LA RICERCA DELL'ASSOLUTO
Honoré de Balzac
A JOSÉPHINE DELANNOY NATA DOUMERE
Voglia Iddio che quest'opera abbia una vita più lunga della mia; la riconoscenza che vi ho giurata e che spero
sarà pari al vostro affetto quasi materno per me andrebbe in tal caso oltre il limite concesso ai nostri sentimenti. Il sublime privilegio di prolungare così con la vita delle nostre opere l'esistenza del cuore basterebbe, se mai fosse possibile avere una certezza in proposito, per consolare di tutti gli affanni che esso costa a chi ha l'ambizione di conquistarlo. Ripeterò dunque: Dio lo voglia!
LA RICERCA DELL'ASSOLUTO
A Douai in rue de Paris c'è una casa nella quale l'aspetto, la distribuzione dell'interno e i particolari hanno conservato, più che in ogni altro edificio, il carattere delle vecchie costruzioni fiamminghe, così ingenuamente rispondenti ai costumi patriarcali di quel bel paese; ma prima di descriverla occorre forse ribadire, nell'interesse degli scrittori, la necessità di quelle premesse didascaliche contro cui protestano certe persone ignoranti e voraci che vorrebbero emozioni senza accettarne i princìpi generatori, il fiore senza il seme, il bambino senza la gestazione. L'Arte dovrebbe essere allora più forte della Natura?
I fatti della vita umana, pubblica o privata, sono così intimamente legati all'architettura, che la maggior parte
degli osservatori possono ricostruire le nazioni o gli individui in tutta la realtà delle loro abitudini dai resti dei monumenti pubblici o dall'esame delle loro reliquie domestiche. L'archeologia sta alla struttura sociale come l'anatomia comparata sta alla natura organica. Un mosaico rivela un'intera società, come uno scheletro d'ittiosauro presuppone un'intera creazione. Da una parte e dall'altra tutto si deduce, tutto si concatena. La causa fa pensare a un effetto, come ogni effetto permette di risalire a una causa, e lo scienziato fa rivivere perfino le minuzie delle età passate. Da questo deriva senza dubbio lo straordinario interesse che suscita una descrizione architettonica quando la fantasia dello scrittore non ne alteri gli elementi; ognuno può infatti con rigorose deduzioni ricollegarla al passato, e per l'uomo il passato assomiglia straordinariamente al futuro: raccontargli quel che è stato non equivale forse, quasi sempre, a dirgli quel che sarà? Inoltre è raro che la descrizione dei luoghi dove la vita si svolge non richiami a ciascuno i suoi desideri inappagati o le sue speranze in fiore. Il confronto tra un presente che delude i desideri segreti e l'avvenire che può realizzarli è fonte inesauribile di tristezza o di dolci soddisfazioni. Per questo è quasi impossibile non esser presi da una specie di tenerezza alla descrizione della vita fiamminga, quando ne siano ben resi gli elementi. Perché? Forse perché tra le varie forme di esistenza è quella che meglio risolve le ansie umane. Non le manca nessuna delle feste e nessuno dei legami familiari, non le mancano una larga abbondanza che attesta la continuità del benessere e una tranquillità che assomiglia alla beatitudine; ma essa esprime soprattutto la calma e la monotonia di una felicità ingenuamente sensuale, in cui il piacere attenua il desiderio prevenendolo sempre. Qualsiasi valore l'uomo appassionato possa attribuire al tumulto dei sentimenti, non vede mai senza emozione le immagini di quella società nella quale i battiti del cuore sono così ben regolati che la gente superficiale l'accusa di freddezza. La folla preferisce generalmente la forza straordinaria che eccede sulla forza equilibrata che dura. La folla non ha né il tempo né la pazienza di constatare l'immenso potere nascosto sotto un'apparenza uniforme. Così per colpire questa folla trascinata dalla corrente della vita, la passione, come il grande artista, non ha altra risorsa che oltrepassare i limiti, come hanno fatto Michelangelo, Bianca Capello, la de Lavallière, Beethoven e Paganini. Solo chi calcola molto pensa che non si debba mai oltrepassare il limite, e ha rispetto solo per la virtualità destinata a rivelarsi in quella perfetta compiutezza che dà ad ogni opera la calma profonda il cui fascino prende gli uomini superiori. Ebbene, il sistema di vita adottato da quel popolo essenzialmente parsimonioso corrisponde davvero alle condizioni di felicità che sognano le masse per la vita cittadina e borghese.
Il più squisito materialismo è impresso in tutte le abitudini fiamminghe. Il comfort inglese presenta tinte secche, toni duri; in Fiandra invece i vecchi interni delle case rallegrano lo sguardo coi morbidi colori, con una schietta bonomia, esprimono lavoro senza fatica, e la pipa vi appare come una felice applicazione del far niente napoletano; inoltre rivelano un sentimento pacato dell'arte, la pazienza, che è la sua condizione necessaria, e la coscienza, elemento che rende durevoli le sue creazioni. Il carattere fiammingo è tutto in queste due parole: pazienza e coscienza, che sembrano escludere le ricche sfumature della poesia e rendere i costumi di quel paese piatti come le sue larghe pianure e freddi come il suo cielo brumoso. Ma non è così. La civiltà ha fatto sentire qui il suo potere modificando tutto, anche le conseguenze del clima. Se si osservano con attenzione i prodotti dei diversi paesi del mondo, si è subito sorpresi di vedere che i colori grigi e bruni caratterizzano specialmente le produzioni delle zone temperate, mentre i colori più smaglianti distinguono quelle dei paesi caldi. I costumi devono necessariamente conformarsi a questa legge della natura. Le Fiandre che una volta erano essenzialmente brune e votate alle tinte unite, hanno trovato il mezzo di illuminare la loro atmosfera fuligginosa con le vicissitudini politiche che le hanno successivamente assoggettate ai Borgognoni, agli Spagnoli, ai Francesi, e che le hanno portate a fraternizzare coi Tedeschi e gli Olandesi. Della Spagna hanno mantenuto lo splendore degli scarlatti, i rasi brillanti, le tappezzerie a effetti vivaci, le piume, i mandolini e i
modi cortesi. Da Venezia hanno avuto, in cambio di loro tele e merletti, quei vetri fantastici dove il vino riluce e sembra migliore. Dell'Austria hanno conservato quella cauta diplomazia che, secondo un detto popolare, fa due passi avanti e uno indietro. Il commercio con le Indie vi ha diffuso le invenzioni complicate della Cina e le meraviglie del Giappone. Tuttavia le Fiandre, nonostante questa pazienza che porta a tutto accumulare, niente restituire e tutto sopportare, non potevano esser considerate altro che il magazzino generale dell'Europa fino al momento in cui la scoperta del tabacco rinsaldò con il fumo i tratti sparsi della loro fisionomia nazionale. Da allora, nonostante lo spezzettamento del suo territorio, il popolo fiammingo esistette in nome della pipa e della birra.
Dopo aver assimilato, con la costante parsimonia della sua condotta, le ricchezze e le idee dei padroni o dei
vicini, quel paese, per natura così insignificante e privo di poesia, si creò una vita originale e costumi caratteristici, senza apparire affetto da servilismo. L'Arte si spogliò di ogni idealità per riprodurre unicamente la Forma. Per questo non domandate a tal patria la poesia plastica né lo spirito della commedia né l'azione drammatica né i voli arditi dell'epopea o dell'ode, né il genio musicale; ma essa è fertile nelle scoperte, nelle discussioni dotte che richiedono tempo e veglia. Tutto è visto sotto la prospettiva del godimento che passa. L'uomo qui vede soltanto quello che è, il suo pensiero si piega così scrupolosamente a servire i bisogni della vita, che in nessuna opera si è mai spinto oltre il mondo reale. La sola idea riguardo l'avvenire concepita da quel popolo fu una specie di moderazione in politica, la sua forza rivoluzionaria venne dal desiderio domestico di aver le mani libere a tavola e di godere una completa agiatezza all'ombra dei suoi steedes. Il sentimento del benessere e lo spirito di indipendenza che ispira il denaro produssero là prima che altrove quel bisogno di libertà che più tardi travagliò l'Europa. La costanza delle idee e la tenacia che l'educazione conferisce ai Fiamminghi ne fecero un tempo uomini formidabili nella difesa dei loro diritti. Niente da quel popolo è fatto a metà, né le case, né i mobili, né la diga, né la cultura, né la rivolta. Per questo conserva il monopolio di ciò che intraprende. La fabbricazione del merletto, opera di paziente agricoltura e di ancor più paziente industria, e quella della tela sono ereditarie come le sue fortune patrimoniali. Se si dovesse rappresentare la costanza con la più pura forma umana, si sarebbe forse nel vero scegliendo il ritratto di un buon borgomastro dei Paesi Bassi capace, come ve ne furono tanti, di morire borghesemente e senza gloria per gli interessi della sua Hansa. Ma la dolce poesia di quella vita patriarcale si troverà certamente nella descrizione di una delle ultime case che, a Douai, ne conservavano ancora il carattere, al tempo dell'inizio di questa storia.
Di tutte le città del dipartimento del Nord, Douai è quella che ahimè! si modernizza più presto, quella dove il sentimento del nuovo ha fatto le più rapide conquiste e dove è più diffuso l'amore per il progresso sociale. Le vecchie costruzioni vi spariscono di giorno in giorno, gli antichi costumi si perdono. Imperano il tono, le forme, le maniere di Parigi, e dell'antica vita fiamminga i Duacesi non serberanno fra poco che le cordialità della premura ospitale, la cortesia spagnola, la ricchezza e la pulizia dell'Olanda. Palazzi di pietra bianca avranno sostituito le case di mattoni, e la magnificenza delle forme batave avrà ceduto il posto alla mutevole eleganza delle novità francesi.
La casa dove si sono svolti gli avvenimenti di questa storia si trova all'incirca a metà della rue de Paris, e a Douai, da oltre duecento anni, porta il nome di Casa Claës. I Van Claës erano stati una volta tra le più note famiglie di artigiani cui i Paesi Bassi dovettero, in diversi settori produttivi, la supremazia commerciale che hanno mantenuta. Per parecchio tempo, nella città di Gand, i Claës erano stati di padre in figlio i capi della potente confraternita dei Tessitori. Durante la rivolta di quella importante città contro Carlo V che voleva abolirne i privilegi, il più ricco dei Claës si era talmente compromesso che, prevedendo una catastrofe e trovandosi costretto a condividere la sorte dei suoi compagni, aveva segretamente allontanato e messo sotto la protezione della Francia la moglie, i figli e le sue ricchezze, prima che le truppe dell'imperatore occupassero la città. Le previsioni del Sindaco dei Tessitori erano fondate. Insieme a parecchi altri borghesi egli fu escluso dalla capitolazione e impiccato come ribelle, mentre era in realtà il difensore dell'indipendenza gandense. La morte di Claës e dei suoi compagni diede i suoi frutti. Più tardi, queste inutili condanne costarono al re di Spagna la maggior parte dei suoi possedimenti nei Paesi Bassi. Di tutti i semi affidati alla terra, il sangue versato dai martiri è quello che dà più rapida messe. Quando Filippo II, che puniva la rivolta fino alla seconda generazione, stese su Douai il suo scettro di ferro, i Claës conservarono le loro grandi ricchezze imparentandosi con la nobilissima famiglia dei Molina, il cui ramo primogenito, allora povero, divenne abbastanza ricco da poter riscattare la contea di Nourho nel regno di Léon, della quale non aveva altro che il titolo.
Al principio del diciannovesimo secolo, dopo vicissitudini il cui racconto non offrirebbe niente di interessante, la famiglia Claës era rappresentata, nel ramo che viveva a Douai, dalla persona di Balthazar Claës Molina conte di Nourho, che teneva a farsi chiamare semplicemente Balthazar Claës. Dell'immenso patrimonio messo insieme dai suoi antenati, che facevano lavorare un migliaio di telai, restavano a Balthazar all'incirca quindicimila lire di rendita in proprietà terriere nel circondario di Douai e la casa di rue de Paris, i cui mobili valevano d'altronde un patrimonio. Quanto ai possedimenti del regno di Léon, erano stati oggetto di un processo tra i Molina di Fiandra e il ramo della stessa famiglia che era rimasto in Spagna. I Molina di Léon ebbero i terreni e presero il titolo di conti di Nourho, benché soltanto i Claës avessero il diritto di portarlo, ma l'orgoglio della borghesia belga era superiore alla boria castigliana. Così, quando fu istituito lo Stato Civile, Balthazar Claës rinunciò agli stracci della nobiltà spagnola in favore della sua grande rinomanza gandense. Il sentimento patriottico è così forte nelle famiglie esiliate, che fino agli ultimi giorni del diciottesimo secolo i Claës erano rimasti fedeli alle loro tradizioni, ai loro costumi e alle loro abitudini. Si imparentavano solo con famiglie della più pura borghesia, e bisognava che dalla parte della fidanzata ci fosse un certo numero di scabini o di borgomastri perché fosse ammessa nella loro famiglia. Inoltre, andavano a cercar moglie a Bruges o a Gand, a Liegi o in Olanda al fine di perpetuare i costumi del focolare domestico. Sullo scorcio dell'ultimo secolo, la loro società, sempre più ristretta, si limitava a sette o otto famiglie di nobiltà parlamentare; in esse i costumi, la toga a larghe pieghe e la gravità semispagnola da magistrato si armonizzavano con le loro abitudini. Gli abitanti della città avevano una specie di rispetto religioso per quella famiglia che per loro era al di sopra di ogni giudizio. La costante onestà, la lealtà senza macchia dei Claës, il loro invariabile decoro ne facevano una superstizione inveterata come quella della festa di Gayant, e bene espressa da quel nome, Casa Claës. Lo spirito della vecchia Fiandra aleggiava sovrano in quella abitazione, che offriva agli amatori di antichità borghesi il prototipo delle modeste case che la ricca borghesia si costruiva nel Medio Evo.
Il principale ornamento della facciata era una porta di quercia a due battenti decorati di borchie disposte a losanga, al centro delle quali i Claës avevano orgogliosamente fatto scolpire due spole appaiate. L'incorniciatura della porta in pietra arenaria terminava con un arco acuto che reggeva una piccola lanterna sormontata da una croce e dentro la quale si vedeva una statuetta di santa Genoveffa in atto di filare. Benché il tempo avesse diffuso la sua patina sui delicati lavori della porta e della lanterna, la cura estrema che ne avevano gli abitanti della casa permetteva ai passanti di coglierne tutti i particolari. Infatti lo stipite, composto di un fascio di colonnine, conservava un colore grigio scuro e brillava talmente da far credere che fosse stato verniciato. Al pianterreno, da ambo i lati della porta, c'erano due finestre simili a tutte quelle della casa. Il loro contorno di pietra bianca finiva sotto il davanzale in una conchiglia riccamente lavorata, e in alto in due archi separati dal montante della croce che divideva la vetrata in quattro parti disuguali, giacché il braccio trasversale, posto all'altezza adatta a formare una croce, rendeva le due parti inferiori della finestra alte circa il doppio di quelle superiori arrotondate. La duplice arcata aveva come decorazione tre file di mattoni che aggettavano l'una sull'altra, nelle quali ogni laterizio era alternativamente sporgente o rientrante di circa un pollice, in modo da formare una greca. I vetri, piccoli e a forma di losanga, erano montati su telai di ferro estremamente sottili e dipinti di rosso. I muri, fatti di mattoni tenuti insieme da una malta bianca, erano rinforzati ogni tanto e agli spigoli da elementi di pietra. Al primo piano si aprivano cinque finestre, al secondo soltanto tre, e la soffitta prendeva luce da una grande apertura rotonda a cinque spicchi, incorniciata di arenaria e posta al centro del frontone triangolare formato dal timpano, come il rosone sulla facciata di una cattedrale. Sul comignolo si alzava, a guisa di banderuola, una conocchia carica di lino. I due lati del grande triangolo formato dal muro del timpano erano intagliati come a gradini, scendendo fino al cornicione del primo piano dove, a destra e a sinistra della casa, avevano scolo le acque piovane vomitate dalle fauci di un favoloso animale. Nella parte bassa della casa una sporgenza di arenaria formava come un gradino. Infine, ultimo vestigio di antichi costumi, da ambo i lati della porta, in mezzo alle due finestre, si apriva sulla strada una botola di legno rinforzata da larghe bande di ferro, attraverso la quale si scendeva nelle cantine. Da quando era stata costruita, quella facciata veniva pulita accuratamente due volte all'anno. Se in una commessura mancava un po' di malta, il buco si riparava subito. Finestre, davanzali, pietre, tutto era lucidato meglio di quanto non lo siano a Parigi i marmi più preziosi. La facciata della casa non presentava dunque alcun segno di decadimento. Nonostante il colore scuro dovuto alla vetustà dei mattoni, era tanto ben conservata quanto possono esserlo un quadro antico o un libro antico cari a un amatore e che sarebbero sempre nuovi se non subissero, sotto la volta della nostra atmosfera, l'influenza di quegli elementi la cui veneficità è una minaccia anche per noi. Il cielo nuvoloso, il clima umido della Fiandra e le ombre prodotte dalla scarsa larghezza della strada toglievano molto spesso a quella costruzione il nitore che le conferiva la sua scrupolosa pulizia, che d'altra parte la rendeva fredda e triste allo sguardo. Un poeta avrebbe desiderato qualche filo d'erba sugli specchi della lanterna o un po' di musco sulle screpolature dell'arenaria, si sarebbe augurato che quelle file di mattoni si fossero screpolate, e che sotto gli archi delle vetrate qualche rondine avesse costruito il suo nido nelle triple caselle rosse che le decoravano. Ma la perfezione, l'aspetto curato di quella facciata quasi consunta dal lavoro di pulizia le conferivano un'apparenza decisamente onesta e decorosamente rispettabile, che certo avrebbe fatto cambiar di casa a un romantico che vi avesse abitato dirimpetto. Quando un visitatore aveva tirato il cordone del campanello fatto di fil di ferro intrecciato che pendeva lungo lo stipite della porta e la serva venuta dall'interno gli aveva aperto il battente al centro del quale c'era uno spioncino con inferriata, il battente trascinato dal suo peso sfuggiva subito alla mano e si chiudeva diffondendo sotto le volte di uno spazioso atrio lastricato e nel profondo della casa un suono grave e cupo come se la porta fosse stata di bronzo. Questo atrio dipinto a finto marmo, sempre fresco e cosparso da uno strato di sabbia fine, portava a un ampio cortile interno quadrato, tutto a larghe pietre verniciate di color verdastro. A sinistra c'erano il guardaroba, le cucine, la stanza della servitù; a destra la legnaia, il deposito del carbone e le rimesse dove porte, finestre e muri erano ornati da disegni perfettamente conservati. La luce, filtrando in mezzo a quattro muraglie rosse striate da linee bianche, assumeva riflessi e sfumature rosate che conferivano alle figure e ai minimi particolari una grazia misteriosa e una fantastica apparenza.
Una seconda casa in tutto simile all'edificio che dava sulla strada e che in Fiandra porta il nome di quartiere posteriore, stava in fondo al cortile e serviva unicamente da abitazione per la famiglia. Al pianterreno la prima stanza era un parlatorio illuminato da due finestre dalla parte del cortile e da due altre che davano su un giardino largo quanto la casa. Due porte a vetri parallele si aprivano l'una sul giardino e l'altra sul cortile, e corrispondevano all'ingresso principale, cosicché un forestiero, entrando, poteva abbracciare l'insieme dell'abitazione e vedere perfino il fogliame che tappezzava il fondo del giardino. La parte davanti, destinata ai ricevimenti e con gli appartamenti per gli ospiti al secondo piano, conteneva certamente oggetti d'arte e un insieme di grandi ricchezze; ma niente poteva eguagliare agli occhi dei Claës e a giudizio degli intenditori i tesori che adornavano quella parte dell'edificio dove da due secoli si era svolta la vita della famiglia. Quel Claës che era morto per la causa della libertà gandense, quell'artigiano di cui ci si farebbe un'idea troppo modesta se lo storico trascurasse di dire che possedeva all'incirca quarantamila marchi d'argento guadagnati fabbricando le vele necessarie alla potentissima marina veneziana, aveva avuto per amico il famoso scultore in legno Van Huysium di Bruges. Parecchie volte l'artista aveva attinto alla borsa dell'industriale. Qualche tempo prima della rivolta dei Gandensi, Van Huysium, divenuto ricco, aveva segretamente scolpito per il suo amico un rivestimento di ebano massiccio, in cui erano rappresentate le scene principali della vita di Artewelde, il birraio che era stato per un momento re delle Fiandre. Il rivestimento, formato di sessanta pannelli, conteneva circa millequattrocento figure principali ed era considerato il capolavoro di Van Huysium. Il capitano incaricato di custodire i borghesi che Carlo V aveva deciso di far impiccare il giorno della sua entrata nella città natale, aveva proposto, dicono, a Van Claës di lasciarlo fuggire se gli avesse ceduto l'opera di Van Huysium; ma lui l'aveva mandata in Francia. Il parlatorio, interamente rivestito di pannelli che, per rispetto ai Mani del martire, lo stesso Van Huysium era venuto a incorniciare con legno dipinto in azzurro con filettature dorate, era dunque l'opera più completa di quell'artista i cui più piccoli frammenti sono oggi pagati quasi a peso d'oro. Sopra il caminetto Van Claës, ritratto da Tiziano nel costume di presidente del tribunale dei Parchons, pareva guidare ancora quella famiglia che venerava in lui il proprio eroe. Il caminetto, originariamente di pietra e a cappa molto alta, era stato ricostruito in marmo bianco nell'ultimo secolo e reggeva un vecchio orologio e due candelabri a cinque braccia tortili, di cattivo gusto ma di argento massiccio. Alle quattro finestre pendevano ampie tende in damasco rosso a fiorami neri foderate di seta bianca, e il mobilio rivestito della medesima stoffa era stato rinnovato sotto Luigi XIV. L'impiantito, evidentemente moderno, era composto di larghe tavole di legno bianco incorniciate da liste di quercia. Il soffitto, formato da parecchie volute in fondo alle quali stava un mascherone cesellato da Van Huysium, era stato rispettato e conservava i colori scuri della quercia d'Olanda. Ai quattro angoli del parlatorio s'innalzavano colonne tronche con sopra candelabri simili a quelli del caminetto, e un tavolo occupava il centro. Lungo i muri erano allineati simmetricamente alcuni tavolini da gioco. Sopra due mensole dorate col ripiano di marmo bianco si trovavano, all'epoca dell'inizio di questa storia, due globi di vetro pieni d'acqua entro i quali, sopra un letto di sabbia e conchiglie, nuotavano pesci rossi, d'oro e d'argento. La stanza era luminosa e nello stesso tempo scura. Il soffitto assorbiva necessariamente il chiarore senza minimamente rifletterlo. Se dal lato del giardino la luce era intensa e veniva a scintillare sugli intagli dell'ebano, le finestre del cortile scarsamente luminose facevano appena brillare le filettature d'oro delle pareti di fronte. Il parlatorio perciò, così splendido in una bella giornata, era quasi sempre soffuso delle tinte dolci e dei toni rossastri e malinconici che il sole spande in autunno sulla cima delle foreste. È inutile continuare la descrizione di Casa Claës, nelle altre parti della quale si svolgeranno necessariamente parecchie scene di questa storia; basta per ora conoscerne la distribuzione generale.
Nel 1812, gli ultimi giorni d'agosto, una domenica, dopo i vespri, una donna stava seduta sulla sua poltrona davanti a una delle finestre che davano sul giardino. I raggi del sole cadevano obliquamente sulla casa, la circonfondevano, attraversavano il parlatorio, morivano in riflessi bizzarri sulle sculture di legno che rivestivano le pareti dal lato del cortile e avviluppavano la donna nella luce purpurea prodotta dalla tenda di damasco che drappeggiava la finestra. Un pittore mediocre che in quel momento avesse ritratto quella donna avrebbe certamente prodotto un'opera notevole con quella testa così piena di dolore e di tristezza. La posizione del corpo e quella dei piedi protesi in avanti denotavano l'abbattimento di una persona che ha perduto coscienza del proprio essere fisico nella concentrazione delle proprie forze assorte in un pensiero fisso; ella ne seguiva il riflettersi nel futuro, come spesso in riva al mare si guarda un raggio di sole che attraversa le nubi e traccia all'orizzonte strisce luminose. Le mani della donna, abbandonate sui braccioli della poltrona, pendevano all'esterno e la testa, come fosse troppo pesante, poggiava sullo schienale. Un'ampia veste di mussola bianca impediva di giudicare le proporzioni del corpo, e il corsetto era nascosto sotto le pieghe di una sciarpa incrociata sul petto e negligentemente annodata. Anche se la luce non avesse dato risalto al volto che pareva ella si compiacesse di mostrare più del resto del corpo, sarebbe stato impossibile non occuparsene esclusivamente; la sua espressione, che avrebbe colpito anche il bambino più disattento, era nonostante qualche lacrima bruciante quella di un persistente e freddo stupore. Niente è più terribile da vedersi di quel dolore estremo che si mostra solo a rari intervalli, ma che su quel volto restava come una lava indurita attorno al vulcano. Si sarebbe detta una madre morente costretta ad abbandonare i suoi figli in un abisso di miseria, senza poter lasciar loro alcuna umana protezione. L'aspetto della donna, che dimostrava all'incirca quarant'anni, ma che era allora molto meno lontana dalla bellezza di quanto non lo fosse mai stata in gioventù, non presentava nessuna caratteristica propria della donna fiamminga. Una folta chioma nera cadeva in riccioli sulle spalle e lungo le guance. La fronte sporgente e stretta alle tempie era pallida, ma sotto quella fronte brillavano due occhi neri che mandavano fiamme. Il volto, spagnolo autentico, scuro di fondo, poco colorito, butterato dal vaiolo, colpiva lo sguardo per la perfezione dell'ovale, i cui contorni serbavano, nonostante l'alterazione dei lineamenti, la perfezione di una regale eleganza che ricompariva talvolta pienamente se uno sforzo dell'anima gli restituiva la primitiva purezza. Il tratto che dava maggior distinzione a quel volto forte era il naso che, adunco come il becco di un'aquila e troppo curvo nel mezzo, sembrava mal formato all'interno; ma aveva anche una indescrivibile finezza, e la cartilagine delle narici era così sottile che la sua trasparenza permetteva alla luce di arrossarla intensamente. Le labbra larghe e molto sinuose, benché rivelassero la fierezza propria di un nobile lignaggio, esprimevano una bontà innata e spiravano gentilezza. La bellezza di quel volto energico e nello stesso tempo femminile si poteva metterla in dubbio, ma certamente richiamava l'attenzione. Piccola, gobba e zoppa, quella donna era rimasta tanto più a lungo fanciulla quanto più si erano ostinati a negarle intelligenza; ciononostante vi furono uomini profondamente turbati dall'ardore appassionato che esprimeva quel volto, dagli indizi di una inesauribile tenerezza, al punto che restarono presi da un fascino inconciliabile con tanti difetti. Ella aveva molto del suo antenato, il duca di Casa-Real, grande di Spagna. In quell'istante il fascino che una volta aveva così imperiosamente colpito le anime amanti della poesia, emanava da quel volto più forte che in qualsiasi altro momento della sua vita passata e si spandeva per così dire nel vuoto, esprimendo una volontà incantatrice onnipotente sugli uomini, ma senza presa sul destino. Quando il suo sguardo lasciava il globo in cui fissava i pesci senza vederli, i suoi occhi si alzavano con un movimento disperato, come per invocare il cielo. Le sue sofferenze sembrarono di quelle che possono aver speranza soltanto in Dio. Il silenzio non era turbato che dai grilli, dalle cicale che frinivano nel giardinetto donde saliva un calore di forno, e dai sordi rumori di argenteria, di piatti e di sedie che un domestico intento a servire il pranzo smuoveva nel locale attiguo al parlatorio. In quel momento la dolente signora tese l'orecchio e parve raccogliersi; prese il fazzoletto, asciugò le lacrime, cercò di sorridere e cancellò così bene l'espressione di dolore impressa in tutti i suoi lineamenti, che si sarebbe potuto crederla nello stato di indifferenza proprio di una vita priva di affanni. O che l'abitudine a vivere in quella casa dove la confinavano le sue infermità le avesse consentito di cogliere certe particolarità naturali inafferrabili per gli altri e ricercate invece vivamente dalle persone in preda a sentimenti esasperati, o che la natura avesse compensato tante disgrazie fisiche dandole sensazioni più delicate che quelle degli altri esseri apparentemente più dotati, la donna aveva sentito il passo di un uomo nella sala che stava sopra le cucine e i locali destinati ai servizi e che metteva in comunicazione il fabbricato anteriore con quello posteriore. Il rumore dei passi si fece più distinto. Poco dopo chiunque altro, pur senza aver la facoltà per cui una creatura appassionata come quella donna sapeva spesso abolire lo spazio per unirsi al suo secondo io, avrebbe facilmente sentito il passo di quell'uomo sulla scala che dalla sala portava nel parlatorio. Al risuonar di quel passo anche l'uomo più indifferente si sarebbe turbato, giacché era impossibile ascoltarlo freddamente. Un'andatura precipitata o affannosa fa paura. Quando un uomo si alza e grida al fuoco, i suoi piedi parlano forte come la sua voce. Se questo è vero, l'andatura opposta non deve causare emozioni meno violente. La grave lentezza e il passo strascicato di quell'uomo avrebbero indubbiamente spazientito la gente superficiale, ma un osservatore attento e sensibile avrebbe provato un'emozione molto vicina al terrore udendo il rumore cadenzato di quei piedi quasi privi di vita, che facevano scricchiolare l'impiantito come se lo avessero percosso alternativamente due mazze di ferro. Si sarebbe potuto riconoscervi il passo indeciso e pesante di un vecchio, o l'andatura maestosa di un pensatore che trascina con sé mondi interi. Quando ebbe sceso l'ultimo gradino, appoggiando i piedi sulle tavole con un movimento pieno di esitazione, l'uomo si fermò un attimo sul grande pianerottolo col quale terminava il corridoio che conduceva alla stanza della servitù e dal quale si entrava anche nel parlatorio attraverso una porta nascosta nel rivestimento di legno, come un'altra dirimpetto dava sulla sala da pranzo. In quel momento un fremito leggero, simile alla sensazione provocata da una scarica elettrica, scosse la donna seduta sulla poltrona; ma anche il più dolce sorriso animò le sue labbra, e il volto teso nella speranza di una gioia risplendette come quello di una bella madonna italiana; ella trovò subito la forza di ricacciare i propri terrori nel fondo dell'anima e voltò la testa verso i pannelli della porta che si sarebbe aperta all'angolo del parlatorio e che fu effettivamente spinta con una tale energia che la povera creatura parve avvertirne l'urto.
Balthazar Claës apparve all'improvviso, fece qualche passo, non guardò la donna o se la guardò non la vide, e restò diritto in mezzo al parlatorio, appoggiando sulla mano destra il capo leggermente reclinato. Un'orribile sofferenza alla quale la donna non poteva abituarsi benché tornasse più volte ogni giorno, le strinse il cuore, spense il suo sorriso, corrugò tra le sopracciglia la sua fronte scura in quei segni che scava la frequente espressione dei sentimenti più profondi, gli occhi si riempirono di lacrime, ma ella le asciugò subito guardando Balthazar. Era impossibile non esser profondamente colpiti dal capo della famiglia Claës. Da giovane aveva certo assomigliato al martire eccelso che aveva minacciato Carlo V di far rivivere Artewelde, ma in quel momento dimostrava più di sessant'anni benché ne avesse solo una cinquantina, e la vecchiaia precoce aveva cancellato quella nobile somiglianza. La sua alta figura si incurvava leggermente, sia che il suo lavoro lo obbligasse a chinarsi sia che la spina dorsale si fosse schiacciata sotto il peso della testa. Il petto era largo e il busto forte, ma le parti inferiori del corpo erano gracili benché piene di energia, e questo contrasto in un organismo una volta evidentemente perfetto portava a cercar di spiegare con qualche strana vicenda le ragioni di quella anomalia. La folta capigliatura bionda poco curata ricadeva sulle spalle alla moda tedesca, ma con un disordine che ben si armonizzava con la bizzarria di tutta la figura. La fronte spaziosa presentava inoltre quelle bozze nelle quali, secondo Gall, risiedono le capacità poetiche. Gli occhi di un azzurro chiaro e intenso avevano la mobile vivacità tipica dei grandi studiosi di cose occulte. Il naso, indubbiamente perfetto una volta, era diventato più lungo, e le narici parevano gradualmente dilatarsi sempre più con una involontaria tensione dei muscoli olfattivi. Gli zigomi villosi erano alquanto sporgenti e le guance già vizze sembravano per questo maggiormente incavate; la bocca ben disegnata era stretta tra il naso e un mento corto, bruscamente rialzato. Più che ovale, la forma del viso era lunga, e la teoria scientifica che attribuisce a ogni volto umano la somiglianza con la testa di un animale avrebbe trovato ulteriore conferma in quello di Balthazar Claës, che si sarebbe potuto paragonare al muso di un cavallo. La pelle era incollata alle ossa come se qualche fuoco segreto l'avesse disseccata, e in certi momenti, quando guardava nel vuoto come per trovarvi la realizzazione delle sue speranze, si sarebbe detto che attraverso le narici alitasse la fiamma che divorava la sua anima. I sentimenti profondi che ispirano gli uomini grandi aleggiavano su quel pallido volto profondamente solcato dalle rughe, su quella fronte segnata come quella di un vecchio re pieno di preoccupazioni, ma soprattutto in quegli occhi sfavillanti, il fuoco dei quali sembrava ugualmente accresciuto dalla castità che nasce dalla tirannia del pensiero e dalla fiamma interiore di una vasta intelligenza. Pareva che gli occhi profondamente infossati nelle orbite fossero stati incupiti unicamente dalle veglie e dalle terribili reazioni di una speranza sempre delusa e sempre rinascente. Il geloso fanatismo che nasce dall'arte o dalla scienza si rivelava in quell'uomo anche per la strana e costante trascuratezza che dimostravano l'abbigliamento e il contegno, in armonia con la magnifica mostruosità del suo aspetto. Le larghe mani pelose erano sudicie, le unghie lunghe avevano all'estremità orli neri assai marcati. Le scarpe o non erano lucidate o erano senza lacci. In tutta la casa solo il padrone poteva permettersi la strana licenza di essere così in disordine. I pantaloni di panno nero pieni di macchie, il panciotto sbottonato, la cravatta di traverso, la giubba verdastra sempre scucita completavano un fantastico insieme di piccole e grandi cose che in altri avrebbe rivelato la miseria prodotta dai vizi, ma che in Balthazar Claës era la trascuratezza del genio. Troppo spesso vizio e virtù producono effetti simili, davanti ai quali l'uomo comune si inganna. Non è forse il Genio un eccesso costante che divora tempo, denaro e salute e porta all'ospedale più rapidamente delle cattive passioni? Pare che gli uomini abbiano addirittura maggior rispetto per i vizi che non per il Genio, perché si rifiutano di dargli credito. Pare che i benefici dei lavori segreti dello scienziato siano talmente aborriti, che la Società teme di avere a che fare con lui da vivo e preferisce liberarsene non perdonandogli la sua miseria o le sue sventure.
Nonostante il continuo oblio del presente, se Balthazar Claës lasciava le sue misteriose contemplazioni, se qualche intenzione dolce e socievole rianimava quel volto pensieroso, se i suoi occhi fissi perdevano il loro rigido lampo per esprimere un sentimento, se si guardava intorno riprendendo contatto con la vita reale e comune, era difficile non rendere involontariamente omaggio alla bellezza affascinante di quel volto, alla nobiltà d'animo che in esso si esprimeva. Per questo ognuno, vedendolo, si rammaricava che quell'uomo non appartenesse più al mondo dicendo: «Doveva essere bello davvero in gioventù!». Errore grossolano! Balthazar Claës non era mai stato più poetico di allora. Lavater avrebbe sicuramente desiderato studiare quella testa che esprimeva pazienza, lealtà fiamminga, moralità immacolata, nella quale tutto era ampio e grande e la passione sembrava calma perché era forte. I costumi di quell'uomo dovevano essere puri, la sua parola era sacra, la sua amicizia sembrava costante, la sua devozione sarebbe stata completa, ma la volontà che mette queste doti a beneficio della patria, del mondo o della famiglia si era rivolta fatalmente altrove. Quell'uomo chiamato a vegliare sulle sorti di una famiglia, ad amministrare un patrimonio, a guidare i suoi figli verso un felice avvenire, viveva al di fuori dei doveri e degli affetti, in compagnia di qualche genio familiare. A un prete sarebbe sembrato colmo della parola di Dio, un artista lo avrebbe salutato come un grande maestro, un fanatico l'avrebbe preso per un Veggente della Chiesa di Swedenborg. In quel momento l'abito logoro, sformato e in disordine che portava quell'uomo contrastava stranamente con le civetterie aggraziate della donna che lo guardava così dolorosamente. Le persone deformi che hanno intelligenza o un'anima bella curano il loro aspetto con un gusto squisito. O si vestono con semplicità comprendendo che il loro fascino è esclusivamente spirituale, oppure riescono a far dimenticare i difetti delle loro fattezze con una specie di eleganza volta ai particolari che distrae lo sguardo e interessa la mente. Quella donna non soltanto aveva un'anima generosa, ma anche amava Balthazar Claës con quell'istinto femminile che dà il senso di un preludio d'intelligenza degli angeli. Cresciuta in una delle più illustri famiglie del Belgio, vi avrebbe appreso il buon gusto se non ne avesse già avuto; ma illuminata dal desiderio di piacere sempre all'uomo che amava, sapeva vestirsi meravigliosamente, senza che la sua eleganza contrastasse con le sue deformità. Il busto, d'altronde, non presentava difetti se non alle spalle, l'una delle quali era sensibilmente più grossa dell'altra. Guardò attraverso le finestre nel cortile interno e poi nel giardino, come per vedere se era sola con Balthazar, e disse all'uomo, con voce dolce, rivolgendogli uno sguardo pieno di quella sottomissione che distingue le donne fiamminghe, giacché tra i due coniugi l'amore aveva già da parecchio tempo preso il posto della fierezza spagnola: «Balthazar, hai proprio tanto da fare? Sono trentatré domeniche che non vieni né a messa né ai vespri».
Claës non rispose. La donna chinò la testa, giunse le mani e attese; sapeva che quel silenzio non manifestava né disprezzo né sdegno, ma tiranniche preoccupazioni. Balthazar era di quegli esseri che serbano a lungo in fondo al cuore la loro delicatezza giovanile, e avrebbe considerato un delitto esprimere il minimo pensiero che potesse ferire una donna già affranta dal pensiero della sua disgrazia fisica. Forse egli solo fra tutti gli uomini sapeva che una parola, uno sguardo, possono cancellare anni di felicità, e sono tanto più crudeli quanto maggiormente contrastano con una abituale dolcezza, giacché la nostra natura ci porta a sentire maggior dolore per una dissonanza nella felicità che piacere per un attimo di gioia provato nella sventura. Dopo qualche istante Balthazar parve risvegliarsi, si guardò intorno attentamente e disse: «Vespri? Ah, i ragazzi sono ai vespri». Fece qualche passo per guardare nel giardino, dove fiorivano dappertutto magnifici tulipani, ma si fermò improvvisamente come avesse urtato contro un muro ed esclamò: «Perché non dovrebbero combinarsi entro un dato tempo?».
«Sta diventando pazzo?», si domandò la donna con profondo terrore.
Per capire meglio la scena determinata da questa situazione è indispensabile dare un'occhiata al passato di Balthazar Claës e della nipote del duca di Casa-Real.
Intorno al 1783, Balthazar Claës-Molina di Nourho, che aveva allora ventidue anni, poteva passare per quello che in Francia si usa chiamare un bell'uomo. Egli venne a compiere la sua educazione a Parigi dove acquisì maniere eccellenti frequentando la società di madame d'Egmont, del Conte di Horn, del Principe d'Aremberg, dell'ambasciatore di Spagna, di Helvetius, di Francesi originari del Belgio o di persone venute da tale paese e che la nascita o il censo facevano contare tra i grandi signori che andavano allora di moda. Il giovane Claës vi trovò qualche parente e alcuni amici, che lo lanciarono nel gran mondo nel momento in cui quel gran mondo stava per cadere, ma, come la maggior parte dei giovani, fu in un primo tempo conquistato più dalla gloria e dalla scienza che dalla vanità. Frequentò dunque molti scienziati e in particolare Lavoisier, che allora si imponeva all'attenzione pubblica più per l'immenso patrimonio di appaltatore generale che per le sue scoperte nel campo della chimica; mentre più tardi il grande chimico doveva far dimenticare il piccolo appaltatore generale. Balthazar si appassionò alla scienza coltivata da Lavoisier e divenne il suo più ardente discepolo; ma era giovane e bello come già era stato Helvetius, e le donne di Parigi gli insegnarono presto a coltivare esclusivamente lo spirito e l'amore. Nonostante avesse abbracciato lo studio con ardore e Lavoisier gli avesse elargito qualche elogio, abbandonò il maestro per seguire le maestre del piacere, dalle quali i giovani prendevano le loro ultime lezioni di saper vivere e imparavano le abitudini dell'alta società che in tutta Europa costituisce un'unica famiglia. Il sogno inebriante del successo durò poco; dopo aver respirato l'aria di Parigi, Balthazar se ne andò stanco di una esistenza vuota che non si adattava né alla sua anima ardente né al suo cuore appassionato. La vita domestica, così dolce, così calma, che gli tornava alla memoria al solo nome di Fiandra, gli parve più adatta al suo carattere e alle aspirazioni del suo cuore. I dorati splendori dei salotti parigini non avevano cancellato l'armonia del buio parlatorio e del giardinetto dove la sua infanzia era trascorsa così felice. Per restare a Parigi bisogna non avere né casa né patria. Parigi è la città dei cosmopoliti, degli uomini che hanno sposato il mondo e che lo tengono stretto col pugno della Scienza, dell'Arte o del Potere. Il figlio della Fiandra tornò a Douai come il piccione di La Fontaine era tornato al suo nido, e pianse di gioia quando vi rientrò il giorno della processione di Gayant. La festa di Gayant, allegra mania di tutta la città, trionfo dei ricordi fiamminghi, era stata introdotta al tempo dell'emigrazione della sua famiglia a Douai. La morte del padre e quella della madre lasciarono vuota Casa Claës e lo tennero impegnato per qualche tempo. Passato il primo dolore, sentì il bisogno di sposarsi per completare quella felice esistenza dal cui culto era stato riafferrato. Volle seguire le tradizioni della famiglia andando, come i suoi antenati, a cercarsi una moglie a Gand o a Bruges o ad Anversa; ma nessuna delle persone che incontrò fece al suo caso. Aveva indubbiamente sul matrimonio alcune idee personali, anzi fin dalla giovinezza era stato accusato di non seguire la strada comune. Un giorno a Gand, in casa di un parente, sentì parlare di una fanciulla di Bruxelles, che diventò oggetto di una vivace discussione. Gli uni trovavano che le imperfezioni della signorina Temninck distruggevano la sua bellezza; altri la consideravano perfetta nonostante i suoi difetti. Il vecchio cugino di Balthazar Claës disse ai suoi ospiti che la giovane aveva un'anima per cui egli l'avrebbe sposata se fosse stato libero, e raccontò come ella avesse di recente rinunciato all'eredità paterna e materna perché il fratello più giovane potesse fare un matrimonio degno del suo nome, preferendo così la felicità del fratello alla propria e sacrificandogli tutta la propria vita. Non era però il caso di credere che la signorina Temninck si sposasse vecchia e senza dote, per la ragione che, quando era una giovane ereditiera, non aveva avuto alcun partito. Qualche giorno dopo, Balthazar Claës chiedeva in sposa la signorina Temninck, che aveva allora venticinque anni e della quale si era profondamente innamorato. Joséphine de Temninck si credette oggetto di un capriccio e non volle dare ascolto a Claës; ma la passione è così comunicativa, e per una povera fanciulla deforme e zoppa l'amore ispirato ad un uomo giovane e bello comporta sì grandi attrattive, che ella acconsentì a lasciarsi corteggiare.
Ci vorrebbe forse un libro intero per descrivere efficamente l'amore di una fanciulla umilmente soggetta al giudizio comune che la considera brutta, mentre avverte dentro di sé il fascino irresistibile che nasce dai sentimenti sinceri. Sono feroci gelosie al cospetto della felicità, crudeli pensieri di vendetta nei confronti della rivale che ruba uno sguardo, sono infine emozioni, terrori sconosciuti alla maggior parte delle donne, che non si possono descrivere con semplici accenni. Il dubbio, così drammatico in amore, sarebbe il segreto di questa analisi estremamente minuziosa nella quale certe anime ritroverebbero la poesia perduta ma non dimenticata dei loro primi turbamenti: quelle sublimi esaltazioni nel profondo del cuore che il volto non tradisce mai, quel timore di non essere capiti e quella gioia sconfinata di esserlo stati; quelle trepidazioni dell'anima che si ripiega su se stessa e quelle magiche fantasticherie che danno agli occhi infinite sfumature; quei propositi di suicidio causati da una parola e subito dissipati da un'intonazione di voce profonda come il sentimento di cui rivela la nascosta esistenza; quegli sguardi tremanti che nascondono terribili audacie, quei pensieri improvvisi di parlare e di agire repressi dalla loro stessa violenza; quell'interna eloquenza che si esprime con frasi comuni ma pronunciate con voce agitata; le misteriose manifestazioni di quel primitivo pudore dell'anima e di quella divina riservatezza che ci rende generosi nell'ombra e ci fa trovare un piacere squisito nella devozione ignorata; insomma, tutta la bellezza dell'amore giovanile e le debolezze della sua potenza.
Joséphine de Temninck conobbe la civetteria per grandezza d'animo. Il sentimento delle sue imperfezioni
fisiche la rese esigente quanto la donna più bella. Il timore di non piacere più un giorno risvegliava la sua fierezza, diminuiva la sua affabilità e le dava il coraggio di serbare in fondo al cuore quelle prime felicità che alle altre donne piace manifestare con le loro maniere e di cui si fanno orgoglioso ornamento. Quanto più forte l'amore la spingeva verso Balthazar, tanto meno osava esprimergli i propri sentimenti. Il gesto, lo sguardo, la risposta o la domanda che in una bella donna sono lusinghe per un uomo, non diventavano forse in lei calcoli umilianti? Una bella donna può agevolmente essere se stessa, la gente le perdona sempre una sciocchezza o una balordaggine, mentre un solo sguardo raggela l'espressione più luminosa sulle labbra di una donna brutta, rende timidi i suoi occhi, fa maggiormente sgraziati i suoi gesti e imbarazzato il suo contegno. Sa che soltanto a lei è proibito commettere errori, che tutti le negano la possibilità di porvi riparo, e del resto nessuno gliene fornisce l'occasione. La necessità d'essere ad ogni istante perfetta finisce per indebolire le sue facoltà e impedirne l'esercizio. Quella donna non potrebbe vivere che in un'atmosfera di angelica indulgenza. Ma dove sono i cuori da cui si effonda indulgenza senza tingersi d'un'amara e offensiva pietà? I pensieri ai quali l'aveva abituata l'orribile cortesia della gente e gli sguardi che, più crudeli delle offese, aggravano le sventure constatandole, opprimevano la signorina Temninck, e le causavano una tortura costante, che ricacciava in fondo al cuore le impressioni più deliziose e conferiva freddezza al suo contegno, alle sue parole, al suo sguardo. Era innamorata di nascosto, non osava avere eloquenza o bellezza che nella solitudine. Sventurata alla luce del giorno, sarebbe stata incantevole se le fosse stato permesso di vivere solo di notte. Spesso, per mettere alla prova quell'amore e rischiando di perderlo, rifiutava gli ornamenti che potevano nascondere in parte i suoi difetti. I suoi occhi di spagnola erano affascinanti quando si accorgeva che Balthazar la trovava bella anche vestita semplicemente. Tuttavia la sfiducia le guastava i rari istanti nei quali si arrischiava di abbandonarsi alla felicità. Si domandava subito se Claës non cercasse di sposarla per avere in casa una schiava, se egli non avesse qualche segreta imperfezione che l'obbligasse ad accontentarsi di una povera fanciulla sgraziata. Queste ansie perpetue davano talvolta un immenso valore ai momenti in cui credeva alla durata e alla sincerità di un amore che doveva riscattarla nei confronti del mondo. Provocava piccole discussioni esagerando i suoi difetti allo scopo di penetrare fino in fondo alla coscienza dell'uomo amato; strappava allora a Balthazar verità poco lusinghiere, ma a lei piaceva l'imbarazzo in cui egli cadeva quando lo aveva portato a dire che quel che si ama in una donna è soprattutto la bellezza dell'anima e quella devozione che rende costantemente felici i giorni della vita, e che dopo qualche anno di matrimonio la donna più incantevole del mondo equivale per il marito alla più brutta. Dopo aver ripetuto quel che c'era di vero nei paradossi che tendono a diminuire il valore della bellezza, subito Balthazar si rendeva conto della scortesia di quelle affermazioni, e dimostrava tutta la bontà del proprio cuore nella delicatezza degli argomenti coi quali sapeva provare alla signorina Temninck che per lui ella era perfetta. L'abnegazione che nelle donne costituisce forse il massimo dell'amore, non mancò a quella fanciulla, giacché non sperò d'essere sempre amata; ma la tentò la prospettiva di una lotta nella quale il sentimento doveva essere più forte della bellezza; inoltre, le sembrò eroico il darsi senza credere all'amore, e infine la felicità, per quanto breve potesse essere, doveva apparirle troppo preziosa per rifiutarsi di conoscerla. Quelle incertezze e quelle lotte, conferendo il fascino e l'imprevisto della passione a quella creatura superiore, ispiravano a Balthazar un amore quasi cavalleresco.
