistemate e i primi frutti in inglese sono il volume delle Collected Fictions nella nuova traduzione di Andrew Hurley1. Il volume raccoglie i primi racconti di Borges Storia universale dell’infamia (1935), le Finzioni del 1944 (che include i racconti del Giardino dei sentieri che si biforcano) (1941), L’Aleph (1949), le prose dell’Artefice (1960), cinque brevi prose dall’Elogio dell’ombra (1969), Il manoscritto di Brodie (1970), Il libro di sabbia (1975) e quattro racconti piú recenti, qui raccolti con il titolo La memoria di Shakespeare (1983).
Il volume comprende un centinaio di pezzi di lunghezza variabile – da un solo paragrafo a una dozzina di pagine –, di cui solo gli ultimi quattro non erano mai stati tradotti in inglese. Le note aggiunte da Hurley, di per sé interessanti, hanno tuttavia una funzione limitata, in quanto «concepite solo per fornire informazioni già in possesso del lettore latino americano (e specialmente argentino o uruguayano) e che arricchirebbero o influenzerebbero la lettura dei racconti». Per il resto, il lettore che si trova in difficoltà con questo dotto e allusivo scrittore viene rinviato al Dictionary of Borges di Evelyn Fishburn e Psiche Hughes, una lodevole opera di consultazione, che tuttavia non arriva a includere la voce «J. L. Borges», il personaggio – fittizio? reale? – che appare nel racconto Borges e io e in molti altri pezzi.
Le Collected Fictions di Borges – primo di tre volumi pubblicati da Viking nel 1998 – si basa sull’edizione spagnola delle Obras completas del 19891. Si tratta di un’edizione priva di apparati scientifici e che pertanto non può competere con l’edizione francese delle Oeuvres complètes, pubblicata in due volumi nella Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard per la cura scrupolosa di Jean-Pierre Bernès, che non solo tenta di raccogliere tutti gli scritti di Borges (inclusi articoli di giornale, recensioni e altri scritti occasionali) ma cerca anche, cosa ben piú importante, di ricostruire le revisioni che Borges – da incontentabile editor di se stesso qual era – apportò alle varie ristampe dei suoi testi (secondo il biografo di Borges James Woodall, «la sua abitudine di emendare i testi da un’edizione all’altra, di sopprimere, tagliare e a volte reintrodurre in una forma diversa parole, frasi, righe … ha procurato a un potenziale bibliografo il lavoro di una vita»)2.
II.
Jorge Luis Borges era nato nel 1899 in una ricca famiglia borghese di Buenos Aires, città in cui la discendenza spagnola – per non parlare di quella italiana – non era considerata un vantaggio sociale. Una delle sue nonne veniva dall’Inghilterra e la famiglia scelse di enfatizzare l’ascendenza inglese educando i figli a parlare inglese oltre che spagnolo. Per tutta la vita Borges restò anglofilo. Per uno scrittore in fama di avanguardia è strano che le sue letture si arrestino al 1920. Le sue preferenze tra gli scrittori inglesi vanno a Stevenson, Chesterton, Kipling, Wells: ama riferirsi a se stesso come un vittoriano, «un ser victoriano» (Woodall, p. XXIX).
Se per Borges l’inglesità è un elemento della costruzione di sé, l’altro è l’ebraismo. Per spiegare il suo interesse nella Cabbala e, cosa ancora piú interessante, per presentarsi come outsider rispetto alla cultura occidentale, con la libertà propria dell’outsider di criticare e innovare (nonché, si potrebbe aggiungere, per saccheggiare intere biblioteche di citazioni) si appellava a un ipotetico ramo sefardita dal lato materno.
Nel 1914 la famiglia Borges si recò in Svizzera per cercare di curare la malattia agli occhi di Borges padre (il distacco della retina, poi ereditato dal figlio). Bloccati in Europa a causa della guerra, i figli ricevettero l’istruzione in lingua francese. Il giovane Borges imparò inoltre da solo il tedesco e lesse Schopenhauer, che avrebbe profondamente influenzato il suo pensiero. La conoscenza del tedesco lo mise in contatto con i nuovi poeti, pittori e registi espressionisti, e successivamente lo portò a compiere incursioni nel misticismo, la trasmissione del pensiero, la doppia personalità, la quarta dimensione e cosí via.
Dopo un breve periodo in Spagna, nel 1921 Borges tornò in Argentina pieno di entusiasmo per l’Ultraismo, la variante spagnola dell’Imagismo. Anche nel suo alquanto convenzionale radicalismo giovanile c’è qualche sprazzo di originalità – quando ad esempio sogna una lingua in cui lo stesso termine può stare a indicare sia il tramonto sia il suono delle campane degli armenti.
Nel 1931 la ricca mecenate delle arti Victoria Ocampo, di gusti spiccatamente europei e cosmopoliti, fondò la rivista «Sur» e accolse Borges tra i collaboratori. Negli anni di questa intensa collaborazione, Borges riuscí ad andare oltre le stantie problematiche del dibattito letterario argentino (naturalismo contro modernismo, europeismo contro nativismo). I racconti che formano la raccolta del Giardino dei sentieri che si biforcano, e che segnano l’inizio del suo periodo maggiore, apparvero in veloce successione su «Sur» tra il 1939 e il 1941.
Il primo racconto, Pierre Menard, incrocio tra la parodia del saggio erudito e il conte philosophique, è dal punto di vista narrativo il meno soddisfacente. Borges lo escluse dalla sua Antologia personale del 1968. Eppure, il racconto ha una straordinaria audacia intellettuale. Pierre Menard, contemporaneo minore di Paul Valéry, si lascia assorbire a tal punto nel mondo di Cervantes da essere in grado di scrivere parola per parola (non riscrivere) Don Chisciotte.
Pierre Menard è costruito sulla base di idee che si ritrovano in David Hume (il passato non esiste, neppure l’epoca di Cervantes esiste se non in quanto successione di stati mentali presenti). Ma Borges riesce a inventare uno strumento (imperfetto, nel caso specifico, ma rapidamente perfezionato nei racconti successivi) con cui mettere in scena, con una certa eleganza, i paradossi dello scetticismo filosofico e condurli a vertiginose conclusioni.
I racconti migliori del Giardino dei sentieri che si biforcano sono Tlön, Uqbar, Orbis Tertius e La biblioteca di Babele – migliori nel senso che il ragionamento filosofico si insinua con discrezione nella narrazione e il racconto procede con la sicurezza di una partita di scacchi in cui il lettore è sempre una mossa indietro rispetto all’autore. L’innovazione tecnica che consente un andamento rapido – prima che se ne renda conto, il lettore è aggirato e schiacciato dal suo avversario – consiste nel fatto che il modello assunto non è tanto il racconto quanto l’anatomia o il saggio critico: riducendo al minimo la descrizione, l’azione può essere condensata nell’esplorazione delle implicazioni di una situazione ipotetica (ad esempio una biblioteca infinita).
In alcune interviste degli anni Sessanta, Borges osservò che Tlön non si limita a esplorare le possibilità intellettuali scaturite dall’invenzione di un mondo minuziosamente descritto, ma analizza lo «sgomento» di un narratore «che si accorge che il suo mondo quotidiano … il suo passato … [e] il passato dei suoi antenati … [stanno] scivolando via da lui». Il tema sommerso del racconto sarebbe dunque quello di «un uomo che sente di annegare in un mondo nuovo e opprimente a lui incomprensibile»3. Come tutte le letture che un autore fa delle proprie opere, questa osservazione ha un certo interesse. Eppure manca di cogliere un elemento importante del racconto: l’eccitazione, anzi il trionfo creativo, per quanto dipinto a fosche tinte, con cui il narratore registra i vari stadi attraverso cui un universo ideale prende il posto di uno reale. Tale sostituzione, con un giro di vite paradossale tipico di Borges, culmina nella consapevolezza che l’universo di cui facciamo parte è già di per sé molto probabilmente un simulacro, forse un simulacro di simulacri che procede all’infinito. Tornando sul racconto del 1940 un quarto di secolo piú tardi, Borges vi rinviene una sfumatura emotiva che appartiene al suo piú antico e pessimistico io.
E tuttavia giungere alla conclusione che Borges interpreti erroneamente il suo racconto significherebbe non cogliere la sua essenza borgesiana (o menardiana). Tlön non esiste, cosí come non esiste il 1940, se non nelle idee di Tlön e del 1940 che l’umanità collettivamente intrattiene nel presente. Allo stesso modo in cui l’onnicomprensiva enciclopedia di Orbis Tertius ingloba l’universo, le nostre finzioni delle finzioni del passato inglobano tali finzioni. (La cosmologia gnostica, che Borges ben conosceva, propone che l’universo in cui riteniamo di esistere sia opera di un creatore minore annidato in un universo opera di un creatore leggermente superiore all’altro, a sua volta annidato in un altro universo, e cosí via per 365 volte).
Il racconto piú sorprendente di Finzioni del 1944 è Funes, o della memoria, in cui Ireneo Funes, un rozzo ragazzo di campagna, è dotato di una memoria prodigiosa. Niente gli sfugge; tutta la sua esperienza sensoriale, passata e presente, gli resta impressa nella mente. Sopraffatto dai dettagli, incapace di dimenticare persino le formazioni cangianti di tutte le nuvole che ha visto, non riesce a formarsi idee generali e perciò – paradossalmente, trattandosi di una creatura che è quasi mente allo stato puro – non riesce a pensare.
Funes è costruito secondo l’ormai consueto modello borgesiano di spingere un dato fino alle sue vertiginose conclusioni. Ma il racconto presenta delle novità, la sicurezza con cui Borges inserisce Funes in una riconoscibile realtà sociale argentina, e il senso di umana compassione per l’infelice ragazzo, «solitario e lucido spettatore di un mondo multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso»4.
Non è difficile comprendere i motivi per cui racconti straordinariamente idealistici su mondi creati dal linguaggio o su personaggi racchiusi dentro testi abbiano avuto tanta risonanza nella generazione di intellettuali francesi che avevano appena scoperto la linguistica strutturale di Ferdinand de Saussure, secondo cui la lingua è un campo autoregolato in cui il soggetto umano agisce senza potere, in quanto parlato dalla lingua piuttosto che parlante, e il passato («diacronia») è riducibile a una serie di stati presenti sovrapposti («sincronia»). Quello che i lettori francesi trovarono sorprendente – o quantomeno curioso – era il fatto che Borges fosse arrivato alla textualité seguendo percorsi di sua invenzione. (C’è motivo infatti di ritenere che Borges vi arrivasse attraverso Schopenhauer e, in particolar modo, attraverso Fritz Mauthner (1849-1923), un autore oggi poco letto e che – nonostante Borges vi alluda piú volte – non viene menzionato nel Dictionary of Borges di Fishburn e Hughes).
Le tre raccolte del periodo di mezzo, il migliore di Borges, – Il giardino dei sentieri che si biforcano, Finzioni e L’Aleph – furono seguite nel 1952 da Altre inquisizioni, un mosaico di pezzi scelti dai suoi scritti critici. Il fatto che molti di questi pezzi, che esibiscono una erudizione in piú lingue, siano apparsi dapprima sui giornali testimonia l’alto livello della stampa di Buenos Aires. Vi si ritrovano le stesse idee esplorate nella finzione, ma ancora a uno stadio acerbo, non ancora pronte a mostrare i denti.
La lettura parallela dei saggi e dei racconti suggerisce quella che è forse la domanda fondamentale a proposito di Borges: cosa c’è nella scrittura creativa che consente a questo erudito scrittore di portare le idee là dove non riesce quando sceglie il saggio discorsivo come modalità di scrittura? Sulla scia di Coleridge, Borges risponde che l’immaginazione poetica mette lo scrittore in grado di congiungersi con il principio creativo universale; sulla scia di Schopenhauer, aggiunge che questo principio ha la natura della Volontà piuttosto che (come direbbe Platone) della Ragione. «Nel corso di una vita consacrata meno a vivere che a leggere, ho accertato molte volte che i propositi e le teorie letterarie non sono altro che stimoli e che l’opera finale suole ignorarli e anche contraddirli»5.
Sarebbe difficile tuttavia non rilevare, in dichiarazioni del genere, il tono della parodia e dell’autoparodia. Le voci che parlano in Altre inquisizioni sono molto simili alle voci dei narratori dei racconti; dietro ai saggi c’è la persona che Borges ha già cominciato a chiamare «Borges». Quale sia il vero Borges, quale il riflesso nello specchio, non è chiaro. I saggi consentono all’uno di drammatizzare l’altro. A livello pratico, ciò mette in questione la distinzione, adottata dagli editori americani, tra opere di finzione e non.
L’artefice (1960) è un compendio di versi e prosa, su cui – a esclusione dei versi – si basa l’edizione pubblicata da Viking. Il titolo originale El hacedor allude – in maniera sibillina per il pubblico di lingua spagnola – all’inglese arcaico maker («artefice»), ovvero «poeta», che è il termine adottato da Hurley. Nella loro traduzione del 1964, Mildred Boyer e Harold Morland, reintitolano il libro Dreamtigers. Borges la definisce «la mia opera piú personale e, per me, forse la migliore» (Woodall, p. 188). C’è un accenno di sfida in questa dichiarazione, poiché non c’è niente nella raccolta che possa competere con i migliori racconti del periodo 1939-49. Ma all’epoca, Borges ha già cominciato a mettere una certa distanza tra se stesso e ciò che piú tardi chiamerà, con tono sprezzante, «labirinti, specchi, tigri e roba del genere».
In verità il premio Formentor del 1961 colse Borges nel pieno di una grave crisi creativa. La sua recente fama gli portava inviti per conferenze, che accettava di buon grado. Viaggiava in lungo e in largo, sempre accompagnato dalla madre. Attraverso il circuito americano delle conferenze cominciò a godere di un reddito regolare. Di rado rifiutava le interviste; divenne anzi piuttosto loquace. Si impegnò attivamente nella ricerca di una moglie, la trovò, e a sessant’anni inoltrati sopportò per tre anni un matrimonio infelice.
Nel 1967 Borges incontrò il traduttore americano Norman Thomas di Giovanni. Ne nacque un sodalizio: non solo di Giovanni tradusse, o collaborò con Borges nelle traduzioni di un certo numero di opere, e l’aiutò nei suoi affari, ma lo convinse a tornare alla narrativa. I frutti possono apprezzarsi negli undici racconti del Manoscritto di Brodie (1970). Gli specchi e i labirinti sono scomparsi. Le ambientazioni sono le pampe argentine, o i sobborghi di Buenos Aires, il linguaggio è piú semplice, le trame sono piú convenzionali (nella prefazione Borges indica Kipling come modello). Borges era orgoglioso soprattutto dell’Intrusa, ma altrettanto buono è il racconto Il Vangelo secondo Marco in cui uno studente che ha fatto conoscere il Vangelo cristiano a una famiglia di gauchi dell’entroterra viene considerato il loro salvatore e solennemente crocifisso. Concentrata sui temi della gelosia, del coraggio fisico e della violenza espressa con grande concisione, Il manoscritto di Brodie è la raccolta piú aggressivamente «maschile» di Borges.
Il libro di sabbia (1975) e La memoria di Shakespeare (1983) oltre a riciclare vecchi temi (il Doppelgänger, la possessione, la compenetrazione degli universi) esplorano il nuovo interesse di Borges per la mitologia germanica. Ma la scrittura è per lo piú stanca e nulla aggiunge alla statura dell’autore.
III.
Lo gnosticismo di Borges – l’idea che il Dio ultimo sia al di là del bene e del male, e infinitamente remoto dalla creazione – è profondamente sentito. Ma la sensazione di terrore che informa la sua opera è di natura metafisica piuttosto che religiosa: alla base ci sono visioni vertiginose del collasso di tutte le strutture di significato, inclusa la stessa lingua, e il presagio che persino l’io che parla non esista veramente.
Nelle opere che nascono da questo terrore, il piano etico e quello estetico sono strettamente intrecciati: il passo leggero ma spietato della logica delle parabole, la lapidaria concisione della lingua, il graduale stringersi del paradosso, sono il riflesso stilistico dello stoico autocontrollo di chi fissa gli abissi del pensiero privo dell’isteria gotica di un Poe.
Borges è stato criticato per aver cercato la salvezza nella sfera estetica. Harold Bloom ad esempio ritiene che Borges sarebbe stato piú grande se fosse riuscito ad allentare il ferreo controllo dell’impulso creativo – un controllo che Bloom vede come una forma di autoprotezione. «Ciò che manca a Borges, nonostante l’astuzia ingannevole dei suoi labirinti, è proprio l’esuberanza dello scrittore fantastico. Non riesce mai a essere abbastanza temerario da perdersi in un racconto, con grave perdita nostra, oltre che sua».
Non mi pare che tali critiche tengano nella debita considerazione i racconti di Borges incentrati sull’incontro con la morte. Il Sud – che termina con l’accettazione da parte dell’eroe di un duello al coltello che sa di perdere – è tra questi il racconto piú impressionante; ma ce ne sono molti altri piú realistici sulla vita di gauchi o di teppisti i cui personaggi, seguendo un’inarticolata etica stoica, scelgono la morte piuttosto che la perdita dell’onore, salvandosi dal disonore e allo stesso tempo scoprendo la verità su se stessi. Questi racconti, dal linguaggio laconico e dal contenuto a volte brutale, rivelano l’attrazione del loro timido e libresco autore per la vita di azione. Mostrano inoltre il tentativo di Borges di radicarsi piú saldamente nella tradizione letteraria argentina e contribuire alla creazione di miti nazionali.
In una conferenza intitolata Lo scrittore argentino e la tradizione (1953), Borges osserva che il termine «cammello» non si trova nel Corano. Che insegna questo? Che bisogna «credere nella possibilità di essere argentini senza eccedere nel colore locale». Ma i suoi ultimi racconti – in particolare quelli raccolti nel Manoscritto di Brodie – in realtà abbondano di colore locale. Rappresentano uno strenuo ritorno al compito che Borges si era assunto al suo ritorno a Buenos Aires negli anni Venti: aggrapparsi alla densità del patrimonio culturale criollo della sua generazione, e allo stesso tempo andare oltre il mero regionalismo e localismo. «Non ci sono leggende in questa terra, – scrisse nel 1926. – È questa la nostra disgrazia. Per quanto grandiosa sia la nostra realtà, la nostra vita immaginativa è misera … dobbiamo trovare la poesia, la musica, la pittura, la religione e la metafisica appropriate [alla] grandezza [di Buenos Aires]».
Gli ultimi racconti, ambientati nei sobborghi piú infimi di Buenos Aires alla fine del secolo o in un passato ancora piú remoto, nelle pampe argentine, non possono pretendere di rispecchiare la realtà dell’Argentina moderna. Questi racconti abbracciano una tendenza romantica e nativista del nazionalismo argentino, e rifiutano sia il liberalismo illuminato della classe sociale in cui Borges era nato sia la nuova cultura e politica di massa – che nel corso della sua vita erano state rappresentate dal peronismo – da lui detestato.
IV.
La prosa di Borges è controllata, precisa ed economica in maniera del tutto inconsueta nell’America latina. Come lo stesso Borges osserva con una punta di orgoglio, la sua scrittura evita «ispanismi, argentinismi, arcaismi e neologismi; [preferisce] le parole abituali a quelle meravigliose»6. Nelle opere scritte fino all’Aleph, la limpida superficie della sua prosa viene solo ogni tanto incrinata da collocazioni verbali inconsuete, talvolta persino sconcertanti, ma nell’ultima fase tali momenti sono rari.
Per quanto arduo sia il compito del traduttore nell’eguagliare la concisione e la forza dello spagnolo di Borges e nel trovare equivalenze per le sue talvolta oscure metafore, la lingua di Borges non presenta problemi irrisolvibili, tranne in quei casi in cui si colora – certo volutamente – di strutture linguistiche inglesi. (Strutture che naturalmente scompaiono non appena vengono riprodotte in inglese).
Esistono tuttavia difficoltà di natura piú pratica create dal fatto che Borges, in età avanzata, collaborò alla traduzione della sua opera (L’Aleph e Il manoscritto di Brodie, oltre a gran parte della poesia), e approfittò dell’occasione per rivedere i testi, apportando revisioni che sono a volte piuttosto radicali, come quando ad esempio, taglia dall’Aleph mezza pagina di satira ormai superata. Borges inoltre inserí liberamente nei testi inglesi informazioni che il protocollo della traduzione avrebbe imposto a chiunque altro di relegare in nota: la criptica menzione de la revolución de Aparicio, ad esempio, diventa «una guerra civile … tra i Colorados, ovvero i Rossi, che erano al potere, e i Blancos di Aparicio, ovvero i Bianchi».
Ma le revisioni di Borges assolvono anche un altro compito: moderare il suo spagnolo. Aggettivi altisonanti, come abominable, enigmatico, implacable, interminable, notorio, perverso, perfido, vertiginoso, violento, frequenti nella sua fase di mezzo, vengono attenuati: il «fianco violento della montagna» diventa il «ripido pendio», i «capelli violenti» di una donna, diventano i suoi «capelli arruffati».
La giustificazione addotta da Borges e di Giovanni per tali interventi, e per l’andamento generalmente piú fluido delle loro versioni inglesi, è che lo spagnolo e l’inglese esprimono «due modi diversi di guardare il mondo». Cosí hanno cercato non tanto di trasporre l’originale spagnolo in inglese, quanto piuttosto di «ripensare ogni frase in termini inglesi», puntando a una prosa che «si legga come se fosse stata scritta in inglese»7.
Hurley sceglie – correttamente, ritengo – di ignorare l’esempio di Borges. Purtroppo la storia non finisce qui. I cambiamenti che Borges (in quanto elemento creativo della collaborazione) apporta mentre traduce se stesso possono essere considerati come revisioni autoriali suscettibili di essere reintrodotti, almeno in teoria, nel testo spagnolo, e in ogni caso come revisioni dei racconti nella forma inglese, approvate dall’autore.
Nella sua breve Nota sulla traduzione, Hurley non affronta questo problema. Avrebbe invece potuto dire – se ci è consentito mettergli in bocca delle parole – che a volte i curatori e i traduttori hanno il dovere di proteggere Borges da se stesso. Con tutto il rispetto per l’autore, le versioni di Borges che vogliamo leggere non sono necessariamente quelle che sembrano essere state scritte originariamente in inglese. Anzi, se negli originali c’è una certa magniloquenza, il lettore vorrebbe ascoltarla e distinguere lui quello che contiene di autenticamente borgesiano da ciò che è proprio dello spagnolo, piuttosto che leggere una lingua che è stata smorzata e appiattita per il suo bene.
1 J. L. BORGES, Collected Fictions, Viking, New York 1998. Gli altri due volumi sono Selected Non-Fictions, a cura di E. Weinberger e Selected Poems, a cura di A. Coleman.
2 J. WOODALL, The Man in the Mirror of the Book, Hodder & Stoughton, London 1996, p. 278.
3 Citato in H. BLOOM (a cura di), Jorge Luis Borges, Chelsea House, New York 1986, p. 102.
4 J. L. BORGES, Finzioni (trad. di F. Lucentini), Einaudi, Torino 1995, p. 105.
5 ID., Nathaniel Hawthorne, in Altre inquisizioni (trad. di F. Tentori Montalto), Feltrinelli, Milano 1973, p. 67.
6 J. L. BORGES, Prologo a Elogio dell’ombra (1969) in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 2000, vol. II, p. 255.
7 Prefazione all’Aleph, Jonathan Cape, London 1971.
A. S. Byatt
I.
Negli anni Settanta A. S. Byatt intraprese un progetto ambizioso: una serie di romanzi con al centro una donna inglese della sua stessa classe sociale, generazione e formazione, una donna che avrebbe potuto essere lei stessa (o forse no), e di cui avrebbe seguito la crescita dall’inizio degli scialbi anni Cinquanta fino alla rivoluzione culturale degli anni Sessanta.
Il progetto comprendeva quattro romanzi. La vergine nel giardino (1978) vede l’eroina, Frederica Potter, nata come l’autrice nel 1936, lottare per liberarsi dalla morale sessuale dei genitori e dal soffocante stile di vita dovuto all’austerità del dopoguerra. Il 1953 le appare come l’inizio di un’epoca piú felice. Ci vorranno molti anni prima che possa rendersi conto di quanto la nuova epoca elisabettiana poggi su vuote cerimonie e nostalgie.
Natura morta (1985) ripercorre gli anni di Frederica a Cambridge. Nonostante contenga dei tour de force di descrizione realistica – realizzati, si direbbe, in omaggio ai grandi realisti inglesi – si tratta soprattutto di un romanzo di idee, in cui si incrociano gruppi di personaggi le cui conversazioni permettono a Byatt di esplorare lo Zeitgeist dell’Inghilterra alla fine degli anni Cinquanta. Si conclude nel 1958 quando, per la prima volta, tra le braccia di Nigel Reiver, Frederica conosce le spiagge tempestose dell’amore.
La Torre di Babele (1995), terzo della serie ancora incompleta nel 1999, riprende sei anni dopo. Il matrimonio con Nigel non va molto bene. Confinata in una casa nelle Home Counties, assieme alle cognate appassionate di cavalli e a un’odiosa governante, Frederica si sente soffocare. Le piacerebbe rivedere i suoi vecchi compagni di università, che si stanno affermando sulla vivace scena culturale di Londra, ma Nigel li detesta e intercetta le lettere che questi le scrivono. Nigel, che è stato nei corpi speciali, non si fa scrupoli a maltrattarla senza lasciare segni rivelatori. In pratica, Frederica è sua prigioniera.
Frederica fugge a Londra con il figlio di quattro anni. Lasciandosi dietro una scia di violenza, Nigel la insegue e le impone di tornare, se non lei, almeno il figlio.
Ai cocktail della buona società che Frederica comincia a frequentare, la conversazione è dominata dagli uomini; le donne si radunano negli angoli scambiandosi consigli sugli antidepressivi. È anche da questo tipo di futuro, oltre che dalla violenza coniugale, che Frederica decide di fuggire.
Frederica è stata educata «in quella tradizione di tolleranza, anticonformismo e cauto scetticismo che impone … di cercare in ogni cosa il buono e il cattivo»1. Per quanto possa temere e odiare suo marito, quell’odio la spaventa; e la sua determinazione puritana a essere leale le fa vincere l’impulso a tagliare ogni legame. Per di piú, continua a sentirsi attratta da lui. Persino durante l’udienza di divorzio avverte una calda corrente di desiderio.
È il sapore lawrenciano della sua reazione («lo sguardo tenebroso, l’intensità che ogni volta smuove qualcosa in lei», p. 237) che per Frederica identifica il sintomo, non solo di una sua personale dipendenza masochistica, ma di una patologia sessuale che affligge un’intera generazione di giovani donne, diventate adulte negli anni Cinquanta, per cui le narrazioni di Lawrence di donne che rinnegavano l’intelletto per trovare la salvezza al servizio del fallo erano diventate vangelo. «Ecco qual era il nostro mito, – pensa Frederica, – che il corpo sia la verità. Lady Chatterley odiava le parole … io non posso fare a meno delle parole» (p. 126).
