giovedì 16 aprile 2020


LA SPADA
Tommaso Landolfi

Rizzoli Editore 

Nota 
Il grandissino scrittore Tommaso Landolfi. Nei suoi racconti ci permette di capire   come nella superficialità appaia  il profondo e nel profondo soggiorni il mistero.  l’uomo non è che un “bruscolo vagante” e il narratore non può che essere una sorta di “viaggiatore incantato” che fa la cronaca. Nei racconti irrompe il fantastico, l’assurdo, l’orrorifico, il fiabesco, e tutto a dimostrazione del complesso mistero che scaturisce dalla Terra; una Terra che, vicina ad una visione pagana, sembra abitata da esseri fantastici, e che un po’ cinica e un po’ burlona, tragicomicamente esprime se stessa. (http://micromovimenti.blogspot.com/2013/06/tommaso-landolfi-la-spada.html?m=1)

Indice 


Nota alla prima edizione
La spada
La tenia mistica
La spada
Il babbo di Kafka 12 
Lettera di un romantico gotico 14 
La notte provinciale 17 
Il ladro 20 
La paura 23 
Il matrimonio segreto 26 
Una cronaca brigantesca 30 
Da: «La melotecnica esposta al popolo» 36 
CAP. MCMLVIIII: DEL PESO E DELLA CONSISTENZA DELLE NOTE 37 
CAP. MCMLX: DEL COLORE DELLE NOTE 38 
CAP. MCMLXI: DI ALTRE PARTICOLARITÀ FISICHE DELLE NOTE 40 
NUOVE RIVELAZIONI SULLA PSICHE UMANA. L’UOMO DI MANNHEIM* 43 
(RELAZIONE LETTA ALLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DALL’ON. ONISSAMOT IFLODNAL, ARZEBEIGIANO) 44 
Voltaluna 59 
Colpo di sole 61 
Il fuoco 63 
Il racconto della piattola 66 


Nota alla prima edizione 



Dopo la ristampa di Dialogo dei massimi sistemi e Il Mar delle Blatte, viene riproposto ora, nel piano delle Opere di Landolfi, il volume di racconti La spada. 
L’attuale edizione di quest’opera rappresenta per i lettori una novità, in quanto fino ad oggi non era mai stata pubblicata singolarmente. 
Infatti, nel volume pubblicato da Vallecchi nel 1942, i racconti di La spada erano preceduti da Il Mar delle Blatte, che veniva ristampato in quell’occasione dopo la prima edizione del 1939 pubblicata in 555 esemplari dalle Edizioni della Cometa. 
A questa edizione, ha fatto seguito una seconda, nel 1944; successivamente, sia i racconti di Il Mar delle Blatte che quelli di La spada sono stati raccolti nel volume antologico Racconti del 1961. Il testo qui riprodotto è quello che compare nell’edizione del 1961 approvato dall’Autore. 
  

LA SPADA

La tenia mistica

Addormentatosi il padre le Coëdic, intorno al 1749, in uno spesso bosco, fu rapito da vento impetuoso che lo portò nei gelidi reami della Lapponia, presso un antro oscuro; per cui egli discese nelle viscere del nostro globo. Trovò qui un’immane rocca ove abitava il padre Mersenne, il fedele cartesiano, e molti altri discepoli del maestro, ritiratosi lui stesso a vivere sotterra. E qui il padre le Coëdic apprese tutto quanto desiderava, e l’origine di tutte le cose: «con che forza la calamita attiri il ferro, donde derivino i terremoti, di che sia formata la coda delle comete, perché il tuono brontoli nel luminoso seno dell’etere, quale sia la natura del sole ». 
Qualche anno appena prima di lui Nicholaus Klimius, o volgarmente Niel Klim, visitava una caverna della sua Norvegia donde uscivano suoni simili a singhiozzi; volle calarsi nel fondo, la corda si ruppe, egli precipitò. Infine si trovò in un’aria chiara come la nostra e prese piede sul pianeta Nazar. 
Nazar è posto al centro della terra e abitato unicamente da alberi. Ma non solo Nazar, molti astri compiono quivi le loro rivoluzioni, la Martinia, Mezendor, abitati da strumenti musicali, da scimmie, da mostri e portenti d’ogni sorta; gente di strani costumi, eppure, talvolta, singolarmente più ragionevoli dei nostri... Nelle regioni glaciali di Mezendor, appunto, è l’impero degli Esseri Universali. Ogni bestia, ogni pianta è dotata di ragione; un senato d’elefanti, una corte di camaleonti, i tribunali presieduti e composti da alberi, un Foro di piche, sono fra le meritorie istituzioni di quest’Impero. E le volpi sono ambasciatori, i corvi esecutori testamentari, i montoni o capri grammatici, i cavalli consoli. 
Purtroppo però non posso qui dilungarmi sulle varie avventure e sui vari incontri del Norvegese, né ciò d’altronde era, pel momento, nelle mie intenzioni. Gioverà invece notare di passata che la sapienza di Niel Klim (il quale era un esimio baccelliere) non sembra essere stata molto apprezzata laggiù. Gli alberi di Nazar, cui natura ha concesso appena la camminatura e velocità delle comuni tartarughe, lo impiegarono tutt’al più come staffetta, o galoppino, a corte (il principe pronunciò infatti le parole «spik autri flok skak mak tabu mihalatti» che consacrano tale nomina; si noti il famigerato «tabu»). Le scimmie della Martinia, che pure passano tutto il loro tempo a infioccarsi la coda, lo giudicarono così tardo e ottuso da soprannominarlo «Kakidoran», cioè lo Scemo. Solo gli abitanti della terra di Quama, veri selvaggi senza idea di nulla, lo elevarono a dignità regale col titolo di «Pikil-fu», o Inviato del Sole. 
Le quali suaccennate cose ci offrono materia bastante a considerare. Di che poco momento, lettore, è quanto si trova e avviene sulla terrestre crosta, appetto a quanto si trova e avviene nel profondo! Ove gli alberi e le fiere parlano, l’umana sapienza non è prezzata, e molte cose si veggono più chiare, di molte (se non di tutte come afferma il padre le Coëdic) si discopre l’origine. Il seno della terra, lo vedemmo, singhiozza, in esso si convolgono astri. Giacché, al pari delle altre stelle dello spazio, l’intera Terra è un gran corpo vivente (è anzi il nostro vero corpo, e noi stessi i suoi vaganti bruscoli), e certo incantevoli e leggiadri, o per converso terribili e minacciosi ne sono i mille aspetti. Ma più violenta e abbondevole vita s’agita nelle sue viscere, e innanzi a questa interna, che è quella di fuori? 
In prova di che citerò qui l’opinione del divino Restif (de la Bretonne, di cui altra volta dirò come merita; restif s’intende al giogo di ogni volgare pregiudizio) il quale ciò disse come meglio non si potrebbe: «Oltre l’animazione della Terra, di tutti gli altri pianeti e del sole, a cui io credo fermissimamente, penso ancora che il loro interno sia popolato di vasti animali, la cui grandezza è assai più considerevole di quelli generati dal pattume degli umori e dalle parti calde della sua epidermide» (sic). 
Il medesimo divino Restif calcolò anzi, in 9000 leghe, la lunghezza del verme solitario della Terra. Nel cui nome appunto (non intendo già proprio del verme solitario, sì piuttosto del divino Restif) voglio che sia dato principio a questa serie di notazioni.  


La spada 

Una notte Renato di Pescogianturco-Longino, rovistando fra il retaggio degli avi... Occorre però dire brevemente in che consistesse questo retaggio. I PescogianturcoLongino, a prescindere dagli avi crociati, erano stati tutti gente più o meno solida (come suol dirsi), si erano occupati dell’amministrazione dei propri beni, e della prosperità della famiglia in generale; fino ad arrivare al padre di Renato, buon’anima, che rappresentava quasi l’anello di congiunzione fra quell’edificante serie di gentiluomini e suo figlio. Questi, in poche parole, non era mai riuscito a combinare alcunché di buono, era fantastico capriccioso estremamente sensibile, e sopratutto pigro oltremisura: un malinconico scialacquatore. Insomma la sua illustre prosapia pareva destinata a corrompersi pienamente e da ultimo a estinguersi in lui; poiché l’apparire d’uno di questi cotali danna le più antiche famiglie a certa morte. È mirabile inoltre considerare in quanto breve tempo la prosperità di cui dicemmo si tramutasse in istento e poi in neghittosa miseria: nel corso di due sole generazioni. Eppure fu così; e, quanto a Renato, egli poteva benissimo considerare unico, o quasi, retaggio degli avi il vario e preclaro ciarpame sparso per le soffitte del maniero, all’infuori del maniero stesso. Dove, per tagliar corto ai preamboli, ormai s’era ridotto a vivere in penuria di mezzi. 
Quella notte, si diceva, da un mucchio di armi e guardrappe polverose, tutta roba d’altri tempi, estrasse a un dato momento una spada inguainata, che gli pareva di non aver mai vista prima. Alla luce del candeliere osservò dapprima la guaina, e vide ch’era di nobili tessuti, quali velluti e bissi, tenuti insieme da costole di pelli preziose e pinte dei più vivi colori, da borchie e fermagli che parevano d’oro e d’argento, malgrado la brunitura di che il tempo li aveva velati, opere di cesello. Quello sembrava, infine, un prezioso arnese davvero, e ciò specialmente eccitò l’attenzione di Renato: chissà che non se ne potesse cavar qualcosa? Egli decise di portarsi la spada nei suoi appartamenti e d’esaminarla con comodo. 
Da qualche tempo Renato soffriva di strani turbamenti, di presentimenti che si rivelavano senza oggetto, ma che comunque lo angosciavano non poco. Confusamente si diceva egli che sarebbe stato tempo di far qualcosa e di uscire da quella situazione; pure, a parte un tal vago senso di rimorso, un bizzarro eccitamento lo pervadeva spesso, paragonabile a quello del cercatore di tesori quando si sente, per virtù divinatoria, prossimo a scoprirne uno. Gli pareva appunto d’avere una grande ricchezza a sua disposizione, non sapendo tuttavia precisamente di che genere fosse né come, ad ogni modo, avrebbe potuto servirsene. E adesso, quando fu colla preziosa spada davanti al fuoco del camino, fu ripreso da questo senso più forte che mai. 
Appena un po’ spolverata, la guaina si rivelò quale Renato l’aveva intravista nel solaio. Inclita arme davvero era quella, e d’egregio artefice! E non c’era ormai dubbio che le borchie fossero d’oro fino, o che le pietre dell’elsa fosser topazi e smeraldi, sebbene quasi spenti dalla lunga segregazione. Nondimeno Renato non si decideva a trarre la lama; quasi un inesplicabile timore glielo impediva. Infine lo fece con moto brusco. 
Le lame che il sole d’autunno allunga di tra le imposte socchiuse in una buia stanza, i dardi acuti che avventa contro gli angoli riposti, le vivide lingue che talvolta il fuoco leva, erano un nulla appetto a quella lama abbagliante! Renato socchiudeva gli occhi attonito perché il suo vivo splendore non li ferisse; eppure in quell’antica sala non c’era molto chiaro! Gli è che la lama sembrava splendere di propria luce. Forbita, intatta dai tempi antichi, si sarebbe detta di foglia d’oro, se poi una qualche cupezza, raggiante, per così dire, dall’interno (ché non ne ombrava neppure un poco la splendente trasparenza) non avesse imparentata la misteriosa materia di che era fatta al topazio stesso o forse a inusitate pietre d’oriente. Poiché era trasparente: Renato vi scorgeva, attraverso, le lingue del fuoco nel camino, solo un poco deformate. E così sottile, era, che pareva non avere spessore alcuno e tanto meno un filo e un dorso, o i due tagli e la nervatura, come tutte le altre spade; così sottile, che si sarebbe dovuta piegare e gualcire se un arcano procedimento di tempra non le avesse attribuita rigidezza e flessibilità quanto a ogni altra lama di buon acciaio. 
«Capperi!» fece Renato a voce alta; e s’accostò la lama al pollice, come usa per saggiare il taglio. Non l’avesse mai fatto! un crescente d’unghia e un minuscolo spicchio di polpastrello saltarono via prima ancora, gli sembrò, che avesse esercitata la più lieve pressione. O meglio, questo è il punto, parve che la lama fosse passata attraverso l’unghia e il polpastrello come senza tagliare, certo senza suscitare dolore; e solo un istante dopo, a un movimento di Renato, il preciso spicchiolino di dito si distaccò e il bruciore si fece sentire. «Capperi!» disse ancora Renato asciugandosi il po’ di sangue; «ecco davvero un’arma tagliente!» 
Riprese la spada e volle provarla su materia più consistente. L’allungò su un ciocco rotondo che, nel camino, ardeva da un estremo, mentre l’altro era sostenuto da un alare; e ve l’aveva appena poggiata, senza neppure premere, che il ciocco si fendé docile secondo un taglio straordinariamente preciso: il solo insensibile peso della spada era bastato a ciò. Balenando di sbieco contro le fiamme essa infulvì, pari a un vivo specchio di rame, e labili parole parvero affiorarne, incise forse o contemprate, parole leggere nel cuore. della lama, non si sapeva dove tracciate, come quelle che la polvere del sole può scrivere su un alito di vento. Renato lesse: «Io Cavaliere Castaldo Di Pescogianturco-Longino Temprai questa spada Più tagliente di quella d’Orlando Or tu non avrai più nemico». Parevano versi e i caratteri erano molto antichi. 
Qui Renato fu preso da grande concitazione e vibrò la spada contro la testa d’un alare, quasi disfida alle parole del suo remoto avo; e il pomo di rame forbito, opera fina, ruzzolò all’istante tra le fiamme. Dunque la spada tagliava colla stessa agevolezza anche il ferro! Abbandonando il camino e l’alare decapitato, Renato si levò e prese ad aggirarsi per l’antica sala roteando la spada e vibrandola contro qualunque oggetto gli venisse a tiro, e gridava, nel frattempo, parole sconnesse d’esultanza e malinconia, quali: «ohimè, ecco ogni fortuna mi s’apre! me misero ecco il mondo è mio, chi ormai potrà resistermi?» E, contro qualunque oggetto vibrata, quella lama di sole non sembrava conoscere ostacoli e s’apriva la sua via; essa ogni cosa trapassava, quasi spettro di lama. Né l’oggetto colpito rivelava fenditura alcuna, se, mancando l’equilibrio alle due parti e a seconda dell’obliquità del taglio non si scommettesse invece al suolo; ma pure, quando anche non appariva, la spada l’aveva tagliato e si sentiva che sarebbe ormai bastato un soffio, o il menomo movimento, a partirlo del tutto. 
Si aggirava dunque Renato per la sala gridando, e sul suo volteggiare rotolava al suolo ogni cosa, ove non tenesse in bilico. Rotolarono così le teste dei due busti di pietra fra le tre porte, illustri antenati, caddero con fracasso le spalliere di alcuni seggioloni e con frastuono di ferraglie dalla vita in su le quattro armature; una marmorea mano di donna si tendeva da una nicchia e fu mozzata; s’afflosciarono a terra le vecchie portiere fendute in un lampo. Attirato dallo schiamazzo comparve stupito su una soglia il vecchione che faceva ormai tutta la servitù del maniero; Renato gli gridò qualcosa e il vecchione si ritirò subito, vedendo che il padrone non cessava di roteare la fiammeggiante spada. 
Quella notte Renato dormì colla lama nuda accosto, nell’antico letto col baldacchino. Ecco, pensava, la fortuna che presentivo, ecco il tesoro che cercavo senza saperlo, ecco la mia grande ricchezza e la felicità che attendevo. Questa spada può penetrare fra le intime particole d’ogni corpo, scommettendole segretamente, ogni cosa può penetrare. Con questa spada menerò grandi imprese; quali non so ancora, ma grandi di certo. E voleva addormentarsi, ma a lungo non poté: l’angosciava oscuramente la presenza di quella viva spada, che anche al buio gli splendeva accanto. 

Ma passarono giorni su giorni senza che Renato potesse trovare un degno uso per la sua spada portentosa. E come, direte, possibile mai che di un’arme simile non ci sia nulla da fare? Pure, talvolta è così. Inoltre si sa bene che più egregia è un’arme, a più grand’uso ha da servire: quella non era una spada comune, e a comune impresa non avrebbe saputo essere impiegata. In tal modo aspettando d’ora in ora la maggiore impresa, e le minori sdegnando, anche di queste alla fine si perde l’occasione e ci si ritrova da ultimo, sal mi sia, con un pugno di mosche. Renato poi, dové confessarselo a malincuore, nemici non aveva da distruggere e disperderne la schiatta; mostri non v’erano più da pronare; a che dunque gli sarebbe servita la spada? Strano certo, lo ripeto, apparirà a chiunque; ma provate voi stessi a immaginare un uso acconcio di questa spada e vedrete. Invece, nonché difenderlo dai suoi nemici, essa medesima di Renato era divenuta in alcuna maniera nemica (e ben più lo fu nel seguito!). Difatto, il non potersene, o sapersene, servire non gli toglieva già la responsabilità del possederla; tormentoso sentimento invero! Ecco, si diceva egli, io ho fra le mani un’arma meravigliosa e non so valermene; e questo pensiero lo privò del poco di pace che ancora gli rimaneva. Oggi, si diceva talvolta levandosi un limpido mattino, oggi farò una cosa... una cosa bellissima! Ma il mattino cedeva al meriggio e poi alla sera in questo inane proposito. Egli portava bensì seco la spada nelle sue passeggiate per i campi e decapitava a ogni passo i puri gigli selvatici che si dondolavano alla brezza del crepuscolo (fedele immagine della posteriore tragedia!); aveva bensì, per novella prova, fendute a mezzo il corpo due mucche che gli appartenevano; e non v’era più, al maniero, una testa un braccio una spalla di statua o un morione d’armatura che tenessero. Ma oltre a ciò non gli riusciva d’immaginare altro. Sì, la spada era quasi divenuta il suo nemico; e quasi avrebbe preferito non averla sortita in retaggio. 

E venne, una sera, la fanciulla bianca. Bionda era, d’inclita bellezza, flessuosa come un giunco e schietta come un argenteo pioppo. Vestita fino ai piedi di seta bianca e spessa, un’alta cintura ne stringeva l’esile vita. Guardava timida e dolce. 
— Che vuoi? — s’accigliò Renato quando la vide comparire. — So bene — rispose ella timorosa — che non vuoi vedermi; ma pure vivere senza di te ormai non saprei, l’ho sentito certo, in questi giorni. E ho pensato che avrei meglio affrontato mille morti». Renato, che non si separava quasi mai dalla vivente spada, la prese senza riflettere dalla gran tavola di quercia ove giaceva; e fra lui e la fanciulla si levò la lama fiammeggiante. — Vattene — replicò egli — va’ via, lasciami. M’odi? — Non andrò — disse ancora la fanciulla senza arretrare, solo un poco abbacinata dal fulgore della lama. Traverso cui Renato poteva scorgere la sua immagine lievemente appannata e torta, come in un’acqua appena turbata. — Non andrò per nulla al mondo, ormai. — Ma io non voglio! non voglio essere amato, — riprese Renato pestando i piedi e roteando la spada. E, in una, pensava: non sarebbe forse questa la grande impresa? — Odi — proseguì poi più dolcemente, — odimi, fanciulla: non veste il sole i campi dei suoi raggi d’oro, non cantano gli uccelli dei boschi, non mormorano foglie e ruscelli, non si discioglie libero il vento fra i gioghi dei monti? Che hai tu da fare con me e con questo nido di gufi? — Il sole — rispose la fanciulla — è fuliggine, i campi cenere, e tutta la natura è lugubre e muta, non te n’avvedi Renato? se tu sei lontano. — Bada a te, fanciulla! — gridò Renato e, in preda a una strana ebbrezza, pensava: questa è la grande impresa. — Io nulla ho da temere — disse ancora la fanciulla dolcemente. 
E furono le sue ultime parole: levando l’arme all’improvviso, Renato appoggiò sulla fanciulla un gran fendente. La lama attraversò per lungo l’esile corpo senza incontrare resistenza; pure la fanciulla non cadde e, immobile, guardava fissamente il suo assassino coi dolci occhi, sorridendo tuttavia a fior di labbra. Splendeva la bianca fronte come un’alba contro una buia vetrata e lontane stelle della notte le erano sopra; né dell’orrenda ferita si scorgeva traccia. Ma la spada che Renato ancora reggeva sembrava aver abbandonato in quel corpo di giglio ogni fulgore: l’arme egregia s’era fatta di botto smorta come cenere, cupa come un tizzo spento, una malinconica e trista arme in verità! E Renato medesimo, caduta d’un subito l’ebbrezza, contemplava allibito la fanciulla immobile e non osava credere a se stesso. Gettando lontano l’arme infeconda, — Dio! — gridò — che cosa ho fatto! 
Allora la fanciulla, sebbene trapassata nelle sue viscere, volle sorridere all’amato e rassicurarlo. E bastò questo. Il suo volto accennò a fendersi e lentamente prese a scomporsi. Una tenue, dapprima quasi invisibile riga rossa apparve, su dai capelli d’oro fino al collo, e giù giù per il seno e per la bianca seta; e questa fenditura ad allargarsi e il sangue a pullularne, gorgogliando appena specie tra i capelli. Il sorriso era ormai un’orribile smorfia, un ghigno ambiguo e spaventoso; la crepa del fragile corpo rapidamente s’apriva; la fanciulla crollava, partita dall’implacabile spada. Traverso la fessura già ridevano le lontane stelle della notte; in men che non si dica la fragile fanciulla, inusitata vista, si scommise al suolo sotto gli occhi del suo uccisore. E quelle sparse membra soltanto il placido sangue riuniva. 