Il matrimonio ebbe luogo al principio del 1795. I due sposi si recarono a Douai a trascorrere i primi giorni della loro unione nella casa patriarcale dei Claës, i cui tesori furono accresciuti dalla signorina Temninck, che vi portò alcuni bei quadri di Murillo e di Velázquez, i gioielli della madre, e i magnifici doni che le aveva mandato il fratello, divenuto duca di Casa-Real. Poche donne furono più fortunate della signora Claës. La sua felicità durò quindici anni, senza la più piccola nube, e come una vivida luce si trasfuse fin nei minimi particolari della sua esistenza. La maggior parte degli uomini presenta squilibri di carattere che sono causa di continui contrasti e tolgono alla loro vita interiore quell'armonia che è il più bell'ideale della vita in comune; la maggior parte degli uomini è piena infatti di meschinità, e la meschinità produce tormento e sofferenza. Uno potrà essere onesto e attivo, ma duro e rozzo, un altro sarà buono, ma ostinato; questo amerà la moglie, ma avrà una volontà incerta, quello, spinto dall'ambizione, considererà i sentimenti soltanto come obbligo, e, assecondando la vanità della fortuna, priverà di gioia tutti i suoi giorni; insomma, gli uomini medi, senza essere propriamente condannabili, sono piuttosto incompleti. Le persone intelligenti sono mutevoli come barometri, solo il genio è sostanzialmente buono. Per questo la vera felicità si trova ai due estremi della scala morale. Solo il bestione o l'uomo di genio sono capaci, l'uno per debolezza, l'altro per la sua forza, di quella continuità d'umore, di quella dolcezza costante nella quale scompaiono le asperità della vita. Nell'uno c'è indifferenza e passività, nell'altro indulgenza e coerenza all'ispirazione sublime di cui è interprete e che deve essere la stessa nella teoria e nella pratica. Entrambi sono ugualmente semplici e schietti, solo che in quello c'è il vuoto, in questo la profondità. Pertanto le donne avvedute sono piuttosto disposte a prendersi per marito un sempliciotto come il miglior sostituto di un grand'uomo. Balthazar fece dunque sentire innanzi tutto la propria superiorità nelle più piccole cose della vita. Si compiacque di vedere nell'amore coniugale un'opera magnifica e, come gli uomini d'alto livello che non sopportano niente di imperfetto, volle dispiegarne tutte le bellezze. La sua intelligenza variava incessantemente la quiete della felicità, il suo nobile carattere improntava d'una grazia segreta le sue attenzioni. Difatti, benché condividesse le idee filosofiche del diciottesimo secolo, fin dal 1801 tenne presso di sé, nonostante i pericoli che le leggi rivoluzionarie gli facevano correre, un prete cattolico, allo scopo di non ostacolare il fanatismo spagnolo per il cattolicesimo romano che la moglie aveva succhiato con il latte materno; più tardi, quando in Francia fu ripristinato il culto, accompagnò la moglie a messa tutte le domeniche. Mai il suo attaccamento ebbe manifestazioni diverse dalla passione, mai fece sentire nella sua casa quella forza protettrice che pur piace tanto alle donne, poiché per sua moglie questa poteva somigliare alla pietà. Insomma, con la più ingegnosa adulazione la trattava da pari e si lasciava andare a quei bronci scherzosi che un uomo si permette nei confronti di una bella donna come per sfidarne la superiorità. Le sue labbra furono sempre abbellite dal sorriso della felicità e la sua parola fu sempre piena di dolcezza. Amò Joséphine per se stessa e per lui stesso, con quell'ardore che è un elogio continuo delle qualità e delle bellezze di una donna. La fedeltà, che negli altri mariti è spesso conseguenza di una legge sociale, di una religione o di un calcolo, sembrava in lui spontanea e non era disgiunta dalle dolci lusinghe della primavera dell'amore. Il dovere era il solo obbligo del matrimonio che fosse ignoto a quei due esseri ugualmente innamorati, poiché Balthazar Claës aveva trovato nella signorina Temninck una costante e completa realizzazione delle sue speranze. In lui il cuore fu sempre saziato senza fatica, e l'uomo sempre felice. Non solo, ma il sangue spagnolo non mentiva nella discendente di Casa-Real e le faceva un istinto di quella scienza che sa variare il piacere all'infinito; ma ella aveva anche quella devozione senza limiti che è il genio del suo sesso, come la grazia ne è tutta la bellezza. Il suo amore era un fanatismo cieco che l'avrebbe mandata gioiosamente alla morte per un solo cenno. La delicatezza di Balthazar aveva esaltato in lei i più generosi sentimenti della donna e le ispirava un imperioso bisogno di dare più di quanto riceveva. Questo mutuo scambio di una felicità scambievolmente prodigata poneva davvero al di fuori di lei il fondamento della sua vita e diffondeva un crescente amore nelle sue parole, nei suoi sguardi, nelle sue azioni. Da una parte e dall'altra la riconoscenza fecondava e variava la vita del cuore; allo stesso modo che la certezza d'essere tutto l'uno per l'altra escludeva le meschinità, valorizzando le più piccole cose dell'esistenza.
E la donna deforme che il marito trova perfetta, la donna zoppa che un uomo non desidera diversa, o la donna anziana che appare giovane, non sono forse le creature più felici del mondo femminile? La passione umana non potrebbe andar oltre. Non è forse la gloria della donna far adorare quello che in lei appare come un difetto? Dimenticare che una zoppa non cammina bene è illusione di un momento, ma amarla perché è zoppa è divinizzare il suo difetto. Forse bisognerebbe incidere nel Vangelo delle donne queste parole: Beate le deformi perché di loro è il regno dell'amore. Certo la bellezza dev'essere una sfortuna per una donna, perché questo fuggevole fiore occupa un posto troppo grande nel sentimento che ella ispira; amare una donna perché è bella non è come sposare una ricca ereditiera? Ma l'amore che fa provare o che nutre una donna diseredata dei fragili vantaggi dietro ai quali corrono i figli di Adamo è amore vero, è passione veramente misteriosa, è un ardente rapporto di anime, un sentimento per il quale il giorno della delusione non arriva mai. Questa donna ha grazie ignorate al mondo, al controllo del quale si sottrae, è bella quando occorre, ed ha troppa gloria nel far dimenticare le sue imperfezioni per non riuscirvi sempre. Difatti i sentimenti più famosi della storia furono quasi sempre ispirati da donne alle quali l'uomo comune avrebbe trovato dei difetti.
Cleopatra, Giovanna di Napoli, Diana di Poitiers, la de Lavallière, la Pompadour, insomma la maggior parte delle donne rese famose dall'amore non sono prive né di imperfezioni né di infermità, mentre la maggior parte delle donne la cui bellezza ci viene descritta come perfetta hanno visto finire infelicemente i loro amori. Questa apparente stranezza deve avere la sua causa. Forse perché l'uomo vive più con il sentimento che con il piacere? forse perché il fascino meramente fisico di una bella donna ha dei limiti, mentre il fascino essenzialmente spirituale di una donna di media bellezza è infinito? Non è questa la morale della favola sulla quale si basano le Mille e una notte? Se la moglie di Enrico VIII fosse stata brutta, avrebbe sfidato la scure e corretto l'incostanza del marito. Per una stranezza piuttosto comprensibile in una fanciulla d'origine spagnola, la signora Claës era ignorante. Sapeva leggere e scrivere, ma fino a vent'anni, età in cui i genitori l'avevano fatta uscire dal collegio, non aveva letto che opere ascetiche. Entrando in società, provò dapprima sete dei piaceri del mondo e non imparò che la futile arte di farsi bella; ma era così profondamente umiliata della propria ignoranza, che non osava partecipare a nessuna conversazione; per questo la giudicavano poco intelligente. Nonostante ciò, quell'educazione mistica aveva avuto il risultato di lasciare ai suoi sentimenti tutta la loro forza e di non guastare la sua naturale intelligenza. Sciocca e brutta come ereditiera agli occhi della gente, divenne bella e spiritosa per suo marito. Durante i primi anni di matrimonio, Balthazar cercò di dare alla moglie le cognizioni di cui aveva bisogno per vivere nel mondo; ma era indubbiamente troppo tardi, lei non aveva che la memoria del cuore. Joséphine non dimenticava niente di quello che le diceva Claës riguardo loro due, si ricordava delle più piccole circostanze della sua vita felice, e l'indomani non ricordava più la lezione del giorno avanti. Quell'ignoranza sarebbe stata causa di gravi discordie tra due altri coniugi; ma la signora Claës aveva un così innato senso della passione, amava il marito in modo così devoto e così santo, e il desiderio di conservare la sua felicità la rendeva così avveduta, che riusciva sempre a mostrar di capirlo, e raramente lasciava che arrivassero momenti nei quali la sua ignoranza sarebbe stata troppo evidente. D'altronde, quando due persone si amano abbastanza perché per loro ogni giorno sia il primo della loro passione, si verificano in quella feconda felicità fenomeni che cambiano tutte le condizioni della vita. Non è quella come un'infanzia, incurante di tutto ciò che non sia riso, gioia, piacere? Poi, quando la vita è molto attiva, quando i suoi ardori sono ben fervidi, l'uomo lascia che avvenga tale combustione senza pensarci né discuterla, senza misurarne i mezzi né il fine. Mai d'altronde nessuna figlia di Eva capì meglio della signora Claës il suo mestiere di donna. Ella ebbe quella sottomissione fiamminga che rende così attraente il focolare domestico e alla quale la sua fierezza di spagnola dava un più alto significato. Era autoritaria, sapeva imporre rispetto con uno sguardo nel quale brillava il sentimento del suo valore e della sua nobiltà; ma davanti a Claës tremava, e a lungo andare aveva finito col metterlo così in alto e così vicino a Dio, riferendo a lui tutti gli atti della sua vita e i suoi minimi pensieri, che il suo amore non era più disgiunto da una sfumatura di timore rispettoso che lo acuiva vieppiù. Ella prese con orgoglio tutte le abitudini della borghesia fiamminga, e appagò la sua ambizione di rendere la vita domestica floridamente felice, di mantenere nel loro classico ordine i più piccoli particolari della casa, di possedere solo cose di alta qualità, di portare in tavola i cibi più raffinati e di armonizzare tutto nella casa con la vita del cuore. Ebbero due figli e due figlie. La maggiore, Marguerite, era nata nel 1796. L'ultimo era un maschio di tre anni e si chiamava Jean-Balthazar. Nella signora Claës il sentimento materno fu quasi uguale al suo amore per il marito. Per questo nella sua anima, e soprattutto negli ultimi giorni della sua vita, si svolse un'orribile lotta tra questi due sentimenti ugualmente forti, dei quali l'uno era in certo qual modo divenuto nemico dell'altro. Le lacrime e il terrore impressi sul suo volto nel momento in cui comincia il racconto del dramma familiare che covava in quella placida casa erano causati dal timore di aver sacrificato i figli al marito.
Nel 1805 il fratello della signora Claës morì senza lasciare figli. La legge spagnola non permetteva che la sorella ereditasse i possedimenti territoriali che erano appannaggio dei titoli della casata; ma per disposizione testamentaria il duca le assegnò circa sessantamila ducati, che gli eredi del ramo collaterale non le contestarono. Benché il sentimento che la univa a Balthazar Claës fosse tale che mai l'avrebbe macchiato alcun pensiero d'interesse, Joséphine provò una certa soddisfazione nel trovarsi a possedere una ricchezza pari a quella del marito e fu felice di poter a sua volta offrirgli qualcosa dopo aver tutto così nobilmente ricevuto da lui. Il caso fece dunque in modo che quel matrimonio, nel quale secondo un calcolo grossolano si sarebbe veduta una follia, fosse anche dal punto di vista dell'interesse un matrimonio eccellente. L'impiego di quel denaro fu piuttosto difficile da stabilirsi. Casa Claës era così riccamente fornita di mobili, quadri, oggetti d'arte e di pregio, che pareva difficile aggiungervi cose degne di quelle che già vi erano. Il buon gusto della famiglia aveva accumulato tesori. Una generazione si era messa alla ricerca di bei quadri, e la necessità di completare la collezione iniziata aveva in seguito reso ereditario il gusto della pittura. I cento quadri che ornavano la sala di comunicazione tra il quartiere posteriore e le stanze di ricevimento al primo piano del fabbricato anteriore, e una cinquantina di altri esposti nei salotti di rappresentanza avevano richiesto tre secoli di pazienti ricerche. Erano pezzi celebri di Rubens, di Ruysdael, di Van Dyck, di Terburg, di Gérard Dow, di Teniers, di Miéris, di Paul Potter, di Wouwermans, di Rembrandt, di Hobbema, di Cranach e di Holbein. In minor numero erano i quadri italiani e francesi, ma tutti autentici e importanti. Un'altra generazione aveva avuto il capriccio dei servizi di porcellana giapponese o cinese. Un Claës s'era appassionato di mobili, un altro di argenteria; insomma, ognuno di essi aveva avuto la sua mania, la sua passione, che è uno dei tratti più notevoli del carattere fiammingo. Il padre di Balthazar, ultimo erede della famosa società olandese, aveva lasciato una delle più ricche collezioni di tulipani che si conoscessero. Oltre a queste ricchezze ereditarie, che costituivano un enorme capitale e arredavano magnificamente quella vecchia dimora, semplice all'esterno come una conchiglia, ma come una conchiglia internamente splendente e rivestita dei più ricchi colori, Balthazar Claës possedeva anche una casa di campagna nella pianura d'Orchies. Lungi dal basare, come i Francesi, le sue spese sul reddito, aveva seguito il vecchio costume olandese di consumarne solo un quarto, e milleduecento ducati all'anno gli consentivano un tenore di vita pari a quello delle persone più ricche della città. La pubblicazione del Codice Civile diede ragione a questa avvedutezza. Prescrivendo l'uguale ripartizione dei beni, le norme testamentarie avrebbero dovuto lasciare i figli quasi in povertà e disperdere un giorno le ricchezze dell'antica raccolta Claës. Balthazar, d'accordo con la moglie, ne investì il denaro in modo da lasciare a ciascun figlio una posizione simile a quella del padre. La famiglia Claës mantenne dunque la modestia del suo tenore di vita e acquistò dei boschi, un po' rovinati dalle recenti guerre, che però, mantenuti a modo, avrebbero avuto, dopo dieci anni, un enorme valore. L'alta società di Douai che Claës frequentava aveva saputo apprezzare così bene il buon carattere e le qualità della moglie che, per una specie di tacita convenzione, ella era dispensata dalle formalità alle quali tanto bada la gente di provincia. Durante l'inverno che trascorreva in città, ella usciva assai di rado, andavano gli altri da lei. Riceveva tutti i mercoledì, e ogni mese offriva tre grandi pranzi. Ognuno aveva capito che lei si trovava più a suo agio in casa, dove la trattenevano, del resto, la passione per il marito e le cure che richiedeva l'educazione dei figli. Tale era nel 1809 l'esistenza di quella famiglia che non aveva niente di conforme alle idee correnti. La vita di quei due esseri, segretamente piena d'amore e di gioia, era esteriormente simile a qualsiasi altra. La passione di Balthazar Claës per la moglie, che la moglie sapeva tener desta, pareva, come faceva notare lui stesso, tutta intesa a usufruire della sua innata costanza nel coltivare la felicità: ben di meglio che coltivare tulipani dai quali pur era attratto sin dall'infanzia; restava così dispensato dall'avere un hobby come ciascuno dei suoi antenati aveva avuto il proprio.
Alla fine di quell'anno l'intelligenza e il comportamento di Balthazar subirono funeste alterazioni; erano però cominciate in modo così naturale, che in un primo momento la signora Claës non aveva trovato necessario domandargliene la causa. Una sera il marito, al momento di coricarsi, era apparso in uno stato di preoccupazione che lei si era fatto un dovere di rispettare. La sua delicatezza di donna e la sua abituale sottomissione le avevano sempre lasciato attendere le confidenze di Balthazar, la cui fiducia le era garantita da un affetto così profondo da non offrir presa alla gelosia. Benché fosse certa di ottenere una risposta quando si permetteva una domanda curiosa, aveva sempre serbato dalle prime impressioni della sua vita il timore di un rifiuto. D'altronde, la malattia morale del marito ebbe fasi diverse e soltanto attraverso variazioni progressivamente più forti arrivò a quella violenza irresistibile che distrusse la felicità della famiglia. Per quanto Balthazar fosse indaffarato, restò tuttavia per parecchi mesi ciarliero ed affettuoso, e il cambiamento del suo carattere si manifestò soltanto con frequenti distrazioni. La signora Claës sperò per molto tempo di conoscere dal marito il segreto delle sue attività; egli forse non voleva rivelarlo che nel momento in cui sarebbero arrivate a utili risultati, molti uomini infatti hanno un orgoglio che li spinge a nascondere le loro lotte e a mostrarsi solo quando sono vittoriosi. Nel giorno del trionfo, la felicità domestica sarebbe dunque ricomparsa tanto più splendente quanto più Balthazar si fosse avveduto di quella lacuna nella propria vita amorosa che il cuore avrebbe certamente condannata. Joséphine conosceva abbastanza il marito per sapere che non si sarebbe mai perdonato di aver reso meno felice la sua Pepita per parecchi mesi. Ella se ne stava dunque in silenzio, provando una specie di gioia nel soffrire a causa di lui, per lui, giacché la sua passione si colorava di quella religiosità spagnola che non disgiunge mai la fede dall'amore e non concepisce sentimento senza sofferenza. Attendeva perciò un ritorno d'affettività, ripetendosi ogni sera: «Sarà per domani», e pensando alla propria felicità come a una creatura assente. Concepì l'ultimo figlio in mezzo a questi turbamenti segreti; orribile presagio di un doloroso avvenire! In quella circostanza l'amore fu, tra le distrazioni del marito, come una distrazione più forte delle altre. Il suo orgoglio di donna, per la prima volta ferito, le fece sondare la profondità dell'abisso ignoto che la separava per sempre dal Claës dei primi tempi. Da quel momento le condizioni di Balthazar peggiorarono. Quell'uomo fino ad allora continuamente immerso nelle gioie domestiche, che giocava per ore intere coi figli, che si rotolava con loro sul tappeto del parlatorio o nei vialetti del giardino, che pareva non potesse vivere se non sotto gli occhi neri della sua Pepita, non si accorse minimamente della gravidanza della moglie, dimenticò di vivere in famiglia e dimenticò se stesso. Più la signora Claës aveva tardato a chiedergli la natura delle sue occupazioni, meno osava farlo. A quel pensiero il sangue le fremeva e la voce le mancava. Credette infine di non piacere più al marito, e allora si allarmò davvero. Quel timore la immerse in una esaltata disperazione, divenne causa di molte ore malinconiche e di tristi fantasticherie. Ella giustificava Balthazar a proprio danno, trovandosi brutta e vecchia; più tardi intravide un'intenzione generosa, ma umiliante per lei, nel lavoro col quale egli si creava una fedeltà negativa, e volle rendergli la sua indipendenza permettendo che si instaurasse uno di quei segreti divorzi che lasciano una parvenza di felicità a parecchi matrimoni. Tuttavia, prima di dire addio alla vita coniugale, cercò di leggere in fondo a quel cuore, ma lo trovò chiuso. Insensibilmente, vide Balthazar diventare indifferente a tutto ciò che aveva amato, trascurare i suoi tulipani in fiore e non interessarsi più dei figli. Senza dubbio egli era in preda a una qualche passione estranea agli affetti del cuore, ma secondo le donne non meno nefasta per esso. L'amore era addormentato, non svanito.
Se questa fu una consolazione, la disgrazia tuttavia non ne fu attenuata. Il perdurare di quella crisi si spiega con una sola parola: speranza, segreto di tutte queste situazioni coniugali. Quando la povera donna arrivava a un grado di disperazione che le dava il coraggio di interrogare il marito, proprio allora ella ritrovava quel momento dolce durante il quale Balthazar le dimostrava che, seppur in preda a pensieri diabolici, questi gli permettevano di tornare talvolta a essere se stesso. In tali istanti in cui il suo cielo si rischiarava, era troppo occupata a godere della propria felicità per turbarlo con richieste inopportune; poi, quando si era fatta il coraggio di interrogare Balthazar, proprio nel momento in cui stava per parlare, egli subito le sfuggiva, la lasciava bruscamente o cadeva nell'abisso delle sue meditazioni da cui niente lo poteva distogliere. Ben presto la reazione del morale sul fisico cominciò i suoi tristi effetti, dapprima impercettibili, ma non tali da sfuggire allo sguardo d'una donna innamorata che seguiva i pensieri segreti del marito nelle loro minime manifestazioni. Spesso ella tratteneva a stento le lacrime vedendolo dopo cena sprofondato in una poltrona accanto al fuoco, taciturno e pensieroso, l'occhio fisso sopra uno dei pannelli neri, senza accorgersi del silenzio che regnava attorno a lui. Ella osservava con terrore i cambiamenti insensibili che devastavano quel volto che l'amore aveva reso sublime; da esso si ritraeva ogni giorno di più la vita dell'anima e ne restava come un teschio senza alcuna espressione. Talvolta gli occhi assumevano un colore vitreo, e lo sguardo pareva volgersi e appuntarsi all'interno. Quando i bambini si erano coricati, dopo alcune ore di silenzio e di solitudine piene di orribili pensieri, se la povera Pepita si arrischiava a domandare: «Dimmi, che hai, caro?», Balthazar qualche volta non rispondeva, o se rispondeva tornava in sé trasalendo come chi è strappato improvvisamente al sonno e diceva un «niente» secco e cavernoso che cadeva pesantemente sul cuore della moglie desolata. Benché volesse nascondere agli amici la strana situazione in cui si trovava, ella fu tuttavia costretta a parlarne. Come sempre nelle piccole città, nella maggior parte dei salotti non si parlava che del mutamento di Balthazar, e in certi ambienti si conoscevano già molti particolari ignorati dalla signora Claës. Anzi, nonostante il silenzio imposto dalla discrezione, alcuni amici dimostrarono così vive inquietudini, che ella si affrettò a giustificare le stranezze del marito. Balthazar, diceva, aveva intrapreso un grande lavoro che lo assorbiva, ma il cui risultato doveva esser motivo di gloria per la sua famiglia e per la patria. Quella misteriosa spiegazione sollecitava troppo l'ambizione di una città nella quale più che in qualsiasi altra regna l'amore per il proprio paese e il desiderio di renderlo illustre, per non produrre negli animi una reazione favorevole a Claës. Le supposizioni della moglie erano fino ad un certo punto abbastanza fondate. Parecchi operai di mestieri diversi avevano a lungo lavorato nella soffitta del fabbricato anteriore, dove Balthazar si recava ogni mattina. Balthazar rimaneva lassù sempre più a lungo, cosa alla quale si erano insensibilmente abituati la moglie e tutti i suoi, e infine si tratteneva in soffitta intere giornate. Ma, dolore atroce! la signora Claës apprese dalle umilianti confidenze di amiche affezionate, stupite della sua ignoranza, che il marito non la finiva più di comperare a Parigi strumenti di fisica, materiali preziosi, libri, macchinari, e si stava rovinando, dicevano, per cercare la pietra filosofale. Spettava a lei, aggiungevano le amiche, pensare ai figli e al suo stesso avvenire, e sarebbe stato un delitto non valersi della sua influenza per distogliere il marito dalla strada sbagliata per la quale si era incamminato. La signora Claës ritrovò la sua fierezza di gran dama per far tacere quegli assurdi discorsi ma, invasa dal terrore nonostante la sua apparente sicurezza, decise di abbandonare la parte di moglie sacrificata. Si determinò allora una di quelle situazioni nelle quali la donna è su un piano di eguaglianza col marito; fatta così meno timorosa, osò domandare a Balthazar la ragione della sua trasformazione e il motivo del suo costante isolamento. L'uomo le rispose: «Mia cara, non ci capiresti nulla».
Un giorno Joséphine insistette per conoscere quel segreto, lagnandosi dolcemente di non venir messa a parte di
tutti i pensieri dell'uomo col quale pur divideva l'esistenza. «Giacché la cosa ti interessa tanto», rispose Balthazar tenendo la moglie sulle ginocchia e accarezzandole i neri capelli, «ti dirò che mi sono dato alla chimica e che sono l'uomo più felice del mondo».
Due anni dopo l'inverno nel quale Claës era diventato chimico, la sua casa aveva cambiato aspetto. Sia che gli
altri si sentissero offesi della perpetua distrazione dello scienziato o pensassero di disturbarlo, sia che le segrete ansietà avessero reso meno simpatica la signora Claës, ella ormai riceveva soltanto gli amici intimi. Balthazar non andava in nessun luogo, si chiudeva nel suo laboratorio per l'intera giornata, vi restava talvolta anche la notte e non compariva in seno alla famiglia che all'ora di pranzo. A partire dal secondo anno, smise di trascorrere la bella stagione nella casa di campagna, dove la moglie non volle abitare da sola. Qualche volta Balthazar usciva di casa, passeggiava, e non rientrava che il giorno dopo, lasciando per tutta la notte la signora Claës in preda a mortali inquietudini. Ella, dopo averlo fatto inutilmente cercare in una città le cui porte venivano chiuse ogni sera, come in una piazzaforte, non poteva mandargli dietro nessuno per la campagna. La poveretta non aveva allora nemmeno più la speranza mista ad angoscia che viene dall'attesa, e soffriva fino all'indomani. Balthazar, che aveva dimenticato l'ora della chiusura delle porte, arrivava il giorno dopo tutto tranquillo, senza immaginare le torture che la sua distrazione apportava alla famiglia. La gioia di rivederlo era per la moglie una crisi altrettanto grave che le sue apprensioni; ella taceva, non osava interrogarlo; infatti la prima volta che gli domandò qualcosa, lui rispose con aria stupita: «Be'? non si può più andare a passeggio?». Le passioni non si possono nascondere. Le inquietudini della signora Claës giustificarono infatti le voci che ella aveva creduto di smentire. La sua giovinezza l'aveva abituata a conoscere l'educata pietà della gente; per non doverla subire una seconda volta, si rinchiuse sempre di più entro i muri della sua casa che veniva abbandonata da tutti, anche dagli ultimi amici. La trascuratezza nel vestire, sempre così degradante in un uomo di elevate condizioni, divenne tale in Balthazar che, in mezzo a tante cause di afflizione, non fu certo la meno importante nel tormentare quella donna avvezza allo scrupoloso ordine dei Fiamminghi. D'accordo con Lemulquinier, domestico del marito, Joséphine per qualche tempo rimediò allo strazio giornaliero degli abiti, ma bisognò rinunciarvi. Lo stesso giorno in cui, all'insaputa
di Balthazar, nuovi capi di vestiario erano stati sostituiti ad altri pieni di macchie, sbrindellati o sciupati, lui li riduceva a stracci. Quella donna già felice per quindici anni, che non aveva mai avuto motivi di gelosia, si trovò all'improvviso a non contar apparentemente più nulla in quell'animo nel quale fino ad allora era stata regina. Da buona spagnola, sentì avvampare in sé la passione mediterranea quando scoprì una rivale nella Scienza che le portava via il marito; i tormenti della gelosia le divorarono il cuore e risvegliarono il suo amore. Ma che fare contro la Scienza? Come combattere il suo potere continuo, tirannico e crescente? Come uccidere una rivale invisibile? Come può una donna, che ha per natura ben limitati poteri, lottare con un'idea che può offrire infiniti piaceri e sempre nuove attrattive? Che cosa tentare contro il fascino delle idee che si rinnovano, rinascono più belle nelle difficoltà, e trascinano un uomo così lontano dal mondo da fargli dimenticare anche gli affetti più cari? Un giorno infine, nonostante gli ordini severi che Balthazar aveva impartito, volle almeno non abbandonarlo, ma chiudersi insieme a lui in quella soffitta dove egli si ritirava, combattere a corpo a corpo con la sua rivale assistendo il marito nelle lunghe ore che dedicava a quella terribile amante. Volle scivolare nascostamente in quel misterioso laboratorio di seduzione, e acquistare il diritto di rimanervi per sempre. Cercò dunque di dividere con Lemulquinier il diritto di entrare nel laboratorio; ma, per non farlo testimone di una discussione che paventava, aspettò un giorno in cui il marito non avesse avuto bisogno del cameriere. Da qualche tempo studiava i passi del domestico con astiosa impazienza: lui sapeva tutto quello che lei desiderava conoscere, quello che il marito le nascondeva e che lei non osava domandargli; Lemulquinier era più importante di lei, la moglie!
Entrò dunque, tremante e quasi felice; ma per la prima volta in vita sua conobbe la collera di Balthazar. Aveva
appena socchiuso la porta, che egli si precipitò su di lei, la prese e la gettò rudemente sulla scala, dove per poco non ruzzolò fino in fondo. «Dio sia lodato, sei salva!», esclamò Balthazar rialzandola. Uno schermo di vetro era andato in frantumi addosso alla signora Claës, che vide il marito pallido, livido, sconvolto. «Mia cara, ti avevo proibito di venire qui», disse sedendosi abbattuto su un gradino. «Qualche santo ti ha salvato la vita. Perché mai i miei occhi erano fissi sulla porta? Abbiamo rischiato di restare uccisi». «Ne sarei stata felice», rispose lei.
«La mia esperienza è svanita», riprese Balthazar. «Solo a te posso perdonare il dolore che mi dà questa crudele delusione. Stavo forse per scomporre l'azoto. Va', torna alle tue occupazioni». E rientrò nel laboratorio.
«Stavo forse per scomporre l'azoto!», si disse la povera donna tornando nella sua camera, dove si sciolse in lacrime.
Quella frase era per lei senza senso. Gli uomini, abituati dalla loro educazione a tutto capire, non sanno quanto sia terribile per una donna non comprendere i pensieri della persona amata. Più indulgenti di noi, quelle divine creature non dicono niente quando il linguaggio della loro anima resta incompreso; temono di farci sentire la superiorità dei loro sentimenti e nascondono i dolori con la stessa gioia con la quale celano i loro piaceri incompresi; ma più ambiziose di noi in amore, vogliono sposare qualcosa di più che il cuore dell'uomo, vogliono anche tutti i suoi pensieri. Per la signora Claës non saper niente della Scienza di cui si occupava il marito voleva dire provare un dispetto più forte di quello provato dalla bellezza di una rivale. Una lotta da donna a donna lascia a quella che ama di più il vantaggio di amare meglio; ma quel dispetto testimoniava impotenza e umiliava tutti i sentimenti che aiutano a vivere. Joséphine era priva di cultura! Era, quella, per lei una situazione nella quale la sua ignoranza la separava dal marito. Infine, ultimo supplizio, e il peggiore, aveva capito che egli era spesso tra la vita e la morte, affrontava pericoli lontano da lei eppur vicino, senza che lei li condividesse, e nemmeno li conoscesse. Era quella, come l'inferno, una prigione morale senza via d'uscita, senza speranza. La signora Claës volle almeno conoscere le attrattive di quella scienza e si mise a studiare di nascosto la chimica sui libri. Quella famiglia fu allora come segregata in un chiostro. Queste erano state le fasi successive attraverso le quali la sventura aveva fatto passare la famiglia Claës prima di condurla a quella specie di morte civile da cui la troviamo colpita al momento dell'inizio di questa storia.
Quella drammatica situazione si complicò. Come tutte le donne appassionate, la signora Claës era di un disinteresse incredibile. Chi ama profondamente sa quanto poco valga il denaro in confronto ai sentimenti e con quale difficoltà esso possa mescolarvisi. Ciononostante, Joséphine venne a conoscere non senza una crudele emozione che il marito era debitore di trecentomila franchi ipotecati sulle sue proprietà. L'autenticità dei contratti sanzionava le inquietudini, le voci, le congetture della città. La signora Claës, giustamente allarmata, fu costretta, lei così fiera, a consultare il notaio del marito, a metterlo al corrente delle sue sofferenze o a lasciargliele capire, e a sentire infine questa umiliante domanda: «Ma il signor Claës non vi ha ancora detto niente?». Per fortuna il notaio di Balthazar era un suo lontano parente. Infatti, il nonno di Claës aveva sposato una Pierquin di Anversa, della stessa famiglia dei Pierquin di Douai, e dopo quel matrimonio questi, benché non fossero parenti dei Claës, li avevano trattati da cugini. Pierquin, un giovane di ventisei anni, che era da poco succeduto al padre nella professione, era la sola persona che potesse accedere in casa Claës. La signora era vissuta per tanti mesi in una così completa solitudine, che il notaio fu costretto a confermarle la notizia dei dissesti già noti a tutta la città. Probabilmente, disse, il marito doveva forti somme alla ditta che gli forniva prodotti chimici. Dopo essersi informata del patrimonio e della considerazione di cui godeva Claës, quella ditta accoglieva tutte le sue richieste e faceva le spedizioni senza preoccuparsi, nonostante l'entità dei crediti. La signora Claës incaricò Pierquin di richiedere la nota delle forniture fatte al marito. Due mesi dopo, Protez e Chiffreville, fabbricanti di prodotti chimici, inviarono un estratto conto che ammontava a centomila franchi. La signora Claës e Pierquin studiarono quella fattura con crescente sorpresa. Se molti articoli, indicati con vocaboli scientifici o commerciali, erano per loro incomprensibili, furono sbigottiti nel vedere messe in conto partite di metalli e di diamanti di tutte le specie, ma in piccole quantità. L'ammontare del debito si spiegava facilmente col gran numero di articoli, con le precauzioni che richiedeva il trasporto di talune sostanze o la spedizione di alcune macchine preziose, col prezzo esorbitante di certi prodotti che si ottenevano solo difficilmente o che la rarità rendeva costosi, e infine col valore degli strumenti di fisica o di chimica fabbricati secondo le istruzioni di Claës. Il notaio, nell'interesse del cugino, aveva assunto informazioni su Protez e Chiffreville, e l'onestà di quei fornitori poteva dare assicurazioni sulla moralità delle loro operazioni con Claës, al quale, d'altronde, comunicavano spesso i risultati ottenuti dai chimici di Parigi per evitargli delle spese. La signora Claës pregò il notaio di tener nascosta alla gente di Douai la natura di quegli acquisti, che sarebbero stati tacciati di follia, ma Pierquin le rispose che già, per non sminuire la considerazione di cui godeva Claës, egli aveva ritardato fino all'ultimo momento le operazioni notarili che l'entità delle somme prestate sulla fiducia dai suoi clienti aveva alla fine reso necessarie. Scoprì la profondità della piaga dicendo alla cugina che, se lei non trovava il mezzo di impedire al marito di spendere così follemente il denaro, entro sei mesi i beni patrimoniali sarebbero stati gravati da ipoteche che ne avrebbero oltrepassato il valore. Quanto a lui, aggiunse, le osservazioni che aveva fatto al cugino, con i riguardi dovuti ad un uomo così giustamente stimato, non avevano avuto la minima influenza. Una volta per tutte Balthazar gli aveva risposto che egli lavorava per la gloria e la fortuna della sua famiglia. Così, a tutte le torture del cuore che la signora Claës sopportava da due anni, ognuna delle quali pesava sull'altra e accresceva il dolore presente di tutti i dolori passati, si aggiunse un timore angoscioso, incessante, che le rendeva spaventoso il futuro. Le donne hanno presentimenti la cui esattezza ha del miracoloso. Perché mai sono allarmate piuttosto che fiduciose quando si tratta degli interessi della vita? Perché hanno fede soltanto nelle grandi idee religiose del futuro? Perché presagiscono così acutamente le catastrofi economiche e le crisi del nostro destino? Forse il sentimento che le unisce all'uomo amato fa loro meravigliosamente valutare le forze di lui, giudicare le sue possibilità, conoscere i suoi gusti, le sue passioni, i suoi vizi e le sue virtù; lo studio continuo delle cause in presenza delle quali si trovano senza posa dà certamente loro il fatale potere di prevederne gli effetti in ogni possibile circostanza. Quel che vedono del presente le fa giudicare del futuro con un'abilità spiegabile secondo natura con la perfezione del sistema nervoso femminile, che permette loro di cogliere i più sottili segni diagnostici del pensiero e dei sentimenti. Tutto in esse vibra all'unisono con le grandi emozioni spirituali. Sentono oppure vedono. Ebbene, per quanto da due anni separata dal marito, la signora Claës presagiva la rovina del suo patrimonio. Ella aveva apprezzato l'ardore riflessivo, l'inalterabile costanza di Balthazar; se davvero cercava di fabbricare l'oro, avrebbe gettato con perfetta indifferenza il suo ultimo pezzo di pane nel crogiuolo; ma che cosa cercava? Fino ad allora il sentimento materno e l'amore coniugale si erano fusi così bene nel cuore della donna, che i figli, ugualmente amati da lei e dal marito, non si erano mai interposti tra i coniugi. Ma all'improvviso ella si sentì in qualche momento più madre che sposa, benché fosse più di frequente sposa che madre. E tuttavia, per quanto fosse disposta a sacrificare i propri beni ed anche i figli alla felicità dell'uomo che l'aveva scelta, amata, adorata e per il quale lei era ancora la sola donna al mondo, i rimorsi che le causava la debolezza del suo amore materno la gettavano in orribili alternative. Come donna soffriva infatti nel profondo del cuore, come madre nei figli, e come cristiana soffriva per tutti. Taceva e teneva dentro di sé quelle crudeli tempeste. Il marito, solo arbitro della sorte della famiglia, era padrone di determinare a suo piacimento il destino, egli non doveva renderne conto che a Dio. D'altra parte, come poteva lei rimproverargli l'uso che faceva dei suoi beni, dopo il disinteresse che aveva dimostrato in dieci anni di matrimonio? Come poteva lei essere giudice dei suoi progetti? Ma la coscienza, d'accordo col sentimento e con le leggi, le diceva che i genitori erano i depositari del patrimonio e non avevano il diritto di distruggere il benessere materiale dei figli. Per non risolvere questi gravi interrogativi, ella preferiva chiudere gli occhi, come fa chi si rifiuta di guardare l'abisso in fondo al quale sa di dover precipitare. Da sei mesi il marito non le aveva più dato denaro per le spese della casa. Fece allora vendere di nascosto a Parigi le ricche parures di diamanti che il fratello le aveva donato il giorno del suo matrimonio e instaurò in casa la più stretta economia. Licenziò la governante dei figli e anche la nutrice di Jean. Una volta il lusso delle carrozze era sconosciuto alla borghesia, così semplice nei costumi e insieme così fiera nei sentimenti. Niente era perciò stato previsto in casa Claës per quelle moderne abitudini, e Balthazar era costretto a tenere la scuderia e la rimessa in una casa di fronte alla propria. Le sue occupazioni non gli permettevano più di sorvegliare questo settore domestico, che riguarda propriamente gli uomini; la signora Claës eliminò la forte spesa delle carrozze e del personale che il suo isolamento rendeva inutili e, nonostante la bontà di queste ragioni, non cercò minimamente di giustificare le proprie innovazioni. Fino a quel momento i fatti avevano smentito le sue parole, la cosa più conveniente ormai era il silenzio. Il cambiamento avvenuto nel tenore di vita dei Claës non era giustificabile in un paese nel quale, come in Olanda, chiunque spende tutto il proprio reddito è considerato un pazzo. Soltanto, poiché la figlia maggiore, Marguerite, stava per compire sedici anni, sembrò che Joséphine volesse procurarle un bel matrimonio e darle una posizione come si conveniva a una fanciulla imparentata coi Molina, coi Van-OstromTemninck, coi Casa-Real. Qualche giorno prima di quello in cui ha inizio questa storia, mentre portava i figli ai vespri, la signora Claës aveva incontrato Pierquin che andava a trovarla e che l'accompagnò fino a Saint-Pierre, parlandole sottovoce della sua situazione.
«Cugina», disse, «senza venir meno all'amicizia che mi lega alla vostra famiglia, non potrei nascondervi il pericolo in cui vi trovate, e non pregarvi di parlare con vostro marito. Chi se non voi potrebbe fermarlo sull'orlo dell'abisso sul quale camminate? I redditi dei beni ipotecati non bastano nemmeno a pagare gli interessi delle somme prestate; così voi siete oggi senza alcuna entrata. Tagliare i boschi vorrebbe dire privarvi della sola possibilità di sopravvivenza che vi resti per l'avvenire. Mio cugino Balthazar è in questo momento debitore di una somma di trentamila franchi alla ditta Protez e Chiffreville di Parigi e con che cosa li pagherete? con che cosa vivrete? e che cosa succederà se Claës continua a richiedere reattivi, alambicchi, pile di Volta e altre diavolerie? Tutto il vostro patrimonio, meno la casa e i mobili, si è consumato in gas e carbone. Quando si è trattato, l'altro ieri, di ipotecare la casa, sapete quale fu la risposta di Claës? «Diavolo!». Fu il primo segno di ragione che abbia dato in tre anni».
La signora Claës strinse dolorosamente il braccio di Pierquin, alzò gli occhi al cielo e disse: «Serbate il segreto».
Nonostante la sua devozione, la povera donna, annientata da quelle parole di una chiarezza agghiacciante, non poté pregare; restò immobile sulla sedia in mezzo ai suoi figli e aprì il libro di preghiere senza voltarne neppure una pagina: era caduta in una ossessione così profonda come le meditazioni di suo marito. L'onore spagnolo, l'onestà fiamminga risuonavano nella sua anima con una voce potente come quella dell'organo. La rovina dei suoi figli era consumata! Tra essi e l'onore del padre non bisognava più esitare. La necessità di una lotta imminente tra lei e il marito la spaventava; egli era ai suoi occhi così grande, così imponente che la sola prospettiva della sua collera la sconvolgeva come l'idea della maestà divina. Stava dunque per uscire da quella costante soggezione nella quale era sempre santamente rimasta come sposa. L'interesse dei figli l'avrebbe costretta a contrariare un uomo ch'ella idolatrava. Sarebbe stato spesso necessario riportarlo a questioni pratiche, mentre egli si librava nelle alte sfere della Scienza, e richiamarlo violentemente da un roseo avvenire per tuffarlo in quello che la vita materiale ha di più ripugnante per gli artisti e per gli uomini grandi. Agli occhi di lei Balthazar Claës era un gigante di scienza, un uomo pieno di gloria; egli non poteva averla dimenticata se non per le più ricche speranze; e poi era così profondamente assennato, lo aveva sentito parlare con tanta intelligenza su argomenti di qualsiasi genere, che egli non poteva sbagliare quando diceva che lavorava per la gloria e il bene della famiglia. L'amore di quell'uomo per la moglie e per i figli non era immenso, era infinito. Quei sentimenti non erano certo scomparsi, ma si erano senza dubbio approfonditi, ripresentandosi sotto un'altra forma. Lei, così nobile, così generosa e timida, avrebbe fatto echeggiare continuamente alle orecchie di quell'uomo così grande la parola denaro, e il suono del denaro gli avrebbe mostrato le piaghe della miseria e fatto sentire le grida del bisogno, mentre lui avrebbe udito la voce melodiosa della Fama. Non sarebbe diminuito l'affetto che Balthazar aveva per lei? Se non avesse avuto i figli, avrebbe abbracciato coraggiosamente e con piacere il nuovo destino che il marito le offriva. Le donne cresciute nell'abbondanza non tardano a sentire il vuoto che i piaceri materiali nascondono, e quando il cuore, non tanto inaridito ma stanco, ha fatto trovar loro la felicità che nasce da uno scambio costante di sentimenti sinceri, non indietreggiano davanti a un'esistenza modesta, se tale esistenza conviene alla persona da cui sanno di essere amate. Le loro idee, i loro piaceri sono soggetti ai capricci di quella vita da cui dipendono, per loro il solo timore riguardo l'avvenire è di perderla. In quel momento, dunque, i figli separavano Pepita dalla sua vita vera, come Balthazar Claës s'era separato da lei per la Scienza; perciò, quando fu tornata dai vespri e si fu gettata sulla sua poltrona, mandò via i ragazzi raccomandando loro il più profondo silenzio, indi fece pregare il marito di recarsi da lei; ma, benché Lemulquinier, il vecchio domestico, avesse insistito per strapparlo al laboratorio, Balthazar era rimasto là. La signora Claës aveva dunque avuto il tempo di riflettere. E anche lei era rimasta pensierosa, senza prestare attenzione all'ora né al tempo né al giorno. Il pensiero di dovere trentamila franchi e di non poter pagarli risvegliò le sofferenze passate e le aggiunse a quelle del presente e del futuro. Quel cumulo di interessi, di pensieri, di sensazioni la trovò troppo debole, e pianse. Quando vide entrare Balthazar, l'aspetto del quale parve allora più terribile, più assorto, più stravolto che mai, quando egli non le rispose, restò soprattutto colpita dall'immobilità di quello sguardo bianco e vuoto, da tutti i pensieri divoranti che trasparivano da quella fronte calva. Sotto la forza di quell'impressione desiderò morire. Quando ebbe udito quella voce indifferente esprimere un desiderio scientifico nel momento in cui lei aveva il cuore oppresso, le tornò il coraggio e decise di lottare contro quella spaventosa potenza che le aveva portato via un amante, che aveva sottratto ai figli un padre, alla casa un patrimonio e a tutti la felicita. Tuttavia non poté reprimere la costante trepidazione che l'agitava, giacché in tutta la vita non si era mai trovata in una situazione così drammatica. Non comprendeva virtualmente il suo futuro e non riassumeva forse in sé tutto il passato, quel terribile momento?
I deboli, le persone timide o quelle per cui l'intensità delle sensazioni ingigantisce le minime difficoltà della vita, gli uomini che provano un fremito involontario davanti agli arbitri del loro destino, possono tutti immaginare la folla di pensieri che vorticarono nella mente di quella donna e i sentimenti che col loro peso le oppressero il cuore quando il marito si avviò lentamente verso la porta del giardino. La maggior parte delle donne conosce le angosce dell'intima decisione contro la quale la signora Claës si dibatteva. Perciò anche quelle che finora hanno avuto il cuore violentemente scosso anche solo per confessare al marito qualche spesa eccessiva o debiti con la sarta, capiranno come possa battere il cuore quando si tratta di tutta la vita. Una donna bella acquista grazia quando si getta ai piedi del marito e trova un aiuto negli atteggiamenti del dolore, mentre il sentimento dei propri difetti fisici accresceva le paure della signora Claës. Per questo, quando vide Balthazar in procinto di uscire, il suo primo movimento fu di slanciarsi verso di lui, ma un pensiero crudele la trattenne. Stava per alzarsi in piedi davanti a lui! Non sarebbe apparsa ridicola ad un uomo che, non più soggetto agli incanti dell'amore, poteva veder chiaro? Joséphine avrebbe volentieri perduto tutto, denaro e figli, piuttosto che veder scemare il suo potere di donna. Volle evitare ogni possibile passo falso in un momento così drammatico, e chiamò a voce alta: «Balthazar!».
Egli si voltò meccanicamente e tossì, ma, senza far attenzione alla moglie, andò a sputare in uno di quei piccoli recipienti quadrati posti ogni tanto lungo le pareti come in tutti gli appartamenti dell'Olanda e del Belgio. Quell'uomo che non pensava a nessuno, non dimenticava mai le sputacchiere, tanto era inveterata quell'abitudine. Alla povera Joséphine, incapace di rendersi conto di quella stranezza, la cura costante che il marito aveva degli oggetti di casa provocava sempre un'indicibile angoscia, ma in quel momento questa fu così violenta, da farla andare fuori di sé e da farle esclamare con una voce piena d'impazienza, che esprimeva tutti i suoi sentimenti feriti: «Ma io vi sto parlando!».
«E con questo?», rispose Balthazar voltandosi improvvisamente e lanciando alla moglie uno sguardo dove
ritornava la vita e che fu per lei come un colpo di fulmine.
«Scusatemi», disse ella impallidendo. Fece per alzarsi e tendergli la mano, ma ricadde senza forza. «Sto morendo», aggiunse con voce soffocata dai singhiozzi.
A quella vista Balthazar ebbe, come tutte le persone distratte, una vivace reazione e indovinò per così dire il
segreto di quella crisi. Prese subito la signora Claës tra le braccia, aprì la porta che dava sulla piccola anticamera e salì così rapidamente la vecchia scala di legno, che la veste della donna impigliatasi nelle fauci di una testa di chimera della balaustra, si strappò con gran rumore. Egli aprì con un calcio la porta del vestibolo che metteva in comunicazione i loro appartamenti, ma trovò chiusa la camera della moglie.
Posò dolcemente Joséphine su una poltrona, dicendo fra sé: «Mio Dio, dov'è la chiave?».
«Grazie», rispose la signora Claës aprendo gli occhi, «ecco la prima volta, dopo tanto tempo, che mi sento così vicina al tuo cuore».
«Dio buono», esclamò Claës, «la chiave! Questi domestici!».
Joséphine gli fe' cenno di prendere la chiave che era legata a un nastro nella sua tasca. Dopo aver aperto la porta, Balthazar gettò la donna sopra un divano e uscì per impedire ai domestici impressionati di salire, dando l'ordine di preparare subito il pranzo. Tornò poi immediatamente dalla moglie.
«Che cos'hai, vita mia?», le domandò sedendosi accanto a lei, prendendole la mano e baciandogliela.
«Non ho più niente», ella rispose, «non soffro più. Vorrei solo avere il potere di Dio per mettere ai tuoi piedi tutto l'oro del mondo».
«Perché dell'oro?», egli domandò. E attirò a sé la donna, l'abbracciò e la baciò nuovamente sulla fronte. «Non mi dai tu le più grandi ricchezze amandomi come mi ami, cara e preziosa creatura?».
«Oh, Balthazar, perché non puoi dissipare le angosce della vita di noi tutti, come ora con la tua voce lenisci la pena del mio cuore? Tu, lo vedo, sei sempre lo stesso».
«Di quali angosce parli, mia cara?».
«Ma noi siamo rovinati!».
«Rovinati», egli ripeté. Sorrise, accarezzò la mano della donna tenendola stretta tra le proprie e disse con una voce dolce che da tanto tempo non si era fatta sentire: «Domani, angelo mio, la nostra ricchezza sarà forse senza limiti. Ieri, cercando segreti ben più importanti, credo di aver trovato il sistema per cristallizzare il carbonio, la sostanza del diamante. Oh, moglie mia cara!... fra pochi giorni mi perdonerai le mie distrazioni. Pare che sia distratto qualche volta. Non sono stato brusco con te anche poco fa? Sii indulgente con un uomo che non ha mai cessato di pensare a te e il cui lavoro è tutto pieno di te, di noi».
«Basta, basta», ella disse, «parleremo di ciò stasera. Soffrivo per troppo dolore, ora soffro per troppo piacere».
Non si aspettava di rivedere quel volto animato da un sentimento così tenero verso di lei come in passato, di
sentire in quella voce la stessa dolcezza di una volta, di ritrovare tutto quanto credeva di aver perduto.
«Questa sera», egli riprese, «va bene, parleremo. Se dovessi sprofondarmi in qualche meditazione, ricordami
questa promessa. Questa sera voglio lasciar stare i miei calcoli, i miei lavori, e tuffarmi in tutte le gioie della famiglia, nelle voluttà del cuore; ne ho bisogno, Pepita, ne ho sete!».
«Mi dirai che cosa cerchi, Balthazar?».
«Ma, povera cara, non ne capiresti niente».
«Credi? Eh, mio caro, sono quasi quattro mesi che studio la chimica per poter parlarne con te. Ho letto Fourcroy, Lavoisier, Chaptal, Nollet, Rouelle, Berthollet, Gay-Lussac, Spallanzani, Leuwenhoëk, Galvani, Volta, insomma tutti i libri relativi alla Scienza che tu adori. Suvvia, puoi dirmi i tuoi segreti».
«Oh, ma tu sei un angelo!», esclamò Balthazar cadendo ai piedi della moglie e versando lacrime di commozione che la fecero fremere, «noi ci comprenderemo in tutto!».
«Ah», ella disse, «mi getterei nel fuoco dell'inferno che attizza i tuoi fornelli per udire queste parole dalla tua bocca e per vederti così». Udendo il passo della figlia nell'anticamera ella corse subito fuori. «Cosa volete, Marguerite?», chiese alla sua primogenita.
«Mamma cara, è arrivato ora il signor Pierquin. Se resta a pranzo ci vorrebbe della roba pulita, e vi siete scordata di darmene stamattina».
La signora Claës prese dalla tasca un mazzo di piccole chiavi, le consegnò alla figlia indicandole gli armadi in legno delle Antille che tappezzavano l'anticamera e le disse: «Ecco, prendetene a destra tra i servizi Graindorge. Giacché il mio caro Balthazar torna oggi da me», disse rientrando e atteggiando il volto a un'espressione dolcemente maliziosa, «restituiscimelo completamente. Caro, va' nella tua camera, fammi la grazia di metterti un po' bene, abbiamo Pierquin a pranzo. Vediamo, togliti questi abiti sciupati. Guarda, vedi queste macchie? Non è stato acido muriatico o solforico a orlare di giallo tutti questi buchi? Andiamo, fatti bello, ti manderò Lemulquinier quando mi sarò cambiata d'abito».
