mercoledì 8 aprile 2020


IL LEOPARDO
Jo Nesbø
Parte 1
Capitoli 1 - 49
Traduzione di Eva Kampmann

Einaudi
Titolo originale Panserhjerte 
© 2009 Jo Nesbø. All rights reserved. 
Published by Arrangement with Salomonsson Literary Agency 
© 2011 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it 
ISBN 978-88-06-20812-7 
Indice
Parte prima 
1. L'annegamento 
2. Il buio chiarificatore 
3. Hong Kong 
4. Sex Pistols 
5. Il parco 
6. Ritorno a casa 
7. Forca 
8. Snow Patral 
9. Il tuffo 
Parte seconda 
10. Sollecito 
11. Stampata 
12. Scena del crimine 
13. Ufficio
14. Reclutamento
15. Luci stroboscopiche
16. Speed King 17. Fibre
18. La Paziente 
19. La sposa in bianco 
20. Øystein 
21. Bianco come la neve 
22. Motore di ricerca
23. Passeggero 
Parte terza 
24. Stavanger 
25. Territorio 
26. La siringa 
27. Buona, ladra e tirchia
28. Drammen 
29. Kluit 
30. Registro degli ospiti
31. Kigali 
32. Polizia 
33. Lipsia 
34. Medium 
35. L'immersione 
Parte quarta
36. Elicottero 
37. Profilo 
38. Lesioni permanenti
39. Ricerca relazionale
40. La proposta 
41. Mandato 
42. Beavis 
43. Visita a domicilio 
44. La radice 
45. Interrogatorio 
Parte quinta
46. Scarabeo rosso
47. Paura del buio 
48. Ipotesi 
49. «Bombay Garden»
50. La corruzione
51. Lettera 
52. Visita
53. Aggancio di tallone 
54. Tulipano 
55. Turchese 
Parte sesta
56. Esca 
57. Tuoni 
58. Neve
59. Il funerale 
60. Gnomi e nani 
61. Salto
62. Transito
63. La «stabbur»
Parte settima
64. Condizioni
65. Kadok 
66. Bonifica 
67. Il Cavaliere
68. Lucci
69. Corsivo 
70. Angolo morto 
71. Giubilo72. Boy
73. Arresto
74. Bristol cream 
Parte ottava
75. Traspirazione 
76. Ridefinizione 
77. Impronte
78. L'accordo 
79. Chiamate senza risposta 
80. Il ritmo 
81. I coni di luce 
82. Rosso 
Parte nona 
83. In capo al mondo
84. Ricongiungimento 
85. Munch 
86. Calibro 
87. Kalashnikov
88. La chiesa 
89. Le nozze
90. Marion Brando 
Parte decima 
91. Addio 
92. Caduta libera 
93. La risposta 
94. Tagliolini cinesi 
95. Gli alleati Epilogo
Nota del traduttore.
In Norvegia, come in tutti i paesi nordici, a partire dagli anni Settanta si è affermata la consuetudine di darsi del «tu», anche tra estranei. Solo in casi rarissimi, per mettere in risalto un atteggiamento di estrema freddezza nei riguardi dell'interlocutore e talvolta nelle conversazioni con le persone anziane, si ricorre al pronome allocutivo di rispetto «loro».
Pur con la consapevolezza che possa stridere alle orecchie del pubblico italiano, si è deciso di mantenere la forma confidenziale nella traduzione per non falsare questa realtà culturale, riservando il «lei» alle poche eccezioni che compaiono nell'originale. 
Parte prima 
1. L'annegamento 
Si era svegliata. Batté le palpebre nell'oscurità impenetrabile. Spalancò la bocca e respirò con il naso. Batté di nuovo le palpebre. Sentì scorrere una lacrima, la sentì sciogliere il sale lasciato da altre lacrime. La saliva non le scendeva più in gola, il cavo orale era secco e duro. La pressione interna tendeva le guance. Era come se il corpo estraneo che aveva in bocca fosse sul punto di farle esplodere la testa. Ma che cos'era, che cos'era? Il primo pensiero concepito al risveglio era stato che avrebbe voluto sprofondare di nuovo. Sprofondare in quell'avvolgente abisso buio e caldo. L'effetto dell'iniezione che l'uomo le aveva fatto non era ancora finito, ma lei sapeva che il dolore incombeva, lo capiva dai lenti, sordi colpi che scandivano le pulsazioni e dal flusso spasmodico del sangue nel cervello. Lui dov'era? Era proprio alle sue spalle? Trattenne il respiro, rimase in ascolto. Non udì nulla, però ne percepiva la presenza. Come un leopardo. Qualcuno le aveva detto che il leopardo è talmente silenzioso da riuscire ad avvicinarsi di soppiatto al buio, a regolare il proprio respiro su quello della preda. Trattiene il fiato ogni volta che tu trattieni il fiato. Le parve di sentire il calore del suo corpo. Che cosa stava aspettando? Riprese a respirare. E in quello stesso istante le sembrò di sentire l'alito di un'altra persona sul collo. Si girò di scatto, menò un colpo con la mano ma fendette solo l'aria. Si rannicchiò, cercando di farsi piccola, di nascondersi. Inutilmente.
Per quanto tempo era rimasta priva di sensi?
L'anestetico allentò la presa. Appena per una frazione di secondo. Ma bastò a darle un assaggio, una promessa. La promessa di quello che la aspettava.
Il corpo estraneo che lui le aveva messo davanti sul tavolo era grande come una bilia di metallo lucido, e sulla sua superficie erano incisi piccoli fori, figure e segni. Da uno dei buchi spuntava un filo rosso che terminava in un cappio: l'aveva fatta automaticamente pensare all'albero di Natale a casa dei suoi che avrebbero decorato la sera dell'antivigilia, tra sette giorni. Con palle lucide, gnomi, piccoli cesti, candele e bandierine norvegesi. Tra otto giorni avrebbero cantato Deilig er jorden, «Bella è la terra», e lei avrebbe visto gli occhi scintillanti dei nipoti mentre aprivano i suoi regali. Tutto quello che avrebbe dovuto fare in modo completamente diverso. Tutti i giorni che avrebbe dovuto vivere con molta più intensità, con molta più autenticità, riempiendoli di gioia, di quiete e d'amore. I luoghi che si era limitata ad attraversare, i luoghi ai quali era diretta. Gli uomini che aveva incontrato, l'uomo che doveva ancora incontrare. Il feto di cui si era sbarazzata a diciassette anni, i figli che non aveva ancora avuto. I giorni che aveva buttato via per quelli che credeva di avere davanti a sé.
Poi aveva smesso di pensare a qualunque cosa, se non al coltello che lui le aveva puntato contro. E alla voce mite che le aveva detto di infilarsi la sfera in bocca. Lo aveva fatto, ovviamente. Con il cuore che le martellava nel petto aveva aperto la bocca al massimo e ci aveva ficcato la sfera, facendo in modo che il filo pendesse fuori.
Il metallo aveva un sapore amaro e salato, come le lacrime. Poi si era sentita tirare la testa indietro, e l'acciaio del coltello bruciare contro la pelle quando lui glielo aveva premuto di piatto sulla gola. Il soffitto e la stanza erano illuminati da una torcia elettrica appoggiata contro la parete, in un angolo. Grigio, nudo cemento. Oltre alla lampada, nella stanza c'erano un tavolo da campeggio di plastica bianca, due sedie, due bottiglie di birra vuote, due persone. Lui e lei. Lei aveva sentito l'odore del guanto di pelle quando con un indice lui aveva tirato appena appena il cappio rosso che le pendeva dalla bocca. E subito dopo le era sembrato che la testa le scoppiasse.
La sfera si era espansa e premeva forte contro l'interno delle guance. Ma per quanto spalancasse le labbra la pressione era costante. Lui le aveva esaminato la bocca aperta con un'espressione concentrata e assorta, come un dentista che controllasse di aver sistemato bene un apparecchio ortodontico. Un abbozzo di sorriso aveva lasciato intendere che era soddisfatto.
Con la lingua lei aveva sentito che dalla sfera spuntavano tante piccole aste: erano quelle che premevano contro il palato, contro la carne morbida sotto la lingua, contro l'interno dei denti, contro l'ugola. Aveva provato a parlare. L'uomo aveva ascoltato pazientemente i suoni inarticolati che uscivano dalle sue labbra. E quando si era data per vinta lui aveva annuito e tirato fuori una siringa. La goccia sulla punta dell'ago aveva scintillato nella luce della lampada. Le aveva bisbigliato qualcosa all'orecchio: - Non toccare il filo.
Poi l'aveva punta sul collo, di lato, e lei aveva perso i sensi nel giro di pochi secondi.
Ascoltò il proprio respiro terrorizzato mentre batteva le palpebre nell'oscurità.
Doveva fare qualcosa.
Puntò i palmi contro il sedile bagnato del suo stesso sudore e si alzò in piedi. Nessuno la fermò.
Camminò a piccoli passi fino a un muro. Poi, costeggiandolo tentoni, arrivò a una superficie liscia e fredda. Una porta di metallo. Abbassò la maniglia, ma non si apri. Chiusa a chiave. Certo che era chiusa a chiave, cosa aveva creduto? Sentiva una risata, oppure il suono veniva da dentro la sua testa? Lui dov'era? Perché giocava con lei a quel modo?
Fare qualcosa. Pensare. Ma per poter pensare doveva liberarsi di quella sfera di metallo prima di impazzire dal dolore. Infilò il pollice e l'indice negli angoli della bocca. Tastò le piccole aste, a una tentò invano di spingere le dita sotto la punta. Fu colta da un colpo di tosse, e poi dal panico quando non riuscì a respirare. Si rese conto che le asticciole le avevano gonfiato la mucosa intorno alla trachea, e che rischiava di soffocare da un momento all'altro. Prese a calci la porta di ferro, cercò di urlare, ma la sfera di metallo soffocò il suono. Si diede di nuovo per vinta. Si appoggiò al muro. Rimase in ascolto. Era un rumore di passi furtivi, quello che sentiva? Forse l'uomo si muoveva in giro per la stanza, giocava a mosca cieca con lei? Oppure era soltanto il suo sangue che pulsava nelle orecchie? Cercò di annullare il dolore e chiuse la bocca. Fu costretta a riaprirla non appena tentò di far rientrare le asticciole. Adesso le sembrava che la sfera pulsasse, che fosse diventata un cuore di ferro, una parte di lei.
Fare qualcosa. Pensare.
Molle. Le asticciole erano azionate da molle.
Erano scattate in fuori quando lui aveva tirato il filo.
«Non toccare il filo», le aveva detto.
Perché? Che cosa sarebbe successo?
Si lasciò scivolare lungo il muro, fino a sedersi per terra. Un freddo umido saliva dal pavimento di cemento. Avrebbe voluto urlare di nuovo, ma non ce la faceva. Silenzio. Silenzio assoluto.
Tutte le parole che avrebbe dovuto dire quando si era trovata con persone che amava, invece di quelle che avevano riempito il silenzio quando si era trovata con persone per cui non provava nulla.
Non c'era via d'uscita. Soltanto lei e quel folle dolore, la testa che stava per scoppiare.
«Non toccare il filo».
Se lo avesse tirato, forse le asticciole sarebbero rientrate di scatto nella sfera e si sarebbe liberata del dolore.
I suoi pensieri giravano in tondo all'infinito. Da quanto tempo era lì? Due ore? Otto ore? Venti minuti?
Se bastava tirare il filo, perché non lo aveva già fatto? A causa dell'avvertimento di una persona evidentemente malata? Oppure questo faceva parte del gioco? Doveva lasciarsi indurre con l'inganno a non porre fine a quel dolore del tutto inutile? Oppure lo scopo del gioco era che lei sfidasse l'avvertimento e tirasse il filo in modo da... in modo da far succedere qualcosa di terribile? In tal caso, che cosa sarebbe successo? Che cos'era quella sfera?
Sì, era un gioco, un gioco crudele. Perché era costretta a farlo. Il dolore era insopportabile, le si stava gonfiando la gola, fra non molto sarebbe soffocata.
Cercò di urlare di nuovo, ma emise solo un singhiozzo, e batté ripetutamente le palpebre senza che arrivassero altre lacrime.
Le sue dita trovarono il filo che pendeva dal labbro inferiore. Con cautela lo tirò fino a tenderlo.
Rimpiangeva tutto ciò che non aveva fatto, chiaro. Ma se una vita di rinunce l'avesse portata in un luogo che non fosse esattamente lì e in quel momento, l'avrebbe preferita. Voleva solo vivere. Una vita qualunque. Nient'altro. Tirò il filo.
Gli aghi schizzarono fuori dalla punta delle asticciole. Erano lunghi sette centimetri. Quattro trapassarono entrambe le guance, tre si conficcarono nei seni paranasali, due nel setto nasale e due trafissero il mento. Un ago perforò la trachea e un altro il globo oculare destro. Due penetrarono nel palato molle fino al cervello. Ma non furono la causa diretta di morte. La bocca ostruita dalla sfera di metallo non riuscì a sputare il sangue che colava dalle ferite, e il sangue scese nella trachea e di lì nei polmoni, bloccando l'assorbimento dell'ossigeno e provocando di conseguenza l'arresto cardiaco e quella che il medico legale nel suo referto avrebbe chiamato ipossia cerebrale, ovvero mancanza di ossigeno al cervello. In altre parole: Borgny Stem-Myhre annegò.
2. Il buio chiarificatore 18 dicembre.
Le giornate sono brevi. Fuori c'è ancora luce, ma qui dentro, nella mia sala di montaggio, c'è un 'oscurità perenne. Illuminate dalla lampada da tavolo le persone nelle foto sulla parete hanno un'aria talmente felice e ignara che fa venire i nervi. Così piene di aspettative, quasi dessero per scontato di avere tutta la vita davanti, liscia e sconfinata come un mare in tempo di bonaccia. Ho ritagliato il giornale, tolto le storie strappalacrime della famiglia in preda allo choc, eliminato i dettagli cruenti sul rinvenimento del cadavere. Ho preso soltanto l'immancabile foto che qualche parente o amico ha consegnato a un cronista invadente, la foto di quando era in gran forma, di quando sorrideva come se fosse immortale.
La polizia sa poco e niente. Per il momento. Ma presto si vedrà aumentare il carico di lavoro.
Che cos'è, dove si trova ciò che fa di una persona un assassino? È una cosa innata, è contenuta in un gene, è un'inclinazione ereditaria che alcuni possiedono e altri no? Oppure scaturisce dalla necessità, si sviluppa nell'incontro con il mondo, è una strategia di sopravvivenza, una malattia salvavita, una follia razionale? Perché così come la malattia è il febbrile fuoco di fila del corpo, la follia è una ritirata necessaria in un luogo dove la persona possa trincerarsi di nuovo.
Personalmente sono convinto che la capacità di uccidere sia fondamentale in qualunque persona sana. La nostra esistenza è una lotta per il profitto, e chi non è in grado di uccidere il prossimo non ha alcuna ragion d'essere. In fondo uccidendo non si fa altro che affrettare l'inevitabile. La morte non fa eccezioni, e meno male, perché la vita è dolore e sofferenza. Da questo punto di vista ogni omicidio è un atto di pietà. Solo che non sembra così quando il sole ti scalda la pelle, quando l'acqua ti gorgoglia sulle labbra e riconosci la tua idiota voglia di vivere in ogni battito del cuore, e sei pronto a pagare perfino una briciola di tempo con tutto quello che hai conquistato nella tua esistenza: la dignità, la posizione, i principi. È proprio allora che devi andare a fondo, oltre la sconcertante, accecante luce. Fin dentro il freddo buio chiarificatore. E sentire il nocciolo duro. La verità. Perché la dovevo trovare. E l'ho trovata. Ciò che fa di una persona un assassino.
E che dire della mia di vita? Sono convinto anch'io che sia uno sconfinato mare di tempo?
Assolutamente no. Tra non molto giacerò anch'io nell'immondezzaio della morte, insieme agli altri personaggi di questo piccolo dramma. Ma in qualunque stadio di putrefazione dovesse trovarsi il mio corpo, anche se rimanesse solo lo scheletro, avrà un sorriso sulle labbra. Perché questo è il motivo per cui vivo adesso, la mia unica ragion d'essere, la mia possibilità di purificarmi, di liberarmi di ogni infamia.
Ma non è che l'inizio. Ora spegnerò la lampada e uscirò nella luce del giorno. La poca che resta.
3. Hong Kong 
Per un po' la pioggia non diede tregua. E neanche per un altro po'. Non ne voleva proprio sapere. Settimana dopo settimana il tempo si manteneva umido e mite. La terra era satura d'acqua, le strade d'Europa franavano, gli uccelli migratori non migravano e fu rilevata la presenza di insetti mai visti tanto a nord. Secondo il calendario era inverno, ma i parchi di Oslo non solo erano senza neve, non erano nemmeno marroni. Erano verdi e invitanti come il campo di erba artificiale di Sogn, dove sportivi avviliti avevano ripiegato sul jogging che praticavano in calzamaglie da sci Dæhlie nella vana attesa che i dintorni del lago di Sognsvann si coprissero di neve. A Capodanno la nebbia era talmente fitta che il fragore dei bengala dal centro di Oslo arrivava fino ad Asker, però la gente non riusciva a vedere nemmeno l'ombra di quelli che sparava nel giardino di casa. Ciononostante, quella notte i norvegesi spararono fuochi d'artificio per il valore di seicento corone a famiglia, secondo un'indagine di consumo da cui emerse inoltre come in soli tre anni fossero raddoppiati i norvegesi che avevano realizzato il sogno di un bianco Natale sulle bianche spiagge della Thailandia. Ma anche nel Sudest asiatico il tempo sembrava in preda a un trip da acido: minacciosi vortici che di solito apparivano sulla cartina meteorologica nella stagione dei tifoni, adesso si allineavano uno dietro l'altro sul mar della Cina. A Hong Kong, dove normalmente febbraio era uno dei mesi più asciutti dell'anno, quella mattina pioveva a catinelle e, a causa della visibilità ridotta, il volo 731 della Cathay Pacific Airways proveniente da Londra dovette fare un giro in più prima di iniziare l'atterraggio a Chek Lap Kok.
- Dovrebbe essere contenta che non atterriamo nel vecchio aeroporto, - disse il passeggero dai tratti cinesi a Kaja Solness, che aveva le nocche bianche a forza di stringere i braccioli. - Era in pieno centro città, saremmo andati a sbattere dritti contro un grattacielo.
Erano le prime parole che l'uomo pronunciava da quando erano decollati dodici ore prima. Kaja colse avidamente l'occasione di distogliere i pensieri dal fatto di trovarsi nell'aria libera e, per il momento, alquanto turbolenta.
- Grazie, sir, mi ha tranquillizzata. È inglese?
L'uomo trasalì quasi gli avesse mollato un ceffone, e Kaja pensò di averlo offeso a morte suggerendo che appartenesse alla stirpe degli ex colonizzatori: - Ehm... cinese, allora?
L'uomo scosse risolutamente la testa. - Cinese di Hong Kong. E lei, signorina?
Per un momento Kaja Solness fu tentata di rispondergli «norvegese di Hokksund», ma si limitò a dire «norvegese», parola che dopo qualche istante di riflessione il cinese di Hong Kong con un trionfante «A-ha!» corresse in «scandinava!» per poi chiederle cosa la portasse a Hong Kong.
- Devo trovare un uomo, - rispose lei fissando le nubi plumbee giù in basso nella speranza di veder apparire la terraferma.
- A-ha! - ripeté il cinese di Hong Kong. - Lei è molto bella, signorina. E non creda a tutto quello che le diranno sugli uomini cinesi che sposano soltanto donne cinesi.
Lei sorrise fiaccamente. - Cinesi di Hong Kong, vuole dire?
- Soprattutto i cinesi di Hong Kong, - annuì lui infervorato mostrandole la mano senza fede. - Produco microchip, la mia famiglia possiede fabbriche in Cina e nella Corea del sud. Cosa fa stasera?
- Dormo, spero, - rispose Kaja sbadigliando.
- E domani sera?
- Mi auguro di avere trovato quell'uomo e di essere in viaggio verso casa.
Lui aggrottò la fronte. - Ha tanta fretta, signorina?
Kaja rifiutò gentilmente un passaggio dal cinese di Hong Kong e prese un autobus a due piani per il centro. Un'ora dopo si ritrovò da sola in un corridoio dell'hotel Empire Kowloon e tirò una serie di respiri profondi. Aveva infilato la tessera magnetica nella serratura della stanza che le era stata assegnata e adesso doveva soltanto aprire la porta. Si fece violenza per abbassare la maniglia. Poi aprì la porta e guardò dentro.
Non c'era nessuno.
Ovviamente.
Entrò, fermò il trolley accanto al letto, raggiunse la finestra e guardò fuori. Prima la folla che brulicava in strada diciassette piani sotto di lei, poi i grattacieli che non somigliavano assolutamente agli eleganti, o se non altro pomposi, fratelli di Manhattan, Kuala Lumpur o Tokyo. Questi sembravano termitai, allo stesso tempo spaventosi e imponenti, quasi testimonianze grottesche della capacità di adattamento della specie umana quando sette milioni di persone devono accomodarsi in poco più di cento chilometri quadri. Kaja si sentì invadere dalla stanchezza, si sfilò le scarpe scalciandole via e si lasciò cadere sul letto. Sebbene fosse una camera doppia in un albergo a quattro stelle, il metro e venti del letto la occupava per intero. E pensò che adesso doveva scovare in mezzo a quei termitai una persona specifica, un uomo che tutto faceva pensare non fosse particolarmente interessato a farsi trovare.
