mercoledì 22 aprile 2020


EUGÉNIE GRANDET

Honoré de Balzac
(Traduttore:
Grazia Deledda)

In alcune città di provincia si trovano case la cui vista ispira una malinconia simile a quelladei chiostri piú tetri, delle lande piú desolate, delle rovine piú tristi: in queste case forse si trovano riuniti e il silenzio del chiostro, e l’aridità delle lande, e le rovine. Vita e movimento vi sono cosí tranquilli che un forestiero le riterrebbe inabitate, se d’un tratto non incontrasse lo sguardo smorto e freddo di una persona immobile, la cui figura, mezzo monastica, sporge dal parapetto della finestra al rumore di un passo insolito. Tale malinconia esiste anche in una casa di Saumur, in cima alla via montagnosa che mena al castello per la parte alta della città.
Questa curiosa strada, ora poco frequentata, calda in estate e fredda in inverno, oscura in alcuni punti, si fa notare per il
selciato sonoro, sempre a posto e arido, per la sua angustia e la.sua tortuosità, per la dolce pace delle case che appartengono alla.città vecchia che domina i bastioni. Vi sorgono ancora solide.abitazioni di tre secoli, quantunque in legno, e i loro diversi aspetti concorrono all’originalità di questa parte di Saumur che attira l’attenzione degli antiquari e degli artisti. È difficile passare davanti a queste case senza ammirare i loro panconi enormi i cui spigoli sono intagliati e che coronano con un bassorilievo nero il pianterreno della maggior parte di esse. Qui, tavole trasversali son coperte di ardesia e disegnano linee bluastre sulle mura deboli di una casa coperta da un tetto e colombaio, che gli anni hanno fatto inclinare nelle sue assi mezzo fradice per la pioggia e il sole. Là, appaiono imposte di finestre vecchie e annerite, di cui a malapena si scorgono le delicate sculture e che sembrano troppo fragili per il vaso d’argilla oscura, d’onde si slanciano i garofani o le rose di una povera operaia. Piú avanti vi sono porte guarnite di chiodi enormi dove il genio dei nostri antenati ha tracciato geroglifici domestici e familiari e dei quali mai sarà scoperto il senso. Talora un protestante vi ha marcato la sua fede, talora un autore della lega vi ha bollato la maledizione per Enrico IV. Qualche borghese vi ha segnato lo stemma della sua nobiltà di campane e la dimenticata gloria.della sua carica di scabino. La Storia di Francia è là tutta intiera. Di fianco alla casa tremante nelle sue mura grezze ove l’artigiano ha santificata la sua pialla, s’innalza il palazzo di un gentiluomo, e sulla sua porta spiccano ancora in pietra le sue
armi, oltraggiate e infrante dalle diverse rivoluzioni che dal 1789
hanno sconvolto il paese. In questa via i pianterreni dei
commercianti non sono né botteghe né magazzini; ma gli amici del medio evo vi troverebbero la bottega dei nostri
padri in tutta la sua schiettezza e la sua semplicità. Quei locali
bassi, che non hanno né facciata, né mostre, né vetri, sono profondi, oscuri e senza ornamenti esterni o interni. La porta si apre con due battenti, ferrati grossolanamente, dei quali la partensuperiore si ripiega all’interno, e l’inferiore, munita di un campanello a molla, si schiude in modo normale. Aria e luce.penetrano in questa specie di antro umido, o dal vano della porta,
o per lo spazio che si riscontra fra la volta, il solaio e il breve
muro ad altezza di finestra, nel quale s’incastrano solide imposte,
tolte di mattino, rimesse a posto e inchiavardate la sera. Questo
muro serve ad esporre le mercanzie del negoziante: e non vi è
ciarlataneria. Secondo la specie del commercio la mostra consiste
in due o tre mastelli colmi di sale e di merluzzo, in qualche
involto di tela grossa da vele, in cordami, in ottonami appesi ai
travicelli del solaio, in cerchi lungo le pareti, o in qualche
pezza di stoffa su scaffali. Entrate. Una bella figliola, fulgida
di giovinezza, dal bianco fazzoletto, dalle braccia rosee, lascia
il suo lavoro a maglia, chiama il padre o la madre che vengono e vi
vendono ciò che desiderate con flemma, con gentilezza o con
arroganza, secondo il carattere, sia per due soldi, sia per
ventimila franchi delle loro mercanzie. Vedrete un mercante di
legname seduto davanti alla porta che gira i pollici chiacchierando
con un vicino: in apparenza egli non possiede che cattive tavole
per infimo uso o due o tre mucchi di panconcelli: ma in realtà nel
posto il suo magazzino pieno zeppo fornisce tutti i bottai
dell’Angiò, e sa a un dipresso quante botti saranno vendute se il
raccolto sarà buono. Un raggio di sole l’arricchisce, una pioggia
lo rovina: in una sola mattinata certi fusti di vino valgono undici
franchi o cadono a sei lire. In quel paese, come nella Turenna, le
variazioni dell’atmosfera dominano la vita commerciale. Vignaroli,
proprietari, mercanti di legname, bottai, albergatori, marinai,
sono tutti a spiare il sole: tremano nel coricarsi la sera di dover
sapere l’indomani mattina che durante la notte ha gelato: temono la
pioggia, il vento, la siccità, e vogliono nello stesso tempo a
secondo della loro pretesa, acqua, caldo e nubi. V’è una lotta
continua fra il cielo e gli interessi della terra: cosí il
barometro rattrista, schernisce e allieta volta a volta i visi di
questi abitanti. Da un capo all’altro di questa strada, che una
volta era il Corso di Saumur, le parole magiche: «Ecco un tempo
d’oro!» volan di porta in porta: e gioioso ciascuno risponde al
vicino: «Piovon luigi!», ben sapendo che un raggio di sole e
un’opportuna piovuta portano la ricchezza. Il sabato, verso
mezzogiorno, nella bella stagione, non trovereste da comprare un
soldo di merce presso questi bravi industriali. Ciascuno ha la sua
vigna, il suo poderetto a orto o frutteto e va a passare due giorni
in campagna: e là, perché da calcolatori hanno tutto previsto, la
compera, la vendita, il guadagno, i commercianti possono disporre
di dieci ore su dodici che trascorrono in allegre partite, in
osservazioni piene di commenti e in numerosi spionaggi. Una massaia
non può comperare una pernice senza che i vicini non domandino al
marito se sia stata cucinata bene. Una giovinetta non s’affaccia
alla finestra senza essere vista dai crocchi di disoccupati. Là,
dunque, le coscienze sono liberissime e quelle case che sembrano
impenetrabili, cosí nere e silenziose, non nascondono invece alcun
mistero. La vita si svolge quasi sempre all’aperto: le famiglie si
riuniscono davanti alla porta, vi fanno colazione, vi pranzano, vi
discutono. Non può passare persona per la strada che non sia
osservata e studiata. Del resto, fin da prima, allorché un
forestiero arrivava in una città di provincia era beffato di porta
in porta, onde tante gioconde storielle, e il soprannome
di copieux,
abbondanti di burle, dato agli abitanti di Angers che
erano i primi in questo motteggiare saporito e non offensivo. Gli
antichi alberghi della vecchia città sono in cima a questa strada
già abitata dai signori del paese.
La melanconica casa dove si sono
svolti gli avvenimenti di questo racconto era appunto uno di tali
abitati, resti venerabili di un secolo nel quale le cose e gli
uomini avevano quel carattere di semplicità che i costumi francesi
vanno perdendo di giorno in giorno. Dopo aver seguito le traccie di
questa pittoresca contrada ove i minimi particolari suscitano
ricordi e sogni involontari, scoprirete un meandro oscuro: là è
nascosta la porta della casa del signor Grandet. Ma è impossibile
comprendere il valore di quest’espressione provinciale se non si
conosce un po’ della vita del signor Grandet. Egli a Saumur godeva
di una reputazione che chi non ha vissuto in provincia non potrebbe
comprendere né poco né molto. Il signor Grandet, chiamato da alcuni
vecchi, il cui numero diminuiva sensibilmente, papà Grandet, era
nel 1789 un mastro bottaio che oltre al fatto suo sapeva leggere,
scrivere e far di conto. Quando la nuova Repubblica Francese mise
in vendita nel circondario di Saumur i beni del clero, il bottaio,
allora quarantenne, aveva da poco sposato la figlia di un ricco
mercante di legnami. Egli con il suo e con la dote mise insieme
duemila luigi d’oro: munito di questi andò al distretto dove con
duecento doppi luigi del suocero offerti al feroce repubblicano che
sorvegliava la vendita dei domini nazionali ebbe per un pezzo di
pane, legalmente, se non legittimamente, le piú belle vigne del
territorio, una vecchia abbazia e qualche cascina. Gli abitanti di
Saumur erano poco rivoluzionari e papà Grandet passò per uomo
ardimentoso, un patriota repubblicano che diffondeva nuove idee:
mentre invece il bottaio si occupava pacificamente delle sue
vigne.
