venerdì 10 aprile 2020



LA MENNULARA
Simonetta Agnello Hornby 


LUNEDÌ 23 SETTEMBRE 1963 1. Il dottor Mendicò assiste alla morte di una paziente Il dottor Mendicò improvvisamente si sentì stanchissimo, con le gambe indolenzite e le braccia formicolanti. Era rimasto nella stessa posizione per più di un’ora, le mani della Mennulara strette fra le sue, accarezzandole le dita con un movimento circolare e delicato, incessante. Sollevò la mano destra, lasciando a palma aperta sul lenzuolo la sinistra, su cui poggiavano quelle ancora tiepide della defunta. Era un momento solenne, che conosceva bene e sempre lo emozionava, l’ultimo compito di un medico sconfitto dalla morte. Le chiuse le palpebre delicatamente. Poi le rassettò le mani intrecciandole le dita, gliele pose con cura sullo sterno, riordinò il lenzuolo tirandolo su fino a coprirle le spalle e finalmente si alzò per comunicare agli Alfallipe la morte della Mennulara. Rimase con loro quanto necessario, diede a Gianni Alfallipe la busta contenente le ultime volontà della defunta e scese in fretta le scale della palazzina, incrociando le vicine che salivano per le scale a condolersi. Si era sentito soffocare in quella casa; appena uscito dal portone prese a camminare a piccoli passi lenti, respirando a pieni polmoni l’aria ancora fresca della mattina. La via misurava appena poche decine di metri, ma sembrava più lunga in quanto stretta e piena d’angoli creati dagli edifici a due o tre piani che nei secoli si erano moltiplicati a caso, accatastandosi l’uno sull’altro e inglobando le costruzioni originarie fino a formare quasi due muraglie contigue e irregolari, interrotte soltanto da due archi che le traforavano come una galleria e attraverso i quali passava e si snodava fino a valle una delle tante scalinate che formavano la principale rete urbana di Roccacolomba, un tipico paese dell’entroterra aggrappato alle coste della montagna. Il dottor Mendicò si sovvenne tutto a un tratto di non aver intrecciato un rosario attorno alle dita della morta, come si soleva fare. Con la memoria rivisitò la stanza della Mennulara per rendersi conto della propria omissione. Era una stanzetta particolarmente spoglia. C’era soltanto lo stretto necessario: il letto, una sedia, l’armadio, una lampada e una radio sul comodino, un tavolo stretto che fungeva da scrivania, dove erano posate in perfetto ordine, su un vassoietto di metallo, penne, matite e una grossa gomma per cancellare. Sullo scaffale c’erano due fotografie dei nipoti e una piuttosto sbiadita che ritraeva i genitori, alcuni quaderni e qualche libro. Le pareti erano nude, a parte una riproduzione della Madonna col Bambino del Ferretti, al capezzale. Mancavano, in quella stanza, il tocco femminile e l’elemento religioso: la farragine d’immagini sacre, statuette della Madonna e di santi locali, bottigline piene di acque benedette portate da paesi lontani, che si ammassano sui comodini delle donne; mancava perfino un rosario. Nonostante ciò, la camera da letto della Mennulara gli aveva dato la netta sensazione di essere permeata da una religiosità profonda, quasi monastica. La striscia di cielo ritagliata dai tetti aguzzi e irregolari delle case era luminosissima, appena azzurra, quasi abbagliante. Il dottore si fermò, tirò un gran respiro e puntò gli occhi in alto, restando a fissare intensamente il cielo. “Chissà dove sarà volata la sua anima, che Dio le dia pace,” disse a bassa voce, poi riprese il cammino e imboccò la scala che scendeva verso casa sua. La campana del monastero batteva le undici. Il dottor Mendicò calcolò che prima del pranzo avrebbe avuto il tempo di fare le telefonate necessarie, prendere un caffè e farsi una passeggiata: aveva bisogno di stare solo a pensare. “Neanche un medico vecchio come me si abitua alla morte,” mormorò tra sé mentre suonava il campanello di casa. Gianni era ritornato nel soggiorno, dopo aver accompagnato alla porta il dottor Mendicò. Le sorelle e la madre lo aspettavano in silenzio. Santa non aveva osato entrarvi, per rispetto agli Alfallipe e obbedienza agli ordini della Mennulara. Non era riuscita, tuttavia, a trattenere la propria curiosità ed era rimasta nel corridoio, appoggiata alla porta della cucina, il viso contratto e ancora bagnato di lagrime, le braccia inerti sui fianchi, l’orecchio teso a carpire brandelli di conversazione dei padroni. La signora Alfallipe era accasciata sulla poltrona, il capo riverso sulla spalliera, gli occhi pieni di lagrime, lo sguardo vacuo. Lilla, appoggiata sul bracciolo, le carezzava la fronte. Carmela, invece, aspettava l’arrivo del marito, affacciata al balcone. “Che ti ha dato il dottore?” chiese Lilla. Gianni le mostrò la busta, il suo nome scritto a grandi lettere maiuscole disordinate: era la calligrafia della Mennulara. Carmela si era girata, alle parole della sorella, e li osservava. Alla vista della lettera li raggiunse in fretta strillando: “Sarà il testamento, non aprirlo, dobbiamo aspettare Massimo”, e, con la voce sempre più stridula, continuò a ripetere: “Dobbiamo aspettare Massimo”. La signora Alfallipe prese a piangere, ripetendo fioca, come se recitasse una litania: “Lo sapevo che Mennù avrebbe pensato a me, mi voleva bene”. Lilla e Gianni avrebbero voluto aprire immediatamente la busta, ma non osarono né ebbero il tempo di contraddire la sorella perché Santa e le vicine fecero irruzione nella stanza gesticolando e vociando rumorosamente tutte assieme per fare le condoglianze. Alla loro vista la signora Alfallipe parve disintegrarsi in un pianto dirotto, subito accudita e confortata dalle donne. “Che sarà di me, Mennù mi curava bene, come faccio ora io, che sono malata…” Furono tutti abbracciati e baciati a uno a uno, stretti in lunghi amplessi che li lasciarono impiastricciati del sudore delle loro ascelle e degli aromi del cibo che erano intente a preparare: un misto di aglio, olio, pomodoro, prezzemolo, mollica di pane, un odore antico che accomunò gli Alfallipe nel disgusto dei ceti bassi. Lilla rabbrividì al pensiero che, sin dalla morte del padre, sua madre era vissuta nello stesso condominio di un pescivendolo, dell’elettricista di casa Alfallipe e di un impiegatuzzo. Ringraziò