Soppesò per qualche istante le alternative: chiudere gli occhi oppure darsi una mossa. Poi si fece forza e si alzò. Si spogliò e si infilò sotto la doccia. Dopo si fermò davanti allo specchio e senza autocompiacimento concluse che il cinese di Hong Kong aveva ragione: era bella. Non era una sua opinione, ma un dato di fatto nella misura in cui poteva esserlo la bellezza. Gli zigomi alti, le sopracciglia corvine e marcate ma dalla forma squisita sopra due occhi grandi quasi come quelli di un bambino, le cui iridi verdi scintillavano con l'intensità di una giovane donna matura. I capelli castano miele, le labbra carnose che sembravano baciarsi sulla bocca lievemente larga. Il lungo collo da cigno, il corpo altrettanto snello con i piccoli seni che erano appena due sporgenze, due onde su un mare di pelle sbiadita dall'inverno ma perfetta. La graziosa curva delle anche. Le gambe lunghe che avevano indotto due agenzie di modelle di Oslo a tentare di reclutarla - erano i tempi in cui frequentava le superiori a Hokksund - e ad accogliere il suo no con un cenno di disapprovazione. E la cosa che le aveva fatto più piacere era stato quando in una delle due l'avevano salutata dicendo: «Bene, cara, però ricordati: non sei una bellezza perfetta. I tuoi denti sono piccoli e aguzzi. Dovresti sorridere meno».
Da allora in poi aveva sorriso con più disinvoltura che mai.
Kaja si infilò un paio di pantaloni cachi, una giacca impermeabile leggera e scese senza peso e silenziosamente con l'ascensore fino alla reception.
- Chungking Mansion? - domandò il concierge senza potersi trattenere dall'inarcare un sopracciglio, quindi le diede le indicazioni: - Kimberley Road fino a Nathan Road e poi a sinistra.
Tutte le pensioni e gli alberghi dei paesi membri dell'Interpol hanno l'obbligo di registrare gli ospiti stranieri, ma quando Kaja aveva telefonato al segretario dell'ambasciata norvegese per sapere quale fosse l'ultimo posto in cui l'uomo che cercava era stato registrato, il diplomatico le aveva spiegato che Chungking Mansion non era né un albergo né una mansion nel senso di una residenza signorile. Era un insieme di negozi, take away, ristoranti e probabilmente oltre cento pensioni autorizzate e non, dotate di un numero variabile tra le due e le venti camere e distribuite in quattro enormi palazzi. Le stanze disponibili si prestavano a una vasta gamma di definizioni, da semplici, pulite e accoglienti a topaie e celle di detenzione a una sola stella. E, più importante in assoluto: a Chungking Mansion un uomo senza troppe esigenze poteva dormire, mangiare, abitare, lavorare e procreare senza mai mettere piede fuori del termitaio.
In Nathan Road, un'animata strada commerciale con articoli di marca, facciate tirate a lucido e vetrine altissime, Kaja trovò l'ingresso di Chungking ed entrò.
Fu assalita da fumi di fast food, colpi di martello di calzolai, radio che trasmettevano salmodie musulmane e sguardi stanchi dai negozi di vestiti usati. Rivolse un abbozzo di sorriso a un saccopelista con una guida Lonely Planet in mano e un paio di gambe bianche e congelate che spuntavano dai calzoncini mimetici troppo ottimistici.
Una guardia in divisa lanciò un'occhiata al foglietto che Kaja le mostrò. - Lift C. - disse, indicando in fondo a un corridoio.
All'ascensore C, la coda era talmente lunga che Kaja riuscì a entrarvi solo al terzo tragitto, pigiandosi insieme agli altri in una scricchiolante e tremante bara di ferro che le fece venire in mente l'uso degli zingari di seppellire i loro morti in posizione verticale.
La pensione apparteneva a un musulmano inturbantato che pieno di entusiasmo le mostrò subito un bugigattolo dove per miracolo erano riusciti a trovare posto per un televisore appeso alla parete di fronte al letto e un condizionatore gorgogliante sopra la testiera. L'entusiasmo del proprietario si spense quando Kaja interruppe la sua operazione di marketing mostrandogli la foto di un uomo corredata dal nome, così come sarebbe stato scritto su un passaporto, e domandandogli dove fosse.
Appena vide la sua reazione, si affrettò a dirgli che era la moglie. Il segretario d'ambasciata le aveva spiegato che a Chungking sarebbe stato «controproducente» sventolare un tesserino ufficiale. E quando per sicurezza aggiunse di aver avuto cinque figli dall'uomo della foto, l'atteggiamento del proprietario della pensione cambiò radicalmente. Un giovane infedele occidentale che aveva già messo al mondo tanti figli esigeva il suo rispetto. Emise un pesante sospiro, scosse la testa e in un inglese lamentoso che suonava come uno staccato disse: - Triste, triste, signora. Sono venuti e hanno preso il suo passaporto. - Chi?
- Chi? La Triade, signora. Sempre la Triade.
- La Triade? - esclamò Kaja.
Ovviamente aveva sentito nominare quell'organizzazione, ma probabilmente si era immaginata che la mafia cinese fosse soprattutto una roba da fumetti e da film di karaté.
- Signora, si accomodi -. L'uomo si affrettò a porgerle una sedia su cui Kaja si lasciò cadere. - Sono venuti a cercarlo, lui non c'era, e hanno preso il suo passaporto. - Il passaporto? Perché?
L'uomo esitò.
- Sia gentile, lo devo sapere.
- Suo marito giocava ai cavalli, temo.
- Ai cavalli?
- Happy Valley. L'ippodromo. È una cosa terribile.
- Ha debiti di gioco? Con la Triade?
L'uomo fece cenno di sì e di no con la testa a più riprese, rispettivamente per confermare e deplorare quel fatto.
- E gli hanno preso il passaporto?
- Dovrà riscattare il documento pagando il debito se vuole lasciare Hong Kong.
- Potrebbe semplicemente richiederne uno nuovo al consolato norvegese.
Il turbante oscillò di qua e di là. - Certo. Ed è possibile farsene fare uno nuovo qui a Chungking per ottanta dollari americani. Ma il problema non è il passaporto. Il problema, signora, è che Hong Kong è un'isola. Lei com'è arrivata qui?
- In aereo.
- E come intende ripartire?
- In aereo.
Un solo aeroporto. Biglietti aerei. Tutti i nomi nei computer. Molti posti di controllo. Tante persone all'aeroporto ricevono qualche spicciolo dalla Triade per riconoscere certe facce. Mi segue?
Lei annuì lentamente. - È difficile fuggire.
Il proprietario scosse la testa sorridendo. - No, signora. È impossibile. Però a Hong Kong ci si può nascondere. Sette milioni. È facile sparire.
Kaja, che sentiva il peso della carenza di sonno, chiuse gli occhi. Il proprietario dovette fraintendere, perché le mise una mano sulla spalla per consolarla. - Su, su, - disse; poi, dopo un'esitazione, si sporse in avanti e bisbigliò: Secondo me lui è ancora qui, signora.
- Sì, l'ho capito.
- No, voglio dire qui a Chungking. L'ho visto.
Kaja alzò la testa.
- Due volte, - precisò lui. - Da Li Yuan. Mangia lì. Riso a pochi soldi. Non dica a nessuno di averlo saputo da me. Suo marito è un brav'uomo. Ma porta guai -. Levò gli occhi al cielo facendoli quasi sparire nel turbante. - Molti guai.
Li Yuan consisteva in un bancone, quattro tavoli di plastica e un cinese che le rivolse un sorriso di conforto quando, dopo sei ore, due porzioni di riso fritto, tre caffè e due litri d'acqua, Kaja si svegliò di soprassalto, alzò la testa dal piano unto del tavolo e lo guardò.
- Tired? - le domandò ridendo e scoprendo una filza di incisivi incompleta.
Kaja sbadigliò, ordinò il quarto caffè e continuò ad aspettare. Entrarono due cinesi e si sedettero al bancone senza dire una parola né ordinare niente. Con suo sollievo, non la degnarono di uno sguardo. Nelle ultime ventiquattro ore era stata seduta così a lungo da avere il corpo anchilosato e dolorante qualunque posizione assumesse. Ruotò la testa a destra e sinistra per riattivare un po' la circolazione. Poi indietro. Il collo crocchiò. Fissò i neon biancoazzurri del soffitto, poi riabbassò il capo. E si trovò a guardare un viso spaventato e pallido. L'uomo si era fermato davanti a una delle saracinesche abbassate nel corridoio e scrutava dentro il piccolo locale di Li Yuan. Soffermò lo sguardo sui due cinesi al bancone. Poi si rincamminò a passo svelto.
Kaja si alzò a fatica, ma le si era addormentata una gamba e perse l'equilibrio. 
Afferrò la borsa e zoppicando seguì l'uomo più in fretta che poteva.
- Welcome back, - si sentì gridare dietro da Li Yuan.
Le era parso molto smagrito. Nelle foto appariva robusto e altissimo, e al talk show in Tv la poltrona in cui era seduto sembrava fatta a misura di pigmeo. Ma Kaja non aveva dubbi che fosse lui: il cranio ammaccato, i capelli a spazzola, il naso marcato, gli occhi con la ragnatela di capillari e le iridi celesti annacquate dall'alcol. Il mento forte e la bocca incredibilmente delicata, quasi bella.
Kaja uscì barcollando in Nathan Road. Nel riflesso dei neon scorse il dietro di un giubbotto in pelle che svettava sopra la folla. L'uomo non dava l'impressione di camminare veloce, ma Kaja dovette quasi correre per tenergli dietro. Lui lasciò l'animata strada commerciale e quando proseguirono per vie più strette, meno affollate, Kaja aumentò la distanza. Si annotò mentalmente un cartello con la scritta «Melden Row». Era tentata di raggiungerlo e di presentarsi, di togliersi il pensiero. Ma aveva deciso di rispettare il piano: scoprire dove abitava. Aveva smesso di piovere; un lembo di nuvole si scostò di colpo rivelando un cielo terso nero come il velluto e tempestato di stelle sfavillanti, grandi quanto capocchie di spillo.
Dopo aver camminato per venti minuti l'uomo si fermò bruscamente a un angolo, e Kaja temette di essere stata scoperta. Ma lui non si girò, limitandosi a tirar fuori qualcosa dalla tasca del giubbotto. Kaja lo fissò sbalordita: un biberon?
L'uomo svoltò l'angolo.
Lei lo seguì e si ritrovò in una vasta piazza piena di gente, quasi tutti giovani. In fondo alla piazza, sopra ampie porte a vetri, campeggiava un'insegna luminosa con scritte in inglese e in cinese. Kaja riconobbe i titoli di alcuni nuovi film che non sarebbe mai riuscita a vedere. Il suo sguardo localizzò il giubbotto di pelle e fece in tempo a vedere l'uomo posare il biberon sul basso piedistallo di una scultura in bronzo raffigurante una forca con un cappio vuoto. L'uomo proseguì passando davanti a due panchine occupate e si sedette sulla terza, dalla quale raccolse un giornale. Dopo circa venti secondi si rialzò, tornò alla scultura, prese il biberon, lo rinfilò nella tasca del giubbotto e tornò per la stessa via da cui era venuto.
Quando Kaja lo vide entrare in Chungking Mansion aveva ricominciato a piovere. Si preparò pian piano il discorso. Anche se non c'erano più code agli ascensori, lui prese le scale, girò a destra e sparì dietro una porta a vento. Kaja affrettò il passo, lo seguì e all'improvviso si ritrovò tra due rampe di scale, su un pianerottolo diroccato e deserto che puzzava forte di urina di gatto e cemento bagnato. Trattenne il respiro, ma udì soltanto uno sgocciolio. Nello stesso istante in cui decise di continuare a salire una porta sbatté di sotto. Si precipitò giù per le scale e trovò l'unica origine possibile del fracasso, una porta di metallo ammaccata. Poggiò la mano sulla maniglia, sentì di tremare, chiuse gli occhi e imprecò tra sé e sé. Poi aprì la porta ed entrò nell'oscurità. 
Anzi, uscì.
Qualcosa le passò sopra i piedi, ma Kaja non gridò né si mosse.
In un primo momento credette di essere entrata nel pozzo di un ascensore. Ma appena alzò gli occhi scorse muri neri di fuliggine coperti da un intrico di condutture dell'acqua, cavi, pezzi di metallo contorti e impalcature di ferro arrugginito. Non era un cortile, solo uno spazio di pochi metri quadri tra i palazzi. L'unica luce proveniva da un piccolo rettangolo trapunto di stelle su in alto. Nonostante il cielo limpido una fitta pioggia cadeva sull'asfalto e sul suo viso, e di colpo Kaja si rese conto che era la condensa dei condizionatori rugginosi che sporgevano dalle facciate. Indietreggiò appoggiando la schiena contro la porta di ferro.
Aspettò.
Infine, dal buio risuonò la domanda: - What do you want?
«Che cosa vuoi?» Era la prima volta che udiva la voce dell'uomo. Anzi, no, l'aveva sentita in quel talk show sui serial killer, ma dal vivo era completamente diversa. Una raucedine stanca lo faceva sembrare più vecchio dei trentotto, trentanove anni che le risultavano. Ma allo stesso tempo rivelava una calma serena, una sicurezza di sé che mal si conciliava con il viso spaventato che aveva visto davanti a Li Yuan. Profonda, calda.
- Sono norvegese, - disse Kaja.
Non ricevette risposta. Deglutì. Sapeva che le prime parole sarebbero state decisive.
- Mi chiamo Kaja Solness. Sono stata incaricata di trovarti. Da Gunnar Hagen.
Nessuna reazione da parte dell'uomo al nome del suo capo nell'Anticrimine. Era andato via?
- Lavoro per Hagen come agente investigativa, - disse rivolta al buio.
- Complimenti.
- Non c'è motivo di complimentarsi, se hai letto i giornali norvegesi negli ultimi mesi -. Kaja avrebbe voluto morsicarsi la lingua. Stava cercando di fare la spiritosa? Doveva essere colpa della carenza di sonno. O del nervosismo.
- I complimenti erano per aver portato a termine la missione, - disse la voce. - Mi hai trovato. Adesso puoi tornartene a casa.
- Aspetta! - gridò lei. - Non vuoi sapere che cosa voglio?
- Preferisco di no.
Ma le parole che si era scritta e aveva imparato a memoria le uscirono di bocca. - Due donne sono state assassinate. Gli esami del medico legale fanno pensare che si tratti dello stesso omicida. A parte questo non abbiamo indizi. Anche se le abbiamo dato pochissimi particolari, la stampa va già gridando ai quattro venti che si è scatenato un nuovo serial killer. Alcune testate hanno scritto che forse si ispira all'Uomo di neve. Ci siamo fatti aiutare da esperti dell'Interpol ma non sono approdati a nulla. La pressione dei media e delle autorità...
- La mia risposta è no, - disse la voce.
Una porta sbatté.
- Ehi! Ehi? Sei ancora lì?
Kaja trovò tentoni una porta. L'aprì prima che il terrore si impossessasse di lei e si ritrovò in un androne buio. Più su scorse una luce e salì gli scalini a tre a tre. La luce proveniva dal vetro di una porta a vento e Kaja l'aprì con una spinta. Entrò in un corridoio dimesso e spoglio dove avevano rinunciato a rattoppare l'intonaco sgretolato e l'umidità trasudava dalle pareti come alito cattivo. Appoggiati al muro bagnaticcio c'erano due uomini con la sigaretta appesa all'angolo della bocca, e le venne incontro un odore dolciastro. I due la squadrarono con sguardo ebete. Il più piccolo era di colore, di origini africane, dedusse Kaja. Il più alto era bianco e sulla fronte aveva una cicatrice a forma di triangolo, come un segnale di pericolo. Kaja aveva letto nella loro rivista mensile, «La polizia», che Hong Kong aveva quasi trentamila poliziotti nelle strade ed era considerata la metropoli più sicura del mondo. Nelle strade, però.
- Looking for hashish, lady?
No, Kaja non cercava hashish e scosse la testa, sforzandosi di fare un sorriso sicuro, di seguire i consigli che aveva dispensato alle ragazze all'epoca in cui andava a parlare nelle scuole: dare l'impressione di sapere dove era diretta, e non di una che si era staccata dal branco. Non una preda.
I due le sorrisero di rimando. L'unica altra porta del corridoio era stata murata. Gli uomini tirarono fuori le mani dalle tasche dei pantaloni e si tolsero la sigaretta di bocca.
- Looking for fun, then?
Non cercava neanche divertimento.
- Wrong door, that's all, - rispose. Ho solo sbagliato porta. Si girò per tornare indietro, ma una mano le agguantò il polso. Sentì il terrore come carta stagnola in bocca. Sapeva tutto, in teoria. Si era esercitata su un tappeto di gomma in una palestra illuminata, seguita da un istruttore e circondata da colleghi.
- Right door, lady. Right door. Fun is this way.
Non ha sbagliato porta, signora. La festa è qui. L'alito che le arrivava in viso puzzava di pesce, di cipolla e di marijuana. Nella palestra l'avversario era uno solo.
- No, thanks, - rispose lei sforzandosi di avere una voce ferma.
Il nero la affiancò, le afferrò l'altro polso e con un falsetto intermittente le disse: - We will show you -. Ti facciamo vedere.
- Only there's not much to see, is there?
Si girarono tutti e tre verso la porta e la voce che aveva detto che non c'era proprio un bel niente da vedere.
Kaja sapeva che sul passaporto di quell'uomo c'era scritto un metro e novantatre, ma là, in piedi su una soglia costruita secondo le misure di Hong Kong, sembrava alto come minimo due metri e dieci. E largo il doppio rispetto ad appena due ore prima. Teneva le braccia lungo i fianchi, un po' discoste dal corpo, senza muoversi, né guardare fisso, né ringhiare, limitandosi a osservare con calma l'uomo bianco.
- Is there, jau-ye? - ripeté.
Kaja sentì le dita dell'uomo bianco stringere e poi allentare la presa intorno al suo polso, e notò che quello di colore spostava il peso da un piede all'altro.
- Ng-goy, - disse l'uomo sulla porta.
Kaja sentì le mani dei due lasciare, esitando, la stretta.
- Vieni, - le disse l'uomo prendendola con delicatezza per un braccio.
Quando uscirono Kaja si sentì arroventare le guance. Un calore causato dalla tensione e dalla vergogna. Vergogna per il grande sollievo che provava, per la lentezza con cui il suo cervello aveva funzionato in quel frangente, per la prontezza con cui gli aveva lasciato sistemare due innocui spacciatori di hashish che volevano soltanto farle prendere un piccolo spavento.
L'uomo la guidò su per due piani di scale, oltre una porta a vento, poi la sistemò davanti a un ascensore, pigiò il pulsante con la freccia puntata verso il basso, le si piazzò accanto e fissò il numero undici luminoso sopra la porta. - Immigrati, - le disse. - Soffrono di solitudine e si annoiano, tutto qui.
- Lo so, - rispose lei ostinata.
- Pigia la «G» per ground floor, poi va' a destra e continua dritto fino a quando arrivi in Nathan Road.
- Per favore, ascoltami. Sei l'unico dell'Anticrimine a essere specializzato in serial killer. Sei stato tu a catturare l'Uomo di neve.
- Esatto, - rispose lui. Kaja scorse un guizzo in fondo al suo sguardo, e l'uomo si passò un dito lungo la mascella sotto l'orecchio destro. - E poi ho dato le dimissioni.
- Hai dato le dimissioni? Ti sei preso una licenza, vorrai dire.
- Ho dato le dimissioni. Ho chiuso.
Kaja notò solo allora che il lato destro della mandibola gli sporgeva in modo innaturale.
- Gunnar Hagen sostiene che quando sei mesi fa hai lasciato Oslo, ti ha concesso una licenza a tempo indeterminato.
L'uomo sorrise, e Kaja vide il suo viso trasformarsi completamente. - È che Hagen non riesce a ficcarsi in testa... - Si interruppe, e il sorriso svanì. Spostò lo sguardo sul display dell'ascensore che adesso segnava cinque.
- Comunque, non lavoro più per la polizia.
- Abbiamo bisogno di te... - Kaja fece un respiro profondo. Si rendeva conto di camminare sul filo del rasoio, ma doveva agire prima che lui sparisse di nuovo. - E tu hai bisogno di noi.
Lui la guardò di nuovo. - E cosa mai te lo fa credere?
- Hai un debito con la Triade. Compri droga in strada con un biberon. Abiti... fece una smorfia, - qui. E non hai il passaporto.
- Qui mi trovo bene, che me ne faccio del passaporto?
Si udì un plim, le porte dell'ascensore si aprirono con uno scricchiolio; dai corpi all'interno arrivò un'aria fetida e calda.
- Non lo prendo! - disse Kaja a voce più alta del voluto e notò i visi che la fissavano con impazienza mista a evidente curiosità.
- Sì che lo prendi, - ribatté lui, poi le mise una mano sui lombi e la spinse dentro con delicatezza e decisione insieme. Kaja fu immediatamente circondata da corpi umani che la bloccavano e le impedivano di muoversi, di voltarsi. Girò la testa giusto in tempo per vedere le porte dell'ascensore che si chiudevano.
- Harry! - gridò Kaja.
Ma lui era già sparito.
4. Sex Pistols 
L'anziano proprietario della pensione si puntò un indice pensoso contro la fronte sotto il bordo del turbante e la scrutò a lungo soppesandola. Poi prese il telefono e compose un numero. Disse alcune parole in arabo e riagganciò. - Aspettare, - disse poi. - Forse sì, forse no.
Kaja annuì sorridendo.
Rimasero a guardarsi seduti ai due lati dello stretto tavolo che fungeva da banco della reception.
Poi il telefono squillò. L'uomo alzò il ricevitore, ascoltò e riagganciò senza pronunciare una sola parola.
- Centocinquantamila dollari, - disse.
- Centocinquanta? - ripeté lei incredula.
- Dollari di Hong Kong, signora.
Kaja fece un calcolo a mente. Dovevano essere più o meno centotrentamila corone norvegesi. Circa il doppio del tetto massimo che le avevano concesso.
Era mezzanotte passata e Kaja non dormiva da quasi quaranta ore quando lo trovò. Aveva passato al setaccio l'isolato di grattacieli per tre ore. Aveva tracciato una cartina mentale mentre si muoveva tra le pensioni, i caffè, gli snack bar, i centri massaggi e le sale di preghiera fino a quando era arrivata alle pensioni più economiche, alle stanzette e ai dormitori dove alloggiava la manodopera importata dall'Africa e dal Pakistan, quelli che non avevano camere ma cubicoli senza porta, senza Tv, senza aria condizionata e senza privacy. Il portiere di notte che la fece entrare, un nero, guardò a lungo la foto e ancora più a lungo la banconota da cento dollari che lei gli teneva davanti prima di prenderla e indicarle uno dei cubicoli.