Fu così che l’arme inclita e portentosa, che Renato avrebbe potuto impugnare in difesa del bene o almeno per la sua felicità, gli servì invece a distruggere quello che aveva di più caro sulla terra. 
Essa poi, così spenta, e sebbene tagliente come prima chi più l’avrebbe voluta? L’uomo che la raccolse, buttandola nella più profonda voragine della terra volle salvare il mondo dal suo funesto potere. Ma altri uomini o dei, ne la trassero, ad altri senza loro colpa fu data in sorte. E questi se la trascinarono dietro pel loro cammino terrestre come una croce, e così ancora sarà per la disgrazia di tutti.  
Il babbo di Kafka 



Arrendendomi alle insistenze di molti amici, racconterò brevemente l’episodio che tanta influenza doveva avere sulla vita del Maestro (ed anche sulla mia). 
— E se ora fra i battenti di quella porta (che era appena accostata) s’insinuassero due, anzi alcune, zampe, lunghissime sottili e pelose; e, la porta stessa cedendo alla pressione ed aprendosi pian piano, comparisse un enorme ragno, grosso quanto un cesto da bucato?... 
— Ebbene? 
— Aspetta, non t’ho detto tutto. Se questo ragno avesse al posto del corpo una testa d’uomo che ti guardasse fissamente da terra? Tu che faresti? T’ammazzeresti, no? 
— Io? Io non ci penserei neppure. Perché diamine dovrei ammazzarmi! Piuttosto ammazzerei lui. 
— Io sì, io m’ammazzerei. Perbacco, vivere in un mondo dove sono possibili cose di questo genere! 
— E io ti so dire che tutto farei, tranne che ammazzarmi, neanche per sogno. 
Non aveva finito Kafka di pronunciare queste parole e guardava ancora in aria di sfida la porta accostata, quando il battente girò lentamente sui cardini e si produsse punto per punto la scena da me immaginata. Nella sala remota dove stavamo cenando, balzammo in piedi esterrefatti. Il ragno, o la testa d’uomo, molleggiando sulle sue lunghe zampe, avanzava verso la tavola e ci guardava con una certa espressione cattiva. 
— Ebbene — gridavo io, lo confesso, quasi piangendo — ebbene, perché ora non l’ammazzi? 
Ma Kafka guardava l’animale, o uomo, cogli occhi sbarrati e non muoveva un dito; se non che andava arretrando insensibilmente verso un angolo della stanza. Gli è che quella testa (come seppi poi) era appunto la testa di suo padre, morto tanto tempo prima. Questi, guardando Kafka, aveva la sua espressione peggiore, gli occhi iniettati di sangue e quasi torti, il labbro superiore inarcato da una parte in segno di rabbia; come quando faceva le sue tediose scenate, di cui ora Kafka si ricordava benissimo, alzando la voce nella maniera più sgradevole. Ora non parlava, perché, forse non poteva, ma quasi scoppiava, era evidente, dalla voglia di gridare. La testa, colla faccia rivolta all’insù, stava un poco inclinata, nella posizione d’un rospo. 
«Che diamine ho fatto ancora?» si chiedeva Kafka ripreso dall’angoscioso senso di quando, bambino, era fatto segno a quelle scenate senza saperne esattamente il perché — Papà... — mormorò. 
Io, lo confesso, mi posi a battere le palme e a urlare scompostamente: via, via bestiaccia! senza però avere altro coraggio che questo. Allora il padre di Kafka, che tuttora avanzava circospetto verso di noi, parve ripensarci e far forza a se stesso (dominarsi davanti agli «estranei» era sempre stato il suo vanto, senonché tutti indovinavano i suoi sentimenti solo a guardarlo in viso, se anche non avesse mormorato fra sé, in casi simili, «corno, corno!»); rimandando la scenata, o l’aggressione, si volse e barcollando e arrancando se ne uscì in silenzio donde era venuto. Io, lo confesso, fuggii strappandomi i capelli e singhiozzando da qualche parte; Kafka dopo un istante si precipitò dietro a suo padre nel grande salone buio. 
Inutile dire che né quella notte né i giorni seguenti gli riuscì di ritrovarlo, sebbene lo cercasse per tutte le stanze a tutte le ore. «Ma guarda, si diceva, c’era a casa mia un simile animale e chi l’aveva mai visto! Chissà poi quanti altri ce ne sono dello stesso genere. Se non lo acchiappo non potrò più vivere qui». Sulle prime pensava di chiuderlo in una gabbia o nella camera che era stata la sua. Infine lo vide un giorno, al crepuscolo, che attraversava velocemente uno sgombero pieno d’oggetti polverosi, e comprese anche che passava con facilità attraverso le porte chiuse e forse attraverso i muri. Da allora si disse che l’avrebbe ammazzato senza pietà, non c’era altro da fare; s’intende che anche in tale occasione gli sfuggì. 
Un giorno, quando disperava ormai di ritrovarlo e già si proponeva d’andarsene e abbandonargli tutto il vecchio maniero a discrezione, esso gli venne innanzi all’improvviso e in piena luce. Il futuro grande scrittore era nella sua camera da letto, per la cui finestra il sole penetrava largamente. Al sole parve più bigio e polveroso; il volto cinereo guardava stavolta al figliuolo con un’espressione stanca e quasi implorante e con grande affetto, colle lacrime agli occhi (come quando, prima, si sentiva male). Ciò malgrado Kafka, dato di piglio a una seggiola, lo stordì sul momento ben bene; poi corse in cantina a prendere un maglio da botte e con quello lo schiacciò del tutto. Dalla testa frantumata sgorgò, come di ragione; una specie di midollo più o meno liquido. 
Con ciò Kafka credeva d’essersene liberato per sempre, anche se a duro prezzo. 
Ma quanti ragni, grossi o piccini, non alberga un vecchio maniero! 
Lettera di un romantico gotico 



alla memoria di Châli 
18... 



Caro Ignazio, il gioco, il gioco, sì! E chi oserebbe rimproverarmelo? Tale vita è la mia! È vero, le mie notti sono bruciate, le mie giornate chiuse al sole e agli scherzi dell’aria; esse anzi trascorrono nel torpore e nel sonno. Ebbene? Perisca l’invidioso sole e s’inabissi per sempre nei gurgiti dell’etere e un’eterna notte stenda su noi le sue ali. «Lodata sia l’eterna notte, lodato il sonno eterno». Ma non il sonno, la febbre notturna, le buie passioni che ci straziano e ci dannano, e fra queste la più ardente e più cupa, la più sinistra e sacra, l’indomabile fuoco delle tenebre, il gioco, divino e infernale! Chi oserà biasimarmi per primo? E che ragione ho io di giustificarmi e addurre la mia misera vita? Ma fossi io pure il più grande dei grandi della terra e mi splendesse pure nel cuore una perenne primavera, fossi tranquillo e felice; ogni bene celeste e terreno vorrei ugualmente rinnegare e volentieri, anzi con disdegno, getterei ai piedi di quella cupa deità! Qui si decidono le alte sorti, qui l’uomo, non più solo, ma nella sua vera patria, fra mille altri trepidi esseri attende il tocco della mano che lo beneficherà o pronerà; qui non si finge creatore, non aspetta pel tramite di mediocri ambasce la sua condanna o la sua grazia; qui egli, tutto creatura, sollecita, quasi calice di fiore aperto ai doni e alle offese del cielo, un immediato responso, pronto a rivoltarsi, pronto ad adorare, pronto (se è un uomo vero) ad adorare anche colpito. Pure, miracolo della grazia, v’è per imperscrutabile decreto in questa condizione alcunché d’eroico: qui spira il largo, sebbene vorace, vento degli spazi, che dissipa i meschini ambagi, i vili e uggiosi compromessi, qui, un istante re e imperatore, quello seguente verme della terra, il rampollo dell’uomo, sia travolto o trionfi, è ugualmente travolto, e dunque sempre trionfa, se con puro cuore chini il capo ai voleri del cielo. Qui egli, percosso di religioso stupore, vive le sue ore più gravi; qui, da ultimo, l’Avventura e il Mistero, questi supremi doni della Provvidenza, menano la loro libera vicenda. Sia dunque lode al gioco, la più alta attività dello spirito umano! 
Ma fosse anche vero, Ignazio, quanto dai meschini si vocifera di questa nobile passione dell’animo, in cui l’uomo s’impegna con ogni sua possa e dignità; fosse anche vero quanto dagli ignari e dai pavidi si vocifera, che posso io contro di essa che mi travaglia? È forse mia colpa, amico caro, se di tutti i doni del buon Dio che dici nella tua lettera io nulla posso godere se non quando sia sedata questa divorante bramosia, quest’ansito che mi si gonfia dentro e cresce a dismisura e chiede sempre nuovo alimento, quasi un mostruoso animale annidato nelle mie viscere, quasi un bubbone che risucchi ogni mia linfa vitale? E nota, è l’altra faccia del gaudioso o ingaudioso mistero, che un unico mezzo v’è di placare quest’empito: perdere. 
Elaborai persino una teoria, in altri tempi, su ciò, sull’ineluttabile vicenda di cui sono vittima. Tenterò di spiegarti. Devi in primo luogo sapere che il mondo non m’offre nulla di piacevole o tollerabile se non connesso in qualche modo con questa passione: dovunque mi rechi, lo fo colla segreta speranza di trovarvi da alimentarla, chiunque accosti con quella d’indurlo a essermi compagno. In breve, concepisco ormai l’esistenza sotto l’aspetto del gioco ed essa mi parrebbe vuota più di quanto non mi paia ove questo mi mancasse (non vituperarlo dunque: m’aiuta a vivere). Ora, tu parli di raggi di sole, di volate di rondini, di piccoli gatti. Ebbene, son queste viste e questi sensi, forse, tante benedizioni del cielo; ma come si potrebbe goderne, mi chiedo affannosamente da tanto, così, per esse stesse (seppure tu pari riuscirvi)? Come si potrebbe se non in relazione a qualcosa d’altro, di diverso, d’opposto se proprio ti piace? O, a dovere usar le parole che il volgare ha consacrate, come può un puro godere della purezza e un peccatore del peccato? Io peccatore godo, ad esempio, della purezza ch’è il gioco, e voglio dire, insomma, che solo a chi esce dal baratro infernale possono apparire vergini le stelle. Tollera che ti racconti una cosa di me, potrò forse spiegarmi meglio, e tu non scorgevi contraddizione. 
Era Venezia; in quel luogo avevano abbassate pesanti cortine di velluto sulle vetrate, contro l’invasione della luce diurna e dei primi raggi del sole: gli uomini intenti attorno al tavolo oblungo rifiutavano ogni altro lume che quello della lampada bassa. Ma io fui costretto ad allontanarmi di là: avevo tutto perduto, tutto fino all’ultima moneta, e non avevo ormai speranze da nessuna parte, da nessuno osavo più aspettarmi aiuto. Ero solo e abbandonato in una città straniera, e perduto per sempre (così almeno credevo). 
Uscii sul viale nell’alba, sedetti su una panca. Ignazio, se impura era l’indomabile forza che m’aveva trascinato colà la sera innanzi e astretto ad accarezzare la notte intera quella dolce pelle ch’è il tappeto verde, da che veniva ch’essa avesse ora ceduto il luogo a una meravigliosa pace, a una grave e trasognata serenità, a una quiete piena d’incanto? Non mai come allora io m’ero sentito conscio di me eppure disposato e confuso agli elementi. Non mai tanto tranquillo mi s’era aperto il mondo in armoniche parvenze, in sembianze e forme placate, ricche tuttavia di vita interna e brillante, di promesse e, lo dirò senza ritegno, di speranza. Sulla mia testa un piccolo uccello cinguettava solitariamente in tono calmo, non contrastato da alcun’altra voce, anzi sostenuto dal sommesso bordone della bava mattutina fra le foglie, entro la cui frappa i primi raggi incarnati del sole già scherzavano. Il cielo e il mare erano ugualmente immacolati, ciascuno seguendo il suo modo; la ghiaia del viale brillava. Già per impercettibili sussulti brulicavano intorno i mille abitatori della terra; ma su ogni cosa si levava quella solitaria voce aerea. Ed essa pareva la voce dell’intero mondo intormentito e immammolato nell’alba della sua esistenza, quando la prima volta si svegliò al tocco divino da un sonno eterno; essa mi risonava, Ignazio, come la voce stessa delle età d’innocenza. Io ero perduto in quell’eden, ogni eccitamento era in me ormai caduto, e neppure attendevo all’alta calma, giacché essa era in me e mi pervadeva a mia stessa insaputa; e con quegli sparsi, eppure fraterni elementi io ero tutt’uno. Infine, io fui felice. E sulla laguna, più tardi, il battello raggiunse e sorpassò una gondola che vogava solitaria, discosto dalla riva. Recava questa una vecchia di nobile aspetto, che quetamente parlava col gondoliere, e una fanciulla di grande e schiva bellezza la quale, poggiato il gomito sulle ginocchia e il mento sulla palma, guardava lontano con aria di meravigliosa malinconia. Ci partimmo lentamente da quella gondola, e io neppure desiderai che essa, la fanciulla, riscotendosi a un tratto, mi tendesse le braccia sulla laguna e dicesse: ecco, t’attendevo. Al contrario, io godetti di lei se anche passò e non la rivedrò mai più, e non desiderai un solo momento più di quanto mi fu concesso. Giacché mi pareva che anche così ella m’appartenesse, come tutto quel mattino: io non ero più io ma ogni altra cosa, o piuttosto io stesso e in una ogni altra cosa, e ogni altra cosa, essendo tuttavia se medesima, era me; e non avevo desideri, ma non perché avessi il cuore vuoto, anzi perché l’avevo colmo di ogni bene e ogni desiderio era esaudito nel tempo stesso che lo provavo. In breve, non so dirti che fosse: assai più facile è descrivere la disperazione che la felicità. Ma so e ti dico che quel mattino io credetti e mi prosternai nell’animo al Creatore, e per la prima volta lo ringraziai della vita che m’aveva dato, del mondo che m’aveva composto intorno, e di tutte le dovizie che ci offriva, se solo la nostra buona volontà sapesse acquistarsele. Quegli che avrebbe dovuto sentirsi misero e diserto e affannato, ringraziò il suo Creatore, quegli che non era certo di vivere, ringraziò per la vita che ancora poteva essergli tolta, quegli che avrebbe dovuto serrare i pugni contro il cielo, adorò come spieghi tu ciò, Ignazio? Lo ringraziai anche d’avermi liberato. 
Ma ecco sono giunto al nodo. Liberato da che? Non era forse l’impeto segreto e potente della sera innanzi, il turgore della mia passione, anche opera sua? E perché egli condanna le sue creature (o me soltanto?) a non godere dei suoi doni se non dopo averli disprezzati o perduti? Perché di nessuna cosa si può godere se non dopo averne sperimentata altra di gran lunga diversa o al tutto opposta? Odimi, Ignazio, non sarebbe questo mio un bestemmiare? E se, come credo, nella vicenda universale è in ogni cosa riconoscibile, volta a volta, un turgore o turgescenza, seguito da una deturgescenza o contrettazione; se a questa fatale vece è soggetta ogni cosa vivente (e dunque ogni cosa); se converrà patire il turgore per raggiungere l’alta calma, e se a questa quello è imprescindibile condizione; non confesseremo noi piuttosto l’origine divina anche di quel turgore? Figuri pure esso il groviglio del male, di contro al queto discorrere del bene, chi oserà negarne la necessità, chi potrà, o come, far valere la preminenza del secondo? 
Lo so, non avrei mai dovuto pronunciare queste parole. Perdonami, Ignazio, non ti infastidirò più. Ma altra volta forse ti dirò le lodi delle carte medesime, di questi umili eppure eterei strumenti delle decisioni divine. Le hai mai guardate? Impassibili e vive, talune altre, altre splendenti, lievi e seriche come pelle di donna, esse figurano immemoriali storie, leggende originarie. Esse rabescano il fondo delle mie notti come le saghe del Norde o le favole d’oriente l’ombra splendente dell’infanzia! Oh benedetti petali caduti alla rosa mistica, oh rugiada vitale e mortale! Stavolta fo per divertirti. Addio etc. 
(firma) 
La notte provinciale 



«Occorre che vi rifacciate (prese allora a dire l’amico) al fondo d’una delle nostre provincie. E non già a una piccola città malinconica fornita tuttavia di circolo o, come dicono, di casina; immaginate piuttosto un minuscolo paese, un borgo sperduto fra le montagne. Al tempo della mia storia io vivevo laggiù, e del resto (aggiunse sorridendo) è là che son nato. 
«Avete, ora, idea di che cosa sia una serata in un luogo simile? Intendo quando i signori del paese, magari anche il segretario comunale e il medico condotto, si riuniscono in una di quelle bicocche cercando di passare il tempo e di scacciare la noia il meglio che possono? Se, dico, non ne avete idea alcuna, ve ne darò, spero, una approssimativa col mio racconto stesso. Aggiungerò, allo scopo di procedere in seguito più spedito, che la notte cui mi riferisco era una notte di tempesta. Da tre giorni soffiava senza tregua il gelido vento di settentrione scuotendo la casa, si può dire, dalle fondamenta; saprete che da noi non v’è un’imposta che tenga in maniera perfetta, e attraverso le innumerevoli aperture e fessure di quella casa esposta a ogni intemperia, per le ampie gole dei camini, dappertutto il vento s’insinuava fischiando e gemendo. C’era inoltre, ricordo, uno sportello o uno scuro che a ciascuna raffica sbatteva sordamente, chissà dove: nessuno della casa era riuscito a determinare quale fosse appunto questo sportello, né dunque aveva potuto appuntarlo. 
«Eravamo in parecchi giovani, senza contare i vecchi; le fanciulle non mancavano, ardenti e un po’ mezze, com’è laggiù la loro natura. Fra queste io avevo da tempo notato una giovinetta esile e pieghevole al pari d’un giunco. I suoi capelli erano castani, o piuttosto verdastri, i suoi occhi fondi e cupi, quasi attoniti eppure vivaci; parlando, ridendo, ella si trovava sempre al di qua di qualche luce (o almeno così io la rammento), epperò sembrava sempre trattenere fra le sue labbra brillanti un po’ d’oro perduto dal sole durante la sua corsa diurna. La sua bocca spirava un alito infuocato, e tuttavia leggero, pregno dei profumi più selvaggi e più delicati. Devo dire che in generale la fanciulla appariva quasi bruciata dal suo stesso ardore; spesso la sua pura fronte era ombrata come da un pensiero molesto, ella medesima, a volte, restava lungamente taciturna, in preda a una pena sconosciuta; il suo gesto abituale era portare una mano al piccolo seno, quasi volesse calmare i battiti troppo impetuosi del cuore (ella era d’altronde facile all’affanno). Giacché era poi una bambina ancora; poteva avere forse quattordici anni. Quanto a me non ne avevo a quell’epoca più di diciotto; e se vi paresse ch’io mi sia troppo dilungato o accalorato nella mia descrizione, ebbene vi dirò, in breve, che questa fanciulla mi era molto cara. 
«Tentammo tutti i giochi in uso, cioè “i proverbi”, “il telegramma”, “la posta”, e altri ancora. Fra la mia “posta”, rammento, ebbi un suo bigliettino, sul margine lacerato d’un giornale. Lo so, perdonatemi, a memoria; diceva: “la bellezza e l’amore estivo passano rapidamente, e una ragazza ragionevole non osa fidarsi di un così fragile bene” (s’era allora al principio dell’autunno). 
«Giochi in uso, ho detto, ma anche abusati; essi in verità ebbero scarso successo, e ben presto fummo soverchiati dalla noia. Continue smanie possiedono la nostra gioventù. Smessi quei giochi, sopravvenne un attimo di sospensione, durante il quale tutti ascoltavamo il vento ostinato. Qui uno dei vecchi propose il gioco dell’assassino, da molto tempo messo in disparte, sì da poter passare per nuovo. Accettammo entusiasti e l’allegra agitazione riprese. 
«Dirò brevemente in che consista questo gioco. Precede un sorteggio segreto: posto e accuratamente mescolato in una qualunque bussola di fortuna un numero di schede uguale a quello dei partecipanti, ciascuno pesca la sua e ne prende visione in privato. Le schede sono tutte bianche, all’infuori di due, che recano rispettivamente la scritta “assassino” e “poliziotto”, o commissario che s’abbia a dire. Codesti due personaggi principali prendono dunque possesso delle loro funzioni all’insaputa dei restanti giocatori e reciprocamente l’uno dell’altro. Si spengono ora le luci e comincia il gioco propriamente detto: i partecipanti s’aggirano qua, e là per la casa, al buio pesto e in silenzio, finché uno di essi non emetterà un grido e non stramazzerà al suolo, ovvero, se è un vecchio, su un canapè. Questi è la vittima cui l’assassino, fingendo di usargli violenza, avrà fatto intendere che deve considerarsi morto. Riaccese dopo ciò le luci, il poliziotto dovrà identificare l’assassino valendosi di indizi o testimonianze che gli riesca raccogliere dagli altri (esclusa, s’intende, la vittima) o che egli stesso si sia procurati sfruttando nell’oscurità il proprio incognito. La conclusione è normale: se l’assassino verrà scoperto, pagherà un pegno, in caso contrario la penitenza toccherà al poliziotto. 
«Spero converrete che un simile gioco si presta alle più diverse combinazioni. Esso, da un punto di vista assoluto, ha un solo lato debole: ingenera un continuo sospetto fra compagni e simili, assai ingiustificato, come vedrete alla fine. Molto più utile è, il giunco, per coloro che vogliano scambiarsi fuggevoli baci nelle tenebre. 
«Ma, qui giunto, mi compete riconoscere che ho mancato i miei migliori effetti di narratore; mi sono perso, difatto, in preamboli, ed eccomi alla fine della storia prima ancora di cominciarla. Giacché ben poco mi resta da dire. Io erravo a tentoni e in punta di piedi (onde non fornire indizi allo sconosciuto poliziotto) per la vasta sala, e cercavo una vittima qualunque; proprio a me era toccata in sorte la parte di assassino. In quella mi sentii stringere alla vita da due braccia convulse; non tardai a riconoscerle, due labbra soffici e ardenti sfiorarono appena le, mie. Volevo trattenere la fanciulla, ma essa si divincolò prestamente e s’allontanò nel buio mormorando una parola d’affetto che non intesi. Era la prima volta che faceva ciò. Io non pensai neppure a ucciderla; stordito e felice ripresi, ad aggirarmi qua e là senza scopo e il gioco, mancando il mio intervento, si protraeva più del consueto. Intorno udivo confusamente risate soffocate di ragazze, e schiamazzi vari: quei giovani, per attirare l’attenzione dell’ignoto assassino e indurlo finalmente ad agire, picchiavano contro i mobili, tossivano e si schiarivano la gola fragorosamente. 
«Poi forse m’avvicinai senza volere agli schiamazzatori ed essi, uditomi (ché non mi davo più la pena di smorzare i miei passi) e non sapendo quali panni vestissi, tacquero, e tacque anche il loro scalpiccio; vi fu un silenzio assoluto e lacerante, non fosse stato pel vento che gemeva e per lo sportello che ritmicamente sbatteva, chissà dove. Fui, preso allora all’improvviso, da una grande angoscia, in palese contrasto col mio precedente stato d’animo. Qui udii un grido alto, all’estremo opposto della sala; riconobbi la voce, sebbene paresse davvero stravolta dal dolore; quasi nello stesso istante si riaccesero le luci. 
«Avveniva talvolta che qualcuno s’arrogasse i diritti dell’assassino senza essere stato dalla sorte designato a tale ufficio; tanto per mettere confusione. Pensai che così fosse avvenuto anche ora e m’avviai protestando verso il luogo dove il corpo di lei giaceva al suolo. Ma già prima di raggiungerlo distinsi in volto ai primi accorsi una funesta costernazione, meglio, un immenso stupore. Tutti questi giovani avevano il viso accorato degli innocenti offesi e colpiti, delle creature tradite. Tacevano e ansavano appena; fu solo un poco dopo che scoppiarono. grida. 
«La fanciulla giaceva riversa, pallidissima e con gli occhi chiusi; una mano riposava sul petto abbandonata, secondo il gesto abituale. Il cavo della clavicola, un po’ a sinistra della fontanella della gola, recava confitto fino alla guardia un pugnale o uno stocco, un’arma infine di notevoli proporzioni, la cui elsa sporgente gettava un’ombra leggera sulle palpebre inazzurrate della creatura colpita. Estratto questo coltello, il sangue sgorgò a fiotti dalla ferita. 
«Ora la storia è finita davvero. Inutile aggiungere che l’assassino non fu mai scoperto; né il poliziotto in carica né gli altri dipoi, seppero che dire o che fare. Del resto chi di noi, e di tutta l’umanità, avrebbe avuto interesse a uccidere una tale fanciulla? Il vero assassino non aveva lasciato tracce o fornito indizio alcuno. 
«Conservo ancora quell’arma (concluse l’amico asciugandosi un po’ di sudore e guardandoci finalmente negli occhi). La lama, lunga e tagliente, è sottilmente damascata; l’impugnatura si direbbe di corno, con riflessi madreperlacei, verdi rossi, assai cupi. Ma pure... Ebbene, (l’amico sorrise timidamente) l’impugnatura si direbbe di una materia sconosciuta. E la lama poi? Certo essa splende come acciaio polito, ma da che viene che i leggeri grumi di sangue su di essa siano ancora d’un rosso vivo, oggi quando tanti anni sono passati?». 
Il ladro 



