giovedì 9 aprile 2020


DELITTO E CASTIGO
Fëdor Michailovic Dostoevskij 
Parte 1-2

Edizione Acrobat a cura di 

Patrizio Sanasi 
(www.bibliomania.it) 
 PARTE PRIMA 





 All'inizio di un luglio caldissimo, sul far della sera, un giovane uscì dallo stambugio che aveva in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, quasi esitando, si avviò verso il ponte di K. 
 Ebbe la fortuna di non incontrare per le scale la padrona di casa. Il suo stambugio si trovava proprio sotto il tetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La padrona di casa che gli affittava quel buco, vitto e servizi compresi, abitava una rampa di scale più giù, in un appartamentino indipendente, e ogni volta, per uscire in strada, egli era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che teneva quasi sempre spalancata la porta sulle scale. Ogni volta che passava davanti a quella porta, il giovane provava una sensazione vaga e invincibile di paura, e poiché se ne vergognava, faceva una smorfia di stizza. Era sempre in arretrato con l'affitto, e temeva di imbattersi nella padrona. 
 Non che fosse timido e vile a quel punto, tutt'altro; ma da un po' di tempo attraversava uno stato di irritabilità e di tensione molto vicino all'ipocondria. Si era talmente chiuso in se stesso e isolato dal resto del mondo che la sola idea di incontrare qualcuno - non solo la padrona, ma chiunque - lo metteva in agitazione. Era afflitto dalla miseria; eppure persino le ristrettezze, negli ultimi tempi, non gli pesavano più. Aveva smesso del tutto di occuparsi dei problemi quotidiani, ed era ben deciso a continuare così. In fondo, non aveva affatto paura della padrona, qualsiasi cosa potesse macchinare contro di lui. Ma essere fermato sulle scale, costretto ad ascoltare ogni sorta di assurdità su stupidaggini di cui non gli importava un bel niente, le insistenze perché pagasse l'affitto, tutte le minacce e le querimonie che lo obbligavano a destreggiarsi, a scusarsi, a mentire - ebbene, no: meglio sgattaiolare in qualche modo giù per le scale e svignarsela senza farsi vedere da nessuno. 
 Questa volta, però, il timore di incontrare la sua creditrice riuscì ancora a stupirlo, una volta che fu nella strada. 
 «In che razza di pasticcio sto andando a cacciarmi, e poi guarda di che sciocchezze ho paura!» rifletté con uno strano sorriso. «Mmh... già... All'uomo passa tutto per le mani, e tutto si lascia scappare per pura vigliaccheria... Questa è una verità assiomatica... Che strano ! Cos'è che fa più paura alla gente? Una nuova iniziativa, una parola nuova... Ma io chiacchiero troppo. E proprio perché chiacchiero non concludo niente. Però, in fondo, si può dire anche che chiacchiero tanto perché non concludo niente. 
 È solo da un mese che ho imparato a dar voce ai miei pensieri, standomene disteso in un angolo per giorni e giorni... a annaspare col cervello. Be', e adesso perché sto andando là? Sono davvero capace di fare questo? Ed è forse una cosa seria, questa? Non è seria per niente. Mi gingillo così, tanto per dar sfogo alla fantasia; un modo come un altro per distrarsi! Ma sì, forse non è altro che questo: un modo per distrarsi!» 
 Fuori faceva un caldo da morire. In più, c'era una gran calca; dappertutto impalcature, mattoni, calcina, polvere, e quel particolare tanfo estivo, così familiare a ogni pietroburghese che non abbia i mezzi per affittare una casa in campagna. Tutto ciò, di colpo, diede sgradevolmente sui nervi al giovane, che già li aveva abbastanza tesi per conto suo. L'insopportabile puzzo delle bettole, particolarmente numerose in quella parte della città, e gli ubriachi che - benché fosse un giorno feriale - continuavano a venirgli tra i piedi, aggiunsero gli ultimi tocchi alle ripugnanti, squallide tinte del quadro. Un accentuato senso di fastidio passò per un attimo sul volto del giovane, che era decisamente bello con i suoi lineamenti fini, i magnifici occhi scuri e i bei capelli castani, ed era esile e snello, di statura superiore alla media. Ma ben presto egli cadde in una profonda meditazione, anzi, per essere più precisi, in una specie di torpore, e proseguì senza più badare a quanto lo circondava, e addirittura senza volerlo vedere. Solo di tanto in tanto borbottava qualcosa tra sé, per quel vezzo di monologare che egli stesso si era riconosciuto poco prima. In quel momento, poi, era conscio del fatto che i suoi pensieri a volte si ingarbugliavano, e anche di essere molto debole: erano già due giorni che non toccava quasi cibo. 
 Era vestito tanto male che un altro, anche abituato a queste cose, ci avrebbe pensato due volte prima di uscire per strada in pieno giorno con addosso simili stracci. È vero che in quel rione era molto difficile che qualcuno si meravigliasse per il modo di vestire di qualcun altro. La vicinanza della Sennàja, il gran numero di bettole e il fatto che la popolazione fosse composta essenzialmente di operai e di artigiani, che s'ammassavano in quelle vie e in quei vicoli del centro di Pietroburgo, animavano il paesaggio di tipi tali, che nessun incontro poteva più apparire strano o sorprendente. Nell'animo del giovane, comunque, s'era già accumulato tanto amaro disprezzo che, a dispetto della sua giovanile ombrosità, non si vergognava affatto di ostentare i suoi cenci nella strada. Certo sarebbe stato diverso se si fosse imbattuto in qualche suo conoscente o compagno d'un tempo, persone con le quali, di regola, evitava d'incontrarsi... Tuttavia, quando un ubriaco che veniva portato, chissà dove e chissà perché, sopra un enorme carro trainato da un gigantesco cavallo da tiro, passando gli gridò all'improvviso: «Ehi, tu, cappellone tedesco!» - e si mise a berciare additandolo, il giovane si fermò di colpo afferrandosi convulsamente il cappello. Era un cappello alto e rotondo, alla Zimmerman, tutto liso, rossastro per l'usura, crivellato di buchi e cosparso di macchie, senza più falde e ammaccato da un lato nel modo più indecente. Non la vergogna, ma un sentimento assai diverso, simile addirittura allo sgomento, s'impadronì di lui. 
 «Lo sapevo, io!» borbottò turbato, «ci avrei giurato! Peggio di così non potrebbe andare! Ecco, una sciocchezza come questa, una qualsiasi inezia può guastare tutto il mio progetto! Sì, un cappello troppo vistoso... È ridicolo, e quindi lo si nota... Con i miei stracci occorre assolutamente un berretto, magari una vecchia frittella, non questa mostruosità. Nessuno porta roba simile, lo si nota a un chilometro di distanza, e non lo si dimentica... Il più grave è che se ne ricorderanno, ed eccoti già un indizio. Qui bisogna passare inosservati più che si può... i piccoli particolari contano più di tutto!... Sono proprio i piccoli particolari, di solito, a rovinare ogni cosa...» 
 Non aveva molto da camminare; sapeva perfino quanti passi c'erano dal portone di casa: esattamente settecentotrenta. Li aveva contati, un giorno ch'era in preda più di sempre alle sue fantasticherie. Non ci credeva ancora molto, allora, a sogni del genere, e si limitava a eccitarsi con la loro audacia mostruosa ma lusinghiera; adesso, trascorso un mese, vedeva le cose in un altro modo, e nonostante tutta l'ironia con cui criticava, parlando a se stesso, la propria impotenza e indecisione, si era abituato persino a considerare quella fantasticheria mostruosa come un'azione, in certo modo, già da compiere, pur continuando a non aver fiducia in se stesso. In quel momento stava andando addirittura a fare una «prova» della sua impresa, e a ogni passo la sua agitazione aumentava. 
 Con una stretta al cuore, e scosso da un tremito nervoso, si avvicinò a un enorme fabbricato, che dava da un lato su uno stretto canale e dall'altro sulla via. L'edificio era composto di piccoli appartamenti, popolati da ogni specie di artigiani, sarti e falegnami, nonché da cuoche, tedeschi di vario tipo, ragazze che vivevano per conto proprio, piccoli impiegati e via dicendo. Era un continuo sgattaiolare, un continuo andirivieni di gente attraverso i due portoni e nei due cortili dell'edificio. I portinai erano tre o quattro; il giovane fu molto contento di non incontrarne nessuno, e dal portone sgusciò subito via inosservato verso destra, dove c'era la scala. Una scala buia e stretta, ma lui sapeva già ch'era così, lo aveva già studiato, e la cosa gli andava a genio: in quel buio, anche lo sguardo più indiscreto non era pericoloso. «Se ho già tanta paura adesso, cosa sarà mai se un giorno dovessi effettivamente passare all'azione?...» pensò involontariamente, avvicinandosi al quarto piano. Qui gli sbarrarono la strada alcuni soldati in congedo, improvvisatisi facchini, occupati a trasportare mobili fuori da un appartamento. Egli sapeva che in quell'appartamento viveva un tedesco - un impiegato - con la sua famiglia: «Il tedesco sta andando via, e quindi, al quarto piano, su questa scala e su questo pianerottolo, per un certo periodo, di appartamenti occupati rimarrà soltanto quello della vecchia. È una buona cosa... non si sa mai...» egli pensò di nuovo, e suonò alla porta della vecchia. Il campanello tintinnò debolmente, come se fosse di latta e non di ottone: in case del genere, in appartamentini come quello, ci sono quasi sempre dei campanelli così. Egli ne aveva già dimenticato il suono, e adesso fu come se quel tintinnio particolare gli ricordasse e gli ripresentasse con chiarezza qualcosa... Fu preso addirittura da un tremito; a tal punto, ormai, erano indeboliti i suoi nervi. Dopo un po', si aprì un sottile spiraglio: l'inquilina osservava il nuovo venuto con palese diffidenza; di lei si scorgevano soltanto gli occhietti, che luccicavano nel buio. Ma, visto che sul pianerottolo c'era molta gente si rassicurò e aprì la porta del tutto. Il giovane oltrepassò la soglia entrando in un'anticamera buia, separata con un tramezzo da una minuscola cucina. La vecchia gli stava davanti in silenzio, fissandolo con aria interrogativa. Era una vecchietta minuta e rinsecchita, sui sessant'anni, con due occhietti penetranti e cattivi e un piccolo naso appuntito. Non aveva niente in capo. I capelli color stoppa, appena brizzolati, erano abbondantemente spalmati di grasso. Sul collo lungo e sottile, simile a una zampa di gallina, era attorcigliato un informe straccetto di flanella, e sulle spalle, nonostante il caldo, le ballava un giubbetto di pelo, tutto logoro e ingiallito. La vecchietta tossiva e gemeva a ogni istante. Il giovane doveva averla guardata in qualche modo speciale, perché negli occhi di lei tornò a balenare la diffidenza di prima. 
 «Raskòlnikov, studente; sono stato da voi un mese fa,» si affrettò a mormorare il giovane con un mezzo inchino, ricordandosi che doveva mostrarsi più amabile. 
 «Ricordo, bàtjuška, ricordo bene che siete venuto,» disse la vecchietta con voce chiara, senza staccare gli occhi interrogativi dal viso del giovane. 
 «E così... sono qui di nuovo per un altro affaruccio...» continuò Raskòlnikov, un po' confuso e stupito da tanta diffidenza. 
 «Del resto, può darsi che lei sia sempre così, solo che l'altra volta non me n'ero accorto,» pensò, sentendosi a disagio 
 La vecchia rimase qualche istante senza parlare, quasi meditando, poi si fece da parte e, indicando al visitatore l'uscio che dava in una stanza, disse: 
  «Entrate, bàtjuška.» 
 Quando il giovane entrò, la stanza, non molto ampia, tappezzata di giallo, con gerani e tendine di mussola alle finestre, era in quel momento tutta illuminata dai bagliori del tramonto. «Anche allora, dunque, il sole splenderà così!...» fu il pensiero che passò come per caso nella mente di Raskòlnikov; ed egli abbracciò con una rapida occhiata tutta la stanza, per poterne, all'occorrenza, studiare e rammentare la disposizione. Ma non c'era nulla di particolare. Le suppellettili, tutte molto vecchie e di legno 
 giallo, si riducevano a un divano dall'enorme schienale di legno convesso, un tavolo ovale davanti al divano, una pettiniera con un piccolo specchio addossata al muro tra le due finestre, alcune sedie lungo le pareti e due o tre stampe da pochi soldi, incorniciate di giallo, raffiguranti fanciulle tedesche circondate da uccellini. Tutto qui. In un angolo, davanti a una piccola icona, ardeva una lampada. Tutto era molto pulito: sia i mobili sia i pavimenti luccicavano; ogni cosa brillava. «Opera di Lizavèta!» pensò il giovane. In tutto l'appartamento non si sarebbe trovato un solo granello di polvere. «È in casa delle vedove vecchie e cattive che c'è sempre tanta pulizia,» continuò a pensare Raskòlnikov, e lanciò un'occhiata curiosa verso la tenda di cotonina che nascondeva l'uscio attraverso il quale si accedeva a una seconda, minuscola camera, dove si trovavano il letto e il cassettone della vecchia e dove egli non aveva ancora mai gettato lo sguardo. L'intero appartamento era costituito da queste due stanze. 
 «Che cosa volete?» disse in tono burbero la vecchietta, entrando nella stanza e piantandosi, come prima, proprio davanti a lui, per poterlo guardare dritto in faccia. 
 «Ho portato qualcosa in pegno, ecco qua!» ed egli cavò di tasca un vecchio e piatto orologio d'argento. Sulla calotta era inciso un globo. La catenella era d'acciaio. 
  «Ma è già scaduto il pegno dell'altra volta. Il mese è finito da due giorni.» 
  «Vi pagherò gli interessi per un altro mese; abbiate pazienza.» 
  «Questo poi lo deciderò io, bàtjuška, se avere pazienza o vendere subito il vostro oggetto.» 
  «E quanto mi date per l'orologio, Alëna Ivànovna?» 
 «Mi portate sempre cianfrusaglie senza valore. L'altra volta, per l'anellino, ho tirato fuori due biglietti, ma si può averlo nuovo dal gioielliere per un rublo e mezzo.» 
  «Datemi quattro rubli, lo riscatterò, è di mio padre. Presto riceverò dei soldi.»  «Un rublo e mezzo, e gli interessi anticipati, se vi va.»  «Come?... Un rublo e mezzo!» esclamò il giovane. 
 «Se non vi va...» E la vecchia gli porse l'orologio. Il giovane lo prese, arrabbiato al punto che già voleva andar via; ma cambiò idea, ricordando che non aveva altro posto dove andare e che non era venuto lì solo per il pegno. 
  «Date qua!» disse con voce sgarbata. 
 La vecchia infilò le mani in tasca per cercare le chiavi e andò nell'altra camera, al di là della tenda. Rimasto solo in mezzo alla stanza, il giovane tendeva l'orecchio e rifletteva. Sentì aprire il comò. «Dev'essere il primo cassetto,» pensava. «Lei, dunque, tiene le chiavi nella tasca di destra... tutte in un mazzo, con un anello di acciaio... E una delle chiavi è più grossa di tutte le altre, almeno tre volte tanto, ed è dentata; non può essere del cassettone... Quindi dev'esserci anche un forziere, o un baule... Interessante... tutti i bauli hanno delle chiavi così... Ma come è schifoso tutto ciò...» 
  La vecchia tornò. 
 «Ecco, bàtjuška: calcolando dieci copeche al mese per rublo, per un rublo e mezzo dovete pagare quindici copeche; un mese anticipato. Poi, per i due rubli dell'altra volta, facendo lo stesso conto, mi dovete dare venti copeche. In tutto, quindi, trentacinque copeche. Vi restano da ricevere, per il vostro orologio, un rublo e quindici copeche. Eccoli qua.» 
  «Ma come! Soltanto un rublo e quindici copeche, adesso!» 
  «Proprio così.» 
 Il giovane non stette a discutere e prese il denaro. Guardava la vecchia e non si decideva ad andarsene, come se volesse dire o fare ancora qualcosa, ma non sapesse, lui per prirno, che cosa precisamente... 
 «Forse, Alëna Ivànovna, tra pochi giorni vi porterò ancora un oggetto... d'argento... Un bell'oggetto, un portasigarette... appena me lo ridarà un amico...» Si confuse e tacque. 
  «Ne parleremo quando l'avrete, bàtjuška.» 
 «Vi saluto... E voi ve ne state sempre sola in casa, vostra sorella non c'è?» domandò nella maniera più disinvolta possibile, passando nell'anticamera. 
  «E a voi, bàtjuška, che ve ne importa di lei?» 
  «Dicevo così, tanto per dire... e voi, subito... Vi saluto, Alëna Ivànovna!» 
 Quando uscì, Raskòlnikov era molto turbato, e il suo turbamento non faceva che crescere. Mentre scendeva le scale, si fermò perfino parecchie volte come colpito all'improvviso da qualche pensiero. E infine, ormai in strada, esclamò: 
 «Oh Dio! Com'è schifoso tutto ciò! Possibile, possibile che io... No, è assurdo, una vera assurdità!» aggiunse in tono risoluto. «Come ho potuto mettermi in testa un'idea così orrenda! Di che infamie è capace il mio cuore, però! È lurido, schifoso, abietto, abietto! E pensare che per tutto un mese...» 
 Ma non riusciva a esprimere appieno il suo turbamento né a parole, né con le esclamazioni. Quel senso di infinito disgusto, che aveva cominciato a opprimere e assillare il suo cuore fin dal momento in cui si stava semplicemente recando dalla vecchia, aveva ora preso tali proporzioni, si era svelato a tal punto, ch'egli non sapeva più come sfuggire alla propria angoscia. Camminava sul marciapiede come un ubriaco, senza accorgersi dei passanti, urtandoli; e quando tornò in sé era già nella via successiva. Si guardò intorno e s'accorse di essere vicino a una bettola, in cui si entrava dal marciapiede, scendendo una scala fino a un interrato. Dalla porta, proprio in quell'istante, uscivano due ubriachi, che sostenendosi vicendevolmente e insultandosi risalivano sulla strada. Senza pensarci due volte, Raskòlnikov si precipitò giù. Non era mai entrato in una bettola, ma adesso gli girava la testa, e una sete ardente lo torturava. Gli venne voglia di bere della birra fredda, tanto più che attribuiva la sua improvvisa debolezza anche al fatto di essere affamato. Si accomodò in un angolo scuro e sporco, davanti a un tavolino appiccicoso, chiese della birra e mandò giù avidamente il primo bicchiere. Subito si sentì sollevato e gli si chiarirono le idee. «Sono tutte sciocchezze,» si disse fiducioso, «non era il caso di agitarsi! Un semplice disturbo fisico! Basta un bicchiere di birra, un pezzo di biscotto, e subito, in un attimo, la mente si fortifica, si schiariscono le idee, si rinsaldano i propositi! Puah, come tutto questo è meschino!...» Nonostante la smorfia di disprezzo che aveva appena dedicato a se stesso, aveva già l'aria allegra, come se si fosse improvvisamente liberato da qualche orribile fardello, e poté guardare con occhio amichevole i presenti. Però, perfino in quell'istante, aveva la vaga sensazione che tutta quella mostra di ottimismo fosse piuttosto insana. 
 Nella bettola, a quell'ora, di gente ce n'era poca. Dopo i due ubriachi nei quali s'era imbattuto sulla scala, era uscita, tutta in una volta, un'intera brigata di cinque uomini, con una ragazza e un'armonica. Usciti loro, ci furono silenzio e vuoto. Erano rimasti: un tale dall'aspetto di piccolo borghese - già brillo, ma senza esagerazione - seduto davanti alla sua birra; il suo compagno, grasso, enorme, con una gran palandrana e la barba canuta, sbronzo a dovere, che sonnecchiava sulla panca e che ogni tanto, all'improvviso, cominciava come in dormiveglia a far schioccare le dita, ad allargare le braccia e a sobbalzare con la parte superiore del corpo senza alzarsi dalla panca, canticchiando una grulleria di cui si sforzava di ricordare i versi, come ad esempio: 

  Accarezzò la moglie per un anno intero,  accarezzò la moglie per un a-anno inte-ero... 

  O di colpo, svegliandosi di nuovo: 

 Per la Podjàèeskaja s'avviò,  la sua antica fiamma vi incontrò... 

 Ma nessuno condivideva la sua felicità; il suo taciturno compagno osservava tutti quegli scatti con ostilità e diffidenza. C'era inoltre un terzo individuo, il cui aspetto faceva pensare a un funzionario a riposo. Sedeva in disparte, davanti al suo bicchiere, dal quale beveva un sorso di tanto in tanto guardandosi attorno. Anche lui sembrava in preda a una certa agitazione. 



 Raskòlnikov non era avvezzo alla folla, anzi, come si è già detto, rifuggiva da qualsiasi compagnia, soprattutto negli ultimi tempi. Ma ora, d'un tratto, qualcosa lo spingeva verso il suo prossimo. Era come se dentro di lui avvenisse qualcosa di nuovo; provava una specie di sete di esseri umani. Dopo un mese intero di assorta malinconia e di tetra eccitazione era così stanco che desiderava respirare, almeno per un istante, in un mondo diverso, comunque esso fosse; e nonostante tutto il sudiciume dell'ambiente, si tratteneva con piacere nella bettola. 
 Il padrone dell'esercizio stava in un'altra stanza, ma veniva spesso in quella principale, scendendovi chissà da dove per certi gradini; la prima cosa che si vedeva, allora, erano i suoi eleganti stivali ingrassati, con grandi risvolti rossi. Indossava una poddëvka e un panciotto di raso nero, unto e bisunto; non aveva cravatta, e tutto il suo volto era spalmato d'olio come una serratura di ferro. Dietro il banco stavano un monello sui quattordici anni e un altro più giovane, che serviva gli avventori. V'erano cetrioli affettati, biscotti neri e pesce tagliato a pezzettini; da tutto emanava un pessimo odore. Mancava l'aria, tanto che non era possibile resistere a lungo seduti, e tutto era talmente saturo di afrore vinoso che sembrava di potersi ubriacare in cinque minuti soltanto respirando. 
 Capita, a volte, di incontrare persone sconosciute, alle quali cominciamo a interessarci sin dal primo sguardo, tutto d'un colpo, prima di scambiare una sola parola. Proprio un'impressione del genere produsse su Raskòlnikov il cliente che sedeva un po' in disparte e somigliava a un funzionario a riposo. Il giovane, in seguito, ritornò parecchie volte su quella prima impressione, e l'attribuì perfino a un presentimento. Egli continuava a volger lo sguardo verso il funzionario, naturalmente anche perché questi, a sua volta, lo guardava fisso e si vedeva che aveva una gran voglia di attaccar discorso. Quanto agli altri ch'eran presenti nella bettola, senza escludere il padrone, il funzionario li guardava con uno sguardo d'abitudine, o forse di noia, ma anche con un'ombra di altezzoso disdegno, come persone di condizione e levatura inferiori, con cui non sarebbe stato possibile parlare di niente. Era un uomo che aveva già passato la cinquantina, di media statura e di complessione robusta, brizzolato e con una vasta calvizie; il volto, gonfio a causa della costante ubriachezza, era giallo, quasi verdastro, e sotto le palpebre enfiate luccicavano due occhietti arrossati, stretti come spiragli ma vivacissimi. In lui v'era qualcosa di molto strano; nel suo sguardo brillava, oserei dire, una specie di fervore - non privo, forse, di senso e di intelligenza -, ma balenava anche, nello stesso tempo, la luce della follia. Indossava un vecchio frak nero, tutto sbrindellato e ormai senza bottoni. Uno soltanto restava ancora attaccato, chissà come, ed egli lo teneva allacciato, nell'intento, evidentemente, di non rinunciare alle convenienze. Dal panciotto di cotone sporgeva un pettino di camicia tutto gualcito, sudicio e sbrodolato. Non portava la barba alla maniera dei funzionari, ma il volto non era stato rasato da tempo, tanto che cominciava a spuntarvi un pelo setoloso e grigiastro. Anche nei suoi modi, per la verità, vi era qualche traccia della sostenutezza burocratica. Tuttavia sembrava in preda all'inquietudine, si arruffava i capelli, e a momenti, nella sua malinconia, si puntellava il capo con ambo le mani, posando i gomiti sdruciti sulla tavola bagnata e appiccicosa. Finalmente, guardò dritto in faccia Raskòlnikov e disse con voce alta e ferma: 
 «E così, mio illustrissimo signore, potrei osare di avere con voi una conversazione come si deve? Anche se non avete un aspetto imponente, la mia esperienza riconosce in voi un uomo istruito e non adusato al bere. Ho sempre rispettato l'istruzione, non disgiunta dalle effusioni del cuore. Sappiate inoltre che sono consigliere titolare. Marmelàdov, questo è il mio cognome; consigliere titolare. Oserò chiedervi: siete mai stato funzionario?» 
 «No, sono studente...» rispose il giovane, abbastanza colpito sia dal particolare tono lambiccato del discorso, sia dal modo così diretto, a bruciapelo, con cui era stato interpellato. Nonostante il suo recente, fugace desiderio di avere in ogni modo contatti con la gente, alla prima parola effettivamente rivoltagli aveva riprovato di colpo il suo consueto, sgradevole sentimento di irritazione e repulsione verso qualsiasi estraneo che sfiorasse o tentasse di sfiorare la sua intimità. 
 «Studente, quindi, o forse ex studente?» esclamò il funzionario «Proprio come pensavo! L'esperienza, egregio signore, una lunga esperienza!» e in segno di vanto si toccò con un dito la fronte. «Siete stato studente o avete frequentato una facoltà di studi! Ma permettete...» Si tirò su barcollando, prese il vassoio, il bicchiere e si sedette, piuttosto di traverso, al tavolo del giovane. Era brillo, ma parlava con eloquenza e vivacità, confondendosi solo di tanto in tanto in certi punti e dilungandosi un po'. Si gettò su Raskòlnikov con una specie di avidità, come se non avesse parlato a nessuno per un mese intero. 
 «Illustrissimo signore,» cominciò quasi con solennità, «la povertà non è vizio, ed è vero. So che anche l'ubriachezza non è una virtù, ed è ancor più vero. Ma la miseria nera, egregio signore, la miseria nera è un vizio. Nella povertà voi conservate intatta la nobiltà dei vostri sentimenti innati, ma nella miseria nera no, nessuno mai ci riesce. Quando si è in miseria nera, non ti si butta nemmeno fuori a bastonate, ma ti si spazza via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l'offesa; ed è giusto, poiché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso. Donde il beveraggio! Illustrissimo signore, circa un mese fa il signor Lebezjàtnikov ha picchiato la mia consorte, e la mia consorte non è certo come me! Capite? Permettetemi inoltre di domandarvi, così, anche a titolo di semplice curiosità: avete mai pernottato sulla Neva, sui barconi da fieno?» 
  «No, non mi è mai capitato,» rispose Raskòlnikov. «Com'è?» 
  «Ebbene, io vengo da là, ed è già la quinta notte...» 
 Si riempì il bicchierino, bevve e si fece pensieroso. Effettivamente, sul suo vestito e perfino tra i capelli, si vedevano qua e là, impigliate, festuche di fieno. Era molto probabile che da cinque giorni non si spogliasse e non si lavasse. Le mani, in particolare, erano sporche, unte, arrossate, con le unghie nere. 
 Le sue parole sembravano aver risvegliato l'attenzione generale, sia pure stancamente. Dietro il banco i ragazzi si misero a ridacchiare. Il padrone scese palesemente a bella posta dal piano di sopra per ascoltare quel «mattacchione», e si sedette un po' in disparte, sbadigliando pigramente, ma con aria d'importanza. Si vedeva che Marmelàdov, lì, era conosciuto da molto tempo. Ed era probabile che anche la sua tendenza al discorrere lambiccato gli fosse venuta dalle frequenti conversazioni in bettola con sconosciuti di vario genere. È un'abitudine che per certi bevitori diventa una necessità, soprattutto per quelli che in casa vengono trattati severamente e comandati a bacchetta. Proprio a causa di ciò, quando sono in compagnia di altri bevitori si sforzano, in un certo senso, di guadagnarne il consenso e, se possibile, perfino il rispetto. 
 «Di' un po', mattacchione!» disse il padrone. «E perché non lavori, perché non vai in ufficio, se sei funzionario?» 
 «Perché non vado in ufficio, illustrissimo signore,» ribatté Marmelàdov, rivolgendosi esclusivamente a Raskòlnikov, quasi fosse stato lui a chiederglielo, «perché non vado in ufficio? Ma credete che non mi pianga il cuore per questo mio strisciare infruttuoso? Quando un mese fa il signor Lebezjàtnikov picchiò con le sue mani la mia consorte, e,io giacevo ubriaco fradicio, credete che io non abbia sofferto? Scusate, giovanotto, vi è mai capitato... ehm... anche solo di chiedere soldi in prestito senza speranza?» 
  «Sì, mi è capitato... ma come sarebbe a dire senza speranza?» 
 «Cioè, del tutto senza speranza, sapendo già prima che non se ne caverà niente. Ecco, ad esempio voi sapete già prima e con assoluta certezza che quel certo individuo, quel rispettabilissimo e utilissimo cittadino non vi darà un soldo per niente al mondo; e perché poi, mi domando io, dovrebbe darvene? Tanto, sa benissimo che non glieli restituirete. Forse per compassione? Ma il signor Lebezjàtnikov, sempre al corrente delle idee nuove, aveva già spiegato che oggigiorno la compassione è perfino proibita dalla scienza, e che così si sta già facendo in Inghilterra, dove c'è l'economia politica. Quindi, domando io, perché mai dovrebbe darvene? Ebbene, sapendo già prima che non vi darà nulla, voi nondimeno vi mettete in cammino e...»  «Ma perché andarci?» interruppe Raskòlnikov. 
 «Perché non c'è nessun altro dal quale andare! Bisogna pure che ogni uomo abbia qualche posto dove andare. Poiché ci sono momenti in cui assolutamente bisogna andare da qualche parte! Quando la mia unica figlia andò la prima volta a fare quello che fanno le donne col biglietto giallo, anch'io andai... Perché mia figlia vive col biglietto giallo...» egli aggiunse come per inciso, guardando il giovane con una certa inquietudine. «Non è nulla, egregio signore, non è nulla!» s'affrettò, ma apparentemente con calma, a dichiarare, quando i due ragazzi scoppiarono a ridere insieme dietro il banco e perfino il padrone sorrise. «Non è nulla! Non mi confondo certo per codesto crollar di capi, poiché tutti già sanno tutto, e ogni segreto diviene palese; e non è con disprezzo, ma con rassegnazione, che considero ciò. Sia pure ! Sia pure ! ‹Ecce homo !› Scusate, giovanotto: potete voi... Ma no, per dirla con più forza e in maniera più icastica: non: potete voi, ma: oserete voi, nel volger lo sguardo a me in codesto istante, affermare che non sono un porco?»  Il giovane non rispose parola. 
 «Ebbene,» riprese l'oratore in tono di grande serenità e perfino, stavolta, con rafforzata dignità, lasciando che nel locale cessassero le nuove risatine. «Ebbene io sarò un porco, ma lei è una signora! Io ho l'aspetto di una bestia, mentre Katerìna Ivànovna, la mia consorte, è persona istruita e figlia d'un ufficiale dello Stato Maggiore. Sì, sì io sono un cialtrone, ma lei ha un nobile cuore, e l'educazione l'ha riempita di nobili sentimenti. Eppure... oh, se avesse avuto pietà di me! lllustrissimo signore, illustrissimo signore, bisogna bene che ci sia per ogni uomo almeno un posto in cui si abbia pietà di lui! Katerìna Ivànovna, invece, benché magnanima, è ingiusta... E benché io stesso comprenda che quando mi tira per i capelli non lo fa per altro che per compassione, poiché (non provo alcun disagio a ripeterlo) lei mi tira per i capelli, giovanotto,» confermò in tono di raddoppiata dignità avendo nuovamente udito il solito ridacchiare, «ma, Dio mio, se almeno una volta lei... Ma no! No! Tutto ciò non serve a nulla, e non mette conto parlarne! Non mette conto!... Poiché già più d'una volta l'auspicio si è avverato, già più d'una volta mi hanno compatito, e tuttavia... questa è la mia natura, sono un animale, e così sono nato!»  «Altro che!» osservò sbadigliando il padrone. 
  Marmelàdov batté con aria decisa il pugno sulla tavola. 
 «Questa è la mia natura! Lo sapete, sapete voi, signor mio, che mi sono bevuto perfino le sue calze? Non le scarpe, giacché questo sarebbe ancora in certo qual modo nell'ordine delle cose, ma le calze, le sue calze mi sono bevuto! E anche la sua sciarpa di pelo di capra mi sono bevuto, che le avevano regalato a suo tempo, ed era di sua proprietà, non mia; e abitiamo in un freddo cantuccio, e quest'inverno lei s'è raffreddata e ha cominciato a tossire: sangue, già. E abbiamo tre figli piccoli, e Katerìna Ivànovna sfaccenda da mattina a sera, strofina e fa il bucato e lava i piccini, abituata com'è alla pulizia sin da bimba, e tutto con quel suo petto debole e la predisposizione alla tubercolosi, e io tutte queste cose le sento. Forse che non le sento? E quanto più bevo, tanto più le sento. Proprio per questo bevo, perché in questo mio bere cerco compassione e sentimento... Bevo perché voglio soffrire il doppio!» E, come sopraffatto dalla disperazione, chinò la testa sul tavolo. 
 «Giovanotto,» proseguì, risollevandosi, «io leggo sul vostro viso qualcosa che sembra tristezza. L'ho notata appena siete entrato e perciò mi sono rivolto a voi. Poiché, nel raccontarvi la storia della mia vita, non intendo mettermi in berlina davanti a questi scioperati che anche così sanno già tutto, ma mi rivolgo a un uomo sensibile e istruito. Sappiate dunque che la mia consorte è stata educata in un istituto provinciale per fanciulle della nobiltà, e che alla licenza ballò con lo scialle alla presenza del governatore e di altri personaggi, per il che le diedero la medaglia d'oro e un attestato di lode. La medaglia... be', la medaglia l'abbiamo venduta... già da un pezzo... ehm... mentre l'attestato di lode giace tuttora nel suo baule, e ancora recentemente lei lo ha mostrato alla padrona di casa. E benché abbia, con questa padrona, litigi a non finire, tuttavia ha voluto far bella figura almeno davanti a qualcuno parlando dei trascorsi giorni felici. E io non la condanno, non la condanno, giacché questa è l'ultima cosa che le è rimasta dei suoi ricordi, mentre tutto il resto è andato in polvere! Sì, sì; è una signora impulsiva, fiera e inflessibile. Lava lei stessa il pavimento e mangia pane nero, ma non ammette che le si manchi di rispetto. Proprio per questo non ha voluto lasciar correre la villania del signor Lebezjàtnikov, e quando, in conseguenza di ciò, il signor Lebezjàtnikov l'ha picchiata, s'è messa a letto non tanto per le botte ricevute, quanto per il dispiacere. Io me la presi ch'era già vedova, con tre bambini, uno più piccino dell'altro. Con il suo primo marito, un ufficiale di fanteria, s'era sposata per amore, e insieme a lui era fuggita dalla casa paterna. Lo amava alla follia, ma quello si buttò nel gioco, finì sotto processo e in seguito a questo morì. Verso la fine, la picchiava; e benché lei non glielo perdonasse, cosa che so per certo e in base a documenti, ancor oggi lo ricorda con le lacrime agli occhi e me lo rinfaccia, e io ne sono contento, ne sono contento, perché almeno nei sogni lei si vede qualche volta felice... Era rimasta, dopo, con tre bimbi in tenera età, in un distretto lontano e selvaggio dove allora mi trovavo anch'io e in uno stato di tale disperata miseria che io stesso, pur avendo visto guai d'ogni sorta, non sono in grado di descriverlo. Quanto ai parenti, nessuno volle saperne. E poi lei era troppo fiera, troppo fiera... Allora, illustrissimo signore, allora io, vedovo a mia volta, e avendo dalla mia prima moglie una figlia quattordicenne, le offrii la mia mano, giacché non potevo assistere a un simile strazio. Potete giudicare voi stesso a cosa erano arrivate le sue sventure se lei, istruita e bene educata e di buonissima famiglia, acconsentì a sposarmi! Tuttavia, mi sposò! Piangendo e singhiozzando e torcendosi le mani, ma mi sposò! Perché non aveva dove andare. Capite, capite, illustrissimo signore, che cosa vuol dire non aver più dove andare? No! Questo voi non lo capite ancora... E per un anno intero io adempii ai miei doveri coscienziosamente e santamente, senza nemmeno toccare questo (indicò con il dito il mezzo litro), poiché ho del sentimento. Ma anche così non riuscii a compiacerla; e fu allora che perdetti il posto, e anche questo non per colpa mia, ma per modificazione di organici, e allora sì che lo toccai!... Sarà già un anno e mezzo che noi, dopo varie peregrinazioni e innumerevoli traversie, siamo in questa splendida capitale, adorna di numerosi monumenti. E qui avevo trovato un posto... L'avevo trovato, e di nuovo l'ho perso. Capite?... E questa volta l'ho perso per colpa mia, giacché la mia natura è tornata fuori... E adesso abitiamo in un angolo di stanza, nella casa di Amàlija Fëdòrovna Lippevechzel, ma di che cosa viviamo, e con che cosa paghiamo l'affitto, davvero non lo so. Oltre a noi ci abitano molti altri... Una vera Sodoma, delle più schifose... ehm... proprio così... E nel frattempo anche la mia figliola, avuta dal primo matrimonio, è cresciuta, e che cosa ha sofferto, crescendo, dalla matrigna, di questo preferisco non parlare. Perché anche se Katerìna Ivànovna è piena di nobili sentimenti, è una signora impulsiva e irascibile, e ha certi scatti... Già. Ma non vale la pena di ricordarlo! Un'educazione, come potete immaginare, Sònja non l'ha ricevuta. Avevo provato, quattro anni fa, a fare con lei un po' di geografia e di storia universale, ma siccome io stesso non ero ferrato, e nemmeno potevamo disporre di manuali decenti, dato che anche i libri che avevamo... ehm... be', adesso non ci sono più, così tutto quanto l'insegnamento finì ben presto. Ci fermammo a Ciro di Persia. Poi, giunta a un'età più matura, ha letto alcuni libri di contenuto romanzesco; anche di recente, un libretto avuto dal signor Lebezjàtnikov, la Fisiologia di Lewis - lo conoscete? -, l'ha letto con grande interesse e ce ne ha perfino parlato un poco. La sua istruzione è tutta qui. E adesso, mio illustrissimo signore, mi rivolgerò a voi, separatamente, con una domanda di carattere privato: secondo voi, può una fanciulla povera ma onesta guadagnare a sufficienza con un lavoro onesto? Nemmeno a quindici copeche al giorno, mio caro, riesce ad arrivare, se è onesta e non possiede doti particolari, anche ammettendo che lavori indefessamente! E perdipiù il consigliere di Stato Ivàn Ivànoviè Klòpštok - l'avete mai sentito nominare? - non solo non le ha ancora dato i soldi per avergli cucito mezza dozzina di camicie di tela d'Olanda, ma l'ha perfino scacciata in malo modo, battendo i piedi e gridandole un epiteto indecoroso, col pretesto che il collo delle camicie non aveva la misura giusta ed era cucito storto. E intanto i bambini hanno fame... E intanto Katerìna Ivànovna si torce le mani e cammina su e giù per la stanza e le vengono le macchie rosse sulle guance, come accade sempre con questa malattia: ‹Così, brutta fannullona, te ne stai qui in casa con noi, e mangi e bevi e ti godi il calduccio›; che cosa volete che beva e che mangi poi, quando perfino i bimbi sono tre giorni che non vedono un pezzo di pane! Io, quella volta, ero a letto... ma sì, diciamolo pure, ubriaco fradicio, e sento la mia Sònja che dice (non è tipo da ribattere, e ha una vocina tanto mansueta... è biondina, col visetto sempre pallido, magrolino), sento che dice: ‹Katerìna Ivànovna, possibile che io debba fare una cosa simile?› Ma Dàrja Fràncovna, una donna malvagia e ben nota alla polizia, già per tre volte aveva chiesto informazioni per mezzo della padrona di casa. ‹Perché,› risponde Katerìna Ivànovna, tutta ironica, ‹che c'è da custodire? Bel tesoro davvero!› Voi però non fatele colpa, non fatele colpa, illustrissimo signore, non fatele colpa! Non è nel pieno possesso della ragione che ciò fu detto, ma con i sensi sconvolti, sotto l'influsso della malattia, e mentre i bimbi affamati piangevano, e inoltre fu detto più per offendere che nel suo preciso significato... Perché Katerìna Ivànovna ha un carattere così, e appena i bimbi piangono, anche se piangono per fame, subito comincia a picchiarli. E verso le sei vedo Sòneèka alzarsi, mettersi in capo il fazzoletto, indossare la mantellina e uscire di casa, per tornare poi verso le nove. 
 Appena rientrata, va dritta da Katerìna Ivànovna, e senza parlare le mette davanti, sul tavolo, trenta rubli d'argento. Non disse una sola parola, non guardò nessuno; prese il nostro grande scialle verde di drap de dame (abbiamo uno scialle così, di drap de dame, di cui ci serviamo tutti), se ne coprì completamente la testa e il viso e si distese sul letto con la faccia verso la parete; ma le sue piccole spalle e tutto il suo corpo non facevano che sussultare... Io ero coricato come il giorno prima, nel medesimo stato... E allora, giovanotto, allora, subito dopo, vidi Katerìna Ivànovna avvicinarsi, anche lei senza dire una sola parola, al lettuccio di Sòneèka, e passare tutta la sera così in ginocchio accanto a lei; e le baciava i piedi, non voleva alzarsi, e alla fine si addormentarono così tutte e due insieme, abbracciate... tutte e due... Sì; e io ero a letto, ubriaco.» 
 Marmelàdov tacque, come se la voce gli si fosse spezzata. Poi, di colpo, si riempì rapidamente il bicchierino, bevve e si raschiò la gola. 
 «Da allora, signore mio,» proseguì dopo una pausa, «da allora, in seguito a un caso disgraziato e su denuncia di gente malevola, cosa a cui ha contribuito in modo speciale Dàrja Fràncovna, accampando il pretesto che qualcuno non le avrebbe dimostrato il dovuto rispetto, da allora mia figlia, Sònja Semënovna, è stata costretta a munirsi del biglietto giallo e non ha più potuto, in conseguenza di ciò, rimanere con noi. Anche la padrona, Amàlija Fëdòrovna, non lo volle permettere (e sì che fu proprio lei la prima a tenere mano a Dàrja Fràncovna), e anche il signor Lebezjàtnikov... ehm... Ecco, proprio a causa di Sònja, egli ebbe quel tale scontro con Katerìna Ivànovna. Dapprima lui stesso cercava di ottenere quella tal cosa da Sòneèka, e a un tratto ecco che alza la cresta: ‹Come potrei io, persona così istruita, abitare nello stesso appartamento con una di quelle?› Ma Katerìna Ivànovna non gliela passò liscia, volle intervenire... con le conseguenze che già sapete... Ora Sòneèka viene a trovarci sull'imbrunire, per lo più, dà una mano a Katerìna Ivànovna, l'aiuta come può... Quanto a lei, abita nell'appartamento del sarto Kapernaumov, a pigione, e questo Kapernaumov è zoppo e balbuziente, e anche tutta la sua numerosa famiglia è balbuziente. Perfino sua moglie è balbuziente... Vivono tutti in una stanza, mentre Sònja ne ha una sua a parte, con un tramezzo... ehm, già. Gente poverissima e balbuziente... già. Un mattino, appena alzato, mi misi addosso i miei stracci, alzai le mani al cielo e mi avviai da Sua Eccellenza Ivàn Afanàseviè. Sua Eccellenza Ivàn Afanàseviè; lo conoscete? No? Allora non conoscete un sant'uomo! È come la cera... Come cera davanti al volto del Signore; si strugge come la cera ! Gli venne perfino da piangere, dopo essersi degnato d'ascoltare tutto. ‹Senti,› dice, ‹tu, Marmelàdov, già una volta sei venuto meno alle mie aspettative... Ti faccio riassumere ancora una volta sotto la mia responsabilità personale,› proprio così ha detto, ‹ricordalo! E ora va' pure!› Io baciai la polvere sotto i suoi piedi, mentalmente, giacché nella realtà egli non lo avrebbe permesso, essendo un dignitario e una persona di idee politiche moderne, oltre che istruito; tornai a casa, e appena ebbi detto che ero stato ripreso in servizio e che avrei ricevuto uno stipendio, santo Dio! che cosa non accadde allora...» 
 Marmelàdov si fermò di nuovo, in preda a una forte agitazione. In quel momento entrò dalla strada un intero gruppo di bevitori, già ubriachi fradici, e vicino all'entrata risuonarono le note di un organino preso a nolo e la vocetta puerile, in falsetto, d'un fanciullo sui sette anni, che cantava la canzone della Piccola fattoria. Il locale si riempì di chiasso. Il padrone e i garzoni si occuparono dei nuovi venuti, Marmelàdov, senza badare a loro, riprese il suo racconto. Doveva sentirsi già molto debole, ma quanto più l'alcool gli saliva alla testa, tanto più diventava loquace. I ricordi del recente successo in servizio sembravano averlo rianimato e s'erano perfino rispecchiati sul suo volto, che appariva raggiante. Raskòlnikov ascoltava attentamente. 
 «Questo, signore mio, accadeva cinque settimane fa. Sì... Appena l'hanno saputo loro due, Katerìna Ivànovna e Sòneèka, santo Dio, è stato come se mi avessero assunto al regno dei cieli. Prima, me ne stavo sdraiato come una bestia immonda, e non piovevano che insulti! Adesso, invece, camminavano in punta di piedi e cercavano di far star zitti i bimbi: ‹Semën Zachàryè si è stancato al lavoro, sta riposando, sst!› Prima che andassi in ufficio mi davano il caffè, facevano bollire la panna! Si misero a procurarsi della vera panna, mi capite? E dove andarono a prendere, per darmi un'uniforme decente, undici rubli e cinquanta copeche, davvero non lo capisco... stivali, pettini di camicia di calicò veramente magnifici, e l'uniforme di servizio, tutto della più splendida qualità, con undici rubli e mezzo! Tornato il primo giorno dall'ufficio, cosa non ti vedo? Katerìna Ivànovna aveva preparato due piatti, minestra e poi carne salata con rafano, cosa di cui, fino ad allora, non si era avuta nemmeno l'idea. Lei di vestiti non ne ha... proprio neanche uno; eppure, quella volta, sembrava che dovesse andare in visita, era tutta in ghingheri, e non che avesse niente, ma lei, dal nulla, sa cavar fuori tutto, così; si pettina, si mette un collettino fresco, delle sopramaniche, e ne vien fuori una donna tutta diversa, ringiovanita, imbellita. Sòneèka, la mia colombella, l'aiutava soltanto con i denari, e ‹quanto a me›, diceva, ‹per un po', è meglio che non capiti troppo spesso da voi, o caso mai sull'imbrunire, perché nessuno mi veda›. Capite? Capite? Dopo mangiato mi ritirai per schiacciare un sonnellino, e allora, ci credereste? Katerìna Ivànovna non resse più: ancora una settimana prima aveva litigato a morte con la padrona, con Amàlija Fëdòrovna, e adesso l'invitò a prendere una tazza di caffè. Se ne stettero sedute due ore a non far altro che parlottare: ‹Adesso Semën Zachàryè ha ripreso servizio e riceve lo stipendio, e si è presentato lui stesso da Sua Eccellenza, e Sua Eccellenza in persona è uscito fuori e ha ordinato a tutti gli altri d'aspettare, e ha accompagnato Semën Zachàryè, sotto braccio, davanti a tutti, fino al suo studio.› Capite?, capite? ‹Naturalmente io, ha detto, Semën Zachàryè, ben ricordo i vostri meriti, e sebbene andiate soggetto a questa futile debolezza, visto che ora mi fate una promessa, e tenuto conto del fatto che senza di voi qui le cose vanno male (sentite, ma sentite, dunque!), spero, ha detto, che manterrete la vostra parola...› Ebbene, tutto questo, ve lo assicuro, se l'era inventato, ma non per leggerezza, bensì semplicemente per vantarsi! Anzi, lei stessa crede a tutto ciò, e si consola con i suoi sogni, ve lo giuro! E io non la condanno; no, non la condanno davvero!... Quando poi, sei giorni fa, le ho portato il mio primo stipendio intatto - ventitré rubli e quaranta copeche - mi ha chiamato tesoruccio: ‹Ah, tesoruccio mio! Tesoruccio mio!›; e questo a quattr'occhi, capite? Be', francamente, che bellezza può esserci in me, e che razza di marito sono io? Eppure, mi ha pizzicato la guancia: ‹Che bel tesoruccio sei!› mi ha detto.» 
 Marmelàdov s'interruppe, voleva sorridere, ma ad un tratto cominciò a sussultargli il mento. Però si trattenne. Quella bettola, il suo aspetto indecoroso, le cinque notti trascorse sui barconi da fieno, la bottiglia, e insieme quell'amore morboso per la moglie e la famiglia sconcertavano il suo compagno. Raskòlnikov ascoltava intento, ma con una sensazione di dolore. Gli spiaceva di essere entrato là dentro. 
 «Illustrissimo signore, illustrissimo signore!» esclamò Marmelàdov, dopo essersi ricomposto. «Signor mio, forse tutto questo vi farà ridere, come gli altri, e io non faccio che infastidirvi con la stupidità di tutti questi miserabili particolari della mia vita domestica; ma il fatto è che a me non mi fanno ridere! Poiché queste sono tutte cose che io sento... E tutta quella celestiale giornata della mia vita e tutta quella sera io stesso le trascorsi facendo castelli in aria: cioè, come avrei sistemato tutto quanto, rimpannucciato i bimbi e procurato la tranquillità a lei, e tolto la mia unica figlia dal disonore per farla tornare in seno alla famiglia... E tante, tante altre cose... È perdonabile, signor mio. Tuttavia, signor mio,» Marmelàdov parve trasalire improvvisamente sollevò il capo e fissò il suo ascoltatore bene in faccia, «il giorno seguente, dopo tutto questo sognare (cioè precisamente cinque giorni fa), verso sera, con un astuto inganno, come un ladro nella notte, io ho rubato a Katerìna Ivànovna la chiave del suo baule, ho preso ciò che restava dello stipendio che io stesso le avevo dato, non ricordo più bene quanto fosse in tutto, ed ecco, guardatemi, guardatemi tutti quanti! Sono cinque giorni che manco da casa, e là mi stanno cercando, l'impiego è andato a rotoli la mia uniforme è rimasta in una bettola presso il Ponte Egizio, e in cambio ho preso questi panni... ed è tutto finito!» 
 Marmelàdov si batté un pugno in fronte, strinse i denti, chiuse gli occhi e si appoggiò pesantemente con un gomito alla tavola. Ma dopo un minuto il suo volto si trasformò di colpo, ed egli guardò Raskòlnikov con una specie di malizia simulata, di artificiosa sfrontatezza, e disse ridendo: 
 «E oggi sono andato da Sònja e le ho chiesto dei soldi per la spranghetta! Eh, eh, eh!»  «E te li ha dati?» gridò qualcuno dei nuovi venuti, mettendosi a ridere a squarciagola. 
 «Ecco, questo mezzo litro è stato pagato con i suoi denari,» disse Marmelàdov, rivolto sempre al solo Raskòlnikov. «Mi ha portato trenta copeche, me le ha date con le sue mani, ed erano le ultime, non aveva altro, l'ho visto io stesso... Non ha detto nulla, mi ha solo guardato in silenzio. Non sulla terra, ma lassù... si ha pietà degli uomini in questo modo, si piange per loro e non li si rimprovera, no, non li si rimprovera! Ma fa ancora più male, fa molto più male, quando non ti si rimprovera!... Trenta copeche, proprio così. Eppure lei ne ha bisogno, sapete ? Voi che ne dite, caro signore? Lei, adesso, deve badare molto alla pulizia. E questa pulizia, del tutto particolare, capite, costa denaro... Capite? E deve anche comprare un po' di pomate, non può farne a meno; sottane inamidate, scarpette scollate, così da mettere bene in mostra il piedino quando deve attraversare una pozzanghera. Capite, capite, signore mio, cosa significa questa pulizia? E io, io, suo padre carnale, queste trenta copeche me le sono intascate per andare a bere! E bevo! E me le sono bevute!... Be', chi potrà aver pietà di uno come me? Vi pare? Avete pietà di me, voi, signor mio, oppure no? Su, signore, parla: hai pietà di me o non ce l'hai? Eh, eh, eh, eh!» Fece per versarsi da bere, ma il mezzo litro era finito. 
  «E perché si dovrebbe aver pietà di te?» gridò il padrone, che si trovava di nuovo vicino a loro. 
 Scoppiarono risate, e volò perfino qualche insulto. Ridevano e lo ingiuriavano tutti, chi aveva sentito e chi no, semplicemente a vedere la figura del funzionario a riposo. 
 «Pietà di me? Perché aver pietà di me?!» urlò d'un tratto Marmelàdov, alzandosi con un braccio proteso, in preda a una vera e propria ispirazione, come se non avesse aspettato altra occasione che quelle parole. «Perché aver pietà, tu dici? Sì! Perché aver pietà di me?! Crocifiggermi bisogna, inchiodarmi sulla croce, altro che aver pietà di me! Ma crocifiggimi, giudice, crocifiggimi, e dopo avermi crocifisso abbi pietà di me! E allora io stesso verrò da te per essere messo in croce, poiché non di letizia ho sete, ma di lacrime e dolore!... Credi tu, oste, che questo tuo mezzo litro mi si sia tramutato in dolcezza? Dolore, dolore cercavo in fondo ad esso, lacrime e dolore, e l'ho assaporato, l'ho avuto; ma avrà pietà di noi colui che di tutti ha avuto pietà, e che tutti e tutto ha compreso: egli è l'unico, egli è il giudice. Verrà in quel giorno e chiederà: ‹Dov'è la figlia che s'immolò per la sua matrigna malvagia e tisica, per i teneri figli d'altri? Dov'è la figlia che ebbe pietà del padre suo terreno, ubriacone impenitente, anziché aver orrore della sua bestialità?› E dirà: ‹Vieni! Io ti ho già perdonato una volta... Ti ho perdonato una volta... E anche ora ti vengono perdonati i tuoi molti peccati, perché molto hai amato...› E perdonerà la mia Sònja, la perdonerà, so bene che la perdonerà... L'ho sentito nel mio cuore poco fa, quand'ero da lei!... E tutti giudicherà e perdonerà, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti... E quando avrà finito con tutti, allora apostroferà anche noi: ‹Uscite,› dirà, ‹voi pure! Uscite, ubriaconi, uscite voi, deboli, uscite voi, viziosi!› E noi usciremo tutti, senza vergognarci, e staremo dinanzi a lui. Ed egli ci apostroferà: ‹Porci siete! Con l'aspetto degli animali e con il loro stampo; però venite anche voi!› E obietteranno i saggi, obietteranno le persone ricche di buon senso: ‹Signore! Perché accogli costoro?› Ed egli risponderà: ‹Perché li accolgo, o saggi, perché li accolgo, o voi ricchi di buon senso? Perché non uno di loro se ne è mai creduto degno...› E ci tenderà le sue mani, e noi vi accosteremo le labbra, e piangeremo... e capiremo tutto! Allora capiremo tutto! Tutti capiranno... anche Katerìna Ivànovna... anche lei capirà... Signore, venga il regno tuo!» 
 Si abbandonò sulla panca, esausto e stremato, senza guardare nessuno, profondamente assorto e quasi dimentico di quel che lo circondava. Le sue parole avevano prodotto una certa impressione; per un minuto regnò il silenzio, ma ben presto risuonarono le risa e le ingiurie di prima: 
  «Ci ha giudicati!» 
  «Le spara grosse!» 
  «Ehi, funzionario dei miei stivali!» 
  E così via. 
 «Signore, andiamocene,» disse a un tratto Marmelàdov, sollevando il capo e rivolgendosi a Raskòlnikov. «Accompagnatemi... Casa Kozel, nel cortile. È tempo di tornare... da Katerìna Ivànovna...» 
 Raskòlnikov avrebbe voluto andarsene già da un pezzo; quanto a dargli aiuto, ci aveva già pensato da solo. Marmelàdov si dimostrò molto più debole di gambe che di lingua e s'appoggiò pesantemente al giovane. C'eran da fare duecento-trecento passi. Turbamento e paura invadevano sempre più l'ubriacone man mano che si avvicinava a casa. 
 «Non è di Katerìna Ivànovna che ho paura adesso,» mormorava agitato, «e nemmeno del fatto che comincerà a tirarmi per i capelli. Che volete che contino i capelli!... una sciocchezza, i capelli! Ecco cosa dico io! È perfino meglio se mi tira i capelli, non è di questo che ho paura. Io... ho paura dei suoi occhi; degli occhi, sì... E ho paura anche delle sue macchie rosse sulle guance... E poi... ho paura del suo respiro... Hai mai visto come si respira con questa malattia... quando ci si agita? E ho anche paura del pianto dei bambini... Perché, se Sònja non gli ha portato da mangiare, allora... non so davvero cosa succederà! Non so! Delle botte, invece, non ho paura... Sappi, signor mio che le botte non solo non mi fanno male, ma, anzi, io ne godo... Io stesso non posso farne a meno. Meglio così. Che mi picchi, che si sfoghi... meglio così.. Ma ecco la casa. La casa di Kozel. 
Un fabbro, un tedesco, un riccone... Su, accompagnami!» 
 Entrarono dal cortile e salirono al quarto piano. Più si saliva e più la scala diventava buia. Erano già quasi le undici, e benché in quella stagione, a Pietroburgo, non sia mai notte del tutto, in capo alle scale v'era una grande oscurità. 
 La porticina sporca di fumo in cima alla scala, proprio in cima, era aperta. Un mozzicone di candela illuminava una stanza poverissima, lunga una decina di passi; dall'ingresso la si abbracciava tutta con uno sguardo. Ogni cosa era sparsa qua e là in disordine, soprattutto i cenci dei bambini. Sul fondo, in un angolo, era teso per traverso un lenzuolo pieno di buchi dietro il quale, probabilmente, c'era un letto. Nella stanza c'erano in tutto due sedie e un divano ricoperto d'un'incerata tutta a strappi; di fronte, un vecchio tavolo da cucina, di pino non verniciato e senza niente che lo coprisse. Sull'orlo del tavolo, in un candeliere di ferro, finiva di ardere un moccolo di sego. Marmelàdov, dunque, aveva una stanza tutta per sé, e non un angolo di stanza; la sua camera, però, era di passaggio. L'uscio che dava nei locali successivi - per non chiamarli stabbi -, in cui si divideva l'appartamento di Amàlija Lippevechzel, era socchiuso. Da dentro venivano chiasso e grida. Si rideva. Pareva che stessero giocando a carte e bevendo il tè. Giungevano, a ondate, le parole più triviali. 
 Raskòlnikov riconobbe subito Katerìna Ivànovna. Era una donna terribilmente deperita, sottile, piuttosto alta e slanciata, ancora con dei magnifici capelli biondo scuro, e con le guance effettivamente macchiate di rosso. Andava su e giù per la sua stanzetta con le braccia strette al seno, le labbra screpolate, il respiro disuguale e rotto. Gli occhi luccicavano come per febbre, ma lo sguardo era tagliente e fermo, e il suo volto sconvolto dalla tisi faceva un'impressione di grande pena nell'ultima luce del mozzicone di candela, che sul punto di spegnersi lo rischiarava di bagliori. A Raskòlnikov parve che fosse sulla trentina, ed evidentemente non adatta per Marmelàdov... La donna non sentì né vide i due che entravano: sembrava immersa in una specie di torpore, non sentiva e non vedeva. Nella stanza si soffocava, ma lei non aveva aperto la finestra; dalla scala veniva un gran puzzo, ma la porta che dava sulla scala non era chiusa; dalle stanze interne, attraverso l'uscio socchiuso, giungevano ondate di fumo di tabacco, ma lei tossiva senza chiudere l'uscio. La bimba più piccola, sui sei anni, dormiva seduta sul pavimento, raggomitolata e con la testa affondata nel divano. Il ragazzo, che avrà avuto un anno di più, tremava tutto e piangeva nell'angolo. Dovevano averlo appena picchiato. La bambina più grandicella, sui nove anni, alta e sottile come un fiammifero, con addosso nient'altro che una misera camicia tutta strappata e una vecchia mantellina di drap de dame gettata sulle spalle nude (dovevano avergliela fatta almeno due anni prima, perché adesso non le copriva nemmeno le ginocchia), stava in piedi nell'angolo accanto al fratellino, cingendogli il collo con il suo braccio lungo e secco come un fiammifero. Sembrava che cercasse di calmarlo, gli sussurrava qualcosa, lo distraeva in tutti i modi perché non si rimettesse a frignare, e nello stesso tempo seguiva timorosa i movimenti della madre con i suoi occhi scuri grandi grandi, che sembravano ancora più grandi in quel visetto smagrito e sbigottito. Marmelàdov, senza entrare nella stanza, si mise in ginocchio proprio sulla soglia, spingendo avanti Raskòlnikov. La donna, alla vista di uno sconosciuto, gli si fermò davanti con aria distratta, e tornando in sé per un istante parve riflettere: «Che è venuto a fare qui?» Ma certo, dovette pensare, egli era diretto alle altre stanze, dato che la loro era di passaggio. Avendo deciso ch'era così, e senza più badargli, si avvicinò alla porta d'ingresso per chiuderla, e d'un tratto, vedendo suo marito prosternato proprio sulla soglia: 
  «Ah!» gridò furiosa «sei tornato! Galeotto! Mostro! E dove sono i soldi? Quanto hai in 
tasca, fa' vedere! E anche il vestito non è più quello! Dov'è il tuo? Dove sono i soldi? Parla!» 
 E si lanciò a perquisirlo. Marmelàdov allargò subito le braccia dai due lati, obbediente e remissivo, in modo da facilitare la perquisizione delle tasche. Non aveva più nemmeno una copeca. 
 «Ma i soldi dove sono?» gridava lei. «Santo Dio, possibile che tu ti sia bevuto tutto! C'erano ancora dodici rubli d'argento nel baule!» e di colpo, nel suo furore, lo afferrò per i capelli e lo trascinò nella stanza. Marmelàdov stesso aiutava i suoi sforzi, strisciando docilmente dietro di lei sulle ginocchia. 
 «E questo è per me un godimento! E questo per me non è un dolore ma un go-di-men-to, illu-stris-si-mo si-gno-re,» egli gridava, squassato per i capelli, avendo perfino picchiato, una volta, la fronte sul pavimento. La bambina che dormiva per terra si svegliò e cominciò a piangere. Il ragazzo nell'angolo non seppe trattenersi e cominciò a tremare, a gridare, slanciandosi verso la sorella al colmo del terrore, quasi in preda a un attacco. La bambina più grande, assonnata, tremava come una foglia. 
 «Se li è bevuti! S'è bevuto tutto, tutto!» gridava disperata la povera donna, «e anche il vestito non è più quello! Muoiono di fame, muoiono di fame!» e, torcendosi le mani, indicava i bambini. «Oh, vita tre volte maledetta! E voi, voi non vi vergognate,» d'un tratto si scagliò contro Raskòlnikov, «a venir qui dalla bettola? Hai bevuto con lui, eh? Anche tu hai bevuto con lui! 
Fuori!» 
 Il giovane si affrettò ad andarsene, senza dire una sola parola. Per di più, la porta interna si era spalancata, e s'erano affacciati alcuni curiosi. Si protendevano facce spudorate e ridenti, con sigarette e pipe, in papalina. Certi erano in vestaglia e certi anche con la vestaglia completamente aperta, in indumenti leggeri fino all'indecenza; qualcuno aveva le carte in mano. Risero proprio di gusto quando Marmelàdov, trascinato per i capelli, gridò che questo era per lui un godimento. Cominciarono perfino a metter piede nella stanza; alla fine si udì uno strillo rabbioso: era Amàlija Lippevechzel in persona, che si faceva largo per metter ordine a modo suo e spaventare per la centesima volta la povera donna con l'ordine ingiurioso di sgombrare la camera l'indomani stesso. Nell'andarsene, Raskòlnikov fece in tempo a ficcarsi la mano in tasca, raccolse le poche monetine che trovò, il resto del rublo cambiato nella bettola, e le depose inosservato sul davanzale del finestrino. Poi, già sulla scala, cambiò idea, e stava per tornare. 
 «Che idiozia ho mai fatto,» pensò, «loro hanno Sònja, mentre io ne ho bisogno per me.» Ma quando capì che riprendere quelle monete era ormai impossibile e che comunque non le avrebbe riprese, ebbe un gesto rassegnato e si avviò verso casa. «Sònja ha bisogno anche lei delle sue pomate,» continuò a riflettere, camminando per la strada e sorridendo sarcasticamente, «costa quattrini quella pulizia... ehm! E poi lei stessa, Sòneèka, oggi stesso potrebbe anche trovarsi all'asciutto, perché è sempre una cosa aleatoria, la caccia ai merli... La miniera d'oro ! E così tutti loro, senza i miei soldi, domani potrebbero trovarsi a mani vuote.. Ah, questa Sònja! Però, che pozzo son stati capaci di scavare! e come lo sfruttano! Certo che lo sfruttano! E ci hanno fatto il callo. Hanno pianto un po', ma ci hanno fatto il callo. A tutto finisce per abituarsi, questa carogna che è l'uomo!» 
  S'immerse nei suoi pensieri. 
 «Però se avessi detto delle sciocchezze,» esclamò d'un tratto, quasi senza volerlo, «se realmente l'uomo, tutto quanto in generale, cioè tutto il genere umano, non fosse una carogna, allora tutto il resto sono pregiudizi, soltanto paure che ci hanno inculcato, e non esistono barriere di sorta, e così dev'essere...» 