Come nella Vergine nel giardino Frederica e sua sorella si erano sentite influenzate dai modelli di comportamento delle sorelle Brangwen di Donne innamorate, Ursula e Gudrun, cosí nella Torre di Babele lei si trova a dover lottare contro il modello di Connie Chatterley. La scena del processo con cui si conclude il romanzo è una parodia del famoso processo per oscenità del 1961; ma non è solo per questo che nella Torre di Babele si avverte la presenza dell’Amante di Lady Chatterley. Nel farsi una nuova vita come individuo e come donna negli anni Sessanta, Frederica dovrà prima mettere in questione, e per molti versi ripudiare, l’educazione morale ricevuta, un’educazione assorbita dai genitori e da insegnanti che erano stati discepoli dell’influente paladino di Lawrence a Cambridge, F. R. Leavis.
Il conflitto tra Frederica e Nigel culmina in un’udienza di divorzio, una lunga scena in cui Byatt impegna tutte le sue notevoli risorse di scrittrice. L’udienza è per Frederica un’esperienza umiliante: lo spietato interrogatorio dell’avvocato di suo marito, spalleggiato da un detective privato ingaggiato per spiarla, e dalle false dichiarazioni delle sorelle Reiver, la mostrerà agli occhi della corte come una donna egoista e promiscua, inadatta a occuparsi del figlio.
Ma c’è una sorpresa. Nonostante la Corte sia dominata da uomini provenienti da esclusivi college privati, uomini che, con ogni probabilità, si sarebbero messi contro una donna che non solo si era opposta al sistema, ma che venendo dal Nord dell’Inghilterra, da una diversa classe e una diversa tradizione politica, non era mai stata parte di quel sistema, questa stessa Corte stabilisce, nella sua saggezza patriarcale, e suscitando la rabbia della famiglia Reiver, che il figlio debba stare con la madre.
Il figlio di Frederica non è per niente simpatico. Pretende che la madre metta al primo posto la sua felicità. Dal canto suo Frederica, che in realtà aveva programmato di fuggire senza di lui, cosa di cui segretamente si vergogna, scopre a poco a poco l’importanza della maternità nella sua vita, «un amore cosí violento che rasenta il suo opposto» (p. 233).
La madre trascorre molto tempo leggendo racconti al figlio, storie che lo gratificano facendogli sentire che lei lo considera un’intelligenza morale. Attraverso tali racconti – spesso riportati per esteso nel testo – Byatt comunica un interessante e audace messaggio in un’epoca in cui l’ortodossia didattica ritiene che i bambini debbano essere protetti nei confronti di materiali potenzialmente angoscianti. Cosí come è favorevole alla lettura di Racine nelle scuole secondarie, Byatt è favorevole, per i bambini al di sotto dei cinque anni, ai racconti di magia e terrore, di eroismo e ingegno. L’educazione della fantasia deve venire al primo posto: se le persone con cui Frederica sceglie di condividere la propria sorte – scrittori, pittori, uomini di scienza – sono migliori di Nigel, della sua famiglia e dei suoi colleghi di lavoro, è perché questi danno valore all’immaginazione creativa.
Da questo punto di vista Byatt appartiene chiaramente alla tradizione liberal-umanistica arnoldiana. In momenti di crisi, persone come lei non vanno in terapia. Guarire dipende dallo sforzo individuale; i migliori strumenti sono l’intelligenza applicata, il duro lavoro e la conoscenza dei classici, preferibilmente in molte lingue. Nella lotta della vita il premio finale non è tanto la felicità quanto l’auto-perfezionamento; l’infanzia non è un’isola felice ma l’epoca della preparazione.
Eppure le cose non sono cosí semplici né cosí mestamente puritane come appaiono. Nel momento in cui Frederica e la sua piú intima amica concordano nel ritenere la propria infanzia un inferno di falsità, giunge loro spontaneamente alla mente quella che per gli inglesi è la poesia chiave sull’infanzia: l’ode di Wordsworth, Presagi di immortalità, in cui si evocano «quelle vaghe umbratili ricordanze» dagli anni dell’infanzia che «sono la luce sorgiva della nostra giornata, | e la luce maestra della nostra visione»2.
Un momento rivelatore, in cui attraverso le due donne parla la voce della cultura. Byatt evoca un momento analogo quando, durante una passeggiata in campagna, un amico di Frederica fa l’esperienza di quello che lui definisce il «sentimento inglese», il sentimento di appartenenza alla terra in cui da migliaia di anni i suoi antenati sono nati e sono sepolti, ma il cui tono e colore sono conferiti da versi cosí bene ricordati che «al pari di zolle e pietre, sono parte della struttura della mente» (p. 18).
II.
Per quanto a Cambridge sia stata una studentessa brillante, Frederica ha rinunciato alla carriera di insegnante. La necessità di guadagnarsi da vivere a Londra la costringe ora a insegnare in corsi serali e ad ampliare i propri orizzonti. Legge Nietzsche e Freud, comincia a rendersi conto di come la sua istruzione prettamente inglese sia stata limitata. Legge i grandi romanzieri europei, da Flaubert a Mann, e allo stesso tempo si lascia alle spalle alcuni degli scrittori che hanno determinato la sua visione del mondo. Lawrence ed E. M. Forster le appaiono ora come moderni scrittori religiosi, che hanno cercato di elevare il romanzo al ruolo detenuto un tempo dalla Bibbia. (T. S. Eliot, un altro autore importante nella formazione della giovane Frederica, viene trattato con maggior indulgenza). Voler raggiungere una personalità coerente comincia ad apparirle una meta superata; preferisce che le varie identità di cui è fatta – linguistica, intellettuale, sessuale – restino «giustapposte ma divise». Ha un presentimento del tipo di arte in cui questa sua personalità potrebbe esprimersi: «una forma artistica fatta di frammenti – giustapposti, non intrecciati – non “organicamente” spiraleggianti come un albero o un guscio, ma costruiti mattone su mattone, lamina su lamina» (pp. 312 e 357).
Ispirandosi a William Burroughs, Frederica fa l’esperimento di tagliare a pezzetti le lettere dell’avvocato del marito e di ricomporne i frammenti. È talmente soddisfatta del risultato della tecnica del cut-up che fa lo stesso con i testi di Lawrence e Forster. I suoi taccuini diventano un mosaico di pezzi di diario e citazioni tratte dagli scrittori in voga (Allen Ginsberg, Samuel Beckett, R. D. Laing, William Blake, Nietzsche, Norman O. Brown) e dai giornali, assumendo cosí un tono di avanguardia, che potremmo definire parigino.
Frederica chiama i suoi esperimenti testuali «laminazioni»; la teoria delle laminazioni era già stata introdotta nella Vergine nel giardino. Ora intende trasformare i suoi taccuini in «un’opera coerentemente incoerente», «un intreccio di voci» delle «molte donne in una» di cui lei stessa si compone (p. 457). La promessa implicita è che nel quarto volume Frederica diverrà scrittrice. (Anche la protagonista del Taccuino d’oro di Doris Lessing, pubblicato nel 1962, scriveva una serie di taccuini giustapposti corrisponde alle sue varie identità: l’insoddisfazione nei confronti del romanzo organico cosí come della personalità organica, integrata, era chiaramente nell’aria).
Se Natura morta è solo sporadicamente un romanzo di idee, La Torre di Babele lo è a pieno titolo: la maggior parte delle situazioni del romanzo sono concepite per fare da sfondo al dibattito delle idee. Vi si discute non solo del nuovo strutturalismo francese, ma dei progressi nelle scienze: genetica, biochimica, psicologia animale, linguistica, informatica. Queste conversazioni riescono a dare un’idea abbastanza precisa del fermento intellettuale intorno alla metà degli anni Sessanta. Ma la materia è cosí largamente datata da avere ormai solo un interesse storico e non si capisce perché Byatt abbia voluto dedicarvi tanto spazio.
L’atteggiamento di Frederica nei confronti delle nuove mode di pensiero è piuttosto cauto. «In un mondo in cui la maggior parte degli intellettuali proclama la morte della coerenza – commenta l’autrice in uno dei suoi piú autorevoli interventi, – Frederica è un’intellettuale in libertà … animata da curiosità, dal piacere della coerenza, dalla possibilità di creare connessioni» (p. 377). C’è da aspettarsi dunque che Frederica riesca a sopravvivere agli anni Sessanta come ha fatto con gli anni Cinquanta.
La Bildung di Frederica continua anche sul piano personale. Non è mai a corto di uomini. Ma, dopo avere impiegato il primo volume della serie a tentare di perdere la verginità, e il secondo a fare sesso amichevole con i compagni di università, ora impara a godere della compagnia degli uomini senza andarci a letto. Nel 1953 aveva impersonato Elisabetta I in un dramma che celebrava l’incoronazione di Elisabetta II. Ora comincia ad apprezzare la forza della separatezza, il potere della Regina Vergine.
Per la sua intelligenza inquieta e scrupolosità intellettuale, la chiara percezione di sé in quanto persona formata non solo dalle sue letture ma dalle piú ampie narrazioni della storia familiare e di quella nazionale, la Frederica della Torre di Babele, sia come donna che come tipo sociale, è uno dei piú interessanti personaggi in-progress del romanzo contemporaneo, anche se a volte viene da chiedersi se l’autrice non le abbia conferito una consapevolezza storica che va oltre i suoi anni.
III.
Fin dagli anni Ottanta si avverte, nell’opera di Byatt, una contraddizione che deriva dal fatto che, sebbene come scrittrice e come donna sia stata formata da quell’amalgama di paesaggio naturale e tradizione letteraria che costituisce il «sentimento inglese», come romanziera abbia dovuto prendere atto dell’esaurimento delle risorse di quella tradizione.
La sua piú recente produzione narrativa mostra una grande varietà testuale (storie incastonate, documenti e cosí via) e utilizza alcune strategie postmoderne, eppure, il suo stile ricade continuamente sulla minuta osservazione sociale e sull’attenzione morale dei grandi realisti inglesi. Sebbene La Torre di Babele mostri Frederica (che è impossibile non leggere, sotto questo aspetto, come una controfigura di Byatt) riflettere (in maniera speculativa) sulla critica poststrutturalista del realismo, è difficile scorgere una qualche influenza di questa critica sul linguaggio narrativo di Byatt. In Natura morta aveva citato favorevolmente William Carlos Williams: «Non idee se non nelle cose»3. Nel suo rispetto per la verità dell’osservazione accurata, Byatt è stata formata da Pound (cosa altro sono i Cantos di Pound se non «laminazioni»?) e da Williams: la sua pratica di scrittura appartiene al modernismo piuttosto che al postmodernismo.
In un’intervista fattale mentre scriveva Natura morta, Byatt ha elencato alcune caratteristiche che ammirava dei romanzi di George Eliot: «il grande numero di personaggi, l’ampia rilevanza culturale, la complessità del linguaggio», ribadendo l’importanza «per uno scrittore di avere un ampio canovaccio e molti personaggi»4. La Torre di Babele è chiaramente un romanzo della fine del XX secolo: e tuttavia, qui come nei due precedenti romanzi, Byatt aspira a un quadro ampio, a una grande rilevanza culturale (culturale, non sociale: lo spettro sociale è piuttosto limitato) e a un altrettanto ampio numero di personaggi. Tale profusione non sempre si risolve a suo vantaggio. Nella Torre di Babele ci sono piú di cento personaggi: cento nomi da ricordare, cento ruoli, per lo piú minori. Credo che nemmeno Dickens abbia mai incluso tanti nomi in un solo romanzo; per di piú, i nomi dei personaggi minori di Dickens valgono come veri e propri schizzi in miniatura, mentre quelli di Byatt sembrano usciti dall’elenco telefonico.
Mark Twain osservò che quando uno scrittore americano non sa come terminare una storia, ammazza tutti quanti. Quando Byatt non sa come procedere, mette in scena un nuovo gruppo di personaggi.
IV.
In maniera piuttosto macchinosa Byatt fa partecipare Frederica a un processo per oscenità in cui si giudica l’autore di un libro intitolato La torre del balbettio, un romanzo antiutopico fortemente indebitato con Le 120 giornate di Sodoma di Sade, che si scaglia contro tutti i progetti utopici generati dall’Illuminismo, da Fourier a Mao. Vi si narrano le vicende di una comunità ideale, in Francia, dalla sua fondazione (dissoluzione dei legami familiari, ricostruzione del linguaggio) fino alla degenerazione in una feroce tirannia, in cui i figli si mostrano non meno esperti dei padri nel male.
Il processo offre l’occasione a Byatt di fare una satira della vanità e della confusione tipiche degli intellettuali degli anni Sessanta che compaiono in qualità di periti per la difesa. Ma al di là di questo episodio, l’inserimento di interi capitoli dell’opera, scritti in una prosa semi-pornografica, manierata, pseudo-arcaica, cosí elaborata da essere quasi illeggibile, non è stata una scelta oculata da parte di Byatt. Con le sue 622 pagine, La Torre di Babele è un libro troppo lungo per il suo contenuto.
Byatt ha grandi doti di ventriloqua letteraria, come ha dimostrato con Possessione (1990)5, in cui, attraverso la straordinaria contraffazione di un corpus di poesie e di lettere, ha dato vita a due amanti, Randolph Henry Ash e Christabel LaMotte. Ma Possessione era un romanzo poliziesco di alto profilo e una satira dei costumi accademici, un progetto meno ambizioso della tetralogia. Poiché il realismo di Possessione era puramente di natura testuale, limitandosi all’imitazione di superfici, è stato possibile evitare di interrogarsi su questioni concrete come perché mai l’industria accademica debba interessarsi di spiriti mediocri e derivativi come quelli di Ash e LaMotte.
È dunque La torre del balbettio semplicemente un’altra opera di ventriloquismo letterario, questa volta portata avanti a estreme lungaggini? Byatt rende difficile rispondere a questa domanda dal momento che non riesce a riprodurre (o, piú precisamente, a produrre) un passaggio chiave per l’accusa, in cui – ci viene fatto capire – una donna viene uccisa con una pratica particolarmente sadica e repellente. Perché dilungarsi tanto, in un’opera narrativa, sul processo a un’altra opera narrativa, in cui il principale capo d’accusa è non solo fittizio, ma una questione di sentito dire?
V.
La Torre di Babele di Byatt termina nel 1967 mentre si leva alto il fumo della catastrofe. I giornali non parlano d’altro che dei delitti della brughiera e del Vietnam. Ci sono degli «happening» con orge di sangue e l’incendio di torri di «irbil» («libri» all’incontrario). La profezia della Torre del balbettio, il gemello cattivo della Torre di Babele, sembra sul punto di avverarsi: l’energia incontrollata porta inevitabilmente all’apocalisse.
Nella sua periodizzazione della storia, Frederica aveva ritenuto di essere figlia degli anni Trenta e Quaranta, la scialba epoca simbolicamente conclusa, nel 1953, con l’ascesa al trono di Elisabetta II. La sua generazione era cresciuta in un’epoca «tranquilla dal punto di vista politico»6. Ora, nel 1967, Frederica deve guardare in faccia la realtà della nuova epoca, un’epoca non solo di fermento nelle arti e di straordinari progressi nelle scienze, ma di basi nucleari nelle brughiere dello Yorkshire e di «laghi senza vita dove nessun uccello canta», di una campagna avvizzita in cui il «sentimento inglese» cosí come lei l’ha conosciuto non potrà piú sopravvivere (p. 59).
Mentre comincia il quarto decennio della sua vita Frederica rivolge lo sguardo in due direzioni: verso il passato che l’ha formata e che per questo ha il dovere di comprendere; e verso il presente che, dopo gli anni trascorsi in campagna in un sonno alla Rip van Winkle, è tutto da recuperare. Gli strumenti intellettuali che la scrittrice le mette a disposizione sono strumenti critici piuttosto che creativi. Se lo spettacolo di Frederica in lotta con il passato è piú interessante di quello che la vede impegnata nel presente è perché, nel terzo dei quattro volumi, Byatt non sembra avere ancora deciso se Frederica ce la farà a essere creativa – a scrivere il libro delle laminazioni – o se semplicemente continuerà a sottoporre il mondo che la circonda ai processi della sua sofisticata ma alquanto passiva intelligenza critica7.
1 A. S. BYATT, La Torre di Babele, a cura di A. Nadotti e F. Galuzzi, Einaudi, Torino 1997, p. 99.
2 W. WORDSWORTH, Poems-Poesie (1798-1807) (trad. di A. Righetti), Mursia, Milano 1997, p. 143.
3 A. S. BYATT, Natura morta, a cura di A. Nadotti e F. Galuzzi, Einaudi, Torino 1985, pp. 232-33.
4 J. TODD (a cura di), Women Writers Talking, Holmes & Meier, New York 1983, pp.187-188.
5 A. S. BYATT, Possessione (trad. di A. Nadotti e F. Galuzzi), Einaudi, Torino 1994.
6 ID., Natura morta cit., p. 300.
7 Nel frattempo A. S. Byatt ha concluso la tetralogia, con il quarto volume, La donna che fischia, a cura di A. Nadotti e F. Galuzzi, Einaudi, Torino 2005 [N. d. C.].
L’ultimo sospiro del Moro di Salman Rushdie
I.
La nozione di identità personale si è notevolmente contratta nella nostra epoca. È diventata in primo luogo una questione di identità di gruppo: rivendicare l’appartenenza a un gruppo, oppure essere oggetto di rivendicazione. In questo senso l’identità ha pesato sul capo di Salman Rushdie per gran parte della sua vita. L’India è il paese della sua immaginazione. E tuttavia, in quanto cittadino inglese di origine musulmana e – da quando è stato colpito dalla fatwa dell’Ayatollah Khomeini – di residenza ignota, è diventato sempre piú difficile per lui, quando scrive dell’India, il paese in cui è nato, affermare di scrivere da una prospettiva interna.
Non sorprende dunque che l’eroe dei Figli della mezzanotte (1981), l’opera che ha rivoluzionato il romanzo indo-inglese e ha portato Rushdie alla fama, gridi a gran voce (in maniera profetica, come si è visto) «Perché io solo su cinquecento milioni e piú dovevo portare il peso della storia?»1. In maniera analoga, l’eroe dell’Ultimo sospiro del Moro lamenta: «[volevo] essere Clark Kent, non una specie di Superman»2. Oppure, se non Clark Kent, almeno se stesso, nudo e crudo.
L’ultimo sospiro del Moro (1995) è un romanzo sull’India e sul mondo, sull’India nel mondo. L’eroe è un giovanotto di Bombay che si chiama Moraes Zogoiby, e che sua madre chiama col diminutivo «Moro». Ma il famoso sospiro cui fa riferimento il titolo fu esalato cinque secoli prima, nel 1492, quando l’ultimo sultano dell’Andalusia, Muhammad XI, disse addio al suo regno, concludendo cosí l’egemonia arabo-islamica in Iberia. Il 1492 fu anche l’anno in cui agli ebrei spagnoli fu offerta l’opzione tra battesimo ed espulsione, e in cui Colombo, finanziato dai conquistatori regali del Moro, Ferdinando e Isabella, salpò verso l’Occidente per scoprire una nuova strada per l’Oriente. Una data cruciale, dunque, per tre grandi religioni, per il commercio tra Europa e Oriente e per le Americhe.
Dal sultano Muhammad Rushdie fa partire una discendenza, in parte storica, in parte fittizia, che porta fino a Moraes, destinato a tornare dall’Oriente nel 1992 per riscoprire l’Andalusia e a chiudere il cerchio. La prima parte, circa un terzo di questa opera dinastica, è dedicata agli antenati piú prossimi di Moraes, a cominciare dai bisnonni, i Da Gama, ricchi esportatori di spezie, residenti a Cochin, in quello che corrisponde all’attuale stato del Kerala. Il bisnonno, progressista e nazionalista, presto scompare dalla scena (Rushdie presta poca attenzione ai personaggi che non sono piú utili alla storia), ma sua moglie, devota dell’«Inghilterra, Dio, la meschinità borghese, i vecchi metodi», sopravvive per dare fastidio alle generazioni successive e per pronunciare la maledizione che avvelenerà la vita del non-ancora-nato eroe.
Dopo avere civettato con il comunismo, il loro figlio Camoens diventa sostenitore di Nehru, e sogna un’India indipendente ed unita, «un paese libero … al di sopra della religione perché laico, al di sopra delle classi perché socialista, e al di sopra delle caste perché illuminato» (pp. 60-61). Morirà nel 1939, ma non prima di avere avuto la premonizione dell’India, violenta e dilaniata dai conflitti, che ne scaturirà.
La figlia di Camoens, Aurora, si innamora di un umile impiegato ebreo, Abraham Zogoiby. Il loro matrimonio non sarà celebrato né dalle autorità ebraiche né da quelle cristiane, e perciò il loro figlio Moraes viene educato in una miscela indefinita, «un socio dell’anonima giudeizzati». A causa del declino della comunità ebraica di Cochin, Abraham trasferisce gli affari di famiglia a Bombay e si stabilisce in un quartiere elegante, dove si mette in affari piú redditizi: procura ragazze ai bordelli della città, viene coinvolto nel contrabbando di eroina, nella speculazione edilizia, nel traffico di armi, e infine delle armi nucleari.
Abraham è poco piú del cattivo di un fumetto. Sua moglie Aurora è, invece, un personaggio piú complesso, e per molti versi il centro emotivo del libro. Pittrice di talento ma madre disattenta, di tanto in tanto sente il rimorso di non amare abbastanza i suoi figli, che in fondo preferisce guardare attraverso la lente dell’arte. Cosí Moraes si ritrova in una serie di dipinti del «Moristan», un posto in cui (nel disinvolto indo-inglese-joyciano di Aurora)
i mondi vengono a collisione, fluiscono l’uno nell’altro e sono cancellati dalle onde … un solo universo, una sola dimensione, un solo paese, un solo sogno, che si scontrano tra loro, o che sono uno sotto o sopra l’altro. Chiamalo Palinstina (p. 252).
In questi quadri Aurora cerca di dipingere, con un senso crescente di disperazione, l’antica, tollerante Spagna moresca sull’India, sovrapponendo o creando un palinsesto dell’orrenda realtà presente con «un romantico mito di quella nazione ibrida e pluralistica». I quadri di Aurora danno un’idea chiara di ciò che Rushdie intende fare col suo progetto «Palinstina»: non tanto dipingere sopra l’India, nel senso di cancellarla con una fantasia alternativa, ma appoggiarvi sopra come una garza un testo alternativo, da terra promessa, una tessitura testuale.
Oltre a creare palinsesti, Salman Rushdie realizza un esperimento di ekfrasi, la narrazione fatta attraverso la descrizione di opere d’arte immaginarie. (Tra gli esempi piú noti di ekfrasi nella letteratura occidentale si annoverano la descrizione dello scudo di Achille nell’Iliade e il fregio sull’urna greca di Keats). Nelle mani di Rushdie l’ekfrasi diventa uno strumento che serve a evocare il passato e adombrare il futuro. Le piastrelle magiche della sinagoga di Cochin non solo raccontano la storia degli ebrei in India, ma predicono la bomba atomica. I dipinti di Aurora proiettano il figlio nel passato col nome di Boabdil; tutta la storia dell’India, dal mitico passato al presente, viene assorbita in una grande fantasmagoria sul muro della sua camera da letto.
Mentre esamina il quadro, il padre si stupisce che Aurora sia riuscita a catturare «il grande brulicare della vita», ma poi nota una enorme lacuna: «solo Dio mancava». Attraverso dipinti che esistono unicamente e paradossalmente nelle parole, il libro è dominato dall’immaginazione storica, oscuramente profetica, di Aurora, dai suoi «cassandriani timori per la nazione». Il suo ultimo dipinto, da cui deriva il titolo del romanzo, mostra il figlio «perso nel limbo come un’ombra errante: il ritratto di un’anima all’inferno».
II.
A causa della maledizione di due nonne-streghe, Moraes nasce con una deformità, la mano destra a forma di clava, e un metabolismo accelerato che lo condanna a crescere e a invecchiare a una velocità doppia, «due volte piú rapidamente» dei comuni mortali. Isolato dagli altri bambini, Moraes riceve la sua iniziazione sessuale da una attraente governante e scopre di essere un narratore nato: raccontare storie gli procura un’erezione.
Quando si avventura nel mondo, viene ben presto catturato nelle spire della bella e malvagia artista rivale Uma Sarasvati. Divenuto una pedina nella contesa tra la demoniaca amante e sua madre, Moraes viene prima espulso dalla casa dei genitori e poi – dopo alcune complicate vicende – finisce in prigione accusato dell’assassinio di Uma. Prosciolto, si unisce alla malavita di Bombay intervenendo contro gli scioperi e diventa lo scagnozzo di un certo Raman Fielding, capo di un gruppo paramilitare indú le cui serate fuori servizio somigliano a quelle delle camicie brune a Monaco, con
prove di braccio di ferro e incontri di lotta … Lubrificata dalla birra e dai liquori, la compagnia riunita arrivava a un certo punto di sudata, rissosa, roca e infine esausta nudità (p. 333).
Camoens, il nonno di Moraes, aveva creduto in Nehru ma non in Gandhi. Nell’India rurale in cui Gandhi aveva un seguito, Camoens vedeva fermentare delle forze che significavano guai per le minoranze indiane:
In città noi siamo per l’India laica, ma la campagna è per Ram … Alla fine ho paura che gli abitanti dei villaggi marceranno sulle città e le persone come noi dovranno sbarrare le porte perché quello che arriverà sarà Ram, l’Ariete (p. 66).
La sua profezia comincia ad avverarsi nel corso della vita di Moraes quando le porte della moschea di Babri ad Ayodhya vengono abbattute da una folla di fanatici indú.
Benché preveggente Camoens è un incapace. Aurora, attivista oltre che artista, è l’unica Da Gama in grado di affrontare le oscure forze intolleranti dell’India rurale. Quando la processione delle festività in onore di Ganesh, il dio con la testa di elefante, un trionfale spettacolo annuale dell’induismo fondamentalista, passa davanti alla loro casa, sotto lo sguardo dei celebranti, lei si mette a danzare contro il dio, sebbene, purtroppo, la sua danza venga da loro interpretata come parte dello spettacolo. (L’induismo è noto per la facoltà di neutralizzare i rivali). Ogni anno Aurora danza sulla collina ed è danzando, all’età di sessantatre anni, che scivola procurandosi la morte.
Raman Fielding, stella nascente del movimento indú, è la caricatura di Bal Thackeray, capo del Partito fondamentalista Shiv Shena di Bombay. Strettamente legato alla criminalità, Fielding è
contro i sindacati … contro le donne che lavorano, a favore del sati, contro la povertà e a favore della ricchezza … contro gli «immigrati» nella città … contro la corruzione del Congresso [il Partito] e per «l’azione diretta», espressione con la quale intendeva un’attività paramilitare a sostegno delle sue mire politiche (p. 332).
Auspica l’avvento di una teocrazia in cui prevarrà la sua particolare variante di induismo.