Balthazar volle passare in camera sua dalla porta interna, ma si era dimenticato che da tempo la teneva chiusa
dalla sua parte. Uscì allora per l'anticamera.
«Marguerite, posa la biancheria su una poltrona e vieni a vestirmi, non voglio Marta», disse la signora Claës chiamando la figlia.
Balthazar aveva afferrato Marguerite, l'aveva girata verso di sé con un gesto allegro dicendole: «Buongiorno, bambina mia, come sei bella oggi con quest'abito di mussolina e con questa cintura rosa!». La baciò in fronte e le strinse la mano.
«Mamma, papà mi ha baciata», disse Marguerite entrando nella camera della madre, «sembrava tanto allegro, tanto contento!».
«Cara, vostro padre è un uomo tanto grande, sono quasi tre anni che lavora per la gloria e il benessere della famiglia, e crede di aver raggiunto la mèta delle sue ricerche. Questo giorno deve essere per tutti noi una gran festa...».
«Mamma cara», rispose Marguerite, «i domestici erano così rattristati di vederlo sempre aggrondato, che non saremo i soli ad essere contenti. Oh, mettetevi un'altra cintura, questa è troppo opaca».
«Va bene, ma facciamo presto, voglio parlare con Pierquin. Dov'è?».
«Nel parlatorio, gioca con Jean».
«Dove sono Gabriel e Félicie?».
«Li sento parlare in giardino».
«Presto, scendete a sorvegliare che non colgano tulipani! Vostro padre non li ha ancora visti quest'anno e oggi potrebbe aver voglia di guardarli, alzandosi da tavola. Dite a Lemulquinier di portar di sopra a vostro padre tutto quello che gli occorre per prepararsi».
Quando Marguerite se ne fu andata, la signora Claës diede un'occhiata ai figli dalle finestre della sua camera
che davano sul giardino, e li vide intenti a osservare uno di quegli insetti con le ali verdi, luccicanti e tempestate d'oro, chiamati volgarmente cucitrici.
«State buoni, cari», disse alzando il vetro e fissandolo per arieggiare la camera. Poi bussò pian piano alla porta
interna per assicurarsi che il marito non fosse ricaduto in qualche distrazione. Egli aprì ed ella gli disse con voce allegra, vedendolo in atto di cambiarsi: «Non mi lascerai tanto tempo sola con Pierquin, vero? Mi raggiungerai presto!».
Si sentì così leggera mentre scendeva, che al rumore non si sarebbe riconosciuto il passo di una zoppa.
«Portandovi di sopra», le disse il domestico che incontrò sulle scale, «il signore vi ha strappato il vestito, non è che un pezzetto di stoffa; ma ha anche spezzato la mascella di questa chimera, e non so chi potrà rimetterla a posto.
Ecco sconciata la nostra scala, quella balaustra era così bella!».
«Be', povero Lemulquinier, lascia stare, non è poi una gran disgrazia».
«Che sta mai succedendo», disse tra sé Lemulquinier, «perché questo non sia un disastro? Non avrà il mio padrone trovato l'assoluto?».
«Buongiorno, Pierquin», disse la signora Claës aprendo la porta del parlatorio.
Il notaio si precipitò per offrire il braccio alla cugina, ma lei non si appoggiava se non a quello di suo marito.
Ringraziò il cugino con un sorriso e gli disse: «Venite per i trentamila franchi?».
«Sì, tornando a casa, ho ricevuto un avviso della ditta Protez e Chiffreville che ha emesso sul conto del signor Claës sei tratte di cinquemila franchi ciascuna».
«Bene, non parlatene oggi a Balthazar. Pranzate con noi. Se per caso vi domandasse perché siete venuto,
trovate qualche pretesto plausibile, ve ne prego. Datemi la lettera, gli parlerò io stessa di questa faccenda. Va tutto bene», riprese vedendo lo stupore del notaio. «Probabilmente tra qualche mese mio marito restituirà le somme che ha avuto in prestito».
Udendo queste parole pronunciate a bassa voce, il notaio osservò la signorina Claës che tornava dal giardino seguita da Gabriel e da Félicie e disse: «Non ho mai visto la signorina Marguerite bella come in questo momento!».
La signora Claës, che si era seduta sulla poltrona e aveva preso sulle ginocchia il piccolo Jean, alzò la testa e
guardò la figlia e il notaio ostentando indifferenza.
Pierquin era un uomo di media statura, né grasso né magro, con un viso discreto, che esprimeva una tristezza annoiata più che malinconica, un fantasticare vago più che pensoso; passava per misantropo, ma era troppo interessato, troppo buona forchetta perché il suo divorzio col mondo fosse reale. Il suo sguardo, abitualmente perduto nel vuoto, la sua aria indifferente, il suo ostentato silenzio sembravano indizi di profondità, mentre in realtà nascondevano il vuoto e la nullità di un notaio dedito esclusivamente a interessi materiali, ma ancora troppo giovane per essere invidioso. Imparentarsi con i Claës sarebbe stato per lui motivo di devozione senza limiti, se non avesse avuto un qualche nascosto sentimento di avarizia. Faceva il generoso, ma sapeva fare i suoi conti. Così, senza che nemmeno lui stesso si rendesse conto dei mutamenti delle sue maniere, i suoi modi erano bruschi, duri e burberi come lo sono in genere quelli degli uomini d'affari, quando Claës gli sembrava rovinato, mentre diventavano affettuosi, arrendevoli e quasi servili quando gli pareva di vedere qualche successo nei lavori del cugino. Ora vedeva in Marguerite Claës una principessa alla quale un semplice notaio di provincia non poteva avvicinarsi, ora la considerava una povera fanciulla che sarebbe stata fin troppo fortunata se egli si fosse degnato di sposarla. Era un uomo di provincia ed era fiammingo, senza malizia; non era nemmeno incapace di devozione e di bontà, ma aveva un innato egoismo, che rendeva incomplete le sue qualità, e alcuni lati ridicoli, che sminuivano il suo valore. In quel momento la signora Claës si ricordò del tono sbrigativo col quale il notaio le aveva parlato sotto il portico della chiesa di Saint-Pierre e notò il cambiamento che la sua risposta aveva provocato nelle maniere di lui, indovinò il fondo dei suoi pensieri e con un'occhiata indagatrice cercò di leggere nell'anima della figlia per sapere se pensava al cugino, ma in lei vide solo una perfetta indifferenza. Dopo un po' di tempo, durante il quale la conversazione si aggirò sui pettegolezzi della città, il padrone di casa scese dalla sua camera in cui, da qualche momento, la moglie sentiva con un piacere ineffabile rumore di stivali sull'impiantito. Il suo passo, simile a quello di un uomo giovane e agile, indicava una completa metamorfosi, e l'attesa della sua apparizione fu così viva, che la signora Claës represse a fatica un sussulto quando egli discese la scala. Balthazar non tardò a comparire vestito con gli abiti allora di moda. Portava stivali a risvolti ben lucidati, che lasciavano vedere in alto le calze di seta bianca, calzoni di lana blu con bottoni dorati, un panciotto bianco a fiorami e una marsina blu. Si era fatto la barba, pettinato e profumato, tagliato le unghie e lavato le mani con tanta cura, da sembrare irriconoscibile a chi l'avesse veduto poco prima. Al posto di un vecchio quasi fuor di sé, i figli, la moglie e il notaio vedevano un uomo di quarant'anni con un volto affabile e curato, pieno di fascino. La stanchezza e le sofferenze rivelati dalla magrezza dei lineamenti e dall'aderire della pelle alle ossa, gli davano quasi una particolare bellezza.
«Buongiorno, Pierquin», disse Balthazar Claës.
Ridiventato padre e marito, il chimico prese dalle ginocchia della moglie l'ultimo figlio e lo sollevò in aria, facendolo rapidamente scendere e ancora rialzandolo.
«Vedete questo bambino?», disse al notaio. «Una creatura così bella non vi fa venir voglia di sposarvi?
Credetemi, caro, i piaceri della famiglia consolano di tutto». «Su», diceva alzando Jean e «Giù», posandolo a terra. «Su!
Giù!».
Il bambino esplodeva in risate vedendosi alternativamente ora in alto vicino al soffitto e ora sul pavimento. La madre volse altrove lo sguardo per non rivelare l'emozione che le procurava un gioco in apparenza tanto semplice e che per lei rappresentava una completa rivoluzione domestica.
«Vediamo come cammini», disse Balthazar posando il figlio sull'impiantito e buttandosi su una poltrona. Il bambino corse verso il padre, attratto dal luccichio dei bottoni d'oro che chiudevano i calzoni sopra il risvolto degli stivali. «Sei un tesoro!», esclamò il padre abbracciandolo; «sei un vero Claës, cammini diritto. E tu, Gabriel, come va papà Morillon?», domandò al figlio maggiore, tirandogli un orecchio e torcendoglielo un po', «te la cavi bene con temi e versioni? digerisci bene la matematica?».
Poi Balthazar si alzò, andò verso Pierquin e gli domandò con quella affettuosa cortesia che lo caratterizzava: «Mio caro, avete forse qualcosa da chiedermi?». Gli offrì il braccio e lo accompagnò in giardino, aggiungendo: «Venite a vedere i miei tulipani».
La signora Claës guardò uscire il marito e non seppe nascondere la sua gioia nel vederlo ancora così giovane,
così affabile, così se stesso; si alzò, cinse la figlia alla vita, e l'abbracciò dicendo: «Marguerite cara, bambina mia adorata, oggi ti voglio bene più del solito».
«Era molto tempo che non vedevo il papà così lieto», disse la fanciulla.
Lemulquinier entrò ad annunciare che il pranzo era servito. Per evitare che Pierquin le offrisse il braccio, la signora Claës prese quello di Balthazar, e tutta la famiglia passò nella sala da pranzo.
Questo locale col soffitto di travi a vista illeggiadrite da pitture, pulite e rinfrescate ogni anno, era arredato con
alti scaffali di quercia sui cui ripiani si potevano vedere i pezzi più rari del vasellame di famiglia. Le pareti erano rivestite di cuoio viola sul quale erano state incise in oro scene di caccia. Sopra gli scaffali brillavano qua e là, disposte con cura, piume di strani uccelli e conchiglie rare. Le sedie non erano state cambiate dal principio del sedicesimo secolo e presentavano quella forma quadrata, quelle colonnine tortili e quel piccolo schienale rivestito di stoffa e frange che furono tanto di moda da meritare di apparire nella Madonna della seggiola di Raffaello. Il legno era diventato nero, ma le borchie dorate luccicavano come fossero state nuove e la stoffa accuratamente rinnovata era di un rosso meraviglioso. Riviveva là tutta la Fiandra con le sue innovazioni spagnole. Sopra la tavola, le caraffe e le bottiglie avevano quell'aria rispettabile che ad esse conferiva la pancia tondeggiante all'antica. I bicchieri erano proprio quei vecchi bicchieri ad alto stelo che si vedono in tutti i quadri della scuola olandese o fiamminga. I piatti di maiolica, decorati con figure a colori alla maniera di Bernard de Palissy, uscivano dalla fabbrica inglese di Weegvood. L'argenteria era massiccia, a facce quadrate, con rilievi pieni, vera argenteria di famiglia, i cui pezzi, tutti differenti di lavorazione, di gusto, di forma, testimoniavano l'inizio del benessere e il progredire della ricchezza dei Claës. I tovaglioli avevano le frange, moda tipicamente spagnola. Quanto alle tovaglie, ognuno doveva capire che in casa Claës era un punto d'onore averne di magnifiche. Quel servizio, quell'argenteria erano destinati all'uso quotidiano della famiglia. La parte anteriore della casa, dove si davano le feste, aveva una sua attrezzatura particolare, le cui meraviglie, riservate per i giorni di gala, avevano quella solennità che non c'è più quando le cose sono per così dire svalutate dall'uso continuo. Nel quartiere posteriore tutto era ispirato a una semplicità patriarcale. Infine, particolare delizioso, una vite correva esternamente lungo le finestre che i pampini inquadravano da ogni lato.
«Voi restate fedele alle tradizioni, signora», disse Pierquin ricevendo un piatto di quella zuppa al timo nella quale le cuoche fiamminghe o olandesi mettono polpettine di carne rotonde e fette di pane tostato, «questa è la minestra della domenica dei nostri padri! La vostra casa e quella di mio zio Des Raquets sono le sole dove si possa trovare questa zuppa tradizionale dei Paesi Bassi. Ah, scusate, anche il vecchio Savaron de Savarus la fa ancora orgogliosamente servire in casa sua a Tournay, ma altrove, dappertutto, la vecchia Fiandra se ne va. Ora i mobili si fabbricano alla greca, dappertutto non si vedono che elmi, scudi, lance e fasci. Ciascuno ricostruisce la propria casa, vende i vecchi mobili, fonde la sua argenteria o la baratta con porcellana di Sèvres, che non vale né la vecchia porcellana di Sassonia né quella cinese. Oh, io sono fiammingo nell'anima. Per questo il mio cuore sanguina vedendo i calderai acquistare a peso i nostri bei mobili intarsiati di rame o di stagno. Ma la Società vuol cambiar pelle, credo. Si perdono perfino i procedimenti di fabbricazione. Quando tutto deve andare in fretta, niente può essere fatto coscienziosamente. Durante il mio ultimo viaggio a Parigi, mi hanno portato a vedere i quadri esposti al Louvre. Parola d'onore, sono paraventi quelle tele senz'aria, senza profondità, dove i pittori hanno paura a mettere il colore. E vogliono, si dice, soppiantare la nostra vecchia scuola. Ah, proprio?...».
«I nostri antichi pittori», rispose Balthazar, «studiavano le diverse combinazioni e la resistenza dei colori esponendoli all'azione del sole e della pioggia. Ma avete ragione, oggi i mezzi materiali dell'arte sono meno curati che mai».
La signora Claës non prestava ascolto alla conversazione. Sentendo dire dal notaio che i servizi di porcellana erano di moda, aveva subito concepito l'idea luminosa di vendere la pesante argenteria ereditata dal fratello, sperando così di poter pagare i trentamila franchi dovuti dal marito.
«Ah», diceva Balthazar al notaio quando la signora Claës tornò a seguire la conversazione, «ci si occupa dei miei lavori a Douai?».
«Sì», rispose Pierquin, «ciascuno si domanda a che scopo spendete tanto denaro. Ieri ho sentito il primo presidente deplorare che un uomo par vostro cerchi la pietra filosofale. Mi sono allora permesso di rispondere che voi eravate troppo istruito per non sapere che ciò sarebbe stato misurarvi con l'impossibile, e troppo cristiano per credere di essere superiore a Dio, e come tutti i Claës troppo abile calcolatore per scambiare il vostro denaro con la polvere di Perlimpinpin. Vi confesserò tuttavia che anch'io ho condiviso il dispiacere che tutti provano per il vostro isolamento. Davvero voi non siete più della nostra città. In fede mia, signora, sareste stata felicissima se aveste potuto sentire gli elogi che ognuno si è compiaciuto di fare di voi e del signor Claës».
«Avete agito da buon parente respingendo accuse il cui danno minore sarebbe stato quello di rendermi ridicolo», rispose Balthazar. «Ah, i Duacesi mi credono rovinato? Bene, caro Pierquin, fra due mesi darò, per celebrare l'anniversario del mio matrimonio, una festa la cui magnificenza mi restituirà la stima che i nostri cari concittadini attribuiscono al denaro».
La signora Claës arrossì violentemente. Per due anni quell'anniversario era stato dimenticato. Come quei pazzi che hanno momenti nei quali le loro facoltà brillano di lampi insperati, Balthazar non era mai stato così profondo nella sua tenerezza. Si mostrò pieno di attenzioni per i figli, e la sua conversazione fu affascinante per la piacevolezza, lo spirito e l'acume. Quel ritorno del sentimento paterno, scomparso da così lungo tempo, era certo il più bel dono che potesse fare alla moglie, per la quale la sua parola e il suo sguardo avevano ritrovato quella costante simpatia di espressione che spira da cuore a cuore e denota una deliziosa identità di sentimenti.
Il vecchio Lemulquinier sembrava ringiovanito e andava e veniva con un'insolita allegria causata dall'avverarsi delle sue segrete speranze. Il cambiamento così repentinamente avvenuto nelle maniere del suo padrone era per lui ancora più significativo che per la signora Claës. Dove la famiglia vedeva la felicità, il domestico vedeva un patrimonio. Aiutando Balthazar nei suoi esperimenti, ne aveva abbracciato la follia. Sia che avesse intuito l'importanza delle ricerche del padrone dalle spiegazioni che gli uscivano di bocca quando il risultato gli sfuggiva dalle mani, sia che la tendenza all'imitazione innata nell'uomo gli avesse fatto adottare le idee di colui nell'atmosfera del quale viveva, Lemulquinier aveva concepito per il padrone un superstizioso sentimento, misto di terrore, di ammirazione e di egoismo. Il laboratorio era per lui quello che per il popolo è il botteghino del lotto: la speranza organizzata. Ogni sera andava a letto dicendo tra sé: «Domani forse nuoteremo nell'oro!». E il giorno dopo si svegliava con una fede sempre viva, come il giorno avanti. Il suo nome denotava un'origine prettamente fiamminga. Una volta la gente del popolo era indicata solo con un nomignolo tratto dalla professione, dal paese d'origine, dalle caratteristiche fisiche o dalle qualità morali. Quel nomignolo diventava il nome della famiglia borghese che essi fondavano al momento della loro emancipazione. In Fiandra i mercanti di filati si chiamavano mulquiniers, e tale era indubbiamente la professione dell'uomo che, fra gli antenati del vecchio domestico, era passato dallo stato di servo a quello di borghese, fino a quando ignote sventure avevano restituito il pronipote del mulquinier al primitivo stato di servo, con in più la paga. La storia della Fiandra, dei suoi filati e del suo commercio si compendiava dunque nel vecchio domestico, chiamato spesso per eufonia Mulquinier. Il suo carattere e la sua fisionomia erano privi di originalità. Il viso di forma triangolare era largo, lungo e butterato dal vaiolo che gli aveva dato un aspetto strano, lasciandovi una gran quantità di segni bianchi e lucidi. Alto e magro, aveva un passo grave, misterioso. Gli occhi piccoli, arrossati come la parrucca giallastra e liscia che portava in testa, lanciavano solo occhiate oblique. Il suo fisico era dunque in armonia col sentimento di curiosità che suscitava. La sua qualità di assistente iniziato ai segreti del padrone, sul cui lavoro serbava il silenzio, gli conferiva un certo fascino. Gli abitanti di rue de Paris lo guardavano passare con un interesse misto a timore giacché dava risposte sibilline e sempre balenanti di tesori. Fiero di esser necessario al padrone, esercitava sui colleghi una specie di tirannica autorità della quale approfittava a suo vantaggio ottenendo concessioni che lo rendevano quasi padrone. Contrariamente ai domestici fiamminghi, che sono estremamente legati alla casa, non aveva affetto che per Balthazar. Se la signora Claës era afflitta da qualche dolore, o se in famiglia succedeva un fatto lieto, lui mangiava il suo pane imburrato e beveva la sua birra con la flemma abituale.
Finito il pranzo, la signora Claës propose di prendere il caffè in giardino, davanti all'aiuola di tulipani che ne
abbelliva il centro. I vasi di terracotta che contenevano i tulipani, i nomi dei quali si potevano leggere incisi sopra tavolette di ardesia, erano stati interrati e disposti in modo da formare una piramide in cima alla quale stava un tulipano «Bocca di drago» che Balthazar era il solo a possedere. Quel fiore, chiamato tulipa Claësiana, aveva tutti i sette colori dell'iride e le lunghe incavature dei petali parevano dorate agli orli. Il padre di Balthazar che per quel fiore aveva più volte rifiutato diecimila fiorini, prendeva tali precauzioni perché non si potesse rubarne neppure un seme, che lo conservava nel parlatorio e passava spesso giornate intere a contemplarlo. Il gambo era enorme, dritto, forte, di un verde stupendo; la dimensione della pianta era in proporzione col calice, i cui colori erano caratterizzati dallo smagliante splendore che conferiva una volta tanto pregio a quei fiori fastosi.
«Ecco trenta o quarantamila franchi di tulipani», disse il notaio guardando ora la cugina, ora l'aiuola dai mille
colori. La signora Claës, alla vista di quei fiori che i raggi del sole al tramonto facevano assomigliare a pietre preziose, era troppo entusiasta per cogliere bene il senso dell'osservazione del notaio. «A che cosa servono?», riprese questi, rivolgendosi a Balthazar, «dovreste venderli».
«Be', ho proprio bisogno di denaro?», rispose Claës facendo il gesto d'un uomo al quale quarantamila franchi sembravano ben poca cosa.
Ci fu un momento di silenzio e si udirono le molte esclamazioni dei bambini.
«Guarda quello, mamma».
«Oh, eccone uno di bello!».
«Come si chiama quello?».
«Che abisso per la ragione umana!», esclamò Balthazar alzando le mani e giungendole in un gesto disperato. «Una combinazione di idrogeno e di ossigeno in dosi differenti fa nascere, in uno stesso ambiente e da uno stesso principio, questi colori che costituiscono ciascuno un diverso risultato».
La moglie capiva i termini di quella dichiarazione, che fu però pronunciata troppo in fretta perché la potesse afferrare interamente. Balthazar pensò ch'ella aveva studiato la sua Scienza preferita e le disse con un cenno misterioso:
«Tu capiresti, ma non sai ancora che cosa intendo dire!». E parve ricadere in una delle sue abituali meditazioni.
«Lo credo», disse Pierquin prendendo una tazza di caffè dalle mani di Marguerite. «Scacciate pure la natura», aggiunse sottovoce rivolgendosi alla signora Claës, «tornerà di corsa. Avrete la bontà di parlargli voi stessa, neppure il diavolo lo distoglierebbe dalla sua contemplazione. Eccolo a posto fino a domani».
Salutò Claës, che finse di non udirlo, abbracciò il piccolo Jean che stava in braccio alla madre, e dopo aver fatto un profondo inchino se ne andò. Quando la porta d'entrata sbatté chiudendosi, Balthazar cinse la vita della moglie e dissipò l'inquietudine che poteva averle dato la sua finta fantasticheria dicendole all'orecchio: «Sapevo come fare per mandarlo via».
La signora Claës voltò la testa verso il marito senza vergognarsi di mostrargli le lacrime che le salirono agli
occhi; erano così dolci! Poi appoggiò la fronte alla spalla di Balthazar e lasciò andare Jean a terra.
«Rientriamo nel parlatorio», disse dopo una pausa.
Durante tutta la serata Balthazar fu di un'allegria quasi folle; inventò cento giochi per i bambini, e giocò anche lui così volentieri che non si accorse che la moglie si era allontanata due o tre volte. Verso le nove e mezzo, quando Jean fu messo a letto e Marguerite tornò nel parlatorio dopo aver aiutato la sorella Félicie a spogliarsi, trovò la madre seduta sulla grande poltrona e il padre che parlava con lei tenendole la mano. Ebbe timore di disturbare i genitori e sembrò volesse ritirarsi senza parlare, ma la signora Claës se ne avvide e le disse: «Venite, Marguerite, venite, bambina mia cara». L'attirò a sé e la baciò dolcemente sulla fronte aggiungendo: «Portatevi il libro in camera e coricatevi presto».
«Buonasera, figliola mia cara», disse Balthazar.
Marguerite abbracciò il padre e se ne andò. Claës e la moglie restarono soli per un poco, intenti a guardare gli ultimi colori del crepuscolo che morivano in mezzo al fogliame del giardino fattosi più scuro e i cui frastagli si distinguevano appena controluce. Quando fu quasi notte, Balthazar disse alla moglie con voce commossa: «Andiamo di sopra».
Molto tempo prima che i costumi inglesi avessero reso sacra la camera di una donna, quella di una fiamminga era impenetrabile. Le buone massaie di quel paese non ne facevano una questione di virtù, ma un'abitudine contratta fin dall'infanzia, una superstizione domestica che rendeva la stanza da letto un delizioso santuario, dove aleggiavano teneri sentimenti, dove la semplicità si univa a tutto ciò che la vita sociale ha di più dolce e di più sacro. Nella posizione particolare nella quale si trovava la signora Claës, ogni donna avrebbe voluto avere intorno a sé le cose più eleganti, ma ella lo aveva fatto con un gusto squisito, consapevole di quanta influenza eserciti sui sentimenti l'aspetto di quanto ci sta intorno. Per una creatura bella sarebbe stato un lusso, per lei era una necessità. Aveva capito l'importanza del detto: belle si diventa, massima che guidava tutte le azioni della prima moglie di Napoleone e la rendeva spesso falsa, mentre la signora Claës era sempre spontanea e semplice. Benché Balthazar conoscesse bene la camera della moglie, la sua noncuranza per le cose materiali era stata così completa, che entrandovi provò un dolce fremito come se la vedesse per la prima volta. La fastosa esultanza di una donna trionfante brillava negli splendidi colori dei tulipani che si alzavano dal lungo collo di grossi vasi di porcellana cinese, abilmente disposti, e nella profusione delle luci i cui effetti si potevano paragonare soltanto a quelli delle più allegre fanfare. Il chiarore delle candele dava uno splendore armonioso ai tendaggi di seta naturale la cui uniformità era interrotta dai riflessi dell'oro sobriamente distribuito su alcuni oggetti e dai toni svariati dei fiori, simili a mucchi di pietre preziose. Il segreto di questi preparativi era lui, sempre lui!... Joséphine non poteva dire più eloquentemente a Balthazar che egli era sempre l'origine delle sue gioie e dei suoi dolori. L'aspetto di quella camera creava un delizioso stato d'animo e scacciava qualsiasi idea triste per non lasciare che il sentimento di una felicità costante e pura. La stoffa della tappezzeria acquistata in Cina emanava quell'odore soave che inebria il corpo senza affaticarlo. Infine le tende tirate con cura manifestavano un desiderio di solitudine, una gelosa intenzione di serbare i minimi suoni delle parole e di chiuder lì dentro gli sguardi dello sposo riconquistato. Coi suoi bei capelli neri perfettamente lisci che scendevano da ambo i lati della fronte come due ali di corvo, la signora Claës, chiusa in una veste da camera che la copriva fino al collo, guarnita da una mantellina di trina spumeggiante, tirò la tenda pesante che non lasciava passare nessun rumore esterno. Da lì, Joséphine rivolse al marito, che si era seduto accanto al caminetto, uno di quegli allegri sorrisi coi quali una donna intelligente sa esprimere irresistibili speranze, mentre la sua anima arriva ad abbellire il viso. Il fascino più grande di una donna consiste in un richiamo costante alla generosità dell'uomo, in una gentile dichiarazione di debolezza con la quale lo inorgoglisce e risveglia in lui i più nobili sentimenti. Non comporta forse magiche seduzioni il riconoscimento della debolezza? Quando gli anelli della tenda furono scivolati sordamente sul loro bastone di legno, ella si voltò verso il marito e parve che in quel momento volesse nascondere i suoi difetti fisici appoggiandosi a una sedia per muoversi con grazia. Era chiamarlo in aiuto. Balthazar, sprofondato per un attimo nella contemplazione di quella testa bruna che spiccava sullo sfondo grigio attirando e appagando lo sguardo, si alzò per prendere la moglie e la portò sul divano. Era quello che lei voleva.
«Mi hai promesso», disse prendendogli una mano che tenne tra le proprie quasi febbricitanti, «di iniziarmi ai segreti delle tue ricerche. Ammetti, caro, che sono degna di conoscerli, giacché ho avuto il coraggio di studiare una scienza condannata dalla Chiesa, per essere in grado di capirti; ma sono curiosa, non nascondermi niente. Raccontami pertanto come mai ti sei svegliato inquieto un mattino quando la sera t'avevo lasciato così felice».
«È per sentire parlare di chimica che ti sei preparata con tanta grazia?».
«Caro, ricevere una confidenza che mi faccia entrare di più nel tuo cuore è per me il piacere più grande, è
un'intesa dell'anima che comprende e riassume tutte le felicità della vita. Il tuo amore torna a me puro e intatto ed io voglio sapere quale pensiero è stato così potente da privarmene tanto a lungo. Sì, sono più gelosa di un pensiero che di tutte le donne messe insieme. L'amore è immenso, ma non è infinito, mentre la Scienza ha abissi senza fondo, dove non vorrei vederti scendere da solo. Detesto tutto ciò che può mettersi in mezzo a noi. Se tu ottenessi la gloria che insegui, io ne soffrirei; essa ti darebbe gioie profonde, ed io, io sola devo essere la fonte dei tuoi piaceri».
«No, angelo mio, non è un'idea che mi ha fatto incamminare per questa strada, ma un uomo».
«Un uomo!», ella esclamò con terrore.
«Ti ricordi, Pepita, dell'ufficiale polacco che abbiamo ospitato qui nel 1809?».
«Se me ne ricordo! Mi sono tante volte indispettita del fatto che la memoria mi facesse così spesso rivedere i suoi occhi simili a lingue di fuoco, le profonde rughe della fronte e le sopracciglia, sotto cui si vedevano carboni d'inferno, il suo cranio del tutto calvo, i baffi all'insù, la faccia angolosa, devastata! E poi che calma terribile nel suo passo! Se ci fosse stato posto nelle locande non avrebbe certamente dormito qui».
«Quel gentiluomo polacco si chiamava Adam de Wierzchownia», riprese Balthazar. «Quando quella sera tu ci lasciasti soli nel parlatorio, ci mettemmo a discorrere casualmente di chimica. Costretto dalla miseria ad abbandonare lo studio di quella scienza, si era fatto soldato. Credo che sia stato per un bicchiere d'acqua zuccherata che ci riconoscemmo come iniziati. Quando dissi a Lemulquinier di portare dello zucchero in zollette, il capitano fece un gesto di sorpresa. "Voi avete studiato chimica?", mi chiese. "Sì", risposi, "con Lavoisier". "Come siete fortunato ad esser libero e ricco!", esclamò, e dal suo petto uscì uno di quei sospiri che rivelano un inferno di dolori nascosti nel cervello o chiusi nel cuore, qualcosa di ardente e di contenuto che la parola non può esprimere. E accompagnò il suo pensiero con uno sguardo che mi agghiacciò. Dopo una pausa mi disse che, quando la Polonia era moribonda, si era rifugiato in Svezia. Là aveva cercato consolazione nello studio della chimica per la quale aveva sentito una irresistibile vocazione. "Bene", aggiunse, "vedo che voi avete riconosciuto come me che la gomma arabica, lo zucchero e l'amido in polvere formano una sostanza assolutamente simile e all'analisi danno uno stesso risultato qualitativo". Fece un'altra pausa e dopo avermi osservato con occhio scrutatore mi fece confidenzialmente e sottovoce un discorso solenne, di cui oggi solo il senso generale è rimasto nella mia memoria, ma lo accompagnò con una tale intensità di voce, con inflessioni così calde e con tanta forza nel gestire, che mi sconvolse le viscere e mi percosse la mente come il martello batte il ferro sull'incudine. Ecco in breve quei ragionamenti, che furono per me come il carbone messo da Dio sulla lingua d'Isaia; giacché i miei studi con Lavoisier mi permettevano di intenderne tutta la portata. "La parità di queste tre sostanze", mi disse, "in apparenza così distinte, mi ha portato a pensare che tutti i prodotti della natura devono avere uno stesso principio. Le ricerche della chimica moderna hanno dimostrato la verità di questa legge per la maggior parte dei prodotti naturali. La chimica divide la creazione in due distinti settori: natura organica e natura inorganica. La prima, che comprende tutte le creature vegetali o animali in cui appare una organizzazione più o meno perfezionata o, per essere più esatti, una maggiore o minore mobilità, che determina più o meno capacità di sentire, è certamente la parte più importante del nostro mondo. Bene, l'analisi ha ridotto tutti i prodotti di questa natura a quattro corpi semplici, che sono tre gas: azoto, idrogeno e ossigeno, e a un altro corpo semplice non metallico e solido, il carbonio. La natura inorganica, invece, così poco variata, priva di movimento e di sensibilità e alla quale si può anche contestare il privilegio di crescere che le concesse con leggerezza Linneo, conta cinquantatré corpi semplici, le cui differenti combinazioni formano tutti i suoi prodotti. È possibile che i mezzi siano più numerosi dove ci sono meno risultati?... Per questo l'opinione del mio maestro d'un tempo è che questi cinquantatré corpi hanno un principio comune, già modificato dall'azione di una potenza oggi estinta, che il genio umano deve però far rivivere. Ebbene, supponete per un momento che l'attività di questa potenza venga risvegliata, e avremo una chimica unitaria. Le nature organiche ed inorganiche si fonderebbero verosimilmente su quattro principi, e se arrivassimo a scomporre l'azoto, che dobbiamo considerare come una negazione, ne avremmo solo tre. Eccoci già vicini alla grande Triade degli antichi e degli alchimisti del Medioevo, dei quali a torto ci burliamo. La chimica moderna non è altro che questo. È molto ed è poco. È molto perché la chimica si è abituata a non indietreggiare davanti a nessuna difficoltà. È poco in confronto a quel che resta da fare. Il caso l'ha servita bene, questa bella Scienza! Non sembra, per esempio, che quella lacrima di carbonio puro cristallizzato che è il diamante sia l'ultima sostanza che si possa creare. Gli antichi alchimisti, che credevano l'oro scomponibile e di conseguenza fattibile, negavano di poter produrre il diamante, mentre noi abbiamo scoperto la natura e la legge della sua composizione. Ma io", disse, "sono andato più lontano! Un esperimento mi ha dimostrato che la misteriosa Triade di cui ci si occupa da tempo immemorabile non si potrà mai trovare nelle analisi attuali, che non si indirizzano ad un chiaro obiettivo. Ecco dunque l'esperimento. Seminate un po' di crescione (per prendere una delle tante creazioni della natura organica) su dei fiori di zolfo (per prendere anche qui un corpo semplice). Bagnate i semi con acqua distillata per non lasciar penetrare nei prodotti della germinazione nessun principio che non sia sicuro. I semi germogliano e crescono in ambiente conosciuto, nutrendosi solo di princìpi conosciuti dall'analisi. Tagliate a più riprese il gambo delle piante allo scopo di procurarvene una quantità sufficiente per ottenere alcune dramme di ceneri facendoli bruciare e poter così operare su di una certa massa; ebbene, analizzando quelle ceneri, troverete acido silicico, alluminio, fosfato e carbonato calcico, carbonato di magnesio, solfato, carbonato di potassio e ossido di ferro, come se il crescione fosse nato per terra, in riva all'acqua. Quelle sostanze non esistevano nello zolfo, corpo semplice, che serviva da letto alla pianta, e neppure nell'acqua usata per annaffiare e della quale si conosce la composizione; poiché non si trovano neppure nel seme, non possiamo spiegare la loro presenza nella pianta se non supponendo un elemento comune ai corpi contenuti nel crescione e a quelli che gli sono serviti da ambiente. Per questo l'aria, l'acqua distillata, il fiore di zolfo e le sostanze rivelate dall'analisi del crescione, ossia potassio, calcio, magnesio, alluminio ecc. avrebbero un principio comune errante nell'atmosfera così come essa è creata dal sole. Da questo incontestabile esperimento", esclamò, "ho dedotto l'esistenza dell'Assoluto! Una sostanza comune a tutte le creazioni, modificata da una forza unica, questa è la formulazione chiara e netta del problema posto dall'Assoluto e che mi è parso risolvibile. Troverete in esso la misteriosa Triade, davanti alla quale si è per tanto tempo inginocchiata l'Umanità: la materia prima, l'agente, il risultato. Troverete in ogni cosa umana quel terribile numero Tre che domina le religioni, le scienze e le leggi. A questo punto", mi disse, "la guerra e la miseria hanno fermato i miei studi. Voi siete un allievo di Lavoisier, siete ricco e padrone del vostro tempo, posso farvi partecipe delle mie congetture. Ecco il risultato che i miei esperimenti personali mi hanno fatto intravedere. La MATERIA UNICA deve essere un principio comune ai tre gas e al carbonio. L'AGENTE deve essere un principio comune all'elettricità negativa e all'elettricità positiva. Cercate di trovare prove che dimostrino queste due verità e avrete la ragione suprema di tutto ciò che la natura crea. Oh, quando si ha qui dentro", disse battendosi la fronte, "l'ultima parola della creazione, presentendo l'Assoluto, è forse vivere questo mio esser trascinato nel moto di un'accozzaglia di uomini che si gettano a ore fisse gli uni sugli altri senza saper quel che fanno? La mia vita attuale è esattamente il contrario di un sogno. Il mio corpo va, viene, agisce, si trova in mezzo al fuoco, a cannoni, ad uomini, attraversa l'Europa secondo il capriccio d'una potenza alla quale obbedisco disprezzandola. Il mio animo non ha nessuna coscienza di queste azioni, ma resta fisso, sprofondato in un'idea, paralizzato da quell'idea, la ricerca dell'Assoluto, di quel principio per il quale semi del tutto simili, messi in uno stesso terreno, danno l'uno corolle bianche e l'altro corolle gialle. Fenomeno applicabile ai bachi da seta che, nutriti delle stesse foglie e conformati senza visibili diversità, fanno gli uni seta gialla e gli altri seta bianca; e applicabile infine anche all'uomo, che spesso ha dei figli legittimi che non somigliano in niente né alla madre né al padre. La conseguenza logica di questo fatto non comporta d'altronde la ragione di tutte le creazioni della natura? Del resto, nulla è più conforme alle nostre idee su Dio del pensare che egli ebbia fatto tutto col mezzo più semplice. L'adorazione pitagorica per il numero UNO dal quale si generano tutti i numeri e che rappresenta la materia unica; quella per il numero DUE, prima aggregazione e prototipo di tutte le altre; quella per il numero TRE che in ogni tempo ha rappresentato Dio, ossia la Materia, la Forza e l'Effetto, non riassumevano forse, nella tradizione, la conoscenza confusa dell'Assoluto? Stahl, Becher, Paracelso, Agrippa, tutti i grandi studiosi di scienze occulte avevano per parola d'ordine il Trismegisto, che significa la grande Triade. Gli ignoranti, abituati a condannare quella chimica trascendente che è l'alchimia, ignorano senza dubbio che noi ci adoperiamo a giustificare le ricerche appassionate di quegli uomini grandi! Trovato l'Assoluto, mi sarei allora misurato col Movimento. Ah, mentre mi nutro di polvere da sparo e comando a degli uomini di morire del tutto inutilmente, il mio maestro d'un tempo fa scoperte su scoperte e vola verso l'Assoluto! Ed io? Io morirò come un cane, accanto a una batteria". Quando quel povero grand'uomo ebbe ritrovato un po' di calma, mi disse con una specie di toccante fraternità: "Se trovassi il giusto esperimento da fare, ve lo lascerei in eredità prima di morire". O mia Pepita», disse Balthazar stringendo la mano della moglie, «sulle guance incavate di quell'uomo scorrevano lacrime di rabbia mentre accendeva nel mio animo il fuoco di quel ragionamento che già Lavoisier aveva timidamente fatto senza avere il coraggio di abbandonarvisi».
«Come», esclamò la signora Claës, che non poté trattenersi dall'interrompere il marito, «quell'uomo passando
solo una notte in casa nostra ci ha portato via il tuo affetto, ha distrutto con una sola frase e una sola parola la felicità di una famiglia. Oh, mio caro Balthazar, si è fatto il segno della croce quell'uomo? L'hai guardato bene? Solo il Tentatore poteva avere quell'occhio giallo dal quale usciva il fuoco di Prometeo. Sì, solo il demonio poteva strapparti a me. Da quel giorno tu non sei stato più né padre né sposo né capo famiglia».
«Come?», disse Balthazar alzandosi in mezzo alla stanza e rivolgendo alla moglie uno sguardo penetrante, «tu
rimproveri a tuo marito di elevarsi al di sopra degli altri uomini allo scopo di poter gettare ai tuoi piedi la porpora divina della gloria, come minima offerta in confronto ai tesori del tuo cuore! Ma lo sai che cosa ho fatto in questi tre anni? Ho fatto passi da gigante, Pepita mia», disse accalorandosi. Il suo volto parve allora alla moglie più acceso dal fuoco del genio di quanto non lo fosse stato dal fuoco dell'amore, ed ella pianse ascoltandolo. «Ho combinato il cloro e l'azoto, ho scomposto parecchi corpi finora considerati semplici, ho trovato nuovi metalli. Sappi», aggiunse vedendo la moglie in pianto, «che ho scomposto le lacrime. Le lacrime contengono un po' di fosfato di calcio, cloruro di sodio, muco ed acqua». Continuò a parlare senza vedere il tremito convulso che agitava il volto di Joséphine, era montato in groppa alla Scienza, che lo portava ad ali spiegate lontano dal mondo materiale. «Questa analisi, mia cara, è una delle migliori prove della teoria dell'Assoluto. Ogni vita implica una combustione. Secondo la maggiore o minore attività del fuoco, la vita è più o meno lunga. Per questo la distruzione del minerale è ritardata indefinitamente, perché in esso la combustione è virtuale, latente o insensibile. Per questo i vegetali, che si raffreddano di continuo per la combinazione che produce l'umidità, vivono indefinitamente, tanto che esistono parecchi vegetali contemporanei all'ultimo cataclisma geologico. Ma tutte le volte che la natura perfeziona un congegno e con un intento a noi sconosciuto infonde senso, istinto, intelligenza, tre gradi successivi del sistema organico, questi tre organismi richiedono una combustione, la cui attività è direttamente proporzionale al risultato ottenuto. L'uomo, che costituisce il grado più elevato dell'intelligenza e che ci offre il solo congegno donde risulta una potenza quasi creatrice, il pensiero!, è fra le creature zoologiche quella in cui la combustione si attua nel suo grado più intenso e i cui potenti effetti sono in qualche modo rivelati dai fosfati, solfati e carbonati che il suo corpo presenta alla nostra analisi. Sono forse la traccia lasciata in lui dall'azione del fluido elettrico, principio di ogni fecondazione, queste sostanze? E l'elettricità non si manifesterebbe in esso sotto forma di combinazioni più variate che in qualsiasi altro animale? Forse ci sono nell'uomo più che in ogni altra creatura facoltà maggiori di assorbire più forti quantità di principio assoluto, e forse le assimila per comporre in una macchina più perfetta la sua forza e le sue idee. Io lo credo. L'uomo è un matraccio. Secondo me, l'idiota potrebbe essere, per esempio, un uomo il cui cervello contiene una minor quantità di fosforo o di un altro prodotto dell'elettromagnetismo, il pazzo quello il cui cervello ne contiene troppo, l'uomo comune quello che ne ha poco, l'uomo di genio quello il cui cervello ne è saturo a un grado conveniente. L'uomo costantemente innamorato, il facchino, il ballerino, il gran mangiatore sono quelli che traboccherebbero della forza nascente dal loro apparato elettrico. Così i nostri sentimenti...».
«Basta, Balthazar, tu mi spaventi, tu commetti dei sacrilegi! Come? il mio amore sarebbe...».
«Materia eterea che si sprigiona», disse Claës, «e che senza dubbio è la parola dell'Assoluto. Pensa quindi che
se io, io per primo, se io trovo, se io trovo, se io trovo», e dicendo queste parole con tre diverse intonazioni il suo viso assunse gradualmente un'espressione ispirata, «io faccio i metalli, faccio i diamanti, ricreo la natura», esclamò.
«E sarai più felice?», gridò lei con disperazione. «Scienza maledetta, maledetto demonio! Tu dimentichi, Claës, che commetti il peccato d'orgoglio di cui fu colpevole Satana. Tu vuoi metterti contro e sopra Dio».
«Oh! oh! Dio!».
«Lo nega!», esclamò lei torcendosi le mani. «Claës, Dio dispone di una potenza che tu non potrai mai avere». A questo argomento, che sembrava annichilire la sua amata Scienza, egli guardò la moglie tremando.
«Quale?», domandò.
«La forza unica, il movimento. Ecco quel che ho capito dai libri che mi hai costretto a leggere. Analizza fiori, frutti, vino di Malaga; scoprirai certamente i loro elementi, che vengono, come quelli del tuo crescione, in un ambiente che sembra essere loro estraneo. Tu puoi, a rigore, trovarli nella natura, ma mettendoli insieme, potrai creare quei fiori, quei frutti, quel vino di Malaga forse? Come potrai avere i misteriosi effetti del sole o l'atmosfera della Spagna?
Scomporre non vuol dire creare».
«Se trovo la forza coercitiva potrò creare».
«Niente lo fermerà», esclamò Pepita con voce disperata. «Oh, il mio amore è ucciso, l'ho perduto». Si sciolse in pianto e i suoi occhi, accesi dal dolore e dalla santità dei sentimenti che esprimevano, brillavano più belli che mai attraverso le lacrime. «Sì», riprese singhiozzando, «tu sei morto a tutto. Lo vedo, in te la Scienza è più forte di te stesso, e le sue ali ti hanno portato troppo in alto perché tu possa ancora ridiscendere ed essere il compagno di una povera donna. Che felicità posso io offrirti ormai? Ah, vorrei, triste consolazione, vorrei credere che Dio ti ha creato per manifestare le sue opere e cantar le sue lodi, che ha infuso in te una forza irresistibile che ti soggioga. Ma no, Dio è buono e ti lascerebbe nel cuore qualche pensiero per una donna che ti adora, per dei figli che tu devi proteggere. Sì, soltanto il demonio può spingerti a camminare da solo tra questi abissi senza fondo, in mezzo a queste tenebre, dove non ti illumina la fede che viene dall'alto, ma un'orribile presunzione nelle tue possibilità! Altrimenti, o mio caro, come non ti saresti accorto che in tre anni ti sei mangiato novecentomila franchi? Oh, rendimi giustizia, tu che sei il mio Dio in terra, io non ti rimprovero niente. Se fossimo soli, metterei ai tuoi piedi tutto il nostro denaro dicendoti: «Prendi, gettalo nel tuo fornello, mandalo in fumo», e mi divertirei a vederlo andarsene così. Se tu fossi povero, mi metterei a mendicare senza vergogna per procurarti il carbone necessario al tuo fornello. Se infine, buttandomici dentro, ti facessi trovare il tuo esecrabile Assoluto, mi ci butterei con piacere, dal momento che tu poni la tua gloria e le tue gioie in quel segreto ancora inviolato. Ma i nostri figli, Claës, i nostri figli! che ne sarà di loro, se tu non scoprirai presto quel segreto d'inferno? Sai perché era venuto Pierquin? Per chiederti trentamila franchi che devi dare, e non li hai. Le tue proprietà non sono più tue. Gli ho detto che avevi quei trentamila franchi per risparmiarti l'imbarazzo nel quale ti avrebbero messo le sue domande, ma per pagare quella somma ho pensato di vendere la nostra vecchia argenteria». Vide gli occhi del marito inumidirsi e si gettò disperatamente ai suoi piedi alzando verso di lui le mani supplichevoli. «Caro», esclamò, «sospendi per ora le tue ricerche, mettiamo da parte il denaro necessario a quanto ti occorrerà per riprenderle più tardi, se non puoi rinunciare a continuare la tua opera. Oh, io non la giudico, soffierò sui tuoi fornelli se lo vorrai, ma non ridurre in miseria i nostri figli, tu non puoi amarli più, la Scienza ha divorato il tuo cuore, non lasciar loro in eredità una vita miserabile in cambio della felicità che tu dovevi procurar loro. Il sentimento materno è stato troppo spesso il più debole nel mio cuore, sì, ho spesso desiderato di non esser madre per potermi unire più intimamente alla tua anima, alla tua vita! Per questo, per soffocare i miei rimorsi devo ora difendere davanti a te la causa dei tuoi figli prima della mia».
I capelli le si erano sciolti e le ondeggiavano sulle spalle, gli occhi saettavano mille sentimenti come altrettante
frecce: e trionfò sulla rivale. Balthazar la rialzò, la portò sul divano e si mise ai suoi piedi.
«Ti ho dunque dato dispiaceri», le disse col tono di chi si risveglia da un sogno angoscioso.
«Povero Claës, ce ne darai ancora tuo malgrado», gli disse passandogli la mano tra i capelli. «Su, vieni a sederti vicino a me», fece accennandogli il suo posto sul divano. «Ecco, ho dimenticato tutto dal momento che tu ritorni a noi. Suvvia, caro, metteremo rimedio a tutto, ma tu non ti allontanerai più da tua moglie, vero? Dimmi di sì. Lascia, mio grande e bel Claës, lascia che io eserciti sul tuo nobile cuore quella influenza femminile così necessaria alla felicità degli artisti sfortunati, degli uomini grandi e infelici! Tu mi rimprovererai, mi maltratterai se vuoi, battimi anche, ma permettimi di contrariarti un poco per il tuo bene. Non abuserò del potere che mi concederai. Sii famoso, ma sii anche felice. Non preferire a noi la Chimica. Ascolta, saremo comprensivi, permetteremo alla Scienza di spartire il tuo cuore con noi, ma sii giusto, dacci la nostra metà! Di', non è sublime il mio disinteresse?».
Balthazar sorrise. Con quell'arte meravigliosa che hanno le donne ella aveva trasferito il più grave problema quasi nel campo dello scherzo in cui le donne sono maestre. Tuttavia, anche se pareva ridesse, il cuore di lei era stretto così violentemente da riprendere con difficoltà il ritmo uguale e dolce del suo stato abituale; ma, vedendo rinascere negli occhi di Balthazar l'espressione che la incantava, che era la sua gloria e le rivelava intatta l'azione della sua antica potenza che credeva perduta, gli disse sorridendo: «Credimi, Balthazar, la natura ci ha fatti per sentire, e nonostante tu pretenda che noi siamo soltanto macchine elettriche, i tuoi gas, le tue materie eteree non spiegheranno mai il dono che noi abbiamo di presagire il futuro».
«Sì», egli riprese, «con le affinità. Il potere d'immaginazione che crea il poeta, e il potere di deduzione che crea
lo scienziato si fondano su affinità invisibili, intangibili e imponderabili, che il volgo classifica come fenomeni spirituali, mentre sono effetti fisici. Il profeta vede e deduce. Disgraziatamente, queste forme di affinità sono troppo rare e troppo poco percettibili per essere sottoposte all'analisi o all'osservazione».
«Questo», disse lei carpendogli un bacio per allontanare la Chimica che aveva disgraziatamente risvegliata, «sarebbe allora un'affinità?».
«No, è una combinazione: due sostanze dello stesso segno non producono alcuna affinità...».
«Su, taci, mi farai morire di dolore. Sì, caro, non potrei sopportare di vedere la mia rivale perfino nei trasporti del tuo amore».
«Ma, vita mia, io non penso che a te, la mia attività è la gloria della mia famiglia, tu sei in fondo a tutte le mie speranze».
«Vediamo, guardami!».
Quella scena l'aveva resa bella come una giovinetta, e di tutta la sua persona il marito non vedeva che la testa, sopra una nuvola di mussola e merletti.
«Sì. Quanto torto ho avuto a trascurarti per la Scienza! Ora, quando ricadrò nelle mie preoccupazioni, tu, Pepita, me ne strapperai, lo voglio!».
Ella abbassò gli occhi e si lasciò prendere la mano, la sua più grande bellezza, una mano insieme forte e delicata. «Ma io voglio ancora di più», disse.