 Il giorno seguente si svegliò che era già tardi, dopo un sonno inquieto che non lo aveva riposato. Si svegliò bilioso, irascibile, incattivito, e guardò con odio la sua tana. Era un vero e proprio stabbio, lungo circa sei passi, estremamente misero d'aspetto, con la sua tappezzeria giallastra e polverosa che dappertutto si staccava dalle pareti, e talmente basso che un uomo di una certa statura vi si sentiva a disagio, con l'impressione di dover urtare da un momento all'altro il soffitto col capo. I mobili erano consoni al locale: c'erano tre vecchie sedie malandate, e, in un angolo, un tavolo verniciato su cui giacevano alcuni libri e quaderni, da come erano polverosi, si capiva che da un pezzo nessuna mano li aveva toccati; infine, un sofà grande e goffo, che occupava quasi tutta una parete e, per largo, la metà della stanza; una volta foderato di percalle, adesso era a brandelli, e serviva da letto a Raskòlnikov. Spesso egli vi si metteva a dormire così come capitava, senza svestirsi, senza lenzuola, coprendosi con il suo vecchio malandato mantello da studente e posando la testa su uno sparuto cuscinetto, sotto il quale ficcava tutto quanto possedeva in fatto di biancheria, pulita o sporca che fosse, perché il guanciale risultasse un po' più alto. Davanti al sofà c'era un caminetto. 
 Sarebbe stato difficile lasciarsi andare più in basso e trascurarsi più di così; ma a Raskòlnikov, dato il suo stato d'animo, tutto questo faceva perfino piacere. Si era completamente appartato da tutti, rinchiudendosi come una testuggine nel suo guscio, e perfino il volto della domestica, che aveva l'incarico di servirlo e che talvolta s'affacciava alla sua stanza, gli suscitava nausea e una sorta di spasmi. 
 Accade così a certi monomaniaci, eccessivamente concentrati su qualcosa. Già da due settimane la sua padrona aveva smesso di mandargli il cibo, ed egli non aveva finora pensato ad avere una spiegazione con lei e restava senza mangiare. Nastàsja, cuoca e unica fantesca della padrona, in fondo era contenta di questo stato d'animo dell'inquilino, e aveva smesso del tutto di far ordine e di spazzare nella sua stanza, o al massimo prendeva in mano la scopa una volta la settimana e come per caso. Era stata lei, ora, a svegliarlo. 
 «Alzati, basta dormire!» gridò china su di lui «sono quasi le dieci. Ti ho portato il tè; lo vuoi, un po' di tè? Devi aver la pancia vuota...» 
  Raskòlnikov aprì gli occhi, sussultò e riconobbe Nastàsja. 
  «Il tè lo manda la padrona?» chiese, sollevandosi lentamente e con aria malaticcia sul sofà. 
  «Che c'entra la padrona?» 
 Gli depose davanti la teiera incrinata, ch'era di sua proprietà, col tè già usato più di una volta, e mise nella tazza due gialli pezzetti di zucchero. 
 «Ecco, Nastàsja, ti prego, prendi,» diss'egli, dopo essersi frugato in tasca (di nuovo aveva dormito vestito) e averne tolto una manciatina di monete di rame, «scendi giù a comprarmi un panino. E dal salumiere prendi almeno un po' di salame, di quello a buon mercato.» 
 «Il panino te lo porto subito, ma non vorresti un po' di minestra di cavolo, invece del salame? È una buona minestra, fatta ieri. Te l'avevo messa da parte, ma sei tornato così tardi... È una buona minestra.» 
 Quando la minestra fu portata ed egli cominciò a mangiarla, Nastàsja si sedette accanto a lui sul sofà e si mise a chiacchierare. Era una donna di campagna e una gran chiacchierona. 
  «Praskòvja Pàvlovna vuol andare a reclamare contro di te alla polizia,» gli disse. 
  Subito egli s'incupì. 
  «Alla polizia? Che cosa vuole?» 
  «Tu non paghi e nemmeno sloggi. Chiaro, che cosa vuole.» 
 «Solo questo mi ci mancava ancora, per tutti i diavoli dell'inferno,» mormorò lui, stringendo i denti. «No, proprio adesso no... non va assolutamente... È una scema,» aggiunse forte. «Oggi andrò a trovarla e le parlerò.» 
 «Sarà una scema, proprio come me, ma tu, che sei un intelligentone, perché te ne stai lì coricato come un sacco e non ti dai da fare? Prima dicevi che andavi a dar lezioni ai bambini, ma adesso perché non fai nulla?» 
  «Sì che faccio...» disse Raskòlnikov come di malavoglia e in tono piuttosto brusco. 
  «Fai cosa?» 
  «Un lavoro...» 
  «Che lavoro?» 
  «Penso,» rispose lui serio serio, dopo un istante di si- 
  lenzio, 
 Nastàsja esplose addirittura in una risata. Era una donna ridanciana, e quando la facevano ridere rideva silenziosamente, ondeggiando e tremolando in tutto il corpo, finché finiva per sentirsi male. 
  «E hai pensato molti denari, di'?» riuscì finalmente a chiedergli . 
  «Senza stivali non si può dar lezioni ai bambini. E poi, è roba da sputarci sopra.» 
  «Meglio non sputare nel piatto.» 
 «Per le lezioni ai bambini pagano poche copeche. Che ci fai?» proseguì lui sempre di malavoglia, come in risposta ai propri pensieri. 
  «E tu cosa vorresti, tutto un capitale in una volta?»  Egli la fissò con aria strana. 
  «Proprio così, tutto un capitale,» rispose con voce ferma dopo qualche istante. 
 «Be', vacci piano, se no mi spaventi... mi fai venire la tremarella... Il panino te lo vado a prendere, oppure no?» 
  «Fa' come ti pare.» 
  «A proposito, dimenticavo! Ieri, mentre tu non c'eri, è arrivata una lettera.» 
  «Una lettera? Per me! E di chi è?» 
  «Che ne so io di chi è... Ho dato tre copeche al postino. Me le restituirai?» 
  «Ma portamela dunque, per l'amor di Dio, portamela!» gridò Raskòlnikov tutto agitato. 
 Dopo un minuto la lettera comparve. Proprio così: era sua madre, dalla provincia di R. Nel prenderla, Raskòlnikov impallidì persino. Già da molto non riceveva lettere, ma adesso c'era qualcosa in più, qualcosa che gli diede improvvisamente una stretta al cuore. 
  «Nastàsja, per l'amor di Dio, vattene; eccoti le tue tre copeche, ma, per l'amor di Dio, vattene subito!» 
 La lettera gli tremava fra le mani; non voleva aprirla davanti a lei: voleva rimanere solo con quella lettera. Quando Nastàsja se ne fu andata, portò rapidamente la busta alle labbra e la baciò; poi stette a osservare ancora a lungo la calligrafia dell'indirizzo, a lui ben nota e così cara, la calligrafia, minuta e inclinata, di sua madre, che gli aveva insegnato un tempo a leggere e a scrivere. Indugiava; sembrava perfino che temesse qualcosa. Alla fine, l'aprì: una lettera grossa, compatta, pesante: due grandi fogli di carta da lettere coperti da una scrittura fitta fitta. 

 «Mio caro Ròdja,» scriveva sua madre, «sono già più di due mesi che non parlo con te per lettera e questo mi ha fatto soffrire; certe notti, a furia di pensare, non ho neanche dormito. Ma tu, certamente, non mi vorrai accusare di questo involontario silenzio. Tu sai quanto ti amo; io e Dunja abbiamo te soltanto, tu sei il nostro tutto, la nostra unica speranza. Cosa ho provato quando ho saputo che non avendo i mezzi per mantenerti già da alcuni mesi avevi lasciato l'università, e che non avevi più lezioni né altri mezzi per vivere! Ma come potevo aiutarti, con i miei centoventi rubli di pensione all'anno? I quindici rubli che ti ho mandato quattro mesi fa li ho presi in prestito, come ben sai, sempre come anticipo sulla pensione, dal nostro mercante di qui, Afanàsij Ivànoviè Vachrùšin. È una brava persona ed era amico di tuo padre, ma avendogli ceduto il diritto di riscuotere la pensione per conto mio, dovevo aspettare finché il debito fosse pagato, cosa che è avvenuta soltanto adesso, cosicché per tutto questo tempo non ti ho potuto mandare niente. Adesso, però, grazie a Dio, credo di poterti mandare di nuovo qualcosa; in generale, ora, possiamo perfino dirci fortunati, cosa di cui mi affretto ad informarti. Prima di tutto, indovineresti mai, caro Ròdja, che tua sorella già da un mese e mezzo vive con me, e che anche in futuro non ci separeremo? Grazie al cielo, le sue torture sono finite; ma ti racconterò tutto per ordine, affinché tu sappia come sono andate le cose e quali ti avevamo tenuto nascoste. Quando, due mesi fa, mi scrivevi di aver sentito dire che Dùnja soffriva molto a causa delle villanie subite in casa dei signori Svidrigàjlov, e mi chiedevi spiegazioni precise, che cosa mai avrei potuto scriverti in risposta? Se ti avessi scritto la verità, tu, forse, avresti lasciato tutto, e - magari anche a piedi - saresti venuto da noi, dato che conosco il tuo carattere e i tuoi sentimenti e so che non avresti mai permesso che tua sorella venisse insultata. Io stessa ero disperata, ma cosa potevo fare? Allora nemmeno io conoscevo tutta la verità. 
L'ostacolo principale, poi, era che Dùneèka, entrata in casa loro l'anno scorso come governante, aveva preso in anticipo addirittura cento rubli, con l'intesa che sarebbero stati trattenuti un tanto al mese dallo stipendio, e quindi non poteva lasciare il posto prima d'aver pagato tutto il debito. Questa somma (adesso ti posso spiegare tutto, mio amatissimo Ròdja) l'aveva presa più che altro per mandarti, l'anno scorso, i sessanta rubli, di cui tu allora avevi tanto bisogno. Quella volta ti abbiamo ingannato, scrivendoti che erano soldi risparmiati in precedenza da Dùneèka, mentre non era così, ma adesso ti comunico tutta la verità, perché adesso, per volontà del Signore, tutto è improvvisamente cambiato in meglio, e perché tu sappia come ti ama la tua Dùnja e che cuore meraviglioso è il suo. In realtà, il signor Svidrigàjlov da principio la trattava in modo molto grossolano, e a tavola le faceva delle sgarberie e la scherniva... Ma non voglio insistere con questi particolari così spiacevoli, per non agitarti inutilmente ora che tutto è finito. Per farla breve, benché fosse trattata con bontà e nobiltà da Marfa Petròvna, consorte del signor Svidrigàjlov, e da tutti i familiari, per Dùneèka la situazione era molto penosa, soprattutto le volte che il signor Svidrigàjlov, secondo una vecchia abitudine di quando era ufficiale, si trovava sotto l'influsso di Bacco. Ma che cosa saltò fuori in seguito? Figurati che quel bel tipo già da tempo aveva concepito una passione per Dùnja, ma l'aveva tenuta nascosta sotto un'apparenza di villania e di disprezzo nei suoi confronti. Forse, egli stesso aveva orrore di se stesso e si vergognava, già avanti negli anni e padre di famiglia, di nutrire speranze così frivole, ed era per questo che senza volerlo se la prendeva con Dùnja. Oppure può darsi che con la grossolanità dei modi e con gli scherni volesse solo tener celata agli altri la verità. Alla fine, però, non ha più saputo dominarsi, e ha osato fare esplicitamente a Dùnja una proposta sporca, promettendole varie ricompense e persino che avrebbe lasciato tutto e sarebbe partito con lei per un altro villaggio o magari per l'estero. Ti puoi immaginare le sofferenze di Dùnja! Lasciare subito il posto non le era possibile, non soltanto a causa del debito, ma anche per compassione verso Marfa Petròvna, per non metterla in sospetto e, di conseguenza, far nascere la discordia in seno alla famiglia. Senza contare che anche per Dùneèka sarebbe stato inevitabilmente un grosso scandalo. E c'erano anche molti altri motivi per cui Dùnja non poteva assolutamente strapparsi da quella maledetta casa prima di sei settimane. Tu conosci Dùnja e sai bene quant'è intelligente e ferma di carattere. Ha una grande capacità di sopportazione, e anche nelle circostanze più difficili sa trovare in sé la forza di non rinunciare a questa sua qualità. Perfino a me non spiegò del tutto la situazione, per non agitarmi, e sì che ci scambiavamo spesso le nostre notizie. Le cose, poi, si risolsero in modo inatteso. Marfa Petròvna udì per caso suo marito mentre supplicava Dùneèka in giardino, e avendo capito tutto alla rovescia incolpò lei, pensando che fosse sua la colpa di tutto. Si svolse fra di loro, lì in giardino, una scenata orribile: Marfa Petròvna arrivò al punto di colpire Dùnja; non voleva sentire ragioni, e continuo a urlare per un'ora buona; alla fine ordinò che Dùnja mi fosse riportata subito in città, su un semplice carro da contadini, dove fece gettare tutta la sua roba, biancheria e abiti, tutto così com'era, senza legarlo, alla rinfusa. Proprio allora cominciò a piovere a dirotto, e Dùnja, umiliata e disonorata, dovette percorrere con il contadino ben diciassette chilometri su quel carro scoperto. Giudica tu, ora, che cosa avrei potuto scriverti, in risposta alla tua lettera di due mesi fa, e di che cosa avrei potuto parlarti... La verità è che ero disperata! Non osavo scriverti come stavano le cose, perché tu ti saresti sentito molto infelice, e sdegnato, e d'altronde che cosa avresti potuto fare, se non, forse, rovinare te stesso? Senza contare che Dùneèka me l'aveva proibito; e quanto a riempire la lettera di sciocchezze, parlando del più e del meno mentre avevo tanto dolore nell'anima, questo proprio non potevo farlo. Per un mese intero, in città corsero pettegolezzi su questa storia. S'era al punto che io e Dùnja non potevamo più nemmeno andare in chiesa, a causa delle occhiate sprezzanti e dei mormorii dietro le spalle, e della cosa si discorreva perfino ad alta voce in nostra presenza. Tutti i nostri conoscenti s'erano allontanati da noi, tutti avevano perfino smesso di salutarci, e io venni a sapere con certezza che alcuni commessi scrivani volevano recarci una vile offesa, ni sudiciando di catrame il portone della nostra casa; e fu così che i padroni cominciarono a chiedere che lasciassimo l'appartamento. La colpa di tutto ciò era di Marfa Petròvna, che aveva trovato il tempo di accusare e di coprire di fango Dùnja in tutte le case della città. Essa conosce tutti, qui da noi, e durante quel mese non fece che venire in città, e siccome è piuttosto chiacchierona e ama parlare delle sue faccende private e soprattutto lamentarsi di suo marito con chiunque le capita a tiro, cosa che è molto brutta, in poco tempo aveva fatto circolare questa storia non solo in tutta la città, ma nell'intero distretto. Io mi ammalai, mentre Dùneèka fu più forte: avessi visto come riusciva a sopportare tutto, e per di più a consolare e a incoraggiare me! È un vero angelo! Poi, per misericordia divina, i nostri guai ebbero fine: il signor Svidrigàjlov ci ripensò, si pentì e, probabilmente per compassione di Dùnja, diede a Marfa Petròvna le prove piene e palmari della completa innocenza di Dùneèka: una lettera per Dùnja, prima che Marfa Petròvna li sorprendesse in giardino, era stata costretta a scrivergli per evitare le spiegazioni a voce e gli appuntamenti segreti su cui egli insisteva, e che poi, dopo la partenza di Dùneèka, era rimasta nelle mani del signor Svidrigàjlov. In questa lettera, lei gli rinfacciava vivacemente e con profonda indignazione la bassezza della sua condotta nei riguardi di Marfa Petròvna, gli ricordava il suo stato di padre di famiglia e, infine, gli diceva che era veramente vile, da parte sua, tormentare e far soffrire una fanciulla già così infelice e indifesa. In una parola, caro Ròdja, era una lettera tanto nobile e commovente che io singhiozzavo nel leggerla, e ancor oggi non riesco a leggerla senza lacrime. Oltre a ciò, a scagionare Dùnja vennero fuori, infine, anche le testimonianze dei servi, che avevano visto e sapevano molto di più di quanto lo stesso signor Svidrigàjlov non supponesse, come sempre accade in questi casi. Marfa Petròvna rimase sbalordita e ‹uccisa una seconda volta›, come lei stessa ci confessò; in compenso, si persuase completamente dell'innocenza di Dùneèka, e subito il giorno seguente, ch'era domenica, recatasi alla cattedrale, pregò in ginocchio e piangendo la regina degli angeli perché le desse la forza di sopportare questa nuova prova e di compiere tutto il suo dovere. Poi, direttamente dalla cattedrale, senza passare in nessun'altra casa, venne da noi, ci raccontò ogni cosa, pianse amaramente di contrizione e abbracciò Dùnja, scongiurandola di perdonarla. Quella stessa mattina, poi, senza il minimo indugio, appena uscita da noi, andò di casa in casa, per l'intera città, e dappertutto, versando lacrime, con le espressioni più lusinghiere, ristabilì l'innocenza di Dùneèka e la nobiltà dei suoi sentimenti e del suo comportamento. Come se non bastasse, mostrava e leggeva ad alta voce a tutti la lettera scritta da Dùneèka al signor Svidrigàjlov, permettendo perfino che se ne facessero delle copie (ciò che mi parve un po' eccessivo). Per alcuni giorni di fila fu costretta a fare il giro di tutte le case della città, dato che certi conoscenti cominciavano ad offendersi perché era stata data la precedenza ad altri; alla fine si stabilirono dei turni, grazie ai quali in ogni casa la si attendeva in anticipo, e tutti sapevano che quel determinato giorno Marfa Petròvna avrebbe letto la lettera in quel determinato posto, e ogni volta tornavano a riunirsi perfino certi che avevano già sentito leggere la lettera in casa loro o in qualche altra casa. Il mio parere è che molto, moltissimo di tutto ciò poteva esser risparmiato; ma Marfa Petròvna è fatta così. In questo modo, comunque, ha riabilitato completamente l'onore di Dùneèka, e tutta l'infamia della faccenda è ricaduta. indelebile marchio di vergogna, su suo marito, unico colpevole, tanto che ho perfino pietà di lui; credo che anche lui sia stato trattato in modo troppo severo. Dùnja è stata subito invitata a dare lezioni in parecchie famiglie, ma io ho preferito rifiutare. In generale, tutti hanno preso a trattarla con particolare rispetto. E tutto ciò, in sostanza, ha contribuito a render possibile quell'avvenimento inatteso per il quale posso dire che l'intero nostro destino sta ora cambiando. Sappi, caro Ròdja, che Dùnja ha trovato un fidanzato, il quale ha chiesto la sua mano, e che lei ha già dato il suo consenso, cosa di cui mi affretto ad informarti. E benché ciò sia stato deciso senza il tuo consiglio, penso che tu non ne vorrai né a me, né a tua sorella; vedrai tu stesso, da come si sono svolte le cose, che ci sarebbe stato impossibile aspettare e rimandare tutto in attesa di una tua risposta. Senza contare che non ti sarebbe stato possibile, da lontano, dare un giudizio preciso. Avvenne dunque così. Pëtr Petròviè Lùžin, che è già consigliere di corte, è un lontano parente di Marfa Petròvna, la quale ha influito molto sulla questione. Egli ha cominciato ad esprimere, tramite suo, il desiderio di conoscerci; è stato accolto come si doveva, ha preso il caffè con noi, e già il giorno dopo ci ha mandato una lettera in cui avanzava, in termini molto cortesi, la sua proposta di matrimonio, pregandoci di una risposta precisa e sollecita. È un uomo d'affari molto occupato, e ora ha fretta di andare a Pietroburgo, cosicché per lui ogni minuto è prezioso. Dapprima, si capisce, siamo rimaste molto stupite, poiché tutto si era svolto troppo rapidamente e all'improvviso. Abbiamo passato il giorno intero a ragionare e a esaminare la faccenda. È un uomo che dà affidamento e dispone di mezzi; ha due impieghi, e possiede già un capitale proprio. È vero che ha già quarantacinque anni, ma è di aspetto abbastanza gradevole, può ancora piacere alle donne e in generale è un uomo molto distinto e posato, soltanto un po' cupo e si direbbe quasi altezzoso. Ma questa, forse, è solo apparenza, forse è così solo a prima vista. Te ne avverto in anticipo, caro Ròdja, perché quando ti incontrerai con lui a Pietroburgo, cosa che avverrà prestissimo, tu non giudichi troppo presto e impulsivamente, come sei solito fare, se lì per lì qualcosa in lui non ti andrà a genio. Lo dico ad ogni buon conto, anche se sono certa che ti farà buona impressione. D'altronde, qualsiasi persona, per conoscerla, la si deve avvicinare a poco a poco e con cautela, altrimenti si può cadere in errore e in preconcetti che è molto difficile, dopo, cancellare o correggere. Da molti indizi Pëtr Petròviè sembra una persona estremamente rispettabile. Già durante la prima visita egli ha dichiarato di essere un uomo positivo, ma che su molti argomenti condivide, come egli stesso si è espresso, ‹le convinzioni delle nostre nuove generazioni›, ed è nemico di ogni pregiudizio. Ha detto anche parecchie altre cose, giacché si direbbe che sia un po' vanitoso e che gli piaccia molto essere ascoltato; ma anche questo non si può forse nemmeno chiamare un vizio. Io, naturalmente, non ho capito molto, ma Dùnja mi ha spiegato che pur non avendo una grande istruzione è un uomo intelligente e, a quanto sembra, buono. Tu conosci il carattere di tua sorella, Ròdja. È una ragazza ferma, assennata, paziente e generosa, anche se il suo cuore, come credo di aver capito, è ardente. Certo, né in lei né in lui può esserci un particolare amore. Ma Dùnja, oltre ad essere una ragazza intelligente, è anche una creatura angelica, e sentirà come suo dovere fare la felicità di un marito che a sua volta abbia a cuore la felicità di lei; cosa, quest'ultima, di cui per il momento non abbiamo motivo di dubitare, sebbene la faccenda, lo ammetto, sia stata combinata fin troppo alla svelta. Si tratta di un uomo molto avveduto, e lui stesso si renderà conto che la sua felicità coniugale sarà tanto più salda quanto più Dùneèka sarà felice con lui. Quanto poi al pericolo che vi siano certe disparità di carattere, certe, che so, vecchie abitudini, e perfino un certo disaccordo nelle idee (cosa inevitabile perfino nei matrimoni più riusciti), Dùneèka dice, in proposito, di avere una gran fiducia in se stessa; che non è il caso di preoccuparsi, e che lei è capace di tollerare molto, a condizione che i loro futuri rapporti siano fondati sull'onestà e sulla giustizia. A tutta prima, mettiamo, egli è sembrato anche a me un po' brusco; ma ciò può anche dipendere da nient'altro che dal suo carattere molto franco, anzi dev'essere senz'altro così. Ad esempio, durante la sua seconda visita, quando già aveva avuto il consenso di Dùnja, ha detto conversando che fin da prima, senza ancora conoscere Dùnja, aveva deciso di sposare una ragazza onesta ma senza dote, una che sapesse cosa vuol dire essere poveri; infatti, com'egli ci spiegò, il marito non dev'essere obbligato in niente a sua moglie, ed è bene che la moglie consideri il marito come il suo benefattore. Ma devo dire che egli si espresse in modo più delicato e tenero di quanto io abbia scritto; in effetti ho dimenticato l'espressione precisa e ricordo soltanto l'idea, senza contare che egli non lo disse con intenzione ma, probabilmente, gli sfuggì detto nella foga del discorso; anzi, in seguito cercò perfino di correggersi e di attenuare. A me parve comunque un po' indelicato, e ne parlai, dopo, anche con Dùnja. Ma Dùnja mi rispose, perfino con un certo dispetto, che ‹le parole non sono ancora fatti›, e questo è certamente vero. Prima di decidersi, Dùneèka non ha dormito la notte intera, e pensando che io invece dormissi si è alzata dal letto e ha continuato a passeggiare tutta la notte su e giù per la stanza; alla fine si è inginocchiata, e ha pregato a lungo e con fervore davanti all'icona; poi, al mattino, mi disse che s'era decisa. 
 «Come ti ho già detto, Pëtr Petròviè sta per andare a Pietroburgo dove ha degli affari importanti: vuole aprire Iì uno studio di avvocato. Già da molto tempo si occupa di ogni specie di processi e di cause, e anche pochi giorni fa ha vinto una grossa causa. Inoltre a Pietroburgo deve trattare una pratica importante alla Corte Suprema. Io credo, caro Ròdja, che egli possa essere molto utile anche a te sotto ogni aspetto; io e Dùnja pensiamo che tu potresti cominciare senz'altro la tua carriera a partire addirittura da oggi, e considerare il tuo futuro come già chiaramente segnato. Oh, se questo si realizzasse! Sarebbe una tale fortuna, che dovremmo considerarla una vera e propria grazia dell'Onnipotente. Dùnja non pensa ad altro. Abbiamo già osato dire qualche parola in proposito a Pëtr Petròviè. Egli è rimasto piuttosto sulle sue, però ha detto che certo, siccome non può fare a meno di un segretario, preferirebbe naturalmente pagare lo stipendio a un parente che a un estraneo, sempre che questo parente si dimostrasse all'altezza del compito (come se tu potessi non esserlo!); tuttavia ha espresso il dubbio che i tuoi studi universitari possano non lasciarti il tempo per lavorare nel suo ufficio. Per quella volta il discorso è finito lì, ma Dùnja ormai non pensa ad altro. Da alcuni giorni è in preda a una specie di frenesia, e ha preparato un intero progetto su come tu potrai diventare, in seguito, il sostituto e perfino il socio di Pëtr Petròviè nel suo lavoro legale, dato anche che sei iscritto alla facoltà di giurisprudenza. Io, Ròdja, la penso proprio come lei e condivido tutti i suoi progetti e le sue speranze, che mi sembrano del tutto realizzabili; nonostante l'atteggiamento per ora un po' evasivo di Pëtr Petròviè (spiegabilissimo, dato che non ti conosce ancora), Dùnja è fermamente convinta che grazie alla sua influenza sul suo futuro marito essa potrà ottenere ogni cosa. Naturalmente siamo state molto attente a non lasciarci sfuggire con Pëtr Petròviè una sola parola su questi nostri progetti, soprattutto su quello che tu possa diventare suo socio. È una persona pratica, e forse avrebbe accolto con freddezza quelli che non gli sarebbero parsi altro che sogni. Io e Dùnja non gli abbiamo ancora accennato, per ora, neanche alla nostra ferma speranza che egli ti aiuterà finanziariamente finché sarai all'università; non gliene abbiamo parlato soprattutto perché la cosa, in seguito, verrà da sola: probabilmente, senza bisogno di parlargliene, sarà lui stesso a proporlo (ci mancherebbe altro che non facesse questo per Dùneèka), tanto più che tu potrai essergli molto utile nel suo studio e ricevere il suo aiuto non come beneficenza, ma come uno stipendio del tutto meritato. Ecco come Dùneèka vorrebbe sistemare le cose, e io la penso né più né meno come lei. Inoltre non gliene abbiamo ancora parlato perché desideravo più d'ogni altra cosa che tu ti trovassi su un piede di parità con lui in occasione del vostro prossimo incontro. Quando Dùnja gli ha parlato di te con entusiasmo, egli ha replicato che chiunque, prima che si possa giudicarlo, dev'essere visto di persona e da vicino, e che egli si riservava di farsi un'opinione su di te dopo averti conosciuto. Sai, mio amatissimo Ròdja, in base a certe mie riflessioni (che del resto non riguardano affatto Pëtr Petròviè, ma sono, forse, soltanto mie fantasie da povera, vecchia donna), mi sono persuasa che dopo il loro matrimonio io farò meglio a vivere da sola, e non insieme a loro. Sono profondamente convinta che egli sarà tanto nobile e delicato da invitarmi, proponendomi lui stesso di non restar separata da mia figlia, e se non lo ha detto finora è certo perché la cosa si sottintende da sé, senza bisogno di parlarne; ma io rifiuterò. Nella vita, più d'una volta ho notato che le madri delle mogli non vanno troppo a genio ai mariti, e io non solo non desidero essere del minimo peso a nessuno, ma io stessa voglio essere completamente libera, fintanto che ho un pezzo di pane per campare e dei figli come te e Dùneèka. Se sarà possibile, verrò ad abitare vicino a voi due, perché, Ròdja, in questa mia lettera, la cosa più bella l'ho tenuta per ultima. Sappi, mio caro, che forse molto presto ci ritroveremo tutti insieme, e ci abbracceremo tutti e tre dopo quasi tre anni di separazione! È già stato deciso con certezza che io e Dùnja partiremo per Pietroburgo: non so ancora di preciso quando, ma senz'altro prestissimo, forse addirittura entro una settimana. Tutto dipende dalle possibilità di Pëtr Petròviè, il quale, non appena si sarà un po' orientato a Pietroburgo, ce lo farà sapere subito. Per certi suoi motivi, egli desidera affrettare al massimo la celebrazione del matrimonio; se possibile, vorrebbe perfino che avvenisse durante la settimana grassa, o altrimenti, data la brevità del termine, subito dopo la quaresima. Oh, con che felicità ti stringerò al mio cuore! Dùnja è tutta emozionata al pensiero del prossimo incontro con te, e una volta ha detto, scherzando, che anche solo per questo sposerebbe Pëtr Petròviè. Non ti scrive nulla in questa lettera; mi ha detto solo di comunicarti che ha tante di quelle cose da dirti, ma tante, che non ha nemmeno il coraggio di prendere in mano la penna, perché in poche righe non si fa in tempo a dir nulla, e ci si rimane male e basta. E mi incarica anche di abbracciarti forte e di mandarti un'infinità di baci. Anche se forse prestissimo ci vedremo di persona, tuttavia tra pochi giorni ti manderò del denaro, quanto più potrò. Ora che tutti sanno del prossimo matrimonio di Dùneèka con Pëtr Petròviè, anche il mio credito è aumentato, e sono certa che Afanàsij Ivànoviè sarà disposto a darmi fino a settantacinque rubli, in conto della mia pensione: così, forse, ti manderò un venticinque rubli, o magari trenta. Te ne manderei anche di più, ma devo pensare al nostro viaggio, e benché Pëtr Petròviè sia stato così buono da assumersi una parte delle spese relative al nostro trasferimento nella capitale, e si sia offerto, in particolare, di far arrivare a sue spese (per mezzo di certi conoscenti che ha costì) il nostro bagaglio personale e un grosso baule, nondimeno dobbiamo tener presente che non possiamo arrivare a Pietroburgo senza denaro, almeno quel poco che servirà per i primi giorni. Del resto, abbiamo già considerato con Dùneèka ogni particolare, ed è risultato che il viaggio non costerà poi molto. Da qui fino alla ferrovia ci sono appena novanta chilometri, e ad ogni buon conto, ci siamo già messe d'accordo con un nostro conoscente che ha un calesse; dopo di che, io e Dùneèka viaggeremo magnificamente in terza classe. Così, forse troverò senz'altro il modo di mandarti non venticinque, ma trenta rubli. Ma ora basta, ho riempito due fogli interi e non c'è più posto: quanti avvenimenti s'erano accumulati! Adesso, mio adorato Ròdja, ti abbraccio in attesa del nostro prossimo incontro e ti mando la mia benedizione materna. Ròdja, devi amare Dùneèka, la tua sorellina; devi amarla così come ti ama lei che ti ama - sappilo - smisuratamente, più di se stessa. Dùnja è un angelo, e tu, Ròdja, sei tutto per noi: tutta la nostra speranza e la nostra consolazione. Se tu sarai felice, lo saremo anche noi. Ròdja, preghi il Signore come una volta, e credi sempre nella bontà del nostro Creatore e Salvatore? Temo, in cuor mio, che tu ti sia lasciato prendere dalla nuova incredulità adesso tanto di moda. Se è così, prego per te. Ricorda, mio caro, come da fanciullo, quando tuo padre era ancora vivo, balbettavi le tue preghiere sulle mie ginocchia, e come eravamo tutti felici, allora! Addio, o meglio arrivederci! Ti abbraccio forte forte e ti bacio infinitamente. 
  Tua fino alla tomba 
  Pulchèrija Raskòlnikova» 

 Per quasi tutto il tempo che Raskòlnikov impiegò, sin dalle prime righe, a leggere la lettera, sul suo viso scorrevano lacrime; ma quando terminò il suo volto era pallido, contratto da uno spasimo, e un sorriso penoso e cattivo gli serpeggiava sulle labbra. Appoggiò il capo sul suo smilzo, logoro guanciale e rifletté, rifletté a lungo. Il suo cuore batteva forte e i suoi pensieri erano in tumulto. Alla fine si sentì mancare l'aria in quello sgabuzzino giallo, così simile a un armadio o a un baule. Il suo sguardo e i suoi pensieri avevano bisogno di aria libera. Afferrò il cappello e uscì, senza alcun timore, stavolta, di incontrare qualcuno per le scale: s'era dimenticato di tutto. Prese lungo il V-j Prospèkt, in direzione del Vasìlevskij Òstrov, quasi andasse per un affare urgente; ma, secondo il suo solito, camminava senza vedere la strada, mormorando tra sé e perfino parlando ad alta voce, con grande meraviglia dei passanti. Molti lo scambiavano per un ubriaco. 



 La lettera di sua madre lo aveva messo a terra. Ma quanto al punto più importante, al punto vitale, non era stato in dubbio per un solo istante, neanche mentre leggeva la lettera. Il nocciolo della questione era già risolto nella sua mente, una volta per tutte: «Finché io sarò vivo questo matrimonio non si farà; e al diavolo il signor Lùžin!» 
 «Eh sì, la cosa è chiara,» mormorava tra sé, sogghignando e pregustando malignamente il successo della sua decisione. «No, mammina, no, Dùneèka, non riuscirete a farmela!.. E poi si scusano anche per non aver chiesto il mio consiglio, per aver deciso tutto senza di me! Lo credo bene! Pensano che adesso, orma; sia impossibile mandare tutto all'aria; ma la vedremo se è possibile o no! Guarda un po' che razza di scappatoia: ‹Questo Pëtr Petròviè è un uomo così affaccendato, ma così affaccendato, che non può sposarsi altro che in sedia di posta, o magari in treno.› No, Dùneèka, io vedo e so tutto; so benissimo ciò di cui vuoi parlare a lungo con me; so anche cos'hai pensato tutta quella notte, camminando su e giù per la stanza, e per che cosa hai pregato la Madonna di Kazàn appesa sopra il letto della mamma. È duro salire il Golgota. Già... E così, tutto è deciso: voi, Avdòtja Romànovna, intendete sposare un uomo pratico e razionale, in possesso di un suo capitale (già in possesso di un suo capitale, cosa ancor più seria e degna di maggior rispetto), che ha due impieghi e simpatizza con le idee delle nostre nuove generazioni (così scrive la mamma) e sembra buono, come osserva la stessa Dùneèka. Questo sembra, poi, è la cosa più bella! Così, Dùneèka si prepara a sposare questo sembra!... Magnifico! Magnifico! 
 «Vorrei proprio sapere, però, per quale ragione la mamma mi ha scritto quella frase a proposito delle ‹nuove generazioni›... Solo per definire il personaggio, oppure con un secondo fine: rabbonirmi nei confronti del signor Lùžin? Che furbe! ... E un'altra cosa vorrei sapere: fino a che punto erano sincere tra di loro, quel giorno e quella notte, e anche in seguito? Tutto è stato detto apertamente, tra di loro, oppure hanno capito tutt'e due che, avendo la stessa cosa nel cuore e nella mente, non era il caso di parlarne ad alta voce, col rischio di lasciarsi sfuggire qualcosa di troppo? Probabilmente è stato così, in parte, lo si capisce dalla lettera. Alla mamma lui è parso un tipo rude, un po' rude, e quell'ingenua ha confidato subito a Dùneèka questa sua impressione. L'altra, naturalmente, si è infuriata, e ha risposto ‹con dispetto›. Lo credo bene! Chi non andrebbe su tutte le furie, dal momento che la cosa è chiara senza bisogno di tante domande ingenue e tutto è già stato deciso, ed è perfettamente inutile tornarci su? Chissà poi perché mi scrive: ‹ Ròdja, ama Dùneèka dato che lei ti ama più di se stessa›; forse i rimorsi la tormentano già nell'intimo, per aver acconsentito a sacrificare la figlia per il figlio. ‹Tu sei la nostra speranza, sei tutto per noi!› Oh mamma, mamma!» 
 Il rovello montava in lui sempre più veemente, e se in quel momento si fosse imbattuto nel signor Lùžin, probabilmente lo avrebbe ucciso. 
 «Certo, è vero,» proseguì, seguendo il turbine dei pensieri che gli vorticava nella mente, «è vero che ‹per conoscere una persona bisogna avvicinarsi a lei per gradi e con cautela›, ma il signor Lùžin lo si capisce benissimo anche così. Soprattutto ‹è un uomo d'affari, e sembra buono›: scherziamo? Si è incaricato dei bagagli, fa trasportare un grosso baule a sue spese! Come potrebbe non essere buono! E loro intanto, la fidanzata e sua madre, noleggiano un carro da contadini, e viaggiano al riparo di una stuoia (ho viaggiato anch'io così!) Non c'è che dire! Una bazzecola! Appena novanta chilometri, e poi ‹viaggeremo magnificamente in terza classe› per altri mille. Ed è giusto: ad ognuno, per così dire, quel che si merita; ma, e voi, signor Lùžin, non dite nulla? È la vostra fidanzata... E non potete certo ignorare che mia madre, se vuole procurarsi i soldi per il viaggio, deve prenderli a prestito sulla sua pensione... Certo, si tratta di un contratto bilaterale, di un accordo commerciale con vantaggi reciproci e apporti corrispettivi, e quindi anche le spese vanno divise a metà; pane e sale in comune, ma quanto al tabacco, ciascuno per conto suo, come dice il proverbio. Anche qui, però, il nostro uomo d'affari le ha corbellate un pochino: il bagaglio, infatti, costa assai meno del loro viaggio, e forse addirittura non gli costerà nulla. Possibile che quelle due non vedano tutto ciò? O sarà che non vogliono vederlo? E sono contente, loro, contente! A pensare che questi sono solo i fiorellini; i veri frutti verranno dopo! Cos'è che conta infatti? ‹Non è l'avarizia, non è la tirchieria che conta, ma è il tono generale.› Questo è già il tono di dopo il matrimonio, un preavviso!... E la mamma, poi, se si dà alle spese pazze, con che cosa arriverà a Pietroburgo? Con tre rubli, o con due ‹bigliettini›, come ha detto quella... quella vecchia... Già! E poi con che cosa sperano di vivere a Pietroburgo? E come ha fatto, lei, a indovinare sin d'ora che per certi motivi non potrà vivere insieme con Dùneèka dopo il matrimonio, nemmeno all'inizio? Quel caro uomo, probabilmente, si sarà lasciato sfuggire qualche parola, si sarà fatto capire, anche se la mamma si affretta a mettere avanti le mani: ‹Io stessa rifiuterò.› Ma allora, in chi spera? Nei suoi centoventi rubli di pensione, da cui va detratto il debito con Afanàsij Ivànoviè? Lei, laggiù, continua a confezionare scialletti invernali e a ricamare sopramaniche, rovinando quei suoi poveri occhi. Ma gli scialletti le daranno in tutto altri venticinque rubli all'anno, da aggiungere ai centoventi. Lo so: loro, malgrado tutto, sperano nella nobiltà d'animo del signor Lùžin: ‹Sarà lui stesso ad offrirlo, me ne pregherà.› Alla larga! attenzione al borsellino, con un tipo simile! Succede sempre così a queste meravigliose anime schilleriane: fino all'ultimo momento rivestono la gente con le penne del pavone, fino all'ultimo momento si aspettano il bene e non il male, e anche se intuiscono il rovescio della medaglia, per niente al mondo vogliono parlarne chiaramente in anticipo; il solo pensiero le fa inorridire; respingono la verità con tutt'e due le mani, fino all'istante in cui l'individuo che hanno portato alle stelle non le menerà definitivamente per il naso. Sarei curioso di sapere se il signor Lùžin ha qualche onorificenza; scommetto la testa che almeno l'ordine di Sant'Anna ce l'ha all'occhiello, e se lo mette per andare a pranzo con gli appaltatori e con i mercanti. Magari se lo metterà anche il giorno delle nozze! Comunque sia, vada al diavolo!... 
 «Ancora ancora passi per la mamma, Dio la conservi, visto che è fatta così; ma che dire di Dùneèka? Dùneèka, mia cara, io vi conosco, e come! Avevate già vent'anni quando ci siamo visti per l'ultima volta: il vostro carattere lo avevo già capito, io. La mamma scrive che ‹Dùneèka può sopportare molto›. Lo sapevo, questo, lo sapevo già due anni e mezzo fa, e sono due anni e mezzo che ci penso, che penso esattamente a questo, al fatto che ‹Dùneèka può sopportare molto›. Se può sopportare il signor Svidrigàjlov, con tutto quello che consegue, vuol dire che può sopportare davvero molto; e così, insieme alla mamma, ha immaginato che si può sopportare anche il signor Lùžin, con la sua teoria sui vantaggi delle mogli tolte dalla miseria e beneficate dai loro mariti, spiattellata sin dalla prima visita... D'accordo, ammettiamo che ‹gli sia sfuggita›, nonostante sia un individuo razionale (cosicché, forse, non gli è affatto sfuggita, ma era sua precisa intenzione, invece, spiegarsi al più presto); ma Dùneèka, Dùneèka, dico? Lei l'uomo lo ha già capito, ed è proprio con quell'uomo che dovrà vivere. Lei che sarebbe disposta a mangiare soltanto pane nero e a berci insieme dell'acqua, piuttosto che vendere la sua anima, e non è certo disposta a dare in cambio la sua libertà interiore per un po' di agi... non la darebbe in cambio per tutto lo SchleswigHolstein, figuriamoci poi per il signor Lùžin... No, Dùneèka non era fatta così, per quel che ne so, 
e... no, non sarà certo cambiata adesso!... Ma è chiaro, è tutto chiaro! son duri da sopportare, gli Svidrigàjlov! È duro passare tutta la vita trascinandosi da una provincia all'altra come istitutrice per duecento rubli all'anno! Eppure, io so che mia sorella sarebbe disposta a lavorare come una negra per un piantatore, o come una lituana per un tedesco del Baltico, anziché avvilire il suo spirito e il suo sentimento morale legandosi a un uomo che non rispetta e con il quale non ha niente in comune: legarsi per sempre in vista di un semplice tornaconto personale! E nemmeno se il signor Lùžin fosse di purissimo oro e di brillanti, nemmeno allora lei acconsentirebbe a diventare la sua legittima concubina! Ma allora, perché acconsente? Dov'è il trucco? Dov'è la spiegazione? È chiaro: non si venderebbe per se stessa, per il suo benessere, e neanche per salvarsi dalla morte! ma è pronta a vendersi per gli altri! Per le persone che ama, che adora, sì che è pronta a vendersi! Eccolo, il trucco: a vendersi per suo fratello, per sua madre! Tutto, venderebbe! In questo caso, si può anche soffocare il nostro senso morale; si può portare tutto al bazar: la libertà, la tranquillità, perfino la coscienza: tutto. Addio, vita, purché queste creature da noi tanto amate siano felici! E non basta: escogiteremo una casistica tutta nostra, andremo a scuola dai gesuiti e magari, per un po', ci tranquillizzeremo, riuscendo a convincerci che così dev'essere, esattamente così, per un nobile scopo. Lei è fatta in questo modo; è tutto chiaro come la luce del sole. È chiaro che qui a essere in ballo è Rodiòn Romànoviè Raskòlnikov, e per giunta in prima fila. Come no? Lei può fare la sua felicità, mantenerlo all'università, associarlo a un'azienda, assicurare tutto il suo avvenire; chissà che in seguito non diventi un riccone, un uomo stimato e rispettato; e forse l'epilogo della sua vita lo vedrà perfino famoso! E la madre? C'è di mezzo Ròdja, il preziosissimo Ròdja, il primogenito! Per un primogenito di questa fatta, come non sacrificare anche la propria figlia? O diletti, ingiusti cuori! Come no! Saremmo perfino capaci di accettare la sorte di Sòneèka, Sòneèka Marmelàdova, la Sòneèka eterna, la Sòneèka che ci sarà finché ci sarà il mondo! E il sacrificio, voi due, l'avete misurato in tutta la sua portata? Sì? Ve la sentite? È utile? È ragionevole? Lo sapete, Dùneèka, che la sorte di Sòneèka non è affatto peggiore di quella che vi attende con il signor Lùžin? ‹Di amore, qui, non ce ne può essere,› scrive la mamma. Ma se, a parte l'amore, nemmeno il rispetto ci potesse essere? E se, al contrario, ci fossero già la ripugnanza, il disprezzo, il disgusto? E allora?... Allora succederà che dovremo, anche noi, ‹badare molto alla pulizia ›... Non è forse così? Lo capite, lo capite fino in fondo, che cosa significa questa pulizia? Lo capite che la pulizia con Lùžin è la stessa pulizia di Sòneèka, e forse anche peggiore, più sordida, più abietta, perché voi, Dùneèka, in fondo contate su un minimo di agi, mentre là si tratta semplicemente di non morire di fame! ‹Costa cara, costa cara, Dùneèka, questa pulizia!› E se poi vi mancheranno le forze? se vi pentirete? Quanto dolore, quanta tristezza, quante maledizioni e lacrime - tenute nascoste a tutti, dato che non siete Marfa Petròvna? E che ne sarebbe, allora, della mamma? Già adesso è inquieta, si strugge; ma allora, quando vedrà tutto chiaramente? E di me che ne sarà? A me, infatti, non avete pensato... Non voglio il vostro sacrificio, Dùneèka, non lo voglio, cara, mamma! Fin ché sarò vivo, questo non accadrà, non accadrà, non accadrà! Io non accetto!»  Ad un tratto trasalì, e si fermò. 
 «Non accadrà? E che cosa farai perché non accada? Lo proibirai? E con che diritto? Che cosa puoi promettere loro, dal canto tuo, per avere questo diritto? Di dedicare loro tutto il tuo destino, tutto il tuo futuro, quando avrai finito l'università e trovato un posto? Le abbiamo già sentite, queste cose, ma sono bubbole. E intanto? Si tratta di decidere subito; lo capisci o no? Che stai facendo, ora? Le sfrutti. Quei soldi, loro se li procurano garantendoli con una pensione di cento rubli, e tramite i signori Svidrigàjlov! In che modo le proteggerai dagli Svidrigàjlov e da Afanàsij Ivànoviè Vachrùšin, tu, futuro milionario, tu, Giove che disponi del loro fato? Ci penserai fra dieci anni? Ma fra dieci anni tua madre sarà già divenuta cieca a forza di confezionare scialletti, o magari a furia di lacrime; si sarà ridotta al lumicino a forza di digiunare; e tua sorella?... Coraggio, pensa un po' a quel che potrà essere di tua sorella di qui a dieci anni, o nel corso di questi dieci anni. Lo indovini?» 
 Così egli si tormentava, assillandosi con tali domande e trovandovi perfino una specie di voluttà. Del resto, tutte quelle domande non erano nuove, improvvise, ma vecchie e dolenti. Già da un pezzo avevano cominciato a tormentarlo e a dilaniargli il cuore. Da moltissimo tempo era germinata in lui tutta la tristezza che sentiva adesso, era cresciuta accumulandosi, e negli ultimi tempi era maturata, concenrandosi e assumendo l'aspetto di un orrendo, crudele e fantastico problema, che torturava a fondo il suo cuore e il suo cervello ed esigeva una soluzione. Adesso, poi, la lettera di sua madre lo aveva colpito come un fulmine. Era evidente che non era più possibile, ormai, torturarsi e soffrire passivamente, accontentandosi solo di riflettere sull'insolubilità dei problemi, ma occorreva assolutamente fare qualcosa, e subito, al più presto. Occorreva ad ogni costo decidersi a far qualcosa, oppure... 
 «Oppure, rinunciare addirittura alla vita!» esclamò ad un tratto al colmo dell'esaltazione. «Piegarsi docilmente alla sorte così com'è, una volta per tutte, soffocando ogni cosa dentro di sé, rinunciando ad ogni diritto ad agire, a vivere e ad amare!» 
 «Lo capite, lo capite, egregio signore, cosa significa quando non c'è più un posto dove andare?» gli tornò in mente a un tratto la domanda rivoltagli da Marmelàdov il giorno prima. «Già: perché ogni uomo deve pur avere un posto dove poter andare...» 
 Improvvisamente sussultò: un pensiero, anch'esso del giorno prima, gli era guizzato nel cervello come un baleno. Ma non fu per questo che sussultò. Sapeva, infatti, o meglio presentiva che esso sarebbe senz'altro arrivato, e già l'attendeva; d'altronde, quel pensiero non era affatto del giorno prima. La differenza era questa: un mese prima, anzi perfino il giorno prima, si trattava solo di un sogno, mentre adesso... Adesso si presentava, di colpo, non più come un sogno, ma sotto un aspetto nuovo, minaccioso e del tutto sconosciuto, ed egli, ad un tratto, se n'era reso cosciente... Sentì come un colpo alla testa, e gli si oscurò la vista. 
 S'affrettò a guardarsi attorno, cercando qualcosa. Avrebbe voluto sedersi e cercava una panca; stava camminando lungo il K. boulevard. Vide una panchina più avanti, a un centinaio di passi. Affrettò il passo più che poté; ma lungo il cammino gli accadde un piccolo incidente, che per qualche minuto concentrò tutta la sua attenzione. 
 Mentre cercava la panchina aveva notato, una ventina di passi davanti a sé, una donna che camminava, ma lì per lì non le aveva prestato la minima attenzione, come a tutti gli oggetti ai quali era passato accanto fino a quel momento. Già più di una volta, ad esempio, gli era capitato, arrivando a casa, di non ricordare affatto le strade che aveva percorso, tanto che si era ormai abituato ad andare in giro così. Ma in quella donna c'era qualcosa di tanto strano, qualcosa che balzava subito agli occhi, che la sua attenzione cominciò a concentrarsi su di lei, dapprima a malincuore e quasi con dispetto, ma poi con sempre più viva intensità. A un tratto volle capire cosa ci fosse in lei di tanto strano. Innanzi tutto doveva essere una ragazza molto giovane: camminava a testa nuda con quel gran caldo, non aveva né guanti né ombrellino, e agitava le braccia in maniera buffa. Portava un abituccio di seta leggera, indossato anch'esso in un modo parecchio strano, appena abbottonato e dietro, proprio all'inizio della gonna, all'altezza della vita, addirittura strappato; un intero lembo di stoffa ne pendeva ballonzolando. Uno scialletto era gettato sul collo nudo, ma sporgeva di lato e un po' di sbieco. Per giunta, la ragazza camminava con passo incerto, incespicando e perfino barcollando. Quell'incontro finì con l'avvincere tutta l'attenzione di Raskòlnikov. Egli raggiunse la ragazza proprio accanto alla panchina, mentre lei vi si lasciava cadere sopra con tutto il peso, in un angolo, arrovesciando il capo sulla spalliera e chiudendo gli occhi, evidentemente per l'eccessiva stanchezza. Dopo averla scrutata, egli capì subito: era ubriaca fradicia. Era uno spettacolo strano e assurdo. Egli ebbe perfino il sospetto di sbagliarsi. Il visino che vedeva davanti a sé era estremamente giovane, sui sedici o forse soltanto sui quindici anni, minuto e grazioso con i suoi capelli biondicci, ma tutto infiammato e come gonfio. Pareva che la fanciulla non si rendesse più conto di nulla; aveva accavallato le gambe, scoprendone molto più del conveniente e da tutti gli indizi pareva ben poco consapevole di trovarsi per la strada. 
 Raskòlnikov non si era seduto ma non intendeva andarsene, e le rimaneva davanti perplesso. Di solito, quel boulevard era poco frequentato; in quel momento, poi, tra l'una e le due, e con tutto quel caldo, non c'era quasi nessuno. Tuttavia, in disparte, a una quindicina di passi, sul margine del boulevard, si era fermato un signore, che secondo ogni evidenza avrebbe desiderato moltissimo avvicinarsi anche lui alla fanciulla per qualche suo fine. Anche lui, probabilmente, l'aveva vista da lontano e aveva pensato di raggiungerla, ma ne era stato impedito da Raskòlnikov. Gli lanciava sguardi furiosi, badando però a non farsene accorgere, e stava sulle spine in attesa del suo turno, non appena quello straccione guastafeste avesse levato le tende. La situazione era assai eloquente: il signore era sulla trentina, robusto, grasso, bianco e rosso come una mela, con labbra vermiglie e baffetti, e vestiva con molta eleganza. Raskòlnikov si sentì invadere da una gran rabbia; d'un tratto gli venne voglia di offendere in qualche modo quel grasso vagheggino; si staccò per un attimo dalla fanciulla e si avvicinò al signore. 
 «Ehi, voi, Svidrigàjlov! Che volete voi qui?» gli gridò, stringendo i pugni e sogghignando con labbra schiumanti di collera. 
 «Che significa ciò?» gli chiese severamente il signore, aggrottando le sopracciglia con un'espressione di sprezzante stupore. 
  «Fuori dai piedi, ecco cosa significa!» 
  «Come osi, canaglia!...» 
 E agitò il frustino. Raskòlnikov gli si scagliò addosso con i pugni alzati, senza nemmeno pensare che quel tipo robusto poteva benissimo tener testa anche a due come lui. Ma in quell'istante qualcuno lo afferrò saldamente da dietro: fra loro s'era intromessa una guardia. 
 «Basta, signori, non potete picchiarvi in luogo pubblico. E voi cosa volete? Chi siete?» chiese in tono sostenuto a Raskòlnikov, fissando i suoi stracci. 
 Raskòlnikov lo scrutò attentamente. Era un volto maschio e soldatesco, con baffi e basette brizzolati e uno sguardo pieno di buonsenso. 
 «Proprio di voi avevo bisogno,» esclamò Raskòlnikov, afferrandogli una mano. «Io sono l'ex studente Raskòlnikov... Lo dico anche per voi,» si rivolse al signore, «ma venite qui un momento, voglio farvi vedere una cosa...» 
  E prendendo la guardia per un braccio, la trascinò verso la panchina. 
 «Ecco, vedete? È completamente ubriaca; poco fa camminava per il viale: chi sa chi è, però non sembra di quelle che lo fanno per mestiere. La cosa più probabile è che l'abbiano fatta bere e poi sedotta... Per la prima volta... Capite? E poi l'hanno lasciata andar via così... Guardate come è strappato il suo abito, guardate come lo indossa: qualcuno l'ha vestita, non è stata lei a vestirsi, sono state mani goffe, maschili. Si vede. E adesso guardate qui. Questo bellimbusto con cui stavo per venire alle mani è uno sconosciuto, lo vedo per la prima volta; ma anche lui l'aveva avvistata, strada facendo, ubriaca, fuori di sé, e moriva dalla voglia di avvicinarsi e di acchiapparla al volo, approfittando dello stato in cui si trova, per portarla chissà dove... Potete esserne certo; mi potete credere, non mi sbaglio. Ho visto coi miei occhi come la osservava e la seguiva; ma io gliel'ho impedito; e adesso lui aspetta che me ne vada. Ecco, si è allontanato un po', se ne sta lì e finge di arrotolare una sigaretta. Non possiamo impedirglielo? Non potete fare in modo di rimandarla a casa sua?» 
 La guardia aveva capito immediatamente, s'era resa conto di tutto. Quanto al signore grasso, la faccenda era naturalmente chiarissima; restava la ragazza. L'agente si chinò su di lei, per esaminarla più da vicino, e una sincera compassione gli si dipinse sul viso. 
 «Che pena mi fa!» disse, scuotendo il capo. «È ancora una bambina... L'hanno sedotta, è evidente. Sentite, signorina,» prese a dirle, «dove abitate?» La ragazza aprì gli occhi, stanchi e imbambolati, fissò ottusamente quelli che la interrogavano e con la mano fece un gesto infastidito. 
 «Sentite,» disse Raskòlnikov, «ecco qua (si frugò in tasca e ne tirò fuori venti superstiti copeche), ecco qua, chiamate una carrozza e dite al vetturino di portarla a casa. Purché si riesca a sapere il suo indirizzo!» 
 «Signorina, ehi, signorina...» riprese a dire la guardia, dopo aver accettato il denaro, «ora vi chiamo un vetturino e vi accompagno io stesso. Dove volete che andiamo? Eh?... Dove state di casa?» 
  «Ci risiamo!... Mica ti lasciano in pace!» mormorò la fanciulla, e tornò a schermirsi con la mano. 
 «Ah, ah, che brutta cosa! Ah, che vergogna, signorina, proprio una vergogna!» Egli scosse di nuovo il capo, con aria di deplorazione mista a pietosa indignazione. «Però, che problema!» fece rivolto a Raskòlnikov; e subito, senza farsi accorgere, lo esaminò di nuovo da capo a piedi. Dovette sembrargli strano anche lui: con quegli stracci addosso, dava via del denaro! 
  «Era lontana da qui, quando l'avete trovata?» gli domandò. 
 «Ve l'ho detto: camminava davanti a me, barcollando, qui lungo il viale. Appena arrivata alla panchina, vi si è lasciata cadere di schianto.» 
 «Ah, che cose vergognose accadono adesso al mondo, santo Dio! Così ingenua, semplice, e già ubriaca! L'hanno sedotta, è chiaro! Ecco, anche il vestitino è tutto strappato... Ah, che corruzione c'è in giro!... E forse è anche una di buona famiglia, povera ma buona... Al giorno d'oggi ce n'è molte così. Dall'aspetto, però, si direbbe delicata, sembra una signorina», e si chinò un'altra volta su di lei. 
 Forse aveva anche lui una figlia così, di quelle «delicate, che sembrano signorine» e imitano i modi delle fanciulle bene educate, assimilando gli atteggiamenti di moda... 
 «L'importante,» si affannava a dire Raskòlnikov, «è di non lasciarla nelle mani di quel porco! Chi sa cosa diavolo le farebbe! Lo si vede benissimo cosa vuole; mica se ne va, quella carogna!» 
 Raskòlnikov parlava forte e lo indicava apertamente con la mano. L'altro sentì e stava per andare di nuovo in bestia; ma cambiò idea, e dopo avergli gettato uno sguardo sprezzante, si allontanò lentamente di altri dieci passi e si fermò. 
 «Non lasciargliela si può anche fare,» rispose il sottufficiale, pensieroso. «Ma dovrebbe almeno dirci dove bisogna accompagnarla, se no... Signorina, ehi, signorina!» e si chinò nuovamente su di lei. 
 La ragazza, a un tratto, sbarrò gli occhi, li guardò con attenzione come se avesse capito qualcosa, poi si alzò dalla panchina e si avviò verso la direzione da cui era venuta. 
 «Puah!, brutti schifosi, mica ti lasciano in pace!» proferì, schermendosi di nuovo con la mano. Si incamminò rapidamente ma, come prima, ondeggiando parecchio. Il bellimbusto la seguì, ma restando sull'altro lato del viale, senza staccare gli occhi da lei. 
  «Non preoccupatevi, non gliela lascio,» dichiarò deciso il baffone mettendosi alle loro calcagna. 
  «Eh, che corruzione c'è in giro!» ripeté ad alta voce con un sospiro. 
 In quel momento fu come se qualcosa avesse punto Raskòlnikov; in un baleno, parve del tutto sconvolto 
  «Ehi, voi, sentite!» gridò al baffone. 
  Quello si voltò. 
 «Lasciate perdere! Che ve ne importa? Lasciate stare! Che se la spassi pure! (e indicò il bellimbusto). A voi che ve ne importa?» 
  La guardia non capiva, e lo guardava con gli occhi sbarrati. Raskòlnikov si mise a ridere. 
 «Che roba!...» esclamò l'agente con un gesto stizzito, e si avviò dietrò al bellimbusto e alla ragazza, sicuro di aver a che fare con un matto o anche peggio. 
 «Le mie venti copeche, però, se le è portate via,» pensò con rabbia Raskòlnikov, rimasto solo. «Adesso piglierà dei soldi anche da quell'altro e gli lascerà la ragazza, ecco come andrà a finire.. Perché poi ho voluto ficcarmi in mezzo ad aiutare? Che si divorino pure vivi l'un l'altro! Perché proprio io dovrei aiutare? Ho il diritto, io, di aiutare? Che cosa c'entro? E che diritto avevo di dar via quelle venti copeche? Erano forse mie?» 
 A parte questo strano ragionamento, si sentiva molto depresso. Si sedette sulla panchina rimasta vuota. I suoi pensieri vagavano qua e là... In generale in quell'istante gli era difficile pensare a qualsiasi cosa. Avrebbe voluto addormentarsi, dimenticare tutto, e poi risvegliarsi e cominciare tutto da capo... 
 «Povera bambina!» disse guardando l'angolo della panchina. «Tornerà in sé, piangerà un poco, poi sua madre verrà a saperlo... Prima la picchierà, poi la frusterà, provocandole dolore e vergogna; e poi, forse, la butterà fuori di casa... E se anche non lo farà, le Dàrje Fràncovne verranno a saperlo ugualmente, e la mia bambina comincerà ad andare e venire da un posto all'altro... Poi, dopo un po', l'ospedale: accade sempre così a quelle che vivono con madri molto oneste, e fanno le loro scappatelle di nascosto... E poi... poi di nuovo l'ospedale. Il vino... le bettole... e ancora l'ospedale... Dopo due, tre anni sarà un rudere, e in tutto avrà avuto diciotto o diciannove anni da vivere... Non ne ho forse viste altre? E come avevano fatto a diventare così? Tutte né più né meno che in questa maniera... Puah! E sia! Così dev'essere, dicono. Una certa percentuale, dicono, deve andarsene ogni anno... chissà dove, poi... al diavolo, probabilmente, per dar sollievo a quelli che restano e non esser loro d'impaccio. Una percentuale! Graziose, davvero, queste loro parolette: così riposanti, così scientifiche. Una percentuale, si è detto; dunque non è il caso di preoccuparsi. Se fosse un'altra parola, be', allora... magari sarebbe più inquietante.. E se anche Dùneèka, un giorno o l'altro, finisse nella percentuale?... Se non in questa, in un'altra?... 
 «Ma dove sto andando?» pensò a un tratto. «Strano! Sarò bene uscito per qualche motivo... Appena letta la lettera, sono uscito. Per andare al Vasìlesvkij Òstrov, da Razumìchin: là dovevo andare, adesso me lo ricordo... Ma a che scopo, tuttavia? E come mai proprio adesso mi è venuta l'idea di andare da Razumìchin? È straordinario.» 
 Si stupiva di sé. Razumìchin era un suo vecchio compagno d'università. In realtà - e la cosa è curiosa - Raskòlnikov all'università non aveva quasi amici, stava lontano da tutti, non andava a casa di nessuno e difficilmente faceva venire qualcuno in casa sua. D'altra parte, tutti avevano preso ben presto a ignorarlo. 
 Non partecipava né alle riunioni comuni, né alle conversazioni, né ai divertimenti, né ad altro. Studiava intensamente, senza risparmiarsi, e per questo lo rispettavano, ma nessuno gli voleva bene. Era molto povero, orgoglioso, in un certo suo modo, sino all'alterigia, e poco comunicativo: come se avesse qualcosa da nascondere. Alcuni compagni avevano l'impressione ch'egli li considerasse come bambini, dall'alto in basso, quasi li avesse sopravvanzati tutti sia per sviluppo sia per conoscenze e convinzioni, e considerasse le loro idee e i loro interessi qualcosa di inferiore. 
 Di Razumìchin, invece, chissà perché, era diventato amico; o forse non proprio amico, ma con lui era più socievole, più aperto. Del resto, era impossibile stabilire altri rapporti con Razumìchin. Era un giovane straordinariamente allegro, esuberante, buono sino al candore. Ma questo candore nascondeva uno spirito profondo e uno spiccato senso di dignità. I migliori fra i suoi compagni se ne rendevano conto, e tutti lo amavano. Era tutt'altro che sciocco, anche se talvolta poteva sembrare un sempliciotto. Si faceva notare per il suo aspetto esteriore: era alto, magro, sempre mal rasato e nero di capelli. Non di rado si cacciava in qualche rissa, e aveva fama di essere molto forte. Una notte, in presenza d'altri compagni, con un sol colpo aveva abbattuto un tutore dell'ordine alto quasi due metri. Poteva bere senza fine, ma poteva anche non bere affatto; qualche volta ne faceva delle grosse, anche oltre i confini del lecito, ma poteva benissimo farne a meno. Caratteristico di Razumìchin era anche il fatto che nessun insuccesso lo turbava mai e nessuna circostanza avversa, apparentemente, riusciva ad abbatterlo. Avrebbe potuto abitare anche in cima a un tetto, sopportare una fame rabbiosa e un freddo polare. Era molto povero e si manteneva completamente da solo, procurandosi i soldi grazie a non si sa bene quali lavori. Conosceva un'infinità di fonti alle quali attingere, sempre lavorando, si capisce. Una volta, per tutto l'inverno, non aveva scaldato la sua stanza, affermando che preferiva così perché al freddo si dorme meglio. In quel periodo, anche lui era stato costretto a lasciare l'università, ma non definitivamente; e stava compiendo ogni sforzo per migliorare la situazione e riprendere gli studi. Erano ormai quattro mesi che Raskòlnikov non andava da lui; quanto a Razumìchin, non sapeva nemmeno dove egli abitasse. Una volta, circa due mesi prima, s'erano incontrati per la strada, ma Raskòlnikov s'era voltato dall'altra parte, ed era perfino passato sul lato opposto per evitare che il compagno lo vedesse. E Razumìchin, pur avendolo visto, aveva tirato via, non volendo mettere a disagio l'amico. 