Fu allora nominato membro del
distretto di Saumur e la sua pacifica influenza si fece risentire
tanto dal lato politico che da quello commerciale. Politicamente
protesse i conservatori e impedí con tutte le sue possibilità la
vendita dei beni degli emigrati: commercialmente, forní alle armate
repubblicane una o due migliaia di botti di vin bianco facendosi
pagare con superbe praterie di proprietà di un monastero, riservate
per ultimo lotto.
Sotto il consolato, quel
furbacchione d’un buon Grandet divenne sindaco, amministrò con
saggezza e vendemmiò anche meglio: sotto l’Impero egli fu
il sig.
Grandet.
Ma Napoleone non aveva cari i
repubblicani e rimpiazzò il sig. Grandet, che passava per uno di
quelli che avevano portato il berretto rosso, con un grande
proprietario, un uomo di pretese nobiliari, un futuro barone
dell’Impero. Il Sig. Grandet lasciò gli onori municipali senza
dispiacere. Egli aveva fatto costruire, nell’interesse della città,
strade eccellenti che, vedi caso, conducevano alle sue proprietà: e
la sua casa e i suoi beni, descritti nel catasto con molto
vantaggio, pagavano imposte moderate. Dopo la classificazione dei
suoi diversi poderi, le sue vigne, grazie alle sue costanti cure,
erano divenute la testa del
paese, termine tecnico in uso per
indicare i vigneti che producevano il vino
migliore.
Egli avrebbe potuto chiedere
la croce della Legion d’onore: e l’ottenne nel 1806. Aveva allora
57 anni e sua moglie circa 36: una figlia unica, frutto dei loro
legittimi amori, aveva l’età di sedici anni. Il sig. Grandet, che
la Provvidenza volle senza dubbio consolare della sua disgrazia
amministrativa, ereditò successivamente durante quest’anno dalla
signora La Gaudinière, nata La Bertellière, madre della signora
Grandet: poi dal vecchio sig. La Bertellière, padre della defunta,
e infine da madama Gentillet, sua ava materna: tre successioni la
cui importanza rimase nascosta a tutti.
L’avarizia di quei tre vecchi
era cosí sordida, cosí appassionata, che da lungo tempo essi
nascondevano il loro denaro per poterlo contemplare in segreto. Il
vecchio signor La Bertellière chiamava prodigalità l’impiego del
denaro, e provava piú acre soddisfazione nel contemplare l’oro che
nei benefizi dell’usura: di modo che gli abitanti di Saumur
supposero che quei denari fossero le economie delle rendite dei
terreni.
Il signor Grandet ottenne
allora il nuovo titolo di nobiltà che la nostra mania di
eguaglianza non cancellerà mai, e divenne il
maggior contribuente
del circondario. Egli possedeva cento iugeri di vigne
che nelle annate abbondanti gli rendevano dai sette agli ottocento
fusti di vino: aveva inoltre tredici masserie, una vecchia abbazia,
dove, per economia, aveva murato le finestre, le ogive, le vetrate,
il che le conservò lungo tempo: e infine era padrone di
centoventisette iugeri di praterie dove crescevano e s’ingrossavano
tremila pioppi piantati nel 1793. La casa ove abitava era di sua
proprietà. Questa a un dipresso era la sua fortuna visibile.
Riguardo ai suoi capitali due sole persone potevano vagamente
presumerne la portata: l’uno era il signor Cruchot, notaio
incaricato dei depositi a usura e dei mutui di Grandet: l’altro il
signor des Grassins, il piú ricco banchiere di Saumur, ai benefici
del quale con convenienza e segretamente il vignarolo
partecipava.
Quantunque il vecchio Cruchot
e il signor des Grassins possedessero quella profonda discrezione,
che genera nella provincia la confidenza e la fortuna, essi
testimoniavano in pubblico al signor Grandet un cosí profondo
rispetto, che gli osservatori potevano misurare l’importanza delle
ricchezze dell’antico sindaco dalla portata dell’ossequiosa
considerazione di cui era oggetto.
Non vi era alcuno in Saumur
che non fosse persuaso che il signor Grandet avesse un tesoro
particolare, un nascondiglio zeppo di luigi, e si procurasse di
notte le ineffabili gioie che procura la vista di un gran mucchio
di oro. Gli avari ne erano quasi certi, scoprendo nei suoi occhi
forse misteriosi riflessi che il fulvo metallo vi aveva
comunicato.
Lo sguardo d’un uomo abituato
a trarre dai suoi capitali un interesse straordinario, contrae
fatalmente, come quello del voluttuoso, del giocatore, o del
cortigiano, certe abitudini indefinibili, certi moti furtivi,
avidi, che non possono sfuggire a quelli che provano le identiche
inclinazioni; e questo segreto linguaggio forma in certo qual modo
la framassoneria delle passioni.
Il signor Grandet ispirava
dunque la stima rispettosa alla quale aveva diritto un uomo che non
doveva mai nulla a nessuno, e che, vecchio bottaio e vecchio
vignarolo, indovinava con la precisione di un astronomo quando per
il suo raccolto occorreva fabbricare mille fusti o soltanto
cinquecento: ammirato come chi non fallisce alcuna speculazione e
ha sempre botti da vendere allorché queste valgono piú del mosto, e
può conservare in cantina la sua vendemmia e attendere il momento
di vendere i suoi fusti di vino a duecento franchi quando i piccoli
proprietari sono costretti a vendere i loro a cinque luigi. Il suo
famoso raccolto del 1811, saggiamente conservato e lautamente
venduto, gli aveva fruttato piú di duecentoquarantamila
lire.
Finanziariamente parlando, il
signor Grandet aveva della tigre e del serpente boa: egli sapeva
acquattarsi, rannicchiarsi, spiare a lungo la sua preda, saltarle
addosso: poi apriva la gola della sua borsa, v’inghiottiva un
mucchio di scudi e si addormentava tranquillo come il serpente che
digerisce, impassibile, freddo, metodico. Chi lo vedeva passare per
la strada non poteva fare a meno di provare un senso di ammirazione
misto a rispetto e anche a paura.
Molti in Saumur non avevan
forse provato lo strazio de' suoi artigli? A questo mastro Cruchot
aveva procurato il denaro necessario per la compera di una tenuta,
ma all’undici per cento: a quell’altro, il signor des Grassins,
aveva scontato tratte, ma ad interessi enormi. Pochi erano i giorni
nei quali il nome di Grandet non fosse pronunziato nei mercati, o
la sera nelle conversazioni cittadine. Per alcuni, in verità, la
fortuna del vecchio vignarolo era l’oggetto di un orgoglio
patriottico. Cosí piú di un negoziante e piú di un proprietario
d’albergo diceva al forestiero, con una certa aria di
soddisfazione:
– Signore, noi qui abbiamo due
o tre milionari: ma riguardo al signor Grandet, egli stesso non sa
a quanto ammonti la sua fortuna!
Nel 1816 i piú abili
calcolatori di Saumur stimavano le terre del nostro buon uomo circa
quattro milioni: ma, dato un calcolo medio, egli aveva dovuto
ricavare dalle sue proprietà, dall’anno 1793 al 1817, circa
centomila franchi di interessi: e cosí era presumibile ch’egli
possedesse in denaro liquido una somma eguale al valore dei fondi.
E quando, dopo una partita a
boston o un discorso
sulle vigne, si veniva a parlare di Grandet, quelli che se ne
intendevano esclamavano:
– Papà Grandet?… Papà Grandet
deve avere dai cinque ai sei milioni.
– Lei è piú abile di me: io
non ho mai saputo il totale di Grandet – rispondevano il signor
Cruchot o il signor des Grassins alle
insinuazioni.
Quando qualcuno di Parigi
parlava dei Rothschild o del famoso signor Laffitte, quei di Saumur
domandavano se erano ricchi come il signor Grandet. Se il parigino
rispondeva con uno sguardo di sorridente degnazione, quei di Saumur
lo guardavano scuotendo la testa con un’aria di incredulità. Tanta
fortuna copriva di un manto d’oro tutte le azioni di questo uomo, e
se dapprima qualche particolare della sua vita si offriva al
ridicolo e alla beffa, ora erano del tutto scomparsi: nei suoi
minimi atti, il signor Grandet aveva ormai l’autorità della cosa
giudicata.