«Sei così deliziosamente bella, che puoi ottenere tutáto».
«Voglio distruggere il tuo laboratorio e incatenare la tua Scienza», disse mandando fuoco dagli occhi.
«Ebbene, al diavolo la Chimica».
«Questo momento cancella tutti i miei dolori», riprese lei. «Ora, fammi soffrire se vuoi».
A queste parole gli occhi di Balthazar si bagnarono di lacrime.
«Hai ragione, vi vedevo soltanto attraverso un velo, e non vi sentivo più».
«Se non si fosse trattato che di me», ella disse, «avrei continuato a soffrire in silenzio, senza alzar la voce davanti al mio sovrano; ma i tuoi figli hanno bisogno di attenzione, Claës. Ti assicuro che se tu continuassi a sperperare così il tuo patrimonio, anche se il tuo scopo fosse glorioso, la gente non ne terrebbe nessun conto e il suo biasimo ricadrebbe sui tuoi. Non deve bastare a te, uomo di così alta levatura, che tua moglie abbia attratto la tua attenzione su un pericolo che non vedevi? Non parliamone più», disse rivolgendogli uno sguardo pieno di sorridente civetteria, «questa sera, Claës mio, cerchiamo di non essere felici a metà».
Il giorno successivo a quella serata decisiva nella vita della famiglia, Balthazar Claës, dal quale Joséphine aveva senza dubbio ottenuto qualche promessa riguardo la cessazione dei suoi lavori, non salì più al laboratorio e rimase con lei tutta la giornata. L'indomani la famiglia fece i preparativi per andare in campagna, dove restò per circa due mesi e tornò in città solo per occuparsi della festa con la quale Claës voleva, come una volta, celebrare l'anniversario del suo matrimonio. Balthazar ebbe allora, un giorno dopo l'altro, le prove del danno che i suoi lavori e la sua negligenza gli avevano portato nella situazione economica. Lungi dall'approfondire la piaga con le sue osservazioni, la moglie trovava sempre rimedio ai mali da lui compiuti. Dei sette domestici che Claës aveva il giorno in cui aveva dato l'ultimo ricevimento, restavano soltanto Lemulquinier, Josette la cuoca, e Martha, una vecchia cameriera che non aveva mai abbandonato la sua padrona da quando era uscita dal collegio; era pertanto impossibile ricevere l'alta società cittadina con un numero così ridotto di domestici. La signora Claës risolse ogni difficoltà proponendo di far venire un cuoco da Parigi, di insegnare a servire in tavola al figlio del giardiniere e di farsi prestare il domestico di Pierquin. Così nessuno si sarebbe ancora accorto delle loro ristrettezze. Nei venti giorni di preparativi la signora Claës seppe abilmente occupare l'inattività del marito: ora lo incaricava di scegliere i fiori rari che dovevano ornare lo scalone, la galleria e gli appartamenti, ora lo mandava a Dunkerque per acquistarvi alcuni di quei pesci mostruosi, gloria delle tavole del dipartimento del Nord. Una festa come quella che doveva dare Claës era un affare di capitale importanza, esigeva un gran numero di attenzioni e un lavorio enorme in un paese nel quale le tradizioni dell'ospitalità mettono tanto in gioco l'onore delle famiglie, che per i padroni e per i domestici un pranzo è come una vittoria da riportare sugli invitati. Le ostriche arrivavano da Ostenda, i galli selvatici si facevano venire dalla Scozia, la frutta da Parigi; insomma, i minimi particolari non dovevano smentire il lusso della casata. D'altronde, il ballo in casa Claës godeva di una certa rinomanza. Essendo allora Douai capoluogo del Dipartimento, quella serata apriva, in certo qual modo, la stagione invernale e dava il tono a tutte quelle della zona. Per quindici anni Balthazar aveva perciò cercato di distinguersi e vi era riuscito così bene, che ogni volta se ne faceva il resoconto nel raggio di venti leghe, e si parlava dei vestiti degli invitati, dei più piccoli particolari, delle novità che si erano viste o di quel che vi era accaduto. Quei preparativi impedirono dunque a Claës di pensare alla ricerca dell'Assoluto. Tornando agli interessi domestici e alla vita sociale, lo scienziato ritrovò il suo amor proprio d'uomo, di fiammingo, di padrone di casa, e si impegnò a stupire la città. Volle imprimere a quella serata un carattere particolare con qualche idea nuova e, fra tutte le fantasie del lusso, scelse la più bella, la più ricca, la più strana, trasformando la sua casa in un boschetto di piante rare e preparando mazzi di fiori per le signore. Gli altri particolari della festa rispondevano a quello sfarzo eccezionale, e niente sembrava dovesse sminuirne l'effetto. Ma il ventinovesimo bollettino e le notizie particolareggiate delle disfatte subite dalla Grande Armata in Russia e alla Beresina si erano diffuse proprio nel pomeriggio di quel giorno. Una profonda e sincera tristezza s'impadronì dei duacesi, che per sentimento patriottico si rifiutarono unanimemente di ballare. Fra le lettere arrivate a Douai dalla Polonia ce n'era una per Balthazar. Il signor di Wierzchownia, allora a Dresda, dove stava morendo, diceva, per una ferita infertagli in uno degli ultimi combattimenti, aveva voluto lasciare al suo ospite parecchie idee che, dopo il loro incontro, gli erano venute alla mente riguardo l'Assoluto. A causa di quella lettera Claës cadde in una profonda meditazione, che fece onore al suo patriottismo, ma la moglie non si ingannò. Per lei la festa ebbe una duplice tristezza. Quella serata, nella quale casa Claës splendeva del suo ultimo bagliore, ebbe perciò qualcosa di oscuro e di triste in mezzo a tanta magnificenza, a tante rarità accumulate da sei generazioni, ognuna delle quali aveva avuto la sua particolare affezione, e che i duacesi ammiravano per l'ultima volta.
La regina della giornata fu Marguerite, che aveva allora sedici anni e che i genitori presentarono in società. Ella attrasse tutti gli sguardi per la sua semplicità estrema, per la sua aria candida e soprattutto per il suo aspetto che ben si accordava con quella casa. Era davvero la fanciulla fiamminga come i pittori del luogo sempre l'avevano raffigurata: una testa perfettamente tondeggiante e piena, capelli castani lisci sulla fronte e divisi in due bande, occhi grigi con riflessi verdi, belle braccia, una floridezza che non recava danno alla beltà, un'aria timida, ma, sulla fronte alta e diritta, una forza che si nascondeva sotto la calma e la dolcezza apparenti. Senza esser né triste né malinconica, sembrava non particolarmente allegra. La riflessione, l'ordine, il senso del dovere, che sono le tre espressioni principali del carattere fiammingo, si leggevano su quel volto a prima vista freddo, ma sul quale lo sguardo era richiamato da una certa grazia dei lineamenti e da una pacata fierezza che dava garanzia di felicità domestica. Per una bizzarria che i fisiologi non hanno ancora spiegato, ella non presentava nessun tratto né della madre né del padre mentre offriva l'immagine vivente della nonna materna, una Coyncks di Bruges, il cui ritratto gelosamente custodito testimoniava quella somiglianza.
La cena diede una certa animazione alla festa. I disastri dell'esercito impedivano le gioie della danza, ma ognuno pensò che non dovevano escludere i piaceri della tavola. I patrioti se ne andarono presto. Restarono gli indifferenti, insieme ad alcuni giocatori e a parecchi amici di Claës; ma insensibilmente quella casa tanto sfarzosamente illuminata nella quale si affollavano tutti i notabili di Douai rientrò nel silenzio, e verso l'una del mattino la galleria rimase deserta e le luci si spensero da un salotto all'altro. Anche il cortile interno, per un momento così rumoroso e splendente, tornò nero e buio, immagine profetica del futuro che aspettava la famiglia. Quando i Claës rientrarono nel loro appartamento, Balthazar fece leggere alla moglie la lettera del polacco, ed ella gliela restituì con un gesto triste, presaga dell'avvenire.
In realtà, a cominciare da quel giorno, Balthazar stentò a nascondere la pena e l'affanno che lo opprimevano. Il mattino, dopo la colazione in famiglia, giocava un poco nel parlatorio col piccolo Jean, parlava con le figlie intente a cucire, a ricamare o a far merletti; ma si stancava presto di quei giochi, di quelle chiacchiere, pareva vi si assoggettasse come a un dovere. Quando la moglie tornava giù dopo essersi vestita, lo trovava sempre seduto sulla poltrona a guardare Marguerite o Félicie, senza spazientirsi del rumore dei loro rocchetti. Quando arrivava il giornale, lo leggeva lentamente, come un uomo ritiratosi dagli affari che non sa come ammazzare il tempo. Poi si alzava, guardava il cielo attraverso i vetri, tornava a sedersi e attizzava pensieroso il fuoco, come un uomo al quale la tirannia del pensiero ha tolto la coscienza dei propri gesti. La signora Claës era assai dolente per la sua mancanza di istruzione e di memoria. Le riusciva difficile sostenere a lungo una conversazione interessante, che d'altronde è forse irrealizzabile per due esseri che si son detti tutto e che sono costretti a cercare argomenti di distrazione al di fuori della vita del cuore o della vita materiale. La vita del cuore ha i suoi momenti e vuole degli ostacoli; i particolari della vita materiale non potrebbero interessare a lungo menti superiori abituate a decidere con rapidità, e la vita mondana è insopportabile alle anime innamorate. Due esseri solitari che si conoscano totalmente devono perciò cercare i loro piaceri nelle sfere più alte del pensiero, essendo impossibile contrapporre qualcosa di piccolo a ciò che è immenso. E poi, quando un uomo si è abituato a trattare grandi cose, diventa incontentabile se non conserva in fondo al cuore quell'innato candore, quell'abbandono che rende gli uomini di genio così piacevolmente fanciulli; ma tale infanzia del cuore è un fenomeno umano alquanto raro in chi ha la missione di tutto vedere, tutto sapere, tutto capire.
Durante i primi mesi, la signora Claës si trasse da questa situazione critica con gli sforzi indicibili che le
suggerivano l'amore o la necessità. Ora si metteva a imparare il tric-trac, che non aveva mai saputo giocare, e, per un miracolo piuttosto comprensibile, finiva col capirlo. Ora interessava Balthazar all'educazione delle figlie, pregandolo di guidare le loro letture. Ma tali risorse si esaurirono. Arrivò un momento in cui Joséphine si trovò davanti a Balthazar come madame de Maintenon in presenza di Luigi XIV, ma senza avere, per distrarre l'amante assopito, né le magnificenze del potere né le astuzie di una corte che sapeva recitar commedie come quella dell'ambasciata del re del Siam o dello Scià di Persia. Ridotto, dopo aver sperperato l'intera Francia, a espedienti da minorenne per procurarsi denaro, il monarca non aveva più né giovinezza né successo, e in mezzo alle grandezze soffriva di una terribile impotenza; la regale nutrice, che aveva saputo cullare i figli, non seppe sempre cullare il padre, che soffriva per aver abusato delle cose, degli uomini, della vita e di Dio. Ma Claës soffriva per troppa potenza. Oppresso da un pensiero che lo schiacciava, sognava i trionfi della Scienza, tesori per l'umanità, e per sé la gloria. Soffriva come un artista alle prese con la miseria, come Sansone incatenato alle colonne del tempio. Per quei due Sovrani il risultato era lo stesso, benché il monarca intellettuale fosse oppresso dalla sua forza e l'altro dalla sua debolezza. Che cosa poteva fare Pepita, sola contro quella specie di nostalgia della Scienza? Dopo aver usato i mezzi che le offrivano le occupazioni familiari, chiamò in aiuto la società, offrendo due caffè alla settimana. A Douai i caffè stanno al posto dei tè. Un caffè è una riunione nella quale per un'intera serata gli invitati bevono i vini squisiti e i liquori di cui rigurgitano le cantine in quel paese benedetto, mangiano ghiottonerie, prendono caffè o caffelatte ghiacciato, mentre le donne cantano romanze, parlano dei loro vestiti o si raccontano i grandi nonnulla della città. Sono sempre i quadri di Mieris o di Terburg, meno le penne rosse sui grigi cappelli a punta, meno le chitarre e i bei costumi del sedicesimo secolo. Ma gli sforzi che faceva Balthazar per recitar bene la sua parte di padrone di casa, la sua affabilità non spontanea, i fuochi d'artificio del suo spirito, tutto rivelava la gravità del suo male; e il giorno successivo lo si vedeva in preda alla stanchezza.
Quelle feste continue, deboli palliativi, dimostrarono che il male di Claës era profondissimo. Quei rami che Balthazar incontrava piombando nel precipizio ritardarono la sua caduta, ma la resero più pesante. Se non parlò mai delle sue antiche occupazioni, se non mandò un lamento sentendo l'impossibilità di ricominciare i suoi esperimenti per la promessa fatta, assunse però i movimenti tristi, la voce debole, l'abbattimento di un malato. La sua tristezza si manifestava talvolta perfino nel modo in cui prendeva le molle per costruire distrattamente nel fuoco qualche piramide fantastica coi pezzi di antracite. Quando arrivava la sera, provava una visibile soddisfazione; il sonno lo liberava senza dubbio da un pensiero importuno; il giorno dopo, egli si alzava malinconico di fronte a una giornata da passare e sembrava calcolasse il tempo che doveva trascorrere, come un viandante stanco contempla un deserto da attraversare. La signora Claës conosceva la causa di quel malessere, ma si sforzò di ignorare quanto gravi ne fossero i danni. Piena di coraggio contro le sofferenze dello spirito, era senza forza contro la generosità del cuore. Non osava interrogare Balthazar quando egli ascoltava i discorsi delle due figlie e le risate di Jean con l'aria di chi è immerso in segreti pensieri, ma fremeva vedendolo scuotere la sua malinconia e cercare generosamente di apparire allegro per non rattristare nessuno. Gli scherzi del padre con le due figlie o i suoi giochi con Jean bagnavano di pianto gli occhi di Joséphine, che usciva per nascondere l'emozione causatale da quell'eroismo il cui valore è noto solo alle donne e che spezza loro il cuore. La signora Claës aveva voglia allora di dire: «Uccidimi, e dopo fa' quello che vuoi!».
Insensibilmente gli occhi di Balthazar persero il loro fuoco vivo e presero quella tinta glauca che offusca quelli dei vecchi. Le sue attenzioni per la moglie, le sue parole, tutto in lui appariva stanco e pesante. Questi sintomi, fattisi più gravi verso la fine d'aprile, spaventarono la signora Claës, per la quale quello spettacolo era intollerabile; ella si era fatta già mille rimproveri ammirando la lealtà fiamminga con cui il marito teneva fede alla sua parola. Un giorno in cui Balthazar le sembrò più abbattuto che mai, non esitò a sacrificare tutto pur di restituirlo alla vita.
«Mio caro», gli disse, «ti sciolgo dai tuoi giuramenti».
Balthazar la guardò con aria stupita.
«Pensi ai tuoi esperimenti?», ella riprese.
Lui rispose con un gesto terribilmente vivace. Lungi dal rivolgergli rimostranza di sorta, la signora Claës, che aveva a lungo sondato l'abisso nel quale sarebbero precipitati, gli prese la mano e gliela strinse sorridendo. «Grazie, caro, sono sicura del mio potere», gli disse, «tu mi hai sacrificato più della tua vita. A me ora i sacrifici! Benché abbia già venduto alcuni dei miei diamanti, ne restano ancora abbastanza, insieme a quelli di mio fratello, per procurarti il denaro necessario al tuo lavoro. Avevo destinato quei vezzi alle nostre due figlie, ma la tua gloria non gliene darà forse di più splendenti? E d'altronde, non restituirai ad esse un giorno i loro diamanti ancor più belli?».
La gioia che improvvisamente illuminò il volto del marito portò al colmo la disperazione di Joséphine; ella vide con dolore che quella passione in lui dominava su tutto. Claës aveva tanta fiducia nella propria opera, da incamminarsi senza tremare per una strada che alla moglie sembrava un abisso. A lui la fede, a lei il dubbio, a lei il fardello più pesante: non è forse vero che la donna soffre sempre per due? In quel momento le piacque credere al successo, volendo giustificare a se stessa la propria complicità nella probabile dilapidazione del loro patrimonio.
«L'amore di tutta la mia vita non basterebbe a ricompensarti della tua devozione, Pepita», disse Claës commosso.
Aveva appena finito queste parole, che Marguerite e Félicie entrarono e diedero il loro buongiorno. La signora Claës abbassò gli occhi e rimase per un momento interdetta davanti alle figlie, i cui beni erano stati allora alienati a vantaggio di una chimera; il marito, invece, le prese sulle ginocchia e parlò con loro allegramente, felice di poter sfogare la gioia che lo soffocava. Da quel momento la signora Claës entrò nella vita ardente del marito. Il futuro dei suoi figli e la considerazione del loro padre furono per lei due moventi così forti quanto lo erano per Claës la gloria e la Scienza. La povera donna non ebbe più un momento di calma da quando tutti i diamanti di famiglia furono venduti a Parigi tramite l'abate Solis, suo direttore spirituale, e quando i fabbricanti di prodotti chimici ebbero ripreso le loro spedizioni. Incessantemente agitata dal demone della Scienza e da quel furore di ricerca che divorava il marito, viveva in un'attesa continua e restava come morta per giornate intere, inchiodata sulla sua poltrona dalla stessa violenza dei suoi desideri che, non trovando sfogo come quelli di Balthazar nelle continue ricerche di laboratorio, tormentavano la sua anima, acuendo dubbi e timori. In certi momenti, rimproverandosi la propria compiacenza per una passione il cui risultato era impossibile e che Solis condannava, si alzava, andava alla finestra del cortile interno e guardava con terrore il camino del laboratorio. Se ne usciva fumo, lo contemplava con disperazione, mentre i pensieri più contrastanti le si agitavano nel cuore e nella mente. Vedeva andare in fumo il patrimonio dei suoi figli, ma salvava la vita del loro padre; ma non era forse il suo primo dovere quello di renderlo felice? Quest'ultimo pensiero la calmava per un momento. Aveva ottenuto di poter entrare nel laboratorio e di restarvi, ma presto dovette rinunciare a quella triste soddisfazione. Provava una sofferenza troppo viva nel vedere che Balthazar non si occupava affatto di lei, anzi pareva spesso infastidito dalla sua presenza; ella sentiva in quel luogo una gelosa impazienza e una voglia crudele di far saltare in aria la casa; là moriva di cento mali sconosciuti. Lemulquinier diventò allora per lei una specie di barometro: se lo sentiva fischiettare quando andava e veniva per servire il pranzo o la cena, indovinava che gli esperimenti del marito andavano bene e che egli aveva la speranza di una prossima riuscita; se Lemulquinier era taciturno e scuro in viso, gli gettava uno sguardo addolorato: Balthazar era scontento. La padrona e il domestico avevano finito col comprendersi, nonostante la fierezza dell'una e l'arrogante sottomissione dell'altro. Debole e indifesa contro le terribili prostrazioni del pensiero, la donna soccombeva sotto le alternative di speranza e disperazione che in lei si accrescevano per le inquietudini della moglie innamorata e per le ansie della madre trepidante sul destino della famiglia. Ella ormai s'immedesimava nel silenzio desolante che una volta le gelava il cuore, senza accorgersi della cupa atmosfera che regnava nella casa, e delle giornate intere che scorrevano in quel parlatorio, senza un sorriso, spesso senza una parola. Per una triste previdenza materna, abituava le due figlie ai lavori domestici, e cercava di farle diventare abili in qualche mestiere da donna perché potessero viverne se fossero cadute in miseria. La calma di quella dimora nascondeva dunque affanni spaventosi. Verso la fine dell'estate Balthazar si era mangiato il denaro dei diamanti venduti a Parigi tramite il vecchio abate Solis e si era indebitato per circa ventimila franchi con Protez e Chiffreville.
Nell'agosto del 1813, circa un anno dopo la scena che dà inizio a questa storia, anche se Claës aveva fatto
alcuni felici esperimenti che disgraziatamente egli sottovalutava, i suoi sforzi erano rimasti senza risultato nei riguardi dell'oggetto principale delle sue ricerche. Il giorno in cui ebbe terminato una serie di lavori, il sentimento della propria impotenza lo schiacciò, e la certezza di aver sperperato senza frutto somme considerevoli lo portò alla disperazione. Fu una catastrofe spaventosa. Abbandonò la soffitta, scese lentamente nel parlatorio, si gettò su una poltrona in mezzo ai suoi figli e restò là per qualche tempo come morto, senza rispondere alle domande che la moglie gli rivolgeva; gli occhi gli si empirono di lacrime e fuggì nel proprio appartamento per non dare spettacolo del proprio dolore; Joséphine lo seguì e lo condusse nella sua camera, dove, solo con lei, Balthazar diede sfogo alla propria disperazione. Quelle lacrime di uomo, quelle parole d'artista scoraggiato, i rimorsi del padre di famiglia ebbero un carattere di terrore, di tenerezza, di follia che fece male alla signora Claës più di tutte le passate sofferenze. La vittima consolò il carnefice. Quando Balthazar con uno spaventoso accento di convinzione disse: «Sono un miserabile, gioco la vita dei miei figli, la tua, e per lasciarvi felici bisogna che mi uccida!», quelle parole le trafissero il cuore e, poiché la conoscenza che aveva del carattere del marito le faceva temere che avrebbe presto attuato quel folle proposito, provò uno di quei turbamenti che sconvolgono la vita fin nelle radici e che fu tanto più funesto in quanto Pepita ne trattenne la violenza ostentando una calma simulata.
«Mio caro», disse, «non ho consultato Pierquin, poiché la sua amicizia non è abbastanza grande da non fargli provare un certo piacere segreto nel vederci rovinati, ma un vecchio che nei miei confronti si dimostra buono come un padre. L'abate Solis, mio confessore, mi ha dato un consiglio che ci salva dalla rovina. È venuto a vedere i tuoi quadri. Il valore di quelli che si trovano nella galleria può servire a pagare tutte le somme ipotecate sulle tue proprietà e quello che devi a Protez e Chiffreville, perché avrai certamente con loro un conto da saldare».
Claës fece un cenno affermativo abbassando la testa; i capelli erano ormai diventati bianchi.
«Solis conosce gli Happe e Duncker di Amsterdam; vanno pazzi per i quadri e, desiderosi come tutti gli
arricchiti di sfoggiare un fasto che è permesso solo alle antiche casate, ci pagheranno i nostri tutti i soldi che valgono. Riavremo così i nostri redditi e sul ricavato, che si avvicinerà ai centomila ducati, tu potrai prendere una parte del capitale per continuare i tuoi esperimenti. Le tue figlie ed io ci accontenteremo di poco. Col tempo e con un po' di economia riempiremo con altri quadri le cornici vuote, e tu vivrai felice!».
Balthazar alzò la testa verso la moglie con una gioia mista a timore. Le parti si erano invertite. La moglie era diventata la protettrice del marito. Quell'uomo così tenero e con un cuore così vicino a quello di Joséphine, la teneva tra le braccia senza accorgersi dell'orribile convulsione che la faceva palpitare e ne agitava i capelli e le labbra con un tremito nervoso.
«Non osavo dirti che tra me e l'Assoluto non c'è ormai che un capello di distanza. Per rendere gassosi i metalli mi manca solo il sistema di sottoporli a un immenso calore in un ambiente dove la pressione dell'atmosfera sia nulla, ossia nel vuoto assoluto».
La signora Claës non poté tollerare l'egoismo di quella risposta. Aspettava ringraziamenti appassionati per i suoi sacrifici, e trovava un problema di chimica. Lasciò bruscamente il marito, scese nel parlatorio, cadde sulla sua poltrona tra le due figlie sconvolte e scoppiò in lacrime. Marguerite e Félicie le presero una mano ciascuna, s'inginocchiarono da un lato e dall'altro della poltrona piangendo anch'esse senza sapere il perché di quel dolore e domandarono a più riprese: «Che cosa avete, mamma?».
«Povere bambine mie! Muoio, lo sento».
Quella risposta fece rabbrividire Marguerite, che per la prima volta notò sul volto della madre i segni del pallore come appaiono nelle persone di colorito olivastro.
«Martha, Martha!», gridava Félicie, «venite, la mamma ha bisogno di voi».
La vecchia governante corse dalla cucina e vedendo il biancore verdastro di quel volto leggermente bistrato e così fortemente colorito: «Corpo di Cristo!», esclamò in spagnolo, «la signora muore!».
Uscì precipitosamente, disse a Josette di far scaldare dell'acqua per un pediluvio e tornò dalla signora.
«Non spaventate il padrone, non ditegli niente, Martha», gridò la gentildonna. «Povere care bambine», soggiunse, stringendosi al cuore Marguerite e Félicie con un gesto disperato, «vorrei poter vivere abbastanza per vedervi felici e maritate. Martha», riprese, «dite a Lemulquinier di andare dall'abate Solis per pregarlo da parte mia di passare di qui».
Quel colpo di fulmine si ripercosse necessariamente fino in cucina. Josette e Martha, entrambe affezionate alla
signora Claës e alle figlie, furono colpite nel solo affetto che avessero. Quelle terribili parole: «La signora muore, e l'avrà uccisa il padrone; fate presto un pediluvio con la senape!», avevano strappato varie imprecazioni a Josette, che si sfogava con Lemulquinier. Questi, freddo e insensibile, mangiava seduto in un angolo della tavola, davanti a una delle finestre dalle quali la luce del cortile entrava in cucina, dove tutto era in ordine come nel salotto di una damigella.
«Doveva finire così», diceva Josette guardando il domestico e salendo sopra uno sgabello per prendere da un ripiano un paiolo che splendeva come l'oro. «Nessuna madre potrebbe vedere a sangue freddo un padre che si diverte a distruggere un patrimonio di quella fatta, per farne fumo senza arrosto».
Josette, la cui testa coperta da una cuffia rotonda pieghettata assomigliava a quella di uno schiaccianoci tedesco, gettò su Lemulquinier un'occhiata pungente che il color verde degli occhietti sporgenti rendeva quasi velenosa. Il vecchio domestico alzò le spalle con un gesto degno di Mirabeau spazientito e infornò nella grande bocca una tartina imburrata cosparsa di salsa.
«Invece di seccare il padrone, la signora dovrebbe dargli del denaro e saremo presto tutti ricchi da nuotar nell'oro! Non manca che lo spessore di un centesimo per trovare...».
«Be', voi che avete ventimila franchi da parte, perché non glieli offrite? È il vostro padrone! E poi, voi siete
così sicuro di quello che fa...».
«Voi non capite niente, Josette, scaldate l'acqua», rispose il fiammingo interrompendo la cuoca.
«Capisco abbastanza per sapere che qui c'erano mille marchi di argenteria, che voi e il vostro padrone li avete
fusi e che, se vi si lascerà fare, sarete bravissimi a trasformare cinque soldi buoni in sei patacche, e fra poco non resterà più niente».
«Il padrone», disse Martha, arrivando, «ucciderà la padrona per sbarazzarsi di una moglie che lo impaccia e gli impedisce di far fuori tutto. È indemoniato, lo si vede! Il meno che rischiate aiutandolo, Lemulquinier, è la vostra anima, ammesso che ne abbiate una, perché voi ve ne state là come un pezzo di ghiaccio, mentre qui c'è la desolazione.
Queste signorine piangono come Maddalene. Correte dunque a chiamare l'abate Solis».
«Ho da fare per il padrone, ho da mettere in ordine il laboratorio», disse il domestico. «Il quartiere di Esquerchin è troppo lontano. Andateci voi».
«Guardate questo mostro!», disse Martha. «Chi farà il pediluvio alla signora? volete lasciarla morire? Ha il
sangue alla testa».
«Lemulquinier», disse Marguerite arrivando nella stanza prima della cucina, «tornando dall'abate Solis, pregate
il signor Pierquin, il medico, di venire subito qui».
«Su, andateci!», disse Josette.
«Signorina, il padrone m'ha detto di mettere in ordine il suo laboratorio», rispose Lemulquinier voltandosi verso le sue donne e guardandole con aria superba.
«Papà», disse Marguerite a Claës che scendeva in quel momento, «non potresti lasciarci Lemulquinier per mandarlo in città?».
«Andrai, brutto selvaggio», disse Martha udendo che il signor Claës metteva Lemulquinier a disposizione della figlia. La scarsa affezione del domestico per la casa era il grande argomento di discussione tra quelle due donne e Lemulquinier, la cui freddezza aveva avuto il risultato di esaltare l'attaccamento di Josette e della governante. Quella lotta in apparenza così meschina influì parecchio sull'avvenire della famiglia, quando più tardi ebbe bisogno di aiuto contro la sventura. Balthazar s'immerse di nuovo talmente nelle sue fantasticherie, che non si accorse dello stato in cui si trovava Joséphine. Prese Jean sulle ginocchia e lo fece saltellare meccanicamente, pensando al problema che da quel momento credeva di poter risolvere. Vide portare il pediluvio alla moglie che, non avendo la forza di alzarsi dalla poltrona dove giaceva, era rimasta nel parlatorio. Guardò anche le due figlie, che si occupavano della madre, senza informarsi della causa delle loro cure ansiose. Quando Marguerite o Jean volevano parlare, la signora Claës imponeva il silenzio indicando loro Balthazar. Una scena siffatta era tale da far riflettere Marguerite che, posta in mezzo tra il padre e la madre, era abbastanza cresciuta e abbastanza assennata per giudicarne il comportamento. Nella vita intima delle famiglie arriva il momento in cui i figli diventano, volontariamente o no, giudici dei loro genitori. La signora Claës aveva capito il pericolo di quella situazione. Per amore di Balthazar si sforzava di giustificare agli occhi di Marguerite quelli che, nello spirito retto di una giovinetta di sedici anni, potevano apparire errori del padre. Per questo il profondo rispetto che in quella circostanza la signora Claës dimostrava per Balthazar, annullandosi di fronte a lui per non turbarne la meditazione, ispirava ai figli una specie di terrore per la maestà paterna. Ma quella devozione, per quanta suggestione avesse, pur accresceva l'ammirazione che Marguerite provava per la madre, alla quale l'univano in particolare i fatti della vita quotidiana. Quel sentimento era basato su una specie di divinazione delle sue sofferenze, la cui causa doveva naturalmente preoccupare una fanciulla. Nessuna forza umana poteva impedire che una parola sfuggita talvolta o a Martha o a Josette rivelasse a Marguerite il perché della situazione nella quale da quattro anni si trovava la famiglia. Nonostante la discrezione della signora Claës, la figlia scopriva dunque insensibilmente, lentamente, un filo dopo l'altro, la trama misteriosa di quel dramma domestico. Marguerite sarebbe diventata entro un certo tempo l'attiva confidente della madre, e sarebbe stata alla fine il più severo dei giudici. Per questo tutte le attenzioni della signora Claës si concentravano su Marguerite, alla quale cercava di comunicare la propria devozione per Balthazar. La fermezza, il senno che incontrava nella figlia la facevano fremere al pensiero di un possibile scontro tra Marguerite e Balthazar quando, dopo la sua morte, sarebbe stata sostituita da lei nell'andamento interno della casa. La povera donna era dunque arrivata a temere più quello che sarebbe accaduto dopo la sua morte che non la morte stessa. Tutta la sua sollecitudine per Balthazar si palesava nella risoluzione che aveva appena presa. Liberando i beni del marito, ne assicurava l'indipendenza e preveniva ogni discussione separando i suoi interessi da quelli dei figli; sperava di vederlo felice fino al momento in cui ella avrebbe chiuso gli occhi; poi contava di trasmettere le delicatezze del proprio cuore a Marguerite, che avrebbe continuato a svolgere presso di lui il compito di angelo d'amore, esercitando sulla famiglia un'autorità tutelare e conservatrice. Non sarebbe stato come far risplendere ancora dal fondo della tomba il suo amore su quelli che le erano cari? Nondimeno, non volle sminuire il padre agli occhi della figlia facendole condividere prima del tempo il terrore che le ispirava la passione scientifica di Balthazar; studiava l'animo e il carattere di Marguerite per sapere se quella fanciulla sarebbe diventata ella stessa una madre per i fratelli e la sorella, una moglie dolce e tenera per il padre. Per questo gli ultimi giorni della signora Claës erano avvelenati da calcoli e timori che non osava confidare a nessuno. Si sentiva colpita a morte da quell'ultima scena e spingeva lo sguardo nell'avvenire, mentre Balthazar, ormai inetto a tutto quanto fosse economia, denaro, sentimenti domestici, pensava a trovare l'Assoluto. Il profondo silenzio che regnava nel parlatorio era interrotto soltanto dal piede di Claës che continuava a muoverlo su e giù senza accorgersi che Jean non vi stava più sopra. Seduta accanto alla madre della quale contemplava il volto pallido e sconvolto, Marguerite si voltava ogni tanto verso il padre, stupita della sua insensibilità. A un tratto, la porta di strada sbatté chiudendosi e la famiglia vide l'abate Solis appoggiato al nipote; attraversavano entrambi lentamente il cortile.
«Ah, ecco il signor Emmanuel», esclamò Félicie.
«Che buon giovane!», disse la signora Claës scorgendo Emmanuel Solis, «sono contenta di rivederlo».
Marguerite arrossì udendo l'elogio che era sfuggito alla madre. Da due giorni la vista di quel giovane aveva risvegliato nel suo cuore sentimenti sconosciuti e suscitato nella sua intelligenza pensieri fino a quel momento inerti. Durante la visita fatta dal confessore alla sua penitente erano avvenuti alcuni di quei fatti impercettibili che hanno un gran posto nella vita e i cui risultati furono tanto importanti da richiedere qui la descrizione dei nuovi personaggi introdottisi nella vita di quella famiglia. La signora Claës aveva seguito il principio di compiere in segreto le sue pratiche di devozione. Il suo direttore spirituale, quasi sconosciuto in casa, veniva per la seconda volta da lei e anche lì, come altrove, si era per forza presi da una specie di commozione e di ammirazione alla vista dello zio e del nipote. L'abate Solis, vecchio ottuagenario coi capelli d'argento, aveva un volto decrepito dal quale la vita sembrava essersi ritirata negli occhi. Camminava con difficoltà, giacché una delle gambe esili terminava con un piede orribilmente deformato, chiuso entro una specie di sacco di velluto, che l'obbligava a servirsi di una stampella quando non era al braccio del nipote. Il dorso curvo, il corpo rinsecchito offrivano lo spettacolo di un essere sofferente e fragile, dominato da una volontà di ferro e da un casto spirito religioso che l'avevano conservato. Quel prete spagnolo, notevole per il profondo sapere, la devozione sincera e la vastità delle conoscenze, era stato successivamente domenicano, gran penitenziere di Toledo e vicario generale dell'arcivescovo di Malines. Senza la Rivoluzione francese, la protezione dei Casa-Real lo avrebbe portato alle più alte dignità della Chiesa; ma il dolore causatogli dalla morte del giovane duca suo allievo lo aveva disgustato della vita attiva e si era dedicato interamente all'educazione del nipote, rimasto orfano in tenera età. Al tempo della conquista del Belgio si era stabilito vicino alla signora Claës. Fin dalla giovinezza l'abate Solis aveva professato per santa Teresa un entusiasmo che lo portava, come del resto l'inclinazione del suo spirito, verso la tendenza mistica del cristianesimo. In Fiandra, dove mademoiselle Bourignon e gli scrittori illuminati e quietisti avevano fatto il maggior numero di proseliti, aveva trovato una schiera di cattolici fedeli alle sue credenze; vi restò quindi tanto più volentieri in quanto fu considerato come un patriarca da quella Comunità particolare nella quale si continuano a seguire le dottrine dei Mistici, nonostante le censure che avevano colpito Fénélon e madame Guyon. I suoi costumi erano rigidi, la sua vita esemplare e si diceva avesse delle estasi. Nonostante il distacco che un religioso così severo doveva avere nei riguardi delle cose di questo mondo, l'affetto che nutriva per il nipote gli faceva prendere cura dei suoi interessi. Quando si trattava di un'opera di carità, il vecchio chiedeva un contributo ai fedeli della sua chiesa prima di ricorrere al proprio patrimonio personale, e la sua patriarcale autorità era così riconosciuta, le sue intenzioni erano così pure, la sua perspicacia così raramente in difetto, che chiunque aderiva alle sue richieste. Per avere un'idea del contrasto che esisteva tra zio e nipote, bisognerebbe paragonare il vecchio a uno di quei salici cavi che crescono in riva all'acqua, e il giovane al rosaio selvatico carico di fiori il cui stelo elegante e diritto si alza dal cuore dell'albero muscoso e pare voglia raddrizzarlo.
Educato severamente dallo zio, che lo custodiva presso di sé come una matrona custodisce una vergine, Emmanuel era pieno di quella delicata sensibilità, di quel candore quasi sognante che sono fiori passeggeri di ogni giovinezza, ma duraturi nelle anime nutrite di princìpi religiosi. Il vecchio prete aveva represso nel suo allievo la manifestazione di ogni sentimento voluttuoso, preparandolo alle sofferenze della vita con il lavoro continuo e con una disciplina quasi claustrale. Questa educazione, che doveva presentare Emmanuel intatto al mondo e renderlo felice se avesse fatto buoni incontri nei suoi primi affetti, lo aveva circonfuso di una angelica purezza, che conferiva alla sua persona il fascino che emana dalle fanciulle. Gli occhi timidi, che nascondevano però un animo forte e coraggioso, mandavano una luce che si diffondeva nelle anime come il suono del cristallo fa risuonare all'orecchio le sue vibrazioni. Il volto espressivo, anche se regolare, si faceva notare per la perfezione del profilo, per il felice disegno dei lineamenti e per la calma profonda che emana dalla pace del cuore. Tutto era in lui armonico. I capelli neri, gli occhi e le sopracciglia scure facevano maggiormente risaltare la carnagione bianca e il vivace colorito. La voce era quella che ci si poteva aspettare da un viso così bello. I movimenti femminei si accordavano con la melodia della voce e con la dolce luminosità dello sguardo. Pareva ignorasse l'attrattiva che suscitavano la riservatezza quasi malinconica delle sue maniere, la modestia delle sue parole e le rispettose premure che prodigava allo zio. Quando lo si vedeva studiare l'andatura tortuosa dell'abate per adattarsi alle sue dolorose deviazioni in modo da assecondarle, o attento a guardar da lontano quel che poteva intralciare il passo al vecchio così da guidarlo sulla strada migliore, non si poteva fare a meno di riconoscere in Emmanuel quei generosi sentimenti che rendono l'uomo una creatura sublime. Appariva così grande in quel suo amare lo zio senza giudicarlo, obbedirlo senza mai discutere i suoi ordini, che chiunque era portato a vedere una predestinazione nel nome soave che gli aveva dato la madrina. Quando, in casa o fuori, il vecchio esercitava il suo dispotismo di domenicano, Emmanuel rizzava talvolta la testa nobilmente, come per affermare una sua forza se si fosse trovato alle prese con qualche altro; e le persone sensibili ne restavano commosse, come si commuovono gli artisti di fronte a una grande opera, giacché i nobili sentimenti risuonano nelle anime tanto per la loro vivente rappresentazione quanto per mezzo delle realizzazioni artistiche.
Emmanuel aveva accompagnato lo zio quando era venuto in casa della sua penitente per esaminare i quadri di Claës. Udendo da Martha che l'abate Solis era nella galleria, Marguerite, che desiderava vedere quell'uomo famoso, aveva cercato un pretesto per raggiungere la madre, al fine di soddisfare la propria curiosità. Entrata quasi con indifferenza, ostentando la leggerezza sotto la quale le fanciulle nascondono così bene i loro desideri, aveva incontrato accanto al vecchio vestito di nero, curvo, piegato in due, cadaverico, la fresca, deliziosa figura di Emmanuel. Gli sguardi ugualmente giovani, ugualmente ingenui di quelle due creature avevano espresso il medesimo stupore.
Emmanuel e Marguerite si erano senza dubbio già visti reciprocamente nei loro sogni. Tutti e due abbassarono gli occhi e li rialzarono poi con uno stesso movimento, lasciando sfuggire una stessa confessione. Marguerite prese il braccio della madre, le parlò sottovoce per darsi un contegno e si rifugiò per così dire sotto l'ala materna, tendendo il collo con un movimento da cigno per rivedere Emmanuel che, da parte sua, rimase attaccato al braccio dello zio. Benché abilmente distribuita per valorizzare ogni tela, la debole illuminazione della galleria favorì quelle furtive occhiate che sono la gioia delle persone timide. Senza dubbio nessuno dei due arrivò, nemmeno col pensiero, al se col quale hanno inizio le passioni, ma entrambi avvertirono quel profondo turbamento che sconvolge il cuore e su cui, quando si è giovani, si serba il segreto, per maggior piacere o per pudore. La prima impressione che determina l'effondersi di una sensibilità a lungo contenuta è seguita in tutti i giovani dallo stupore quasi attonito che provocano nei bambini le prime melodie della musica. Alcuni bambini ridono e pensano, altri ridono solo dopo aver pensato; ma quelli la cui anima è chiamata a vivere di poesia o d'amore, ascoltano a lungo e chiedono di risentire la melodia con uno sguardo dove si accende già il piacere, dove spunta la curiosità dell'infinito. Se amiamo irresistibilmente i luoghi dove nella nostra infanzia siamo stati iniziati alle bellezze dell'armonia, se ci ricordiamo con gioia del musicista e anche dello strumento, come impedirci di amare l'essere che per primo ci svela le musiche della vita? Il cuore in cui per la prima volta abbiamo ispirato l'amore non è forse come una patria? Emmanuel e Marguerite furono l'uno per l'altro quella Voce musicale che risveglia un senso, quella Mano che alza veli nebulosi e mostra le rive inondate dalle luminosità del mezzogiorno. Quando la signora Claës fermò il vegliardo davanti a un quadro di Guido Reni che rappresentava un angelo, Marguerite sporse la testa per vedere quale sarebbe stata l'impressione di Emmanuel, e il giovane cercò Marguerite per paragonare la muta immagine della tela con l'immagine vivente della creatura. Quell'involontario e incantevole omaggio fu capito e apprezzato. Il vecchio sacerdote lodava gravemente quella bella composizione e la signora Claës gli rispondeva; ma i due ragazzi erano silenziosi. Questo fu il loro incontro. La luce misteriosa della galleria, la pace della casa, la presenza dei parenti, tutto contribuiva a fissare più profondamente nel cuore i tratti delicati di quel vaporoso miraggio. I mille pensieri confusi che erano nati tumultuando in Marguerite si calmarono, fecero nella sua anima come una limpida distesa e si tinsero di un raggio luminoso quando Emmanuel balbettò qualche frase accomiatandosi dalla signora Claës. Quella voce, il cui timbro fresco e vellutato spandeva nel cuore incanti indicibili, completò la rivelazione improvvisa che Emmanuel aveva provocato e che doveva fecondare a suo vantaggio, giacché l'uomo di cui il destino si serve per risvegliare l'amore nel cuore di una fanciulla ignora spesso la propria opera e la lascia allora incompiuta. Marguerite si inchinò tutta confusa, e mise il suo saluto in uno sguardo da cui sembrava trasparire il rammarico di perdere quella pura e incantevole visione. Come il bambino, voleva sentire ancora la sua melodia. Il commiato ebbe luogo ai piedi del vecchio scalone davanti alla porta del parlatorio ed ella, quando vi entrò, guardò lo zio e il nipote finché la porta che dava sulla strada si chiuse. La signora Claës era stata troppo presa dai gravi argomenti discussi nel colloquio con il suo padre spirituale, perché potesse osservare il volto della figlia. Quando don Solis e il nipote si presentarono per la seconda volta, era ancora troppo violentemente turbata per accorgersi del rossore che tinse il volto di Marguerite rivelando i fermenti del primo piacere accolto da un cuore vergine. Quando il vecchio sacerdote fu annunciato, Marguerite aveva ripreso il proprio lavoro e pareva vi dedicasse una così grande attenzione che salutò lo zio e il nipote senza guardarli. Claës rese meccanicamente il saluto che gli rivolgeva don Solis, e uscì dal parlatorio come un uomo tutto preso dalle sue occupazioni. Il pio domenicano sedette accanto alla sua penitente, rivolgendole una di quelle occhiate profonde con le quali sondava le anime; gli era bastato vedere Claës e la moglie per intuire una catastrofe.
«Ragazzi», disse la madre, «andate in giardino. Marguerite, mostrate a Emmanuel i tulipani di vostro padre».
Marguerite, quasi vergognosa, prese il braccio di Félicie, guardò il giovane che era arrossito e che uscì prendendo in braccio Jean per darsi un contegno. Quando furono tutti e quattro in giardino, Félicie e Jean andarono per conto loro e lasciarono Marguerite che, rimasta sola col giovane Solis, lo condusse davanti all'aiuola dei tulipani invariabilmente piantati allo stesso modo, ogni anno, da Lemulquinier.
«Vi piacciono i tulipani?», domandò Marguerite dopo essere rimasta per un momento nel più profondo silenzio, senza che Emmanuel sembrasse volerlo rompere.
«Signorina, sono bei fiori, ma per amarli bisogna senza dubbio averne il gusto, saperne apprezzare le bellezze. Questi fiori mi abbagliano. L'abitudine allo studio nella buia cameretta dove vivo, vicino a mio zio, mi fa senza dubbio preferire quel che è dolce alla vista».
Dicendo queste ultime parole, osservò Marguerite, ma senza che quello sguardo pieno di confusi desideri manifestasse alcuna allusione all'incarnato, alla calma, ai teneri colori che rendevano quel volto simile a un fiore.
«Studiate molto?», riprese Marguerite guidando Emmanuel a una panchina di legno con lo schienale dipinto di verde. «Da qui», disse continuando, «non vedrete i tulipani così da vicino, vi stancheranno meno gli occhi. Avete ragione, quei colori abbagliano e fanno male».
«Sì, studio molto», rispose il giovane dopo un attimo di silenzio durante il quale aveva lisciato col piede la sabbia del viale. «Studio ogni genere di cose... Mio zio voleva farmi prete...».
«Oh», fece ingenuamente Marguerite.
«Ho resistito, non mi sentivo la vocazione. Ma mi è occorso molto coraggio per andar contro i desideri dello zio. È così buono e mi vuol tanto bene! Ultimamente ha pagato uno perché mi sostituisse nel servizio militare, per salvarmi. E pensare che sono un povero orfano».
«Che pensate di fare allora?», domandò Marguerite, che parve voler rimproverarsi quella frase lasciandosi sfuggire un gesto, e che aggiunse: «Scusatemi, dovete trovarmi molto curiosa».
«Oh, signorina», disse Emmanuel guardandola con ammirazione e insieme con tenerezza, «nessuno, eccetto mio zio, mi ha ancora posto questa domanda. Studio per diventare professore. Che volete? non sono ricco. Se posso diventare rettore di un collegio in Fiandra, avrò di che vivere modestamente e sposerò una donna semplice che amerò assai. Tale è la vita che ho davanti. Forse per questo preferisco la pratolina che tutti calpestano nella pianura d'Orchies a questi bei tulipani pieni di oro, di porpora, di zaffiri, di smeraldi, che sono immagine di una vita fastosa, mentre la pratolina è immagine di una vita dolce e patriarcale, la vita di un povero professore come sarò io».
«Avevo sempre chiamato le pratoline margherite», disse lei.
Emmanuel Solis arrossì visibilmente e cercò una risposta tormentando la sabbia coi piedi. Non sapendo
scegliere tra tutte le idee che gli venivano alla mente e che trovava sciocche, e per di più confuso per il ritardo che metteva nel rispondere, disse: «Non osavo pronunciare il vostro nome...», e non terminò.
«Ah, professore...», ella riprese.
«Oh, signorina, sarò professore per avere una certa posizione, ma intraprenderò attività che potranno rendermi molto più utile. Ho molta passione per le ricerche storiche».
«Ah!».
Quell'ah pieno di segreti pensieri rese il giovane ancor più vergognoso ed egli si mise a ridere goffamente dicendo: «Mi fate parlar di me, signorina, mentre dovrei parlarvi solo di voi».
«Mia madre e vostro zio hanno terminato, credo, la loro conversazione», disse lei guardando attraverso le
finestre del parlatorio.
«Ho trovato vostra madre molto cambiata».
«Soffre, senza voler dirci la ragione dei suoi dolori, e noi non possiamo far altro che patire con lei».
La signora Claës aveva in realtà appena terminato una delicata consultazione nella quale si trattava di un caso di coscienza che solo don Solis poteva decidere. Prevedendo la completa rovina, voleva trattenere a insaputa di Balthazar, che si occupava poco dei suoi affari, una somma considerevole sul ricavo dei quadri che don Solis si incaricava di vendere in Olanda, per nasconderla e serbarla per il momento in cui la miseria avrebbe fatto sentire il suo peso sulla famiglia. Dopo matura deliberazione e dopo aver valutato le circostanze in cui si trovava la sua penitente, il vecchio domenicano aveva approvato quell'atto di prudenza. Se ne andò per occuparsi di quella vendita che doveva farsi segretamente perché non nuocesse troppo alla reputazione del signor Claës. Il vecchio mandò il nipote, munito di una lettera di presentazione, ad Amsterdam, dove il giovane, felice di rendere un servigio alla famiglia Claës, riuscì a vendere i quadri della galleria ai famosi banchieri Happe e Duncker per una somma dichiarata di ottantacinquemila ducati d'Olanda, e una somma di altri quindicimila, che sarebbe stata versata segretamente alla signora Claës. I quadri erano così noti, che per concludere l'affare bastò la risposta di Balthazar alla lettera che la casa Happe e Duncker gli aveva scritto. Emmanuel Solis fu incaricato da Claës di ricevere l'importo dei quadri che gli inviò segretamente per tener nascosta alla città di Douai la notizia di quella vendita. Verso la fine di settembre, Balthazar rimborsò le somme che gli erano state prestate, svincolò i suoi beni e riprese i propri lavori; ma la casa Claës si era privata del suo più bell'ornamento. Accecato dalla sua passione, egli non dimostrò rimpianto; si riteneva così sicuro di poter presto riparare a quella perdita, che aveva venduto con riserva di riacquisto. Cento quadri non erano niente agli occhi di Joséphine di fronte alla felicità domestica e alla soddisfazione del marito; d'altra parte, ella fece riempire la galleria con i quadri che arredavano gli appartamenti degli ospiti e, per nascondere il vuoto che questi lasciavano nel fabbricato anteriore, cambiò la disposizione dei mobili. Pagati i debiti, Balthazar ebbe a sua disposizione circa duecentomila franchi per ricominciare i suoi esperimenti. Don Solis e il nipote furono depositari dei quindicimila ducati messi da parte dalla signora Claës. Per render maggiore quella somma, il sacerdote vendette i ducati che gli avvenimenti della guerra continentale avevano valorizzato. Centosessantaseimila franchi in scudi furono seppelliti nel sotterraneo della casa abitata da don Solis. La signora Claës ebbe la triste felicità di vedere il marito costantemente occupato per quasi otto mesi. Tuttavia, troppo crudamente percossa dal colpo che egli le aveva inferto, cadde in uno stato di prostrazione che doveva necessariamente peggiorare. La Scienza divorò del tutto Balthazar, tanto che non lo distolsero dalle sue occupazioni né le disfatte subite dalla Francia, né la prima caduta di Napoleone, né il ritorno dei Borboni; egli non era né marito né padre né cittadino, ma chimico. Verso la fine del 1814, la signora Claës era arrivata a un grado di debolezza che non le permetteva più di lasciare il letto. Non volendo vegetare nella sua camera, dove era vissuta contenta, dove i ricordi della felicità perduta le avrebbero suggerito involontari confronti col presente, tali da prostrarla, restava nel parlatorio. I medici avevano appoggiato il desiderio del suo cuore trovando quella stanza più aerata, più allegra e più adatta della camera alla sua situazione. Il letto dove quella donna sventurata finiva di vivere fu allestito tra il caminetto e la finestra che dava sul giardino. Passò là i suoi ultimi giorni, santamente occupata a perfezionare l'anima delle figliole, sulle quali cercava di far risplendere la luce della propria. Indebolito nelle sue manifestazioni, l'amore coniugale permise all'amore materno di espandersi. La madre si dimostrò tanto più incantevole quanto più aveva tardato ad esserlo. Come tutte le persone generose, scambiava per rimorsi le sublimi delicatezze del suo sentimento. Credendo di non aver dato la dovuta tenerezza ai figli, cercava di rimediare ai suoi torti immaginari e aveva per le sue creature certe attenzioni, certe premure che la rendevano deliziosa; voleva in certo qual modo farli vivere nel suo cuore, coprirli con le sue deboli ali ed amarli in un giorno solo per tutti quelli in cui li aveva trascurati. La sofferenza dava alle sue carezze, alle sue parole, un fluente tepore che le spirava dall'anima. I suoi occhi accarezzavano i figli prima che la sua voce li intenerisse con intonazioni piene di volontà buona, e la sua mano sembrava sempre invocar benedizioni su di loro.