«Harry Hole, - pensò Kaja. - T'ho beccato».
Era disteso supino su un materasso e respirava in modo quasi impercettibile. Una ruga profonda gli solcava la fronte, e la mandibola protrusa sotto l'orecchio destro era ancora più evidente nel sonno. Kaja udì uomini che tossivano e russavano negli altri cubicoli. Dell'acqua gocciolava dal soffitto colpendo il pavimento nudo con profondi sospiri malinconici. L'apertura del cubicolo lasciava entrare una fredda striscia della luce azzurra dei neon alla reception. Kaja vide un armadio davanti alla finestra, una sedia e una bottiglia d'acqua di plastica in terra accanto al materasso, e nient'altro. C'era un odore agrodolce, come di gomma strinata. Un filo di fumo saliva da un mozzicone carbonizzato in un portacenere che stava sul pavimento accanto al biberon. Kaja si sedette sulla sedia e notò che lui stringeva qualcosa in mano: una pallina giallo-marrone untuosa. Kaja aveva visto abbastanza panetti di hashish nell'anno in cui aveva lavorato in pattuglia da sapere che non era fumo.
Erano quasi le due quando lui si svegliò.
Kaja udì soltanto un cambiamento impercettibile nel ritmo del suo respiro e poi all'improvviso il bianco dei suoi occhi brillò nell'oscurità.
- Rakel? - sussurrò lui. E si riaddormentò.
Mezz'ora dopo riaprì di colpo gli occhi, trasalì, si girò di scatto e fece per afferrare qualcosa sotto il materasso.
- Sono io, - bisbigliò Kaja. - Kaja Solness.
La sagoma davanti a lei si bloccò nel bel mezzo del movimento. Poi ricadde sul materasso.
- Che accidenti ci fai qui? - domandò lui ansimando con voce rauca.
- Sono venuta a prenderti, - rispose Kaja.
Lui rise sottovoce con gli occhi chiusi. - A prendermi? Ancora?
Kaja tirò fuori una busta, si piegò in avanti e gliela mostrò. Lui aprì un occhio.
- Un biglietto aereo, - gli disse. - Per Oslo.
L'occhio si richiuse. - Grazie, ma io rimango qui.
- Se sono riuscita a trovarti io, è solo questione di tempo e lo faranno anche loro.
Lui non rispose. Kaja aspettò ascoltando il suo respiro e l'acqua che stillava e sospirava. Poi lui spalancò gli occhi, si strofinò sotto l'orecchio destro e si tirò su puntellandosi sui gomiti.
- Hai una siga?
Kaja scosse la testa. Lui scostò il lenzuolo, si alzò e andò all'armadio. Era incredibilmente pallido considerato che viveva in un clima subtropicale da oltre sei mesi e talmente magro che gli spuntavano le costole perfino sulla schiena. La sua corporatura rivelava che era stato un atleta, ma ormai ciò che restava dei muscoli tracciava soltanto ombre nette sotto la pelle bianca. L'uomo aprì l'armadio - Kaja notò sorpresa che gli indumenti erano piegati con cura - indossò una T-shirt e i jeans del giorno prima, e con un po' di difficoltà fece uscire un pacchetto di sigarette sgualcito da una tasca.
Si infilò un paio di infradito e le passò davanti facendo scattare un accendino.
- Andiamo, - le disse sottovoce mentre la superava. - È ora di pranzo.
Erano le due e mezzo di notte. Serrande di ferro grigio erano abbassate davanti ai negozi e alle tavole calde di Chungking. Fatta eccezione per Li Yuan.

Allora, come ci sei finito a Hong Kong? - domandò Kaja guardando Harry che in modo inelegante ma efficace si ingozzava di scintillanti tagliolini cinesi dalla ciotola bianca.
- In aereo. Hai freddo?
Con gesto automatico Kaja sfilò le mani da sotto le cosce. - Perché proprio qui?
- La destinazione era Manila. Hong Kong doveva essere soltanto uno scalo.
- Le Filippine. Che cosa ci andavi a fare?
- A buttarmi in un vulcano.
- Quale?
- Be'. Quali conosci?
- Nessuno. Ho solo letto che ce ne sono molti. Mi pare che ce ne siano diversi a... 
ehm, sull'isola di Luzon?
- Niente male. Ci sono diciotto vulcani in tutto, di cui tre sull'isola di Luzon. 
Avevo intenzione di salire sul Mayon. Duemilacinquecento metri. Stratovulcano.
- Un vulcano dai fianchi ripidi formati da uno strato di lava sopra l'altro.
Harry smise di mangiare e la guardò. - Eruzioni in tempi moderni?
- Parecchie. Trenta?
- Quarantasette dal 1616 secondo la sua fedina penale. L'ultima nel 2002. È imputabile di oltre tremila omicidi.
- Che è successo?
- La pressione è aumentata.
- Mi riferivo a te.
- E io sto parlando di me -. Le parve di scorgere un abbozzo di sorriso. - Sono esploso e ho cominciato a bere in aereo. A Hong Kong mi hanno ordinato di scendere.
- Ci sono parecchi voli per Manila.
- Mi sono detto che a parte i vulcani Manila non ha niente che Hong Kong non abbia.
- Per esempio?
- Per esempio la distanza dalla Norvegia.
Kaja annuì. Aveva letto i rapporti del «caso Uomo di neve».
- E soprattutto, - aggiunse lui indicando con una bacchetta, - qui ci sono i tagliolini di Li Yuan. Assaggia. È un motivo sufficiente per chiedere la cittadinanza.
- I tagliolini e l'oppio?
Non era nel suo stile essere tanto diretta, ma sapeva di dover accantonare la propria innata timidezza, che quella era l'unica occasione per raggiungere lo scopo del viaggio.
Lui si strinse nelle spalle e si concentrò di nuovo sui tagliolini.
- Fumi oppio regolarmente?
- Irregolarmente.
- E perché lo fai?
Le rispose con la bocca piena. - Per non bere. Sono un alcolizzato. A proposito, Hong Kong ha un altro vantaggio rispetto a Manila. Pene più miti per la droga. E carceri più pulite.
Sapevo del problema con l'alcol, ma sei anche tossicodipendente?
- Dammi la definizione di tossicodipendente.
- Devi assumerla?
- No, ma voglio assumerla.
- Perché?
- Perché mi stordisce. Sembra un colloquio di lavoro per un posto che non voglio avere, Solness. Hai mai fumato oppio?
Kaja scosse la testa. Aveva provato la marijuana un paio di volte durante un viaggio col sacco a pelo in Sudamerica, ma non le era piaciuta gran che.
- I cinesi invece sì. Duecento anni fa i britannici importarono l'oppio dall'India per migliorare la bilancia commerciale. E ridussero mezza Cina a un branco di tossici così -. Schioccò le dita della mano libera. - E quando, giustamente, le autorità cinesi vietarono l'oppio, i britannici entrarono in guerra per difendere il loro diritto a imbottire di droga la Cina. Immagina se la Colombia cominciasse a bombardare New York perché gli americani hanno sequestrato una partita di cocaina alla frontiera.
- Dove vuoi arrivare?
- Come europeo mi sento in dovere di fumare un po' della porcheria che abbiamo introdotto in questo paese.
Kaja scoppiò a ridere senza volerlo. Aveva davvero bisogno di dormire.
- Ti ho seguito quando l'hai comprato, - gli disse. - Ho visto come fate. Quando lo hai posato, nel biberon c'erano i soldi. E dopo c'era l'oppio, non è vero?
- Mhm, - rispose Harry con la bocca piena di tagliolini. - Hai lavorato alla Narcotici?
Kaja scosse la testa. - Perché il biberon?
Harry alzò le mani sopra la testa. La ciotola che aveva davanti era vuota. - L'oppio puzza da morire. Se ti limiti a tenerlo in tasca o avvolto nella stagnola, i cani antidroga ti troverebbero anche in mezzo a una folla sterminata. E poi sui biberon non c'è il deposito, mica è un vuoto come gli altri, perciò non rischi che qualche ragazzino o una spugna lo sgraffigni per caso nel bel mezzo dell'affare. È capitato.
Kaja annuì lentamente. Lui aveva cominciato a rilassarsi, doveva semplicemente insistere. Chiunque non parli la propria lingua da sei mesi diventa loquace se incontra un compaesano. È una cosa naturale. Doveva semplicemente insistere.
- Ti piacciono i cavalli?
Lui masticò lo stuzzicadenti. - In realtà no. Sono lunatici da morire.
- Però ti piace scommettere sui cavalli?
- Sì, mi piace, ma il gioco d'azzardo compulsivo non è tra i miei vizi.
Sorrise, e ancora una volta Kaja fu colpita da quanto quell'espressione lo trasformasse, lo rendesse umano, accessibile, facendolo somigliare a un ragazzino. E ripensò allo scorcio di cielo sereno che aveva intravisto sopra Melden Row.
- Alla lunga il gioco d'azzardo è una pessima strategia di vincita. Ma se non hai più niente da perdere è l'unica possibile. Ho puntato tutto quello che avevo, più una somma che non avevo su una sola corsa.
- Hai puntato tutti i tuoi soldi su un unico cavallo?
Su due. Un'accoppiata non in ordine. Scegli i due cavalli che arriveranno primo e secondo, indipendentemente da quale vincerà la corsa.
- E hai chiesto un prestito alla Triade? - Per la prima volta Kaja lesse sorpresa nello sguardo di Harry. - Che cosa induce un cartello del crimine cinese serio a prestare denaro a uno straniero oppiomane che non ha nulla da perdere?
- Be', - rispose Harry tirando fuori una sigaretta. - In quanto straniero hai accesso alla tribuna Vip dell'ippodromo di Happy Valley per tre settimane dalla data del timbro sul tuo passaporto -. Accese la sigaretta e soffiò il fumo verso il ventilatore a soffitto che girava con una lentezza tale da essere una giostra per le mosche. - Siccome in quel posto bisogna vestirsi in un certo modo, mi feci fare un abito da un sarto. Mi bastarono due settimane per prenderci gusto. Là conobbi Herman Kluit, un sudafricano che ha fatto soldi a palate con i minerali in Africa negli anni Novanta. Mi insegnò a perdere cifre ragguardevoli con stile. Mi piaceva semplicemente l'idea. La sera prima della corsa della terza settimana fui invitato a cena a casa di Kluit, che intrattenne gli ospiti mostrando la sua collezione di strumenti di tortura africani provenienti da Goma, in Congo. E là l'autista di Kluit mi diede una dritta di scuderia. Il favorito di una corsa si era infortunato, ma si teneva segreto il fatto perché doveva comunque figurare tra i partecipanti. Era talmente favorito che avrebbe potuto portare a un minus pool, ossia sarebbe stato impossibile fare soldi puntando su quel cavallo. Invece, c'era da guadagnare parecchio scommettendo su tutti gli altri. Per esempio con le accoppiate non in ordine. Ma, ovviamente, per farlo occorreva un capitale ragguardevole se ci si voleva assicurare una vincita consistente. Kluit mi fece un prestito con l'unica garanzia del mio abito su misura -. Harry studiò la punta incandescente della sigaretta e parve sorridere al pensiero.
- E poi? - domandò Kaja.
- E poi il favorito vinse di sei lunghezze -. Harry si strinse nelle spalle. - Quando gli spiegai che non avevo il becco di un quattrino, Kluit fece un'espressione molto dispiaciuta e con tono gentile mi disse che come uomo d'affari era costretto ad attenersi ai principi della sua professione. Mi assicurò che quell'iniziativa non comportava nella maniera più assoluta l'impiego degli strumenti di tortura congolesi, ma soltanto la vendita del credito scontato alla Triade. Cosa che, ammise, non era molto meglio. Comunque, nel mio caso avrebbe aspettato trentasei ore prima di rivenderlo, dandomi il tempo di lasciare Hong Kong.
- Ma tu non lo facesti.
- Ogni tanto sono un po' tardo di comprendonio.
- E poi?
Harry allargò le braccia. - Questo. Chungking.
- E i progetti per il futuro?
Harry fece spallucce. E a Kaja venne in mente la copertina di un disco dei Sex Pistols che Even le aveva mostrato una volta. Raffigurava Sid Vicious. E la musica in sottofondo ripeteva: «No fu-ture, no fu-ture».
Lui spense la sigaretta. - Ti ho detto quello che avevi bisogno di sapere, Kaja Solness.
- Bisogno? - Lei aggrottò la fronte. - Non ti seguo.
Ah no? - Harry si alzò. - Secondo te, mi sono messo a blaterare di oppio e di debiti perché soffro di solitudine e ho incontrato una norvegese?
Kaja non rispose.
- L'ho fatto perché vorrei ficcarti in testa che non sono l'uomo che vi serve. Perché così puoi tornare a casa senza la sensazione di non aver portato a termine il tuo incarico. Perché così la smetterai di cacciarti nei guai negli androni, e io potrò dormire in pace senza il pensiero che mi porti i creditori dritti in camera.
Kaja lo fissò: aveva qualcosa di severo, di ascetico, smentito però dal guizzo divertito degli occhi, che dicevano di non prendere tutto troppo sul serio. O meglio: che a lui non gliene poteva fregare di meno.
- Aspetta -. Kaja aprì la borsa ed estrasse il libricino rosso, glielo porse e osservò l'effetto. Vide la sorpresa diffondersi sul suo viso mentre lo sfogliava. - Accidenti, sembra il mio passaporto originale.
- E lo è.
- Dubito che l'Anticrimine disponga di una cifra simile.
- La quotazione del tuo debito è calata, - menti Kaja. - Mi hanno fatto lo sconto.
- Lo spero per te, perché non ho intenzione di tornare a Oslo.
Kaja lo fissò a lungo. Trepidante. Perché a questo punto non aveva alternative. Era costretta a giocare l'ultima carta, quella che Gunnar Hagen le aveva detto di utilizzare solo se il vecchio barbogio si fosse rivelato impossibile.
- C'è un'ultima cosa, - disse facendosi forza.
Un sopracciglio di Harry si inarcò di scatto, quasi avesse colto qualcosa nel suo tono di voce.
- Si tratta di tuo padre, Harry -. Si rese conto di aver aggiunto il suo nome. Si disse che l'intenzione era sincera, non lo aveva fatto solo per l'effetto.
- Mio padre? - domandò lui come se fosse sorpreso di averne uno.
- Sì. Lo abbiamo cercato per chiedergli se sapeva dove fossi. E abbiamo scoperto che è malato.
Kaja abbassò gli occhi sul tavolo.
Lo sentì respirare. La sua voce era di nuovo rauca. - È grave?
- Sì. E mi dispiace che tu lo debba venire a sapere da me.
Non osava ancora alzare lo sguardo. Si vergognava.
Aspettò. Ascoltò il ciarlio cantonese della Tv dietro il bancone di Li Yuan. Deglutì e aspettò. Aveva urgente bisogno di dormire.
- Quando parte l'aereo?
- Alle otto, - rispose lei. - Fra tre ore passo a prenderti qui davanti.
- Ci vado da solo all'aeroporto, prima devo sistemare un paio di cose.
Lui tese una mano aperta. Kaja lo fissò con sguardo interrogativo. - Ho bisogno del passaporto. E poi dovresti mangiare qualcosa. Mettere su un po' di ciccia.
Kaja esitò. Quindi gli porse il passaporto e il biglietto.
- Mi fido di te, - gli disse.
Lui la guardò con un'espressione vacua.
Poi sparì.

L'orologio sopra l'uscita C4 di Chek Lap Kok segnava le otto meno un quarto, e Kaja si era data per vinta. Ovviamente, non si sarebbe presentato. Gli animali e gli esseri umani tendono per un istinto naturale a nascondersi quando sono feriti. E Harry Hole era decisamente ferito. I rapporti del caso Uomo di neve contenevano descrizioni dettagliate degli omicidi di tutte le donne. Ma Gunnar Hagen l'aveva ragguagliata sui fatti non riportati. Che Rakel, l'ex di Harry Hole, e suo figlio Oleg erano finiti nelle grinfie del folle omicida. Che lei e il figlio erano andati a vivere all'estero non appena il caso era stato chiuso. E che Harry aveva dato le dimissioni ed era partito. Solo che era più ferito di quanto lei avesse immaginato.
Kaja aveva già consegnato la carta d'imbarco e si stava dirigendo verso la passerella mentre impostava mentalmente il rapporto sull'incarico che non era riuscita a portare a termine, quando lo vide arrivare di corsa nei raggi di sole obliqui che si riversavano dentro il terminal. Aveva solo una borsa a tracolla, un sacchetto del dutyfree e tirava boccate frenetiche da una sigaretta. Si fermò al banco d'imbarco. Ma invece di consegnare la carta al personale posò la borsa lanciando uno sguardo desolato a Kaja.
Kaja tornò indietro.
- Problemi? - gli domandò.
- Mi dispiace, - rispose lui. - Non posso partire.
- Perché no?
Le indicò il sacchetto del duty-free. - Mi sono appena ricordato che in Norvegia la quota per persona è una stecca di sigarette. Io ne ho due. Perciò, a meno che... - disse senza battere ciglio.
Kaja levò gli occhi al cielo e si sforzò di non apparire sollevata. - Dammela.
- Grazie mille, - disse lui, aprì il sacchetto (che, notò Kaja, non conteneva bottiglie) e le porse una stecca di Camel da cui già mancava un pacchetto.
Kaja lo precedette fino all'aereo per non fargli vedere che stava sorridendo.
Si tenne sveglia il tempo sufficiente per vedere il decollo, Hong Kong che spariva giù in basso e lo sguardo di Harry puntato sui carrelli che si avvicinavano a scatti con un allegro tintinnio di bottiglie. E lui che chiudeva gli occhi rispondendo all'hostess con un «No, thank you» appena percettibile.
Si domandò se Gunnar Hagen non si sbagliasse, se l'uomo seduto accanto a lei fosse davvero quello di cui avevano bisogno.
Poi si addormentò, e sognò di trovarsi davanti a una porta chiusa e di sentire un solitario, freddo strido d'uccello proveniente dal bosco, e che era molto strano dal momento che splendeva un sole magnifico. E di aprire la porta...
Si svegliò con la testa appoggiata alla spalla di Harry e strie di bava secca agli angoli della bocca. La voce del comandante stava annunciando che erano in procinto di atterrare a Londra.
5. Il parco 
A Marit Olsen piaceva sciare in montagna. Ma detestava fare jogging. Detestava il fiatone che le veniva dopo appena cento metri, il tremore sismico della terra quando vi poggiava il piede, gli sguardi un po' sbalorditi delle persone a passeggio e le immagini che le apparivano quando si vedeva con i loro occhi: i doppi menti ballonzolanti, il corpo che ondeggiava di qua e di là nei rotoli della tuta e l'espressione impotente, boccheggiante come un pesce fuor d'acqua, che lei stessa aveva visto in faccia alle persone fortemente in sovrappeso che facevano moto. Questo era uno dei motivi per cui aveva scelto le dieci di sera e il parco di Frogner per le sue tre corse fisse settimanali: non c'era quasi nessuno. E quelli che c'erano, vedevano il meno possibile di lei mentre arrancava nell'assoluta oscurità tra i rari lampioni dei sentieri che attraversavano in lungo e in largo il più grande parco della città. E tra quei pochi che la vedevano, erano comunque ancora meno a riconoscere la deputata al parlamento del Partito laburista per la circoscrizione di Finnmark. Anzi, «riconoscere» era un'esagerazione. Erano in pochissimi ad aver mai visto Marit Olsen. Quando si esprimeva - di solito a nome dei suoi conterranei - non suscitava quell'attenzione che tornava a vantaggio di certi suoi colleghi più fotogenici. D'altro canto, non aveva né detto né fatto qualcosa di sbagliato nel corso dei suoi due mandati. Queste, almeno, erano le spiegazioni che si era data. La spiegazione del direttore del «Finnmark Dagblad», ossia che politicamente era un peso leggero, non era che un perfido gioco di parole sulla sua fisionomia. Comunque, il direttore non aveva escluso che un giorno avrebbe figurato in un governo laburista, dato che rispondeva ai requisiti più importanti: non era istruita, non era di sesso maschile e non era di Oslo.
Ebbene, quel giornalista poteva anche aver ragione sul fatto che il suo punto forte non erano i ragionamenti grandiosi, complessi e inconsistenti. Ma era una del popolo, una che sapeva come se la passavano la donna e l'uomo della strada, e poteva essere la loro voce lì, in mezzo a tutta la gente egocentrica e compiaciuta della capitale. Perché Marit Olsen non aveva peli sulla lingua. E questa era la sua grande qualità, la dote che malgrado tutto le aveva fatto fare tanta strada. Con la sua intelligenza verbale e il suo senso dell'umorismo, che gli abitanti del sud spesso definivano «nordnorvegese» e «caustico», si era assicurata la vittoria nei rari dibattiti a cui era riuscita a partecipare. Era solo questione di tempo e sarebbero stati costretti a notarla. Se almeno fosse riuscita a buttar giù qualche chilo. Secondo i sondaggi la gente aveva meno fiducia nelle persone in sovrappeso: il subconscio attribuiva questa caratteristica a una mancanza di autocontrollo.
Arrivò a una salita, strinse i denti e ridusse la lunghezza delle falcate; forse, a essere sincera, passò piuttosto a una specie di camminata. Power-walking. Sì, era proprio questo. La marcia verso il potere. Il peso diminuiva, l'eleggibilità aumentava.
Udì la ghiaia scricchiolare alle sue spalle e raddrizzò automaticamente la schiena, con le pulsazioni che aumentavano. Era lo stesso rumore che aveva udito mentre faceva jogging tre giorni prima. E due giorni prima ancora.
Entrambe le volte qualcuno aveva corso dietro di lei per quasi due minuti, poi il rumore era sparito. L'ultima volta Marit si era girata e aveva visto una tuta e un cappuccio neri, come se quello che si allenava alle sue spalle fosse un soldato delle truppe speciali. Solo che nessuno, e tanto meno un soldato delle truppe speciali, avrebbe provato soddisfazione a fare jogging con la lentezza di Marit Olsen.