La sua parola, il suo vestire,
i suoi gesti, il suo ammiccare eran legge per il paese, ove
ciascuno, dopo averlo studiato, come un naturalista studia gli
effetti dell’istinto degli animali, avrebbe potuto riconoscere la
profonda e silenziosa saggezza dei suoi piú piccoli
atteggiamenti.
– L’inverno sarà rude – si
diceva. – Papà Grandet ha messo i guanti foderati: bisogna
vendemmiare.
Altri dicevano: – Papà Grandet
prepara legname: dunque ci sarà buon vino
quest’anno.
Il signor Grandet mai comprava carne
o pane, perché i suoi fittavoli gli portavano ogni settimana una
sufficiente provvista di capponi, polli, uova, burro e grano della
sua rendita: inoltre aveva un mulino, il cui conduttore, per
contratto, era obbligato di rilevar da lui una certa quantità di
frumento e riportargli crusca e farina.
La grossa Nannina, sua unica
serva, quantunque non piú giovane, faceva ella stessa tutti i
sabati il pane per la famiglia. Grandet si era poi accordato coi
suoi ortolani locatari perché gli fornissero legumi: quanto alle
frutta ne raccoglieva tanta che gran parte la vendeva al mercato.
La legna da ardere era tagliata dalle sue siepi o consisteva in
vecchi fastelli mezzo marci che disponeva ai limiti dei suoi campi,
e i fittavoli gliela portavano in città, gliela disponevano a modo
nella legnaia e ricevevano i suoi ringraziamenti. Le sue sole spese
conosciute erano quelle per il pane benedetto, per i vestiti della
moglie e della figlia, per l’affitto delle sedie in chiesa, per la
luce, per il salario della grossa Nannina, per la saldatura delle
sue casseruole: di piú il pagamento delle imposte, restauri dei
fabbricati e manutenzioni dei terreni. Aveva poi seicento iugeri di
bosco acquistato recentemente che faceva sorvegliare dal guardiano
di un vicino: a quel poveraccio di guardiano aveva promesso una
indennità: soltanto dopo questa compera cominciò ad apparire nella
sua tavola la cacciagione. I modi di questo uomo erano
semplicissimi: parlava poco e generalmente esprimeva le sue idee
con frasi brevi e sentenziose, a voce bassa e dolce. Dopo la
Rivoluzione, epoca nella quale egli attirò la comune attenzione, il
nostro caro uomo balbettava non appena doveva discorrere a lungo o
sostenere una discussione. Questo tartagliare, l’incoerenza delle
sue parole, il flusso delle parole dove annegava il suo pensiero,
la sua apparente mancanza di logica attribuita a un difetto di
educazione erano affettate, volute: e saranno a sufficienza
spiegate da qualche avvenimento di questa
storia.
D’altra parte, quattro frasi
esatte come formule algebriche gli servivano abitualmente ad
abbracciare e a risolvere tutte le difficoltà della vita e del
commercio.
«Non so, non posso, non
vorrei, vedremo.» Mai diceva né di
sí né
di no,
e mai scriveva. Gli si parlava? Ascoltava freddamente,
stringendosi il mento con la destra, appoggiando il gomito sul
dorso della mano sinistra e in ogni affare si formava una opinione
dalla quale non recedeva a tutti i costi.
Meditava a lungo anche i
minimi affari, e quando dopo un’abile conversazione l’avversario
gli aveva aperto il segreto delle sue pretese credendo d’averlo
conquistato, gli rispondeva:
– Non posso concludere nulla
senza prima aver consultato mia moglie. –
La moglie, che egli aveva
ridotto ad un ilotismo completo, a una vera schiavitú, era negli
affari la sua difesa piú comoda. Grandet non andava a visitar
nessuno, né voleva ricevere, né invitare a pranzo: non faceva
rumore e sembrava economizzare tutto, anche i movimenti. Non
sottraeva una mollica agli altri per un costante rispetto della
proprietà. Ciò non ostante, malgrado la dolcezza della voce,
malgrado il modo circospetto, il linguaggio e le abitudini del
bottaio trasparivano, specialmente quando era in casa, dove aveva
minor ritegno di finzioni.
Come aspetto, Grandet era un
uomo grosso e basso, alto cinque piedi, con dei polpacci di dodici
pollici, rotule nodose e spalle larghe: il suo viso era tondo,
rossastro e lentigginoso, dal mento diritto, la bocca serrata e i
denti bianchi: i suoi occhi avevano l’espressione calma e
divoratrice che il popolo attribuisce al basilisco: la sua fronte
solcata di rughe trasversali non mancava di protuberanze
significative: i suoi capelli giallastri e grigiastri avevano del
bianco e dell’oro: il suo naso aveva una gobba venata che, non
senza ragione, il volgo diceva piena di malizia. Tale figura
esprimeva una finezza pericolosa, una probità senza convinzione, e
l’egoismo di un uomo abituato a concentrare i suoi pensieri nella
gioia dell’avarizia, e convinto che il solo essere che valesse
qualche cosa fosse sua figlia Eugenia, unica ereditiera. D’altra
parte gli atti e i modi, tutto in lui denotava quella fiducia in sé
di chi ha l’abitudine d’essere riuscito in tutte le sue imprese. E
cosí, quantunque in apparenza di costumi facili e pieni di
blandizia, il signor Grandet aveva un carattere di bronzo. Chi lo
vedeva oggi lo avrebbe visto con la stessa foggia di vestire del
1791: si stringeva con cinghie di cuoio le grosse scarpe e portava
in ogni stagione calze di lana, calzoni corti di panno grosso
marrone con bottoni d’argento, un panciotto di velluto a righe
gialle e scure con doppia fila di bottoni, un largo soprabito
marrone, una cravatta nera e un cappello da quacchero. I guanti,
solidi e ruvidi come quelli dei gendarmi, gli duravano venti mesi,
e per conservarli puliti, li adagiava sempre sul medesimo bordo del
cappello, con un gesto metodico: Saumur altro non sapeva di questo
personaggio.
Soltanto sei abitanti avevano
il diritto di entrare nella sua casa. Il piú considerevole dei
primi tre era il nipote del signor Cruchot: dopo la sua nomina di
prima istanza a presidente di Tribunale a Saumur, questo giovane
aveva aggiunto al nome di Cruchot quello di Bonfons, e si sforzava
di far prevalere Bonfons su Cruchot. Egli già firmava C. de
Bonfons; e chi aveva qualche lite ed era cosí ingenuo da chiamarlo
signor Cruchot s’accorgeva subito della propria dabbenaggine,
perché il magistrato proteggeva sí, chi lo chiamava signor
presidente, ma addirittura favoriva con il piú grazioso dei suoi
sorrisi gli adulatori che gli dicevano signor de Bonfons. Il signor
presidente aveva trent’anni, possedeva la tenuta di
Bonfons (Boni
Fontis) che aveva un valore di
settemila lire di rendita: egli aspettava la successione di suo zio
notaio e quella di un altro suo zio, l’abate Cruchot, dignitario
del capitolo di San Martino di Tours: ambedue passavano per molto
ricchi.
Questi tre Cruchot, sorretti
da un gran numero di cugini e dall’alleanza di venti casati della
città, formavano un partito, come già i Medici a Firenze, e, come i
Medici, i Cruchot avevano i loro Pazzi.
La signora des Grassins, madre
di un giovanotto di ventitre anni, veniva assai assiduamente a fare
la partita con la signora Grandet, sperando di maritare il suo caro
Adolfo con la signorina Eugenia. Il signor des Grassins, poi,
banchiere, favoriva vigorosamente le manovre di sua moglie per i
segreti servizi resi al vecchio avaro, e arrivava sempre in tempo
sul campo di battaglia. I tre des Grassins avevano a loro volta i
loro aderenti, i loro cugini, e i loro fedeli alleati. Da parte dei
Cruchot, l’abate, una specie di Talleyrand della famiglia,
appoggiato forte dal fratello notaio, disputava vivamente il
terreno alla signora des Grassins, e tentava di riserbare la ricca
eredità a suo nipote il presidente: e questa lotta segreta fra i
Cruchot e i des Grassins, la cui posta era la mano di Eugenia
Grandet, interessava e appassionava le diverse società di Saumur.