 «È vero, ancora poco tempo fa volevo chiedere del lavoro a Razumìchin: che mi trovasse delle lezioni, o qualcos'altro,» continuava a pensare Raskòlnikov. «Ma adesso, in che cosa mi può aiutare? Supponiamo che mi trovi delle lezioni, e che sia pronto a spartire con me anche la sua ultima copeca, sempre che ce l'abbia, tanto da potermi comprare le scarpe e farmi accomodare il vestito per andare alle lezioni... Già; e poi?... Che cosa farò con quattro soldi in tasca? Come se fosse di questo che ho bisogno, in questo momento! È proprio ridicolo che mi sia venuto in mente di andare da Razumìchin...» Comunque, aveva deciso di andare da Razumìchin; e la cosa lo inquietava anche più di quanto non pensasse; cercava con inquietudine qualche significato sinistro in quell'atto apparentemente così normale. 
 «Possibile che io volessi sistemare ogni cosa con il solo Razumìchin, e avessi trovato in lui la via d'uscita a tutto?» si chiedeva meravigliato. 
 Rifletteva strofinandosi la fronte e, strano a dirsi, d'un tratto - come a caso e quasi per conto suo - dopo una meditazione molto lunga gli venne in mente un pensiero bizzarro. 
 «Mmh... da Razumìchin,» si disse all'improvviso con perfetta calma, come per una decisione definitiva, «da Razumìchin ci andrò, naturalmente... ma non adesso. Ci andrò... il giorno dopo quella faccenda, quando quella faccenda sarà sistemata e tutto andrà per un altro verso...»  Di colpo tornò in sé. 
 «Dopo quella faccenda!» esclamò, balzando su dalla panchina. «Ma forse che ci sarà, quella faccenda? Ci sarà veramente?» 
 Lasciò la panchina e si allontanò quasi di corsa; voleva tornare indietro, verso casa, ma all'improvviso si sentì nauseato all'idea che proprio là, in quel buco, in quell'orribile specie di armadio, tutta quella faccenda andava maturando già da più di un mese. Così, si lasciò andare dove lo portavano le gambe. 
 Il suo tremito nervoso si era convertito in qualcosa di simile a brividi di febbre; con tutto quel caldo, sentiva freddo. Con uno sforzo quasi inconsapevole, per una specie di necessità interiore, cominciò a osservare attentamente tutti gli oggetti che gli capitavano sott'occhio, come cercando ad ogni costo di distrarsi, ma riuscendovi male, tanto che ricadeva di continuo nelle sue fantasticherie. Quando poi, con un tremito, risollevava il capo e si guardava attorno, subito dimenticava a cosa stesse pensando e perfino per dove fosse passato. In tal modo attraversò l'intero Vasìlevskij Òstrov, sbucò sulla Piccola Neva, oltrepassò il ponte e tornò sulle Isole. A tutta prima, il verde e il fresco riuscirono graditi ai suoi occhi stanchi, abituati alla polvere della città, alla calcina e agli edifici enormi, opprimenti e asfissianti. Lì non c'erano né afa, né puzzo, né bettole. Ma ben presto anche quelle sensazioni nuove, piacevoli, divennero morbose e irritanti. Si fermò davanti a qualche villa adorna di piante di varia specie; guardando oltre il recinto scorgeva, in lontananza, sui balconi e sulle terrazze, donne vestite con eleganza, e bambini che correvano in giardino. Soprattutto lo interessavano i fiori, li osservò più a lungo d'ogni altra cosa. Si imbatté anche in lussuose carrozze, in cavalieri e amazzoni; li accompagnava con uno sguardo curioso, ma si dimenticava di loro prima ancora che scomparissero alla sua vista. Una volta si fermò e contò i soldi che aveva in tasca; erano circa trenta copeche: «Venti le ho date alla guardia, tre a Nastàsja per la lettera... Ieri, dunque, ho dato ai Marmelàdov circa quarantasette copeche, o forse cinquanta,» pensò, spinto da chissà quale motivo a questi calcoli; ma subito dimenticò perfino perché s'era cavato quegli spiccioli di tasca. Se ne ricordò poco dopo, quando, passando davanti a una specie di taverna, sentì d'avere appetito. Vi entrò, vuotò un bicchierino di vodka e cominciò a mangiare un tortello ripieno. Finì di mangiarlo per la strada. Non beveva vodka da moltissimo tempo e l'effetto fu istantaneo, benché ne avesse bevuto soltanto un bicchierino. Si sentì d'un tratto le gambe pesanti, e una forte sonnolenza. Si avviò in direzione di casa sua; ma, arrivato al Petròvskij Òstrov, si fermò completamente sfinito; lasciata la strada, s'inoltrò fra i cespugli, cadde sull'erba e si addormentò all'istante. 
 I sogni di un malato sono caratterizzati spesso da straordinario rilievo, vividezza ed eccezionale somiglianza con la realtà. L'evento è, a volte, mostruoso, ma l'ambiente e l'intero processo della rappresentazione sono così verosimili e così ricchi di sfumature, di particolari inattesi ma artisticamente appropriati all'insieme, che chi sogna non saprebbe inventarli da sveglio, nemmeno se fosse un artista della grandezza di Puškin o di Turgenev. Questi sogni, poi - sogni morbosi -, rimangono a lungo impressi nella memoria, e producono un'impressione profonda su un organismo già scosso ed eccitato. 
 Il sogno di Raskòlnikov fu spaventoso. Sognò la sua infanzia, quando viveva ancora nella piccola città natale. 
 Ha sette anni e, in compagnia di suo padre, sta andando a passeggio fuori città, in un giorno di festa, sul far della sera. Il tempo è grigio, afoso, la località assolutamente identica a come si è conservata nella sua memoria: anzi, nella memoria è molto più scialba di come la rivede nel sogno. La piccola città sorge come sul palmo di una mano, senza nemmeno un salcio intorno; solo molto lontano, proprio dove s'incontrano la terra e il cielo, nereggia un boschetto. A pochi passi dall'ultimo orto della città c'è una bettola, una grossa bettola che ha sempre suscitato in lui un'impressione sgradevolissima e perfino un senso di paura quando passava lì vicino, andando a passeggio col padre. Era sempre così gremita, e risonante di tante urla, sghignazzi e bestemmie, di canti così rauchi e disgustosi, di risse così frequenti; e intorno alla bettola andavano sempre a zonzo tipi dalle grinte così ebbre e terribili... Nel vederle, egli si stringeva al padre e tremava tutto. Di fianco alla bettola passava la strada, una stradina di campagna sempre polverosa, e quella polvere era sempre così nera. La strada procede serpeggiando, poi, dopo trecento passi, si aggira sulla destra il cimitero della città. In mezzo al cimitero sorge una chiesa in muratura, con la cupola verde, dov'egli andava a messa, con suo padre e sua madre, un paio di volte all'anno, quando si celebrava l'ufficio funebre in memoria della nonna, morta tanto tempo prima e che lui non aveva mai visto. Quelle volte si portavano sempre dietro una kutjà  sopra un piatto bianco, avvolta in un tovagliolo, e la kutjà era di zucchero e riso e uva secca composta in forma di croce. Egli amava quella chiesa e le sue antiche icone, quasi tutte prive della parte metallica, e il vecchio prete dalla testa tremolante. Accanto alla tomba della nonna, coperta da una lastra, c'era anche la piccola tomba del suo fratello minore, morto a soli sei mesi e che pure lui non aveva conosciuto e non poteva ricordare; però gli avevano detto che aveva avuto un fratellino, e ogni volta che visitava il camposanto si faceva il segno della croce, con religiosa devozione, sopra la piccola tomba e si chinava su di essa per baciarla. 
 Ecco il sogno che fece: lui e suo padre camminano lungo la strada che porta al cimitero e passano davanti alla bettola; egli tiene il padre per mano e si volta timorosamente a guardare la bettola. Una circostanza speciale attrae la sua attenzione; sembra che là dentro, ora, ci sia una festa, con una folla di mogli di piccoli commercianti e artigiani, tutte agghindate, e di contadine con i loro mariti, e con ogni sorta di gentaglia. Sono tutti ubriachi, tutti cantano canzoni, e vicino all'ingresso della bettola c'è un carro da contadino, uno strano carro; uno di quei carri a cui si attaccano grossi cavalli da tiro e che servono al trasporto di merci e botti di vino. A lui era sempre piaciuto guardare quelle enormi bestie da tiro, con le loro lunghe criniere e le loro zampe massicce, andarsene tranquille, con passo cadenzato, tirandosi dietro un'intera montagna di roba senza il minimo sforzo, come se con il carro dietro si sentissero perfino più leggere. Ma ora, strano a dirsi, a un così pesante carro era attaccata una piccola e magra rozza contadina, color baio chiaro, una di quelle che - come spesso aveva visto - non ce la fanno, a volte, a tirare un carico di legna o fieno, specialmente se il carro affonda nel fango o in un solco della strada; e i contadini le frustano con incredibile violenza, a volte perfino sul muso e sugli occhi, e lui ne provava tanta ma tanta pena, che per poco non piangeva, e la mamma, allora, doveva allontanarlo dalla finestra. Ma ecco, improvvisamente, un gran baccano: dalla bettola escono tra grida e canti, con le loro balalajke, ubriachi fradici, contadini ben piantati dalle camicie rosse e azzurre, il gabbano gettato sulle spalle: «Montate, montate tutti !» grida uno di loro, un giovane, con il collo taurino e il volto carnoso, rosso come una carota. «Vi porto tutti a casa, accomodatevi!» Ma subito echeggiano risate e proteste: 
  «Ma dove vuoi che ci porti questa vecchia rozza?» 
  «Tu, Mikòlka, sei diventato proprio matto! Attaccare un cavalluccio così a un carro di questi!» 
  «Lo sapete, ragazzi, che questo cavallo avrà i suoi bravi vent'anni?» 
 «Montate, vi porto tutti a casa!» grida di nuovo Mikòlka, e saltando per primo sul carro afferra le redini e si erge a cassetta in tutta la sua statura. «Il baio è andato via l'altro giorno con Matvèj,» grida dal carro, «e questa cavallina, miei cari, mi fa proprio morire: quasi quasi vorrei ammazzarla, tanto mangia il mio frumento a sbafo. Su, sedetevi! La metterò al galoppo! Vedrete come galopperà!» e piglia in mano la frusta, accingendosi, tutto felice, a frustare la bestia. 
  «Ma sì, coraggio, montiamo!» sghignazzano dalla folla. «Lo hai sentito, si andrà al galoppo!» 
  «Scommetto che saranno dieci anni che non galoppa più...» 
  «Ma adesso lo farà!» 
  «Dateci dentro, ragazzi, pigliate la frusta, pronti!» 
  «Via ! ... Frustatela !» 
 Tutti salgono sul carro di Mikòlka tra scherzi e risate. Sono già saliti in sei, e c'è ancora posto. Pigliano con loro una contadina, grassa e rubiconda. Ha una veste di cotonina rossa, una cuffia con le perline di vetro e zoccoli ai piedi; schiaccia nocciole con i denti ridacchiando. Anche tra la folla, intorno, si ride; e, del resto, come non ridere? Una cavallina così malandata, mettersi al galoppo con un simile peso! Subito due giovanottoni, sul carro, afferrano la frusta per dare una mano a Mikòlka. Si sente un «su-u!» La rozza ce la mette tutta ma, altro che galoppo! riesce a malapena a spostare il carro, non fa che agitare le zampe, gemere e rattrappirsi sotto i colpi delle tre fruste, che le piovono addosso come una gragnola. Sul carro e tra la folla raddoppiano le risate, ma Mikòlka si arrabbia: tutto furioso, fa piovere sulla cavallina colpi sempre più fitti, come se credesse davvero di farla partire al galoppo. 
  «Fatemi posto, ragazzi!» grida dalla folla un giovanotto che ci ha preso particolarmente gusto. 
 «Monta! Montate tutti!» urla Mikòlka. «Vi deve portare tutti. La frusterò a morte!» E frusta, frusta, e per la gran furia non sa nemmeno più con che cosa picchiarla. 
 «Babbo, babbino,» grida il bambino al padre, «babbo, che cosa fanno? Babbo, picchiano quel povero cavallino!» 
 «Andiamo, andiamo!» dice il padre, «sono ubriachi, se la spassano, quelle carogne: andiamo via, non stare a guardare!» E vorrebbe portarlo via, ma lui si strappa dalle sue braccia e, fuori di sé, corre verso il cavallino. Ma il povero cavallino, ormai, è allo stremo. Ansima, si ferma, dà di nuovo uno strattone e per poco non cade. 
  «Frustiamolo a morte!» grida Mikòlka, «non c'è altro da fare L'ammazzerò!»  «Ma non sei cristiano, dunque, brutto animale?!» grida un vecchio dalla folla. 
  «S'è mai visto che un cavalluccio così tiri un simile peso?» aggiunge un altro. 
  «Lo farai fuori!» grida un terzo. 
  «Sono affari miei! È roba mia! Faccio quel che voglio! Montate ancora! Montate tutti! 
Voglio vederlo galoppare e basta!...» 
 A un tratto si leva una salva di risate che copre ogni altro rumore: la cavallina non sopporta più quei colpi così fitti e, impotente, comincia a scalciare. Perfino il vecchio non può fare a meno di sorridere. Una bestia così malridotta, ecco che si mette a sparar calci! 
 Due giovanotti della folla ti pigliano anch'essi una frusta per uno e corrono presso la cavallina per frustarla sui fianchi: uno da una parte, uno dall'altra. 
  «Dagli sul muso, sugli occhi, sugli occhi!» grida Mikòlka. 
 «Una canzone, ragazzi!» grida qualcuno sul carro fra il consenso generale. Si leva nell'aria una canzone sfrenata, accompagnata nei ritornelli da fischi e dal suono del tamburello. La contadinotta schiaccia nocciole coi denti e ridacchia sempre. 
 Il bambino accorre verso la cavallina, corre più avanti e vede come la frustano sugli occhi, dritto sugli occhi! Allora piange: il cuore gli si gonfia e colano le lacrime. Uno di quelli che si accaniscono sulla bestia gli sfiora con la frusta il viso, ma lui non sente; si torce le mani, grida, si slancia verso il vecchio con i capelli e la barba bianca, che sta scuotendo il capo perché disapprova tutto questo. Una donna lo prende per un braccio e vuol condurlo via, ma lui si divincola e corre di nuovo verso la cavallina, che è già ai suoi ultimi sforzi, eppure ancora una volta si mette a scalciare. 
 «Che ti venga un colpo!» esclama Mikòlka, fuori di sé per la rabbia. Getta la frusta, si china e tirata su dal fondo del carro una lunga e grossa stanga, l'afferra con tutt'e due le mani e l'alza a fatica sopra la bestia. 
  «Ora la fa in pezzi!» gridano intorno. 
  «L'ammazza!» 
 «È roba mia!» urla Mikòlka, e con tutto lo slancio di cui è capace fa ricadere la stanga. Si sente un tonfo sordo. 
  «Frustatela, frustatela! Perché vi siete fermati?» si levano voci dalla folla. 
 Mikòlka, intanto, brandisce un'altra volta la stanga, e un altro colpo piomba sul dorso dell'infelice rozza che si accascia con tutto il deretano, ma subito balza di nuovo sulle zampe e tira, tira con le sue ultime forze ora di qua, ora di là, per smuovere il carro. Ma da ogni lato le arrivano addosso sei fruste, mentre la stanga si solleva e ricade per la terza volta, poi per la quarta, con ritmo regolare, con slancio. Mikòlka è furioso perché non è riuscito ad accopparla con un sol colpo. 
  «Ha la pelle dura!» gridano intorno. 
 «Adesso scommetto che cade, ragazzi! Adesso crepa!» grida dalla folla uno che se la sta godendo un mondo. 
  «Ci vorrebbe la scure, altro che storie! Finirla con un colpo!» grida un terzo. 
 «Che ti venga il cancro! Fate largo!» si mette a urlare come un pazzo Mikòlka; getta via la stanga, si china di nuovo a cercare nel carro e tira su una spranga di ferro. «Attenzione!» grida, e molla con tutta la sua forza un gran colpo al suo povero cavallino. Ecco, il colpo è partito; la bestia barcolla, si accascia, fa come se volesse ancora tirare, ma la sbarra le ricade sul dorso ed essa stramazza a terra, come se le avessero tagliato tutte e quattro le zampe d'un sol colpo. 
 «Finitela!» grida Mikòlka, mentre balza giù dal carro, completamente fuori di sé. Alcuni contadinotti, anch'essi rossi e ubriachi, afferrano quel che gli capita sotto mano, fruste, bastoni, la stanga, e corrono verso la cavallina ormai sul punto di crepare. Mikòlka si mette di fianco e continua a menarle inutilmente altri colpi sul dorso. La rozza allunga il muso, emette un pesante sospiro e muore. 
  «L'ha proprio fatta fuori!» gridano nella folla. 
 «È roba mia!» urla Mikòlka, con la spranga in mano e gli occhi iniettati di sangue. Sta lì, e sembra scontento di non aver più nessuno da picchiare. 
  «Davvero non sei cristiano!» gridano numerose voci dalla folla. 
 Il bambino, ormai, non sa più quello che fa. Gridando si fa largo tra la folla, si avvicina alla bestia morta, ne cinge con le braccia il muso insanguinato e la bacia, la bacia sugli occhi, sulle labbra... Poi, d'un tratto, balza in piedi, e fuori di sé si slancia con i piccoli pugni alzati contro Mikòlka. Proprio in quel momento il padre, che già da un pezzo lo rincorre, finalmente lo acchiappa e lo conduce via dalla folla. 
  «Andiamo! Andiamo!» gli dice, «andiamo a casa!» 
 «Babbo! Ma perché... hanno ammazzato il povero cavallino?» domanda singhiozzando, mentre gli manca il respiro e dal petto oppresso le parole gli escono come strida. 
 «Sono ubriachi, se la spassano, non è roba che ci riguarda, andiamocene!» dice il padre. Il ragazzo lo abbraccia, ma il petto gli si serra, gli si serra sempre di più, vorrebbe tirare il fiato, gettare un grido, e si sveglia. 
 Si svegliò tutto sudato, con i capelli bagnati di sudore, sentendosi soffocare, e si sollevò pieno di spavento. 
 «Grazie a Dio, era soltanto un sogno!» disse, sedendosi sotto l'albero e tirando un profondo respiro. «Ma cosa mi piglia? Che sia la febbre? Un sogno così schifoso!» 
 Si sentiva come rotto in tutto il corpo, e aveva nell'anima un senso di buio e di torbido. Mise i gomiti sulle ginocchia e si puntellò il capo con ambo le mani. 
 «Dio mio!» esclamò, «ma davvero io prenderò una scure, mi metterò a colpirla sulla testa, le fracasserò il cranio?... E poi scivolerò nel sangue tiepido, appiccicoso, per forzare la serratura e rubare; e mi nasconderò tremando, tutto inondato di sangue... con la scure... O Signore, è davvero possibile» 
  Nel dire così tremava come una foglia. 
 «Ma cosa mi è venuto in mente?» proseguì, risollevandosi come in preda a profonda meraviglia. «Eppure sapevo benissimo di non essere in grado di farlo... Ma allora, perché mi sono tormentato fino a questo momento? Se ancora ieri, dico ieri, quando andavo a compiere questa... questa prova, ancora ieri ho capito perfettamente di non farcela... E allora, perché adesso... ? Perché continuo ad avere dei dubbi? Se proprio ieri, scendendo le scale, io, io stesso ho detto che è una cosa vile, infame, bassa, bassa... e al solo pensarci da sveglio mi è venuta la nausea e sono inorridito... 
 «No, non ce la farò, non ce la farò! Anche se tutti i miei calcoli sono perfetti, e tutto ciò che ho deciso in questo mese è chiaro come il giorno e giusto come la matematica! O Signore! Tanto, non mi deciderò comunque a farlo! Non ce la farò, non ce la farò!... Ma allora, perché fino a questo momento... ?» 
 Si alzò in piedi si guardò attorno smarrito, come meravigliandosi d'essere lì, di trovarsi sul ponte T. Era pallido, gli bruciavano gli occhi, si sentiva spossato in tutte le membra; all'improvviso, tuttavia, gli parve di respirare più facilmente. Sentì d'essersi liberato di quel tremendo fardello che lo aveva oppresso così a lungo, e di avere d'un tratto l'anima leggera e in pace. «Oh Signore!» pregava, «indicami la strada giusta, e io rinuncerò a questo mio... a questo sogno maledetto!» 
 Nell'attraversare il ponte contemplava con un senso di calma e di pace la Neva, il vivido tramonto rosso acceso del sole. Nonostante la sua debolezza, non si sentiva nemmeno più stanco. Come se nel suo cuore un bubbone, che era andato maturando per tutto il mese, d'un tratto si fosse aperto. Libertà, libertà! Era libero, ora, da quelle malie - dal sortilegio, dal fascino, dall'ossessione! 
 Più tardi, quando gli capitava di ricordare quel tempo e tutto ciò che gli era accaduto in quei giorni, minuto per minuto, punto per punto, circostanza per circostanza, ogni volta lo colmava di stupore superstizioso un fatto, che non era in sé tanto straordinario, ma che sempre gli apparve, in seguito, come una specie di preannuncio. E precisamente, non riusciva in alcun modo a capire e a spiegarsi come mai lui, che era così stanco, esausto, e avrebbe avuto tutte le ragioni per tornarsene a casa dalla via più corta, vi era invece tornato passando dalla piazza Sennàja, situata completamente fuori dalla sua strada. Non che fosse un gran giro, ma era del tutto superfluo. Certo, gli era successo altre decine di volte di tornare a casa senza nemmeno ricordare le vie percorse; ma perché - doveva domandarsi poi per sempre -, perché quell'incontro così importante, così decisivo per lui, e insieme così estremamente fortuito, lì in piazza Sennàja dove non aveva nessun motivo di andare, perché quell'incontro proprio in quell'ora, in quel minuto della sua vita, e proprio mentre lui era in quello stato d'animo, e proprio nelle circostanze in cui poteva esercitare la più decisiva, definitiva influenza sul suo destino? Come se lo stesse aspettando lì, al varco, a bella posta! 
 Erano circa le nove quando attraversò la piazza Sennàja. Tutti i venditori delle bancarelle, delle ceste, delle botteghe e delle bottegucce, stavano chiudendo: riponevano la mercanzia e se ne andavano a casa, esattamente come i loro clienti. Accanto alle bettole seminterrate, nei sudici e puzzolenti cortili delle case di piazza Sennàja, e ancor più accanto alle osterie, si affollavano rivenduglioli e cenciaioli d'ogni specie. Raskòlnikov, quando usciva senza una meta precisa, era attirato soprattutto da quei luoghi e da tutti i vicoli adiacenti. Lì gli stracci che indossava non attiravano la sprezzante attenzione d'alcun passante; si poteva andare in giro vestiti in qualsiasi modo senza scandalizzare nessuno. Proprio all'angolo del vicolo K., un bottegaio e una contadina, sua moglie, tenevano la loro merce disposta su due tavoli: filo da cucire, nastri, fazzoletti di percalle ecc. Anche loro stavano preparandosi per andare a casa, ma indugiavano discorrendo con una conoscente che s'era avvicinata. Costei era Lizavèta Ivànovna, o semplicemente, come tutti la chiamavano, Lizavèta, sorella minore di quella tal vecchia Alëna Ivànovna, moglie di un impiegato del registro e usuraia, dalla quale il giorno prima Raskòlnikov era andato a impegnare l'orologio e a fare la sua prova... Già da un pezzo egli sapeva tutto sul conto di questa Lizavèta, e anche lei lo conosceva un poco. Era una zitella alta e goffa, timida e buona, quasi un'idiota, sui trentacinque anni, che viveva in casa della sorella in condizioni di vera e propria schiavitù, lavorava per lei giorno e notte, tremava al suo cospetto e si lasciava perfino picchiare. Ora se ne stava lì tutta pensosa, con un fagotto in mano, davanti al bottegaio e alla donna, ascoltandoli attentamente. I due le stavano spiegando qualcosa con molto calore. Quando Raskòlnikov la vide, una sensazione curiosa, simile a profondissima meraviglia, s'impossessò di lui, benché in quell'incontro non vi fosse nulla di così sorprendente. 
 «Voi, Lizavèta Ivànovna, dovreste decidere da sola,» diceva forte il bottegaio. «Venite domani verso le sette. Ci saranno anche gli altri.» 
  «Domani?» fece Lizavèta strascicando le parole, e riflettendo, come se non sapesse decidersi. 
 «Che paura vi ha messo addosso quella Alëna Ivànovna!» prese a cicalare la moglie del bottegaio, una donnetta vivace. «A guardarvi, sembrate una bambina. Non è vostra sorella carnale, è una sorellastra, eppure vi comanda a bacchetta.» 
 «Per questa volta, non dite niente a Alëna Ivànovna,» la interruppe il marito. «Ecco il mio consiglio: venite a trovarci senza avvertirla. È un buon affare. Poi, vostra sorella lo capirà da sola.» 
  «Allora, devo proprio venire?» 
 «Domani alle sette; verrà anche qualcuno di loro; e decidete da sola, questa volta.»  «Prenderemo il tè,» aggiunse la moglie. 
  «Va bene, verrò,» disse Lizavèta, e si mosse lentamente, come se stesse ancora riflettendo. 
 Raskòlnikov era già passato oltre e non poté sentire altro. Era passato in silenzio, inosservato, cercando di non perdere una sola parola di quanto andavano dicendo. La sua meraviglia iniziale s'era trasformata pian piano in orrore, come se un brivido di freddo gli fosse sceso per la schiena. D'un tratto era venuto a sapere, in modo del tutto fortuito e imprevisto, che il giorno seguente, alle sette di sera precise, Lizavèta, sorella della vecchia e unica persona che abitasse con lei, non si sarebbe trovata a casa, e che dunque la vecchia, alle sette di sera precise, sarebbe rimasta sola in casa. Per arrivare a casa gli mancavano pochi passi. Quando entrò, si sentiva come un condannato a morte. Non pensava a nulla, non era assolutamente in grado di pensare, ma d'un tratto si sentì come se avesse perso ogni libertà di ragionamento e ogni forza di volontà e tutto si fosse deciso di colpo una volta per sempre. 
 Anche se avesse atteso per anni e anni l'occasione propizia, con un piano ben preciso in mente, anche così non avrebbe mai potuto contare su una circostanza più favorevole alla riuscita del piano di quella che gli si offriva adesso. Sarebbe stato ben difficile venire a sapere alla vigilia, con la massima precisione e con il minimo rischio, senza nessuna pericolosa domanda o investigazione, che il giorno dopo, a una data ora, la vecchia alla cui vita si intendeva attentare sarebbe rimasta in casa completamente sola. 



 In seguito, Raskòlnikov riuscì per caso a sapere perché il bottegaio e la donna avevano invitato Lizavèta a casa loro. Si trattava di una cosa normalissima, non c'era niente di speciale. Una famiglia venuta da fuori e caduta in miseria vendeva vestiti e altro, tutta roba da donna. Dato che vendere sul mercato non conveniva, cercavano una rivenditrice, ed era proprio questo il mestiere di Lizavèta: prendeva roba da vendere su commissione e si dava da fare; aveva una clientela numerosa perché era molto onesta e diceva subito l'ultimo prezzo: una volta che l'aveva detto, era quello. Di solito parlava poco e, come s'è detto, era estremamente sottomessa e timorosa... 
 Ma Raskòlnikov, negli ultimi tempi, era diventato superstizioso. Tracce di superstizione rimasero in lui, poi, ancora per molto tempo, quasi indelebili. E in tutta quella faccenda egli fu sempre incline a vedere un che di strano, di misterioso, la presenza di certi particolari influssi e coincidenze. Già durante l'inverno uno studente di sua conoscenza, Pòkorev, che partiva per Charkòv, gli aveva comunicato, parlando del più e del meno, l'indirizzo della vecchia Alëna Ivànovna, nel caso che dovesse impegnare qualche oggetto. Per molto tempo Raskòlnikov non c'era andato, dato che in quel periodo aveva delle ripetizioni e riusciva, in un modo o nell'altro, a sbarcare il lunario. Poi, un mese e mezzo prima, si era ricordato di quell'indirizzo; aveva due oggetti che potevano essere impegnati: il vecchio orologio d'argento del padre e un piccolo anellino d'oro con tre pietruzze rosse che gli aveva donato sua sorella, per ricordo, al momento degli addii. Aveva deciso di impegnare l'anellino; una volta arrivato dalla vecchia, subito sin dal primo sguardo, senza an  cora sapere nulla di preciso sul suo conto, aveva provato per lei una ripugnanza invincibile. Ne aveva avuto due «bigliettini»; e al ritorno, strada facendo, era entrato in una trattoriuccia d'infimo ordine. Aveva ordinato del tè, s'era seduto e subito s'era sprofondato nei pensieri. Una strana idea gli si andava formando nella mente, come un pulcino nell'uovo, e lui l'accarezzava con grande, grandissima curiosità. 
 Non lontani da lui a un altro tavolino, sedevano uno studente, che egli non conosceva o di cui non si ricordava affatto, e un giovane ufficiale. Dopo aver fatto una partita al biliardo, s'erano messi a bere il tè. A un tratto udì lo studente parlare all'ufficiale di un'usuraia, Alëna Ivànovna, vedova di un segretario di collegio, e darne l'indirizzo. Il fatto sembrò a Raskòlnikov piuttosto strano: egli ne veniva proprio ora, e qui si parlava nuovamente di lei. Certo, un puro caso; ma ecco che lui non riusciva a liberarsi da un'impressione singolare, ed ecco che qualcuno sembrava far di tutto per accrescerla: lo studente, a un tratto, aveva cominciato a riferire al suo compagno vari particolari su questa Alëna Ivànovna. 
 «È in gamba, non c'è che dire, si riesce sempre ad avere qualcosa da lei. È ricca come un ebreo, potrebbe anche darti cinquemila rubli tutti in una volta, ma non disprezza nemmeno un pegno da un rublo. Molti dei nostri sono passati per le sue mani. Però è una vera strega...» 
 E s'era messo a raccontare quanto fosse cattiva, capricciosa, e come bastasse il ritardo di un solo giorno nel riscatto del pegno perché l'oggetto andasse perduto. Dava quattro volte meno del prezzo reale dell'oggetto, e prendeva il cinque e perfino il sette per cento di interesse al mese, e così via. Lo studente si era messo a chiacchierare, e aveva finito col dire anche che la vecchia aveva una sorella, Lizavèta, che lei, così piccola e grama, picchiava continuamente e comandava a bacchetta, come se fosse una bambina, mentre Lizavèta era alta a dir poco un metro e ottanta... 
  «E anche lei è un vero fenomeno!» aveva esclamato lo studente, mettendosi a ridere. 
 Così s'era messo a parlare di Lizavèta. Lo studente raccontava di lei con un piacere tutto particolare e non faceva che ridere, mentre l'ufficiale ascoltava con grande interesse, e aveva pregato lo studente di mandargli questa Lizavèta per farle rammendare la biancheria. Raskòlnikov non aveva perso una sola parola di quanto avevano detto, e aveva saputo tutto: Lizavèta era la sorella minore della vecchia, anzi una sorellastra, figlia di un'altra madre, e aveva già trentacinque anni. Lavorava per la vecchia giorno e notte, le faceva da cuoca e da lavandaia, e inoltre cuciva indumenti che poi mettevano in vendita, e andava perfino a lavare i pavimenti in casa altrui, e ogni guadagno lo consegnava alla sorella. Non osava assumere nessuna ordinazione e nessun lavoro senza l'autorizzazione della vecchia. Questa aveva già fatto testamento, cosa che Lizavèta sapeva, e a lei non sarebbe toccato nemmeno un soldo, niente tranne le masserizie, le sedie e robetta del genere; i soldi erano destinati tutti a un convento, situato nella provincia di N., a eterno suffragio della sua anima. Quanto a Lizavèta, figlia di piccoli mercanti e non di funzionari, era una zitella terribilmente malfatta, di altissima statura, con certi piedacci lunghi e un po' rivolti in fuori che teneva sempre infilati dentro scarpe di pelle di capretto tutte scalcagnate. Tuttavia, curava la pulizia personale. Ma la cosa più notevole, che meravigliava e faceva ridere lo studente, era che Lizavèta restava continuamente incinta... 
  «Ma non hai detto che è brutta come un mostro?» aveva chiesto l'ufficiale. 
 «Be', è così scura di pelle che sembra un soldato travestito; però, sai, non è affatto un mostro. Il viso e gli occhi sono dolci, molto dolci. Prova ne sia che piace a tanti. È così tranquilla, mite, docile, sottomessa, sempre pronta a tutto! E ha un bellissimo sorriso.»  «Si direbbe che piace anche a te...» aveva osservato l'ufficiale ridendo. 
 «Per la sua stranezza. Piuttosto, sai che ti dico? Io quella maledetta vecchia l'ucciderei e la deruberei e, te lo assicuro, senza il minimo rimorso,» aveva detto lo studente accalorandosi. 
 Di nuovo l'ufficiale era scoppiato a ridere, mentre Raskòlnikov trasaliva. Com'era strano tutto ciò! 
 «Senti, voglio farti una domanda seria,» aveva aggiunto lo studente, infervorandosi sempre più. «Certo, io stavo scherzando, ma pensa un po': da un lato, una vecchietta insulsa, assurda, miserabile, cattiva, malata, che non è utile a nessuno, anzi, è dannosa a molti, che non sa lei stessa perché vive, e che comunque presto morirà. Capisci? Eh?» 
 «Capisco, capisco,» aveva risposto l'ufficiale, fissando attentamente il suo infervorato compagno. 
 «E adesso sentimi bene. Dall'altro lato, abbiamo energie giovani, fresche, che vanno in malora, così senza nessun appoggio, a migliaia; e questo succede dappertutto! Cento, mille opere e iniziative buone si potrebbero avviare e realizzare con i soldi della vecchia, che invece li ha destinati a un monastero! Centinaia, forse migliaia di esistenze indirizzate sul giusto cammino; decine di famiglie salvate dalla miseria, dalla disgregazione, dalla rovina, dalla corruzione, dalle malattie veneree, e tutto col suo denaro. Ammazzala, prendi i suoi soldi e poi, con essi, mettiti al servizio dell'umanità e della causa comune: non credi che un piccolo delitto sarebbe compensato, in questo modo, da migliaia di buone azioni? Per una sola vita, migliaia di vite salvate dal marciume e dalla rovina. Una sola morte, e cento vite in cambio: ma questa è matematica! Che cosa conta, sulla bilancia collettiva, la vita di quella vecchietta tisica, stupida e malvagia ? Non più della vita di un pidocchio, di uno scarafaggio, anzi meno, perché la vecchia è dannosa. Rovina la vita agli altri: giorni fa, per la rabbia, ha morsicato un dito a Lizavèta; per poco non gliel'hanno dovuto amputare!» 
  «Certo è indegna di vivere,» aveva osservato l'ufficiale, «ma qui entra in ballo la natura.» 
 «Eh, mio caro, la natura si può correggere e dirigere, se no affonderemmo nei pregiudizi. Non ci sarebbe mai stato nessun grand'uomo, se no... Si dice: ‹il dovere, la coscienza›; e io non ho niente da dire contro il dovere e la coscienza, ma come li intendiamo, noialtri? Aspetta, ti farò ancora una domanda. Ascolta!» 
  «No, aspetta tu; te la farò io una domanda. Ascolta!» 
  «Va bene, ti ascolto.» 
 «Ecco, tu te ne stai qui a parlare e a predicare, ma dimmi un po': tu stesso la uccideresti quella vecchia, oppure no.» 
  «Certo che no! Io parlo in nome della giustizia... Non si tratta della mia persona...» 
 «Secondo me, invece, visto che tu non ne hai il coraggio, la giustizia non c'entra affatto! Su, facciamo un'altra partita!» 
 Raskòlnikov era in uno stato di tremenda agitazione. Certo, quelli erano discorsi assai comuni, già più d'una volta ne aveva sentiti di simili, seppure in altre forme e su altri temi; discorsi e pensieri assai comuni e frequenti fra i giovani. Ma perché gli era capitato di sentire proprio in quel momento un discorso simile, simili pensieri, proprio mentre stavano germogliando nella sua mente?... esattamente gli stessi pensieri? Perché proprio in quel momento, mentre lui si portava dietro quell'embrione d'idea dalla casa della vecchia, gli era capitato d'imbattersi in un discorso sulla stessa persona?... La coincidenza gli parve sempre, in seguito, molto strana. Quell'insignificante discorso di trattoria ebbe un'influenza straordinaria su di lui per tutto il corso ulteriore della vicenda: come se effettivamente ci fosse stata, in esso, una specie di predeterminazione, di indicazione... 

 Tornato da piazza Sennàja, si gettò sul divano e vi rimase un'ora intera senza muoversi. Intanto s'era fatto buio; non aveva candele, né gli veniva in mente di accenderne. In seguito non riuscì a ricordare: aveva pensato a qualcosa in tutto quel tempo? Alla fine sentì di nuovo la febbre, accompagnata da brividi, e si rese conto con sollievo che sul divano poteva anche distendersi. Ben presto un sonno profondo calò su di lui come una cappa di piombo. 
 Dormì straordinariamente a lungo e senza sogni. Nastàsja, entrata da lui alle dieci della mattina dopo, riuscì a fatica a svegliarlo a furia di scossoni. Gli aveva portato del tè e del pane. 
Anche questa volta il tè era debole, e la teiera era sempre quella di Nastàsja. 
  «Guardalo come dorme!» esclamò lei indignata. «Non fa altro che dormire!» 
 Egli si sollevò con un certo sforzo. Gli doleva la testa; si alzò in piedi, fece qualche passo per il suo stambugio e ricadde sul divano. 
  «Di nuovo a dormire!» gridò Nastàsja. «Ma di', sei forse malato?»  Lui non rispose. 
  «Vuoi del tè?» 
  «Dopo,» mormorò a stento, chiudendo di nuovo gli occhi e voltandosi verso la parete. 
Nastàsja rimase qualche istante a osservarlo. 
  «Forse sei malato davvero,» disse, poi si volse e uscì. 
 Entrò nuovamente alle due, con la minestra, e lo trovò disteso come prima. Il tè non era stato toccato. Nastàsja parve addirittura offesa, e cominciò a scuoterlo con rabbia. 
 «Sempre a ronfare!» esclamò, guardandolo con disgusto. Egli si sollevò e si mise a sedere, ma non disse nulla: fissava il pavimento. 
  «Ma insomma, sei malato o no?» domandò Nastàsja e di nuovo non ebbe risposta. 
  «Se almeno uscissi,» gli disse dopo un istante di silenzio, «a prendere un po' d'aria... 
Mangerai, almeno?» 
  «Dopo. Adesso vattene!» proferì lui con voce fiera e con un gesto infastidito. 
  Lei rimase lì ancora un po', guardandolo con compassione, poi uscì. 
 Dopo pochi minuti, egli sollevò gli occhi e osservò a lungo il tè e la minestra. Poi spezzò il pane, prese il cucchiaio e cominciò a mangiare. 
 Mangiò poco e senza appetito, tre, quattro cucchiaiate in tutto, inghiottite macchinalmente. Il mal di testa era diminuito. Dopo aver mangiato tornò a stendersi sul divano, ma non riuscì più ad addormentarsi: stava a giacere immobile, bocconi, col viso affondato nel cuscino. Continuava a sognare, ed erano sempre sogni strani: perlopiù gli sembrava di trovarsi in Africa, in Egitto, in un'oasi. La carovana riposa, i cammelli sono tranquillamente sdraiati; intorno crescono in cerchio le palme: tutti stanno mangiando. Lui, invece, non fa che bere acqua, direttamente da un ruscello, che scorre mormorando proprio lì, di lato. E fa tanto fresco, con la fredda acqua azzurrina che corre sulle pietre variopinte e su una sabbia pulita, dai riflessi dorati... A un tratto, sentì chiaramente battere le ore. Sussultò, si svegliò, alzò il capo, guardò dalla finestra, pensò che ora potesse essere, e improvvisamente balzò in piedi, tornato del tutto in sé, come se qualcuno lo avesse strappato dal divano. In punta di piedi si avvicinò alla porta, la socchiuse pian piano e tese l'orecchio verso il fondo della scala. Gli batteva terribilmente il cuore. Ma sulla scala c'era un silenzio assoluto, come se tutti fossero immersi nel sonno... Gli parve strano e assurdo aver dormito come un sasso dal giorno prima e non aver ancora fatto niente, preparato niente... E intanto, forse, eran già suonate le sei... Improvvisamente s'impadronì di lui, prendendo il posto del sonno e dell'intontimento, uno straordinario, febbrile affanno, misto a smarrimento. D'altra parte i preparativi da fare non erano poi molti. Concentrò tutte le sue forze per pensare a ogni cosa e non tralasciare niente; il cuore gli martellava in petto, tanto che provava difficoltà a respirare. In primo luogo, occorreva fare un cappio e cucirlo al cappotto: questione di un minuto. Frugò sotto il cuscino, e dalla biancheria che aveva ficcato Iì tirò fuori una camicia vecchia, sporca, completamente a brandelli. Da quei brandelli strappò una striscia larga circa quattro centimetri e lunga otto. Piegò la striscia in due, si tolse di dosso il suo ampio soprabito estivo, fatto di un tessuto di spesso, robusto cotone (non ne possedeva altri) e prese a cucire i due capi della striscia sotto l'ascella sinistra, dalla parte interna. Nel cucire le mani gli tremavano, tuttavia riuscì a farcela, così che quando si rimise il soprabito, dall'esterno non si vedeva nulla. L'ago e il filo li aveva già preparati molto tempo prima: erano nel cassetto del tavolino, avvolti in un pezzetto di carta. Quanto al cappio, si trattava di una trovata ingegnosa e tutta sua: doveva servire a reggere la scure. Non si poteva certo camminare per la strada con una scure in mano. Anche nascondendola sotto il soprabito, la si sarebbe pur sempre dovuta sostenere con una mano, cosa che qualcuno avrebbe potuto notare. Così, invece, col cappio, bastava infilarci la lama della scure ed essa sarebbe rimasta appesa lì dentro, sotto l'ascella, per tutta la strada. Inoltre, infilando la mano nella tasca laterale del soprabito avrebbe potuto sostenere l'estremità del manico della scure perché non ballonzolasse, e siccome il soprabito era molto ampio, un vero sacco, nessuno avrebbe potuto notare che egli sorreggeva qualcosa con la mano attraverso la tasca. Anche il cappio l'aveva escogitato già due settimane prima. 
 Terminati questi preparativi, infilò le dita nell'angusto spazio tra il suo divano alla turca e il pavimento, frugò nell'angolo di sinistra e ne tirò fuori il pegno, che aveva preparato e aveva nascosto lì già da un pezzo. Questo pegno, in verità, non era affatto un pegno, ma una semplice tavoletta di legno, piallata liscia, non più grande né più spessa di quanto avrebbe potuto essere un portasigarette d'argento. L'aveva trovata per caso, durante una delle sue passeggiate, in un cortile dove, dentro una baracca, c'era non so che laboratorio. Alla tavoletta aggiunse ancora una lamina di ferro liscia e sottile - doveva essersi staccata da qualche oggetto - trovata anch'essa per la strada. Sovrappose le due tavolette - quella di ferro era più piccola di quella di legno -, le legò insieme solidamente, a croce, con un filo, poi le avvolse in un foglio di carta bianca pulito, con accurata eleganza, legandolo in modo che fosse difficile sciogliere il nodo. Questo allo scopo di distrarre per un po' l'attenzione della vecchia, quando avesse cominciato a darsi da fare con l'involto, e poter così cogliere l'attimo giusto. Quanto alla piastrina di ferro, era stata aggiunta per aumentare il peso, perché la vecchia non indovinasse subito che 1'«oggetto» era di legno. Tutte queste cose le aveva nascoste sotto il divano, in attesa del momento propizio. Aveva appena preso in mano il «pegno» quando, a un tratto, in qualche parte del cortile echeggiò una voce: 
  «Le sei son già passate da un pezzo.» 
  «Da un pezzo!... Dio mio!» pensò Raskòlnikov. 
 Si lanciò verso la porta e stette ad ascoltare; poi afferrò il cappello e cominciò a scendere i tredici gradini, cautamente, silenziosamente, come un gatto. Adesso veniva la parte più importante: rubare la scure in cucina. Che quella cosa dovesse esser fatta con la scure, l'aveva già deciso da molto. Possedeva un coltello a serramanico, da giardiniere, ma sul coltello e soprattutto sulle proprie forze non faceva affidamento, perciò aveva deciso, una volta per tutte, di usare la scure. È interessante, a questo proposito, considerare il carattere di tutte le decisioni «definitive» già prese da Raskòlnikov. Avevano una strana proprietà: non appena diventavano definitive, subito gli sembravano assurde e mostruose. A dispetto dei suoi tormentosi sforzi interiori, mai, nemmeno per un solo istante, si era sentito del tutto convinto dell'attuabilità del suo progetto. 
 Anzi, se a un certo punto si fosse trovato ad aver esaminato e definitivamente deciso tutto sino all'ultimo particolare, tutto senza il minimo dubbio, proprio allora, forse, vi avrebbe rinunciato come a qualcosa di assurdo, di mostruoso e d'impossibile. Senonché, di punti insoluti e incerti ce n'era ancora un'infinità. Dove trovare la scure era un'inezia che non lo preoccupava affatto: non c'era nulla di più facile. Nastàsja, infatti, specialmente di sera, usciva ogni momento: faceva una corsa dai vicini, oppure al negozietto, sempre lasciando la porta spalancata dietro di sé. La padrona bisticciava sempre con lei per questa ragione. Così, non c'era che da entrare silenziosamente in cucina, al momento opportuno, e prendere la scure; poi, un'ora dopo, quando ogni cosa fosse già finita, rientrare e rimetterla a posto. Qualche dubbio, tuttavia, non mancava: un'ora dopo, tornando per rimettere a posto la scure, forse avrebbe trovato Nastàsja, rientrata nel frattempo. In questo caso avrebbe dovuto passare oltre, e aspettare che lei uscisse di nuovo. E se, intanto, le fosse servita la scure, se avesse cominciato a cercarla e magari si fosse messa a gridare... ecco già un sospetto, o per lo meno la possibilità di un sospetto. 
 Ma erano, questi, dettagli cui non aveva ancora nemmeno cominciato a pensare. Del resto, gliene mancava il tempo. Pensava all'essenziale, e rimandava le minuzie al momento in cui si fosse veramente convinto. Cosa che non sembrava affatto possibile. Così credeva, almeno. Non riusciva nemmeno a immaginare, per esempio, che un bel giorno avrebbe smesso di pensarci su, si sarebbe alzato e così, semplicemente, sarebbe andato là... Perfino la sua recente prova (cioè la visita fatta allo scopo di esaminare definitivamente il posto) egli aveva provato a farla, tutt'altro che sul serio, ma solo così, per fare: «Coraggio, invece di fantasticare tanto, facciamo questa prova!» E aveva resistito ben poco: ci aveva sputato su ed era fuggito, furioso contro se stesso. Eppure il problema morale l'aveva già analizzato, si sarebbe detto, e persino risolto: la sua casistica s'era affilata come un rasoio, ed egli stesso non riusciva più a trovare, dentro di sé, obiezioni coscienti. Tuttavia, al limite, finiva per non credere neanche a se stesso, e s'ostinava a cercare nuove obiezioni, alla disperata, come costretto e spinto a farlo da qualcuno. Ma poi, il giorno prima, il sopraggiungere improvviso della decisione finale aveva agito su di lui in maniera quasi del tutto meccanica: come se lo avessero preso per mano e trascinato irresistibilmente, ciecamente, con forza soprannaturale, senza dargli modo di obiettare più nulla. Come se un lembo del suo vestito si fosse impigliato nella ruota d'una macchina, ed egli stesso avesse cominciato ad esservi tirato dentro. 
 Dapprincipio - già da molto tempo, ormai - si era posto una domanda: perché quasi tutti i delitti vengono a galla e si scoprono così facilmente, e perché quasi tutti i criminali lasciano dietro di sé tracce così visibili? Le conclusioni alle quali, a poco a poco, era giunto erano molteplici e bizzarre. Secondo lui, la ragione principale non consisteva tanto nella impossibilità materiale di celare il delitto, quanto nello stesso delinquente, il quale - e questo valeva quasi per tutti - al momento del crimine subisce una specie di indebolimento della volontà e dell'intelletto che vengono invasi da una puerile e fantastica leggerezza; e questo proprio nel momento in cui assennatezza e prudenza sono più che mai necessarie. Raskòlnikov era convinto che questo ottenebramento della ragione e questa paralisi della volontà s'impadroniscono dell'uomo come una malattia, si sviluppano gradualmente e raggiungono il loro acme poco prima che venga commesso il delitto; persistono nel tempo necessario al suo compimento e anche un po' di più, a seconda degli individui, dopo di che passano, come passa qualsiasi altra malattia. Quanto alla domanda: è la malattia a causare il delitto, oppure è il delitto che, per sua particolare natura, è sempre accompagnato da quella specie di malattia? - non si sentiva ancora in grado di rispondervi. 
 Stabilite queste premesse, aveva deciso che, per quanto riguardava lui personalmente, nella faccenda non avrebbero potuto verificarsi sconvolgimenti morbosi di quella specie; che egli avrebbe conservato la ragione e la volontà del tutto inalterate durante l'intera esecuzione del suo progetto: e questo per il semplice motivo che il suo «non era un delitto»... Tralasciamo tutto il processo mentale attraverso il quale era arrivato a questa conclusione; già così, abbiamo precorso fin troppo gli eventi... Aggiungeremo solo che le difficoltà puramente materiali dell'impresa rivestivano, nella sua mente, un'importanza del tutto secondaria. «Basta conservare il dominio completo della volontà e della ragione e, a suo tempo, saranno tutte superate, via via che mi si porrà davanti ogni singolo particolare dell'impresa...» Tuttavia, il momento in cui l'impresa doveva mettersi in moto non veniva mai. A niente egli credeva così poco come alle sue decisioni definitive; in effetti, quando il momento venne, tutto si svolse in modo completamente diverso, quasi fortuito e addirittura inaspettato. 
 Per una circostanza apparentemente trascurabile venne a trovarsi subito, prima ancora d'essere arrivato in fondo alla scala, in una specie di vicolo cieco. Giunto all'altezza della cucina della padrona di casa, che come sempre aveva la porta spalancata, sbirciò dentro cautamente per un rapido esame preventivo: anche se non c'era Nastàsja, poteva darsi che, per caso, ci fosse la stessa padrona; e comunque, se non c'era, era necessario assicurarsi che fosse ben chiuso l'uscio della sua stanza, in modo che lei non potesse vederlo mentre prendeva la scure. Ma quale fu la sua meraviglia quando, di colpo, s'accorse che Nastàsja non solo questa volta era in casa, in cucina, ma per di più era anche intenta a lavorare: stava togliendo della biancheria da una cesta e la stendeva su una corda! Vedendolo, interruppe il suo lavoro, si volse verso di lui e lo seguì con lo sguardo mentre passava. Egli distolse il suo sguardo e finse di ignorarla. Ma l'impresa, ormai, era fallita! Niente scure! La sua costernazione non avrebbe potuto esser più grande. 
 «Che cosa mai mi faceva credere,» pensava avvicinandosi al portone, «che cosa mai mi faceva credere che lei, in quel momento, non sarebbe stata in casa? Perché, dunque, ne ero così sicuro?» Si sentiva distrutto, quasi umiliato. Avrebbe voluto ridere di se stesso, per rabbia... Si sentiva ribollire dentro. Una collera sorda, bestiale. 
 Si fermò, incerto, sotto il portone. Uscire per la strada, far finta di passeggiare, questo davvero non gli andava; tornare a casa, peggio ancora. «Che occasione perduta per sempre!» mormorò, restando lì senza scopo sotto il portone, proprio di fronte allo stanzino buio del portinaio che aveva, anch'esso, la porta aperta. A un tratto sussultò. Lì nello stanzino del portinaio, a due passi da lui, sotto una panca, sulla destra, un luccichio aveva attirato il suo sguardo... Si guardò attorno: nessuno. In punta di piedi s'avvicinò alla portineria, e a bassa voce chiamò il portinaio. «Ecco: non c'è! Però potrebbe essere vicino in cortile, perché la porta è spalancata.» Si precipitò sulla scure (era proprio una scure), la trasse da sotto la panca, dove era stata abbandonata tra due pezzi di legno; e lì sul posto, senza uscire dallo stanzino, la assicurò al cappio, ficcò le mani in tasca, poi lasciò la portineria; nessuno lo aveva visto! «Se non t'aiuta il cervello, ti aiuta il diavolo,» pensò, con uno strano sorriso. Quel ch'era successo lo aveva straordinariamente rinfrancato. 
 Ora camminava per la strada tranquillo e senza affrettarsi, con aria posata, per non destare sospetti. Guardava poco i passanti, anzi cercava di non guardarli affatto e di passare più inosservato che poteva. A questo punto si ricordò del suo cappello. «Dio mio! L'altro ieri avevo i soldi, e non ho pensato a cambiarlo con un berretto!» Un'imprecazione gli salì alle labbra. 
 Gettata casualmente un'occhiata in una botteguccia, vide che l'orologio a muro segnava già le sette e dieci. Doveva affrettarsi; però, nello stesso tempo, era necessario arrivare alla casa da un'altra parte, facendo un giro... 
 In passato, quando aveva cercato di immaginare come tutto questo si sarebbe svolto, qualche volta aveva pensato che avrebbe provato una gran paura. Adesso, invece, non ne aveva molta; anzi, non ne aveva affatto. Si distraeva per fino - anche se sempre per brevi momenti - in certi pensieri che non c'entravano affatto. Passando davanti al parco Jussupov, si trovò a pensare come sarebbe stato bello che ci fossero delle fontane con lo zampillo molto alto, e a come avrebbero piacevolmente rinfrescato l'aria in tutte le piazze. Poi iniziò un intero ragionamento sul fatto che se il Giardino d'Estate si fosse esteso a tutto il Campo di Marte, unendosi magari al giardino del palazzo Michàjlovskij, sarebbe stata una cosa magnifica e utilissima per tutta la città. A questo punto si pose un quesito interessante: perché in tutte le grandi città l'uomo, non per pura necessità, ma per una specie di curiosa inclinazione, è portato a vivere e a stabilirsi prevalentemente in quelle parti della città dove non esistono né giardini né fontane, dove regnano il fango, la puzza e ogni genere di porcherie. Per associazione di idee pensò alle sue passeggiate in piazza Sennàja, e di colpo tornò in sé. «Che cose assurde!» si disse. «Meglio non pensare a nulla!» 
 «Ecco, dev'essere così che i condannati portati al patibolo si aggrappano con il pensiero a tutto ciò che incontrano lungo il cammino,» gli balenò per la mente, ma fu solo un baleno, un pensiero guizzante che egli stesso si affrettò a spegnere... 
 Ma eccolo già quasi arrivato, ecco la casa, ecco anche il portone. Da qualche parte, un orologio batté improvvisamente un colpo. «Già le sette e mezzo? Possibile? Non può essere, andrà avanti!» 
 Per sua fortuna, al portone gli andò di nuovo tutto liscio. Non solo, ma neanche a farlo apposta, proprio in quell'istante entrava dinanzi a lui un enorme carico di fieno, che lo nascose completamente mentre attraversava l'androne, e non appena il carro fu entrato nel cortile egli sgusciò in un baleno verso destra. Là, dall'altra parte del carro, si udivano parecchie voci gridare e discutere, ma nessuno si accorse di lui e nessuno gli si parò dinanzi. Numerose finestre, che davano sull'enorme cortile quadrato, in quel momento erano aperte, ma egli non sollevò il capo: non ne aveva la forza. La scala che portava all'appartamento della vecchia era subito lì, a destra del portone. Eccolo già sulla scala... 
 Riprendendo fiato, si mise una mano sul cuore in tumulto, e ne approfittò per tastare e dare ancora una volta un'aggiustatina alla scure; poi cominciò a salire la scala cautamente e senza far rumore, tendendo ogni momento l'orecchio. Ma anche la scala, a quell'ora, era deserta; tutte le porte erano chiuse ed egli non incontrò nessuno. Al secondo piano, è vero, l'uscio di un appartamento vuoto era spalancato, e dentro stavano lavorando degli imbianchini, ma anche quelli non fecero caso a lui. Egli sostò qualche istante riflettendo, poi proseguì. «Certo sarebbe stato meglio che non ci fossero; però, sopra di loro, ci sono altri due piani.» 
 Ma ecco anche il quarto piano, ecco la porta, ecco l'appartamento di fronte, quello vuoto. Al terzo piano, a giudicare dalle apparenze, l'appartamento immediatamente sottostante quello della vecchia era vuoto anch'esso: il biglietto da visita, fissato alla porta con dei chiodini, era stato tolto: partiti!... Si sentiva soffocare. Per un attimo si chiese: «E se me ne andassi?» Ma non si diede risposta, e cominciò a tendere l'udito verso l'appartamento della vecchia: silenzio di tomba. Poi si pose di nuovo in ascolto verso il basso, verso la scala; ascoltò a lungo, attentamente... Poi, guardatosi attorno per l'ultima volta, si riassettò, e tastò ancora una volta la scure dentro al cappio. «Non sarò pallido... molto pallido?» pensava. «Non avrò l'aria agitata? Lei è diffidente.. Non sarebbe meglio aspettare... finché il cuore non la smette di far così?...» 
 Ma il cuore non la smetteva, come a far apposta, martellava sempre più forte, sempre più forte, sempre più forte... Raskòlnikov non resse più: allungò lentamente la mano verso il campanello e suonò. Dopo mezzo minuto suonò di nuovo, un po' più forte. 
 Nessuna risposta. Suonare ancora era inutile, e non sarebbe parso normale. Sicuramente la vecchia si trovava in casa, ma era sospettosa e sola. Egli conosceva, almeno in parte, le sue abitudini... Ancora una volta appoggiò l'orecchio alla porta... O che i suoi sensi si fossero molto acuiti (cosa difficilmente supponibile), o che davvero i rumori giungessero molto distinti, fatto sta che d'un tratto egli percepì come il cauto muoversi di una mano presso la maniglia dell'uscio e un fruscio di vesti contro la porta. Una persona, invisibile, era ferma accanto alla serratura e, proprio come lui lì fuori, ascoltava da dentro, trattenendo il respiro e, probabilmente, appoggiando essa pure l'orecchio alla porta... 
 Egli si mosse a bella posta e borbottò qualcosa a voce piuttosto alta, per far vedere che non si nascondeva; poi suonò per la terza volta, ma piano, pacatamente, senza dar segno di impazienza. Ricordandosene, in seguito, con perfetta chiarezza - quell'istante gli restò impresso per sempre nella memoria - non riusciva a capire da dove gli fosse venuta tutta quella scaltrezza, tanto più che la sua mente pareva a tratti offuscarsi, e non sentiva quasi più il suo corpo... Un istante dopo, sentì che stavano aprendo. 