la sorte che l’aveva portata a Roma, lontana da quel paese immondo. Nascondendo la propria insofferenza, dopo l’ultimo abbraccio maleodoroso, Lilla spiegò alle donne che la madre si sentiva male ed era stata sul punto di svenire, per fortuna il dottor Mendicò le aveva somministrato un farmaco e imposto di sdraiarsi a letto. Lei e Carmela non se la sentivano di lasciarla sola, affranta com’era, e si sarebbero ritirate con lei: che le brave vicine restassero in casa, andassero nella stanza dove giaceva la Mennulara e, se volevano aiutare Santa a preparare la salma, facessero pure, mentre loro si sarebbero prese cura della madre, che ne aveva tanto bisogno in quel momento angoscioso. La signora Alfallipe, a conferma di quanto detto dalla figlia – che dopo tutto poteva permettersi di parlare con una certa autorevolezza a tal proposito, in quanto moglie di un medico –, si era sprofondata ancora di più nella poltrona, aveva allargato le braccia sugli ampi braccioli lasciando penzolare fuori le mani, la testa di nuovo abbandonata sulla spalliera; ora aveva ripreso a mormorare: “Mi sento male, forse svengo”, al che i tre figli e Santa accorsero da lei. A quel punto non riuscirono a evitare il sollecito coinvolgimento delle donne che non si erano ancora ritirate e che si affannavano elargendo consigli e prodigandosi in ogni modo. Tutte insieme trasportarono la signora Alfallipe nella sua camera e la fecero sdraiare sul letto: chi portava un bicchiere d’acqua, chi le metteva un asciugamano bagnato sulla fronte, chi le sistemava un cuscino dietro le spalle, chi le prendeva il polso. La signora Alfallipe, paga della loro sollecitudine e timorosa che un miglioramento della sua condizione potesse toglierle l’attenzione di cui stava godendo, incrementò lamentele e malori. A quel punto arrivò il genero. Massimo Leone non aveva osato accompagnare Carmela quella mattina, quando Santa aveva telefonato, svegliandoli, per informarli che la Mennulara era ormai moribonda. Aveva preferito fermarsi a casa Alfallipe, a pochi minuti di distanza, in attesa di notizie. Solo quando Carmela lo chiamò per annunciargli che la donna era entrata in coma si sentì autorizzato a raggiungerla. Istintivamente continuava a ottemperare al comando della Mennulara: “Giuro sull’anima di mia madre che nella casa mia, in cui vivo, lui non mette piede”, una scomunica vera e propria. Era sposato con Carmela da sette anni, e non gli era stato permesso di entrare neanche nella portineria, o di telefonare alla moglie quando era in quella casa. L’aveva odiata e la odiava ancora potentemente, la maledetta Mennulara. Ora finalmente era morta. Massimo si sentiva liberato. Saliva le scale in uno stato di eccitazione mista a risentimento: avrebbe puntato gli occhi su di lei, cadavere, ma non avrebbe potuto neanche sputarle addosso, come si sarebbe meritata, perché dal cicaleccio che si sentiva per le scale era chiaro che c’era già gente in visita di lutto. Le vicine lo trattarono come se fosse parte della famiglia della defunta, attorniandolo compenetrate, e cercarono di celare l’imbarazzo della situazione, dato che erano perfettamente a conoscenza della sua messa al bando. Le condoglianze erano mirate: “A sua moglie le voleva bene come a una figlia”, “Per loro faceva tutto”, “Buona era, mi creda”. Appena poté Massimo si liberò dalle donne ed entrò nella stanza da letto della suocera, dove lo aspettavano ansiosi i cognati. Si salutarono brevemente, senza i soliti baci e abbracci. Lilla si premurò di chiudere bene la porta, dopo aver chiesto a Santa di lasciarli soli e di non far entrare nessuno, poi rivolse al fratello uno sguardo eloquente. Gianni aprì subito la busta, ne estrasse un foglio e lo lesse aggrottato. Le sorelle e il cognato erano muti e immobili attorno a lui. Gianni continuava a leggere il foglio in silenzio. Lilla non poté trattenersi: “Leggilo a tutti, che dice?”. Il fratello glielo porse: “Non ci capisco niente, guarda tu”. La madre, che pareva essersi rianimata sorprendentemente presto e seguiva la loro conversazione, alle parole di Gianni si accasciò di nuovo sui cuscini lamentandosi. Questa volta nessuno le diede conto perché Gianni aveva cominciato a leggere ad alta voce: Questo testamento vero non è, perché vi ho dato tutto quello che vi toccava, e non ho niente di vostro da darvi, ma vi domando di fare come vi dico per l’ultima volta e vi porterò roba. Voglio un funerale a Roccacolomba senza processione di orfanelle o di monache e tutti gli Alfallipe ci dovete essere, perché me lo merito. Sarò seppellita nella tomba che mi sono comprata di fronte quella della vostra famiglia, come è di giusto per la “criata” che sono di casa Alfallipe. Ci voglio la mia fotografia e le parole: “Qui giace Maria Rosalia Inzerillo intesa la Mennulara che entrò a tredici anni nella casa degli Alfallipe e la servì e protesse da onesta persona di casa fino alla morte”. A Roccacolomba non ho roba da lasciare, la casa dove muoio è intestata alla signora Adriana, se vuole restarci a vivere, ma dovete trovarle una brava cameriera e pagarla bene, così che è sempre servita fino a quando muore. La roba in camera mia datela a padre Arena, se gli serve per i poveri e la chiesa. Tutto il resto di mobilia va alla signora Adriana. Voglio che mettete subito un annuncio sul “Giornale di Sicilia” come lo scrivo io, parola per parola: Oggi si è spenta Maria Rosalia Inzerillo detta la Mennulara all’età di anni 55 amministratrice e persona di casa Alfallipe. Addolorata annuncia la famiglia Alfallipe la loro inconsolabile perdita eterna. Ne danno il triste annuncio la signora Adriana Mangiaracina, vedova dell’avvocato Orazio Alfallipe, il figlio Gianni con la moglie Anna Chiovaro, la figlia Lilla con il marito dottor Gian Maria Bolla e la figlia Carmela con il marito Massimo Leone. Dall’età di 13 anni visse in casa Alfallipe e servì onestamente la famiglia che sconsolata la piange. I funerali saranno celebrati alle ore 15 nella chiesa dell’Addolorata il giorno 24 settembre 1963 e la salma sarà accompagnata al cimitero di Roccacolomba per la tumulazione nella tomba di famiglia. Non informate i miei nipoti. Non ce li voglio al mio funerale. L’anima a Dio e la roba a chi tocca. La prima a parlare fu la madre: “Ve lo dicevo che Mennù avrebbe pensato a tutto, mi lascia la sua casa… ma chi di voi baderà a me, ora che sono sola?”