Da due ore il ladro, nascosto nella cantina, sentiva quel passo misurare spietatamente le stanze di sopra, scuotendo le vecchie travature, facendole scricchiolare, distaccandone a tratti minuti pezzi di calcina; non andava dunque mai a letto quella gente? Spesso anche, nel silenzio della notte. lo raggiungevano scoppi repentini di voce, irata o beffarda; poi, dopo lunghe pause, erano risate alte e sinistre, da gelare il sangue. 
Il ladro era un novellino, egli voleva evitare ogni scandalo e ogni violenza. Sperava soltanto di trovare in questa vecchia casa qualche masserizia, magari delle cibarie, roba da nulla in fondo per il ricco proprietario, ma che avrebbe tuttavia fornito da vivere un po’ a lui ladro e alla sua piccola famiglia. Ecco a che cosa era ridotto coi suoi capelli grigi! Tanto novellino era, che impiegò due ore ad accorgersi come quei passi lassù fossero i passi di un’unica persona: certo il signore. Ma pure con chi parlava egli, s’adirava o rideva? 
Nondimeno quel passo misurato e continuo cominciava a dare una grande angoscia al ladro; diamine, rannicchiato così fra due botti, in una casa non sua... Egli era timido e buono, lo si è visto. Inoltre quegli scoppi di voce nella notte erano veramente spaventosi; e le risate! Tutto ciò gli era divenuto intollerabile; ben risolto a non mettersi all’opera se non quando l’intera casa si fosse profondamente addormentata, decise tuttavia d’andare a vedere, con cautela, che cosa succedesse. Fra l’altro ve lo spingeva una strana curiosità, una curiosità paurosa che non si poteva padroneggiare. 
Conosceva alla meno peggio la casa; rabbrividendo uscì di fra le botti, per una scala interna raggiunse il cortile. Da una porta a vetri veniva una fioca luce; il ladro voleva avvicinarsi, ma gli scoppi di voce ripresero più forti. O piuttosto il violento discorso. Di qui si sentiva meglio: l’uomo là dentro andava ininterrottamente dialogando, o discutendo, con qualcuno (al ladro parve infatti d’udire, a momenti, il suono d’un’altra voce, sebbene un po’ più pacata); parlava in tono mutevole, ora alto ora basso, ora quasi sibilava ora mormorava, ma sempre concitatamente; accessi di risa sarcastiche ogni tanto interrompevano la discussione. Ma questi convulsi erano certo del principale parlatore, il più acceso; ed essi soprattutto erano terribili nella notte. Infine il ladro si fece coraggio e a passi di lupo, protetto dall’oscurità circostante, s’accostò alla porta; i vetri cominciavano solo a una certa altezza, mettendosi carponi si poteva guardar dentro senza esser visti. Il ladro guardò dunque. 
Nella cucina (giacché era una vasta cucina quella stanza) ardeva una lampadina polverosa, diffondendo una luce giallognola; il focolare era spento, e si vedeva che s’era spento da sé. Su e giù davanti ai fornelli passeggiava un uomo dai capelli grigi, come quelli del ladro. Ma ciò che davvero faceva fremere era che quest’uomo camminava bizzarramente piegato in due, come a certe scimmie si vede fare, colle braccia pendenti e abbandonate, le gambe larghe e le punte dei piedi in fuori. I suoi occhi, cupi sotto le folte sopracciglia, guardavano spesso verso l’esterno, verso il ladro senza vederlo. E quest’uomo, in una tale postura, parlava senza posa. 
Attraversato da un orribile sospetto, il ladro cercò cogli occhi l’interlocutore, senza trovarlo. Fin quando, agghiacciato di sgomento, riconobbe che l’uomo parlava con se stesso; mutando voce, a volte, quasi dialogasse con alcuno. Nella vuota cucina, davanti al focolare spento, nella smorta luce, e così piegato in due, l’uomo passeggiava e parlava senza posa, affannosamente. 
— Ecco qua, — diceva, — ormai questa è la posizione più comoda per te, compare. Sei vecchio, povero amico mio (proseguiva mutando espressione); e che aspetti ancora? La tua casa è vuota, il tuo focolare è spento, tu t’aggiri, voi signore v’aggirate qui dentro come nel vostro sepolcro, morto nella vostra tomba, cioè vivo ancora già nella tomba... al diavolo le maledette parole! (gridava in preda a una grande rabbia). Tacere, tacere, tacere in eterno (cantilenava scandendo le sillabe). Ma, vedete, i parenti, gli amici, vostro figlio... (soggiungeva mutando ancora di tono). Voi, signor mio, siete amato e rispettato, anche temuto, da molta gente, eh già, ve lo assicuro; inoltre la vostra ricchezza, e se non vogliamo dire ricchezza agiatezza... ehm ehm... In una parola la vostra onorata vecchiaia è assicurata contro eccetera. Che dite voi, che dici tu? (prorompeva nell’ira). I parenti. I parenti (ripeteva borbottando). Il figlio. Ah ah ah! (e giù all’improvviso una di quelle risate altissime che agghiacciavano). Mio figlio dov’è? In che modo, dimando (diceva proprio dimando) e dico si preoccupa o può preoccuparsi, anche volendo, di me? Temuto, sì, temuto (riprendeva sul motivo d’una canzoncina oscena di studenti). Temuto come si teme la rogna, la putredine o una carogna! (urlava con quanto fiato aveva in gola). Evviva la rima, la cara rima (seguitava con volubile fatuità). Così colà (prese poi a dire quasi senza interruzione), così colà, qua e là, bah bah, questo e quello, in su e in giù, bubù bubà (e sembrava riflettere nel contempo intensamente): e ancora: così colà eccetera. 
Continuava l’uomo a ripetere queste parolette sconnesse e passeggiava furiosamente; e il ladro tremava in cuor suo dietro la porta e una grande pietà lo stringeva. Non pensava più allo scopo della sua visita in quella casa, aveva dimenticata la propria miseria, e avrebbe voluto aiutare quell’uomo, fors’anche abbracciarlo. 
Fece egli qualche movimento inconsulto o sospirò; perché l’uomo si raddrizzò di colpo, si buttò contro la porta, l’apri mormorando «è il vecchio cane, soltanto il vecchio cane». Il ladro restò scoperto nella poca luce e, carponi com’era, guardava il signore. — Tu, tu... — disse questi un po’ interdetto, ma senza rabbia, anzi tristemente, — tu che vuoi? — Il ladro non rispose e si levava lento.. — Volevi rubare eh? —, riprese l’altro, non però ironicamente, ma quasi con malinconica allegria; e lo scrutava coi suoi occhi cupi. In quelli del ladro brillavano certo le lacrime; egli tremava un poco e non si muoveva. — Ma entra caro — disse il signore all’improvviso — entra nella mia casa. Sei povero? (continuò serio). La tua donna, i tuoi figli non hanno da mangiare, no? Ma vieni —. E lo spingeva dentro per un braccio. 
Nella luce torba i due uomini si guardavano profondamente negli occhi; anche quelli del signore s’empirono di lacrime; poi egli sorrise dolcemente. Uno dei due tese le braccia, l’altro vi si buttò senza ritegno; il signore e il ladro s’abbracciarono piangendo, singhiozzando come bambini. E quelle lacrime non volevano finire, esse scorrevano scorrevano, e lavavano i loro volti, erano una consolazione per i loro cuori.  
La paura 



Nell’automobile erano in cinque: due ragazze di media età, un’altra ragazza diciottenne, un pittore, Lorenzo. Erano circa le due e mezza del mattino; s’accompagnava a casa il pittore, che stava (come Lorenzo non dimenticò più mai) in via G.B. Lulli, in un quartiere periferico della città; una delle ragazze guidava, Lorenzo le sedeva accanto. 
Giunti all’altezza di detta strada, l’automobile si fermò presso il crocicchio, ma il pittore non scese, giacché tutti indugiavano nelle ultime chiacchiere. Guardando attorno distrattamente, qualcuno finì col notare, sulla soglia di una di quelle dimore, una donna del popolo alta e complessa; pareva anziana, era vestita di scuro e sembrava attendere qualcosa. Si spingeva spesso, col contegno di persona inquieta o impaziente, fino alla cantonata, donde si scopriva anche la via traversa, che ella andava scrutando. Il pittore disse d’averla trovata lì altre notti e che era una mamma in attesa d’una figlia, diremo, vivace, la quale certo, uscitasene col suo amico, non aveva ancora fatto ritorno. 
Poiché il discorso dei nottambuli verteva ora appunto sulla donna, la sensibile guidatrice, temendo che quella udisse, spostò la macchina più avanti. Tutti però, non avendo di meglio, continuarono a guardare per il vetro posteriore; forse anche si ripromettevano una scenata all’arrivo della figlia. Questa invece non si mostrava, ma piuttosto la donna, che era sembrata intimidita della loro vicinanza, allontanatisi gl’importuni, riprese a muoversi con maggiore libertà, e a scrutare in qua e in là colla mano aggrondata. Ma l’intero quartiere era a quell’ora completamente deserto; le luci, come sempre, spente a metà. 
Passò un tempo. Quand’ecco la fanciulla diciottenne dette in un piccolo grido soffocato; gli altri s’erano distratti un momento. — Guardate, — esclamò ella, — guardate ma che cosa fa? — China un poco, ma senza fretta, la donna sembrava inseguire un punto nero, una bestiola che si muoveva laggiù sul marciapiede, rasente il muro, e volerla colpire con brevi calci. — È un topo, macché topo un rospo, vorrà ammazzarlo! — proferirono con indignazione le donne; — oh strega! — gridarono poi tutte insieme. La donna invero, tratto di sotto al grembiule uno scaldino che nessuno aveva fin allora notato, da quello scuoteva sul punto nero cenere e brace; finché se ne formò contro il filo del muro un mucchietto, sotto il quale presumibilmente la bestiola restò sepolta. — Strega, vuol bruciarlo vivo! Corriamo a salvare il rospetto! Avviciniamoci, avrà paura —, disse la ragazza che guidava. — Ma siamo poi sicuri d’aver visto bene? lasciamo andare, — fece allora il pittore con un certo allarme. — Sì — soggiunse con tono persuasivo Lorenzo, che già cominciava a provare un vago senso di malessere, — sì, lasciamo stare. — Ma senza por mente a queste recriminazioni, la risoluta ragazza con una veloce marcia indietro raggiunse il luogo dov’era la donna. Vedendoli avvicinare, costei si rintanò nuovamente nel suo portone. Ora il mucchietto di cenere e brace era lì a due passi, ma l’animale che doveva esservi sepolto non si rivelava per alcun segno. Lorenzo, seduto dalla parte del marciapiede, vedeva come la brace incominciasse a spegnersi, lasciando in suo luogo leggeri tizzoncelli; ma la donna non aveva, chissà perché, il coraggio di guardarla. — Ebbene — ridisse il pittore con un qualche senso di sollievo, — dov’è questo topo, o rospo? Andiamocene. — La guidatrice, malgrado il suo slancio, era rimasta anche lei interdetta, né, mancandole all’ultimo momento la prova sicura della malvagità della donna, avrebbe potuto intervenire, seppur volendo; poggiate le mani sul volante, si contentava di guardarla, come smarrita. — Osservatela — mormorò a Lorenzo in un’altra lingua, — osservate un po’ quel viso. — Già — borbottò questi in risposta fingendo di volgersi, ma tuttora impeditone da un oscuro terrore; e pensava: «perché diavolo dovrei guardarla, me l’immagino fin troppo bene che viso ha! Non ci mancava altro stasera». — Avete visto, avete visto? — seguitava la ragazza. — Oh, sentite — proruppe Lorenzo, digià assai innervosito, in italiano: — che stiamo a fare qui? andiamocene, avanti, vi prego, mettete in moto —; «benedette donne!» pensava. Gli altri commentavano ciascuno alla propria maniera; anche il pittore pareva sulle spine e incitava la guidatrice a muoversi, col pretesto che, lui di quel quartiere, sarebbe stato riconosciuto dalla donna. — Suvvia andiamocene — ripeteva Lorenzo quasi quasi coll’intenzione d’ingraziarsi la torva creatura sulla soglia. Spinta più dalle loro volontà che dalle loro parole, la ragazza si decise da ultimo a mettere in moto, ma andò a fermarsi poco in là. Come se non avesse atteso che questo, la donna uscì cautamente dal suo portone e si diresse al mucchietto di cenere. — Ecco ecco — gridarono tosto le donne, che ancora non cedevano, — adesso va a vedere la sua vittima, torniamo indietro, salviamo il rospicino! — Andiamo a letto invece — gridò, quasi, Lorenzo asciugandosi un sudor freddo; ma già l’automobile si preparava a retrocedere. La donna frattanto, accostatasi al mucchietto di cenere, lo frugava colla punta del piede, e quindi addirittura colle mani; al sopravvenire dell’automobile s’allontanò di nuovo. Si vide allora lungo il filo del muro avanzare saltellando un piccolo rospo appunto, bruciacchiato e coperto di cenere, ma ancora vispo. 
Nessuno osava fare o dire nulla. La donna li spiava dal suo portone; il rospo, allontanatosi alquanto, indugiava adesso e accennava a tornare indietro, quasi soggiogato. — I rospi son come i gatti — fece melensamente il pittore — non muoiono tanto facilmente: si salverà. — Visto ora che non succedeva nulla, la donna si riavanzò decisamente sulla strada e cercava di colpire il rospo col piede, gli rovesciò di nuovo addosso la brace del suo scaldino. — Strega — mormorava la ragazza al volante, ormai vinta, — essa sfoga sul povero animale tutta la rabbia accumulata per via della figliuola. 
Lorenzo guardò finalmente la trista creatura; e un invincibile orrore lo penetrò alla vista di quella faccia stravolta e feroce, dagli occhi guasti e ardenti, dai lineamenti rattratti e quasi convulsi; quantunque sentisse bene che avrebbe dovuto far qualcosa, tuttavia l’animo non gli bastava. Non già che si peritasse di mostrare a donne la propria paura, ma c’era una complicazione: egli amava la ragazza al volante e temeva il suo disprezzo. Nondimeno era più forte di lui; — andiamocene — pregava come un bambino — andiamocene, che stiamo a fare qui? Avanti su, accendete il motore. — La ragazza lo guardò un momento, ma senza alcun disprezzo (e di ciò Lorenzo gli fu poi sempre grato, anzi pareva anche lei un po’ trasognata; — ma non capite — disse in un soffio — che è lei che ha paura di noi? 
Tuttavia si mosse, sospirando. Il rospo aveva frattanto in qualche maniera, raggiunto il mezzo della strada. Il pittore, come Dio volle, si decise a scendere, ma un po’ più in là, giusta la sua preghiera; sempre, diceva, per non esser riconosciuto. L’automobile si allontanò; le donne, dure a cedere, si guardavano ancora talvolta dietro. — Chissà a che cosa le servirà il rospo — diceva la ragazza diciottenne e con voce lontana; e soggiungeva, cercando di scherzare: — uh, mi sento bruciare la schiena! — Laggiù si vedeva il rospetto saltellare e trascinarsi debolmente, dal mezzo della strada, in direzione del suo carnefice.  
Il matrimonio segreto 