 Come l'altra volta, la porta si socchiuse lasciando apparire un piccolo spiraglio, e di nuovo due occhi pungenti e sospettosi lo fissarono dal buio. A questo punto Raskòlnikov si smarrì, e per poco non commise un grave errore. 
 Temendo che la vecchia si spaventasse nel vedersi sola con lui, e poco fiducioso che il suo aspetto le facesse cambiare idea, egli afferrò la porta e la tirò verso di sé, perché alla vecchia non venisse l'idea di chiudersi dentro di nuovo. Vedendo ciò, lei non tirò la porta nel senso opposto, verso di sé, ma nemmeno lasciò andare la maniglia, tanto che egli per poco non la trascinò fuori, sulla scala, aggrappata al battente. Vedendo poi che in questo modo lei bloccava la porta impedendogli di entrare, le andò direttamente addosso. Quella balzò da un lato, spaventata, fu lì lì per dire qualcosa, ma sembrò che non ci riuscisse, e lo guardava a occhi sbarrati. 
 «Buongiorno, Alëna Ivànovna,» cominciò a dire lui con la maggior disinvoltura possibile, ma la voce non gli obbedì, si spezzò e prese a tremare, «io vi... vi ho portato un oggetto... ma è meglio che andiamo di qua... verso la luce...» e, scostatala, senza attendere l'invito, entrò nella stanza. La vecchia gli corse dietro; le si era sciolta la lingua. 
  «Ma cosa volete?... Chi siete e che cosa cercate?» 
 «Ma come, Alëna Ivànovna... sono un vostro conoscente... Raskòlnikov... ecco, vi ho portato un pegno, come vi avevo detto l'altro giorno...» e intanto le tendeva il pacchetto. 
 La vecchia stava già per guardare l'oggetto, ma a un tratto cambiò idea e fissò dritto negli occhi l'intruso. Lo fissava attentamente, con espressione cattiva e sospettosa. Trascorse così circa un minuto; gli parve perfino di scorgere negli occhi di lei una specie di scherno, come se avesse già indovinato tutto. Raskòlnikov si sentiva smarrire, sentiva di avere quasi paura, tanto che se lei avesse continuato a fissarlo così un altro mezzo minuto, sarebbe scappato via. 
 «Ma che avete da guardarmi così? Non mi riconoscete, forse?» disse a un tratto, arrabbiandosi anche lui. «Se volete, prendetelo, se no andrò da qualcun altro; non ho tempo da perdere, io.» 
  Non aveva nemmeno pensato di dire così, gli era venuto di colpo, spontaneamente. 
  La vecchia si riscosse, come se il tono deciso del suo visitatore l'avesse rianimata. 
 «Ma, bàtjuška, perché arrivate così all'improvviso?... E questo cos'è?» domandò, guardando il pacchetto. 
  «Un portasigarette d'argento: ve l'avevo già detto l'altra volta.»  Lei tese la mano. 
 «Ma perché siete così pallido? E vi tremano le mani! Avete forse fatto un bagno freddo, bàtjuška?» 
 «È la febbre,» rispose lui bruscamente. «Si capisce che si è pallidi... quando non si ha niente da mangiare,» aggiunse, pronunciando a stento le parole. Di nuovo si sentiva venir meno le forze. Ma la risposta suonò verosimile; la vecchia prese in mano il pacchetto. 
 «Che cos'è?» domandò, dopo aver scrutato ancora una volta Raskòlnikov, e soppesando l'involto sulla mano. 
  «Un oggetto, un portasigarette... d'argento... Guardatelo.» 
  «Non si direbbe che è d'argento... e ci avete messo intorno tanta di quella carta...» 
 Cercando di slegare la cordicella, e voltandosi verso la finestra, verso la luce (tutte le finestre di casa erano chiuse, nonostante l'aria cattiva), lei si scostò completamente da lui, per pochi secondi, e gli girò la schiena. Raskòlnikov sbottonò il soprabito e liberò la scure dal cappio, ma non la tirò ancora fuori del tutto, continuò a sorreggerla, con la mano destra, sotto il soprabito. Si sentiva le mani estremamente deboli, e gli sembrava che s'intorpidissero e s'irrigidissero sempre di più. Temeva che la scure gli sfuggisse di mano e cadesse a terra... A un tratto, fu colto da una specie di capogiro. 
  «Ma guarda come l'ha legato!» esclamò con dispetto la vecchia, e fece per girarsi dalla sua parte. 
 Non c'era più un istante da perdere. Liberò completamente la scure, la brandì con tutt'e due le mani e rendendosi appena conto di ciò che faceva, quasi senza sforzo, quasi macchinalmente, la lasciò cadere sulla testa della vecchia col rovescio della lama. Aveva agito senza metterci forza, ma appena ebbe lasciato cadere la scure, subito sentì che la forza gli nasceva dentro. 
 Come sempre, la vecchia era spettinata. I capelli chiari, brizzolati e radi, unti, al solito, abbondantemente di grasso, erano attorcigliati in una treccina a coda di topo, e raccolti da un frammento di pettine di corno che le sporgeva sulla nuca. Il colpo la prese proprio in cima al cranio, anche a causa della sua bassa statura. Gettò un grido, ma molto fievole, e s'accasciò di colpo sul pavimento, avendo fatto appena in tempo a portarsi le mani alla testa. 
 In una mano continuava a stringere il «pegno». Allora la colpì con tutta la sua forza, una volta e poi un'altra ancora, sempre col rovescio della scure, e sempre sul cocuzzolo; il sangue sgorgò come da un bicchiere rovesciato e il corpo cadde, stramazzò supino. Egli si tirò indietro per lasciarlo cadere e subito si chinò sul viso di lei: era già morta. Gli occhi, sbarrati, sembravano sul punto di schizzar fuori, e la fronte e tutto il volto erano stravolti e deformati dallo spasimo. 
 Egli posò la scure sul pavimento, accanto alla morta, e immediatamente le ficcò una mano in tasca cercando di non sporcarsi col sangue che continuava a fluire: la tasca destra, quella dalla quale, la volta prima, lei aveva tirato fuori le chiavi. Era nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, obnubilazioni e capogiri eran cessati, però gli tremavano ancora le mani. In seguito ricordò quanto era stato preciso e guardingo, attento sempre a non sporcarsi... Le chiavi le trovò subito; tutte, come quella volta, erano in un solo mazzo, appese a un unico anello d'acciaio. Subito, tenendole in mano, corse nella stanza da letto. Era una camera molto piccola, con un enorme stipo pieno di icone. A ridosso dell'altra parete c'era un gran letto, pulitissimo, con una coperta di seta imbottita. Contro la terza parete c'era il comò; appena udì tintinnare le chiavi, fu preso da una specie di convulsione. Di nuovo provò il desiderio improvviso di lasciar perdere tutto e di andar via. Ma fu soltanto un attimo; era troppo tardi per ritirarsi. Stava perfino sorridendo di se stesso quando, a un tratto, lo colpì un altro pensiero inquietante. Ebbe la sensazione improvvisa che la vecchia potesse ancora esser viva e potesse, magari, tornare in sé. Lasciando le chiavi accanto al comò, corse indietro verso il corpo della vecchia, afferrò la scure e la brandì ancora una volta sopra la sua testa; tuttavia non la calò. Non c'era alcun dubbio: era morta. Chinatosi a esaminarla più da vicino, vide con chiarezza che il cranio era fracassato e perfino un po' distorto da un lato. Fu lì lì per toccarlo col dito, ma ritrasse la mano; era evidente anche così. Intanto il sangue aveva formato una pozza. D'un tratto notò che sul collo della vecchia c'era una cordicella; diede uno strattone, ma era robusta e non si rompeva; per di più era imbevuta di sangue. Provò a sfilarla dal seno, ma c'era qualcosa che lo impediva. Nella sua impazienza, fece per brandire un'altra volta la scure e recidere la cordicella lì sul corpo, con un colpo dall'alto, ma poi gli mancò il coraggio e faticosamente, sporcando le mani e la lama, dopo aver armeggiato per un paio di minuti riuscì a tagliare la cordicella, senza toccare il corpo con la scure, e a portar via tutto: non s'era sbagliato, c'era un borsellino. Alla cordicella erano appese due croci, una di legno di cipresso e una di rame, e una piccola immagine di smalto; ma insieme era appeso anche un borsellino scamosciato, bisunto, con la cerniera e un anellino d'acciaio. Il borsellino era pieno zeppo; Raskòlnikov se lo ficcò in tasca senza esaminarne il contenuto, le croci le gettò sul petto della vecchia e, presa questa volta con sé anche la scure, tornò di corsa nella stanza da letto. 
 Aveva una fretta tremenda, afferrò le chiavi e riprese ad armeggiare, ma sempre senza fortuna: non entravano nelle toppe. Le mani non gli tremavano poi tanto, eppure continuava a sbagliare: anche se, ad esempio, vedeva che la chiave non era quella, che non andava, la ficcava dentro egualmente. A un tratto si ricordò di una cosa, e capì che quella chiave grande, con l'ingegno dentato, che ballonzolava insieme alle altre chiavicine, non doveva assolutamente essere quella del comò (come già gli era venuto in mente la prima volta), bensì di qualche forziere, e che forse proprio in questo forziere stava nascosto tutto quanto. Subito, abbandonato il comò, si infilò sotto il letto, sapendo che di solito è lì che le vecchie tengono i forzieri. Proprio così: c'era un bauletto piuttosto grande, lungo un po' meno di un metro, con il coperchio ricurvo ricoperto di marocchino rosso e imbullettato con tante piccole borchie d'acciaio. La chiave dentata girò subito bene e aprì. Sopra, coperto da un lenzuolo bianco, c'era un pellicciotto di lepre foderato di rosso; sotto c'era un abito di seta, poi uno scialle, e più giù, sino al fondo, sembrava non ci fossero che stracci. Per un attimo fu lì lì per asciugarsi le mani, mi brattate di sangue, nella fodera rossa. «La stoffa è rossa, sul rosso il sangue si vedrà meno,» si trovò a pensare, ma poi, di colpo, tornò in sé: «Dio! Non starò diventando pazzo?» pensò spaventato. 
 Ma appena smosse glí stracci, subito, da sotto il pellicciotto, sgusciò fuori un orologio d'oro. Egli cominciò a mettere tutto a soqquadro. In effetti, agli stracci erano mischiati degli oggetti d'oroprobabilmente tutti pegni, non scaduti o già scaduti: braccialetti, catenelle, orecchini, spille ecc. Alcuni erano riposti in astucci, altri semplicemente impacchettati in carta da giornale, ma con gran cura, in fogli doppi, e legati tutt'attorno con dei cordoncini. Immediatamente cominciò a riempirsi le tasche dei calzoni e del- soprabito, senza esaminare né aprire i pacchetti e gli astucci; ma non ebbe il tempo di raccogliere gran che... 
 A un tratto, sentì camminare nella stanza dove giaceva la vecchia. Si fermò e rimase immobile, come morto. Ma tutto era silenzio, dunque gli era solo sembrato. Ma all'improvviso udì nettamente un lieve grido, come se qualcuno avesse emesso un gemito soffocato per poi azzittirsi. Di nuovo silenzio di tomba, per un minuto o due. Lui restava accovacciato vicino al baule e attendeva, respirando appena; poi d'un tratto balzò in piedi, afferrò la scure e uscì di corsa dalla stanza da letto. 
  In mezzo alla camera c'era Lizavèta, con un grosso fagotto in mano, e tutta bianca come un cencio lavato; come se non avesse la forza di gridare, guardava impietrita la sorella uccisa. Appena 
lo vide sbucare di corsa si mise a tremare come una foglia, di un tremito fitto fitto, mentre il volto le si contraeva convulsamente; sollevò un braccio e fece per aprire la bocca, ma non gridò; lentamente, a ritroso, cominciò ad allontanarsi da lui verso un angolo, e intanto lo guardava fisso; ma non gridava, come se non avesse più fiato in corpo. Egli si slanciò su di lei con la scure: le labbra le si storsero pietosamente come quelle dei bimbi molto piccoli, quando hanno paura di qualcosa e fissano l'oggetto che li impaurisce, sul punto di urlare. E quella povera Lizavèta era così semplice e sconvolta e terrorizzata a morte, che non alzò nemmeno le mani per difendersi il volto, sebbene in quell'istante fosse quello il gesto ovvio e naturale, dato che la scure era proprio sul suo volto. Si limitò a sollevare appena appena la mano sinistra, che era libera, ma non sino alla faccia: la protese lentamente verso di lui, come per respingerlo. Il colpo, assestato di taglio, le finì proprio sul cranio spaccando tutta la parte superiore della fronte quasi fino al cocuzzolo. Lei stramazzò di colpo. Raskòlnikov per poco non si smarrì completamente, afferrò il fagotto di lei, ma subito lo buttò via e corse in anticamera. 
 I1 terrore lo invadeva sempre di più, soprattutto dopo questo secondo assassinio, del tutto imprevisto. Voleva fuggire da lì al più presto. E se in quel momento fosse stato in grado di vedere le cose e di ragionare con più chiarezza, se appena fosse stato in grado di comprendere tutte le difficoltà della sua situazione, quanto essa fosse disperata, mostruosa e assurda, e insieme quanti ostacoli, e forse misfatti, gli restavano ancora da superare e perpetrare prima di strap parsi da lì e arrivare fino a casa, molto probabilmente avrebbe piantato tutto e sarebbe andato subito a costituirsi, non tanto per paura delle conseguenze, ma semplicemente inorridito e disgustato di ciò che aveva fatto. Soprattutto il disgusto fermentava e cresceva in lui di minuto in minuto. Per niente al mondo, ora, si sarebbe avvicinato al baule, e nemmeno sarebbe entrato nelle stanze. 
 Ma una specie di distrazione, anzi di estrosità, cominciò a poco a poco a dilagare in lui: a momenti era come se si astraesse da tutto o, per dir meglio, come se si scordasse dell'essenziale per attaccarsi alle minuzie. Dando un'occhiata alla cucina, scorse sulla panca un secchio, per metà pieno d'acqua, e si rese conto che doveva lavare le mani e la scure. Le mani erano insanguinate e appiccicose. Tuffò direttamente la lama della scure nell'acqua, poi afferrò un pezzetto di sapone che stava sul davanzale della finestra in un piattino incrinato e cominciò a lavarsi le mani nello stesso secchio. Quand'ebbe finito, tirò su la scure, lavò la lama e poi, a lungo, anche il legno del manico là dov'era insanguinato, cercando di togliere il sangue col sapone. Poi asciugò tutto con la biancheria che era stesa ad asciugare su una corda che attraversava la cucina, e a lungo, meticolosamente, esaminò la scure accanto alla finestra. Non vi erano rimaste tracce, ma il manico era ancora umido. Rimise con attenzione la scure nel cappio, sotto il soprabito. Quindi, per quanto lo consentiva la debole luce della cucina, esaminò il soprabito, i calzoni, gli stivali. Da fuori, a prima vista, non si vedeva nulla; solo sugli stivali c'erano delle macchie. Inzuppò nell'acqua uno straccio e li strofinò. D'altronde, era il primo a sapere che il suo esame non valeva gran che, che poteva benissimo esserci qualcosa che lui non aveva notato e che sarebbe balzato subito agli occhi di un altro. Ristette indeciso in mezzo alla stanza. Un pensiero increscioso, oscuro, andava nascendo in lui: il pensiero d'essere pazzo e di non potere, a quel punto, né ragionare né difendersi; e che forse ciò che bisognava fare non era affatto ciò che stava facendo... «Dio mio, bisogna fuggire, fuggire!» mormorò, e si precipitò nell'anticamera. Ma qui lo attendeva un tale spavento, quale di certo non gli era ancora capitato di provare. 
 Stava lì in piedi a guardare, e non credeva ai suoi occhi: la porta, la porta esterna, quella che dall'anticamera dava sulle scale, proprio quella a cui poco prima aveva suonato e per la quale era entrato, era aperta, socchiusa per un buon palmo: né serratura, né gancio, per tutto questo tempo! Dopo che lui era entrato, forse per precauzione, la vecchia non aveva richiuso. Ma, Dio mio! aveva pur visto Lizavèta dopo! E come, come aveva potuto non pensare che doveva pur essere entrata da qualche parte! Attraverso il muro, no di certo!  Si precipitò verso la porta e mise il gancio. 
  «Ma no, no, nemmeno questo devo fare! Devo andar via, andarmene...»  Tolse il gancio, aprì la porta e tese l'orecchio verso la scala. 
 Ascoltò a lungo. Da qualche parte in basso, lontano, probabilmente sotto il portone, due voci forti e stridule gridavano, altercando e insultandosi. «Ma che fanno?...» Attese pazientemente. Infine, ogni suono cessò di colpo, come spezzato; i due si erano separati. Stava già per uscire, quando improvvisamente, un piano più sotto, si aprì con fracasso una porta sulla scala, e qualcuno cominciò a scendere canterellando un motivetto. «Come mai fanno tutti tanto rumore!» gli passò per la mente. Accostò di nuovo la porta dietro di sé e attese. Finalmente tutto tacque: non c'era più anima viva. Aveva già fatto un passo sulla scala quando, a un tratto, risuonarono nuovi passi. 
 I passi venivano da molto lontano, proprio dall'inizio della scala, eppure egli ricordò poi benissimo e con chiarezza che fin dal primo momento, chissà perché, aveva sospettato che stessero dirigendosi lì, al quarto piano, dalla vecchia. Perché? Che avevano di particolare, di strano, quei rumori? Erano passi pesanti, misurati, non precipitosi. Ecco che quello aveva già superato il primo piano, ecco che saliva ancora; il suono era sempre più nitido! Sentì il respiro pesante di colui che si avvicinava. Ecco che già saliva il 
 terzo piano... Sta venendo qui! E a un tratto gli parve d'essere impietrito, che tutto avvenisse come in sogno, quando si sogna d'essere inseguiti, sempre più da vicino, che ti vogliono uccidere e tu sei come inchiodato al suolo e non puoi muovere neanche una mano. 
 Finalmente, quando già il nuovo venuto aveva cominciato a salire la rampa del quarto piano, soltanto allora egli d'un tratto si riscosse e riuscì, nonostante tutto, a scivolare indietro, agile e svelto, dall'andito verso l'appartamento, e a chiudersi la porta alle spalle. Poi afferrò il gancio e silenziosamente, pian piano, lo infilò nell'anello. L'istinto lo aiutava. Fatto tutto questo, si appostò, trattenendo il respiro, proprio a ridosso della porta. Anche l'intruso era ormai giunto alla porta. Adesso stavano l'uno di fronte all'altro, come poco prima lui con la vecchia, quando la porta li separava, ed egli, da fuori, vi appoggiava l'orecchio. 
 L'ospite ansimò pesantemente parecchie volte. «Dev'essere grande e grosso,» pensò Raskòlnikov, stringendo la scure nelle mani. Davvero sembrava tutto un sogno. Il visitatore afferrò la corda del campanello e diede un forte strattone. 
 Appena udì il suono metallico del campanello, Raskòlnikov ebbe di colpo l'impressione che nella stanza qualcuno si fosse mosso. Per alcuni secondi rimase perfino in ascolto. Lo sconosciuto suonò ancora una volta, poi aspettò un poco e improvvisamente, persa la pazienza, cominciò a tirare con tutte le sue forze la maniglia della porta. Raskòlnikov guardava con orrore il gancio che si muoveva nell'anello attendendo, inebetito dallo spavento, che da un momento all'altro ne saltasse fuori. E sembrava davvero possibile, tanto forte quello stava tirando. Pensò perfino di trattenere il gancio con la mano, ma l'altro avrebbe potuto accorgersene. Raskòlnikov sentì che gli tornava il capogiro. «Ora cado!» gli balenò nella mente, ma lo sconosciuto cominciò a parlare e subito egli si riprese. 
 «Ma che fanno? Dormono sodo o qualcuno le ha strozzate? Strrramaledette!» si mise a urlare l'altro come dal fondo di una botte. «Eh, Alëna Ivànovna, vecchia strega! Lizavèta Ivànovna, divina bellezza! Aprite! Possibile che dormano quelle maledette?» 
 E, infuriatosi, di nuovo tirò una decina di volte la corda del campanello con tutta la forza che aveva. Doveva essere un uomo autoritario, e un intimo conoscente della casa. 
 Proprio in quel momento si udirono, poco più giù sulla scala, dei passi fitti e frettolosi. Stava arrivando qualcun altro. Raskòlnikov, dapprima, non se ne rese ben conto. «Possibile che non ci sia nessuno?» gridò con voce squillante e allegra il nuovo venuto, rivolgendosi direttamente al primo visitatore che, intanto, non la smetteva di tirare il campanello. «Buonasera, Koch!»  «A giudicare dalla voce, dev'essere molto giovane,» pensò a un tratto Raskòlnikov. 
 «Soltanto il diavolo sa cosa stanno facendo! Per poco non ho fatto saltare la serratura,» rispose Koch. «Ma voi come fate a conoscermi?» 
  «Ma guarda un po'! Se ieri l'altro, al Gambrinus, vi ho vinto tre partite di fila al biliardo...» 
  «Ah, ah, ah...» 
 «E così, non sono in casa? Strano. Oltre a tutto, è una cosa assurda Dove può essere andata la vecchia? Io ho un affare da concludere con lei.» 
  «Anch'io, mio caro!» 
 «Che possiamo farci? Non resta che tornare indietro. Mah! E io che pensavo di fare un po' di soldi!» esclamò il giovanotto. 
 «Certo, non resta che tornare indietro, ma perché darmi un appuntamento? È stata lei, brutta strega, a fissarmi l'ora. Ho fatto una gran camminata per venire fin qui. E poi, dove diavolo se ne sia andata a spasso, davvero non capisco. Se ne sta tappata in casa tutto l'anno, brutta strega, a marcire, le fanno male le gambe, e poi, tutt'a un tratto, se ne va a spasso!» 
  «Vogliamo chiedere al portinaio?» 
  «Chiedere che cosa?» 
  «Dove è andata e quando tornerà...» 
 «Mmh... diavolo... chiedere... Ma se non va mai in nessun posto!» E ancora una volta tirò la maniglia della porta. «Diavolo, non c'è niente da fare, andiamocene!» 
 «Aspettate!» gridò improvvisamente il più giovane, «guardate lì: vedete come la porta si scosta, quando la tirate?» 
  «E con questo?» 
  «Vuol dire che non è chiusa a chiave, ma solo con il gancio! Non sentite il rumore?» 
  «E con questo?» 
 «Ma come fate a non capire? Vuol dire che una di loro è in casa. Se fossero uscite tutte e due, avrebbero chiuso da fuori con la chiave, e non da dentro con il gancio. Non sentite il gancio come sbatte? E per chiudersi col gancio da dentro bisogna essere in casa, capite? Quindi sono in casa, ma non aprono!» 
 «Ehi! È proprio così!» gridò Koch, meravigliato. «Ma allora sono lì dentro!» e riattaccò a tirare furiosamente la porta. 
  «Aspettate!» esclamò di nuovo il giovanotto, «non tirate! Qui c'è qualcosa che non quadra... 
voi avete suonato, avete tirato, eppure non aprono; quindi, o sono tutte e due svenute, oppure...» 
  «Oppure che cosa?» 
  «Sentite: andiamo a cercare il portinaio; che ci pensi lui a svegliarle.»  «Buona idea!» Entrambi si mossero per scendere giù. 
  «Aspettate! Voi restate qui, e io farò una corsa da basso a cercare il portinaio.»  «Ma perché restare qui?» 
  «Non si può mai sapere...» 
  «E va bene...» 
 «Sapete, io sto studiando per diventare giudice istruttore! È chiaro, chia-a-ro che qui c'è qualcosa che non va!» esclamò con calore il giovanotto, e si precipitò di corsa giù per le scale. 
 Koch rimase, scosse ancora una volta pian piano il campanello, che tintinnò appena; poi adagio, quasi riflettendo ed esaminando la situazione, prese a muovere la maniglia della porta, tirandola verso di sé e poi lasciandola andare, per convincersi una volta di più che la porta era chiusa soltanto col gancio. Poi si chinò, ansimando, e si mise a guardare nel buco della serratura; ma all'interno c'era la chiave infilata e quindi non si poteva vedere niente. 
 Raskòlnikov se ne stava in piedi, immobile, stringendo la scure. Era come in delirio. Si preparava perfino a lottare con quei due, una volta che fossero entrati. Mentre bussavano e prendevano accordi, parecchie volte gli era improvvisamente balenata l'idea di finire tutto in una volta sola e di gridare, in modo che lo sentissero da fuori. Avrebbe voluto mettersi a coprirli d'insulti, a schernirli, in attesa che aprissero la porta. «Si sbrigassero, almeno!» gli passò per la mente. 
  «Però, accidenti, quello là...» borbottò Koch. 
  Il tempo passava, un minuto, poi un altro, e non veniva nessuno. Koch cominciò ad agitarsi. 
 «Che diavolo !...» gridò a un tratto e, non potendone più, smise di far la guardia e scese anche lui, affrettandosi e facendo rumore lungo le scale con gli stivali. I suoi passi si spensero. 
  «Santo Dio, che devo fare?» 
 Raskòlnikov tolse il gancio e socchiuse la porta: fuori non si udiva nulla; di colpo, senza pensarci su due volte, uscì, si chiuse la porta alle spalle e si precipitò giù per le scale. 
 Ne aveva già discese tre rampe quando, all'improvviso, venne dal basso un gran rumore. Dove nascondersi? Non c'era nessun posto per farlo. Stava già per tornare di corsa indietro, verso l'appartamento. 
  «Ehi, boia, demonio! Prendetelo!» 
 Qualcuno, più sotto, uscì gridando da uno degli appartamenti, e più che correre, parve che si buttasse giù per la scala, urlando a squarciagola: 
  «Mìtka! Mìtka! Mìtka! Mìtka! Mìtka! Che ti venga un cancro!» 
 Il grido finì in una specie di strido; gli ultimi suoni che si udirono venivano ormai dal cortile; poi tutto tacque. Ma nello stesso istante alcune persone, che parlavano forte e in tono concitato fra loro, cominciarono a salire rumorosamente su per le scale. Erano tre o quattro. Egli distinse la voce sonora del giovane. «Sono loro!» 
 Al colmo della disperazione, andò loro incontro direttamente: sarà quel che sarà! Se lo fermavano, tutto era perduto; se lo lasciavano passare, era quasi lo stesso: si sarebbero ricordati di lui. Già stavano per incontrarsi, non restava fra loro che una sola rampa di scale, ed ecco a un tratto la salvezza! A pochi gradini da lui, a destra, vuoto e con la porta spalancata, ecco un appartamento, proprio quell'appartamento del secondo piano nel quale stavano lavorando gli imbianchini - i quali ora, nemmeno a farlo apposta, se n'erano andati. Dovevano esser stati proprio loro a correre fuori, poco prima, gridando in quella maniera. I muri apparivano dipinti di fresco, in mezzo alla stanza c'erano un barattolo e un coccio con del colore e un grosso pennello. Egli sgusciò in un baleno attraverso la porta aperta e si appiattì a ridosso della parete. Era tempo; gli altri erano già sul pianerottolo Svoltarono in su e passarono oltre, verso il quarto piano, parlando rumorosamente. Egli attese, uscì in punta di piedi e corse giù. 
 Sulla scala nessuno! Nessuno al portone. Passò rapidamente sotto l'androne e svoltò a sinistra nella strada. 
 Sapeva benissimo, sapeva con assoluta precisione che in quell'istante erano già nell'appartamento, che s'erano meravigliati molto nel trovarlo aperto, mentre poco prima era chiuso, che stavano già esaminando i corpi e che tra non più di un minuto avrebbero capito ogni cosa, si sarebbero resi conto che l'assassino era appena uscito, era riuscito a nascondersi in qualche posto, a sgusciare poi via sotto il loro naso e a fuggire; avrebbero persino capito, forse, che quando loro erano passati lui si trovava nell'appartamento vuoto. Eppure non osò, per nessun motivo, accelerare troppo il passo, benché mancassero ancora un centinaio di metri per giungere alla prima svolta. «E se mi infilassi in un androne, e aspettassi un po' sulla scala d'una casa qualsiasi? No, guai! E se gettassi via la scure? Se prendessi una carrozza? No, guai! guai!» 
 Finalmente, ecco il vicolo; egli scantonò più morto che vivo; a quel punto era già per metà salvo, e se ne rendeva conto: era più difficile sospettare di lui, e per di più c'era un notevole viavai, dentro il quale egli si perdeva come un granello di sabbia. Ma la tensione lo aveva stremato a tal segno, che faceva fatica a muoversi. Sudava a ruscelli; aveva il collo tutto bagnato. «Che sbronza!» gli gridò dietro qualcuno, mentre lui raggiungeva il canaletto. 
 Sentiva che stava per venir meno; e più andava avanti, peggio era. Ricordò tuttavia, in seguito, che raggiunto il canaletto a un tratto s'era spaventato, pensando che con poca gente lo si potesse notare di più, e stava quasi per tornare indietro verso il vicolo. Benché temesse di cadere a terra, fece un lungo giro e arrivò a casa da una parte completamente diversa. 
 Anche attraversando il portone di casa sua, non era del tutto in sé; si trovava già per le scale quando rammentò la scure. Aveva un grosso problema da risolvere: rimetterla al suo posto senza che nessuno se ne accorgesse. Evidentemente non era più in grado di capire che sarebbe stato molto meglio, forse, non rimettere affatto la scure al posto di prima, bensì abbandonarla, più tardi, nel cortile di un'altra casa. 
 Ma tutto andò liscio. La portineria era chiusa, ma non a chiave, quindi probabilmente il portinaio si trovava in casa. Raskòlnikov aveva smarrito a tal segno la facoltà di ragionare, che s'avvicinò risoluto alla portineria e ne aprì l'uscio. Se il portinaio gli avesse domandato: «Cosa vi serve?», forse gli avrebbe senz'altro consegnato la scure. Ma anche questa volta il portinaio non c'era, ed egli ebbe il tempo di rimettere la scure al posto di prima, sotto la panca; la coprì perfino con un ceppo, com'era prima. Fuori non incontrò nessuno, neanche un'anima, fino alla sua stanza. La porta della padrona era chiusa. Una volta entrato, si gettò sul divano, vestito com'era. Non dormì; era una specie di sopore, il suo. Se qualcuno fosse entrato nella sua stanza, egli sarebbe balzato in piedi gridando. Frammenti, brandelli di pensieri gli brulicavano nel cervello; ma non poteva afferrarne nemmeno uno, su nessuno riusciva ad arrestarsi, a dispetto di tutti i suoi sforzi... 

PARTE SECONDA 





 Rimase a lungo così disteso. Gli capitava, a tratti, di destarsi del tutto, e una volta si accorse che già da un pezzo era notte, ma non gli venne in mente di alzarsi. Alla fine notò che era già chiaro, come di giorno. Egli giaceva sul divano supino, ancora intontito dal recente sopore. Gli giungevano stridule, dalla via, urla orrende e disperate, le stesse, d'altronde, che sentiva quasi ogni notte sotto la sua finestra, dopo le due. Anche in questa occasione, furono quelle grida a destarlo. «Ah! Ecco che gli ubriachi escono dalle bettole,» pensò, «sono le due passate», e d'un tratto balzò in piedi, come se qualcuno lo avesse strappato via dal divano. «Come! Le due passate!» Sedette sul divano, e allora ricordò tutto. Di colpo, in un solo istante, ricordò tutto! 
 Lì per lì credette di impazzire. Un freddo terribile s'impadronì di lui; era un freddo dato anche dalla febbre, che lo aveva assalito già da un pezzo, durante il sonno. Adesso, a un tratto, fu scosso da tali tremiti, che gli sembrò che i denti dovessero saltargli via dalla bocca, e tutto in lui cominciò a sussultare. Aprì la porta e si mise in ascolto: in casa tutti dormivano. Stupito, guardò tutto intorno a sé nella stanza, non comprendendo come mai la sera prima, dopo essere entrato, avesse potuto non chiudere la porta col gancio e gettarsi sul divano non solo vestito, ma addirittura col cappello, che era rotolato giù e giaceva sul pavimento, accanto al cuscino. «Se fosse entrato qualcuno, che cosa avrebbe pensato? Forse che ero ubriaco; ma...» Si slanciò verso la finestra. C'era abbastanza luce, ed egli s'affrettò a esaminare, da capo a piedi, tutti i suoi indumenti; non c'erano proprio tracce? Ma non bastava: tremante di febbre, cominciò a toglierseli tutti di dosso e a esaminarli di nuovo. Rigirò ogni cosa, fino all'ultimo filo, all'ultimo pezzetto di stoffa, e non fidandosi di se stesso, ripeté l'esame tre volte. Ma non c'era niente, nessun segno, a quanto sembrava; soltanto in fondo, dove i calzoni si erano consumati e pendevano come una frangia, su questa frangia c'erano dense macchie di sangue coagulato. Egli afferrò il coltello a serramanico e tagliò via la frangia. Pareva che non ci fosse altro. Ma a un tratto si ricordò che il borsellino e gli oggetti rubati nel baule della vecchia erano ancora tutti nelle sue tasche. Non aveva nemmeno pensato a toglierli da lì e a nasconderli! Non se n'era ricordato nemmeno mentre, poco prima, esaminava il vestito. Ma come? In un baleno si mise a tirarli fuori e a gettarli sulla tavola. Tirato fuori tutto, rivoltate anche le tasche per convincersi che non v'era rimasto dentro nulla, trasportò quel mucchio di roba in un angolo, in basso, nel punto dove la tappezzeria s'era scollata dal muro; e subito cominciò a ficcare tutto dentro un buco, sotto la carta. «C'è entrato! Tutto sparito, compreso il borsellino!» pensò con gioia, sollevandosi un poco e fissando inebetito l'angolo, dove la carta sporgeva un po' di più. Ma all'improvviso trasalì per l'orrore: «Santo Dio,» mormorava disperato, «cosa mi prende? Come ho potuto pensare d'averla nascosta in questo modo? E forse così che si nasconde la roba?» 
 In verità, gli oggetti non li aveva previsti; aveva pensato che ci sarebbero stati soltanto dei soldi, e perciò non aveva disposto il nascondiglio. «Ma adesso, adesso, perché diavolo ero contento?» pensava. «E forse così che si nasconde la roba? Mi sta davvero dando di volta il cervello!» Affranto, sedette sul divano, e subito brividi intollerabili ripresero a scuoterlo. Macchinalmente, tirò a sé quello che era stato il suo cappotto d'inverno da studente. Giaceva lì vicino su una sedia, pesante, ma già quasi a brandelli. Se ne coprì, e fu di nuovo in preda al sonno e al delirio. Tornò ad assopirsi. 
 Non eran passati cinque minuti che balzò in piedi un'altra volta e si precipitò subito, come un forsennato, verso i suoi panni. «Come ho potuto riaddormentarmi, quando ancora niente è stato fatto! Ecco: non ho ancora levato il cappio dall'ascella! Me ne sono dimenticato, ho dimenticato una cosa simile! Un indizio così!» Strappò via il cappio e si affrettò a ridurlo in pezzetti, ficcando questi ultimi sotto il cuscino, fra la biancheria. «Dei pezzi di tela strappata non potranno mai destare sospetti; credo che sia così, proprio così!» ripeteva stando in mezzo alla camera, e con attenzione tesa fino allo spasimo riprese a guardarsi intorno, per terra, dappertutto; non aveva dimenticato qualcos'altro? La certezza che tutto, perfino la memoria, perfino la semplice facoltà di ragionare, lo stessero abbandonando, cominciava a tormentarlo intollerabilmente. «Ma come, possibile che sia già a questo punto? Possibile che sia già il castigo? Ma sì, ma certo, è proprio così!» Ecco, proprio così: gli sfilacci della frangia, che aveva tagliato via dai calzoni, giacevano proprio lì, sul pavimento, in mezzo alla stanza, perché il primo venuto li potesse vedere! «Ma che cosa mi prende?» esclamò di nuovo, smarrito. 
 A questo punto gli balenò uno strano pensiero: che forse tutto il suo vestito era sporco di sangue, che di macchie ce n'erano molte, solo che lui non le vedeva, non le notava, perché la sua facoltà di ragionare era svanita, sfumata... l'intelletto ottenebrato... A un tratto ricordò che anche sul borsellino c'era del sangue. «Ecco! E quindi anche nella tasca dev'esserci del sangue, visto che ci ho ficcato il borsellino ancora bagnato di sangue!» In un attimo rivoltò la tasca e - proprio così! - sulla fodera c'erano delle tracce, delle macchie! «Allora, non è che la ragione mi abbia abbandonato del tutto; posso ancora riflettere e ricordare, dato che me ne sono accorto e l'ho capito da solo!» pensò con un senso di trionfo, respirando profondamente e gioiosamente a pieni polmoni; «è solo debolezza dovuta alla febbre, delirio di un istante», e strappò via tutta la fodera della tasca sinistra dei calzoni. In quel momento un raggio di sole illuminò il suo stivale sinistro: sulla calza, che sporgeva dallo stivale, sembravano esservi delle macchie. Egli si tolse lo stivale: «È vero, delle macchie! Tutta la punta della calza è imbevuta di sangue.» Inavvertitamente, doveva aver messo il piede in quella pozza... «Ma adesso che ne faccio, di questa roba? Dove nascondo la calza, la frangia, la fodera?» 
 Teneva tutto in una mano, e stava in piedi in mezzo alla camera. «Nella stufa? Ma è proprio nella stufa che cominceranno a frugare. Bruciarla? E come? se non ho nemmeno un fiammifero? No, meglio uscire e gettarla via in qualche posto. Sì! Meglio gettarla via!» andava ripetendo, e intanto era tornato a sedersi sul divano, «e subito, in questo stesso istante, senza perdere un secondo!» Ma la sua testa tornò a chinarsi sul cuscino; brividi insopportabili tornarono ad agghiacciarlo; si tirò addosso un'altra volta il cappotto. E per molto tempo, per parecchie ore, continuò, a tratti, a pensare confusamente che «subito, senza perdere tempo, doveva andare da qualche parte e gettare via tutto, per farlo sparire, al più presto, al più presto!» Parecchie volte tentò di tirarsi su da quel divano, di alzarsi, ma senza riuscirvi. Lo svegliò definitivamente qualcuno che bussava con forza alla porta. 
 «Ma apri, dunque! Sei vivo o morto?... Non fa che ronfare!» gridava Nastàsja, picchiando col pugno sulla porta. «Sono giorni e giorni che ronfa come un maledetto cane; e lo sei, un maledetto cane! Su, apri! Sono quasi le undici.» 
  «Ma forse non è in casa!» disse una voce maschile. 
  «Eh? Questa è la voce del portinaio... Cosa vorrà?» 
  Balzò su dal divano, poi si sedette. Il cuore gli batteva da fargli male. 
  «E come avrebbe fatto, allora, a chiudersi dentro col gancio?» ribatté Nastàsja. «Guarda un 
po', ora comincia a chiudersi dentro! Hai forse paura che ti rapiscano? Apri, zuccone, svegliati!» 
 «Cosa vorranno? Che ci fa il portinaio? Sanno tutto... Resistere o aprire? Ma vada un po' tutto alla malora...» 
  Si sollevò, si chinò in avanti e tolse il gancio. 
  L'intera stanza era talmente piccola che si poteva togliere il gancio senza alzarsi dal letto. 
  Proprio loro: il portinaio e Nastàsja. 
 Nastàsja lo guardò in un modo strano. Egli, a sua volta, guardava il portinaio con aria di sfida disperata. Quello, in silenzio, gli tese un foglietto grigio, piegato in due e sigillato con la ceralacca. 
  «Un avviso dall'ufficio,» disse consegnandogli la carta. 
  «Da quale ufficio?» 
  «Come, quale ufficio? Significa che vi vogliono alla polizia; che scoperta!» 
  «Alla polizia!... E perché?» 
 «E io che ne so? Se ti vogliono, vacci.» Lo fissò attentamente, si guardò attorno e alla fine si volse per andarsene. «Proprio malato, sembri,» osservò Nastàsja, che non gli staccava gli occhi di dosso. Anche il portinaio voltò per un momento la testa. «È da ieri che ha la febbre,» aggiunse lei  Egli non rispondeva, e teneva nelle mani la carta senza dissuggellarla. 
 «Lascia perdere, non ti alzare,» proseguì Nastàsja, mossa a pietà, quando lo vide buttar giù le gambe dal divano. «Se stai male non andarci: non ci sarà poi tanta fretta. Che cos'hai in mano?» 
 Egli guardò: nella mano destra teneva i pezzi tagliati del la frangia, la calza e i brandelli della tasca strappata. Aveva dormito così. In seguito, riflettendo su queste circostanze, si ricordò che anche quando si era svegliato a metà, febbricitante, stringeva con forza quella roba nella mano e poi si riaddormentava. 
 «Guarda lì che stracci ha raccolto, e ci dorme insieme, come se fossero un tesoro...» e Nastàsja scoppiò nella, sua solita risata isterica. In un batter d'occhi egli ficcò ogni cosa sotto il cappotto e la guardò fisso fisso. Anche se in quell'istante non riusciva a riflettere a dovere, sentiva però che non si tratta così una persona quando si viene ad arrestarla. «Ma... Ia polizia?» 
  «Lo berresti un po' di tè? Ne vuoi? Ora te lo porto; ce n'è ancora...» 
  «No... ora devo andare: devo uscire subito,» mormorò lui, alzandosi in piedi. 
  «Ma se non riesci nemmeno a far le scale...» 
 «Ora vado...»  «Come vuoi.» Se ne andò anche lei, dietro al portinaio. Egli corse subito verso la luce per esaminare la calza e la frangia: «Macchie ce n'è, ma non si vedono bene; tutto si è come confuso, ed è già scolorito. Chi non lo sa non se ne accorge. Grazie a Dio, Nastàsja non può aver visto niente così da lontano!» Allora dissuggellò, fremendo, il bigliettino, e prese a leggerlo; lesse a lungo e finalmente capì. Era un normale invito a presentarsi quel giorno stesso, alle nove e mezzo, nell'ufficio del commissario del quartiere. 
 «Ma che roba è questa? Per quel che ne so, io non ho niente da fare con la polizia! E perché proprio oggi?» pensava, immerso in un'angosciosa perplessità. «Santo Dio, purché tutto finisca presto!» Stava per gettarsi in ginocchio a pregare, ma poi scoppiò a ridere: non della preghiera, ma di se stesso. Cominciò a vestirsi rapidamente. «Se devo andare in malora, che sia pure!... Mi metterò la calza!» gli venne in mente, «così si sporcherà ancora di più, e le tracce scompariranno.» Ma se l'era appena infilata che subito se la strappò dal piede con disgusto e orrore. Ma quando l'ebbe fatto, capì che non esisteva altra via d'uscita; se la rimise, e di nuovo scoppiò a ridere. «Tutto ciò è convenzionale, relativo, forma, soltanto forma,» pensò di sfuggita, con un piccolo lembo del suo pensiero, e intanto tremava in tutto il corpo. «Ecco, me la sono messa! Ma sì, me la sono messa!» Al riso, tuttavia, subentrò la disperazione. «No, è superiore alle mie forze...» pensò. Gli tremavano le gambe. «Per la paura,» mormorò tra sé. La testa gli girava e gli doleva per la febbre. «È un'astuzia! Vogliono attirarmi con l'astuzia, e mettermi nel sacco per benino,» seguitò a pensare, uscendo sulla scala. «Il male è che io ho quasi il delirio... e mi può sfuggire di bocca qualunque sciocchezza...» 
 Sulla scala ricordò che aveva lasciato tutti gli oggetti così, nel buco dietro la tappezzeria: «E intanto, magari, vengono apposta a perquisire mentre io non ci sono,» gli passò per la mente, e si fermò. Ma quella disperazione, quel, se così si può dire, cinismo della rovina, s'impadronì di lui a tal punto che fece un gesto rassegnato e andò oltre. 
  «Purché finisca presto ! ...» 
 Fuori c'era di nuovo un caldo insopportabile, da giorni non veniva una goccia di pioggia. Di nuovo polvere, mattoni e calcina, di nuovo il tanfo delle bottegucce e delle bettole, e di nuovo, senza fine, ubriachi, venditori ambulanti finlandesi, carrozze a nolo mezzo sfasciate. Il riverbero del sole negli occhi era tanto intenso da fargli male, e la testa prese a girargli del tutto: sensazioni normali per un febbricitante che esce all'improvviso per strada in una giornata di sole. 
 Arrivato all'angolo della strada del giorno prima, vi guardò con un senso di lancinante angoscia, guardò quella casa e subito ne distolse gli occhi. 
  «Se me lo domanderanno, forse lo dirò,» pensò, mentre si avvicinava all'ufficio. 
 L'ufficio era situato a circa trecento metri da casa sua. S'era appena trasferito in nuovi locali, in una casa nuova, al quarto piano. Nell'ufficio vecchio egli era stato una volta, ma quasi di sfuggita e molto tempo prima. Entrando nel portone vide, a destra, una scala; un contadino scendeva con un registro in mano: «Dev'essere un usciere; quindi anche l'ufficio è lì», e cominciò a salire affidandosi al caso. Non se la sentiva di domandare niente a nessuno. 
  «Entrerò, mi inginocchierò e racconterò tutto...» pensò arrivando al quarto piano. 
 La scala era stretta, ripida e cosparsa di rifiuti. Tutte le cucine di tutti gli appartamenti di tutti e quattro i piani davano su di essa, e rimanevano aperte quasi l'intera giornata. Per questo l'aria era irrespirabile. Salivano e scendevano uscieri con registri sottobraccio, agenti di polizia e uomini e donne d'ogni sorta: i visitatori. La porta dell'ufficio era anch'essa spalancata. Egli entrò e sostò nell'anticamera, dove alcuni contadini stavano in piedi ad aspettare. Anche qui l'afa era tremenda, inoltre c'era un puzzo quasi nauseabondo di vernice a base di olio di lino rancido, non ancora asciugata sulle pareti delle stanze dipinte di fresco. Dopo aver atteso un po', decise di farsi più avanti, passando nella stanza seguente. Tutte le stanze erano minuscole e piuttosto basse. Una terribile impazienza lo spingeva avanti, sempre più avanti. Nessuno si accorgeva della sua presenza. Nella seconda stanza sedevano, intenti a scrivere, alcuni scrivani, vestiti forse appena un po' meglio di lui, tutta gente dall'aria alquanto strana. Si rivolse a uno di essi. 
  «Che vuoi?» 
Egli mostrò l'invito mandatogli dall'ufficio. 
  «Siete studente?» domandò l'altro, dopo un'occhiata al biglietto. 
  «Sì, ex studente.» 
 Lo scrivano lo esaminò; senza la minima curiosità, bisogna dire. Era un uomo particolarmente trasandato, con qualcosa di fisso nello sguardo. 
  «Da questo qui non caverò niente, per lui tutto è uguale,» pensò Raskòlnikov. 
  «Passate di là, dal segretario,» disse lo scrivano, e puntò il dito in avanti a indicare l'ultima stanza. 
 Egli entrò in quella stanza (la quarta), che era angusta e piena zeppa di gente vestita un po' meglio che nelle altre stanze. Fra i visitatori c'erano due signore. Una, vestita poveramente a lutto, sedeva a un tavolo di fronte a un impiegato e scriveva qualcosa che questi le dettava. Un'altra signora molto grassa, dalla faccia purpurea cosparsa di macchie, vestita in maniera un po' troppo appariscente e sfarzosa, con una spilla grande quanto un piattino da tè puntata sul petto, si teneva in disparte, certo in attesa di qualcosa. Raskòlnikov ficcò il suo biglietto in mano all'impiegato. Questi lo guardò di sfuggita, disse «aspettate», e seguitò ad occuparsi della signora in lutto. 
 Egli respirò più liberamente. «Certamente, si tratta di un'altra cosa!» A poco a poco si rianimò, e si incitava con tutte le forze a riprender coraggio e a tornare in sé. 
 «Qualche sciocchezza, il minimo passo falso potrebbero tradirmi irrimediabilmente! Già... peccato che qui manchi l'aria,» aggiunse mentalmente. «Che afa!... La testa mi gira ancora di più, e anche il cervello...» 
 Si sentiva dentro un terribile sconcerto. Temeva di non riuscire a dominarsi. Cercava di aggrapparsi a qualcosa, di pensare a qualcosa che non avesse niente a che fare con quella faccenda, ma non ci riusciva. D'altronde, l'impiegato lo interessava molto: voleva a ogni costo intuire qualcosa dall'espressione del suo volto, decifrarlo. Era un uomo assai giovane, sui ventidue anni, con la fisionomia mobile e una pelle scura che lo faceva più vecchio; era vestito alla moda, come un damerino, con profusione di anelli sulle dita bianche, evidentemente pulite con lo spazzolino, e catenelle d'oro sul panciotto. Scambiò perfino qualche parola in francese con uno straniero che si trovava lì, il suo era un francese di ottima lega. 
 «Luìza Ivànovna, dovreste sedervi,» disse egli incidentalmente alla signora in ghingheri e dalla faccia purpurea, che continuava a stare in piedi, quasi non osasse sedersi di sua iniziativa, benché accanto a lei vi fosse una seggiola. 
 «Ich danke,» rispose l'altra, e si abbandonò silenziosamente, con un fruscio di seta, sulla seggiola. Il suo abito azzurro chiaro, guarnito di merletti bianchi, si allargò intorno come una mongolfiera, e occupò quasi mezza stanza riempiendola inoltre di un profumo violento. Evidentemente vergognosa di occupare metà stanza e di emanare un profumo tanto acuto, la signora, pur ostentando un sorriso timido e insieme sfrontato, appariva a disagio. 
 Finalmente la signora in lutto ebbe finito, e si mosse per alzarsi. A quel punto, con aria baldanzosa e sottolineando ciascun passo con un movimento delle spalle, entrò rumorosamente un ufficiale, gettò il berretto con la coccarda sul tavolo e sedette in una poltrona. Alla sua vista la signora appariscente fece addirittura un balzo sulla sedia, e cominciò a strisciar riverenze con particolare entusiasmo; ma l'ufficiale non la degnò nemmeno di uno sguardo, e in sua presenza lei non ebbe più l'ardire di sedersi. Era l'aiutante del commissario di polizia del quartiere; aveva baffi rossicci, sporgenti orizzontalmente da ambo i lati, e lineamenti molto minuti che, d'altronde, non esprimevano niente salvo una certa tracotanza. Egli lanciò a Raskòlnikov un'occhiata di sbieco, non senza disdegno per il vestito malconcio ch'egli indossava. Tuttavia, nonostante l'aspetto dimesso, il portamento non corrispondeva al vestito; e Raskòlnikov, malcauto, lo aveva guardato troppo fisso e a lungo, tanto che l'altro se n'era perfino irritato. 
 «Tu cosa vuoi?» gridò, probabilmente stupito che uno straccione simile non pensasse a sparire, colpito dal suo sguardo folgorante. 
  «Mi hanno chiamato... con un invito...» rispose come meglio poté Raskòlnikov. 
«È per la questione di quel denaro che deve pagare, lo studente,» s'affrettò a dire l'impiegato staccando gli occhi dalla carta. «Ecco qua!» e gettò davanti a Raskòlnikov un quaderno, indicandovi un punto. «Leggete !» 
 «Denaro? Quale denaro?» pensava Raskòlnikov, «ma... allora, è proprio un'altra cosa!» E trasalì di gioia. A un tratto, si sentì incredibilmente sollevato. Si era liberato di ogni peso. 
 «E a che ora vi è stato scritto di presentarvi, egregio signore?» gridò il tenente, chissà perché sempre più risentito. «Qui c'è scritto le nove, e adesso son già le undici passate!» 
 «Me l'hanno portato solo un quarto d'ora fa,» rispose Raskòlnikov con voce acuta e parlando al disopra della propria spalla. Di colpo anche lui, con sua propria sorpresa, si sentì incollerito, e trovava in ciò perfino una certa soddisfazione. «È già molto se son venuto qui, malato e con la febbre.» 
  «Come, vi permettete di gridare?!» 
 «Io non grido, parlo con tutta calma, mentre voi sì che gridate con me; ma io sono uno studente, e non permetto che mi si parli gridando.» 
 Il vice commissario prese fuoco a tal punto che lì per lì non riusciva nemmeno a spiccicare parola, e dalla bocca gli volavano fuori spruzzi e basta. Balzò in piedi. 
  «Tacete su-u-ubito! Siete in un pubblico ufficio. Non fate l'insole-e-ente, signore!» 
 «Ma anche voi siete in un pubblico ufficio,» gridò a sua volta Raskòlnikov, «e non soltanto gridate, ma fumate anche una sigaretta, e quindi mancate di educazione nei confronti di tutti noi.» Nel dire ciò, Raskòlnikov assaporò un godimento inesprimibile. 
 L'impiegato li guardava con un sorriso. L'irascibile tenente appariva palesemente sconcertato. 
 «Questo non vi riguarda!» gridò infine con voce fin troppo stentorea. «Piuttosto, date la risposta che vi si chiede. Aleksàndr Grigòrevic, fategli vedere. C'è una denuncia contro di voi! Non pagate i debiti! C'è poco da darsi tante arie!» 
 Ma Raskòlnikov non ascoltava più, e afferrò avidamente il foglio cercando al più presto la soluzione dell'enigma. Lo lesse una volta, un'altra, e non capì. 
  «Ma cos'è?» chiese all'impiegato. 
 «Vi si chiede la restituzione di una somma, da voi ricevuta dietro emissione di una promessa di pagamento. Dovete pagare, con tutte le spese, le penali eccetera, oppure fare una dichiarazione scritta circa il termine entro il quale potrete pagare, impegnandovi nel frattempo a non lasciare la capitale e a non vendere né occultare i vostri averi. Con ciò, il creditore ha diritto di mettere in vendita i vostri averi e di agire nei vostri confronti a termini di legge.» 
  «Ma io... non devo niente a nessuno!» 
 «Questo non ci riguarda. Abbiamo ricevuto, per farla valere, una cambiale scaduta e legalmente protestata per l'ammontare di centoquindici rubli, da voi rilasciata, circa nove mesi fa, alla vedova dell'assessore di collegio Zarnitsyma, e dalla vedova Zarnitsyma girata al consigliere di corte èebàrov; ed è per questo che vi abbiamo invitato a fare una dichiarazione.» 
  «Ma se è la mia padrona di casa!» 
  «E con questo?» 
 L'impiegato lo guardava con un indulgente sorriso di compatimento, e anche con una leggera aria di trionfo, come si guarda una recluta al suo battesimo del fuoco: «E così, come ti senti?» Ma che gliene importava, a lui, della cambiale, dell'ingiunzione di pagamento? Valeva la pena di dedicarle un minimo di preoccupazione, o anche soltanto di badarci? Egli stava in piedi, leggeva, ascoltava, rispondeva, faceva a sua volta delle domande, ma tutto questo macchinalmente. Il suo istinto di conservazione che trionfava, la sensazione d'esser scampato a un pericolo incombente colmavano in quell'istante tutto il suo essere, senza più previsioni o analisi, senza sforzi di penetrare il futuro e di squarciarne il velo, senza dubbi e senza domande. Fu un minuto di gioia integrale, spontanea, puramente animale. Ma proprio in quello stesso istante, nell'ufficio si scatenò una specie di temporale. Il tenente, ancora tutto sconvolto da quell'atteggiamento irriverente, in preda a grande eccitazione ed evidentemente ben deciso a risollevare il suo prestigio leso, si scagliò con tutte le sue folgori contro la disgraziata signora in ghingheri, che dal momento in cui lui era entrato continuava a fissarlo con un sorriso melenso. 
 «E tu, baldracca della malora,» gridò d'un tratto a squarciagola (la signora in lutto, frattanto, era uscita), «che diavolo è successo da te la notte scorsa? Eh? Di nuovo scandali e orge, da farsi sentire in tutta la strada. Di nuovo risse e ubriachi. Vuoi proprio finire al fresco? Te l'ho già detto, ti ho già avvertito dieci volti, che l'undicesima non ti sarebbe andata liscia! Ed eccotici di nuovo, razza di...!» 
 Raskòlnikov si era perfino lasciato cader di mano il foglio, e guardava sbalordito la signora in ghingheri che veniva trattata in quel modo; ma non tardò a capire come stavano le cose, e subito tutta la storia cominciò perfino a piacergli. Ascoltava con gusto, tanto che gli venne perfino voglia di ridere, ridere, ridere... Tutti i suoi nervi erano in subbuglio. 
 «Iljà Petròviè!» cominciò a dire l'impiegato premurosamente, ma poi si fermò in attesa del momento adatto, perché quando il tenente andava sulle furie si riusciva a trattenerlo solo prendendolo per le braccia, cosa che l'impiegato sapeva per esperienza personale. 
 Quanto alla signora in ghingheri, lì per lì, sotto l'imperversare di quella gragnuola, s'era messa a tremare come una foglia; ma poi, strano a dirsi, quanto più crescevano la quantità e la violenza delle ingiurie, tanto più affabile e incantevole si faceva il sorriso che rivolgeva al minaccioso tenente. Muoveva senza tregua i piedi, strisciando inchini, e attendeva con impazienza che finalmente le fosse concesso di far sentire le sue ragioni, cosa che finalmente riuscì a fare. 
 «No essere chiasso o rissa da me, signor Kapitän,» si mise a un tratto a cicalare, e le sue parole si sparpagliavano come piselli sgranati; aveva un forte accento tedesco, anche se parlava speditamente in russo; «scandalo nessuno, nessuno, ma loro venuti già bevuti, e io dirà tutto, signor Kapitän, io non colpevole... mia casa nopile, signor Kapitän, e trattamento nopile, signor Kapitän, e io sempre, sempre mai voluto nessuno scandalo. Però loro arrivato tutto ubriaco e poi voluto tre pottiglie, e poi uno alzata gampa e con tacco suonato pianoforte, e questo cosa bruttissimo in casa nopile, ed egli rotto ganz pianoforte e completamente, completamente brutte maniere, e io dofuto dire questo. Ma lui preso pottiglia e spinto tutti da dietro con pottiglia. E qui io chiamato presto portinaio e Karl fenuto, e lui picchiato occhio a Karl, e picchiato occhio anche a Henriette, e picchiato cinque volte me guancia. Tutto questo poco carino in casa nopile, signor Kapitän, e io cridato. Ma lui aperto finestra su canale e cridato cridato tanto tanto in finestra, come piccolo porcello: questa è vergogna. Come possibile cridare su strada come piccolo porcello? Fui-fui-fui! E Karl preso lui per frak e tirato via finestra e adesso, questo vero, signor Kapitän, strappato a lui sein rock. Lui allora cridato man muss  pagare quindici rubli d'argento. E io stessa, signor Kapitän, pagato cinque rupli per sein rock. Questo incrato ospite, signor Kapitän, fatto tutto scandalo! Io, detto lui, crande satira gedruckt, perché io poter scrivere su foi in tutti giornali.» 
  «Uno scrittore, quindi?» 
  «Sì, signor Kapitän, e che ospite incrato, signor Kapitän, quando in nopile casa...» 
  «Be', be'! Ora basta! Io te l'avevo detto, te l'avevo detto, te l'avevo detto...» 
 «Iljà Petròviè!» disse di nuovo in tono significativo l'impiegato. Il tenente gli lanciò una rapida occhiata; l'impiegato chinò lievemente il capo. 
 «... Così, stimatissima Lavìza Ivànovna, ecco cosa ti dico, e te lo dico per l'ultima volta,» proseguì il tenente. «Se da te, nella tua nobile casa, avverrà un altro scandalo, io ti ficcherò in gattabuia, per dirla in termini elevati. Capito? Dunque il signor letterato, il signor scrittore, s'è intascato cinque rubli d'argento per la coda dell'abito, nella tua ‹nobile casa›? Eccoli, gli scrittori!» e lanciò un'occhiata sprezzante a Raskòlnikov. «L'altro ieri, in una trattoria, un'altra storia: uno ha mangiato, e non vuol pagare: ‹State buoni, se no vi metto in una delle mie satire.› E un altro di questi tipi, su un battello, la settimana scorsa, ha insultato con le parolacce più luride l'onorata famiglia di un consigliere di Stato, moglie e figlia. Un altro ancora l'hanno buttato fuori, giorni fa, da una pasticceria. Ecco come son fatti questi scrittori, letterati, studenti, araldi del progresso... Puah ! ... Quanto a te, vattene! Se no finisce che vengo a dare io stesso un'occhiata in casa tua... e allora starai fresca! Capito?» 
 Luìza Ivànovna cominciò a sprofondarsi in riverenze da tutte le parti, con precipitosa amabilità, e sempre inchinandosi indietreggiò fino alla porta; ma sulla soglia andò a sbattere il sedere contro un ufficiale dall'aria prestante, dal viso fresco e aperto e dalle splendide, foltissime fedine bionde. Era Nikodìm Fòmiè in persona, il commissario del quartiere. Luìza Ivànovna s'affrettò a inchinarsi fino a terra e volò fuori dall'ufficio a rapidi passettini, quasi saltellando. 
 «Di nuovo tuoni e fulmini, cicloni e uragani!» disse Nikodìm Fòmiè in tono gentile e amichevole, rivolgendosi a Iljà Petròviè. «Di nuovo vi siete sfrenato, di nuovo vi siete scalmanato! Vi si sentiva fin sulla scala.» 
 «Ma che!» lasciò cadere con elegante noncuranza Iljà Petròviè (e non disse nemmeno «ma che», bensì piuttosto: «Ma-a che e!»), passando con certe carte in mano a un altro tavolo e scrollando a ogni passo pittorescamente le spalle; dove andava il passo, là andava la spalla. «Ecco, abbiate la bontà di vedere: questo signor scrittore, cioè questo studente, anzi ex studente, non paga i debiti, ha messo in giro delle cambiali, non sgombra il suo alloggio, arrivano continue lamentele sul suo conto, e lui si e permesso di sentirsi oltraggiato perché ho acceso la sigaretta in sua presenza! Lui, però, fa le sue p- p-orcheriole... Ma compiacetevi di dargli un'occhiata: eccolo qua nel suo più seducente aspetto!» 
 «La povertà non è vizio, amico mio,» disse Nikodìm Fòmiè a Raskòlnikov, in tono cortese, «e comunque... Lui, si sa, piglia fuoco subito, si è sentito oltraggiato. E voi, di certo, a vostra volta vi siete sentito oltraggiato, e non avete saputo trattenervi; ma avete torto: è il più no-o-obile degli uomini, solo che piglia fuoco subito, subito! S'infiamma, bolle, brucia, ma non ne rimane niente! Tutto finito! E cosa resta? Soltanto un cuor d'oro! Anche al reggimento lo avevano soprannominato ‹tenente-poroch ›...» 
 «Che r-r-eggimento era quello!» esclamò Iljà Petròviè, molto lieto che l'avessero stuzzicato così piacevolmente, ma seguitando a tenere il broncio. 
  A un tratto, Raskòlnikov sentì il bisogno di dire a tutti loro qualcosa di estremamente gentile. 
 «Scusate, capitano,» cominciò a dire con grande disinvoltura, rivolgendosi improvvisamente a Nikodìm Fòmiè, «mettetevi nei miei panni... Se ho mancato in qualche modo, sono pronto a chiedere scusa. Io sono uno studente povero e malato, abbrutito» (disse proprio così: «abbrutito») «dalla miseria. Sono un ex studente, perché adesso non sono in grado di mantenermi, ma fra poco riceverò del denaro... Mia madre e mia sorella, che vivono nella provincia di V., mi manderanno i soldì e io pagherò. La padrona di casa è una brava donna, ma ce l'ha con me a morte perché ho perso le mie lezioni e non pago da più di tre mesi, tanto che non mi dà nemmeno più da mangiare... Ma davvero, non riesco proprio a capire cos'è questa cambiale! Adesso lei pretende di essere pagata in forza di questa carta, ma come faccio io a pagare, ditemelo voi stessi!...»  «Tutto questo, però, non ci riguarda...» volle di nuovo osservare l'impiegato. 
 «Un momento, un momento, io sono perfettamente d'accordo con voi, ma dovete lasciarmi spiegare,» proseguì vivacemente Raskòlnikov, rivolgendosi non all'impiegato, ma sempre a Nikodìm Fòmiè, cercando tuttavia di rivolgersi anche a Iljà Petròviè, benché questi fingesse ostinatamente di cercare qualcosa in mezzo alle sue carte e non lo degnasse della minima attenzione. «Permettetemi a mia volta di spiegare che io abito presso di lei ormai da quasi tre anni, da quando sono arrivato dalla provincia, e che dapprima... dapprima... Ma sì, perché non dovrei confessarlo? Da principio io le avevo promesso di sposare sua figlia, una promessa verbale, fatta senza forma... Era una ragazza... oltre a tutto mi piaceva, anche se non ne ero innamorato... insomma, la giovinezza... voglio dire che la padrona, allora, mi faceva molto credito e io, ecco, conducevo una vita... be', ero molto sregolato...» 
 «Non ci interessano affatto questi particolari intimi, egregio signore, e non abbiamo tempo di ascoltarvi,» lo interruppe villanamente e con aria di trionfo Iljà Petròviè, ma Raskòlnikov lo rimbeccò impetuosamente, sebbene a un tratto parlare gli fosse divenuto molto penoso. 
 «Ma lasciate, lasciate che vi racconti almeno in parte... come sono andate le cose... dal mio punto di vista.. anche se questo, sono d'accordo, è inutile raccontarlo; comunque un anno fa la ragazza è morta di tifo, e io sono rimasto l'inquilino che ero, mentre la padrona, dopo essersi trasferita nell'appartamento dove sta adesso, mi disse... e me lo disse del tutto amichevolmente... che aveva piena fiducia in me, e così via... ma che sarebbe stata contenta se le avessi rilasciato questa cambiale di centoquindici rubli, la cifra del mio debito. E badate bene: disse, precise parole, che non appena le avessi rilasciato questa carta, mi avrebbe fatto tutto il credito che io avessi voluto; e che mai, mai, per quanto la riguardava (furono le sue proprie parole), si sarebbe valsa di questa carta, prima che io stesso non fossi stato in grado di pagare... Ed ecco, ora che ho perduto le mie lezioni e non ho niente da mangiare, lei vuole che la cambiale sia pagata... giudicate voi stessi...» 
 «Tutti questi particolari sentimentali, egregio signore, non ci riguardano affatto,» interloquì brutalmente Iljà Petròviè. «Voi dovete dare una risposta e assumervi un impegno, mentre il fatto che siete stato innamorato e tutti questi altri particolari tragici non ci interessano proprio un fico secco.» 
 «Be', tu... sei un po' crudele...» mormorò Nikodìm Fòmiè, sedendosi al tavolo e cominciando anche lui a firmare delle carte. Sembrava che provasse vergogna. 
  «Scrivete,» disse l'impiegato a Raskòlnikov. 
  «E cosa scrivo?» chiese questi in tono piuttosto brusco. 
  «Vi detterò io.» 
 Parve a Raskòlnikov che l'impiegato lo trattasse in modo più villano e sprezzante dopo la sua confessione; ma, strano a dirsi, a un tratto gli era divenuta del tutto indifferente qualsiasi opinione altrui, e questo cambiamento si era prodotto proprio in un batter d'occhio, in un istante. Se solo ci avesse pensato un poco, certamente si sarebbe meravigliato di aver potuto esprimersi, poco prima, in quella maniera, e perfino esibire i suoi sentimenti. E da dove venivano, poi, quei sentimenti? Se adesso la stanza si fosse riempita improvvisamente non di poliziotti, ma dei suoi più intimi amici, anche in quel caso, gli sembrava, non avrebbe trovato per loro nemmeno una parola, tanto era diventato vuoto il suo cuore. La sua anima avvertì una cupa sensazione di torturante, sconfinata solitudine e distacco. Non era stato per vergogna delle sue effusioni sentimentali davanti a Iljà Petròviè, e nemmeno per l'umiliazione del trionfo riportato su di lui dal tenente, che il suo cuore era cambiato così. Cosa gliene importava, adesso, della sua ignominia, di tante ambizioni, di questi tenenti, di queste femmine tedesche, delle cambiali, degli uffici di polizia e di tutto il resto? Anche se in quel preciso momento lo avessero condannato al rogo, neanche allora avrebbe mosso un dito, e forse non avrebbe nemmeno ascoltato con attenzione la sentenza. Ciò che gli succedeva 
era qualcosa di completamente ignoto, nuovo, repentino, mai accaduto prima. Non è che comprendesse, tuttavia sentiva nitidamente, con tutta la forza della sua facoltà di percezione, che gli sarebbe ormai riuscito impossibile rivolgersi a queste persone dell'ufficio di polizia, non solo con le effusioni sentimentali di poco prima, ma in qualsiasi altro modo, e anche se fossero stati tutti suoi fratelli o sorelle, anziché ufficiali di polizia, anche allora non sarebbe stato assolutamente il caso di rivolgersi a loro, in nessuna circostanza della vita. Mai sino a quell'istante aveva provato qualcosa di così strano e orribile; inoltre, cosa più angosciosa fra tutte, era una sensazione e non una consapevolezza, non un concetto: una sensazione immediata, la più angosciosa fra quante avesse mai provato nella sua vita. 
 L'impiegato si mise a dettargli la formula della dichiarazione di prammatica in questi casi, vale a dire: non posso pagare, ma mi impegno a farlo per la tal data (un giorno qualsiasi), non mi allontanerò dalla città, non venderò né farò donazione dei miei averi eccetera. 
 «Ma voi non riuscite quasi a scrivere, vi casca la penna dalla mano,» osservò l'impiegato, scrutando Raskòlnikov con curiosità. «Siete malato?» 
  «Sì... mi gira la testa... continuate a dettare!» 
  «Ma è tutto qui; firmate.» 
 L'impiegato prese il foglio e si occupò di altre pratiche. Raskòlnikov restituì la penna, ma invece di alzarsi e di an darsene, appoggiò i gomiti sulla tavola e si strinse la testa fra le mani. Era come se gli stessero conficcando un chiodo nel cervello. All'improvviso gli venne un'idea strana: alzarsi subito, avvicinarsi a Nikodìm Fòmiè e raccontargli tutto quanto era successo il giorno prima, tutto sino all'ultimo particolare, e poi farlo venire a casa sua e fargli vedere gli oggetti nascosti nell'angolo, nel buco. Lo stimolo ad agire così era tanto imperioso ch'egli si era già alzato dal suo posto per attuare il progetto. «Non sarà meglio pensarci un momento?» gli balenò nella mente. «Ma no, meglio farlo senza pensarci, e togliersi questo peso dalle spalle!» Ma a un tratto si fermò come impietrito: Nikodìm Fòmiè stava parlando tutto infervorato a Iljà Petròviè, e al suo orecchio giunsero queste parole: 
 «No, non può essere, li rilasceranno tutti e due. In primo luogo, è tutta una contraddizione; giudicate voi stesso: perché chiamare il portinaio, se fossero stati loro? Per denunciarsi da soli, forse? O per furberia? No, sarebbe eccessivo, come furberia... E, infine, lo studente Pestrjakòv è stato visto vicino al portone dai due portinai e dalla moglie di un artigiano o di un merciaiolo, proprio nell'istante in cui entrava: era in compagnia di tre amici, si è separato da loro proprio sul portone, e ha chiesto l'indirizzo ai portinai mentre i suoi amici erano ancora lì. Be', come può uno informarsi dell'indirizzo, se ci va con quel proposito? Quanto a Koch, prima di andare dalla vecchia è rimasto per mezz'ora seduto dall'orefice, di sotto. E da lì s'è mosso alle otto meno un quarto precise per salire dalla vecchia. Ora, vedete voi stesso...» 
 «Ma permettete, come mai sono caduti in una simile contraddizione? Loro stessi affermano di aver bussato e che la porta era chiusa, mentre tre minuti dopo, quando sono tornati col portinaio, è risultato che era aperta...» 
 «Questo è il bello: l'assassino era certamente là e si era chiuso dentro; e sicuramente ve lo avrebbero sorpreso se Koch non avesse fatto la sciocchezza di andare anche lui a cercare il portinaio. Proprio in quell'intervallo, l'altro ha avuto il tempo di scendere le scale e, in qualche maniera, di sgusciar via sotto il loro naso. Adesso Koch si fa il segno della croce con tutte e due le mani: ‹Se fossi rimasto là,› dice, ‹quello sarebbe stato fuori e mi avrebbe ammazzato con la scure.› 
Vuol far celebrare, il nostro Kock, un Te Deum alla russa: eh-eh!...» 
  «Ma l'assassino non l'ha proprio visto nessuno?» 
 «E in che modo? Quella casa è come l'arca di Noè,» osservò l'impiegato, che ascoltava dal suo posto. 
  «La faccenda è perfettamente chiara, chiarissima!» ripeté con foga Nikodìm Fòmiè. 
  «Chiara un accidente,» insisteva Iljà Petròviè. 
  Raskòlnikov prese il cappello e si avviò verso la porta, ma non la raggiunse... 
 Quando tornò in sé, si trovò seduto su una seggiola; alla sua destra c'era un uomo che lo sorreggeva, e a sinistra ce n'era un altro che teneva in mano un bicchiere giallo, pieno di acqua gialla; e Nikodìm Fòmiè stava in piedi davanti e lo guardava fisso. Raskòlnikov si alzò dalla sedia. 
  «E così, siete malato?» domandò Nikodìm Fòmiè in tono abbastanza brusco. 
 «Anche quando scriveva, è riuscito per miracolo a tenere la penna in mano,» osservò l'impiegato, sedendosi al suo posto e ripigliando in mano le pratiche. 
 «Ed è molto che siete malato?» gridò Iljà Petròviè dal proprio posto, sfogliando lui pure delle carte. Anche lui, naturalmente, aveva esaminato il malato mentr'era svenuto, ma si era scostato subito, appena l'altro aveva ripreso i sensi. 
  «Da ieri...» mormorò Raskòlnikov. 
  «E ieri siete uscito di casa?» 
  «Sì, sono uscito.» 
  «Malato?» 
  «Malato.» 
  «A che ora?» 
  «Dopo le sette di sera.» 
  «E dove siete andato, se è lecito?» 
  «In giro per la strada.» 
  «Conciso ed esauriente.» 
Raskòlnikov, pallido come un cencio lavato, rispondeva seccamente, a scatti, senza abbassare i suoi occhi neri e infiammati davanti allo sguardo di Iljà Petròviè. 
  «Ma come, si regge appena in piedi, e tu...» cominciò a dire Nikodìm Fòmiè. 
 «Non im-por ta!» pronunciò in un tono tutto particolare Iljà Petròviè. Nikodìm Fòmiè stava per aggiungere ancora qualcosa ma, lanciata un'occhiata all'impiegato, che lo stava anch'egli guardando molto fissamente, preferì tacere. Nessuno parlava. Era strano. 
  «E va bene,» concluse Iljà Petròviè, «noi non vi tratteniamo.» 
 Raskòlnikov uscì. Una volta uscito, poté ancora udire come di colpo si accendesse una conversazione molto animata, nella quale risuonava più forte di tutte la voce interrogativa di Nikodìm Fòmiè... In strada Raskòlnikov si riebbe del tutto. 
 «Una perquisizione, una perquisizione, faranno subito una perquisizione!» ripeteva tra sé, affrettando il passo. «Canaglie! Sospettano di me!» Il terrore di poco prima lo invase tutto di nuovo, dalla testa ai piedi. 