Si domandavano: la signorina Grandet sposerà il signor Presidente o
il signor Adolfo des Grassins? A tanto problema gli uni
rispondevano che Grandet non avrebbe concesso la figlia né all’uno
né all’altro, e si aggiungeva che il vecchio bottaio, roso
dall’ambizione, cercava per genero qualche pari di Francia, al
quale trecentomila lire di rendita avrebbero fatto accettare tutte
le botti presenti, passate e future della
famiglia.
Altri replicavano che i des
Grassins erano nobili ricchissimi, che Adolfo era un gentil
cavaliere, e che, a meno di aver un nipote di papa nella manica,
nulla di piú avrebbe potuto desiderare un uomo venuto su dal nulla
e che tutta Saumur aveva visto con la pialla e sopratutto con il
berretto rosso. I piú sensati facevano osservare che il signor
Cruchot de Bonfons aveva l’ingresso a tutte le ore in casa Grandet,
mentre il rivale non era ricevuto che la domenica. Questi
sostenevano che la signora des Grassins, piú legata con le donne di
casa Grandet che le Cruchot, poteva loro inculcare certe idee che
presto o tardi l’avrebbero fatta vincere. Quelli ribattevano che
l’abate Cruchot era l’uomo piú insinuante del mondo e che fra donna
e prete la partita è sempre uguale.
– Sono gomito a gomito –
diceva un bello spirito di Saumur. I vecchi del paese, piú
informati, concludevano che i Grandet erano troppo saggi per far
uscire i beni dalla famiglia e quindi la signorina Eugenia di
Saumur sarebbe stata sposata al figlio del signor Grandet di
Parigi, ricco mercante di vino all’ingrosso. A ciò i crusciottiani
e i grassinisti, chiamiamoli cosí,
rispondevano:
– Anzitutto i due fratelli non
si sono visti piú di due volte in trenta anni. In secondo luogo il
signor Grandet di Parigi ha grandi pretese per suo figlio: egli è
sindaco di un circondario, deputato, colonnello della guardia
nazionale, giudice al Tribunale di commercio, e non calcola i
Grandet di Saumur ma ambisce a qualche famiglia ducale per grazia
di Napoleone.
Che cosa mai si diceva di una
ereditiera della quale si parlava per venti miglia intorno e anche
nelle diligenze da Angers a Blois?
Al principio del 1811 i
crusciottiani ebbero notevole vantaggio sui grassinisti. La terra
di Froidfond ammirevole per il suo parco, per il magnifico
castello, per le fattorie, i fiumicelli, gli stagni, le foreste,
del valore di tre milioni, fu messa in vendita dal giovane marchese
di Froidfond, obbligato a realizzare in fretta le sue sostanze.
Mastro Cruchot, il presidente Cruchot, l’abate Cruchot, aiutati dai
loro seguaci, seppero impedire la vendita a piccoli lotti, e il
notaio concluse con il giovane marchese un affare d’oro
convincendolo ch’egli avrebbe avuto un monte di seccature per
riscuotere il denaro da tanti compratori, e che era meglio vendere
il tutto al signor Grandet, persona solvibile e d’altronde capace
di pagare la terra in denaro contante. Il bel marchesato di
Froidfond fu dunque venduto all’ex bottaio che, con grande
meraviglia dei contadini, appena compiute le formalità di legge,
pagò in denaro sonante, con uno sconto adeguato. La cosa fece
rumore fino a Nantes ed Orléans. Il compratore approfittò d’una
treggia di ritorno per recarsi a vedere il castello e, dopo aver
gettato su tutto il colpo d’occhio del padrone, riprese la via
della città, sicuro di aver bene impiegato i suoi capitali, assorto
nel magnifico pensiero di accrescere il marchesato di Froidfond
aggregandovi gli altri beni; indi, per colmare il gran vuoto fatto
nello scrigno, risolse di tagliare i boschi e le foreste e di
coltivare i pioppi delle sue praterie.
È facile comprendere ora quale
fosse la casa del signor Grandet, una casa scialba, fredda,
silenziosa, posta nella parte alta della città e protetta dai
bastioni in rovina. I due pilastri e l’arco, in mezzo a cui
s’apriva il vano della porta, erano come il resto del fabbricato,
costruiti col tufo, pietra bianca che si trova sulle sponde della
Loira ed è cosí friabile da non superare mai in media i due secoli
di durata. I buchi ineguali e numerosi, che le intemperie avevano
sparso bizzarramente, davano all’arco e alle colonne del portone
l’apparenza delle pietre vermicolate dell’architettura francese e
qualche somiglianza anche con l’ingresso di una prigione. Sull’arco
dominava un lungo bassorilievo di pietra dura scolpita,
rappresentante le quattro stagioni in figure già logore ed
annerite, e sopra il bassorilievo sporgeva un plinto tutto coronato
di piante spontanee; parietarie gialle, rampicanti, convolvoli,
musco ed un piccolo ciliegio già abbastanza alto. La porta di
quercia massiccia, bruna, ardita, con larghe fenditure da ogni
parte, debole in apparenza, era solidamente munita da un sistema di
chiavarde, disposte con simmetria. Un’inferriata quadra, piccola,
dai ferri stretti e rossi di ruggine, spiccava nel centro e serviva
di motivo a un martello attaccato mediante un anello che poggiava
sulla testa di un grosso chiodo. Quel martello di forma oblunga o
dello stesso genere di quelli che i nostri antichi
chiamavano jaquemart[1] somigliava
a un grosso punto esclamativo e, solo esaminandolo con attenzione,
un antiquario avrebbe potuto scoprirvi qualche traccia della figura
umoristica che un tempo rappresentava e che il lungo uso aveva
consumata. Dall’angusto graticcio, attraverso cui si riconoscevano
gli amici nei tempi di guerra civile, si offriva allo sguardo dei
curiosi, in fondo a una volta scura e verdastra, qualche scalino
slabbrato che dava accesso a un giardino chiuso da mura grandi,
umide e piene di arbusti malaticci. Eran mura del bastione su cui
si aprivano i giardini delle prossime case. Al pianterreno la
stanza principale era una specie di sala attigua all’uscio di
strada.
Pochi conoscevano l’importanza
d’una sala nelle cittaduzze dell’Angiò, della Turenna e del Berry,
dove la sala fa da anticamera, salotto, studio,
spogliatoio e sala da pranzo; il teatro
della vita domestica, il focolare comune. Là il barbiere dei
dintorni veniva due volte l’anno a tagliare i capelli al signor
Grandet, là entravano i fittavoli, il curato, il sottoprefetto e il
garzone del mugnaio. Quella camera con due finestre sulla via aveva
il pavimento di legno, e tutt’intorno la decoravano dall’alto in
basso assiti chiusi in modanature antiche; il soffitto era di travi
a tinte grigie, e gli interstizii erano ripieni di borra bianca che
sempre piú ingialliva. Una vecchia lastra di rame incrostata
d’arabeschi, ornava la cappa del caminetto in pietra bianca male
scolpita, e, al disopra, in vetro verdastro, con gli angoli
smussati per lasciarne scorgere lo spessore, rifletteva un filo di
luce lungo uno specchio gotico in acciaio damascato. I due
candelieri di rame indorato posti ai due canti del camino servivano
a un doppio uso: togliendo le rose portacandele e il cui ramo
principale s’incassava in un piedistallo di marmo azzurrastro con
ornamenti di rame vecchio, questo poteva adoperarsi come candeliere
nei giorni ordinarii. Le seggiole di forma antica avevan
tappezzerie con le favole di La Fontaine; ma bisognava conoscerle
assai bene per distinguerne i soggetti, tanto era difficile
scorgere qualcosa in quei colori scialbi e in quelle figure piú
volte rattoppate. Agli angoli erano quattro cantoniere, specie di
credenze con sudici scaffaletti. Una vecchia tavola da giuoco
intarsiata, che serviva da scacchiera, si trovava nel vano tra le
due finestre, con sopra un barometro ovale, listato di nero e a
strisce di legno dorato, su cui le mosche avevano silenziosamente
reso un problema l’esistenza della doratura. Nella parete di fronte
al caminetto due ritratti a pastello si diceva che rappresentassero
l’avo della signora Grandet, il vecchio signore de La Bertellière,
in divisa di luogotenente delle guardie francesi, e la defunta
signora Gentillet in costume di pastorella; alle finestre pendevano
tende in gros
di Tours rosso con cordoni di seta a ghiande di chiesa.