Ovviamente, non poteva essere sicura che si trattasse della stessa persona, ma in qualche modo il rumore dei passi le diceva che era così. Mancava poco alla fine della salita e al Monolito, poi il terreno digradava dolcemente, verso casa, verso Skøyen, il marito e un rassicurante rottweiler, brutto e ipernutrito. I passi si avvicinarono. E di colpo non le fece più tanto piacere che fossero le dieci di sera nel parco buio e deserto. Marit Olsen aveva paura di diverse cose, ma soprattutto aveva paura degli stranieri. Certo, si rendeva conto che quella fobia si scontrava con il programma del suo partito, ma in fondo avere paura di ciò che è estraneo è una saggia strategia di sopravvivenza. In quel preciso istante rimpianse di non aver votato contro tutte le proposte di legge a favore degli immigrati di cui il suo partito si era fatto promotore, di non aver parlato anche in quelle occasioni un po' di più col suo famoso muso duro.
Il suo corpo avanzava decisamente con troppa lentezza, i muscoli delle cosce bruciavano, i polmoni invocavano aria a gran voce, e si rese conto che di lì a poco non sarebbe più riuscita a muoversi. Il suo cervello cercava di combattere la paura, cercava di dirle che non era esattamente la vittima ideale di uno stupro.
La paura l'aveva spinta fino alla cima, e adesso riusciva a vedere l'altro versante del colle, in direzione di Maserud Allé. Un'automobile uscì in retromarcia dal passo carraio di una villa. Ce la poteva fare, le mancavano poco più di cento metri. Marit Olsen si mise a correre sull'erba scivolosa, giù per il pendio, riuscendo a stento a tenersi in equilibrio. Dietro di sé non udiva più il rumore di passi, il suo respiro copriva tutto il resto. Ormai l'auto aveva raggiunto la strada, e il cambio grattò da far spavento quando il conducente tolse la retromarcia. Marit Olsen era arrivata in fondo al pendio, le mancavano pochi metri alla strada, alla salvezza dei coni di luce davanti alla macchina. Il peso considerevole del suo corpo aveva guadagnato un piccolo vantaggio durante la discesa, e adesso la spingeva inesorabilmente in avanti. A quel punto le gambe non ce la fecero più a tenere il passo e lei cadde in avanti, sulla carreggiata, nella luce. La sua pancia, fasciata di poliestere fradicio di sudore, colpì l'asfalto, e un po' scivolando un po' rotolando Marit Olsen cadde a faccia in giù. Infine giacque immobile, con l'amaro sapore di polvere della strada in bocca e i palmi scorticati dai sassolini.
Qualcuno apparve sopra di lei. L'afferrò per una spalla. Ansimando lei si girò su un fianco parandosi con le braccia. Non era un soldato delle truppe speciali, solo un anziano col cappello. La portiera dell'automobile era spalancata alle sue spalle.
- Tutto a posto, signorina?
- Secondo te? - chiese di rimando Marit Olsen sentendosi invadere dalla collera.
- Aspetta! Io ti ho già vista!
- Ma guarda un po', - disse lei, poi, scansando la mano che l'uomo aveva teso per aiutarla, si alzò in piedi ansimando.
- Non partecipi a quel programma di intrattenimento?
- Di questo, - rispose lei fissando l'oscurità vuota e silenziosa del parco massaggiandosi il fegato, - te ne devi strafregare, nonno.
6. Ritorno a casa 
Una Volvo Amazon, l'ultima a uscire dalla fabbrica nel 1970, si era fermata davanti alle strisce pedonali del terminal arrivi di Gardermoen, l'aeroporto di Oslo.
Una catena di bambini dell'asilo sfilò davanti alla macchina in scricchiolanti indumenti di tela cerata. Alcuni guardarono incuriositi quella vecchia, strana auto con la striscia da rally sul cofano, e le due persone sedute dietro i tergicristalli che spazzavano via la pioggia della tarda mattinata.
L'uomo sul sedile del passeggero, il commissario capo Gunnar Hagen, sapeva che vedere dei bambini che si tenevano per mano avrebbe dovuto indurlo a sorridere e a pensare alla solidarietà, al riguardo e a una società in cui ci si prende cura gli uni degli altri. Ma la prima associazione che gli venne in mente fu uno schieramento di uomini a caccia di qualcuno che si aspettavano di trovare assassinato. Era questo il genere di effetti che l'incarico di capo dell'Anticrimine produceva su una persona. O, come qualche spiritoso aveva scritto sulla porta dell'ufficio di Hole: «I see dead people». Vedo i morti.
- Che accidenti ci fa una classe dell'asilo in un aeroporto? - domandò l'uomo al volante. Si chiamava Bjørn Holm, e l'Amazon era l'oggetto più caro che possedeva. Bastavano l'odore dell'impianto di riscaldamento, rumoroso ma di un'efficienza incredibile, i sedili in skai impregnati di sudore e la cappelliera impolverata a tranquillizzarlo. Soprattutto se erano accompagnati dal motore al giusto regime di giri, ossia intorno agli ottanta chilometri orari in piano, e da Hank Williams nel mangiacassette. Bjørn Holm, della Scientifica di Bryn, era un hillbilly di Skreia con stivali da cowboy in pelle di serpente, una faccia da luna piena e occhi leggermente in fuori che gli conferivano un'espressione perennemente attonita. Quel viso aveva indotto più di un responsabile investigativo a dare giudizi sbagliati sul suo conto. In verità Bjørn Holm era il più grande talento della Scientifica dai tempi gloriosi di Weber. Indossava una giacca di morbida pelle scamosciata con le frange e un berretto rasta di maglia da cui spuntavano i basettoni più folti e più rossi che Hagen avesse mai visto al di qua del mare del Nord, e che gli coprivano quasi completamente le guance.
L'Amazon entrò nel parcheggio di sosta breve e si fermò con uno sbuffo, quindi i due uomini scesero. Hagen si tirò su il collo del cappotto, ma questo ovviamente non impedì alla pioggia di bombardargli la pelata lucida, la quale peraltro era cinta da una corona di capelli neri talmente folti e robusti da indurre qualcuno a sospettare che Gunnar Hagen avesse un'attaccatura dei capelli assolutamente normale ma un parrucchiere eccentrico.
- Di' un po', quella giacca non si rovina con la pioggia? - domandò Hagen mentre si dirigevano verso l'uscita.
- Sì, - rispose Holm.
Kaja Solness li aveva chiamati mentre erano in macchina informandoli che il volo della Sas da Londra era atterrato con dieci minuti di anticipo. E che si era persa Harry Hole.
Appena entrato in aeroporto Gunnar Hagen si guardò intorno, scorse Kaja seduta sulla valigia vicino al banco dei taxi, le rivolse un breve cenno e si affrettò verso il terminal arrivi. Non appena la porta si aprì per far uscire un gruppo di passeggeri sgusciò dentro insieme a Holm. Una guardia fece per bloccarli ma poi annuì, anzi, fece quasi l'inchino quando Holm gli mostrò il tesserino ringhiando laconicamente: - Polizia.
Hagen girò a destra, passò difilato davanti ai doganieri e ai loro cani, oltre quei banchi di metallo che gli facevano venire in mente i tavoli settori di Medicina legale, ed entrò nella stanzetta sul retro.
Là si fermò tanto bruscamente che Holm lo urtò da dietro. Una voce familiare sibilò a denti stretti: - Ciao, capo. Scusa se non posso scattare sull'attenti in questo momento.
Bjørn Holm sbirciò da sopra la spalla del superiore.
La scena che gli si presentò lo avrebbe tormentato a lungo.
Piegato sopra la spalliera di una sedia, c'era l'uomo che non solo era una leggenda vivente della centrale di Oslo, ma sul cui conto ogni poliziotto norvegese aveva sentito qualche aneddoto pazzesco, in bene o in male. Un uomo con cui lo stesso Holm aveva lavorato a stretto contatto. Ma non tanto stretto come il doganiere che stava dietro la leggenda con una mano inguantata di lattice parzialmente circondata dalle sue natiche bianchicce.
- È uno dei miei, - disse Hagen al doganiere sventagliando il tesserino. - Lascialo andare.
Il doganiere fissò Hagen quasi fosse restio a mollare la presa, ma quando un agente più anziano con le spalline dorate entrò e annuì brevemente a occhi chiusi, fece un'ultima torsione con la mano e la ritrasse. La vittima ansimò sommessamente.
- Rimettiti i pantaloni, Harry, - disse Hagen voltandosi dall'altra parte.
Harry si tirò su i pantaloni e si girò verso il doganiere che si stava sfilando il guanto di lattice. - È piaciuto anche a te?
Appena i suoi tre colleghi uscirono dalla porta Kaja Solness si alzò dalla valigia. Bjørn Holm andò a prendere la macchina mentre Gunnar Hagen si diresse al chiosco per comprare qualcosa da bere.
- Ti controllano spesso?
- Sempre.
- Non ricordo di essere mai stata fermata alla dogana.
- Lo so.
- E come fai a saperlo?
- Perché dei mille piccoli particolari che cercano, tu non ne hai nemmeno uno. 
Mentre io ne ho almeno la metà.
- Secondo te i doganieri sono tanto prevenuti?
- Be'. Hai mai contrabbandato qualcosa?
- No -. Kaja rise. - Okay, okay. Ma se sono tanto bravi avrebbero dovuto anche capire che eri un poliziotto. E lasciarti passare.
- Probabilmente hanno capito anche questo.
- Ma dài. Solo nei film sanno riconoscere un poliziotto.
- Certo. Un poliziotto disonesto.
- Ah sì? - disse Kaja.
Harry cercò tentoni le sigarette. - Guarda verso il banco dei taxi. Vedrai un tipo con gli occhi piccoli leggermente a mandorla. Lo vedi?
Kaja annuì.
- Da quando siamo usciti si è tirato su la cintura due volte. Come se ci fosse attaccato un oggetto pesante. Un paio di manette o uno sfollagente. È un movimento che diventa automatico se hai lavorato per qualche anno in pattuglia o in guardina.
- Ho fatto servizio di pattuglia e non ho mai...
- Adesso quello là lavora alla Narcotici e ha il compito di individuare le persone che hanno l'aria un po' troppo sollevata dopo aver passato la dogana. O che vanno dritte alle toilette perché non ce la fanno più a tenere la merce nel retto. O le valigie che passano di mano tra un passeggero ingenuo e gentile e il contrabbandiere che ha chiesto all'idiota di portargli un piccolo bagaglio pieno zeppo di droga attraverso il varco doganale.
Kaja inclinò la testa di lato e guardò Harry con un sorrisetto a fior di labbra. - Oppure può darsi che sia un tipo normalissimo che si perde i pantaloni e sta aspettando la mamma. E che tu ti sbagli.
- Sì, certo, - disse Harry lanciando un'occhiata prima al proprio orologio e poi a quello a muro. - Succede in continuazione. È veramente pieno giorno?
La Volvo Amazon imboccò l'autostrada mentre si accendevano i lampioni.
Sui sedili anteriori Holm e Kaja Solness chiacchieravano infervorati e Townes 
Van Zandt singhiozzava con moderazione nel mangiacassette. Sul sedile posteriore Gunnar Hagen passò la mano sulla pelle di cinghiale liscia della borsa che teneva in grembo.
- Vorrei poterti dire che ti vedo in gran forma, - disse sottovoce.
- Colpa del jetlag, capo, - disse Harry, più sdraiato che seduto.
- Che hai fatto alla mandibola?
- E una storia lunga e noiosa.
- A ogni modo, bentornato a casa. Mi dispiace per le circostanze.
- Credevo di aver dato le dimissioni.
- Non è la prima volta.
- E quante te ne servono?
Gunnar Hagen guardò il suo ex vice abbassando ancora di più le sopracciglia e la voce. - Ripeto, mi dispiace per le circostanze. E capisco benissimo che l'ultimo caso ti abbia segnato. E che tu e i tuoi affetti siate stati coinvolti in un modo che... sì, che può indurre una persona a desiderare una vita diversa. Ma questo è il tuo lavoro, Harry, è l'unica cosa che sai fare.
Harry tirò su col naso come se si fosse già buscato il raffreddore da rientro.
- Due omicidi, Harry. Non sappiamo nemmeno come siano stati commessi, solo che sono identici. Ma l'ultima esperienza l'abbiamo pagata cara, e sappiamo con cosa abbiamo a che fare -. Gunnar Hagen si interruppe.
- Non è pericoloso pronunciare quella parola, capo.
- Non ne sono tanto sicuro.
Harry contemplava la campagna ondulata, marrone e senza neve. - Hanno gridato al lupo diverse volte. Ma è venuto fuori che i serial killer sono bestie rare.
- Lo so, - disse Hagen annuendo. - Da quando lavoro in polizia l'Uomo di neve è l'unico che abbiamo visto nel nostro paese. Questa volta, però, siamo praticamente sicuri. Le vittime non si conoscevano, e nel loro sangue è stato trovato lo stesso anestetico.
- È già qualcosa. Buona fortuna.
- Harry...
- Prendi qualcuno adatto a questo lavoro, capo.
- Tu sei adatto.
- Io sono a pezzi.
Hagen fece un respiro profondo. - Vorrà dire che ti aggiusteremo.
- Sono inaggiustabile, - disse Harry.
- Sei l'unico in questo paese a essere competente ed esperto di omicidi seriali.
- Fa' venire qualche americano.
- Lo sai che non funziona così.
- Mi dispiace.
- Veramente? Finora sono morte due persone, Harry. Due giovani donne...
Harry lo liquidò con un gesto quando Hagen aprì la borsa e tirò fuori una cartellina marrone.
- Dico sul serio, capo. Grazie per aver riscattato il mio passaporto e tutto il resto, ma ho chiuso con le foto piene di sangue e i rapporti noiosi.
Hagen lanciò uno sguardo offeso a Harry, ma gli mise ugualmente la cartellina sulle ginocchia.
- Ti chiedo soltanto di darci un'occhiata. E di tenere la bocca chiusa sul fatto che ci stiamo occupando di questo caso.
- Ah? E perché?
- È una storia complicata. Tu non farne parola con nessuno e basta, okay?
La conversazione nella parte anteriore dell'abitacolo si era esaurita, e Harry fissò lo sguardo sulla nuca di Kaja. L'Amazon di Bjørn Holm era stata fabbricata molto tempo prima che qualcuno inventasse l'espressione «colpo di frusta» e non aveva i poggiatesta, perciò Harry riusciva a vederle l'esile collo sotto i capelli raccolti e la peluria bianca sulla pelle, e pensò a come tutto fosse vulnerabile, alla grande rapidità con cui le cose cambiavano, a quanto poteva essere distrutto nel giro di pochi secondi. La vita era proprio questo: un processo di distruzione, la disintegrazione di qualcosa che all'inizio è perfetto. L'unica incognita un po' eccitante era se la distruzione sarebbe avvenuta all'improvviso oppure lentamente. Era un pensiero triste. Ma lui ci si aggrappò lo stesso. Fino a quando imboccarono il tunnel Ibsen, un pezzo grigio e anonimo di quell'ingranaggio che era il traffico della capitale e che avrebbe potuto far parte di una qualsiasi città del mondo. Eppure, fu proprio allora che la sentì. Un'intensa e incondizionata gioia di essere là. A Oslo. A casa. Quell'emozione era talmente travolgente che per qualche secondo dimenticò di sana pianta il motivo per cui era tornato.
Harry guardò il numero cinque di Sofies gate mentre l'Amazon spariva alle sue spalle. C'erano più graffiti sulla facciata di quando era partito, ma sotto il colore azzurro era lo stesso.
Dunque, aveva detto che non avrebbe accettato il caso. Che aveva un padre in ospedale, ed era l'unico motivo per cui era tornato. Quello che non aveva detto era che, potendo scegliere se essere informato oppure no della malattia del padre, avrebbe preferito non sapere niente. Perché non era tornato per amore. Era tornato per vergogna.
Harry alzò lo sguardo verso le due finestre buie del secondo piano, quelle di casa sua.
Poi aprì il portone con la chiave ed entrò nel cortile. Il cassonetto era al solito posto. Harry alzò il coperchio. Aveva promesso a Hagen di dare un'occhiata alla cartellina con le copie dei documenti dell'indagine. Più che altro per evitare che il capo perdesse la faccia: in fondo, il passaporto era costato una bella somma alla sezione. Harry fece scivolare la cartellina sul fondo, in mezzo ai sacchetti di plastica rotti da cui fuoriuscivano fondi di caffè, pannolini, frutta marcia e bucce di patate. Fiutò e giunse alla conclusione che, incredibile ma vero, l'odore di immondizia è internazionale.
Nel bilocale non era stato toccato nulla, eppure c'era qualcosa di diverso. Un riflesso grigio cipria, come se qualcuno fosse appena andato via e il suo respiro gelato fosse ancora sospeso nell'aria. Andò in camera da letto, posò la borsa e tirò fuori la stecca di sigarette sigillata. Anche lì era tutto uguale, tutto grigio come la pelle di una persona morta da due giorni. Si lasciò cadere di schiena sul letto. Chiuse gli occhi. Salutò i rumori familiari. Il gocciolio dal buco della grondaia contro la lamiera del davanzale. Non era il lento, tranquillizzante stillicidio del soffitto di Hong Kong, bensì un tamburellare febbrile, a metà tra gocciolamento e flusso, quasi un monito che il tempo passava, i secondi correvano, la fine della sequenza numerica si avvicinava. Un tempo gli faceva sempre venire in mente La linea, il cartone animato italiano in cui dopo quattro minuti l'omino finiva immancabilmente per cadere dissolvendosi nel punto in cui il tratto del disegnatore, del creatore, spariva sotto i suoi piedi.
Harry sapeva che c'era una bottiglia di Jim Beam mezza piena nell'armadietto sotto il lavello. Sapeva che poteva riprendere dal punto in cui si era interrotto lì, in quell'appartamento. Accidenti, quel giorno di sei mesi prima non era ancora salito sul taxi che doveva portarlo all'aeroporto ed era già ubriaco. Non c'era da meravigliarsi se non ce l'aveva fatta ad arrivare a Manila.
Sarebbe anche potuto andare difilato in cucina a versare il contenuto nel lavello. Sbuffò.
Che totale idiozia chiedersi a chi somigliasse lei. Sapeva a chi somigliava. 
Somigliava a Rakel. Somigliavano tutte a Rakel.
7. Forca 
- Ma io ho paura, Rasmus, - disse Marit Olsen. - Ho tantissima paura!
- Lo so, - disse Rasmus Olsen con quella voce sommessa, gradevole che aveva accompagnato e calmato sua moglie per venticinque anni di elezioni politiche, esami per la patente di guida, accessi d'ira e qualche attacco di panico.
- È naturale, - le disse cingendola con il braccio. - Lavori molto, hai tante cose cui pensare. E la tua mente non ha la forza di respingere pensieri del genere.
- Pensieri del genere? - ribatté lei girandosi sul divano e fissandolo. Ormai aveva perso interesse per il Dvd che stavano guardando: Love actually. - Pensieri del genere, pensieri stupidi, è questo che credi?
- L'importante non è cosa credo io, - rispose lui mentre i suoi polpastrelli avanzavano tentoni. - L'importante...
- ... È cosa credi tu, - lo scimmiottò lei. - Sant'Iddio, Rasmus, devi smetterla di guardare quel talk show con lo psicologo, lì, il Dr Phil Show.
Lui fece un risolino liscio come la seta. - Sto solo dicendo che ovviamente come deputata puoi chiedere una scorta, se ti senti minacciata. Ma è quello che vuoi?
- Mhm, - rispose lei facendo le fusa quando le dita del marito cominciarono a massaggiarla nel suo punto preferito, come lui sapeva benissimo. - Cosa significa «quello che vuoi»?
- Riflettici. Secondo te cosa succederà?
Marit Olsen rifletté. Chiuse gli occhi e sentì le dita del marito massaggiarle il corpo infondendole calma e armonia. Aveva conosciuto Rasmus all'epoca in cui lavorava nell'ufficio di collocamento di Alta, nel Finnmark. Era stata eletta nell'Ntl, un sindacato che rappresentava i dipendenti statali, e mandata a fare un corso di formazione al centro corsi e congressi di Sørmarka. La prima sera le si era avvicinato un uomo magro con due vivaci occhi azzurri sotto la stempiatura. Le aveva parlato con un fervore che le ricordava i credenti smaniosi di redimere del circolo giovanile di Alta. Solo che lui parlava di politica. Lavorava nella segreteria del gruppo parlamentare del Partito laburista: assisteva i deputati nelle pratiche amministrative, nell'organizzazione di viaggi, nei rapporti con la stampa e ogni tanto scriveva addirittura qualche discorso per loro.
Rasmus le aveva offerto una birra, l'aveva invitata a ballare, e dopo quattro evergreen sempre più lenti e un contatto fisico sempre più ravvicinato, le aveva chiesto se voleva andare con lui. Non in camera sua, ma nel partito.
Quando era tornata ad Alta, Marit aveva cominciato a frequentare le riunioni di sezione, e la sera parlava a lungo al telefono con Rasmus di cosa avevano fatto e pensato durante la giornata. Naturalmente Marit non lo aveva mai detto ad alta voce, ma di quando in quando le sembrava che quelli fossero stati i tempi più belli che avevano passato insieme, a duemila chilometri di distanza l'uno dall'altra. Poi aveva ricevuto una telefonata del comitato per le nomine, era stata inserita in una lista e poi eletta nell'amministrazione comunale della sua città. Due anni dopo era vicesegretario della sezione del Partito laburista di Alta, l'anno seguente era entrata nel direttivo regionale, poi aveva ricevuto un'altra telefonata, stavolta del comitato per le nomine al Parlamento.
E adesso aveva un minuscolo ufficio nello Stortinget, un compagno che l'aiutava con i discorsi e la prospettiva di avanzare ancora nella carriera se tutto fosse andato secondo i piani. Ed evitava di commettere spropositi.
- Metteranno un poliziotto a proteggermi, - disse lei. - E la stampa vorrà sapere perché una deputata che nessuno ha mai sentito nominare debba girare con una maledetta guardia del corpo a spese dei contribuenti. E quando scopriranno il perché, che ho avuto l'impressione di essere seguita nel parco, scriveranno che con una simile motivazione una donna sì e una no di Oslo potrebbe chiedere la protezione della polizia a spese dello Stato. Non la voglio la guardia del corpo. Lasciamo perdere.