Se i Versi satanici fecero indignare i rigidi nominalisti del mondo islamico, il bersaglio dell’Ultimo sospiro del Moro è la componente popolar-fascista all’interno del movimento politico indú. A Raman Fielding Rushdie dedica la sua satira piú pungente:
Nella sua bassa poltrona di vimini, col pancione buttato sulle ginocchia come la sacca di un ladro, la voce gracidante che esplodeva dalle labbra tumide di rana e la lingua guizzante che leccava gli angoli della bocca, con gli occhi di rana dalle palpebre abbassate che fissavano avidamente i rotolini di banconote con i quali i suoi tremuli supplicanti cercavano di pacificarlo … era proprio il RE delle Rane (p. 258).
(L’attento esame offerto dai commentatori al testo dei Versi satanici, specialmente delle parti incriminate, e la mole di riferimenti religiosi e culturali che ne è emersa, ci ha messo in guardia dal leggerlo da una prospettiva non-musulmana. Analogamente, quando si parla di lotte politiche intestine in India, o della scena sociale e culturale di Bombay, il lettore non indiano dell’Ultimo sospiro del Moro può avere al massimo una comprensione di seconda mano: si fanno battute, si lanciano strali satirici che solo un indiano può cogliere).
La lotta malavitosa tra Fielding e il padre di Moraes culmina nell’assassinio di Fielding e nella distruzione di mezza Bombay. Disgustato da questa nuova barbarie, Moraes si ritira in Andalusia, dove si troverà di fronte un altro mostro di malvagità, Vasco Miranda. Miranda è un pittore di Goa (un altro collegamento indo-iberico) arricchitosi vendendo quadri kitsch agli occidentali. Ossessionato dalla gelosia nei confronti di Aurora, le ha rubato i dipinti del Moro, e per recuperarli Moraes deve trovare un modo per entrare nella sua fortezza alla Salvador Dalí. Qui Miranda lo cattura, lo rinchiude e gli permette di vivere solo fino a quando (echi di Sheherazade) continuerà a scrivere la storia della sua vita.
Rinchiusa assieme a Moraes c’è una bella giapponese, restauratrice di quadri, che si chiama Aoi Uë (un nome composto esclusivamente di vocali, cosí come quello del Moro in arabo è composto esclusivamente di consonanti: magari avessero potuto incontrarsi prima, pensa lui). Aoi muore. Moraes, con le mani sporche del sangue di Miranda, fugge. È il 1993 e ha trentasei anni, ma il suo orologio interno dice che ne ha settantadue ed è giunta l’ora di morire.
III.
Gli ultimi capitoli del libro, come quello iniziale cui si collegano, sono gremiti di allusioni storiche (costruiti come palinsesti). Moraes non è solo Muhammad XI (Abu-‘Abd-Allah, o Boabdil, come il nome si trova corrotto in spagnolo): è Dante in un labirinto infernale di turisti, è Martin Lutero, in cerca di porte su cui inchiodare le pagine della sua biografia, e finanche Gesú sul Monte degli Ulivi, che aspetta l’arrivo dei suoi persecutori. Non si può evitare la sensazione che tutte le altre analogie della favola del Moro presenti nei taccuini di Rushdie siano state riversate in questi capitoli che, di conseguenza, appaiono frenetici e ridondanti. Alcuni dei suoi paralleli storici non convincono (Moraes non è Lutero: i suoi segugi sono la polizia spagnola, che sospetta un omicidio, non i vescovi dell’ortodossia indú, cui non importa niente di quel che combina in Spagna), mentre si ignorano regole elementari dell’arte del romanziere, come quella di non introdurre nuovi personaggi alle ultime pagine del libro (come si fa qui con Aoi).
E c’è di peggio. Come a rassicurarsi che il parallelo Boabdil/Moraes sia stato colto in tutta la sua importanza, Rushdie, con una frase che suona come un intervento diretto dell’autore, offre il seguente commento: Granada, in particolare l’Alhambra, è il «monumento a una possibilità perduta», «testimonianza … del piú profondo dei nostri bisogni … di porre fine alle frontiere, di uscire dai limiti dell’io» (p. 478). Con tutto il rispetto per l’autore, è necessario sollevare qualche obiezione. La sovrapposizione di Moraes su Boabdil risponde a una tesi meno banale, piú provocatoria: che la penetrazione araba dell’Iberia, come la piú tarda penetrazione iberica dell’India, abbia portato a un miscuglio creativo di popolazioni e culture; che la vittoria dell’intolleranza cristiana in Spagna fu una tragica svolta della storia; e che l’intolleranza indú in India fu di cattivo auspicio per il mondo quanto lo fu l’Inquisizione nella Spagna del XVI secolo. (Avere rimpolpato in tal modo la tesi deriva tuttavia dal non sapere che il reale Boabdil fosse un uomo indeciso e timoroso, dominato dalla madre e ingannato da Ferdinando).
Rushdie utilizza la tecnica del palinsesto con straordinario vigore sia a livello romanzesco, sia storiografico e autobiografico. Cosí Granada, la capitale perduta di Boabdil, è anche Bombay, «l’inesauribile Bombay campione di sregolatezze», la sospirata patria di Moraes, oltre che dell’autore su cui è costruito il personaggio. Da ambedue le città, se non fosse stato per l’intolleranza etnico-religiosa, sarebbe potuto scaturire un fertile incrocio di culture. Ma talvolta il palinsesto scade al livello del piú frivolo postmodernismo: «Ero scivolato accidentalmente da una pagina, dal libro di una vita a un altro?» si chiede Moraes, incredulo di trovarsi in prigione. Eppure in altri momenti Moraes esprime fame di realtà: riflettendo con sconcerto sul passato, egli si chiede:
Come avremmo potuto, intrappolati com’eravamo … nel kitsch da arabo piangente in costume del superficiale, arrivare alla piena, sensuale verità della madre perduta che c’era sotto? Come avremmo potuto vivere vite autentiche? (p. 205).
Qui Moraes esprime un appassionato ma timoroso attaccamento alla madre – che altrove chiama «la mia nemesi, il mio nemico dall’oltretomba» – e attraverso di lei a una
Madre India che amava e tradiva e divorava e distruggeva e tornava ad amare i suoi figli, e la cui lotta con questi stessi figli, eterna, appassionata e congiunta, si prolungava ben oltre la tomba (p. 71).
L’attaccamento conflittuale cui si allude a questo punto costituisce la nota piú triste del libro, ma resta un elemento sommerso, a mala pena esplorato della figura di Moraes.
Il desiderio di autenticità di Moraes si esprime chiaramente quando sogna di staccarsi la pelle di dosso e andare nudo per il mondo
come un’illustrazione anatomica dell’Encyclopaedia Britannica … liberato dalle carceri, dalle quali altrimenti sarebbe stato difficile fuggire, del colore, della razza e del clan (p. 152).
Purtroppo, procede in una complessa costruzione scherzosa che mette insieme gli indiani dell’India, quelli che Colombo pensava di trovare, con gli indiani d’America, quelli che in realtà incontrò:
in territorio indiano non c’era posto per chi non voleva appartenere a una tribú, per chi sognava … di staccarsi la pelle dal corpo e rivelare la propria identità segreta – il segreto, cioè, dell’identità di tutti gli uomini – di piazzarsi davanti ai guerrieri dipinti con i colori di guerra per svelare la scorticata e nuda unità della carne (p. 456).
Se tutto questo non rappresenta una crisi nel pensiero di Rushdie – il desiderio che le pagine della storia smettano di andare avanti, o almeno non alla «doppia velocità» con cui lo fanno, in modo che possa emergere, dalla parata di identità fittizie, il vero io… – allora si tratta di una crisi che riguarda il personaggio del Moro, il principe in esilio, l’uomo non piú giovane, di fronte all’indiscussa verità che unisce l’umanità: che tutti dobbiamo morire.
IV.
Come I figli della mezzanotte (1981), Vergogna (1983) e I versi satanici (1989), L’ultimo sospiro del Moro è un romanzo di grandi ambizioni e di ampio respiro. La struttura del libro è comunque tutt’altro che solida. A parte il preludio dinastico ambientato a Cochin e le ultime cinquanta pagine ambientate in Spagna, il grosso del libro riguarda la vita di Moraes a Bombay. Ma invece dello sviluppo congiunto di personaggio, tema e azione, tipico della parte centrale di quello che può definirsi il romanzo classico, nel romanzo di Rushdie questa progredisce solo in maniera episodica e discontinua. Con una capacità inventiva e una ricchezza di dettaglio generalmente riservata ai ruoli piú importanti, si introducono nuovi attori il cui contributo all’azione spesso si rivela del tutto secondario, e che scompaiono (o vengono espulsi) dal quadro quasi a capriccio.
A critiche del genere – che sono state mosse anche nei confronti dei romanzi precedenti – i difensori di Rushdie hanno risposto sostenendo che egli scrive, e perciò cosí deve essere letto, all’interno di una doppia tradizione narrativa: quella del romanzo occidentale (e del suo sottogenere, l’antiromanzo alla Tristram Shandy) e quella dei cicli di storie orientali come il Panchatantra, costituito da brevi narrazioni autonome concatenate. Per questi critici Rushdie è uno scrittore multiculturale non solo banalmente, perché è radicato in piú di una cultura, ma nel senso forte di chi usa una tradizione letteraria per rinnovarne un’altra.
Non è facile opporre, nella sua formulazione generale, questa linea di difesa. Ma per metterla alla prova prendiamo l’episodio dell’Ultimo sospiro del Moro in cui Abraham Zogoiby, in un accesso di entusiasmo per lo stile moderno e impersonale di conduzione degli affari, adotta un giovane intraprendente che si chiama Adam perché prenda il posto di Moraes in qualità di figlio e di erede. Per circa quindici pagine Adam è al centro della scena. Dopo di che non se ne sa piú nulla. L’episodio si esaurisce senza conseguenze. Azzarderei l’ipotesi che la scomparsa di Adam sia dovuta non tanto al fatto che Rushdie stia seguendo un particolare modello narrativo bensí al fatto che non sia del tutto convinto di volere satireggiare l’ethos delle business school, cosí abbandona questo filo narrativo per l’unico motivo che non porta da nessuna parte.
Personaggi come Vasco Miranda, Uma Sarasvati, e persino lo stesso Abraham Zogoiby, pongono problemi analoghi. Nella loro estrema cattiveria sembrano essere usciti dalle fabbriche dell’intrattenimento di Hollywood o di Bollywood. Si potrebbe obiettare che non si tratta necessariamente di un elemento negativo. In un romanzo-palinsesto come L’ultimo sospiro del Moro, perché non dovrebbero gli attuali media di narrazione popolare contribuire alla stratificazione del testo? D’altronde, i racconti popolari tradizionali non sono a loro volta pieni di immotivata malvagità?
Se tuttavia si vuole leggere L’ultimo sospiro del Moro come miscuglio di generi e come gioco testuale, bisogna andare fino in fondo. Quando dalla prigione Moraes si chiede se si trova nella pagina sbagliata, si sposta in una dimensione in cui non solo le pareti della cella ma lui stesso consistono semplicemente di parole. In questa dimensione puramente testuale, il lamento di Moraes prigioniero di «colore, casta e setta» e il desiderio di una vita autentica priva di tali costrizioni non può essere preso sul serio. Perché se una creatura di parole vuole sfuggire alle determinanti inessenziali della sua vita, le basta narrare semplicemente la storia che la libererà.
V.
In realtà Rushdie è ben lontano dall’essere un vero e proprio scrittore metanarrativo postmoderno. La prova piú ovvia è la riluttanza a trattare il dato storico come una storia tra le altre. Possiamo verificarlo nel trattamento riservato alle due storie da cui deriva quella di Moraes: quella dei mori di Spagna e quella degli ebrei in India. Nel caso dei mori, e in particolare di Muhammad/Boabdil, Rushdie non si allontana dalla tradizione storica, che probabilmente agli occidentali è soprattutto nota attraverso le vignette nostalgiche di Washington Irving dell’Alhambra. Quanto alle comunità ebraiche in India, hanno origini cosí antiche che forse non si conosceranno mai con certezza. Ad ogni modo, le comunità hanno mantenuto alcune leggende delle origini cui Rushdie aderisce senza ricamarci su, eccetto che in un caso: quando afferma che i Zogoiby discendono dal sultano Muhammad (soprannominato dai suoi sudditi al-Zogoiby, lo Sfortunato) attraverso un’amante ebrea che salpò per l’India incinta di suo figlio. L’invenzione di questa storia viene espressamente (sebbene non inequivocabilmente) attribuita a Moraes nella sua funzione di narratore.
È sulla base della storia recente, in cui il gioco intellettualistico di Rushdie con varie identità è stato ignorato dai credenti sulla base di una nozione piuttosto rigidamente prescrittiva dell’identità di gruppo, che bisognerebbe interpretare il momento in cui Moraes, andando oltre la celebrazione della bastardaggine, degli incroci e dell’ibridità, ormai consueta in Rushdie, rinnega il suo «anti-Onnipotente» padre Abraham – un padre pronto a sacrificarlo sull’altare delle proprie ambizioni megalomani – per abbracciare una tradizione che finora non ha significato nulla per lui: «Ho scoperto di essere un ebreo» (p. 374). Perché non solo gli ebrei di Rushdie (gli ebrei di Cochin, gli ebrei di Spagna) sono comunità prive di potere, in estinzione; ma rivendicare volontariamente l’identità ebraica, dopo l’Olocausto, significa affermare, per quanto simbolicamente, solidarietà con le minoranze perseguitate di tutto il mondo.
In un libro in cui idee, personaggi e situazioni sono inventati con tale prolifica facilità, avrebbe fatto piacere vedere Rushdie portare un po’ piú oltre la riscoperta dell’ebraismo da parte di Moraes. «Eccomi qua, – dice Moraes/Lutero alla fine del viaggio della sua vita. – Non potevo fare diversamente». Cosa significa in termini reali, in India o nel mondo, prendere posizione su un ebraismo simbolico?
Un’ultima parola. A cinque secoli di distanza, da quando le campagne di Ferdinando e di Isabella cacciarono via l’Islam dall’Iberia, i musulmani dell’Europa sud-orientale hanno subito un vero e proprio genocidio da parte dei loro vicini, cattolici e ortodossi. Sebbene la parola Bosnia non venga mai menzionata (e neppure «sospirata») in quest’opera, è inconcepibile che l’analogia non sia passata per la mente di Rushdie mentre scriveva.
1 S. RUSHDIE, I figli della mezzanotte (trad. di E. Capriolo), Garzanti, Milano 1987, p. 423.
2 ID., L’ultimo sospiro del Moro (trad. di V. Mantovani), Mondadori, Milano 1995, p. 182.
Amos Oz
I.
Nelle autobiografie dell’infanzia, la prima crisi morale del bambino spesso si delinea con chiarezza: è il momento in cui per la prima volta si trova a dover scegliere tra un’azione giusta e una sbagliata. È un momento cui l’autore dell’autobiografia annetterà, retrospettivamente, valore formativo.
Uno di questi momenti è il furto del nastro nel Libro II delle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau. Il giovane Jean-Jacques ruba un nastro e invece di confessare la colpa, lascia che una serva venga accusata del furto e licenziata. Ha scelto il male, ma questa scelta contribuisce all’implacabile senso di colpa che farà di lui l’uomo che sarà e l’autore, inter alia, delle Confessioni.
Per il giovane William Wordsworth, quel momento arriva quando, senza averne il permesso, prende una barca per fare un giro sul lago. Alla sua fervida immaginazione l’ambiente naturale circostante appare tutto alleato in un rimprovero: impara cosí che l’universo è istinto dotato di forza morale.
Per Stephen Dedalus di James Joyce, quel momento arriva quando, ingiustamente punito da un insegnante, deve decidere se lamentarsene con il preside o accettare il cinico punto di vista dei suoi compagni, secondo cui la ragione è sempre del piú forte.
In ciascun caso, lo scrittore adulto organizza la storia della propria infanzia intorno a tali episodi cruciali, identificati come momenti chiave della sua crescita morale.
Una pantera in cantina1 (1994) narra una storia che Amos Oz ha già raccontato parecchie volte, sia in forma di autobiografia (in Under This Blazing Light2, 1979) sia di romanzo. Ridotta ai minimi termini la storia è quella di un bambino israeliano giunto a un punto di svolta della sua crescita morale. Deve continuare a nutrire le fantasie infantili di violenza che il suo ambiente incoraggia, o deve procedere verso una nuova fase della vita, in cui potrà imparare ad amare oltre che ad odiare e accettare che le persone intorno a lui non possono semplicemente essere classificate come amici o nemici?
Il fatto che tale contingenza della sua vita coincida con un bivio nella vita del suo paese – Una pantera in cantina è ambientato a Gerusalemme negli ultimi anni del mandato inglese, mentre incombe la guerra contro gli stati arabi – conferisce alla scelta del giovane protagonista un significato politico (Israele deve procedere sulla strada dell’autoaffermazione violenta o deve giungere a un accordo basato sul dare e avere?) che Oz, va detto a suo merito, tratta con mano leggera.
La trama di Soumchi3 (1978), il romanzo che ha preceduto Una pantera in cantina, si basa sugli stessi elementi: un ragazzino, Soumchi, divorato da fantasie di violenza contro gli occupanti inglesi, che sogna di diventare un combattente della resistenza clandestina (ma anche, contraddittoriamente, esploratore nell’Africa nera); l’incontro con un affabile soldato inglese, che porterà a uno scambio di lezioni di lingua; la persecuzione degli amici di prima, che sostengono che avendo fraternizzato con il nemico sia diventato un traditore della sua gente; la prima esperienza d’innamoramento che gli fa prendere le distanze dai suoi sogni omicidi. Le somiglianze sono cosí numerose che Soumchi può essere letto come bozza del romanzo successivo, appena guastato da qualche caduta sentimentale.
Il ragazzo di Una pantera in cantina non ha nome, è conosciuto semplicemente col soprannome che gli è stato affibbiato a causa del suo amore per i libri: Profi. L’inglese che porta scompiglio nella sua vita è un funzionario dell’esercito che per via del suo passato clericale mastica un po’ di ebraico in una comica variante biblica. Il traduttore di Oz, Nicholas de Lange, ne coglie il sapore rendendolo in un inglese del sedicesimo secolo. «Whither dost thou hasten? (dove corri?)» chiede a Profi il sergente Dunlop, avendolo sorpreso in strada durante il coprifuoco. «Please, kindly sir, let me go home» risponde Profi nel suo migliore inglese. («La lingua del nemico», rammenta a se stesso con gravità)4.
Dunlop, un uomo solo e di aspetto sgradevole, è attratto dallo strano ragazzino; Profi – con cui il padre intreccia perversi giochi di distanziamento – risponde con calore contenuto. I due si accordano per incontrarsi e scambiare lezioni di ebraico con lezioni di inglese, usando la Bibbia come testo base.
A se stesso Profi razionalizza questi incontri come un’astuzia per estrarre segreti militari dal nemico. Da parte sua, Dunlop – in forte contrasto con gli insegnanti di Profi alla Scuola Nazionale di Ebraico – sceglie episodi biblici che non riguardano gli eroi vittoriosi della storia israelitica ma le figure piú deboli e piú marginali. Dunlop giunge cosí a esercitare un’influenza moderatrice sul ragazzo e ad assumere un ruolo vagamente profetico. Ritiene infatti che una volta che gli inglesi saranno andati via, gli ebrei sconfiggeranno i nemici arabi, dopo di che «Forse era volontà del buon Dio creatore far diventare loro il popolo perseguitato, al posto degli ebrei tornati finalmente alla loro terra». Cita dalle Scritture: «Mirabili sono le vie del Signore … Colui che ama, Egli punisce, e chi adora estirpa» (p. 105).
I loro incontri, che si svolgono all’Orient Palace Café, davanti a limonata e biscotti, vengono scoperti dagli amici di Profi; ciò porterà a una pubblica umiliazione («Profi vile traditore!» scritto sul muro di casa del ragazzo) e quindi alla riflessione sul patriottismo e il tradimento, che sono al cuore del romanzo.
Per quanto la voce dell’educazione ricevuta dica a Profi che Dunlop è uno straniero e un oppressore, il cuore gli dice che il suo generoso responso allo straniero è positivo. Se sottopone l’inglese a meschini insulti come il rifiuto di stringergli la mano, gli resta in bocca un sapore amaro. Condotto davanti a un tribunale formato dai compagni del movimento clandestino, nega di avere tradito alcun segreto. «Voler bene al nemico, Profi, è peggio che passargli delle informazioni», risponde Ben Hur, capo della cellula (da adulto Ben Hur Tykocinski non farà il poliziotto, un lavoro per cui sembra particolarmente dotato, ma lo speculatore edilizio in Florida; Profi invece resterà in Israele e scriverà libri). Solo la madre di Profi resta saldamente al suo fianco: «Chi ama non tradisce», dice.
Ma la dichiarazione di una madre non basta. Ci vorrà Yardena, l’attraente sorella diciannovenne di Ben Hur, a rafforzare Profi sul sentiero verso cui lo indirizza l’istinto. Una sera che è venuta a fargli da baby-sitter, Yardena gli prepara un succulento pranzo mediterraneo, e senza alcuna difficoltà gli estrae tutti i segreti del movimento clandestino, lo prende in giro per il suo linguaggio infarcito dei cliché della «Voce combattente di Sion» e gli apre gli occhi: come «Ma perché non prendi in considerazione di diventare professore, e smettere di fare la spia o il generale? … sei un bambino da parole, tu» (p. 155).
Profi non odia veramente gli inglesi. Si accontenterebbe se ammettessero di aver sbagliato e si ritirassero dalla Palestina «[all’epoca] pensavo agli inglesi come europei, intelligenti e quasi invidiabili» ricorda altrove Oz. «Dovevamo impartirgli una lezione … e poi – riconciliarci con loro e portarli dalla nostra parte»5. Questo gli avrebbe permesso di incontrare Dunlop su una base diversa, diventare suo amico, e persino una specie di figlio.
Si rivolge ai genitori in cerca di aiuto: Se i nostri nemici ammettono di averci fatto un torto, non dovremmo perdonarli? Le loro risposte riflettono la tensione familiare. Sí, risponde la madre: «Il perdono non concesso è come un veleno che intossica» (p. 90). Sí, risponde il padre, ma solo da una posizione di forza.
Profi non sa con chi schierarsi. Sebbene istintivamente tenda verso la madre, il problema cruciale per lui in quanto maschio è come riuscire a negoziare il rapporto con il padre, come diventare un degno figlio – e questo aspetto ritorna sia nella versione autobiografica sia in quella romanzata della storia6.
In effetti gli inglesi si ritirano dalla Palestina senza ammettere di avere sbagliato, e con loro Dunlop, il debole padre-putativo. Gli eserciti arabi attaccano e vengono sconfitti; le Nazioni Unite riconoscono il nuovo Stato di Israele. Nella notte Profi viene svegliato dal padre che, disteso sul letto accanto a lui e visibilmente scosso, gli racconta piangendo la storia di
quando lui e mamma erano due bambini vicini di casa in una cittadina polacca. Della marmaglia che li tormentava in cortile, che li picchiava brutalmente perché gli ebrei, dicevano, sono tutti ricchi, truffatori e affaristi. E di quella volta che in classe, al ginnasio, l’avevano spogliato di forza, davanti alle ragazze, c’era anche la mamma, per prenderlo in giro perché era circonciso … «Ma d’ora in poi avremo uno Stato ebraico». E improvvisamente mi abbracciò, non con tenerezza ma quasi selvaggiamente (p. 170).
Mai piú, finché esisterà lo stato di Israele, il popolo ebraico si troverà inerme davanti ai suoi nemici. Cercare un modo per riconciliare questa promessa virtuale, che il padre gli ha strappato con le piú morbide e a volte traditrici sollecitazioni del cuore, favorite dalla madre, senza tuttavia dimenticare l’ammonimento del sergente Dunlop, di quanto facilmente i perseguitati diventano persecutori, sarà il compito che il giovane eroe di Oz dovrà affrontare negli anni che verranno.
II.
La continua rielaborazione della storia di Profi lascia intendere come tale materiale abbia un profondo significato per Oz, e costituisca un ricco potenziale per esplorare sia la propria storia morale sia quella di Israele. La comprensione del nostro passato – trasformare il passato in racconto – non solo spiega il nostro presente: Oz sembra voler dire che la nostra vita è in un certo senso la realizzazione dell’una o dell’altra storia che abbiamo scelto da bambini. Una storia è dunque un modo di proiettarsi nel futuro; lo stesso accade con le nazioni e i miti nazionali. (La nozione di storia come realizzazione di un mito profetico si trova perfettamente inserita nel pensiero giudaico).
Persino nel personaggio che chiamiamo «Amos Oz» c’è un forte elemento di autocostruzione anche se non del tutto inventato. Nato come Amos Klausner, figlio di uno studioso di letteratura comparata formatosi in Europa, l’autore di queste varie riscritture di sé lasciò la casa del padre – secondo la sua stessa testimonianza – subito dopo il suicidio della madre, cambiò il cognome in Oz (in ebraico il termine significa potere o vigore), e, all’età di quattordici anni, entrò in un kibbutz dove si dedicò, attraverso un regime di studio e lavoro, alla costruzione di se stesso.
Come nella storia di Profi, Klausner, il padre studioso, con la sua cultura del vecchio mondo e l’ironica mentalità della diaspora, avrebbe voluto che il figlio diventasse uno degli «ebrei completamente nuovi, migliori, con le spalle larghe, combattenti»7. Il ragazzo fu iscritto a una scuola di forti tendenze nazional-religiose, dove gli fu insegnato «a desiderare la resurrezione nel sangue e nel fuoco» degli antichi regni ebraici8.
Negli ultimi anni del mandato inglese, Gerusalemme ha offerto molti elementi affinché questa suggestiva visione profetica potesse realizzarsi. Al bambino sensibile e suggestionabile, la città si presentava come un mondo di avventura ed eroismo, ma anche di odio e violenza. «La mia infanzia a Gerusalemme mi ha reso esperto di fanatismo comparato», scrive Oz guardando al passato. Si potrebbe pensare che sia stata proprio la sua fuga tempestiva dal crogiolo di Gerusalemme ad avergli risparmiato l’intolleranza e l’intransigenza che hanno guastato l’immagine pubblica di Israele. In contrasto con Gerusalemme, il Kibbutz Hulda, in cui si rifugiò Oz, si batteva per il laicismo e la razionalità, per la sconfitta del male non per mezzo della violenza ma attraverso l’antico ideale sionista del «lavoro, della vita semplice, della condivisione e dell’eguaglianza, un miglioramento graduale della natura umana»9.
III.
Soumchi non è l’unica variante della storia di Amos/Profi. Gran parte dei suoi elementi si ritrovano in tre lunghi racconti pubblicati nel 1976 con il titolo The Hill of Evil Counsel. Siamo nuovamente nella Gerusalemme degli anni Quaranta. Di nuovo troviamo il figlio unico di genitori immigrati che cerca di dare un senso alla sua vita e all’epoca violenta in cui vive. Sogna macchine di distruzione (razzi che trasportano esplosivi estratti da bottiglie di smalto per le unghie, un sottomarino capace di attraversare la lava sotto la crosta terrestre) che porteranno alla sconfitta immediata degli inglesi; adora i combattenti della resistenza clandestina; la casa dei genitori viene perquisita dai soldati inglesi, che si sentono un po’ intimoriti dalla presenza dell’alta cultura europea; fantastica di morire sotto tortura piuttosto che rivelare i segreti del movimento clandestino. È persino presente il motivo del leopardo che appare nella foresta (o della pantera che si nasconde in cantina): emblema del potere primitivo e nello specifico dello stato ebraico alla vigilia di manifestarsi.