. Si era sollevata dai cuscini e si guardava intorno, appollaiata sul letto. I figli e il genero, muti e lividi, la ignoravano. Massimo nel frattempo aveva tolto il foglio dalle mani di Gianni, e lo scrutò a lungo. All’improvviso cominciò a inveire alzando gradualmente la voce: “Che documento è questo! E i denari dove sono, e a chi li lascia? Mi sono preso merda in faccia per questa puttana perché tu, tu…” urlava puntando il dito verso la moglie, “tu mi dicevi che ci avrebbe rispettati alla morte! Cretina che sei!”. Carmela scoppiò in lagrime e andò a rifugiarsi sul letto accanto alla madre, mentre Gianni cercava di calmare il cognato ricordandogli che non erano a casa loro e che nell’altra stanza c’erano già persone in visita di lutto, prontissime ad ascoltare per poi spettegolare in paese. Lilla si era seduta in disparte ed era intenta a rileggere la lettera. Poi parlò a bassa voce, controllando a fatica la rabbia che le gonfiava il petto; la sentiva salire per la gola e immischiarsi alle parole: “Ha organizzato tutto lei, si è scelta anche l’ora del funerale, e la lettera se la sarà fatta scrivere dal dottor Mendicò, si vede che è la calligrafia di un altro. È una lettera perversa, non vuole la sua famiglia, forse avevano rotto i rapporti, nessuno di noi se ne può sorprendere; mentre invece vuole, anzi comanda ancora una volta, che siamo noi a pagarle le spese del funerale e a inserire questo annuncio assurdo, umiliante, sgrammaticato e inusitato per una cameriera, anzi ‘criata’ come lei si definisce, nientedimeno che sul ‘Giornale di Sicilia’, proprio lei che è sempre vissuta in questo paese ed è sconosciuta altrove. Non ha nemmeno pensato di pubblicarlo su ‘La Sicilia’, il quotidiano della provincia, voleva la notorietà della sua morte sul giornale che si legge in tutta l’isola. È una megalomane, il testo non è altro che un’apoteosi, un panegirico su se stessa, non l’avrei mai creduta così vanesia e irresponsabile. È l’ultimo sopruso che dovremo sopportare. Per giunta si beffa di noi: pur dicendo che non ha niente da lasciare, ci dice che la continua obbedienza ci porterà bene, che affronto…”. Tale era la rabbia che Lilla non riuscì a finire; gli altri la guardavano esterrefatti. Erano sopraggiunte intanto altre persone per commiserare. La stanza echeggiava dei discorsi enfatici del lutto. Proprio in quel momento si levò dal soggiorno la voce stridula di una donna che pareva gridare la merce al mercato: “Santa donna era! Che vita di lavoro e sacrifici! Non se lo meritava di morire!”. La voce venne sommersa da un coro inintelligibile, senza dubbio tutte assieme stavano tessendo le lodi della morta. Lilla riprese a parlare con astio: “Si meriterebbe che aprissi la porta per dirlo chiaro e tondo, alla gente, che non si pianga per questa cameriera che ora si beffa di noi senza pietà!”. Massimo era in piedi, le mani strette sulla spalliera di una sedia, quasi cercasse di stritolarla. Disse ad alta voce, come se volesse farsi sentire da tutti in casa: “Sempre e soltanto ha voluto mortificarci; questa carta è piena di fiele”. Gianni aggiunse concitato, rivolto a Lilla: “Tu vivi a Roma, ma io insegno all’università e porto il nome degli Alfallipe: mettere sul giornale un annuncio del genere sarebbe una vergogna insostenibile per me e Anna, la gente ci prenderà per incapaci e fessi per giunta, tutti rideranno di me”. Carmela si mise a strillare: “Tu almeno te ne sei andato via, ma a me chi ci pensa?, sono io che vivo a Roccacolomba, cosa dirà la gente?”. Parlavano tutti assieme, camminavano per la stanza rabbiosi e frustrati, come belve in gabbia. La signora Alfallipe, esile e quasi adolescenziale mentre se ne stava raggomitolata tra i cuscini sul grande letto, li seguiva con gli occhi liquidi di lagrime, sorpresa e sgomenta. Dovette intervenire per scongiurare una scenata e sorprese se stessa e gli altri per la fermezza con cui parlò: non le interessavano le disposizioni funerarie, a cui aveva prestato poca attenzione, lei pensava alla roba dei figli, e loro dovevano pensarci più di lei, che dopo tutto era anziana e sarebbe morta presto, se lo sentiva nelle ossa: “Malo carattere e furba sì, ma onesta era, e ci ha servito tutti; che le facciamo il funerale è giusto. Credetemi, vi darà quello che vi spetta, non ho dubbi. Questa lettera forse è soltanto per le disposizioni del funerale, un testamento ci sarà. Potrebbe darsi che abbia organizzato le cose per evitare di pagare imposte di successione, non le piaceva pagare tasse a Mennù. Per carità, calmatevi, ci sono persone di là”. E si sciolse in lagrime, estenuata dalla lunga invettiva. Anche Carmela era preoccupata per l’eredità e si aggrappava a un filo di speranza: “Però c’è una cosa da ricordare, che Mennù ha sempre mantenuto la parola, e me lo ha detto fino a ieri sera, di fare come dice lei e avremo la roba. Può darsi che ci sia un testamento dal notaio o altrove, o che abbia già fatto delle donazioni, o che ci abbia intestato i conti in banca e noi non lo sappiamo… bisogna cercare nei suoi cassetti. Non era il tipo da fidarsi del dottor Mendicò, che è mezzo stolido. Che ne dici, Massimo?”. Cercava l’approvazione del marito, che dava le spalle a tutti e stava in piedi davanti al balcone. Massimo non si mosse. Carmela impallidì e si buttò di nuovo sul letto della madre, singhiozzando. Santa ora bussava alla porta, curiosa e preoccupata. Le altre donne avevano sentito un gran vociare e morivano dalla voglia di sapere cosa stesse succedendo. Chiese cautamente se potevano entrare delle persone a fare le condoglianze alla signora Adriana. La stanza si riempì di nuovo di gente e il gruppo familiare si sciolse. Massimo si era dileguato senza salutare nessuno e non lo si vide fino al tardo pomeriggio. Nel modesto appartamento della Mennulara non c’era mai stata tanta folla: le visite continuarono fino all’ora di pranzo; oltre alla gente del suo ceto vennero anche alcune parenti e amiche intime della signora Adriana, perfino certi vecchi impiegati di casa Alfallipe. 