Rasmus rise in silenzio e con le dita espresse la sua approvazione.
Il vento sibilava cupamente tra gli alberi spogli del parco di Frogner. Un'anitra con la testa sprofondata nella livrea si lasciava portare dalla corrente su uno specchio d'acqua nero notte. Nello stadio del nuoto di Frogner foglie marce erano attaccate alle piastrelle delle vasche vuote. Il posto aveva un'aria definitivamente e irrimediabilmente abbandonata: un mondo perduto. Nella vasca profonda il vento creava una turbolenza che cantava una nota monotona e lamentosa sotto i dieci metri della bianca torre del trampolino, che si stagliava come una forca contro il cielo notturno.
8. Snow Patral 
Erano le tre del pomeriggio quando Harry si svegliò. Aprì la borsa, indossò degli abiti puliti, trovò un cappotto di lana nell'armadio e uscì. La pioviggine lo svegliò quel tanto che bastava a dargli un'aria più o meno sobria quando entrò nei locali marroni e fumosi del Restaurant Schrøder. Il suo tavolo era occupato, perciò prese quello più interno, sotto il televisore.
Si guardò intorno. Dietro i bicchieri di birra scorse un paio di facce che non aveva mai visto, ma per il resto il tempo si era fermato. Nina arrivò e gli mise davanti una tazza alta bianca e una caraffa di acciaio piena di caffè.
- Harry, - gli disse. Più che un saluto era una richiesta di conferma che fosse veramente lui.
Harry annuì. - Ciao, Nina. Giornali vecchi?
Nina sparì nel retrobottega e tornò con un mucchio di carta ingiallita. Harry non aveva mai capito perché da Schrøder mettessero da parte i quotidiani, ma quell'abitudine gli era tornata utile più di una volta.
- Da quanto tempo, - disse Nina e sparì. E Harry si ricordò perché gli piaceva 
Schrøder, a parte il fatto che era il bar più vicino a casa sua. Le frasi brevi. E il rispetto della privacy. Appuravano che eri tornato senza pretendere spiegazioni sulla tua assenza.
Harry mandò giù due tazze di quel pessimo caffè mentre sfogliava i giornali con una sorta di tecnica «fast forward» per farsi un'idea generale di quello che era successo nel regno negli ultimi mesi. Come al solito, non un gran che. Ed era proprio questo che gli piaceva di più della Norvegia.
Qualcuno aveva vinto Pop Idol, un personaggio famoso era stato eliminato in una gara di ballo, un calciatore di serie C aveva assunto cocaina e Lene Galtung, la figlia dell'armatore Anders Galtung, aveva ereditato in anticipo una parte dei suoi milioni e si era fidanzata con un investitore più bello di lei ma probabilmente meno ricco. Secondo il direttore di «Liberal», Arve Støp, per una nazione che si proponeva come modello di socialdemocrazia cominciava. a diventare imbarazzante essere ancora una monarchia. Non era cambiato niente.
Solo nei quotidiani di dicembre Harry vide i primi titoli sugli omicidi. Riconobbe la descrizione che Kaja gli aveva fatto del luogo del delitto, la cantina di un complesso di uffici in costruzione a Nydalen. La causa della morte non era chiara, ma la polizia non escludeva l'omicidio.
Harry continuò a sfogliare e preferì leggere di un ministro che si vantava di ritirarsi per stare di più con la famiglia.
L'archivio di Schrøder era tutt'altro che completo, ma il secondo delitto apparve in un giornale di due settimane dopo.
La donna era stata scoperta dietro la carcassa di una Datsun abbandonata ai margini di un bosco nei pressi del lago Dausjøen a Maridalen. La polizia non escludeva un «atto criminoso», ma nemmeno in questo caso rivelava particolari sulla causa della morte.
Harry diede una scorsa all'articolo e giunse alla conclusione che il silenzio della polizia fosse dovuto al solito motivo: non aveva niente, nada, il radar perlustrava un mare sconfinato e deserto.
Soltanto due delitti. Eppure Hagen gli era sembrato sicuro del fatto suo quando aveva detto che si trattava di un serial killer. Allora qual era il collegamento, qual era la cosa di cui non scrivevano i giornali? Harry sentì il cervello iniziare a battere le vecchie, familiari strade, maledisse il fatto che fosse più forte di lui e continuò a sfogliare.
Quando ebbe vuotato la caraffa, lasciò una banconota sgualcita sul tavolo e uscì in strada. Si strinse nel cappotto e strizzò gli occhi verso il cielo grigio.
Fermò un taxi libero che accostò al marciapiede. Il conducente si sporse in diagonale nell'abitacolo e lo sportello posteriore si aprì. Un gioco di destrezza ormai raro, e che Harry decise di premiare con una mancia. Non solo perché gli permise di montare speditamente, ma perché il finestrino dello sportello aveva riflettuto con precisione il viso della persona al volante di un'auto parcheggiata alle sue spalle.
- Rikshospitalet, - disse Harry spostandosi verso il centro del sedile posteriore.
- Bene, - rispose il tassista.
Harry scrutò nello specchietto retrovisore mentre si scostavano dal marciapiede. - Anzi, no, Sofies gate 5.
In Sofies gate il taxi aspettò con il motore diesel che chiocciava mentre Harry faceva le scale a passi lunghi e rapidi e il suo cervello valutava le alternative. La Triade? Herman Kluit? Oppure la cara, vecchia paranoia? L'armamentario era là dove lo aveva lasciato prima di uscire, nella cassetta degli attrezzi in dispensa. Il tesserino scaduto. Due paia di manette ultrarapide marca Hiatts con cardine a molla. E il revolver di ordinanza, uno Smith & Wesson calibro 38.
Appena scese di nuovo in strada, Harry salì in fretta e furia sul taxi senza guardare né a destra né a sinistra.
- Al Rikshospitalet? - domandò il tassista.
- Sì, o almeno andiamo in quella direzione, - rispose Harry guardando attentamente nello specchietto mentre imboccavano Stensberggata e poi proseguivano lungo Ullevålsveien.
Non vide niente. E questo voleva dire che si trattava della cara vecchia paranoia. 
Oppure che il tipo era in gamba.
Harry esitò, e infine disse: - Rikshospitalet.
Continuò a controllare nello specchietto mentre superavano la chiesa di Vestre Aker e l'ospedale di Ullevål. Per nessuna ragione doveva guidarli esattamente là dove era più vulnerabile. Là dove avrebbero sempre cercato di arrivare. Alla famiglia.
L'ospedale più grande del paese dominava tutta la città.
Harry pagò il tassista, che ringraziò per la mancia e ripeté il gioco di destrezza con lo sportello posteriore.
Le facciate degli edifici svettavano davanti a Harry al punto che le nuvole basse sembravano sfiorare i tetti.
Fece un profondo respiro.
Olav Hole gli rivolse un sorriso talmente mite e fiacco dal cuscino d'ospedale che Harry fu costretto a deglutire.
- Ero a Hong Kong, - rispose Harry. - Avevo bisogno di riflettere.
- E lo hai fatto?
Harry si strinse nelle spalle. - Cosa dicono i medici?
- Il minimo indispensabile. Probabilmente non è un buon segno, però sento di preferire così. Come ben sai, affrontare le realtà della vita non è mai stato il forte della nostra famiglia.
Harry si domandò se il discorso sarebbe caduto sulla madre. Sperava di no.
- Hai un lavoro?
Scosse la testa. I capelli ricadevano talmente fini e bianchi sopra la fronte del padre che Harry pensò non fossero i suoi, ma una cosa che gli avevano consegnato insieme al pigiama e alle pantofole.
- Niente? - domandò il padre.
- Mi hanno offerto di insegnare alla Scuola di polizia.
Era una mezza verità. Hagen glielo aveva proposto dopo il caso Uomo di neve, come una specie di licenza.
- Insegnare? - Il padre rise piano e con cautela, quasi che se avesse aumentato appena l'intensità per lui sarebbe stata la fine. - Credevo che uno dei tuoi principi fosse di non fare mai qualcosa che ho fatto io.
- Non è vero.
- Nessun problema, hai sempre agito di testa tua. E la storia di fare il poliziotto... be', immagino che dovrei essere grato perché non hai seguito le mie orme. Non sono un buon esempio. Sai che dopo la morte di tua madre...
Harry era seduto in quella bianca stanza d'ospedale da venti minuti appena e già sentiva un bisogno disperato di fuggire.
- Dopo la morte di tua madre, il mio mondo andò in pezzi. Mi chiusi in me stesso, non traevo alcun piacere dalla compagnia degli altri. Avevo la sensazione di esserle più vicino nella solitudine. Ma mi sbagliavo, Harry -. Il padre gli rivolse un sorriso angelico. - So che perdere Rakel è stato difficile, ma non devi fare come me. Non ti devi nascondere, Harry. Non devi chiudere la porta e buttare via la chiave.
Harry abbassò gli occhi sulle proprie mani e annuì, sentendosi formicolare tutto il corpo. Doveva prendere qualcosa, qualunque cosa.
Un infermiere entrò, si presentò come Altman, alzò una siringa in aria e con una pronuncia lievemente blesa disse che doveva soltanto dare a «Olav» qualcosa per aiutarlo a dormire meglio. Harry fu tentato di chiedergli se avesse qualcosa anche per lui.
Il padre si girò sul fianco. Aveva la pelle del viso cascante e sembrava più vecchio di quando era disteso supino. Fissò Harry con uno sguardo oppresso, vacuo.
Harry si alzò talmente di scatto che fece stridere forte le gambe della sedia sul pavimento.
- Dove vai? - bisbigliò il padre.
- Fuori a fumare, - rispose Harry. - Torno subito.
Si sistemò su un muretto da dove poteva vedere il parcheggio e si accese una Camel. Dall'altra parte dell'autostrada c'erano Blindern e gli edifici dell'università dove il padre aveva studiato. C'era chi pensava che i figli maschi diventassero immancabilmente una variante più o meno camuffata dei padri, che l'impressione di aver deviato fosse sempre illusoria, che si tornasse indietro, che la forza di gravità del sangue non solo fosse più forte della volontà, ma fosse la volontà stessa. Harry era sempre stato convinto di essere la prova del contrario. Quindi perché aver visto il viso stravolto, nudo del padre sul cuscino era stato come fissare la propria immagine riflessa? Sentirlo parlare come sentire se stesso? Sentirlo pensare, le parole... come il trapano di un dentista che con disinvolta sicurezza trovasse i suoi nervi. Perché lui ne era la copia. Porca miseria! Lo sguardo di Harry si era posato su una Corolla bianca nel parcheggio.
Sempre bianco, il colore più anonimo. Il colore della Corolla davanti a Restaurant Schrøder, l'auto del viso dietro il volante, lo stesso viso che ventiquattr'ore prima lo aveva fissato con due occhi piccoli e a mandorla.
Harry buttò la sigaretta e si precipitò dentro. Rallentò il passo quando fu nel corridoio che portava alla stanza del padre. Arrivò dove il corridoio si allargava in una sala d'aspetto aperta e finse di frugare la pila di riviste sul tavolo mentre con la coda dell'occhio passava in rassegna le persone sedute.
L'uomo si era nascosto dietro «Liberal».
Harry prese una copia del «Se og Hør» con una foto di Lene Galtung e del fidanzato e proseguì.
Olav Hole era disteso con gli occhi chiusi. Harry gli avvicinò un orecchio alla bocca. Il respiro era talmente leggero da essere quasi impercettibile, ma si sentì sfiorare la guancia da un movimento d'aria.
Per un po' rimase seduto accanto al letto a guardare il padre mentre i suoi pensieri proiettavano ricordi d'infanzia montati male, in ordine sparso e con l'unico filo rosso di essere episodi che se non altro rammentava.
Poi sistemò la sedia vicino alla porta, che socchiuse, e aspettò.
Dopo mezz'ora vide l'uomo venire giù per il corridoio dalla sala d'aspetto. Appurò che non solo era basso e tarchiato, ma aveva le gambe insolitamente arcuate, tanto che sembrava camminare con un pallone da spiaggia stretto fra le ginocchia. Prima di infilare una porta contrassegnata dal simbolo internazionale della toilette per uomini si tirò su la cinta. Come se vi fosse attaccato un oggetto pesante.
Harry si alzò e lo seguì.
Si fermò davanti alla toilette e trattenne il respiro. Era passato molto tempo. Poi aprì la porta e scivolò dentro. La toilette era come il Rikshospitalet: pulita, bella, nuova e sovradimensionata. Sei porte erano allineate davanti a uno dei muri longitudinali, e nessuna aveva una barra rossa sopra la serratura. Alla parete di fondo c'erano quattro lavandini e sull'altro muro longitudinale quattro orinatoi in porcellana ad altezza delle anche. L'uomo stava davanti a un orinatoio, dando le spalle a Harry. In alto, lungo la parete di fronte a lui, correva un tubo dell'acqua. Sembrava robusto. Abbastanza. Harry estrasse il revolver e le manette. Il bon ton internazionale delle toilette per uomini impone di non guardarsi. Uno scambio di sguardi, anche involontario, può essere causa di omicidio. Perciò l'uomo non si voltò verso di lui. Nemmeno quando Harry con estrema prudenza girò la serratura della porta d'ingresso, né quando gli si avvicinò con passi calmi, né quando puntò la canna del revolver contro il rotolino di grasso nel punto in cui il collo si univa alla testa e bisbigliò la parola che secondo un collega ogni poliziotto dovrebbe avere la possibilità di pronunciare almeno una volta nella sua carriera: - Fermo.
L'uomo obbedì. Harry vide il rotolino di grasso rasato sulla nuca incresparsi per la pelle d'oca mentre l'uomo si irrigidiva.
- Mani in alto.
L'uomo alzò un paio di braccia corte e massicce sopra la testa. Harry si sporse in avanti. E in quello stesso istante ammise di aver commesso un errore madornale. L'uomo si mosse con rapidità stupefacente. Durante le lezioni di combattimento corpo a corpo Harry aveva appreso che è importante tanto saper incassare i colpi quanto sferrarli. Che il trucco consiste nel rilassare i muscoli, nel sapere che il castigo non si può evitare, solo ridurre. Perciò, quando l'uomo girò su se stesso con l'agilità di una ballerina e un ginocchio sollevato, Harry reagì assecondando il movimento. Fece addirittura in tempo a spostarsi nella stessa direzione del calcio.
Il piede lo colpì immediatamente sopra l'anca. Harry perse l'equilibrio, cadde sulla schiena e strisciò all'indietro sul pavimento liscio di piastrelle fino a essere fuori portata. Rimase disteso, sospirando e fissando il soffitto mentre tirava fuori il pacchetto di sigarette. Si infilò una sigaretta in bocca.
- Speedcuffing, - disse Harry. - Ammanettamento rapido. L'ho imparato nell'anno in cui ho seguito un corso dell'Fbi a Chicago. Cabrini Green, un buco di alloggio. La sera non c'era niente da inventarsi a meno che non volessi mettere il naso fuori della porta e farti rapinare. Perciò passavo il tempo a esercitarmi in due cose. A scaricare e a caricare il revolver di ordinanza al buio nel più breve tempo possibile. E nello speedcuffing alla gamba di un tavolo.
Harry si tirò su puntellandosi sui gomiti.
L'uomo stava ancora con le corte braccia alzate sopra la testa. Aveva le mani immobilizzate dalle manette ai due lati del tubo dell'acqua e fissava Harry con un'espressione vacua. Forse l'aveva mandato Kluit.
- Mister Kluit sent you? - gli chiese Harry.
L'altro continuò a fissarlo negli occhi senza battere ciglio.
- The Triad. I've paid my debts, haven't you heard? - Harry scrutò il viso inespressivo dell'uomo: nessuna reazione alla notizia che Harry aveva saldato i debiti con la Triade. La mimica, o la mancanza di mimica, poteva essere asiatica, ma né la forma del viso né la carnagione sembravano quelle di un cinese. Mongolo, forse? - Allora, che vuoi? What do you want from me?
Nessuna risposta. Ossia una brutta notizia, perché con tutta probabilità voleva dire che l'uomo non era venuto a pretendere qualcosa. Ma a fare qualcosa.
Harry si alzò e percorse un semicerchio, in modo da avvicinarsi all'uomo di fianco. Gli puntò il revolver contro la tempia mentre gli infilava la mano sinistra sotto la giacca. La mano passò sopra l'acciaio freddo di un'arma, poi trovò il portafogli e lo estrasse.
Harry indietreggiò di tre passi.
- Let's see... mister Jussi Kolkka -. Harry alzò una carta di credito American Express verso la luce. - Finnish? Finlandese? Allora forse capisci il norvegese?
Nessuna risposta.
- Sei un ex poliziotto, vero? Quando ti ho visto nel terminal arrivi a Gardermoen, ti ho scambiato per una vedetta della Narcotici. Come facevi a sapere che sarei arrivato proprio con quel volo, Jussi? Se posso chiamarti Jussi. Mi sembra più naturale chiamare per nome un tipo che mi sta davanti col cazzo di fuori.
Si udì un breve raschio, poi lo sputo turbinò in aria intorno al proprio asse atterrando sul petto di Harry.
Harry si guardò la T-shirt. Lo sputo annerito dal tabacco da masticare aveva centrato il lato della «o», cambiando la scritta in «Snow Patral».
- Quindi capisci il norvegese, - disse Harry. - Allora, per chi lavori, Jussi? E che cosa vuoi?
Non un solo muscolo del viso di Jussi si mosse. Qualcuno scrollò la maniglia della porta dall'esterno, imprecò e andò via.
Harry sospirò. Poi portò il revolver alla fronte del finlandese e cominciò ad alzare il cane.
- Probabilmente mi consideri una persona normale, affidabile, Jussi. Be', eccoti la dimostrazione di quanto sono affidabile. Mio padre giace inerme in un letto e tu lo hai scoperto, perciò mi ritrovo con un problema. Si può risolvere in un solo modo. 
Per fortuna sei armato, così posso dire alla polizia di aver agito per legittima difesa. Harry alzò ancora di più il cane. E sentì arrivare la solita nausea.
- Kripos.
Harry fermò il cane. - Prego?
- Sono della Kripos -. Balbettò la frase in svedese, con quell'accento finlandese che tanto piace a chi racconta barzellette ai pranzi di nozze norvegesi.
Harry fissò l'uomo. Non dubitò per un solo istante che avesse detto la verità. Eppure non stava né in cielo né in terra.
- Nel portafoglio, - sibilò tra i denti il finlandese senza che la collera della voce arrivasse ai suoi occhi.
Harry aprì il portafoglio e guardò all'interno. Estrasse un tesserino plastificato. Conteneva poche ma esaurienti informazioni. L'uomo che Harry aveva di fronte lavorava per la Kriminalpolitiet, la polizia giudiziaria norvegese, la cosiddetta Kripos, l'unità centrale di Oslo che coadiuvava, e di solito dirigeva, le indagini per omicidio di tutto il paese.
- Che accidenti vuole la Kripos da me?
- Chiedilo a Bellman.
- E chi è Bellman?
Il finlandese emise un breve suono che era difficile stabilire se fosse un colpo di tosse o una risata. - Il commissario capo Bellman, povero mentecatto che non sei altro. Il mio capo. Adesso però liberami, furbacchione.
- Maledizione, - disse Harry guardando di nuovo il tesserino. - Maledizione, maledizione -. Lasciò cadere il portafoglio in terra e si girò verso la porta.
- Ehi. Ehi!
Le grida del finlandese si affievolirono alle sue spalle quando la porta si richiuse e Harry si incamminò lungo il corridoio, verso l'uscita. L'infermiere che prima era stato dal padre e arrivava dalla direzione opposta gli sorrise annuendo quando furono vicini. Harry lanciò la piccola chiave delle manette in aria.
- Altman, nel gabinetto c'è un esibizionista.
L'infermiere afferrò la chiave al volo con entrambe le mani. Harry sentì il suo sguardo sbalordito conficcato tra le scapole finché non uscì.
9. Il tuffo 
Erano le undici di sera. C'erano nove gradi e Marit Olsen ricordò che le previsioni del tempo avevano annunciato una temperatura ancora più mite per l'indomani. Nel parco di Frogner non c'era anima viva. Il grande complesso di piscine all'aperto aveva qualcosa che le fece venire in mente navi in disarmo, villaggi di pescatori abbandonati dove il vento mugghiava contro i muri delle case e luna park fuori stagione. Ricordi sconnessi dell'infanzia. Come gli spettri dei pescatori annegati a Tronholmen, che uscivano dal mare di notte, con alghe nei capelli e pesciolini in bocca e nelle narici. Spettri che non respiravano, ma che di quando in quando emettevano roche, fredde strida di gabbiano. Membra fradice che si impigliavano nei rami e si strappavano, senza però fermare la marcia dei fantasmi verso la casa solitaria laggiù, a Tronholmen. Tronholmen, dove vivevano i suoi nonni. Dove lei stessa tremava nel letto della sua cameretta. Marit Olsen respirava. Respirava ancora.
In basso non c'era un alito di vento, mentre lassù, in cima alla torre, si percepiva il movimento dell'aria. Marit sentiva il sangue martellarle nelle tempie, nella gola, nell'inguine, in tutto il suo corpo il sangue scorreva con forza vivificatrice. Era bello vivere. Essere vivi. Non le era quasi venuto l'affanno dopo aver salito tutti i gradini della torre del trampolino, aveva solo sentito il cuore, quel muscolo fedele, battere all'impazzata. Fissò la vasca dei tuffi vuota laggiù, cui la luce della luna conferiva un riflesso quasi innaturale, azzurrognolo. Più in là, all'altro capo della piscina, vide il grande orologio. Le lancette si erano fermate sulle cinque e dieci. Il tempo si era fermato. Sentiva la città, vedeva i fari delle automobili su Kirkeveien. Vicinissime. Ma troppo lontane. Troppo lontane perché qualcuno potesse udirla.
Respirava. Ma allo stesso tempo era morta. Intorno al collo aveva una fune grossa come una gomena e udiva le strida dei gabbiani, gli spettri che presto avrebbe raggiunto. Ma non pensava alla morte. Pensava alla vita, a quanto le sarebbe piaciuto viverla. A tutte le cose grandi e piccole che avrebbe fatto. Avrebbe visitato paesi in cui non era mai stata, visto i nipoti crescere, il mondo rinsavire.