Questi primi racconti, in particolare il terzo, letti accanto a Una pantera in cantina, aprono uno squarcio interessante nel processo di autorevisione messo in atto da Oz. Il terzo racconto è narrato da un estraneo: l’anziano dottor Nussbaum, vicino di casa di Uri (il nome di Profi in questa incarnazione). Nussbaum è una variante del sergente Dunlop, attratto dall’intelligente e dotato ragazzino in balia delle proprie fantasie.
Scrive poesie sulle dieci tribú perdute, sui cavalieri ebrei, le grandi conquiste, e atti di vendetta. Senza dubbio qualche piccolo insegnante, un pazzo profetico, ha catturato la fantasia del bambino con la solita miscela di visioni apocalittiche e fantasie romantiche, tipico di Gerusalemme10.
Dalle sue conversazioni con Nussbaum viene fuori quanto disumano e limitato sia diventato il mondo interiore di Uri. «Niente viene dalle parole, – dice Uri. – Mi dispiace tanto. Dappertutto è guerra … cosí è nella storia, nella Bibbia, nella natura, e anche nella vita vera. E l’amore è guerra. E persino l’amicizia» (p. 163).
Tremenda ironia da parte di un bambino per cui le parole rappresentano la richiesta vitale di essere trattato da adulto, perché gli vengano rivelati i segreti del mondo adulto e del suo movimento clandestino, che giura di saper mantenere i segreti, che non una sola parola gli uscirà dalla bocca, neppure sotto tortura. Questo specialmente se il racconto viene letto alla luce della conclusione di Una pantera in cantina, in cui Oz svela a se stesso (forse in maniera un po’ troppo leggera e riflessiva) la propria domanda di fondo: non ha forse lui, Amos Oz, tradito gli Uri e i Profi da cui era nato (o su cui aveva modellato se stesso) facendo uscire la pantera dalla cantina o il leopardo dalla foresta, rivelando i loro segreti e trattandoli con la leggerezza, persino la presa in giro, che il tempo e la distanza inevitabilmente portano? Chi è il traditore e chi merita di essere creduto: l’autore, Amos Oz, o Uri, il ragazzo che promette a Nussbaum «Non riusciranno a farmi dire niente»? («Ancora una volta, – dice Nussbaum, – un guizzo di rabbia lampeggia nei suoi occhi verdi e scompare», p. 164). Bisogna ricordare che tradirsi significa rivelare ciò che non si vuole consciamente rivelare. Pur non essendo un libro di grandi ambizioni, Una pantera in cantina riesce, con una certa leggerezza, a sollevare alcune questioni profonde sull’etica dell’autobiografia.
1 A. OZ, Panther in the Basement (trad. di N. de Lange), Harcourt Brace, New York 1997 [Una pantera in cantina (trad. di E. Loewenthal), Bompiani, Milano 2001].
2 ID., Under This Blazing Light: Essays (trad. di N. de Lange), Cambridge University Press, Cambridge 1995.
3 ID., Soumchi, Mondadori, Milano 2001.
4 ID., Una pantera in cantina cit., p. 49.
5 ID., Under This Blazing Light cit., p. 159.
6 Da un’intervista del 1991: «Mi trovo in una stanza piena di libri, e scrivo ancora altri libri, che è forse proprio quello che mio padre aveva sognato per me». Tra le pagine migliori di Una pantera in cantina ci sono quelle delle esplorazioni di Profi nella biblioteca di suo padre.
7 In una intervista del 1982 con Eugene Goodheart, Oz aggiunge altri elementi alla prescrizione di suo padre: «La nuova Israele: semplice, bionda, pura delle nevrosi ebraiche, dura ma di aspetto gentile».
8 ID., Under This Blazing Light cit., p. 169.
9 Ibid., pp. 169 e 170.
10 ID., The Hill of Evil Counsel: Three Stories (trad. di N. de Lange), Fontana, London 1980, p. 150.
L’epopea dei harafish di Naguib Mahfouz
I.
L’invasione dell’Egitto da parte di Napoleone nel 1798 risvegliò bruscamente dal suo torpore il Vicino Oriente arabo. L’Egitto, e poi l’intera zona, furono costretti a prendere le distanze dalla Turchia e a orientarsi verso l’Europa. Cosí un corpus europeo di idee laiche – quelle che avevano ispirato la rivoluzione francese – oltrepassò i confini che separavano l’Islam dall’Occidente.
Già molto prima del 1798 il mondo islamico aveva suscitato l’interesse dell’Occidente, andando a formare quell’insieme di sapere e mito che Edward Said ha definito orientalismo. L’Islam, d’altro canto, sapeva poco dell’Occidente (né se ne curava). Non esisteva nulla che potesse definirsi occidentalismo, nessuna prospettiva dell’Occidente che emergesse dalle arti e dalle scienze islamiche.
Nel secolo e mezzo successivo all’invasione napoleonica, i paesi islamici adottarono un certo numero di concetti e istituzioni occidentali identificati come essenziali alla propria modernizzazione. Ed è dall’incapacità di addomesticare e assorbire pienamente concetti fondamentalmente occidentali e laici, come democrazia, liberalismo e socialismo, che in gran parte deriva l’attuale instabilità di questa zona. Il problema che ci si trova ad affrontare è: può una cultura diventare moderna senza aver interiorizzato la genealogia della modernità, e cioè senza avere attraversato – con tutto ciò che il processo implica – quella rivoluzione epistemologica, da cui è derivato il sapere scientifico dell’Occidente? «Il nuovo atteggiamento [del mondo islamico] è in un certo senso moderno, ma lo è in maniera monca», scrive Daryush Shayegan. La modernità è stata assorbita, ma solo in forma «monca». Al suo interno, il mondo islamico sta ancora «arrancando dietro la modernità».
Tra le forme artistiche che il mondo islamico ha importato dall’Occidente c’è il romanzo. In quanto genere narrativo, il romanzo, e in special modo quello realistico, porta con sé un pesante bagaglio intellettuale. Il romanzo non si occupa di vite esemplari ma dell’impegno individuale e del destino dell’individuo. È ostile alla tradizione: dà valore all’originalità, all’autonomia. Imita il metodo dell’inchiesta scientifica o del caso legale piuttosto che il racconto fantastico narrato accanto al focolare. Vanta inoltre una lingua priva di ornamenti, un’osservazione costante e ordinaria e una registrazione scrupolosa dei dettagli. È proprio il genere di strumento che ci si poteva aspettare dalla borghesia mercantile europea, allo scopo di mettere per iscritto e celebrare i propri ideali e le proprie conquiste.
I primi romanzi arabi in stile occidentale risalgono a un secolo fa. Da allora il genere è fiorito specialmente in Egitto, dove la società civile e il senso dell’identità nazionale hanno goduto di maggiore solidità rispetto agli altri paesi del Vicino Oriente arabo. Grande mediatore è stato Naguib Mahfouz (nato nel 1911). Sebbene oggi, rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, il mondo letterario arabo rivolga scarsa attenzione a Mahfouz, è stato soprattutto il suo esempio a stimolare lo sviluppo del romanzo arabo, dal Marocco al Bahrain.
II.
Mahfouz è in primo luogo un romanziere del Cairo, in particolare del Cairo medievale, un’area di circa un chilometro quadrato nel cuore della megalopoli cairota (popolazione attuale: sedici milioni). Lo scrittore ricorda quando da bambino guardava dalla finestra della casa di famiglia, nel quartiere di al-Gamaliyya, i soldati inglesi che tentavano di bloccare le manifestazioni del 1919 (la scena è rivisitata in Tra i due palazzi). Sebbene la sua famiglia avesse lasciato al-Gamaliyya quando Mahfouz aveva dodici anni, quei vicoli e la mescolanza di classi sociali sono sempre rimasti al centro del suo mondo fittizio. «Nello stesso vicolo, – scrive il romanziere egiziano Gamal al-Ghitani, – accanto alla modesta casa di un mercante si poteva facilmente trovare una villa circondata da un bel giardino spazioso, e poco piú oltre … un caseggiato affollato di povera gente». (A partire dagli anni Trenta, tuttavia, il quartiere è deteriorato e la povertà dei vicoli è ora pressoché totale).
I romanzi della fase realista di Mahfouz, in particolare Vicolo del mortaio (1947) e la Trilogia del Cairo (1956-57), sono tutti ambientati, con scrupolosa verosimiglianza, nel quartiere di al-Gamaliyya. Con Il rione dei ragazzi, pubblicato nel 1959, diminuisce la fedeltà al vero e ai vicoli del quartiere sono attribuite alcune delle qualità favolose delle strade di Baghdad nelle Mille e una notte.
I romanzi realisti di Mahfouz si concentrano sui ceti urbani. Non c’è traccia di contadini né di campagna: sembra quasi che i suoi cittadini non abbiano neppure un parente in campagna. Se qualcosa viene contrapposto alla città, è la città stessa in una fase precedente del suo sviluppo, non il villaggio. In particolare Mahfouz si occupa di persone con mezzi limitati che cercano di tenersi a galla in tempi difficili, e che fanno del loro meglio per mantenere l’apparenza e i modelli di comportamento del ceto medio.
La prospettiva limitata che ne risulta è stata criticata, tra gli altri, da Amitav Ghosh. Secondo Ghosh, i modelli a cui le famiglie di Mahfouz aspirano non hanno tanto a che fare con la tradizione egiziana quanto con la rispettabilità vittoriana1. Ma questa lettura, che vorrebbe Mahfouz orientato verso l’ansiosa imitazione di modelli occidentali (presto destinati a essere superati), non coglie quanto, nei suoi momenti piú cupi, Mahfouz afferma sull’etica della rispettabilità. Principio e fine (1949), ad esempio, un romanzo in cui si narrano i problemi e i sacrifici di una famiglia della piccola borghesia che cerca di sostenere l’ascesa di uno dei figli nella classe degli ufficiali egiziani e, successivamente, gli sforzi di quel figlio per nascondere le proprie umili origini sociali, è cupo e inesorabile, degno della penna di Dreiser.
La reputazione di Mahfouz poggia, giustamente, sul solido successo della Trilogia del Cairo (Tra i due palazzi, Il palazzo del desiderio e La via dello zucchero), immediatamente riconosciuta al suo apparire come un’opera che stabiliva nuovi parametri per il romanzo arabo. La trilogia narra le vicissitudini di due generazioni di una famiglia borghese del Cairo, dalla rivoluzione del 1919 alla seconda guerra mondiale. Con grande ricchezza di dettaglio, nelle sue pagine si registrano il processo graduale di emancipazione femminile, il declino dello spirito religioso nella borghesia, il crescente prestigio della scienza e, in generale, delle forme culturali occidentali. Nel cast di personaggi vivamente tratteggiati spicca il droghiere al-Sayyid Ahmad: in famiglia severo tiranno di moglie e figli ma nelle serate fuori casa uomo di spirito e bon vivant, cantante raffinato e grande amante di donne del demi-monde. Kemal, il suo adorato e dotato figlio – della stessa generazione di Mahfouz – diventerà, nel corso della Trilogia, un inquieto intellettuale nazionalista.
La Trilogia (completata nel 1952 ma pubblicata solo quattro anni dopo), come già Principio e fine, il romanzo che l’ha preceduto, deriva stile e metodo narrativo dallo studio metodico che Mahfouz ha condotto sul romanzo occidentale, in particolare, sugli ultimi e piú sobri maestri del realismo occidentale. Nei momenti migliori, questi romanzi vanno ben oltre la cronaca dettagliata delle fortune di famiglia e dell’anatomia dei moers per denunciare, in maniera inflessibile eppure compassionevole, le menzogne su cui la gente, specialmente la borghesia, costruisce la propria vita, con un tocco che ricorda Tolstoj.
III.
Mahfouz, come Salman Rushdie, ha avuto dei seri scontri con le autorità religiose islamiche. Il fatto che ne sia uscito illeso prova la sua maggiore sagacia politica e la disponibilità a fare le necessarie concessioni simboliche. Il conflitto con le autorità cominciò con la pubblicazione a puntate del Rione dei ragazzi su «Al-Ahram» nel 1959, opera che in Egitto non è mai stata pubblicata in volume. (La prima versione integrale apparve a Beirut nel 1967).
Il rione dei ragazzi, ambientato come molti altri romanzi di Mahfouz in un vicolo del Cairo, è una complessa allegoria che funziona sia sul piano religioso sia su quello politico. Come allegoria religiosa, comincia con la creazione di una grande proprietà da parte dell’onnipotente al-Gebelawi; racconta poi il tradimento del figlio piú giovane Adham o Adam, la successiva costruzione del vicolo, e gli sforzi compiuti da quattro eroici capi – di cui, i primi tre corrispondono a Mosè, a Gesú e al profeta Maometto, mentre il quarto è un uomo moderno, uno scienziato – per strappare il destino del vicolo e dei suoi poveri abitanti dalle mani dei delinquenti che ne hanno assunto il controllo. Il messaggio politico del libro fu illustrato chiaramente da Mahfouz nel corso di un’intervista nel 1975. I delinquenti che controllano il vicolo rappresentano gli ufficiali dell’esercito di Nasser: «Il problema che … mi assillava era: stiamo spostandoci verso il socialismo o verso una nuova forma di feudalesimo?»
Non stupisce che Il rione dei ragazzi sia stato accusato di eresia. Per rispetto dei sentimenti religiosi, Mahfouz rifiutò di contestare la decisione di mettere l’opera all’indice di Al-Azhar, la massima istituzione islamica del paese: riteneva che sarebbe stato sciocco alienarsi Al-Azhar per una questione di scarsa importanza quando invece avrebbe potuto avere bisogno del suo sostegno nella lotta a quella che definiva «l’altra forma medievale dell’Islam», e cioè il crescente movimento fondamentalista.
Il compromesso sembrò evitare lo scontro diretto con le autorità religiose. Ma l’assegnazione del premio Nobel, nel 1988, rinnovò le pressioni affinché il libro, oramai vecchio di trent’anni, venisse pubblicato in Egitto. Quando, poco tempo dopo, scoppiò il caso Rushdie, i media associarono Il rione dei ragazzi ai Versi satanici e Mahfouz fu costretto a fare pubbliche dichiarazioni sulla posizione dello scrittore nelle società islamiche. Mahfouz parlò a favore della libertà di parola e condannò la fatwa di Khomeini contro Rushdie. I fondamentalisti contrattaccarono accusandolo di «blasfemia, apostasia e massoneria» e il mufti di un gruppo fondamentalista emise la fatwa contro di lui: «Mahfouz … è un apostata. Chiunque faccia un torto all’Islam è un apostata … se non si pentono devono essere uccisi». Non c’è dubbio che dietro questa condanna ci fosse un certo risentimento al sostegno espresso da Mahfouz a favore di qualche forma di coesistenza con Israele.
IV.
Gli anni Sessanta furono tempi bui per l’Egitto. Via via che il regime di Nasser assumeva un volto sempre piú repressivo, subentrava, specialmente tra gli intellettuali del paese, un senso di delusione. Per quanto indirettamente, in romanzi come Il ladro e i cani (1961) Mahfouz espresse la propria angoscia, ma fu in particolare Chiacchiere sul Nilo (1966), in cui l’autore attaccava con l’arma della parodia la frivolezza e l’evasione dalla realtà dell’alta borghesia egiziana, a suscitare l’ira di Nasser; la pubblicazione fu permessa solo dopo alcuni interventi a favore dell’autore. Dopo la sconfitta militare del 1967 l’atmosfera si fece particolarmente scomoda per gli incerti e Mahfouz non poté piú contare sulla protezione e il sostegno di patroni, come l’allora ministro della cultura, Tharwat Ukasha. La morte di Nasser alleggerí il clima; nel romanzo Il caffè degli intrighi (1974) – pubblicato, in verità, solo dopo che gli eccessi di Nasser erano stati criticati da Anwar Sadat – Mahfouz documentò alcune delle pratiche piú feroci della polizia segreta di Nasser.
Mahfouz non è mai stato uno scrittore a tempo pieno. Tra il 1934 e il 1971 è stato impiegato nell’amministrazione statale, e per parte di quel periodo ha diretto l’Ufficio per la censura cinematografica e teatrale. Dopo essere andato in pensione nel 1971, entrò nella redazione del prestigioso quotidiano «Al-Ahram». E fu da questa posizione che, nel 1975, consigliò agli stati arabi di trovare una forma di coesistenza con Israele. Successivamente appoggiò apertamente gli accordi di Camp David. Fu il primo grande scrittore arabo a sostenere una simile posizione: come conseguenza, in alcuni paesi arabi, per un certo periodo i suoi libri furono messi al bando. Nei suoi articoli Mahfouz espresse inoltre una certa antipatia per la politica economica di Sadat, che portava, secondo lui, i poveri a impoverirsi e i ricchi ad arricchirsi.
Nonostante tali nobili, per quanto caute, manifestazioni di indipendenza, Mahfouz è stato criticato per la sua arretratezza rispetto ai tempi. Secondo lo scrittore libanese Elias Khoury, ad esempio, Mahfouz non riusciva a risolvere la tensione esistente tra il suo vasto progetto di documentare l’ascesa al potere della classe a lui nota, la vecchia piccola borghesia, e le pressioni – sentite soprattutto dopo la guerra del 1967 – a esprimere preoccupazioni etiche e politiche di piú ampio respiro. Khoury ritiene che la scelta di Mahfouz di volgere le spalle al realismo per abbracciare il simbolismo e l’allegoria fosse un sintomo, a livello letterario, della sua perdita di contatto con le classi realmente al centro della lotta sociale nell’Egitto contemporaneo.
Un’analoga critica è stata avanzata da studiose femministe, secondo cui l’abbandono di Mahfouz dei complessi personaggi femminili del periodo realistico, tutti socialmente rilevanti, come Nefisa in Principio e fine – una donna poco attraente pronta a rassegnarsi alla povertà e al nubilato per favorire la carriera di suo fratello, ma incapace di dominare la propria sessualità e perciò destinata a umilianti rapporti con uomini che dopo averla usata la deridono –, per le donne piú stereotipate delle opere successive, non sia altro che una reazione difensiva nei confronti di un nuovo e piú forte movimento femminista.
A chi ha criticato la sua svolta verso l’allegoria e il simbolo, Mahfouz ha risposto che mentre negli anni Cinquanta gli sembrava giusto scrivere nello stile dei realisti europei, in seguito aveva perso interesse per l’individuo in uno specifico e concreto contesto storico. Nelle opere successive ha preferito utilizzare un linguaggio narrativo piú denso, piú poetico, ma anche meno «moderno» di quello che i maestri europei dei suoi primi anni potessero offrirgli.
V.
Il titolo L’epopea dei harafish è di per sé enigmatico. Il termine arabo harafish è scomparso dall’uso nella lingua moderna. Nel Medioevo indicava il mobile vulgus, i poveri della società nel loro aspetto piú imprevedibile e minaccioso.
Pubblicato nel 1977, L’epopea dei harafish è ambientato al Cairo, in uno dei vicoli della città vecchia. Parla della vita della gente comune, ma piú specificamente dei capi della banda – o «clan» che si succederanno, di generazione in generazione, alla direzione degli affari del vicolo. Il primo di questi leader del clan è un umile carrettiere di nome Ashur. Dopo aver appreso in un sogno premonitore che la peste sta per colpire il Cairo, Ashur si ritira nel deserto con moglie e figlio. Quando la peste finisce ritorna nella città decimata, si impossessa di una casa abbandonata, e ridistribuisce la ricchezza lí custodita per rimettere in piedi l’economia del vicolo. Un breve periodo di detenzione serve ad accrescere la sua reputazione tra i poveri e, quando torna a casa, con il nome di Ashur al-Nagi, Ashur il sopravvissuto, è accolto come un eroe; assume la carica di capoclan e inaugura un’epoca d’oro, in cui «controllava e limitava i potenti, proteggeva i diritti degli umili lavoratori e diffondeva la fede e il timor di Dio»2.
Ma una notte Ashur misteriosamente scompare. I commercianti sono felici ma il loro sollievo è di breve durata. In una serie di scontri con i clan vicini, il figlio di Ashur, Shams al-Nagi, conferma il predominio del clan di al-Nagi; sotto il nuovo leader, i harafish continuano a prosperare e a vivere nella giustizia.
Tuttavia, sotto il terzo al-Nagi, Sulayman, la dinastia comincia a decadere. Sulayman distribuisce ai membri del clan il denaro ricavato dalle tangenti che prima veniva dato ai poveri; il popolo soffre mentre il clan si arricchisce. Quanto ai figli di Sulayman, non riescono a capire che la ricchezza – la propria e quella del vicolo – dipende dal potere e dal prestigio del clan. Si dedicano ad arricchirsi; presto la famiglia al-Nagi perde il potere e il clan diventa sfruttatore piuttosto che paladino della gente comune. (Nell’alternanza tra questi due ruoli, i clan del vecchio Cairo di Mahfouz sono fondamentalmente poco diversi dalle bande dei ghetti di una qualsiasi metropoli odierna).
Il declino del clan e del vicolo continua per altre tre generazioni. I harafish vivono nell’ozio e nella povertà, e temono che i giorni di Ashur non torneranno mai piú. Il potere passa nelle mani di Galal, un bieco tiranno che usa l’inganno e l’estorsione per costruirsi una enorme casa piena di opere d’arte, e poi paga un famoso negromante per dedicarsi al raggiungimento dell’immortalità. Il patto di Ashur è stato tradito. Il sistema clanico, bisbigliano i harafish – che con il loro commento alle azioni dei potenti, raddoppiano la funzione del coro – è diventato «una calamità permanente» (p. 496).
Il Cairo è colpito dalla carestia. I commercianti fanno incetta di cibo; e quando i harafish si ribellano, il clan risponde punendo i poveri e proteggendo i ricchi. Sullo sfondo di tali eventi tumultuosi, un umile discendente di Ashur, Fath al-Bab, accende la scintilla che fa esplodere la violenza popolare. Il leader del clan viene deposto e Fath al-Bab diviene il nuovo leader. Questi cerca di porre termine ai metodi predatori del clan e di rimettersi al servizio degli altri; ma i suoi seguaci lo uccidono e di nuovo i harafish affondano in un «sonno senza fine».
Nel frattempo, in un angolo oscuro, sta crescendo un giovane di nome Ashur, lontano parente di Fath al-Bab. Mentre riflette sul suo mitico omonimo, su come sia riuscito a conciliare potere e virtú, gli giunge una visione. Ashur sfida il clan e, in un episodio che ha dell’incredibile, i harafish si raccolgono spontaneamente sotto la sua bandiera.
I harafish, che costituivano la schiacciante maggioranza della popolazione, inaspettatamente uniti, si erano impadroniti dei nodosi bastoni … avevano spezzato il filo che reggeva l’ordine delle cose, tutto diveniva possibile (p. 557).
Divenuto il nuovo leader, Ashur trasforma i harafish da «straccioni, mendicanti e vagabondi nella banda piú numerosa che il vicolo avesse mai conosciuto». Impone forti tasse ai ricchi, costituisce la milizia popolare, crea nuovi posti di lavoro, fonda scuole. «Cosí ebbe inizio un’epoca in cui la carica di futuwwa divenne sinonimo di forza e onestà» (p. 559).
Questo riassunto comunica solo in minima parte il sapore del libro di Mahfouz. L’epopea dei harafish non è un romanzo ma una serie di racconti concatenati. I racconti non hanno tutti lo stesso eroe ma hanno tutti la stessa vittima: il popolo che soffre. Quanto ai modelli narrativi, Mahfouz ha ripreso la narrazione orale indigena. In questo senso il libro (sulla scia forse di scrittori egiziani piú giovani come Gamal al-Ghitani) partecipa a un’impresa collettiva: ridefinire il romanzo arabo moderno, ricollegarlo ai suoi antecedenti classici e popolari, distanziarlo dalle convenzioni del realismo occidentale che aveva prima abbracciato.
I lettori occidentali dell’Epopea dei harafish andranno incontro a qualche problema per il gran numero di personaggi secondari dai nomi non familiari e per la forte concentrazione della storia su questioni genealogiche e di eredità. Verso la metà del romanzo, nei capitoli che riguardano le generazioni «cattive» di al-Nagi, i lettori potrebbero cominciare a perdere il filo e forse anche l’interesse a capire chi ha sposato chi o chi è padre di chi. In questi momenti è opportuno ricordare che le culture orali – o quelle culture in cui permane un forte sostrato orale – esercitano la facoltà della memoria in un modo che le culture scritte – per non parlare della nuova cultura elettronica – non trovano necessario (la scrittura dopo tutto fu inventata per far fronte all’impossibilità di ricordare tutto).
Per quanto la prosa dell’Epopea dei harafish possa apparire legata a modelli convenzionali, non c’è dubbio che Naguib Mahfouz tragga forza dalle formule. Nei momenti di alta emotività dei suoi primi romanzi realisti, specialmente quando descrive l’innamoramento – qualcosa che accade molto spesso nel suo mondo dove ragazzi e ragazze che scoppiano di energia sessuale hanno poche occasioni di incontro, e devono accontentarsi del balenio di uno sguardo particolarmente intenso seguito da settimane di astrazione erotica e di febbrile cospirazione – Mahfouz cade troppo facilmente in quella che Galen Strawson chiama «l’infiorescenza della letteratura classica araba»: i palpiti del cuore, il sangue in fiamme, e cosí via. Nella sua narrazione tuttavia la vecchia lingua rivive con sorprendente freschezza.
Samha aveva visto la giovane per la prima volta il giorno dei defunti … era slanciata, aveva lineamenti marcati e membra ben proporzionate; il suo volto sorridente e la sua figura erano come una fonte traboccante di vita e di femminilità. Samha sentí divampare in lui il desiderio e la voglia di farla sua. I loro occhi scambiarono uno sguardo pieno di curiosità e il loro incontro fu la terra fertile su cui poté fiorire una muta, reciproca richiesta. L’aria arroventata dai raggi del sole, i tristi sospiri del cordoglio generale, la fragranza delle foglie di palma recise, del basilico e dei dolci preparati per la ricorrenza, tutto sembrava concorrere ad accrescere i desideri segreti dei due giovani. Samha si piegò verso Mahlabeyya come un girasole … Il senso della morte che lo circondava da ogni lato lo spronava ad affrettarsi senza indugio (pp. 216-17).
Sebbene – secondo ogni calcolo – la cronologia dell’Epopea dei harafish comprenda molti secoli, non c’è traccia di cambiamento nel mondo esterno che penetri l’esistenza segregata del vicolo. Il che non dipende tanto dall’isolamento del vicolo dalla storia egiziana, quanto dal fatto che Mahfouz non tiene conto o desidera ignorare la tirannia del tempo storico. Persino all’epoca del primo Ashur, ad esempio, la gente costruisce case con tetti di lamiera e richiede all’autorità la licenza per vendere alcolici; a distanza di tredici generazioni nulla è cambiato nella vita quotidiana e le istituzioni dello stato moderno, specialmente la polizia, restano forze remote, aliene, predatorie.