Se dopo aver ripreso le sue fastose abitudini la famiglia Claës non ricevette più nessuno, se il suo isolamento divenne più completo e Balthazar non diede più feste nell'anniversario del matrimonio, la città di Douai non ne fu sorpresa. Innanzi tutto la malattia della signora Claës sembrò un motivo sufficiente di tale cambiamento, poi il pagamento dei debiti fermò il corso delle maldicenze, infine le vicissitudini politiche alle quali fu soggetta la Fiandra, la guerra dei Cento Giorni e l'occupazione straniera fecero dimenticare completamente il chimico. Durante quei due anni, la città fu così spesso sul punto di essere presa, e poi consecutivamente occupata o dai Francesi o dal nemico, vi arrivarono tanti stranieri, vi si rifugiarono tanti contadini, vi furono toccati tanti interessi e tante esistenze messe in gioco, vi furono tanti sconvolgimenti e sventure, che ognuno poteva pensare soltanto a se stesso. Don Solis, il nipote e i due fratelli Pierquin furono le sole persone che andassero a far visita alla signora Claës; l'inverno tra il 1814 e il 1815 fu per lei la più dolorosa delle agonie. Il marito andava raramente a trovarla; stava qualche ora vicino a lei dopo pranzo, ma, poiché ella non aveva più la forza di sostenere una lunga conversazione, egli diceva una o due frasi, sempre le stesse, si sedeva, taceva e lasciava regnare nel parlatorio un tremendo silenzio. Quella monotonia era interrotta dai giorni in cui don Solis e il nipote passavano la serata in casa Claës. Mentre il vecchio sacerdote giocava a tric-trac con Balthazar, Marguerite parlava con Emmanuel vicino al letto della madre, che sorrideva delle loro gioie innocenti senza far vedere quanto era dolorosa e insieme dolce sulla sua anima tormentata la fresca brezza di quegli amori verginali che trapelavano a fiotti, una parola dopo l'altra. L'inflessione di voce che incantava i due ragazzi le spezzava il cuore, un'occhiata d'intesa colta tra loro la sprofondava, lei quasi morta, nei ricordi delle sue ore giovani e felici che davano al presente un'immensa amarezza. Emmanuel e Marguerite avevano una delicatezza che faceva loro reprimere le deliziose fanciullaggini dell'amore per non offendere una donna addolorata della quale istintivamente intuivano le ferite. Nessuno ha ancora notato che i sentimenti hanno una vita che è loro propria, una natura che dipende dalle circostanze in mezzo a cui sono nati; essi mantengono sia l'aspetto dei luoghi dove sono cresciuti sia l'impronta delle idee che hanno influito sul loro sviluppo. Vi sono passioni ardentemente concepite che restano ardenti, come quella della signora Claës per il marito; vi sono poi sentimenti ai quali tutto ha sorriso, che mantengono un'allegria mattutina e la loro messe di gioia non è mai senza risa né festa; ma vi sono anche amori fatalmente circonfusi di malinconia o circondati dalla sventura, i cui piaceri sono dolorosi, difficili, carichi di timori, imprigionati da rimorsi o pieni di disperazione. L'amore sepolto nel cuore di Emmanuel e di Marguerite senza che né l'uno né l'altro sapessero ancora che si trattava d'amore, quel sentimento sbocciato sotto la volta scura della galleria Claës, davanti a un vecchio severo sacerdote, in un momento di silenzio e di calma; quell'amore grave e discreto, ma foriero di dolci sfumature, di voluttà segrete, assaporate come grappoli rubati da una vigna, aveva fatto corpo con il color fosco e con le tinte grigie che lo avevano segnato nelle sue prime ore. Non osando abbandonarsi ad alcuna dimostrazione vivace davanti a quel letto di dolore, quei due ragazzi, a loro insaputa, accrescevano le loro gioie con una intensità che le imprimeva nel fondo dei loro cuori. Erano attenzioni nei confronti della malata alle quali partecipava volentieri Emmanuel, felice di potersi unire a Marguerite, diventando anzi tempo figlio di quella madre. Un grazie malinconico sostituiva sulle labbra della fanciulla il dolce linguaggio degli innamorati. I sospiri dei loro cuori, pieni di gioia per uno sguardo ricambiato, si distinguevano poco dai sospiri strappati dallo spettacolo del dolore materno. I dolci istanti di confessioni indirette, di promesse incompiute, di effusioni represse potevano esser paragonati a certe allegorie dipinte da Raffaello su sfondi neri. Avevano entrambi una sicurezza che non confessavano; sapevano che sopra di loro c'era il sole, ma ignoravano quale vento avrebbe scacciato le grosse nubi nere accumulate sulla loro testa; dubitavano dell'avvenire e temendo d'esser sempre accompagnati dalla sofferenza restavano timidamente nell'ombra di questo crepuscolo, senza avere il coraggio di domandarsi: Termineremo insieme la giornata? Tuttavia, la tenerezza che la signora Claës dimostrava ai suoi figli nascondeva nobilmente tutto ciò ch'ella taceva a se stessa. I figli non le davano né fremiti né terrore, erano la sua consolazione, ma non erano la sua vita; viveva di loro, moriva per Balthazar. Per quanto penosa fosse per lei la presenza del marito che se ne stava soprappensiero per ore ed ore e le rivolgeva di tanto in tanto uno sguardo monotono, ella dimenticava le proprie sofferenze solo in quegli istanti crudeli. L'indifferenza di Balthazar per quella donna moribonda sarebbe sembrata un delitto per qualsiasi estraneo che ne fosse stato testimone; ma la signora Claës e le figlie vi si erano abituate, conoscevano il cuore di quell'uomo e lo perdonavano. Se durante il giorno la signora Claës aveva una crisi pericolosa, se stava peggio, se pareva lì lì per spirare, Claës era l'unico nella casa e nella città che lo ignorasse; Lemulquinier, il suo domestico, lo sapeva; ma né le figlie, cui la madre imponeva silenzio, né lei stessa lo informavano dei pericoli che correva una creatura un tempo così ardentemente amata. Quando il suo passo risuonava nella galleria allorché egli scendeva a pranzo, la signora Claës era felice, lo avrebbe veduto, e raccoglieva le sue forze per assaporare quella gioia. Nel momento in cui entrava, quella donna pallida e moribonda si coloriva vivacemente, riacquistava un'apparenza di salute, lo scienziato arrivava vicino al letto, le prendeva la mano e la vedeva con quell'aspetto ingannevole: per lui solo, ella stava bene. Quando le domandava: «Moglie mia cara, come state oggi?», ella gli rispondeva: «Meglio, meglio!», e faceva credere a quell'uomo distratto che il giorno dopo si sarebbe alzata, ristabilita. Le preoccupazioni di Balthazar erano così gravi, che egli prendeva la malattia di cui la moglie moriva per una semplice indisposizione. Moribonda per tutti, ella era in buona salute per lui. Il risultato di quell'anno fu una separazione completa tra i due coniugi. Claës dormiva lontano dalla moglie, si alzava di buon mattino e si chiudeva nel suo laboratorio o nel suo studio; vedendola solo in presenza delle figlie o dei due o tre amici che andavano a trovarla, si disabituò a lei. Quei due esseri, un tempo soliti a pensare insieme, non ebbero più, se non di tanto in tanto, quei momenti di comunicazione, di abbandono, di effusione che costituiscono la vita del cuore, e venne il giorno in cui anche quelle rare voluttà cessarono. Le sofferenze fisiche arrivarono in soccorso di quella povera donna e l'aiutarono a sopportare un vuoto, una separazione che l'avrebbe uccisa se lei fosse stata piena di vita. Provava dolori così intensi che talvolta era contenta di non farne testimone l'uomo che lei amava sempre. Contemplava Balthazar per una parte della serata e, sapendolo felice come voleva lui, faceva propria quella felicità che gli aveva procurata lei stessa. Quella debole gioia le bastava, non si domandava più se era amata, si sforzava di crederlo e scivolava su quella crosta di ghiaccio senza avere il coraggio di appoggiarvisi, timorosa di romperla e di affogare il proprio cuore in un nulla spaventoso. Poiché nessun avvenimento turbava quella calma, e la malattia che consumava lentamente la signora Claës contribuiva a quella pace interiore, mantenendo l'affetto coniugale allo stato passivo, fu facile arrivare in quella triste condizione ai primi del 1816.
Verso la fine di febbraio Pierquin, il notaio, inferse il colpo che doveva precipitare nella tomba quella donna angelica, la cui anima, diceva don Solis, era quasi senza peccato.
«Signora», le disse all'orecchio, approfittando di un momento in cui le figlie non potevano udire la loro conversazione, «il signor Claës mi ha incaricato di contrarre un prestito di trecentomila franchi sulle sue proprietà, prendete qualche precauzione per i beni dei vostri figli».
La signora Claës giunse le mani, alzò gli occhi al soffitto e ringraziò il notaio con un benevolo cenno del capo e con un sorriso triste che lo commosse. Quella frase fu la pugnalata che uccise Pepita. Quel giorno s'era abbandonata a tristi riflessioni che le avevano gonfiato il cuore, e si trovava nella situazione di un viandante che, perduto l'equilibrio, precipita a causa di un sassolino fino in fondo al burrone che a lungo e coraggiosamente aveva rasentato. Quando il notaio se ne fu andato, la signora Claës si fece dare da Marguerite il neccessario per scrivere, raccolse le proprie forze e si dedicò per alcuni istanti a stendere il testamento. Si interruppe più volte per osservare la figlia. L'ora delle confessioni era arrivata. Governando la casa dopo la malattia della madre, Marguerite aveva così ben corrisposto alle speranze della moribonda, che la signora Claës guardava all'avvenire della sua famiglia senza disperazione, vedendosi rivivere in quell'angelo amoroso e forte. Senza dubbio le due donne presagivano scambievoli e tristi confidenze da farsi, la figlia guardava la madre non appena la madre la guardava, e negli occhi di entrambe scorrevano le lacrime. Più volte Marguerite, nei momenti in cui la signora Claës riposava, diceva: «Mamma!», come per parlare; poi si interrompeva come soffocata, senza che la madre, troppo presa dai suoi ultimi pensieri, le chiedesse il perché di quell'esordio. Infine la signora Claës volle sigillare la sua lettera; Marguerite, che teneva la candela, si trasse discretamente indietro per non vedere l'intestazione.
«Puoi leggere, bambina mia!», disse la donna con voce straziante.
Marguerite vide la madre che tracciava queste parole: «A mia figlia Marguerite».
«Parleremo quando mi sarò riposata», aggiunse mettendo la lettera sotto il guanciale. Poi ricadde sul cuscino come sfinita dallo sforzo che aveva fatto e dormì alcune ore. Quando si svegliò, le due figlie e i due figli erano in ginocchio davanti al suo letto e pregavano con fervore. Era un giovedì. Gabriel e Jean erano arrivati dal collegio, accompagnati da Emmanuel Solis, da sei mesi professore di storia e filosofia.
«Figli cari, dobbiamo dirci addio», esclamò la signora Claës. «Voi, no, non mi abbandonate! e quello che...».
Non terminò.
«Signor Emmanuel», disse Marguerite, vedendo la madre impallidire, «andate a dire a mio padre che la mamma sta peggio».
Il giovane Solis salì al laboratorio, ottenne da Lemulquinier che Balthazar venisse a parlargli e questi rispose alla pressante richiesta del giovane: «Vengo».
«Caro», disse la signora Claës a Emmanuel quando fu di ritorno, «portate con voi i due ragazzi e andate in cerca di vostro zio. È necessario che io abbia gli ultimi sacramenti, vorrei riceverli dalle sue mani».
Quando si trovò sola con le figlie, fece un cenno a Marguerite, che, comprendendo la madre, mandò via Félicie.
«Avrei anch'io da parlarvi, mamma cara», disse Marguerite, la quale, non credendo che la madre stesse così male, rese più grave la ferita fatta da Pierquin. «Da dieci giorni non ho più denaro per le spese di casa, e devo ai domestici sei mesi di stipendio. Già due volte ho pensato di chieder denaro a mio padre, ma non ho osato. Voi non sapete! i quadri della galleria e la cantina sono stati venduti».
«Non mi ha detto una parola di tutto questo!», esclamò la signora Claës. «Oh mio Dio! mi chiamate a Voi in tempo. Poveri figli miei, che sarà di voi?». E formulò una preghiera ardente, che le accese gli occhi del fuoco del pentimento. «Marguerite», riprese traendo la lettera da sotto il guanciale, «ecco uno scritto che non aprirete e non leggerete se non quando, dopo la mia morte, sarete nella più grande miseria, ossia se qui vi mancherà il pane. Mia cara Marguerite, ama tuo padre, ma abbi cura di tua sorella e dei tuoi fratelli. Fra qualche giorno, fra qualche ora forse! sarai alla testa della casa. Sii economa. Può darsi che tu ti trovi a dover contrariare la volontà di tuo padre. Egli ha speso grandi somme nel cercare un segreto la cui scoperta sarà causa di una gloria e di una fortuna immense, e avrà senza dubbio bisogno di denaro. Forse te ne chiederà; abbi allora tutta la tenerezza di una figlia e sappi conciliare gli interessi di cui sarai l'unica protettrice con ciò che devi a tuo padre, ad un uomo grande che sacrifica la propria felicità, la propria vita, per rendere illustre il nome della sua famiglia; non potrebbe aver torto che nella forma, le sue intenzioni saranno sempre nobili, è un uomo superiore, il suo cuore è pieno di alti sentimenti; lo vedrete tornare buono e affettuoso, voi! Ho dovuto dirti queste parole sull'orlo della tomba, Marguerite. Se vuoi addolcire i dolori della mia morte, mi prometterai, bambina mia, di prendere il mio posto accanto a tuo padre, di non dargli nessun dispiacere; non rimproverargli niente, non giudicarlo! Insomma, sii una mediatrice dolce e compiacente fino a quando, terminata la sua opera, non ridiventi il capo della sua famiglia».
«Vi capisco, mamma mia cara», disse Marguerite baciando gli occhi infiammati della moribonda, «e farò come volete».
«Non sposarti, angelo mio», riprese la signora Claës, «se non quando Gabriel potrà succederti nel governo degli affari e della casa. Tuo marito, se ti sposassi, non condividerebbe forse i tuoi sentimenti, porterebbe turbamento nella famiglia e farebbe soffrire tuo padre».
Marguerite guardò la madre e le disse: «Avete qualche altra raccomandazione da farmi riguardo al mio matrimonio?».
«Esiteresti, bambina mia cara?», disse la moribonda con timore.
«No», rispose lei, «vi prometto di obbedirvi».
«Povera figliola, non ho saputo sacrificarmi per voi», aggiunse la madre versando calde lacrime, «e ti chiedo di
sacrificarti per tutti. La felicità rende egoisti. Sì, Marguerite, sono stata debole perché ero felice. Sii forte, abbi giudizio per quelli che qui non ne avranno. Fa' in modo che i tuoi fratelli, che tua sorella non mi accusino mai. Ama tanto tuo padre, ma non contrariarlo... troppo». Reclinò il capo sul guanciale e non aggiunse una parola, le forze l'avevano abbandonata. La lotta interiore tra la Moglie e la Madre era stata troppo violenta. Dopo qualche istante arrivarono i chierici preceduti da don Solis, e il parlatorio si gremì di domestici. Quando cominciò la cerimonia, la signora Claës, destata dal suo confessore, guardò tutte le persone che stavano attorno a lei e non vide Balthazar.
«E il padrone?», chiese. Questa parola, nella quale si compendiava la sua vita e la sua morte, fu pronunciata con voce così dolorosa che produsse un fremito nei presenti. Nonostante la sua tarda età, Martha si lanciò come una freccia, salì le scale e batté duramente alla porta del laboratorio.
«Padrone, la signora muore e vi si aspetta per amministrarle i sacramenti», gridò con la violenza dell'indignazione.
«Scendo», rispose Balthazar.
Un momento dopo arrivò Lemulquinier, dicendo che il padrone lo seguiva. La signora Claës non cessò di
fissare la porta del parlatorio, ma il marito si presentò solo quando la cerimonia fu terminata. Don Solis e i figli circondavano il capezzale della moribonda. Vedendo entrare il marito, Joséphine arrossì e alcune lacrime le rigarono le guance.
«Stavi certamente per scomporre l'azoto», gli disse con una dolcezza angelica, che fece rabbrividire gli astanti.
«È fatto», esclamò lui con voce allegra. «L'azoto contiene ossigeno e una sostanza della natura degli imponderabili che probabilmente è il principio della...».
Si levarono mormorii d'orrore che lo interruppero e lo fecero tornare in sé. «Cosa mi hanno detto?», riprese. «Stai dunque peggio? Cos'è successo?». «Succede, signore», gli disse all'orecchio don Solis indignato, «che vostra moglie muore, e siete stato voi a ucciderla».
Senza aspettar risposta, don Solis prese il braccio di Emmanuel e uscì, seguito dai bambini, che lo accompagnarono fino al cortile. Balthazar restò come fulminato e guardò la moglie lasciando cadere alcune lacrime.
«Muori e ti ho uccisa io», esclamò. «Ma che cosa dice?».
«Caro», ella riprese, «non vivevo che del tuo amore, e tu, senza saperlo, mi hai tolto la vita».
«Lasciateci», disse Claës ai bambini, quando rientrarono. «Ho forse cessato un solo istante di amarti?», riprese seduto al capezzale della moglie, prendendole le mani e baciandogliele.
«Caro, non ti rimprovererò niente. Tu mi hai resa felice, troppo felice; io non ho potuto sopportare il confronto
tra i primi giorni del nostro matrimonio, che erano pieni, e questi ultimi in cui non sei stato più te stesso e che erano divenuti vuoti. La vita del cuore, come la vita fisica, si svolge nei suoi atti. Per sei anni sei stato morto all'amore, alla famiglia, a tutto ciò che era la nostra felicità. Non ti parlerò delle gioie che sono proprie della gioventù e che devono cessare nell'autunno della vita; ma esse lasciano frutti di cui le anime si nutrono, una fiducia senza limiti e dolci abitudini; ebbene, tu mi hai tolto questi tesori della nostra età. Me ne vado in tempo: non vivevamo insieme in nessun modo, tu mi nascondevi i tuoi pensieri e le tue azioni. Come hai potuto arrivare a temermi? Ti ho mai rivolto una parola, uno sguardo, un gesto che esprimessero biasimo? Eppure tu hai venduto i tuoi ultimi quadri, hai venduto perfino i vini della tua cantina, e contrai nuovamente un debito sui tuoi beni senza avermi detto una parola. Ah, uscirò dalla vita disgustata della vita. Se tu commetti degli errori, se ti acciechi inseguendo l'impossibile, non ti ho mostrato che c'era in me amore bastante perché mi fosse dolce dividere i tuoi errori e camminarti sempre vicino, anche se tu mi avessi portata sulla strada del delitto? Mi hai amato troppo: questa è la mia gloria e questo il mio dolore. La mia malattia è stata lunga, Balthazar! È cominciata il giorno in cui in questo stesso luogo dove ora sto per spirare tu mi hai dimostrato che appartenevi più alla Scienza che alla Famiglia. Ecco tua moglie morta e i tuoi beni consumati. I tuoi beni e tua moglie ti appartenevano, potevi disporne; ma il giorno in cui non ci sarò più, i miei beni saranno dei tuoi figli, e tu non potrai toccarli. Che sarà di te? Ora, devo dirti la verità, i moribondi vedono lontano! dove sarà il contrappeso che bilancerà la maledetta passione della quale hai fatto la tua vita? Se ad essa hai sacrificato me, i tuoi figli saranno per te un ben lieve ostacolo, perché devo giustamente riconoscere che mi preferivi a tutto. Due milioni e sei anni di lavoro sono stati gettati in questo abisso, e non hai trovato niente...».
A queste parole, Claës si prese la testa incanutita fra le mani e si nascose il volto.
«Non troverai altro che vergogna per te, e miseria per i tuoi figli», riprese la moribonda. «Ti chiamano già per
scherno Claës l'alchimista, più tardi diranno Claës il pazzo! Io credo in te. So che sei grande, sapiente, pieno di genio; ma per il volgo il genio è simile alla follia. La gloria è solo dei morti; in vita, sarai infelice come tutti quelli che sono stati grandi, e rovinerai i tuoi figli. Me ne vado senza aver goduto della tua fama, che mi avrebbe consolata di aver perduto la felicità. Ebbene, mio caro Balthazar, per rendermi questa morte meno amara, bisognerebbe che fossi certa che i nostri figli avranno un pezzo di pane; ma niente potrebbe calmare le mie inquietudini, nemmeno tu stesso...».
«Ti giuro che...», disse Claës.
«Non giurare, caro, per non mancare ai tuoi giuramenti», disse lei interrompendolo. «Ci dovevi la tua protezione, ci è mancata da quasi sette anni. La tua vita è la Scienza. Un uomo grande non può avere né moglie né figli. Andate da soli sulle vostre strade di miseria. Le vostre virtù non sono quelle della gente comune, voi non potreste appartenere né a una donna né a una famiglia. Voi disseccate la terra attorno a voi come fanno i grandi alberi! Io, povera pianta, non ho potuto crescere abbastanza, muoio a metà della tua vita. Aspettavo quest'ultimo giorno per dirti questi orribili pensieri, che ho scoperto solo ai bagliori del dolore e della disperazione. Risparmia i miei figli! Possa questa invocazione avere un'eco nel tuo cuore. Te lo dirò fino all'ultimo respiro. La moglie è morta, vedi? tu l'hai spogliata un po' alla volta e per gradi dei suoi sentimenti, delle sue gioie. Ahimè! senza questa crudele attenzione, che hai avuto involontariamente, avrei potuto vivere così a lungo? Ma questi poveri figlioli non mi abbandonavano, loro! sono cresciuti vicino ai miei dolori, e la madre è sopravvissuta. Risparmia i nostri figli».
«Lemulquinier!», gridò Balthazar con voce tonante. Il vecchio domestico arrivò subito. «Andate subito a distruggere tutto lassù, macchine, apparecchi; fate con precauzione, ma rompete tutto. Rinuncio alla Scienza!», disse alla moglie.
«È troppo tardi», disse lei guardando Lemulquinier. «Marguerite!», chiamò sentendosi morire. Marguerite arrivò sulla soglia e gettò un grido vedendo gli occhi della madre che si spegnevano. «Marguerite!», ripeté la moribonda.
Quest'ultima esclamazione conteneva un così violento appello alla figlia, la investiva di tanta autorità, che quel grido fu tutto un testamento. I domestici accorsero spaventati e videro spirare la signora Claës, che aveva esaurito le ultime forze della sua vita nella conversazione col marito. Balthazar e Marguerite, immobili, lei al capezzale, lui ai piedi del letto, non potevano credere alla morte di quella donna; soltanto a loro erano note tutte le sue virtù e la sua inesauribile tenerezza. Padre e figlia scambiarono uno sguardo carico di pensieri: la figlia giudicava suo padre, il padre tremava già al pensiero di trovare nella figlia lo strumento di vendetta. Benché i ricordi d'amore coi quali la moglie aveva colmato la sua vita si ripresentassero in folla ad assediare la sua memoria e conferissero alle ultime parole della morta una sacra autorità che ne avrebbe sempre fatto sentire la voce, Balthazar dubitava del proprio cuore, troppo debole rispetto al suo ingegno; inoltre, sentiva la terribile forza della sua passione, che gli negava la capacità di pentirsi e lo impauriva di se stesso. Quando quella donna fu scomparsa, ognuno capì che Casa Claës aveva avuto un'anima e che quell'anima non c'era più. Per questo il dolore fu così vivo nella famiglia che il parlatorio ove la nobile Joséphine sembrava rivivere, restò chiuso, nessuno aveva il coraggio di entrarvi.
La società non pratica nessuna delle virtù che richiede agli uomini, commette delitti ogni momento, ma li commette con le parole; prepara le azioni malvagie con lo scherzo, come degrada il bello col ridicolo; se ne infischia dei figli che piangono troppo il loro padre e scomunica quelli che non lo piangono abbastanza; e poi si diverte, proprio Essa! a soppesare i cadaveri prima ancora che siano freddi. La sera del giorno in cui spirò la signora Claës i suoi amici gettarono qualche fiore sulla sua tomba tra due partite di whist, resero omaggio alle sue belle qualità, scegliendo cuori o picche. Poi, dopo alcune frasi lacrimose, che sono l'abc del dolore collettivo e che si pronunciano con le medesime intonazioni, senza maggiore o minor sentimento, in tutte le città di Francia e ad ogni istante, ognuno calcolò il valore dell'eredità. Pierquin fece per primo osservare a chi discorreva dell'avvenimento che la morte di quella donna eccellente era un bene per lei, suo marito la rendeva troppo infelice; ma per i suoi figli era un bene ancora maggiore; ella non avrebbe saputo rifiutare i suoi beni al marito che adorava, mentre ora Claës non avrebbe potuto disporne. E tutti a calcolare l'eredità della povera signora Claës, a indovinare i suoi risparmi (ne aveva fatti, non ne aveva fatti?), a inventariare i suoi gioielli, a sciorinare il suo guardaroba, a rovistare nei suoi cassetti, mentre la famiglia afflitta piangeva e pregava attorno al letto di morte. Con l'occhio di un giurato-curatore di patrimoni, Pierquin calcolò che «il proprio» della signora Claës, per usare la sua espressione, si poteva ancora rintracciare e doveva ammontare a una somma di circa un milione e cinquecentomila franchi, costituita sia dalla foresta di Waignies il cui legname da dodici anni aveva acquistato un valore enorme, e ne contò le taglie, i quercioli, gli alberi vecchi e quelli recenti, sia dai beni di Balthazar, che era ancora in grado di nutrire i suoi figli, anche se il valore della liquidazione non lo avrebbe sdebitato nei loro confronti. La signorina Claës era dunque - per parlare sempre il suo gergo - una fanciulla da quattrocentomila franchi. «Ma se non si sposa subito», aggiunse, «cosa che la emanciperebbe e le permetterebbe di mettere all'asta la foresta di Waignies, di liquidare la parte dei minori e di investirla in modo che il padre non possa mettervi mano, Claës è capace di rovinare i suoi figli». Ognuno pensò a quali potessero essere nella provincia i giovani in grado di aspirare alla mano della signorina Claës, ma nessuno fece al notaio la galanteria di considerarnelo degno. Il notaio trovò delle ragioni per respingere ognuno dei partiti proposti, come indegni di Marguerite. Gli interlocutori si guardavano sorridendo, e si divertivano a insistere in quelle malignità di provincia. Pierquin aveva già visto nella morte della signora Claës un avvenimento favorevole ai suoi intenti, e smembrava di già quel cadavere a proprio vantaggio.
«Quella brava donna», disse tra sé tornando a casa per coricarsi, «era superba come un pavone e non mi avrebbe mai dato sua figlia. Eh, eh, perché non dovrei ora darmi da fare per sposarla? Papà Claës è un uomo inebriato dal carbonio e non si cura più dei figli; se gli chiedo in sposa la ragazza, dopo aver convinto lei dell'urgenza di sposarsi per salvare il patrimonio dei fratelli e della sorella, sarà contento di sbarazzarsi di una figlia che può dargli noia».
Si addormentò sognando le bellezze matrimoniali del contratto e meditando tutti i vantaggi che gli offriva
quell'affare e le garanzie che trovava per la propria felicità nella persona di cui si vedeva già sposo. Sarebbe stato difficile incontrare nella provincia una giovinetta più delicatamente bella e meglio educata di Marguerite. La sua modestia, la sua grazia erano paragonabili a quelle del bel fiore che Emmanuel non aveva osato nominare davanti a lei temendo di rivelare in tal modo le segrete speranze del suo cuore. I suoi sentimenti erano fieri, i suoi princìpi, religiosi; sarebbe stata senza dubbio una moglie virtuosa; ella non lusingava soltanto la vanità che ogni uomo mette più o meno nella scelta di una donna, ma soddisfaceva anche l'orgoglio del notaio per l'immensa considerazione di cui godeva nella Fiandra la sua famiglia, doppiamente nobile, considerazione della quale anche il marito avrebbe goduto. Il giorno dopo, Pierquin trasse dalla cassaforte alcuni biglietti da mille franchi e andò ad offrirli amichevolmente a Balthazar allo scopo di evitargli noie pecuniarie nel momento in cui era immerso nel dolore. Toccato da quella delicata attenzione, Balthazar avrebbe fatto senza dubbio alla figlia l'elogio del cuore e della persona del notaio. Ma non fu così. Il signor Claës e la figlia trovarono quel gesto assolutamente naturale, e la loro sofferenza era troppo esclusiva perché pensassero a Pierquin. In realtà, la disperazione di Balthazar fu così grande, che le persone disposte a biasimare la sua condotta gliela perdonarono, non tanto in nome della Scienza che poteva scusarlo, quanto per i suoi rimorsi, che non rimediavano al danno. Il mondo si accontenta di esteriorità, si appaga di ciò che offre senza verificarne la lega; per esso il vero dolore è uno spettacolo, una specie di godimento che gli fa tutto assolvere, anche un criminale; nella sua avidità di emozioni, proscioglie senza discernimento chi lo fa ridere e chi lo fa piangere, senza chieder loro conto dei mezzi.
Marguerite aveva compiuto i diciannove anni quando il padre le affidò il governo della casa, in cui l'autorità di
lei fu devotamente riconosciuta dalla sorella e dai due fratelli ai quali, negli ultimi momenti di vita, la signora Claës aveva raccomandato di obbedire alla sorella maggiore. Il lutto faceva risaltare la bianca freschezza della fanciulla, e la mestizia metteva in rilievo la sua soavità e la sua pazienza. Fin dai primi giorni, ella diede prova di quel coraggio femminile, di quella serenità costante che devono avere gli angeli incaricati di infondere pace toccando con la loro verde palma i cuori sofferenti. Ma se, per la precoce consapevolezza del dovere, si abituò a nascondere il dolore, esso non fu per questo meno vivo; la sua apparente calma era in contrasto con la profondità delle sue emozioni, ed ella fu destinata a conoscer presto quelle terribili esplosioni di sentimento che il cuore non è sempre in grado di contenere; il padre doveva continuamente tenerla in forse tra la generosità propria delle anime giovani e la voce di una imperiosa necessità. I calcoli che la afferrarono fin dal giorno successivo a quello della morte di sua madre, la misero alle prese con gli interessi della vita, nell'età in cui le fanciulle non ne concepiscono che i piaceri; triste educazione di sofferenza che non è mai mancata alle creature angeliche! L'amore che si basa sul denaro e sulla vanità è la più ostinata delle passioni, e Pierquin non volle tardare a circuire l'ereditiera. Qualche giorno dopo che fu preso il lutto, cercò l'occasione di parlare a Marguerite, e cominciò le sue mosse con un'abilità che avrebbe potuto sedurla; ma l'amore le aveva infuso nell'anima una chiaroveggenza che le impedì di lasciarsi convincere da esteriorità tanto più favorevoli agli inganni sentimentali in quanto in quella circostanza Pierquin dimostrò la bontà che gli era propria, la bontà del notaio che si ritiene innamorato quando mira agli scudi. Forte della sua lontana parentela, della costante abitudine a badare agli affari e a condividere i segreti di quella famiglia, sicuro della stima e dell'amicizia del padre, ben servito dall'incuria di uno scienziato che non aveva nessun progetto definito per il matrimonio della figlia e non immaginando che Marguerite potesse già avere una simpatia, le diede modo di giudicare un tipo di corteggiamento che simulava la passione soltanto per lo stimolo dei calcoli più odiosi alle anime giovani e che egli non seppe nascondere. Fu lui che si mostrò ingenuo, fu lei che ricorse alla dissimulazione, proprio perché egli credeva di agire contro una fanciulla senza difesa e sottovalutò i vantaggi della debolezza.
«Mia cara cugina», disse a Marguerite mentre passeggiava con lei nei viali del giardinetto, «voi conoscete il mio cuore e sapete come sono portato a rispettare i sentimenti dolorosi che vi affliggono in questo momento. Ho l'animo troppo sensibile per fare il notaio, io vivo solo con il cuore e sono costretto ad occuparmi continuamente degli interessi altrui, mentre vorrei lasciarmi andare alle dolci emozioni che rendono felice la vita. Per questo soffro assai di esser costretto a parlarvi di progetti contrastanti col vostro stato d'animo, ma è necessario. Ho pensato molto a voi negli ultimi giorni e ho capito che, per una singolare fatalità, i beni vostri e quelli di tutti voi sono in pericolo. Volete salvare la vostra famiglia da una completa rovina?».
«Che cosa bisognerebbe fare?», domandò lei, mezzo sbigottita da quelle parole.
«Sposarvi», rispose Pierquin.
«Io non mi sposerò affatto», ella esclamò.
«Voi vi sposerete», riprese il notaio, «quando avrete riflettuto ponderatamente alla critica situazione in cui vi
trovate...».
«E come potrebbe il mio matrimonio salvare...».
«Qua vi aspettavo, cugina mia», disse interrompendola. «Il matrimonio emancipa!».
«Perché dovrei emanciparmi?», domandò Marguerite.
«Per diventare proprietaria, mia cara cuginetta», disse il notaio con aria di trionfo. «In quell'occasione avrete quanto vi spetta del patrimonio di vostra madre. Per darvelo, bisogna liquidarlo, e per liquidarlo bisognerà mettere all'asta la foresta di Waignies. Stabilito questo, tutti i beni dell'eredità si capitalizzeranno e vostro padre sarà tenuto, come tutore, a investire la parte dei vostri fratelli e di vostra sorella, di modo che la Chimica non potrà più mettervi mano».
«Nel caso contrario, cosa succederebbe?», domandò ancora lei.
«Sarà vostro padre ad amministrare tutti i beni», disse il notaio. «Se riprendesse a voler fabbricare l'oro, potrebbe vendere il bosco di Waignies e lasciarvi nudi come vermi. La foresta di Waignies vale in questo momento un milione e quattrocentomila franchi circa; ma se da oggi a domani vostro padre la rade al suolo, i vostri milletrecento iugeri non varranno nemmeno trecentomila franchi. Non è meglio evitare questo pericolo quasi certo e prospettare fin d'ora il caso della suddivisione emancipandovi? Impedireste così tutti i tagli della foresta di cui vostro padre disporrebbe più tardi a vostro danno. In questo momento in cui la Chimica dorme, egli investirà necessariamente il denaro della liquidazione in buoni del tesoro. I capitali sono a cinque e novanta; questi cari ragazzi avranno perciò circa cinquemila lire di rendita per ogni cinquantamila franchi; e dato che non si può disporre dei capitali appartenenti ai minori, alla loro maggiore età i vostri fratelli e vostra sorella vedranno raddoppiato il loro patrimonio. In caso diverso, in fede mia... Ecco... D'altronde vostro padre ha messo mano ai beni di vostra madre, conosceremo il deficit dopo l'inventario. Se è in debito, metterete un'ipoteca sui suoi beni e salverete già qualcosa».
«Oh no», disse Marguerite, «sarebbe un oltraggio per mio padre. Le ultime parole di mia madre non sono state pronunciate da tanto tempo che io non possa ricordarmele. Mio padre è incapace di spogliare i suoi figli», disse lasciandosi sfuggire lacrime di dolore. «Voi lo giudicate male, Pierquin».
«Ma se vostro padre, mia cara cugina, si rimette alla Chimica...».
«Saremo rovinati, non è così?».
«Oh sì, completamente rovinati! Credetemi, Marguerite», disse Pierquin prendendole la mano e portandosela al
cuore, «mancherei ai miei doveri se non insistessi. Solo il vostro interesse...».
«Signore», disse Marguerite freddamente, ritirando la mano, «il giusto interesse della mia famiglia esige che non mi sposi. Mia madre ha stabilito così».
«Cugina», egli esclamò con la convinzione di un uomo d'affari che si vede sfuggire un patrimonio, «voi vi uccidete, voi gettate a mare l'eredità di vostra madre. Ebbene, io continuerò ad esservi devoto per la grande amicizia che vi porto! Voi non sapete quanto vi amo, vi adoro dal giorno che vi ho vista all'ultimo ballo che ha dato vostro padre! eravate deliziosa. Potete fidarvi della voce del cuore quando parla di interessi, mia cara Marguerite». Fece una pausa. «Sì, convocheremo un consiglio di famiglia e vi emanciperemo senza consultarvi».
«Ma che vuol dire essere emancipata?».
«Vuol dire godere dei propri diritti».
«Se posso essere emancipata senza sposarmi, perché volete che mi sposi? E con chi?».
Pierquin cercò di guardare teneramente la cugina, ma quell'espressione contrastava talmente con la durezza dei suoi occhi abituati a parlar di denaro, che Marguerite credette di vedere un qualche calcolo in quella tenerezza improvvisa.
«Avreste sposato la persona che vi sarebbe piaciuta... nella città...», riprese. «Un marito vi è indispensabile,
anche come affare. Vi troverete di fronte a vostro padre. Sola, gli resisterete?».
«Sì, saprò difendere i miei fratelli e mia sorella quando sarà il momento».
«Accidenti di ragazza!», disse fra sé Pierquin. «No», riprese ad alta voce, «voi non saprete resistergli».
«Lasciamo stare questo argomento», ella disse.
«Addio, cugina, cercherò di servirvi vostro malgrado, e darò prova di quanto vi amo proteggendovi, vostro malgrado, contro una disgrazia che in città tutti prevedono».
«Vi sono grata dell'interesse che avete per me, ma vi supplico di non proporre né far intraprendere nulla che possa provocare il minimo dispiacere a mio padre».
Marguerite restò pensierosa vedendo allontanarsi Pierquin, e paragonò la sua voce metallica, le sue maniere che avevano solo l'elasticità di una molla, i suoi sguardi che esprimevano più servilismo che dolcezza, con la poesia melodiosamente silenziosa di cui erano permeati i sentimenti di Emmanuel. Qualunque cosa si faccia, qualunque cosa si dica, esiste un mirabile magnetismo le cui espressioni non ingannano mai. Il suono della voce, lo sguardo, i gesti appassionati dell'uomo che ama si possono imitare, e una fanciulla può essere ingannata da un abile commediante; ma per riuscire egli dovrebbe essere solo. Se la fanciulla ha accanto a sé un'anima che vibra all'unisono coi suoi sentimenti, non riconosce presto le espressioni del vero amore? Emmanuel si trovava in quel momento, come Marguerite, sotto l'influenza delle nubi che, a partire dal loro incontro, avevano formato fatalmente una buia atmosfera sopra le loro teste, e impedivano loro di vedere l'azzurro cielo dell'amore. Egli aveva per la sua Eletta quell'idolatria che la scarsa speranza rende così dolce e così misteriosa nelle sue devote manifestazioni. Trovandosi socialmente troppo lontano dalla signorina Claës per il suo scarso patrimonio e non avendo un bel nome da offrirle, non vedeva alcuna possibilità di essere accettato come sposo. Aveva sempre aspettato qualche incoraggiamento che Marguerite si era rifiutata di dare sotto gli occhi velati di una moribonda. Ugualmente puri, non si erano detti una sola parola d'amore. Le loro gioie erano state le gioie egoistiche che gli infelici sono costretti a provare da soli. Fremevano segretamente, benché fossero agitati da un raggio nato dalla medesima speranza. Sembrava avessero paura di loro stessi sentendosi già troppo legati l'uno all'altra. Per questo Emmanuel non osava sfiorare la mano della regina alla quale aveva innalzato un tempio nel proprio cuore. Il contatto più insignificante avrebbe sviluppato in lui troppo eccitanti voluttà ed egli non sarebbe più stato padrone dei suoi sensi scatenati. Ma benché non si fosse concessa nessuna delle fragili e immense, innocenti e serie manifestazioni che si permettono gli innamorati più timidi, ognuno dei due era entrato talmente nel cuore dell'altro, che si sapevano già pronti a sopportare i più grandi sacrifici, unico piacere che potessero assaporare. Dopo la morte della signora Claës, il loro segreto amore soffocava sotto i veli del lutto. Il colore della sfera nella quale vivevano, da bruno si era fatto nero, e la luce vi si spegneva nelle lacrime. La riservatezza di Marguerite si cambiò quasi in freddezza, poiché aveva da mantenere il giuramento richiesto dalla madre e, mentre diventava più libera di prima, si fece più rigida. Emmanuel aveva fatto proprio il lutto della sua amata, comprendendo che il minimo desiderio d'amore, la più semplice richiesta sarebbe stata una prevaricazione nei confronti delle leggi del cuore. Quel grande amore era dunque più nascosto che mai. Quelle due tenere anime avevano sempre la stessa voce, ma, separate dal dolore come lo erano state dalla timidezza della gioventù e dal rispetto dovuto alle sofferenze della morta, si limitavano ancora al magnifico linguaggio degli occhi, alla muta eloquenza di azioni devote, a una coerenza continua, armonie sublimi della giovinezza, primi passi dell'amore alla sua infanzia. Emmanuel andava ogni mattina a prender notizie di Claës e di Marguerite, ma non entrava nella sala da pranzo se non quando portava una lettera di Gabriel o quando Balthazar lo pregava di farsi avanti. La prima occhiata rivolta alla fanciulla le diceva mille pensieri di simpatia: soffriva della discrezione che gli imponevano le convenienze, egli non l'aveva abbandonata, condivideva la sua tristezza; insomma, spandeva la rugiada delle proprie lacrime sul cuore dell'amica, con uno sguardo non alterato da secondi fini. Quel bravo ragazzo viveva tanto nel presente, si attaccava talmente ad una felicità che credeva fuggitiva, che Marguerite si rimproverava talvolta di non tendergli generosamente la mano dicendogli: «Siamo amici!».
Pierquin continuò con le sue insistenze con quell'ottimismo che ha l'irragionevole pazienza degli sciocchi. Giudicava Marguerite con le regole ordinarie che comunemente servono per valutare le donne. Credeva che le parole matrimonio, libertà, denaro che le aveva gettato nell'orecchio avrebbero germogliato nella sua anima e fatto fiorire un desiderio di cui egli avrebbe approfittato, e riteneva che la freddezza di lei fosse dissimulazione. Sebbene però la circondasse di premure e di attenzioni galanti, nascondeva a stento i modi dispotici di un uomo abituato a risolvere le più alte questioni relative alla vita delle famiglie. Diceva, per consolarla, quei luoghi comuni familiari agli uomini della sua professione, che passano come lumache sulle sofferenze e vi lasciano una traccia di parole aride che ne deturpano la santità. La sua tenerezza era raggiro. Lasciava alla porta la sua finta malinconia quando riprendeva le soprascarpe o l'ombrello. Si serviva del tono che la sua lunga familiarità lo autorizzava ad assumere come di uno strumento per farsi più avanti nel cuore della famiglia, per convincere Marguerite a un matrimonio proclamato in anticipo in tutta la città. L'amore sincero, devoto, rispettoso formava dunque un contrasto evidente con un'attenzione egoistica e calcolata. Tutto era omogeneo in quei due uomini. L'uno fingeva passione e cercava di sfruttare ogni più piccolo vantaggio per sposare Marguerite; l'altro nascondeva il proprio amore e non osava lasciar vedere la sua devozione. Qualche tempo dopo la morte della madre, in una stessa giornata, Marguerite poté confrontare fra loro i due soli uomini che fosse in grado di giudicare. Fino a quel momento la solitudine alla quale era stata condannata non le aveva mai permesso di vedere nessuno, e la situazione in cui si trovava non dava possibilità di accesso alle persone che potevano pensare a chiederla
in matrimonio. Un giorno, dopo colazione, in una delle prime belle mattine di aprile, arrivò Emmanuel, nel momento in cui Claës usciva. Balthazar tollerava così a fatica la vista della propria casa, che passava parte della giornata passeggiando lungo i bastioni. Emmanuel voleva seguire Balthazar, ma esitò, parve attingere forza in se stesso, guardò Marguerite e rimase. Marguerite intuì che il professore voleva parlarle e gli propose di andare in giardino. Mandò la sorella Félicie da Martha, che lavorava nell'anticamera del primo piano, e andò a sedersi sopra una panchina dove poteva esser vista dalla sorella e dalla vecchia governante.
«Il signor Claës è tutto preso dal dolore come lo era dalle sue dotte ricerche», disse il giovane vedendo Balthazar che camminava lentamente nel cortile. «Tutti in città lo compiangono; cammina come un uomo che non è più se stesso, si ferma senza motivo, guarda senza vedere...».
«Ogni dolore ha le proprie manifestazioni», disse Marguerite trattenendo il pianto. «Che cosa volevate dirmi?», riprese dopo una pausa e con fredda dignità.
«Signorina», rispose Emmanuel con voce commossa, «ho il diritto di parlarvi come sto per fare? Vedeteci, vi
prego, solo il mio desiderio di esservi utile, e lasciatemi credere che un professore può interessarsi alla sorte dei suoi allievi al punto di preoccuparsi del loro avvenire. Vostro fratello Gabriel ha quindici anni compiuti, è in seconda e certamente è necessario indirizzare i suoi studi in vista della carriera che abbraccerà. Vostro padre è padrone di decidere, ma se non ci pensasse, non sarebbe una disgrazia per Gabriel? E non sarebbe anche mortificante per vostro padre se voi gli faceste osservare che non si occupa del figlio? In questa situazione, non potreste consultare vostro fratello sulle sue inclinazioni, fargli scegliere da sé una carriera in modo che, se più tardi suo padre volesse farne un magistrato, un funzionario, o un militare, Gabriel abbia già conoscenze specifiche? Non credo che né voi né il signor Claës vogliate lasciarlo ozioso...».
«Oh no», disse Marguerite. «Vi ringrazio, signor Emmanuel, avete ragione. Mia madre, facendoci fare il merletto, insegnandoci con tanta cura a disegnare, a cucire, a ricamare, a suonare il pianoforte, ci diceva spesso che non si sa mai quel che può accadere nella vita. Gabriel deve conquistarsi un valore personale e avere un'educazione completa. Ma qual è la carriera più conveniente, oggi, per un uomo?».
«Signorina», disse Emmanuel tremando di gioia, «di tutta la sua classe Gabriel è quello che dimostra maggior attitudine alla matematica; se volesse entrare all'École Polytechnique, credo che vi acquisirebbe conoscenze utili per qualsiasi carriera. Uscito di là, potrebbe poi scegliere quella che gli interessa di più. Senza aver fin lì niente pregiudicato del suo avvenire, avrete guadagnato tempo. Chi esce con onore da quella scuola è bene accetto ovunque. Essa ha dato funzionari, diplomatici, scienziati, ingegneri, generali, navigatori, magistrati, industriali e banchieri. Non c'è dunque niente di straordinario che un giovane ricco o di buona famiglia cerchi di esservi ammesso. Se Gabriel vi si decidesse, vi chiederei... me lo concederete? Dite di sì!».
«Che cosa volete?».
«Essere il suo ripetitore», disse egli tremando.
Marguerite guardò Solis, gli prese la mano e gli disse: «Sì». Fece una pausa e soggiunse con voce commossa: «Apprezzo molto la delicatezza che vi fa offrire proprio quello che da voi posso accettare. Da quanto avete detto ora, vedo che avete veramente pensato a noi. Vi ringrazio».
Benché queste parole fossero dette con la massima semplicità, Emmanuel voltò la testa per non lasciar vedere
le lacrime che la gioia d'esser gradito a Marguerite gli aveva fatto salire agli occhi.
«Ve li condurrò tutti e due», disse quando ebbe ripreso un po' di calma, «domani è giorno di permesso».
Si alzò salutando Marguerite che lo seguiva, e quando fu nel cortile, la vide ancora sulla porta della sala da pranzo, da dove gli rivolse un cenno amichevole. Nel pomeriggio il notaio andò a far visita a Claës, e sedette in giardino tra il cugino e Marguerite, proprio sulla panchina dove era stato Emmanuel.
«Mio caro cugino», disse, «questa sera sono venuto per parlarvi di affari. Sono passati quarantatré giorni dal decesso di vostra moglie».
«Non li ho contati», disse Balthazar asciugandosi una lacrima che il termine legale decesso gli aveva strappata.
«Oh», disse Marguerite guardando il notaio, «come potete...».
«Ma, cugina mia, siamo costretti, noialtri, a contare i termini che sono fissati dalla legge. Si tratta precisamente
di voi e dei vostri coeredi. Il signor Claës ha solo figli minorenni ed è tenuto a fare un inventario entro i quarantacinque giorni successivi al decesso della moglie, allo scopo di constatare il valore dell'eredità comune. Bisogna sapere se è attiva o passiva, per accettarla o per salvaguardare i diritti puri e semplici dei minori». Marguerite si alzò. «Restate, cugina», disse Pierquin, «questi affari riguardano voi quanto vostro padre. Sapete come io prendo parte al vostro dolore; ma bisogna che vi occupiate oggi stesso di questi particolari, altrimenti potreste trovarvi tutti assai male! Faccio in questo momento il mio dovere come notaio di famiglia».
«Ha ragione», disse Claës.
«Il termine scade tra due giorni», riprese il notaio; «devo dunque procedere, cominciando da domani,
all'inventario, non fosse altro per ritardare il pagamento dei diritti di successione che il fisco vi chiederà; il fisco non ha cuore, non si preoccupa dei sentimenti e stende il suo artiglio sopra di noi in qualsiasi momento. Dunque, tutti i giorni, dalle dieci alle quattro, io e il mio scrivano verremo con il perito signor Rapalier. Quando avremo finito in città, andremo in campagna. Quanto alla foresta di Waignies, ne parleremo. Deciso questo, passiamo a un altro punto. Dobbiamo convocare un consiglio di famiglia per nominare un vice-tutore. Il signor Conyncks di Bruges è oggi il vostro parente più prossimo; ma è diventato belga! Dovreste, caro cugino, scrivergli in proposito, sapreste così se il brav'uomo ha intenzione di stabilirsi in Francia, dove possiede belle proprietà, e potreste convincerlo a venire lui e la figlia ad abitare nella Fiandra francese. Se rifiuta, vedrò di comporre un consiglio secondo i gradi di parentela».