Era sbucato fuori un coltello, la lama aveva scintillato nella luce del lampione per poi puntarsi contro la sua gola. Si dice che la paura dia forza. A lei, invece, aveva tolto tutte le forze, tolto ogni capacità di agire. Il pensiero dell'acciaio che le avrebbe squarciato il corpo l'aveva ridotta a un fagotto tremante e privo di volontà. Perciò, quando la voce le aveva ordinato di scavalcare il recinto non ce l'aveva fatta, era caduta ed era rimasta a terra come una poltrona a sacco mentre le lacrime le rigavano le guance. Perché sapeva cosa sarebbe successo. E che non sarebbe riuscita a frenarsi, che avrebbe fatto di tutto per non essere squarciata. Perché voleva tanto vivere ancora un po'. Ancora qualche anno, qualche minuto, era sempre lo stesso calcolo, la stessa cieca, folle razionalità a guidare una persona.
Aveva parlato per spiegare che non riusciva a scavalcare l'ostacolo, dimenticando l'ordine di tenere la bocca chiusa. Il coltello l'aveva colpita fulmineo come un serpente, affondandole in bocca, girando fino a farle scricchiolare i denti, e poi era stato estratto. Il sangue era uscito subito. La voce le aveva bisbigliato qualcosa da sotto la maschera, quindi si era sentita spingere in avanti nell'oscurità. Fino a un punto dietro i cespugli dove c'era un passaggio nella recinzione in cui era stata costretta a infilarsi a forza.
Marit Olsen inghiottì il sangue che continuava a riempirle la bocca e guardò le tribune sottostanti, a loro volta immerse nel chiarore azzurro della luna. Erano desolatamente vuote, il suo era un processo senza pubblico né giuria, con soltanto un giudice. Un'esecuzione senza folla, solo il boia. Un'ultima apparizione pubblica che nessuno aveva pensato meritasse di essere vista. Marit Olsen pensò che era priva di qualsiasi attrattiva, nella morte come in vita. E adesso non riusciva nemmeno a parlare.
- Salta.
Notò quanto fosse bello il parco, perfino adesso, in inverno. Le sarebbe piaciuto che l'orologio all'altro capo della piscina funzionasse, per vedere i secondi di vita che riusciva a rubare.
- Salta, - ripeté la voce. L'uomo doveva essersi tolto la maschera, perché la voce era cambiata, e adesso Marit Olsen la riconosceva. Girò la testa e lo fissò scioccata. Poi sentì un calcio nella schiena. Urlò. Senza più un sostegno sotto i piedi per un attimo di meraviglia fu senza peso. Ma la terra l'attirava a sé, il suo corpo accelerò e vide la porcellana bianco-azzurra della vasca salire a precipizio, venirle incontro per schiacciarla.
A tre metri dal fondo della vasca il cappio si strinse intorno al collo di Marit Olsen. La corda era di un vecchio tipo, fabbricata in alburno di tiglio e di olmo, ed era priva di elasticità. Il corpo massiccio di Marit Olsen non si lasciò frenare più di tanto e si staccò dalla testa schiantandosi nella vasca dei tuffi con un tonfo sordo. La testa e il collo rimasero appesi alla corda. Non uscì molto sangue. Poi la testa si inclinò in avanti, si staccò dal cappio, cadde sulla giacca azzurra della tuta di Marit Olsen e rotolò rumorosamente sulle piastrelle.
Infine calò di nuovo il silenzio sullo stadio del nuoto. 
Parte seconda 
10. Sollecito 
Erano le tre di notte quando Harry rinunciò a dormire e si alzò.
Aprì il rubinetto della cucina e mise un bicchiere sotto il getto, tenendovelo finché l'acqua traboccò e cominciò a scorrergli fredda intorno al polso. La mandibola gli faceva male. Il suo sguardo fissava due fotografie appuntate sopra il piano di lavoro.
Una aveva due brutte pieghe e ritraeva Rakel in un vestitino estivo celeste. Però non era estate, il fogliame sullo sfondo aveva colori autunnali. I capelli neri le ricadevano sulle spalle nude. I suoi occhi sembravano cercare qualcosa dietro l'obiettivo, forse il fotografo. L'aveva fatta lui quella foto? Strano che non se ne ricordasse.
L'altra foto era di Oleg. Scattata l'inverno prima con il cellulare di Harry a Valle Hovin durante gli allenamenti di pattinaggio. Era ancora un ragazzino magro, ma se avesse continuato ad allenarsi, presto avrebbe riempito la calzamaglia rossa. Cosa faceva adesso? Dov'era? Rakel era riuscita a creare una casa per loro due ovunque fossero ora, una casa che le sembrasse più sicura di quella a Oslo? Nella loro vita erano entrate altre persone? Quando Oleg si stancava o perdeva la concentrazione, gli capitava ancora di chiamarlo papà?
Chiuse l'acqua. Sentì lo sportello dell'armadietto contro le ginocchia. Dall'interno Jim Beam bisbigliava il suo nome.
Harry si infilò un paio di pantaloni e una T-shirt, andò in soggiorno e mise su Kind of Blue di Miles Davis. Era la versione originale, quella in cui non avevano compensato il ritardo infinitesimale del registratore a bobine dello studio, di modo che tutto il disco era uno sfalsamento quasi impercettibile della realtà.
Ascoltò per un po' prima di alzare il volume per non sentire il bisbiglio proveniente dalla cucina. Chiuse gli occhi.
La Kripos. Bellman.
Gli era nuovo, quel nome. Naturalmente avrebbe potuto telefonare a Hagen e chiedergli delucidazioni, ma non se l'era sentita. Perché pensava di aver capito di cosa si trattava. Meglio lasciar perdere.
Arrivato all'ultimo brano, Flamenco Sketches, Harry si arrese. Si alzò, uscì dal soggiorno diretto in cucina. Nell'ingresso girò a sinistra, si infilò i Doctor Martens e uscì.
La trovò sotto un sacchetto di plastica bucato. Qualcosa che somigliava a zuppa di piselli rappresa foderava tutta la copertina della cartella.
Si sedette nella bergère verde e cominciò a leggere rabbrividendo.
La prima donna si chiamava Borgny Stem-Myhre, trentatre anni, originaria di Levanger. Single, senza figli, residente nel quartiere di Sagene a Oslo. Lavorava come stilista, frequentava molta gente, soprattutto parrucchieri, fotografi e quelli che lavoravano nelle riviste di moda. Bazzicava parecchi locali della città, e non solo i più alla moda. Inoltre, era un'amante della natura e le piaceva fare escursioni da un rifugio all'altro, sia a piedi sia con gli sci.
«Non è mai riuscita a sbarazzarsi completamente della ragazzotta di Levanger», c'era scritto nel rapporto che riassumeva gli interrogatori ai colleghi. Harry dedusse che quel giudizio doveva venire dalle colleghe convinte di essere riuscite a cancellare il proprio paesello.
«Era simpatica a tutti noi, era una delle poche persone genuine di questo ambiente».
«È incredibile, non riusciamo a concepire che qualcuno abbia voluto ucciderla».
«Era troppo buona. E prima o poi gli uomini di cui si innamorava ne approfittavano. Diventava un giocattolo nelle loro mani. Mirava troppo in alto, tutto qui».
Harry guardò una sua foto. L'unica del fascicolo in cui era ancora viva. Bionda, forse non naturale. Carina, non una gran bellezza, ma cool in giacca militare e berretto rasta. In tiro e troppo buona, le due cose si conciliavano?
Era stata al Mono, alla festa mensile di lancio e anteprima della rivista di moda «Sheness». L'evento aveva avuto luogo tra le sette e le otto, e Borgny aveva detto a una collega-amica che andava a casa a preparare un servizio per il quale il fotografo aveva chiesto abiti «da giungla che incontra il punk in stile anni Ottanta».
Avevano dato per scontato che sarebbe andata al posteggio dei taxi più vicino, ma nessuno dei tassisti che si trovavano nelle vicinanze all'ora in questione (tabulati di Norgestaxi e di Oslo Taxi allegati) aveva riconosciuto Borgny Stem-Myhre dalla foto né aveva portato qualcuno a Sagene. In breve, nessuno l'aveva vista dopo che aveva lanciato il Mono. Fino a quando due muratori polacchi si erano recati al lavoro, avevano notato che il lucchetto della porta m ferro del rifugio antiaereo era stato manomesso ed erano entrati. Avevano trovato Borgny riversa al centro della stanza in una posizione innaturale. Era completamente vestita.
Harry guardò la foto. La stessa giacca militare. Sembrava essersi data della cipria bianca. Il flash gettava ombre nette sul muro dello scantinato. Servizio fotografico. Cool.
Il medico legale aveva stabilito che Borgny Stem-Myhre era morta tra le ventidue e le ventitre. Nel sangue erano state trovate tracce di ketamina, un potente anestetico dall'effetto rapido anche per via intramuscolare. Ma la causa diretta della morte era l'annegamento provocato dal sangue delle ferite in bocca. E qui cominciava la parte più inquietante. Il medico legale aveva trovato ventiquattro ferite da punta nel cavo orale, distribuite simmetricamente e - quelle che non avevano comportato un perforamento del viso - tutte della stessa identica profondità: sette centimetri. Ma gli investigatori non avevano la più pallida idea di quale tipo di arma o di strumento le avesse provocate. Non avevano mai visto nulla di simile. Di tracce tecniche nemmeno l'ombra: nessuna impronta digitale, niente Dna, nemmeno l'orma di una scarpa o di uno stivale: il giorno prima avevano lavato il cemento per la posa in opera della pavimentazione e dei tubi del riscaldamento. Nel rapporto di Kim Erik Lokker, un tecnico della Scientifica che doveva essere stato assunto dopo che Harry se ne era andato, erano descritti due sassolini grigio scuro rinvenuti per terra e che non provenivano dalla ghiaia presente nei pressi della scena del crimine. Lokker faceva notare che spesso qualche sassolino si conficcava nelle suole a carrarmato di scarponi e stivali per poi cadere quando si camminava su un terreno più solido, come sul cemento. E che quelle pietre erano talmente insolite che se fossero ricomparse in un secondo momento nel corso delle indagini, per esempio in un vialetto inghiaiato, forse si sarebbero potute confrontare. Al rapporto datato e firmato era stata fatta un'aggiunta: erano state trovate tracce infinitesimali di ferro e di coltan sulla parte interna di due molari.
Harry già immaginava gli sviluppi. Continuò a sfogliare.
L'altra ragazza si chiamava Charlotte Lolles. Padre francese, madre norvegese. Residente a Lambertseter, una città satellite di Oslo. Ventinove anni. Laureata in giurisprudenza. Viveva da sola, ma aveva un ragazzo: un certo Erik Fokkerstad che era stato scagionato fin dall'inizio, dal momento che si trovava a un convegno di geologia nel parco nazionale di Yellowstone nel Wyoming, Usa. Charlotte lo avrebbe dovuto accompagnare, ma aveva dato la priorità a un'importante causa patrimoniale a cui stava lavorando.
I colleghi l'avevano vista per l'ultima volta in ufficio martedì sera intorno alle nove. Probabilmente non era mai arrivata a casa, la ventiquattrore con i fascicoli del processo era stata trovata accanto al cadavere dietro l'auto buttata ai margini del bosco di Maridalen. Anche le controparti della causa erano state entrambe scagionate. Dal referto autoptico emergeva che sotto le unghie di Charlotte Lolles erano stati rinvenuti frammenti di vernice per automobili e di ruggine, e questo particolare confermava il rapporto stilato sul luogo del delitto che riferiva la presenza di graffi intorno alla serratura del portellone, come se avesse cercato di aprirlo. Inoltre, un esame più approfondito della serratura aveva rivelato che era stata forzata almeno una volta. Ma probabilmente non da Charlotte Lolles. Harry suppose che l'avessero legata a qualcosa che stava all'interno del bagagliaio, da cui il tentativo di aprirlo. Qualcosa che l'assassino si era portato via dopo. Ma cosa? E come? E perché?
Il verbale di un interrogatorio citava una collega dello studio legale: «Charlotte era una ragazza ambiziosa, lavorava sempre fino a tardi. Anche se non so quanto fosse produttiva. Sempre tranquilla, ma meno estroversa di quanto i suoi sorrisi e il suo aspetto meridionale facessero pensare. Un po' chiusa, in realtà. Per esempio, parlava raramente del suo compagno. Però ai capi piaceva».
Harry si immaginò la collega rivelare a Charlotte un particolare intimo dopo l'altro sul proprio ragazzo, senza ricevere in cambio che un sorriso. E il suo cervello di investigatore andava quasi con il pilota automatico: magari Charlotte si era chiamata fuori da un'amicizia femminile ambigua, magari aveva qualcosa da nascondere. Magari...
Harry guardò le foto. Lineamenti un po' duri ma belli. Occhi scuri, sembravano quelli di... accidenti! Abbassò le palpebre. Le rialzò. Sfogliò fino al referto del medico legale. Fece scorrere lo sguardo sul foglio mentre leggeva.
Dovette riguardare il nome di Charlotte in cima alla pagina per assicurarsi di non essersi rimesso a leggere quello di Borgny. L'anestetico. Le ventiquattro ferite in bocca. Annegamento. Nessun'altra forma di violenza esterna, nessun segno di
violenza sessuale. L'unica differenza era l'ora del decesso, stabilita fra le ventitre e la mezzanotte. Ma anche qui avevano aggiunto che erano state trovate tracce di ferro e di coltan su uno dei denti della vittima. Verosimilmente la Scientifica aveva pensato che potesse essere importante, dal momento che erano state trovate su entrambe le vittime. Non era il minerale di cui era fatto il robot Terminator di Schwarzenegger?
Harry si rese conto di essere decisamente sveglio, oltre che seduto sul bordo della poltrona. Sentì il formicolio, la tensione. E la nausea. Come quando mandava giù il primo drink, quello che gli torceva lo stomaco, quello che il suo corpo respingeva disperatamente. Anche se ben presto ne avrebbe implorato ancora. Sempre di più. Finché l'alcol non avrebbe rovinato lui e tutti quelli che gli stavano intorno. Come quella storia. Harry si alzò talmente di scatto che ebbe un capogiro, afferrò la cartellina e, pur sapendo che era troppo voluminosa, riuscì a strapparla in due.
Raccolse i pezzi di carta e li riportò nel cassonetto. Li buttò vicino al bordo e sollevò qualche sacchetto di plastica per far scivolare i documenti fino in fondo. 
Sperava che il camion della spazzatura sarebbe passato l'indomani o dopodomani.
Harry tornò in casa e si sedette di nuovo nella poltrona.
Quando fuori della finestra la notte si striò di grigio, udì i primi rumori della città che si svegliava. Ma oltre al ronzio regolare dell'incipiente ora di punta mattutina in Pilestredet, udiva anche la lontana, esile sirena di un'auto della polizia avanzare a forza tra le frequenze. Poteva trattarsi di qualunque cosa. Udì perfino partire un'altra sirena. Qualunque cosa. E poi un'altra ancora. Non una cosa qualunque.
Il telefono fisso squillò.
Harry alzò il ricevitore.
- Sono Hagen. Abbiamo appena ricevu...
Riagganciò.
Il telefono squillò di nuovo. Harry guardò fuori della finestra. Non aveva chiamato Søs. Perché? Perché non voleva farsi vedere dalla sorella minore, la sua ammiratrice più sfegatata, più incondizionata? Che era affetta da quello che lei stessa chiamava «un pizzico di sindrome di Down» e che ciononostante riusciva ad affrontare la vita molto, ma molto meglio di lui. Era l'unica persona che Harry non si poteva permettere di deludere.
Il telefono smise di squillare. E poi ricominciò.
Harry alzò bruscamente il ricevitore: - No, capo. La risposta è no, non voglio tornare al lavoro.
Ci fu un secondo di silenzio. Poi udì una voce sconosciuta.
- Qui è la Oslo Energi. Il signor Hole?
Harry imprecò mentalmente. - Sì?
- Lei non ha pagato le bollette che le abbiamo inviato, e non ha risposto nemmeno ai preavvisi di interruzione del servizio. La chiamo per informarla che chiudiamo la fornitura di energia elettrica del suo appartamento in Sofies gate 5 a decorrere dalle ore dodici di oggi.
Harry non rispose.
- Potrà richiedere la riattivazione dopo aver versato la somma dovutaci sul nostro conto corrente.
- Vale a dire?
- Con gli interessi, le spese di sollecito e di chiusura sono quattordicimilaquattrocentosessanta corone.
Pausa.
- Pronto?
- Sono qui. Non ho tutti questi soldi al momento.
- Adiremo le vie legali per l'esazione del credito. Intanto speriamo che il termometro non scenda sotto lo zero. O no?
- No, - constatò Harry e riagganciò.
Fuori il rumore delle sirene si alzava e si abbassava.
Harry andò a letto. Rimase disteso per un quarto d'ora con gli occhi chiusi prima di darsi per vinto, poi si vestì di nuovo, uscì di casa e andò a prendere il tram per il Rikshospitalet.
11. Stampata 
Stamattina, quando mi sono svegliato, ho capito che mi era successo di nuovo. Nel sogno è sempre così: siamo distesi a terra, il sangue scorre, e quando mi volto lei è là in piedi che ci guarda. Mi guarda con gli occhi addolorati, come se avesse scoperto solo adesso chi sono, mi avesse smascherato, avesse capito che non sono quello che vuole.
La colazione era ottima. Sul televideo c'è scritto: «Deputata al Parlamento trovata morta nella vasca dei tuffi allo Stadio del nuoto di Frogner». Le pagine dei giornali on-line ne sono piene. Stampare, tagliare, ritagliare.
Tra non molto le prime pagine on-line divulgheranno il nome. Finora le cosiddette indagini della polizia sono state di un tale ridicolo dilettantismo da suscitare più irritazione che interesse. Ma questa volta impegneranno tutte le risorse disponibili, e non giocheranno ai detective come hanno fatto con Borgny e con Charlotte. Dopo tutto Marit Olsen era una parlamentare. È ora che si ponga fine a questa storia. Perché ho designato la prossima vittima.
12. Scena del crimine 
Harry fumò una sigaretta fuori dell'ospedale. Sopra di lui il cielo era di un azzurro pallido; sotto, però, la nebbia copriva la città, che si stendeva in una conca tra basse dorsali verdeggianti. Quella vista gli ricordò la sua infanzia a Oppsal, il giorno in cui lui e Øystein avevano marinato la prima ora di scuola raggiungendo i bunker tedeschi di Nordstrand, da dove avevano guardato la nebbia giallastra sotto di loro che nascondeva il centro di Oslo. Ma con gli anni la nebbia mattutina era a poco a poco sparita dalla città, insieme all'industria e al riscaldamento a legna.
Harry schiacciò la sigaretta con il tacco.
Olav Hole aveva una cera migliore. O forse era solo l'effetto della luce. Domandò a Harry perché sorridesse. E cosa avesse fatto alla mandibola.
Harry diede la colpa alla propria goffaggine, chiedendosi a che età si verificasse il cambiamento, quando i figli cominciassero a proteggere i genitori dalla realtà. 
Intorno ai dieci anni, concluse.
- Tua sorella è venuta a trovarmi, - disse il padre.
- Come sta?
- Bene. Quando ha saputo che eri tornato a casa, ha detto che dovrà prendersi cura di te. Perché adesso è diventata grande. E tu piccolo.
- Mhm. Saggia donna. Come ti senti oggi?
- Bene. Anzi, benissimo. Penso addirittura che sia ora di uscire di qui.
Sorrise, e Harry fece altrettanto.
- Cosa dicono i dottori?
Olav Hole continuò a sorridere. - Troppo. Vogliamo parlare d'altro?
- Certo. Di cosa vuoi parlare?
Olav Hole rifletté. - Di lei.
Harry annuì. E ascoltò in silenzio il padre raccontare di come lui e la madre si erano conosciuti. Si erano sposati. Della malattia della madre quando Harry non era che un ragazzino.
- Ingrid mi aiutava sempre. Sempre. Ma non aveva quasi mai bisogno di me. Finché non si ammalò. A volte mi capitava di pensare che la sua malattia fosse una benedizione.
Harry trasalì.
- Vedi, mi diede la possibilità di sdebitarmi. E mi sdebitai. Facevo tutto quello che mi chiedeva -. Olav Hole fissò il figlio. - Tutto, Harry. O quasi.
Harry annuì.
Il padre continuò a parlare. Di Søs e di Harry, di quanto fosse dolce e mite la sorella. E della grande forza di volontà di Harry. Aveva paura del buio, ma non voleva dirlo a nessuno, e così, quando lui e la madre origliavano dietro la sua porta, lo sentivano ora piangere ora maledire mostri invisibili. Ma sapevano di non poter entrare a consolarlo e tranquillizzarlo, perché si sarebbe infuriato e avrebbe gridato che rovinavano tutto, che dovevano andare via.
- Volevi sempre lottare contro quei mostri da solo, Harry.
Olav raccontò la vecchia storia di Harry che non aveva pronunciato una sola parola fino a poco prima dei cinque anni. Ma poi, un bel giorno, frasi di senso compiuto avevano cominciato a uscirgli di bocca. Lente e serie, piene di parole da grandi che non avevano idea dove avesse imparato.
- Però Søs ha ragione, - disse il padre con un sorriso. - Sei ridiventato piccolo. Non parli.
- Mhm. Vuoi che parli?
Il padre scosse la testa. - No, voglio che ascolti. Ora basta, però. Puoi tornare un altro giorno.
Harry strinse la mano sinistra del padre con la destra e si alzò. - Posso andare a stare a Oppsal per qualche giorno?
- Ti ringrazio per esserti offerto. Non volevo assillarti, ma la casa ha bisogno di essere sorvegliata.
Harry rinunciò a spiegare che gli avrebbero tagliato l'energia elettrica.
Il padre suonò il campanello e arrivò un'infermiera giovane e sorridente che lo chiamava per nome con innocente civetteria. E Harry notò che il padre faceva la voce un po' più profonda mentre le diceva di consegnare al figlio la valigia con le chiavi di casa, vide il malato disteso nel letto provare a fare un po' la ruota. E per qualche motivo non gli sembrava patetico, ma perfettamente naturale.