— Vedo proprio Signore che non v’intendete granché di queste cose. Sono allodiali, e con ciò? Non basta perché abbiano a essere necessariamente esenti da canoni. Se, per citare uno dei testi più accessibili, consulterete il Vorueber, vi avvedrete come l’allodio sia una istituzione giuridicamente paragonabile, in definitiva, al nostro demanio. Epperò i gravami che... 
— Fermatevi pure, Signore; come avete giustamente inteso, non sono troppo di questa partita. I vostri beni invece?... 
— Soltanto gli spillatici, che sono (come forse sapete) apporti di lato femminile, vanno esenti da canoni, tanto enfiteutici quanto allodiali: e di quest’ultima specie appunto sono, se ho ben capito, i vostri, dappoiché parmi rientrino nel sistema del mundio (o tutela), una delle più remote istituzioni della legge salica. Essi spillatici costituiscono da soli e propriamente i cosidetti beni drittuali (o possessi franchi), i quali non possono venire impugnati da alcuna autorità umana né gravati di balzelli o sottoposti a servitù in seguito ad alcun rivolgimento. Son questi che costituiscono, a vero dire, le uniche proprietà assolute di privati, più irremovibili di diritti terrieri imperiali. Di un tal genere al giusto, Signore, sono i miei beni. 
— Signore, non so che dirvi, voi mi stordite alquanto; io mi congratulo con voi. 
— Intenderete altresì di leggieri che una soccida, una fida o un menando sono forme al tutto escluse dall’amministrazione di detti beni. 
— Lo comprendo, sì, Ma infine tregua a un tale argomento, che m’è ingrato (voglio dire difficile). Ditemi piuttosto: come mai, avendo di tali possessi, non apparite ricco quale dovreste essere e forse siete? 
— Ahimè, di tali possessi assai pochi me ne rimangono, essendo il resto frutto di racquisti posteriori, per lo più dai beni della Corte. 
— Come «racquisti», e perché non «acquisti» senza più? 
— Eppure dovrebbe da un bel tratto esservi nota la condotta del Paggio di Balice! 
— Io non so davvero, Signore, neppure chi sia, costui. 
— Quando, Signore, il mio avo Patrizio, conte d’Ambrifi e digià barone della Sterza (ch’è la mia seconda investitura) s’alleò al Conte di Carinola (che fu in seguito uno dei baroni), il Pinto batteva quei paraggi. Era costui un capitano di ventura e aveva seco ben settecento lance spezzate, di facile contentatura d’altronde. Parteggiava per quei di Napoli e fu dai due signori giudicato profittevole alla loro causa; ond’egli s’insediò coi suoi nel castello d’Ambrifi (ora in rovina) e divise le nostre sorti. L’alleanza recò buoni frutti sulle prime, sebbene la scarsa munitezza dell’arnese ci esponesse a ogni attacco. La lungamano del mio avo e del suo alleato, ossia il Pinto stesso, raggiunse tosto il Castello... (io non vi dirò già quale), ottima posizione tra le forre, dominante gli sbocchi sulla valle del Verde, e lo occupò. Questo castello, già dei Farnese, poi dei Frangipane, divenne in seguito luogo abituale di residenza dei discendenti del Conte d’Ambrifi, e ciò vi spiega tutto. Ma, trascorso alcun tempo, i parteggianti per quegli altri si rovesciarono alla riscossa sulle terre occupate e tutta la regione (in particolare quella ora dominata dalle rovine del Castello... io non vi dirò già quale), fu teatro di mischie sanguinose. Gli alleati tenevano assai bene testa, a vero dire, a quegli altri, ma, spaventato dalle notizie delle stragi, il buon Carlo (che allora regnava su Napoli) volle sedare il contrasto. Egli chiamò a corte il figliuolo di Patrizio, Giovancarlo, col titolo appunto di Paggio di Balice, ossia ciambellano; una delle massime dignità, e lungamente ambita dai signori d’Ambrifi. In tal modo, scornato e diserto, il signore di Carinola rescisse l’alleanza, le posizioni conquistate (tranne il castello... io non vi dirò già quale) tornarono agli antichi possessori, e alla meno peggio la regione fu pacificata. 
— Ma ciò che voi dite non spiega ancora... 
— Il Paggio di Balice, giunto alla splendida corte di Napoli, e deposta la cotta per i velluti da cerimonia, infiacchito si dette alla dissipazione... 
— Ora comprendo. E quanto immaginate che, all’incirca, abbia dissipato il vostro avo in tale periodo? 
— Oh, non molto. Del resto il figlio di lui ebbe presto ricondotta, dopo la morte del padre, la famiglia all’antico splendore. 
— Allora? 
— Furonvi le successive divisioni. 
— Perché dite «furonvi» e non «vi furono»? 
— Signore, prendetemi come sono. Furonvi, dico, le successive divisioni; l’ultima alla fine dello scorso secolo. 
— E voi, poniamo, con mezzo miliardo supponete che riuscireste a ricostituire l’antica proprietà e a reintegrare, in generale, l’antico patrimonio? 
— Facciamo un miliardo. Ma non ho alcun bisogno che alcuno me lo offra. 
— Che volete dire? 
— Dico che... Ebbene, non è facile spiegarvi, così senza rivelarvi in pari tempo un segreto di troppo momento, un segreto familiare. 
— Ma di che si tratta all’incirca? Un tesoro forse? 
— Sì e no. Credete ciò che meglio vi piace. Quando i tempi saranno maturi (e non lo sono già gli attuali), vedrete che non mi sarà difficile restituirmi nel passato splendore. 
Un tesoro, se vi piace, e più che un tesoro. Ogniqualvolta il rappresentante del ramo principale della nostra schiatta raggiunge la maggiorità, suo padre, o chi per lui, gli comunica questo segreto, assieme all’altro che riguarda il suo futuro, eventuale matrimonio. Di ciò vi accennai, credo, altra volta. 
— Oh, il matrimonio, sì, rammento confusamente, ma dite. 
— Non saprei davvero come fare a spiegarvi. Ricordate quanto vi dissi circa la mano sinistra? 
— Oh, la mano sinistra! 
— Insomma, v’hanno delle limitazioni pel rappresentante del ramo principale. Egli non può legarsi di mano destra che con membri di famiglie qualificate in un certo determinato modo. Ogni altra parentela, o meglio affinità, restandogli permessa morganaticamente al più. 
— Non vi capisco affatto. 
— E come potreste! Occorre vi rifacciate al testamento della terribile Colomba; Colomba della Terra di Sonnino. Le clausole del quale testamento prescrivono una determinata condotta e stabiliscono (pazzesca volontà) una spaventosa penale in caso di non 
osservanza. 
— Ma che penale? Spiegatevi un po’ meglio. 
— Io non posso, come vi dissi. La perdita, infine, d’un diritto prezioso alla casata, per quanto, al presente segreto. 
— Che diritto? Meramente nominale, ovvero comportante vantaggi materiali? 
— Comportantene, ma in via ipotetica. I vantaggi materiali sopravverrebbero soltanto ove si producesse una determinata serie di circostanze, cui, in coscienza, non posso neppure accennarvi. 
— Contentatevi che io seguiti a non capire, Signore. 
— Vedete un po’: se, verbigrazia, voi foste imparentato colla dinastia regnante del Siam (o Thailand), non sarebbe questo comunque un vostro diritto, sebbene (per dir così) in potenza? È solo un esempio, d’altronde. O piuttosto: se foste imparentato, sia pure remotamente, a membro di famiglia che già avesse regnato sul Siam (o Thailand), dei cui diritti l’attuale famiglia regnante fosse considerata usurpatrice (non fosse che da un uomo al mondo)? Evidentemente, fra l’altro, il sovrano considerato legittimo, o chi ne discende, ha un intero sciame d’altri parenti più o meno stretti, più stretti nondimeno di voi medesimo, i quali tutti potrebbero, al momento opportuno, prima di voi far valere le loro pretese (ossia ciascuno in caso d’estinzione del ramo più prossimo); ma pure un diritto, se non altro teorico al trono del Siam (o Thailand) ce l’avreste in ogni modo né vorreste rinunziarvi. È chiaro? 
— Fino a un certo punto. Comunque io certo al diritto rinunzierei se dovesse compromettere la mia felicità, come senza dubbio il vostro matrimonio segreto deve fare. 
— Adagio, Signore. Il matrimonio potrebbe essere palese e palesissimo se da consumare con donne di famiglie in determinato modo qualificate. 
— Ormai non posso più seguirvi, Signore, visto che non so propriamente di che si tratta. Ma dite: non v’è modo alcuno d’impugnare il testamento di Colomba da Sonnino? 
— Della Terra di Sonnino, Signore. No, non ve n’ha alcuno. Ovvero ve n’ha, ma io non l’adotterei per nulla al mondo, a impugnare il testamento d’una mia ava, veneranda sempre per quanto terribile. 
— Or non diceste testé (vedete che mi fate parlar come voi) «pazzesca volontà»? 
— Ebbene, lo dissi sì, e la ragione è un’altra, del mio ritegno. Vedrò di rendervi chiara, senza rivelarvi alcunché dei nostri segreti, tutta la faccenda. Ecco qua: un punto debole v’ha, sì, nel testamento di Colomba della Terra di Sonnino. 
— E quale? 
— Un solo caso dall’accorta vecchia (la quale fu assistita nella redazione dai maggiori giuristi dell’epoca) non fu contemplato: quello dell’inettitudine al matrimonio, o diciamo pure incapacità, d’uno dei suoi discendenti diretti. Secondo il parere di autorevoli avvocati del principio dell’altro secolo, chi, rappresentante dico del ramo diretto della famiglia, si trovasse nelle condizioni suaccennate, potrebbe impugnare il testamento con successo; otterrebbe cioè completa libertà di scelta e per dir così d’esecuzione relativamente al suo matrimonio, e in più gli verrebbe pienamente riconosciuto il suo diritto di cui sopra. Ne avrebbe insomma il diritto franco d’ogni obbligo. 
— Ma che se ne farebbe, dico io, di questo ipotetico diritto, quando per converso non potrebbe fruire della libertà? Giacché certo non gioverebbe un granché la libertà di matrimonio a colui che per definizione non può sposarsi. 
— Ecco qua, ecco qua, ecco proprio il punto, Signor mio. Anche dove la volontà della terribile vecchia dormicchiò (dormitavit), ella ebbe partita vinta d’avanzo. Voi avete perfettamente capito in che strettoie io mi trovi, e come il testamento sia praticamente inimpugnabile. Supponendo che io adissi i magistrati e mi gabellassi per incapace, non potrei più in seguito contrarre matrimonio senza in una render vano quanto da loro si decreterebbe, senza cioè riperdere il famoso diritto. Avrei, in una parola, causa vinta contro la vecchia solo illusoriamente: Il meglio è dunque lasciar le cose come sono. 
— Ma vediamo, vediamo Signore. Questo diritto è egli tanto importante che non vi possiate risolvere a perderlo del tutto, con vostro generale vantaggio? 
— Ecco l’altro puntò che a voi, non conoscendo bene i fatti, non potrà mai riuscir chiaro.. Vi parlai a mo’ d’esempio d’un vago diritto al trono del Siam (o Thailand); ma in realtà il mio diritto è qualcosa di più, di molto più. Non so come farvi capire: —non è neppure che io possa rinunziarvi a volontà, anzi non posso rinunziarvi affatto in alcun modo, o perlomeno non v’è magistrato che abbia il potere di sciogliermi (se così posso dire) da questo diritto. È un diritto... un diritto terribile, che è in pari tempo un dovere inevitabile; qualcosa, guardate, come un diritto naturale, voglio dire fisiologico. Certo fiorire è pel famoso ciliegio un diritto, ma non è anche, in pari tempo, un dovere, una condanna? E potrebbe il ciliegio sottrarsi a quel diritto quando le gemme s’empiono di linfa; si gonfiano sempre più e per tenui pellicole e alucce di fiore; anelano a maritarsi coll’aria? Signore, è orribile! Voi non potete capire. S’io rinunzio al diritto è come se rinunziassi all’esistenza, e poco sarà per valermi l’ottenuta libertà, proprio come se, producendo inettitudine al matrimonio, il diritto invece serbassi. Non è cioè la stessa cosa, ma torna al medesimo. M’intendete un poco? 
— Signore voi sbiancate e quasi piangete! Le vostre mani scarne... il vostro volto patito.... Un sospetto mi assale. Tregua a tutto ciò in nome di Dio! Tronchiamo qui questa faccenda... 
— Sì, resti essa qui troncata per alcun tempo, per sempre forse. Peggio per chi indiscretamente ci ascoltava. 
— Ma io volevo chiedervi, perdonate... Signore, avete mangiato quest’oggi? 
— No, né quest’oggi né ieri né il giorno precedente, l’avete capito. Non ho denaro. 
— Oh, contentatevi ch’io vi tratti alla più prossima locanda. 
— Grazie, Signore. Andiamo, e che il cielo ve ne rimuneri. Ma per concludere, avrete almeno compreso, spero, perché io non possa sposare la gentile Leonzia. 
— Oh, Leonzia, sì, Leonzia... Ma venite. 
(Exeunt) 
Una cronaca brigantesca 



Das Rechtgefuehl aber machte ibn zum Raeuber und Moerder. 
MICH. KOHLHAAS 



Cedendo alle reiterate insistenze di persona a ciò interessata, esporrò brevemente quanto m’è noto della storia di Vittorio. Tengo le circostanze del mio racconto da tradizioni orali (di cui respinsi senz’altro le meno attendibili o evidentemente assurde) e, per la seconda parte, da testimoni degni di fede. Inutile poi mi sembrò nominare partitamente i luoghi, che chi deve leggermi o già conosce o riconoscerà facilmente. 
Una mattina sulla piazza del paese comparve fra gli altri sfaccendati il Palinferno, povero contadino di carattere chiuso e schivo che doveva il suo terribile nomignolo soltanto alla località campestre ove era nato. Recava indosso una vecchia gabbana militare borbonica, giacché, com’è naturale, aveva prestato servizio, più di dieci anni innanzi, nelle file dell’esercito napoletano, e i suoi scarsissimi mezzi non gli avevano ancora permesso di rinnovare il suo guardaroba. Ma il La Marina (sindaco in carica e padre appunto di Vittorio), il quale si trovava là a passeggiare con altre autorità del posto, lo ebbe appena veduto che lo investì con un diluvio d’aspre parole, e rimproverandogli in tono acerbo il suo abbigliamento e urlando: e che? ignori forse che l’Italia l’abbiamo fatta da un pezzo? lo schiaffeggiò, così al cospetto di ognuno. A una tale violenza lo spinse senza dubbio la presenza stessa degli spettatori, più che il suo carattere, pusillo a vero dire; fors’anche aveva qualcosa a farsi perdonare dai patrioti del luogo. Comunque il Palinferno non soffiò verbo e, voltosi in apparenza mogio e contrito, se n’andò donde era venuto e nessuno lo vide più. 
Senonché di lì a un certo tempo la notizia si sparse per il paese che una banda di feroci briganti infestava la regione. Tanto più simile notizia contristo e destò allarme, in quanto fin allora le contrade prossime al paese erano state miracolosamente risparmiate dalle scorrerie di quella temibile gente: solo due o tre scontenti s’erano in quegli anni dati alla macchia, ma, dispersi e del resto naturalmente moderati, non avevano potuto costituire un serio pericolo. Adesso invece un bandito di particolare audacia e scaltrezza (del quale già si raccontavano orribili cose) pareva aver raccolti gli sparsi contingenti della regione e averne composta un’unica, formidabile masnada; di più, sembrava aver guidato questa masnada per l’appunto sul paese e averla addirittura stabilita nelle sue immediate vicinanze. Ora, presto si seppe che il minaccioso capo altri non era che il Palinferno stesso, l’umile contadino che appena pochi mesi prima nessuno prezzava più che tanto. Egli era senza dubbio una di quelle nature da cui un caso impreveduto e in apparenza insignificante scopre a un tratto una straordinaria forza nativa, covata fin lì in silenzio. 
Sta di fatto che presto la vita dei paesani divenne intollerabile: nessuno ormai dei privati o pubblici beni poteva considerarsi sicuro; e non solo gli averi, ma le persone stesse erano continuamente minacciate. Nelle loro ardite scorrerie i banditi si spingevano talvolta fin sotto le mura del paese, vi fecero anzi in quel temo due o tre volte irruzione, evidentemente favoriti da manutengoli, compari o gente di concerto. Da nulla impauriti, ridendosi d’ogni misura repressiva adottata dal Comune e dei rinforzi che questo seguitava a chiedere disperatamente alla provincia, beffandosi delle ingenti taglie poste sui loro capi; quei fuorilegge rapinavano, devastavano, sottoponevano a gravosi quanto arbitrari balzelli la popolazione dei campi, uccidendo o mutilando barbaramente chi osasse loro opporsi. A due giovani delle migliori famiglie, rapiti di nottetempo, fu tagliata l’orecchia e inviata secondo l’antico uso alle case con pretesa di riscatto. Per sovvenire alle loro esigenze sempre crescenti e ottenere il proscioglimento degli ostaggi, nella tema del peggior male le famiglie intanto s’impoverivano. Una cupa aria di sospetto gravava sul paese: la presenza dei misteriosi compari entro le mura stesse faceva s3 che nessuno osasse più confidarsi neppure al proprio fratello. I contadini non ardivano più raggiungere i loro campi, i viandanti varcare le porte. Le campagne erano quasi deserte, i magri raccolti abbandonati in balia di quei feroci, e, in breve, la gente viveva come sotto un incubo continuo. 
I più colpiti da questo flagello erano naturalmente gli averi e le genti del La Marina. Il quale capeggiò in persona (sebbene tenendosi nella retroguardia) alcune spedizioni contro i banditi. S’erano ottenuti dal capoluogo contingenti di milizie specializzate in quella caccia; ma qui le montagne erano troppo impervie, i boschi troppo folti, le gole e le forche troppo insidiose, e d’altronde i banditi in numero rilevante. Le spedizioni, infine, non ebbero alcun successo; un’unica volta i battitori riuscirono a incontrarsi col grosso della banda e stimarono più prudente, date le posizioni e le forze reciproche ripiegare. Una circostanza sopravvenne poi a inasprire ancor più l’animo dei banditi, ponendo pertanto il colmo alla confusione e al disagio generale. 
Al La Marina sovvenne d’usar l’astuzia là dove la forza aveva fallito. V’è sui monti un valico, o forca, passaggio obbligato, a quei tempi, per quanti dovessero recarsi al mare, epperò luogo favorito d’appostamento della banda del Palinferno: il viandante che vi s’avventurasse poteva star certo di venir almeno fermato e svaligiato. Ora, il sindaco ebbe l’idea di mandar da quella parte un uomo di sua fiducia che facesse le viste di trasportar commestibili verso il mare: i quali commestibili avrebbero dovuto essere avvelenati. Senonché il degno uomo fu assalito all’ultimo momento da scrupoli religiosi, onde si confidò circa il suo progetto col parroco. Questi tuttavia, considerato che s’agiva a fin di bene, gl’impartì la sua preventiva assoluzione, benedisse anzi, l’impresa e il La Marina s’occupò di recare, senza più, ad effetto il suo piano. Scelse fra la gente devota alla propria casata un tal mulattiere, caricò le sue bestie d’un certo numero di quelle forme di cacio dette, ignoro perché, caciocavalli, accuratamente manipolate da ammazzare un bue sull’atto, e avviò il convoglio così formato verso il detto valico. A chi gli fece osservare che sarebbe in fondo bastato un solo mulo e una sola forma di cacio, replicò che i banditi avrebbero forse disdegnata una troppo esigua preda, eppoi sperava che tutti avrebbero gustato di quel formaggio, e non solo il loro capo (cui era per nota consuetudine riserbata la primizia d’ogni bottino). Ma ecco, dopo una mezza giornata, il mulattiere tornarsene malconcio e pesto da far pietà e col carico intatto. Raccontò che i banditi, scortolo appena, gli si erano precipitati addosso gridando: «eccoti dunque, proprio te aspettavamo!» e, dato di piglio a certi loro randelli, l’avevano ridotto come ognuno poteva vederlo, soggiungendo da ultimo: «e adesso questo formaggio riportalo al tuo padrone e digli da parte nostra che presto ne mangerà di simile per quanto è vero Dio, lui e i suoi. Quanto a te, non sei che un povero scimunito e per questa volta ti perdoniamo». Ciò detto, e girata la testa dei muli e del mulattiere verso il paese, a suon di randello avevano data la via a tutto il treno. 
Da questo caso alcuni vollero inferire che il parroco stesso era della partita. Ad ogni modo la faccenda non servì ad altro, com’è chiaro, che a incattivire al massimo i banditi. La tensione ne aumentò d’un tanto, specie fra i due protagonisti: ormai qualunque uomo del La Marina, colono cliente o semplicemente amico, cadesse nelle mani del Palinferno, era senz’altro passato per le armi. Le rapine e gli assassini non si contavano più, né vi si scorgeva riparo; ne aumentò in conseguenza anche il comune disagio. Occorre tuttavia soggiungere a questo punto che, per quanto accanito contro le proprietà e genti dei signori e del sindaco in particolare, il Palinferno pareva mostrare una certa clemenza ai poveri e agli umili, che non di rado infatti sembra trattasse con umanità, se non con cavalleria. Ma un bandito è poi sempre un bandito. 
Così appunto stavano le cose, quando una notte il La Marina ebbe una visita che era le mille miglia lontano dall’aspettarsi: quella del Palinferno in persona. E qui è vera mente il punto oscuro della storia. Che il sindaco lo lasciasse entrare non è meraviglia, data la costante presenza nel suo palazzotto d’una guardia armata, e quegli era venuto solo e senz’armi; ma è piuttosto circa il colloquio seguito fra i due che la tradizione non si pronuncia in modo appena plausibile, né dunque aiuta comechessia a intendere quanto avvenne dopo. 
Pare in sostanza che il Palinferno si presentasse colla massima umiltà nella casa del suo mortale nemico, avvertendolo nondimeno in pari tempo che non c’era nulla da fare contro la sua persona; giacché, diceva, l’intera sua banda era quella notte stessa riuscita a penetrare dentro la cerchia del paese e aveva con lui stesso un appuntamento a corta scadenza. Se dunque egli non si fosse in tempo debito presentato al luogo convenuto, i banditi tutti avrebber tratta di ciò pronta e terribile vendetta. Se, per converso, il sindaco si fosse mostrato ragionevole e avesse consentito ad ascoltare (anche per rifiutarle poi) le sue proposte, egli Palinferno s’impegnava a ritirar dal paese la masnada senza colpo ferire, andassero in seguito le cose come potevano. Queste proposte erano proposte di pace: il bandito confessava i suoi torti e s’augurava che lo stato di cose prodottosi avesse un termine; chiedeva la cessazione delle ostilità e che si ponesse in oblio il passato. Da parte sua garantiva per sé e per i suoi tale cessazione, e soltanto si rivolgeva al sindaco perché favorisse quant’era in suo potere il momentaneo ritiro della banda verso luoghi più sicuri, in attesa di meglio; ossia che, sedatesi un poco le acque, la banda stessa si fosse gradatamente sciolta per restituire alla società degli. onestuomini. Ma la cosa più straordinaria è che si chiedeva per questa specie di contratto al sindaco qualche garanzia. E, in particolare, gli uomini del Palinferno esigevano a sua detta che si facesse sulla montagna, in luogo da stabilirsi, un gran pranzo di riconciliazione, cui avrebbe dovuto partecipare non solo il La Marina, ma anche tutta la sua famiglia al completo, donne ed infanti fino all’ultimo compresi; e senz’armi, s’intende, e senza compagnia. Ciò, dicevano, per esser sicuri della buonafede d’ambo le parti. Quanto al giustificare così improvvisa e stupefacente umiltà, il Palinferno adduceva, oltre al suo sincero pentimento, la sua posizione ormai insostenibile, assicurava, colle continue battute organizzategli contro. 
È difficile immaginare di quali minacce o lusinghe si valesse nel corso di questo colloquio il bandito, o che mozione degli affetti gli riuscisse d’operare su un uomo debole in fondo (ma perciò anche prudente) quale il La Marina: intorno a ciò, che è poi il più importante, le cronache come ho detto non si pronunciano. Verosimilmente il sindaco non prese per buone le ragioni di colui, anzi giudicò ormai insostenibile piuttosto la sua propria posizione, il che però torna allo stesso effetto; come non è da escludere che, essendo un passionale, si lasciasse realmente commuovere; forse anche il Palinferno pizzicò con insistenza la corda del pubblico interesse, argomento cui l’altro (per ambizione e per retorica, nonché al postutto per sentimento) era in particolare sensibile, sicché la parte di patrocinatore, con suo grave rischio, della comune causa e di salvatore del paese non era per dispiacergli; o infine il La Marina fu tradito dalla sua stessa prudenza, ch’è in generale cattiva consigliera. Sta di fatto che la proposta del Palinferno, per quanto inaudito possa parere e se non seduta stante, fu nondimeno accettata. Emissari delle due parti s’incaricarono di fissare le modalità dell’incontro e una bella mattina l’intera famiglia del sindaco, donne e bambini, col sindaco stesso alla testa, prese la via della montagna. 
Donde, come si può immaginare, nessuno tornò più indietro. Il luogo dove si fece il pranzo è ancor oggi mostrato dai contadini e certo la persona per cui scrivo lo conosce. Dirò soltanto che si tratta d’un piccolo altipiano con un vertiginoso strapiombo, da una parte, su un letto di torrente quasi sempre a secco, sparso di grossi e aguzzi macigni, quale tuttora si può vedere. Qui i banditi accolsero la famiglia del sindaco e la intrattennero dapprima piacevolmente, mansueti in vista come agnellini. Quando poi ebbero ingozzati questi infelici di cibo e di vino (e in questo differire la catastrofe si distingue la raffinatezza del capobanda), li spinsero come senza parere verso lo strapiombo. Dove li precipitarono, sembra, uno alla volta, godendosi dall’alto la scena della loro disperata caduta. Nessuno fu risparmiato: neppure il poppante che la madre teneva fra le sue braccia e che fu spinto nel vuoto sotto i di lei occhi. Data la sua leggerezza, la piccola vittima pare restasse sospesa per le fasce a una sporgenza della parete rocciosa contro cui cresceva un ciuffo di scope; in questa lamentevole posizione, e già orrendamente insanguinata, la creaturina frignò un momento e tostò esalò come tutti gli altri l’ultimo respiro. — Perisca così il nome stesso di questa infame schiatta! — disse il Palinferno compiuta la strage. 
Dodici persone, fra grandi e piccini, perirono in quel giorno di primavera. Il massacro parve calmare un poco i banditi, che gradatamente in prosieguo di tempo furono sterminati, o si dispersero, o tornarono alle loro case (a quei tempi la giustizia non aveva mezzo d’andar troppo per il sottile). Il Palinferno sembra trovasse la morte in uno scontro con truppe di regolari, ma ciò non è dato per sicuro, e insomma la tradizione sembra perderlo di vista dal giorno dell’eccidio. E qui comincia propriamente la storia di Vittorio. 