2. Il pomeriggio del giorno della morte la famiglia Alfallipe prende delle decisioni fatidiche e i fratelli Alfallipe passano la notte ognuno per i fatti propri anziché fare la veglia Nel primo pomeriggio, durante un breve intervallo tra le insopportabili visite di lutto, Lilla propose un piano d’azione: “Prima di tutto, dobbiamo organizzare il funerale perché la salma non può restare qui per sempre. Facciamo come dice lei, mi pare adeguato. Dopo di che entreremo in camera sua e cercheremo il testamento o qualsiasi altra disposizione scritta. Chiameremo appena possibile il notaio Vazzano, rintracceremo il ragioniere o il commercialista che si occupava della dichiarazione dei redditi, dobbiamo appurare chi sia. Per quanto riguarda il necrologio, io sono contrarissima a far pubblicare l’annuncio su qualsiasi giornale, dopo tutto era una cameriera”. La signora Alfallipe, rinvigorita dalle visite e dalle lodi che si moltiplicavano sulla defunta, si oppose con una determinazione che stupì i figli. Voleva che si facesse l’annuncio almeno in paese, scritto come voleva Mennù. Parlò a lungo e con voce forte: “Dopo la morte di vostro padre io ho avuto una vita tollerabile soltanto grazie a Mennù. Voi giustamente avete le vostre famiglie e vivete a casa vostra, nessuno di voi si è offerto di ospitarmi o di venire a vivere con me a casa Alfallipe”. Fece una pausa e guardò Gianni, il figlio maschio e prediletto, poi riprese: “Eppure eravate tutti d’accordo che sarei dovuta rimanere lì da sola. Di notte il vento fa sbattere le persiane, i vetri delle finestre tremano tutti e ci sono altri mille rumori. Io ho paura. Di giorno le stanze vuote e i corridoi deserti di quella casa mi fanno tristezza, per non parlare del freddo d’inverno e delle spese di manutenzione. A me non avete pensato, soltanto a quello che dice la gente pensavate. Io ho bisogno di compagnia. La proposta di Mennù che io dormissi e mangiassi da lei era la migliore. Di giorno ero libera di andare a casa mia come e quando volevo, ho continuato a ricevere e a usare le mie stanze, che Mennù ha tenuto pulite e ordinate, non mi ha mai lasciata sola qui o a casa Alfallipe, lo sapeva che sarei morta di paura: Mennù a me ha badato benissimo e il funerale e l’annuncio funebre se li merita proprio”. Sorpresi dal tono deciso della madre e consci del velato rimprovero nei loro confronti, dovettero arrendersi al suo desiderio. Si raggiunse così un compromesso: il necrologio si sarebbe fatto, ma soltanto per le strade del paese, e il testo sarebbe stato riscritto. Con loro grande sorpresa Massimo, a cui Carmela aveva subito telefonato per comunicargli le decisioni finali, si era offerto di occuparsene personalmente, e tutti gliene furono grati. Il resto della giornata trascorse velocemente. La signora Alfallipe era distratta e confortata dalle telefonate affettuose delle amiche e dalle visite. Pareva non si stancasse mai di ripetere i particolari della lunga malattia della sua Mennù, la dolorosissima agonia, lo sconvolgimento causato dalla morte improvvisa; anzi, traeva conforto dall’autocommiserazione, che questa volta era più che giustificata. Volle che Gianni restasse accanto a lei, e così gravò meno sulle figlie che ebbero l’opportunità di dedicarsi alla miriade di cose che c’erano da fare, tra cui i preparativi per il ritorno della madre a casa Alfallipe, ormai inevitabile, almeno temporaneamente. Gianni e Carmela, che conoscevano meglio la gente del paese, rimasero coinvolti nel giro di telefonate e di visite che si susseguivano incalzanti e numerose nel piccolo appartamento della Mennulara. Lilla aveva lasciato Roccacolomba da quando si era maritata. Aveva mantenuto pochissimi contatti, e dunque ebbe il compito di dare disposizioni a Santa sui preparativi per i giorni seguenti e le pulizie a casa Alfallipe, dedicandosi intanto alla ricerca del testamento. Il notaio Vazzano, infatti, a cui aveva telefonato, aveva ammesso con alquanto imbarazzo di non avere nessun testamento né altra disposizione della Mennulara, e suggeriva un’accurata ricerca nei suoi cassetti. Lilla aveva tentato di frugare nei cassettoni e negli armadi di casa, quando non c’era gente attorno, ma non aveva trovato un granché: fotografie dei nipoti, bollette e ricevute di pagamenti, un quadernetto pieno di cifre e addizioni, liste della spesa, annotazioni e perfino bozze di annunci funebri. Decise dunque di fare una ricerca più sistematica a casa Alfallipe. Nel tardo pomeriggio Lilla ritornò al palazzo di famiglia. Le fece impressione aprire il portone con la grossa chiave di ferro, entrare da sola nella casa in cui era vissuta da ragazza, con i genitori e la nonna, avviarsi verso le stanze di servizio, attraversando ambienti che non vedeva da tanti anni: la stanza dove le cameriere stiravano, l’anticucina, la grande cucina mai rimodernata. Salì poi per l’angusta scala di legno che portava nelle stanze delle cameriere, nell’ammezzato un tempo occupato dalla numerosa servitù, dove Mennù aveva dormito da sola per anni. Nonostante ci fosse polvere ovunque era evidente che le camere erano state periodicamente pulite e riordinate. Sembrava che la casa fosse stata chiusa per la villeggiatura estiva: i letti erano coperti con tele vecchie ma pulite, gli oggetti e le suppellettili erano stati riposti negli armadi, per evitare che si impolverassero, i bagni e i lavelli erano immacolati. Non trovò nulla di quello che cercava, tranne liste del contenuto degli armadi, scritte a stampatello nella grafia incerta di Mennù. Col calar della sera Lilla divenne conscia dei rumori, scricchiolii e tonfi di porte, cigolii di cerniere, il frusciare al vento degli alberi del giardino interno, i battiti di ali degli uccelli i cui nidi erano nascosti sotto i cornicioni, e condivise, per la prima volta, le ansie della madre: trovò perfino conforto al pensiero che quella sera avrebbe dormito nella casa della cameriera. Gianni Alfallipe era un uomo di indole tranquilla, ed era rimasto intontito dagli avvenimenti degli ultimi giorni. Conduceva una vita serena e regolata, a Catania, con la giovane e amatissima moglie, anche lei docente universitaria. Mennù lo aveva