L’epopea dei harafish è costruito intorno alla vita di una serie di uomini forti, alcuni dei quali si abbandonano a vizi privati o alle tentazioni del lusso, mentre altri si lasciano guidare da una visione di grandezza. Le sorti del clan e della gente comune salgono e scendono con quelle dei capi. Il clan ha bisogno di un leader potente; la gente ha bisogno di un protettore, un uomo che faccia giustizia. Il tema sommerso del libro di Mahfouz è rappresentato dall’inafferrabile miscuglio di forza e lungimiranza politica da un lato, di giustizia e compassione dall’altro, che fanno la grandezza del romanzo, una parabola dell’Egitto alla ricerca del leader giusto.
La tendenza di Mahfouz a collegare virtú privata e giustizia civile, l’interesse nei personaggi e l’indifferenza verso i sistemi, danno al suo pensiero politico un sapore nuovo anche se fuori moda. Ma sarebbe un errore, sulla base di libri come L’epopea dei harafish, giudicarlo come fermo al passato. Si dà il caso piuttosto che, nei suoi romanzi piú recenti, il Mahfouz pensatore sociale si sia interessato alla salvezza piuttosto che alla storia. Si avvertono due toni contrastanti nell’Epopea dei harafish. Uno, intenso ed elegiaco, emerge nelle riflessioni del secondo Ashur su un mondo dominato dai metodi di arricchimento veloce del fratello Fayiz, uomo d’affari:
La notte girovagava fino a giungere nella piazza della tekiyya. Avvolto dalle tenebre, illuminato solo dalla luce delle stelle … sedeva al posto dei Nagi lasciandosi cullare dal ritmo degli inni.Non si curavano quegli uomini di Allah di quanto accadeva alle sue creature? Quando avrebbero aperto la porta e abbattuto le mura?» Shr avrebbe voluto porre loro delle domande … Perché gli egoisti e i criminali prosperano? Perché le persone buone e affettuose sono destinate alla sconfitta? Perché i harafish vivono immersi in un sonno senza fine? (p. 546).
È significativo il fatto che a Fayiz sia consentito sbeffeggiare l’atteggiamento conservatore del vicolo, ma che non gli vengano offerte molte occasioni per parlare in difesa della vita di «mediazione d’affari» e «speculazioni» da lui stesso scelta, e cioè a favore dei metodi del moderno capitalismo. Quando sarà ammazzato scopriremo che la sua ricchezza non derivava dagli affari ma dal crimine, uccidere uomini ricchi e impossessarsi dei loro averi.
L’altro tono – forse meno veritiero – si sente nel finale favolistico: nell’ascesa di Ashur, nell’eclissi dei «notabili» borghesi, nel risveglio dei harafish, e nel presagio che il giorno della rivelazione è vicino.
Ashur guardò stupefatto l’alto portale. Lo vidi aprirsi dolcemente e pesantemente. Apparve una figura di derviscio, incarnazione dello spirito della notte. Si piegò verso di lui mormorando: «Preparate flauti e tamburi, domani il grande sheikh lascerà il suo eremitaggio, attraverserà il vicolo in un alone di luce, donando a ogni ragazzo un’asta di bambú e un gelso. Preparate flauti e tamburi. ... Si alzò in fretta, inebriato di ispirazione e di forza. Il cuore gli disse «non ti affliggere, un giorno la porta si aprirà per accogliere chi vive con l’innocenza dei fanciulli e le aspirazioni degli angeli (pp. 561-62).
L’epopea dei harafish è un romanzo che non solo tratta degli uomini e delle loro fortune, ma che guarda a un particolare ideale maschile. Ciò nonostante vi si trovano molte scene audaci di seduzione (raramente i personaggi maschili di Mahfouz sono in grado di resistere ai raggiri delle donne), mentre il personaggio piú straordinario e certo il piú vivace di tutto il libro è Zahira, madre di Galal. Irrequieta nel ruolo di moglie, madre e nuora devota, Zahira usa le leggi progressiste dell’Islam per liberarsi di una serie di mariti insoddisfacenti, ma finisce ammazzata con un espediente da deus ex-machina che ci fa supporre che l’autore non sia riuscito a capire come concludere la parabola di questa donna impetuosa, volubile e ambiziosa.
1 A. GHOSH, Commedia umana al Cairo, in Circostanze incendiarie, a cura di A. Nadotti, Neri Pozza, Vicenza 2006.
2 N. MAHFOUZ, L’epopea dei harafish (trad. di C. Sarnelli Cerqua), Tullio Pironti Editore, Napoli 1999, p. 101.
Gordimer e Turgenev
I.
In un discorso del 1975, Nadine Gordimer parlò delle pressioni e delle richieste che la polarizzazione razziale impone agli scrittori sudafricani, pressioni e richieste avvertite in maniera particolarmente acuta dagli scrittori neri. Da un lato, lo scrittore nero (Gordimer usa il maschile) deve sentirsi libero di esprimere «un’opinione profonda, intensa e personale», «la verità cosí come la vede». Dall’altro, quelli che condividono la sua stessa sorte e che lo considerano portavoce si aspettano che il talento personale venga subordinato agli imperativi politici e che si scriva nel «gergo della lotta»1.
Sebbene il discorso derivasse la sua urgenza, a me pare, dalla sensazione di sentirsi lei stessa dilaniata nelle due direzioni, Gordimer aveva scelto di concentrarsi sul dilemma dello scrittore nero. Questi deve mantenere la sua libertà: perché solo da una posizione di libertà, afferma Gordimer, sarà in grado di offrire il suo prezioso «dono» alla lotta di liberazione. Cita Jean-Paul Sartre: «Lo scrittore è qualcuno che è fedele a un sistema politico e sociale senza però smettere mai di contestarlo»2.
Per Gordimer il russo Ivan Turgenev, con il romanzo Padri e figli (1862), rappresenta l’esempio piú alto di scrittore che, pur continuando a criticare e contestare le strategie dei progressisti, sia riuscito per tutta la vita a tenersi fedele alla causa della riforma sociale. Per avere presentato il suo eroe, Bazarov, in tutta la complessità della sua vicenda umana, Turgenev dovette subire l’ira e il disprezzo dei giovani radicali russi, che fino ad allora l’avevano considerato il loro campione e si sentivano ora pugnalati alla schiena. Per quanto deluso dalla loro reazione, Turgenev non si scompose. Come artista, disse, aveva il dovere di seguire la verità. «In quel caso specifico, la vita, secondo me, era proprio cosí, e volevo soprattutto essere sincero e veritiero». E altrove: «Solo chi non sa fare di meglio si sottomette a un dato [cioè prefissato] tema o svolge un programma»3.
Il discorso del 1975 è stato l’ultima occasione in cui Gordimer ha esplicitamente proposto agli scrittori neri il modello di uno scrittore europeo. Quattro anni dopo avrebbe completamente rivisto la sua posizione. In Sudafrica c’erano due culture, avrebbe detto, una bianca e una nera. Era finita l’epoca in cui la cultura bianca poteva imporre i suoi standard come universali. «Per l’artista nero, in questa fase del suo sviluppo, l’importanza sociale è il criterio supremo. È quello con cui la sua gente giudica la sua opera e la sua gente è l’autorità suprema». Per quanto bene intenzionato possa essere lo scrittore bianco «Il suo ordine di esperienza, in quanto bianco, differisce completamente da quello dei neri». Perciò non è nella posizione giusta per consigliare o indicare modelli – e qui chiaramente include se stessa4.
Sebbene Gordimer non abbia mantenuto a lungo un simile tono di radicale ermetismo culturale, le riserve espresse riguardo all’imposizione o anche solo al suggerimento di modelli europei sono rimaste. «I bianchi devono imparare ad ascoltare»5, scrisse nel 1982, ripetendo le parole udite dal poeta Mongane Serote. E per molti versi, dal 1976 in poi, Gordimer ha passato il tempo ad ascoltare o a dare retta. Stando ben attenta a non dire agli scrittori neri chi devono leggere e chi devono imitare.
E tuttavia nel saggio del 1984 Il gesto essenziale Gordimer ritorna alla Russia dell’Ottocento. In che modo, si chiede, lo scrittore sudafricano nero può riconciliare le esigenze della sua comunità con quelle della verità artistica? Per rispondere ricorre a Vissarion Belinskij: «Non preoccuparti dell’incarnazione delle idee. Se sei un poeta, la tua opera le conterrà … se segui liberamente la tua ispirazione, sarà sia morale sia nazionale»6.
Si tratta di un consiglio banale, come la stessa Gordimer si sarà resa conto. E allora perché citarlo? Mi pare che la chiave possa trovarsi nell’autorità di chi parla: l’autore, Belinskij fu «il grande mentore degli scrittori rivoluzionari russi dell’Ottocento»7.
Gordimer ha ragione, o quasi. Il critico e redattore Belinskij, per la sua luminosa intelligenza, integrità di principî e per una certa audacia espressiva, lasciò il segno su due generazioni di scrittori russi: la generazione di Herzen (nato nel 1812) e di Turgenev (nato nel 1818) e quella di Černyčevskij (nato nel 1828) e di Dobroljubov (nato nel 1836).
L’influenza di Belinskij su Turgenev fu particolarmente profonda. Turgenev lo conobbe nel 1843, quando aveva venticinque anni e Belinskij trentadue. Belinskij fu per lui un amico importantissimo – secondo alcuni una figura paterna. Il termine mentore usato da Gordimer non è inesatto. Sotto la sua influenza, Turgenev lanciò, in opere giovanili come Il possidente e Memorie di un cacciatore, un feroce attacco alla classe dei proprietari terrieri, cui faceva riscontro una visione partecipe e alquanto sentimentale dei contadini. Padri e figli fu dedicato alla memoria di Belinskij. Nelle Reminiscenze letterarie, pubblicate nel 1868, venti anni dopo la morte di Belinskij, Turgenev si mostra ancora cosí preoccupato di equilibrare il rapporto di potere con Belinskij da cercare di schierarlo dalla propria parte, facendone cioè un liberale moderato filo-occidentale, mentre all’inizio della carriera era stato lui schierato come radicale dalla parte di Belinskij8.
E tuttavia, in fin dei conti, la caratterizzazione di Belinskij fatta da Gordimer crea una falsa impressione. Herzen e Turgenev non sono scrittori rivoluzionari; mentre Černyčevskij e Dobroljubov, pur avendo espresso punti di vista rivoluzionari o quanto meno radicali, restano scrittori mediocri. Per dirla in altri termini: fa piú onore a Belinskij che il suo credo estetico-politico di responsabilità sociale e di realismo sociale sia stato seguito da Turgenev, piuttosto che da Černyčevskij. La figura storica di Turgenev è superiore a quella di Černyčevskij, e anche di Belinskij. La scelta di Gordimer, nel 1984, di proporre il nome di Belinskij piuttosto che quello di Turgenev, mi pare possa spiegarsi col fatto che mentre Belinskij è credibile come protorivoluzionario, Turgenev non lo è affatto9. Gordimer aveva bisogno di questo passaggio da Turgenev – e quel che Turgenev rappresentava – a Belinskij, e a quel che lui rappresentava, come aggiustamento necessario prima di tornare alla letteratura russa dell’Ottocento e sostenerne la rilevanza per il Sudafrica negli ultimi anni dell’apartheid10.
Uno dei paradossi dei quattro interventi critici di Gordimer di cui ho parlato, apparsi negli anni in cui gli scrittori africani cominciavano a volgere le spalle ai modelli occidentali, è il continuo riferimento all’Europa per modelli e indicazioni: in particolare a quegli influenti critici di sinistra che l’avevano aiutata a orientarsi quando ancora stava cercando la sua strada di intellettuale-scrittrice; e alla Russia dell’Ottocento, in cui gli scrittori – non sempre di loro spontanea volontà – si trovarono all’avanguardia del mutamento sociale, subendo la censura, la prigione e l’esilio per quel che scrivevano (qui dovremmo ricordare che, nel 1852, persino il patrizio Turgenev, in conseguenza del necrologio scritto per Gogol´, fu arrestato e condannato agli arresti domiciliari nella sua tenuta).
Scrivere è un’attività solitaria, scrivere in opposizione alla comunità in cui si è nati lo è ancora di piú. È comprensibile che Gordimer, in quanto scrittrice di opposizione in Sudafrica, sia andata a cercare e si sia appropriata di precedenti e antecedenti storici dovunque li trovasse.
Quanto alle motivazioni per cui Gordimer abbia scelto da un lato di dare ascolto, accettare e persino approvare il rifiuto dell’Europa da parte degli scrittori neri (tesi), mentre dall’altro affermava la propria fedeltà a un’autorevole tradizione europea politico-letteraria (antitesi), continuando tuttavia a sostenere una totale comunanza di intenti con i colleghi neri (sintesi), si può solo dire che queste sono complesse. Viene da credere che abbiano molto a che vedere con le due componenti di pubblico immaginario cui Gordimer si rivolgeva, almeno all’epoca: l’intellighenzia radicale, prevalentemente nera, in Sudafrica; l’intellighenzia liberale, prevalentemente bianca, fuori dal Sudafrica; ciascuna delle quali ascoltava (cosa di cui lei era ben consapevole) con un orecchio quello che lei diceva loro, e con l’altro ciò che diceva agli altri.
Come Gordimer riesca a gestire il suo pubblico diviso è di per sé un tema interessante, ma non è di questo che intendo occuparmi. Vorrei invece tornare a Turgenev, al vero Turgenev e a quello di Gordimer, alla Russia di Turgenev e al Sudafrica di Gordimer. Cosa significa porre in relazione la Russia di Turgenev col Sudafrica di Gordimer? Ci aiuta a capire qualcosa dei duri anni dell’apartheid accostare l’incapacità degli ultimi zar, da Alessandro II a Nicola II, di abolire gradualmente il sistema feudale e occidentalizzare il paese, e allo stesso tempo tenere a bada la rivoluzione, ai vani sforzi delle amministrazioni Vorster e Botha di de-etnicizzare la politica, modernizzare l’economia e portare il ceto medio nero nell’elettorato tenendo allo stesso tempo a bada la rivoluzione? È utile far corrispondere il 1905 o il 1917 (a seconda della propria visione del futuro) all’accordo del 1990 in Sudafrica? Nel riflettere su queste domande si dovrebbe tenere presente che ciò che si conosce della Russia dell’Ottocento fuori della Russia deriva per lo piú dai romanzieri russi, e soprattutto da Turgenev, proprio come gran parte di ciò che si conosce del moderno Sudafrica fuori del Sudafrica viene dagli scrittori sudafricani, e soprattutto da Gordimer.
II.
Ivan Turgenev è noto ai lettori di tutto il mondo, inclusa Gordimer, come risulta dai suoi saggi, soprattutto in quanto autore di Padri e figli (1862). Questo romanzo, controverso fin dal suo apparire, fece capire al pubblico che poteva dirsi finita una fase della storia russa e che, benché ancora mal compresa, stava per cominciare una nuova era. Padri e figli fu argomento di discussione in tutta la Russia, non solo fra gli intellettuali ma fra tutta la popolazione alfabetizzata. L’autore fu fatto oggetto di minacce anonime, fu complimentato (a volte da persone che disprezzava), e anche attaccato11. Scrive Isaiah Berlin: «Nessuno, in tutta la storia della letteratura russa, e forse della letteratura in generale, è stato cosí aspramente e continuamente attaccato, dalla destra come dalla sinistra»12.
Turgenev fu colto di sorpresa dalla virulenza di queste reazioni. Tuttavia, va detto a suo merito, non esagerò nel ruolo di vittima innocente. Fin da quando aveva cominciato a scrivere il libro si era reso conto di muoversi su un terreno pericoloso, e aveva attentamente calcolato i rischi che correva. Chiese a diversi colleghi di leggere il manoscritto che, sulla base di consigli a volte contrastanti, sottopose a ripetute modifiche13.
Quello che Turgenev non poteva prevedere era che il dibattito intorno al diritto all’insurrezione, messo in scena dai suoi personaggi Bazarov e Pavel Petrovič Kirsanov nel 1859, anno fittizio in cui è collocato il romanzo, avrebbe assunto un diverso colore, una volta letto e attualizzato dopo il maggio 1862, quando a San Pietroburgo si erano verificate varie manifestazioni e incendi dolosi che aprirono la strada a un’ondata di violenza e di terrorismo14. A questo punto, la questione se Turgenev fosse a favore o contro Bazarov si tradusse inevitabilmente in quella della sua posizione nei confronti della rivoluzione, o a un livello leggermente piú sofisticato, nella questione di che cosa rappresentasse Bazarov.
In altri termini, appena pubblicato, Padri e figli fu superato dalla storia. Contro i suoi desideri, Turgenev si trovò a essere, sulla scena politica contemporanea, divulgatore di un preciso, per quanto criptico, messaggio politico. Le proteste dell’autore (in lettere private e, successivamente, nelle memorie) che il messaggio, se messaggio c’era, poteva essere compreso solo nei termini delle convenzioni e dei metodi della critica letteraria, furono comprensibilmente tenute in poco conto. Ne seguí una situazione di stallo in cui Turgenev insisteva sul fatto che Bazarov era parte di un contesto fittizio a cui non poteva essere sottratto, mentre intorno a lui si insisteva che Bazarov era la materializzazione di una figura politica, «il Nichilista».
A complicare la questione, Turgenev non fu sempre coerente sulle sue intenzioni. Affermò di condividere le idee di Bazarov in tutto tranne che a proposito dell’arte, dunque di approvarne le idee politiche15. Sostenne anche che il personaggio aveva una genealogia rivoluzionaria o quanto meno insurrezionale: «[Con Bazarov] volevo creare una sorta di controparte di Pugacev»16. Altrove affermò invece che Bazarov era semplicemente cresciuto per conto proprio, secondo un processo che solo gli artisti avrebbero capito, un processo in cui la volontà dell’autore viene subordinata ai dettami dell’opera17.
A un livello superiore di sintesi, queste due affermazioni potrebbero non essere incompatibili. Tuttavia, Turgenev non si trovò mai a sostenere una posizione che potesse includerle entrambe. Il commento di Herzen cade a proposito.
Nel suo romanzo Turgenev fu un artista superiore a quanto comunemente si ritiene, e proprio per questo smarrí la strada, e fu secondo me un bene. Voleva entrare in una stanza ma finí per trovarsi in un’altra migliore della prima18.
La leggenda dell’artista Turgenev, fedele solo alla voce interiore della sua coscienza artistica e in tal senso al di sopra della politica, si diffuse in larga misura a causa della forte resistenza che Turgenev oppose prima nei confronti della sinistra che lo spingeva a scrivere un romanzo con un eroe positivo, rivoluzionario, risolto (a differenza di Rudin nel romanzo eponimo), e russo (a differenza di Insarov in Alla vigilia), e successivamente della destra che lo istigava a tradire il suo romanzo interpretandolo pubblicamente come un attacco ai giovani radicali.
Fino a che punto si può sostenere che Turgenev fosse al di sopra della politica? E piú specificamente, come si esprime, in Padri e figli, la politica di essere al di sopra della politica?
Da giovane, Turgenev aveva studiato filosofia in Germania. La sua mente non era particolarmente portata all’astrazione, ma nella misura in cui aveva articolato una propria filosofia dell’arte, questa era derivata dall’idealismo tedesco. Le sue dichiarazioni sull’arte e la letteratura tendevano a essere espresse in termini idealistici: l’arte è disinteressata; il grande artista è un visionario o un profeta, lontano dalla quotidianità.
Se come romanziere Turgenev metta in pratica le proprie teorie è un altro discorso. Analogamente, le varie rappresentazioni di sé come artista cui era stato attribuito un ruolo politico, indipendentemente dalla sua volontà, vanno lette con una certa cautela. Dopo tutto, le opere per cui viene ricordato sono radicate nelle grandi problematiche politiche e sociali della sua epoca; per di piú, al di là delle sue non sempre coerenti proteste, il pubblico non le leggeva come opere d’arte indipendenti bensí, per dirla con Richard Freeborn, come «frammenti di riflessione e di commento personale sullo sviluppo della società russa e sulle posizioni ideologiche dell’intellighenzia nel corso degli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta»19.
Sotto questo aspetto Padri e figli è veramente il libro chiave. È difficile, e forse impossibile, comprendere lo sviluppo del mito di Turgenev come eroe della scrittura senza tener conto degli stadi successivi di Bazarov: Bazarov come personaggio di romanzo, Bazarov come costruzione dell’immaginario popolare, e Bazarov riformulato in quello che definirò il paratesto di Bazarov.
Bazarov è solo uno degli eroi di Turgenev, uomini genuinamente dotati di energie e sensibilità non spendibili nella Russia del tempo, in particolare la Russia rurale (cui fa riscontro una serie di eroine, ragazze dotate di passione e intelligenza, ma incapaci di diventare adulte senza essere ridotte alla misura delle bambole). Il destino di tali eroi, che si guardano intorno alla ricerca di azioni commensurate al proprio potenziale, è tragico e comico allo stesso tempo – donchisciottesco, nella definizione di Turgenev.
Nella conclusione spesso futile o assurda delle loro vite è implicita la denuncia da parte di Turgenev della stagnazione e della repressività della vita russa; un tipo di critica che risale a Čaadaev.
Bazarov è il piú motivato e perciò il piú commovente di questa tipologia di eroi. Turgenev lo guarda con un misto di divertimento alla Cervantes e di pietà e terrore aristotelico. Prima lo fa innamorare perché impari che le passioni non si controllano con il calcolo utilitaristico del piacere e del dispiacere; poi lo fa morire, colmo del piú amaro risentimento, battendosi fino alla fine, perché impari cosa significa essere ridotti al livello animale, essere semplicemente parte della natura, la stessa lezione che, ironia della sorte, Bazarov aveva cercato di impartire ai due incolti Kirsanov all’inizio del romanzo20.
L’esperienza dell’amore e della morte insegnerà a Bazarov il senso della vita: la sua umanità ridotta, moderna, aggiornata, radical-utilitaristica viene ridimensionata da una forza piú grande, piú antica, piú netta e piú classica. Egli comprende che il grido «Mi ribello!», rivolto all’inizio contro le opprimenti strutture politiche e filosofiche, non è che un esempio della vana ribellione degli esseri umani alla propria mortalità.
Nel destino di Bazarov c’è una doppia tragedia: una universale, nel dolore che suscita la morte prematura di un individuo cosí dotato e appassionato; l’altra specificamente russa, per la catena di causalità, una catena i cui anelli sono l’arretratezza, la stagnazione sociale e la repressione politica, che fa sí che un dottore di campagna si tagli con un bisturi infetto. Questo doppio livello di tragedia – da un lato universale e apolitico, dall’altro di denuncia sociopolitica – rende il «messaggio» di Padri e figli difficile da riassumere, e contribuisce al mito di Turgenev, artista olimpico e imparziale.
E tuttavia il romanzo di Turgenev non si può ridurre al solo straordinario personaggio di Bazarov. Una lettura che cominci e finisca con Bazarov non farebbe altro che duplicare l’inadeguatezza delle letture del 1862. Bazarov fa parte di un’azione e di una struttura di relazioni in evoluzione. L’azione ha inizio con due giovani, due figli, che con una certa presunzione ridicolizzano l’arretratezza della generazione dei padri, e promettono (o minacciano) di capovolgerne il mondo; termina con la morte di uno di loro, figlio di un dottore di campagna, che muore nelle sue funzioni di dottore di campagna, mentre l’altro sta per subentrare al padre nella proprietà di famiglia. Cosí, in Padri e figli, il destino entra in scena non solo con la mortalità o l’inerzia della vita rurale, ma anche con la tradizione familiare, con la lenta ma inarrestabile metamorfosi dei figli nei padri.
Questa versione generazionale del destino – con la sua metafora centrale, l’evoluzione del figlio ribelle in padre compiacente – è profondamente antiutopica; è, come nota Kathryn Feuer, l’aspetto del pensiero di Turgenev cui Černyčevskij risponde con grande urgenza quando in Che fare? cerca di convincere i lettori che i legami biologici, economici e dinastici tra le generazioni (per non parlare dei legami affettivi) possono essere sostituiti con una varietà di relazioni affettive tra coetanei. Il successo di Che fare? nel reclutare i giovani alla causa rivoluzionaria deriva sicuramente dalla sua affermazione implicita che agli esseri umani basta il cameratismo, che i legami tra le generazioni – tra padri e figli, madri e figlie – possono facilmente essere spezzati21.
III.
È inconcepibile che il romanzo di Turgenev da me appena descritto, prestando attenzione a quanto realmente dice sui padri e sui figli, potesse essere proposto come modello ai giovani intellettuali neri sudafricani dopo il 1976, anno dell’inizio della rivolta nelle scuole di Soweto.
Perché dunque Gordimer deve aver considerato Turgenev rilevante per l’esperienza sudafricana e istruttivo per lo scrittore sudafricano? Per rispondere a questa domanda è necessario collocare Turgenev e le letture che ne sono state fatte, incluso quella di Gordimer, in un contesto storico piú ampio.
Il fallimento delle rivoluzioni del 1848 in gran parte d’Europa, e la dura repressione che seguí, comportò in Russia l’eclissi dell’ottimismo nei confronti della graduale evoluzione verso la democrazia liberale di stile occidentale. La generazione di intellettuali che giunse a maturità negli anni Sessanta aveva origini sociali piú umili dei liberali aristocratici degli anni Quaranta, era piú radicale in politica, mal digeriva il gergo dei diritti individuali e aveva un atteggiamento utilitarista verso le arti. Bazarov è il tipico rappresentante di questa generazione; nell’universo del romanzo è il fiore piú bello.
Tra i liberali russi di vecchio stampo, scrive Isaiah Berlin, dopo il 1948, cominciò a diffondersi un comprensibile senso di disagio.
Reso piú doloroso da periodi di orrore e repressione, [questo] divenne cronico – una lunga incessante malaise … Il [loro] dilemma divenne insolubile. Desideravano distruggere il regime che identificavano con il male. Credevano nella ragione, nel secolarismo, nei diritti dell’individuo, nella libertà di parola, di associazione, di opinione, nella libertà di gruppi, razze e nazioni, in una maggiore eguaglianza sociale ed economica, soprattutto nell’esercizio della giustizia. Ammiravano la dedizione altruistica, la purezza di intenti, il sacrificio di coloro che, per quanto estremisti, per il rovesciamento violento dello status quo erano pronti ad offrire la vita. Tuttavia, temevano che le perdite dovute ai metodi terroristici o giacobini potessero essere irreparabili, e maggiori degli eventuali guadagni; erano orripilati dal fanatismo e dalla barbarie dell’estrema sinistra, dal suo disprezzo per l’unica cultura che conoscevano e dalla sua fede cieca in quelle che apparivano fantasie utopiche, anarchiche, populiste o marxiste che fossero … Presi tra due eserciti, denunciati da ambedue, ripetevano le loro blande e razionali parole senza grande speranza di venire ascoltati da nessuno dei due … Molti soffrivano di strani sensi di colpa: simpatizzavano piú profondamente con gli obiettivi della sinistra ma, disprezzati dai radicali, tendevano a mettere in questione … la validità stessa delle proprie posizioni … Nonostante tutti questi limiti, la sinistra ancora appariva loro dotata di una fede piú umana rispetto alla destra congelata, burocratica e senza cuore, fosse solo perché era sempre meglio schierarsi con i perseguitati che con i persecutori22.