Il Palinferno s’era soltanto immaginato, di sterminare l’intera schiatta dei La Marina; in realtà uno di quel ceppo viveva ancora, ed era appunto Vittorio. Il giorno della strage il sindaco l’aveva lasciato a casa affidato alle cure d’una vecchia fante, perché era affetto da non so che disturbo infantile e si temeva che l’aria e lo strapazzo dovessero fargli male. Di questa coperta contravvenzione ai patti il Palinferno, secondo proprio sperava il La Marina, non s’era avveduto: il sindaco aveva infatti numerosa figliolanza, e per di più il bandito poteva addirittura ignorare la venuta al mondo di Vittorio, ch’era neonato appena, essendo, come s’è veduto, il suo fratello immediatamente maggiore ancora di poppa al momento della strage. 
Vittorio, orfano e padrone d’un vistoso patrimonio, ricevé educazione irregolare e, per esser franchi, crebbe in una certa licenza. A trent’anni o giù di lì era un giovane che, come suol dirsi, gli puzzavano i baffi, ossia, in termini piani, alquanto facinoroso. Stava a Napoli e diceva di frequentare quella università. Ora avvenne che di là andasse un giorno, accompagnato da certi amici compaesani, in gita ad A., cittadina i cui abitanti passavano e passano tuttora per gente di malavita. 
La brigata si trattenne colà fino alla sera e verosimilmente innaffiò di copiose libagioni la cena che consumò in un’osteria del luogo. Certo è che uscendo dall’osteria vennero a diverbio per futili motivi con due passanti. Sembra che uno di costoro nella semioscurità urtasse sbadatamente Vittorio, per il che il giovane protestò vivacemente. L’altro cominciò collo scusarsi, ma Vittorio insisteva, voleva paglia per cento cavalli né si capiva che cosa in sostanza pretendesse di più: egli aveva tutta la protervia di suo padre, ma non la prudenza, o pusillanimità che dir si voglia, a temperarla, e certamente era eccitato dalla presenza dei compagni nonché dalla stessa cattiva fama di quegli abitanti. I due del luogo, d’altra parte, avendo riconosciuta una brigata di forestieri, tanto meno ne erano disposti a lasciarsi passare la mosca sul naso. Ciononpertanto essi diedero sulle prime prova di grande moderazione e invitarono, persino con un certo rispetto, l’energumeno a tirar diritto pei fatti suoi senza volerli spingere a qualche estremità. Quell’aria di sicurezza parve specialmente irritare l’alticcio Vittorio e tanto bastò perché egli perdesse completamente il lume degli occhi; dalle proteste passò alle minacce e alle sfide, e infine ottenne ciò che forse voleva, ossia che i due perdessero da ultimo la pazienza. 
Il dramma si svolse fulmineo; a un tratto si videro brillare fra le mani dei due figuri quei coltellacci acuminati che prendono il nome di sfarsiglie o sfarziglie, e di cui un abitante del luogo di rado andava sprovvisto al principio di questo secolo. Una gran confusione ne nacque per un momento, e non si sa come precisamente siano andate le cose: gli amici di Vittorio presero la fuga trascinando seco il compagno, ma un breve scontro fra questi (che da scalmanato s’era spinto più avanti degli altri e gli armati doveva già esser seguito. Per un certo tempo gli amici, che fuggivano un po’ alla spicciolata, furono inseguiti dai due malviventi arma alla mano; poi questi sembrarono lasciar presa a quelli, cessato il pericolo, si riunirono più oltre, entrarono anzi in una seconda osteria per rimettersi dall’emozione. Vittorio commentava vivacemente l’accaduto, sacramentando che avrebbe saputo dare il fatto suo a quella gente se non l’avessero trascinato via e malgrado qualsiasi coltello. Era accaldato per la corsa, ancora tutto eccitato, e pareva star benissimo; s’erano seduti attorno a una tavola e s’apprestavano a trincare. 
Ma uno degli amici s’avvide a un tratto, abbassando gli occhi, che dal ventre di Vittorio, squarciato, pendeva un pacco d’intestini: il giovane non aveva ancora accusata la ferita riportata a caldo nello scontro di poco prima! Non appena si vide in quello stato, impallidì orribilmente e perse i sensi; forse anche l’insorgere del dolore coincise colla scoperta del compagno. Soccorso come meglio si poté, trasportato poi a Napoli, morì tuttavia in capo a un paio di giorni: quella ferita era molto più grave di quanto lasciasse supporre la disinvoltura con cui il giovane l’aveva di primo acchito sopportata. 
Gli accoltellatori, attivamente ricercati dalla giustizia, furono dopo qualche mese trovati, ad A. stessa, che avevano eletto loro domicilio in due loculi vuoti di quel camposanto, ed esemplarmente puniti. 
Si compì in tal modo, a tanti anni di distanza, il destino dell’infelice famiglia dei La Marina e, in una, la maledizione del Palinferno. Vittorio infatti non lasciava eredi diretti, e quel nome è ormai vano; esso sopravvive ancora nei racconti di qualche vecchio, ma presto si sarà perduto del tutto.  
Da: «La melotecnica esposta al popolo» 



Era mio intento testimoniare qui pubblicamente la mia riconoscenza a Eugenio Montale, il celebre baritono profondo (o basso cantante, singing bass), che mi fu largo di consigli e incoraggiamenti durante la redazione dei tre capitoli che seguono. Debbo rinunziarvi per sua espressa volontà: così grande è la sua modestia! Essa è anzi tale, che il Maestro fa ben poco caso della sua universal fama d’artista lirico e volentieri – ebbe egli medesimo a confessarmi – la cambierebbe con una anche più modesta nell’arengo delle patrie lettere: debolezze d’uomini illustri! (Da sapere, infatti, che il Montale è autore di due libretti di poesie, non prive al certo di pregi, ancorché lontane dall’eccellenza ch’egli ha raggiunta sulle scene liriche). 
  
CAP. MCMLVIIII: DEL PESO E DELLA CONSISTENZA DELLE NOTE 



Ciò che invece non tutti sanno è che le note emesse da gola umana hanno un proprio peso e una propria consistenza, più o meno apprezzabili secondo la valentia e la potenza dei cantanti, poco apprezzabili dunque o addirittura inapprezzabili nella maggior parte dei casi, notevoli tuttavia in alcuni e anzi notevolissimi e pericolosi. Si calcolò ad esempio, mediante appositi apparecchi, che un do di centro del celebre basso Maini pesasse 14 tonnellate in cifra tonda. Il peso delle voci tenorili e delle femminili in generale è in media assai più esiguo: i centri d’un Tamagno s’aggiravano fra le 3 e le 7 tonnellate al massimo. Una sola contralto, la celebre Publinska, raggiunse in un’emissione isolata le 10 tonn. Il peso delle note baritonali è in generale medio. Per fortuna le note sono dotate di grande elasticità e rapidamente divengono fluide e s’espandono. Emesse nondimeno in determinate posizioni, possono conservare, anche a una certa distanza dalla bocca del cantore, una parte del loro peso e della loro compattezza originaria. In alcuni rari casi possono addirittura presentarsi più dure del ferro e costituire una vera e propria minaccia sia per gli ascoltatori che per gli artisti stessi; ond’è che questi ultimi hanno costantemente cura, a ogni buon fine, di emetterle verso l’alto o al disopra delle teste degli ascoltatori e dei compagni, come appunto ciascuno ha veduto loro fare. Ci compete tuttavia far qui cenno, sebbene a malincuore, di alcuni tristi episodi che funestarono la scena lirica, più rari di gran lunga, fortunatamente, oggidì: valga un caso per tutti. 
Un tenore di cui si tace pietosamente il nome, avendo durante l’esecuzione di un’opera di Verdi obliata la suddetta precauzione, colpì il baritono che stava eseguendo seco lui un duetto con una nota non troppo acuta a vero dire (si trattava appena d’un si naturale), ma emessa in tale posizione e così precisa e ben timbrata, che uccise l’infelice sul colpo. Gli spettatori videro barcollare e accasciarsi il povero baritono, né si resero conto se non più tardi della terribile verità simile a un’affilatissima lama la nota del tenore l’aveva passato da parte a parte! Coglieremo qui l’occasione per rilevare di sfuggita che infatti soltanto le note precise, ben timbrate ed emesse in posizione corretta (ossia quelle che si dicono tecnicamente note giuste) son fornite di peso e di compattezza, essendo al tutto le note sbagliate, calanti o salienti, destituite di peso. L’eccellenza dunque del tenore nella sua arte costò la vita a un compagno! 
Questa particolarità dell’umana voce fu anche motivo di qualche scena grottesca, nonché di qualche bizzarra scommessa fra artisti; vogliamo qui citare un paio di casi per la buona bocca. Durante l’esecuzione d’un’opera cui assisteva, nella prima fila delle poltrone (anziché nel palco reale per suo capriccio) la Granduchessa di Livonia, un famoso basso lasciò sbadatamente cadere una nota a breve distanza, invece di lanciarla lungi da sé è verso l’alto come avrebbe dovuto. Tosto si vide la Granduchessa levarsi sdegnata e ritirarsi con qualche parola di protesta contro l’inurbanità dei cantanti italiani: gli è che la nota gli era caduta sui piedini e, pur avendo perduto quasi tutto il suo peso, li aveva nondimeno sgraziatamente pestati. 
Seguitiamo. Due tenori di voce assai potente, fra cui correva gelosia di mestiere, si lanciarono una volta pubblica sfida: ciascuno avrebbe dovuto mostrare, davanti a numerosa assemblea, di che era capace la propria ugola,’ restando gli ascoltatori giudici della consistenza e qualità delle rispettive voci. La seduta ebbe luogo solennemente. Uno dei tenori riuscì a reggere per parecchi secondi in bilico su una sua nota (naturalmente di testa) una di quelle palline vuote di celluloide che si veggono danzare sugli spruzzi d’acqua nei tirassegni popolari. Tosto l’altro tenore, senza darsi per vinto, tentò con successo quanto nessun artista aveva ancora osato tentare: egli s’arrampicò su una propria nota come il piccolo eroe della fiaba sullo stelo del magico fagiolo! Egli anzi, variando l’intensità della nota stessa e modificando le condizioni di emissione, riuscì ad andare su e giù alcun tempo nell’aria, quasi un diavoletto di Cartesio di nuovo genere! Si capisce che il responso del pubblico non si fece attendere. 
Un cantante può essere più o meno abile nel lanciare la nota lontana da sé e, per così dire, nell’espellerla completamente dalle proprie cavità. Quando questo procedimento riesca appieno, la nota ricade dolcemente, simile a leggero vapore o a rugiada, sull’assemblea, e ciò è di quasi tutte le note dei grandi artisti; in caso contrario essa opprime, ricadendo, gli spettatori e induce in loro un caratteristico senso di pesantezza. La maggior parte poi dei cattivi cantanti non giunge neppure a espellere interamente la nota, sicché questa rimane, per servirci d’un’immagine grossolana, a metà nell’interno del cantante stesso. Se ne stabilisce cogli ascoltatori una specie di comune sofferenza: il pubblico trae istintivamente la nota a sé quasi per liberarne l’infelice, che da parte sua non chiederebbe di meglio e in tutte le maniere, con boccacce e conati d’ogni genere, cerca d’assecondarlo (senza peraltro riuscirvi, giacché una nota si emette tutta in una volta ovvero non si emette più interamente). È insomma una specie di parto difficile, e sono queste, è superfluo aggiungerlo, le audizioni più penose. 
Diremo per concludere che una nota del grande Caruso fu una sera raccolta da un appassionato del lubbione. Era un do sovracuto e raggiunse, per bizzarra anomalia, quel l’altezza ancora alquanto consistente. Si presentava, a detta dell’appassionato che la raccolse un momento nel cavo della propria mano, come un grumo di materia biancastra opalescente e quasi ormai priva di peso, con forte tendenza alla dissoluzione e alla disfusione; l’appassionato non riusciva a trattenerla, essa gli sfuggiva come denso fumo di fra le dita, e in un baleno colui se la vide dissolvere e svanire sotto i suoi propri occhi. Giova però notare che quel grumo non era verosimilmente che il nucleo della nota stessa, la quale doveva già aver perdute durante l’aereo tragitto tutte le sostanze secondarie che la componevano e tutta la propria risonanza. 


CAP. MCMLX: DEL COLORE DELLE NOTE 

Del pari molti ignorano che le note emesse da gola umana hanno un loro proprio colore, diverso, s’intende secondo la loro altezza, intensità, giustezza. Tale colore non è però apprezzabile che in determinate condizioni, ove cioè nell’atmosfera si sia preventivamente provveduto a diffondere vapori di bario e di sodio (combinati giusta le indicazioni del Fibonacci) e a luce radente. Le note si presentano allora, in generale, come una sostanza gassoliquescente biancastra, dotata d’una vaga fluorescenza, inafferrabile e non captabile in storta (e ciò vorrebbe confermare le osservazioni dell’appassionato di cui in fine al precedente capo). Questo generale aspetto si modifica nondimeno e muta notevolmente secondo, come s’è detto, la particolare natura di ciascuna nota. Così, le note alte (o acute) mostrano un’insistente tendenza all’azzurro tenero, ma possono tuttavia apparire persino vagamente vermiglie o verdognole in determinati casi; le centrobasse offrono allo sguardo una gamma sempre più cupa a misura che si procede verso il registro profondo e si aggirano in generale sui colori detti dai pittori goladipiccione e verdebruciato o verdefogliamorta (fino a un certo limite, oltre il quale di nuovo schiariscono), ma possono in determinati casi assumere una brillante colorazione grigioperlacea; e così di seguito. Le note sovracute (o ultracute) appaiono il più delle volte fortemente decolorate e come candenti; mentre le subbasse (o infrabasse), sebbene più chiare delle centrobasse e persino delle centracute, sembrano orientarsi costantemente verso un bigio unito e smorto, bassissimo di tono e alquanto fumoso. Ma in generale conviene dire che non si dà colore o sfumatura che non possa essere presente nelle note d’un cantante. 
In verità queste numerose variazioni di colore si devono anche, oltreché alle condizioni indicate in principio, alla qualità delle voci: voci nella medesima chiave possono infatti essere più o meno cupe (o appunto, secondo l’espressione comune, scure), ossia, per usare termini piani, fra due tenori o due baritoni o due contralti qualunque, l’uno può avere per natura voce di diverso colore dell’altro: Chi ad esempio ebbe la fortuna di vedere la voce del famoso tenore di grazia spagnolo Gayarra, assicurò che non si, sarebbe potuto immaginare spettacolo più incantevole: il rosapallido, un verde tenue e vaporoso, un celeste brillante e tuttavia delicato, velature d’avorio e sfumi di biondo; tali erano, a detta di coloro, i toni dominanti delle sue note, che nessun pittore avrebbe saputo fissare sulla tela. Un fa del grande basso De Angelis apparve invece a chi scrive quasi completamente nero, con solo qualche zona d’un cupo e funebre rossocardinale. Per contro il fa sovracuto dell’eccelsa soprano Buliceva pare fosse al tutto bianco, e incandescente e vivido al punto da riuscire insostenibile allo sguardo. 
In generale poi tanto più giusta è una nota, tanto più vivo brillante e sonoro ne è il colore, senza pregiudizio dell’intensità, la quale può sì influire sulla natura o genere del colore, ma non mai sulla sua qualità. O, in altri termini, una nota comunque sbagliata resterà sempre, per quanto poderosa voglia essere, sorda di tono e (si dice dai pittori) matta. 
Le note sbagliate possono, dal punto di vista cromatico, produrre talvolta i più curiosi effetti; non solo le stonate propriamente dette, ma persino quelle semplicemente calanti o salienti. Studiosi che sperimentarono su cantanti con forte tendenza alle stonature, ci hanno trasmesso singolari resoconti delle loro sedute. Così una volta, durante il canto d’un tenore portato a calare, gli assistenti ebbero l’impressione d’una serie di successivi oscuramenti: evidentemente a ogni nota calante dell’artista corrispondeva un oscuramento. Un’altra volta invece un rapido susseguirsi di bagliori o lampeggiamenti accompagnò l’emissione di note salienti nella romanza d’una nota soprano. Infine l’emissione del tutto fuoritono d’un basso provocò una sera nella sala dell’esperimento una completa oscurità, che durò qualche secondo, ossia finché il cantante non si decise a interrompere la sua nota, che aveva invece in animo di tenere fino a esaurimento del fiato; mentre, sul punto che un tenore stonava in una nota acuta, si vide una folgore muta guizzare per l’aria e tosto dileguarsi. 
Daremo cenno da ultimo, a conclusione di questo capo, di due bizzarri fenomeni osservati da numeroso pubblico in due diverse occasioni. Una volta, a una nota profonda e prolungata (un sol sotto le righe) del già citato basso Maini, la sala si riempì bruscamente d’una sostanza volatile simile a nebbia o fumo, che ispessì fino a un certo limite, per poi diffondersi e svanire rapidamente. Un’altra volta una nota di centro alto del tenore Bonci provocò l’apparizione in pieno teatro d’un meraviglioso arcobaleno, con base all’altezza circa dei palchi di second’ordine. L’arcobaleno, impallidendo gradatamente, restò visibile per quasi 3 minuti primi, cioè tutto il tempo che l’orchestra impiegò a eseguire l’intermezzo seguente la romanza (se quella nota non fosse stata l’ultima d’una romanza forse le successive avrebbero tosto disturbato il fenomeno). È da notare che i due fatti riferiti si produssero in pubblici teatri e senza la preparazione chimica dell’atmosfera necessaria, come si disse, alle manifestazioni fonocromatiche; di ciò gli specialisti non hanno saputo a tutt’oggi darci spiegazione soddisfacente. Se ne deve comunque concludere che eccezionalmente, e in condizioni ancora dalla scienza imprecisate, i fenomeni visivi in generale possano essere anche spontanei. Tanto d’altronde lascerebbe credere l’esperienza degli appassionati delle scene liriche; i quali non di rado accusano durante gli spettacoli sensazioni più o meno strane e di varia natura, nonché sindromi psichiche diverse. Il senso di smarrimento, d’oppressione, d’uggia persino, cui soggiacciono talvolta gli appassionati non deriverebb’egli, arrischiamo qui per la prima volta l’ipotesi, dalle varie reazioni dell’organismo agli stimoli cromatici (anche se inapprezzabili dalla coscienza) oltre che ai tattili di cui al precedente capo? 