Questa ricca decorazione, che stonava con le abitudini di Grandet,
era compresa nell’acquisto della casa con lo specchio, la mensola,
le tappezzerie e le cantoniere in legno di rosa. Presso la finestra
attigua alla porta era una sedia di paglia su di una predella,
perché la signora potesse vedere chi passava. Ma un tavolinetto da
lavoro in amarasco naturale occupava il vano, e accanto v’era la
poltroncina di Eugenia. Da quindici anni madre e figlia consumavano
lí la loro vita in un lavoro continuo dall’aprile al novembre; nel
primo giorno di questo mese potevano portare il loro quartiere
d’inverno presso il caminetto. Quel giorno soltanto Grandet
permetteva che si cominciasse ad accendere il fuoco nella stanza, e
lo faceva spegnere il trentuno marzo senza tener conto dei primi
freddi della primavera, né di quelli dell’autunno; uno scaldapiedi
pieno di brace prese in cucina e serbate con destrezza dalla grossa
Nannina aiutava le due donne a passare con minor disagio le
mattinate e le sere piú fresche dell’aprile e dell’ottobre. Esse
avevano cura di tutta la biancheria di casa, e compivano con tanta
scrupolosità questo lavoro da operaie, che, se Eugenia voleva
ricamare qualche collaretto per la madre, bisognava che rubasse un
paio d’ore al sonno, ingannando il padre per avere un po’ di luce;
da un pezzo l’avaro aveva adottato il sistema di consegnar lui
stesso a Eugenia e alla domestica una candela, allo stesso modo
come distribuiva la mattina il pane e quanto serviva per il consumo
della giornata.
Nannina era forse l’unica
creatura umana capace di accettare il dispotismo del padrone, e la
città intera invidiava quella domestica alla famiglia Grandet. La
chiamavano «grossa» per la sua statura di cinque piedi e otto
pollici; era al servizio dell’ex-sindaco da trentacinque anni e,
benché non avesse che sessanta lire di salario, la si riteneva per
una delle piú ricche donne di servizio di Saumur. Infatti quelle
sessanta lire accumulate in trentacinque anni le avevano permesso
di collocare a frutto da mastro Cruchot circa quattromila franchi,
e tale risultato di continue economie era parso a tutti enorme;
cosí ogni domestica, vedendo che quella povera vecchia a
sessant’anni aveva il pane assicurato, si rodeva di gelosia e non
pensava alla dura servitú con cui se l’era guadagnato. A ventidue
anni la povera giovane non aveva potuto trovar padrone, tanto il
suo aspetto era ripugnante, sebbene a torto. In verità la sua testa
sarebbe stata da ammirarsi a un granatiere della guardia. Costretta
a lasciare una fattoria incendiata, dov’ella custodiva le vacche,
era venuta a Saumur e vi cercò servizio, forte di quel coraggio che
non si rifiuta a nulla. Papà Grandet aveva allora intenzione di
ammogliarsi, e pensava di metter su casa. Vide quella ragazza che
tutti respingevano e, da esperto bottaio, e quindi buon giudice
della forza materiale, indovinò subito l’utile che si poteva trarre
da una femmina simile a un Ercole, piantata sulle gambe come una
quercia sessantenne, con i fianchi robusti e le spalle quadre, con
mani da carrettiere e una probità intatta come la virtú di lei. Né
i porri che ornavano quel volto marziale, né la tinta color caffé,
né le braccia nervose ed i cenci della Nannina spaventarono il
bottaio che si trovava tuttavia nell’età in cui palpita il cuore;
egli vestí, calzò e nutrí la povera ragazza, assegnandole un
salario e del lavoro senza troppo strapazzarla. Nel vedersi accolta
a quel modo, la grossa Nannina pianse di gioia in segreto e si
affezionò sinceramente al padrone, che usò con lei sempre un
sistema feudale. Ella badava a tutto; cucinava, faceva il bucato,
andava a sciacquare i panni nella Loira e li riportava sulle
spalle; era in piedi di buon mattino, andava tardi a letto,
preparava il desinare per gli operai al tempo delle raccolte,
sorvegliava la vendita dei generi e difendeva come un cane fedele
la fortuna del suo signore; insomma, fidando ciecamente in lui,
obbediva a tutte le sue stramberie. Nel famoso anno 1811, in cui il
raccolto costò stenti inauditi, dopo vent’anni di servizio, Grandet
risolse di regalare il suo vecchio orologio a Nannina, e fu il solo
dono che ella ricevesse da lui; poiché, sebbene fosse solito di
darle anche le sue scarpe vecchie, che si adattavano benissimo ai
piedi di lei, era impossibile addirittura considerarle come un
regalo, tanto erano consunte dall’uso. La necessità rendeva cosí
avara quella poveretta, che il bottaio aveva finito per amarla come
s’ama un cane, ed essa s’era lasciata mettere al collo un collare
guarnito di punte che non la pungevano piú… Se Grandet tagliava il
pane con troppa parsimonia, ella non si lamentava e prendeva parte
allegramente ai profitti igienici che procurava quel sistema severo
nella casa, dove mai nessuno era ammalato. E poi la Nannina
apparteneva alla famiglia; rideva quando rideva Grandet, era
triste, aveva freddo, si scaldava, lavorava con lui. Che dolce
compenso in quell’eguaglianza! Mai il padrone l’aveva rimproverata
per i frutti che riusciva a mangiare sulla pianta stessa. – Va,
prendi pure, Nannina, – le diceva il vecchio negli anni in cui i
rami piegavano sotto il peso dei frutti, e i fittavoli eran
costretti ad ingrassarne i maiali.
A una donna di campagna che in
gioventú era stata sempre strapazzata, a una poveretta raccolta per
compassione, il riso equivoco di papà Grandet sembrava un vero
raggio di sole, tanto piú che l’anima semplice e il cervello
limitato di Nannina non potevano fermarsi che a un sol sentimento e
ad una sola idea. Da trentacinque anni ella si trovava sempre
davanti al magazzino di Grandet, con i piedi nudi, tutta cenciosa,
e udiva il bottaio ripeterle:
– Che vuoi farci, piccina?
Il che bastava per rendere piú
viva la riconoscenza di lei.
Talvolta il padrone, pensando
che quella povera creatura non aveva mai udita la minima parola di
lusinga, che ignorava tutti i dolci sentimenti che può ispirare una
donna, e che avrebbe potuto un giorno comparire innanzi a Dio anche
piú casta della Vergine Maria, preso da improvvisa compassione, le
diceva guardandola:
– Questa povera
Nannina! … –
Esclamazione cui seguiva
sempre uno sguardo indefinibile della vecchia fantesca. La stessa
frase, di quando in quando ripetuta, formava da un pezzo una catena
non interrotta d’amicizia, ed ogni ripetizione vi aggiungeva un
anello. Quella commiserazione che sorgeva dal cuore di Grandet e
accolta cosí volentieri dalla vecchia aveva un non so che di
orribile, e pure quell’atroce pietà di avaro, che ridestava mille
piaceri nel cuore dell’antico bottaio, era per la donna il colmo
della felicità.
«Dio, povera Nannina,
riconoscerà i suoi angeli alle inflessioni della loro voce e dei
loro lamenti misteriosi.» Chi non le dirà
cosí?…
V’erano in Saumur molte
famiglie, presso cui si trattavano assai meglio i domestici, ma non
per questo venivano contraccambiati con alcun sentimento di
gratitudine; e pensavano:
– Che diamine fanno i Grandet
alla grossa Nannina, perch’ella abbia per loro tanta affezione, da
buttarsi magari nel fuoco? –
La cucina, le cui finestre ad
inferriata davano sul cortile, era sempre a posto, pulita, fredda,
una vera cucina d’avaro, dove nulla deve andare a male. Non appena
la fantesca aveva rigovernato i piatti, chiuso nella credenza quel
che restava del pranzo e spento il fuoco, traversava il corridoio
che comunicava con la sala, e veniva a filar la canapa vicino ai
padroni. Una sola candela per sera bastava a tutta la famiglia.
Nannina dormiva appunto in fondo al corridoio, in un bugigattolo
triste e buio, e ci voleva la sua salute di ferro per resistere in
quella specie di tana, da dove poteva udire il minimo rumore in
mezzo al silenzio profondo che regnava notte e giorno nella casa.
Come un cane da guardia doveva aver sempre un orecchio teso e
riposarsi vegliando.
Nel 1819, sul far della sera,
verso la metà del mese di novembre, la grossa Nannina accese il
fuoco per la prima volta, perché l’autunno era stato splendido.