informato della vera natura del suo male all’inizio del mese, dandogli tuttavia l’impressione che non sarebbe morta così velocemente. Per fortuita coincidenza Lilla era arrivata a Catania il sabato precedente per affari, altrimenti sarebbe venuta per la consueta visita alla madre a fine mese, prendendo il primo aereo della mattina per ritornare a Roma con l’ultimo volo. La sera precedente Carmela li aveva informati del peggioramento delle condizioni di Mennù e aveva chiesto che venissero immediatamente. Le sorelle avevano intanto deciso, su suggerimento di Carmela, che non si facesse la veglia tradizionale. Soltanto Lilla e la madre, che aveva rifiutato di lasciare la salma da sola, sarebbero rimaste per un’ultima notte in quella casa. Gianni sarebbe ritornato l’indomani in mattinata, con la moglie, in tempo per il funerale. Avrebbero riaperto casa Alfallipe per riportarvi la madre, con loro sollievo e immensa ansia della diretta interessata, ponendo così fine a quella deplorevole coabitazione nella casa della cameriera. Soltanto quando si fu lasciato Roccacolomba alle spalle, Gianni riuscì a inquadrare la situazione. Mennù era stata parte della sua vita fino all’adolescenza, inizialmente cameriera-bambinaia devota e affettuosa, poi cameriera-amministratrice dei beni di famiglia. Si era progressivamente inasprita, ma era rimasta il perno di casa Alfallipe: lo spronava allo studio, gli faceva prediche spesso incomprensibili sulle insidie del mondo moderno e sull’importanza della loro posizione sociale, insistendo che doveva fare onore al nome che portava. Tanto che alla fine era stato ben lieto di sfuggire alla opprimente atmosfera domestica per frequentare le scuole superiori in collegio a Catania. Da allora Gianni si era allontanato emotivamente da tutta la famiglia, compresi i genitori: disprezzava l’autocommiserazione e la scarsa cultura della madre, che lo aveva sempre oppresso con il suo attaccamento egoista e ansioso; col padre aveva cementato una reciproca incomprensione. Dopo la morte di quest’ultimo Gianni non aveva esitato a togliere a Mennù l’amministrazione del patrimonio familiare. Le sorelle avevano seguito il suo esempio, e così avevano distrutto la base del suo potere all’interno della famiglia; Mennù non era riuscita a riacquistarlo nemmeno con la indecorosa decisione della madre di andare a vivere a casa sua, ma poi lo aveva riottenuto, almeno in parte, con un costoso stratagemma: al fine di obbligarli a visitare assiduamente la madre, si era offerta di corrispondere ai tre fratelli una sorta di stipendio mensile, purché si recassero a Roccacolomba per percepirlo. Ogni qual volta non avessero adempiuto alla sua imposizione, avrebbero dovuto rinunciarvi. Questo avveniva piuttosto di rado: si trattava di una somma non insignificante e il denaro faceva comodo a tutti. Con la morte di Mennù si era così chiusa una fase della vita di Gianni. Ora avrebbe potuto concentrarsi sulla sua carriera e sulla famiglia che sperava di crearsi con la moglie; rimanevano ancora l’enigma della ricchezza apparentemente immensa di Mennù e le difficoltà che probabilmente avrebbero incontrato cercando di entrarne in possesso – nonché il problema di accudire la madre –, ma lui si augurava che si sarebbero risolti col tempo. Come il padre, Gianni aveva una notevole capacità di rimuovere tutto ciò che lo turbava: non appena la macchina ebbe superato il bivio di Roccacolomba, e la strada prese a scendere a valle per un pendio lento e continuo, attraversando i folti boschi di quercia dei feudi dei principi di Brogli, che i suoi avi avevano amministrato per generazioni, cominciò a pregustare il piacere di rivedere la moglie, oblioso del paese e dei suoi abitanti. Quella sera, però, gli venne un gran bruciore allo stomaco e la notte dormì male. 3. Massimo Leone incautamente festeggia a modo suo la morte della Mennulara Senza alcun dubbio fu Massimo Leone che invece ebbe una giornata di soddisfazione. Nel pomeriggio si era occupato dell’organizzazione del funerale. Aveva composto il necrologio come concordato dai familiari. Lo avrebbe scritto in modo ancora più stringato, ma bisognava far contenta la suocera che era, a suo parere, una gran commediante capace di improvvisare una crisi isterica e di fingere un malore per ottenere ciò che voleva. Il funerale sarebbe stato semplice, niente di più di quello che la posizione sociale della defunta richiedeva, e Massimo era stato gratificato e confortato dai sinceri ringraziamenti dei cognati, soprattutto perché gli era rimasto addosso un misto di imbarazzo e vergogna per aver trasceso davanti a tutti. La sera avevano cenato in casa da soli. Carmela gli stava raccontando delle visite ricevute, quando a un tratto si interruppe: “Ma che succederà il 25?”. “Ci ho pensato stamattina. Lo sai da dove li ritirava i denari?” “Le arrivavano per posta, mi pare,” rispose Carmela, impappinandosi. “Come lo sai?” incalzò Massimo aggressivo. “Diceva sempre che doveva andare alle Poste il 25 perché san Paganino le avrebbe mandato i soldi.” “Allora arriveranno come prima,” concluse Massimo. “E chi ci va a prenderli?” chiese Carmela, mentre i suoi occhi azzurri si incupivano all’idea che quella nuova incombenza ricadesse su di lei. “Senti, oggi è stata una giornata campale, a questo ci pensiamo domani.” E finirono di cenare in fretta. Dopo cena Massimo se ne uscì per raggiungere gli amici al bar in piazza. Carmela si era risollevata e, rimasta sola, iniziò a fare lunghe telefonate alle amiche – con cui peraltro si sentiva ogni giorno – per annunciare la morte della Mennulara a quelle poche che ancora non ne erano al corrente. Raccomandò a tutte di non scomodarsi per venire al funerale, che sarebbe stata una cosa per pochi intimissimi e a un orario inconsueto: per partecipare avrebbero dovuto rinunciare al riposino pomeridiano, e non era davvero il caso dato che si trattava pur sempre di una cameriera. Nemmeno in quell’occasione riusciva a trattenersi dal lamentarsi di Mennù, e concluse ogni telefonata dicendo con una punta di malizia: “Vero è che non si parla male dei morti, ma era difficile di carattere e c’è voluta la pazienza degli angeli per sopportarla… Massimo