CASSANDRA CROSSING
Robert Katz
Cassandra Crossing Il libro da leggere per capire cosa succede quando la scienza diventa dogma.
Di Guido Vitiello
Nel romanzo di Robert Katz, i passeggeri di un treno sono condannati a morire da un colonnello americano perché a bordo è scoppiato il contagio della peste polmonare. Una parabola weimeriana, e dei nostri giorni.
Da quando ci è piombato addosso il coronavirus, i media di tutto il mondo hanno preso a commissionare freneticamente pezzi di colore sul tema “epidemie e pestilenze nella storia, nella letteratura e nell’arte”, con tanto di bibliografie e filmografie di complemento. L’effetto è fatalmente un po’ scolastico. A voler fare una prima classifica provvisoria, tra i romanzieri vincono Camus e Saramago, tallonati da Mann, London e Manzoni; quanto ai film non c’è gara, nessuno batte Contagion di Soderbergh e Virus letale di Petersen.
C’è un titolo che non si è guadagnato il podio, ma che avrebbe potuto competere in entrambi i campionati: Cassandra Crossing – romanzo di Robert Katz e film di George P. Cosmatos usciti nello stesso anno, il 1976. Ovviamente è stato citato, ci mancherebbe altro: parla di un treno messo in quarantena perché a bordo è scoppiato il contagio della peste polmonare. Sulla copertina dell’edizione Rizzoli c’era pure il disegno di un tizio in tuta bianca e respiratore.
Quel che pochi ricordano è che Cassandra Crossing è, prima di tutto, una parabola weimariana – nel senso che si poteva dare a questo aggettivo negli anni Settanta, ossessionati dai fantasmi del nazismo. Nel film questo resta un po’ sottotraccia, ma il romanzo di Katz – autore di inchieste sulla Seconda guerra mondiale, sugli ebrei di Roma, sulle colpe di Pio XII, su Erich Priebke – è fin troppo esplicito.
La storia comincia con un terrorista svedese in fuga dopo un attentato a un laboratorio batteriologico, che sale sul treno per Stoccolma ma è già contagiato e muore dopo poche ore. Le morti per asfissia si moltiplicano, le autorità sigillano il treno a Norimberga, lo blindano e lo dirottano verso un ex lager nazista in Polonia. L’unico a capire dove si andrà a parare è un piazzista ebreo che ha perso moglie e figli in un campo di concentramento. Invece l’eroe, che guarda caso si chiama Chamberlain, temporeggia molto prima di agire.
I passeggeri sono mandati a morire per decisione di un colonnello americano, che ha fatto i suoi calcoli probabilistici e accetta di mandare il treno sul pericolante attraversamento di Cassandra, presago di sventure. La catastrofe sarà attribuita a una défaillance dei sistemi informatici. Del colonnello americano si dirà che era solo una pedina in un ingranaggio gerarchico. I pochi superstiti cercheranno di raccontare l’accaduto, inascoltati.
L’apologo non potrebbe essere più chiaro, e la morale arriva per bocca di una dottoressa: «Una cosa abbiamo fatto tutti quanti: abbiamo innalzato la scienza al di sopra di tutto il resto…puntando poi ogni posta sulla tecnologia e sulle macchine, e sperando nel meglio. Ma questo non basta, colonnello».
Erano altri anni, gli anni in cui lo sterminio organizzato degli ebrei d’Europa gettava la sua ombra sul dominio tecnico-scientifico del mondo e sul prometeismo dell’uomo moderno e in cui il filosofo Günther Anders poteva accostare Auschwitz e Hiroshima dicendo che nell’era della tecnica siamo tutti figli di Eichmann. Ma erano anche anni in cui la ragionevolezza – se non proprio la ragione – sembrava ancora abitare nelle cancellerie, nei palazzi presidenziali e nelle altre sedi del potere.
Nel nostro carnevalesco mondo alla rovescia, dove il sovrano e il giullare si cambiano di posto, è proprio dai palazzi della politica che sentiamo dire che «la scienza da sola non basta: serve anche il buon Dio» (Salvini); e sono i grandi giornali della borghesia illuminata a dirci che con il coronavirus «stiamo vivendo lo sfaldamento dell’antropocentrismo – dell’arroganza antropocentrica» e che «siamo figli di Gea» (Michele Serra). Tutto sommato, è un bene che Cassandra Crossing non sia tornato di moda.