«A che serve un inventario?», chiese Marguerite.
«A constatare i diritti, i capitali, l'attivo e il passivo. Quando tutto è ben chiaro, il consiglio di famiglia prende
nell'interesse dei minori le determinazioni che giudica...».
«Pierquin», disse Claës alzandosi dalla panchina, «procedete agli atti che riterrete necessari alla conservazione
dei diritti dei miei figli; ma evitateci il dolore di veder vendere ciò che apparteneva alla mia cara...». Non terminò; aveva detto quelle parole con un'aria così nobile e con un tono così afflitto, che Marguerite prese la mano del padre e la baciò.
«A domani», disse Pierquin.
«Venite a colazione», soggiunse Balthazar. Poi Claës parve richiamare i suoi ricordi ed esclamò: «Ma nel mio contratto di matrimonio, che è stato fatto secondo il costume dell'Hainaut, avevo dispensato mia moglie dall'inventario onde non la tormentassero, e probabilmente non vi sono obbligato nemmeno io...».
«Ah, che fortuna», disse Marguerite, «ci avrebbe causato tanto dolore».
«Bene, esamineremo il vostro contratto domani», rispose il notaio un po' titubante.
«Non lo sapevate?», gli chiese Marguerite.
Questa osservazione interruppe il colloquio. Il notaio si sentì troppo imbarazzato per continuare dopo
l'osservazione della cugina. «Il diavolo ci mette la coda!», disse tra sé nel cortile. «Quell'uomo così distratto ritrova la memoria proprio quando gli occorre per impedire che si prendano precauzioni contro di lui. I suoi figli saranno spogliati! è sicuro come due più due fanno quattro. Andate a parlare d'affari a fanciulle di diciannove anni che fanno le sentimentali. Io mi son rotto la testa per salvare i beni di quei ragazzi, procedendo secondo le regole e mettendomi d'accordo con quel brav'uomo di Conyncks. Ed ecco! Mi perdo per una battuta di Marguerite, che va a chiedere a suo padre perché voglio procedere a un inventario che lei crede inutile. E Claës le dirà che i notai hanno la mania di fare degli atti, che noi siamo notai prima d'esser parenti, cugini o amici, delle sciocchezze insomma...
Chiuse la porta con violenza imprecando contro i clienti che si rovinano per buon cuore. Balthazar aveva ragione. L'inventario non ebbe luogo. Nulla fu dunque stabilito sulla posizione in cui si trovava il padre nei confronti dei figli. Trascorsero parecchi mesi senza che la situazione della famiglia Claës cambiasse. Gabriel, abilmente guidato da Solis, che era diventato suo precettore, lavorava con impegno, imparava le lingue straniere e si preparava a superare l'esame necessario per entrare all'École Polytechnique. Félicie e Marguerite erano vissute nel più assoluto isolamento, andando però per economia ad abitare durante la bella stagione nella casa di campagna del padre. Claës si occupò dei suoi affari, pagò i debiti ipotecando i propri beni per una somma considerevole e visitò la foresta di Waignies. Alla metà del 1817 il suo dolore, lentamente attutito, lo lasciò solo e senza difesa contro la monotonia della vita che conduceva e che gli pesava. Dapprima lottò coraggiosamente contro la Scienza che un po' alla volta si risvegliava e cercò di proibirsi di pensare alla Chimica. Poi vi pensò. Ma non volle occuparsene in forma pratica, se ne occupò teoricamente. Quello studio costante fece rinascere la sua passione, che diventò cavillosa. Mise in dubbio di essersi impegnato a non continuare le sue ricerche e si ricordò che la moglie non aveva voluto il suo giuramento. Benché si fosse ripromesso di non cercare più la soluzione del suo problema, avrebbe potuto cambiar d'avviso quando avesse intraveduto un successo. Aveva già cinquantanove anni. A quell'età, il pensiero che lo dominava assunse la cruda fissità con la quale cominciano le monomanie. Anche le circostanze cospirarono contro la sua vacillante lealtà. La pace di cui godeva l'Europa aveva permesso la circolazione delle scoperte e delle teorie scientifiche acquisite durante la guerra dagli scienziati dei diversi paesi, tra i quali non c'erano stati rapporti da circa vent'anni. La Scienza aveva dunque camminato. Claës trovò che i progressi della Chimica si erano diretti, all'insaputa dei chimici, verso l'oggetto delle sue ricerche. Gli uomini dediti all'alta Scienza pensavano come lui che la luce, il calore, l'elettricità, il galvanismo e il magnetismo erano effetti diversi di una stessa causa e che la differenza che esisteva tra i corpi fino a quel momento ritenuti semplici doveva essere prodotta dai diversi dosaggi di un principio sonosciuto. Il timore di veder trovare da un altro la riduzione dei metalli e il principio costitutivo dell'elettricità, due scoperte che portavano alla soluzione dell'Assoluto chimico, accrebbe quella che gli abitanti di Douai chiamavano follia e portò i suoi desideri a un parossismo che le persone appassionate di scienza o che hanno conosciuto la tirannia delle idee potranno capire benissimo. Balthazar non tardò dunque ad essere travolto da una passione tanto più violenta quanto più a lungo era rimasta assopita. Marguerite, che spiava gli stati d'animo attraverso i quali passava suo padre, aprì il parlatorio. Stando là, ravvivò i dolorosi ricordi che la morte della madre doveva suscitare, e in realtà, risvegliando il rimpianto del padre, riuscì a ritardare la sua caduta nell'abisso dove tuttavia doveva precipitare. Ella prese a frequentare la società e costrinse Balthazar a concedersi qualche distrazione. Parecchi partiti convenienti le si presentarono e tennero occupato Claës, benché Marguerite dichiarasse che non si sarebbe sposata prima d'aver compiuto i venticinque anni. Nonostante gli sforzi della figlia, nonostante violente lotte interiori, al principio dell'inverno Balthazar riprese segretamente i suoi lavori. Era difficile nascondere occupazioni di quel genere a donne curiose. Un giorno Martha disse a Marguerite, mentre la vestiva: «Signorina, siamo rovinate! Quel mostro di Mulquinier, che è il diavolo incarnato, giacché non l'ho mai visto fare il segno della croce, è risalito nella soffitta. Il vostro signor padre è imbarcato per l'inferno. Voglia il cielo che non vi ammazzi come ha ammazzato quella povera cara signora».
«Non è possibile», obiettò Marguerite.
«Venite a vedere la prova dei loro maneggi...».
La signorina Claës corse alla finestra e vide in realtà un sottile filo di fumo che usciva dal camino del laboratorio. «Fra qualche mese», pensò, «compio i ventun anni e saprò oppormi allo sperpero del nostro patrimonio».
Lasciandosi andare alla sua passione, Balthazar ebbe necessariamente meno rispetto per gli interessi dei figli di
quanto ne avesse avuto per quelli della moglie. Le barriere erano meno alte, la sua coscienza s'era fatta più elastica, e la sua passione era diventata più forte. Si lanciò dunque nella sua carriera di gloria, di lavoro, di speranza e di miseria col furore di un uomo pieno di convinzione. Sicuro del risultato, si mise a lavorare notte e giorno con un entusiasmo del quale le figlie si spaventarono: ignoravano quanto poco nuoccia alla salute un lavoro al quale uno si appassioni. Appena il padre ebbe ricominciato i suoi esperimenti, Marguerite eliminò il superfluo dalla tavola, diventò di una parsimonia degna di un avaro, e fu mirabilmente assecondata da Josette e da Martha. Claës non si accorse di quella innovazione, che riduceva la vita allo stretto necessario. Innanzi tutto egli non faceva colazione, poi scendeva dal laboratorio solo al momento del pranzo, infine si coricava dopo esser rimasto per qualche ora nel parlatorio tra le due figlie senza dir loro una parola. Quando si ritirava, esse gli davano la buonanotte e lui si lasciava baciare meccanicamente sulle guance. Un simile comportamento avrebbe provocato le peggiori sventure domestiche se Marguerite non fosse stata preparata a esercitare l'autorità di una madre, e premunita da una passione segreta contro gli inconvenienti di una così grande libertà. Pierquin aveva cessato di far visita alle cugine, ritenendo che la loro rovina sarebbe stata completa. Le proprietà rurali di Balthazar, che rendevano sedicimila franchi e valevano all'incirca duecentomila scudi, erano già gravate da trecentomila franchi di ipoteche. Prima di rimettersi alla Chimica, Claës aveva contratto un debito considerevole. Il reddito bastava esattamente a pagare gli interessi; ma poiché, con l'imprevidenza caratteristica degli uomini fissati in un'idea, lasciava i fitti della campagna a Marguerite perché provvedesse alle spese della casa, il notaio aveva calcolato che sarebbero bastati tre anni per dar fondo a tutto e che gli uomini di legge avrebbero fatto sparire quello che Balthazar non si fosse ancora mangiato. La freddezza di Marguerite aveva portato Pierquin a uno stato di indifferenza quasi ostile. Per concedersi il diritto di rinunciare alla mano della cugina se fosse diventata troppo povera, diceva dei Claës, con aria di compassione: «Quei poveretti sono rovinati, io ho fatto tutto quel che ho potuto per salvarli; ma che volete! La signorina Claës ha rifiutato tutte le combinazioni legali che avrebbero dovuto preservarli dalla miseria».
Nominato, con l'appoggio dello zio, preside del collegio di Douai, Emmanuel, che il merito eccezionale aveva reso degno di quel posto, si recava ogni sera a trovare le due fanciulle, che chiamavano con loro la governante appena il padre si coricava. Il colpo di picchio battuto dolcemente dal giovane Solis non tardava mai. Negli ultimi tre mesi, incoraggiato dalla gentile e muta riconoscenza, con la quale Marguerite accettava le sue attenzioni, era diventato veramente se stesso. La luce della sua anima, pura come un diamante, splendeva senza nubi, e Marguerite poteva apprezzarne la forza vedendo come la fonte ne fosse inesauribile. Ella guardava con ammirazione sbocciare a uno a uno i fiori, dopo averne prima aspirato il profumo. Ogni giorno Emmanuel realizzava una speranza di Marguerite, e accendeva nelle regioni incantate dell'amore nuove luci che fugavano le nubi, rasserenavano il loro cielo e coloravano feconde ricchezze fino a quel momento sepolte nell'ombra. Trovandosi più a suo agio, Emmanuel poté dispiegare le seduzioni del suo cuore prima sempre nascoste con discrezione: l'espansiva gaiezza dell'età giovanile, la semplicità che nasce da una vita tutta dedita allo studio, i tesori di un animo gentile che il mondo non aveva adulterato e tutte le innocenti giocondità che tanto bene si adattano alla gioventù innamorata. La sua anima e quella di Marguerite si intesero meglio; i due scesero insieme nel profondo dei loro cuori e vi trovarono gli stessi pensieri: perle di un identico splendore, soavi e fresche armonie simili a quelle delle profondità marine che, dicono, attirano i pescatori. Si lasciarono conoscere l'uno all'altra con quegli scambi di conversazione, con quella reciproca curiosità che in entrambi assumeva le forme più deliziose del sentimento. Ciò avvenne senza falsi pudori, e non senza scambievoli civetterie. Le due ore che Emmanuel andava tutte le sere a trascorrere con le due fanciulle e Martha facevano accettare a Marguerite la vita di angosce e di rassegnazione nella quale era entrata. Quell'amore che ingenuamente cresceva fu il suo sostegno. Emmanuel metteva nelle sue espressioni d'affetto quella grazia naturale che tanto affascina, quello spirito dolce e fine che rende varia l'uniformità del sentimento, come le sfaccettature rompono la monotonia di una pietra preziosa, facendone brillare tutte le luci; modi meravigliosi, il cui segreto appartiene ai cuori innamorati, e che rendono le donne fedeli alla Mano dell'artista sotto la quale le forme rinascono sempre nuove, alla Voce che non ripete mai una frase senza ricrearla con nuove modulazioni. L'amore non è solo un sentimento, è anche un'arte. Qualche parola semplice, un'attenzione, un nulla rivelano alla donna il grande e sublime artista che può toccare il suo cuore senza sciuparlo. Più Emmanuel frequentava la casa, più incantevoli erano le espressioni del suo amore.
«Ho preceduto Pierquin», le disse una sera, «viene a portarvi una cattiva notizia e preferisco darvela io. Vostro
padre ha venduto la foresta ad alcuni speculatori, che l'hanno rivenduta a lotti; gli alberi sono già stati tagliati, e il legname è stato portato via. Il signor Claës ha incassato trecentomila franchi in contanti, dei quali si è servito per pagare i suoi debiti a Parigi; e, per estinguerli completamente, è stato anche costretto a rilasciare cambiali per centomila franchi sul mezzo milione che devono ancora pagare gli acquirenti».
Entrò Pierquin. «Ebbene, mia cara cugina», disse, «eccovi rovinati, ve l'avevo detto; voi non avete voluto ascoltarmi. Vostro padre ha buon appetito. Come primo boccone si è mangiato i boschi. Il vostro vicetutore, Conyncks, è ad Amsterdam, dove sta liquidando il suo patrimonio, e Claës ha scelto questo momento per fare il suo colpo. Così non va. Ho scritto al bravo Conyncks; ma, quando arriverà, tutto sarà a pezzi. Sarete costretta a denunciare vostro padre, il processo non sarà lungo, ma sarà un processo disonorante, che Conyncks non può fare a meno di intentare, lo esige la legge. Ecco il frutto della vostra testardaggine. Riconoscete ora quanto io ero prudente, quanto ero devoto ai vostri interessi?».
«Vi porto una buona notizia, signorina», disse il giovane Solis con la sua voce dolce, «Gabriel è stato ammesso all'École Polytechnique. Le difficoltà che si erano frapposte alla sua ammissione sono state appianate».
Marguerite ringraziò l'amico con un sorriso, e disse: «Le mie economie avranno uno scopo! Martha, ci occuperemo fin da domani del corredo di Gabriel. Mia povera Félicie, lavoreremo tanto», disse baciando in fronte la sorella.
«Domani lo avrete qui per dieci giorni, deve essere a Parigi il quindici novembre».
«Il cugino Gabriel prende una buona risoluzione», disse il notaio squadrando il preside, «avrà bisogno di farsi un patrimonio. Ma, cara cugina, si tratta di salvare l'onore della famiglia; vorrete ascoltarmi questa volta?». «No», ella disse, «se si tratta ancora di matrimonio».
«Ma che cosa farete?».
«Io, cugino? Niente».
«Siete maggiorenne comunque».
«Fra pochi giorni. Avete da propormi», chiese Marguerite, «un partito che possa conciliare i nostri interessi, e quello che noi dobbiamo a nostro padre, con l'onore della famiglia?».
«Cugina, non possiamo far niente senza vostro zio. Così stando le cose, verrò quando sarà di ritorno».
«Allora, arrivederci», disse Marguerite.
«Più diventa povera più fa la schizzinosa», pensò il notaio.
«Arrivederci», riprese Pierquin a voce alta.
«Signor preside, i miei migliori saluti». E se ne andò senza badare né a Félicie né a Martha.
«Da due giorni studio il codice e ho consultato un vecchio avvocato amico di mio zio», disse Emmanuel con voce tremante. «Partirò domani, se mi autorizzate, per Amsterdam. Ascoltate, Marguerite cara...».
Diceva questa parola per la prima volta, e lei lo ringraziò con uno sguardo commosso, con un sorriso e un cenno del capo. Egli si interruppe e indicò Félicie e Martha. «Parlate davanti a mia sorella», disse Marguerite. «Non ha bisogno di questa discussione per rassegnarsi alla nostra vita di privazioni e di lavoro, è così dolce e coraggiosa! Ma deve sapere quanto il coraggio ci sia necessario».
Le due sorelle si presero la mano e si baciarono come per scambiarsi un nuovo pegno della loro unione davanti
alla sventura.
«Andate, Martha».
«Marguerite cara», riprese Emmanuel, lasciando trapelare nell'inflessione della voce la gioia che provava nel
conquistarsi i piccoli diritti dell'affetto; «mi sono procurato i nominativi e l'indirizzo degli acquirenti che devono i rimanenti duecentomila franchi sul prezzo dei boschi abbattuti. Domani, se siete d'accordo, una persona con procura legale a nome del signor Conyncks, che darà conferma, rimetterà opposizione nelle loro mani. Entro sei giorni il vostro prozio sarà di ritorno, convocherà un consiglio di famiglia e farà emancipare Gabriel, che ha diciotto anni. Essendo voi e vostro fratello autorizzati ad esercitare i vostri diritti, domanderete la vostra parte del ricavato dei boschi e il signor Claës non potrà rifiutarvi i duecentomila franchi fermati dall'opposizione; quanto agli altri centomila che vi saranno ancora dovuti, otterrete un'obbligazione ipotecaria garantita dalla casa dove abitate. Il signor Conyncks reclamerà delle garanzie per i trecentomila franchi che spettano alla signorina Félicie e a Jean. In questa situazione vostro padre sarà costretto a lasciar ipotecare i suoi beni della campagna di Orchies, già gravati di centomila scudi. La legge dà una priorità retroattiva alle iscrizioni prese nell'interesse dei minori; tutto perciò sarà salvato. Il signor Claës avrà ormai le mani legate, le vostre terre sono inalienabili; non potrà più ottenere crediti sulle proprie, che garantiranno per somme superiori al loro valore, tutto sarà sbrigato in famiglia, senza scandalo, senza processo. Vostro padre sarà costretto ad andar piano nelle sue ricerche, se addirittura non le abbandonerà del tutto».
«Sì», disse Marguerite, «ma quali saranno le nostre entrate? I centomila franchi di ipoteca su questa casa non ci frutteranno niente, dal momento che vi abitiamo. Il reddito dei beni che mio padre possiede a Orchies pagherà gli interessi dei trecentomila franchi dovuti agli estranei; con che cosa vivremo?».
«Prima di tutto», rispose Emmanuel, «investendo in titoli pubblici i cinquemila franchi che resteranno a Gabriel sulla sua parte, ne ricaverete, secondo il tasso attuale, più di quattromila lire di rendita, che basteranno alla sua pensione e al suo mantenimento a Parigi. Gabriel non può disporre né della somma che gli spetta sulla casa né dei titoli delle sue rendite; così non temerete che ne possa sperperare anche un solo centesimo, e avrete un peso di meno. Poi, non vi resteranno i vostri centocinquantamila franchi forse?».
«Mio padre me li chiederà», disse con terrore la fanciulla, «e non saprò rifiutarglieli».
«Ebbene, cara Marguerite, potete salvare anche quelli, rinunciandovi. Investiteli in buoni del tesoro al nome di vostro fratello. Quella somma vi frutterà dodici o tredicimila lire di rendita, che vi daranno da vivere. Poiché i minori emancipati non possono alienare niente senza il parere di un consiglio di famiglia, guadagnerete in tal modo tre anni di tranquillità. A quel tempo vostro padre avrà trovato la soluzione del suo problema o probabilmente vi avrà rinunciato; Gabriel, diventato maggiorenne, vi restituirà i titoli per regolare i conti fra voi quattro».
Marguerite si fece spiegare di nuovo alcune disposizioni di legge che in un primo momento non poteva capire. Fu certamente uno strano spettacolo vedere i due innamorati intenti a studiare il codice che Emmanuel si era procurato per insegnare alla sua amata le leggi che regolavano i beni dei minori; ella ne afferrò presto lo spirito, grazie all'intuito naturale delle donne, che l'amore rendeva più acuto.
Il giorno dopo Gabriel tornò alla casa paterna. Quando Solis lo riportò a Balthazar annunciandogli
l'ammissione del giovane all'École Polytechnique, il padre ringraziò il preside con un gesto della mano e disse: «Ne sono molto contento, Gabriel sarà dunque uno scienziato».
«Oh, fratello mio», disse Marguerite vedendo Balthazar risalire nel suo laboratorio, «studia molto, e non
spendere denaro! fa' tutto quello che bisognerà fare, ma sii economo. I giorni in cui uscirai a Parigi, va' dai nostri amici, dai nostri parenti, ma non contrarre nessuna delle inclinazioni che rovinano i giovani. La tua pensione ammonta a quasi mille scudi, ti resteranno mille franchi per i tuoi minuti piaceri, devono bastarti».
«Rispondo io di lui», disse Emmanuel Solis battendo la spalla del suo allievo.
Un mese dopo, Conyncks, d'accordo con Marguerite, aveva ottenuto da Claës tutte le garanzie desiderate. I piani così saggiamente concepiti da Emmanuel Solis furono interamente approvati e attuati. In presenza della legge, davanti al cugino la cui fiera probità transigeva difficilmente in questioni d'onore, Balthazar, vergognoso della vendita cui aveva consentito in un momento nel quale era pressato dai suoi creditori, si assoggettò a tutto quello che si richiese da lui. Soddisfatto di poter riparare al danno che aveva quasi involontariamente arrecato ai suoi figli, firmò gli atti con la preoccupazione di uno scienziato. Era diventato del tutto imprevidente alla maniera dei negri che al mattino vendono la moglie per un goccio d'acquavite, e alla sera la rimpiangono. Non degnava di uno sguardo nemmeno il suo più prossimo avvenire, non si chiedeva quali sarebbero state le sue risorse quando avesse sperperato l'ultimo scudo; perseverava nei suoi lavori, continuava i suoi acquisti, senza sapere che era soltanto il proprietario nominale della sua casa, dei suoi beni e che gli sarebbe stato impossibile, grazie alla severità delle leggi, procurarsi un centesimo sulle sostanze di cui era in certo qual modo il custode giudiziario. L'anno 1818 finì senza alcun triste avvenimento. Le due fanciulle soddisfecero alle spese necessarie all'educazione di Jean, e provvidero a tutti i bisogni di casa con i diciottomila franchi di rendita posti sotto il nome di Gabriel, che a semestri vennero puntualmente inviati dal fratello. Nel dicembre di quell'anno, Solis perdette lo zio. Una mattina Marguerite venne a sapere da Martha che il padre aveva venduto la sua collezione di tulipani, i mobili del fabbricato anteriore, e tutta l'argenteria. Fu costretta a ricomprare i pezzi necessari al servizio della tavola, e li fece contrassegnare con le proprie cifre. Fino a quel giorno aveva mantenuto il silenzio sulle depredazioni di Balthazar; ma la sera, dopo cena, pregò Félicie di lasciarla sola col padre e quando egli fu seduto, secondo l'abitudine, accanto al caminetto del parlatorio, Marguerite gli disse: «Papà mio caro, voi siete padrone di vendere tutto, qui, anche i vostri figli. Qui noi vi obbediremo tutti senza discutere, ma sono costretta a farvi osservare che siamo senza denaro, che abbiamo appena quanto basta per vivere quest'anno, e che saremo obbligate, Félicie ed io, a lavorare notte e giorno per pagare la pensione di Jean col ricavato del lavoro di merletto che abbiamo cominciato. Vi supplico, mio buon papà, interrompete i vostri lavori».
«Hai ragione, figlia mia, fra sei settimane tutto sarà finito! Avrò trovato l'Assoluto, o l'Assoluto sarà
introvabile. Sarete tutti ricchi a milioni...».
«Lasciateci per il momento un pezzo di pane», rispose Marguerite.
«Non c'è pane qui», disse Claës con aria sconvolta, «non c'è pane in casa di un Claës. E tutti i nostri beni?».
«Avete abbattuto la foresta di Waignies. Il terreno non è ancora libero e non può produrre nulla. Quanto alle vostre tenute d'Orchies, i redditi non bastano a pagare gli interessi delle somme che avete avuto in prestito».
«Con che cosa viviamo allora?», egli domandò.
Marguerite gli mostrò il suo ago e aggiunse: «Le rendite di Gabriel ci aiutano, ma sono insufficienti.
Sbarcherei il lunario se voi non mi gravaste di fatture di cui non mi intendo, voi non mi dite niente dei vostri acquisti in città. Quando credo di avere abbastanza per il trimestre, e ho fatto i miei piccoli piani, mi arriva un conto di soda, di potassio, di zinco, di zolfo, che so io?».
«Mia cara figliuola, ancora sei settimane di pazienza; dopo, metterò la testa a posto. E tu vedrai meraviglie, piccola mia».
«È ora che pensiate ai vostri affari. Avete venduto tutto: quadri, tulipani, argenteria, non ci resta più nulla; almeno, non contraete altri debiti».
«Non voglio farne più», disse il vecchio.
«Più!», ella esclamò. «Ne avete allora?».
«Niente, miserie», rispose lui chinando gli occhi e arrossendo.
Marguerite si sentì per la prima volta umiliata dall'avvilimento del padre e ne soffrì tanto che non osò interrogarlo. Un mese dopo quella scena, arrivò un impiegato di banca della città per incassare una cambiale di diecimila franchi firmata da Claës. Poiché Marguerite aveva pregato l'impiegato di attendere per quel giorno manifestando il rammarico di non essere stata preavvisata di quel pagamento, questi l'avvertì che la ditta Protez e Chiffreville ne aveva altre nove dello stesso importo con scadenza mensile.
«È finita!», esclamò Marguerite, «è venuta l'ora!».
Mandò a chiamare il padre e camminò su e giù tutta agitata nel parlatorio, mormorando tra sé: «Trovare centomila franchi, o vedere in prigione nostro padre! Che fare?».
Balthazar non scese. Stanca di aspettare, Marguerite salì al laboratorio. Entrando vide il padre al centro di una
stanza enorme, fortemente illuminata, piena di macchine e di recipienti di vetro polverosi; qua e là, libri, tavoli ingombri di prodotti con il numero e il cartellino. Dappertutto il disordine che porta con sé l'attività di uno scienziato contrastava con le abitudini fiamminghe. Quell'insieme di matracci, di storte, di metalli, di cristalli fantasticamente colorati, di campioni appesi alle pareti o gettati sopra dei fornelli era dominato dalla figura di Balthazar Claës che, senza giacca, le braccia nude come quelle di un operaio, mostrava il petto coperto di peli bianchi come i capelli. Gli occhi orribilmente fissi non abbandonarono una macchina pneumatica. Il vaso di quella macchina, chiuso da una lente formata da doppi vetri convessi, era pieno di alcool e concentrava i raggi del sole che entrava allora da uno scomparto del rosone della soffitta. Il vaso, isolato sopra una piattaforma a disco, comunicava coi fili di una immensa pila di Volta. Lemulquinier, intento a far muovere il disco della macchina montata sopra un asse mobile onde mantenere sempre la lente in direzione perpendicolare ai raggi del sole, si alzò, il volto nero di polvere, e disse: «Alt! Signorina, non avvicinatevi!».
La vista del padre che, quasi inginocchiato davanti alla sua macchina, riceveva in pieno la luce del sole, con i
capelli scomposti simili a fili d'argento sul cranio tutto bozze, col volto contratto da una attesa spasmodica, la singolarità degli oggetti che lo circondavano, l'oscurità nella quale si trovavano le altre parti di quella vasta soffitta donde spuntavano macchine bizzarre, tutto contribuiva a colpire Marguerite, che si disse con terrore: «Mio padre è pazzo!». Si avvicinò a lui per dirgli all'orecchio: «Mandate via Lemulquinier».
«No, no, figlia mia, ho bisogno di lui, aspetto il risultato di un bell'esperimento al quale gli altri non hanno pensato. Sono tre giorni che diamo la caccia a un raggio di sole. Ho i mezzi per sottoporre i metalli in un vuoto perfetto al fuoco solare concentrato e a scariche elettriche. Guarda, tra un istante si realizzerà la più energica azione di cui un chimico possa disporre, ed io solo...».
«Oh papà, anziché vaporizzare i metalli, dovreste conservarli per pagare le vostre cambiali...».
«Aspetta, aspetta!».
«È venuto il signor Mersktus, papà, e vuole diecimila franchi per le quattro».
«Sì, sì, adesso. Avevo firmato quei piccoli effetti per questo mese, è vero. Credevo che avrei trovato l'Assoluto.
Dio mio, se avessi il sole di luglio il mio esperimento sarebbe riuscito!».
Si afferrò i capelli, sedette su una vecchia poltrona di giunco e alcune lacrime gli bagnarono gli occhi.
«Il signore ha ragione. È tutta colpa di quel mascalzone di sole che è troppo debole, il vigliacco, il poltrone!». Padrone e servo non facevano più attenzione a Marguerite.
«Andate, Mulquinier», ella disse.
«Ah, ho un nuovo esperimento», esclamò Claës.
«Papà, dimenticate i vostri esperimenti», gli disse la figlia quando furono soli, «avete centomila franchi da pagare, e non abbiamo un quattrino. Abbandonate il laboratorio, oggi si tratta del vostro onore. Che sarà di voi quando sarete in prigione? Macchierete i vostri capelli bianchi e il nome dei Claës con l'infamia della bancarotta? Mi opporrò. Avrò la forza di combattere la vostra follia, sarebbe terribile vedervi senza pane nei vostri ultimi giorni. Aprite gli occhi sulla nostra situazione, non perdete la ragione completamente!».
«Follia!», esclamò Balthazar che si alzò sulle gambe, fissò la figlia con occhi infiammati, incrociò le braccia sul petto e ripeté la parola follia così solennemente, che Marguerite tremò. «Ah, tua madre non mi avrebbe detto questa parola!», riprese. «Lei non ignorava l'importanza delle mie ricerche, lei aveva imparato una scienza per capirmi, lei sapeva che io lavoravo per l'umanità, che non c'è niente di egoistico né di indegno in me. Il sentimento della donna che ama è il più bello di tutti i sentimenti! Non perdere la ragione!», riprese battendosi il petto, «e ne sono forse senza? Non sono in me? Siamo poveri, figlia mia; ebbene, voglio che sia così. Sono vostro padre, obbeditemi. Vi farò ricca quando vorrò io. Il vostro patrimonio? ma è una miseria. Quando avrò trovato un dissolvente del carbonio, colmerò il vostro parlatorio di diamanti, ed è una sciocchezza in confronto a quello che io cerco. Potete ben aspettare, dal momento che io mi consumo in tentativi giganteschi».
«Papà, io non ho il diritto di chiedervi conto dei quattro milioni che vi siete mangiato in questa soffitta senza risultato! Non vi parlerò di mia madre, che voi avete uccisa. Se avessi un marito, lo amerei indubbiamente quanto la mamma amava voi, e sarei pronta a tutto sacrificargli come lei vi ha sacrificato tutto. Ho eseguito i suoi ordini dedicandomi a voi interamente, ve l'ho dimostrato non sposandomi onde non obbligarvi a rispondere della tutela. Lasciamo stare il passato, pensiamo al presente. Vengo qui a rappresentare la necessità che voi stesso avete creato.
Occorre denaro per le vostre cambiali, capite? qui non c'è niente da prendere se non il ritratto del nostro antenato Van Claës. Vengo perciò in nome di mia madre, che si è trovata troppo debole per difendere i suoi figli contro il loro padre e che mi ha ordinato di resistervi, vengo in nome dei miei fratelli e di mia sorella, vengo, papà, in nome di tutti i Claës a comandarvi di abbandonare i vostri esperimenti, di farvi un patrimonio vostro prima di continuarli. Se vi armate della vostra autorità paterna, che si fa sentire soltanto per ucciderci, io ho dalla mia parte i vostri antenati e l'onore che parlano più alto della Chimica. Le famiglie sono più importanti della Scienza. Ho fatto troppo la parte di figlia!».
«E vuoi essere allora il mio carnefice», egli disse con voce spenta.
Marguerite fuggì per non rinunciare al partito che aveva appena preso; le era sembrato di sentire la voce della madre quando le aveva detto: «Non contrariare troppo tuo padre, amalo tanto!».
«La signorina fa un bel lavoro lassù», disse Lemulquinier scendendo in cucina per far colazione. «Stavamo per mettere la mano sul segreto, ormai non avevamo bisogno che di un pochino del sole di luglio, giacché il padrone, ah, che uomo! è quasi di famiglia col buon Dio. Non occorre che questo», disse a Josette facendo schioccare l'unghia del pollice contro gl'incisivi, «per conoscere il principio di ogni cosa. Patatrac! viene a gridare per delle sciocchezze di cambiali».
«Bene, pagatele di tasca vostra», disse Martha, «queste cambiali».
«Non c'è burro da mettere sul mio pane?», domandò Lemulquinier a Josette.
«E il denaro per comperarlo?», rispose acidamente la cuoca. «Come mai, vecchio mostro, se fate l'oro nella
vostra cucina del diavolo, perché non vi fate un poco di burro? non sarebbe così difficile, e ne vendereste al mercato per mettere qualcosa in pentola. Mangiamo pane secco, noialtre! Queste due signorine si accontentano di pane e noci, e voi dovreste essere mantenuto meglio dei padroni? La signorina non vuol spendere che cento franchi al mese per tutta la famiglia. Facciamo un pasto solo. Se volete ghiottonerie, avete i vostri fornelli lassù, dove pestate perle: non si parla d'altro al mercato. Fatevi dei polli arrosto». Lemulquinier prese il pane e uscì. «Va a comperare qualcosa col suo denaro», disse Martha, «meglio così, sarà tanto di risparmiato. È avaro quel barbaro!».
«Bisognava prenderlo per fame», disse Josette. «Sono otto giorni che non ha pulito niente, da nessuna parte, faccio io il suo lavoro, lui è sempre lassù; può ben pagarmi per questo regalandoci qualche aringa: le porti qui, o se no vado io volentieri a prendergliele!».
«Ah», disse Martha, «sento la signorina Marguerite che piange. Quel vecchio stregone di suo padre si mangerà la casa senza dire una parola cristiana; quello stregone! Nel mio paese lo avrebbero già bruciato vivo; ma qui non hanno più religione dei negri dell'Africa».
La signorina Claës soffocava a stento i singhiozzi attraversando la galleria. Raggiunse la sua camera, cercò la lettera della madre e lesse quanto segue:
Figlia mia, se Dio lo permette, il mio spirito sarà nel tuo cuore quando leggerai queste righe, le ultime che avrò scritte. Sono piene d'amore per i miei cari figliuoli, che restano abbandonati a un demonio al quale io non ho saputo resistere. Avrà dunque consumato il vostro pane, come ha divorato la mia vita e anche il mio amore. Tu sapevi, mia diletta, quanto amavo tuo padre! sto per spirare amandolo meno poiché prendo contro di lui delle precauzioni che in vita non avrei nemmeno osato pensare. Sì, avrei serbato nel fondo della mia bara un'ultima risorsa per il giorno in cui foste giunti al massimo della sventura. Se vi ha ridotti all'indigenza, o se bisogna salvare il vostro onore, figlia mia, troverai presso il signor Solis, se vive ancora, altrimenti presso suo nipote, il nostro buon Emmanuel, centosettantamila franchi circa, che vi aiuteranno a vivere. Se niente ha potuto domare la sua passione, se i suoi figli non sono per lui una barriera più forte di quanto lo sia stata la mia felicità, e non lo fermano nel suo cammino delittuoso, abbandonate vostro padre, vivete almeno! Io non potevo abbandonarlo, io ero obbligata a lui. Tu, Marguerite, salva la famiglia! Io ti assolvo di tutto ciò che farai per difendere Gabriel, Jean e Félicie. Fatti coraggio, sii l'angelo tutelare dei Claës. Sii ferma, non oso dire senza pietà; ma per poter riparare i mali già fatti, bisogna conservare un po' di denaro, e tu devi considerarti come alla vigilia della miseria, niente arresterà il furore della passione che mi ha tutto strappato. Per questo, figlia mia, aver cuore vorrà dire dimenticare il tuo cuore; la tua dissimulazione, se occorresse mentire a tuo padre, sarebbe gloriosa; le tue azioni, per quanto biasimevoli possano apparire, sarebbero tutte eroiche perché fatte con lo scopo di proteggere la famiglia. Me lo ha detto il virtuoso don Solis, e mai coscienza fu più pura e più chiaroveggente della sua. Non avrei avuto la forza di dirti queste parole, neppure in punto di morte. Ciò nonostante sii sempre rispettosa e buona in questa orribile lotta! Resisti adorando, rifiuta con dolcezza. Avrò dunque avuto lacrime ignorate e dolori che si paleseranno solo dopo la mia morte. Abbraccia, a nome mio, i miei cari figlioli, nel momento in cui tu diverrai così la loro protezione. Che Dio e i santi siano con te! Joséphine.
Alla lettera era unita una dichiarazione dei Solis, zio e nipote, che si impegnavano a consegnare il deposito fatto nelle loro mani dalla signora Claës all'atto della presentazione del documento.
«Martha», gridò Marguerite alla governante, che salì immediatamente, «andate dal signor Emmanuel e pregatelo di passare da me». «Nobile e riservata creatura! Non mi ha detto mai niente», pensò, «proprio lui che ha fatto sue le mie pene e le mie sofferenze!».
Emmanuel arrivò prima che Martha fosse di ritorno.
«Avete avuto dei segreti per me!», disse Marguerite mostrandogli lo scritto.
Emmanuel abbassò il capo. «Marguerite, siete dunque arrivata a questo punto estremo?», riprese mentre gli spuntavano le lacrime agli occhi.
«Oh sì! Siate il mio appoggio, voi che mia madre ha chiamato qui il nostro buon Emmanuel!», disse mostrandogli la lettera e non poté reprimere un moto di gioia, sapendo ormai che la sua scelta era stata approvata dalla madre.
«Il mio sangue e la mia vita erano vostri il giorno dopo che vi ho visto nella galleria», rispose lui piangendo di gioia e di dolore; «ma non potevo, non osavo sperare che un giorno avreste accettato il mio sangue. Se mi conoscete bene, dovete sapere che la mia parola è sacra. Perdonatemi questa perfetta obbedienza alle volontà di vostra madre, non stava a me giudicarne le intenzioni».
«Voi ci avete salvato», disse lei interrompendolo e prendendogli il braccio per scendere nel parlatorio. Dopo aver conosciuto l'origine della somma che Emmanuel custodiva, Marguerite gli confidò la triste necessità che incombeva sulla casa.
«Bisogna andar a pagare le cambiali», disse Emmanuel, «se sono tutte in mano di Mersktus risparmierete gli interessi. Vi consegnerò i settantamila franchi che resteranno. Il mio povero zio mi ha lasciato una somma corrispondente in ducati e sarà facile trasportarla di nascosto».
«Sì», ella disse, «portateli di notte; quando mio padre dormirà, li nasconderemo noi due. Se sapesse che ho del denaro, forse userebbe la violenza. Oh, Emmanuel, diffidare del proprio padre!», disse piangendo e appoggiando la fronte sul cuore del giovane.
Il gentile e triste movimento col quale Marguerite cercava una protezione fu la prima espressione di
quell'amore sempre velato di malinconia, sempre racchiuso in un'atmosfera di dolore; ma quel cuore troppo colmo doveva straripare, e ciò accadde sotto il peso della miseria!
«Cosa fare? Che succederà? Egli non vede niente, non si cura né di noi né di se stesso, perché non so come
possa vivere in quella soffitta dove l'aria brucia».
«Che potete aspettarvi da un uomo che a ogni momento grida come Riccardo III: «Il mio regno per un cavallo!»», disse Emmanuel. «Sarà sempre spietato, e voi dovete esserlo altrettanto. Pagate le sue cambiali, dategli, se volete, il vostro denaro; ma quello di vostra sorella, quello dei vostri fratelli non appartiene né a voi né a lui».
«Dargli il mio denaro?», disse stringendo la mano di Emmanuel e gettandogli uno sguardo di fuoco, «me lo consigliate voi, voi! e Pierquin che faceva cento sotterfugi per serbarmelo!».
«Ahimè! sono forse egoista a modo mio», egli disse. «Ora vi vorrei senza niente, mi sembra che sareste più vicina a me; ora vi vorrei ricca, felice, e trovo che è meschino credersi separati dalle povere grandezze del denaro».
«Caro! non parliamo di noi...».
«Noi!», egli ripeté con ebbrezza. Poi, dopo una pausa, aggiunse: «Il danno è grave, ma non è irreparabile».
«Lo ripareremo soltanto noi, la famiglia Claës non ha più un capo. Per arrivare a non esser più né padre né uomo, e non aver alcuna nozione del giusto e dell'ingiusto, in che abisso è caduto? Lui, così grande, così generoso, così onesto, aver sperperato a dispetto della legge i beni dei figli dei quali doveva essere difensore! Mio Dio! che cosa cerca?».
«Disgraziatamente, mia cara Marguerite, se ha torto come capo famiglia, ha ragione scientificamente, e una ventina di uomini in Europa lo ammireranno, mentre gli altri lo tacceranno di follia; ma voi potete senza scrupolo rifiutargli il denaro dei suoi figli. Una scoperta è stata sempre un caso. Se vostro padre deve trovare la soluzione del suo problema, la troverà senza tante spese e forse nel momento in cui ne avrà perduta la speranza!».
«La mia povera madre è ora felice», disse Marguerite, «avrebbe sofferto cento volte le pene della morte prima di morire, lei che è perita al suo primo scontro con la Scienza. Ma questa lotta non ha fine...».
«C'è una fine», riprese Emmanuel. «Quando non avrete più niente, Claës non troverà più credito e si fermerà».
«Si fermi dunque oggi stesso!», gridò Marguerite, «siamo senza niente».
Solis andò a ritirare le cambiali e tornò a consegnarle a Marguerite. Balthazar scese un poco prima di cena
contrariamente alla sua abitudine. Per la prima volta dopo due anni la figlia scorse sul suo volto i segni di una tristezza orribile a vedersi: era ridiventato padre, la ragione aveva scacciato la Scienza; guardò in cortile, in giardino, e quando fu certo di trovarsi solo con la figlia, si avvicinò a lei con un movimento pieno di malinconia e di bontà.
«Figlia mia», disse prendendole la mano e stringendogliela con insinuante tenerezza, «perdona al tuo vecchio padre. Sì, Marguerite, ho avuto torto. Tu sola hai ragione. Fino a che non avrò trovato, sono un miserabile! Me ne andrò di qui. Non voglio veder vendere Van Claës», disse indicando il ritratto del martire. «Lui è morto per la Libertà, io sarò morto per la Scienza, lui venerato, io odiato».
«Odiato, papà mio? No!», ella disse gettandoglisi sul petto, «noi vi adoriamo tutti. Non è vero, Félicie?», disse alla sorella che entrava in quel momento.
«Che cosa avete, papà caro», disse la fanciulla prendendogli la mano.
«Vi ho rovinati».
«Be'», disse Félicie, «i nostri fratelli ci faranno un patrimonio. Jean è sempre il primo della classe».
«Ecco, papà», riprese Marguerite guidando Balthazar con un movimento pieno di grazia e di tenerezza filiale davanti al caminetto, dove prese alcune carte che stavano sotto l'orologio, «ecco le vostre cambiali; ma non firmatene più, non ci sarebbe più niente per pagarle...».
«Allora tu hai del denaro», disse Balthazar all'orecchio di Marguerite quando si fu riavuto dalla sorpresa.
Quella frase mozzò il fiato all'eroica fanciulla, tanto era il delirio, la gioia, la speranza sul volto del padre, che si guardava attorno come per scoprire dell'oro. «Papà», ella disse con accento di dolore, «ho il mio denaro».
«Dammelo», egli disse lasciandosi sfuggire un gesto avido, «ti restituirò tutto centuplicato».
«Sì, ve lo darò», rispose Marguerite guardando Balthazar, il quale non capì il significato che la figlia dava a quelle parole.
«Ah, figlia mia cara», egli disse, «tu mi salvi la vita! Ho ideato un ultimo esperimento, dopo il quale non c'è più niente di possibile. Se questa volta non trovo l'Assoluto, bisognerà rinunciare a cercarlo. Dammi il braccio, vieni, bambina mia cara, vorrei fare di te la donna più felice della terra, tu mi restituisci alla felicità, alla gloria; tu mi procuri la possibilità di colmarvi di tesori, vi coprirò di tesori, vi coprirò di gioielli, di ricchezze». Baciò in fronte la figlia, le prese le mani, le strinse, le manifestò la sua gioia con tenerezze che a Marguerite parvero quasi servili; durante il pranzo, Balthazar non vedeva che lei, la guardava con l'interesse, con l'attenzione, con la vivacità che un innamorato dimostra per la sua amata. Se lei faceva un movimento, lui cercava di intuire il suo pensiero, il suo desiderio, e si alzava per servirla; la rendeva vergognosa, metteva nelle sue premure una sorta di giovinezza che contrastava con la sua precoce vecchiaia. A quelle moine Marguerite opponeva però il quadro della miseria attuale, sia con una parola di dubbio, sia con un'occhiata ai ripiani vuoti degli scaffali nella stanza da pranzo. «Su», le disse, «fra sei mesi riempiremo tutto di oro e di meraviglie. Sarai come una regina. Ah, l'intera natura ci apparterrà... saremo al di sopra di tutto... e per merito tuo, Marguerite mia. Margarita?», riprese sorridendo, «il tuo nome è una profezia. Margarita vuol dire perla. Lo ha detto Sterne non so più dove. Hai letto Sterne? Vuoi leggerlo? ti divertirà».
«La perla è, si dice, il prodotto di una malattia», ella riprese, «e noi abbiamo già tanto sofferto!».
«Non essere triste, tu farai la felicità di quelli che ami, sarai potentissima, ricchissima».
«La signorina ha un cuore così buono», disse Lemulquinier, la cui faccia da colabrodo si raggrinzò penosamente in un sorriso.
Durante il resto della serata, Balthazar sfoggiò per le due figlie tutte le piacevolezze del suo carattere e tutto l'incanto della sua conversazione. Affascinante come il serpente, la sua parola, i suoi sguardi spandevano un fluido magnetico; egli prodigò quella potenza d'ingegno, quel dolce spirito che incantava Joséphine e sembrò mettere le figlie al sommo dei propri affetti. Quando venne Emmanuel de Solis trovò, per la prima volta dopo tanto tempo, padre e figli riuniti. Nonostante il suo riserbo, il giovane preside fu soggiogato dalla bellezza di quella scena, giacché la conversazione e le maniere di Balthazar avevano una irresistibile comunicativa. Benché immersi negli abissi del pensiero e intenti senza posa ad osservare il mondo spirituale, gli uomini di scienza vedono tuttavia i più piccoli particolari dell'ambiente in cui vivono. Più staccati che distratti, non sono mai in armonia con quanto li circonda, sanno e dimenticano tutto; giudicano innanzi tempo l'avvenire, profetizzano per proprio conto, sono al corrente di un fatto prima che si manifesti in pieno, ma non dicono niente. Se nel silenzio delle meditazioni hanno fatto uso del loro potere per riconoscere quel che accade attorno, si accontentano di aver indovinato; il lavoro li assorbe, ed applicano quasi sempre in modo sbagliato le conoscenze che hanno acquisito sulle cose della vita. Talvolta, quando si svegliano dalla loro apatia sociale o quando cadono dal mondo spirituale nel mondo esterno, vi ritornano con una ricca memoria e non sono estranei a niente. Così Balthazar, che alla perspicacia della mente univa la perspicacia del cuore, sapeva tutto il passato della figlia, conosceva o aveva intuito i minimi episodi dell'amore misterioso che la univa a Emmanuel, glielo dimostrò con finezza e sanzionò il loro affetto condividendolo. Era la più dolce lusinga che potesse venire da un padre, e i due innamorati non seppero resistervi. Quella serata fu deliziosa per il contrasto che presentava con le pene che assillavano la vita di quei poveri ragazzi. Quando, dopo averli per così dire colmati della sua luce e sommersi nella tenerezza, Balthazar si ritirò, Emmanuel de Solis, che aveva avuto fino a quel momento un contegno impacciato, si liberò dei tremila ducati d'oro che aveva nelle tasche temendo di lasciarli vedere. Li mise sul tavolo da lavoro di Marguerite, che li coprì con la biancheria che stava rammendando, e andò a prendere il resto della somma. Quando tornò, Félicie era andata a letto. Suonavano le undici. Martha, che stava alzata per aiutare le padroncine nella toeletta serale, era occupata con Félicie.
«Dove nasconder questa roba?», disse Marguerite, che non aveva resistito al piacere di maneggiare alcuni
ducati, un atto puerile che la perdette.
«Io alzerò questa colonna di marmo che ha lo zoccolo cavo», disse Emmanuel, «voi vi farete scivolare i rotoli e neppure il diavolo verrebbe a cercarli qui».
Nel momento in cui Marguerite faceva il suo penultimo viaggio dal tavolo di lavoro alla colonna, gettò un
grido lacerante, lasciò cadere i rotoli e i pezzi ruppero la carta e si sparpagliarono sul pavimento: suo padre stava sulla soglia del parlatorio, e sporgeva la testa con un'espressione di avidità che atterriva.
«Cosa fate?», disse guardando ora la figlia inchiodata sul pavimento dalla paura, ora il giovane che si era alzato bruscamente: ma la sua posizione vicino alla colonna era significativa. Il rumore dell'oro sull'impiantito era orribile e il suo sparpagliarsi sembrava profetico. «Non mi sono sbagliato», disse Balthazar sedendosi, «avevo sentito il suono dell'oro».
Non era meno turbato dei due giovani, i cuori dei quali battevano talmente all'unisono, che i loro palpiti si sentivano come i colpi del bilanciere d'un orologio a pendolo, in mezzo al profondo silenzio che regnò all'improvviso nel parlatorio. «Vi ringrazio, signor Solis», disse Marguerite a Emmanuel, rivolgendogli uno sguardo che voleva dire:
«Aiutatemi a salvare questa somma».
«Come, quest'oro...», riprese Balthazar lanciando occhiate di una spaventosa lucidità alla figlia e ad Emmanuel.
«Quest'oro è del signore, che ha la bontà di prestarmelo per far onore ai nostri impegni», ella rispose. Solis
arrossì e fece per uscire.
«Signore», disse Balthazar trattenendolo per un braccio, «non sottraetevi ai miei ringraziamenti».
«Voi non mi dovete niente. Questo denaro appartiene alla signorina Marguerite, che me lo ha chiesto a prestito sui suoi beni», rispose Emmanuel guardando la sua amata, che lo ringraziò con un battito impercettibile delle palpebre.
«Non lo permetterò», disse Claës, che prese una penna e un foglio di carta sul tavolo dove scriveva Félicie e voltandosi verso i due giovani stupiti: «Quanti sono?». La passione aveva reso Balthazar più astuto del più accorto e imbroglione degli amministratori; la somma stava per essere sua. Marguerite e Solis esitavano. «Contiamoli», disse.
«Sono seimila ducati», rispose Emmanuel.
«Settantamila franchi», rispose Claës. L'occhiata che Marguerite rivolse al suo innamorato gli diede coraggio.
«Signore», disse tremando, «il vostro impegno non ha alcun valore, scusatemi quest'espressione puramente tecnica; ho prestato questa mattina alla signorina centomila franchi per ritirare delle cambiali che voi non eravate in grado di pagare, voi perciò non potreste darmi alcuna garanzia. Questi settantamila franchi sono della signorina vostra figlia, che può disporne come le pare. Io però glieli presto soltanto dietro promessa che lei mi ha fatto di sottoscrivere un contratto col quale io possa prendere le mie garanzie sulla sua parte dei terreni disboscati di Waignies».