è un santo, tanto ha patito per colpa sua, eppure oggi ci ha aiutato moltissimo”. Carmela omise che la famiglia avrebbe fatto affiggere per le strade un annuncio mortuario perché se ne vergognava. Camminando verso la piazza, Massimo fu assalito dai soliti pensieri di sconforto e paura. Mentre nel pomeriggio aveva pregustato l’incontro con gli amici e tutto quello che c’era da raccontare, ora invece aveva paura del futuro, era finita la certezza di un reddito che, seppur dimezzato, gli aveva permesso di tenere a bada i creditori, dopo il fallimento della sua attività commerciale. Ripensava alla conversazione con Carmela, che tanto scema non era, dopo tutto. Si era lasciato convincere dai cognati e dalla moglie che il testamento avrebbe nominato eredi gli Alfallipe. Ora balenava la possibilità che, invece, la cameriera non avesse avuto intenzione di fare alcun testamento, e dunque la roba sarebbe toccata ai nipoti. Tutto gli era chiaro. Per questo non aveva voluto che andassero al funerale, era l’ultima beffa fatta alla famiglia: “Mi sono arricchita alle vostre spalle, vi faccio anche sostenere le spese del mio funerale e ora lascio tutto ai miei eredi legittimi”, così quella doveva avere malignamente pensato. Alla sola ipotesi che le cose fossero andate così Massimo ebbe una sorta di mancamento, un freddo, un tremore alle gambe. Se ne sarebbe tornato a casa se non avesse ricevuto una pacca sulla spalla. “Uomo forte sei, Massimo, dopo una dura giornata a casa Alfallipe a uscire non ci rinunci!”, al che si fece forza e insieme all’amico proseguì verso il bar, dove bevve molto e tenne banco parlando quasi tutto il tempo della Mennulara: da anni desiderava la sua morte, di offese gliene aveva fatte tante, era una ladra e si era comprata la casa e chissà che altro con i denari rubati a sua moglie e ai fratelli. Massimo lo ripeteva a chiunque si unisse alla compagnia. Lo ripeteva ossessivamente, alla ricerca di consenso: “Quella di male azioni tante ne aveva fatte che si meritava di morire ammazzata. Magari io stesso l’avrei fatto, con le mie mani, e invece alla fine non ce ne fu bisogno, il suo proprio veleno le risaliva dalle budella e la affogò”. Confortato dal bere, rianimato dalla speranza dell’eredità e incoraggiato dalla maligna esuberanza degli amici, Massimo lasciò da parte i dubbi che lo avevano assalito per strada, e pregustando la ricchezza che sarebbe finalmente ritornata agli Alfallipe non ebbe timore di far mostra della sua esaltazione. Nel gaudio generale concluse che aveva giurato che non avrebbe raggiunto i quarant’anni con quella canaglia tra i piedi, e l’anno prossimo avrebbe celebrato il fatidico compleanno a Taormina: gli amici erano tutti invitati alla sua festa, solo uomini, si capisce. Era già notte tarda quando, barcollando sbronzo sulla via di casa, Massimo ebbe la netta sensazione di aver parlato troppo. Ed ecco di nuovo i suoi fantasmi. Dopo tutto la Mennulara, per malvagia che fosse, aveva un certo senso di giustizia e, nonostante l’avversione che provava per lui, non aveva trattato Carmela in modo diverso dai fratelli, come aveva temuto inizialmente. In verità, dal gennaio di quell’anno la Mennulara anziché consegnare a Carmela l’intera somma pattuita, aveva instaurato il sistema di saldare i suoi conti direttamente ai negozianti, dandole il resto in liquido. Sua sorella voleva sapere se i sospetti della Mennulara fossero fondati. Aveva alzato le mani su Carmela? Massimo aveva negato goffamente l’accusa, sostenendo che in qualunque caso era dovere e diritto di un marito tenere la propria moglie al suo posto e farsi rispettare da lei, anche facendo ricorso alle mani se necessario, ma nel caso loro non ce n’era bisogno perché lui sapeva prendere Carmela per il verso giusto: la Mennulara era solo una donna perfida e bugiarda che voleva distruggere la sua felicità coniugale. Dopo quella conversazione, Massimo evitava di rimanere solo con la sorella maggiore, a cui peraltro voleva bene e che quando era bambino lo aveva sempre aiutato e protetto dalle bastonate dal padre. Ma lui sapeva cosa aveva insospettito la Mennulara. Durante un bisticcio, la notte di Capodanno, forse perché aveva bevuto molto, un pugno diretto al seno di Carmela le era andato a finire sul collo procurandole un grosso livido. Carmela aveva cercato di nasconderlo con una sciarpa, e lui stesso le aveva regalato un bel foulard di seta per farsi perdonare, ma quella strega che tutto vedeva e sapeva se n’era accorta. Da allora Massimo aveva imparato a limitarsi a picchiare la moglie da sobrio, per poter colpire parti nascoste allo sguardo altrui. Quando tornava a casa ubriaco con una incontrollabile voglia di rifarsi contro Carmela della rabbia che lo mangiava vivo e del senso di inadeguatezza che lo torturava, anziché prenderla a legnate la possedeva con violenza, le si svacantava dentro fino alle viscere. Dopo essersi spremuto tutto l’odio e il risentimento che nutriva contro il mondo, riusciva a trovare riposo, disfatto ma sazio accanto alla moglie tramortita. Quel rito in realtà era diventato quasi gradevole per entrambi. Carmela lo aveva interpretato come un ritorno alla passione e prova d’amore, nonostante l’intenso dolore fisico. Così fecero anche quella notte. 4. A casa Mendicò la conversazione tra fratello e sorella il giorno della morte Il dottor Mendicò viveva da tre anni con la sorella Concetta vedova Di Prima, nella vecchia casa di famiglia. Si erano ritrovati vedovi e soli, e Concetta era ritornata a Roccacolomba. I loro figli vivevano tutti in altre città, e perfino in continente. “Questa è la ricompensa delle mamme che educano bene i figli: quelli studiano, si sposano, hanno successo e poi se ne vanno,” ripeteva spesso la sorella, “e noi vecchi restiamo soli e tristi in paese.” I due fratelli, in realtà, vivevano assieme piacevolmente. Avevano ripreso un’antica abitudine della loro fanciullezza: suonavano il pianoforte a quattro mani quasi ogni sera. Tre volte l’anno andavano a visitare i rispettivi figli e nipoti e partecipavano alla vita sociale del paese con gusto e assiduità, nonostante avessero ormai superato la settantina. La signora Di Prima aveva riallacciato