A mo' di commiato il padre ripeté: - Tutto quello che lei mi chiedeva -. E bisbigliò: - Tranne una cosa.
Quando lo accompagnò nel deposito bagagli, l'infermiera disse a Harry che il medico desiderava parlargli. Dopo aver trovato la chiave nella valigia Harry bussò alla porta che l'infermiera gli aveva indicato.
Il medico gli fece cenno di accomodarsi, si appoggiò contro lo schienale della sedia girevole e giunse i polpastrelli. - Meno male che sei tornato a casa. Abbiamo tentato di rintracciarti.
- Sì, lo so.
- Il cancro si è diffuso.
Harry annuì. Una volta qualcuno gli aveva detto che era proprio questo il compito di una cellula cancerogena: diffondersi.
Il medico lo scrutò, quasi valutasse come continuare.
- Sì, - disse Harry. - Sì?
- Sì, sono pronto a sentire il seguito.
- Non diciamo più quanto tempo pensiamo resti da vivere a una persona. Le deviazioni e lo stress che comportano sono troppo grandi. Però, secondo me, nel caso di tuo padre è giusto dirti che ha già superato le previsioni.
Harry annuì. Guardò fuori della finestra. Giù in basso la nebbia era ancora fitta.
- Hai un cellulare su cui ti possiamo rintracciare se dovesse succedere qualcosa?
Harry scosse la testa. Era una sirena quella che sentiva nella nebbia?
- Qualche conoscente che potrebbe avvisarti?
Harry fece di nuovo cenno di no. - Non importa. Telefonerò e lo verrò a trovare tutti i giorni. Okay?
Il medico annuì e lo seguì con lo sguardo mentre si alzava e si affrettava a uscire.
Erano le dieci quando Harry arrivò allo Stadio del nuoto di Frogner. Il parco si estendeva per quasi mezzo chilometro quadro, ma dal momento che le piscine pubbliche scoperte ne occupavano solo una piccola parte ed erano per di più recintate, la polizia non aveva avuto difficoltà a bloccare l'accesso al luogo del delitto: aveva semplicemente teso il nastro segnaletico tutt'intorno alla recinzione dell'impianto e messo una guardia alla biglietteria. Quegli avvoltoi dei cronisti di nera si erano alzati in volo e arrivarono ad ali spiegate, si fermarono gracchiando davanti all'ingresso in attesa di trovare il modo di avvicinare il cadavere. Per la miseria, si trattava nientemeno che di una deputata al Parlamento, il pubblico aveva il diritto di vedere le foto di un cadavere tanto eminente, o no?
Harry prese un caffè americano da Kaffepikene. Il locale aveva lasciato sedie e tavoli fuori sul marciapiede per tutto il mese di febbraio, e Harry si sedette, si accese una sigaretta e osservò lo stormo assiepato davanti alla biglietteria.
Un uomo si accomodò sulla sedia accanto a lui.
- Harry Hole in persona. Dove sei stato?
Harry alzò lo sguardo. Roger Gjendem, il cronista di nera dell'«Aftenposten», si accese una sigaretta e gesticolò in direzione del parco di Frogner. - Alla fine Marit Olsen ha avuto quello che voleva. Entro le otto di stasera sarà una celebrità. Impiccarsi al trampolino dello Stadio del nuoto di Frogner? Bella mossa per la carriera Si girò verso Harry e fece una smorfia. - Che hai fatto alla mascella? Hai un aspetto orribile.
Harry non rispose. Si limitò a sorseggiare il caffè senza tentare minimamente di evitare la pausa imbarazzante, nella vana speranza di far capire al giornalista che la sua compagnia non era gradita. Dalla cappa di nebbia sopra le loro teste arrivò il frastuono del flappeggio di un rotore. Roger Gjendem strizzò gli occhi e guardò in su.
- Sicuramente sono quelli di «VG», è decisamente nel loro stile noleggiare un elicottero. Spero che la nebbia non si dilegui.
- Mhm. È meglio che nessuno scatti foto piuttosto che lo faccia solo «VG»?
- Chiaro. Che cosa sai?
- Sicuramente meno di te, - rispose Harry. - Il cadavere è stato trovato all'alba da uno dei custodi, che ha chiamato subito la polizia. E tu?
- La testa si è staccata di netto. Pare che la signora sia saltata dalla cima del trampolino con una corda intorno al collo. Ed era molto grassa. Nell'ordine dei centocinquanta chili. Nel punto in cui pensano che abbia scavalcato il recinto sono stati trovati alcuni fili, che forse appartengono alla sua tuta. Non hanno trovato tracce di altre persone, perciò ritengono che fosse sola.
Harry aspirò il fumo. «La testa si è staccata di netto». Quei giornalisti parlavano come scrivevano; piramide rovesciata, lo chiamavano: l'informazione più importante per prima.
- Quindi, probabilmente è successo stanotte? - sondò Harry.
- O ieri sera. Secondo il marito, Marit Olsen è uscita ieri sera alle dieci meno un quarto per fare jogging.
- Un po' tardi per fare jogging.
- A quanto pare era una sua abitudine. Le piaceva avere il parco tutto per sé.
- Mhm.
- A proposito, ho cercato il custode che l'ha trovata.

Come mai?
Gjendem guardò Harry stupito. - Per avere una descrizione di prima mano, ovviamente.
- Ovviamente, - disse Harry prendendo una boccata dalla sigaretta.
- Ma a quanto pare si è reso irreperibile, non è né qui né a casa. Il poveretto sarà sotto choc, immagino.
- Be'. Non è la prima volta che trova un cadavere nella vasca dei tuffi. Secondo me è stato il responsabile delle indagini a renderlo irreperibile.
- Che significa che non è la prima volta?
Harry si strinse nelle spalle. - Sono stato convocato qui in due o tre occasioni, in passato. Ragazzi che si erano introdotti nell'impianto di notte. Una volta si trattava di suicidio, l'altra di un incidente. Quattro amici ubriachi che rincasavano da una festa e avevano voglia di giocare un po', vedere chi aveva il coraggio di stare in piedi sul bordo. Il più coraggioso di tutti è arrivato a diciannove anni. Il più grande del gruppo era suo fratello maggiore.
- Porca miseria, - disse Gjendem doverosamente.
Harry consultò l'orologio come se avesse un impegno da rispettare.
- Quella fune doveva essere molto resistente, - disse Gjendem. - La testa strappata. 
Hai mai sentito una cosa simile?
- Tom Ketchum, - rispose Harry, poi fini il caffè in un unico sorso e si alzò.
- Ketchup?
- Ketchum. La banda del buco. Impiccato nel New Mexico nel 1901. Una forca normalissima, ma usarono una corda un po' troppo lunga.
- Ah. Lunga quanto?
- Poco più di due metri.
- Solo? Allora sarà stato grassissimo.
- No. Questo la dice lunga su quanto sia facile perdere la testa, non ti pare?
Gjendem gli gridò dietro qualcosa, ma Harry non senti. Attraversò il posteggio sul lato nord dello Stadio del nuoto, si incamminò nel parco e girò a sinistra prendendo il ponte in direzione dell'ingresso principale. La recinzione era dappertutto alta oltre due metri e mezzo. «Nell'ordine dei centocinquanta chili». Forse ci aveva provato, ma Marit Olsen non aveva scavalcato quel recinto da sola.
In fondo al ponte Harry svoltò a sinistra in modo da tornare alle piscine dal lato opposto. Scavalcò il nastro segnaletico arancione della polizia e si fermò in cima al pendio davanti a un gruppo d'arbusti. Negli ultimi anni Harry aveva dimenticato una quantità pazzesca di cose. Ma non le inchieste. Ricordava ancora i nomi dei ragazzi del trampolino. Lo sguardo perso nel vuoto del fratello maggiore mentre rispondeva con voce spenta alle sue domande. E la mano che aveva indicato il punto da cui erano passati.
Harry badò a dove metteva i piedi per non distruggere eventuali orme e scostò gli arbusti. I lavori di manutenzione dell'Ente parchi di Oslo dovevano avere una pianificazione a lungo termine. Ammesso che l'avessero. Il buco nel recinto c'era ancora.
Harry si accovacciò ed esaminò le punte aguzze della recinzione. Notò dei fili scuri. Qualcuno non si era infilato agevolmente, bensì si era pigiato per passare dal buco. O era stato spinto. Cercò altre tracce. A una punta nella parte superiore dell'apertura era attaccato un lungo filo di lana nera. Il buco era talmente alto che lì per toccare il recinto una persona doveva stare in piedi. La testa. Coincideva con la lana, un berretto di lana. Marit Olsen portava un berretto di lana? A detta di Roger Gjendem, era uscita di casa alle dieci meno un quarto per andare a correre nel parco. Come d'abitudine, aveva aggiunto.
Harry cercò di immaginare la scena. Vide il parco in una serata straordinariamente dolce. Vide un donnone sudato fare jogging. Non vide un berretto di lana. Non vide nemmeno altre persone con indosso berretti di lana. Almeno, non per il freddo. Ma forse per non essere viste o riconosciute. Un berretto di lana nero. Un passamontagna, forse.
Uscì con prudenza dai cespugli.
Non li aveva sentiti arrivare.
Uno impugnava una pistola, probabilmente una Steyr, austriaca, semiautomatica. La teneva puntata contro di lui. L'uomo alle sue spalle aveva i capelli biondi, la bocca aperta e un prognatismo pronunciato, e quando proruppe in una risata che sembrava un grugnito a Harry venne in mente il soprannome di Truls Berntsen, della Kripos. Beavis. Da Beavis & Butt-Head.
Il secondo era basso, aveva due gambe incredibilmente arcuate e teneva le mani nelle tasche di un cappotto che Harry sapeva nascondere un'arma da fuoco e un tesserino della Kripos con un nome dal suono finlandese. Ma fu il terzo uomo, quello con l'elegante soprabito grigio, ad attirare la sua attenzione. Si teneva sulla sinistra, un po' discosto dagli altri due, ma c'era qualcosa di strano nell'atteggiamento del biondo con la pistola e nel linguaggio non verbale del finlandese, nel modo in cui si rivolgevano un po' verso Harry, un po' verso di lui. Come se fossero il suo prolungamento, come se in realtà fosse quell'uomo a impugnare la pistola. Ciò che colpì Harry di lui non fu la sua bellezza quasi femminile. Né il fatto che le sue ciglia si distinguessero nettamente sia sopra sia sotto gli occhi, tanto da indurre il sospetto che se le truccasse. Né la forma squisita del naso, del mento, delle guance. Né i suoi capelli folti, scuri, grigi, ben pettinati e molto lunghi per lo standard della categoria. E nemmeno le numerose, piccole macchie bianche sulla pelle abbronzata, quasi si fosse esposto a una pioggia acida. A colpire Harry fu l'odio. L'odio con cui quell'uomo lo fissava, un odio talmente intenso che Harry ebbe l'impressione di sentirlo fisicamente, come qualcosa di bianco e di duro.
L'uomo si puliva i denti con uno stecchino. La sua voce era più acuta e calma di quanto Harry si fosse aspettato.
- Ti sei introdotto in una zona interdetta per un'indagine in corso, Hole.- Un fatto irreversibile, - ribatté Harry guardandosi intorno.
- Perché?
Harry guardò l'uomo, e intanto respingeva mentalmente una risposta dopo l'altra. 
Alla fine si rese conto di non averne nessuna.
Visto che a quanto pare sai chi sono, - disse. - Di chi ho il piacere di fare la conoscenza?
- Dubito che possa fare particolare piacere a qualcuno di noi, Hole. Perciò ti suggerisco di lasciare questo posto immediatamente e di non farti più vedere nelle vicinanze di una scena del crimine della Kripos. Mi hai capito?
- Be'. Ti ho sentito ma non completamente capito. E se posso dare un contributo alla polizia sotto forma di una dritta su come Marit Olsen...
- L'unico tuo contributo alla polizia, - lo interruppe la voce calma, - è stata la cattiva fama. Mi risulta che sei una spugna, un fuorilegge e un verme, Hole. Perciò la dritta che ti do io è di tornare strisciando sotto il sasso da cui sei uscito prima che qualcuno ti schiacci con il tacco della scarpa.
Harry guardò l'uomo e sentì che la testa e la pancia gli dicevano la stessa cosa: lascia perdere. Tirati indietro. Non puoi controbattere. Fatti furbo.
E gli sarebbe proprio piaciuto essere furbo, avrebbe davvero apprezzato quella qualità. Harry tirò fuori le sigarette: - E quel qualcuno saresti tu, Bellman? Perché tu sei Bellman, non è vero? Il genio che mi ha fatto pedinare da quella scimmia da sauna? - Harry indicò il finlandese con un cenno della testa. - A giudicare da quel tentativo, non ci riusciresti a mettere il tacco su... su... - Harry cercò febbrilmente di ricordare l'analogia, ma non gli venne. Maledetto jetlag. Bellman lo anticipò: - Adesso fila, Hole -. Il commissario capo agitò più volte il pollice oltre la propria spalla. - Su, su. Veloce, veloce.
- Io... - cominciò Harry.
- Troppo tardi, - ribatté Bellman con un ampio sorriso. - Sei in arresto, Hole.
- Come?
- Ti è stato intimato tre volte di sparire dalla scena del crimine, ma non hai obbedito. Mani dietro la schiena.
- Stammi bene a sentire! - ringhiò Harry con la strisciante sensazione di essere un ratto fin troppo prevedibile nel labirinto del laboratorio. - Voglio soltanto...
Berntsen, alias Beavis, lo tirò per un braccio facendogli cadere la sigaretta di bocca sulla terra bagnata. Harry si chinò a raccoglierla, ma il piede di Jussi lo colpì nella schiena sbilanciandolo in avanti. Batté la fronte e sentì il sapore di terra e di bile. E udì la voce calma di Bellman vicinissima all'orecchio: - Opponi resistenza all'arresto, Hole. Ti ho ordinato di mettere le mani dietro la schiena, o no? Ti ho ordinato di metterle qui...
Bellman posò con delicatezza una mano sul sedere di Harry. Harry inspirò ed espirò forte dal naso, senza muoversi. Perché sapeva esattamente a cosa mirava Bellman. Violenza a pubblico ufficiale. Due testimoni. Articolo 127. Pena: cinque anni. Game over. E nonostante tutto questo gli fosse chiaro come il sole, Harry sapeva che di lì a poco Bellman l'avrebbe avuta vinta. Perciò distolse l'attenzione, ignorò la risata-grugnito di Beavis e l'acqua di colonia di Bellman. Pensò a lei. A Rakel. Mise le mani dietro la schiena, sopra quella di Bellman, e girò la testa. Il vento aveva appena spazzato via la nebbia e in alto si vedeva la bianca, esile torre del trampolino stagliarsi contro il cielo grigio. Dalla piattaforma in cima qualcosa oscillava nel vento: una corda, forse.
Le manette scattarono con un clic sommesso.
Bellman li seguì con lo sguardo dal parcheggio di Middelthuns gate mentre la loro auto si allontanava. Il vento gli mordicchiava il cappotto.
L'agente di turno in guardina stava leggendo il giornale quando notò tre uomini davanti al banco.
- Ciao, Tore, - disse Harry. - Hai una camera con vista per non fumatori?
- Ciao, Harry. Quanto tempo -. L'agente prese una chiave dall'armadietto alle sue spalle e gliela porse. - La suite nuziale.
Harry notò la confusione di Tore quando Beavis si sporse in avanti, agguantò la chiave e ringhiò: - L'arrestato è lui, vecchio rimbambito.
Harry lanciò un'occhiata imbarazzata a Tore mentre le mani di Jussi gli perquisivano le tasche e tiravano fuori chiavi e portafoglio.
- Ti spiacerebbe chiamare Gunnar Hagen, Tore? E...
Jussi lo afferrò per le manette, facendogli affondare il metallo nella pelle, e Harry seguì i due barcollando all'indietro verso le celle della guardina.
Dopo averlo chiuso a chiave in un parallelepipedo di due metri e mezzo per un metro e mezzo, Jussi tornò da Tore per firmare i documenti, mentre Beavis si fermò davanti alle sbarre della porta a guardare Harry. Harry capì che voleva dirgli qualcosa e aspettò. E infine Beavis parlò, con voce tremante di collera repressa.
- Allora, che effetto fa? Essere stato un personaggio importante del cazzo, aver beccato due serial killer ed essere andato in televisione eccetera, e adesso starsene qui, dall'altra parte delle sbarre?
- Perché sei tanto arrabbiato, Beavis? - domandò Harry sottovoce e chiuse gli occhi. Si sentiva ondeggiare, come se fosse appena sceso a terra dopo un lungo viaggio per mare.
- Non sono arrabbiato. Ma quando mi trovo davanti uno stronzo che ha sparato a un bravo poliziotto, allora mi arrabbio a lui.
- Tre errori in una sola frase, - disse Harry e si distese sulla branda. - Prima di tutto si dice «con lui», secondo il commissario Waaler non era un «bravo poliziotto» e, terzo, non gli ho sparato, gli ho strappato un braccio. Qui, all'altezza della spalla -. 
Harry gli mostrò il punto.
Beavis aprì e strinse le labbra senza emettere il minimo suono. Harry richiuse gli occhi.
13. Ufficio 
Quando riaprì gli occhi, Harry era disteso sulla branda della guardina da due ore, e Gunnar Hagen stava armeggiando con la chiave per aprire.
- Mi dispiace, Harry, ero in riunione.
- Mi ha fatto molto comodo, capo, - disse Harry dalla branda, quindi si stiracchiò e sbadigliò. - Mi rilasciano?
Ho parlato con il politiadvokat , che ha dato il suo consenso. La custodia cautelare è una misura preventiva, non una pena. Ho saputo che sono stati due uomini della Kripos a sbatterti dentro. Che cosa è successo?
- Spero che me lo possa spiegare tu.
- Io?
- La Kripos mi pedina da quando sono atterrato a Oslo.
- La Kripos?
Harry si tirò a sedere e si passò una mano nella spazzola che aveva in testa. - Mi hanno seguito fino al Rikshospitalet. Mi hanno arrestato con un pretesto. Che sta succedendo, capo?
Hagen sollevò il mento e si tirò la pelle del collo. - Accidenti, avrei dovuto prevederlo.
- Prevedere cosa?
- Che sarebbe trapelato che stavamo provando a rintracciarti. Che Bellman avrebbe cercato di fermarci.
- Per favore, in parole povere?
- Come ti ho già detto, è una faccenda bella complicata. A monte ci sono la riduzione del personale e la razionalizzazione della polizia. La giurisdizione. La vecchia guerra. Anticrimine contro Kripos. La questione se in un paese piccolo come il nostro ci siano risorse sufficienti per due settori specializzati con competenze parallele. La discussione è divampata quando alla Kripos è stato nominato un nuovo comandante in seconda, un certo Mikael Bellman.
- Parlami di lui.
- Di Bellman? Scuola di polizia, breve servizio in Norvegia prima di finire nell'Europol all'Aia. Tornato alla Kripos come rampantino che mira in alto e in avanti. Ci sono stati problemi fin dal primo giorno, quando voleva assumere un ex collega dell'Europol, uno straniero.
- Era per caso finlandese?
Hagen annuì. - Jussi Kolkka. Diplomato poliziotto in Finlandia, ma non possiede nessuna qualifica ufficiale per entrare nella polizia norvegese. Il sindacato è andato su tutte le furie. Ovviamente, la soluzione è stata di assumere Kolkka a tempo determinato in regime di scambio. La mossa successiva di Bellman è stata mettere in chiaro che, secondo la giusta interpretazione del regolamento, nei casi di omicidio importanti spetta alla Kripos stessa stabilire se sono di sua competenza oppure del distretto di polizia, non il contrario. - E...?
- E ovviamente questo è assolutamente inaccettabile. Qui alla centrale abbiamo la sezione omicidi più grande del paese, e dobbiamo poter decidere noi di quali occuparci direttamente nel territorio di Oslo, per quali abbiamo bisogno di aiuto e quali intendiamo proporre alla Kripos. La Kripos è stata fondata per coadiuvare con il suo know-how i distretti nei casi di omicidio, ma evidentemente Bellman ha investito senza tanti complimenti la propria sezione della carica imperiale. Nella controversia è stato coinvolto il ministero della Giustizia. Che ha subito visto la possibilità di realizzare quello che ci sforziamo di evitare da tanto tempo: concentrare i casi di omicidio in una sola unità di competenza. Al ministero non piacciono le nostre argomentazioni sui pericoli della standardizzazione e degli orizzonti ristretti, sull'importanza della conoscenza del territorio e dell'allargamento delle competenze, sul reclutamento e...
- Grazie, ma non mi devi convertire.
Hagen alzò una mano. - Bene, ma il ministero della Giustizia sta lavorando a una proposta... - E...?
- Dicono che intendono essere pragmatici. Che bisogna sfruttare le poche risorse a disposizione nel miglior modo possibile. Se la Kripos è in grado di dimostrare che raggiunge i risultati migliori svincolata dai distretti di polizia...
- ... tutto il potere andrà a Bryn, - concluse Harry. - Un grande ufficio per Bellman e tanti saluti all'Anticrimine.
Hagen si strinse nelle spalle. - Qualcosa del genere. Quando il corpo di Charlotte Lolles è stato scoperto dietro la Datsun e abbiamo notato le corrispondenze con l'omicidio della ragazza nello scantinato dell'edificio in costruzione, la situazione si è esacerbata. La Kripos sosteneva che anche se i cadaveri erano stati trovati a Oslo, un duplice omicidio è di competenza sua e non della polizia di Oslo, e ha avviato le indagini per conto suo. Ha capito che la battaglia per l'appoggio del ministero si farà su questo caso.
- Quindi basterà risolvere il caso prima della Kripos?
- Ripeto, è una faccenda complicata. La Kripos si rifiuta di condividere le informazioni con noi, anche se è a un punto morto. E così si è rivolta al ministero. Il nostro capo ha ricevuto una telefonata in cui il ministero «auspicava» che la Kripos si occupasse di questo caso fino a quando non si fosse stabilita la divisione dei compiti per il futuro.