CAP. MCMLXI: DI ALTRE PARTICOLARITÀ FISICHE DELLE NOTE 

Le note emesse da gola umana hanno inoltre un loro proprio sapore o gusto, un odore, un calore, una forma e infine una composizione chimica più o meno determinati. In generale una nota si può dire apprezzabile, in date condizioni, da ognuno dei cinque sensi, separatamente o all’unisono. Ma purtroppo gli studi su questi punti, per inesplicabile negligenza degli investigatori, non sono (nella nostra epoca che pure ha segnato il vittorioso progresso di tante scienze) molto avanzati; ci limiteremo pertanto qui a qualche indicazione generica. 
Per quanto riguarda il loro sapore, le note si presentano nella maggior parte dei casi assai amare, particolarmente le estreme (profonde e acute, mostrando le medie o di centro una certa tendenza ad addolcirsi); esse divengono tuttavia in qualche occasione inesplicabilmente dolci e persino dolcissime. Ciò almeno teniamo dalla testimonianza dei cantanti, i quali però non sanno fornirci, ragguagli più esaurienti sul gusto specifico delle note stesse (che si limitano ad affermare indefinibile) né sulle probabili cause dell’addolcimento; giacché su quest’ultimo non sembrano influire l’impostazione o l’altezza della nota. In mancanza di sicuri dati scientifici immagineremo la nota, proveniente dalle cavità interne dell’artista, come suscitante, giunta che sia a contatto delle sue papille gustatorie, una violenta sensazione d’amaro, secondo press’a poco avviene del contenuto stomacale durante il vomito. Ciascuno conosce infatti i conati e le boccacce che presiedono, nella maggior parte dei casi, all’emissione specie di note alte o bassissime (cioè delle più amare: a tale amaritudine sembra invero che solo pochi artisti siano riusciti ad abituarsi). Come anche ciascuno ha veduto talvolta qualche soprano leggero assaporarsi in punta di lingua taluna nota che le si sia insospettatamente rivelata dolce al palato. 
Circa il calore, le note appaiono in generale dotate di forti proprietà termiche, ma possono in certi casi, per motivi anche qui, imprecisati, raggiungere una temperatura bassissima, quale quella registrata da un esperimentatore occasionalmente solerte di – 180° Celsius: un vero fiato d’avello! Ogni amatore del teatro lirico ha visto, il più delle volte, i cantanti sudare copiosamente, ma conosce anche il caratteristico senso di gelo che si diffonde per la sala a certe note. Questo calore, la cui natura non è neppur essa precisata, pare essere piuttosto di tipo umido (ben diverso pertanto da quello che potrebbe tramandare una stufa elettrica), ossia ciò che si dice un calorgrasso, simile all’afa di alcune giornate d’autunno. 
Le note sono comunemente inodori, ma possono talvolta assumere odori vari, dal più gradevole al più sgradevole, in conseguenza della loro composizione chimica cui stiamo per accennare. Così, il pubblico avvertì in alcuni casi odori di viola (la naturale della soprano Tetrazzini; certo dovuto al tungsteno), di bergamotto (mi bemolle della mezzosoprano Gek-Gek; vapori d’ortoclasio?), di giglio (fa diesis del baritono Battistini; apatite), del profumo in fiale detto Cuir de Russie (secondo le signore presenti; re sovracuto del tenore Lauri Volpi; corindone fluorite o elio) ecc. E, per contro, di formica (si tace per motivi d’opportunità il nome degli artisti; acido formico), di secreti renali, (ammoniaca), di pesce (biossido di carbonio e acido solforico), di materia organica in decomposizione (stronzio e vari altri elementi), «di faraona bollita andata a male» (?; testimonianza d’una signora, ma alquanto isterica; elio e radio combinati?) ecc. 
In tal modo abbiamo anche, senza volere, dato notizia dei principali elementi chimici che compongono le note. Aggiungeremo qui ché questi elementi appaiono combinati, in proporzioni variabili, su una base che si può dire costante, formata da alcuni metalli nobili (oro argento platino) e da alcuni gas lievi (idrogeno elio...) in diversi stati; né la presenza, nelle note, di minerali sarà per meravigliare chi abbia già scorso il capo MCMLVIII del presente volume. Tuttavia la base stessa delle composizioni si modifica talvolta secondo circostanze a tutt’oggi imprecisabili, e in generale si deve dire che non vi sia elemento conosciuto che non possa essere presente nella composizione d’una nota. Ma, il lettore si faccia ora il più attento che può, nelle note emesse da gola umana non compaiono soltanto, o possono non comparire soltanto, gli elementi conosciuti. In esse pare difatto accertata, dai recentissimi studi dovuti al genio precoce dell’arzebeigiano Onisammot Iflodnal, la presenza di due elementi fin qui ignoti ai dotti, ché quel giovane maestro ha voluto battezzare Cinodium Oniflium e Ippodium O. (con simboli Cnf. e Cpf.) e sulle cui proprietà serba gelosissimo il segreto. A questi misteriosi elementi si deve forse il fatto che stiamo per esporre e che conviene risulti ben chiaro alla mente del lettore: ossia che, lo si assuma una volta per tutte, vano sarebbe, oggi come oggi, voler ricostituire chimicamente una nota. Una nota artificiale è per ora inconcepibile; nel senso che non basterebbe, ad esempio, analizzare e ricostruire coll’aiuto degli elementi conosciuti una nota del grande Tamagno per poterla riemettere pura, potente, inconfondibile quale egli la emise. Ciò che si dice inflessione, intonazione e simili (e che forse deriva dai summentovati elementi sfuggirebbe sempre al temerario ricostruttor di note e mancherebbe alle sue emissioni. Provvisoriamente pertanto se ne può concludere che nel canto, come nella poesia e in qualsivoglia arte, vi sono degli elementi di mistero. 
Per quanto, da ultimo, concerne la forma delle note, diremo brevemente che esse possono assumere, a seconda delle circostanze della posizione eccetera, ogni e qualsivoglia forma geometrica, restando nondimeno fermo che la maggior parte riveste forme assai vaghe o è addirittura amorfa. Si distinsero tuttavia chiaramente note sferiche, cubiche, icosaedriche e a forma di vari altri parallelepipedi; spesso però, come s’è detto, queste forme appaiono notevolmente contraffatte, allungate appuntite taglienti, ovvero smussate ecc. Per chi volesse assolutamente qualche precisazione, aggiungeremo che le note dei grandi artisti tendono quasi sempre alla forma sferica o conica; mentre quelle dei cattivi cantanti si presentano il più delle volte irregolarmente piramidali, oppure estremamente piatte e a forma di triangoli scaleni, irte inoltre di minute asperità, sicché si direbbero spinose. 
NUOVE RIVELAZIONI SULLA PSICHE UMANA. L’UOMO DI MANNHEIM* 



* Desiderando risparmiare agli eventuali critici una delle loro numerose preoccupazioni, e per dovere d’onestà, avvertirò che questo scherzo è in gran parte parafrasi del libro di Mackenzie (Nuove rivelazioni della psiche animale. Parte seconda: Il cane di Mannheim. Formiggini, 1911). In proprio dunque non mi appartengono che alcune conclusioni.  
(RELAZIONE LETTA ALLA REALE ACCADEMIA DELLE SCIENZE DALL’ON. ONISSAMOT IFLODNAL, ARZEBEIGIANO) 



Signori, la presente relazione è in particolare dedicata a coloro che abbiano già precisa contezza dei fenomeni forniti dagli ormai famosi Uomini di Elberfeld. Ma intende ugualmente rivolgersi a tutti quei cani che abbiano mente sgombra da atavici pregiudizi e che non tengano le attività organizzate dello spirito, in altri termini ciò che usa chiamare pensiero o intelligenza, appannaggio esclusivo della razza canina! (Latrati di disapprovazione a destra, mugolii incoraggianti a sinistra, il centro non si pronuncia). Se già i detti Uomini di Elberfeld (per tacer di innumeri, seppure oscuri, altri esempi) offrirono coi loro calcoli mirabilmente complessi e rapidi alle menti liberali sicuri indizi d’un’intelligenza umana; nuovi e di gran lunga più importanti elementi s’aggiungono ora, per opera dell’ormai anch’esso quasi celebre Uomo di Mannheim, a suffragare la generosa tesi di pochi illuminati. I quali elementi, io spero, varranno a definitivamente fugare la tenebra in cui vivono, o si trincerano, la mente e la scienza canina da secoli, chiudendo gli occhi e gli orecchi a numerose evidenze, per motivi non so se religiosi o di basso orgoglio, che potrebbe tornare al medesimo. (Squittii di sdegno). A fugare, dico, la gretta per quanto comoda illusione cinocentrica; ad aprire, infine, nuovi orizzonti alla scienza universale. No, Signori, sebbene ciò possa, anzi debba, non convenire ad alcuni spiriti inferiori, credo ormai poter provare in modo inconfutabile che la vita dello spirito non è esclusivamente e mostruosamente riservata, lo ripeto, alla stirpe canina; no, Signori, anche gli uomini intendono, sentono, pensano, appunto come noi facciamo! Alcuni uomini, almeno: ma, vinto il principio e storpidite alfine le menti, chi più potrà fermare la scienza nel suo vittorioso e fecondo cammino? Per questa via, quanto lontano non potremo arrivare? (Voci: al fatto!). 
Al fatto vengo, Signori. E rimanderò alla fine le mie ulteriori considerazioni, nonché la necessaria confutazione delle ormai numerose opere pubblicate sull’argomento della psiche umana, tutte intese a svalutarne `le indubbie manifestazioni. (Voci. bravo, rimandate alla fine! Insistenti zittii agli interruttori da parte della sinistra). Del pari tralascerò il circostanziamento particolareggiato della mia visita a Mannheim: lo studioso potrà rintracciarlo nell’opuscolo che farò passare. E verrò il più direttamente possibile alle mie tre sedute coll’Uomo. (Voci: coraggio dunque! Zittii c. s.). 
In primo luogo, qualche indispensabile notizia preliminare. (Voci: ci risiamo! Uggiolii, zittii c. s. violenti e prolungati; qualche abbaio. Da questo momento la tornata ha luogo per un certo tempo in perfetta calma). Tommy o Tom (ché tale è il nome dell’Uomo di Mannheim) e un bell’esemplare della razza Airedale-man, di circa m. 1,50 alla spalla e di circa 32 anni d’età. Ne è proprietaria la Nobilcagna Mueller di Mannheim appunto, la quale, per essere da qualche anno parzialmente impedita, ha avuto ogni agio di dedicarsi all’educazione del proprio uomo. E anzitutto, ecco com’ella ebbe a riferirmi la circostanza fortuita che permise la scoperta delle eccezionali attitudini di quest’ultimo e che, lo ammetto, ha del meraviglioso. 
Seguiva, un giorno, la solita lezione d’aritmetica impartita, in presenza di Tommy come sempre, ai quattro cuccioli della Nobilcagna. A un certo momento la canina più giovane, che quel giorno era svogliata, s’impuntò a un facilissimo quesito: 122 + 2, né seppe risolverlo malgrado le ripetute esortazioni della madre. Ricevé allora a titolo di punizione una leggera ceffata, per cui si pose in un angolo piangente. Mossa a pietà, la Nobilcagna prese a consolarla; — pure — soggiunge, — perfino Tommy sarebbe capace di fare quell’addizione! — Tommy si avvicina. — Non è vero, Tommy, — prosegue la Nobilcagna rivolgendosi più alla, canina che all’uomo — non è vero che saresti capace? — Tommy agita le zampe davanti e dimena la testa e il treno posteriore in segno d’eccitamento, fissando con uno sguardo intenso la Nobilcagna; alcuni suoni simili a parole d’una favella escono dalle sue fauci. — Scommetto, — insiste la Nobilcagna, stavolta vivamente interessata al comportamento dell’uomo — che sapresti dirmi quanto fa 2 + 2? — E qui avviene una cosa inaudita: Tommy, chinandosi, batte con una delle zampe anteriori quattro leggeri colpi sulla spalla della Nobilcagna! 
Evito ogni commento, anche perché, infine, di quanto sopra riferito non posso rispondere personalmente (tuttavia la Nobilcagna Mueller, il cui carattere ebbi modo di penetrare compiutamente, è fonte del tutto attendibile); continuo. In seguito, poi, la Nobilcagna ebbe a sospettare che qualcuno aiutasse i suoi canini nella risoluzione di problemi di matematica, come nella redazione di compiti geografici. Pure, nessuno entrava nella loro stanza durante le ore di studio. In breve, la Nobilcagna li spiò, ed ecco quanto le fu dato scoprire. Coi piccoli studenti era seduto, composto al pari d’un cane, Tommy; all’avvicinarsi della Nobilcagna essi lo respinsero bruscamente mormorando, mentre ancora credevano non essere uditi: — via, Tommy, viene la mamma! —; coll’aria, mi disse la Nobilcagna, di ladruncoli presi in fallo. In una parola, chi aiutava i cuccioli a fare i loro compiti era... Tommy! 
Passiamo del resto alle mie personali esperienze in proposito. Ma prima, due parole ancora sul sistema di comunicazione adottato spontaneamente da Tommy. Esso, come quello degli Uomini di Elberfeld, può definirsi un sistema tiptostenografico. A ogni battuta insomma dell’Uomo corrisponde una consonante del nostro alfabeto; le vocali non sono quasi mai espresse dall’Uomo, che però non le ignora e, richiesto, indica la propria sede ove inserirle. Alcune battute, come si vedrà, sono convenzionali, ossia esprimono un’intera parola di quelle che più spesso occorrono nella conversazione, e furono a suo tempo stabilite dalla Nobilcagna d’accordo con Tommy. Spesso anche le consonanti che questi batte vanno assunte ed interpretate secondo il nome che recano nell’alfabeto (ad esempio s per es, n per en, k per ka etc.); in caso d’ambiguità, l’Uomo è sempre disposto a fornire schiarimenti allo sperimentatore. È da notare infine che, a differenza degli Uomini di Elberfeld, i quali adottarono sequenze numeriche progressive secondo la progressiva disposizione delle lettere nell’alfabeto (voglio dire 1 per b, 2 per c etc.); Tommy ha adottato un sistema di notazione arbitrario apparentemente (la lettera b ad es. è espressa da 7 piccoli colpi), in realtà basato, a quel che pare, sulla frequenza relativa delle consonanti nella lingua tedesca: se ne troverà completa tabella allegata al fascicolo. 
Tedesco parla infatti, com’è naturale, Tommy, sebbene talvolta fiorito di termini ed espressioni dialettali. 
Dirò da ultimo che, nella gentile lettera inviatami dalla Nobilcagna Mueller quando le annunciai la mia visita, ella mi pregava vivamente di usare molti riguardi a Tommy, che era stato in quei giorni assai ammalato. E, testualmente: «egli non sopporta percosse né parole brusche, le quali hanno l’effetto di fargli abbassare il capo e di renderlo, se così si può dire, completamente muto». D’altronde Tommy accusa da qualche tempo sintomi piuttosto allarmanti, dovuti all’intenso lavoro cerebrale cui è continuamente sottoposto : come violenti maldicapo, sangue dal naso etc. 
E veniamo finalmente alle mie tre sedute; ne offro qui i protocolli pressoché integrali. 

SEDUTA PRIMA. – Salotto della Nobilcagna. Presenti alcune persone di famiglia e due professori di Aidelberga, per cui vedi l’opuscolo documentativo. Entra Tommy allegro, dimenando il treno posteriore. Offre, a me come a tutti gli altri, la zampa anteriore destra (laddove batte colla sinistra). La Nobilcagna lo fa sedere a terra presso di lei, gli domanda poi se vuol lavorare. 
Risposta: Tommy : 2 (convenzionale per ja). 
Io lo prego allora di dirmi spontaneamente qualcosa, spiegandogli per quali motivi preferisca questo modo di procedere. Tommy mi guarda intensamente e, lo dirò, intelligentemente mentre parlo, quindi batte dopo una pausa: 

T.: 19 3 9 18 
w r d u 

(una delle due prime consonanti è qui assunta – si rammenti quanto innanzi ho avvertito – secondo il suo nome alfabetico: w per we oppure r per er. Dunque:) 

T.:  Wer du (?)  Chi sei? 

Ora, non a tutti è capitato di sentirsi richiedere dell’esser proprio da... un uomo! Passato comunque il primo sbigottimento, spiego a Tommy che son venuto di lontano proprio per vederlo e sentirlo parlare, egli infatti è già celebre in molti luoghi. Tommy mi guarda soddisfatto (la vanità, se non erro, è uno dei suoi deboli) e batte con occhi brillanti: 

T.: 5 13 7 ,  12 9 ,  5 2 5 ,  9 13 3 3 
l i h d  l o l  d i r r 

(un errore d’ortografia, uno di grammatica, scambio di dentale secondo la pronuncia del luogo, h per ha, grafia fonetica. Dunque:) 

T.:  Lieb  hat  Lol  Dir  (Dich) 
(anche)  Lol  ti  vuol  bene.  

Lol è il nomignolo di Tommy, o Tom, dovuto forse a una pronuncia infantile della canina più piccola. Lieto della risposta, ne lodo l’uomo e tento accarezzarlo sulla testa; ma egli (me ne avevano d’altronde avvertito) è nervosissimo durante il lavoro e mi mostra i denti. La Nobilcagna lo sgrida; egli batte allora: 

T.: 5 2 5 ,  1 10 6  l o l  f ei n 

evidentemente: 

T.:  Lol è buono (sebbene mostri i denti). 

Passo ora a svolgere il programma già da me preparato senza consultare nessuno e a nessuno darne notizia; ciò per evitare la possibilità di «segnali» coscienti o incoscienti, sulla quale vessata questione dirò il mio parere più tardi. Desiderando provocare reazioni positive o negative nell’uomo, negative nella fattispecie, gli presento un fazzoletto imbevuto d’acqua di Colonia, chiedendogli che cos’è. (Tralascio d’ora innanzi i numeri esprimenti le lettere e le osservazioni sulla lingua di Tommy. Rimando per qualunque dubbio una volta per tutte alle pezze d’appoggio). Risposta: 

T.:  ein dug (ein Tuch; termine assai generico)  Un fazzoletto. 

Prego allora che mi si porti un altro fazzoletto e, presentandolo a Tommy, chiedo (semplifico anche le mie domande, che furono naturalmente adattate alla mentalità dell’uomo, ossia di gran lunga più distese ed esplicative): 

T.:  gribld (grippelt, dialettale per verkrueppelt) 
Spiegazzato. 

All’odore del mio fazzoletto spiegazzato Tommy non accenna neppure: ha sempre infatti, mi si dice, dimostrata deficienza d’olfatto. Segue un’interruzione: torna dall’ufficio il Nobilcane Mueller, che l’uomo festeggia molto, saltellandogli attorno e quasi facendolo ruzzolare sotto le sue zampe. Ripresa la seduta, mostro a Tommy una fotografia in cui egli stesso compare insieme alla Nobilcagna durante una «conversazione»; e chiedo: che cosa sta facendo qui Tommy? 

T.:  arbeidn (arbeiten)  lavorare. 

E lavori volentieri? Risposta decisa: 

T.:  3 (convenzion. per nein). 

E allora perché lavori? 

T.:  mus (muss)  devo. 

Perché devi, che cosa avviene se non lavori? 

T.:  hib (Hieb)  busse. 

Indignazione di tutti i presenti; Tommy infatti non è mai stato picchiato. Egli si agita allegramente e spalanca la bocca quasi ridesse: è evidente che ha voluto scherzare. E allora, parlando sul serio, perché lavori? 

T.:  (ripetutamente) 4 (convenzion. per muede)  stanco. 

Insisto. 

T.:  mudr  lib  hr  aug (Mutter lieb, Herr-auch)  la  mamma  è  cara,  il  padrone  anche. 

Concedo a Tommy un po’ di riposo. Poi, alla ripresa della seduta: mi dirai ancora qualcosa per farmi piacere? Risposta decisa: 

T.:  3 , no. 

La Nobilcagna: ma per far piacere alla mamma? 

T.:  2 , sì.  
Io: dunque non ti piace lavorare, che cosa ti piace allora? 

T.:  laks  sn (Lachs essen)  mangiare salmone affumicato. 

Si tratta d’una ghiottornia offertagli tempo addietro. Ma a mangiare, insisto, son buoni tutti gli uomini. Tu non sei come gli altri, che cosa dunque ti piace oltre al mangiare? So che sei stanco, se rispondi ti lascio libero. 
Tommy ricomincia a battere la medesima risposta. Forse la mia domanda è mal formulata. Cerco di spiegarmi con altre parole. Allora, dopo una pausa durante la quale l’uomo sembra raccogliersi: 

T.:  bildr (Bilder)  figure. 

La prima seduta ha così termine. Evito per ora i commenti; soggiungo soltanto che durante tutta questa prima seduta come durante le altre, Tommy ha battuto i suoi colpi assai distintamente su un foglio di spesso cartone tenuto dalla Nobilcagna, spaziando (sto per dire scandendo) in modo acconcio le parole. E passo alla 

SEDUTA SECONDA. – Abbrevio al massimo. Mi conosci ancora? 

T.:  2 , sì. 

Chi sono dunque? 

T.:  ifldnl. 

Mancano vocali? Alla risposta affermativa di Tommy, lo prego di indicarmi quali vocali appunto manchino e in che sede si debbano inserire. Risulta a tutte lettere il mio cognome Iflodnal. Come poi Tommy lo conoscesse, resta per me un mistero, giacché tutti i membri della famiglia mi chiamavano semplicemente Herr Doktor all’uso tedesco. Forse l’uomo lo lesse nel mio biglietto da visita abbandonato su un tavolino. 
Dimmi qualche altra cosa di me. 

T.:  mingn. (Muenchen). 

Da Monaco appunto giungevo: Tommy deve averlo appreso dalle conversazioni familiari. 
L’uomo ha ora sete e lo si manda in cucina. Decido a questo punto di tentare, sfruttando la confessata predilezione di Tommy per le «figure», un esperimento per alcuni riguardi decisivo. Prego la Nobilcagna di disegnarmi a penna; su un cartoncino che all’uopo ho portato meco con altri tre e quattro buste eguali, un uccello. Sul secondo cartoncino la Nobilcagna scrive il nome di sua figlia Karla, a Tommy carissima. Sul terzo io stesso traccio una stella e la riempio di colore con una matita azzurra. Sul quarto traccio due quadrati, rosso e azzurro, contigui. Chiudo poscia i cartoncini nelle buste, prego Karla di allontanarsi e di mescolare le buste, sì che io medesimo ignori di ciascuna il contenuto. Ciò che ella fa. Tutta questa preparazione è anch’essa volta allo scopo di prevenire da parte dei presenti, me compreso, la possibilità di «segnali» più o meno consapevoli, e insomma d’un’influenza psichica sull’uomo. Ho naturalmente disposti i cartoncini in modo che si possano estrarre dalle buste senza che se ne veda il disegno. Tommy rientra, tutti ci ritiriamo alle spalle della Nobilcagna, che procede all’esperimento. Ella estrae un cartoncino nel modo indicato e chiede all’uomo che cosa veda. Tommy comunica di essere stanco e si rifiuta di lavorare; vivacemente incitato, e ricevuta promessa che gli si mostreranno, se risponde, alcune belle figure, batte infine: 
T.:  rod  blau  eg (rot blau Eck)  quadrato  rosso  azzurro. 
L’esperimento è riuscito. Complimento Tommy, il quale allora batte non richiesto: 

T.:  bildr  gbn (Bilder geben)  dare  (dammi)  le  figure. 