Marguerite voltò la testa per non lasciar vedere le lacrime che le salirono agli occhi, ella conosceva la purezza di cuore che distingueva Emmanuel. Educato dallo zio nella più severa pratica delle virtù religiose, il giovane aveva particolarmente orrore della menzogna; dopo aver offerto la propria vita e il proprio cuore a Marguerite, le faceva sacrificio della coscienza.
«Addio», gli disse Balthazar, «credevo aveste più fiducia in un uomo che vi vedeva con gli occhi di un padre».
Dopo aver scambiato con Marguerite uno sguardo di deplorazione, Emmanuel fu riaccompagnato da Martha, che chiuse la porta d'entrata. Quando padre e figlia furono completamente soli, Claës disse: «Tu mi vuoi bene, vero?».
«Non divaghiamo, papà. Voi volete questa somma, ma non l'avrete».
Si mise a raccattare i ducati, il padre l'aiutò silenziosamente a raccoglierli e a verificare la somma; Marguerite lo lasciò fare senza dimostrargli la minima diffidenza. Rimessi in rotolo i duemila ducati, Balthazar disse con voce disperata: «Marguerite, quest'oro mi occorre!».
«Sarebbe un furto se lo prendeste», ella rispose freddamente. «Ascoltatemi, papà: è meglio ucciderci con un colpo solo piuttosto di farci soffrire cento volte la morte ogni giorno. Scegliete chi tra noi e voi deve soccombere».
«E allora avrete assassinato vostro padre», egli disse.
«Avremo vendicato nostra madre», ella disse indicando il luogo dove la signora Claës era morta.
«Figlia mia, se tu sapessi di che cosa si tratta, non mi diresti queste parole. Ascolta, ti spiegherò il problema... Ma mi comprenderai?», sbottò con disperazione. «Insomma, dammeli! credi una buona volta in tuo padre. Sì, so che ho recato dolore a tua madre; che ho sperperato, per usare la parola degli ignoranti, il mio patrimonio e dilapidato il vostro; che voi lavorate tutti per quella che tu chiami una follia; ma, angelo mio, mia diletta, amore mio, Marguerite, suvvia, ascoltami! Se non riesco, mi rimetto a te, ti obbedirò come dovresti obbedire tu a me; farò la tua volontà, ti affiderò l'amministrazione del mio patrimonio, non sarò più il tutore dei miei figli, mi spoglierò di ogni autorità. Lo giuro su tua madre», disse lasciando scorrere le lacrime. Marguerite volse altrove il capo per non vedere quel volto in pianto, e Claës si gettò ai piedi della figlia, credendo che stesse per cedere. «Marguerite, Marguerite! dammeli, dammeli! Cosa sono sessantamila franchi per evitare rimorsi eterni? Guarda, io morirò, questo mi ucciderà. Ascoltami, la mia parola sarà sacra. Se fallisco, rinuncio ai miei lavori, lascerò la Fiandra, anche la Francia se vuoi, andrò a lavorare come un operaio per rifare centesimo su centesimo il mio patrimonio e riportare un giorno ai miei figli quel che la Scienza avrà loro preso».
Marguerite voleva rialzare il padre, ma egli continuò a restare ai suoi piedi e aggiunse piangendo: «Sii per l'ultima volta tenera e devota! Se non riesco ti darò io stesso ragione d'esser severa. Mi darai del vecchio pazzo, mi chiamerai cattivo padre, mi dirai anche che sono un ignorante! Io, quando sentirò quelle parole, ti bacerò le mani. Potrai picchiarmi, se vuoi; e quando mi colpirai, io ti benedirò come la migliore delle figliole, ricordandomi che mi hai dato il tuo sangue!».
«Se non si trattasse che del mio sangue, ve lo consegnerei», ella esclamò, «ma come posso lasciar sgozzare dalla Scienza mio fratello e mia sorella? No! Basta, basta!», disse asciugandosi le lacrime e respingendo le mani carezzevoli del padre.
«Sessantamila franchi e due mesi», disse lui con rabbia alzandosi, «non mi occorre altro che questo; ma mia
figlia si mette tra la gloria, tra la ricchezza e me. Sii maledetta!», aggiunse. «Tu non sei né figlia né donna, tu non hai cuore, tu non sarai né una madre né una sposa. Me li lasci prendere? di', mia piccola cara, bambina mia diletta, ti adorerò», aggiunse allungando la mano sull'oro con un gesto di atroce energia.
«Io sono senza difesa contro la forza, ma Dio e il grande Claës ci vedono!», disse Marguerite indicando il
ritratto.
«E allora prova a vivere coperta del sangue di tuo padre!», gridò Balthazar gettandole uno sguardo terribile. Si alzò, girò intorno lo sguardo per il parlatorio e uscì lentamente. Arrivando alla porta, si voltò come avrebbe fatto un mendicante e interrogò la figlia con un gesto al quale Marguerite rispose con un cenno negativo del capo. «Addio, figlia mia», disse il vecchio con dolcezza, «cercate di vivere felice».
Quando fu uscito, Marguerite rimase immersa in un torpore che ebbe l'effetto di isolarla da questa terra, non
era più nel parlatorio, non sentiva più il corpo, aveva le ali, e volava negli spazi del mondo spirituale, dove tutto è immenso, dove il pensiero avvicina tempo e distanze, dove una qualche mano divina solleva il velo steso sull'avvenire. Le sembrò che giorni interi passassero tra l'uno e l'altro dei passi che il padre faceva salendo le scale; poi ebbe un brivido d'orrore nel momento in cui lo sentì entrare nella camera. Guidata da un presentimento che diffuse nella sua anima l'acuto bagliore di un lampo, salì di corsa le scale, senza lume, senza far rumore, con la velocità di una freccia, e vide il padre che si puntava una pistola alla fronte.
«Prendete tutto!», gridò lanciandosi verso di lui. Cadde su una poltrona; Balthazar, vedendola pallida, si mise a piangere come piangono i vecchi; ritornò bambino, la baciò sulla fronte, le disse parole senza senso, stava quasi per far salti di gioia, e sembrava voler scherzare con lei come un innamorato gioca con l'amata dopo aver ottenuto da lei la felicità.
«Basta, basta, papà», ella disse, «pensate alla vostra promessa! se non riuscite, mi obbedirete!».
«Sì».
«O madre mia», ella disse voltandosi verso la camera della signora Claës, «voi avreste dato tutto, non è vero?».
«Dormi in pace», disse Balthazar, «sei una buona figliola».
«Dormire!», ella disse, «non ho più le notti della mia giovinezza; voi mi fate invecchiare, papà, come avete lentamente fatto appassire il cuore di mia madre».
«Povera bambina, vorrei rassicurarti spiegandoti i risultati del magnifico esperimento che ho ideato,
capiresti...».
«Io non capisco che la nostra rovina», ella disse andandosene.
Il mattino del giorno dopo, che era di vacanza, Emmanuel de Solis portò Jean.
«Ebbene?», chiese con tristezza avvicinandosi a Marguerite.
«Ho ceduto», ella rispose.
«Vita mia cara», egli esclamò con un moto di gioia malinconica, «se aveste resistito, vi avrei ammirata, ma in questa debolezza, vi adoro!».
«Povero, povero Emmanuel, che cosa ci resterà?».
«Lasciatemi fare», esclamò il giovane tutto raggiante, «noi ci amiamo, tutto andrà bene!».
Trascorsero alcuni mesi in perfetta tranquillità. Solis fece capire a Marguerite che le sue povere economie non avrebbero mai costituito un patrimonio e le consigliò di vivere con agiatezza prendendo, per mantenere l'abbondanza in casa, il denaro che restava della somma che egli aveva avuto in consegna. In quel periodo Marguerite fu in preda alle ansietà che avevano già agitato sua madre in una simile circostanza. Per quanto incredula potesse essere, era arrivata a sperare nel genio del padre. Per un fenomeno inspiegabile, molti hanno speranza senza aver fede. La speranza è il fiore del Desiderio, la fede è il frutto della Certezza. Marguerite si diceva: «Se mio padre riesce, saremo felici!». Solo Claës e Lemulquinier dicevano: «Riusciremo!». Disgraziatamente, di giorno in giorno il volto di quell'uomo si rabbuiò. Quando veniva a mangiare, qualche volta non osava guardare la figlia, qualche volta le lanciava occhiate di trionfo. Marguerite impiegò le sue serate a farsi spiegare dal giovane Solis diversi problemi legali. Colmò il padre di domande sulle loro parentele, portò a termine, insomma, la propria educazione di persona matura. Si preparava, evidentemente, ad attuare il piano che aveva meditato se il padre avesse dovuto soccombere ancora una volta nel suo duello con l'Incognita.
Ai primi di luglio, Balthazar passò un'intera giornata seduto sulla panchina del giardino, immerso in triste meditazione. Guardò più volte l'aiuola senza tulipani, le finestre della camera della moglie; fremeva senza dubbio pensando a quanto gli era costata la sua lotta: i suoi gesti attestavano pensieri che non avevano a che fare con la Scienza. Marguerite andò a sedersi e a lavorare vicino a lui poco prima di pranzo. «Ebbene, papà, non siete riuscito».
«No, figlia mia».
«Ah!», disse Marguerite con voce dolce, «non vi rivolgerò il più lieve rimprovero, siamo entrambi colpevoli. Esigerò solo che manteniate la vostra parola; è sacra, siete un Claës. I vostri figli vi circonderanno d'amore e di rispetto, ma da oggi voi mi appartenete e mi dovete obbedienza. Non preoccupatevi, il mio dominio sarà dolce, e cercherò anche di farlo finire presto. Porto con me Martha, vi lascio per circa un mese, e per occuparmi di voi; perché», disse baciandolo in fronte, «voi siete il mio bambino. Domani dunque Félicie governerà la casa. La poverina non ha che diciassette anni, non saprebbe resistervi; siate generoso, non chiedetele un centesimo, giacché non avrà che lo stretto necessario per le spese della casa. Fatevi coraggio, rinunciate per due o tre anni ai vostri lavori e ai vostri pensieri. Il problema muterà, io avrò messo insieme il denaro necessario per risolverlo e voi lo risolverete. Dite, non è clemente la vostra regina?».
«Allora tutto non è perduto», disse il vecchio.
«No, se sarete ligio alla vostra parola».
«Vi obbedirò, figlia mia», rispose Claës profondamente commosso. Il giorno dopo il signor Conyncks di
Cambrai andò a trovare la pronipote. Era giunto in diligenza e volle fermarsi dal cugino solo il tempo necessario a Marguerite e a Martha per fare i loro preparativi. Claës accolse il cugino con affabilità, ma era visibilmente triste e umiliato. Il vecchio Conyncks intuì il pensiero di Balthazar e, mentre facevano colazione, gli disse con rude franchezza: «Ho qualcuno dei vostri quadri, cugino, mi piacciono i bei quadri, è una passione che manda in rovina, ma tutti abbiamo la nostra follia...».
«Zio caro!», disse Marguerite.
«Dicono che siate rovinato, cugino, ma un Claës ha sempre un tesoro qui dentro», disse battendosi la fronte.
«E anche qui, non vi pare?», aggiunse indicando il proprio cuore. «Per questo conto su di voi! Ho trovato nella mia saccoccia qualche scudo che ho messo a vostra disposizione».
«Ah», esclamò Balthazar, «vi renderò tesori...».
«I soli tesori che possediamo in Fiandra, cugino, sono la pazienza e il lavoro», rispose severamente Conyncks.
«Il nostro antenato ha queste due parole impresse sulla fronte», disse indicandogli il ritratto del presidente Van Claës.
Marguerite abbracciò il padre; gli disse addio, fece le sue raccomandazioni a Josette e a Félicie e partì in diligenza per Parigi. Il prozio rimasto vedovo aveva una sola figlia di dodici anni e possedeva una immensa ricchezza, non era perciò impossibile che volesse riprendere moglie; per questo gli abitanti di Douai credettero che la signorina Claës avrebbe sposato il prozio. La voce di quel ricco matrimonio riportò il notaio Pierquin dai Claës. C'erano stati grandi cambiamenti nelle idee di quell'eccellente calcolatore. Da due anni la società cittadina si era divisa in due campi avversi. La nobiltà aveva formato una piccola cerchia, e la borghesia un'altra, naturalmente molto ostile alla prima. Questa improvvisa separazione, che si verificò in tutta la Fiandra e la divise in due fazioni nemiche il cui astio andò crescendo sempre di più, fu una delle ragioni principali che fecero adottare in provincia la rivoluzione del luglio 1830. In mezzo a quei due gruppi, l'uno dei quali era ultramonarchico e l'altro ultraliberale, si trovavano i funzionari ammessi, secondo la loro importanza, nell'una o nell'altra cerchia, e che, al momento della caduta del potere legittimo, erano stati neutrali. All'inizio della lotta tra la nobiltà e la borghesia, i caffè monarchici ostentarono uno splendore inaudito e rivaleggiarono così brillantemente coi caffè liberali, che quel genere di feste gastronomiche costò la vita, dicono, a parecchie persone, le quali, simili a mortai fusi male, non poterono resistere a quelle esercitazioni. Naturalmente, i due gruppi diventarono esclusivi e si epurarono. Benché molto ricco per essere uomo di provincia, Pierquin fu escluso dai circoli aristocratici e ricacciato in quelli della borghesia. Il suo amor proprio ebbe molto a soffrire dagli smacchi che ricevette successivamente, vedendosi insensibilmente messo al bando da persone con le quali aveva fino a quel momento fatto comunella. Era vicino alla quarantina, unica età della vita nella quale gli uomini che pensano al matrimonio possono ancora sposare donne giovani. I partiti ai quali poteva aspirare appartenevano alla borghesia, e la sua ambizione tendeva a restare nell'alta società, dove avrebbe dovuto introdurlo un bel matrimonio. L'isolamento in cui viveva la famiglia Claës l'aveva resa estranea a quel movimento sociale. Benché Claës appartenesse alla vecchia aristocrazia, era evidente che le sue preoccupazioni gli impedivano di condividere le antipatie create da quella nuova classificazione delle persone. Per quanto povera potesse essere, una Claës portava al marito quel patrimonio di vanità al quale aspirano tutti i nuovi ricchi. Pierquin tornò dunque dai Claës con la segreta intenzione di fare i sacrifici necessari per arrivare alla conclusione di un matrimonio che realizzava ormai tutte le sue ambizioni. Tenne compagnia a Balthazar e a Félicie durante l'assenza di Marguerite, ma si accorse tardi di avere un temibile concorrente in Emmanuel de Solis. L'eredità del defunto sacerdote si diceva considerevole e, agli occhi di un uomo che semplicisticamente riduceva in numeri tutte le cose della vita, il giovane erede sembrava più potente per il suo denaro che non per le seduzioni del cuore di cui Pierquin non si preoccupava mai. Quel patrimonio restituiva al nome di Solis tutto il suo pregio. L'oro e la nobiltà erano due lampadari che, illuminandosi a vicenda, raddoppiavano il loro splendore. L'affetto sincero che il giovane preside dimostrava per Félicie, che trattava come una sorella, suscitò l'emulazione del notaio. Cercò di eclissare Emmanuel mescolando il gergo alla moda con le espressioni di una superficiale galanteria dall'aria sognante, dalla pensosa mestizia che si adattava così bene al suo volto. Dicendosi deluso di tutto al mondo, volgeva gli occhi verso Félicie in modo da farle credere che soltanto lei poteva riconciliarlo con la vita. Félicie, alla quale per la prima volta un uomo rivolgeva dei complimenti, ascoltò quel linguaggio sempre così dolce anche quando è menzognero, scambiò il vuoto per profondità e, nel bisogno che l'opprimeva di dare un oggetto ai vaghi sentimenti di cui era colmo il suo cuore, si interessò del cugino. Gelosa, forse senza saperlo, delle attenzioni amorose che Emmanuel prodigava alla sorella, volle indubbiamente vedersi come lei oggetto degli sguardi, dei pensieri e delle premure di un uomo. Pierquin individuò facilmente la preferenza che Félicie gli accordava su Emmanuel, e ciò fu per lui una ragione per insistere nei suoi sforzi, cosicché si impegnò più di quanto volesse. Emmanuel assistette al nascere di quella passione, falsa forse nel notaio, ingenua in Félicie, che così metteva in gioco il suo avvenire. Seguirono, tra i due, dolci conversazioni, parole dette a bassa voce alle spalle di Emmanuel, insomma, quei piccoli inganni che danno a uno sguardo, a una parola un'espressione la cui dolcezza insidiosa può causare innocenti errori. Aiutato dal favore che godeva presso Félicie, Pierquin cercò di penetrare il segreto del viaggio intrapreso da Marguerite, onde sapere se si trattasse di matrimonio e se egli doveva rinunciare alle sue speranze; ma, nonostante la sua grossolana scaltrezza, né Balthazar né Félicie poterono dargli alcuna spiegazione, per la ragione che non sapevano niente dei progetti di
Marguerite, la quale, assumendo il potere, pareva ne avesse seguito le massime celando i suoi progetti. La cupa tristezza di Balthazar e il suo abbattimento rendevano le serate difficili da passare. Benché Emmanuel fosse riuscito a far giocare il chimico a tric-trac, Balthazar era distratto, e il più delle volte quell'uomo, così grande per la sua intelligenza, pareva uno sciocco. Deluso nelle sue speranze, umiliato di essersi mangiato tre patrimoni, giocatore senza denaro, piegava sotto il peso della sua rovina, sotto il fardello delle sue speranze più deluse che distrutte. Quell'uomo di genio, imbavagliato dalla necessità, si condannava da se stesso e offriva uno spettacolo veramente tragico, che avrebbe commosso l'uomo più insensibile. Lo stesso Pierquin non poteva contemplare senza un sentimento di rispetto quel leone in gabbia, quegli occhi pieni di potenza contenuta, che erano divenuti calmi a forza di tristezza, opachi a forza di luce, il cui sguardo chiedeva un'elemosina che la bocca non osava proferire. Qualche volta passava un lampo su quella faccia disseccata che si rianimava nell'ideare un nuovo esperimento; poi se, osservando il parlatorio, gli occhi di Balthazar si fermavano nel punto dove la moglie era morta, lacrime lievi scorrevano come ardenti granelli di sabbia nel deserto delle sue pupille che il pensiero rendeva immense, e la testa gli ricadeva sul petto. Aveva sollevato il mondo come un Titano, e il mondo ritornava più pesante sopra di lui. Quel gigantesco dolore, così virilmente contenuto, si ripercuoteva su Pierquin e su Emmanuel, che qualche volta si sentivano tanto commossi da provare il desiderio di offrire a quell'uomo la somma necessaria a una serie di esperimenti; tanto sono comunicative le convinzioni del genio! Tutti e due capivano come la signora Claës e Marguerite avessero potuto gettare milioni in quell'abisso; ma la ragione arrestava prontamente gli slanci del cuore, e le loro emozioni si traducevano in parole di consolazione che inasprivano maggiormente le pene di quel Titano folgorato. Claës non parlava della figlia maggiore, e non si preoccupava né della sua lontananza né del silenzio in cui perdurava, giacché non scriveva né a lui né a Félicie. Quando Solis o Pierquin gliene chiedevano notizie, appariva seccato. Forse presentiva che Marguerite agiva contro di lui? Si sentiva umiliato di aver ceduto alla figlia i solenni diritti della paternità? Era arrivato a volerle meno bene perché lei sarebbe stata il padre e lui il figlio? C'erano forse molte di quelle ragioni e molti di quei sentimenti inesprimibili che passano nell'anima come nubi, nel muto senso di disgrazia che egli faceva pesare su Marguerite. Per quanto grandi possano essere i geni noti ed ignoti, fortunati o sfortunati nelle loro iniziative, hanno anch'essi delle meschinità che li fanno rientrare nel genere umano. Per una duplice sventura, soffrono sia per le loro qualità che per i loro difetti; e forse Balthazar doveva ancora familiarizzarsi con le sofferenze della sua vanità ferita. La vita che conduceva e le serate in cui quelle quattro persone si trovavano riunite in assenza di Marguerite, furono perciò soffuse di tristezza e piene di vaghe apprensioni. Furono giorni sterili come lande desolate, nei quali tuttavia si raccoglieva qualche fiore, rara consolazione. L'atmosfera sembrava brumosa in assenza della figlia maggiore, divenuta l'anima, la speranza e la forza della famiglia. Passarono così due mesi, durante i quali
Balthazar attese pazientemente la figlia. Marguerite fu riportata a Douai dallo zio, che si fermò là anziché tornare a
Cambrai, senza dubbio per appoggiare con la propria autorità il colpo di stato meditato dalla nipote. Il ritorno di Marguerite fu una piccola festa in famiglia. Il notaio e Solis erano stati invitati a pranzo da Félicie e Balthazar. Quando la carrozza si fermò alla porta di casa, i quattro andarono a ricevere i viaggiatori con grandi dimostrazioni di gioia. Marguerite sembrò felice di rivedere la casa paterna, i suoi occhi si riempirono di lacrime quando attraversò il cortile per arrivare al parlatorio. Abbracciando il padre, le sue carezze di fanciulla non furono tuttavia immuni da un certo imbarazzo, arrossiva come una sposa colpevole che non sa fingere; ma il suo sguardo riacquistò la propria purezza quando guardò Solis, dal quale pareva attingere la forza di portare a termine l'impresa che aveva segretamente ideata. Durante il pranzo, nonostante l'allegria che animava i volti e le parole, padre e figlia si studiarono con diffidenza e curiosità. Balthazar non fece a Marguerite nessuna domanda sulla sua permanenza a Parigi, senza dubbio per dignità paterna. Emmanuel de Solis imitò quella riservatezza. Ma Pierquin, che era abituato a conoscere tutti i segreti di famiglia, disse a Marguerite, celando la propria curiosità sotto una falsa benevolenza:
«Ebbene, cara cugina, avete veduto Parigi, gli spettacoli...».
«Non ho visto niente a Parigi», ella rispose, «non ci sono andata per divertirmi. I giorni sono passati tristemente per me; ero troppo impaziente di rivedere Douai».
«Se non mi irritavo, non sarebbe venuta neanche all'Opera, dove del resto si è annoiata!», disse Conyncks.
La serata fu penosa, ognuno era impacciato, sorrideva a stento o si sforzava di mostrare quella voluta gaiezza sotto la quale si nascondono reali ansietà. Marguerite e Balthazar erano in preda a sorde e crudeli apprensioni, che si ripercuotevano nei loro cuori. Quanto più il tempo passava, tanto più il contegno del padre e della figlia si alterava. Marguerite cercava qualche volta di sorridere, ma i suoi gesti, i suoi sguardi, il suono della sua voce lasciavano trasparire una viva inquietudine. Conyncks e Solis sembravano conoscere la causa dei moti segreti che agitavano quella nobile fanciulla, e parevano incoraggiarla con occhiate espressive. Ferito per essere stato messo in disparte in una decisione e nei passi compiuti per lui, Balthazar si separava insensibilmente dai figli e dagli amici, ostentando il proprio silenzio. Marguerite gli avrebbe senza dubbio rivelato quello che aveva deciso riguardo a lui, ma per un uomo grande, per un padre, quella situazione era intollerabile. Arrivato a un'età in cui non si nasconde niente ai propri figli, in cui la portata delle idee dà forza ai sentimenti, diventava sempre più grave, impensierito e triste vedendo avvicinarsi il momento della morte civile. Quella serata portava seco una di quelle crisi della vita interiore che non possono esprimersi se non per immagini. Nubi e fulmini si accumulavano in cielo, in campagna si rideva; tutti avevano caldo, sentivano il temporale, alzavano la testa e continuavano la loro strada. Conyncks andò a letto per primo, accompagnato in camera da Balthazar. Durante la sua assenza, Pierquin e Solis se ne andarono. Marguerite accomiatò affettuosamente il notaio, non disse niente a Emmanuel, ma gli strinse la mano rivolgendogli uno sguardo commosso. Poi fece uscire Félicie, e Claës, quando tornò nel parlatorio, trovò la figlia sola. «Mio buon papà», disse questa con voce tremante, «ci sono volute le gravi circostanze nelle quali ci troviamo per farmi lasciare la casa; ma dopo molte angosce e dopo aver superato difficoltà incredibili, torno con qualche possibilità di salvezza per tutti noi. Grazie al vostro nome, all'influenza dello zio e alle premure del signor Solis, abbiamo ottenuto per voi un appalto delle imposte in Bretagna; rende, dicono, da diciotto a ventimila franchi all'anno. Lo zio ha dato la cauzione. Ecco la vostra nomina», disse tirando fuori una lettera dalla borsa. «La vostra permanenza qui, dopo i nostri anni di privazioni e di sacrifici, sarebbe intollerabile. Nostro padre deve restare in una situazione almeno uguale a quella in cui è sempre vissuto. Non vi chiederò niente dei vostri guadagni, li userete come vi sembrerà opportuno. Vi supplico soltanto di pensare che noi non abbiamo un centesimo di rendita, e che vivremo tutti con quello che ci darà Gustave sui suoi redditi. La città non saprà niente di questa vita claustrale. Se foste in casa vostra, sareste un ostacolo ai mezzi che mia sorella ed io impiegheremo per cercar di ripristinare la vostra agiatezza. È un abuso dell'autorità che voi mi avete data mettervi in grado di rifare voi stesso il vostro patrimonio? fra qualche anno, se volete, sarete Appaltatore generale».
«Così, Marguerite», disse lentamente Balthazar, «tu mi cacci di casa».
«Non merito un rimprovero così duro», rispose la figlia comprimendo i battiti tumultuosi del cuore. «Tornerete fra noi quando potrete abitare nella vostra città natale come conviene che voi ci viviate. D'altronde, papà, non ho la vostra parola?», riprese freddamente. «Dovete obbedirmi. Lo zio è rimasto qui per condurvi in Bretagna affinché non facciate il viaggio da solo».
«Non ci andrò», esclamò Balthazar alzandosi, «non ho bisogno dell'aiuto di nessuno per ricostruire il mio patrimonio e pagare quel che devo ai miei figli».
«Meglio così», riprese Marguerite senza commuoversi. «Vi prego di riflettere alla nostra e alla vostra
situazione che vi spiegherò in poche parole. Se voi restate in questa casa, i vostri figli ne usciranno per lasciarvene padrone».
«Marguerite!», gridò Balthazar.
«Poi», continuò lei senza dar peso all'irritazione del padre, «bisogna informare il ministro del vostro rifiuto, se non accettate un posto remunerativo e dignitoso che, nonostante i nostri passi e le nostre protezioni, non avremmo avuto senza qualche biglietto da mille abilmente messo dallo zio nel guanto della signora...».
«Lasciami!».
«O voi ci lascerete o ce ne andremo noi», ella disse. «Se fossi la vostra unica figlia, imiterei mia madre senza mormorare contro il destino che mi fareste sopportare. Ma mia sorella e i miei due fratelli non devono morire di fame o di disperazione accanto a voi; l'ho promesso a quella che è morta là», disse indicando il posto del letto della madre. «Vi abbiamo nascosto i nostri dolori, abbiamo sofferto in silenzio, oggi le nostre forze si sono esaurite. Non siamo sull'orlo di un abisso, siamo nel fondo, papà! Per tirarci fuori, non ci occorre soltanto coraggio, occorre anche che i nostri sforzi non siano incessantemente mandati a vuoto dai capricci di una passione...».
«Figli miei cari!», esclamò Balthazar prendendo la mano di Marguerite, «io vi aiuterò, io lavorerò... io...».
«Eccone i mezzi», ella rispose tendendogli la lettera ministeriale.
«Ma, angelo mio, il mezzo che tu mi offri per rifare il mio patrimonio è troppo lento! mi farai perdere il frutto di dieci anni di lavoro e le somme enormi investite nel mio laboratorio. Là», disse indicando la soffitta, «sono tutte le nostre risorse».
Marguerite si diresse verso la porta dicendo: «Scegliete, papà».
«Ah, figlia mia, come siete dura!», rispose lui sedendosi su una poltrona e lasciando che se ne andasse.
Il mattino dopo Marguerite seppe da Lemulquinier che il signor Claës era uscito. Quel semplice annuncio la fece impallidire e il suo volto fu così crudelmente espressivo, che il vecchio domestico le disse: «State tranquilla, signorina, il signore ha detto che sarebbe tornato alle undici per la colazione. Non ha dormito, stanotte. Alle due era ancora in piedi qui a guardare dalle finestre i tetti del laboratorio. Io aspettavo in cucina, lo vedevo piangere. Soffre. È giunto l'atteso mese di luglio in cui il sole può farci tutti ricchi, e se voi voleste...».
«Basta!», disse Marguerite indovinando tutti i pensieri che certo il padre aveva rimuginato.
Si era effettivamente verificato in Balthazar quel fenomeno che si impadronisce di tutte le persone sedentarie,
la sua vita dipendeva, per così dire, dai luoghi con i quali egli si era identificato, la sua mente, sposatasi al laboratorio e alla casa, glieli rendeva indispensabili, come è indispensabile la Borsa al giocatore, per il quale i giorni festivi sono giorni perduti. Là c'erano le sue speranze, là scendeva dal cielo la sola atmosfera alla quale i suoi polmoni potessero attingere aria vitale. Un tal legame di luoghi e cose con gli uomini, così forte negli esseri deboli, diventa quasi tirannico negli scienziati e negli studiosi. Lasciare la casa voleva dire per Balthazar rinunciare alla Scienza, al suo problema, voleva dire morire. Marguerite fu in preda a una estrema ansietà fino all'ora della colazione. Le era tornata alla memoria la scena che aveva portato Balthazar alla determinazione di uccidersi, e temeva di veder concludersi tragicamente la situazione disperata nella quale il padre si trovava. Camminava su e giù nel parlatorio, sussultando ogni volta che squillava il campanello della porta. Finalmente Balthazar ritornò. Mentre attraversava il cortile, Marguerite, che studiava il suo volto con inquietudine, non vide in esso che l'espressione di un dolore tempestoso. Quando entrò nel parlatorio, ella gli andò incontro per dargli il buongiorno e lui la prese affettuosamente per la vita, la strinse al cuore, la baciò sulla fronte e le disse all'orecchio: «Sono andato a chiedere il passaporto». Il tono della voce, lo sguardo rassegnato, il gesto del padre, tutto strinse il cuore della povera fanciulla, che voltò la testa per non lasciar vedere le lacrime, ma, non potendo reprimerle, andò in giardino e tornò dopo aver pianto a sazietà. Durante la colazione Balthazar si comportò come un uomo che avesse preso delle decisioni.
«Allora partiremo per la Bretagna, zio», disse lui a Conyncks. «Ho sempre avuto il desiderio di vedere quel paese».
«Ci si vive a buon mercato», rispose il vecchio zio.
«Papà ci lascia?», interloquì Félicie.
Entrò Solis, che conduceva con sé Jean.
«Ce lo lascerete per oggi», disse Balthazar attirando a sé il figlio, «parto domani, voglio dirgli addio».
Emmanuel guardò Marguerite, che abbassò la testa. Fu una giornata tetra, durante la quale ciascuno fu triste e represse lacrime o pensieri. Non era un distacco, ma un esilio. E poi tutti sentivano istintivamente quanto fosse umiliante per un padre dichiarare così in pubblico le proprie sconfitte accettando un lavoro e lasciando la famiglia, all'età di Balthazar. Egli fu tanto grande quanto Marguerite era ferma, e parve accettare nobilmente quella penitenza degli errori che l'impeto del genio gli aveva fatto commettere. Quando la serata fu trascorsa e padre e figlia furono soli, Balthazar, che durante tutta la giornata si era mostrato tenero e affettuoso come nei bei giorni della sua vita patriarcale, tese la mano a Marguerite e le disse con una specie di tenerezza mista a disperazione: «Sei contenta di tuo padre?».
«Sei degno di lui», rispose Marguerite indicandogli il ritratto di Van Claës.
Il mattino dopo Balthazar, seguito da Lemulquinier, salì nel suo laboratorio come per dire addio alle speranze che aveva accarezzate e che gli esperimenti lasciati a mezzo gli ripresentavano viventi. Padrone e domestico si scambiarono uno sguardo pieno di malinconia entrando nella soffitta che stavano per lasciare forse per sempre. Balthazar contemplò quelle macchine sulle quali il suo pensiero aveva così a lungo aleggiato e ognuna delle quali era legata al ricordo di una ricerca o di un esperimento. Ordinò con aria triste a Lemulquinier di far evaporare certi gas o certi acidi pericolosi, e di separare alcune sostanze che avrebbero potuto produrre esplosioni. Mentre prendeva queste precauzioni, proferiva recriminazioni amare, come un condannato a morte prima di salire al patibolo.
«Ecco però», disse fermandosi davati ad una capsula nella quale erano immersi i due fili di una pila di Volta, «un esperimento di cui si dovrebbe attendere il risultato. Se riuscisse, terribile pensiero! i miei figli non caccerebbero di casa un padre che gettasse diamanti ai loro piedi. Ecco una combinazione di carbonio e di zolfo», aggiunse parlando fra sé, «nella quale il carbonio ha la funzione di corpo elettropositivo; la cristallizzazione deve cominciare al polo negativo e, in caso di scomposizione, il carbonio vi si raccoglierebbe cristallizzato».
«Ah, succederebbe così», disse Lemulquinier contemplando ammirato il padrone.
«Dunque», riprese Balthazar dopo una pausa, «la combinazione è soggetta all'influenza di questa pila, che può
agire...».
«Se il signore vuole, ne aumenterò la forza...».
«No, no, bisogna lasciarla com'è. Il riposo e il tempo sono condizioni essenziali alla cristallizzazione...».
«Perbacco, bisogna che abbia il suo tempo, questa cristallizzazione», esclamò il domestico.
«Se la temperatura si abbassa, il solfuro di carbonio si cristallizzerà», disse Balthazar continuando a esprimere a tratti idee frammentarie di un ragionamento che era completo nella sua mente; «ma se l'azione della pila opera in certe condizioni che ignoro... Bisognerebbe tenere sotto osservazione... è possibile... Ma a che penso? non si tratta più di Chimica, amico, dobbiamo andare a gestire una ricevitoria in Bretagna».
Claës uscì precipitosamente e scese per fare un'ultima colazione in famiglia alla quale parteciparono Pierquin e Solis. Balthazar, impaziente di farla finita con la sua agonia scientifica, disse addio ai figli e salì in vettura con lo zio. Tutta la famiglia lo accompagnò fino alla porta. Marguerite abbracciò il padre con una stretta disperata, alla quale egli rispose dicendole all'orecchio: «Sei una buona figliuola, non ti serberò mai rancore!». Ella poi attraversò il cortile, si rifugiò nel parlatorio, si inginocchiò nel luogo dove la madre era morta, e formulò un'ardente preghiera a Dio per domandargli la forza di assolvere alle dure incombenze della sua nuova vita. Era già fortificata da una voce interiore che le aveva trasfuso nel cuore gli applausi degli angeli e i ringraziamenti della madre, quando la sorella, il fratello, Emmanuel e Pierquin rientrarono dopo aver guardato il calesse fino a quando era scomparso.
«Adesso, signorina, che farete?», le domandò Pierquin.
«Devo salvare la famiglia», ella rispose con semplicità. «Possediamo all'incirca milletrecento iugeri a
Waignies. È mia intenzione farli dissodare, dividerli in tre poderi, costruire gli edifici necessari per la loro coltivazione, darli in affitto; e credo che fra alcuni anni, con molta economia e pazienza, ciascuno di noi», disse indicando la sorella e il fratello, «avrà un podere di quattrocento iugeri in più, che potrà dare un giorno quasi quindicimila franchi di rendita. Mio fratello Gustave terrà come sua parte questa casa e quel che possiede in buoni del tesoro. Inoltre, renderemo un giorno a nostro padre il suo patrimonio libero da ogni vincolo, destinando i nostri redditi al pagamento dei suoi debiti».
«Ma cara cugina», disse il notaio stupito di quella competenza negli affari e della fredda ragione di Marguerite, «vi occorrono più di duecentomila franchi per dissodare i vostri terreni, costruire le fattorie e acquistare il bestiame.
Dove prenderete questa somma?».
«Qui cominciano i miei problemi», ella disse guardando alternativamente il notaio e Solis, «non oso chiedere denaro allo zio, che ha già dato la cauzione per il babbo».
«Avete degli amici!», esclamò Pierquin vedendo all'improvviso che le signorine Claës sarebbero state ancora ragazze da cinquecentomila franchi.
Emmanuel de Solis guardò Marguerite con tenerezza. Disgraziatamente per lui, Pierquin, in mezzo al suo entusiasmo, restò notaio e aggiunse: «Ve li offro io questi duecentomila franchi».
Emmanuel e Marguerite si consultarono con un'occhiata, che fu uno sprazzo di luce per Pierquin. Félicie
arrossì fino alle orecchie, tanto era felice di trovare il cugino generoso come sperava. Guardò la sorella, la quale intuì all'improvviso che durante la sua assenza la povera fanciulla si era lasciata conquistare da qualche banale galanteria di Pierquin.
«Mi darete solo il cinque per cento di interesse», aggiunse lui. «Mi rimborserete quando vi farà comodo, e mi
darete un'ipoteca sui vostri terreni. Ma state tranquilla, per tutti i vostri contratti non avrete da pagare le spese, vi troverò buoni fittavoli e farò i vostri affari senza compenso, per aiutarvi da buon parente».
Emmanuel fece un cenno a Marguerite per indurla a rifiutare; ma ella era troppo intenta a studiare i cambiamenti d'espressione nel volto della sorella per accorgersene. Dopo una pausa, guardò il notaio con aria ironica e gli disse di propria iniziativa, con grande gioia di Solis: «Siete davvero un buon parente, non mi aspettavo di meno da voi; ma l'interesse del cinque per cento ritarderebbe troppo il riscatto, aspetterò che mio fratello sia maggiorenne e venderemo i suoi titoli».
Pierquin si morse le labbra, Emmanuel sorrise appena appena.
«Félicie, bambina cara, riporta Jean in collegio, Martha ti accompagnerà», disse Marguerite indicando il fratello, «Jean, angelo mio, sii bravo, non sciupare i tuoi vestiti, non siamo abbastanza ricchi per comprartene di nuovi così spesso come una volta! Su, va', piccino mio, studia». Félicie uscì col fratello.
«Cugino mio», disse poi Marguerite, «e voi, signor Solis, siete senza dubbio venuti a trovare il babbo durante la mia assenza, vi ringrazio di queste prove di amicizia. Non farete certamente meno per due povere fanciulle che avranno bisogno di consigli. Siamo d'accordo su questo punto?... Quando sarò qui in città, vi riceverò sempre col più grande piacere; ma quando Félicie sarà sola con Josette e Martha, non ho bisogno di dirvi che non deve veder nessuno, foss'anche un vecchio amico o il più devoto dei parenti. Nelle circostanze in cui ci troviamo, la nostra condotta dev'essere di una severità irreprensibile. Eccoci per lungo tempo votate al lavoro e alla solitudine».
Per alcuni istanti regnò il silenzio. Emmanuel, immerso nella contemplazione del volto di Marguerite, sembrava muto, Pierquin non sapeva che dire. Il notaio si accomiatò dalla cugina provando un moto di rabbia contro se stesso: aveva intuito improvvisamente che Marguerite amava Emmanuel e che lui si era comportato da vero sciocco. «Ah, Pierquin, amico mio», disse apostrofando se stesso nella strada, «chi ti dicesse che sei una gran bestia avrebbe ragione. Sono poco scemo? Ho dodicimila franchi di rendita, oltre al mio lavoro, senza contare i beni di mio zio Des Racquets del quale sono l'unico erede e che un giorno o l'altro raddoppierà il mio patrimonio (però non gli auguro di morire, è economo!...) e son così strozzino da domandare interessi alla signorina Claës! Sono sicuro che ora quei due si burlano di me. Non devo più pensare a Marguerite! No. Dopo tutto, Félicie è una dolce e buona creaturina che mi si addice meglio. Marguerite ha un carattere di ferro, vorrebbe dominarmi e mi dominerebbe. Via, mostriamoci generosi, non facciamo tanto il notaio, non posso dunque togliermi di dosso questa bardatura? Per la miseria! Mi metterò ad amare Félicie e non devierò da quel sentimento. Capperi! Avrà un podere di quattrocentotrenta iugeri, che tra un po' di tempo darà quindici o ventimila franchi di rendita, perché i terreni di Waignies sono buoni. Che muoia lo zio Des Racquets, poveraccio! e io vendo il mio studio e divento un uomo con cin-quan-ta-mi-la-di-ren-di-ta. Mia moglie è una Claës, sono imparentato con famiglie importanti. Diamine, vedremo se i Courteville, i Magalhens, i Savaron de Savarus si rifiuteranno di venire in casa di un Pierquin-Claës-Moulina-Nourho. Sarò sindaco di Douai, avrò la croce, potrò essere deputato, arriverò a tutto. Ah, Pierquin, ragazzo mio, senti, non facciamo più sciocchezze, tanto più che, parola mia d'onore, Félicie... la signorina Félicie Van Claës ti ama».
Quando i due innamorati furono soli, Emmanuel tese la mano a Marguerite che non poté fare a meno di mettervi la destra. Si alzarono con un concorde movimento, dirigendosi verso la loro panchina in giardino; ma al centro
del parlatorio l'innamorato non poté trattenere la propria gioia e con voce resa tremante dall'emozione disse a Marguerite:
«Ho trecentomila franchi per voi!...».
«Come!», ella esclamò, «la mia povera mamma vi avrebbe affidato anche... No! Non è possibile!...».
«Oh, Marguerite, quel che è mio non è vostro? Non siete stata voi la prima a dire noi?».
«Emmanuel caro», ella disse stringendo la mano che continuava a tenere e, anziché andare in giardino, si gettò
sulla poltrona.
«Non sono io che vi devo ringraziare», egli disse con la sua voce innamorata, «perché voi accettate?».
«Questo momento», ella disse, «mio diletto, cancella molti dolori e avvicina un felice avvenire! Sì, accetto il tuo denaro», riprese lasciando errare sulle labbra un sorriso angelico, «so il mezzo per farlo mio». Guardò il ritratto di Van Claës come per avere un testimone. Il giovane, che seguiva lo sguardo di Marguerite, non la vide togliersi dal dito un anello da fanciulla e si accorse di quel gesto solo quando udì queste parole: «In mezzo alle nostre profonde miserie, nasce una gioia. Mio padre, per trascuratezza, mi lascia libera di decidere di me stessa», disse tendendo l'anello; «prendi, Emmanuel. Mia madre ti voleva bene, ella ti avrebbe scelto».
Le lacrime salirono agli occhi di Emmanuel, che impallidì, le cadde ai piedi e disse a Marguerite, dandole un anello che portava sempre: «Questa è la fede di mia madre! Marguerite mia», riprese baciando l'anello datogli da lei, «non avrò altro pegno che questo!».
Ella si chinò per porgere la fronte alle labbra d'Emmanuel. «Ahimè! mio povero caro, forse stiamo facendo qualcosa di male», disse profondamente turbata. «Dovremo ancora aspettare a lungo».
«Mio zio diceva che l'adorazione era il pane quotidiano della pazienza, parlando del cristiano che ama Dio.
Posso amarti così, ti ho da molto tempo confusa col Signore di tutte le cose: sono tuo, come sono suo».
Restarono per alcuni istanti in preda alla più dolce esaltazione. Fu la sincera e calma effusione di un sentimento che, simile a una fonte troppo piena, traboccava in piccole onde incessanti. Gli avvenimenti che separavano i due innamorati erano una causa di tristezza che faceva più viva la loro felicità, rendendola in certo qual modo acuta come il dolore. Félicie tornò troppo presto per loro. Emmanuel, con quella sensibilità deliziosa che tutto fa intuire in amore, lasciò sole le due sorelle, dopo aver scambiato con Marguerite uno sguardo in cui ella poté scorgere quanto fosse avido di quella felicità desiderata così a lungo e che era stata allora consacrata dal fidanzamento del cuore.
«Vieni qui, sorellina», disse Marguerite cingendo il collo di Félicie. Poi, uscite in giardino, andarono a sedersi sulla panchina alla quale ogni generazione aveva confidato le sue parole d'amore, i suoi sospiri dolorosi, meditazioni e progetti. Nonostante il tono gioioso e l'amabile arguzia del sorriso della sorella, Félicie provava un'emozione piuttosto simile alla paura. Marguerite le prese la mano e la sentì tremare.
«Signorina Félicie», disse la maggiore avvicinandosi all'orecchio della sorella, «io leggo nella vostra anima.
Pierquin è venuto spesso durante la mia assenza, è venuto tutte le sere, vi ha detto parole dolci, e voi le avete ascoltate». Félicie arrossì. «Non schermirti, angelo mio», riprese Marguerite, «è così naturale amare! Forse la tua cara anima cambierà un poco la natura del cugino; è egoista, interessato, ma è un galantuomo, e senza dubbio i suoi difetti serviranno alla tua felicità. Ti amerà come la più bella delle sue proprietà, farai parte dei suoi affari. Mi perdoni questa parola, mia cara? tu lo correggerai della cattiva abitudine che ha contratto di non vedere ovunque altro che interessi, insegnandogli gli affari del cuore». Félicie non poté fare a meno di abbracciare la sorella. «D'altronde», riprese
Marguerite, «è ricco. La sua famiglia è della più alta e antica borghesia. Ma dovrei proprio essere io ad oppormi alla tua felicità se tu vuoi trovarla in una condizione mediocre?...».
Félicie si lasciò sfuggire queste parole: «Sorella cara!».
«Oh sì, puoi confidarti con me», esclamò Marguerite. «Che cosa c'è di più naturale che dirci i nostri segreti?».
Queste parole piene di sentimento diedero luogo a una di quelle conversazioni deliziose nelle quali le fanciulle si dicono tutto. Quando Marguerite, che l'amore aveva reso esperta, ebbe riconosciuto lo stato d'animo di Félicie, finì dicendole: «Ebbene, bambina mia cara, assicuriamoci se il cugino ti vuol veramente bene, e allora...».
«Lascia fare a me», rispose Félicie, «ho i miei piani».
«Pazza!», disse Marguerite baciandola in fronte.
Pierquin apparteneva a quella categoria di persone che nel matrimonio vedono degli obblighi, l'attuazione delle
leggi sociali e un modo per trasmettere proprietà, e gli era indifferente sposare Félicie o Marguerite, dato che l'una e l'altra avevano lo stesso nome e la stessa dote. Tuttavia si accorse che entrambe erano, secondo una delle sue espressioni, fanciulle romantiche e sentimentali, due aggettivi cui ricorre la gente senza cuore per burlarsi dei doni che la natura distribuisce con mano parsimoniosa nei campi dell'umanità. Il notaio si disse senza dubbio che bisognava urlare con i lupi, e il giorno dopo andò a trovare Marguerite, la condusse con fare misterioso nel giardinetto e si mise a parlare confidenzialmente, giacché questa era una clausola del preliminare che doveva precedere, secondo le leggi del mondo, il contratto notarile.
«Cara cugina», le disse, «non siamo sempre stati della stessa opinione sui mezzi da adottare per arrivare alla felice conclusione dei vostri affari; ma oggi dovete riconoscere che sono stato sempre mosso da un vivo desiderio di esservi utile. Ebbene, ieri ho rovinato le mie offerte con la fatale abitudine che ci conferisce lo spirito notarile, capite?... Il mio cuore non era complice del mio errore. Vi ho molto amato, ma noi abbiamo una certa perspicacia, noialtri, e mi sono accorto che non vi piacevo. È colpa mia! Un altro è stato più abile di me. Ebbene, vengo a confessarvi con tutta semplicità di provare un vero amore per vostra sorella Félicie. Trattatemi dunque come un fratello, attingete alla mia borsa, prendete direttamente! Suvvia, quanto più prenderete, tanto più mi dimostrerete amicizia. Sono tutto per voi, senza interesse, mi capite? né al venticinque né al cinque. Mi si trovi degno di Félicie e io sarò contento. Perdonatemi i miei difetti, derivano dal praticar gli affari, il cuore è buono, e mi getterei nel fiume piuttosto che non render felice mia moglie».
«Così va bene, cugino», disse Marguerite, «ma mia sorella dipende da se stessa e da nostro padre...».
«Lo so, cara cugina», disse il notaio, «ma voi siete la madre di tutta la famiglia, e niente mi sta più a cuore che farvi giudice del mio».
Questo modo di parlare rende abbastanza bene lo spirito del buon notaio. Più tardi, Pierquin diventò famoso per la sua risposta al comandante di campo di Saint-Omer che lo aveva pregato di assistere a una festa militare, risposta che così suona: Il signor Pierquin-Claës de Moulina-Nourho, sindaco della città di Douai, cavaliere della Legion d'Onore, avrà quello di recarsi ecc.
Marguerite accettò l'assistenza del notaio, ma soltanto in tutto quello che riguardava la sua professione, per non compromettere minimamente né la sua dignità di donna, né il futuro della sorella, né le decisioni del padre. Quello stesso giorno affidò la sorella alla custodia di Josette e di Martha, che si votarono anima e corpo alla loro padroncina assecondando i suoi piani di economia. Marguerite partì subito per Waignies, dove iniziò le sue operazioni, che furono sapientemente dirette da Pierquin. L'attaccamento prendeva nello spirito del notaio la forma di un'eccellente speculazione, le sue cure, le sue preoccupazioni furono allora in certo qual modo un investimento di capitali che non pensò affatto a risparmiare. Innanzitutto, cercò di evitare a Marguerite la briga di far dissodare e coltivare le terre destinate ai poderi. Scoprì tre giovani, figli di fittavoli ricchi, che desideravano sistemarsi, li convinse con la prospettiva che offriva la ricchezza di quei terreni, e riuscì a far prender loro in affitto le tre fattorie che dovevano esser organizzate. Ottenendo l'esenzione da ogni onere nei primi tre anni, i fittavoli si impegnarono a pagare diecimila franchi d'affitto al quarto anno, dodicimila al sesto, e quindicimila in seguito; a scavare i fossati, a fare le piantagioni e ad acquistare il bestiame. Mentre si costruivano le fattorie, i fittavoli dissodarono i loro terreni. Quattro anni dopo la partenza di Balthazar, Marguerite aveva già quasi ricostruito il patrimonio del fratello e della sorella. Duecentomila franchi bastarono a pagare tutte le costruzioni. Aiuti e consigli non mancarono alla coraggiosa fanciulla, il cui comportamento suscitava l'ammirazione della città. Marguerite sorvegliò i lavori, il rispetto dei contratti e delle fittanze con quel buon senso, quell'alacrità, quella costanza che sanno dimostrare le donne quando sono sorrette da un grande sentimento. A cominciare dal quinto anno, ella poté dedicare i trentamila franchi che davano le fattorie, le rendite del fratello e dei beni paterni, allo svincolo dei capitali ipotecati e alla riparazione dei danni che la passione di Balthazar aveva prodotto nella sua casa. L'ammortamento doveva perciò avvenire rapidamente grazie al decrescere degli interessi. Emmanuel de Solis offrì poi a Marguerite i centomila franchi che gli restavano dell'eredità dello zio e di cui lei non si era servita, aggiungendovi circa ventimila franchi di suoi risparmi, in modo che, a partire dal terzo anno della sua gestione, ella poté pagare una parte piuttosto rilevante dei debiti. Quella vita di coraggio, di privazioni e di sacrificio durò per cinque anni; ma tutto, d'altronde, ebbe pieno successo sotto l'amministrazione e l'influenza di Marguerite.