Quel giorno ricorreva una festa ben nota ai crusciottiani ed ai
grassinisti, e perciò i sei avversarii si accingevano a presentarsi
nella sala famosa, armati di tutto punto per profondersi in
proteste d’amicizia. La mattina tutta Saumur aveva visto la signora
e la signorina Grandet, in compagnia della domestica, recarsi alla
chiesa parrocchiale ad ascoltarvi la messa, ed ognuno ricordò che
quel giorno si festeggiava il genetliaco della signorina. Dal canto
loro mastro Cruchot, l’abate e il signor Bonfons, calcolando
press’a poco il momento in cui sarebbe finito il pranzo dei
Grandet, si affrettavano per giungere prima dei Grassins a far gli
augurii alla signorina, carichi tutti e tre di fastosi mazzi di
fiori colti nelle loro piccole serre. Quello che offriva il
presidente era stretto da un nastro di seta bianco a frange d’oro.
Il signor Grandet secondo le abitudini dei giorni festosi di
Eugenia, era venuto a sorprenderla mentre era ancora a letto e le
aveva offerto il suo paterno regalo, che da tredici anni consisteva
in una bella moneta d’oro. La madre le donava ordinariamente una
veste d’inverno o d’estate, e quei due abiti e le monete, che
Eugenia riuniva al primo dell’anno ed alla festa del padre,
formavano per lei una piccola rendita di circa cento scudi, che
Grandet si compiaceva di veder crescere. Era infatti come far
passare il suo denaro da una cassa all’altra e, per cosí dire,
infondere il sentimento dell’avarizia nella sua erede, cui chiedeva
conto talvolta del piccolo tesoro, già aumentato dai Bertellière,
dicendole:
– Sarà il tuo regalo di nozze.
L’uso del
regalo, douzain,
è molto antico e si conserva tuttora come sacra cosa in
alcuni paesi del centro della Francia. Nel Berry, nell’Angiò,
quando una fanciulla si marita, la famiglia sua o quella dello
sposo deve darle una borsa che, secondo la ricchezza, contiene
dodici monete, oppure dodici dozzine, o dodici centinaia di monete
d’argento o d’oro. La piú povera villanella non si mariterebbe
senza il suo
douzain, quand’anche
solo consistesse in soldoni. Si parla ancora a Issoudun di
un douzain
offerto a una ricca ereditiera e composto di
centoquarantaquattro portoghesi d’oro. Papa Clemente VII, zio di
Caterina de’ Medici, maritandola con Enrico II, le donò una dozzina
di medaglie d’oro antiche, di grandissimo
valore.
Durante il pranzo, il padre,
tutto lieto di vedere la sua Eugenia piú bella in un abito nuovo,
aveva esclamato:
– Poiché è la festa della mia
ragazza, accendiamo un po’ di fuoco: sarà di buon
augurio.
– La signorina avrà marito
entro l’anno, certo – osservò la grossa Nannina, portando via gli
avanzi di un’oca, il fagiano dei bottai.
– Ma io non vedo partito
conveniente per lei a Saumur – rispose la signora Grandet volgendo
al marito uno sguardo timido che diceva chiaro in quale stato di
servitú coniugale fosse vissuta sempre la povera
donna.
L’ex-sindaco contemplò un
istante la figlia, e gridò gaiamente:
– Eugenia compie ventitré anni
oggi; e bisognerà occuparsi di lei. –
Madre e figlia si scambiarono
in silenzio un’occhiata d’intelligenza.
La signora Grandet era
asciutta e magra, gialla come una mela cotogna goffa e tarda; una
di quelle donne che sembrano fatte solo per subire delle tirannie.
Aveva ossa grosse, naso grosso, fronte ed occhi bovini e, a prima
vista, dava l’idea di quei frutti stopposi che non hanno piú succo,
né sapore. I suoi denti erano neri e radi, la bocca increspata, il
mento aguzzo e ricurvo; ma d’altra parte era una donna eccellente,
una vera La Bertellière. L’abate Cruchot sapeva trovare l’occasione
di dirle che ella non era poi capitata male, e lei gli credeva. Una
dolcezza angelica, una rassegnazione d’insetto tormentato dai
bambini, una pietà rara, una calma inalterabile, un cuore ottimo la
facevano compiangere e rispettare da tutti. Il marito non le dava
mai piú di sei lire alla volta per le sue spese minute. Benché
ridicola in apparenza, quella donna, che, tra la dote e le eredità
successive, aveva portato a papà Grandet piú di trecentomila
franchi, si era sempre sentita profondamente umiliata entro di sé
per l’ilotismo a cui la si condannava, e, non sapendosi per innata
dolcezza ribellare, si era limitata a non chiedere mai un soldo e a
non fare obiezione per gli atti che mastro Cruchot le presentava da
firmare. Questa fierezza sciocca e segreta, questa nobiltà d’animo
disprezzata e ferita da Grandet, regolava la condotta della povera
creatura. Ella portava tutti i giorni un abito di levantina
verdastra che le durava quasi un anno, un grande fazzoletto bianco,
un cappello di paglia cucita e un grembiule di panno nero; e,
poiché usciva poco di casa, le sue scarpe si logoravano di rado;
insomma, non chiedeva nulla per sé. Da parte sua, il marito, preso
a volta da qualche rimorso e ricordandosi che da un pezzo non le
aveva dato le sei lire, metteva sempre la condizione di un’offerta
per lei quando concludeva le vendite dei generi. I quattro o cinque
luigi sborsati dall’Olandese o dal Belga che acquistava il mosto
formavano la rendita annua piú importante per la signora Grandet;
ma quando essa aveva ricevuto quel denaro, il vecchio bottaio
considerava comune la borsa e le diceva:
– Hai qualche soldo da
prestarmi? –
La povera donna, lieta di
essere utile in qualche modo a un uomo che il confessore le
indicava sempre per suo signore e padrone, gli restituiva durante
l’inverno parecchi scudi di quella somma. Quando Grandet tirava
fuori il pezzo da cento soldi stabilito per le piccole spese di
filo, aghi e abbigliamento della figlia, non mancava mai, dopo aver
riabbottonato la tasca, di chiedere alla
moglie:
– E tu non vuoi
nulla?
– Amico mio, – rispondeva la
signora con un sentimento di dignità materna, –
vedremo.
Sublimità sprecata; Grandet
aveva la ferma convinzione di essere piú che generoso verso la
moglie. Se dei filosofi si trovassero a contatto con donne come
Nannina, come la signora Grandet, come Eugenia, non avrebbero forse
il diritto di asserire che l’ironia è l’elemento essenziale nel
carattere della Provvidenza?
Alla fine di quel pranzo, in
cui per la prima volta si parlò delle nozze della fanciulla, la
domestica salí a prendere una bottiglia di ribes nero in camera di
Grandet e poco mancò che nel discendere non rotolasse giú dalla
scala.
– Bestia – le gridò il padrone
– neanche tu sei capace di tenerti in
piedi?
– Ma… signore, è quel gradino
che non regge.
– Ha ragione – osservò la
signora Grandet – avresti dovuto farlo accomodare da un pezzo; ieri
Eugenia fu lí per storpiarsi un piede.
– Prendi – disse il bottaio
alla fantesca vedendola bianca dalla paura; – giacché ricorre il
natalizio di Eugenia, e tu hai corso rischio di rotolar giú, bevi
un bicchierino di ribes.
– L’ho ben guadagnato!
Un’altra non si sarebbe tanto curata della bottiglia, ma io avrei
preferito di fracassarmi il gomito, anziché lasciarla
rompere…
– Questa povera Nannina! –
disse Grandet nel versarle il liquore.
– Ti sei fatta male? – chiese
Eugenia fissandola con affezione.
– No, mi son retta piegandomi
sulle reni.
– Ebbene, perché oggi è il
genetliaco di Eugenia, – continuò Grandet, – voglio accomodarvi il
gradino… Ma, diamine, non sapete mettere il piede dalla parte dove
c’è un pezzo ancora solido? –
Prese la candela, lasciò la
moglie, la figlia, la domestica alla sola luce del fuoco che
gettava guizzi vivi di fiamma e andò a cercare tavole, chiodi e
arnesi.
– Volete che v’aiuti? – gli
gridò Nannina allorché l’udí picchiare sulla
scala.
– No, no, è un mestiere
vecchio per me, – rispose il vecchio
bottaio.
Mentre Grandet accomodava lo
scalino guasto e soffiava ricordando gli anni della sua gioventú, i
tre Cruchot si presentarono alla porta di
strada.
– Siete voi, signor Cruchot? –
chiese la domestica spiando per la grata.
– Sí – rispose il
presidente.
Nannina aprí e, alla luce
della fiamma che veniva dal caminetto, i Cruchot poterono
distinguere l’ingresso della sala.
– Ah, siete in festa voi! –
disse loro Nannina, sentendo il profumo dei
fiori.