vecchie amicizie e il dottore non esercitava più a tempo pieno; faceva le visite a domicilio in tarda mattinata e nel pomeriggio, riceveva i pazienti a giorni alterni e soltanto per mezza giornata nello studio ricavato nella casa in cui abitavano, come avevano fatto prima di lui suo padre e suo nonno. Ambedue traevano soddisfazione dal contatto umano che il medico crea non soltanto con il paziente ma con l’intera famiglia, e che, in un paese come Roccacolomba, si trasformava spesso in un affettuoso rapporto di amicizia. Così il dottor Mendicò continuava a curare schiere di pazienti fedeli e devoti, suscitando l’invidia della nuova generazione di medici di Roccacolomba. Quando il fratello era irreperibile, la signora Di Prima elargiva consigli e talvolta giungeva a suggerire rimedi ai pazienti, con loro grande soddisfazione; per non parlare delle giovani mamme, che quasi preferivano consultarsi con lei quando si trattava di influenze e raffreddori dei piccoli. Seduto sul balcone a prendere un aperitivo, nel tepore del sole autunnale, il dottore raccontava alla sorella la scena a casa della Mennulara: “In quasi cinquant’anni di professione non mi è mai capitato di dover rimanere solo con una moribonda, come ho fatto oggi. Nessuno degli Alfallipe, neanche la signora Adriana, ha sentito il dovere o la decenza di stare vicino a quella disgraziata piena di sofferenze e confortarla. Dopo, ascolta questa, dopo che ho annunciato loro che era morta, a parte la signora e Santa, non ci fu una lagrima dai figli, nessuno mi chiese niente, com’era morta, se aveva sofferto, se poteva andare a vederla, niente, capisci? Come se fosse morto un cane. Gianni Alfallipe fu il primo a rivolgermi la parola, e che mi chiese? Voleva sapere se Mennù mi avesse dato qualcosa per loro, una lettera, un testamento”. Il dottore si era accalorato, le guance gli erano diventate paonazze: “Quando è troppo è troppo… manco lo guardai, e chiesi a tutta quella bella gente: ‘Ma non la volete vedere prima, Mennù?’”. Fece una pausa, gli mancavano le parole. Bevve un sorso dal bicchiere, si guardò intorno e posò gli occhi sui vasi di terracotta straripanti di gerani che la sorella curava con amore e che erano una bellezza: rossi e viola, i fiori spiccavano rigogliosi tra le foglie carnose e rotondeggianti come ventagli. Poi riprese a parlare: “Soltanto Santa, che pareva aspettasse di averlo detto, entrò subito con me nella stanza dove giaceva la Mennulara, gli Alfallipe ci seguivano muti. Non mostravano nessuna emozione, rimasero in piedi dinanzi la salma come dei cocomeri, parevano imbarazzati, quasi infastiditi”. Il dottore si interruppe, vergognandosi di quel giudizio pesante e forse incauto, certamente privo di compassione: il dolore si manifesta in tanti modi, forse erano soltanto riservati e intimiditi dalla sua presenza. Era il medico curante degli Alfallipe da quarant’anni e rotti, ma ormai non c’era più intimità con i figli: Lilla e Gianni vivevano fuori da tempo, e da quando si era sposata Carmela aveva scelto un altro dottore. Disse ad alta voce: “Forse sono troppo severo con loro, ma io alla Mennulara volevo bene”. E si finì il Cynar. Il lunedì pomeriggio il dottor Mendicò non riceveva pazienti, pertanto decise di riposarsi. Era stanco, negli ultimi giorni era andato dalla Mennulara mattina e pomeriggio. Si svegliò rinvigorito dal pisolino e rimase a letto, ascoltando musica alla radio. Prese svogliatamente in mano il libro che tempo prima aveva cominciato a leggere con passione, ma non riusciva a concentrarsi, non lo interessava più. Chiuse le palpebre e nel tepore sudaticcio delle lenzuola gli affiorò alla memoria il ricordo del suo primo incontro con la Mennulara, sepolto e dimenticato da mezzo secolo. Era un giovane dottore. Si era laureato da poco, suo padre era morto prematuramente e ora toccava a lui proseguire la tradizione familiare e mantenere la madre e le sorelle. Il lavoro gli piaceva e aveva l’energia della gioventù. I notabili del paese e la vasta clientela del padre lo avevano preso a benvolere. Si accorgeva tuttavia che le famiglie abbienti lo chiamavano per disturbi di poco conto o per curare le loro persone di servizio, si sentiva come se gli facessero fare il tirocinio su quei poveracci. A lui questo non dispiaceva, era una sfida cercare di curare i malanni causati dalla alimentazione inadeguata e dalla mancanza di igiene, dosare efficacemente le scarse medicine che lui poteva permettersi di regalare o i pazienti di acquistare, e così imparava presto e bene il mestiere di medico, e anche di chirurgo, all’emergenza. La famiglia Minacapelli, una grossa e rispettata casata della provincia, lo aveva preso in simpatia. Un giorno la signora Carmela Minacapelli gli chiese se era disposto a visitare la famiglia della cameriera preferita di sua figlia Lilla. La poveretta aveva lasciato il servizio per sposarsi, e da allora si erano abbattute su di lei ogni sorta di malattie e disgrazie. La portiera lo aveva accompagnato di malavoglia dagli Inzerillo, e dopo avergli indicato la porta della loro casa si era dileguata. Luigi Inzerillo tossiva, seduto fuori l’uscio; il dottore pensò che il paziente fosse lui, ma gli fu subito detto che era la moglie a stare peggio, e avevano ragione. Addoloratina, la figliola, lo accompagnò in casa. Gli Inzerillo vivevano in una stalla della famiglia Minacapelli, poco distante dal loro palazzo, adiacente alle stalle ancora in uso. Era priva di luce naturale e ventilazione, umida e infestata del fetore delle stalle, dove venivano tenuti capre e cavalli. Non era sporca, ma neanche pulita. Il dottor Mendicò era arrivato prestissimo alla diagnosi: Nuruzza Inzerillo aveva la polmonite. Bisognava farle dei salassi, in mancanza di altro rimedio per la febbre alta. In fretta, prima che facesse buio, se ne andò a casa e ritornò con l’occorrente. Sotto lo sguardo ansioso del marito e quello spaurito della figlia, alla luce tremolante di una candela le applicò le sanguisughe sulle spalle. Con destrezza staccava i vermi gonfi di sangue, li riponeva nelle ampolle di vetro e li sostituiva con altri affamati, operazione sgradevole ma efficace. Provava un senso di disagio, si sentiva