  «E se la perquisizione l'avessero già fatta? E se me li trovassi già in casa?» 
 Ma ecco la sua stanza. Niente e nessuno: non c'è stato nessuno. Anche Nastàsja non ha toccato nulla. Ma santo Iddio! Come aveva potuto lasciare tutta la roba in quel buco? 
 Si slanciò verso l'angolo, ficcò la mano sotto la tappezzeria e cominciò a tirar fuori gli oggetti e a riempirsene le tasche. Erano otto in tutto: due scatolette, con dentro orecchini o qualcos'altro del genere: non stette ad esaminarli; poi quattro astuccetti di marocchino. Una catenina era avvolta semplicemente in un pezzo di giornale. Qualcos'altro, forse una decorazione, pure in un pezzo di giornale... 
 Ficcò tutto in varie tasche, quelle del soprabito e la tasca destra dei calzoni, l'unica rimasta, badando che si notasse il meno possibile. Insieme a quegli oggetti prese anche il borsellino. Poi uscì dalla stanza, questa volta lasciando addirittura la porta spalancata. 
 Camminava con passo rapido e fermo, e sebbene si sentisse a pezzi, era cosciente di quel che faceva. Temeva d'essere inseguito, e che di lì a mezz'ora o a un quarto d'ora potessero già dare ordine di pedinarlo; quindi occorreva far scomparire al più presto ogni indizio. Doveva riuscirci finché gli restavano ancora un po' di forze e una residua capacità di ragionamento... Ma dove andare? 
 Aveva già deciso da un pezzo: buttare tutto nel canale, così sparisce ogni traccia e la faccenda è chiusa. Lo aveva deciso già durante la notte, nel delirio, negli istanti in cui, lo ricordava bene, a più riprese era stato lì lì per cedere all'impulso di alzarsi e di uscire: «Sbrigarsi, sbrigarsi e buttar via tutto.» Ma la faccenda si rivelò molto difficile. 
 Da mezz'ora, o forse più, si aggirava lungo il canale Ekaterìninskij, e più volte, passandoci accanto, aveva lanciato sguardi furtivi alle rampe che portavano al canale. Ma quanto ad agire, era il caso di pensarci due volte: c'erano, proprio di fianco ai passaggi certi pontoni su cui le lavandaie stavano inginocchiate; oppure c'erano barche all'ormeggio, e dovunque era un brulicare di gente, tanto che avrebbero potuto vederlo da qualsiasi parte, lungo le strade che costeggiavano il canale: desta sospetto uno che scende, si ferma e getta qualcosa in acqua. E poi, se gli astucci non fossero andati a fondo, se avessero cominciato a galleggiare? Senza dubbio sarebbe andata così e tutti li avrebbero notati. Già adesso, incrociandolo, tutti lo guardavano, lo squadravano, come se non avessero altro da fare. «Perché, poi? Forse è soltanto una mia impressione,» pensò. 
 Infine gli venne in mente che sarebbe stato meglio, forse, arrivare sino alla Neva. Ci sarebbe stata meno gente, minor rischio d'esser notato; comunque sarebbe stato più agevole e, ciò che più conta, era lontano da lì. A un tratto si meravigliò: come mai aveva sprecato una buona mezz'ora a girovagare, tutto triste e inquieto, in quei posti pericolosi? Come mai non ci aveva pensato prima? Aveva perso mezz'ora buona per una cosa assurda, solo perché aveva deciso così nel sonno, nel delirio! Stava diventando terribilmente distratto e smemorato, e se ne rendeva conto. Doveva spicciarsi ad ogni costo! 
 Si avviò verso la Neva seguendo il V-j Prospèkt; ma per via, all'improvviso, lo colse una nuova idea: «Perché nella Neva? Perché proprio nell'acqua? Non sarebbe meglio andare in qualche posto molto lontano sia pure di nuovo sulle Isole, e là, in un angolino solitario, in un boschetto, sotto un cespuglio, seppellire tutta questa roba, e magari tenere a mente il posto?» Benché sentisse che non poteva in quel momento, prendere decisioni chiare e sensate, l'idea gli sembro azzeccatissima. 
 Ma era destino che non arrivasse nemmeno sulle Isole, perché le cose presero un'altra piega: sbucando dal V-j Prospèkt sulla piazza, d'un tratto scorse, a sinistra, l'ingresso a un cortile fiancheggiato da muri senza finestra. Sulla destra, appena oltre il portone, cominciava, e si spingeva lontano nel cortile, il muro senza intonaco e senza finestre del vicino fabbricato a quattro piani. Sulla sinistra, sempre subito dopo il portone e parallelamente a questo muro, correva una stecconata, che proseguiva per una ventina di passi nel cortile e poi piegava a sinistra. Era un posto riparato e solitario che serviva da deposito di materiali. Più in là, in fondo al cortile, s'intravvedeva dietro la stecconata il profilo di una bassa rimessa in muratura, tutta affumicata, che faceva corpo, evidentemente, con qualche fabbrica. Dentro c'era, di sicuro, l'officina di un carradore o di un fabbro, o qualcosa di analogo; tutto, a partire quasi dal portone, era nero di polvere di carbone. «Ecco il posto per buttar via la roba e andarmene!» pensò. Non vedendo nessuno nel cortile, varcò il portone, e proprio lì accanto vide, a ridosso dello steccato, uno scolo per l'acqua sudicia (com'è frequente nelle case abitate in prevalenza da operai, artigiani, vetturini, ecc.): al di sopra, sulla stecconata, era scritta col gesso la solita spiritosaggine: «Vietato fermarsi». Era già un bene, dunque, il fatto che nessuno potesse sospettarlo d'essere entrato lì e di esservisi fermato. «Gettare tutto quanto alla rinfusa, e andarsene!» 
 Dopo essersi guardato attorno ancora una volta, aveva già ficcato una mano in tasca, quando a un tratto, proprio vicino al muro esterno, tra il portone e lo scolo d'acqua, in uno spazio di un metro circa al massimo, notò una grossa pietra non sgrossata, del peso approssimativo di una ventina di chili, appoggiata direttamente al muro esterno. Oltre il muro c'erano la strada, il marciapiede, si sentiva l'andirivieni dei passanti, sempre abbastanza numerosi in quel punto; ma dietro il portone nessuno poteva vederlo, a meno che non avesse deviato dalla strada, cosa che d'altronde era possibilissima: bisognava quindi sbrigarsi. 
 Egli si chinò sulla pietra, ne afferrò saldamente, con tutt'e due le mani, la sommità, chiamò a raccolta tutte le sue forze e la rovesciò. Sotto s'era formata una piccola cavità: subito egli cominciò a gettarvi il contenuto delle sue tasche. Il borsellino finì proprio in cima, ma nella cavità c'era ancora spazio. Quindi afferrò di nuovo il sasso, con una sola mossa lo rivoltò com'era prima ed esso ritrovò esattamente lo stesso posto; soltanto appariva, forse, un tantino più alto. 
 Ma egli raccolse un po' di terra e con il piede la schiacciò contro gli orli del sasso. Così non rimanevano tracce. 
 Allora uscì, e si diresse verso la piazza. Di nuovo, come prima all'ufficio di polizia, l'invase per un istante una gioia intensa, quasi insopportabile. «L'incidente è chiuso! A chi mai verrà in mente di cercare sotto quella pietra? È probabile che essa si trovi lì da quando è stata costruita la casa, e che vi rimanga per altrettanto tempo. Ma anche se trovano la roba, chi può pensare a me? È tutto finito! Non esistono prove!» e scoppiò a ridere. In seguito si ricordò di quel suo ridere nervoso, minuto, sommesso, prolungato, e di aver continuato a ridere mentre attraversava la piazza. Ma quando arrivò al corso K., dove due giorni prima aveva incontrato quella ragazza, smise subitò di ridere. Altri pensieri gli occuparono la mente. Di colpo gli sembrò di provare un tremendo disgusto nel passare davanti a quella panchina, sulla quale quel giorno, dopo che la fanciulla se n'era andata, era rimasto seduto a meditare, e pensò come sarebbe stato penoso incontrare di nuovo quell'agente al quale aveva dato venti copeche: «Che il diavolo se lo porti!» 
Camminava guardandosi in giro distratto e iracondo. Tutti i suoi pensieri vorticavano ora intorno a un punto fondamentale, ed egli stesso sentiva che era davvero fondamentale e che adesso, proprio adesso, egli rimaneva a tu per tu con esso, per la prima volta dopo due mesi. 
 «Che vada tutto al diavolo!» pensò d'un tratto in un accesso di rabbia smisurata. «Be', se la faccenda ha preso questa piega, è segno che doveva prenderla: al diavolo lei e la nuova vita! Dio mio, com'è tutto stupido! e quante bugie ho detto oggi, quante porcheriole ho fatto! Come sono stato schifosamente servile e strisciante, poco fa, con quel ributtante Iljà Petròviè! Del resto, anche queste sono sciocchezze! Me ne infischio di tutti loro, e anche di esser stato servile e strisciante! 
Non è questo che conta! Non è questo! Non è questo!...» 
 D'un tratto si fermò: all'improvviso una nuova domanda, completamente imprevista e straordinariamente semplice, lo disorientò, colmandolo di amaro stupore: 
 «Se davvero tutto questo l'ho fatto coscientemente e non da pazzo, se mi proponevo davvero uno scopo ben preciso, come mai non ho neanche guardato nel borsellino e non so neanche che cosa mi è toccato, per che cosa mi sono cacciato in tutti questi guai, decidendomi consapevolmente a un'azione così vile, disgustosa e bassa? Poco fa volevo addirittura buttarlo nell'acqua, il borsellino, insieme a tutti gli oggetti che nemmeno ho guardato... Come si spiega?» 
 Sì, era così, era proprio così. Del resto, lo sapeva già prima, e non era affatto una questione nuova per lui; la notte in cui aveva deciso di gettare tutto in acqua, lo aveva deciso senza esitazioni od obiezioni, come se così dovesse essere, come se non potesse essere diversamente... Sì, egli sapeva e ricordava tutto: quella decisione l'aveva già presa il giorno prima, già nell'istante in cui stava seduto davanti al baule e ne tirava fuori gli astucci... Era proprio così!... 
 «Dev'essere perché sono molto ammalato,» concluse; «mi sono tormentato e dilaniato da solo, e non so quel che faccio... Anche ieri, e anche ieri l'altro, non ho fatto che tormentarmi... Quando guarirò non mi tormenterò più... E se non guarissi per niente? Santo Dio! Quanto tutto ciò mi è venuto a noia!...» Camminava senza mai fermarsi. Avrebbe voluto distrarsi un po', ma non sapeva che cosa fare, che cosa intraprendere. Una sensazione nuova e irresistibile s'impadroniva di lui, sempre più intensa a ogni istante; una repulsione smisurata, quasi fisica, per tutto quanto lo circondava, una repulsione caparbia, rabbiosa, piena di livore. Gli facevano ribrezzo tutte le persone che incontrava, gli facevano ribrezzo i loro volti, il loro passo, i loro gesti. A qualcuno, avrebbe addirittura sputato addosso, e se qualcuno gli avesse rivolto la parola, forse lo avrebbe morso... 
 Si fermò di colpo sbucando sul lungofiume della Màlaja Neva, sul Vasìlevskij Òstrov, presso il ponte. «Ecco, lui abita qui, in questa casa,» pensò. «A quanto sembra, ho finito per venirci, da Razumìchin... Di nuovo la stessa storia... Sarei molto curioso di sapere se ci sono venuto apposta o se sono semplicemente passato di qui, mentre me ne andavo a zonzo... Comunque sia, l'altro ieri ho detto che sarei venuto da lui dopo, dopo quella cosa, ed eccomi qua! Ormai non posso fare a meno di salire da lui...» 
 Salì da Razumìchin, al quinto piano. L'amico era in casa, nella sua stanzetta; in quell'istante stava facendo qualcosa, scriveva, e fu lui ad aprire la porta. Erano quattro mesi che non si vedevano. Razumìchin se ne stava in casa con addosso una vestaglia tutta a brandelli, i piedi nudi infilati nelle pantofole, arruffato, il viso non lavato né rasato. Sul suo volto si dipinse lo stupore. 
 «Che hai?» esclamò, osservando dalla testa ai piedi il compagno appena entrato; poi tacque ed emise un fischio. 
 «Ma davvero ti va così male? Tu, caro amico, mi hai battuto su tutta la linea,» aggiunse, esaminando gli stracci indossati da Raskòlnikov. «Su, coraggio, siediti, devi essere stanco!» e quando l'altro si abbandonò a corpo morto su un sofà turco, foderato d'incerata, ch'era ancora peggio del suo, Razumìchin s'accorse a un tratto che il suo visitatore era ammalato. 
 «Ma tu sei malato sul serio, te ne rendi conto?» e cominciò a tastargli il polso. Raskòlnikov liberò la mano. 
 «Lascia stare,» disse, «sono venuto per... ecco: non ho più lezioni e volevo... del resto non ho affatto bisogno di lezioni...» 
«Sai cosa ti dico? Tu deliri!» concluse Razumìchin, il quale lo stava osservando attentamente. 
 «No, non deliro...» Raskòlnikov si alzò dal divano. Mentre saliva le scale per andare da Razumìchin, non aveva minimamente pensato che avrebbe dovuto trovarsi con lui faccia a faccia. Ma adesso si era reso conto, fattane l'esperienza, che la cosa alla quale era meno disposto era proprio incontrarsi faccia a faccia con qualcuno. La bile gli era ribollita dentro, e s'era sentito quasi soffocare dall'ira contro se stesso, appena varcata la porta di Razumìchin.  «Addio!» disse repentinamente e fece per andarsene.  «Ma aspetta un momento, aspetta, bel tipo che sei!» 
  «Lascia stare!...» ripeté lui, liberando di nuovo la mano. 
  «Ma allora, che diavolo sei venuto a fare da me? Sei forse impazzito? Alla fine... mi offendi. 
Non ti lascio andar via così.» 
 «Va bene, senti: ero venuto da te perché oltre a te non conosco nessuno che mi possa aiutare... perché tu sei il più buono di tutti, cioè più intelligente, e puoi capire... Ma adesso capisco che non ho bisogno di nulla, capisci, assolutamente di nulla... di nessun aiuto e di nessuna simpatia... 
 Io stesso... da solo... E adesso basta! Lasciatemi in pace!» «Ma aspetta un momentino, matto che non sei altro! Sì, sei proprio matto! Per me, fa' come vuoi. Devi sapere che di lezioni non ne ho nemmeno io, ma me ne infischio, poiché al Mercato degli stracci c'è un venditore di libri, di nome Cheruvìmov, che in un certo senso mi fa le veci delle lezioni. Oggi come oggi non lo baratterei con cinque lezioni in casa di mercanti. Egli fa certe edizioncine, e pubblica certi libriccini di divulgazione scientifica, che vanno a ruba! I soli titoli valgono un perù! Tu hai sempre detto che io sono stupido, ma te lo giuro, fratello mio, c'è gente più stupida di me! Adesso s'è messo anche nel movimento; lui non ne capisce un'acca, ma io naturalmente lo stimolo. Ecco, questi sono più di due fogli di stampa in tedesco, secondo me tutte indecenti ciarlatanerie: per farla breve, si discute se la donna sia un essere umano oppure no. E, naturalmente, si finisce per dimostrare che è un essere umano. Cheruvìmov pubblica di questa roba sulla questione femminile. Io traduco, lui da questi due fogli e mezzo ne tirerà fuori sei, inventeremo uno sfarzoso titolo lungo mezza pagina, e metteremo in vendita il tutto per mezzo rublo. E te lo dico io, andrà! Per la traduzione mi spettano sei rubli d'argento per ogni foglio, quindi in tutto mi beccherò un quindici rubli, e sei rubli li ho già avuti in anticipo. Appena finito questo, cominceremo a tradurre qualcosa sulle balene, poi dei brani dalla seconda parte delle Confessions. Abbiamo messo gli occhi su certi stupidissimi pettegolezzi, e li tradurremo. Qualcuno deve aver detto a Cheruvìmov che Rousseau è una specie di Radìšèev... Io, naturalmente, non lo contraddico, che il diavolo se lo porti!... Allora, vuoi tradurre tu il secondo foglio di La donna è un essere umano? Se ti va, prenditi subito il testo, delle penne, della carta tutta roba che non pago io - e anche tre rubli: dato che ho già avuto in anticipo il compenso per la traduzione del primo e del secondo foglio, a te, per la tua parte, ne spettano senz'altro tre. Poi, quando avrai finito il foglio, avrai altri tre rubli d'argento. Inoltre, ti prego di non considerarlo un favore che io faccio a te. Al contrario, appena sei entrato, ho pensato subito che mi saresti stato utile. Intanto sono debole in ortografia, e poi il mio tedesco è un disastro, sicché, più che altro, invento tutto, e mi consolo solo pensando che così, forse, vien meglio. Ma se invece - chi può mai dirlo? - venisse peggio, e non meglio?... Allora, li vuoi o non li vuoi, questi fogli?» 
 Raskòlnikov prese in silenzio i fogli dell'articolo tedesco, intascò i tre rubli e, senza dire una sola parola, uscì. Razumìchin lo seguì meravigliato con lo sguardo. Ma arrivato alla prima svolta, Raskòlnikov improvvisamente tornò indietro, salì ancora da Razumìchin, depose sul tavolo i fogli in tedesco e i tre rubli e, sempre in silenzio, fece per andarsene. 
 «Ma tu sei proprio diventato pazzo!» si mise a urlare Razumìchin che alla fine aveva perso le staffe. «Che razza di parte reciti?! Mi hai fatto scappare la pazienza... Insomma, per tutti i diavoli dell'inferno, cosa sei venuto a fare qui da me?» 
  «Non ho bisogno... di traduzioni...» mormorò Raskòlnikov, mentre già scendeva le scale. 
«E che diavolo vuoi?» gridò dall'alto Razumìchin. Ma l'altro continuava a scendere in 
silenzio. 
 «Ehi, tu! Dove abiti?»  Nessuna risposta. 
  «Be', che il diavolo ti po-o-rti!...» 
 Raskòlnikov stava già uscendo nella strada. Sul ponte Nikolàevskij fu costretto, ancora una volta, a tornare completamente in sé, a causa di un incidente quanto mai spiacevole che gli capitò. Il cocchiere di una carrozza gli mollò una gran frustata sul dorso perché a momenti andava a finire sotto i cavalli, sebbene il cocchiere lo avesse avvertito tre o quattro volte gridando. Il colpo di frusta lo fece montare in collera a tal segno che, balzando verso il parapetto (chissà perché stava camminando nel mezzo del ponte, dove passano i veicoli e non le persone), digrignò rabbiosamente i denti. Com'è naturale, intorno a lui scoppiarono delle risate. 
  «Ben gli sta!» 
  «Sarà uno di quei mascalzoni che...» 
  «Già, fingono d'essere ubriachi, e si cacciano apposta sotto le ruote per farsi pagare i danni.» 
  «È il loro mestiere, caro amico, bisogna pur campare in qualche modo...» 
 Ma mentre si trovava ancora presso il parapetto, continuando a fissare con uno sguardo ottuso e iracondo la carrozza che si allontanava e stropicciandosi la schiena, sentì, a un tratto, che qualcuno gli ficcava in mano dei soldi. Guardò: era una matura mercantessa, con cappellino e scarpe di capretto ai piedi, accompagnata da una ragazza con cappellino e ombrellino verde, probabilmente sua figlia. «Prendi, bàtjuška, per amor di Cristo.» Egli prese i soldi, e quelle passarono oltre. Era una moneta da venti copeche. Il vestito e l'aspetto l'avevano certo fatto scambiare per un mendicante, per un raccoglitore di spiccioli nelle strade, e quell'obolo di ben venti copeche lo doveva sicuramente al colpo di frusta, che aveva impietosito le due donne. 
 Egli strinse la moneta nella mano, fece una decina di passi e si volse con la faccia verso la Neva, in direzione del castello. In cielo non c'era neanche una nuvoletta, l'acqua era quasi azzurra, cosa che nella Neva capita di rado. La cupola della cattedrale, che da nessun posto si vede così bene come da lì, sul ponte, a una ventina di passi dalla cappella, splendeva tutta, e attraverso l'aria limpida si distingueva nettamente ogni suo minimo dettaglio. Il bruciore della frustata s'era calmato e Raskòlnikov non pensava più al colpo ricevuto; un pensiero inquietante e non del tutto limpido lo assorbiva adesso per intero. Indugiò a lungo guardando lontano; quel posto gli era particolarmente familiare. Quando frequentava l'università, gli capitava - per lo più mentre stava rincasando -, e forse gli era capitato un centinaio di volte, di fermarsi proprio in quel posto, e di contemplare quella veduta stupenda, e ogni volta gli era capitato anche di esser sorpreso da un'impressione vaga e insondabile. Quella magnifica veduta suscitava sempre in lui un senso di inesplicabile freddezza; in quella veduta stupenda egli avvertiva la presenza di uno spirito muto e sordo... Ogni volta si meravigliava di quell'impressione cupa e arcana, e ogni volta rimandava al futuro la soluzione dell'enigma, non avendo fiducia in se stesso. In quel momento, ricordando di colpo le sue domande e perplessità d'un tempo, gli parve di non essersene rammentato per puro caso. Gli sembrò un fatto singolare e sbalorditivo già l'essersi fermato proprio in quel posto, come in passato, quasi avesse potuto immaginare che le cose, ora, gli sarebbero apparse nello stesso modo di prima, e che si sarebbe interessato agli stessi argomenti e alle stesse visioni di cui s'era interessato... ancora così di recente. Gli venne quasi da ridere, e insieme si sentì stringere il petto fino al dolore... Come in una specie di profondità, appena visibile a picco sotto di lui, gli apparvero tutto quel passato e tutti i pensieri d'un tempo, i problemi, gli argomenti e le impressioni d'un tempo, e quella veduta, e se stesso, e tutto, tutto... Gli sembrava di volare da qualche parte molto in alto, e tutto si dileguava ai suoi occhi... Un involontario movimento della mano gli fece sentire, a un tratto, nel pugno chiuso, la moneta da venti copeche. Disserrò la mano, guardò fisso la monetina, prese lo slancio e la gettò nell'acqua; poi si voltò e andò a casa. Gli parve in quell'istante di essersi tagliato via con le sue stesse mani, con un colpo di forbici, da tutto e da tutti. 
Arrivò a casa ch'era già sera; dunque era rimasto in giro, complessivamente, per circa sei ore. Da dove e in che modo fosse tornato indietro, tutto questo non lo ricordava. Quando si fu svestito, tremando in tutto il corpo come un cavallo esausto, si sdraiò sul divano, si tirò addosso il cappotto e subito si addormentò... 
 Fu svegliato in pieno crepuscolo da grida terrificanti. Dio mio, che grida erano quelle! Non gli era ancora mai capitato di sentire suoni così innaturali, simili a gemiti e singhiozzi, stridor di denti, pianti, botte e improperi. Non avrebbe nemmeno immaginato tanta bestialità, tanto furore. Si alzò inorridito a sedere sul letto, sentendosi a ogni istante agghiacciare e straziare. Ma nella zuffa, i gemiti e gli improperi non facevano che aumentare. E, fra le altre, con immensa meraviglia, egli distinse a un tratto la voce della padrona di casa. Urlava, strillava e si lamentava, ma tanto precipitosa era l'emissione delle parole, che era impossibile distinguerle; implorava qualcosa - sicuramente che smettessero di picchiarla, perché la stavano picchiando senza pietà sulle scale. La voce di chi picchiava s'era fatta spaventosa a tale segno per la rabbia e il furore, che era ormai un sordo e rauco borbottio, ma anche costui diceva qualcosa, e anche lui precipitosamente, in maniera inintelligibile, mangiando le parole, fino a restar senza fiato. A un tratto Raskòlnikov si mise a tremare come una foglia: aveva riconosciuto quella voce, era la voce di Iljà Petròviè. Iljà Petròviè era là, e picchiava la padrona! La pestava con i piedi, le sbatteva la testa contro un gradino, era chiaro, lo si capiva dal rumore, dai gemiti, dai colpi! Cos'era mai, forse il finimondo? Si udiva a tutti i piani, lungo tutta la scala, radunarsi una folla, si sentivano voci, esclamazioni, gente che saliva, picchiava le porte, le sbatteva, s'andava radunando di corsa. «Ma perché, ma perché... e com'è possibile?» andava ripetendo Raskòlnikov, pensando sul serio di essere completamente impazzito. Eppure udiva tutto con troppa chiarezza!... Ma allora non avrebbero tardato a venire anche da lui, se le cose stavano così, perché... naturalmente tutto questo dipendeva da quel fatto... dal fatto di ieri... Oh Signore! Lì per lì fu tentato di mettere il gancio alla porta, ma non riuscì nemmeno a sollevare la mano... e poi era inutile! Il terrore, come un gelo, aveva avvolto la sua anima, straziandola, paralizzandola... Ma ecco, finalmente, che tutto quel baccano, durato dieci minuti buoni, cominciò a poco a poco a calmarsi. La padrona gemeva e sospirava, Iljà Petròviè continuava a minacciare e a insultare... Poi ecco, finalmente, sembrò che anche lui si fosse calmato; ecco che non lo si udiva più: «Possibile che se ne sia andato! Santo Dio!» Ma sì, se ne andava anche la padrona, ancora gemendo e piangendo... Ecco che anche la sua porta si era chiusa con forza... Ecco la folla disperdersi, ritirarsi dalle scale; ciascuno torna a casa sua; lanciano esclamazioni, discutono, si chiamano ora alzando la voce fino a gridare, ora smorzandola fino al bisbiglio. Dovevano essere in molti; c'era mancato poco che accorresse l'intero casamento. «Ma, Dio mio, com'è possibile tutto questo? E perché, perché lui è venuto qui?» 
 Raskòlnikov crollò esausto sul divano, ma non poté più chiudere occhio; giacque così per circa mezz'ora, con una tale insopportabile sensazione di sconfinato terrore, quale mai aveva conosciuto. D'un tratto una luce vivida rischiarò la sua stanza: era entrata Nastàsja, con una candela e una scodella di minestra. Dopo averlo guardato attentamente, accortasi che non dormiva, posò la candela sulla tavola e cominciò a disporvi ciò che aveva portato: il pane, il sale, la scodella, il cucchiaio. 
 «Sarà magari da ieri che non mangi. Tutto il giorno a zonzo, eh? e sì che hai la febbre.»  «Nastàsja... perché hanno picchiato la padrona?»  Lei lo guardò fissamente. 
  «Chi ha picchiato la padrona?» 
 «Poco fa... una mezz'ora fa, Iljà Petròviè, il vice commissario, sulle scale... Perché l'ha picchiata così? e... come mai è venuto qui?...» 
 Nastàsja lo esaminava in silenzio, accigliata; e rimase a lungo a guardarlo così. Quell'esame lo mise molto a disagio, dandogli perfino un senso di paura. 
  «Nastàsja, ma perché non parli?» riuscì finalmente a dire con voce timida e fioca. 
  «È il sangue,» rispose lei sottovoce e come parlando tra sé. 
«Il sangue!... Quale sangue?...» mormorò lui, impallidendo e addossandosi alla parete. Nastàsja continuava a fissarlo in silenzio. 
 «N essuno ha picchiato la padrona,» disse poi in tono grave e reciso. Lui la guardava, trattenendo il respiro. 
 «Ma se ho sentito io stesso... Non dormivo... ero seduto qui,» mormorò ancor più timidamente. «Ho ascoltato a lungo. È venuto il vice commissario... Erano usciti tutti fuori, sulle scale, da tutti gli appartamenti...» 
 «Non è venuto nessuno. È il sangue che ti fa questi scherzi. Succede così quando il sangue non ha sfogo e comincia a raggrumarsi nel fegato; si comincia a veder cose che non ci sono... Allora, vuoi mangiare o no?» 
 Lui non rispose. Nastàsja continuava a stargli davanti, scrutandolo, e non si decideva ad andarsene. 
  «Dammi da bere... Nastàsjuška.» 
 Lei scese e tornò dopo un paio di minuti con dell'acqua in un bricco di terraglia bianca. Egli non serbò ricordo di quel che accadde dopo. Ricordò solo di aver bevuto un po' d'acqua fredda e di essersene versata, per sbaglio, dell'altra sul petto. Poi sopravvenne l'incoscienza. 