Troppo giusto! Estraggo qualche cartolina illustrata e qualche fotografia, fra queste un ritratto di Tommy stesso, altro da quello della precedente seduta. Chi è questo? 

T.:  lol.  
E questo? (la fotografia d’un bassotto-man). 

T.:  dgl (Teckel, dialett. per Dackel)  bassotto. 

E anche tu sei un «Teckel»? 

T.:  man (Mann)  uomo. 

So bene che sei un uomo, ma anche lui è un uomo; che differenza c’è fra voi due? 

T.:  andr  fus (andere Fuesse)  altri  piedi. 

È infatti noto che il tratto distintivo di quei pigmei fra gli uomini sono i loro cosidetti piedi piatti. 
Chi è questo? (alcuni cavalli) 

T.:  Kul (Gaul)  cavallo. 

L’uomo aggiunge spontaneamente: 

T.:  addr  bild (corretto da T. stesso il primo d in n: ander Bild)  altra  figura. 

Approfitto delle buone disposizioni di Tommy per cavarne prima qualche altra risposta. 
Preferisci le ragazze o i cani? 
T.:  medi (Maedel)  ragazze. 
Perché? 

T.:  fein  kr  gledr (indecifrabile; corretto da T. il k in h: fein Haar Kleider)  bei  capelli  e  vestiti. 

Ma anche noi abbiamo bei capelli e vestiti (gioco di proposito sulla parola Haar, che vuol dire anche barba, crine o pelo in generale); dov’è dunque la differenza? 

T.:  hosn (Hosen)  brache. 

Concedo all’uomo un po’ di riposo. Riprendo poi con qualche quesito più difficile. Preparo su un foglio la figura di Mueller-Lyer [vedi disegno sotto], si badi, di proporzioni notevoli (il che favorisce l’illusione); e chiedo a Tommy testualmente: 

  

Tommy, welche ist die kuerzere Linie (qual’è la linea più corta)? 

T.:  gein  lngr (kein laenger)  nessuna  più  lunga (è). 

Tommy, come gli Uomini di Elberfeld, non subisce dunque illusioni ottiche. Si noti anche che si è valso nella sua risposta d’una parola diversa da quella usata da me nella domanda. Proseguo gli esperimenti del genere. 
Tommy, sai che cosa è una libbra? 

T.:  2 , sì.  
Sai che cosa è il piombo, che assomiglia al ferro, ma è più pesante? 

T.:  2. 

Sai che cosa sono le piume, quelle degli uccelli? 

T.:  2. 

Allora sta’ bene attento: che cosa pesa di più, una libbra di piombo o una di piume? (Tommy riflette a lungo, poi:) 
T.:  gein (kein’)  nessuna (pesa di più). 
Parecchi cagnolini, e persino cani adulti, si lasciano invece facilmente confondere da una simile domanda. Mostro in ricompensa a Tommy alcune cartoline illustrate, fra cui una raffigurante un uomo che dorme su un divano appoggiato a un cuscino. Vivamente interessato, a mia richiesta Tommy batte: 

T.:  man  faul (Mann faul)  uomo  pigro. 

Il Nobilcane Mueller, scorgendo a questo punto sulla tavola il mazzo di garofani da me offerti quella medesima mattina alla sua consorte, mi invita a fare coll’uomo un esperimento di computo; ripeto che i garofani erano stati da me recati all’inizio stesso della seduta. Si mostra brevemente il mazzo a Tommy perché conti i fiori. Anch’io tento in quella contarli; senza averne il tempo, sicché, mi contento di valutare approssimativamente a 15 i garofani. Dopo 3 o 4 secondi il mazzo è tolto di mezzo e Tommy interrogato in proposito. 

T.:  23. 

Riprovo a contare i fiori senza limiti di tempo, e di nuovo fallisco. Essendo i garofani tutti del medesimo colore (rossi), è difficile stabilire un punto di riferimento; ogni volta ottengo risultati diversi. Conto allora i garofani partitamente: essi sono appunto 23. E così ha termine la seduta seconda. 
Secondo comunicazione della Nobilcagna, la sera l’uomo protestò vibratamente che lo si facesse lavorare anche di domenica; una domenica era infatti quel giorno. Interrogato come sapesse che era domenica, Tommy rispose che aveva visto sul calendario un. numero rosso. 

SEDUTA TERZA. – Tralascio alcune risposte dell’animale, di poca importanza. Ai miei complimenti, 

T.:  lib  ifgdr  iflodnl (indecifr.; corretto il primo if in do: lieb Doktor Iflodnal)  caro  dottor  Iflodnal. 

È chiaro che l’errore era dovuto a un’anticipata immagine grafica del mio cognome. 
Tommy si sente stanco e si allunga a terra. Frattanto la Nobilcagna prende a raccontarmi come una volta, durante la passeggiata, egli saltasse al collo a un tipo che supponeva animato di cattive intenzioni nei riguardi della padrona. L’uomo, cogli occhi chiusi; apre la bocca quasi ridesse. Io: hai sentito dunque ciò che raccontava la mamma? 

T.:  2 , sì.  
Che cosa diceva? 

T.:  hr  bs  lol  hlfn  mudr (Herr boes, Lol helfen Mutter)  signore  cattivo,  Lol  aiutare  mamma. 

Passano in quella per la strada alcuni strilloni annunciando una gazzetta locale. Tento allora un esperimento di lettura. Mandata a comprare una copia di tale gazzetta, ripeto, appena uscita, mostro all’animale un titolo su due colonne, in gotico: Der Herbst zieht ins Land. Fra i presenti, solo Tommy ed io possiamo leggerlo. 

T.:  dr  hrbst  dsid  in  land. 

Si ponga ben mente a questa risposta; che è dello scritto la trascrizione fonetica (tenuto conto di quanto più su avvertito sull’idioma parlato da Tommy), non già una meccanica riproduzione. In altri termini l’animale ha perfettamente capito ciò che ha letto. Infatti 
Che cosa è der Herbst (l’autunno)? 

T.:  dseid  wn  abl  gbd (Zeit wenn Appel gebt, dial. per Aepfel gibt)  la  stagione  quando  ci  sono  le  mele. 

Riprendo poi un esperimento del giorno precedente, quello dei cartoncini; ma l’uomo non vuole stavolta saperne. Si decide infine verso promessa di leccornie. Presentandogli uno dei cartoncini Che cosa vedi? 

T.:  blau  strn  wisd (blau Stern wisd, dial. per wuest)  stella  azzurra,  brutta. 

L’uomo è evidentemente indispettito. Ancora: 
E adesso che cosa vedi? 

T.:  fogl  baum (Vogel Baum)  uccello  albero. 

Nel disegno, infatti, della Nobilcagna l’uccello posa su un ramoscello. Segue un breve intervallo, per dar modo all’uomo di riposarsi. Quindi, alla vista del terzo cartoncino: 

T.:  blau  rod  wirfl  gnug (Blau rot Wuerfel, genug)  dado  azzurro  rosso,  basta. 

Questo significa parlar chiaro! Del resto, per dar forza al discorso, l’uomo emette qui una serie di schiamazzi che non esiterei a definire articolati. 
Ometto il resto del protocollo (integralmente però riportato nell’opuscolo documentativo) poiché non mi sembra contenga altro di particolarmente notabile. Salvoché in una breve serie di esperimenti matematici l’uomo, come quelli di Elberfeid, estrasse alcune radici cubiche, quarte e persino quinte con grande esattezza e rapidità; a mente, si capisce. Dimostrò inoltre di possedere nozione delle partizioni monetarie tedesche, dei tagli e del loro valore reciproco. 
E qui porrò anch’io la parola basta a quanto di, quest’ordine di fenomeni è caduto nell’ambito della mia personale esperienza. Si sarà invero notato che nella presente relazione evitai fin qui di riferirmi comechessia a risposte o messaggi dell’Uomo di cui io stesso non posso sull’onore e personalmente guarentire; se non sia in principio, ma non pretesi che dalle riferite testimonianze si traessero valevoli conclusioni. Quanti però e quanto istruttivi elementi non si potrebbero trascegliere (e anche fra le comunicazioni spontanee dell’animale) dalla pressoché sterminata congerie di protocolli e documenti già raccolti da studiosi degni della massima fede! Sotto silenzio tuttavia non mi dà l’animo di passare taluna delle risposte umane che mi furono cortesemente comunicate da persone veramente superiori a ogni sospetto, e che ancora non hanno trovato posto in pubblicazioni sull’argomento; delle quali risposte dichiaro del resto qui in modo solenne che si vuol da me guarentire personalmente l’autenticità. Mi limiterò a riferirne cinque appena, per non tediare gli ascoltatori; ma queste cinque mi paiono, e certo non mi sbaglio, definitive, nel senso che debbono, non possono non, infrangere ogni ulteriore resistenza della sopravvivente gretta mentalità cinocentrica! (Nell’aula riprende il tumulto; ma dopo minacciosi uggiolii della sinistra il relatore può continuare). 
Interrogato Tommy a che cosa obbediscano i cani, rispose: 

T.: word  gseds (Wort Gesetz)  (alla)  parola  (della)  legge. 

(Violenti trepestii, ringhi, abbai). 
Non commento, e passo alla seconda comunicazione, questa volta spontanea, dell’animale; si vegga negli allegati in che circostanze fornita. 

T.:  als  was  lebd  hd  sl (alles, was lebt, hat Seele)  tutto  quanto  vive  ha  anima. 

Frase, tra l’altro, d’una scrupolosa correttezza. Questa è per voi signori cani cattolici! (Violento frastuono. Alcuni membri si levano dai loro banchi e si fanno sotto alla cattedra del relatore mostrando i denti, e ringhiando. La calma è ristabilita a fatica per intervento degli Onn. Commissari). 
Mi si lasci proseguire! Mostrata a Tommy una natura morta con gallo dovuta a cattivo pittore (sennò chi mai avrebbe potuto identificarne il soggetto?) (Commenti di: anche spiritoso!), egli batté: 

T.:  dod  hn  ursl  gn (tot Hahn, Urseele gehen)  gallo  morto,  andare  anima  originaria  (alla). 

(Mugolii acuti come fischi). 
E infine, alla domanda: che cosa è un uomo? quesito difficile, se non erro, anche per un cane: 

T.:  teil  fon  ursl (Teil von Urseele)  parte  dell’anima  originaria. 

Inequivocabile! (Il tumulto aumenta paurosamente, ma è ancora possibile ottenere un momento di relativa calma). 
E alla domanda: che cosa è allora un cane? 

T.:  aug  deil  (auch Teil)  anche  una  parte. 

(Trepestii violentissimi, latrati, uggiolii. L’oratore tenta superare il frastuono, egli grida): Notate, Signori, Tommy disse: anche una parte. Talee del pari la mia opinione! Tale deve essere ormai quella di tutte le persone oneste! 
(Nel generale tumulto grida di: ciarlatano! e simm. Dopo energico intervento della sinistra e imparzialmente del centro, le esortazioni degli Onn. Commissari ristabiliscono per un poco il silenzio. Il relatore è acceso in volto, scalmanato, talvolta respira affannosamente lasciando pendere la lingua). 
E ora a noi, Signori! a noi due, signori interruttori! (Violenta ilarità sarcastica. Il relatore ha abbandonati sul tavolo i suoi fogli e improvvisa. Grida delle sinistre: lo si lasci parlare!) E alla riscossa, cani della sinistra, innamorati della scienza, del bene, del vero, disinteressati investigatori dei fatti non solo canini, ma altresì umani e in generale di tutte le creature viventi nella protezione della nostra comune madre la natura! Ancora una volta, dal fondo di quella che criminose dottrine secolari ci avevano abituati a considerare una tenebra cieca, ci giungono messaggi, timidi forse ma distinti. Ah dunque, signori cani, a voi soli credevate fosse riservato il privilegio di sentire, di pensare, di comunicare le proprie idee? Ebbene, per quanto ciò debba costare al vostro ottuso orgoglio, ma abbastanza accorto da riconoscere il proprio tornaconto, no! (Grido di: vi state ripetendo) Sì, mi ripeto e mi ripeterò finché avrò fiato! Mi duole comunicarvelo, signori cani, preparatevi al colpo, mi duole, ma UN UOMO HA PARLATO! E lascerà chi ha intelletto e cuore inascoltato il suo messaggio o quello di qualsivoglia altro animale? Noo, no di certo. Un uomo ha parlato e ci ha comunicati i suoi pensieri; sì, non mi vergogno a così denominarli. Un uomo ha parlato: e crollano i baluardi posti da una vergognosa mentalità retriva alla liberale considerazione dei fatti naturali, crollano le colonne di Zarif della canina scienza, che il pusillo spirito canino non osava travalicare; nuovi orizzonti, o cani, si schiudono all’investigazione, alla speculazione, all’anima! (Tumulti) Un uomo ha parlato: e crollano gli ultimi bastioni d’un dogma sacro in apparenza, empio in realtà, le ultime opere munite d’una religione che solo può regnare fomentando la generale ignoranza! 
Cedano, i difensori di questi cupi arnesi, sbigottiti il passo! (Violentissimi tumulti). Solo un bieco e meschino interesse, e le vane dottrine di filosofi colpevoli quanto poco illuminati, potevano mantenere in vita così basse illusioni e così ontosi pregiudizi! No, Signori, un uomo ha parlato: e una nuova era si apre per lo spirito canino! Una nuova era anche per la canina scienza, che un giorno si dirà ERA LOGANTROPICA! (Violentissime disapprovazioni, la gazzarra sta per raggiungere il suo massimo; brevi colluttazioni fra la sinistra e la destra. L’oratore f a cenno che gli basterà poco per finire; a gran fatica si ottiene che possa seguitare. Le interruzioni si susseguono quasi di continuo). 
Signori, mi ripromettevo, arrivato a questo punto della nostra tornata, di sottoporvi i risultati delle mie prime considerazioni sui fatti che oggi vi ho esposto. Avevo in animo di tracciarvi, sia pure sommariamente, una prima immagine della psiche umana, con alcune delle sue reazioni tipiche, quale essa ci appare al lume di essi fatti e di innumerevoli altre testimonianze. Sarei quindi passato a confutare le affermazioni dei tanti scienziati che ancora colpevolmente rifiutano (e molteplici possono essere le ragioni di tale rifiuto) il messaggio della verità. Volevo insomma, Signori, dare qui, in una atmosfera di benevola collaborazione, solennemente inizio a un lavoro scientifico, a un ordine di investigazioni, i cui sviluppi sono incalcolabili. 
Me ne asterrò, viste le vostre disposizioni. (Grida di: meno male!) Ma mi sia almeno concesso finire questo vessato resoconto e conchiudere questa tempestosa seduta con poche considerazioni generali che non urteranno, spero, le suscettibilità di nessuno (Grida: vi concediamo cinque minuti per finire. Tutti i membri della destra estraggono ostentatamente l’orologio). 
Ebbene, Signori voglio prima di tutto riaffermare qui pubblicamente e innanzi all’intero mondo scientifico, che segue con appassionato interesse i nostri lavori, riaffermare, dico, la mia fede inconcussa nella dottrina detta dell’anima universale; già in antico presentita da pochissimi spiriti eletti, e da pochissimi ancor oggi propugnata. Senza più ombra d’animosità, Signori, vorrei invitare ogni cane a nobilmente elevarsi sulle ingannevoli apparenze e sulla gangrenosa mistificazione che colpevoli età ci tramandarono attraverso i secoli per vero. Nulla, Signori, può perdere lo spirito canino da una considerazione dei fatti più accorta e generosa. Esso anzi potrà conquistarsi la gloria imperitura d’aver per primo riconosciuto il suo simile in ogni creatura vivente. La natura volge instancabile le sue veci, tutto quanto è perito rinascerà, e perirà ma per rinascere tutto quanto nasce, ecco, questa è la nuova religione; e gli esseri dotati di favella ridiventeranno muti e i muti parleranno. Non solo tutto quanto vive, ma tutto quanto è, è parte dell’anima universale, come Tommy disse. E in che può essere ciò umiliante, per l’orgogliosa stirpe canina? Sì, io oso affermarvi, Signori, che un giorno non lontano questa dovrà riconoscere, con commossa gioia, per suo simile ogni creatura, l’erbetta del campo, la farfalla che in un giorno solo consuma la sua vita, la rupe dal millenario sviluppo, il vivente astro del cielo! Sì, Signori, e così un giorno tutti i cani riconosceranno nell’uomo il proprio simile, com’io, non mi vergogno d’affermarlo, fin d’ora lo riconosco e lo sento! (Voce: questo privilegio lo meritate! Viva ilarità). E basta, Signori, considerare in questo spirito le cose della natura, perché tutto in essa e in noi si componga armonicamente; questa, lo ripeto, è la religione dell’avvenire! (Voce: son già passati tre minuti! L’oratore con calma, si direbbe con mestizia, riprende sorridendo:) 
E due minuti mi basteranno per accennarvi a una curiosa circostanza che mi sta molto a cuore si conosca. Ve la comunicherò senza commentarla, com’è nel mio costume coi fatti di per se stessi eloquenti. Or non è guari il colonnello Lawcett, capo d’una missione scientifica al Matto Grosso, ebbe a cortesemente comunicarmi d’aver ivi trovato un cane indigeno di straordinaria vecchiezza, e naturalmente stregone; ben settemila anni d’età gli attribuisce la gente della sua tribù, è dalla sua bocca il colonnello pare abbia udite cose che hanno del meraviglioso. Sembra dunque che in un tempo remoto, e ciò vorrebb’esser confermato da tradizioni insistenti di quei paesi, vaste città s’elevassero nelle plaghe che oggi la foresta vergine copre del suo intrico, e una prospera civiltà vi fiorisse. Ai membri di quelle estinte stirpi sembra altresì fosse già noto tutto ciò di cui va orgogliosa la nostra odierna civiltà, e che fra loro ogni scientifico ritrovato fosse già in uso. Sempre secondo il venerabile stregone (e sia pure un mito la sua favolosa età), quei popoli raccoglievano comunicazioni da incommensurabili distanze, mediante piccole casse lignee, di cui il mio informatore afferma aver vista taluna, ormai inutile, ma religiosamente custodita; essi volavano su macchine alate; possedevano, al tutto come noi, formidabili strumenti di guerra e di distruzione. Il colonnello Lawcett fu difatto menato a vedere rovine sommerse dalla foresta che gli sembrarono essere state imponenti aree urbane. Un relitto poi di quelle epoche tramontate e in particolare delle macchine volanti di cui il decrepito indigeno fa parola, paiono al mio corrispondente essere gli attuali boomerangs, che in verità presuppongono la conoscenza delle leggi aerodinamiche. 
Orbene, Signori, secondo il vivente oracolo quella remota civiltà non era già una civiltà canina; non erano già cani i membri di quelle gloriose stirpi, sibbene... uomini! (Una tempesta si scatena nell’aula. Voci: i cinque minuti sono passati! Ritiratevi! L’oratore fa cenno che gli si conceda ancora un minuto, il che è ottenuto a fatica; egli continua a parlare fra il crescente frastuono). 
Non commenterò, l’ho già detto, queste straordinarie notizie che ci giungono da una terra remota; non le accoglierò né rifiuterò. Pure, signori, può uno spirito sgombro da pre giudizi categoricamente rifiutarsi di ammettere, magari in via soltanto sistematica, il surriferito? Giudicatemi come meglio vi piace, io risponderò di NO. Nel tempo universale tutto si trasforma e alle epoche seguono le epoche; perché, questa nostra dei cani, non potrebbe esser sorta dopo il tramonto di quella degli uomini? Perché non potrebbero i suoni confusi che gli uomini oggidì emettono esser le tracce e quasi l’eco d’una favella, e d’una nobile favella? Non potrebbe la razza umana aver ceduto, per sue colpe o sua inettitudine, ai cani l’impero della natura? ma dopo averlo alcun tempo tenuto? (Tumulti violentissimi, un vero terremoto. L’oratore, in un impeto di sdegno, superando il frastuono, grida:) Tumultuate e vi rifiutate a questa idea, per quale motivo? Ve lo dirò io: perché il vostro ridicolo orgoglio non ammette altra autorità, anzi altra divinità che la vostra propria, perché siete abbietti adoratori di voi stessi; ma sopratutto perché vi fa orrore il pensiero che un giorno per quanto lontano (e chissà poi se lontano) dovrete forse, sarete ignominiosamente costretti, per vostra colpa o inettitudine, a cedere nuovamente l’impero del mondo agli uomini o a qualsivoglia altra razza animale!... (Il frastuono, la gazzarra, il trepestio raggiungono il colmo. Innumerevoli latrati abbai uggiolii mugolii ululati. L’oratore è pregato dagli Onn. Commissari di sospendere la sua relazione; contemporaneamente cento braccia lo afferrano per strapparlo dalla sua cattedra; violente colluttazioni in quella s’accendono fra i rappresentanti della sinistra e della destra; il centro, preso tra due fuochi, abbandona quasi per intero l’aula; un selvaggio morso stacca a uno scienziato della destra l’orecchio. L’oratore allarga le braccia in gesto d’impotenza, è tratto giù dalla cattedra, e sospinto verso la porta mentre ancora grida qualcosa; è pietoso a vedersi, accasciato, la sua lingua pende lungamente fuor della bocca bavosa; mentre esce grida di: non è un ciarlatano, è un cialtrone, un ribaldo, un tanghero! Numerose risate di scherno, una sparuta minoranza applaude con foga).  
Voltaluna 



Si danno ore, e perfino interi giorni, che sono, lo dico senza ambagi, come strappi nel tessuto approssimativo e plausibile della nostra esistenza. Il potere che presiede a tali cose accumula allora contro di noi, quasi accuse sporte a un oscuro tribunale, fatti a sfavore e, insomma, sembra applicarsi a renderci vivo e presente il senso della morte, che è, secondo il parere d’una nostra giovane. scrittrice, supporto e fondamento a ogni opera d’arte degna di questo nome. Simili giorni sono infatti piccoli capolavori, e pieni di buongusto in sovrapiù; in quanto non si tratta già di cose gravi o irreparabili, morti malattie rovesci finanziari o che so io, nulla del genere, ma piuttosto d’un certo numero, o catena, di minute circostanze avverse o inesplicabili, le quali non vi ledono profondamente, e neppure in fin dei conti superficialmente, e tuttavia un profondo sgomento ve ne assale. Vi ritrovate, la sera d’un tal giorno, né peggio né meglio in fondo di prima, non siete stato neppure tradito dalla vostra amica, siete press’a poco in egual misura soddisfatto di voi stesso e delle vostre intraprese; e nondimeno uno smarrimento ve ne rimane, il senso quasi d’un monito che in maniera particolare vi si riferisca. È, in una parola, come se v’avessero costretto a buttare un’occhiata sull’oscuro rovescio delle cose, là dove tutto è gelo è orrore. Ossia come se aveste dato di volta alla luna. Per intendere il quale ultimo paragone occorre richiamarsi alla mente l’avviso di quell’antico astronomo che stimava essere la faccia celata della luna al tutto cava (egli anzi ne inferiva che ciò sarebbe servito un giorno alle potenze celesti per incenerirci, rivolgendosi l’astro su se stesso e ardendo a mo’ di specchio ustorio l’intero nostro globo). Immaginate dunque se giraste la faccia piena e splendente della luna, paragonabile agli avvenimenti e alle azioni della nostra vita giornaliera, e vi ritrovaste sull’orlo del baratro buio e freddo! 
Ma, fedele anche in ciò al suo buongusto, e pari all’autore di teatro che voglia lasciare il pubblico colla bocca dolce, il potere che ha provveduto a inscenare il dimesso drammucolo ai nostri danni porge esso medesimo al male, l’impiastro; una fausta fase sopravviene tosto a sostituire l’infausta, una qualunque soddisfacente soluzione ci rasserena. Niente in definitiva è successo, e la nostra esistenza riprende almeno come prima. 
Ma veniamo, senza più discorsi, a un succinto esempio. 