Se le difficoltà dei liberali russi, cosí come le presenta Berlin, sembrano echeggiare quelle dei liberali bianchi sudafricani degli anni Sessanta e Settanta, ciò è solo in parte dovuto al fatto che il Sudafrica dell’epoca stranamente ricalca la Russia di Nicola I. L’effetto eco è anche dovuto al fatto che Isaiah Berlin, in quanto intellettuale liberale tendente a sinistra, stritolato dalla guerra fredda tra rivoluzione e repressione, con le sue parole sta in effetti iscrivendosi nell’Ottocento russo per rivendicare una genealogia storica da cui trarre forza. In questo senso Berlin indica ai liberali sudafricani, analogamente isolati, intrappolati di fronte a parodie o perversioni dogmatiche di una manifestazione periferica della guerra fredda, la possibilità di vedersi, come in una prospettiva volta all’indietro, alla stregua dei pronipoti dei liberali russi, ossia di coloro che oggi, negli anni Novanta, sembrano essere stati vendicati dalla storia; la classe che avrebbe potuto salvare la Russia e portarla nel mondo moderno, se solo fosse stata piú numerosa.
In particolare, Berlin, nel descrivere i sentimenti, cosí complessi e ambivalenti, dei liberali russi nei confronti dei radicali russi, coglie in pieno l’atteggiamento di Nadine Gordimer verso i radicali di sinistra sudafricani, almeno prima del 1975 o 1976: mettendosi istintivamente dalla loro parte, seppure con qualche riserva sulla forza purificatrice della violenza, simpatizzando con la loro passione e dedizione, senza tuttavia condividere la loro indifferenza verso ciò che vedevano come il museo del passato, e, allo stesso tempo, esprimendo dubbi sul proprio diritto ad avere riserve, o persino ad avere una posizione.
Una complessa serie di sovrapposizioni, dunque; non facilitata dal fatto che, sia per Berlin sia per Gordimer, il testo chiave del liberalismo russo dell’Ottocento è Padri e figli, un testo che, a differenza di quando fu pubblicato per la prima volta nel 1862, ci giunge ora corredato da un paratesto autoriale che per certi versi è maggiormente presente nelle pagine di Gordimer su Turgenev di quanto non sia nel romanzo stesso. Per paratesto intendo le diverse lettere, memorie e prefazioni in cui Turgenev si difende dalle accuse della sinistra che leggevano il romanzo come un attacco ai radicali, producendo cosí una lettura autoriale dell’opera che lo salva da tali accuse sottraendolo a ogni responsabilità e presentandolo come servitore e voce di quella che lui chiama verità.
IV.
Se Gordimer ha elaborato una teoria del romanzo (e si può essere ottimi romanzieri senza necessariamente elaborarne una), questa è ricavata, da un lato, da alcuni critici marxisti che negli anni Cinquanta andavano per la maggiore (Lukács, Ernst Fischer, Sartre, col contrappeso di Camus) e, dall’altro, dalle dottrine dell’ala estetizzante, antinaturalista del realismo europeo e del primo modernismo: Flaubert, Henry James, Conrad.
Poiché la scrittura di Gordimer solo raramente è la messa in atto di un programma teorico, la difficoltà di conciliare queste due scuole di pensiero diventa irrilevante. Quel che la scrittrice ricava dai suoi maestri è una teoria dell’artista piuttosto che una teoria del romanzo: una teoria della vocazione dell’artista, dei suoi doni particolari e delle particolari responsabilità che questi comportano. Per questa teoria dell’artista, il paratesto di Padri e figli è un documento chiave.
Per tutta la sua carriera Gordimer ha tenuto fede all’idea che l’artista ha una particolare vocazione, un talento che sarebbe peccato nascondere e che la sua arte dice una verità che trascende la verità della storia. Sebbene questa posizione sia diventata sempre piú obsoleta, bisogna dare atto a Gordimer di avere continuato a credervi strenuamente. Allo stesso tempo, tuttavia, si è preoccupata di dare alla propria opera una giustificazione sociale, in modo da potere sostenere la sua pretesa a un posto nella storia, una storia che lei stessa è riuscita a costruire con i suoi romanzi iscrivendo nella coscienza dell’Occidente la lotta dell’Africa contro l’Europa23.
Per avvalorare la propria percezione della sua stessa scrittura come forma di azione politica, Gordimer si è appellata a volte a un marxismo romantico, secondo cui l’arte falsa o borghese, l’arte della coscienza non integrata priva di una visione del futuro, viene opposta dalla vera arte – e cioè all’arte del vero artista: quell’arte che emerge dalla dialettica tra l’artista e il popolo (o quella che Gordimer successivamente definirà la dialettica tra rilevanza e impegno); un’arte il cui fine è trasformare la società e ricostruire ciò che è andato in pezzi24.
In certi periodi della storia, dunque, – come ad esempio in Sudafrica nella fase rivoluzionaria – può accadere che sia il popolo a dettare all’artista la materia senza che egli per questo debba sentire una «perdita della libertà artistica». In tempi come questi tra l’artista e il popolo dovrebbe esserci una «dinamica della coscienza collettiva» a cui l’artista dovrebbe essere capace di rispondere25.
Non è necessario seguire ulteriormente le involuzioni di Gordimer in un discorso filosofico comunque non ben controllato, e di cui essa stessa non si fida, mentre tenta di riconciliare la sua fedeltà a una vocazione trascendentale con la lealtà al popolo e alla sua storia. Ho voluto dimostrare come Gordimer, nel coinvolgersi con la propria epoca, si sia appropriata di Padri e figli e dei vari testi connessi, per poi abbandonarli.
Secondo la lettura che ne ho dato, nel 1975 Gordimer vedeva nelle difficoltà di Turgenev – il progressista liberale che in età matura fu superato dall’avanzata di una rivoluzione cui diede, per quanto in modo riluttante, ambivalente e discontinuo, il suo assenso emotivo esprimendo allo stesso tempo orrore per i suoi metodi, ma che tenne per sé uno spazio sacro nei suoi romanzi in cui non mentiva, e difendeva il diritto all’esistenza di tali spazi sacri – un esempio, mutatis mutandis, di e per se stessa, un esempio da cui lei, nella sua isolata (come lei la considerava) e assediata posizione in Sudafrica, poteva trarre sostegno e finanche onore26.
Dopo il 1976 tale atteggiamento cambiò. Nel nuovo clima, carico di tensioni, Turgenev fu messo da parte (troppo cauto politicamente? in un esilio troppo confortevole?). La questione se i modelli europei fossero ancora proponibili in Africa divenne parte di una questione piú complessa, piú personale, piú urgente: come continuare a sostenere un doppio discorso in cui rivendicare per l’artista il ruolo di visionario shelleyano e allo stesso tempo di voce del popolo, senza trovarsi a dover accettare una gerarchia di arte alta e arte popolare, uno standard per se stessa e gli scrittori eurocentrici a lei affini diverso da quello per gli scrittori neri africani. A giudicare dai saggi raccolti in Scrivere ed essere (1995) la risposta non è stata ancora trovata27.
1 N. GORDIMER, La libertà dello scrittore, in Vivere nell’interregno (trad. di F. Cavagnoli), Feltrinelli, Milano 1990, pp. 105, 106 e 108.
2 Ibid., p. 108.
3 Ibid., p. 110.
4 N. GORDIMER, Importanza sociale e impegno, in Vivere nell’interregno cit., pp. 137 e 140.
5 ID., Vivere nell’interregno, in Vivere nell’interregno cit., p. 172.
6 ID., Il gesto essenziale, in Vivere nell’interregno cit., p. 200.
7 Ibid.
8 «Belinskij era allo stesso tempo un idealista e un critico sociale; egli criticava nel nome di un ideale … Belinskij dedicò tutto se stesso al servizio di questo ideale … ma le sue simpatie e la sua attività erano completamente dalla parte degli occidentalisti … l’accettazione degli effetti dello stile di vita occidentale, la loro applicazione alla nostra vita … era questo il modo in cui riteneva che noi potessimo finalmente conquistare qualcosa di distintamente russo, idea che lui accarezzava molto piú di quanto generalmente si creda». Citato in R. FREEBORN, Turgenev: The Novelist’s Novelist, Grenwood Press, Westport, Conn. 1978, p. 14.
9 Nella Libertà dello scrittore, Gordimer dà la strana impressione di leggere Bazarov come se rispecchiasse Turgenev: «I radicali e i liberali, a cui apparteneva lo stesso Turgenev, lo accusarono di essere un traditore perché Bazarov era stato presentato con tutti i difetti e le contraddizioni che Turgenev vedeva anche nel suo tipo, in se stesso, per cosí dire» (p. 109). I difetti e le contraddizioni del dandy anglofilo Pavel Petrovich Kirsanov appartengono certamente a Turgenev quanto i difetti di Bazarov.
10 In Vivere nell’interregno (1982), Gordimer cita una insipida frase di Černyčevskij (vedi nota a p. 179). Di nuovo si ha l’impressione che per lei appellarsi al nome e alla reputazione di Černyčevskij sia piú importante delle sue reali parole.
11 «[Padri e figli] mi negò per sempre … il giudizio positivo della nuova generazione russa», I. TURGENEV, Literary Reminiscences and Autobiographical Fragments (trad. di D. Magarshak), Faber, London 1959, pp. 168 e 169.
12 I. BERLIN, Fathers and Children: Turgenev and the Liberal Predicaments, in I. TURGENEV, Fathers and Sons (trad. di R. Edmonds), Penguin, Harmondsworth 1975, pp. 19-20.
13 Ibid., p. 37.
14 Cfr. R. FREEBORN, Turgenev cit, p. 134.
15 In una lettera a K. K. Sluchevskij del 1862, scrisse «Ho indirizzato tutta la mia storia contro la nobiltà terriera in quanto classe principale» (I. TURGENEV, Letters, a cura di A. V. Knowles, Athlone Press, London 1983, p. 105). Il commento di Freeborn è: «Stava riconoscendo la superiorità morale della classe dei raznochintsy» (R. FREEBORN, Turgenev cit. p. 100).
16 Ibid., p. 106.
17 «Avevo la coscienza pulita … Avevo creato il mio personaggio in tutta onestà … Rispetto troppo la vocazione dell’artista, dello scrittore, per agire contro la mia coscienza» (I. TURGENEV, Literary Reminiscences cit., p. 169). «Avevo cominciato senza un’idea prestabilita, senza una “direzione”; avevo scritto in maniera ingenua, stupendomi io stesso di ciò che veniva fuori» (Lettera a Saltykov-Shchedrin [1976], citata in I. BERLIN, Fathers and Children cit., p. 26).
18 Citato in ibid., p. 35.
19 R. FREEBORN, Turgenev cit., p. 46.
20 Uno scrittore norvegese, che conobbe Turgenev verso il 1874, racconta di avergli sentito affermare che la prima immagine di Bazarov fu quella di un uomo morente, ibid., p. 69.
21 K. FEUER, «Fathers and Sons»: Fathers and Children in J. GARRARD (a cura di), The Russian Novel from Pushkin to Pasternak, Yale University Press, New Haven 1983, pp. 77-78.
22 I. BERLIN, Fathers and Children cit., pp. 51-52.
23 «Sono … piú che determinata a trovare il mio posto «nella storia» pur continuando, come scrittrice, a trovare punti di riferimento in valori che vanno oltre la storia. Non vi rinuncerò mai» (N. GORDIMER, Vivere nell’interregno cit., p. 183). Gordimer raccoglie la sfida lanciata da Camus: «È possibile … essere nella storia pur continuando a far riferimento a valori che vanno oltre?» (citato ibid., p. 181). Per l’analisi critica di questa posizione si veda D. BARNOUW, Nadine Gordimer: Dark Times, Interior Worlds, and the Obscurities of Difference, in «Contemporary Literature» 35 (1994), pp. 252-80. «La sua opera … può leggersi come caso esemplare della profonda, quasi religiosa fede dello scrittore nel potenziale di redenzione proprio dell’alta letteratura», (p. 278).
24 È «nella natura» dell’artista «voler trasformare il mondo». In questo senso egli «si muove sempre verso la verità, verso la vera coscienza», N. GORDIMER, Importanza sociale e impegno in Vivere nell’interregno cit., p. 143.
25 ID., Il gesto essenziale, in Vivere nell’interregno cit., pp. 196, 194. La fonte di Gordimer è E. FISCHER, L’arte è necessaria? Editori Riuniti, Roma 1962.
26 Potrebbero esserci state anche ragioni piú personali a motivare il senso di affinità che Gordimer sente con Turgenev. C’è una forte somiglianza tra l’atteggiamento espresso da Turgenev nei confronti della servitú della gleba e quello di Gordimer nei confronti del razzismo. «Nella mia vita, due sono gli elementi incontestabili, – scrisse Gordimer nel 1982, – in primo luogo, il razzismo è il male: è la dannazione umana nel senso veterotestamentario e per combatterlo nessun compromesso e nessun sacrificio dovrebbero essere troppo grandi» (Vivere nell’interregno cit., p. 181). Si confronti con Turgenev: «Non potrei respirare la stessa aria o rimanere vicino a ciò che odio cosí tanto … Questo nemico ha assunto ai miei occhi una forma definitiva e un nome specifico: la servitú della gleba. In questo nome ho concentrato tutto quello che ho deciso di combattere fino alla fine, con cui ho giurato di non venire mai a patti … Questo è stato il mio giuramento di Annibale» (citato in R. FREEBORN, Turgenev cit., p. 6).
27 In Scrivere ed essere (trad. di M. Luisa Cantarelli, Feltrinelli, Milano 1996) Gordimer riconsidera la propria posizione riguardo la categoria di scrittura da lei definita «testimonianza». Mentre negli anni Settanta aveva criticato la testimonianza imputandole di essere priva di una «dimensione creativa che trasforma», di occuparsi unicamente della «realtà superficiale dell’esperienza», di essere spesso niente piú di «autobiografia appena camuffata» (p. 29), nel 1995 dichiara che la sua «posizione … è diversa». Riconosce il valore intrinseco della testimonianza come «tramite della lotta contro l’oblio» e dunque parte della creazione della storia (p. 30). Poche pagine piú avanti, tuttavia, ritorna sull’opposizione tra testimonianza e letteratura di immaginazione. E mostra come, in Omero, la poesia continua a «trasmettere quell’esperienza» anche molto tempo dopo che la storia su cui si basa è stata dimenticata. Cosí in Omero «l’esperienza greca, decisiva per il genere umano, si perpetua in mezzo a noi» (p. 48). Di nuovo riappare la questione del doppio standard.
L’autobiografia di Doris Lessing
I.
Se ci facessero vedere delle istantanee della famiglia Tayler nella loro fattoria in Rhodesia, chiedendoci di individuare nel gruppo l’artista o il futuro artista forse sceglieremmo il padre, dal rigido aspetto militare ma dallo sguardo intelligente. Certamente non la figlia, piuttosto carina ma ordinaria come un pezzo di pane. Eppure, la figlia è riuscita non solo a sottrarsi al futuro che le si prospettava – il matrimonio con un bravo ragazzo e una vita circondata da cameriere e bambini – ma a diventare una delle piú importanti romanziere del suo tempo.
Alfred Cook Tayler, il padre di Doris dallo sguardo malinconico, dopo aver perso una gamba nelle trincee della prima guerra mondiale, sposò l’infermiera che lo assisteva e lasciò il paese nativo di cui non sopportava piú le ipocrisie. Sua moglie, che aveva sui trentacinque anni, abbandonò la carriera per la famiglia. La prima figlia, Doris – piú tardi Doris Wisdom e poi Doris Lessing – nacque in Persia nel 1919.
Adottando le idee allora in voga sull’educazione dei bambini, Emily Maude Tayler impose ai figli un rigido programma di orari per mangiare e andare di corpo, riproducendo il modo in cui lei stessa era stata allevata da una matrigna che non l’amava. Doris reagí con rabbia a una madre che per principio rifiutava di darle da mangiare quando piangeva, che non faceva mistero di preferire il figlio alla figlia, e che chiacchierava apertamente con gli ospiti «della bambina, cosí difficile, cosí cattiva!, che le rendeva la vita assolutamente infelice»1. Nessun bambino avrebbe sopportato un «simile attacco alla [propria] esistenza» (p. 44). «Per anni sono vissuta accompagnata da un atteggiamento di perenne accusa nei confronti di mia madre, un’accusa all’inizio infuocata, poi dura e fredda» (p. 27).
Poiché la madre non l’amava, concentrò tutte le sue attenzioni sul padre. «L’odore di mascolinità, di tabacco, di sudore … la avvolgevano facendola sentire al sicuro» (p. 42). Ma c’era un punto oscuro in questo amore. Il moncherino della gamba amputata, una cosa oscena con una vita propria che sentiva sporgere dalla vestaglia. C’era poi il gioco del solletico, «il momento in cui papà cattura la figlioletta e le spinge la faccia giú, in grembo o in mezzo alle gambe, in mezzo a quell’odore di non lavato … Le sue grandi mani si mettono all’opera sulle mie costole. Le mie urla, impotenti, isteriche, disperate» (p. 45). Per anni ebbe degli incubi in cui lottava mentre volti brutali di uomini apparivano davanti a lei. «Mi chiedo quante donne che subiscono sofferenze fisiche da parte dei loro uomini le abbiano imparate dai “giochi”, dal “solletico”» (p. 46).
Dopo la Persia i Tayler, attirati dal miraggio dei facili guadagni derivanti dalle coltivazioni di granturco, si trasferirono in Rhodesia – una colonia fondata ufficialmente solo trentacinque anni prima. Ma la loro fattoria di mille acri («A loro non sarebbe mai venuto in mente che la terra potesse appartenere ai neri», p. 67) non era abbastanza grande da essere economicamente produttiva. La madre si adattò piuttosto bene, ma al padre mancava l’ostinazione necessaria all’agricoltura; erano sempre pieni di debiti.
Per i due bambini, tuttavia, crescere in una fattoria fu una meravigliosa esperienza formativa. I genitori insegnavano loro la geologia e la storia naturale e, con le storie che gli raccontavano prima di addormentarsi, nutrivano la loro fantasia. I libri venivano ordinati a Londra e divorati. (Negli anni Venti erano abbastanza a buon mercato da consentire a una famiglia coloniale in ristrettezze di comprarne in grande quantità; nello Zimbabwe di oggi, nessun bambino, e certamente nessun bambino delle campagne, potrebbe permettersi una tale ricchezza di letture). All’età di dodici anni Doris sapeva
mettere una gallina sulla cova, accudire polli e conigli, sverminare cani e gatti, cercare l’oro col setaccio, prelevare campioni dai filoni auriferi, cucinare, cucire, usare il colino per il latte e fare il burro, scendere in un pozzo di miniera nel secchio, fare il formaggio fresco e la birra di zenzero, dipingere le stoffe con lo stampino, fare la cartapesta, camminare sui trampoli … guidare la macchina, sparare ai piccioni e alle faraone per metterli in pentola, conservare le uova e molto altro ancora. ... È questa la vera felicità, la felicità di un bambino: essere messo in condizione di fare e di creare, ma soprattutto sapere che stai dando un contributo alla famiglia, sapere che vali e che sei apprezzato (p. 127).
Piú tardi Lessing avrebbe denunciato la società coloniale per la sua «freddezza e avarizia del cuore» verso i neri; l’accusa sarebbe stata sviluppata nell’Erba canta (1950), un debutto straordinariamente felice, anche se forse troppo legato agli stereotipi romantici degli africani per i gusti di oggi, e successivamente in Racconti africani (1964). La Rhodesia tuttavia non era un ambiente sociale del tutto negativo per un bambino. Al di là del potere rigenerante del mondo naturale (a proposito del quale Lessing è un’irriducibile wordsworthiana) regnava tra i bambini dei coloni un forte spirito egualitario che le permise di sfuggire alle ossessioni classiste dei suoi genitori. E tra i diecimila bianchi di Salisbury, la capitale, col tempo, avrebbe scoperto un discreto numero di rifugiati europei, per lo piú simpatizzanti di sinistra, molti dei quali ebrei, che avrebbero esercitato su di lei una decisiva influenza intellettuale e politica.
Nel frattempo, ai confusi segnali che le mandavano i suoi genitori, Doris reagiva con il comportamento tipico del bambino non amato che chiede amore. Rubava, mentiva, faceva a pezzetti i vestiti di sua madre, appiccava incendi; si inventava che i Tayler non fossero i suoi veri genitori.
A sette anni, «una ragazzina spaventata e infelice», fu spedita in un collegio di suore dove queste – a loro volta figlie indesiderate di contadini tedeschi – spaventavano le bambine con storie dell’inferno. Lí trascorse quattro anni infelici. Dopo un altro periodo in una scuola secondaria femminile di Salisbury, in cui sua madre le scriveva lettere settimanali che le rinfacciavano il costo della sua educazione, Doris rinunciò definitivamente all’istruzione formale. Aveva tredici anni.
E tuttavia non era mai stata una cattiva studentessa. Al contrario, anche solo per fare piacere alla madre, faceva in modo di essere sempre la prima della classe. Era amica di tutte le ragazze, e si identificava con una immagine fittizia di sé che chiamava «Tigger» (dal personaggio di A. A. Milne),
grassa e vigorosa … diretta, burlona, impacciata, e sempre pronta a stare al gioco, il che vuol dire saper ridere di sé, saper chiedere scusa, fare la buffona, confessare la propria incapacità (pp. 111-12).
Piú tardi, quando iniziò a frequentare circoli comunisti, venne ribattezzata «compagna Tigger». Nel 1949, una volta lasciata la Rhodesia, abbandonò il soprannome, ma non quell’aspetto della sua personalità che si trasformò in quella che Lessing definisce l’identità della «padrona di casa», «vivace, premurosa, attenta, ricettiva», e che le ricordava in maniera preoccupante sua madre.
Forse questo aiuta a capire il titolo del primo volume dell’autobiografia: Sotto la pelle. Di per sé il titolo allude in maniera convenzionale all’autosvelamento. Ma l’epigrafe rimanda al verso di una canzone di Cole Porter: «I’ve got you under my skin | I’ve got you deep in the heart of me | So deep in my heart you’re really part of me». Il destinatario nascosto del libro, il «tu» in fondo al cuore di Lessing, sotto la sua pelle, è molto plausibilmente la madre, morta nel 1957.
Contraria a ogni manifestazione emotiva, la madre aveva trovato un modo per esprimere tenerezza verso i figli convincendoli di essere ammalati e poi accudendoli per farli guarire. Quando era a casa, Doris stava al gioco, sfruttando la scusa della malattia per passare le giornate a letto a leggere. Ma non riusciva a trovare la riservatezza che desiderava. Quando ebbe le prime mestruazioni, la madre strombazzò la notizia ai maschi della famiglia. Quando cercava di mettersi a dieta, la madre le riempiva il piatto. Passò il suo quattordicesimo anno a lottare contro la madre che, come quando era bambina, aveva cercato di stabilire quando doveva andare di corpo, ora sembrava voler affermare la proprietà di quel corpo.
Per sfuggire, Doris accettò un posto di bambinaia. Sotto la guida del suo datore di lavoro, cominciò a leggere libri di politica e di sociologia, mentre di notte il cognato del padrone le si infilava nel letto facendo goffe avance. Naturalmente lei non vuole farsi passare per vittima passiva. Lotta «contro la verginità del mio placido pretendente ... in balia di un ardente desiderio erotico». Scrive: «Sono fermamente convinta che certe ragazze – tra cui chiaramente include se stessa – dovrebbero essere mandate a letto, a quattordici anni», con un uomo molto piú grande d’età per il loro «apprendistato amoroso» (p. 221).
II.
Tra le precoci letture prescolari di Lessing c’erano stati Scott, Stevenson, Kipling, i racconti tratti da Shakespeare di Charles Lamb, Dickens. (I bambini della sua generazione, osserva provocatoriamente, non venivano «trattati con condiscendenza», ma al contrario incoraggiati a provare cose che erano al di là delle loro possibilità). Poi cominciò a leggere la narrativa contemporanea, in particolare D. H. Lawrence e i grandi scrittori russi. A diciotto anni aveva già scritto due romanzi di apprendistato. Inoltre, vendeva racconti a riviste sudafricane. Quasi inconsapevolmente era diventata una scrittrice.
Nessuna delle tre piú note scrittrici provenienti dall’Africa meridionale – Olive Schreiner, Nadine Gordimer e Doris Lessing (che, per quanto riluttante ad accettare l’etichetta di «scrittrice africana», non ha difficoltà a riconoscere che la sua sensibilità sia stata formata in e dall’Africa) – ha terminato le scuole superiori. Sono sostanzialmente autodidatte, eppure tutte straordinarie intellettuali. Ciò rivela quanto queste adolescenti isolate, ai margini dell’impero, desiderassero una vita da cui si sentivano escluse, la vita intellettuale – molto piú fortemente, a quanto pare, della maggior parte dei loro cugini metropolitani. Inoltre dimostra quanto poco venissero esercitate pressioni sulle ragazze affinché completassero l’istruzione scolastica, dal momento che erano destinate alla vita domestica.
Le visite discontinue alla fattoria dei genitori non facevano che confermarle che aveva fatto bene a scappare. Sua madre cominciava a uniformarsi al peggiore stereotipo coloniale, lamentandosi dei servi con «quella voce carica di rimprovero, insistente, tormentosa, piena di disprezzo» (p. 189), mentre suo padre lentamente si consumava a causa del diabete, «questo vecchio che si autocommiserava, sempre permaloso, e immerso nei suoi sogni, che continuava a parlare della sua guerra». Quando alla fine morí, lei avrebbe voluto cancellare dal certificato di morte le parole «arresto cardiaco» come Causa del decesso e scrivere: «prima guerra mondiale».
Placata in quello che le appariva sempre piú come uno stato di riflusso (è il periodo della sua vita evocato in Landlocked [1965]), scrisse e riscrisse L’erba canta. «Aspettavo che cominciasse il mio futuro, la mia vita vera».
III.
All’età di diciannove anni, Lessing sposò un uomo molto piú grande di lei. Fu un matrimonio che non coinvolgeva lei realmente, ma la Tigger che era in lei, la «giovane matrona giuliva», che, pur non sentendosi pronta per la maternità, ebbe un figlio che presto trascurò. Il bambino reagí con rabbia e sconcerto in maniera straordinariamente simile a quella della giovane Doris.
