domenica 19 aprile 2020

CASSANDRA CROSSING 

Robert Katz

Cassandra Crossing Il libro da leggere per capire cosa succede quando la scienza diventa dogma.

Di Guido Vitiello

Nel romanzo di Robert Katz, i passeggeri di un treno sono condannati a morire da un colonnello americano perché a bordo è scoppiato il contagio della peste polmonare. Una parabola weimeriana, e dei nostri giorni.

Da quando ci è piombato addosso il coronavirus, i media di tutto il mondo hanno preso a commissionare freneticamente pezzi di colore sul tema “epidemie e pestilenze nella storia, nella letteratura e nell’arte”, con tanto di bibliografie e filmografie di complemento. L’effetto è fatalmente un po’ scolastico. A voler fare una prima classifica provvisoria, tra i romanzieri vincono Camus e Saramago, tallonati da Mann, London e Manzoni; quanto ai film non c’è gara, nessuno batte Contagion di Soderbergh e Virus letale di Petersen.

C’è un titolo che non si è guadagnato il podio, ma che avrebbe potuto competere in entrambi i campionati: Cassandra Crossing – romanzo di Robert Katz e film di George P. Cosmatos usciti nello stesso anno, il 1976. Ovviamente è stato citato, ci mancherebbe altro: parla di un treno messo in quarantena perché a bordo è scoppiato il contagio della peste polmonare. Sulla copertina dell’edizione Rizzoli c’era pure il disegno di un tizio in tuta bianca e respiratore.
Quel che pochi ricordano è che Cassandra Crossing è, prima di tutto, una parabola weimariana – nel senso che si poteva dare a questo aggettivo negli anni Settanta, ossessionati dai fantasmi del nazismo. Nel film questo resta un po’ sottotraccia, ma il romanzo di Katz – autore di inchieste sulla Seconda guerra mondiale, sugli ebrei di Roma, sulle colpe di Pio XII, su Erich Priebke – è fin troppo esplicito.
La storia comincia con un terrorista svedese in fuga dopo un attentato a un laboratorio batteriologico, che sale sul treno per Stoccolma ma è già contagiato e muore dopo poche ore. Le morti per asfissia si moltiplicano, le autorità sigillano il treno a Norimberga, lo blindano e lo dirottano verso un ex lager nazista in Polonia. L’unico a capire dove si andrà a parare è un piazzista ebreo che ha perso moglie e figli in un campo di concentramento. Invece l’eroe, che guarda caso si chiama Chamberlain, temporeggia molto prima di agire.
I passeggeri sono mandati a morire per decisione di un colonnello americano, che ha fatto i suoi calcoli probabilistici e accetta di mandare il treno sul pericolante attraversamento di Cassandra, presago di sventure. La catastrofe sarà attribuita a una défaillance dei sistemi informatici. Del colonnello americano si dirà che era solo una pedina in un ingranaggio gerarchico. I pochi superstiti cercheranno di raccontare l’accaduto, inascoltati.
L’apologo non potrebbe essere più chiaro, e la morale arriva per bocca di una dottoressa: «Una cosa abbiamo fatto tutti quanti: abbiamo innalzato la scienza al di sopra di tutto il resto…puntando poi ogni posta sulla tecnologia e sulle macchine, e sperando nel meglio. Ma questo non basta, colonnello».
Erano altri anni, gli anni in cui lo sterminio organizzato degli ebrei d’Europa gettava la sua ombra sul dominio tecnico-scientifico del mondo e sul prometeismo dell’uomo moderno e in cui il filosofo Günther Anders poteva accostare Auschwitz e Hiroshima dicendo che nell’era della tecnica siamo tutti figli di Eichmann. Ma erano anche anni in cui la ragionevolezza – se non proprio la ragione – sembrava ancora abitare nelle cancellerie, nei palazzi presidenziali e nelle altre sedi del potere.
Nel nostro carnevalesco mondo alla rovescia, dove il sovrano e il giullare si cambiano di posto, è proprio dai palazzi della politica che sentiamo dire che «la scienza da sola non basta: serve anche il buon Dio» (Salvini); e sono i grandi giornali della borghesia illuminata a dirci che con il coronavirus «stiamo vivendo lo sfaldamento dell’antropocentrismo – dell’arroganza antropocentrica» e che «siamo figli di Gea» (Michele Serra). Tutto sommato, è un bene che Cassandra Crossing non sia tornato di moda.