Diventato ingegnere civile, Gabriel, aiutato dal prozio, fece una rapida fortuna con l'impresa di scavo di un canale e seppe piacere alla cugina Conyncks, che il padre adorava e che era una delle più ricche ereditiere delle due Fiandre. Nel 1824 i beni di Claës furono liberi, e la casa di rue de Paris aveva riparato alle sue perdite. Pierquin domandò ufficialmente la mano di Félicie a Balthazar, mentre Solis chiese quella di Marguerite.
Ai primi di gennaio del 1825, Marguerite e Conyncks partirono per andar a prendere il padre esiliato, del quale
tutti desideravano il ritorno e che diede le dimissioni per poter restare in seno alla famiglia, la cui felicità stava per ricevere la sua sanzione. Marguerite tante volte aveva espresso il rammarico di non poter riempire le cornici vuote della galleria e degli appartamenti per gli ospiti prima del giorno in cui il padre avrebbe ripreso possesso della sua casa. In assenza di lei, Pierquin e Solis complottarono con Félicie per preparare a Marguerite una sorpresa che avrebbe fatto partecipare in certo qual modo la sorella minore al ripristino di Casa Claës. Tutti e due avevano comperato per Félicie parecchi bei quadri, che le offrirono per decorare la galleria. Conyncks aveva avuto la stessa idea. Volendo attestare a Marguerite la soddisfazione che gli procuravano la sua nobile condotta e la sua devozione nell'assolvere il mandato che le aveva affidato la madre, aveva dato disposizioni perché si portassero una cinquantina delle sue tele più belle e alcune di quelle che Balthazar aveva un tempo vendute, cosicché la galleria Claës si ritrovò interamente ripristinata.
Marguerite era già andata parecchie volte a trovare il padre, insieme con la sorella o con Jean; ogni volta aveva notato in lui un progressivo mutamento, ma all'ultima visita la vecchiaia si era manifestata in Balthazar con sintomi spaventosi, alla cui gravità contribuiva senza dubbio la ristrettezza della sua vita, in quanto voleva impiegare la maggior parte dei suoi guadagni in esperimenti che deludevano sempre le sue speranze. Benché non avesse che sessantacinque anni, ne dimostrava ottanta. Gli occhi si erano profondamente infossati nelle orbite, le sopracciglia erano diventate bianche, radi capelli gli coprivano appena la nuca; si lasciava crescere la barba, che tagliava con le forbici quando gli dava fastidio; era curvo come un vecchio contadino; inoltre, il disordine degli abiti aveva ripreso un carattere di miseria che la decrepitezza rendeva disgustoso. Sebbene la forza del pensiero animasse quel nobile volto, i cui lineamenti non si vedevano più sotto le rughe, la fissità dello sguardo, un'aria disperata, una costante inquietudine vi imprimevano i segni diagnostici della demenza, o piuttosto di tutte le demenze insieme. Ora vi appariva una speranza che dava a Balthazar l'espressione del monomaniaco; ora l'impazienza di non intuire un segreto che si presentava a lui come un fuoco fatuo vi metteva i sintomi del furore; poi, all'improvviso, una risata squillante rivelava la follia, infine, per la maggior parte del tempo, l'abbattimento più completo riassumeva in sé tutte le varianti della sua passione con la fredda malinconia dell'idiota. Per quanto fugaci e impercettibili fossero per gli estranei queste espressioni, erano disgraziatamente troppo evidenti per coloro che avevano conosciuto un Claës sublime di bontà, grande di cuore, bello nel volto, del quale non restavano che rare vestigia. Invecchiato, sfinito come il padrone dal continuo lavoro, Lemulquinier non aveva dovuto subire come lui le fatiche della mente; ma la sua fisionomia offriva un singolare miscuglio di inquietudine e di ammirazione per Claës, che ormai cadeva facilmente in errore: Lemulquinier, benché ascoltasse ogni sua minima parola con rispetto e seguisse i suoi minimi movimenti con una specie di tenerezza, aveva cura dello scienziato come una madre del figlio; spesso aveva quasi l'aria di proteggerlo, perché lo proteggeva veramente nelle comuni necessità della vita alle quali Balthazar non pensava mai. Quei due vecchi chiusi dentro un'idea, fiduciosi nella realtà della loro speranza, agitati dallo stesso soffio, rappresentanti l'uno l'involucro e l'altro l'anima della loro esistenza comune, offrivano uno spettacolo orribile e insieme commovente. Quando Marguerite e Conyncks arrivarono, trovarono Claës alloggiato in una locanda, il suo successore non si era fatto aspettare e aveva già preso possesso del posto. In mezzo alle preoccupazioni della Scienza, il desiderio di rivedere il paese natale, la casa, la famiglia tormentava Balthazar; la lettera della figlia gli aveva annunciato lieti avvenimenti ed egli pensava di coronare la propria carriera con una serie di esperimenti che avrebbero dovuto portarlo finalmente alla soluzione del suo problema; attendeva perciò Marguerite con estrema impazienza. La figlia si gettò tra le braccia del padre piangendo di gioia. Questa volta ella veniva a prendere la ricompensa di una vita dolorosa e il perdono della sua gloria domestica. Si sentiva colpevole allo stesso modo dei grandi che violano la libertà per salvare la patria. Ma contemplando il padre, ella rabbrividì nel constatare i cambiamenti che dalla sua ultima visita erano avvenuti in lui. Conyncks condivise lo strazio segreto della nipote, ed insisté per condurre al più presto il cugino a Douai, dove l'influenza del paese nativo poteva rendergli l'equilibrio e la salute, restituendolo alla vita felice del focolare domestico. Dopo le prime effusioni del cuore, che da parte di Balthazar furono più vive di quanto Marguerite non credesse, egli ebbe per lei singolari attenzioni; espresse il rammarico di riceverla in una brutta camera d'albergo, si informò dei suoi gusti, le chiese cosa volesse per colazione con la sollecita premura di un innamorato; ebbe insomma il comportamento di un colpevole che vuol conquistarsi il giudice. Marguerite conosceva il padre così bene che indovinò il motivo di quella tenerezza, supponendo che potesse avere in città alcuni debiti che voleva saldare prima della partenza. Osservò il padre per un po' e vide il cuore umano messo a nudo. Balthazar era tornato bambino. Il sentimento della propria degradazione, l'isolamento nel quale lo metteva la Scienza l'aveva reso timido e debole in tutte le questioni estranee alle sue occupazioni favorite. La figlia maggiore gli faceva soggezione; il ricordo dell'abnegazione di lei, della forza che aveva dimostrato, la coscienza del potere ch'egli le aveva lasciato assumere, il patrimonio di cui ella disponeva e i sentimenti indefinibili che si erano impadroniti di lui dal giorno in cui aveva abdicato alla propria paternità già compromessa, gliel'avevano indubbiamente ingigantita di giorno in giorno. Conyncks pareva non esser più niente agli occhi di Balthazar, egli vedeva solo la figlia e non pensava che a lei, mostrando di temerla come certi mariti deboli temono la moglie superiore che li ha soggiogati; quando alzava gli occhi su di lei, Marguerite vi sorprendeva con dolore un'espressione di timore, simile a quella di un bambino che si sente colpevole. La nobile fanciulla non sapeva come conciliare la maestosa e terribile espressione di quella testa devastata dalla Scienza e dal lavoro, col sorriso puerile, col servilismo ingenuo che si dipingevano sulle labbra e sul volto di Balthazar. Si sentì offesa dal contrasto che presentavano quella grandezza e quell'infantilismo e si ripromise di valersi della propria influenza per far riconquistare al padre tutta la sua dignità in vista del giorno solenne nel quale sarebbe ricomparso in seno alla famiglia. Innanzi tutto colse un momento in cui si trovavano soli per dirgli all'orecchio: «Avete qualche debito qui?».
Balthazar arrossì e rispose con aria imbarazzata: «Non lo so, ma te lo dirà Lemulquinier. Quel bravo ragazzo è
più al corrente dei miei affari di quanto non lo sia io stesso».
Marguerite suonò per il domestico e, quando venne, studiò quasi involontariamente la fisionomia dei due vecchi.
«Il signore desidera qualcosa?», domandò Lemulquinier.
Marguerite, che era tutto orgoglio e nobiltà, ebbe una stretta al cuore accorgendosi, dal tono e dai modi del domestico, che si era instaurata una certa inopportuna familiarità tra il padre e il compagno dei suoi lavori.
«Mio padre non può dunque fare senza di voi il conto di quanto deve pagare qui?», disse Marguerite. «Il signore», riprese Lemulquinier, «deve...».
A quelle parole Balthazar fece al domestico un cenno d'intesa, che Marguerite sorprese e che la umiliò.
«Ditemi tutto ciò che mio padre deve dare», ordinò.
«Il signore deve un migliaio di scudi a un farmacista che ha una drogheria all'ingrosso e che ci ha fornito potassa caustica, piombo, zinco e reattivi».
«È tutto?», chiese Marguerite.
Balthazar ripeté un cenno affermativo a Lemulquinier che, come affascinato dal padrone, rispose: «Sì, signorina».
«Bene», ella riprese, «ve li darò».
Balthazar abbracciò allegramente la figlia dicendole: «Sei un angelo per me, figlia mia».
E respirò più agevolmente guardandola con occhio meno triste ma, nonostante quella gioia, Marguerite scorse facilmente sul suo volto i segni di una profonda inquietudine, e pensò che quei mille scudi costituivano soltanto i debiti urgenti del laboratorio.
«Siate sincero, papà», disse lasciandosi attrarre da lui a sedere sulle sue ginocchia, «dovete ancora qualcos'altro? Confessatemi tutto, tornate nella vostra casa senza serbare alcun residuo di fastidi in mezzo alla gioia generale».
«Mia cara Marguerite», egli disse prendendole le mani e baciandogliele con una grazia che sembrava essere un ricordo della sua giovinezza, «mi sgriderai...».
«No», ella disse.
«Davvero?», egli rispose lasciandosi sfuggire un gesto di gioia infantile, «allora posso dirti tutto, tu
pagherai...».
«Sì», ella rispose frenando le lacrime che le salivano agli occhi.
«Bene, devo... Oh, non oso...».
«Su, dite, papà!».
«È molto», egli riprese.
Ella congiunse le mani con un moto di disperazione.
«Devo dare trentamila franchi a Protez e Chiffreville».
«Trentamila franchi», ella disse, «sono tutti i miei risparmi, ma sono contenta di offrirveli», aggiunse baciandogli la fronte con rispetto.
Egli si alzò, prese la figlia tra le braccia, e la fece saltare come una bambina, girando tutt'intorno alla camera. Poi la rimise sulla poltrona esclamando: «Figlia mia cara, sei un tesoro d'amore! Io non vivevo più. Gli Chiffreville mi hanno scritto tre lettere minacciose e volevano denunciarmi, io che ho fatto guadagnar loro un patrimonio».
«Papà», disse Marguerite con accento di disperazione, «continuate sempre le vostre ricerche?».
«Sempre», disse lui con un sorriso da pazzo. «Troverò, credilo! Se tu sapessi dove siamo arrivati noi!».
«Chi, noi?».
«Parlo di Lemulquinier. Ha finito per capirmi, mi aiuta molto. Povero ragazzo, mi è così affezionato!».
Conyncks entrando interruppe la conversazione, Marguerite fe' cenno al padre di tacere, temendo che si sminuisse agli occhi dello zio. Era spaventata dalla devastazione che l'ansia continua aveva compiuto in quell'alto intelletto assorto nello studio di un problema forse insolubile. Balthazar, che senza dubbio non vedeva altro al di là dei suoi fornelli, non immaginava nemmeno che il suo patrimonio era stato liberato da ogni vincolo. Il giorno dopo partirono per la Fiandra. Il viaggio durò abbastanza perché Marguerite potesse ricevere confuse illuminazioni sulla situazione in cui si trovavano il padre e Lemulquinier. Forse il domestico aveva sul padrone quell'ascendente che sanno prendere sugli spiriti più grandi gli uomini senza educazione quando si sentono necessari: essi, di concessione in concessione, sanno proseguire verso il predominio con la costanza originata da un'idea fissa. Oppure il padrone aveva contratto per il suo domestico quella specie di affetto che nasce dalla consuetudine, simile a quello che un operaio sente per il suo attrezzo di lavoro o l'Arabo per il suo corsiero liberatore. Marguerite spiò alcuni fatti per decidersi, proponendosi di sottrarre Balthazar a un giogo umiliante, se esisteva davvero. Passando per Parigi, vi si fermò alcuni giorni pr pagare i debiti del padre e pregare i fabbricanti di prodotti chimici di non mandar niente a Douai senza prima averla avvisata delle ordinazioni che Claës avrebbe loro fatto. Ottenne dal padre che si cambiasse d'abito e riprendesse le abitudini di vita adatte a un uomo del suo ceto. Questo ripristino della persona restituì a Balthazar una specie di dignità fisica, che fu di buon augurio per un cambiamento d'idee. Subito la figlia, felice in anticipo di tutte le sorprese che attendevano il padre nella sua casa, ripartì per Douai.
A tre leghe dalla città, Balthazar trovò la figlia Félicie a cavallo, scortata dai due fratelli, da Emmanuel, da Pierquin e dagli amici intimi delle tre famiglie. Il viaggio aveva necessariamente distratto il chimico dai suoi pensieri abituali, e la vista della Fiandra aveva influito sul suo cuore; perciò, quando scorse l'allegro corteo che gli formavano la sua famiglia e i suoi amici, provò un'emozione così viva, che gli occhi gli si inumidirono, la voce gli tremò, le palpebre gli diventarono rosse; egli abbracciò così appassionatamente i figli senza riuscire a staccarsene, che quanti assistevano alla scena si commossero fino alle lacrime. Quando rivide la sua casa impallidì, saltò giù dalla carrozza con l'agilità di un giovanotto, respirò con delizia l'aria del cortile e si mise a guardare i minimi particolari con un piacere che traspariva da ogni gesto; si drizzò e il suo volto tornò giovane. Quando entrò nel parlatorio, gli salirono le lacrime agli occhi vedendo, dall'esattezza con la quale la figlia aveva riprodotto gli antichi candelabri d'argento venduti, che i danni dovevano essere stati interamente riparati. Una splendida colazione era pronta nella sala da pranzo, dove le credenze erano state riempite di ninnoli e di argenteria per un valore almeno uguale a quello dei pezzi che vi si trovavano una volta. Benché quel pranzo di famiglia fosse durato a lungo, bastò appena ai racconti che Balthazar esigeva da ognuno dei figli. La scossa impressa al suo spirito da quel ritorno gli fece sposare la felicità della sua famiglia, ed egli poté mostrarsi davvero padre. I suoi modi ripresero la loro antica nobiltà. In un primo momento si diede tutto alla gioia del possesso, senza domandar conto dei mezzi grazie ai quali recuperava tutto quello che aveva perduto. La sua gioia fu pertanto completa e piena. Finita la colazione, i quattro figli, il padre e il notaio Pierquin passarono nel parlatorio, dove Balthazar vide non senza inquietudine alcune carte bollate che uno scrivano aveva messo sopra il tavolo dietro al quale stava come per assistere il suo padrone. I figli sedettero, e Balthazar stupito restò in piedi davanti al caminetto.
«Questo», disse Pierquin, «è il resoconto della tutela che il signor Claës rende ai suoi figli. Benché non sia molto divertente», aggiunse ridendo come fanno i notai che assumono piuttosto di frequente un tono scherzoso parlando degli affari più seri, «bisogna assolutamente che lo ascoltiate».
Sebbene le circostanze giustificassero questa frase, il signor Claës, cui la coscienza richiamava la sua vita passata, la prese per un rimprovero e aggrottò le sopracciglia. Lo scrivano cominciò a leggere. Lo stupore di Balthazar andò crescendo man mano che quell'atto veniva esposto. In esso si stabiliva innanzi tutto che il patrimonio della moglie ammontava, al momento del decesso, a un milione e seicentomila franchi circa, e la conclusione di quella resa dei conti assegnava chiaramente a ciascun figlio una parte intera, come avrebbe potuto amministrarla un attento e buon padre di famiglia. Ne risultava che la casa era libera da ogni ipoteca, che Balthazar era in casa propria, e che i suoi beni rurali erano ugualmente liberi. Quando i diversi atti furono firmati, Pierquin presentò le ricevute delle somme che erano state prese a prestito e i decreti delle ipoteche che pesavano sulle proprietà. In quel momento Balthazar, che riacquistava insieme l'onore di uomo, la vita di padre, la considerazione di cittadino, cadde su una poltrona; cercò Marguerite, che per una di quelle sublimi delicatezze femminili si era assentata durante la lettura per vedere se tutte le sue disposizioni per la festa erano state eseguite. Ogni membro della famiglia capì il pensiero del vecchio nel momento in cui i suoi occhi leggermente velati cercavano la figlia che tutti vedevano in quel momento con gli occhi dell'anima come un angelo di forza e di luce. Lucien andò in cerca di Marguerite. Udendo il passo della figlia, Balthazar le corse incontro e la strinse a sé.
«Papà», ella gli disse ai piedi della scala dove il vecchio l'aveva abbracciata, «vi supplico, non sminuite in niente la vostra santa autorità. Ringraziatemi davanti a tutta la famiglia di aver bene adempiuto le vostre disposizioni, e siate così il solo artefice del bene che si è potuto fare qui».
Balthazar alzò gli occhi al cielo, guardò la figlia, incrociò le braccia e disse, dopo una pausa durante la quale il suo volto riacquistò un'espressione che i figli da dieci anni non gi avevano veduto: «Perché non sei qui, Pepita, per ammirare nostra figlia?». Strinse Marguerite ancora più forte senza poter pronunciare una parola, e rientrò. «Figli miei», disse con quella nobiltà di modi che ne faceva un tempo uno degli uomini più autorevoli, «tutti noi dobbiamo ringraziamenti e riconoscenza a mia figlia Marguerite per la saggezza e il coraggio con cui ha adempiuto le mie disposizioni ed eseguito i miei piani quando, troppo assorto nei miei lavori, le affidai le redini della nostra amministrazione domestica».
«Ah, ora leggeremo i contratti di matrimonio», disse Pierquin guardando l'ora. «Ma quegli atti non mi riguardano, visto che la legge mi proibisce di strumentare per i miei parenti e per me. Lo zio Rapalier verrà al mio posto».
In quel momento arrivarono uno dopo l'altro gli amici di famiglia invitati al pranzo che si dava per festeggiare il ritorno di Claës e celebrare la firma dei contratti, mentre si portavano i regali di nozze. La compagnia aumentò rapidamente e divenne tanto autorevole per la qualità delle persone quanto elegante per la ricchezza degli abiti. Le tre famiglie unite dalla felicità dei loro figli avevano voluto rivaleggiare in splendore. In un istante il parlatorio fu pieno dei gentili presenti che si fanno ai fidanzati. L'oro scorreva e scintillava. Stoffe sciorinate, scialli di lana, collane, gioielli suscitavano una profonda letizia in quelli che donavano e in quelli che ricevevano, e un'allegria quasi infantile brillava talmente su tutti i volti, che il valore di quei magnifici doni era trascurato anche dagli indifferenti, tanto spesso occupati a calcolarlo con curiosa attenzione. Subito cominciò il cerimoniale in uso nella famiglia Claës per quelle solennità. Padre e madre dovevano essere i soli a star seduti, i presenti restavano in piedi a distanza davanti a loro. A sinistra del parlatorio e dalla parte del giardino presero posto Gabriel Claës e la signorina Conyncks, dietro di loro si misero Solis e Marguerite, sua sorella e Pierquin. A qualche passo dalle tre coppie, Balthazar e Conyncks, i soli della compagnia che fossero seduti, presero posto ciascuno su una poltrona, vicino al notaio che sostituiva Pierquin. Jean stava in piedi dietro il padre. Una ventina di donne elegantemente agghindate e alcuni uomini, tutti scelti fra i parenti più stretti dei Pierquin, dei Conyncks e dei Claës, il sindaco di Douai, che doveva unire in matrimonio gli sposi, i dodici testimoni presi tra gli amici più affezionati delle tre famiglie, tra i quali il primo presidente della corte reale, tutti fino al parroco di SaintPierre, restarono in piedi formando, dalla parte del cortile, una cerchia imponente. Quell'omaggio reso da tutta l'assemblea alla paternità che in quell'istante splendeva di una maestà regale, conferiva alla scena un colore antico. Fu il solo momento in cui, dopo sedici anni, Balthazar dimenticò la ricerca dell'Assoluto. Rapalier, il notaio, andò a chiedere a Marguerite e alla sorella se tutte le persone invitate alla firma e al pranzo che sarebbe seguito fossero arrivate e, dietro loro risposta affermativa, tornò a prendere il contratto di matrimonio di Marguerite e Solis, che doveva esser letto per primo, quando all'improvviso la porta del parlatorio si aprì, e apparve Lemulquinier col volto splendente di gioia.
«Signore, signore!».
Balthazar rivolse a Marguerite uno sguardo disperato, le fece un cenno e la condusse in giardino. Tra i
convenuti si diffuse subito una certa agitazione.
«Non osavo dirtelo, bambina mia», disse il padre alla figlia; «ma dal momento che hai fatto tanto per me, mi salverai da quest'ultima disgrazia. Lemulquinier mi ha prestato, per un ultimo esperimento che non è riuscito, ventimila franchi, frutto dei suoi risparmi. Il disgraziato viene senza dubbio a chiedermeli udendo che sono ridiventato ricco; daglieli subito. Angelo mio, devi a lui tuo padre, perché lui solo mi consolava nelle mie sconfitte, lui solo ha ancora fede in me. Senza di lui sarei morto di sicuro...».
«Signore, signore!», gridava Lemulquinier.
«Ebbene?», disse Balthazar voltandosi.
«Un diamante!...».
Claës si precipitò nel parlatorio scorgendo un diamante nella mano del suo domestico, che gli disse sottovoce:
«Sono andato nel laboratorio».
Il chimico, che aveva tutto dimenticato, lanciò un'occhiata al vecchio fiammingo, e quell'occhiata si poteva tradurre solo con queste parole: «Sei andato per primo nel laboratorio!».
«E», disse il domestico continuando, «ho trovato questo diamante nella capsula che comunicava con quella pila che avevamo lasciata in azione, libera di far quel che voleva, ed essa ha fatto, signore», aggiunse mostrando un bianco diamante di forma ottoedrica, il cui splendore attirava gli sguardi stupiti di tutti i presenti.
«Figli miei, amici miei», disse Balthazar, «perdonate al mio vecchio servitore, perdonatemi. Questa cosa mi farà impazzire. In sette anni il caso ha fatto senza di me una scoperta che io cerco da sedici. Come? Non lo so. Sì, avevo lasciato del solfuro di carbonio sotto l'influenza di una pila Volta la cui azione avrebbe dovuto essere sorvegliata ogni giorno. Ebbene, durante la mia assenza, il potere di Dio si è manifestato nel mio laboratorio senza che io abbia potuto constatare i suoi effetti, beninteso progressivi! Non è spaventoso? Maledetto esilio! Maledetto caso! Ahimè, se avessi spiato questa lunga, questa lenta, questa improvvisa non so come dire cristallizzazione, trasformazione, insomma questo miracolo, ebbene, i miei figli sarebbero ancora più ricchi. Benché questa non sia la soluzione del problema che io indago, almeno i primi raggi della mia gloria sarebbero brillati sul mio paese, e questo momento che i nostri affetti appagati rendono così ardente di felicità sarebbe riscaldato anche dal sole della Scienza».
Tutti tacevano davanti a quell'uomo. Le parole senza senso che gli furono strappate dal dolore erano troppo sentite per non essere sublimi.
All'improvviso Balthazar represse nel profondo la propria disperazione, lanciò all'assemblea uno sguardo solenne, che brillò nelle anime, prese il diamante e l'offrì a Marguerite esclamando: «Ti appartiene, angelo mio».
Mandò via Lemulquinier con un gesto e disse al notaio: «Continuiamo».
Quella parola suscitò in tutti il brivido che in certe interpretazioni provocava TalmaéFU6è1 sul pubblico attento. Balthazar si era seduto dicendo sottovoce: «Oggi devo essere soltanto padre».
Marguerite udì queste parole, si spinse avanti, prese la mano del padre e la baciò rispettosamente.
«Mai un uomo è stato così grande», disse Emmanuel quando la fidanzata tornò vicino a lui. «Mai uomo è stato così forte, chiunque altro sarebbe diventato pazzo».
Letti e firmati i tre contratti, tutti si affrettarono a interrogare Balthazar sul modo come s'era formato quel diamante, ma egli non poteva dir niente su quel fatto così strano. Guardò la soffitta, e la indicò con un gesto di rabbia: «Sì, la potenza spaventosa dovuta al movimento della materia infiammata che senza dubbio ha creato i metalli, i diamanti», disse, «si è manifestata là un momento, per caso».
«Quel caso è senza dubbio molto naturale», disse uno di quelli che vogliono spiegare tutto, «il brav'uomo avrà dimenticato qualche diamante vero. Tanto di risparmiato su quelli che ha bruciati».
«Dimentichiamo questa faccenda», disse Balthazar agli amici, «vi prego di non parlarmene per oggi».
Marguerite prese il braccio del padre per recarsi negli appartamenti della casa davanti, dove lo attendeva una
festa sontuosa. Quando Balthazar entrò nella galleria dietro a tutti gli ospiti, la vide rivestita di quadri e piena di fiori rari.
«Quadri!», esclamò, «quadri, e alcuni dei nostri!».
Si fermò, la fronte gli si rabbuiò, ebbe un momento di tristezza e sentì allora il peso dei suoi errori, misurando la profondità della propria segreta umiliazione.
«Tutto questo è vostro, papà», disse Marguerite indovinando i sentimenti che agitavano l'anima di Balthazar.
«Angelo che gli spiriti celesti devono applaudire», egli esclamò, «quante volte hai dunque dato la vita a tuo padre?».
«Non abbiate più alcuna nube sulla fronte, né il minimo pensiero triste in cuore», ella rispose, «e mi avrete ricompensata oltre le mie speranze. Ho pensato a Lemulquinier, caro papà, il poco che mi avete detto di lui me lo fa stimare, e io, lo confesso, avevo giudicato male quell'uomo; non pensate più a quel che gli dovete, rimarrà vicino a voi come un umile amico. Emmanuel possiede circa sessantamila franchi di risparmi, li daremo a Lemulquinier. Dopo avervi servito così bene, quell'uomo deve essere felice per il resto dei suoi giorni. Non preoccupatevi per noi! Solis e io avremo una vita calma e dolce, una vita senza fasto; possiamo perciò fare a meno di quella somma fino a quando ce la restituirete».
«Ah, figlia mia, non abbandonarmi mai! Sii sempre la provvidenza di tuo padre».
Entrando negli appartamenti degli ospiti, Balthazar li trovò restaurati e arredati con la stessa magnificenza di un tempo. Subito i convitati si portarono nella grande sala da pranzo del pianterreno, passando per lo scalone, su ciascun gradino del quale si trovavano piante in fiore. Un servizio d'argento di meravigliosa fattura offerto da Gabriel al padre attirava gli sguardi insieme a una ricchezza di cibi che parve incredibile perfino ai maggiorenti di una città dove quel lusso è tradizionalmente una moda. I domestici di Conyncks, quelli di Claës e di Pierquin erano là per servire il pranzo sontuoso. Vedendosi al centro di una tavolata di parenti e di amici, sui cui volti splendeva una gioia viva e sincera, Balthazar, dietro al quale stava Lemulquinier, provò un'emozione così profonda, che tutti tacquero, come si tace in presenza di grandi gioie o di grandi dolori.
«Figli cari», esclamò, «avete ucciso il vitello grasso per il ritorno del padre prodigo».
Queste parole, con le quali lo scienziato si giudicava da sé e che forse impedivano che altri lo giudicassero con maggior severità, furono pronunciate così nobilmente, che tutti, commossi, si asciugarono le lacrime; ma fu l'ultima manifestazione di malinconia, la gioia prese insensibilmente il carattere rumoroso e animato che caratterizza le feste di famiglia. Dopo cena, arrivarono altri personaggi in vista per il ballo, che fu all'altezza del classico splendore della rinnovata Casa Claës. I tre matrimoni furono celebrati subito dopo e diedero luogo a feste, balli, pranzi che per parecchi mesi trascinarono il vecchio Claës nel turbine della mondanità. Il figlio maggiore andò a stabilirsi nei pressi di Cambrai, in una proprietà di Conyncks, che non voleva a nessun costo separarsi dalla figlia. La signora Pierquin dovette anch'essa lasciare la dimora paterna per far gli onori di casa nel palazzo che Pierquin si era fatto costruire e dove voleva vivere da nobile, giacché aveva ceduto il proprio studio e lo zio Des Raquets era morto lasciandogli tesori lentamente accumulati. Jean partì per Parigi a compiervi la propria educazione. I Solis, invece, restarono accanto al padre, che lasciò loro il quartiere posteriore, prendendo alloggio al secondo piano di quello anteriore. Marguerite continuò a vegliare sulla felicità materiale di Balthazar, aiutata in quel dolce compito da Emmanuel. La nobile fanciulla ricevette dalle mani dell'amore la corona più ambita, quella che intreccia la felicità e il cui splendore è mantenuto dalla costanza. In realtà, nessuna coppia mai offrì meglio l'immagine di quella felicità completa, riconosciuta, pura che tutte le donne accarezzano nei loro sogni. L'unione di quei due esseri così coraggiosi nelle prove della vita, di quei due esseri che si erano così santamente amati, suscitò in città una rispettosa ammirazione. Solis, nominato da parecchio tempo ispettore generale dell'Università, diede le dimissioni per meglio godere la propria gioia e restare a Douai. Qui tutti rendevano un tale omaggio alle sue doti e al suo carattere, che il nome era già designato per le elezioni dei collegi elettorali quando fosse venuta per lui l'età di esser deputato. Marguerite, che si era dimostrata così forte nella sventura, tornò ad essere nella felicità una donna dolce e buona. In quell'anno Claës fu senza dubbio gravemente preoccupato; ma pur facendo alcuni esperimenti poco costosi e per i quali erano sufficienti i suoi redditi, parve trascurare il laboratorio. Marguerite, che aveva ripreso le antiche abitudini di Casa Claës, dava tutti i mesi, in onore di suo padre, una festa di famiglia alla quale partecipavano i Pierquin e i Conyncks, e riceveva la migliore società cittadina un giorno alla settimana, tenendo così un salotto che divenne uno dei più famosi. Benché spesso distratto, Claës partecipava a tutte le adunanze, e per compiacere la figlia maggiore ridiventò così piacevolmente uomo di mondo, che i figli arrivarono a credere che avesse rinunciato a cercare la soluzione del suo problema. Passarono in tal modo tre anni.
Nel 1828 un avvenimento favorevole ad Emmanuel lo chiamò in Spagna. Benché tra lui e i beni della famiglia Solis vi fossero tre rami di famiglie numerose, la febbre gialla, la vecchiaia, la sterilità e tutti i capricci della fortuna si combinarono per rendere Emmanuel erede dei titoli e delle ricche eredità della casa, proprio lui che era l'ultimo. Per uno di quei casi che sono inverosimili soltanto nei libri, la famiglia Solis aveva così acquistato anche la contea di Nourho. Marguerite non volle separarsi dal marito, che doveva rimanere in Spagna per tutto il tempo richiesto dai suoi affari, e d'altronde era curiosa di vedere il castello di Casa-Real, dove la madre aveva trascorso l'infanzia, e la città di Granata, culla patrimoniale della famiglia Solis. Partì, affidando l'amministrazione della casa alla devozione di Martha, di Josette e di Lemulquinier, che avevano l'abitudine di governarla. Balthazar, al quale Marguerite aveva proposto il viaggio in Spagna, vi si era rifiutato, allegando il pretesto della tarda età; ma la vera ragione del suo rifiuto furono parecchi lavori meditati da lungo tempo, che avrebbero dovuto realizzare le sue speranze.
Il conte e la contessa di Solis y Nourho restarono in Spagna più a lungo del previsto. Marguerite ebbe là un figlio. Verso la metà del 1830, si trovavano a Cadice, dove contavano di imbarcarsi per tornare in Francia, attraverso l'Italia; ma ricevettero là una lettera nella quale Félicie dava tristi notizie alla sorella. In diciotto mesi il padre si era completamente rovinato. Gabriel e Pierquin erano costretti a consegnare a Lemulquinier una somma mensile per provvedere alle spese della casa. Il vecchio domestico aveva ancora una volta sacrificato il suo patrimonio al padrone. Balthazar non voleva ricevere nessuno e non ammetteva in casa nemmeno i suoi figli. Josette e Martha erano morte. Il cocchiere, il cuoco e gli altri domestici erano stati uno alla volta licenziati. I cavalli e le carrozze erano stati venduti. Sebbene Lemulquinier mantenesse il più profondo segreto sulle abitudini del padrone, era da credere che i mille franchi dati ogni mese da Gabriel Claës e da Pierquin venissero impiegati in esperimenti. Le poche provviste che il domestico acquistava al mercato facevano supporre che i due vecchi si accontentassero dello stretto necessario. Infine, per non lasciar vendere la casa paterna, Gabriel e Pierquin pagavano gli interessi delle somme che il vecchio aveva avuto in prestito, a loro insaputa, su quell'immobile. Nessuno dei figli aveva influenza su Claës che, a settant'anni, dimostrava un'energia straordinaria per arrivare a fare tutto quanto voleva, anche le cose più assurde. Solo Marguerite poteva, forse, riprendere il potere che aveva già esercitato su Balthazar, e Félicie supplicava la sorella di tornare presto; temeva che il padre avesse firmato delle cambiali. Gabriel, Conyncks e Pierquin, sconvolti dal perdurare di quella follia che aveva fatto svanire circa sette milioni senza alcun risultato, erano decisi a non pagare i debiti di Claës. Quella lettera cambiò i programmi di viaggio di Marguerite, che prese la strada più breve per raggiungere Douai. I suoi risparmi e il suo nuovo patrimonio le permettevano certamente di estinguere ancora una volta i debiti del padre; ma ella voleva di più, voleva obbedire alla madre, non permettendo che Balthazar scendesse nella tomba disonorato. Certamente lei sola poteva avere abbastanza ascendente sul vecchio per impedirgli di continuare la sua opera rovinosa in un'età in cui non ci si poteva aspettare alcun lavoro fruttuoso dalle sue facoltà indebolite. Ma ella desiderava dirigerlo senza offenderlo, per non essere simile ai figli di Sofocle, nel caso in cui il padre si fosse avvicinato al fine scientifico al quale aveva tanto sacrificato.
I Solis raggiunsero la Fiandra negli ultimi giorni di settembre del 1831 e arrivarono a Douai di mattina. Marguerite fece fermare davanti alla sua casa di rue de Paris e la trovò chiusa. Il cordone del campanello fu tirato violentemente senza che nessuno rispondesse. Un mercante lasciò la soglia della sua bottega, dove l'aveva richiamato il rumore delle carrozze di Solis e del seguito. Molte persone stavano alla finestra per godere lo spettacolo offerto dal ritorno di una famiglia amata in tutta la città, e attirate anche da una vaga curiosità per gli avvenimenti che l'arrivo di Marguerite faceva immaginare si sarebbero svolti in casa Claës. Il mercante disse al domestico del conte di Solis che il vecchio Claës era uscito da circa un'ora. Senza dubbio il signor Lemulquinier accompagnava il padrone a passeggiare sui bastioni. Marguerite mandò a cercare un fabbro per aprire la porta, onde evitare la scena che le avrebbe preparato la resistenza del padre se, come le aveva scritto Félicie, si fosse rifiutato di riceverla in casa. Nel frattempo Emmanuel andò in cerca del vecchio per annunciargli l'arrivo della figlia, mentre il suo cameriere correva ad avvertire i Pierquin. In un attimo la porta fu aperta. Marguerite entrò nel parlatorio per farvi mettere i bagagli, e rabbrividì di spavento vedendo i muri nudi come se vi si fosse appiccato il fuoco. I meravigliosi rivestimenti di legno scolpiti da Van Huysium e il ritratto del Presidente erano stati venduti, si disse, a lord Spencer. La sala da pranzo era spoglia, non c'erano che due sedie di paglia e un tavolo comune, sul quale Marguerite scorse con terrore due piatti, due bicchieri, due posate d'argento e sopra un vassoio i resti di una aringa affumicata che Claës e il domestico si erano senza dubbio divisa. In un istante percorse la casa, ogni stanza della quale le offriva il desolante spettacolo di una nudità simile a quella del parlatorio e della sala da pranzo. L'idea dell'Assoluto era passata da per tutto come un incendio. Per unico arredamento, la camera del padre aveva un letto, una sedia e un tavolo, sul quale c'era un brutto candelabro di rame, dove la sera prima aveva finito di ardere un mozzicone di candela della peggior qualità. La spoliazione era così completa, che non c'erano più tende alle finestre. I minimi oggetti che potevano avere un valore in casa, perfino gli utensili di cucina, tutto era stato venduto. Tormentata dalla curiosità che non ci abbandona nemmeno nella sventura, Marguerite entrò nella camera di Lemulquinier: era nuda come quella del suo padrone. Nel cassetto semiaperto del tavolo scorse una ricevuta del Monte di Pietà attestante che il domestico aveva impegnato qualche giorno prima il proprio orologio. Corse nel laboratorio, e vide la stanza piena di strumenti scientifici come in passato. Si fece aprire il proprio appartamento; là il padre aveva rispettato tutto.
Alla prima occhiata che vi gettò, Marguerite scoppiò in lacrime e perdonò tutto al padre. In mezzo a quella furia devastatrice era stato dunque frenato dal sentimento paterno e dalla riconoscenza che doveva alla figlia! Quella prova di tenerezza ricevuta in un momento in cui la disperazione di Marguerite era al colmo, determinò una di quelle reazioni spirituali cui non possono resistere neanche i cuori più freddi. Scese nel parlatorio e aspettò l'arrivo del padre con un'ansia che il dubbio accresceva spaventosamente. Come lo avrebbe trovato? Distrutto, decrepito, sofferente, indebolito dai digiuni che sopportava per orgoglio? Ma sarebbe stato in sé? Le scorrevano lacrime dagli occhi senza che se ne accorgesse, ritrovando quel santuario devastato. Le immagini di tutta la sua vita, gli sforzi, le precauzioni inutili, l'infanzia, la madre felice e infelice, tutto, perfino la vista del suo piccolo Joseph che sorrideva a quello spettacolo di desolazione, le componeva un poema di strazianti malinconie. Ma, sebbene presagisse disgrazie, non si aspettava la fine che doveva coronare la vita del padre, quella vita così grandiosa e così miserabile a un tempo. Lo stato in cui si trovava Claës non era più un segreto per nessuno. A vergogna umana, non si trovavano a Douai due sole anime generose che rendessero onore alla sua perseveranza d'uomo di genio. Per l'intera società Balthazar era un uomo da interdire, un cattivo padre, che si era mangiato sei patrimoni e vari milioni, e che cercava la pietra filosofale nel secolo XIX, quel secolo illuminato, quel secolo incredulo, quel secolo ecc... Lo calunniavano bollandolo col nome di alchimista, gettandogli in faccia queste parole: «Vuol far l'oro!». Quanti elogi si pronunciavano su questo secolo nel quale, come in tutti gli altri, l'ingegno muore sotto un'indifferenza brutale come quella dei tempi in cui morirono Dante, Cervantes, Tasso e tutti quanti.éFU6è1 I popoli comprendono le creazioni del genio ancora più tardi di quanto facessero i re.
Queste opinioni erano insensibilmente filtrate dall'alta società duacese nella borghesia, e dalla borghesia nel basso popolo. Il chimico settuagenario suscitava un profondo senso di commiserazione negli uomini bene educati e una curiosità beffarda nel popolo, entrambe grossolane espressioni di disprezzo e di quel vae victis con il quale gli uomini grandi sono oppressi dalle masse quando li vedono in miseria. Molte persone venivano davanti alla Casa Claës per indicarsi il rosone della soffitta, dove s'erano consumati tanto oro e tanto carbone. Quando Balthazar passava, era segnato a dito; spesso al suo apparire una parola di scherno o di pietà sfuggiva dalle labbra di un uomo del popolo o di un fanciullo; ma Lemulquinier aveva cura di tradurgliela come un elogio e poteva in qualche modo ingannarlo. Se gli occhi di Balthazar avevano conservato quella luminosità sublime che vi imprime l'abitudine ai pensieri elevati, il senso dell'udito si era in lui fatto più debole. Per molti contadini, gente rozza e superstiziosa, quel vecchio era addirittura uno stregone. La nobile, la grande Casa Claës veniva chiamata, nei sobborghi e in campagna, la casa del diavolo. Non c'era niente di più adatto che la faccia di Lemulquinier per prestarsi alle ridicole credenze che si erano diffuse sul suo padrone. Per questo, quando il povero vecchio ilota andava al mercato a comperare i cibi necessari per sopravvivere, e prendeva i meno costosi di tutti, non otteneva niente senza che gli venisse, a mo' di facezia, buttata anche qualche ingiuria; e poteva anche dirsi fortunato se, come spesso accadeva, qualche mercantessa superstiziosa non si rifiutava di vendergli la magra vivanda, temendo di dannarsi per il contatto con un ministro dell'inferno. I sentimenti di tutta la città erano dunque generalmente ostili al nobile vegliardo e al suo compagno. Vi contribuiva anche il disordine degli abiti dell'uno e dell'altro: andavano vestiti come quei mendicanti vergognosi che serbano un'apparenza decente ed esitano a chiedere l'elemosina. Doveva arrivare il giorno in cui i due vecchi sarebbero stati insultati. Pierquin, intuendo quanto disonorante sarebbe stata per la famiglia una offesa pubblica, mandava sempre, durante le passeggiate del suocero, due o tre domestici, che lo circondavano a distanza con l'incarico di proteggerlo, giacché la rivoluzione di luglio non aveva certo contribuito a rendere il popolo rispettoso.
Per una di quelle fatalità che non si spiegano, Claës e Lemulquinier, usciti di buon mattino, avevano eluso la
sorveglianza segreta dei Pierquin e si trovavano soli in città. Al ritorno dalla loro passeggiata, andarono a sedersi al sole su una panchina di piazza Saint-Jacques, dove alcuni ragazzi passavano per andare a scuola o in collegio. Scorgendo da lontano quei due vecchi senza difesa, il viso dei quali si rasserenava al sole, i ragazzi si misero a parlarne. Solitamente i discorsi infantili arrivano presto al riso; dal riso passarono allo scherno senza intenderne la crudeltà. Sette o otto dei primi arrivati si tennero a distanza e si misero ad esaminare i due vecchi, trattenendo risa soffocate che attirarono l'attenzione di Lemulquinier.
«To', vedi quello che ha la testa come un ginocchio?».
«Sì».
«Bene, è un sapiente nato».
«Papà dice che fa l'oro», aggiunse un altro.
«Per dove? Per di qua o per di là?», aggiunse un terzo mostrando con un gesto beffardo quella parte del loro corpo che gli scolari si mostrano tanto spesso in segno di scherno.
Il più piccolo della brigata, che aveva il cestino pieno di provviste e leccava una tartina imburrata, s'inoltrò ingenuamente verso la panchina e disse a Lemulquinier:
«È vero, signore, che voi fate perle e diamanti?».
«Sì, soldatino», rispose Lemulquinier sorridendo e dandogli un buffetto sulla guancia, «te ne daremo quando
farai il bravo».
«Ah, datene anche a me», fu un'esclamazione generale.
Tutti i ragazzi accorsero come un nuvolo d'uccelli e circondarono i due chimici. Balthazar, assorto in una meditazione dalla quale fu risvegliato da quelle grida, fece allora un gesto di stupore che provocò una risata generale.
«Andiamo, monelli, rispetto per un uomo grande!», disse Lemulquinier.
«Merdoso!», gridarono i ragazzi. «Siete degli stregoni! Sì, stregoni, vecchi stregoni, puah!».
Lemulquinier si alzò e minacciò col bastone i ragazzi, che fuggirono raccogliendo terra e sassi. Un operaio, che faceva colazione a qualche passo di distanza, avendo visto Lemulquinier alzare il bastone per mandar via i ragazzi, credette che li avesse colpiti e li appoggiò con queste parole terribili: «Abbasso gli stregoni!».
I ragazzi, sentendosi sostenuti, lanciarono i loro proiettili, che raggiunsero i due vecchi nel momento in cui appariva sulla piazza il conte di Solis accompagnato dai domestici di Pierquin. Non arrivarono in tempo per impedire ai ragazzi di coprire di fango il nobile vegliardo e il suo domestico. Il colpo era arrivato a segno. Balthazar, le cui facoltà erano state fino a quel momento conservate dalla purezza tipica degli scienziati nei quali l'idea di una scoperta cancella le passioni, in un lampo intuì il perché di quella scena; il suo corpo decrepito si irrigidì per la terribile reazione verificatasi nella sfera superiore dei sentimenti; egli cadde colpito da un attacco di paralisi tra le braccia di Lemulquinier, che lo portò a casa in barella, circondato dai due generi e dai domestici. Nessuno poté impedire alla plebaglia di Douai di scortare il vegliardo fino alla porta di casa, dove si trovavano Félicie e i suoi figli, Jean, Marguerite e Gabriel, che, avvisato dalla sorella, era arrivato da Cambrai con la moglie. Fu uno spettacolo straziante veder entrare quel vecchio che si dibatteva non tanto contro la morte quanto contro l'orrore di vedere i figli scoprire il segreto della sua miseria. Subito fu allestito un letto in mezzo al parlatorio e si prodigarono cure a Balthazar il cui stato permise, verso la fine della giornata, di nutrire qualche speranza di salvezza. La paralisi, benché abilmente combattuta, lo lasciò tuttavia per parecchio tempo in uno stato simile all'infanzia. Quando la malattia, un po' alla volta, regredì, la lingua rimase tuttavia particolarmente colpita, forse perché l'ira aveva fatto convergere là tutte le forze del vecchio nel momento in cui aveva voluto apostrofare i ragazzi.
Quella scena aveva suscitato in città un'indignazione generale. Per un fenomeno fino a quel momento non
verificatosi che dirige i sentimenti delle masse, quel fatto riportò tutti gli animi dalla parte di Claës. In un attimo egli diventò un uomo grande, suscitò ammirazione e ottenne tutti i sentimenti che il giorno prima gli venivano rifiutati. Tutti elogiarono la sua pazienza, la sua volontà, il suo coraggio, il suo genio. I magistrati volevano perseguire quelli che avevano partecipato al fattaccio; ma il male era fatto. La famiglia Claës fu la prima a chiedere che la cosa fosse messa a tacere. Marguerite aveva ordinato di arredare il parlatorio, le cui nude pareti furono presto rivestite di seta. Quando, alcuni giorni dopo quell'episodio, il vecchio ebbe recuperato le sue facoltà e si ritrovò in un ambiente elegante, circondato da tutto ciò che era necessario alla vita felice, fece capire di aver compreso che era arrivata la figlia Marguerite, proprio nel momento in cui ella entrava nel parlatorio; vedendola, Balthazar arrossì, e gli occhi gli si bagnarono senza che ne uscissero lacrime. Poté stringere con le dita gelide la mano della figlia e mise in quella stretta tutti i sentimenti e tutti i pensieri che non poteva esprimere. Fu qualcosa di sacro e di solenne, l'addio del cervello che viveva ancora, del cuore che la riconoscenza riaccendeva. Sfinito dai suoi tentativi infruttuosi, stanco della sua lotta con un problema gigantesco, e forse disperato dell'oblio che lo attendeva dopo la morte, quel gigante doveva cessare di vivere; tutti i suoi figli lo circondavano di un sentimento di rispetto, cosicché i suoi occhi poterono essere ricreati dalla vista dell'abbondanza e della ricchezza e dal quadro commovente che gli offriva la sua bella famiglia. Fu sempre affettuoso negli sguardi coi quali poteva manifestare i suoi sentimenti; i suoi occhi assunsero presto una così grande varietà d'espressione, che ebbero come un linguaggio di luce, facile a comprendersi. Marguerite pagò i debiti del padre e in pochi giorni restituì alla Casa Claës un rinnovato splendore, che doveva allontanare ogni idea di decadenza. Non lasciò più il capezzale di Balthazar, di cui si sforzava di indovinare tutti i pensieri e di esaudire ogni minimo desiderio. Passarono alcuni mesi nell'alternativa di miglioramenti e di ricadute, che nei vecchi è indizio di lotta tra la vita e la morte; tutte le mattine i suoi figli andavano da lui, restavano durante il giorno nel parlatorio pranzando davanti al letto, e ne uscivano solo quando egli si addormentava. La distrazione che gli piacque maggiormente fra tutte quelle che si cercava di dargli fu la lettura dei giornali, che gli avvenimenti politici rendevano allora molto interessanti. Claës ascoltava attentamente la lettura che Solis faceva a voce alta vicino a lui.
Verso la fine del 1832, Balthazar passò una notte estremamente critica, durante la quale il dottor Pierquin fu chiamato dall'infermiera, spaventata da un cambiamento improvviso che si era verificato nell'ammalato; infatti il medico volle vegliarlo temendo ad ogni istante che spirasse negli spasimi di una crisi le cui manifestazioni avevano il carattere dell'agonia.
Il vegliardo aveva movimenti di una forza incredibile, come per scuotersi dai lacci della paralisi; desiderava parlare e agitava la lingua senza poter emettere suoni; gli occhi fiammeggianti proiettavano pensieri, i lineamenti contratti esprimevano sofferenze inaudite, le mani si agitavano disperatamente, sudava a grosse gocce. Al mattino i figli giunsero ad abbracciare il padre con quell'affetto che il timore della sua prossima morte faceva loro manifestare ogni giorno più ardente e più vivo; ma egli non dimostrò loro la soddisfazione che gli procuravano abitualmente quelle espressioni di tenerezza. Emmanuel, avvertito da Pierquin, si affrettò a prendere il giornale per vedere se quella lettura sarebbe stata un diversivo ai tormenti interiori che travagliavano Balthazar. Aprendo il foglio, vide queste parole, scoperta dell'assoluto, che lo colpirono vivamente, e lesse a Marguerite un articolo dove si parlava di un processo riguardante la vendita di formule sull'Assoluto, fatta da un celebre matematico polacco. Benché Emmanuel avesse letto sottovoce la notizia del fatto a Marguerite, che lo pregò di saltare l'articolo, Balthazar aveva sentito. All'improvviso il moribondo si drizzò sui pugni, gettò sui figli spaventati uno sguardo che li investì tutti come un lampo, i capelli che gli crescevano sulla nuca si agitarono, le rughe si contrassero, il volto si illuminò d'uno spirito di fuoco, un soffio passò su quel viso e lo rese sublime, sollevò una mano contratta dalla rabbia e gridò con voce tonante la famosa parola di Archimede: EUREKA! (Ho trovato). Ricadde sul letto col rumore pesante di un corpo inerte, morì mandando un gemito orribile, e i suoi occhi convulsi espressero fino al momento in cui il medico li chiuse il rimpianto di non aver potuto lasciare in eredità alla Scienza la parola chiave di un enigma il cui velo troppo tardi si era squarciato sotto le dita scarnificate della Morte.
Parigi, giugno-settembre 1834