Arrivò un secondo bambino. Lei beveva sempre piú, aveva relazioni extraconiugali, trattava male suo marito (molte di queste esperienze sono descritte in Un matrimonio per bene [1954], il secondo romanzo della serie «Martha Quest» e il piú direttamente autobiografico). La situazione era chiaramente insostenibile. Giurando a se stessa che i figli un giorno avrebbero ereditato «un mondo meraviglioso e perfetto nel quale non ci sarebbero stati odio razziale, ingiustizia e cosí via», li affidò alle cure di parenti e cominciò a fare piani per espatriare. Sentiva di avere dentro di sé lo stesso «destino segreto» che aveva rovinato la vita dei genitori e che, se fosse rimasta con i figli, avrebbe rovinato anche loro. «Ero assolutamente sincera, – scrive seccamente. – E sulla sincerità in quanto tale non c’è molto da dire».
Sull’onda della battaglia di Stalingrado, e della gloria che portò all’esercito russo, Lessing si convertí al comunismo. Nel resoconto del suo periodo comunista si può notare un certo atteggiamento difensivo. In realtà, scrive: «non sono mai stata impegnata con tutta me stessa per il comunismo» e, allo scoppio della guerra fredda, quando lei e i suoi compagni improvvisamente divennero dei paria agli occhi della società bianca rhodesiana, aveva già cominciato a nutrire qualche dubbio. Nel 1954 abbandonò definitivamente il comunismo, anche se per anni continuò a sentire «dei conflitti residui di fedeltà» (p. 459).
Le reclute erano per lo piú persone con un’infanzia infelice alle spalle in cerca di un surrogato di famiglia, che si scrollavano di dosso i figli come noie indesiderate. In quanto neofita entusiasta (e in quanto donna) le fu assegnato il compito di vendere «The Guardian», organo del partito comunista sudafricano, nei quartieri piú depressi di Salisbury. Di tutte le attività cui partecipò nel partito, questa deve essere stata la piú utile per lei come scrittrice: le consentí di conoscere persone della classe operaia e di osservare da vicino qualcosa della loro vita (in Echi della tempesta [1958] si trova un resoconto piú ampio e piú vivace di quello che si ricava da queste pagine).
Le attività dei comunisti di Salisbury, le loro simpatie e antipatie, occupano gran parte dei primi tre volumi della serie «Martha Quest». Lessing giustifica l’ampio spazio che dedica – sia nell’autobiografia sia nei romanzi – a questo gruppetto insignificante sul piano politico riconoscendovi un microcosmo con «le stesse dinamiche di gruppo che hanno fatto e disfatto il Partito comunista dell’Unione Sovietica».
Una delle conseguenze di essere diventata comunista fu l’incontro con Gottfried Lessing, che sposò nel 1943. Gottfried veniva da una ricca famiglia russa di discendenza ebraico-tedesca che a causa della rivoluzione del 1917 era tornata a essere tedesca e poi, per le leggi di Norimberga, nuovamente ebrea. Lessing era per sua moglie, «la personificazione della logica marxista, fredda e tagliente», un uomo «freddo, silenzioso» di cui tutti avevano paura.
Gottfried non compare direttamente nei romanzi della serie «Martha Quest» perché, quando lei li scrisse, era ancora in vita (concluse la sua carriera come ambasciatore dell’Europa Orientale in Uganda, dove morí durante il colpo di stato contro Idi Amin). Lessing fa del suo meglio per spiegare e umanizzare un uomo poco attraente, con cui ebbe una vita sessuale che lei descrive come «triste». Ciò di cui lui aveva veramente bisogno, scrive, era una donna abbastanza carina da «trattare il proprio uomo come un bambino piccolo, anche se solo per poche ore della notte».
Pur disapprovando quel che scriveva, Gottfried la incoraggiò. «Le cose di me che mi piacevano di piú, le cose alle quali ero piú legata, erano quelle che a lui piacevano meno». Lo aveva sposato per salvarlo dall’internamento come nemico straniero; e per rafforzare la sua richiesta di cittadinanza inglese tenne in piedi un matrimonio «infelice ma cortese», fino al 1948, molto piú a lungo di quanto non sarebbe dovuto durare.
IV.
Lessing non ha mai avuto grande cura per la forma – scrive troppo velocemente e taglia troppo poco. I primi tre volumi di «Martha Quest», o almeno lunghe sezioni di questi, sono appesantiti non solo da una lingua prosaica ma da una concezione della forma romanzesca priva di inventiva. Il problema è accentuato dalla passività dell’eroina di Lessing che, insoddisfatta della propria vita, è incapace di prendere, in maniera significativa, il controllo del proprio destino. Ma se questi romanzi non hanno retto bene alla prova del tempo, è anche vero che essi testimoniano una grande ambizione: quella di scrivere un Bildungsroman in cui lo sviluppo di un individuo viene seguito entro un complesso contesto storico e sociale.
Lessing era ben consapevole del suo problema di fondo, e cioè che i modelli ottocenteschi cui si rifaceva erano ormai esauriti. Dopo il terzo volume, interruppe la serie e sperimentò un terreno completamente nuovo con Il taccuino d’oro, un libro audace sul piano formale. Dopo un’interruzione di sette anni, la serie riprende con Landlocked, i cui esperimenti formali riflettono non solo l’insofferenza di Martha per una vita senza futuro, ma anche quella di Lessing nei confronti del proprio mezzo; mentre La città delle quattro porte (1969), che conclude la serie, piuttosto che riallacciarsi ai primi libri preannuncia Appunti per una discesa all’inferno (1971), definito da Lessing «romanzo dello spazio interiore», Memorie di una sopravvissuta (1974) e il ciclo fantascientifico della serie «Canopus in Argos». Quello cui Lessing tendeva, e che in un certo senso trovò, era una concezione piú profonda, piú al passo con i tempi, non solo del personaggio ma dell’individuo e dell’esperienza soggettiva del tempo (incluso il tempo storico). Una volta conseguite tali mete, le impronte del XIX secolo scomparvero da sole.
Fin dalla pubblicazione del Taccuino d’oro nel 1962, Lessing ha sempre avuto un rapporto difficile con il movimento femminista – che guardò a quel libro come un testo fondante – e una relazione di forte ostilità con l’accademia, che lo considerò un precursore del romanzo postmoderno. Ha sempre mantenuto una distanza cautelativa con le sue piú entusiaste discepole femministe e al tempo stesso ha liquidato i critici letterari considerandoli pulci sulla schiena degli scrittori. A sua volta, Lessing è stata attaccata dalle femministe (tra queste Adrienne Rich) per non essere riuscita a concepire una politica femminista autonoma, e dagli accademici per avere cercato di controllare l’interpretazione dei suoi libri piuttosto che concedere loro di muoversi in piena libertà nello spazio testuale.
Nell’autobiografia, Lessing non esita a criticare gli atteggiamenti «politicamente corretti» che vede poco differenti da quella che all’epoca d’oro del Partito era definita «la linea». Cosí – nonostante il gioco del solletico del padre – definisce la preoccupazione per gli abusi sessuali sui bambini, dilagante alla fine del XX secolo, come un «isterico movimento di massa». Condanna le «clausole di divorzio cosí avide o vendicative, tanto spesso fatte valere oggi dalle femministe». Fin dall’adolescenza, scrive, è stata sempre piú interessata alle «straordinarie possibilità» della vagina piuttosto che al «piacere secondario e inferiore» della clitoride. «Se qualcuno mi avesse detto che nel giro di due decenni gli orgasmi vaginale e clitorideo sarebbero diventati nemici sul piano ideologico … avrei pensato che stava scherzando» (p. 313). Quanto alla costruzione sociale del genere, ricorda «la crudeltà» con cui rubò il primo marito a un’altra donna, una «crudeltà femminile … che risale a un tempo molto anteriore alla cristianità o a qualunque altra forma di moralità piú morbida di quella selvaggia. È mio diritto. Ogni volta che ho visto questa creatura emergere dentro di me, o in altre donne, ho provato un senso di terrore» (p. 245).
Sul senso di colpa dell’Occidente per il proprio passato coloniale, commenta: «Non credo che si ripeterà mai abbastanza quale errore sia inveire contro le idee sbagliate del passato prima di essersi quantomeno interrogati su come il nostro attuale modo di pensare apparirà ai posteri» (p. 67). Ricorda che uno scrittore nigeriano trovò uno dei suoi racconti cosí bello da plagiarlo e pubblicarlo a suo nome: con buona pace della linea politicamente corretta secondo cui i bianchi non dovrebbero scrivere dell’esperienza dei neri. Nella sua opera esplora inoltre senza riserve l’esperienza maschile, inclusa quella sessuale.
Lessing confessa una certa ammirazione per coloro che non scrivono memorie, per chi «ha scelto di tenere la bocca chiusa», anche se la sua vita ha avuto una notevole componente pubblica e politica. E allora perché scrivere un’autobiografia? La sua risposta è disarmante: «Per autodifesa». Ci sono almeno cinque biografi all’opera su di lei. «Provi a rivendicare la tua vita scrivendo un’autobiografia».
Ma è lecito sospettare altri motivi. Oltre all’epigrafe da Cole Porter, il libro ne reca un’altra tratta da Idries Shah, i cui scritti sul sufismo, fin dagli anni Sessanta, hanno avuto un grande impatto su Doris Lessing. Shah collega il destino individuale a quello sociale sostenendo che nessuna società potrà essere riformata finché i suoi membri non siano riusciti individualmente a identificare le forze e le istituzioni che determinano e hanno determinato il corso della loro vita. L’autoanalisi e il progresso sociale procedono cosí di pari passo.
Le due epigrafi sono sorprendentemente e coerentemente collegate nel pensiero di Doris Lessing. Nella musica al cui ritmo ballava la sua generazione, il genere di musica alla Cole Porter, afferma, c’era una forte promessa sessuale e di salvezza. Quando questa promessa subliminale dello Zeitgeist non fu soddisfatta, quelli della sua generazione, Lessing inclusa, reagirono come se fossero stati defraudati di un diritto di nascita. «Ho la sensazione di aver fatto parte di una qualche illusione o delusione di massa» (p. 28). L’illusione che ognuno ha diritto alla felicità. (Per contrasto, ritiene che il ritmo profondo della cacofona musica popolare di oggi mandi la gente a torturare, uccidere e mutilare).
Essendo nata negli anni successivi alla prima guerra mondiale, Lessing è convinta di avere vibrato anche lei, attraverso i genitori, al basso ostinato di quell’epoca disastrosa. «Oggi mi chiedo quanti dei bambini allevati in famiglie mutilate dalla guerra abbiano avuto quello stesso tipo di veleno che scorreva loro nelle vene fino da prima che riuscissero a parlare» (p. 21).
L’idea che la nave della storia sia guidata da correnti piú profonde della consapevolezza – un’idea che la sua ipotesi del ritmo profondo esemplifica in maniera piuttosto bizzarra – torna con frequenza nell’autobiografia di Doris Lessing. In realtà, il suo distacco dalla concezione marxista materialista della storia era già stato accennato simbolicamente in Echi della tempesta, nel sogno di Martha di un enorme sauro, fossilizzato ma ancora in vita, che la fissa tristemente da una profonda buca nel terreno, una forza arcaica che non riesce a morire. Uno dei problemi del suo progetto autobiografico – problema di cui è ben consapevole – è che, nel trattamento delle forze inconsce, il romanzo riesce meglio dell’autoanalisi discorsiva. Le sue migliori analisi del radicamento della psiche nella storia sono contenute nel Taccuino d’oro e nel romanzo visionario simbolico-allegorico Memorie di una sopravvissuta (in cui, tra l’altro, prova a proporsi come madre di una figlia piuttosto che figlia di una madre). È dunque come romanziera piuttosto che memorialista che a tre quarti dell’opera pronuncia il suo sintetico verdetto sulla questione: «Non c’è dubbio che la narrativa renda un servizio migliore alla verità».
Le parti migliori del primo volume riguardano la sua prima infanzia. Le prime esperienze procurano alla maggior parte di noi un tale shock da farcene sopprimere la memoria – una forma di amnesia, secondo Lessing, che può rivelarsi un meccanismo protettivo necessario alla specie. I suoi primi intensi ricordi (resi con forza straordinaria) ruotano con disgusto sugli aspetti piú brutti, sui rumori e gli odori sgradevoli del mondo in cui è nata – «mammelle rilasciate e debordanti … ciuffi di peli sotto le braccia» degli adulti in una piscina in Persia, la «puzza fredda, soffocante, metallica … dei pidocchi» su un treno russo.
I primi cinque capitoli sono il risultato di un grande impegno. Per la limpidezza dei ricordi (o della ricostruzione immaginaria – non fa differenza) e la purezza dell’articolazione, sono da collocarsi tra le grandi opere scritte sull’infanzia:
È come se la paglia del tetto bisbigliasse. Tutto a un tratto, mentre comincio a capire, le orecchie mi si riempiono del verso delle rane e dei rospi giú nel vlei. Sta piovendo. Il rumore è quello della paglia secca del tetto che si intride d’acqua, si gonfia, e le rane esultano per la pioggia. Siccome adesso capisco, ogni cosa intorno a me si colloca al posto giusto, la paglia del tetto che assorbe tutta quell’acqua che arriva dal cielo, le rane che si sentono gracidare forte come fossero ai piedi della collina e invece sono a un paio di miglia di distanza, il leggero crepitio della pioggia che cade sulla terra e sulle foglie, e i lampi, ancora lontani. E poi, a conferma dell’ordine della notte, l’improvviso fragore di un tuono. Io me ne sto a letto, contenta, sotto la zanzariera, in ascolto, e lentamente sprofondo in un sonno pieno dei rumori della pioggia (p. 81).
Brani come questo celebrano momenti speciali, spots of time [luoghi di tempo] wordsworthiani, in cui il bambino è intensamente aperto all’esperienza e consapevole che in tale apertura vive un momento altamente privilegiato. Lessing fa notare che se potessimo dare il giusto peso fenomenologico al tempo, la parte piú importante della vita finirebbe verso i dieci anni.
Piú avanti ci sono dei bei brani in cui Lessing rivive con candore il suo giovanile narcisismo. Pedala in bicicletta
con gambe lunghe e lisce, delle quali è tanto consapevole quanto lo sarebbe se un amante gliele stesse accarezzando (p. 305).Mi tirai su il vestito e mi guardai fino all’altezza delle mutandine e mi sentii piena di orgoglio per il mio corpo. Non esiste gioia come quella che si prova nel momento in cui una ragazza sa che quello è il suo corpo, quelle sono le sue belle gambe lisce e armoniose (p. 207).
Ci sono anche lunghe descrizioni della gravidanza, del parto (senza complicazioni) e dell’allattamento, e anche resoconti sulle abitudini dell’allattamento dei suoi bambini e sulle loro feci.
Il primo volume è dominato dalla figura della madre di Doris Lessing, che è anche presente, direttamente o indirettamente, in gran parte di ciò che ha scritto nel corso di una carriera di oltre cinquant’anni. In questo ultimo round Lessing fa del suo meglio per essere giusta con il suo avversario. Per un paio di pagine le cede la narrazione – un esperimento fatto a malincuore e presto abbandonato. Scrive:
Certamente nessuna donna si divertí piú di lei a ricevimenti e feste, godendo di essere benvoluta, in quanto padrona di casa, brava persona, madre di due bambini graziosi e puliti, ben educati e ben allevati (p. 48).
(In questo passo, la frecciata nascosta, quella cui Lessing non può resistere, è il termine cifrato «pulito», che nella famiglia Tayler si riferisce al fatto che i bambini avevano imparato a usare il vasino). I bauli che li accompagnarono da Teheran alla casa di fango in Rhodesia contenevano vassoi d’argento, acquerelli, tappeti persiani, scialli, cappelli, abiti da sera – raffinatezze che sua madre non avrebbe mai avuto l’occasione di esibire. Nella fattoria questa «donna attraente, ben vestita, con un’ironia asciutta … efficiente, pratica, e piena di energia» non trovò uno sfogo adeguato alle sue ambizioni. I suoi affetti passarono dal marito al figlio appena nato, che le rimase legato finché non andò in collegio, dove in qualche modo imparò a sottrarsi alle sue richieste. «Oggi vedo in lei una figura tragica», scrive Lessing, ma finché è rimasta in vita «la vedevo come una figura tragica, certo, ma non riuscivo a essere gentile» (p. 26).
E tuttavia, nonostante la scrittrice provi seriamente a considerare i suoi genitori come esseri umani normali piuttosto che come opprimenti proiezioni mentali, il primo volume ricalca il modello dei suoi primi romanzi in cui la colpa è sempre della madre e anticipa il ritorno della madre e le nuove battaglie madrefiglia del secondo volume. Deprime assistere allo spettacolo di una donna che, pur avendo superato i settant’anni, ancora combatte con un indomito fantasma del passato, d’altro canto non si può negare la grandiosità dello spettacolo quando la protagonista è cosí intensamente onesta e cosí appassionatamente ansiosa di salvezza come Doris Lessing.
V.
Il secondo volume riprende la storia dall’arrivo di Doris a Londra nel 1949, una «giovane donna franca, diretta», come si vedeva lei, e – grazie all’educazione coloniale – felicemente libera dall’endemica ipocrisia inglese. Aveva con sé il figlio piccolo e il manoscritto completo dell’Erba canta2.
Presto il romanzo trovò un editore e la sua carriera di scrittrice cominciò. Per tutti gli anni Cinquanta, fino al successo commerciale del Taccuino d’oro (1962), i suoi libri, pur senza raggiungere alte vette, ebbero un buon livello di vendite. Non aveva bisogno di andare a lavorare. Guadagnava circa venti sterline a settimana – il salario di un lavoratore, calcolò.
Il trasferimento in Inghilterra – o, secondo il gergo della società coloniale rhodesiana, il ritorno in patria – divenne definitivo. Raccontando la storia di quegli anni, Lessing cerca di ricreare il clima della vita quotidiana di un paese che ancora soffriva delle conseguenze della guerra. Pur frequentando per lo piú artisti e intellettuali di sinistra, lasciava spazio anche ai semplici londinesi che incontrava. Ma – è lei stessa ad ammetterlo – il libro di memorie che pubblicò nel 1960, In Pursuit of the English, offre un ritratto piú vivace e piú corrispondente all’epoca di quanto non riesca a fare nell’autobiografia.
Piú volte sottolinea la distanza tra l’Inghilterra degli anni Cinquanta e la ricca Inghilterra di oggi; i giovani, dice, non possono capire quanto il paese fosse povero. Non è possibile fare capire alle persone: è colpa di questi giovani indifferenti – verrebbe da chiedersi – oppure dello scrittore che si sgomenta davanti al compito di superare la loro amnesia storica?
Nonostante la durezza della vita negli anni Cinquanta, Lessing sente una certa nostalgia per quegli anni. Le mancano ad esempio l’impegno e la determinazione che trovava nelle marce rituali contro l’atomica, che offrivano l’occasione di stabilire contatti al di là delle barriere di classe.
Il suo impegno nel movimento per il disarmo nucleare portò Lessing a fare visita a Bertrand Russell e al suo segretario Ralph Schoenman. Il ricordo di come questi raggirasse e manovrasse l’anziano filosofo le fece decidere di non farsi catturare dai gruppi femministi nella sua vecchiaia ed essere trasformata in una specie di «vecchia saggia».
Ripensando al passato, Lessing sente la mancanza di un mondo letterario in cui l’editoria era sempre alla ricerca entusiastica di nuove forme di scrittura e sempre pronta a rischiare. Per contro, deplora l’industria editoriale di oggi per il suo cinismo e filisteismo, oltre che per le pressioni cui sottopone gli scrittori per promuovere la propria opera. Deplora l’ossessione del pubblico per la vita privata dello scrittore e le umiliazioni che gli scrittori devono subire nel corso di interviste con interlocutori ignoranti e indifferenti.
Ora come allora, vede nella psiche inglese «una piccineria, una sottomissione, un rifiuto profondo, istintivo, persino ad accettare il pericolo o anche soltanto ciò che non è familiare: una riluttanza a comprendere l’esperienza estrema». Cosa che, in letteratura, si manifesta nella preferenza accordata ai «romanzi piccoli, circoscritti, preferibilmente sulle sottili differenze di classe o di comportamento sociale».
Le suddivisioni interne di Camminando nell’ombra sono fatte in base agli appartamenti e alle case in cui Lessing ha vissuto, sempre alla ricerca di un ambiente in cui potesse scrivere in tranquillità e allo stesso tempo tirare su un bambino. Descrive due o tre relazioni importanti con uomini sempre riluttanti ad assumere un ruolo paterno nei confronti del figlio. Di nuovo sua madre si fa viva, chiedendole di vivere con lei. Lei si irrigidisce e rifiuta. La madre torna in Rhodesia e muore. Lessing è sopraffatta dal senso di colpa, e sente una gran pena per la solitudine dell’anziana donna, e tuttavia – a dispetto di se stessa – regredisce al passato per rintanarsi nel duro ed egotistico guscio autoprotettivo che aveva sviluppato fin da bambina: «No, io no. Lasciami in pace» (p. 210).
VI.
Camminando nell’ombra è un libro parco di date, ma sembrerebbe che nei primi anni Cinquanta Lessing abbia ceduto alle pressioni della sua cerchia di conoscenze (pressioni che lei ora vede dettate dall’invidia) affinché facesse qualcosa di concreto oltre a scrivere libri e articoli. Cosí si iscrisse al Partito comunista inglese. Se una domanda domina tutto il libro è come mai lei e cosí tante altre persone intelligenti, socialmente impegnate e amanti della pace, abbiano potuto farsi strumentalizzare dal Partito comunista dell’Unione Sovietica; e come mai, anche quando ebbero perso la fede nell’Urss, continuarono a credere nella religione della rivoluzione mondiale.
Analizzando le sue motivazioni, Lessing riconosce che un ruolo importante lo ebbe la sua prima deprimente esperienza del rigido sistema di classe inglese (per quanto fosse tecnicamente estranea al sistema, in pratica si trovò esclusa dalla classe operaia a causa del suo accento). E naturalmente credeva nella lotta anticoloniale, la fratellanza umana e tutti gli altri ideali del comunismo. Ma in ultima analisi deve ammettere che si trattò di una scelta del tutto irrazionale: a un livello collettivo stava prendendo parte a «una specie di psicosi sociale o di autoipnosi di massa» (p. 61), mentre a livello personale sentiva di essere controllata da «qualcosa sepolto nel profondo che mi sconvolgeva come un incubo», «uno strascico di antiche emozioni della mia infanzia», di cui non riusciva ad andare al fondo.
Dall’oscurità di tale spiegazione si deduce come, a tutt’oggi, Lessing non abbia capito perché lo fece. Nella misura in cui l’enigma che sta tentando di risolvere è al centro del secondo volume, la meta finale dell’impresa autobiografica, quella cioè di giungere alla verità su se stessa ripercorrendo il passato, raccontando nuovamente la storia della propria vita, appare ancora lontana.
Non è la prima volta che Lessing esplora il mistero dell’individuo e del destino che sceglie. I suoi romanzi sono percorsi da una forte tensione autobiografica, specialmente la serie di «Martha Quest» e Il taccuino d’oro, che coprono lo stesso decennio di Camminando nell’ombra. Quando, agli inizi degli anni Novanta, Lessing intraprese il progetto autobiografico, credeva veramente che avrebbe rivelato delle verità piú profonde su se stessa rispetto ai romanzi che aveva scritto trent’anni prima?
La risposta molto probabilmente è no. Lessing ha sempre saputo che le energie liberate nella creazione poetica vanno piú in profondità di quanto l’analisi razionale possa fare. Qualcosa è comunque cambiato dall’epoca in cui scrisse i romanzi basati sulla sua fase comunista, e cioè sono cambiati gli stessi termini dell’inchiesta. Molto tempo è passato; a cominciare dalle rivelazioni del congresso del partito del 1956, la storia sepolta dell’Urss è anno dopo anno emersa dalle tenebre. In particolare, è diventato sempre piú palese che Hitler era un «dilettante del crimine» in confronto con il suo omologo Stalin, «mille volte peggiore» di lui (sono parole di Lessing). Il comunismo fa appello agli impulsi piú nobili del cuore umano, e tuttavia c’è nella sua stessa natura qualcosa che «alimenta le bugie, fa dire bugie alla gente e distorce i fatti, impone l’inganno». Lessing non riesce a spiegare perché debba essere cosí: «queste sono acque piú profonde di quelle che io possa scandagliare». L’unica cosa che sa è di aver giurato fedeltà al partito. Il partito la scelse per mandarla in Russia in qualità di membro di quella che doveva essere una delegazione rappresentativa degli intellettuali inglesi, e lei ci andò. Al ritorno, per dedizione alla causa, non scrisse la verità su quello che aveva visto in Russia, anche se (ora) dice che c’era almeno un russo, un uomo comune, pronto a rischiare la vita pur di dire alla delegazione che ciò che stavano vedendo era falso. Lei non era un semplice membro della base, ma faceva parte della cellula di scrittori del partito. Quarant’anni dopo scrive: «Per quanto fossi abituata a trovarmi in posizioni false – dev’essere una maledizione scagliata su di me quando ero ancora in culla – quella era la piú falsa di tutte» (p. 95). Seguendo i dettami del partito, scrisse persino dei racconti, come ad esempio Fame, incluso in molte antologie («ma io continuo a vergognarmene», dichiara).
Stalin era mille volte peggiore di Hitler. Se intellettuali del calibro di Martin Heidegger e Paul de Man si sono meritati un’inchiesta e una denuncia per il sostegno dato al nazismo, che cosa meriterebbero oggi gli intellettuali che appoggiarono Stalin e il sistema stalinista, che scelsero di credere alle bugie sovietiche contro l’evidenza che era sotto i loro occhi? È questa la domanda importante che si pone la coscienza morale di Lessing, assieme a un’altra ugualmente inquietante: perché oggi nessuno piú si interessa a queste cose?
Bisogna ammirare Lessing per il solo fatto di porre queste domande fuori moda, per quanto non si possa dire che riesca a trovare una risposta soddisfacente. Stranamente, l’analisi del suo passato di membro del partito è parallela a quella del suo passato di figlia. In ambedue i casi Lessing ammette di essersi comportata male, di avere delle colpe. Per di piú, oscuramente, anche all’epoca sapeva che si stava comportando male. Ma, per quanto animata dalla migliore buona volontà, non riesce a capire perché sia andata come è andata; tranne concludere che si sia trattato di un gesto compulsivo, una compulsione che non aveva coinvolto lei sola ma centinaia di migliaia di altre persone. Era, come afferma nel primo volume, parte dello Zeitgeist.
VII.
«C’è da credere che la mia vita fosse tutta politica e personalità, mentre in effetti passavo la maggior parte del tempo a casa da sola a lavorare» (p. 234). Lessing in realtà passa molto tempo a parlare di politica e altrettanto a parlare di personalità del mondo letterario e di quello teatrale incontrate sul suo cammino, molte delle quali non suscitano piú alcun interesse. Il secondo volume è sotto molti aspetti un memoriale, di un genere piuttosto casuale, frammentario, del tipo vita-e-opinioni; a parte le riflessioni sul suo passato comunista, sono del tutto assenti la profonda autoanalisi e i toni di angoscia che caratterizzano il primo volume3.