– Scusate, signori – strillava
Grandet nel riconoscere la voce degli amici – sono subito da voi.
Sapete bene che non sono stato mai superbo, ed ora m’accomodo da me
un gradino della scala.
– Fate, fate, signor Grandet,
anche il carbonaio è sindaco in casa sua, – sentenziò il
presidente, ridendo fra sé dell’allusione che intendeva mettere in
quella frase e che nessuno comprese.
La signora e la signorina si
levarono in piedi e de Bonfons, profittando dell’oscurità, disse
allora ad Eugenia:
– Mi permettete oggi di
augurarvi molti anni felici e tanta salute quanta ora ne godete?
Offerse il gran mazzo di
fiori, rarissimi a Saumur, la strinse per le braccia con tal
sentimento di soddisfazione, che la fanciulla ne arrossí. Il
presidente, che somigliava proprio ad un gran chiodo arrugginito,
credeva in tal modo di farle la corte.
– State comodi, state comodi,
– disse Grandet entrando; – come ve la passate nei giorni di festa,
signor presidente?
– Ma… in compagnia della
signorina – rispose l’abate Cruchot, armato del suo mazzo di fiori
– credo che per mio nipote tutti i giorni sarebbero giorni di
festa. – E baciò la mano di Eugenia.
Mastro Cruchot carezzò
bonariamente la giovinetta sulle guance, e
disse:
– Ah, come il tempo corre!
Ogni anno dodici mesi. –
Rimettendo il lume a posto,
Grandet che aveva l’abitudine di ripetere fino alla sazietà un suo
motto di spirito, quando gli pareva buono,
continuò:
– È la festa di Eugenia;
accendiamo le torce.
Tolse con cura minuta i
bracciuoli dei candelabri, mise ad ognuno i portacandele, prese
dalle mani della Nannina una candela nuova, cui era attorcigliata
una striscia di carta, l’assicurò al suo posto, l’accese e andò a
sedere presso la moglie, guardando alternativamente gli amici, la
figlia e le due candele.
L’abate Cruchot, un ometto
paffuto, grassotto, dalla parrucca rossa e piatta, dal viso di
vecchia rubiconda, domandò movendo i piedi ben chiusi nelle forti
scarpe a fibbie d’argento:
– E i des Grassins non son
venuti?
– Non ancora – rispose
Grandet.
– Ma verranno? – chiese il
vecchio notaio con una smorfia della faccia butterata simile a una
schiumarola.
– Credo – disse la signora
Grandet.
– Avete finito la vendemmia? –
domandò il presidente de Bonfons a
Grandet.
– Dappertutto, – replicò il
vecchio. E si mise a passeggiare per la sala e gonfiò il torace con
tanto orgoglio quanto ne aveva messo in quel
«Dappertutto!».
Attraverso la porta del
corridoio che portava alla cucina, vide la domestica seduta presso
il focolare, con un lume accanto, nell’atto di prepararsi a filare,
per non far l’intrusa nella festa.
– Nannina, – ingiunse il
vecchio avanzandosi, – non puoi spegnere quel fuoco ed il lume e
venir qui con noi? Perbacco! la sala è abbastanza grande per
tutti!
– Ma, signore, c’è gente di
riguardo…
– Non sei come loro? Per parte
di Adamo sono tuoi eguali. –
E tornò verso il presidente a
chiedergli:
– Avete venduto il
raccolto?
– No, lo conservo, giacché, se
ora il vino è buono, dopo due anni sarà migliore. Sapete bene che i
proprietari hanno stabilito di mantenere i prezzi, quindi,
quest’anno i Belgi non comprano; ma, se partono adesso, dovranno
pur tornare!
– Sí, ma occorre tenersi ben
saldi, – disse Grandet con un tono di voce che fece fremere il
presidente.
– Che abbia un contratto? –
pensò Cruchot.
In quel momento un colpo di
martello annunziò i des Grassins, e la loro comparsa interruppe sul
principio un colloquio tra la signora Grandet e
l’abate.
La signora des Grassins era
una di quelle donnette vivaci, paffute, bianche e rosee che, in
grazia del regime claustrale delle provincie e delle abitudini di
una vita virtuosa, si conservano ancora giovani a quarant’anni. Son
come le ultime rose d’autunno, che danno piacere a vederle, ma i
cui petali mostrano qualcosa di freddo e il cui profumo è facile a
svanire. Vestiva molto bene perché si forniva d’abiti a Parigi e
dava quindi il tono della moda alla città di Saumur; offriva anche
ricevimenti.
Suo marito, ex-quartiermastro
della guardia imperiale, pensionato in seguito a una grave ferita
ricevuta ad Austerlitz, aveva nei tratti, nonostante il rispetto
per Grandet, la franchezza dei militari.
– Buon giorno, Grandet – disse
al vignarolo, tendendogli la mano ed affettando una specie di
superiorità sotto la quale schiacciava sempre i
Cruchot.
– Signorina – disse poi ad
Eugenia dopo aver salutato la madre – voi siete cosí bella e saggia
che proprio non saprei cosa augurarvi. –
E le presentò in un vasetto,
recato da un domestico, un’erica del Capo, fiore comparso da poco
in Europa, e perciò rarissimo.
La signora des Grassins
abbracciò la fanciulla con vivo affetto, e le strinse la mano
dicendole:
– Adolfo s’è preso l’incarico
di presentarvi il mio piccolo ricordo. –
Un giovanottone biondo,
pallido e delicato, di modi distinti, timido in apparenza, ma in
realtà reduce allora allora da Parigi, dove, col pretesto di
studiar legge, aveva sciupato otto o diecimila franchi, si fece
avanti, baciò la ragazza sulle due guance, e le offerse un astuccio
da lavoro con tutti gli oggetti in rosso; roba dozzinale,
quantunque lo scudo, su cui erano incisi abbastanza bene in gotico
un E ed un G, cercasse darle una certa pretesa d’eleganza.
Aprendolo, Eugenia provò una di quelle gioie insperate che fanno
diventar rosse, trasalire e tremare le fanciulle. Volse gli occhi
al padre come per chiedergli se poteva accettare, e il signor
Grandet disse un «Prendi, figlia
mia» con l’accento che avrebbe reso
famoso un attore. I tre Cruchot rimasero stupefatti nel vedere lo
sguardo lieto e affettuoso che gettò ad Adolfo des Grassins
l’ereditiera, cui sembrava incredibile il possesso di tanta
magnificenza. Il padre di Adolfo offrí a Grandet una presa di
tabacco, ne fiutò una anche lui, scosse qualche resto caduto sul
nastro della Legion d’onore che portava alla bottoniera del
soprabito blu, e fissò gli avversari con l’aria di chi vuol
dire:
– Ed ora paratemi questo
colpo. –
La signora lasciò cadere gli
occhi su i vasi azzurri ov’erano i fiori di Cruchot, e chiese dei
loro doni con rara abilità di donna motteggiatrice. In questo
delicato momento, l’abate, lasciando la compagnia che si disponeva
in circolo attorno al fuoco, se n’andò a passeggiare con Grandet in
fondo alla sala. Quando i due vecchi si trovarono nel vano
dell’ultima finestra, il prete disse all’orecchio
dell’avaro:
– Quella gente là butta il
denaro dalla finestra.
– E che m’importa se entra
nella mia borsa – rispose il vignarolo.
– Se voi voleste regalare
delle forbici d’oro a vostra figlia, potreste ben farlo – aggiunse
l’altro.
– Oh, io le do di meglio –
replicò Grandet.
– Mio nipote è una bestia –
pensò l’abate guardando il presidente, a cui i capelli ispidi
aggiungevano ancora un certo che di sgraziato nella fisionomia
bruna. – Non avrebbe potuto trovare un gingillo qualsiasi, ma d’un
certo valore?
– Faremo la nostra partita,
signora Grandet, – disse la des Grassins.
– Ma… giacché siamo tutti qui,
potremmo con due tavolini…
– Bene, è la festa di Eugenia,
oggi; quindi fate un giuoco di tombola generale – disse
l’ex-bottaio, – e questi due ragazzi vi prenderanno parte –
aggiunse poi indicando Adolfo e la figliuola. – Presto, Nannina,
prepara le tavole.
– Noi vi aiuteremo,
madamigella Nannina, – disse la signora des Grassins tutta
gongolante per la gioia che aveva notato in
Eugenia.
– Io non son mai stata cosí
contenta – dichiarò la fanciulla – e non ho mai visto nulla di cosí
grazioso.
– L’ha portato Adolfo da
Parigi e lo ha scelto lui stesso – le sussurrò l’altra
nell’orecchio.