 Tuttavia, non restò in uno stato di completa incoscienza per tutta la durata della malattia: il suo era uno stato febbrile, con delirio e semicoscienza. Più tardi rammentò parecchie cose. Ora gli sembrava di avere attorno molta gente e che volessero portarlo via, da qualche parte, e discutessero molto e altercassero riguardo a lui. Ora, di colpo, si ritrovava solo nella stanza; tutti se n'erano andati, tutti avevano paura di lui, e solo ogni tanto socchiudevano l'uscio per dargli un'occhiata o minacciarlo; parlottavano fra loro, ghignavano e lo schernivano. Ricordò di aver avuto spesso vicino a sé Nastàsja; distingueva anche un'altra persona, che gli pareva di conoscere molto bene, ma chi fosse con precisione non riusciva in nessun modo a capirlo, e se ne crucciava al punto di piangere. Certe volte gli sembrava di essere a letto già da un mese, altre volte che fosse sempre la stessa giornata. Ma di quello, di quello s'era completamente dimenticato; in compenso, aveva il costante ricordo di aver dimenticato qualcosa che non avrebbe dovuto dimenticare; si tormentava, si torturava cercando di ricordarsene, gemeva, in preda al furore o a una tremenda, insostenibile paura. In quei momenti faceva degli sforzi per alzarsi, avrebbe voluto scappare, ma c'era qualcuno sempre che lo tratteneva a forza, e lui ripiombava nell'impotenza e nell'incoscienza. Alla fine, tornò completamente in sé. 
 Ciò accadde una mattina, verso le dieci. A quell'ora, come sempre nelle giornate serene, il sole fluiva in una lunga striscia lungo la parete di destra, e illuminava l'angolo vicino alla porta. Accanto al suo letto c'era Nastàsja, e oltre a lei una persona, un uomo, che lo osservava con grande curiosità e che gli era del tutto sconosciuto. Era un giovanotto in caffettano, con una corta barbetta e l'aspetto di uno di quei modesti impiegatucci che vengono mandati in giro, un po' come fattorini. 
Dall'uscio socchiuso faceva capolino la padrona. Raskòlnikov si sollevò. 
  «E questo chi è, Nastàsja?» chiese additando il giovane. 
  «Guarda è tornato in sé!» disse lei. 
 «Si è riavuto,» le fece eco il fattorino. Appena ebbe intuito ch'egli era tornato in sé, la padrona, che guardava dall'uscio, lo richiuse e si eclissò. Era sempre stata timida, e le conversazioni e le spiegazioni la mettevano a disagio; era una donna sulla quarantina, grassa e corpulenta, con sopracciglia nere e occhi neri, buona quanto era pingue e pigra; e di persona, oltre a tutto, molto piacente. Timida, poi, lo era oltre ogni dire. 
 «Voi... chi siete?» insistette Raskòlnikov, rivolgendosi direttamente al fattorino. Ma in quell'istante la porta si spalancò e, curvandosi un poco per via dell'altezza, entrò Razumìchin. 
«Una vera cabina,» gridò mentre entrava, «ci picchio sempre la fronte; e la chiamano stanza! 
Allora, mio caro, sei tornato in te? L'ho saputo un momento fa da Pàšenka.» 
  «Si è riavuto in questo momento,» fece eco di nuovo il fattorino con un sorrisetto. 
 «Ma voi chi siete, di grazia?» chiese, rivolgendosi di colpo a lui, Razumìchin. «Io, col vostro permesso, sono Vrazumìchin; non Razumìchin, come tutti si degnano di chiamarmi, ma 
Vrazumìchin, studente, figlio di nobile; e lui è amico mio. Ecco qua; e voi chi siete?» 
  «Io sono un impiegato del mercante šelopàev, e sono venuto qui per un affare.» 
 «Vogliate accomodarvi su questa sedia», e lo stesso Razumìchin ne occupò un'altra, dalla parte opposta del tavolino. «Tu, mio caro, era ora che tornassi in te,» disse a Raskòlnikov. «Son più di tre giorni che mangi e bevi per modo di dire. Davvero, sai? Ti si dava il tè col cucchiaino. Ho fatto venire due volte da te Zòsimov. Ti ricordi di Zòsimov? Ti ha visitato attentamente, e ha detto subito che sono solo sciocchezze: un po' di sangue, forse, che ti è andato alla testa. Una piccola cosa d'origine nervosa; cattiva nutrizione, ha detto: ti davano poca birra e poco rafano: di qui la malattia, ma non è nulla, passerà e sarai di nuovo a posto. Che bravo, quello Zòsimov! S'è messo a curarti proprio sul serio. Be', non voglio farvi perder tempo,» disse rivolgendosi di nuovo al fattorino. «Vorreste spiegarci quel che vi serve? Ti faccio notare, Ròdja, che è già la seconda volta che vengono dallo stesso ufficio; solo che la prima volta era venuto un altro, e ci eravamo spiegati con lui. Dite, chi era la persona venuta prima di voi?» 
 «Devo supporre che sia stato l'altro ieri... Già, proprio così. È stato Aleksèj Semënoviè a venire; anche lui lavora nel nostro ufficio.» 
  «Ma, se non sbaglio, la sa più lunga di voi; o sbaglio?» 
  «Sì, sì, è davvero una persona seria, lui.» 
  «Mi congratulo per queste vostre parole; be', continuate pure.» 
 «Dunque, da parte di Afanàsij Ivànoviè Vachrùšin, di cui, immagino, avrete sentito parlare più d'una volta, da parte sua, dicevo, ma per incarico della vostra mammina, e tramite il nostro ufficio, c'è una somma per voi,» cominciò a dire il fattorino rivolgendosi direttamente a Raskòlnikov. «Nel caso che siate tornato in sentimenti, vi si devono consegnare trentacinque rubli, dato che Semën Semënoviè, come l'altra volta, ne ha ricevuto istruzione da Afanàsij Ivànoviè, per incarico della vostra mamma. Vi dice qualcosa, tutto ciò?» 
  «Sì... ricordo... Vachrùšin...» ripeté Raskòlnikov in tono pensoso. 
 «Avete sentito: conosce il mercante Vachrùšin!» esclamò Razumìchin. «Altro che, se è in sentimenti! Del resto, adesso mi accorgo che anche voi siete un uomo di giudizio. Eh sì! I discorsi intelligenti li si ascolta volentieri.» 
 «Si tratta proprio di Vachrùšin, Afanàsij Ivànoviè Vachrùšin, per incarico della vostra mammina, che già l'altra volta ve li ha fatti avere nella stessa maniera, e anche questa volta, pochi giorni fa, ha pregato Semën Semënoviè, dal suo paese, di farvi avere trentacinque rubli, in attesa di meglio.» 
 «Ecco, questo ‹in attesa di meglio› vi è venuto meglio di tutto; e anche ‹la vostra mammina› non è poi male. Dunque, secondo voi, è tornato completamente in sé oppure no?»  «Per quello che mi riguarda... Soltanto, ci vorrebbe una specie di ricevuta...» 
  «La scarabocchierà! Cosa avete lì, un registro?» 
  «Un registro, ecco.» 
 «Date qua. Su, Ròdja, alzati. Io ti sorreggerò; scrivigli giù un Raskòlnikov; ecco, prendi la penna, così, perché, mio caro, in questo momento abbiamo urgenza di quattrini.»  «Lasciamo stare,» disse Raskòlnikov, allontanando la penna. 
  «Come sarebbe, lasciamo stare?» 
  «Non firmerò.» 
  «Ma, diavolo cane, come si fa senza ricevuta?» 
  «Non c'è bisogno... dei soldi...» 
 «Già, giusto: proprio dei soldi non c'è bisogno!... Be', queste, poi, ragazzo mio, son proprio sciocchezze! Vi prego, non ci badate, lui dice così tanto per dire... vaneggia di nuovo. Del resto, gli capita anche quando sta bene... Voi siete una persona di buon senso, noi lo guideremo, cioè semplicemente gli guideremo la mano, e lui firmerà Su, coraggio...» 
  «Se volete, posso tornare un'altra volta.» 
 «No, no, perché disturbarvi ancora? Vi rendete conto anche voi... Su, Ròdja, non far perdere tempo al nostro amico... Non vedi che aspetta?» ed egli si accinse sul serio a guidare la mano a Raskòlnikov. 
 «Lascia stare, farò da me...» disse questi. Prese la penna e firmò sul registro. Il fattorino sborsò il denaro e se ne andò. 
  «Bravo! E adesso, mio caro, vuoi mangiare?»  «Sì,» rispose Raskòlnikov. 
  «Avete della minestra?» 
  «Di ieri,» rispose Nastàsja, che era rimasta lì per tutto il tempo. 
  «Riso e patate?» 
  «Riso e patate.» 
  «Lo so a memoria. Porta la minestra e dacci del tè.» 
  «Subito.» 
 Raskòlnikov guardava ogni cosa con profondo stupore e con ottuso spavento. Aveva deciso di tacere e aspettare: che sarebbe successo, poi? «Non credo di avere il delirio,» pensava. «Sembra che sia tutto reale...» 
 Due minuti dopo Nastàsja tornava con la minestra, annunciando che il tè sarebbe seguito di lì a poco. 
 Con la minestra comparvero due cucchiai, due piatti e un intero servizio: saliera, pepaiola, mostarda per il manzo e via dicendo, tutte cose che, in così bell'ordine, non si vedevano da un pezzo. E la tovaglia era pulita. 
 «Non sarebbe male, Nastàsjaška, che Praskòvja Pàvlovna ci mandasse un paio di bottigliette di birra. Ce le scoleremmo volentieri.» 
  «Che furbacchione!» borbottò Nastàsja, e andò a eseguire l'ordine. 
 Raskòlnikov continuava a guardarsi intorno con aria sorpresa e intenta. Nel frattempo Razumìchin gli si era seduto accanto sul divano, sorreggendogli la testa in maniera goffa, come un orso, con la mano sinistra, anche se lui avrebbe potuto benissimo tirarsi su da sé, mentre con la mano destra gli avvicinava alla bocca il cucchiaio pieno di minestra, dopo averci soffiato su per precauzione varie volte, perché Raskòlnikov non si scottasse. 
 Ma la minestra era appena tiepida. Il malato ne inghiottì avidamente una cucchiaiata, poi una seconda e una terza. Però, dopo avergli dato alcune cucchiaiate, Razumìchin d'un tratto si fermò, dichiarando che prima di proseguire bisognava consigliarsi con Zòsimov. 
  Entrò Nastàsja con due bottiglie di birra. 
  «E il tè lo vuoi?» 
  «Sì.» 
 «Portaci subito anche il tè, Nastàsja. Per il tè possiamo fare a meno di consultare la facoltà di medicina. Ed ecco la nostra birra!» Razumìchin si rimise sulla sua sedia, avvicinò a sé la minestra e la carne, e cominciò a mangiare di buona lena, come se non avesse toccato cibo da tre giorni. 
 «Io, caro Ròdja, mangio così ogni giorno, qui da voi,» borbottò per quanto glielo permetteva la bocca piena di manzo, «ed è Pàšenka, la tua padroncina, che provvede a tutto ed è felice di servirmi. Io, naturalmente, non insisto per farmi servire, ma nemmeno protesto. Ed ecco Nastàsja col tè. Che svelta! Nàstenka, lo vuoi un goccio di birra?» 
  «Sempre ti va di scherzare!» 
  «E del tè?» 
  «Del tè, magari sì.» 
  «Versa. Aspetta, verso io; tu siediti a tavola.» 
Subito si diede da fare, versò una tazza di tè, poi un'altra, e interrompendo il suo desinare si sedette nuovamente sul divano. Come poco prima, circondò con la mano sinistra la testa dell'infermo, lo sollevò e cominciò a fargli bere il tè col cucchiaino, di nuovo soffiandoci sopra a tutto spiano, come se da questo suo soffiare dipendesse la guarigione dell'amico. Raskòlnikov taceva e lasciava fare, benché si sentisse abbastanza in forze per sollevarsi e star seduto sul divano da solo, senza alcun aiuto; e non soltanto, forse, per reggere con le mani il cucchiaino o la tazza, ma anche per camminare. Ma, per una strana forma d'astuzia quasi animalesca, gli era venuto in mente di dissimulare, per il momento, le proprie forze, di stare al riparo, perfino di fingere, al bisogno, di non essere in grado di comprendere tutto, e intanto di ascoltare e cercar di capire che cosa stesse succedendo intorno a lui. Tuttavia, non riuscì a dominare il suo disgusto per quel che faceva: sorbiti forse dieci cucchiaini di tè, d'un tratto liberò la testa, respinse capricciosamente il cucchiaino e di nuovo si lasciò andar giù sul cuscino. Sotto il capo, adesso, aveva degli autentici cuscini, di piuma e con le federe pulite; cosa che non mancò di colpirlo e di farlo riflettere. 
 «Bisogna che oggi stesso Pàšenka ci mandi della marmellata di lampone, così gli prepareremo una bevanda,» disse Razumìchin, rimettendosi a sedere al suo posto per finire la sua minestra e bere la sua birra. 
 «E i lamponi dove li trova?» domandò Nastàsja, tenendo il piattino sulle cinque dita aperte e sorbendo il tè attraverso la zolletta di zucchero che teneva in bocca. 
 «I lamponi, mia cara, li troverà alla bottega. Vedi, Ròdja, mentre tu eri malato qui c'è stata tutta una storia. Quando te la sei squagliata da casa mia, senza lasciarmi il tuo indirizzo, mi sono talmente arrabbiato da giurare a me stesso che ti avrei scovato e ti avrei conciato per le feste. E ho iniziato subito le mie ricerche. Quanto ho camminato, e quanta gente ho interrogato! Dove abitavi adesso me l'ero scordato; anzi, non l'avevo nemmeno mai ricordato, per il semplice fatto che non lo sapevo. Quanto all'abitazione di prima, ricordavo soltanto che si trovava ai Cinque Angoli, nell'immobile Charlamov. E sotto a cercare questo immobile Charlamov, ma poi salta fuori che non è affatto Charlamov, bensì Buch; guarda un po' come ci si confonde a volte con i nomi! Allora sono andato in bestia. E una volta andato in bestia, il giorno dopo mi sono precipitato al casellario, e immagina un po': in quattro e quattr'otto sapevo il tuo indirizzo. Sei schedato.» 
  «Sono schedato?» 
 «Altro che! E invece il generale Kobelëv non riuscivano a trovarlo, e questo proprio mentre ero lì io. Comunque, è troppo lungo raccontare tutto. Appena piombato qui da te, subito sono venuto a sapere tutto sul tuo conto, ma proprio tutto, mio caro, proprio tutto, sono al corrente di tutto; so tutto, ecco, può dirlo anche lei: ho fatto conoscenza con Nikodìm Fòmiè, e mi hanno mostrato Iljà Petròviè, e l'usciere, e il signor Zamëtov, Aleksàndr Grigòrieviè, impiegato del commissariato di zona, e finalmente anche Pàšenka, e questo è stato il coronamento dell'opera; anche lei può dirlo...» 
  «L'ha inzuccherata tutta,» borbottò Nastàsja, sorridendo furbescamente. 
  «E voi mettetela nel tè, Nastàsja Nikìforovna.» 
 «Brutta canaglia che non sei altro!» gridò a un tratto Nastàsja, scoppiando in una gran risata. «Io, poi, sono Petròvna, e non Nikìforovna,» aggiunse all'improvviso, quand'ebbe cessato di ridere.  «Cercherò di ricordarmelo. Così, mio caro, per farla breve, da principio mi era venuta voglia di dare a tutto, qui dentro, una bella scossa elettrica, così da liberare subito l'aria da ogni pregiudizio; ma Pàšenka ha avuto la meglio. Io, fratello mio, non mi aspettavo affatto che lei fosse così... be', così piacente... capisci? Tu che ne pensi?» 
 Raskòlnikov aveva sempre taciuto, pur non distogliendo per un solo istante il suo sguardo inquieto da Razumìchin, e adesso continuava a guardarlo fissamente. 
 «E anche parecchio,» proseguì l'altro, per nulla turbato da quel silenzio. Poi, come facendo eco a una risposta che avesse ricevuto, proseguì: «E costruita a dovere, sia di sopra che di sotto.» 
 «Sentilo, il porco!» esclamò di nuovo Nastàsja, cui questo discorso procurava, evidentemente, un'indicibile beatitudine. 
 «Il guaio, mio caro, è che fin da principio tu non ci hai saputo fare. Ci voleva altro, con lei. Il suo è, per così dire, il più imprevedibile dei caratteri! Be', del carattere parleremo dopo... Ma, ad esempio, come sei potuto arrivare al punto che lei ha osato non mandarti più da mangiare? E questa cambiale, per esempio? Eri forse impazzito, per metterti a firmar cambiali?! E quel progetto di matrimonio, per esempio, quando la figlia, Natàlja Egòrovna, era ancora viva?... Io so tutto! Del resto, vedo che è un punto delicato, e io sono un asino: devi scusarmi. Ma a proposito di stupidaggini: Praskòvja Pàvlovna non è poi, mio caro, così stupida come può sembrare a prima vista... Tu che ne pensi?» 
 «Sì...» mugolò Raskòlnikov guardando altrove, ma conscio del fatto che conveniva tenere in piedi quella conversazione. 
 «Non è forse vero?» esclamò Razumìchin, visibilmente contento per aver ricevuto una risposta. «Ma non è nemmeno troppo intelligente, vero? Un carattere assolutamente imprevedibile, già.. Io, mio caro, mi ci perdo un po', te l'assicuro... Quarant'anni li deve avere di sicuro. Lei dice trentasei, e ha diritto di dirlo. D'altronde, te lo giuro, sto giudicando di lei più che altro dal punto di vista intellettuale, metafisico, per così dire. Fra noi, mio caro, è nato un tale pasticcio allegorico... altro che la tua algebra! Non ci capisco un accidente! Be', tutte queste sono sciocchezze; ma lei vedendo che tu non eri più studente, che eri rimasto senza lezioni e senza uniforme e che dopo la morte della signorina era inutile continuare a trattarti come un parente, tutt'a un tratto si è spaventata; e siccome tu, dal canto tuo, ti eri rintanato e non coltivavi più nessuna delle relazioni di prima, ha pensato bene di farti sloggiare dalla stanza. Ce l'aveva da un pezzo, l'intenzione, ma le dispiaceva per la cambiale. Tu stesso, inoltre, assicuravi che avrebbe pagato tua madre.» 
 «Questo lo dicevo per pura vigliaccheria... Mia madre ci manca poco che si metta a chieder l'elemosina... Io mentivo perché mi lasciassero la stanza e mi dessero da mangiare,» disse Raskòlnikov con voce forte e ferma. 
 «In questo sei stato saggio. Senonché, a questo punto, è entrato in scena il signor èebàrov, consigliere di corte e uomo d'affari. Senza di lui, Pàšenka non avrebbe fatto niente, timida com'è; un uomo d'affari, invece, non è affatto timido, e naturalmente ha posto subito la domanda: c'è qualche speranza di riscuotere l'importo della cambiale? Risposta: sì, perché c'è una mamma che con i suoi centoventi rubli 
 di pensione, a costo di non mangiare niente lei stessa, il suo Ròdja lo tirerà fuori dai pasticci, e c'è anche una sorellina che per suo fratello è disposta a fare la serva. Ora, lui si è basato su questo... Ma perché ti agiti? Io, mio caro, ormai ho scoperto tutti i tuoi altarini, non per niente ti eri confidato con Pàšenka quando eravate ancora in rapporti di parentela, e adesso tutte queste cose, te le dico con affetto... Già, proprio così; una persona onesta e sensibile si lascia andare alla sincerità, e un uomo d'affari ascolta e pappa, preparandosi a pappare anche te. Così, lei ha ceduto la cambialetta - a quanto pare come pagamento - a questo èebàrov, il quale a sua volta, senza farsi scrupolo affatto, ha chiesto formalmente che venisse pagata. Io, lì per lì, saputo come stavano le cose, per mettermi a posto la coscienza, stavo già per dargli una buona scossa elettrica, ma nel frattempo tra me e Pàšenka s'era creata l'armonia, e così le ho ordinato di far finire tutta questa faccenda, di troncarla proprio alla fonte, garantendo che tu avresti pagato Ho garantito io per te, mio caro, capisci? Abbiamo fatto venire èebàrov, gli abbiamo sbattuto sul grugno dieci rubli d'argento, e lui ha restituito il documento, che ho l'onore di presentarti: ora ti si fa credito sulla parola... ecco, prendi... io l'ho già gualcito un po', com'è d'obbligo in questi casi.» 
 Razumìchin depose sul tavolo il pagherò cambiario; Raskòlnikov gli gettò un'occhiata e, senza dire nemmeno una parola, si voltò verso la parete. Razumìchin, stavolta, ci rimase male. 
 «Vedo, mio caro,» disse dopo un silenzio che durò circa un minuto, «che ne ho fatta un'altra delle mie. Pensavo di distrarti e di divertirti con le mie chiacchiere, ma, a quanto sembra, ti ho fatto soltanto venire la bile.» 
 «Eri tu che non riconoscevo, nel delirio?» chiese Raskòlnikov, dopo essere stato zitto anche lui per circa un minuto e sempre senza volgere il capo. 
«Proprio me, e diventavi addirittura furioso, soprattutto la volta che ho condotto con me 
Zamëtov.» 
  «Zamëtov?... L'impiegato?... E perché l'hai condotto?» 
  Raskòlnikov si volse di scatto e fissò lo sguardo su Razumìchin. 
 «Ma che ti piglia?... Di che ti preoccupi?... Voleva fare la tua conoscenza; lo desiderava perché s'era parlato molto di te... Altrimenti, da chi avrei potuto sapere tutte quelle cose sul tuo conto? Un bravissimo ragazzo, mio caro, un'ottima persona... nel suo genere, si capisce. Adesso siamo amici, ci vediamo quasi ogni giorno. Devi sapere che io, ora, abito in questo quartiere. Non lo sapevi ancora? Mi sono trasferito qui da poco. Con lui, siamo andati un paio di volte da Lavìza. Ti ricordi di Lavìza, Lavìza Ivànovna?» 
  «Parlavo, nel delirio?» 
  «Altro che! Non eri più padrone di te.» 
  «E cosa dicevo?» 
 «Questa poi!... Cosa dicevi nel delirio? Si sa bene quel che si può dire nel delirio... Be', mio caro, adesso, per non perdere tempo, mettiamoci al lavoro.»  Razumìchin si alzò dalla sedia e prese il berretto. 
  «Ma cosa dicevo nel delirio?» 
 «E dagli! Hai forse paura che ti sia scappato qualche segreto? Sta' tranquillo: della contessa non hai detto nulla. Ma di un certo mastino e di certi orecchini e di certe catenelle, e dell'Isola Krestòvskij, e di un certo portinaio, e di Nikodìm Fòmiè, e del vice commissario Iljà Petròviè, hai parlato moltissimo. Inoltre, ti interessava molto il tuo calzino, ma proprio molto! Datemi la mia calza, gemevi... non facevi che ripeterlo. Zamëtov ha cercato lui stesso in ogni angolo i tuoi calzini, e lui stesso, con le sue mani lavate, profumate e inanellate, ti ha dato quella porcheria. Soltanto allora ti sei calmato, e l'hai tenuta, quella porcheria, tra le tue mani per intere giornate: era impossibile portartela via. È probabile che anche adesso si trovi da qualche parte, sotto la coperta. E poi chiedevi frange di pantaloni, e con che voce piagnucolosa! Ti abbiamo chiesto e richiesto: a che ti servono queste frange? Ma non si poteva capir nulla di quello che dicevi... Be', e adesso al lavoro! Qui ci sono trentacinque rubli; ne prendo dieci, e fra un paio d'ore ti darò il rendiconto. Intanto mi farò vivo anche con Zòsimov, anche se avrebbe dovuto esser qui già da un pezzo, visto che sono le undici passate. E voi, Nastàsja, durante la mia assenza, fatevi vedere più spesso che potete, nel caso che lui desiderasse da bere o qualcos'altro... A Pàšenka dirò io stesso, tra un momento, quel che ci vuole. Arrivederci.» 
 «La chiama Pàšenka! Che razza di furbacchione!» disse Nastàsja appena Razumìchin fu uscito; aprì l'uscio e si mise ad ascoltare, ma poi non poté resistere e corse giù. La interessava troppo sapere di che cosa egli stesse parlando con la padrona; inoltre, in generale, era chiaro che era rimasta completamente affascinata da Razumìchin. 
 Appena l'uscio si richiuse dietro di lei, il malato si liberò della coperta e balzò su dal letto come un forsennato. Aveva atteso con febbrile, convulsa impazienza che se ne andassero per potersi mettere al lavoro. Ma a quale lavoro? Proprio in quel momento, neanche a farlo apposta, sembrava che se ne fosse scordato. «Signore Iddio; dimmi una cosa soltanto: sanno già tutto o non sanno ancora? E se sapessero tutto e facessero solo finta, per prendermi in giro, finché sono malato, e poi all'improvviso piombassero qui e dicessero che tutto è stato scoperto già da un pezzo, e che hanno agito così solo per... Allora, che devo fare? Ecco, l'ho dimenticato, come per dispetto; dimenticato di colpo, mentre un momento fa lo sapevo benissimo!» 
 Era in piedi in mezzo alla stanza, e si guardava intorno perplesso e angosciato. Si avvicinò all'uscio, lo aprì, si mise in ascolto; no, non era questo che doveva fare. A un tratto ricordò: si slanciò verso l'angolo dove c'era il buco della tappezzeria, scrutò attentamente, ficcò la mano nel buco e vi frugò dentro; ma non era nemmeno questo. Andò verso la stufa, l'aprì e prese a frugare nella cenere: i brandelli delle frange dei pantaloni e della tasca strappata erano lì, così come li aveva gettati quella volta: nessuno, dunque, ci aveva guardato dentro. Allora si ricordò della calza, di cui Razumìchin aveva parlato poco prima. Ma sì: era lì sul divano, sotto la coperta, ma si era talmente scolorita e insudiciata, da quel giorno, che certamente Zamëtov non aveva potuto distinguere nulla. 
 «Ah sì, Zamëtov!... il commissario!... E perché mi hanno convocato? Dov'è l'avviso? No!.. Mi confondo, è stato prima che m'hanno convocato! Anche allora avevo esaminato la calza, mentre questa volta... Questa volta ero malato. Ma perché Zamëtov è venuto qui? Perché Razumìchin lo ha portato da me?...» mormorava spossato, rimettendosi a sedere sul divano. «Che cosa succede? È ancora il delirio o è la realtà? A quanto pare, è la realtà... Ah sì, ora ricordo: fuggire! Fuggire al più presto, assolutamente, assolutamente fuggire! Ma dove?... E dov'è il mio vestito? Mancano gli stivali! Li hanno presi! Li hanno presi! Li hanno nascosti! Adesso capisco tutto! Però il cappotto è lì, non l'hanno visto! Ed ecco, grazie a Dio! ecco i soldi sulla tavola! Ed ecco la cambiale... Piglierò i soldi e me ne andrò, prenderò in affitto un'altra stanza e non riusciranno più a trovarmi!... E il casellario degli indirizzi, dove lo metto? Mi troveranno e come! Razumìchin mi scoverà di nuovo. Meglio fuggire del tutto... Iontano... in America, e che vadano tutti al diavolo! Prendere con me la cambiale... mi potrà servire. E che altro ancora? Loro credono che sia malato! Non sanno nemmeno che posso camminare, eh, eh, eh... L'ho capito dai loro occhi, che sanno tutto! Purché mi riesca di scendere le scale! Ma se là sotto ci fossero delle guardie, dei poliziotti? E questo cos'è? Del tè? Ah, ecco anche la birra, mezza bottiglia, fresca!» 
 Afferrò la bottiglia, in cui era rimasta birra per un intero bicchiere, e la vuotò di gusto tutta d'un fiato, come per spegnere un fuoco che gli ardesse nel petto. Ma non era trascorso un minuto che la birra gli diede alla testa, mentre per la schiena gli correva un brivido lieve e perfino gradevole. Si sdraiò e si tirò addosso la coperta. I pensieri, già così morbosi e incoerenti, gli si confusero ancor di più nella mente, e ben presto lo prese un sonno leggero e piacevole. Si sentì felice nel trovare con il capo un posto comodo sul guanciale; si avvolse meglio nella morbida coperta imbottita, che aveva sostituito il lacero cappotto di prima, sospirò debolmente e si addormentò di un sonno profondo e ristoratore. 
 Si svegliò sentendo che qualcuno entrava; aprì gli occhi e vide Razumìchin, il quale aveva spalancato 'luscio e stava sulla soglia, incerto se avanzare o no. Raskòlnikov si sollevò rapidamente sul divano e prese a guardarlo come sforzandosi di rammentare qualcosa. 
  «Ah, ma allora non dormi... Eccomi a te!... Nastàsja, porta qua il fagotto!» gridò 
Razumìchin verso le scale. «Ti farò subito un resoconto...» 
  «Che ora è?» domandò Raskòlnikov, guardandosi attorno inquieto. 
 «Eh sì, mio caro, ti sei fatto una gran dormita: è già sera, saranno le sei. Hai dormito più di sei ore...» 
  «Dio mio! Cosa mi ha preso?...» 
 «Che c'è di male? Buon pro' ti faccia! Dove hai fretta di andare? A qualche appuntamento, forse? Ormai siamo padroni del nostro tempo. Saranno già tre ore che aspetto; sono passato due volte e tu dormivi sempre. Sono stato due volte da Zòsimov: non è in casa, e chi s'è visto s'è visto! Ma non fa nulla: verrà!... Ho sbrigato anch'io qualche faccenduola. Oggi ho traslocato definitivamente, insieme con lo zio. Adesso, devi sapere, ho con me lo zio... Ma al diavolo tutte queste storie; mettiamoci al lavoro. Nàstenka, dammi il fagotto. Adesso noi... Ma a proposito, mio caro, come ti senti?» 
  «Sto bene, non sono malato... Razumìchin, da quanto tempo ti trovi qui?» 
  «Te l'ho detto, sono tre ore che aspetto.» 
  «No, volevo dire prima...» 
  «Prima quando?» 
  «Da quanto tempo vieni qui?» 
  «Ma se te l'ho già detto: non ti ricordi più?» 
 Raskòlnikov cercò di riflettere. Ciò che era accaduto gli sembrava un sogno. Da solo non riusciva a ricordare, e guardava Razumìchin con aria interrogativa. 
«Capisco,» disse l'altro, «l'hai dimenticato! Anche poco fa mi pareva che non ti fossi ripreso del tutto... Adesso però, dopo il sonno, stai meglio... Davvero, hai un aspetto molto migliore. Bravo! Ma veniamo al sodo! Vedrai che fra poco ricorderai tutto. Da' un'occhiata qui, mio caro.»  Cominciò a disfare il fagotto, che pareva interessarlo moltissimo. 
 «Che tu mi creda o no, mio caro, questa faccenda mi stava particolarmente a cuore. Bisogna pur fare di te un uomo... Avanti, cominciamo dall'alto. Vedi questo berretto?» prese a dire, togliendo dal fagotto un berretto abbastanza elegante, ma anche assai comune e di poco prezzo. 
«Permetti che te lo provi?» 
  «Dopo... più tardi,» borbottò Raskòlnikov con un gesto infastidito. 
 «No, caro Ròdja, non fare lo scontroso, dopo sarà troppo tardi; non potrei chiuder occhio per tutta la notte, perché l'ho comprato senza sapere la misura, a casaccio... Ti va a pennello!» esclamò in tono di trionfo, dopo averglielo provato. «È proprio il tuo numero! Il copricapo, ragazzo mio, è l'indumento principe, è una specie di raccomandazione. Un mio amico, Tolstjakòv, è costretto a levarsi il copricapo ogni volta che entra in un locale pubblico dove tutti gli altri, magari, se ne stanno col cappello o col berretto in testa. Tutti pensano che lo faccia per qualche sentimento servile e invece è solo perché si vergogna del suo cappellaccio: è una persona tanto timida! Be', Nàstenka, ecco qui due copricapi: preferisci questo palmerston», prese nell'angolo il cappello tondo, tutto acciaccato, di Raskòlnikov, da lui, chissà perché, battezzato palmerston, «o questo gioiello? E ora, Ròdja, che ne pensi: quanto l'ho pagato?... E tu, Nastàsjuška?» e si rivolse a lei, vedendo che l'altro stava zitto. 
  «L'avrai pagato venti copeche,» rispose Nastàsja. 
 «Venti copeche? Scema che non sei altro!» egli gridò, offeso. «Oggi per venti copeche non si compra nemmeno una femmina come te... quattro volte venti, ecco quanto l'ho pagato! E solo perché è usato. Ma c'è un patto: una volta consumato questo, l'anno venturo te ne danno un altro gratis, come è vero Dio! E adesso passiamo agli Stati Uniti d'America, come si chiamavano a scuola. Una premessa: sono fiero di questi pantaloni!» ed egli spiegò davanti a Raskòlnikov un paio di pantaloni grigi, di leggera stoffa estiva. «Neanche un buchetto, nessuna macchia, e tutt'altro che male, anche se sono usati; altrettanto dicasi del panciotto, dello stesso colore, come vuole la moda. Quanto all'essere usati, a dire il vero è perfino un vantaggio: sono più morbidi, più delicati. Vedi, Ròdja, per far carriera a questo mondo, secondo me, basta attenersi sempre alla stagione; se in gennaio non pretendi asparagi, conserverai qualche rublo in più in saccoccia; lo stesso vale per questo acquisto. Ora siamo d'estate, e io ho fatto un acquisto estivo; verso l'autunno sarà la stagione stessa a esigere una stoffa più calda, e tu dovrai liberarti di questa roba... tanto più che avrà avuto tutto il tempo di andare in pezzi; e sparirà da sola, se non per maggiori disponibilità finanziarie da parte tua, certamente per i suoi vizi intrinseci Su, dimmi il prezzo! Quanto credi che abbia speso? Due rubli e venticinque copeche! E, tienlo bene a mente: anche per questi vale il patto di prima, cioè, logorati questi calzoni, l'anno venturo ne avrai un altro paio gratis! Nella bottega di Fedjàev si vende solo così: una volta sborsati i soldi, basta per tutta la vita, perché un'altra volta sarai tu stesso a non andarci. E adesso passiamo agli stivali... Che te ne pare? Si vede che sono usati, ma per un paio di mesi andranno bene, perché è roba estera: li ha venduti una settimana fa al bazar un segretario dell'ambasciata inglese. Li aveva portati soltanto sei giorni, ma poi s'è trovato a corto di quattrini. Prezzo: un rublo e cinquanta copeche. Bel colpo, no?»  «Ma forse non gli vanno bene!» osservò Nastàsja. 
 «Non gli vanno bene?... E questa, allora, cos'è?» e Razumìchin tirò fuori di tasca una vecchia scarpa di Raskòlnikov, grinzosa, bucata, e tutta sporca di fango secco. «Ci sono andato portandomi questa per campione, ed è in base a questa schifezza che mi hanno dato la misura giusta. Tutta la trattativa è stata condotta col più cordiale affetto. Quanto alla biancheria, mi sono messo d'accordo con la padrona. Anzitutto, ecco tre camicie, di tela, sì, ma col colletto alla moda... Dunque: sono ottanta copeche il berretto, due rubli e venticinque il resto del vestiario, in totale tre rubli e venticinque. Un rublo e cinquanta gli stivali - perché son proprio di quelli buoni - e fanno quattro rubli e cinquantacinque copeche; più cinque rubli per tutta la biancheria - un affare all'ingrosso - fanno esattamente nove rubli e cinquantacinque copeche. Quarantacinque copeche di resto - tutti cinquini di rame, eccoli qui, prendili -, e così, Ròdja, sei vestito da capo a piedi, perché, secondo me, il tuo cappotto non solo può ancora andare, ma ha perfino un aspetto di particolare nobiltà: vedi cosa vuol dire ordinare gli abiti da Charmeur! Quanto ai calzini e al resto, ci penserai tu stesso; rimangono venticinque rubli. Quanto a Pàšenka e all'affitto non ci pensare. Te l'ho già detto: credito illimitato. E adesso, mio caro, lascia che ti si cambi la biancheria, perché, forse, tutti i tuoi malanni si sono annidati nella camicia...» 
 «Lasciami stare! Non voglio!» si schermiva Raskòlnikov, che aveva ascoltato con aria disgustata il resoconto pesantemente scherzóso di Razumìchin sull'acquisto degli indumenti 
 «Questo, mio caro, è impossibile; perché mai, se no, mi sarei consumato le suole?» insisteva Razumìchin. «Nastàsjuška, non fate la pudica, datemi una mano: ecco, così!» e nonostante la resistenza di Raskòlnikov, egli riuscì a cambiargli la biancheria. Raskòlnikov si lasciò cadere sul cappezzale, e per un paio di minuti non disse parola. 
 «Ma quando mi lasceranno in pace?» pensava. «Con che soldi è stata comprata tutta questa roba?» chiese alla fine, fissando la parete. 
  «Con che soldi? Questa sì che è buona! Con i tuoi. Poco fa c'è stato un fattorino, da parte di 
Vachrùšin; e i soldi te li ha mandati la mamma. O hai dimenticato anche questo?» 
 «Adesso ricordo,» disse Raskòlnikov dopo aver pensato a lungo, cupamente. Razumìchin, accigliato, gli lanciava occhiate inquiete. 
 L'uscio si aprì ed entrò un individuo alto e ben piantato; anche il suo aspetto parve a Raskòlnikov non del tutto nuovo. 
  «Zòsimov ! Era tempo !» esclamò Razumìchin, tutto contento. 



 Zòsimov era un individuo alto e corpulento, dal volto pallido e un po' enfiato, completamente rasato, i capelli biondicci e lisci, gli occhiali, e un grande anello d'oro infilato a un dito gonfio di grasso. Gli si potevano dare ventisette anni. Indossava un soprabito estivo, ampio ed elegante, e pantaloni leggeri di color chiaro; in generale, tutto ciò che portava era ampio, elegante e molto curato; la biancheria era irreprensibile, la catena dell'orologio massiccia. Le sue movenze e i suoi modi erano lenti e quasi fiacchi e, insieme, studiatamente disinvolti; la presunzione, del resto accuratamente nascosta, traspariva in lui di continuo. Tutti quelli che lo conoscevano lo giudicavano una persona dal carattere pesante, ma dicevano che come medico sapeva il fatto suo.  «Mio caro, sono passato da te già due volte... Vedi? È tornato in sé!» esclamò Razumìchin. 
 «Vedo, vedo; allora, come ci sentiamo?» chiese Zòsimov a Raskòlnikov, guardandolo attentamente e sedendosi accanto a lui in fondo al divano, dove subito si distese per quanto poté. 
 «Continua ad avere le paturnie,» proseguì Razumìchin, «poco fa gli abbiamo cambiato la biancheria e c'è mancato poco che si mettesse a piangere.» 
  «È naturale; gliela si poteva cambiare anche dopo, se non voleva. Il polso va bene, è buono. 
E la testa fa ancora un po' male?» 
 «Io sto bene, sto benissimo!» esclamò Raskòlnikov, in tono spazientito e ostinato, sollevandosi sul divano con un lampo d'ira negli occhi; ma subito ricadde sul guanciale e si sdraiò col viso rivolto alla parete. Zòsimov lo osservava attentamente. 
  «Molto bene... tutto in regola,» diss'egli con voce stanca. «Ha mangiato qualcosa?»  Glielo dissero, e gli chiesero cosa si poteva dare all'infermo. 
 «Tutto gli si può dare... Minestra, tè... Naturalmente, niente funghi e cetrioli, e anche la carne è meglio non dargliela, e... ma perché tante chiacchiere!...» scambiò uno sguardo con Razumìchin. «Via la mistura, e via tutto il resto; domani verrò a dare un'occhiata. Non sarebbe male farlo oggi... però...» 
«Domani sera lo porterò a passeggio!» decise Razumìchin, «nel parco Jusùpov, e poi faremo una capatina al Palazzo di cristallo.» 
  «Domani io non lo farei ancora muovere... però... forse un pochino... be', staremo a vedere.» 
 «Che sfortuna! Proprio oggi festeggio l'inaugurazione del mio nuovo alloggio: è qui a due passi; che bello se ci venisse anche lui! Magari potrebbe starsene sul divano, in mezzo a noi! Tu ci sarai, vero?» chiese a un tratto a Zòsimov. «Guarda di non dimenticartene, l'hai promesso.» 
  «Forse, magari sul tardi. Cos'hai preparato?» 
 «Niente di speciale: tè, vodka, aringhe. Verrà servito un pasticcio di carne... Ci saranno tutti i nostri.» 
  «E precisamente chi?» 
 «Tutta gente di qui, quasi tutta gente nuova. Già, tranne forse il mio vecchio zio; ma è nuovo anche lui: è arrivato a Pietroburgo soltanto ieri, per certi suoi affarucci; ci vediamo una volta ogni cinque anni.» 
  «Che tipo è?» 
 «Ha vegetato tutta la vita facendo il direttore delle poste in provincia; riceve una pensioncina, ha sessantacinque anni; non vale la pena di parlarne... Del resto, gli voglio bene. Verrà Porfìrij Petròviè, un giudice istruttore... un giurista. Ma lo conosci, credo...» 
  «Tuo parente anche lui?» 
 «Molto alla lontana; ma perché mi fai la faccia scura? Solo perché avete litigato una volta, adesso vorresti forse non venire?» 
  «Non me ne importa un fico di lui.» 
 «Meglio così. Be', e poi ci saranno dei maestri, un funzionario, un musicista, un ufficiale, Zamëtov...» 
 «Ti prego, vuoi spiegarmi cosa può esserci in comune fra te, oppure lui», Zòsimov indicò col capo Raskòlnikov, «e un individuo come Zamëtov?» 
 «Oh, che schizzinoso! I princìpi!... Tu sei tutto montato su princìpi, come su delle molle; non osi fare un solo passo di tua spontanea volontà; secondo me, invece, è una brava persona; ecco il principio, per me, e non voglio sapere altro. Zamëtov è un'ottima persona.» 
  «E prende le bustarelle.» 
 «Va bene, prende le bustarelle: e chi se ne frega? Che importa se le prende?» gridò Razumìchin irritandosi all'improvviso in maniera poco naturale, «ti ho forse parlato bene di lui perché prende le bustarelle? Ho detto che alla sua maniera è un gran brav'uomo! E poi, a voler cercare il pelo nell'uovo, credi che ne rimarrebbero molte di brave persone ? Ma allora per me, con tutta la mia trippa, darebbero sì e no una cipolla cotta, e anche quella soltanto se ci fossi tu di giunta!» 
  «È poco; io per te ne darei anche due, di cipolle...» 
 «E io invece, per te, una sola! Fa' pure dello spirito! Zamëtov è ancora un ragazzetto, e io gli darò una tiratina d'orecchi, perché il problema è di portarlo dalla nostra parte, e non di respingerlo. Respingendo un uomo non lo correggi, e tanto meno un ragazzo. Con un ragazzo ce ne vuole il doppio, di prudenza. Non capite proprio niente, voi, teste di rapa progressiste! Non rispettate gli altri, e finite per non rispettare voi stessi... E poi, se vuoi proprio saperlo, stiamo anche risolvendo insieme una questioncina.» 
  «Vorrei sapere quale...» 
 «Sempre quella del pittore, cioè dell'imbianchino... Lo faremo uscire; vedrai se non lo faremo uscire! Del resto, i suoi guai ormai sono finiti. Ormai la faccenda è perfettamente chiara! 
Noi ci limiteremo a darle una spinta.» 
  «Cos'è questa storia dell'imbianchino?» 
 «Come, non te l'ho raccontata? No?... Si vede che ti avevo raccontato solo il principio... Sai, a proposito dell'assassinio di quella vecchia usuraia, la moglie del funzionario... Be', adesso han tirato in ballo anche un imbianchino...» 
 «Di questo assassinio ho sentito parlare prima di te, e posso perfino dire che la questione mi interessa... almeno in parte... da un certo punto di vista... e ne ho letto anche sui giornali! Ma francamente...» 
  «Hanno ammazzato anche Lizavèta!» sbottò d'un tratto Nastàsja, rivolgendosi
Raskòlnikov. Era rimasta tutto il tempo nella stanza, stretta contro l'uscio, ad ascoltare. 
  «Lizavèta?» mormorò Raskòlnikov, con una voce così fioca che si udiva appena. 
 «Ma sì, Lizavèta, la venditrice: non la conosci, forse? Veniva qui, di sotto. Ti ha anche aggiustato una camicia.» 
 Raskòlnikov si voltò verso la parete, e sulla sudicia tappezzeria gialla, adorna di fiorellini bianchi, ne scelse uno rozzamente disegnato con certi trattini marrone, e prese a studiarlo: quante foglioline aveva, quali dentellature, e quanti trattini c'erano sulle varie foglioline... Sentiva che gli si erano irrigiditi le mani e i piedi, come se non li avesse più, ma non provava nemmeno a muoversi, e fissava ostinatamente il fiorellino. 
 «Allora, quest'imbianchino?...» disse Zòsimov, interrompendo in tono seccato le chiacchiere di Nastàsja. Quella diede un sospiro e ammutolì. 
  «Bell'assassino, hanno scovato!» proseguì Razumìchin accalorandosi. 
  «Ci sono indizi?» 
 «Ma quali indizi? Be', sì, è successo proprio in base a un indizio, ma un indizio che non è tale... ed è questo che dobbiamo dimostrare! È la stessa identica faccenda dell'arresto e dei sospetti relativi a quei due, come si chiamano?... Koch e Pestrjakòv. Puah! Agiscono così da scemi, sempre, che fa schifo perfino a chi ne è fuori! Forse oggi Pestrjakòv passerà da me... A proposito, Ròdja, tu devi saperne qualcosa, della faccenda, visto che è successa prima della tua malattia, proprio il 
giorno prima che tu perdessi i sensi al commissariato, quando hanno cominciato a parlarne...»  Zòsimov guardò con curiosità Raskòlnikov; ma quello non si mosse. 
 «Sai cosa ti dico, Razumìchin? Ti guardo e penso: ma che razza di impiccione sei mai!» osservò Zòsimov. 
 «Sarà come dici tu, ma noi lo faremo uscire!» gridò Razumìchin, battendo il pugno sulla tavola. «In questa faccenda, sai cos'è più brutto di tutto? Non le scemenze che dicono; le scemenze si possono sempre perdonare; sono una cosa positiva, in fondo, perché portano alla verità. No, quel che dà più fastidio è che prima le dicono, e poi le ammirano. Io rispetto Porfìrij, ma... ecco, per esempio, cos'è che li ha fatti sgarrare subito? La porta era chiusa; però, quando sono arrivati su con il portinaio, era aperta: dunque a uccidere dovevano essere stati Koch e Pestrjakòv! Ecco la loro logica.» 
 «Non te la prendere tanto; li hanno solo fermati; non si poteva mica... A proposito: io devo averlo incontrato, questo Koch; non è stato appurato che comprava dalla vecchia i pegni scaduti? 
Oppure mi sbaglio?» 
 «Sì, sì, una specie di lestofante! Anche le cambiali, compra. Un trafficone. Se ne vada un po' al diavolo! Se me la prendo, non è per questo: è per quella loro routine decrepita, così banale, così frusta... Mentre in una faccenda così si deve battere un'altra strada, completamente nuova. Si può arrivare, in base ai soli dati psicologici, a individuare la traccia giusta. ‹Ma noialtri abbiamo i fatti!› Già: solo che i fatti non sono ancora tutto: almeno metà della questione sta nel saperli interpretare, i fatti!» 
  «E tu li sai interpretare, i fatti?» 
 «È impossibile starsene zitti quando si intuisce, sia pure confusamente, di poter dare una mano... Eh!... Tu la conosci bene, la faccenda?» 
  «Sto ancora aspettando che mi parli dell'imbianchino.» 
 «Già, è vero! Dunque, senti la storia: esattamente il terzo giorno dopo l'assassinio, di mattina, mentre quelli stavano ancora dietro a Koch e Pestrjakòv - benché i due avessero reso conto di ogni loro passo; e l'evidenza si impone! -, all'improvviso capita un fatto nuovo. Un contadino di nome Dùškin, gestore di una bettola situata proprio di fronte all'edificio del delitto, si presenta al commissariato portando un astuccio da gioielliere con dentro degli orecchini d'oro, e ti tira fuori tutto un romanzo: ‹L'altro ieri verso sera, poco dopo le otto›, quel giorno e quell'ora, capisci! ‹è arrivato di corsa un imbianchino che era già stato da me altre volte, un tale Nikolàj, portandomi questa scatoletta con gli orecchini d'oro e le pietruzze, e mi ha pregato di dargli due rubli lasciandomela in pegno. Quando gli ho chiesto: ‹Dove li hai presi?› ha risposto di averli trovati sul marciapiede. Io non gli ho chiesto altro, è sempre Dùškin che parla, ‹e gli ho sborsato un bigliettino. cioè un rublo, perché ho pensato che la roba, se non la dava in pegno a me, la dava a un altro, e se la sarebbe bevuta comunque, mentre era meglio che l'oggetto restasse presso di me: in questi casi, più è fuori di mano e più lo ritrovi. Se poi fosse saltato fuori il proprietario, oppure fossero corse, che so, delle voci, ecco che io avrei portato tutto qui a voi.› Be', è chiaro che Dùškin spara balle a più non posso e che è tutta una storia, perché io questo Dùškin lo conosco, anche lui è uno che presta su pegno e ricetta refurtiva, e un oggetto da trenta rubli non l'avrà certo fregato a Nikolàj soltanto per ‹portarlo qui›. Semplicemente, ha avuto paura. Questo comunque non c'entra; sta' un po' a sentire. Dùškin continua così: ‹Io questo contadino, Nikolàj Demèntiev, lo conosco sin da piccolo, è della nostra provincia e del nostro distretto, è di Zaràjsk, mentre noi siamo di Rjazàn. Non è che sia proprio un ubriacone, Nikolàj, però bevucchia, e si sapeva che lavorava proprio in quella casa, come imbianchino, insieme a Mìtrij; e lui e Mìtrij sono delle stesse parti. E quando ha avuto da me il rublo, subito l'ha cambiato, s'è scolato due bicchierini uno sull'altro, ha preso il resto e se n'è andato, mentre Mìtrij, quella volta, io non l'ho visto. Ma il giorno dopo abbiamo saputo che Alena 
Ivànovna e sua sorella Lizavèta Ivànovna, erano state ammazzate con la scure, e noi le conoscevamo tutte e due, e allora mi è venuto il dubbio riguardo agli orecchini, perché sapevamo che la defunta prestava denaro su pegno. Allora sono andato a casa loro e ho cominciato con prudenza a chiedere qua e là, pian pianino, e per prima cosa ho domandato: È qui Nikolàj?' e Mìtrij mi ha detto che Nikolàj s'era dato alla baldoria, era venuto a casa all'alba, ubriaco, c'era rimasto circa dieci minuti ed era uscito di nuovo. Dopodiché Mìtrij non l'aveva più visto, e stava finendo il lavoro da solo. Ora, questo lavoro è sulla stessa scala delle due donne uccise, ma al secondo piano. Sentito tutto ciò, non ne abbiamo parlato con nessuno›, è sempre Dùškin che parla, ‹ma ci siamo informati sull'assassinio quanto è stato possibile, e siamo tornati a casa sempre con lo stesso dubbio di prima. E questa mattina alle otto›, cioè tre giorni dopo, capisci? ‹vedo entrare da me Nikolàj, che aveva bevuto ma non era nemmeno troppo ubriaco, e un discorso lo poteva capire. Si è seduto sulla panca e non parlava. Nella bettola, a quell'ora, oltre a lui c'era soltanto uno sconosciuto, e un altro che dormiva sulla panca, un conoscente, più due dei nostri ragazzi. 'Hai visto Mìtrij?' gli domando. 'No,' risponde, 'non l'ho visto.' 'E qui non ci sei stato?' 'Non ci sono stato,' risponde, 'dall'altro ieri.' 'E oggi dove hai passato la notte?' 'A Peskì,' dice, 'presso gente di Kolomnà.' 'E,' dico io, 'dove hai preso quella volta gli orecchini?' 'Li ho trovati sul marciapiede', ma lo dice come se non fosse la verità, senza guardarmi in faccia. 'E hai sentito,' dico io, 'che è accaduto questo e questo, proprio quella tal sera, proprio a quell'ora, proprio su quella scala?' 'No,' risponde, 'non ne so niente', ma intanto mi sta ad ascoltare, strabuzza gli occhi e d'un tratto si fa bianco come il gesso. Io gli racconto tutto, e mentre lo guardo, lui piglia il berretto e fa per alzarsi. Io allora ho voluto trattenerlo: 'Aspetta, Nikolàj,' gli ho detto, 'non vuoi bere un po'?' E intanto faccio segno con l'occhio al ragazzo, che tenga chiusa la porta, ed esco da dietro il banco: ma lui schizza via, scappa nella strada, e poi dagli di corsa, dentro il vicolo, e chi s'è visto s'è visto. Allora, mi sono liberato del mio dubbio, perché è chiaro che il peccato l'ha commesso lui...›»  «Lo credo bene!...» disse Zòsimov. 
 «Aspetta! Ascolta la fine! Naturalmente, si buttarono a capofitto a cercare Nikolàj: Dùškin è stato trattenuto e gli hanno fatto una perquisizione, e altrettanto hanno fatto con Mìtrij; e hanno messo a soqquadro anche quella tal gente di Kolomnà, quando improvvisamente, l'altro ieri, ecco che ti portano Nikolàj in persona: l'hanno fermato presso la barriera tale in una locanda. Era arrivato là, si era sfilato dal collo la crocetta d'argento, e in cambio aveva chiesto un quartino. Glielo avevano dato. Dopo qualche minuto, una contadina era entrata nella stalla delle vacche e guardando da una fessura, aveva visto che lui aveva attaccato la cintura a una trave e aveva fatto un nodo; poi era salito sopra un ceppo, e cercava di infilarsi il nodo al collo; la donna s'era messa a gridare come una matta, era accorsa gente: ‹Ah, ma allora qui c'è qualcosa che non va!› ‹conducetemi,› fa lui, ‹al commissariato tale, voglio confessare tutto.› Be', lo hanno portato a quel commissariato, vale a dire qui, con tutti gli onori del caso. E poi comincia la solita tiritera: questo e quello e chi e come e quanti anni- ‹ventidue› - eccetera eccetera. Domanda: ‹Quando stavate lavorando insieme a Mìtrij, non avete visto qualcuno sulla scala, all'ora tale?› Risposta: ‹Sapete, forse qualcuno sarà passato, ma noi non gli abbiamo badato.› ‹Ma non avete sentito qualcosa, rumori o altro?› ‹Non abbiamo sentito niente di speciale.› ‹E tu, Nikolàj, lo sai che proprio quel giorno una certa vedova - proprio quel giorno e a quell'ora - è stata uccisa insieme a sua sorella, e rapinata?› ‹Non so niente, non ho mai saputo niente. Per la prima volta ne ho sentito parlare da Afanàsij Pàvlyè, tre giorni dopo, nella bettola.› ‹E dove hai preso gli orecchini?› ‹Li ho trovati sul marciapiede.› ‹E perché il giorno dopo non sei andato a lavorare con Mìtrij?› ‹Perché ho fatto baldoria.› ‹E dove?› ‹Lì e lì.› ‹Perché sei scappato via da Dùškin ?› ‹Perché avevo una gran paura.› ‹Paura di cosa?› ‹Di essere condannato!› ‹Ma perché avevi paura di questo, visto che ti senti del tutto innocente?...› Be', puoi anche non credermi, Zòsimov, ma questa domanda è stata fatta, e letteralmente in questi termini; lo so di sicuro, mi è stata riferita con esattezza! Che te ne pare? Eh... Che te ne pare?» 
  «Un momento... gli indizi ci sono, e come...» 
 «Io adesso non parlo degli indizi, parlo della domanda, del modo in cui quelli intendono il loro lavoro ! Possano crepare tutti quanti!... Fatto sta che a furia di interrogarlo, di fare pressioni su pressioni, ha finito per confessare: ‹Non li ho trovati sul marciapiede, ma nell'appartamento in cui io e Mìtrij davamo la tinta.› ‹E in che modo?› ‹In questo modo: io e Mìtrij abbiamo dato la tinta per tutto il giorno, fino alle otto, e ci preparavamo ad uscire, quando Mìtrij ha preso il pennello e mi ha dato una pennellata sul muso, me l'ha dipinto, e poi è scappato; e io a corrergli dietro. E mentre gli correvo dietro così, gridavo a squarciagola; e quando dalle scale siamo arrivati sotto l'androne, sono finito addosso, di slancio, al portinaio e a certi signori, quanti erano i signori non lo ricordo, ma ricordo che il portinaio mi ha insultato, e anche un altro mi ha insultato e la moglie del portinaio è uscita e ci ha insultati anche lei, e intanto stava entrando nell'androne un signore con una signora, e ci ha insultati lui pure, perché io e Mìtka stavamo in terra attraverso il passaggio: e io ho acchiappato Mìtka per i capelli e ho cominciato a dargliele, e anche Mìtka, che mi stava sotto, m'ha afferrato per i capelli e me le dava, però non lo facevamo con rabbia, ma per scherzo così per gioco. Poi Mìtka si è liberato ed è corso fuori nella strada, e io dietro, però non l'ho raggiunto e sono tornato nell'appartamento da solo, perché dovevo mettere un po' in ordine. Ho cominciato a riassettare e aspettavo Mìtrij, chissà che non tornasse, quando presso la porta d'ingresso, in un angolo, ho messo il piede sulla scatoletta. Guardo: era lì per terra, avvolta in un pezzo di carta. Io ho tolto la carta e ho visto dei piccoli gancetti, e ho tolto questi gancetti e nella scatoletta ecco che c'erano gli orecchini...›» 
 «Dietro la porta? Si trovava dietro la porta? Dietro la porta?» esclamò a un tratto Raskòlnikov, fissando Razumìchin con uno sguardo torbido e spaventato, poi si sollevò lentamente sul divano, appoggiandosi su un braccio. 
  «Sì.. ma perché? Che cos'hai? Perché fai così?» e anche Razumìchin si sollevò dalla sedia. 
 «Non è niente!...» rispose Raskòlnikov con voce appena percettibile, lasciandosi ricadere sul cuscino e girandosi di nuovo con la faccia alla parete. Tutti rimasero qualche istante silenziosi. 
 «S'era assopito, deve aver fatto così nel dormiveglia,» mormorò finalmente Razumìchin, guardando Zòsimov con aria interrogativa, ma l'altro fece un lieve cenno negativo col capo. 
  «Be', continua a raccontare,» disse Zòsimov. «Cos'è successo dopo ?» 
 «Cos'è successo dopo? Appena visti gli orecchini, subito, dimenticando sia l'appartamento sia Mìtka, Nikolàj ha afferrato il berretto ed è corso da Dùškin, ricevendone, come già sappiamo, un rublo, e raccontandogli la frottola che li aveva trovati sul marciapiede, dopodiché si è messo a far bisboccia. Quanto all'assassinio, conferma quanto ha già detto: ‹Non ne so niente, non ne ho mai saputo niente, ne ho sentito parlare soltanto il terzo giorno.› ‹E perché non ti sei presentato prima?› ‹Per la paura.› ‹E perché ti volevi impiccare?› ‹Per un'idea.› ‹Per quale idea?› ‹Che mi avrebbero condannato.› Ecco qua tutta la storia. Adesso, cosa pensi che ne abbiamo dedotto?» 
«C'è poco da pensare, una traccia esiste, non è un gran che ma esiste. Esiste un fatto. Non vorrai mica rimettere in libertà il tuo imbianchino?» 
  «Ma quelli ne hanno fatto subito un omicida! Non hanno più il minimo dubbio...» 
 «Tu esageri; te la prendi troppo... E gli orecchini? Dovrai ammettere che se proprio in quello stesso giorno, e a quella stessa ora, dal forziere della vecchia vanno a finire in mano a Nikolàj, in qualche modo ci debbono pur essere arrivati. Non è un indizio da buttar via.» 
 «Come sarebbe, andati a finire?» esclamò Razumìchin. «Possibile che tu, dottore, tu, che più di chiunque altro sei tenuto a studiare la natura umana - e più di chiunque altro ne hai occasione - possibile che tu non veda, in base a tutti questi elementi, che tipo è quel Nikolàj? Come fai a non vedere subito che tutto quanto ha dichiarato negli interrogatori è sacrosanta verità? Gli orecchini gli sono andati a finire in mano proprio come ha detto lui. Ha messo il piede sulla scatoletta e l'ha raccolta!» 
  «Sacrosanta verità?... Ma non ha riconosciuto lui stesso di aver mentito, la prima volta?» 
 «Ascoltami. Ascoltami attentamente: il portinaio, e Koch e Pestrjakòv, e l'altro portinaio, e la moglie del primo portinaio, e la donna che in quel momento sedeva da lei in portineria, e il consigliere di corte Krjùkov che era sceso proprio in quel momento dalla vettura ed entrava nell'androne a braccetto con una signora, tutti, cioè otto o nove testimoni, dichiarano all'unanimità che Nikolàj aveva gettato Dmìtrij a terra, gli stava sopra e lo scazzottava, mentre l'altro lo aveva afferrato per i capelli e gliele stava dando anche lui di santa ragione. Sono distesi lì in mezzo e ostruiscono il passaggio; da tutte le parti li insultano, ma loro ‹come monellacci› (così hanno detto letteralmente i testimoni) si azzuffano, strillano, se le danno e ridono, ridono ambedue a crepapelle, con le facce più buffe del mondo, e poi corrono fuori per la strada, uno a caccia dell'altro, come bambini. Hai sentito? E adesso sta' bene attento: di sopra ci sono i corpi delle due donne uccise, ancora tiepidi, capisci, tiepidi, così come li hanno trovati! Se sono stati loro ad ammazzare, o se è stato il solo Nikolàj, e se per di più hanno rubato nei bauli, dopo averli scassinati, o anche hanno soltanto partecipato in qualche modo alla rapina, lascia che ti rivolga una domanda: come si concilia un simile stato d'animo, vale a dire gli strilli, le risate, quella baruffa monellesca sotto l'androne, con le scuri, il sangue, l'astuzia criminale, la prudenza, la rapina? Hanno appena ammazzato, non più di cinque o dieci minuti prima - perché questo è ciò che risulta: i corpi sono ancora caldi -, e subito dopo, abbandonati i cadaveri, lasciato aperto l'appartamento, sapendo inoltre che poco prima è venuta della gente, e trascurando anche il bottino, essi, come due ragazzini, si rotolano sulla strada, ridono e attirano l'attenzione generale, secondo quanto affermano all'unanimità dieci testimoni!» 
  «Certo è molto strano! È impossibile, naturalmente, ma...» 
 «No, mio caro, niente ma. Se gli orecchini, che vanno a finire in mano a Nikolàj quello stesso giorno, costituiscono effettivamente una grave circostanza di fatto a suo carico - nondimeno spiegata nella maniera più chiara dalle sue dichiarazioni, e di conseguenza perlomeno discutibile -, bisogna pur prendere in considerazione anche i fatti a sua giustificazione, tanto più che sono fatti inoppugnabili. Ora, credi tu, conoscendo la nostra giurisprudenza, che quelli terranno conto, saranno capaci di tener conto di un fatto simile - basato unicamente su un'impossibilità psicologica, su un semplice stato d'animo - come di un fatto inoppugnabile e tale da distruggere tutte le prove materiali a carico, qualunque esse siano? No, non ne terranno conto, non ne terranno conto per niente al mondo, perché hanno trovato la scatola e inoltre l'accusato voleva impiccarsi, ‹cosa che non sarebbe spiegabile se non si fosse sentito colpevole!› Ecco la questione capitale, ecco perché me la prendo tanto! Cerca di capirlo!» 
 «Vedo bene che te la prendi... Aspetta, ho dimenticato di chiederti una cosa: da che cosa è provato che la scatola con gli orecchini proviene veramente dal baule della vecchia?» 
 «Questo è stato provato,» rispose Razumìchin, accigliandosi e come a malincuore. «Koch ha riconosciuto l'oggetto e ha indicato chi l'aveva dato in pegno, e l'individuo in questione ha provato in modo positivo che l'oggetto è proprio il suo.» 
 «Male. Un'altra cosa: nessuno ha visto Nikolàj mentre Koch e Pestrjakòv salivano, e non è possibile provare ciò in qualche maniera ?» 
«Questo è il punto: nessuno l'ha visto,» rispose Razumìchin con amarezza. «Questo è il guaio; perfino Koch e Pestrjakòv, mentre salivano, non li avevano notati - anche se la loro testimonianza, oggi come oggi, non avrebbe molto valore. ‹Abbiamo visto,› dicono, ‹che l'appartamento era aperto, che qualcuno doveva lavorarci, ma passando non abbiamo fatto attenzione, e non ricordiamo con precisione se in quel momento ci fossero o no gli operai.» 
 «Mmh... quindi, come prova a discarico c'è solo il fatto che se le davano e ridevano. Ammettiamo che sia una prova importante, ma... permetti un momento: come spieghi, tu, tutta la faccenda? Come spieghi il ritrovamento degli orecchini, se li ha davvero trovati così come dice?» 
 «Come lo spiego? C'è poco da spiegare: è chiaro di per sé! Per lo meno, la maniera con cui si deve ricostruire l'intera faccenda è chiara e dimostrata, e a dimostrarla è stata proprio la scatoletta. Il vero assassino, colui che ha lasciato cadere gli orecchini, si trovava di sopra quando Koch e Pestrjakòv bussarono, ed era chiuso dentro col gancio. Koch ha fatto una sciocchezza a voler scendere anche lui, perché in quel tempo l'assassino è saltato fuori ed è corso giù anche lui, visto che non aveva altra via d'uscita. Sulle scale, per non farsi vedere da Koch, da Pestrjakòv e dal portiere, si è nascosto nell'appartamento vuoto, dal quale Dmìtrij e Nikolàj erano usciti; è rimasto dietro la porta mentre il portinaio e quegli altri salivano le scale, ha aspettato fino a quando non ha sentito più i loro passi, e allora è sceso giù con la massima calma, proprio nel momento stesso in cui Dmìtrij e Nikolàj correvano fuori per la strada e tutti gli altri si erano allontanati e sotto l'androne non era rimasto più nessuno. Forse lo hanno visto, ma non gli hanno badato; quanta gente c'è che va e viene? Quanto alla scatola, gli è caduta di tasca mentre si nascondeva dietro la porta, e lui non se n'è accorto, perché aveva ben altro a cui pensare. E la scatola è la prova più evidente che egli si trovava proprio in quel posto. Così, eccoti tutta quanta la storia vera!» 
  «Ingegnoso! No, mio caro, troppo ingegnoso, più ingegnoso di qualsiasi altra cosa!» 
  «Ma perché? Perché?» 
  «Perché tutto gli è andato troppo liscio... tanto che sembra un intreccio... proprio come a teatro.» 
 «Eeh!...» cominciò Razumìchin, ma s'interruppe, perché in quell'istante la porta si aprì ed entrò un nuovo personaggio, sconosciuto a tutti i presenti. 