Quanto alla sua vita politica, la storia che Lessing racconta non va letta come un’apologia – nel clima degli anni Novanta, sarebbe un passo troppo «politicamente corretto», e Lessing non prova altro che disprezzo per la correttezza, che le sembra (giustamente) discendere dal partito e dalla linea di partito. Ciononostante, definisce «imperdonabile» la propria perversa cecità nei confronti della verità, e afferma di voler raccontare la sua storia cosí che i lettori imparino a non fare lo stesso errore. Si tratta chiaramente di una storia che ha voluto raccontare completamente prima di morire. In fin dei conti, costituisce una confessione, comunque si voglia definire questo termine.
1 D. LESSING, Sotto la pelle. La mia autobiografia. I. 1919-1949 (trad. di M. A. Saracino), Feltrinelli, Milano 1997.
2 ID., Camminando nell’ombra. La mia autobiografia. II. 1949-1962 (trad. di A. Buzzi), Feltrinelli, Milano 1999.
3 Sebbene il progetto sia definito autobiografia, Lessing si riferisce al secondo volume come «memoriale», cfr. p. 358.
Le memorie di Breyten Breytenbach
I.
La prima volta che Breyten Breytenbach attirò l’attenzione pubblica fu quando, da Parigi – dove viveva lavorando come poeta e pittore – chiese il permesso alle autorità sudafricane di portare nel paese la moglie vietnamita e gli fu risposto che come coppia non erano graditi. L’imbarazzo di questa cause célèbre fu tale che nel 1973 le autorità decisero di allentare il freno e concedere visti temporanei. A Cape Town Breytenbach parlò davanti al folto pubblico di un simposio letterario:
Noi [afrikaner] siamo un popolo bastardo con una lingua bastarda. La nostra natura è essere bastardi, ed è giusto cosí … [Ma] come tutti i bastardi – incerti della loro identità – abbiamo adottato il concetto di purezza. Questo è l’apartheid. L’apartheid è la legge dei bastardi1.
Il resoconto di quella visita apparve, prima in Olanda, poi nel mondo anglofono, in A Season in Paradise, un libro di memorie inframmezzato di poesie, ricordi e riflessioni sulla situazione sudafricana che includeva anche il testo della conferenza.
Nel 1975 Breytenbach tornò nuovamente in Sudafrica, ma con un ruolo diverso: in missione clandestina per arruolare sabotatori per conto dell’African National Congress. Presto fu arrestato dalla polizia di stato e trascorse sette anni in prigione. Al ritorno in Francia, Breytenbach dichiarò pubblicamente di avere rotto ogni legame con la sua gente: «Non sono piú afrikaner»2. Ciononostante, nel corso degli anni Ottanta, tornò piú volte in patria in visita privata, sotto il controllo della polizia. La visita del 1991 è all’origine di Ritorno in Paradiso, resoconto di un viaggio nel Sudafrica «riformato» di F. W. de Klerk. L’autore consigliava di leggere il libro accanto a A Season in Paradise e al suo memoriale dal carcere, Le veritiere confessioni di un africano albino, come trittico autobiografico.
I titoli dei due libri del Paradiso riprendono ironicamente Una stagione all’inferno di Rimbaud. In Ritorno in Paradiso Breytenbach definisce il Sudafrica «Questa regione di dannati». «Guardo il futuro e mi raggela il sangue». La rivoluzione è stata tradita; cricche di uomini di mezza età si assicurano una fetta di torta mentre i loro seguaci continuano a combattere sul campo senza tregua. Il nuovo ordine che sta per emergere – «con una piú larga egemonia ma con gli stessi meccanismi e la stessa tristezza» non è quello per cui abbiamo lottato. Se i suoi «piagnistei per una rivoluzione impossibile» sono utopici, è tuttavia diritto del poeta immaginare un futuro estraneo ai sogni dei politici, esprimere una profezia sul futuro e persino mordere la mano che lo ha nutrito3.
A livello piú concreto il resoconto della visita del 1991 descrive letture di poesie tenute in sale rumorose in cui il pubblico non capisce la lingua e viene solo per vedere quella strana persona che si chiama Breytenbach; le perplesse reazioni dei vecchi compagni d’armi («Ma non sei mai contento? Ora che abbiamo vinto, non riesci a gioirne?»); le incomprensioni e le ostilità ogni volta che afferma che in futuro continuerà a essere, come in passato, «contrario a ogni norma, ortodossia, canone, egemonia, politica, lo stato, il potere». Sono sentimenti che non vengono ben digeriti in un paese che, come egli osserva con una certa ironia, è passato direttamente dalla condizione pre-umana a quella post-umana.
In quest’opera Breytenbach si scaglia, con un senso di amarezza e di angoscia, contro tutti: contro i liberali bianchi, il Partito comunista sudafricano e i borghesi di sinistra ortodossi-a-oltranza, contro vecchi compagni come Wole Soyinka e Jesse Jackson, e in particolare contro l’ANC per il modo in cui è stato trattato quando era in prigione:
E non solo l’ANC ha tolto qualsiasi appoggio alle persone che dipendevano da me, non solo mi ha sconfessato, ma a Londra la cricca degli esuli amareggiati è intervenuta per bloccare qualsiasi manifestazione di sostegno locale o internazionale per la mia causa. Mi hanno ostracizzato e calunniato, incoraggiati da «vecchi amici» ben intenzionati all’interno del paese. Persino su Amnesty International sono state fatte pressioni perché non mi adottasse come prigioniero di coscienza (p. 157).
La maledizione che Breytenbach pronuncia nei confronti di tutti gli altri, una condanna che, nonostante la causticità del linguaggio, ha qualcosa di eccessivo e incontrollato, costituisce la parte meno interessante del libro. La parte migliore esprime invece una preoccupazione piú profonda e piú intima: che cosa significa per lui avere radici nel paesaggio, essere nato in Africa. Infatti, sebbene abbia trascorso in Europa la maggior parte della sua vita adulta, Breytenbach non si sente europeo:
Ma essere africano non è una scelta, è una condizione … Essere [africano] non deriva dal fatto di non essere integrato in Europa … e neanche dal rimorso dei crimini perpetrati dalla «mia gente» … No, è semplicemente l’unica apertura che ho a disposizione per far uso di tutti i miei sensi e le mie capacità … Questa terra è stata la prima a parlare. Io sono stato pronunciato una volta per tutte (pp. 98-99).
Pagina dopo pagina la sua magica prosa ci svela cosa intende quando afferma che l’Africa gli permette di usare al meglio i sensi e le capacità fisiche, via via che risponde agli scenari e ai suoni del «continente primordiale». Come scrittore, Breytenbach riesce a immergersi senza alcuno sforzo nell’Africa dell’inconscio poetico e a riemergerne con il ritmo e le parole, le parole nel ritmo, che danno vita. Sebbene sia consapevole del suo dono, ritiene che non si tratti di qualcosa di personale, ma dell’eredità dei suoi antenati, «antenati con gli occhi profondi da babbuini maltrattati», che hanno passato la vita a stretto contatto con il paesaggio nativo. Quando dà voce a quel paesaggio parla con la loro voce oltre che con la propria (p. 44).
È da questa forma di consapevolezza molto tradizionale, molto africana – secondo cui l’essenza creativa piú genuina non gli appartiene ma deriva da un sapere ancestrale – che in parte scaturiscono i sentimenti di dolore e confusione espressi in Ritorno in Paradiso. Perché sebbene Breytenbach si renda conto di quanto marginale sia diventato il suo ruolo in quello che oggi da tutte le parti, a vari livelli di ironia, viene definito «il nuovo Sudafrica», e possa persino divertirsi a presentarsi come un uomo senza identità, il bastardo, il «nomade nessuno» o anche, ricorrendo alla sua immagine postmoderna preferita, il volto allo specchio, un’ombra testuale priva di sostanza, sa che deve la sua forza alla terra in cui è nato e ai suoi antenati. Perciò le parti piú commoventi del libro sono quelle delle visite al capezzale del padre, delle amicizie ritrovate, della riappacificazione con i fratelli, quelle in cui porta la moglie a vedere gli antichi luoghi africani.
II.
Dog Heart, il libro di memorie di Breytenbach del 1999, è circoscritto a una piccola zona del Sudafrica, una regione della provincia occidentale del Capo da lui ribattezzata «Heartland», e in particolare alla cittadina di Montagu, poco distante dal posto in cui è nato, dove lui e sua moglie acquistano e restaurano una casa. L’economia di questa zona si basa sulla coltivazione della vite e degli alberi da frutta, ma negli ultimi anni Montagu (con una popolazione di 23 000 abitanti), una città di un certo fascino con sorgenti calde e un tramonto spettacolare, è diventata meta prediletta di pensionati, artisti e artigiani. Dal punto di vista demografico, Montagu non è indicativa del resto del paese. Sebbene i due terzi della popolazione nazionale sia nera (ci inoltreremo piú avanti nel campo minato della terminologia razziale), gli abitanti della Montagu di Breytenbach sono per lo piú o meticci (brown) o bianchi; nonostante a livello nazionale l’afrikaans sia la lingua madre solo di una persona su sette, a Montagu è la lingua piú diffusa, e in un paese la cui popolazione è prevalentemente giovane (circa la metà della popolazione è al di sotto dei ventun anni), Montagu è una cittadina di gente anziana: i giovani sono emigrati nelle città in cerca di lavoro.
Questi crudi dati statistici dovrebbero portarci a non considerare Dog Heart per quello che non è e non vuole essere: un rapporto sullo stato della nazione sudafricana negli anni Novanta. La Heartland di Breytenbach non è un microcosmo del Sudafrica; Dog Heart dice molto poco sulla politica o sulle relazioni bianchi-neri su scala nazionale. Documenta invece, con straordinaria precisione, le relazioni di potere tra bianchi e meticci nelle zone rurali.
Chi sono i cosiddetti meticci di Breytenbach? L’apparente innocenza dell’appellativo nasconde problemi non solo di natura antropologica (cultura, genetica) e storica (chi ha il potere di definire le persone in un certo modo, e come è stato conquistato quel potere?), ma anche di natura concettuale: che cosa significa non essere né nero né bianco, essere definito in temini negativi, quasi come una persona senza qualità?
Perché è cosí che i meticci (coloured o Coloured – con la C maiuscola il termine ancora risente dell’apartheid; con la c minuscola è piú o meno neutrale) venivano definiti sotto la legislazione dell’apartheid. La categoria Coloured si riferiva a chi era nato da unioni tra persone, uomini per lo piú di discendenza europea (i cosiddetti caucasici) e persone, donne africane indigene (generalmente khoi – il termine «ottentotto» non è piú corretto) o asiatiche di nascita (per lo piú schiave indonesiane). Ma in pratica includeva molte altre persone geneticamente diverse: persone di «pura» discendenza khoi – o anche di «pura» discendenza «africana» – che le circostanze avevano portato ad adottare un nome, una lingua e uno stile di vita europeo o di derivazione europea; persone che attraverso l’endogamia avevano mantenuto un’identità «puramente» asiatica, islamica; «europei» che per vari motivi erano usciti dal «sistema bianco» e vivevano vite «meticce».
Per quanto la legislazione dell’apartheid assumesse un sistema classificatorio a compartimenti stagni in cui ogni sudafricano doveva rientrare in una di quattro categorie (bianca, meticcia, africana, indiana), la base del sistema era in fin dei conti tautologica: un bianco era definito come una persona di aspetto bianco che la comunità bianca accettava come bianco, e cosí via.
L’opposizione concettualmente piú sofisticata alla classificazione giunse da parte dei «meticci»: se nessuna comunità «meticcia» era disposta ad ammettere di preesistere alla categoria creata dall’apartheid, non poteva di conseguenza esserci alcun criterio stabilito dalla comunità per definire il «meticciato». Per tutta la durata dell’apartheid lo statuto di «meticcio» fu accettato con riserva, per cosí dire, da quasi tutti quelli cui si riferiva, come una identità imposta. Nella misura in cui esiste o sia esistita una comunità «meticcia», si trattava di una comunità creata dal destino comune di essere costretti a comportarsi, di fronte alle autorità, come «meticci».
Quando Breytenbach scrive dei «meticci», è a questa storia di contestazione che fa riferimento: una storia che riguarda due o tre milioni di sudafricani di origini sociali ed etniche diverse, dapprima costretti a percepirsi come comunità, o addirittura (secondo una delle piú altisonanti previsioni della storiografia dell’apartheid) come «nazione in formazione»; poi nel 1994, dopo l’abolizione delle vecchie leggi razziali, rientrati in un programma che prevedeva il mantenimento delle distinzioni di razza per rendere possibili le misure di ingegneria sociale chiamate, in inglese, affirmative action («azione affermativa») e in afrikaans, piú crudamente, «risarcimento». È comprensibile che i meticci si lamentassero: «prima non abbastanza bianchi, e dopo non abbastanza neri».
Il problema se esista o debba esistere una categoria a metà tra i bianchi e i neri non è esclusivo del Sudafrica. I diritti delle minoranze etniche o culturali negli stati nazione multietnici costituiscono, in tutto il mondo, un problema cruciale; il dibattito sulla politica dell’identità mestiza è particolarmente acceso in America Latina e in altri angoli del mondo postcoloniale. In Sudafrica questo fermento ha sollecitato persone escluse dalle identità «naturali» di bianco o nero a sperimentare identità culturali del tutto sganciate dalle opzioni offerte dall’apartheid – identità che le collegano al passato precoloniale e a una storia piú antica di quella dei sudafricani «neri». Le ricerche archeologiche fanno risalire molto indietro nel tempo la data della migrazione degli africani «neri» di lingua bantu nel territorio dell’attuale Sudafrica, ma nessuno ritiene che essi fossero lí fin dai tempi dei primi cacciatori-raccoglitori dell’arido Sud-Ovest, il mitico «paese del cuore» dei meticci di Breytenbach.
III.
Essere definiti, nel 1973, «un popolo bastardo con una lingua bastarda» scosse persino gli afrikaner solidali con Breytenbach. Ma negli anni che sono trascorsi da allora, il termine bastardaggine – o il piú accettabile ibridità – è diventato di moda nella storia e nella politica culturale. Gli storici revisionisti stanno riscrivendo la storia della frontiera coloniale sudafricana come zona di baratto e di scambio dove si abbandonava il vecchio bagaglio culturale per prenderne uno nuovo, e dove si provavano nuove identità – persino di tipo razziale – come fossero abiti. Poter rivendicare un antenato di pelle scura ha oggi un certo prestigio per gli afrikaner intraprendenti (lo stesso Breytenbach non è estraneo a tale pratica).
Perciò, mezzo secolo dopo l’ascesa al potere del Partito nazionale, che prometteva di mantenere a ogni costo l’identità ariana e cristiana degli afrikaner, il cerchio si è chiuso: l’élite intellettuale di lingua afrikaans, insoddisfatta del nome «afrikaner» ancora connotato dal peso storico della segregazione razziale, e tuttavia incapace di trovarne uno migliore, propone che esso rappresenti invece un gruppo (il termine «popolo» è troppo impegnativo) embrionale, geneticamente ibrido, culturalmente sincretico, religiosamente diversificato, non esclusivo e ancora senza nome, (vagamente) definito dall’appartenenza a una lingua – l’afrikaans – di provenienza mista (olandese, khoi, malay) ma radicato nel continente africano.
Breytenbach sostiene che la sua regione dell’Heartland abbia svolto un importante ruolo storico, avendo generato, quando faceva parte della frontiera coloniale, un tipo di afrikaner inquieto, nomade, bastardo, estraneo alle ambizioni sociali degli agricoltori della vicina e piú stabile regione del Boland, la cui economia era fiorita sul lavoro degli schiavi – un individuo, in realtà, non molto dissimile dall’afrikaner alternativo appena descritto.
Con ogni probabilità tale affermazione non ha alcun valore scientifico, ma consente a Breytenbach di presentare la propria versione revisionista del pionere afrikaner. Mentre secondo la versione ortodossa questi pionieri erano agricoltori di pelle bianca che, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, si misero in marcia verso l’interno dell’Africa per fondare repubbliche dove si sarebbero governati senza alcuna interferenza inglese, nella versione di Breytenbach questi diventano un popolo di origine genetica inestricabilmente mista che, dopo avere appreso dai pastori khoi uno stile di vita nomade, si spinse verso l’interno, al seguito dei propri armenti e greggi. E non appena il moderno afrikaner (secondo la tesi di Breytenbach) si libera dall’illusione di essere un faro di luce nelle tenebre africane e accetta di essere semplicemente uno dei nomadi africani – e cioè un individuo senza radici e senza fissa dimora, e senza alcuna pretesa di proprietà sulla terra – aumentano le sue possibilità di sopravvivenza.
Ma il destino dei bastardi, ci avverte Breytenbach, non è facile perché comporta il continuo farsi e disfarsi dell’identità e l’inevitabile assillo della perdita. «[E tuttavia] fa bene viaggiare per diventare poveri». In questo modo Breytenbach collega i due temi della sua filosofia morale: bastardaggine e nomadismo. Come il bastardo si spoglia della sua identità per entrare in una imprevedibile mescolanza con l’altro, cosí il nomade si stacca dalla sua vecchia e comoda dimora per seguire gli animali, gli odori del vento o le figure della sua immaginazione, verso un incerto futuro.
È su questo sfondo che devono essere letti i crudi resoconti degli attacchi contro i bianchi nelle campagne del nuovo Sudafrica, contenuti in Dog Heart. Sono storie molto inquietanti non solo per la violenza psicopatica degli attacchi, ma per il fatto stesso di essere raccontati. È la diffusione di racconti dell’orrore il meccanismo che incoraggia la paranoia dei bianchi di essere cacciati dal paese e gettati in mare. Perché Breytenbach si presta a tutto questo?
Breytenbach ritiene che la violenza rurale non sia un fenomeno nuovo. Resuscita dal passato storie di uomini come Koos Sas e Gert April e Dirk Ligter, «ottentotti» o «boscimani», che apparivano come spettri passando da una fattoria all’altra seminando morte e distruzione fino a quando non furono alla fine scovati e uccisi. Nella memoria popolare dei meticci, secondo Breytenbach, questi uomini non sono dei banditi criminali ma «combattenti della resistenza». In altri termini, gli omicidi nelle fattorie, e in generale i crimini contro i bianchi – persino quello ai suoi danni quando la sua casa di Montagu fu oggetto di atti vandalici – fanno parte di una trama politica piú ampia che risale all’appropriazione della terra da parte dei bianchi in epoca coloniale.
La terra, afferma Breytenbach, non appartiene a nessuno e l’unica relazione corretta con la terra è quella del nomade: abitarci, ricavarne di che vivere, passare oltre; trovare un modo per amarla senza legarsi a essa. È questa la lezione che insegna a sua figlia, una bambina nata in Francia, che si sente molto attratta dall’aspetto selvaggio e dalla libertà del paese, quando la porta in giro per i sacri luoghi della memoria. Non ti attaccare troppo, l’avverte. «Siamo dipinti nei colori della scomparsa qui … siamo solo in visita … l’amore deve scomparire».
Il tono elegiaco che pervade gran parte di Dog Heart e che lo distingue dai libri precedenti deriva in parte dalla sensazione di Breytenbach di stare invecchiando e di dover cominciare a dire addio, in parte da un punto di vista buddista secondo cui i legami terreni rallentano il viaggio dell’anima (questo è l’aspetto religioso della sua etica del nomadismo), ma anche a causa della sensazione che il mondo in cui è nato non può sopravvivere. Dog Heart è la prima opera in prosa in cui affiorano gli stessi intensi sentimenti che si ritrovano nel mondo piú intimo della sua poesia: l’appartenenza a una vita rurale che, seppure basata su un sistema coloniale profondamente ingiusto, è poi diventata l’elemento caratterizzante degli africani autoctoni; e la sua ambivalenza nei confronti di questo sistema di vita che con la ragione giudica e condanna all’estinzione mentre con il cuore ne lamenta la perdita. (Qui, all’improvviso, Breytenbach ricorda fortemente William Faulkner).
Nell’ambigua e precaria riconciliazione che ha avuto luogo tra Breytenbach e gli afrikaner di antico ceppo, sono stati gli afrikaner a fare le maggiori concessioni. Una volta perso il potere politico, e quindi il controllo dei mezzi pubblici di comunicazione, le persone da cui Breytenbach si era dissociato nel 1983 hanno perso il potere di decidere quel che debba essere un afrikaner, e cioè un «bianco» di discendenza nord-europea, nazionalista etnico, calvinista, sostenitore del regime patriarcale. Dog Heart è la voce in controtendenza in cui cominciano a definirsi, e forse persino ad affermarsi, in modo nuovo, frammenti di gruppi allo sbando, coagulandosi questa volta non intorno a una filosofia politica ma intorno a una lingua comune, piú ampia e piú saggia della somma dei suoi parlanti, e a una storia condivisa, per quanto amara e divisa essa possa essere.
IV.
Condividendo lingua, storia, attaccamento alla terra, e forse persino sangue con «la mia gente», la gente del suo Heartland, Breytenbach dialoga con uomini e donne di ogni stato e condizione. Alcuni di questi incontri lo sconcertano. Gli operai (meticci) che gli restaurano la casa lo trattano come fosse uno straniero (lui, il piú famoso poeta nella sua lingua!) Quando accompagna il fratello – che si presenta come candidato indipendente nelle elezioni del 1994 – nella sua campagna elettorale, fa esperienza diretta della gran massa di pregiudizi meticci nei confronti dei neri. (Può darsi che i suoi informatori lo stiano prendendo in giro: sono afrikaner cosí come lo è lui, né piú né meno, a proposito dei quali afrikaner «stupidi ma astuti, – scrive, – la mia chiacchiera del mattino e quella della sera sono della stessa stoffa di quelle del mio interlocutore»).
Al centro di questo memoriale c’è un evento misterioso cui Breytenbach allude varie volte senza mai spiegarlo. Sembra che all’età di sette anni una crisi di soffocamento gli bloccò la respirazione facendolo in un certo senso morire per poi rinascere come un secondo Breyten (il suo nome, fa notare, è come un’eco; fra le sue identità poetiche c’è Lazzaro). «Quando mi guardo allo specchio so che il bambino che è nato in questo posto è morto. Lo ha mangiato il cane». Cosí il ritorno alla terra del cane è in un certo senso una ricerca della tomba del bambino morto, il bambino morto dentro di lui.
Nel museo cittadino – dove il busto di D. F. Malan, primo ministro del Sudafrica dal 1948 al 1954, è stato discretamente relegato in un magazzino – Breytenbach trova una fotografia della sua bisnonna Rachel Susanna Keet (morta nel 1915). Dagli archivi apprende che, in qualità di levatrice, ha fatto nascere la maggior parte dei bambini bianchi e meticci di Montagu; che era vissuta in maniera poco convenzionale e che aveva adottato e allevato un bambino meticcio che non era figlio suo. Lui e la moglie vanno in cerca della tomba di Rachel Susanna ma non la trovano. Cosí si impossessano di una delle vecchie tombe senza nome nel cimitero, e la adottano, per cosí dire, nel nome di lei. Il libro termina su questa nota emblematica, con la scelta di Breytenbach di appropriarsi, nel nome dell’antenata morta piuttosto che della figlia viva, del piú umile dei territori familiari in Africa.
V.
Breytenbach, che ha la cittadinanza francese ed è il piú intraducibile dei poeti afrikaans, ha pubblicato il resoconto della riscoperta delle sue radici africane in inglese, lingua di cui ha una padronanza quasi completa. Sotto questo aspetto, segue l’esempio del suo compatriota André Brink e di una schiera di altri scrittori di piccole comunità linguistiche (inclusi gli scrittori africani neri).
Si possono comprendere i motivi per cui Breytenbach ha fatto questa scelta: il mercato dei libri in afrikaans è limitato e in calo. Breytenbach di certo non utilizza l’inglese come gesto di solidarietà con i sudafricani bianchi di lingua inglese, per i quali non ha mai avuto molta simpatia. Eppure, è strano trovarsi davanti un libro in inglese che celebri il carattere demotico della nomenclatura afrikaans, sia cosí attento alle sfumature del dialetto sociale afrikaans e creda ciecamente all’idea che solo la lingua afrikaans sia in grado di esprimere quella sensibilità e quell’armonia con il mondo naturale del Sudafrica.
Breytenbach sembra inoltre accettare senza riserve quella che definirei ortodossia sentimentale e che nel libro trova ampio spazio. Gran parte di questa ortodossia riguarda coloro che la politica culturale attuale chiama «le prime genti» e l’idioma popolare sudafricano «le vecchie genti»: i san e i khoi. In due libri molto letti e molto influenti, Il mondo perduto del Kalahari (1958) e Il cuore del cacciatore (1961), Laurens van der Post presentava i san («boscimani») come gli africani originari, portatori di una saggezza arcaica, e ormai in estinzione a causa della mitezza della loro cultura che li rendeva tragicamente inadeguati. Breytenbach registra alcune commoventi espressioni relative al crepuscolo dei san nel XIX secolo, mentre a volte scade in un romanticismo alla Van der Post («piccoli uomini nerboruti [con] una conoscenza innata del movimento delle nuvole e della disposizione delle montagne». Ma il suo scopo principale è quello di suggerire che i vecchi miti san e khoi sopravvivono oggi in forme inconsce di riattualizzazione: una donna che stacca a morsi il pene del suo stupratore, ad esempio, sta ripetendo l’atto della dea mantide khoi. A tratti Dog Heart risente di un realismo magico latino-americano di seconda mano. Anche la sua teoria di una continuità psichica inespressa tra vecchi e nuovi popoli meticci risulta poco convincente, mentre il racconto dei miti sa di esercizio dovuto, quasi fosse stato ripreso da altri libri.
Breytenbach ha esposto le sue idee politiche correnti nella raccolta di saggi The Memory of Birds in Times of Revolution. Se si può ancora parlare di lui come animale politico, il suo programma può sintetizzarsi nella formula «lottare per la rivoluzione contro la politica». In Dog Heart tuttavia tale politica è sottintesa piuttosto che spiegata. Liti e antipatie emergono sotto forma di frecciate occasionali: nei confronti dei liberali bianchi, della corrente comunista dell’ANC, della borghesia meticcia che si è ritagliata uno spazio nel vecchio Partito nazionale (ribattezzato il Nuovo partito nazionale e che in posti come Montagu ancora detiene il potere, anche dopo le elezioni del 1999), dei «cani da guardia di Dio» (Desmond Tutu e Alex Boraine) della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, del nuovo establishment artistico e accademico con la sua soffocante correttezza politica. Racconta di un breve incontro con Nelson Mandela, in cui Mandela emerge sotto una luce poco favorevole. Breytenbach mantiene la promessa che aveva fatto in Ritorno in Paradiso, quella di essere un cane sciolto, «contro ogni norma».
Come gli altri libri di memorie di Breytenbach, Dog Heart ha una struttura frammentaria, decisamente eterogenea. Parte diario, parte saggio sull’autobiografia, parte libro dei morti, parte quella che potrebbe definirsi storia congetturale, il libro contiene anche profonde riflessioni sull’elusività della memoria e brani di scrittura virtuosistica – ad esempio nella descrizione di una tempesta – capaci di evocare l’Africa con stupefacente immediatezza.