Era, s’intende, una notte rannuvolata e brontolona; rincasando nella mia camera d’affitto trovai sul tavolo la carta assorbente bene in vista e suvvi la scritta: «Evviva la nostra ora». Scritta quanto mai assurda, come apparirà di leggieri a chiunque, e che non poteva significarmi nulla (né seppi in seguito, fra padrona di casa e cameriera, che tanghero si fosse introdotto là dentro per questa insulsa prodezza). Passiamo oltre. Angosciato dalla scritta e pieno di malumore, dormii poco e mi levai a ora insolita. La mattinata era nebbiosa la nuvolaglia incupiva il cielo, ma era giorno tuttavia; eppure, all’incrocio di due viuzze della città vecchia, uno sconosciuto in mutande, uscito di botto da uno stambugio, mi si parò davanti impugnando una rivoltella e, avendo fra i berci esplosi due o tre colpi contro di me, fuggì via e si dileguò in un angiporto, né seppi poi che fine facesse. Un pazzo, direte. Proseguiamo. Nel primo pomeriggio, in una via solitaria, mentre dall’automobile della mia amica ci apprestavamo a scendere onde raggiungere la succitata mia camera, un altro sconosciuto, tenendo in mano ostensibilmente un foglio verde, ci si aggirava attorno con aria sospetta e pareva spiarci; tantoché la donna (la quale, essendo sposata, aveva ragioni per evitare gli indiscreti e, come tutte le donne, sposate o no, temeva i ricattatori) spaventatasi si dette con essa macchina a precipitosa fuga, rinunciò del tutto a vénire a casa mia e mi costrinse così a passare due penose ore in una sala da tè deserta; particolarmente, penose, primo perché io non potevo togliermi dalla testa le progettate delizie, poi perché essa, come usano, mi faceva apertamente responsabile dell’uomo e del suo foglio verde. Infine verso il crepuscolo, scendendo io di corsa le scale d’un ufficio in cui si trascinava una mia noiosa pratica, il soprabito mi s’impigliò in una voluta della ringhiera e si lacerò largamente dalla tasca al petto. 
Poiché non ne avevo altri, a quest’ultima faccenda era giuocoforza porre rimedio. Mi procurai in una’ merceria l’indirizzo d’una rammendatrice e vi corsi. Essa mi fece entrare in una povera ma linda cucina che affacciava, vidi poi, su una specie di minuscolo orticello; era quella un’oasi di pace nella città. — Lasciate pure — disse. Le spiegai che si trattava di lavoro urgente. — Allora sedete e aspettate. 
Portava i capelli grigi in due bande lisce sulla fronte; ma ciò che colpiva in lei era la straordinaria serenità e sicurezza dell’espressione e del contegno. Mi rivolse poche parole con voce dolce, guardandomi coi suoi occhi calmi, mentre si metteva al lavoro; parole indifferenti ma che mi parvero di speranza. Dovevo esserle sembrato stravolto, o piuttosto s’era resa conto per altre vie della mia posizione d’animo e voleva favorirmi, tanto vero che per quel mio soprabito aveva messo da parte il mucchio d’indumenti cui stava lavorando al mio arrivo. Poi tacemmo e io, ormai trasognato, ascoltavo i dolci rumori dall’orticello, ultimo chioccolio di galline, ultimo cinguettio di canarini a qualche finestra, soffici strida d’un fanciullo, e seguivo l’opera attenta dell’ago. In breve, tutto ciò ebbe il potere di rasserenarmi; in capo a poco più di mezz’ora essa mi rese l’indumento sul cui tessuto non si scorgeva ormai più traccia dello strappo. Così quella parca benigna raccolse le fila troncate e contorte della mia giornata e dolcemente le riannodò. 

Ecco però che cosa voglio soggiungere: in tutta questa faccenda c’è un inganno. Per un paio di stagioni ancora non ci fu nulla a ridire, ma in seguito, invecchiando il soprabito, la traccia del rammendo affiorò dal tessuto, e più questo si consumava, più quella diventava visibile; finché apparve da ultimo come una orribile cicatrice. Di più, i fili che univano le labbra dello strappo parevano a ogni istante dover cedere e la ferita della stoffa doversi riaprire in tutta la sua spaventosa oscenità. 
Colpo di sole 



A l’éloquence ne tords pas son con. 



La civetta tentò il volo all’improvviso e si posò su una forca: un’uggia, un vago malessere cominciavano a invia, della. Non è già che l’alba imbiancasse il cielo, ma pure d’oltre l’orizzonte cominciava a incalzare, e le stelle impallidivano un poco dalla parte d’oriente; avvicinandosi lo scatenato giorno, già un sospetto di chiaria velava agli occhi della civetta le più lontane cime. Di certo s’affrettava il funesto sole a passi di lupo per affacciarsi in un esoso trionfo di fra i gioghi. 
La nausea e la malinconia della civetta aumentavano secondo si rivolgeva la cappa celeste, inducente seco quell’ombra di chiaro. Adesso digià sbiancava il levante e per impercettibili sussulti il ferale pallore si diffondeva. Bianchi divengono i morti e la notte che muore. Di già un intormentimento sonoro, non ancora suono dichiarato, sordamente formicolava ai lembi della valle: la voce della luce s’apprestava al suo clangore e tumulto. 
Eruppe alla brezza il primo mormorio di frasche, mentre più certo si faceva il pallore, e impregnava le aeree cortine. Sorse di schianto il primo canto; solitario durò per un tempo, poi altri canti gli s’unirono, il coro si sciolse. Da questo momento al murmure al ronzio allo stormo, e quindi al frastuono, non v’ebbe più argine. S’argentavano gli olivi, il cielo la brezza le nubi; si doravano, si velavano di sangue. Polvere di smeraldi e di giade ondeggiava nell’alto, e il polveroso corallo dei cirri. Ma arcano fuoco a ogni istante ventava per le smorte velature, e le accendeva facendone vivide falde. In una col frastuono si conclamava il giorno. 
Alti pigolii, gemiti impazienti si levavano incontro all’accorrente sole; fuggivano le ombre attorno, e le ultime creature della notte. Contro l’avverso elemento si chiudeva in sé sbigottita la civetta, e già le si confondevano i contorni delle cose. Si sentiva,perduta, ché la marea le si rovesciava dentro crosciando; a ciò non poteva essa opporsi ed era ridotta al suo ultimo rifugio. Poiché, come l’uomo durante le tenebre della notte serba nel più profondo di sé tuttavia un ultimo fuocherello, una favilla di luce, così durante lo sfrenato giorno la civetta un fuoco d’ombra. Nondimeno vacilla talvolta il fuocherello, minaccia d’estinguersi la favilla, le tenebre s’accavallano, come gorgo d’acque sotterranee, sul buio gurgite; o impallidisce l’ombra, e la luce e il tumulto dilagano in suo luogo. 
Urgeva il sole fra le creste dei gioghi e faceva nel cielo ivi posato un luminoso bubbone; che fra poco fra un momento, si sarebbe spaccato. La civetta attendeva colle palpebre rattratte, questa sua perdita. Un gran tempo passava; pareva che il bubbone non avrebbe potuto durare così, la pelle del cielo doveva fendersi, tanto era tesa e lucente. Eppure ancora più si tendeva e diveniva lucente, senza spaccarsi. 
Infinito tempo di angoscia: se uno spaventoso male ci minaccia, venga esso almeno rapido, sì che almeno fra le sue braccia possiamo abbandonarci! 
Ruppe di botto il crestato signore del giorno e rapido grandeggiò fra le petraie. Con lui l’ultimo sgomento discese sulla civetta, la cecità l’avvolse. E all’apparire di lui la turba dei vili cortigiani prese a osannare in rinforzato tono; le luci e i colori, le ancelle, a ondeggiare, sciacquare, danzare. Le brume violacee, lo strascico della notte, conducevano sperdute una postrema lotta. A tutti, alla muta delle incomposte creature solari, la presenza del signore infondeva coraggio e iattanza. Oh rombo impudico, scatenati crosci d’acque, ridda di raggi di membra di f ronde! In quel punto voi vi credevate padrone della terra, creature dei boschi dell’aria e del mare! Grassa e superba progenie, il vostro celeste sileno, pure, passato il suo tempo, s’inabisserà nei gorghi salsi, o a picco dietro i monti, e altre ombre brune riprenderanno l’impero del mondo. 
Ma per la civetta non più. Il rombo l’assorda, l’accecano i barbagli e il fulgore; di questa luce e di questo frastuono ella morrà. Smarrita nel cuore, sbarrati gli occhi, vanamente cerca di guardare fra l’agitato chiarore, e sul ramo si dondola e soffia. Nessuno degli esseri diurni la scorge e il sordo soffio è inghiottito dall’aria. 
Il clangore e il barbaglio s’addensano. Intollerabili, sono, i lampi e le strida; sempre più vividi, sempre più alte; lingue, lame di fuoco rugghianti. Crescono ancora d’intensità; e i lampi ormai non lampeggiano più, un unico lampo, fisso, si dilata immenso e abbarbaglia, insostenibile vista! La romba, lo strido, è un ululo, un muglio; alto e gonfio empie il cavo del cielo. L’orrida fucina del giorno, più non s’intende se luce suono o calore, bruciando martella gli occhi e le viscere; l’universo avvampa. Il cuore si sbatte nell’agonia. 
Un colpo, una vampata incandescente, abbacinante; la romba cade in un ronzio, e si tace; la civetta sprofonda nella luce bianca della morte. 

— Bè, come vanno? 
— Eh, te l’avevo detto che dovevano essere riconosciute di polvere! Vedi? è caduta viva; mi toccherà castrarle queste cartucce. 
Ma, sebbene si sbattesse ancora lì a terra, davanti a un cane che l’annusava diffidente, e tentasse forse piccoli voli, pure la civetta non aveva più coscienza ed era felice. 
— Non la raccogli neppure? 
— Che vuoi che me ne faccia! 
Il fuoco 



Avevo scelto per quella notte di Natale un enorme ciocco con una grossa nocchia, o gobba, rotonda, ma un poco appuntita in avanti. Insomma io m’avvidi subito che la nocchia era un muso, o forse un’intiera testa, sebbene mostruosa; d’orso, chissà, o d’altro spietato animale. Poggiato sulla pietra del focolare, il ciocco vi pareva confitto, quasi cioè la gigantesca creatura vi fosse imprigionata fino alle spalle, mostrando solo il sommo di queste ed il capo. 
Ma la donna, poggiando la guancia alla mia spalla, diceva: «Ecco ormai la mia casa, ecco il mio fuoco; siimi benigno, spirito di questi luoghi, e tu spirito di questo focolare, che hai in custodia il mio amato. Fa’ ch’egli mi sia fedele, non vi sia posto per altre angosce se non quelle che gli verranno da me, nel suo animo; ma, meglio, fà che noi siamo eternamente felici, che trascorriamo in mai turbata pace il nostro tempo accanto ai tuoi capelli di fiamma, nello sguardo confidente dei tuoi occhi di bragia; noi e i nostri figli, ora e dopo l’ora della nostra morte». 
Queste ed altre cose disse la donna, e si tacque; e ascoltavamo intenti il fuoco, quasi la sua voce meglio ci unisse della nostra. Io stesso in ciò m’ingannai. 
Pacifico è il fuoco, e parla con familiare borbottio, sebbene pochi intendano la sua molteplice lingua. È ingenuo o severo, nenia come un fanciullo o trasmette gravi messaggi; paesi ardenti, paesi smorti figura; creature celesti e terrestri s’agitano o immobili guatano dalle sue viscere; occhi dilatati, occhi velati di palpebre ci fissano dal suo cuore. Ma se anche, obbedendo alla sua libera natura, leva talvolta guizzi viperini, sibila come vento, ruglia come tempesta, e par quasi scuotere la criniera; nondimeno anche allora è un genio benigno. 
Così parlano del fuoco, e tale io ancora lo credevo. Ma lo vidi quella notte adirato; aveva egli contesto un sinistro paesaggio (come colpito dal raggio di lune san guigne e bruciate), e fremeva, balzava, avventava le sue lingue sempre più in alto mugolando e ringhiando. Voleva, certo, dirci qualcosa che non intendevamo distintamente, e per questo era in furia; il suo linguaggio divino era prossimo a tramutarsi nel nostro, miseramente articolato. 
Mi volsi sgomento alla mia compagna; ella taceva sempre, guardando il fuoco con occhi ardenti, il mostro confitto nella pietra. Mi avvidi allora d’improvviso che non era d’orso quel capo, ma della mia, della nostra stessa specie, per, quanto immane; la vampa ne aveva scavate le guance e modellato tutto il volto. La vasta creatura prigione si svelava; con ardore cupo negli occhi, di fra gli ultimi veli di fiamma, essa guardava la donna che la guardava fissamente. 
Si coronò di fiamme in un sussulto la testa, e il ruglio divenne parole. — Ecco io rispondo, fanciulla (disse il fuoco) alla tua invocazione, e a un puro cuore mi svelo, come tuttavia non ho mai fatto prima d’ora. Io sono lo spirito di questo focolare, qui imprigionato, lo vedi; ma udrai tristi cose. Accanto a me non v’è pace, e folle speranza è la tua. Su me grava un’oscura condanna, e su chi m’avvicini; funesto è il mio potere. Non è dunque il chiaro sole, al quale noi tutti dobbiamo riverenza, della mia medesima natura? Ma pure egli libero volteggia per i campi del cielo, e chi me abbia qui costretto non so. Non sono io dunque un libero elemento, il più nobile degli elementi? Ma pure invano tento, a ogni guizzo a ogni balzo, di raggiungere la mia patria celeste. In metro alterno, la mia voce dovrebbe promettere agli uomini un paese migliore. Ma così non è, fanciulla, e simile, infine, alla mia sorte, è quella di chiunque fra voi viva con me in dimestichezza. Giacché, come agli uomini è concesso piegarmi, supremo oltraggio, ai più bassi usi, del pari a me è imposto d’agitare nei loro cuori un inutile e vile affanno. Io storno il loro udito dal suono profondo del tempo, dall’armonia squillante degli elementi; accanto a me essi non udranno il diverso accento della natura, eterna madre di noi tutti, e neppure il mio proprio mugolo di morte, ma solo porgeranno l’orecchio a triti rumori. Io storno i loro cuori, l’ho detto, da ogni inclita cura e a oscure imprese li intendo, storno la loro mente da ogni alto pensiero e a sorde angosce la piego. E soprattutto io scateno dai loro petti una vana tempesta di parole, non malvage o violente, ma appena animose, buie e affannate, ingloriose e incessanti, con cui essi si tormentano senza tregua, se stessi e l’un l’altro. 
E che v’è di più triste delle loro parole? Esse battono dentro come sangue guasto, la mente può smarrirsi nel loro giro infecondo, esse possono dare la disperazione, o un’angoscia simile alla follia: così il genitore non riconoscerà più la sua creatura, né la tenera fanciulla l’ava. La rabbia celata dunque, e il rancore, una nascosta inimicizia fra simili, forse l’odio, questo è ciò che gli uomini possono attendersi dal mio favore; da me, il più nobile degli elementi. Ma non scorre, fuori, la libera vita della terra delle acque e dell’aria? Pure, essi resteranno qui dentro, avvinti ai loro inutili, ai loro aridi affanni, prigioni di quest’aria ronzante di parole umane, com’io di questa pietra; e così ancora sarà. Epperò fuggimi fanciulla, e non invocarmi: ora sai che accanto a me non può essere pace. Pace non è forse quando si taccia, e ci si abbandoni nel vasto seno degli elementi, pari alle libere creature della terra delle acque e dell’aria? Pace non è questo fra voi? Ben io vorrei restituirmi alla mia patria celeste; ma di ciò non più. 
Ecco io l’ho detto, fanciulla: tale è il mio funesto potere. E odi ancora ciò ch’io, spirito di questo focolare, ti dico: il tuo amato non sarà mai tuo, come vorresti, giacché egli m’appartiene. Qui vissero i suoi avi e morirono, qui egli vivrà e morrà; com’io sono qui dannato, così egli, fra il turbine delle parole, alle piccole cure di questa venerabile casa; né la sua anima potrà mai di qui levarsi a volo o seguire le orme d’una compiuta bellezza. 
— Tu menti, (gridai io a questo punto) chiunque tu sia! —. Ma il fuoco scosse impaziente i suoi fiammei capelli e proseguì senza badarmi: — Pure, fanciulla, consòlati, se puoi. Difatto questa vana e infeconda agitazione non è tuttavia che un moto d’ombre; se ben guardi vedrai che i volti riverberati dalla mia vampa sono volti appena, non forme; labili volti, testimonianze d’un sogno malvagio: il mio. Questi non furono uomini, e non sono; essi sono riverberi. Ma eterna dura la loro labile presenza; così appunto, cancellati da ogni luce tranne che dalla mia sanguigna, il tuo volto e quello del tuo amato mi assisteranno in eterno, dopo l’ora della vostra morte. Non senti tu quanti spiriti già, di coloro che trassero il loro tempo in questa casa, mi fanno coro? Maschere ardenti ed incerte, essi vi spiano dalle vostre spalle, e non abbandoneranno facilmente la loro preda. Né io la mia, fanciulla. 
— Tu menti, — gridai io ancora — spirito malvagio! —. Ma il fuoco aveva ormai ripresa la sua mutevole lingua, le cui parole non sempre intendiamo appieno. Anche la donna taceva, chino il capo; il gigante prigione nella pietra aveva abbassate le sue palpebre di cenere, e non più la guardava, ormai. Anzi tutto il suo volto s’andava coprendo di quelle palpebre fini che tremano e battono a ogni alito della bragia e che figurano un orrendo decadimento. 
Il paesaggio di lune sanguigne si,corrompeva, si faceva sempre più cupo e deserto. Sempre più si disfaceva e spegneva il volto dell’immane creatura, le guance cadevano in cenere, la smorta pelle ne pendeva distaccata. Non più il capo si coronava orgogliosamente di fiamme; livida cartapecora, la sua materia era prossima a sciogliersi in polvere. 
Così il fuoco tacque del tutto; venne un gatto e, salendo lento su un alare, tracciò contro il volto di cenere colla coda e coi fianchi un molle rabesco. 
Né io sapevo allora che cosa questa morte del fuoco volesse figurare. Meglio lo so, ora che il volto della mia compagna è divenuto anch’esso un labile volto affocato, un riverbero, in quest’incubo sordo che il fuoco genera. E, secondo la sua profezia, ella è morta, come noi tutti faremo, senza aver vissuto.  
Il racconto della piattola 



Io, piattola, vivevo in un bosco folto e mi vi aggiravo beata; quello era veramente il mio regno. La mia vita scorreva felice, traevo per il mio nutrimento colla massima facilità dalla terra il suo rosso succo, deponevo la mia progenie in sicurezza nel proprio involucro a piè d’un tronco, e insomma nulla turbava la nostra fiorente colonia. Ma un giorno sentii la terra raggelarmisi sotto, il suo succo, pari a una linfa stagnante, si rapprese e acquistò un gusto di morte. Nel gelo, in un mondo rabbuiato dunque finii. Ora, di questo non voglio incolpare nessuno, neanche chi ci ascolta di lassù: può darsi (sebbene io non lo creda) che così dovesse essere e che sia stato bene. Ma voi, uomini che intravedo nell’ombra, perché mi guardate in atto superbo? Tale sarà anche la sorte dei vostri simili un giorno.