 Era un signore non più giovane, di bella presenza, dall'aria manierata, circospetta e schizzinosa, che esordì col fermarsi sulla soglia, guardandosi attorno con palese e offensiva meraviglia come se si stesse domandando: «Dove sono mai andato a finire?» Sospettosamente, e perfino con una certa affettazione di spavento e quasi di sdegno, egli esaminava la «cabina» di Raskòlnikov, stretta e bassa. Con la medesima meraviglia fissò poi gli occhi sullo stesso Raskòlnikov, svestito, scarmigliato, non lavato, disteso immobile sul suo sordido, sudicio divano, e intento a sua volta ad osservarlo. Poi, con la stessa lentezza, girò lo sguardo sulla figura scomposta; dal volto non rasato e dai capelli arruffati, di Razumìchin, che a sua volta lo fissava dritto negli occhi, senza muoversi dal suo posto, con aria d'insolente interrogazione. Quel silenzio teso durò circa un minuto, poi, com'era lecito aspettarsi, ci fu finalmente un piccolo mutamento di scena. Resosi conto, da certi sintomi d'altronde assai significativi, che lì nella «cabina» non avrebbe ottenuto un bel niente con quel piglio esageratamente sostenuto, il nuovo arrivato si ammansì un poco e disse in tono cortese, seppur velato di sussiego, rivolgendosi a Zòsimov e scandendo ogni sillaba della domanda: 
  «Rodiòn Romànyè Raskòlnikov, signor studente o ex studente?» 
 Zòsimov si mosse adagio adagio e, forse, avrebbe anche risposto, se Razumìchin, che non c'entrava affatto, non fosse intervenuto dicendo subito:  «Eccolo lì, disteso sul divano! E voi che volete?» 
Questo familiare «e voi che volete?» smontò del tutto l'altezzoso signore; stava già per voltarsi verso Razumìchin, ma fece in tempo a frenarsi, e si affrettò a rivolgersi di nuovo a Zòsimov. 
 «Ecco Raskòlnikov!» farfugliò Zòsimov, accennando col capo verso il malato; poi sbadigliò, spalancando, nel farlo, una boccaccia incredibilmente larga, che tenne per un tempo incredibilmente lungo in quella posizione, infine, stese lentamente le dita verso il taschino del gilè, ne cavò un cipollone d'oro a doppia cassa, guardò l'ora e con la stessa torpida indolenza mosse la mano per rimetterlo al suo posto. 
 Quanto a Raskòlnikov, per tutto quel tempo se n'era rimasto in silenzio, supino, fissando insistentemente, anche se con sguardo vuoto d'espressione, il nuovo venuto. Il suo volto, che si era allontanato, ora, dal curioso fiorellino della tappezzeria, era esangue ed esprimeva una sofferenza indicibile, come se fosse appena uscito da un'operazione dolorosa o lo avessero rimesso in libertà da pochi istanti dopo una tortura. Ma il signore che era entrato cominciò a suscitare in lui, a poco a poco, un'attenzione sempre più viva, poi perplessità, diffidenza e persino, sembrò, timore. Quando Zòsimov, alla fine, lo indicò dicendo: «Ecco Raskòlnikov», egli, sollevatosi di scatto a sedere sul letto, con voce quasi di sfida, ma spezzata e fioca, proferì: 
  «Sì! Io sono Raskòlnikov! Che cosa volete?» 
  Il visitatore lo guardò con attenzione e disse gravemente: 
  «Pëtr Petròviè Lùžin. Oso sperare che il mio nome non vi sia del tutto sconosciuto.» 
 Ma Raskòlnikov, che s'aspettava tutt'altro, lo guardò con aria ottusa e meditabonda e non rispose nulla, come se davvero fosse quella la prima volta che udiva il nome di Pëtr Petròviè. 
 «Come? Possibile che non abbiate ricevuto ancora nessuna notizia?» domandò Pëtr Petròviè, un po' risentito. 
 Per tutta risposta, Raskòlnikov si lasciò ricadere lentamente sul cuscino, intrecciando le mani dietro il capo, e prese a fissare il soffitto. Sul volto di Lùžin si dipinse un'ombra di tristezza. Zòsimov e Razumìchin si misero a osservarlo con sempre più viva curiosità tanto che, alla fine, egli sembrò confondersi. 
 «Supponevo e contavo,» prese a balbettare, «che la lettera, imbucata ormai da più di dieci giorni, direi anzi da quasi due settimane...» 
 «Sentite, perché ve ne state lì impalato accanto alla porta?» tagliò corto Razumìchin. «Se avete qualcosa da spiegare, cominciate almeno a sedervi, perché tutt'e due lì, voi e Nastàsja, ci state stretti. Nastàsjuška, fatti in là, lascia passare! Venite avanti, ecco una sedia, qui! Coraggio, venite avanti.» 
 Razumìchin scostò la sua sedia dal tavolo, lasciando un po' di spazio libero fra quest'ultima e le sue ginocchia, e aspettò in una posizione alquanto scomoda che il visitatore «s'infilasse» in quella fessura. Il momento era stato scelto in modo che un rifiuto era impossibile, e il visitatore si infilò attraverso quell'angusto passaggio, affrettandosi e incespicando. Raggiunta la sedia, vi si mise a sedere e guardò indeciso Razumìchin. 
 «Del resto, non è proprio il caso che vi sentiate a disagio,» sbottò costui, «Ròdja son già cinque giorni che sta male, per tre giorni ha avuto il delirio; adesso però si è riavuto e ha persino mangiato con appetito. Quello seduto Iì è il suo dottore, che ha appena finito di visitarlo, mentre io sono un compagno di Ròdja, ex studente anch'io, e sto qui a fargli da balia; quindi non tenete conto di noi, smettete di sentirvi a disagio e seguitate a dire quel che dovete dire.» 
 «Vi ringrazio. Ma non disturberò il malato, per caso, con la mia presenza e con la mia conversazione?» fece Pëtr Petròviè rivolgendosi a Zòsimov. 
  «No-o,» farfugliò questi. «Anzi, credo che la cosa potrà svagarlo», e sbadigliò di nuovo. 
 «È già un pezzo che ha ripreso conoscenza, fin da stamane!» proseguì Razumìchin, con un tono familiare la cui apparente bonaria sincerità indusse Pëtr Petròviè, dopo averci pensato su, a riprendere coraggio: in parte, forse, anche perché quello straccione spudorato s'era qualificato nel frattempo come studente. 
  «Vostra mamma...» cominciò a dire Lùžin. 
«Mmh!» fece Razumìchin rumorosamente. Lùžin lo guardò con aria interrogativa.  «Non è niente, è stato solo così!... andate pure avanti...»  Lùžin si strinse nelle spalle. 
 «... La vostra mamma, mentre io ero ancora presso di lei, aveva cominciato a scrivervi una lettera. Giunto qui, ho lasciato trascorrere apposta qualche giorno prima di venire da voi; volevo essere certo che voi foste al corrente di tutto: ma adesso, con mia grande meraviglia...» 
 «Lo so, lo so!» tagliò corto Raskòlnikov con aria spazientita e stizzosa. «Siete voi il fidanzato, dunque? Ma sì, lo so!... non occorre dir altro!» 
 Pëtr Petròviè questa volta si offese sul serio, ma non disse nulla. Si mise a pensare in fretta cercando di capire che cosa significasse tutto ciò. Il silenzio si protrasse per circa un minuto. 
 Intanto Raskòlnikov, che per rispondergli si era voltato un poco verso di lui, improvvisamente ricominciò a squadrarlo con notevole curiosità, come se prima non avesse avuto il tempo di esaminarlo a sufficienza, o come se in lui qualcosa di nuovo lo avesse colpito: per farlo si sollevò perfino un poco dal guanciale. Effettivamente, nell'aspetto generale di Pëtr Petròviè c'era qualcosa di speciale - precisamente ciò che sembrava giustificare la qualifica di «fidanzato», datagli poco prima con tanta sfrontata disinvoltura. Anzitutto, era anche troppo evidente che Pëtr Petròviè non aveva tardato ad approfittare del breve soggiorno nella capitale per farsi bello ed elegante, in attesa della fidanzata; cosa, d'altra parte, del tutto lecita e innocente. Anche la sua convinzione, forse un po' immodesta, di aver fatto un piacevole mutamento in meglio, avrebbe potuto essere perdonata in ragione delle circostanze, visto che Pëtr Petròviè si trovava nei panni del fidanzato. Tutto il suo abbigliamento era appena uscito dal sarto, e gli andava a pennello, tranne che per un particolare: era tutto troppo nuovo e tendeva con troppa evidenza a un determinato scopo. Anche il cappello - tondo, elegante, nuovo di trinca - ne era una riprova. Pëtr Petròviè lo trattava con una sorta di rispetto eccessivo, e lo teneva in mano con esagerate precauzioni. Un magnifico paio di guanti color lillà, autentici Jouvain, testimoniava la stessa cosa, fosse solo per il fatto che non erano infilati, ma soltanto tenuti in mano per essere ammirati. Nell'abito, poi, prevalevano i colori chiari e giovanili. Indossava una graziosa giacca estiva color marrone chiaro, pantaloni leggeri chiari, un gilè dello stesso colore, biancheria fine, appena acquistata, una cravattina di batista, la più leggera possibile, a striscioline rosa; e il bello, poi, era che tutto questo gli stava perfino bene. Il suo viso, molto fresco per non dire bello, già di per sé sembrava più giovane dei suoi quarantacinque anni. Le fedine scure lo ombreggiavano gradevolmente da ambo i lati, e si infoltivano con molta grazia presso il mento rasato e terso. Anche i capelli, per la verità un tantino brizzolati, pettinati e arricciati dal barbiere, non davano tuttavia la minima impressione di ridicolo o di sciocco, come accade di solito con i capelli arricciati, che quasi sempre fanno somigliare il volto a quello di un tedesco che vada all'altare. Se poi in quella fisionomia abbastanza bella e seria c'era qualcosa di effettivamente sgradevole e antipatico, ciò era dovuto a tutt'altra causa. Dopo aver squadrato senza cerimonie il signor Lùžin, Raskònikov ebbe un sorriso tagliente si abbandonò di nuovo sul guanciale e riprese a fissare il soffitto. 
 Ma il signor Lùžin riuscì a dominarsi: a quanto sembrava, aveva deciso di non dar peso, per il momento, a tutte quelle stranezze. 
 «Sono dispiaciuto all'estremo di trovarvi in questa condizione,» riprese a dire, rompendo con uno sforzo il silenzio. «Se avessi saputo della vostra indisposizione, sarei venuto già prima a trovarvi. Ma che volete, gli affari! Per di più, ho una questione molto importante, come avvocato, alla Corte Suprema. Senza parlare, poi, delle preoccupazioni contingenti che voi stesso potete immaginare. Attendo infatti i vostri cari, voglio dire la mamma e la sorella, da un momento all'altro...» 
 Raskòlnikov si mosse e fu lì lì per dire qualcosa; sul suo volto si poteva leggere una certa agitazione. Pëtr Petròviè si fermò, aspettando, ma siccome l'altro non disse nulla, proseguì:  «... Da un momento all'altro. Ho trovato per loro una sistemazione provvisoria...»  «Dove?» chiese Raskòlnikov con voce fioca. 
  «Vicinissimo a qui, casa Bakalèev...» 
«È sul Voznesènskij,» lo interruppe Razumìchin, «ci sono due piani di stanze mobiliate, le affitta il mercante Jùšin; mi è capitato di andarci.» 
  «Sì, delle stanze mobiliate...» 
  «La peggiore delle schifezze: sudiciume, puzzo, ed è anche un luogo equivoco; vi son 
capitati degli incidenti; e poi, sa soltanto il diavolo chi ci abita!.. Io stesso ci sono stato a causa di un certo scandalo. In compenso costa poco.» 
 «Naturalmente, non ho potuto raccogliere tante notizie in merito, poiché io stesso sono nuovo di queste parti,» ribatté Pëtr Petròviè, punto sul vivo. «Del resto si tratta di due camere molto, ma molto pulite, e siccome devono servire per un periodo brevissimo... Ho già trovato un vero appartamento, cioè il nostro futuro appartamento,» disse rivolto a Raskòlnikov, «e adesso lo stanno rifinendo; io stesso, intanto, abito in una stanza mobiliata, a due passi da qui, dalla signora Lippevechzel, nell'appartamento di un mio giovane amico, Andrèj Semënyè Lebezjàtnikov; è stato lui a indicarmi la casa di Bakalèev...» 
  «Lebezjàtnikov?» proferì lentamente Raskòlnikov, come cercando di ricordare qualcosa.  «Sì, Andrèj Semënyè Lebezjàtnikov; lavora in un ministero. Lo conoscete, forse?»  «Sì... cioè no...» rispose Raskòlnikov. 
 «Scusate, mi era parso dalla vostra domanda. Un tempo sono stato suo tutore.. Un giovane molto simpatico, che si tiene al corrente di ogni novità... Io, poi, sono molto contento di incontrare dei giovani: da loro si può imparare tutto quanto c'è di nuovo.» E Pëtr Petròviè girò uno sguardo pieno di speranza su tutti i presenti. 
  «In che senso?» domandò Razumìchin. 
 «Nel senso più serio, cioè per quanto riguarda l'essenza della questione,» riprese a dire Petr Petròviè, come se si rallegrasse di quella domanda. «Dovete sapere che manco da Pietroburgo già da dieci anni. Tutte queste vostre novità, riforme, idee, tutto questo è arrivato in parte anche da noi, in provincia; ma per vederci più chiaro, è necessario trovarsi a Pietroburgo. Be', la mia idea è che si riesce a vedere e a sapere ogni cosa soprattutto osservando le nostre giovani generazioni. E lo confesso: sono rimasto contento...» 
  «E di che cosa precisamente?» 
 «Non è facile rispondere alla vostra domanda. Posso sbagliarmi, ma a me sembra di trovare una visione più chiara, per così dire più critica; maggior senso pratico...»  «Questo è vero,» mormorò fra i denti Zòsimov. 
 «Sono balle, le tue... Nessun senso pratico,» lo attaccò subito Razumìchin. «Il senso pratico lo si acquista a fatica, non casca giù dal cielo. E noi, invece, son quasi duecento anni che ci hanno disabituati dallo svolgere qualsiasi attività pratica... Magari c'è fermento di idee,» disse rivolto a Petr Petròviè, «c'è desiderio di bene, anche se in forma infantile; e c'è perfino della gente onesta, nonostante l'enorme numero di imbroglioni piovuti qui da tutte le parti; ma il senso pratico, malgrado tutto, non lo si vede! Il senso pratico non è roba di tutti i giorni.» 
 «Non sono d'accordo con voi,» ribatté Pëtr Petròviè, visibilmente compiaciuto. «Certo, esistono delle infatuazioni, delle irregolarità, ma bisogna anche essere indulgenti: le infatuazioni testimoniano della passione per la causa, e dell'ambiente esterno sbagliato con cui la causa deve fare i conti. Se poi è stato fatto poco, bisogna anche tener presente che c'è stato poco tempo. Non starò a parlare dei mezzi. Inoltre, secondo il mio punto di vista personale, se vi interessa conoscerlo, qualcosa è stato fatto: si sono diffuse idee nuove utili, e nuovi e utili libri che hanno preso il posto di quelli di prima, che avevano carattere fantastico e romantico; la letteratura va acquistando un carattere più maturo; molti pregiudizi dannosi sono stati sradicati e messi alla berlina... In una parola, ci siamo irrevocabilmente staccati dal passato, e questo, secondo me, è già un lavoro serio...» 
  «Ha imparato tutto a memoria, e ora si esibisce,» disse improvvisamente Raskòlnikov. 
  «Come?» domandò Pëtr Petròviè che non aveva udito bene, ma non ricevette risposta. 
  «Tutto questo è giusto,» si affrettò a intervenire Zòsimov. 
«Non è vero, forse?» proseguì Pëtr Petròviè, gettando uno sguardo amabile a Zòsimov. «Dovete ammettere anche voi,» seguitò rivolto a Razumìchin, con una certa aria, ormai, di trionfo e di superiorità; e fu lì lì per aggiungere: «giovanotto»; «dovete ammettere che vi è una riuscita o, come si suol dir oggi, un progresso, se non altro in nome della scienza e della verità economica...» 
  «Questo è un luogo comune!» 
 «No che non è un luogo comune! Se, ad esempio, fino ad oggi mi dicevano: ‹ama gli altri› e io li amavo, che cosa ne veniva fuori?» riprese a dire Pëtr Petròviè, forse un po' troppo frettolosamente. «Ne veniva fuori che stracciavo il mio caffettano a metà, lo dividevo con il mio prossimo, e ambedue rimanevamo seminudi, secondo il proverbio russo: ‹Se corri dietro a troppe lepri, non ne acchiappi nemmeno una›. La scienza invece dice: ama innanzitutto te stesso, poiché a questo mondo tutto è basato sull'interesse personale. Se amerai te stesso, farai bene i tuoi affari e il tuo caffettano rimarrà intero. La verità economica, poi, aggiunge che più ci sono, in seno alla società, iniziative private organizzate e, per così dire, caffettani interi, tanto più numerosi sono i saldi puntelli su cui essa si regge, e tanto meglio vi si sviluppa anche la causa comune. Di conseguenza, nell'acquistare unicamente ed esclusivamente per me, con ciò stesso è come se acquistassi per tutti, e così il mio prossimo riceve qualcosa di più di un caffettano lacero; e non da singole elargizioni di privati, ma per effetto della generale prosperità. È un'idea semplice, ma disgraziatamente per troppo tempo non è venuta in mente a nessuno, offuscata dagli entusiasmi e dalle fantasticherie, mentre non ci vuol poi molto acume, sembrerebbe, per capire...» 
 «Scusate, io stesso non ho molto acume,» lo interruppe bruscamente Razumìchin, «e perciò smettiamola. Io, dovete sapere, m'ero messo a parlare con un certo scopo preciso, dato che tutte queste chiacchiere fatte per puro diletto, tutti questi interminabili sfoghi a base di luoghi comuni - sempre le stesse cose, sempre le stesse cose! - mi sono talmente venuti a nausea, in questi tre anni, che, parola d'onore, mi sento arrossire quando qualcun altro - non dico io - ne parla in mia presenza. Voi, naturalmente, vi siete affrettato a esibire la vostra cultura, cosa del tutto perdonabile, e io mi guardo bene dal biasimarvi. Ma, dal canto mio, io volevo soltanto capire chi siète, perché, dovete sapere, in questi ultimi tempi si sono mescolati alla causa tanti di quei trafficanti d'ogni risma, e hanno talmente deformato tutto ciò con cui sono venuti in contatto, volgendolo a proprio vantaggio, che la causa stessa ne è rimasta decisamente insozzata. Be', e ora basta!» 
 «Egregio signore,» cominciava già a dire il signor Lùžin, indignandosi molto dignitosamente, «non vorrete forse insinuare, in questa vostra maniera così indelicata, che anch'io...» 
 «Oh, ci mancherebbe altro, ci mancherebbe altro... Come potrei mai osare?... Be', e ora basta davvero!» tagliò corto Razumìchin, voltandosi di scatto verso Zòsimov per riprendere la conversazione di prima. 
  Pëtr Petròviè si mostrò abbastanza intelligente da contentarsi di quella spiegazione. 
D'altronde, dopo un paio di minuti pensò anche bene di andarsene. 
 «Spero che la conoscenza fatta,» disse rivolto a Raskòlnikov «si rafforzerà ancor più dopo la vostra guarigione, date le circostanze che vi sono note... Vi auguro soprattutto una buona salute...»  Raskòlnikov non volse nemmeno il capo. Pëtr Petròviè cominciò ad alzarsi dalla sedia. 
 «A uccidere è stato sicurissimamente uno di quelli che avevano dato degli oggetti in pegno alla vecchia!» stava dicendo Zòsimov in tono convinto. 
 «Senz'altro uno di quelli!» fece eco Razumìchin. «Porfìrij non lascia trapelare ciò che pensa veramente, però li sta interrogando.» 
  «Li sta interrogando?» domandò a voce alta Raskòlnikov. 
  «Sì, e con ciò?»  «Niente.» 
  «E dove va a scovarli?» domandò Zòsimov. 
 «Alcuni li ha indicati Koch; i nomi di altri erano scritti sui pacchettini, mentre altri ancora si sono presentati spontaneamente, appena hanno saputo...» 
  «Dev'essere stato un furfante matricolato, rapido ed esperto! Che audacia! Che decisione!» 
«E invece non è affatto così!» ribatté Razumìchin. «proprio questo pregiudizio che vi confonde le idee. Io affermo, al contrario, che si tratta di un tipo impacciato, inesperto, e che certamente si trovava al suo primo passo! Se partite dall'ipotesi di un'azione calcolata e di un delinquente esperto, tutto risulta inverosimile. Immagina invece un tipo inesperto e, di conseguenza, che sia stato soltanto il caso a trarlo d'impiccio; che cosa non ti combina il caso? Immagina che lui, forse, non aveva neppure previsto gli ostacoli! Che cosa ti fa, dunque?... Piglia su oggetti da dieci o venti rubli e se ne riempie le tasche, fruga nel forziere della vecchia, in mezzo agli stracci, e questo mentre nel comò, nel primo cassetto, in una scatoletta, c'erano millecinquecento rubli, senza contare le cambiali! Non ha saputo nemmeno rubare, è stato capace soltanto di uccidere! Era al suo primo passo, te lo dico io; e, al primo passo, ha perduto la testa! Ne è uscito sano e salvo non per calcolo, ma per puro caso!» 
 «Se non sbaglio, state parlando del recente assassinio di quella vecchia, vedova di un funzionario,» intervenne, rivolgendosi a Zòsimov, Pëtr Petròviè, che già stava in piedi col cappello e con i guanti in mano, ma che prima d'andarsene voleva ancora lasciare dietro di sé qualche parola intelligente Si sforzava ancora, in apparenza, di far buona impressione: la vanità prevaleva sul buonsenso. 
  «Sì. Ne avete sentito parlare?» 
  «Come no? Qui nel vicinato...» 
  «E conoscete i particolari?» 
 «Questo non potrei affermarlo; ma a interessarmi è, per così dire, la questione nel suo complesso. Intanto c'è il fatto che, durante gli ultimi cinque anni, i delitti nella classe inferiore sono aumentati di numero, anche senza contare le rapine e gli incendi, che si verificano dovunque e continuamente; ma la cosa più strana, per me, è che anche nelle classi superiori i delitti crescono di numero e, per così dire, parallelamente. Qui si sente dire che un ex studente ha svaligiato la vettura postale sulla strada maestra; là che individui in vista per la loro posizione sociale stampano moneta falsa; a Mosca ti acchiappano un'intera brigata di falsari, che hanno imitato le cartelle dell'ultimo prestito abbinato alla lotteria, e fra i maggiori responsabili figura un docente di storia universale; in un'altra occasione ancora, viene ucciso un nostro segretario d'ambasciata in missione all'estero, per ragioni di denaro e nemmeno troppo chiare... Se, adesso, anche questa vecchia usuraia è stata uccisa da un membro dei ceti più elevati, visto che i contadini non impegnano oggetti d'oro, come spiegate voi questa corruzione degli strati più civilizzati della nostra società?» 
  «Ci sono stati molti mutamenti economici...» intervenne Zòsimov. 
 «Come si spiega?» passò di nuovo all'attacco Razumìchin. «Si spiega proprio con la nostra radicata mancanza di senso pratico.» 
  «Sarebbe a dire?» 
 «Che cosa ha risposto, a Mosca, quel vostro docente di storia universale, quando gli hanno chiesto perché falsificava le cartelle del prestito? ‹Tutti si arricchiscono con vari sistemi, e così ho voluto arricchirmi rapidamente anch'io.› Non ricordo le parole precise, ma il significato era: a spese altrui, alla svelta, senza fatica! Si sono abituati a vivere a sbafo, a camminare con le dande, a trovarsi la pappa bell'e pronta; e appena è scoccata la grande ora, ecco che ognuno si è mostrato per quel che realmente è...» 
  «E la morale e, per così dire, i princìpi, dove li mettiamo?...» 
 «Ma di che vi preoccupate?» interloquì improvvisamente Raskòlnikov. «Le cose si svolgono proprio secondo la vostra teoria!» 
  «Come sarebbe, secondo la mia teoria?» 
 «Portate alle conseguenze ultime ciò che avete predicato qui poco fa, e ne verrà fuori che si può benissimo sgozzare la gente...» 
  «Ma cosa vi salta in mente?» esclamò Lùžin. 
  «No, non è affatto così!» fece eco Zòsimov. 
  Raskòlnikov giaceva pallido, col labbro superiore che gli tremava, respirando a fatica. 
«C'è un limite a tutto,» proseguì alteramente Lùžin. «Una teoria economica non è ancora un invito all'omicidio, e per poco che si supponga...» 
 «Ma non è forse vero che voi,» lo interruppe di nuovo Raskòlnikov, con una voce tremante d'ira in cui si sentiva il gusto di offendere, «non è forse vero che alla vostra fidanzata... proprio nel momento in cui ricevevate il suo consenso... voi avete detto che più di tutto eravate lieto del fatto che fosse povera... perché è più vantaggioso togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla dominare... e poterle rinfacciare d'averla beneficata?» 
 «Egregio signore!» esclamò Lùžin in tono iroso ed esasperato, avvampando in volto e confondendosi. «Egregio signore... snaturare a tal punto un'idea! Scusatemi, ma devo informarvi che le voci giunte a vostra conoscenza o, per dir meglio, portate a vostra conoscenza, sono destituite di qualsiasi fondamento, e io... ho il sospetto... in una parola... questa frecciata... in una parola, la vostra mamma... Già m'era sembrata, pur con tutte le sue ottime qualità, di una tendenza un po' esaltata, e romantica nelle idee... Tuttavia ero lontano le mille miglia dal supporre che potesse 
capire e presentare le cose in un aspetto così deformato dalla fantasia... E infine... infine...» 
 «Sapete cosa vi dico?» gridò Raskòlnikov, sollevandosi sul guanciale e fissandolo con uno sguardo penetrante, gli occhi lampeggianti d'ira. «Sapete cosa vi dico?» 
 «Che cosa?» Lùžin s'era interrotto, e aspettava con aria di offesa e al tempo stesso di sfida. Il silenzio si protrasse per alcuni secondi. 
  «Che se voi ancora una volta... oserete dire anche una sola parola... sul conto di mia madre... 
vi farò volare giù dalle scale!» 
  «Ma che ti piglia?» gridò Razumìchin. 
 «Ah, è così!» Lùžin impallidì e si morse il labbro. «Sentitemi bene, signor mio,» cominciò a dire scandendo le parole e cercando con tutte le forze di dominarsi, ma pur tuttavia soffocando, «già poco fa, fin dal primo momento, avevo indovinato l'antipatia che nutrite per me, ma sono rimasto qui appositamente allo scopo di farmi un'idea più precisa sul vostro conto. Ero disposto a perdonare molto a un malato e a un parente, ma adesso... a voi... mai e poi mai...»  «Non sono malato!» esclamò Raskòlnikov. 
  «Ragione di più...» 
  «Andate al diavolo!» 
 Ma Lùžin stava già uscendo, senza aver terminato la frase, infilandosi tra il tavolo e la sedia. Questa volta Razumìchin si alzò per lasciarlo passare. Senza guardare nessuno, e senza nemmeno fare un cenno del capo a Zòsimov, che già da molto gli faceva segno di lasciare in pace l'infermo, Lùžin uscì, tenendo prudentemente il cappello all'altezza della spalla nel momento in cui, chinandosi, passò per la porta. E perfino nella curva della sua schiena sembrava scritto che egli si portava appresso un'offesa atroce. 
  «Ma ci si può comportare in questo modo?» diceva Razumìchin, interdetto, scuotendo il capo. 
 «Lasciatemi, lasciatemi tutti!» urlò Raskòlnikov completamente fuori di sé. «Ma quando mi lascerete, dunque, carnefici che non siete altro! Non ho paura di voi! Ormai non ho più paura di nessuno! Via da me! Voglio rimanere solo, solo, solo!»  «Andiamo,» disse Zòsimov, facendo cenno a Razumìchin. 
  «Ma scusa, si può forse lasciarlo in questo stato?» 
  «Andiamo!» insistette Zòsimov, e uscì. Razumìchin ci pensò su un attimo, poi gli corse dietro. 
 «Poteva esser peggio se non gli obbedivamo,» disse Zòsimov già sulle scale. «Non lo si deve irritare...» 
  «Ma cos'ha?» 
 «Gli ci vorrebbe soltanto una piccola spinta favorevole, una qualsiasi, ecco cosa gli ci vorrebbe! Poco fa aveva ripreso forza... Sai, ha un chiodo nel cervello! Qualcosa di fisso, di ossessivo... E questo che mi spaventa! Proprio così!» 
«Non si tratterà per caso di quel signore, del nostro Pëtr Petròviè? Dai discorsi è chiaro che sta per sposare sua sorella, e che Ròdja ha ricevuto una lettera in proposito proprio prima di cadere malato...» 
 «Sì, è stato il diavolo a portarlo qui proprio adesso; forse ha rovinato ogni cosa. Ma avrai notato che al malato tutto è indifferente, a tutto risponde col silenzio, tranne su un punto, che lo fa uscire dai gangheri: l'assassinio...» 
 «Sì, è vero!» approvò Razumìchin, «l'ho notato anch'io! La cosa lo interessa, gli fa perfino paura. Lo hanno spaventato proprio il giorno in cui si è ammalato, là all'ufficio di polizia, al commissariato, dove ha perso i sensi.» 
 «Me lo racconterai più dettagliatamente questa sera; poi ti racconterò qualcosa anch'io. Lui mi interessa, mi interessa moltissimo! Fra mezz'ora passerò a informarmi... Ma l'infiammazione cerebrale riusciremo a evitarla, vedrai...» «Grazie a te! Io aspetterò da Pàšenka, e lo farò sorvegliare da Nastàsja...» 
  Rimasto solo, Raskòlnikov guardò con aria impaziente e seccata Nastàsja, che tardava ad andarsene. 
  «E adesso lo prenderai un po' di tè?» lei chiese. 
  «Dopo! Adesso voglio dormire ! Lasciami solo...»  Si voltò convulsamente verso la parete; Nastàsja uscì. 



 Non appena fu uscita, Raskòlnikov si alzò, chiuse la porta col gancetto, slegò il fagotto degli indumenti portato poco prima da Razumìchin, che quest'ultimo aveva di nuovo legato, e cominciò a vestirsi. Cosa strana: pareva che, di colpo, si fosse completamente calmato; non era rimasto niente né del delirio semifolle di prima, né della paura panica di tutti quegli ultimi tempi. Era il primo istante di una specie di strana, improvvisa tranquillità. I suoi movimenti erano semplici e precisi e denotavano un fermo proposito. «Oggi stesso, oggi stesso!...» mormorava tra sé. Anche se capiva di essere ancora debole, la fortissima tensione spirituale che aveva provocato quello stato di calma, di idea fissa, gli dava forze e sicurezza in sé; sperava di non svenire per la strada. Rivestito da capo a piedi, diede un'occhiata ai soldi sulla tavola, ci pensò su e se li ficcò in tasca. Erano venticinque rubli. Prese anche tutte le monetine di rame, il resto dei dieci rubli spesi da Razumìchin. Poi sollevò pian piano il gancetto; uscì dalla stanza, scese giù per le scale e gettò, passando, un'occhiata nella cucina, la cui porta era spalancata: Nastàsja gli voltava la schiena e, china, soffiava nel samovar della padrona. Non udì nulla. E chi mai, d'altronde, poteva supporre ch'egli sarebbe uscito? Dopo qualche istante, sitrovava già nella strada. 
 Erano circa le otto; il sole era al tramonto. Benché l'aria fosse afosa, come negli ultimi giorni, egli l'aspirò avidamente, quell'aria puzzolente e polverosa, contaminata dalla città. Dapprincipio si sentì girare leggermente la testa, ma poi, d'un tratto, una specie di energia selvaggia brillò nei suoi occhi infiammati, sul suo viso smagrito e pervaso d'un pallore giallastro. Non sapeva dove andare, e nemmeno ci pensava; sapeva soltanto che «tutto questo deve finire oggi stesso, in un colpo solo, subito; prima d'allora non tornerò a casa, perché non voglio più vivere così». Va bene, finire; ma come, in che maniera? Non ne aveva la minima idea, e non voleva pensarci. Scacciava da sé quel pensiero che lo tormentava. Sentiva e sapeva soltanto che tutto doveva cambiare, in una maniera o nell'altra; «in una maniera qualsiasi», ripeteva con disperata, ostinata sicurezza e decisione. 
 Per una vecchia abitudine, seguendo il consueto cammino delle sue passeggiate, si avviò direttamente alla Sennàja. Prima che la strada giungesse alla Sennàja, davanti a una minuscola bottega c'era un giovane suonatore d'organetto, dai capelli neri, che girando la manovella suonava una romanza molto sentimentale. Egli accompagnava una cantante, una ragazza sui quindici anni vestita come una signorina, con crinolina, mantellina, guanti e un cappello di paglia adorno di una penna color fuoco: il tutto, però, assai vecchio e logoro. Con voce volgare e incerta, ma abbastanza gradevole e sonante, cantava la romanza, in attesa che dalla bottega le dessero una moneta da due copeche. Raskòlnikov, fermatosi accanto a due o tre ascoltatori, stette un po' a sentire; poi tolse di tasca un cinquino e lo mise in mano alla ragazza. Quella troncò di colpo il suo canto su una nota particolarmente alta e romantica, con una specie di taglio netto, gridò bruscamente al suonatore dell'organetto: «Basta!», e tutt'e due si trascinarono avanti, verso la botteguccia seguente. 
 «Vi piace sentir cantare nelle strade?» chiese improvvisamente Raskòlnikov a un passante, non più giovane, che si trovava al suo fianco accanto all'organetto e aveva tutta l'aria di un perdigiorno. L'altro lo guardò stranito, con palese meraviglia. «A me piace,» proseguì Raskòlnikov, ma con un'aria come se parlasse di tutt'altro argomento, «a me piace sentir cantare al suono dell'organetto in una fredda, buia e umida serata autunnale, ma proprio umida, quando la faccia dei passanti sembra verdastra e malata: o, meglio ancora, quando cade neve bagnata, dritta dritta, senza vento, sapete? e attraverso la neve brillano i lampioni del gas...» 
 «Non saprei... Scusate...» mormorò il signore, spaventato sia dalla domanda, sia dall'aspetto strano di Raskòlnikov, e passò dall'altra parte della via. 
 Raskòlnikov proseguì dritto davanti a sé e sbucò in quell'angolo della Sennàja dove tenevano il loro banchetto il merciaiolo e la donna che, quel giorno, avevano parlato con Lizavèta; ma adesso non c'erano. Riconosciuto il luogo, egli si fermò, si guardò attorno e si rivolse a un giovanotto in camicia rossa, che stava sbadigliando all'ingresso di una bottega di granaglie e farina. 
  «Non c'è quel venditore che commercia qui all'angolo insieme a una donna, credo sua moglie?» 
  «Ce n'è così, che commerciano,» rispose il giovanotto squadrando Raskòlnikov dall'alto in basso. 
  «Ma quello come si chiama?» 
  «Come l'hanno battezzato, così si chiama.» 
  «Non sarai anche tu di Zaràjsk? Di che provincia sei?» 
  Il giovanotto guardò di nuovo attentamente Raskòlnikov. 
 «Da noi, vostra eccellenza, non è provincia, ma distretto, e siccome è sempre stato mio fratello ad andare in giro, mentre io rimanevo a casa, così non lo so mica... Abbiate quindi la bontà, vostra eccellenza, di scusarmi.» 
  «Lì sopra c'è una taverna?» 
 «E una trattoria, e c'è anche il biliardo; e se uno vuole, ci trova anche certe principesse che non vi dico...» 
 Raskòlnikov attraversò la piazza. Nell'angolo c'era una folla compatta di gente, tutti contadini. Egli si inoltrò dove la gente era più fitta, guardando in faccia i presenti. Chissà perché, si sentiva portato ad attaccare discorso con tutti. Ma i contadini non gli badavano, e continuavano a vociare tra di loro, formando dei gruppetti. Rimase lì per un po', poi parve ripensarci e si avviò sulla destra, seguendo il marciapiede, in direzione del V-j. Abbandonando la piazza, entrò in un vicolo... 
 Era passato parecchie altre volte per quel vicolo corto, che dalla piazza, facendo gomito, portava in via Sadòvaja. Negli ultimi tempi, qualcosa l'aveva spinto a gironzolare per quei luoghi, quando si sentiva disgustato, «per sentirsi ancor più disgustato». Ora, però, s'era infilato lì senza pensare a nulla. C'era un grande edificio, tutto bettole e rivendite di generi alimentari e alcoolici, dalle quali uscivano continuamente di corsa delle donne, vestite come ci si veste «per andare dalla vicina», senza niente in testa e senza soprabito. In due o tre punti, avevano formato dei gruppi sul marciapiede, perlopiù davanti all'ingresso di certi scantinati dove, scendendo due gradini, ci si trovava in locali di divertimento di varie specie. Da uno di questi locali veniva un fracasso d'inferno, che rimbombava per tutta la strada. Si sentiva strimpellare una chitarra, si cantavano canzoni e, in generale, regnava una grande allegria. Un folto gruppo di donne si affollava all'entrata; altre ancora stavano lì in piedi a discorrere. Non lontano, in mezzo alla via, si trascinava barcollando, e bestemmiando sonoramente, un soldato ubriaco, che fumava una sigaretta e sembrava che volesse entrare in qualche posto, ma si fosse dimenticato quale. Uno straccione scambiava insulti con un altro straccione, e un tale ubriaco fradicio era disteso attraverso la strada. Raskòlnikov si fermò accanto a un gruppo di donne. Parlavano con voci rauche; indossavano tutte abiti di cotonina, avevano scarpe di pelle di capretto ed erano a testa nuda. Alcune avevano oltrepassato la quarantina, ma c'erano anche delle diciassettenni, e quasi tutte avevano gli occhi pesti. 
 Chissà perché, quel canto e tutto quel baccano, là in basso, lo interessavano... Si distingueva come, in mezzo alle risate e agli strilli, qualcuno, accompagnato da uno sfrenato ritornello in falsetto e dal suono della chitarra, si fosse scatenato a danzare, scandendo il ritmo con i tacchi. Raskòlnikov ascoltava intento, cupo e pensoso, chino presso l'ingresso, e dal marciapiede lanciava occhiate piene di curiosità nell'anticamera del locale. 

  Dolce amante del mio sogno,  non mi legnare senza bisogno! 

 Ci dava dentro a più non posso, la vocetta del cantore. Raskòlnikov moriva dalla voglia di afferrare le parole della canzone, come se ciò avesse avuto chissà quale importanza per lui.  «E se entrassi?» pensò. «Come ridono!... Sono ubriachi. E se mi ubriacassi anch'io?» 
 «Non entrate, caro signore?» chiese una delle donne, con una voce abbastanza squillante, non ancora del tutto roca. Era giovane e - lei sola di tutto il gruppo - perfino belloccia. 
  «Come sei carina!» rispose lui, risollevandosi e guardandola. 
  Lei sorrise; il complimento le era andato molto a genio. 
  «Anche voi siete tanto bellino,» disse. 
  «Com'è magro!» osservò un'altra donna con voce di basso. «Siete appena uscito dall'ospedale, forse?» 
 «A guardarle, sembrano tante figlie di generali, ma poi hanno il naso a patata!» intervenne all'improvviso un contadino sbronzo che s'era avvicinato, con il gabbano sbottonato e una faccia furba e ridanciana. «Eh, ma che baldoria qui!»  «Entra, visto che ci sei!»  «Come no? Si capisce che entro!»  E rotolò giù. 
  Raskòlnikov fece per passare oltre. 
  «Sentite, signore!» gli gridò dietro la ragazza. 
  «Che c'è?» 
  Lei parve imbarazzata 
 «Io, caro signore, sarò sempre contenta di dividere con voi le mie ore, ma adesso, non so perché, non mi sento in vena. Sentite, gentile cavaliere, regalatemi sei copeche per un bicchiere!»  Raskòlnikov cavò di tasca delle monete a caso: tre cinquini. 
  «Ah, che bravo signore!» 
  «Come ti chiami?» 
  «Domandate di Dùklida.» 
 «Questa è grossa,» osservò a un tratto una donna del gruppo, scuotendo il capo con aria di biasimo verso Dùklida. «Come si fa a chiedere soldi in questa maniera? Io, al tuo posto, morirei di vergogna!» 
 Raskòlnikov guardò con curiosità quella che aveva parlato. Era una donna butterata, sulla trentina, tutta piena di lividi e col labbro superiore enfiato. Esprimeva le sue critiche in tono serio e posato. 
 «Dove ho mai letto,» pensò Raskòlnikov, proseguendo il cammino, «dove posso mai aver letto di quel condannato a morte che, un'ora prima dell'esecuzione, dice o pensa che se potesse vivere in cima a uno scoglio, su una piattaforma così stretta da poterci tenere soltanto i due piedi, con intorno l'abisso, l'oceano, la tenebra eterna, la solitudine eterna e l'eterna procella, e rimanersene immobile su quello spazio di un metro quadrato per tutta la vita, per mille anni, per l'eternità, ebbene, preferirebbe vivere così piuttosto che morire in quell'istante? Pur di vivere, vivere, vivere! Vivere in qualunque modo, ma vivere!... Che verità, Signore Iddio, che verità! L'uomo è un vigliacco! Ed è un vigliacco chi, per questo, lo chiama vigliacco,» aggiunse subito dopo. 
 Sbucò in un'altra via. «Guarda, il Palazzo di cristallo! Poco fa, Razumìchin parlava del Palazzo di cristallo. Io, però, cosa volevo? Ah sì, leggere!... Zòsimov ha detto di aver letto giornali...» 
 «Avete i giornali?» domandò entrando in quell'ambiente molto spazioso, e perfino pulito, formato da parecchie stanze quasi deserte. Due o tre clienti bevevano il tè, e in una delle ultime stanze era seduto un gruppetto di quattro persone, che bevevano champagne. Sembrò a Raskòlnikov che fra questi ci fosse Zamëtov. D'altronde, da lontano era difficile distinguere bene. 
  E sia pure! pensò. 
  «Volete della vodka?» domandò il cameriere. 
 «Dammi del tè. E portami dei giornali, giornali vecchi, degli ultimi cinque o sei giorni; ti darò una mancia.» 
  «Sarete servito. Ecco i giornali di oggi, intanto. E vodka, ne volete?» 
 Poi arrivarono anche i giornali vecchi e il tè. Raskòlnikov si sedette e cominciò a cercare: «Izler - Izler - Gli Aztechi - Gli Aztechi - Izler - Bartola - Massimo - Gli Aztechi - Izler... Accidenti, nulla! Ah, ecco le note di cronaca: Caduta dalla scala - Un negoziante muore alcoolizzato - Incendio a Peskì - Incendio alla Peterbùrgskaja.  Un altro incendio alla Peterbùrgskaja - Ancora un incendio alla Peterbùrgskaja - Izler- Izler Izler - Izler- Massimo... Ah, ecco qua...» 
 Finalmente, aveva trovato ciò che cercava. Cominciò a leggere; le righe gli ballavano davanti agli occhi, ma lesse sino in fondo l'intero pezzo di cronaca, e prese a cercarne avidamente altri nei numeri successivi. Per l'impazienza, mentre sfogliava le pagine le mani gli tremavano. A un tratto qualcuno si sedette vicino a lui, al suo stesso tavolo. Si voltò: era Zamëtov, proprio quello Zamëtov e proprio con quel suo aspetto, gli anelli, la catena, la scriminatura nei capelli neri e impomatati, il panciotto da zerbinotto, la giacca un po' logora e la biancheria non troppo fresca. Era allegro, o per lo meno sorrideva molto allegramente e bonariamente. Il suo volto bruno era un poco acceso per lo champagne bevuto. 
 «Come? Voi qui?» prese a dire in tono perplesso e come se si conoscessero chissà da quando. «Ma se ancora ieri Razumìchin mi diceva che non avevate ripreso coscienza...? Strano davvero... Sapete che sono stato da voi?» 
 Raskòlnikov si aspettava che l'altro gli venisse vicino. Mise da parte i giornali e si voltò del tutto verso Zamëtov. Sulle sue labbra aleggiava un sorrisetto ironico, dal quale traspariva una sorta di stizzosa impazienza. 
 «Lo so che siete venuto,» rispose, «ne ho sentito parlare. Cercavate una calza... E voi sapete che Razumìchin è folle di voi? Dice che siete stati insieme da Lavìza Ivànovna, quella per cui vi siete dato tanto da fare, quella volta, strizzando l'occhio al tenente che continuava a non capire... Ricordate? Eppure avrebbe dovuto capire subito, era assolutamente chiaro, non è vero?» 
  «Ma che testa calda!» 
  «Chi? Il tenente?» 
  «No, il vostro amico, Razumìchin...» 
 «Però gran bella vita la vostra, signor Zamëtov: ingresso gratis nei locali più allegri! Chi è stato a riempirvi di champagne, poco fa?» 
  «Be', noi... abbiamo bevuto un po'... e subito voi dite 
  ‹riempirvi› !...» 
 «Qualche compenso, ci scommetto!... Sempre tutto a vostra disposizione!» e Raskòlnikov rise «Non fa niente, mio bravo ragazzo, non fa niente!» soggiunse, dando una pacca sulla spalla a Zamëtov, «io non l'ho detto per farvi rabbia, ‹ma per amore, per gioco›, come diceva quel vostro operaio mentre le suonava a Mìtka, in quell'affare della vecchia...» 
  «E voi come fate a saperlo?» 
  «Io, forse, ne so più di voi.» 
  «Siete un tipo strano... Probabilmente siete molto malato. Avete fatto male a uscire...» 
  «Vi sembro così strano?» 
  «Sì. Sono giornali quelli che leggete?» 
  «Sì, proprio giornali...» 
  «Ci sono molti articoli sugli incendi.» 
 «Non sono gli incendi a interessarmi.» A questo punto egli guardò Zamëtov con aria enigmatica, e di nuovo un sorrisetto ironico gli storse le labbra. «No, non sono gli incendi,» proseguì, ammiccando al suo interlocutore. «Volete ammettere, mio caro giovanotto, che dareste chissà che cosa per sapere cosa stavo leggendo?» 
 «Niente affatto, l'ho chiesto solo così... Non si può domandare, forse? Ma come mai ogni cosa, per voi...» 
  «Sentite, voi siete una persona istruita e colta, non è forse vero.» 
  «Ho fatto la sesta classe del ginnasio,» rispose Zamëtov con un certo sussiego. 
 «La sesta! Ma che bravo! E poi la scriminatura, e gli anelli; un vero riccone, insomma! che simpatico ragazzo!» Qui Raskòlnikov diede in una risata nervosa, proprio sulla faccia di Zamëtov. Quello si tirò rapidamente indietro; non che fosse offeso, ma era estremamente stupito. 
 «Ma che tipo strano!» ripeté Zamëtov in tono molto serio. «Ho l'impressione che abbiate ancora il delirio.» 
 «Delirio, io? Tutte storie, tesoro mio... Allora, sono o non sono strano?.. . Vi incuriosisco? Vero che v'incuriosisco?» 
  «Sì, mi incuriosite.» 
 «Allora, volete che vi dica cosa stavo leggendo, cosa cercavo? Guardate quanti giornali mi sono fatto portare! 
  una cosa sospetta, vero?» 
  «Coraggio, ditemelo.» 
  «Avete le orecchie ben aperte?» 
  «Che c'entrano adesso le orecchie?» 
 «Ve lo dirò dopo, cosa c'entrano; adesso invece, mio caro, vi dichiarerò... no, anzi: ‹confesserò› ... No, non è nemmeno questo: ‹depongo, e voi prendete atto› . Ecco, proprio così! Dunque, depongo davanti a voi di aver letto, di essermi interessato... di aver cercato... di aver fatto delle ricerche...» Raskòlnikov socchiuse gli occhi e fece una pausa. «Ho fatto delle ricerche - ed è per questo che sono passato di qui - sull'assassinio della vecchia, la vedova del funzionario,» disse infine quasi in un bisbiglio, accostando moltissimo il suo volto a quello di Zamëtov. Questi lo guardava fissamente, senza muoversi e senza allontanare la propria faccia da quella di lui. In seguito, più strano di tutto sembrò a Zamëtov che il silenzio fra loro fosse durato un intero minuto, e che fossero rimasti per un minuto intero a fissarsi in quella maniera. 
  «Va bene, avete letto, e con questo?» esclamò ad un tratto Zamëtov, perplesso e impaziente. 
«A me che me ne importa! E con questo?» 
 «È proprio quella stessa vecchia,» proseguì Raskòlnikov, continuando a bisbigliare e senza scomporsi per l'esclamazione di Zamëtov, «quella stessa della quale, come ricorderete, avevano cominciato a parlare nel vostro ufficio quando io sono svenuto. Ebbene, adesso comprendete?» 
 «Cosa significa tutto questo? Che cosa?... ‹comprendete› che cosa?» disse Zamëtov quasi angosciato. 
 Il viso immobile e serio di Raskòlnikov si trasformò in un batter d'occhio; diede ancora, all'improvviso, in uno scroscio di riso nervoso, come se non avesse assolutamente la forza di trattenersi. Rammentò di colpo, con l'estrema chiarezza di una sensazione, l'istante in cui stava dietro la porta, stringendo la scure, col gancio che ballava, mentre fuori gli altri bestemmiavano e cercavano di forzare la porta, e ad un tratto a lui era venuta voglia di gridare qualcosa, di insultarli, di mostrar loro la lingua, di schernirli, di ridere...! 
«Voi siete pazzo, oppure...» disse Zamëtov, e si fermò come colpito improvvisamente da un'idea, balenatagli nella mente. 
  «O? Che cosa ‹o›? Be', che cosa? Coraggio, parlate!» «Niente!» rispose con rabbia Zamëtov. 
«Sono tutte sciocchezze!» 
 Tacquero entrambi. Dopo quel repentino, isterico scoppio di risa, Raskòlnikov s'era fatto a un tratto pensieroso e triste. Aveva appoggiato i gomiti sulla tavola, puntellandosi il capo con una mano. Sembrava completamente dimentico della presenza di Zamëtov. Il silenzio durò abbastanza a lungo. 
  «Perché non bevete il tè? Si raffredderà,» disse Zamëtov. 
 «Eh?... Cosa?... Il tè?... Perché no?...» Raskòlnikov bevve un sorso dal bicchiere, si mise in bocca un pezzetto di zucchero e a un tratto, dopo aver guardato Zamëtov, parve ricordare e riscuotersi: in quel preciso istante, il suo volto assunse l'espressione ironica di prima. Continuò a sorseggiare il tè. 
 «Oggi, il numero di queste canagliate è in continuo aumento,» disse Zamëtov. «Di recente ho letto nelle Moskòvskie vèdomosti  che a Mosca hanno acciuffato un'intera banda di falsari. Era una vera e propria associazione, falsificavano le banconote.» 
 «Eh, questa è roba vecchia! L'ho letta già un mese fa,» rispose tranquillamente Raskòlnikov «Quindi, secondo voi, si tratterebbe di canaglie?» aggiunse sogghignando. 
  «Perché, non lo sono forse?» 
 «Quelli? Quelli sono bambini, lattanti, non canaglie! Riunire cinquanta persone per quello scopo! È mai possibile? Anche tre sarebbero già molti, e sempre a patto che ciascuno si fidasse di ciascun altro più che di se stesso! Se no, basta che uno beva un po', e si lasci sfuggire qualche parola, perché tutto vada a rotoli! Proprio dei lattanti! Per cambiare i biglietti nelle banche assoldano individui che non danno affidamento: affidare un'impresa simile al primo che capita! Be', ammettiamo che vada liscia anche a questi lattanti, ammettiamo che ciascuno riesca a cambiare un milione; be', e poi? E tutto il resto della vita dove lo mettiamo? Ciascuno finisce per dipendere dagli altri per tutta la vita! Meglio impiccarsi, piuttosto! Quelli, poi, non son stati neanche capaci di cambiare i biglietti: uno aveva cominciato, in una banca, aveva ricevuto cinquemila rubli, e poi ecco che gli viene la tremarella alle mani. Quattromila li aveva già contati, ma il quinto migliaio lo prende senza contare, sulla fiducia, pur di sentirselo in tasca e poter filar via. Be', ha destato dei sospetti, e tutto è andato a carte quarantotto a causa di quello scemo! Ma è mai possibile?» 
 «Possibile che tremino le mani, dite?» lo interruppe Zamëtov. «Certo che è possibile. Sono assolutamente sicuro che è possibile. A volte non si può resistere.» 
  «Non si può resistere a questo?» 
 «Perché, voi resistereste, forse? Io no; non resisterei! Per un compenso di cento rubli, affrontare un simile orrore ! Andare con un biglietto falso - e dove, poi? in una banca, dove la sanno così lunga... No, io mi smarrirei. Voi no?» 
 Raskòlnikov provò di nuovo un desiderio tremendo di «mostrargli la lingua». Ogni tanto, dei brividi gli correvano lungo la schiena. 
 «Io non avrei agito così,» cominciò prendendola alla lontana. «Ecco come farei per cambiare, io: dopo aver contato il primo migliaio, per un quattro volte, prima da un lato, e poi dall'altro, esaminando ogni biglietto, passerei al secondo migliaio; comincerei a contarlo, poi, arrivato a metà, tirerei fuori un biglietto, magari da cinquanta rubli, e comincerei ad esaminarlo alla luce, prima da un lato e poi dall'altro, come per sincerarmi che non sia falso. ‹Non mi fido troppo: giorni fa una mia parente ci ha rimesso venticinque rubli, in questo modo›; e narrerei tutta la storia. Arrivato al terzo migliaio, ebbene no, un momentino: se non sbaglio, nel secondo migliaio non ho contato giusto il settimo centinaio, ho un dubbio.. Lascerei da parte il terzo migliaio e ritornerei al secondo, e così per tutti i cinquemila rubli. Una volta terminato, estrarrei poi dal quinto e dal secondo migliaio un biglietto per esaminarlo di nuovo alla luce, con aria diffidente: ‹vi prego, cambiatemeli›; insomma, farei sudare sette camicie al cassiere, così che non vedesse più l'ora di sbarazzarsi di me! Finito tutto, me ne andrei, aprirei la porta, ma poi, no, un momentino, scusate tanto, tornerei indietro a chiedere qualche informazione... Ecco come avrei fatto io!» 
 «Uh, che cose terribili andate dicendo!» commentò Zamëtov ridendo. «Solo che sono chiacchiere, mentre nella realtà, certamente fareste qualche passo falso. Secondo me, non solo gente come io e voi, ma nemmeno un individuo incallito e temerario si sentirebbe così sicuro di sé. Del resto, che volete: eccovi un esempio. Nella nostra giurisdizione hanno ucciso una vecchia. Un tipo temerario, non c'è che dire, che ha corso tutti i rischi in pieno giorno e si è salvato per miracolo; eppure, gli son tremate le mani: non è stato capace di rubare, non ha avuto la forza, e lo si vede da tutta la faccenda...» 
  Raskòlnikov parve offeso. 
 «Lo si vede?... Ma voi provate un po' ad acchiapparlo, adesso, provateci un po'!» esclamò, stuzzicando malignamente Zamëtov. 
  «Certo che lo acchiapperanno!» 
 «Chi? Voi? Lo acchiapperete voi? Campa cavallo che l'erba cresce! Per voi, una cosa sola è importante: se l'individuo spende oppure no. Prima non aveva soldi, poi d'un tratto comincia a spendere... Quindi, è stato lui... Ma in questo punto anche un ragazzino potrebbe farvela, se ne avesse voglia!» 
 «Comunque, si comportano tutti così,» rispose Zamëtov. «Uno uccide con mille precauzioni, si gioca la vita, e poi subito dopo lo pescano nella bettola. Li acciuffano sempre mentre spendono i soldi. Non sono mica tutti furbi come voi. Voi, naturalmente, non ci andreste in una bettola?»  Raskòlnikov si accigliò e guardò fissamente Zamëtov. 
 «A quanto sembra, ci avete preso gusto e volete sapere come avrei agito io in questo caso?» domandò in tono un po' seccato. 
 «Sì, vorrei saperlo,» rispose l'altro con voce ferma. S'era messo a parlare e a guardarlo con una serietà un po' eccessiva. 
  «Volete proprio?» 
  «Sì.» 
 «E va bene. Ecco come avrei agito io,» cominciò a dire Raskòlnikov, di nuovo accostando la sua faccia a quella di Zamëtov, di nuovo fissandolo dritto negli occhi e di nuovo parlando in un bisbiglio, tanto che l'altro, questa volta, perfino rabbrividì. «Ecco come avrei fatto io: avrei preso i soldi e gli oggetti, poi, appena andato via da lì, subito, senza passare da nessun'altra parte, sarei andato in qualche posto deserto, dove ci fossero soli recinti e quasi nessun passante: un orto, o qualcosa del genere. Già prima avrei adocchiato, lì in quel cortile, qualche pietra, pesante una ventina di chili, rimasta in qualche angolo, presso uno steccato, forse da quando è stata costruita la casa; avrei sollevato questa pietra - sotto c'è sempre una piccola cavità - e in quella cavità avrei sistemato tutti gli oggetti e i soldi. Fatto questo, avrei rimesso la pietra nella stessa posizione di prima, premendola col piede, e me ne sarei andato per i fatti miei. E magari per un anno, o anche per due o per tre, non avrei preso niente... Cercate pure! Chi s'è visto s'è visto!» 
 «Voi siete pazzo,» disse Zamëtov, chissà perché anche lui quasi bisbigliando; e, chissà perché, si scostò bruscamente da Raskòlnikov. A questi passò un lampo nello sguardo; impallidì orribilmente, e il labbro superiore prese a tremargli. Si chinò verso Zamëtov, più vicino che poté, e cominciò a muovere le labbra senza pronunciare parola; andò avanti così per circa mezzo minuto; era conscio di cio che stava facendo, ma non riusciva a dominarsi. Una parola terribile, come quella volta del gancio sulla porta, gli ballava sulle labbra, lì lì per sfuggirgli, lì lì per prendere il volo, lì lì per essere detta! 
  «E se fossi stato io ad ammazzare la vecchia e Lizavèta?» diss'egli all'improvviso, e tornò in sé. 
  Zamëtov gli lanciò un'occhiata esterrefatta e impallidì. Il suo volto si storse in una specie di sorriso. 
  «Ma è mai possibile?» disse con voce fioca. 
  Raskòlnikov lo guardò con rabbia. 
«Confessatelo, ci avete creduto? Vero?... Vero o no?» 
  «Niente affatto! Adesso, poi, ci credo ancora meno!» si affrettò a dire Zamëtov. 
 «Finalmente c'è cascato! L'abbiamo acchiappato, il merlo!... Dunque, prima ci credevate, visto che ora ‹ci credete ancora meno›?» 
 «Ma niente affatto!» esclamò Zamëtov, visibilmente confuso. «È per questo che m'avete spaventato? per portarmi a questo punto?» 
 «Allora non ci credete? Eppure, di che cosa parlavate in mia assenza, dopo che sono uscito dal vostro ufficio? E perché il tenente mi ha interrogato dopo lo svenimento?... Ehi, tu,» gridò Raskòlnikov al cameriere, alzandosi e prendendo il berretto, «quanto ti devo?»  «Trenta copeche in tutto,» rispose quello accorrendo. 
 «Ed eccoti altre venti copeche di mancia... Visto quanti soldi?» ed egli protese verso Zamëtov la sua mano tremante, colma di banconote. «Eccoli qua, rossi, azzurri, venticinque rubli. Da dove vengono? E da dove viene il mio vestito nuovo? Voi lo sapete benissimo, che non avevo il becco d'un quattrino! La padrona l'avete già interrogata, ci scommetto... E ora basta! Assez cause! 
Arrivederci... E buona fortuna!» 
 Uscì dal locale tremando tutto, per effetto di una tremenda sensazione isterica non priva di una specie di intensissima voluttà. Era cupo, tuttavia, e mortalmente stanco. Aveva il volto contratto, come lo si ha dopo un attacco epilettico. La sua stanchezza aumentava rapidamente. Gli capitava, in quei giorni, di sentirsi crescere le forze e affluire tutte d'un colpo, alla prima spinta, al primo stimolo, per poi affievolirsi con altrettanta rapidità, man mano che lo stimolo veniva meno. 
 Quanto a Zamëtov, ormai solo, rimase a lungo a sedere dove si trovava, meditabondo. Senza volerlo, Raskòlnikov aveva sconvolto tutte le sue idee riguardo alla nota questione, sulla quale s'era fatto ormai un'opinione definitiva. 
  «Iljà Petròvic è uno scemo!» concluse dentro di sé. 
 Appena Raskòlnikov ebbe aperto l'uscio che dava sulla strada, s'imbatté, proprio in cima alla scaletta, in Razumìchin che stava per entrare. A un passo di distanza non si erano ancora visti, cosicché mancò poco che non si urtassero con le teste. Per qualche istante, si misurarono a vicenda con lo sguardo. Razumìchin era al colmo dello stupore, ma d'un tratto la rabbia, un'autentica rabbia, gli brillò minacciosa negli occhi. 
 «Ecco dove sei!» gridò a squarciagola. «Sei fuggito dal letto! E io che ti ho cercato perfino sotto il divano. Ti abbiamo cercato anche in solaio! Per causa tua, per poco non ho picchiato Nastàsja... Invece sei qui! Ròdja! Cosa vuol dire? Fuori tutta la verità! Confessa! Hai capito?» 
 «Vuol dire che mi avete seccato a morte tutti quanti, e voglio essere solo,» rispose Raskòlnikov con grande calma. 
  «Solo? Ma se non puoi ancora camminare, se hai il muso bianco come un lenzuolo e ti 
manca il fiato! Scemo che non sei altro!... Cosa hai fatto al Palazzo di cristallo? Confessa subito!» 
  «Lasciamo perdere!» disse Raskòlnikov, e fece per passare oltre. A questo punto 
Razumìchin andò in bestia, e agguantò con forza l'altro per una spalla. 
 «Lasciar perdere? Hai il coraggio di dire: ‹lasciamo perdere›? Sai cosa farò ora di te? Ti acchiappo, ti lego come un salame, ti carico in spalla, ti porto a casa e ti chiudo dentro a chiave!» 
 «Senti, Razumìchin,» cominciò a dire Raskòlnikov a bassa voce e apparentemente con calma, «non ti accorgi che non so che farmene dei tuoi benefici? E che gusto c'è a beneficare uno che... che ci sputa sopra? Uno, per dirla tutta, al quale tutto ciò rompe terribilmente le scatole? Perché sei venuto a scovarmi fin da principio, quando mi sono ammalato? Forse sarei stato contentissimo di morire... E oggi, non ti ho forse fatto capire abbastanza che mi tormenti, che mi hai seccato? Insomma, perché vuoi a tutti i costi tormentare il tuo prossimo? Ti assicuro che tutto ciò ritarda la mia guarigione, perché mi irrita e basta. Poco fa, Zòsimov non è forse uscito per non irritarmi? E allora, per amor del cielo, lasciami perdere anche tu! E, in fin dei conti, che diritto hai di trattenermi con la forza? Non vedi che ti parlo nel pieno possesso delle mie facoltà mentali? Ma come, come, dimmelo tu, come devo supplicarti perché mi lasci in santa pace e la smetta di farmi del bene? D'accordo, sono un ingrato, sono un essere abietto, ma lasciatemi tutti quanti in pace, per l'amor di Dio, lasciatemi in pace!» 
 Aveva cominciato a parlare con calma, gioendo in anticipo per tutto il veleno che si preparava a far schizzar fuori, ma aveva terminato in uno stato di grande eccitazione e sentendosi soffocare, come prima con Lùžin. 
  Razumìchin ci pensò su un po', poi gli lasciò libero il braccio. 
 «Allora vattene al diavolo!» disse piano e quasi soprappensiero. «Aspetta!» urlò a un tratto, quando Raskòlnikov si mosse per andar via, «prima ascoltami. Dichiaro che tutti voi, nessuno escluso, siete dei chiacchieroni e dei fanfaroni! Se appena vi piglia una piccola sofferenza, cominciate a covarla come fa la gallina con l'uovo! Perfino in questo plagiate gli autori stranieri. Non c'è in voi nessun segno di vita originale! Siete fatti di pomata di spermaceti, e al posto del sangue avete del siero! Io non credo a nessuno di voi! In qualsiasi circostanza, vi preoccupate soltanto di non somigliare a un vero uomo! Aspe-e-etta!» gridò con raddoppiato furore, vedendo che Raskòlnikov di nuovo si muoveva per andarsene, «ascoltami sino in fondo! Sai che oggi da me viene gente per festeggiare la mia nuova casa, anzi forse sono già venuti, ma io ho lasciato là mio zio - ci sono stato un momento fa - a ricevere gli ospiti. Così, se tu non fossi uno stupido, uno stupido della peggior specie, uno stupido fatto e finito, se tu non fossi una semplice traduzione da una lingua straniera - vedi, Ròdja, io riconosco che tu sei un ragazzo intelligente, però sei anche uno stupido! - ebbene, se tu non fossi uno stupido, faresti bene a venire da me, a passare la serata a casa mia, invece di consumarti le suole per nulla. Visto che sei uscito, ormai non ci si può più fare niente! Io ti farei accomodare nella bella poltrona morbida dei padroni... Un po' di tè, la compagnia... Se no, potrei anche farti sdraiare su una branda, almeno staresti in mezzo a noi... Ci sarà anche Zòsimov. Allora, verrai o no?» 
  «No.» 
 «Tutte chiac-c-chiere!» esclamò con impazienza Razumìchin. «Come fai a saperlo fin d'ora? Non puoi rispondere di te stesso! E poi, anche tu non ci capisci un fico secco... Anch'io, proprio come te, ho sputato mille volte su tutto il resto dell'umanità, e poi sono tornato indietro di corsa... Ti vergognerai, e tornerai tra la gente! Allora, ricorda: casa Poèìnkov, terzo piano..» 
 «Ma di questo passo, signor Razumìchin, finirete per lasciarvi picchiare da qualcuno, solo per il piacere di fare della beneficienza.» 
 «Chi? Io? Se a qualcuno frullasse solo per il capo un'idea simile, gli strapperei il naso!... Casa Poèìnkov, numero quarantasette, nell'appartamento del funzionario Bàbuškin...»  «Non ci verrò, Razumìchin!» e Raskòlnikov si volse e s'incamminò. 
 «Scommettiamo che ci verrai!» gli gridò dietro Razumìchin. «Altrimenti, tu... altrimenti non ti vorrò vedere mai più! Ehi, aspetta! Zamëtov si trova là dentro?» 
  «Sì, è là dentro.» 
  «L'hai visto ?» 
  «Sì, l'ho visto.» 
  «E gli hai parlato?» 
  «Sì, gli ho parlato.» 
 «Di che cosa? Be', che il diavolo ti porti, meglio se non me lo dici. Casa Poèìnkov, quarantasette, appartamento di Bàbuškin, non dimenticarlo!» 
 Raskòlnikov arrivò fino alla Sadòvaja e svoltò all'angolo. Razumìchin lo seguì con lo sguardo; aveva un'aria pensierosa. Finalmente, fece un gesto rassegnato ed entrò: ma si fermò in mezzo alla scala. 
 «Accidenti!» prese a dire a voce quasi alta, «parla con buonsenso, e invece... Anch'io però, che razza d'imbecille sono! Forse che i matti non parlano con buonsenso? Anzi, a pensarci bene, è proprio di questo che Zòsimov ha paura!» e si picchiò un dito sulla fronte. «E se adesso lui... come si può lasciarlo andare in giro da solo? Se si gettasse nel fiume?... Eh, l'ho fatta proprio grossa! Così non va!» Uscì di corsa per raggiungere Raskòlnikov, ma non c'era più traccia di lui. Per il dispetto sputò in terra, e tornò rapidamente al Palazzo di cristallo per interrogare al più presto Zamëtov. 
Raskòlnikov andò direttamente fino al ponte di ..., si fermò a metà del ponte, s'appoggiò con tutti e due i gomiti al parapetto e si mise a guardare lontano. Dopo aver lasciato Razumìchin, si era sentito di colpo così debole che si era trascinato a stento sin lì. Avrebbe voluto sedersi o sdraiarsi da qualche parte, così, nella strada. Chinatosi verso l'acqua, guardava macchinalmente l'ultimo riflesso roseo del tramonto, le file delle case che si andavano oscurando nel crepuscolo sempre più fitto, la lontana finestra di una soffitta, sulla riva sinistra del canale, scintillante per l'ultimo raggio di sole che l'aveva colpita per un attimo, e l'acqua nereggiante del canale; e si sarebbe detto che la fissasse, quell'acqua, con particolare attenzione. Alla fine, fu come se nei suoi occhi prendessero a vorticare dei circoli rossi; le case ondeggiarono e i passanti, il lungofiume, le vetture, tutto prese a girargli e a danzargli intorno. A un tratto sussultò, e uno spettacolo orrendo, mostruoso forse lo salvò da un nuovo svenimento. Sentì che qualcuno s'era fermato al suo fianco, alla sua destra; diede un'occhiata e vide una donna alta, con un fazzoletto in testa; aveva un volto giallo oblungo, marcato dall'alcool, e occhi rossi e infossati. Lei lo fissava, ma era chiaro che non vedeva nulla e non distingueva nessuno intorno a sé. All'improvviso s'appoggiò con il braccio destro sul parapetto, sollevò la gamba destra, portandola oltre la ringhiera, poi fece altrettanto con la sinistra e si lanciò nel canale. L'acqua sporca s'aprì, inghiottì la sua vittima, ma di lì a un minuto la donna tornò a galla e la corrente cominciò a trascinarla lentamente in giù, con la testa e le gambe nell'acqua e la schiena rivolta verso l'alto, mentre la gonna si era raccolta e gonfiata sull'acqua come un cuscino. 
 «S'è annegata! S'è annegata!» gridavano decine di voci; accorse gente, le due sponde del canale si riempirono di spettatori, e sul ponte, intorno a Raskòlnikov, si raccolse una folla che lo spingeva e lo premeva da dietro. 
 «Misericordia, ma è la nostra Afrosìnjuška!» si udì, poco lontano, una voce lamentosa di donna. «Dio santissimo, salvatela! Buona gente, tiratela fuori!»  «Una barca! Una barca!» gridavano altri. 
 Ma non ci fu bisogno di barca: una guardia di città scese di corsa giù per la scaletta che dava al canale, si tolse rapidamente cappotto e stivali e si gettò in acqua. Non ebbe molto da fare: l'acqua portò il corpo della donna a due passi dalla scala, egli l'afferrò per le vesti con la mano destra, con la sinistra riuscì ad aggrapparsi a una pertica tesagli da un collega, e la donna fu subito tratta fuori. La adagiarono sulle lastre di granito della banchina. Rinvenne rapidamente, si sollevò, si sedette, prese a starnutire e a sbuffare, mentre si strofinava macchinalmente le vesti bagnate con le mani. 
Non diceva nulla. 
 «Che sbornia s'è presa, Madonnina santa, che sbornia!» urlava la stessa voce femminile di prima, ma vicino, ora, a Afrosìnjuška. «Anche l'altro ieri voleva ammazzarsi: l'hanno staccata dalla corda. E adesso io ero andata in bottega, lasciando con lei una ragazzina perché la sorvegliasse, ed ecco il guaio che ne è venuto fuori! È una merciaiola, la nostra merciaiola, vive accanto a noi, nella seconda casa dall'angolo, ecco, proprio lì...» 
 La gente cominciò a disperdersi, i poliziotti si stavano ancora affaccendando intorno alla donna, un tizio gridò qualcosa nominando il commissariato... Raskòlnikov guardava tutto con una strana sensazione di indifferenza e di apatia. Provava un senso di disgusto. «No, fa schifo... l'acqua... non vale la pena,» mormorava fra sé. «Non ne farò nulla, è inutile. Che c'entra il commissariato?... Perché Zamëtov non è al commissariato? Fin dopo le nove è aperto...» Voltò la schiena al parapetto e si guardò attorno. 
 «E va bene... Sia pure!» si disse in tono deciso, e dal ponte s'avviò in direzione del commissariato. Il suo cuore era vuoto e sordo. Non voleva pensare. Anche l'angoscia gli era passata, e dell'energia di poco prima, di quand'era uscito di casa per «farla finita», non rimaneva traccia. Un'apatia totale ne aveva preso il posto. 
 «In fondo, è una via d'uscita!» pensava camminando lentamente, stancamente, lungo la sponda del canale. «Se non altro, sarà finita perché sarò stato io a volerlo... Ma è veramente una via d'uscita? Comunque, fa lo stesso! Vivrò in un metro quadrato di spazio... bah! Però, che razza di fine! Possibile che sia proprio la fine? Glielo dico, a quella gente, o non glielo dico? Accidenti!... Oltre a tutto, sono stanco: potessi sdraiarmi o sedermi al più presto da qualche parte! Ma più di tutto mi vergogno di quanto tutto questo è stupido. Del resto, me ne infischio. Puah, che corbellerie vengono in mente certe volte...» 
 Per arrivare al commissariato bisognava andare diritti, poi, al secondo angolo, svoltare a sinistra: era lì a due passi. Ma giunto al primo angolo si fermò, rimase un po' soprappensiero, svoltò nel vicolo e cominciò a fare un giro, attraversando due strade, forse senza scopo, o forse per tirarla ancora in lungo qualche minuto e guadagnare tempo. 
 Camminando guardava a terra. A un tratto, fu come se qualcuno gli avesse mormorato qualcosa all'orecchio. Sollevò il capo e vide che stava dinanzi a quella casa, proprio accanto al portone. Da quella sera non era più stato lì, nè vi era passato davanti. Un desiderio irresistibile e inesplicabile lo attrasse. Entrò nella casa, attraversò tutto l'androne, poi imboccò la prima porta a destra e cominciò a salire per la scala ben nota fino al quarto piano. La scala, stretta e ripida, era molto buia. Si fermava ad ogni pianerottolo e si guardava attorno con curiosità. Sul pianerottolo del primo piano, il telaio della finestra era stato tolto del tutto. «Questo allora non c'era,» pensò. Ed ecco anche l'appartamento del secondo piano, dove avevano lavorato Nikolàška e Mìtka: «È chiuso, e la porta è ridipinta a nuovo; dunque è da affittare.» Ed ecco il terzo piano... e il quarto... «Qui!» Si arrestò perplesso: la porta dell'appartamento era spalancata, dentro c'erano delle persone, si udivano delle voci; questa proprio non se l'aspettava. Dopo aver esitato un po', salì gli ultimi gradini ed entrò nell'appartamento. 
 Anche questo, lo stavano rimettendo a nuovo; c'eran dentro gli operai; la cosa parve sorprenderlo. Chissà perché, s'era immaginato di trovare tutto esattamente come l'aveva lasciato allora - forse perfino i cadaveri allo stesso posto, sul pavimento. E invece, pareti nude, niente mobili; era abbastanza strano! Si avvicinò alla finestra e sedette sul davanzale. 
 Gli operai erano due in tutto, tutt'e due piuttosto giovani, uno un po' meno, l'altro uno sbarbatello. Stavano mettendo alle pareti una tappezzeria nuova, bianca con fiorellini color lilla, al posto di quella gialla di prima, logora e strappata. Chissà perché, questo dispiacque enormemente a Raskòlnikov; contemplava la tappezzeria nuova con sguardo ostile, come se gli desse un gran fastidio di trovare tutto così cambiato. 
 Gli operai dovevano essersi attardati, e ora stavano arrotolando frettolosamente la loro carta, preparandosi ad andare a casa. Dell'arrivo di Raskòlnikov quasi non s'accorsero. Stavano discorrendo di qualcosa. Raskòlnikov incrociò le braccia e si mise ad ascoltare. 
 «Eccotela lì che mi arriva di mattina,» diceva quello più in età all'altro, «presto prestino, tutta in ghingheri. ‹Che hai,› le dico io, ‹da farmi tanto la smorfiosetta,› le dico, ‹da farmi tanto la svenevole?› ‹Io,› mi fa lei, ‹Tit Vasìlieviè, voglio dipendere d'ora in poi completamente dalla volontà vostra.› Ecco, dunque, com'è la faccenda! È vestita in una maniera che non ti dico!... Una vera rivista di moda!» 
 «Ma cos'è, zietto, questa ri-vi-sta?» domandò il più giovane. Evidentemente, egli era un discepolo dello «zietto». 
 «Una rivista, mio caro, sono certe vignette a colori che arrivano ai sarti di qui ogni sabato, per posta, dall'estero, perché ciascuno sappia come vestirsi, tanto il sesso maschile che quello femminile. Insomma, dei disegni. Gli uomini, di solito, sono dipinti col caffettano all'ungherese; quanto poi alla sezione femminile, ci si vedono, mio caro, certe roselline che sembrano dirti: dammi subito tutto, ed è ancora poco!» 
 «Ma cosa mai non c'è, in questa Pietroburgo!» esclamò il giovane accalorandosi. «Tranne babbo e mamma, c'è proprio tutto!» 
  «Tranne questo, mio caro, c'è proprio tutto,» concluse sentenziosamente l'operaio più in età. 
 Raskòlnikov si alzò e passò nell'altra stanza, dove una volta c'erano il forziere, il letto e il comò; senza mobili, la stanza gli parve terribilmente piccola. La tappezzeria era quella di prima; nell'angolo si distingueva chiaramente il posto dove c'era stato lo stipo con le icone. Egli si guardò attorno, poi tornò a sedersi sul davanzale. L'operaio meno giovane gli lanciava di tanto in tanto delle occhiate di sbieco. 
«Voi che volete?» domandò a un tratto, rivolto a Raskòlnikov. 
Questi, invece di rispondere, si alzò, passò nell'anticamera e tirò il campanello. Era sempre lo stesso, sempre quel suono di latta. Tirò una seconda e una terza volta; ascoltava attentamente, e poco alla volta ricordava. La torturante, orrida, mostruosa sensazione di allora cominciava a tornargli alla memoria sempre più chiara e più viva; rabbrividiva ad ogni suono, provava un piacere sempre più intenso. 
  «Ma che vuoi? Chi sei?» gridò l'operaio, avviandosi verso di lui. Raskòlnikov tornò dentro. 
  «Voglio prendere in affitto l'appartamento,» disse, «lo sto visitando.» 
  «Gli appartamenti non si affittano di notte; e poi, dovete venire su col portinaio.» 
 «Il pavimento è stato lavato; gli daranno la tinta?» proseguì Raskòlnikov. «Sangue non ce n'è più?» 
  «Che sangue?» 
 «Qui è stata uccisa una vecchia, e anche sua sorella. Ce n'era tutta una pozza.»  «Ma insomma, tu chi sei?» gridò l'operaio cominciando a inquietarsi. 
  «Io ?» 
  «Sì.» 
  «Vorresti proprio saperlo?... Vieni con me al commissariato, là te lo dirò.»  Gli operai lo guardarono perplessi. 
 «Noi è tempo che ce ne andiamo, abbiamo fatto tardi. Vieni, Alëška. Dobbiamo chiudere,» disse l'operaio più anziano. 
 «Va bene, andiamo!» rispose Raskòlnikov in tono indifferente, e uscì per primo scendendo poi lentamente le scale. «Ehi, portiere!» gridò, arrivando sotto il portone. 
 Alcune persone stavano proprio all'ingresso della casa, fuori, guardando i passanti: i due portinai, una donna, un artigiano in abito da lavoro e qualcun altro. Raskòlnikov andò dritto verso di loro. 
  «Voi che volete?» fece uno dei portinai. 
  «Sei andato al commissariato?» 
  «Ci sono andato. Ma voi che volete?» 
  «Loro sono là?» 
  «Sì, sono là.» 
  «E c'è anche il vicecommissario?» 
  «C'è stato per un po'. Ma voi che volete?» 
  Raskòlnikov non rispose e rimase lì accanto soprappensiero. 
  «È venuto a visitare l'appartamento,» disse, avvicinandosi, l'operaio meno giovane. 
  «Quale appartamento?» 
 «Quello dove lavoriamo noi. ‹Perché,› dice, ‹avete lavato il sangue? Qui,› dice, ‹c'è stato un assassinio, e io sono venuto per prendere in affitto l'appartamento.› E s'è messo a suonare il campanello, e per poco non l'ha strappato. ‹E adesso,› dice, ‹andiamo al commissariato, là dirò ogni cosa.› Non voleva più mollarci.» 
  Il portinaio esaminava Raskòlnikov, con aria perplessa, accigliandosi. 
  «Ma chi siete voi?» gridò in tono più minaccioso di prima. 
  «Sono Rodiòn Romànyè Raskòlnikov, ex studente, abito in casa šil, nel vicolo, non lontano da qui, appartamento numero quattordici. Puoi chiederlo al portinaio... lui mi conosce.» Raskòlnikov disse tutto questo in tono tra indolente e pensieroso, senza voltarsi e guardando attentamente la strada fattasi buia. 
  «Ma perché siete andato su nell'appartamento?» 
  «Per vedere.» 
  «E che c'è da vedere, là?» 
  «Se lo portassimo al commissariato?» propose a un tratto l'artigiano, e non disse altro. 
 Raskòlnikov lo guardò di traverso, di sopra a una spalla, lo esaminò attentamente e disse nello stesso tono sommesso e indolente: 
«Andiamo!» 
«Ma sì, portiamocelo!» prese a insistere l'artigiano, acquistando coraggio. «Perché è andato a chiedere proprio di quella cosa? Che cos'ha nel cervello?» 
  «Ubriaco non sembra; sa Dio cosa vuole» mormorò l'operaio. 
  «Ma insomma, che vuoi?» gridò di nuovo il portinaio, cominciando ad arrabbiarsi sul serio. 
«Perché ci rompi l'anima?» 
  «Di venire al commissariato hai fifa, eh?» gli domandò Raskòlnikov in tono beffardo.  «Fifa io? Tu, piuttosto, perché ci rompi l'anima?»  «È un imbroglione!» gridò la donna. 
 «Perché stare a discutere con lui?» gridò l'altro portinaio, un contadino enorme, col soprabito sbottonato e le chiavi alla cintola. «Via di qui!... Dev'essere davvero un imbroglione... Fuori dai piedi!» 
 E afferrato Raskòlnikov per una spalla, lo spinse nella strada. Per poco Raskòlnikov non fece un capitombolo, tuttavia non cadde, si raddrizzò, guardò in silenzio tutti i presenti e andò via. 
  «Che tipo strambo,» disse l'operaio. 
  «La gente diventa sempre più stramba,» gli fece eco la donna. 
  «Eppure, avremmo dovuto portarlo al commissariato,» aggiunse l'artigiano. 
  «Inutile mettercisi di mezzo,» concluse il portinaio grosso. «È certamente un imbroglione! 
Lui stesso non cerca altro, ma se ti ci metti in mezzo, non ne esci più... La solita storia!» 
 «Allora, andarci o no?» pènsava Raskòlnikov. S'era fermato in mezzo alla strada, a un crocicchio, e si guardava attorno come se si aspettasse da qualcuno l'ultima parola. Ma nulla gli rispose da nessuna parte; tutto era sordo e inanimato come le pietre su cui camminava, tutto era senza vita - per lui, soltanto per lui... A un tratto, lontano, a una decina di passi da lì, alla fine della strada, nel buio che si andava addensando, distinse una folla, udì delle voci, delle grida... In mezzo alla folla era ferma una carrozza... Balenò una luce. «Che cosa sarà mai?» Raskòlnikov svoltò a destra e si avviò in direzione della folla. Sembrava che si aggrappasse a tutto... Ma, dopo aver riflettuto, sorrise freddamente, perché ormai aveva preso una decisione definitiva riguardo al commissariato, e sapeva con sicurezza che tra poco tutto sarebbe finito. 