– Va, va, maledetta
intrigante! – pensava il presidente. – Se avviene a te o a tuo
marito di capitare in un processo, oh, starete freschi davvero!
Il notaio, seduto in un
angolo, guardava calmo l’abate, e calcolava fra sé e
sé:
– I Grassins hanno un bel
fare: ma i miei beni, quelli di mio fratello e di mio nipote
arrivano a un milione e centomila franchi, mentre i Grassins
tutt’al piú potranno possedere una metà ed hanno inoltre una
figlia; quindi offrano pure quel che vogliono; ereditiere e regali
un giorno saranno per noi. –
Alle otto e mezzo di sera due
tavolini erano pronti, e la graziosa signora des Grassins era
riuscita a metter suo figlio accanto ad Eugenia. Gli attori di
quella scena interessante, benché in apparenza volgare, muniti di
cartelle di varii colori e di gettoni di vetro azzurro, sembravano
intenti ad ascoltare i frizzi del vecchio notaio, che non estraeva
un numero senza ricamarvi un’arguzia; in realtà ciascuno era
assorto nel pensiero dei milioni di Grandet. Questi intanto
contemplava con aria di serietà le piume rosee e l’abbigliamento
elegante della signora Grassins, la testa marziale del banchiere e
quella di Adolfo, il presidente, l’abate, il notaio e diceva tra
sé:
– Son tutti qui per i miei
scudi… vengono ad annoiarsi per mia figlia… ma non sarà di nessuno
di loro, ed essi mi serviranno di amo per pescare.
Quella gaiezza familiare nella
vecchia sala grigia e mal rischiarata da due candele, quelle risa
miste al rumore del filatoio della grossa Nannina e sincere solo
sulle labbra di Eugenia e di sua madre, quella meschinità unita a
interessi tanto gravi, quella ragazza, che pari agli uccelli
vittime dell’alto prezzo cui li mettono a loro insaputa, si vedeva
attorniata e stretta da proteste di amicizia tendenti ad
ingannarla, tutto contribuiva a rendere la scena di una triste
comicità. E non era poi in fondo la piú semplice espressione della
vita di ogni giorno? La figura di Grandet, che sfruttava la falsa
amicizia di quelle due famiglie e ne traeva profìtti enormi,
dominava il dramma e lo rischiarava. Era come il Dio moderno, il
Dio cui soltanto si crede, l’oro, espresso in tutta la sua potenza
da una fisonomia sola. I dolci sentimenti avevano un posto molto
secondario, ed animavano tre cuori ancor puri, quello di Nannina,
di Eugenia e di sua madre: e quanta ignoranza anche nella loro
ingenuità! poiché erano ignote a queste le ricchezze di Grandet, e
stimavano le cose del mondo alla luce delle loro pallide idee, non
desiderando né disprezzando il denaro, per l’abitudine di non
sentirne il bisogno. Le loro aspirazioni, soffocate ma pur sempre
vivaci, e la solitudine di quella esistenza facevan delle due donne
eccezioni curiose in quell’accolta di gente, la cui vita era del
tutto materiale. Condizione terribile dell’uomo! Non v’è in lui una
gioia che non derivi da ignoranza.
Proprio nel momento in cui la
signora Grandet vinceva sedici soldi, il successo piú considerevole
che mai fosse raggiunto in quella sala, e la grossa Nannina rideva
di cuore vedendo la padrona intascare una tal somma, alla porta di
strada fu battuto un colpo con tanta forza, che le donne fecero un
balzo sulle sedie.
– Non può essere uno di Saumur
che picchia a questo modo – osservò il
notaio.
– Ma è educato battere cosí? –
disse Nannina.
– Vogliono rompere il
portone?
– Chi diamine sarà? – gridò
Grandet.
La domestica prese una delle
due candele e mosse ad aprire insieme al
padrone.
– Grandet! Grandet! – esclamò
la moglie, e, spinta da un vago sentimento di paura, corse verso la
porta della scala.
I giuocatori si
guardarono.
– Se andassimo anche noi? –
propose il signor des Grassins – quel colpo mi sembra equivoco.
Ma ebbe appena il tempo di
scorgere il viso di un giovanotto, accompagnato dal facchino delle
diligenze, carico di bagagli: Grandet volgendosi bruscamente alla
moglie, disse:
– Tornate a giuocare, e lascia
che io mi intenda con costui.
Poi chiuse l’uscio della
stanza, dove tutti un po’ ansiosi ripresero i loro posti senza
continuare il gioco.
– È qualcuno di Saumur, signor
des Grassins? – chiese la moglie al
banchiere.
– No, è un
viaggiatore.
– Allora non può venire che da
Parigi.
– Difatti – disse il notaio
traendo il suo vecchio orologio che somigliava ad un vascello
olandese – difatti son le nove. Perbacco! la diligenza dell’Ufficio
centrale non è mai in ritardo. – E questo signore è giovane? –
domandò l’abate Cruchot.
– Sí – rispose des Grassins –
e ha con sé bagagli che peseranno almeno tre
quintali.
– E Nannina non torna… –
osservò Eugenia.
– Non può essere altri che
qualche vostro parente – disse il
presidente.
– Avanti le poste, signori, –
interruppe la signora Grandet. – Mi è parso dal tono della sua
voce, che mio marito non sia troppo lieto del caso, e forse potrà
anche dispiacergli questo parlare che facciamo dei suoi
affari.
– Signorina, – disse Adolfo
alla sua vicina – è senza dubbio vostro cugino Grandet, un bel
giovane che ho visto al ballo del signor di Nucingen.
Ma non poté continuare perché
la madre gli pestò un piede e, chiedendogli due soldi per la sua
posta, aggiunse sottovoce:
– Vuoi star zitto, scemo?
In quel momento Grandet
ricomparve senza Nannina, i cui passi risuonavano su per la scala
insieme con quelli del facchino. Lo seguiva il viaggiatore, il
quale da pochi minuti eccitava tanta curiosità e preoccupava cosí
vivamente l’immaginazione della compagnia; il suo arrivo in quella
casa ed in mezzo a quel circolo poteva esser paragonato al cadere
di una lumaca in un alveare o all’ingresso d’un pavone in qualche
oscuro cortiletto di villaggio.
– Sedetevi accanto al fuoco –
gli disse Grandet.
Prima di sedere, il giovane
salutò tutti con grazia. Gli uomini si alzarono in piedi per
rispondere con un inchino cortese, e le donne fecero una riverenza
cerimoniosa.
– Voi avrete freddo certo,
signore – disse la Grandet – forse venite
da…
– Sempre cosí le donne! –
interruppe il vignarolo, cessando di leggere la lettera che aveva
fra le mani. – Lasciate che si riposi un
po’.
– Ma, babbo, il signore
potrebbe aver bisogno di qualche cosa – osservò
Eugenia.
– Non ha la lingua? – rispose
Grandet bruscamente.
Soltanto il nuovo arrivato fu
sorpreso da quella scena; gli altri erano abituati da un pezzo ai
modi dispotici del vecchio; tuttavia, quando domande e risposte
furono scambiate, si alzò, volse la schiena al fuoco, accostò un
piede per riscaldar la suola dello stivale e disse ad
Eugenia:
– Grazie, cugina; ho pranzato
a Tours, e – aggiunse guardando Grandet – non ho bisogno di nulla,
né mi sento stanco.
– Il signore viene dalla
capitale? – chiese la signora des
Grassins.
Carlo, il figlio del signor
Grandet di Parigi, sentendosi interpellare, prese l’occhialino
sospeso con una catenella al collo, l’applicò all’occhio destro per
osservare tutto quello che lo circondava e, fissando con una certa
impertinenza la signora des Grassins,
rispose:
– Appunto, signora. Ma voi
giocavate alla tombola, zia – aggiunse poi – e vi prego di
continuare… Il giuoco è troppo divertente per
trascurarlo.
– Era proprio certo ch’egli
fosse il cugino – pensava intanto la madre di Adolfo, gettando
spesso un’occhiata al giovanotto.
– Quarantasette! – gridò il
vecchio abate. – Ma attenta a segnare, signora des Grassins, non è
il numero che avevate? –
Il marito allora mise un
gettone sulla cartella di lei, che, assalita da tristi
presentimenti, continuò ad osservare volta a volta il cugino di
Parigi ed Eugenia, senza curarsi della tombola. Di quando in quando
la fanciulla dava di sfuggita un’occhiata al giovane, e in quelli
sguardi la moglie del banchiere poté subito scoprire un crescendo
di meraviglia e di curiosità.