osservato, quasi controllato. Sbirciò con la coda dell’occhio quei due poveracci che gli stavano accanto, ma non erano i loro sguardi impauriti e ansiosi a dargli quella strana e inquietante sensazione. Ripose le sanguisughe nel contenitore, chiuse la borsa e si alzò, dopo aver rassicurato la malata. Sentì un frusciare proveniente dalla parete di fondo e nella semioscurità si vide puntato da due occhi grandi e neri. Luigi Inzerillo sollevò la candela e il dottore riuscì a intravedere un volto di bimbetta, circondato da folti ricci scuri, che emergeva dalla mangiatoia in fondo alla stalla. Si guardarono. “Bene facisti,” disse una voce chiara e squillante, in tono di approvazione e senza alcuna timidezza. Poi con un guizzo la testina si tuffò nel cavo del muro e scomparve. Luigi Inzerillo disse: “Mamà meglio sta, ora dormi”, e poi, rivolto al medico, spiegò imbarazzato: “È l’altra mia figlia, Rosalia, la deve scusare, dottore, neanche quattro anni ha, non le voleva mancare di rispetto”. Questo era stato il suo primo incontro con la Mennulara, e la prima volta che lo sorprendeva. Da allora il dottor Mendicò ebbe a visitare spesso gli Inzerillo e la loro figlia maggiore. Oltre alle malattie di Luigi e Nuruzza, soffrivano tutti e tre di tubercolosi; la piccola era rimasta miracolosamente sana e sotto la sua guida divenne un’abile infermiera, svelta a imparare i rimedi erboristici che lui, non potendo disporre di costose medicine, le insegnava a preparare e a somministrare. Era una ragazzina attenta, piena di risorse e, nonostante le disgrazie, allegra. Il dottore sprimacciò il cuscino e si appisolò di nuovo. Quel pomeriggio la signora Di Prima ricevette molte telefonate: alle amiche era giunta notizia della improvvisa morte della Mennulara ed erano avide di dettagli. Non essendo riuscita a rispondere, come avrebbe voluto, a tutte le domande, la signora Di Prima approfittò della cena per riprendere l’argomento col fratello. “E il testamento l’avevi? Lo hai dato tu a Gianni?” “Una lettera avevo da dargli, gliel’ho data, come voleva lei.” “Tu l’hai letta?” “Dovevo farlo.” “Perché?” “Ci mancava una cosa.” “Che cosa?” “Questo non ti riguarda, curiosa.” I due fratelli si divertivano a battibeccare, come facevano da ragazzi. “Era un testamento?” “Non mi pare.” “Ma che ricchezza poteva mai avere questa cameriera?” “Che ti interessa, a te? Sei diventata peggio delle femmine pettegole del paese!” “Se ne aveva, doveva essere roba degli Alfallipe, regalata o magari rubacchiata, ma escludo che lo stipendio che le davano le abbia permesso di comprarsi l’appartamento in cui viveva!” “È complicato spiegare,” disse il dottore, con un tono da fratello maggiore, “tu devi capire e ricordarti che tutto quello che appartiene agli Alfallipe è stato dato agli Alfallipe, e quello che appartiene alla Mennulara è sempre stato suo e basta. Se lo è guadagnato sudando sangue.” “Che ne sai tu di queste cose?” “Comunque sia, non dimenticare che era una paziente difficilissima ma una gran brava persona. Domani al funerale ci andiamo assieme, se vuoi.” Il dottore sperava con ciò di porre fine alla conversazione, e questa volta ci riuscì. 5. La sera della morte della Mennulara se ne parla nel cortile della portineria di Palazzo Ceffalia Don Paolino Annunziata era stato per breve tempo cocchiere e poi autista al servizio di tre generazioni di Alfallipe; ne avrebbe servite quattro se non fosse stato congedato anzitempo, quando le fortune della famiglia erano andate in calo, dopo la morte della signora Lilla. Si era accontentato di una modesta buonuscita e di un comodato che gli permetteva di continuare ad abitare nell’alloggio dell’autista, nei corpi bassi di casa Alfallipe, accanto al garage, in cui aveva allevato con la moglie, donna Mimma, i suoi bravi figli, tutti sistemati e con buoni posti di lavoro. Insomma godeva di una gradevole vecchiaia, fatta ammenda dei reumatismi alle gambe e dei pochi denari, perché di pensione non se ne parlò mai, in quanto gli Alfallipe, avari con i dipendenti e generosi con se stessi per tradizione familiare, non vollero “metterlo in regola”, anche se di diritto gli sarebbe spettato. Ogni pomeriggio si faceva faticosamente le scalinate che lo portavano giù in piazza, a Palazzo Ceffalia, dove la cognata, donna Enza, e il marito, don Vito Militello, erano portieri. Restava a lungo a conversare piacevolmente e a osservare il passìo; si rendeva peraltro utile tenendo d’occhio la portineria quando i cognati erano impegnati altrove nel palazzo. Sovente, nel tardo pomeriggio, la moglie li raggiungeva dopo aver fatto i servizi in casa, portando del cibo cucinato da lei; così mangiavano tutti assieme nell’ampia abitazione del portiere, o addirittura, in estate, nel cortile dei magazzini, che, non più usato dalla famiglia dei padroni, era diventato parte della portineria, giardino e pollaio. Nella portineria di Palazzo Ceffalia, a tutte le ore, c’era un gran viavai di gente, parenti e amici, quasi tutti appartenenti a famiglie a servizio dei notabili di Roccacolomba, che si fermavano per salutare e riposarsi prima di riprendere il loro cammino, e per chiacchierare. Sin dalla caduta dei Borboni l’oligarchia di Roccacolomba si era mantenuta compatta, avendo goduto di un lungo periodo di stabilità e benessere. Di riflesso, le famiglie che da generazioni la servivano come domestici – cocchieri, cuoche, cameriere, balie, portieri – potevano vantare una posizione altrettanto stabile e non erano affatto indigenti, pur vivendo in condizioni di povertà. Legati ai padroni dall’antica conoscenza di generazioni – un misto di rispetto, risentimento e anche affetto reciproco –, avevano fatto propri i loro valori e i loro modelli di comportamento. Le famiglie delle persone di casa guardavano dall’alto in basso gli altri poveri del paese, che padrone non ne avevano e vivacchiavano nell’incertezza del pane quotidiano; inoltre si sentivano in un certo qual modo protetti, ma anche minacciati, a seconda della posizione dei padroni, dall’altra grande componente della società del latifondo: la mafia, che a quel tempo attraversava una fase di rapida ascesa ed era pronta a penetrare nelle province orientali.