 Nel mezzo della strada era ferma un'elegante carrozza padronale, tirata da una coppia di focosi cavalli grigi; non c'erano passeggeri, e il cocchiere, sceso di serpa, stava lì accanto; i cavalli erano tenuti fermi da qualcuno per il morso. Intorno si accalcava un mucchio di gente, e davanti s'eran piantati dei poliziotti. Uno di loro, che teneva in mano una piccola lanterna, s'era chinato a illuminare qualcosa sul selciato, proprio vicino alle ruote. Tutti parlavano, gridavano, emettevano esclamazioni di sorpresa o di dolore; il cocchiere aveva un'aria perplessa e di tanto in tanto ripeteva: 
  «Che guaio! Che guaio, Signore Iddio!» 
 Raskòlnikov si fece largo per quanto poté, e scorse finalmente l'oggetto di tutta quella curiosità e quel trambusto. A terra giaceva, esanime, un uomo, appena travolto dai cavalli; in apparenza era molto male in arnese, ma il suo abito, tutto insanguinato, era da persona «nobile». Dal viso, dalla testa sgorgava il sangue; la faccia era tutta livida, lacerata, deturpata. Si vedeva che era stato schiacciato proprio in malo modo. 
 «Ma, Signore Iddio!» si lamentava il cocchiere, «come avrei potuto scansarlo? Capirei se fossi andato di corsa, e non avessi gridato... Invece me ne andavo pian piano, al piccolo trotto. L'hanno visto tutti, mica soltanto io. Non si può chiedere a un ubriaco di portare una candela. Lo vedo che attraversa la strada, traballa, per poco non ruzzola a terra... io gli ho gridato una volta, poi un'altra, poi una terza, e ho trattenuto i cavalli; ma lui non ti va a cascare dritto dritto sotto le zampe? O l'ha fatto apposta, o s'era sborniato forte... I cavalli sono giovani, ombrosi: si sono mossi, lui ha gridato, e loro via di corsa... ed ecco combinato il guaio.» 
«Proprio così, è andata proprio così!» disse qualcuno tra la folla, un testimone. 
«Ha gridato, è vero, lo ha avvertito tre volte,» intervenne un'altra voce. 
  «Sì, tre volte, l'hanno sentito tutti!» gridò un terzo. 
 Del resto, il cocchiere non sembrava né molto afflitto né sgomento. La carrozza apparteneva - era evidente - a un ricco e ragguardevole personaggio che da qualche parte ne stava aspettando l'arrivo: circostanza che, naturalmente, influiva non poco sull'atteggiamento dei poliziotti. Bisognava trasportare l'infortunato alla sezione di polizia, e poi all'ospedale. Nessuno ne conosceva il nome. 
 Raskòlnikov, nel frattempo, s'era aperto un varco, spingendosi ancor più vicino. All'improvviso la lanterna, illuminando vivamente la faccia del disgraziato, gli permise di riconoscerlo. 
 «Io lo conosco, lo conosco!» si mise a gridare Raskòlnikov. «È un funzionario a riposo, il consigliere titolare Marmelàdov! Abita qui vicino, nell'edificio Kozel... Presto, un dottore! Ci penso io a pagare, ecco qua!» Cavò di tasca dei soldi e li mostrò a un poliziotto. Era in preda a un'agitazione straordinaria. 
 I poliziotti erano contenti di aver accertato l'identità dell'investito. Raskòlnikov disse anche il proprio nome, diede il proprio indirizzo; e con tutte le sue forze, come se si trattasse di suo padre, cercava di convincerli a trasportare al più presto nel suo alloggio Marmelàdov, che era sempre svenuto. 
 «Ecco, tre edifici più in là,» si affannava a dire, «c'è la casa di Kozel, un ricco tedesco... Probabilmente, Marmelàdov stava rincasando ubriaco. Io lo conosco... È un beone... Là c'è la sua famiglia, la mòglie, i bambini; c'è sua figlia... Per arrivare all'ospedale ce ne vuole, mentre nella stessa casa, certamente, ci sarà un dottore! Pagherò io, pagherò io... Perlomeno sarà curato dai suoi, sarà assistito immediatamente; altrimenti morirà prima di arrivare all'ospedale...» 
 Riuscì perfino a ficcare del denaro, di nascosto, in mano a un agente; del resto, quanto chiedeva era logico e legittimo: in quel modo la possibilità di soccorso era davvero più vicina. L'investito fu sollevato e portato via; si trovò chi diede una mano. L'edificio Kozel distava una trentina di passi. Raskòlnikov camminava dietro, sorreggendogli delicatamente la testa e indicando la strada. 
 «Di qua, di qua! Sulle scale bisogna tenerlo con la testa in alto; voltatelo... ecco, così! Vi pagherò tutti, vi dimostrerò la mia gratitudine,» mormorava. 
 Katerìna Ivànovna - come di consueto appena aveva un momento libero - stava camminando su e giù nella sua piccola stanza, dalla finestra alla stufa e viceversa, con le mani strettamente incrociate sul petto, parlottando tra sé e tossendo. Negli ultimi tempi, però, aveva cominciato a discorrere sempre più spesso e più a lungo con la figliola maggiore, la decenne Pòlenka, la quale, sebbene non capisse ancora molto, una cosa l'aveva capita benissimo: il bisogno che sua madre aveva di lei; e perciò non le staccava mai di dosso i suoi grandi occhi intelligenti, e s'industriava con tutte le sue forze per farle credere che capiva tutto. Quella volta Pòlenka stava spogliando il fratellino, che era stato poco bene tutto il giorno, per metterlo a letto. In attesa che gli cambiassero la camicia, per lavarla durante la notte, il ragazzino stava seduto in silenzio su una sedia, con aria seria, dritto e immobile, con i piedini protesi, stretti l'uno contro l'altro, talloni in avanti e punte in fuori. Ascoltava quel che si dicevano la mamma e la sorella, sporgendo i labbruzzi e sgranando gli occhi, senza muoversi, proprio come devono stare a sedere i bravi bambini mentre li spogliano per metterli a letto. Una bimba ancor più piccina di lui, vestita letteralmente di stracci, stava in piedi a ridosso del paravento, in attesa del suo turno. La porta sulla scala era aperta, per difendersi in qualche modo dalle ondate di fumo di tabacco che uscivano dalle altre stanze e che ad ogni istante facevano tossire a lungo e dolorosamente la povera tisica. Sembrava che Katerìna Ivànovna fosse ancor più dimagrita nell'ultima settimana, e i pomelli le avvampavano le gote d'un rosso ancor più vivo. 
 «Tu non mi crederai, non puoi nemmeno sognartelo, Pòlenka,» le diceva camminando per la stanza, «quanto fosse gaia e sontuosa la vita in casa del babbo, e come questo ubriacone mi abbia rovinato e stia per rovinare tutti voi! Il babbo aveva, nell'amministrazione, un grado corrispondente a quello di colonnello, e stava quasi per diventare governatore; gli rimaneva un piccolo passo per diventarlo, e così tutti venivano da lui e dicevano: ‹Noi, Ivàn Michàjlyè, vi consideriamo già nostro governatore.› Quando io... kché - 
 kché - kché... ho vita tre volte maledetta!» esclamò a un tratto scatarrando e artigliandosi il petto, «quando io... ah sì, quando all'ultimo ballo... dal maresciallo della nobiltà... quando mi vide la principessa Bezzemèlnaja - che poi mi diede la benedizione, Pòlja, il giorno che sposai il tuo babbo - subito domandò: ‹Non è quella simpatica fanciulla che ha danzato con lo scialle alla licenza?›... Questo strappo bisogna cucirlo; dovresti prendere l'ago e rammendarlo subito come ti ho insegnato, se no domani... eh! domani... kché - kché - kché... si strapperà di più!» e tossì convulsamente... «Ricordo che era appena arrivato da Pietroburgo il kamer-junker, il principe šcegolskòj... Ballò con me la mazurka, e già l'indomani volle venire a farmi una proposta di matrimonio; ma io lo ringraziai con le espressioni più scelte, spiegandogli che il mio cuore l'avevo dato da tempo ad un altro. Quest'altro era tuo padre, Pòlja; il mio babbo, allora, non ci vide più... È pronta l'acqua? Su, dammi la camicina; e le calze?... Lìda», fece rivolta alla figlia minore «questa notte vedi un po' di dormire così, senza camiciola; arrangiati in qualche modo... e mettici insieme le calze.,. per lavarle insieme... Ma perché non viene quel pezzente, quell'ubriacone? Chissà quant'è che non si cambia la camicia, l'ha ridotta come uno straccio, l'ha strappata tutta... almeno laverei tutto insieme, lavare due notti di fila è uno strapazzo troppo grande! O Signore! Kché - kché - kché - kché! Di nuovo! Ma che c'è?» gridò, vedendo che c'era folla nell'andito e che qualcuno cercava di entrare nella sua stanza reggendo uno strano fardello. «Che c'è? Che cosa portano? O Signore!» 
 «Dove lo mettiamo?» chiese un poliziotto guardandosi attorno; intanto, avevan già portato dentro Marmelàdov, insanguinato ed esanime. 
  «Sul divano! Adagiatelo senz'altro sul divano, ecco, con la testa da questa parte,» indicava Raskòlnikov. 
  «L'hanno investito per la strada! Mentre era ubriaco!» gridò una voce nell'andito. 
 Katerìna Ivànovna era in piedi, pallidissima, e respirava a fatica. I bambini furono presi da un terrore mortale. La piccola Lìdoèka si precipitò con un grido verso Pòlenka, l'abbracciò e si mise a tremare tutta. 
  Sistemato Marmelàdov, Raskòlnikov si slanciò verso Katerìna Ivànovna: 
 «Per l'amor di Dio, calmatevi; non abbiate paura!» disse precipitosamente, «stava attraversando la strada, è finito sotto una carrozza, ma non vi dovete preoccupare, si riprenderà; l'ho fatto portar qui io... ero stato da voi, ricordate... Si riprenderà, e io pagherò tutto!» 
  «È arrivato a quel che voleva!» gridò disperatamente Katerìna Ivànovna, e si buttò sul marito. 
 Come Raskòlnikov notò subito, non era una di quelle donne che svengono alla prima occasione. In un baleno, sotto la testa del disgraziato apparve un cuscino, cosa a cui nessuno aveva ancora pensato; poi Katerìna Ivànovna si mise a svestirlo, a esaminarlo, a darsi da fare, senza smarrirsi, immemore di se stessa, morsicandosi le labbra tremanti e soffocando le grida che volevano eromperle dal petto... 
 Intanto, Raskòlnikov aveva convinto qualcuno a correre in cerca del dottore, che risultò abitare una casa più in là. 
 «Ho mandato a chiamare il dottore,» ripeteva Raskòlnikov a Katerìna Ivànovna, «non preoccupatevi, pagherò io. Non c'è dell'acqua?... Datemi un tovagliolo, un asciugamano, qualcosa, in fretta; non si sa ancora dov'è ferito... È solo ferito, non l'hanno ucciso, siatene certa... Vediamo cosa dice il dottore!» 
 Katerìna Ivànovna corse verso la finestra; là, in un angolo, sopra una sedia sfondata, era posato un grosso catino di terraglia pieno d'acqua, preparata per lavare durante la notte la biancheria dei bambini e del marito. Quel bucato notturno veniva fatto dalla stessa Katerìna Ivànovna, con le sue mani; almeno due volte la settimana, e a volte anche di più, poiché si erano ridotti al punto da non avere quasi più nemmeno un cambio di biancheria - ogni membro della famiglia ne aveva soltanto uno - e Katerìna Ivànovna non poteva tollerare la mancanza di pulizia, tanto che preferiva angustiarsi la notte, lavorando al di là delle sue forze mentre tutti dormivano, per giungere in tempo a far asciugare prima del mattino, stendendola sulla corda, la biancheria bagnata, e farla trovare pulita ai suoi familiari, anziché vedersi del sudiciume per casa. Ella afferrò il catino e volle portarlo come aveva chiesto Raskòlnikov, ma poco mancò che non stramazzasse col carico. Raskòlnikov, intanto, era già riuscito a trovare un asciugamano, l'aveva inzuppato d'acqua e si era messo a lavare il volto di Marmelàdov inondato di sangue. Katerìna Ivànovna gli era vicina, respirando a fatica e tenendosi il petto con le mani. Lei per prima avrebbe avuto bisogno di soccorso. Raskòlnikov cominciò a pensare che forse aveva fatto male convincendo gli altri a portar lì il ferito. Anche l'agente, con ogni evidenza, non sapeva che pesci pigliare. 
 «Pòlja!» gridò Katerìna Ivànovna, «corri da Sònja, presto! Se non la trovi in casa, non importa, lascia detto che suo padre è stato investito dai cavalli, e che venga subito qui... appena torna. Sbrigati! Su, copriti con lo scialle!» 
 «Colli di colsa!» gridò a un tratto il ragazzino dalla sedia, dopodiché si immerse di nuovo nel suo silenzio, seduto rigido sulla sedia con gli occhietti sgranati, i talloni in avanti e le punte dei piedi in fuori. 
 La stanza, intanto, s'era riempita di persone, pigiate come acciughe. I poliziotti se n'erano andati, tranne uno che si sforzava di ricacciare indietro sulla scala la gente che ne era salita. In compenso, dalle stanze interne si erano riversati quasi tutti i pigionanti della signora Lippevechzel; dapprincipio si erano limitati ad accalcarsi sulla soglia, ma poi avevano fatto irruzione in massa dentro la stanza. Katerìna Ivànovna andò su tutte le furie. 
 «Almeno lo lasciassero morire in pace!» si mise a gridare. «Vi piace lo spettacolo? E con le sigarette in bocca! Kché - kché - kché! Ci manca solo che entriate col cappello in testa!... Anzi, uno ce l'ha davvero... fuori di qui! Abbiate almeno un po' di rispetto per un morto!» 
 La tosse la soffoco, ma la sua sfuriata raggiunse lo scopo. A quanto sembrava, avevano perfino un po' paura di Katerìna Ivànovna; uno dopo l'altro, gli inquilini ripiegarono verso la porta, dando quella strana impressione di soddisfazione intima che notiamo sempre, anche nelle persone a noi più vicine, quando una disgrazia improvvisa colpisce i nostri cari, e da cui nessuno e immune, senza eccezioni, nonostante il più sincero slancio di commiserazione e di simpatia. 
 Dietro la porta si udirono, del resto, voci che parlavano di ospedale, e dicevano che non era il caso di dare disturbo inutilmente. 
 «Di morire, non è il caso!» gridò Katerìna Ivànovna, e s'era già slanciata per spalancar l'uscio e scagliare i suoi fulmini contro quella gente; senonché, sulla soglia, s'imbatté nella signora Lippevechzel in persona, che solo in quel momento aveva sentito della disgrazia ed era accorsa a mettere ordine nella situazione. Era una tedesca litigiosa e quanto mai confusionaria. 
 «Ah, Dio mio!» disse congiungendo le mani, «vostro marito ubriaco, cavalli calpestato. Lui ospedale! Io qui padrona!» 
 «Amàlija Ljudvìgovna! Vi prego di pensare a quel che dite,» cominciò Katerìna Ivànovna in tono altero (con la padrona usava sempre quel tono, affinché l'altra «si ricordasse di stare al suo posto», e anche allora non seppe privarsi d'un simile piacere), «Amàlija Ljudvìgovna...» 
  «Io cià detto foi prima non osare chiamarmi Amal Ljudvìgovna; io Amàl-Ivàn!» 
 «Voi non siete Amàl-Ivàn, ma Amàlija Ljudvìgovna, e siccome io non faccio parte dei vostri miserabili adulatori, come il signor Lebezjàtnikov, che adesso ride dietro l'uscio» (dietro l'uscio, effettivamente, si udirono delle risa, e l'esclamazione: «Si sono accapigliate!»), «così vi chiamerò sempre Amàlija Ljudvìgovna, sebbene non riesca davvero a capire perché questo nome non vi piace. Vedete anche voi che cos'è successo a Semën Zachàroviè: egli sta morendo. Vi prego di chiudere subito quella porta e di non far entrare nessuno. Lasciatelo almeno morire in pace! Altrimenti, vi assicuro che domani stesso il vostro comportamento sarà noto al governatore generale in persona. Il principe mi ha conosciuta quand'ero ancora ragazza e ricorda molto bene Semën Zachàroviè, che è stato da lui beneficato più volte. Tutti sanno che Semën Zachàroviè aveva molti amici e protettori, dai quali egli stesso si è allontanato per il suo nobile orgoglio, consapevole della sua sciagurata debolezza; ma adesso», e indicò Raskòlnikov, «ci aiuta un magnanimo giovane, che dispone di mezzi e relazioni, e che Semën Zachàroviè conosce fin da bambino; e potete essere certa, Amàlija Ljudvìgovna...» 
 Tutto questo era stato detto con una parlantina sempre più rapida, ma la tosse troncò di colpo l'eloquenza di Katerìna Ivànovna. Nello stesso momento, il morente tornò in sé ed emise un gemito, ed ella accorse al suo capezzale. Il ferito aprì gli occhi, e ancora senza riconoscere nessuno e senza comprendere, cominciò a guardar fisso Raskòlnikov, che gli stava davanti. Il suo respiro era pesante, profondo e lento; gli angoli della bocca si rigarono di sangue, la fronte s'imperlò di sudore. Non riconoscendo Raskòlnikov, cominciò a girare gli occhi intorno con aria inquieta. Katerìna Ivànovna lo fissava. con uno sguardo triste ma severo, e dagli occhi le scorrevano le lacrime. 
 «Dio mio! Ha tutto il petto schiacciato! Quanto sangue, quanto sangue!» esclamò disperata. «Dobbiamo togliergli gli abiti! Girati un poco, Semën Zachàroviè, se puoi,» gli gridò. 
  Marmelàdov la riconobbe. 
  «Un prete!» disse con voce roca. 
  Katerìna Ivànovna si avvicinò alla finestra, vi appoggiò la fronte ed esclamò, in tono disperato: 
  «O vita stramaledetta!» 
  «Un prete!» disse di nuovo il morente, dopo un attimo di silenzio. 
 «Sono andati a chiama-a-arlo!» urlò Katerìna Ivànovna; obbedendo a quel grido, egli ammutolì. La cercava con uno sguardo timido e malinconico; lei gli tornò vicino e si mise al suo capezzale. Marmelàdov si calmò un po, ma non per molto. Ben presto i suoi occhi si posarono sulla piccola Lìdoèka, la sua preferita, che tremava in un angolo come in preda a un attacco di nervi e lo guardava coi suoi occhi attoniti e fissi di bimba. 
  «E .. e...» fece egli indicandola con aria ansiosa. Voleva dire qualcosa. 
  «Che c'è ancora?» gridò Katerìna Ivànovna. 
 «È scalza! È scalza!» mormorava lui, indicando con uno sguardo semifolle i piedini nudi della bambina. 
  «Taci-i-i!» gridò irritata Katerìna Ivànovna, «lo sai benissimo anche tu, perché è scalza!»  «Grazie a Dio, ecco il dottore!» esclamò Raskòlnikov, sollevato. 
 Entrò il dottore, un lindo vecchietto tedesco, guardandosi attorno con aria diffidente; si avvicinò al malato, gli sentì il polso, palpò attentamente la testa e, con l'aiuto di Katerìna Ivànovna, sbottonò la camicia tutta zuppa di sangue e denudò il petto del ferito. Era tutto pesto, schiacciato, straziato; dal lato destro, alcune costole erano rotte; dall'altro lato, proprio sotto al cuore, si vedeva una grossa macchia dall'aspetto sinistro, color giallo nero: un tremendo colpo di zoccolo. Il dottore si accigliò. Il poliziotto raccontò che l'investito, rimasto impigliato nella ruota, era stato trascinato per unà trentina di passi. 
  «È strano che abbia ripreso i sensi,» sussurrò il dottore a Raskòlnikov. 
  «Che ve ne pare?» domandò quello. 
  «Morirà subito.» 
  «Davvero non c'è nessuna speranza?» 
 «Nessunissima! È all'ultimo respiro... Per di più, ha una brutta ferita alla testa... Mmh... Si potrebbe fargli un salasso... ma sarà inutile. Fra cinque o dieci minuti morirà senz'altro.» 
  «Fategli il salasso, allora.» 
  «Come volete... Comunque, vi avverto che sarà completamente inutile.» 
 In quel momento si udì un altro rumore di passi, la folla nell'andito si divise, e sulla soglia apparve il prete con i sacramenti, un vecchietto dai capelli bianchi. Era andato a chiamarlo, direttamente dalla strada, uno dei poliziotti. Il dottore gli cedette subito il posto e scambiò con lui un'occhiata significativa. Raskòlnikov pregò il dottore di aspettare ancora un poco ad andarsene. 
Quello alzò le spalle e rimase. 
 Tutti si trassero in disparte. La confessione durò pochissimo. Era improbabile che il morente capisse davvero qualcosa; e non poteva emettere che suoni rotti e inintelligibili. Katerìna Ivànovna prese per mano Lìdoèka, sollevò il bambino dalla sedia, li portò nell'angolo accanto alla stufa, e lì si inginocchiò, facendo inginocchiare i bambini davanti a sé. La bimba si limitava a tremare; il ragazzo invece, con i piccoli ginocchi nudi sul pavimento, sollevava ritmicamente la manina, facendosi il segno della croce completo, e si prosternava battendo la terra con la fronte, ciò che sembrava procurargli un singolare piacere. Katerìna Ivànovna si morsicava le labbra e tratteneva le lacrime; anche lei pregava, accomodando di tanto in tanto la camiciola addosso al bambino; aveva pensato anche a gettare sulle spalle nude della bambina uno scialletto preso dal comò, sempre senza alzarsi in piedi e seguitando a pregare. Intanto, l'uscio che dava nelle altre stanze cominciò di nuovo ad aprirsi, sospinto dai curiosi. Nell'andito, poi, gli spettatori s'assiepavano sempre più fitti: erano inquilini di tutto il casamento, che però non osavano oltrepassare la soglia della stanza. Soltanto un mozzicone di candela rischiarava la scena. 
 A un tratto, attraverso la calca, si fece rapidamente strada Pòlenka, che era corsa a cercare la sorella. Entrò ansimando per la corsa, si tolse lo scialletto, trovò con lo sguardo la madre, le si avvicinò e disse: «Viene! L'ho incontrata per la strada!» La madre fece inginocchiare anche lei al suo fianco. Dalla calca uscì timidamente, in silenzio, una ragazza, e la sua improvvisa apparizione in quella stanza, in mezzo alla miseria, agli stracci, alla morte e alla disperazione, produsse uno strano effetto. Anche lei era vestita poveramente, con un abitino da pochi soldi, ma sgargiante com'è uso delle donne di strada, in base al gusto e alle regole di quel mondo particolare, il cui scopo traspariva con evidenza lampante e vergognosa. Sònja si fermò nell'andito, proprio sulla soglia, ma senza oltrepassarla, e guardava come smarrita, senza rendersi conto, a quanto sembrava, di niente, dimentica del suo vivace vestito di quarta mano, sconveniente in quel luogo con il suo lungo e ridicolo strascico e l'immensa crinolina che ostruiva tutta la porta, e dei suoi stivaletti chiari, e dell'ombrellino, inutile di sera, che aveva ugualmente preso con sé, e dell'assurdo cappellino tondo di paglia con una chiassosa penna color fuoco. Sotto a quel cappellino messo di sbieco, alla monella, si scorgeva un visino smunto, pallido e sbigottito, con la bocca spalancata e gli occhi immobilizzati dal terrore. Sònja era una bionda piccolina, sui diciotto anni, magra ma abbastanza carina, con due splendidi occhi celesti. Fissando il divano e il prete, anche lei ansimava, per aver camminato in fretta. A un certo punto, il brusio, alcune parole mormorate in mezzo alla folla, dovettero giungere sino a lei. Chinò lo sguardo, con un passo varcò la soglia e si trovò nella stanza, ma sempre senza allontanarsi troppo dall'uscio. 
 La confessione e la comunione ebbero termine. Katerìna Ivànovna si avvicinò di nuovo al giaciglio del marito. Il prete si ritirò, e prima di andarsene si rivolse a Katerìna Ivànovna con espressioni di augurio e di conforto. 
 «E di questi cosa ne faccio?» lo interruppe lei in tono stizzito e pieno di acredine, indicando i piccini. 
  «Dio è misericordioso; sperate nell'aiuto dell'Onnipotente,» cominciò a dire il prete. 
  «E-eh! Misericordioso, però ha altro da pensare!» 
  «Questo è un peccato, signora,» osservò il prete, crollando il capo. 
  «E questo non è un peccato?» gridò Katerìna Ivànovna, indicando il morente. 
 «Forse, quelli che ne sono stati la causa involontaria acconsentiranno a indennizzarvi, se non altro per la perdita dei redditi...» 
 «Voi non mi capite!» gridò Katerìna Ivànovna, con un gesto di esasperazione. «Perché indennizzarmi, poi? Se è stato lui stesso, ubriaco, a ficcarsi sotto i cavalli! E di quali redditi, scusate? Da lui non mi venivano redditi, ma soltanto sofferenze. Perché lui, l'ubriacone, si beveva tutto! Ci spogliava e portava tutto alla bettola, e nella bettola ha distrutto la loro vita e la mia! Sia lodato il Signore che l'ha fatto morire! Ci saranno meno spese!» 
 «Nell'ora della morte bisognerebbe perdonare... Questo è un peccato, signora... Sentimenti simili sono un grande peccato!» 
 Katerìna Ivànovna si affaccendava intorno al morente, gli dava da bere, gli tergeva il sudore e il sangue dal viso, gli assestava i cuscini, e intanto parlava col prete, tanto assorta nel lavoro da riuscire soltanto di rado a voltarsi verso di lui. Ma adesso, a un tratto, gli si scagliò contro come una folle. 
«Eh, padre! Parole nient'altro che parole! Perdonare!... Ecco, oggi, se non l'avessero investito, sarebbe tornato ubriaco, con addosso la sola camicia che possiede, tutta logora e a brandelli, e si sarebbe buttato giù a ronfare, mentre io sarei rimasta su sino all'alba con le mani nell'acqua, a lavare i suoi stracci, e quelli dei bambini, e poi li avrei messi ad asciugare fuori della finestra, e infine, appena venuta l'alba, subito mi sarei seduta qui a rattoppare; ecco cosa sarebbe stata la mia notte!... E allora, a che serve parlare di perdono? Anche così gli ho perdonato!» 
 Una tosse tremenda, profonda troncò a mezzo le sue parole; sputò nel fazzolettone e lo sciorinò sotto gli occhi del prete, stringendosi dolorosamente il petto con l'altra mano. Il fazzoletto era tutto macchiato di sangue... 
  Il prete chinò il capo e non disse nulla. 
 Marmelàdov era agli estremi; non distoglieva lo sguardo dal viso di Katerìna Ivànovnaj di nuovo china su di lui. Si sforzava continuamente di dirle qualcosa; aveva anche già incominciato, muovendo a fatica la lingua e farfugliando alcune parole, ma Katerìna Ivànovna, intuendo che egli voleva chiederle perdono, gli gridò subito in tono di comando: 
 «Ta-a-aci! Non c'è bisogno!... Lo so cosa vuoi dire!...» e il ferito ammutolì; ma in quell'attimo il suo sguardo vagante si volse verso la porta, e così egli vide Sònja... 
  Fino a quel momento non l'aveva notata: lei era rimasta in un angolo, nell'ombra. 
 «Chi è? Chi è?» chiese a un tratto con voce rauca e ansimante, agitandosi e indicando con occhi terrorizzati la porta dove stava sua figlia; e faceva, intanto, degli sforzi per sollevarsi. 
  «Sta' giù! Sta' giù-ù-ù!» gridò Katerìna Ivànovna. 
 Ma lui, con uno sforzo sovrumano, riuscì a puntellarsi su un braccio. Rimase così per qualche tempo, immoto e con aria smarrita, a fissare la figlia, come se non la riconoscesse. Ancora non l'aveva mai vista, del resto, agghindata a quel modo poi, di colpo, la riconobbe: avvilita, abbattuta, tutta in ghingheri e vergognosa, che attendeva umilmente il suo turno per dare l'ultimo addio al padre moribondo. Una sofferenza sconfinata gli si dipinse in volto. 
 «Sònja! Figlia mia! Perdonami!» gridò, e voleva tenderle la mano; ma gli mancò l'appoggio, e perdendo l'equilibrio piombò giù dal divano, faccia a terra. Si precipitarono a sollevarlo, lo riadagiarono, ma ormai era alla fine. Sònja gettò un debole grido, accorse, l'abbracciò e rimase immobile in quella stretta. Le morì fra le braccia. 
 «Sei arrivato dove volevi, eh?!» gridò Katerìna Ivànovna, vedendo il marito esanime. «E adesso?... Con che soldi lo farò seppellire? E a loro, cosa darò da mangiare, a loro, domani?»  Raskòlnikov si avvicinò a Katerìna Ivànovna. 
 «Katerìna Ivànovna,» prese a dirle, «la settimana scorsa il vostro defunto marito mi ha narrato tutta la sua vita, tutte le circostanze... Mi dovete credere se vi dico che parlava di voi con deferenza e affetto. Da quella sera, da quando ho saputo quanto egli fosse attaccato a voi tutti, e quanto rispetto e amore nutrisse specialmente per voi, Katerìna Ivànovna, nonostante la sua sciagurata debolezza, proprio da quella sera siamo diventati amici... Permettetemi quindi ora... di contribuire... di sdebitarmi col mio defunto amico. Ecco qui... venti rubli, se non sbaglio; anche questo, insomma, può farvi comodo... Io... in una parola, ripasserò, ripasserò certamente... forse ripasserò domani stesso... Arrivederci!» 
 E uscì rapidissimo dalla stanza, aprendosi frettolosamente un varco tra la folla in direzione della scala; ma nella folla, fuori, s'imbatté a un tratto in Nikodìm Fòmiè, il quale, informato della sciagura, aveva pensato bene di occuparsene personalmente. Dal giorno della scena nell'ufficio di polizia non si erano più visti, ma Nikodìm Fòmiè lo riconobbe all'istante. 
  «Ah, siete voi?» gli domandò. 
 «È morto,» rispose Raskòlnikov. «C'è stato il dottore, c'è stato il prete; è tutto a posto. Non infastidite quella sventuratissima donna, che oltre a tutto è tisica. Fatele coraggio, se potete, rianimatela in qualche modo... Voi siete buono, io lo so...» aggiunse con un lieve sorriso, fissandolo dritto negli occhi. 
 «Però, come vi siete bagnato di sangue!» osservò Nikodìm Fòmiè, scorgendo alla luce della lanterna alcune macchie fresche sul panciotto di Raskòlniko. 
«Sì, mi sono bagnato... sono tutto sporco di sangue!» rispose lui con un'aria singolare, poi sorrise, fece un cenno col capo e si avviò giù per la scala. 
 Scendeva adagio, senza fretta; era in preda alla febbre e, senza rendersene conto, alla nuova e incoercibile sensazione di una vita generosa e possente affluita di colpo in lui. Era una sensazione simile a quella di un condannato a morte, al quale inopinatamente si annunci la grazia. A metà scala, fu raggiunto dal prete che stava tornando a casa; Raskòlnikov lo lasciò passare in silenzio, dopo aver scambiato con lui un tacito inchino. Ma proprio mentre scendeva gli ultimi gradini, all'improvviso udì dietro di sé dei passi precipitosi. Qualcuno stava per raggiungerlo. Era Pòlenka; gli correva dietro e lo chiamava: «Sentite! Sentite!» 
 Si volse verso di lei, che fece di corsa l'ultima rampa di scale e gli si fermò davanti, un gradino più su. Una luce livida giungeva dal cortile: Raskòlnikov esaminò il visino sparuto ma grazioso della bimba, che gli sorrideva e lo guardava tutta allegra, con grazia infantile. Era arrivata lì di corsa con un'ambasciata, che evidentemente le dava un particolare piacere. 
  «Ditemi, come vi chiamate?... E un'altra cosa: dove abitate?» gli domandò precipitosamente, ansando. 
 Egli le pose le due mani sulle spalle e la guardò con una specie di felicità; lui stesso non sapeva perché guardarla gli procurava tanto piacere. 
  «Chi vi ha mandato?» 
  «Mi ha mandato la sorellina Sònja,» rispose la bambina, sorridendo ancor più allegramente. 
  «Lo sapevo che era stata la sorellina Sònja a mandarvi.» 
 «È stata anche la mamma a mandarmi. Quando la sorellina Sònja mi stava mandando, si è awicinata la mamma e mi ha detto: ‹Pòlenka, presto, corri!›» 
  «Volete bene alla sorellina Sònja?» 
 «Le voglio bene più che a tutti gli altri!» disse Pòlenka con particolare fermezza, e il suo sorriso prese a un tratto un'espressione più seria. 
  «E a me vorrete bene?» 
 Per tutta risposta, vide il visino della fanciulla avvicinarsi a lui e i suoi labbruzzi turgidi protendersi ingenuamente per baciarlo. Poi le braccia di lei, sottili come fiammiferi, lo avvinsero forte forte, la sua testa gli si piegò sul petto, e la bambina si mise a piangere sommessamente, premendo il volto contro di lui più forte, sempre più forte. 
 «Mi spiace per il babbo!» disse dopo un istante, sollevando il visino umido di lacrime che asciugò con le mani. «Da un po', è una disgrazia dietro l'altra,» aggiunse improvvisamente, con quell'aria di speciale gravità che si sforzano di assumere i bambini quando vogliono parlare come i grandi. 
  «E il babbo vi voleva bene?» 
 «Soprattutto voleva bene a Lìdoèka,» proseguì lei in tono molto serio, senza sorridere, parlando ormai proprio come i grandi. «Le voleva bene perché è piccola, e anche perché è malata, e le portava sempre dei dolci; a noi, invece, insegnava a leggere, a me insegnava anche la grammatica e il catechismo,» aggiunse con sussiego, «e la mammina non diceva nulla, ma noi sapevamo che ciò le faceva piacere, e anche il babbo lo sapeva, e la mamma voleva insegnarmi anche il francese, perché ormai è tempo che io riceva un'istruzione.» 
  «E sapete pregare?» 
 «Certo che sappiamo! E da molto; io, che sono già grande, prego per conto mio, mentre Kòlja e Lìdoèka pregano ad alta voce insieme con la mamma; prima l'Ave Maria, e poi un'altra preghiera: ‹Dio, perdona e benedici la sorellina Sònja›, e poi ancora: ‹Dio, perdona e benedici l'altro nostro babbo›, perché il nostro babbo più grande è già morto, e questo che abbiamo è un altro, e noi preghiamo anche per quello.» 
 «Pòlenka, io mi chiamo Rodiòn; pregate qualche volta anche per me: ‹per il servo Rodiòn›, e nient'altro.» 
 «Tutta la mia vita pregherò per voi,» disse con enfasi la bambina, e all'improvviso scoppiò di nuovo a ridere, si lanciò verso di lui e lo abbracciò ancora con forza. 
Raskòlnikov le disse il suo nome, le diede l'indirizzo e le promise di passare senz'altro da loro l'indomani. La ragazzina se ne andò tutta piena di entusiasmo per lui. Erano le dieci passate quando Raskòlnikov uscì nella strada. Cinque minuti dopo si trovava sul ponte, proprio nel posto da cui la donna s'era gettata nell'acqua. 
 «Basta!» si disse in tono perentorio e solenne, «basta con i miraggi, basta con i terrori fittizi, basta con i fantasmi!... C'è la vita! Forse che non vivevo, poco fa? Ancora non è morta, la mia vita, insieme a quella vecchia bacucca! Sia suo il regno dei cieli, ma poi basta, màtuška: riposa in pace! Ora viene il regno della ragione e della luce e... della volontà, e della forza... e staremo un po' a vedere! Adesso vedremo chi è il più forte!» aggiunse con spavalderia, come se si rivolgesse, sfidandola, a una forza occulta. «E dire che m'ero già rassegnato a vivere in un metro quadrato di spazio!... Per il momento sono ancora molto fiacco, ma... sembra che la malattia sia passata. Lo sapevo che sarebbe passata, quando sono uscito poco fa. Ora che ci penso: casa Poèìnkov si trova a due passi da qui. Comunque, devo assolutamente andare da Razumìchin, sia o non sia a due passi da qui... Vinca pure la scommessa!... Se la goda pure a spese mie; fa niente!... Forza, forza ci vuole; senza forza non otterrai niente; e la forza bisogna saperla conquistare con la forza stessa: ecco quello che loro non sanno,» aggiunse con orgoglio, sicuro di sé, trascinandosi a stento via dal ponte. Orgoglio e fede in se stesso crescevano dentro di lui ad ogni istante; nel giro di un minuto non era già più l'uomo di un minuto prima. Tuttavia, cos'era mai successo di particolare per trasformarlo a quel modo? Lui per primo non avrebbe saputo dirlo; come il naufrago che si avvinghia a una festuca, gli era sembrato a un tratto che anche lui avrebbe potuto vivere, che c'era ancora la vita, che la sua vita non era morta «insieme a quella vecchia bacucca». Forse era corso troppo presto alle conclusioni, ma per ora non ci pensava. 
 «Però le ho chiesto di pregare per il servo Rodiòn,» rammentò di colpo. «Be', ma solo... così, ad ogni buon conto!» aggiunse, e subito rise egli stesso della sua idea sbarazzina. Si sentiva in uno stato d'animo veramente felice. 
 Trovò facilmente Razumìchin; in casa Poèìnkov conoscevano già il nuovo inquilino, e il portinaio gliene indicò subito l'alloggio. Già a metà scala si poteva udire il rumore e l'animato brusio di numerose persone. La porta sul pianerottolo era spalancata; si sentiva gridare e discutere. La stanza di Razumìchin era abbastanza ampia, e vi si erano riunite una quindicina di persone. Raskòlnikov si fermò nell'anticamera. Qui, dietro un divisorio, due domestiche della padrona di casa s'affaccendavano attorno a due grandi samovar, a bottiglie, piatti, vassoi colmi di un pasticcio di carne e di antipasti, usciti dalla cucina della padrona. Raskòlnikov fece chiamare Razumìchin. Quando arrivò apparve straordinariamente euforico. Era evidente a prima vista che aveva bevuto moltissimo, e benché Razumìchin non fosse quasi mai veramente ubriaco, nondimeno questa volta si notava in lui qualche segno di ebbrezza. 
 «Senti,» si affrettò a dirgli Raskòlnikov, «sono venuto solo per dirti che hai vinto la scommessa e che effettivamente nessuno sa in anticipo quel che gli può capitare. Ma a entrare da te non ce la faccio: sono così debole che potrei cadere da un momento all'altro. E perciò ti dico salve e addio nello stesso tempo! Tu, però, domani passa da me...» 
  «Sai cosa faccio? Ti accompagno a casa! Lo dici anche tu che sei debole, e dunque...» 
  «E i tuoi ospiti? Chi è quel tipo riccioluto, che proprio adesso ha dato un'occhiata da questa parte?» 
 «Quello? Lo sa soltanto il diavolo! È un conoscente dello zio, credo, o forse è venuto per conto suo... Lascerò mio zio, con loro; è un uomo prezioso; peccato che tu non possa fare la sua conoscenza oggi. E poi, al diavolo tutti quanti! Non badano a me, adesso, e del resto anch'io ho bisogno di prendere una boccata d'aria pura; quindi, mio caro, sei capitato al momento giusto; se tardavi altri due minuti, avrei finito per picchiarli, te lo giuro! Le sparano talmente grosse... Non puoi immaginarti fino a che punto un uomo può spararle grosse! Ma chi l'ha detto, poi, che non si può immaginarlo? Noi stessi non diciamo bugie, forse? E comunque, facciano pure: più tardi, in compenso, non potranno più farlo... Siediti qui un minuto, che ti porto Zòsimov.» 
Zòsimov si buttò addosso a Raskòlnikov con una specie di avidità: era chiaro che tutto ciò che riguardava Raskòlnikov lo incuriosiva molto; subito la sua espressione si fece più vivace. 
 «A letto immediatamente,» decise dopo aver visitato, nei limiti del possibile, il suo paziente, «e per la notte dovreste mandar giù una certa cosina... La prenderete, vero? L'ho preparata poco fa... ecco, una polverina.» 
  «Anche due,» rispose Raskòlnikov. 
  E subito trangugiò il medicamento. 
 «Va molto bene che tu lo accompagni,» osservò Zòsimov rivolto a Razumìchin; «domani vedremo, ma per oggi direi proprio che non c'è male: c'è un notevole miglioramento. Mah! Tutti i giorni s'impara qualcosa di nuovo...» 
 «Sai cosa mi ha bisbigliato adesso Zòsimov, mentre stavamo uscendo?» sbottò Razumìchin, appena furono per la strada. «Io, mio caro, ti dirò tutto apertamente, perché per me sono degli stupidi. Zòsimov mi ha detto di chiacchierare con te, strada facendo, e di farti chiacchierare, e poi di riferirgli, perché lui ha una sua certa idea... l'idea che tu... sei matto, oppure stai per diventarlo. Figurati un po'! Prima di tutto, tu sei tre volte più intelligente di lui; in secondo luogo, se non sei matto te ne infischi delle assurdità che lui può pensare, e in terzo luogo, quel pezzo di lardo, di professione chirurgo, adesso si è fissato sulle malattie della psiche... Per quanto ti riguarda, a scombussolarlo definitivamente è stato il tuo colloquio di oggi con Zamëtov.» 
  «Zamëtov ti ha raccontato tutto?» 
 «Sì, tutto, e ha fatto benissimo. Adesso ho capito la faccenda per filo e per segno, e anche Zamëtov l'ha capita... Insomma, caro Ròdja, ecco di cosa si tratta... In questo momento sono un po' sbronzo... ma non fa niente... Il fatto è che quest'idea... capisci? era effettivamente passata loro per la testa... mi capisci? Cioè, nessuno di loro aveva il coraggio di formularla ad alta voce, perché è la più assurda delle assurdità; dopo che hanno arrestato quell'imbianchino, poi, l'idea è andata a rotoli e non se n'è parlato più. Ma come ci saranno arrivati, quegli scemi? Io, allora, gliele ho un po' cantate, a Zamëtov; ma rimanga fra noi: non accennare nemmeno lontanamente che lo sai; ho notato che è un tipo suscettibile; è stato da Lavìza, ma oggi, oggi s'è chiarito tutto. E quell'Iljà Petròviè, poi ! Quella volta, al commissariato, ha intravvisto un indizio nel tuo svenimento, ma poi se n'è vergognato lui stesso; io lo so...» 
  Raskòlnikov ascoltava avidamente. Razumìchin ubriaco, diceva più di quel che non volesse dire. 
 «Quella volta sono svenuto perché là dentro mancava l'aria e c'era puzza di vernice,» disse Raskòlnikov. 
 «C'è proprio bisogno che tu me lo spieghi? E non è stata solo la vernice: era già un mese che l'infiammazione covava dentro di te; ne è testimone Zòsimov! Ma tu sapessi com'è avvilito, adesso, quel ragazzaccio di Zamëtov... non puoi nemmeno immaginarlo! ‹Non valgo il dito mignolo di quell'uomo!› dice. Cioè il tuo mignolo. A volte, mio caro, ha dei buoni sentimenti. Ma la lezione, la lezione che si è sorbita oggi al Palazzo di cristallo, è stata il colmo della perfezione! Sai che dapprincipio l'hai spaventato, gli hai fatto venire i brividi?... Lo hai quasi costretto a convincersi di nuovo di tutta quella mostruosa assurdità, e poi, di colpo, gli hai mostrato la lingua: ‹To', tieni, visto con che cosa sei rimasto?› La perfezione! ... Adesso è schiacciato, annientato! Sei proprio un artista, com'è vero Dio, ed è proprio quel che si meritano! Peccato che non fossi lì anch'io! 
 Lui, adesso, non vedeva l'ora che tu venissi. E anche Porfìrij desidera fare la tua conoscenza...» 
  «Ah sì? Anche lui... Ma perché, poi, mi considerano matto?» 
 «Be', non proprio matto. Io, mio caro, se non sbaglio, ti sto spifferando troppe cose... Quel che lo ha colpito, devi sapere, è il fatto che tu non ti interessi ad altro che a quella faccenda; ma adesso è chiaro perché ti interessa, conoscendo tutte le circostanze... e come tutto questo, allora, ti abbia eccitato, e si sia mescolato alla malattia... Io, mio caro, sono un po' ubriaco, ma lui, che il diavolo lo porti, deve avere una certa sua idea... Te lo dico io: ha la fissazione delle malattie psichiche. Tu, però, infischiatene...» 
Per un mezzo minuto, tutt'e due rimasero in silenzio. 
 «Ascolta, Razumìchin,» prese a dire Raskòlnikov, «voglio dirtelo francamente: poco fa sono stato da un morto, è morto un certo funzionario... e lì ho lasciato tutti i miei soldi... Inoltre poco fa mi ha baciato una creatura, che anche se io avessi ucciso qualcuno, anche in quel caso... Insomma, là ho visto anche un'altra creatura... con una penna color fuoco... ma sto perdendo il filo; sono molto debole, sorreggimi... ormai siamo arrivati alla scala...» 
  «Che hai? Che hai?» chiedeva Razumìchin, allarmato. 
 «Mi gira un po' la testa, ma non è questo che conta, quel che conta è che sono così triste, così triste! Come una donna... proprio così! Guarda lì! Come mai? Guarda! Guarda!» 
  «Che c'è?» 
  «Ma non vedi? La vedi la luce nella mia stanza? Dalla fessura...» 
 Erano già all'ultima rampa di scale, accanto alla porta della padrona, ed effettivamente si vedeva, da lì, che nello stambugio di Raskòlnikov c'era la luce. 
  «Strano! Forse è Nastàsja,» osservò Razumìchin. 
  «A quest'ora non viene mai da me, e poi dorme già da un pezzo... Ma che me ne importa! 
Addio!» 
  «Che ti piglia, ora? Lascia che ti accompagni, entreremo insieme!» 
 «Lo so che entreremo insieme, ma io vorrei stringerti la mano qui e dirti addio qui. Su, dammi la mano, addio!» 
  «Ròdja, insomma, che ti piglia?» 
  «Niente; entriamo, sarai testimone...» 
 Presero a salire per la scala e Razumìchin fu sfiorato dal pensiero che forse Zòsimov aveva ragione. «Eh! L'ho turbato con le mie chiacchiere!» mormorò tra sé. A un tratto, avvicinandosi alla porta, udirono nella stanza delle voci. 
  «Ma insomma, che succede qui?» esclamò Razumìchin. 
 Raskòlnikov mise mano alla porta per primo e la spalancò; la spalancò, e rimase sulla soglia come inchiodato. 
 Sua madre e sua sorella sedevano sul suo divano, dove lo aspettavano già da un'ora e mezzo. Perché mai, perché erano proprio loro le persone che meno s'aspettava di vedere e alle quali meno aveva pensato, nonostante la notizia, confermata quel giorno stesso, che esse erano partite, che si trovavano in viaggio, e che stavano ormai per arrivare? Per tutto quel tempo non avevano fatto altro 
che interrogare a gara Nastàsja, che anche ora se ne stava lì in piedi davanti a loro e già aveva avuto modo di raccontare tutto per filo e per segno. S'erano spaventate a morte udendo che era 
«scappato», in preda alla malattia e, come risultava dal racconto, senz'altro anche al delirio! «Santo Dio, ma che cos'ha?» Tutt'e due avevano pianto, tutt'e due, in quell'ora e mezza di attesa, avevano patito il martirio. 
 Un grido di gioia, di felicità prorompente accolse la comparsa di Raskòlnikov. Entrambe si slanciarono verso di lui. Ma egli rimaneva immobile, come morto: un'insopportabile, improvvisa consapevolezza lo aveva colpito come un fulmine. Nemmeno le sue braccia si sollevavano per abbracciarle: non riuscivano a farlo. Sua madre e sua sorella lo stringevano, lo abbracciavano, lo baciavano, ridevano, piangevano... Egli fece un passo, barcollò e stramazzò sul pavimento, svenuto.  Trambusto, grida di terrore, gemiti... Razumìchin, che era rimasto sulla soglia, irruppe nella stanza, afferrò il malato fra le sue braccia robuste e in un baleno lo adagiò sul divano. 
 «Non è niente, non è niente!» gridava rivolto alla madre e alla sorella, «è un semplice svenimento, una sciocchezza! Proprio adesso il dottore ha detto che sta molto meglio, che è perfettamente sano!... Un po' d'acqua! Eccolo che torna in sé, ecco che si è già riavuto!» 
 E afferrata Dùneèka per la mano, così forte che per poco non le slogò il polso, la obbligò a chinarsi per vedere come fosse già tornato in sé... Sia la madre sia la sorella guardavano a Razumìchin come alla Provvidenza in persona, intenerite e riconoscenti; avevano già saputo da Nastàsja cos'aveva fatto per il loro Ròdja, durante tutto il periodo della malattia, quell'«intraprendente giovanotto»: così lo chiamò, quella sera stessa, durante un colloquio intimo con Dùnja, Pulchèrija Aleksàndrovna Raskòlnikova. 


PARTE TERZA