Harry scosse la testa lentamente. - Comincio a farmi un quadro della situazione. Voi siete stati colti dalla disperazione...
- Io non userei questa parola.
- ... al punto da riesumare Hole, il vecchio cacciatore di serial killer. Un outsider che non era più sul vostro libro paga, che poteva indagare sul caso in assoluto silenzio. Ecco perché non dovevo dire niente a nessuno.
Hagen sospirò. - È chiaro che Bellman lo ha scoperto lo stesso. E ti ha fatto pedinare.
- Per vedere se disattendevate le gentili disposizioni ministeriali. Per prendermi in castagna mentre leggevo vecchi rapporti o interrogavo vecchi testimoni.
- O, mossa ancora più efficace: per metterti fuori gioco. Bellman sa che basterebbe un solo passo falso, una sola birra in servizio, una sola violazione del regolamento, per farti sospendere.
- Mhm. O la resistenza all'arresto. Vuole portarlo avanti lui il caso, quello stronzo.
Gli parlerò. Lascerà perdere appena gli dirò che hai deciso di non occupartene. Non trasciniamo i poliziotti nel fango senza un motivo -. Hagen consultò l'orologio. Il lavoro mi aspetta. Dai, tiriamoti fuori di qui.
Uscirono dalla guardina, attraversarono il parcheggio e si fermarono all'ingresso della centrale di cemento e acciaio che troneggiava in cima al parco. Accanto, collegati all'edificio dal cordone ombelicale di una galleria sotterranea, si ergevano i vecchi muri grigi di Botsen, la casa circondariale di Oslo. Ai loro piedi, in direzione del fiordo e del porto, si stendeva il quartiere di Grønland. Le facciate erano sbiadite dall'inverno e sporche come dopo una pioggia di cenere. Giù al porto le gru si stagliavano contro il cielo come forche.
- Tutt'altro che un bel panorama, eh?
- Già, - rispose Harry inspirando l'aria.
- Però, nonostante tutto, questa città ha un certo non so che.
Harry annuì. - Sì, è vero.
Indugiarono per un po' oscillando sui tacchi con le mani in tasca.
- Fa freschetto, - disse Harry.
- Non mi sembra.
- Già, hai ragione. Ma il mio termostato è ancora regolato sulle temperature di Hong Kong.
- Capisco.
- Allora. Forse lassù hai un caffè? - Harry indicò il quinto piano con un cenno della testa. - Oppure il lavoro ti aspetta? Il caso Marit Olsen?
Hagen non rispose.
- Mhm, - continuò Harry. - Quindi Bellman e la Kripos si sono presi anche quello.
Harry fu accolto da qualche misurato cenno di saluto mentre percorreva i corridoi della zona rossa al quinto piano. Era si una leggenda in quell'edificio, ma non era mai stato benvoluto.
Passarono davanti a una porta su cui era incollato un foglio A4 con la scritta «I see dead people». Vedo i morti.
Hagen si schiarì la voce. - Ho dovuto assegnare l'ufficio a Magnus Skarre, siamo pigiati come sardine.
- Figurati, - disse Harry.
Presero ciascuno un bicchiere di carta con il famigerato caffè filtrato del cucinino.
Una volta nell'ufficio di Hagen, Harry si accomodò sulla sedia davanti alla scrivania del commissario capo, che aveva occupato tante volte.
- Ce l'hai sempre, vedo, - disse indicando con un cenno della testa un oggetto sulla scrivania che a prima vista sembrava un punto esclamativo bianco. Era un mignolo imbalsamato. Harry sapeva che era appartenuto a un comandante giapponese della Seconda guerra mondiale. Durante la ritirata il comandante si era mozzato il dito davanti ai suoi soldati per scusarsi di non poter tornare indietro a prendere i compagni caduti. Hagen era solito usare quell'aneddoto quando faceva prediche sulla leadership ai funzionari.
- E a te manca sempre -. Hagen indicò con un cenno la mano di Harry che stringeva il bicchiere di carta, priva del dito medio.
Lui annuì e bevve. Anche il caffè era quello di sempre. Asfalto liquido.
Fece una smorfia. - Mi occorrono tre persone.
Hagen bevve lentamente e posò il bicchiere. - Ti bastano?
- Me lo domandi sempre. Lo sai che non lavoro con grosse squadre.
- In questo caso non protesterò. Poca gente significa meno possibilità che la Kripos e il ministero della Giustizia vengano a sapere che indaghiamo sul duplice omicidio.
- Triplice, - puntualizzò Harry sbadigliando.
- Un momento, non sappiamo se Marit Olsen...
- Donna sola in giro di sera viene sequestrata e uccisa in modo non convenzionale. Per la terza volta nella piccola Oslo. Triplice. Credimi. Ma per quanti pochi siamo, sai che dovremo avere una fortuna sfacciata perché le nostre strade non incrocino per un verso o per l'altro quelle dell'esercito della Kripos.
- Sì, - convenne Hagen. - Me ne rendo conto. Perciò i patti sono che se l'indagine dovesse essere scoperta, l'Anticrimine non c'entra nulla.
Harry chiuse gli occhi. Hagen continuò: - Ovviamente, deploreremmo il fatto che sia coinvolto qualcuno dei nostri, ma metteremmo in chiaro che si tratta di un'iniziativa personale del famoso solista Harry Hole, presa a insaputa della direzione. E tu confermerai questa versione.
Harry riaprì gli occhi e lo fissò.
Hagen incrociò il suo sguardo. - Domande? - Sì.
- Prego.
- Dov'è la gola profonda?
- Pardon?
- Chi informa Bellman?
Hagen si strinse nelle spalle. - Non ho l'impressione che sia aggiornato passo passo sui nostri movimenti. Quanto al fatto che ti cercavamo può averlo subodorato da più parti.
- So che a Magnus Skarre piace parlare a proposito e a sproposito.
- Non farmi altre domande, Harry.
- Okay. Dove sistemiamo il quartier generale?
- Qui ti volevo. Qui ti volevo -. Gunnar Hagen annuì ripetutamente, come se fosse un argomento di cui parlavano da un bel po'. - Quanto all'ufficio...
- Sì?
- Come ti ho già detto, qua dentro stiamo come le sardine, perciò dobbiamo trovare un posto nelle vicinanze.
- Bene. E dove?
Hagen guardò fuori della finestra. Verso i muri grigi di Botsen.
- Stai scherzando!
14.  Reclutamento 

Bjørn Holm entrò nella sala riunioni della polizia scientifica di Bryn. Fuori delle finestre il sole stava allentando la presa sulle facciate per cedere la città al buio del pomeriggio, Il parcheggio era strapieno e, davanti all'ingresso della Kripos sul lato opposto della strada, sostava un pulmino bianco con una parabola sul tetto e il logo della radiotelevisione norvegese sulla fiancata.
L'unica persona presente nella stanza era il suo capo, Beate Lønn, una donna insolitamente pallida, minuta e schiva. Chiunque non fosse addentro alle segrete cose sarebbe stato indotto a pensare che una donna del genere avrebbe avuto problemi a dirigere un branco di tecnici adulti, molto professionali, sicuri di sé, sempre strani e mai timorosi davanti a un conflitto. Chiunque fosse addentro alle segrete cose, invece, sapeva che era l'unica persona in grado di gestirli. La rispettavano innanzitutto perché andava a testa alta dopo aver consegnato due poliziotti al turno eterno, prima suo padre e poi il padre di suo figlio, ma non solo. La rispettavano anche perché Beate Lønn era la migliore in assoluto e irradiava un'inattaccabilità, un'integrità e uno spessore grazie ai quali, quando sussurrava un ordine con lo sguardo basso e le guance arrossate, questo veniva eseguito immediatamente. Perciò Bjørn Holm si era presentato non appena era stato chiamato.
Era seduta vicinissima al televisore.
- Trasmettono la conferenza stampa in diretta, - gli disse senza voltarsi. - Accomodati.
Holm riconobbe subito le persone sullo schermo. Gli fece uno strano effetto essere là a guardare dei segnali televisivi che avevano percorso migliaia di chilometri avanti e indietro nello spazio solo per fargli vedere cosa succedeva in quel preciso istante nell'edificio di fronte.
Beate Lønn alzò il volume.
- Sì, ho capito perfettamente, - disse Mikael Bellman sporgendosi verso il microfono che stava sul tavolo davanti a lui. - Al momento non abbiamo né indizi né sospettati. E, lo ripeto ancora una volta: non escludiamo che la deceduta possa essersi suicidata.
- Ma hai detto... - intervenne una voce della stampa.
Bellman la interruppe. - Ho detto che nella nostra indagine consideriamo la morte sospetta. Sicuramente conosci la terminologia. In caso contrario, dovresti... - lasciò il resto della frase sospeso nell'aria e indicò qualcuno dietro la telecamera.
- «Stavanger Aftenblad», - belò lentamente una voce con un'inflessione del Rogaland. - La polizia ritiene che ci siano legami tra questo decesso e i due decessi di...
- No! Se fossi stato attento mi avresti sentito, quando ho detto che non escludiamo un nesso.
- Questo l'ho capito, - ribatté l'inflessione del Rogaland, con una lentezza imperturbata. - Ma probabilmente a noi qui presenti interessa di più cosa pensate di quello che non escludete.
Bjørn Holm vide Bellman fissare l'uomo con un fremito d'impazienza agli angoli della bocca. Una donna in divisa che gli stava accanto coprì il microfono con una mano, si sporse verso di lui e gli bisbigliò qualcosa. Il commissario capo divenne scuro in volto.
- Mikael Bellman sta ricevendo un corso lampo sulla gestione dei media, - disse Bjørn Holm. - Prima lezione: mai lisciarli contropelo, soprattutto quelli dei giornali locali.
- È un novellino, - disse Beate Lønn. - Imparerà.
- Ne sei convinta?
- Sì. Bellman è uno che impara.
- Ho sentito dire che è difficile imparare l'umiltà.
- Quella autentica. Ma farsi piccoli quando conviene è un principio fondamentale della comunicazione moderna. E adesso Ninni gli sta dicendo proprio questo. E Bellman è abbastanza intelligente da capirlo.
Sullo schermo televisivo Bellman si raschiò la gola, tirò fuori a forza un sorriso quasi infantile e si sporse verso il microfono. - Mi dispiace se sono sembrato un po' brusco, ma è stata una giornata lunga per tutti noi, e spero capiate che siamo ansiosi di riprendere le indagini su questa morte tragica. Adesso dobbiamo chiudere, ma se qualcuno ha altre domande, per favore le consegni a Ninni, e vi prometto che cercherò di ricontattarvi personalmente in serata. Prima della chiusura dei giornali. Vi sembra una proposta accettabile?
- Che ti avevo detto? - fece Beate con una risata trionfante.
- È nata una stella, - disse Bjørn Holm.
L'immagine televisiva implose e Beate Lønn si girò. - Mi ha telefonato Harry. 
Vorrebbe prenderti in prestito.
- Me? - domandò Bjørn Holm. - E per cosa?
- Lo sai. Mi hanno detto che eri all'aeroporto insieme a Gunnar Hagen quando è arrivato Harry.
- Ah -. Holm sorrise scoprendo tutti i denti, superiori e inferiori.
- Suppongo che Hagen abbia voluto utilizzarti nell'Operazione convincimento, visto che sei una delle poche persone con cui Harry lavora volentieri.
- Non ne abbiamo mai avuto l'occasione, e poi Harry ha rifiutato di occuparsi del caso.
- Adesso, invece, ha cambiato idea.
- Ah sì? E come mai?
- Non me lo ha detto. Mi ha detto soltanto che gli sembrava corretto interpellarmi.
- Naturale, sei il mio capo.
- Niente è naturale quando c'è di mezzo Harry. Come sai, lo conosco molto bene.
Holm annuì. Lo sapeva. Sapeva che Jack Halvorsen, fidanzato di Beate e futuro padre del bambino che aspettava, era stato ucciso mentre lavorava con Harry. Un gelido giorno d'inverno in mezzo alla strada a Grünerløkka, sgozzato. Holm era arrivato sul posto subito dopo. Il sangue caldo che era penetrato nel ghiaccio d'acciaio. La morte di un poliziotto. Nessuno aveva dato la colpa a Harry. Nessuno tranne Harry, ovviamente.
Si grattò le basette. - E tu cosa gli hai risposto?
Beate fece un respiro profondo e guardò i giornalisti e i fotografi che si riversavano fuori dalla sede della Kripos. - La stessa cosa che ora dico a te. Che per il ministero la Kripos ha la precedenza, e perciò mi è impossibile cedere tecnici se non a Bellman per questo caso.
- Ma?
Beate Lønn tamburellò forte con una penna Bic sul piano del tavolo. - Ma esistono altri casi oltre a questo duplice omicidio.
- Triplice, - precisò Holm, e quando Beate Lønn gli lanciò un'occhiata penetrante, aggiunse: - Credimi.
- Non so bene su cosa stia indagando il commissario Hole, comunque non si tratta di nessuno degli omicidi in questione, su questo, almeno, io e lui ci siamo chiariti, - disse Beate. - E a questo o questi casi, di cui ignoro la natura, sei ceduto. Per due settimane. Una copia del primo rapporto sul caso di cui vi occupate deve essere sulla mia scrivania tra cinque giorni lavorativi a partire da adesso. Intesi?
Dentro di sé, Kaja Solness sorrideva radiosamente e sentiva un bisogno quasi irresistibile di fare un giro o due sulla sedia girevole.
- Se Hagen dà l'okay, ovviamente io ci sto, - disse tentando di mantenere un tono controllato, ma colse l'esultanza nella propria voce.
- Per Hagen va bene, - disse l'uomo appoggiato allo stipite con un braccio sopra la testa, in modo da formare una diagonale nel vano della porta. - Saremo soltanto Holm, tu e io. E il caso a cui lavoreremo è riservato. Cominciamo domani, ci vediamo alle sette nel mio ufficio.
- Ehm... alle sette?
- Alle sette. Sette. Zero-sette-zero-zero.
- Capito. Quale ufficio?
L'uomo sogghignò e le spiegò dov'era.
Lei lo guardò incredula. - Avremo un ufficio in un carcere?
La diagonale si staccò dalla porta. - Presentati preparata. Domande? Kaja ne aveva tante, ma Harry Hole era già sparito.
Adesso il sogno ha cominciato a manifestarsi anche di giorno. In lontananza sento ancora la band che suona Love Hurts. Intuisco che un gruppo di uomini ci ha circondati, ma senza intervenire. Bene. La fisso. Guarda che hai fatto, provo a dirle. Guardalo adesso, lo vuoi ancora? Dio mio, quanto la odio, quanta voglia ho di tirarle il coltello fuori di bocca e conficcarglielo in corpo, di squarciarla, di vedere tutto riversarsi fuori: il sangue, le interiora, la menzogna, la stupidità, Il suo ottuso moralismo. Qualcuno dovrebbe farle vedere quant'è brutta dentro.
Ho seguito la conferenza stampa in Tv. Idioti buoni a nulla! Nessun indizio, nessun sospettato? Le prime preziose quarantott'ore, la clessidra si svuota; sbrigatevi, sbrigatevi. Che cosa volete che faccia? Che lo scriva sul muro col sangue?
Siete voi, non io a permettere che questi delitti continuino...
La lettera è ultimata.
Sbrigatevi.
15. Luci stroboscopiche 
Stine guardò il ragazzo che le aveva appena parlato. Aveva la barba, i capelli biondi e un berretto col pompon. Al chiuso. E il suo non era un berretto da casa, ma un copricapo pesante per tenere calde le orecchie. Un fissato dello snowboard? A proposito, a guardarlo meglio non era un ragazzo, ma un uomo. Sopra i trenta. Per lo meno la sua pelle abbronzata era solcata da rughe bianche.
- E allora? - gridò per coprire la musica che tuonava dall'impianto del Krabbe. Il locale aveva aperto da poco, strombazzando di essere il nuovo ritrovo per le giovani, rampanti schiere di musicisti, cinematografari e scrittori di Stavanger che di fatto erano diventati numerosi in quella città del petrolio, altrimenti tanto orientata al business e a contare i dollari. Chi faceva tendenza non aveva ancora deciso se il Krabbe meritasse il suo favore, col tempo si sarebbe visto. Così come Stine non aveva ancora deciso se quel ragazzo - quell'uomo - meritasse il suo.
- È solo che secondo me dovresti lasciarmene parlare, - disse lui con un sorriso rassicurante e la guardò con un paio d'occhi che le parvero troppo celesti. Ma forse era colpa delle luci del locale. Luci stroboscopiche? Erano cool? Col tempo si sarebbe visto. Lui si rigirò il bicchiere di birra in mano e si appoggiò di spalle al bancone del bar per costringerla a chinarsi in avanti se voleva sentire ciò che diceva, ma lei non abboccò. Anche se indossava un pesante piumino non si vedeva una sola goccia di sudore sul suo viso, sotto quel berretto ridicolo. O era cool?
- Pochissima gente si è fatta in moto la zona del delta in Birmania ed è tornata abbastanza viva da poterlo raccontare, - disse lui.
Abbastanza viva. Un tipo dalla lingua sciolta, quindi. Questo non le dispiaceva. Somigliava a qualcuno. All'eroe americano di qualche action movie in seconda visione o delle serie televisive anni Ottanta.
- Ho giurato a me stesso che se fossi tornato a Stavanger sarei uscito, mi sarei preso una birra, sarei andato dalla ragazza più bella che mi fosse capitata sotto gli occhi e le avrei detto esattamente quello che sto dicendo a te adesso -. Allargò le braccia e fece un gran sorriso bianco. - Secondo me sei la ragazza della pagoda azzurra.
- Cosa sono?
- Rudyard Kipling, tesoro. Sei la ragazza che aspetta il soldato inglese alla pagoda azzurra di Moulmein. Allora, cosa mi rispondi? Vieni a camminare a piedi nudi sul marmo a Shwedagon? A mangiare carne di cobra a Bago? Ad addormentarti ai richiami alla preghiera musulmani a Yangon e a svegliarti a quelli buddisti a Mandalay?
Lui fece un respiro profondo. Stine si chinò in avanti. - Quindi sarei la ragazza più bella di questo locale?
Lui si guardò intorno. - No, però hai le tette più grosse. Sei bella, ma hai troppa concorrenza per essere la più bella in assoluto. Andiamo?
Lei rise e scosse la testa. Non sapeva se fosse divertente o solo pazzo. - Sono con un gruppo di amiche. Prova il trucco con qualcun'altra. - Elias.
- Come?
- Ti stai chiedendo come mi chiamo. Nel caso dovessimo rivederci. E mi chiamo Elias. Skog. Il cognome lo dimenticherai, ma Elias ti rimarrà impresso. E ci rivedremo. Prima di quanto immagini, in effetti.
Lei inclinò la testa da una parte. - Ah si?
Lui inclinò la testa da una parte scimmiottandola. - Sì, certo.
Poi vuotò il bicchiere di birra, lo poggiò sul banco, le rivolse una risatina e se ne andò.
- Chi era quello? - le domandò Mathilde.
- Non lo so, - rispose Stine. - Era carino. Ma strano. Aveva l'accento dell'est.
- Strano?
- Aveva qualcosa di strano negli occhi. E nei denti. Ci sono le luci stroboscopiche qua dentro?
- Luci stroboscopiche?
Stine rise. - Sì, quelle specie di luci da solarium color dentifricio. Che ti fanno la faccia da zombi.
Mathilde scosse la testa. - Hai bisogno di un drink. Vieni.
Mentre seguiva l'amica Stine si girò verso l'uscita. Le era sembrato di vedere un viso premuto contro il vetro, ma non c'era nessuno.
16. Speed King 
Erano le nove di sera, e Harry stava camminando per il centro di Oslo. Aveva passato la giornata a portare sedie e tavoli nel nuovo ufficio. Nel pomeriggio era andato al Rikshospitalet, ma avevano accompagnato il padre a fare degli esami. Allora era tornato indietro, aveva copiato rapporti, risposto a qualche telefonata, prenotato un biglietto aereo per Bergen e fatto un salto in centro a comprare una carta Sim grande come un mozzicone di sigaretta.
Harry allungò il passo. Gli era sempre piaciuto: attraversare a piedi da est a ovest quella città compatta, notare i graduali ma inequivocabili cambiamenti della gente, della moda, delle etnie, degli stili architettonici, dei negozi, dei caffè, dei bar. Fece una capatina in un McDonald's, mangiò un hamburger, si infilò tre cannucce nella tasca del cappotto e proseguì.
Mezz'ora dopo aver lasciato il quartiere di Grønland, che sembrava un ghetto pakistano, si ritrovò nella zona occidentale, elegante, un po' asettica e bianca come la neve. L'indirizzo di Kaja Solness era Lyder Sagens gate e, come Harry scoprì, corrispondeva a una di quelle grandi e vecchie ville di legno davanti alle quali gli abitanti di Oslo si mettevano in fila le rare volte in cui ne veniva messa in vendita una. Non per comprare - quasi nessuno se le poteva permettere - ma per vedere, sognare e avere la conferma che Fagerborg fosse veramente quello che sembrava: un quartiere dove i ricchi non erano troppo ricchi, i soldi non erano troppo nuovi e nessuno aveva la piscina, la porta del garage ad apertura automatica o altri volgari ritrovati moderni. Perché qui i residenti facevano quello che avevano sempre fatto. D'estate si sedevano sotto i meli dei grandi giardini ombrosi, usando mobili da esterno vecchi, scomodi, pesanti e trattati con il mordente nero né più né meno delle ville da cui erano stati portati fuori. E quando venivano riportati dentro e le giornate si accorciavano, le luci si accendevano dietro le finestre a riquadri. In Lyder Sagens gate c'era un'atmosfera natalizia da ottobre a marzo.
Il cancello gemette talmente forte che c'era da sperare rendesse superfluo un cane. La ghiaia scricchiolò sotto i Doctor Martens. Era stato contento come un bambino quando aveva rivisto quegli anfibi nell'armadio, ma adesso erano completamente zuppi.
Salì la scala interna e suonò il campanello senza targa.
Davanti alla porta c'erano un paio di scarpe da donna e, accanto, un paio da uomo. Misura 46, dedusse Harry. A quanto sembrava, il marito di Kaja era grosso. Perché ovviamente aveva un marito, chissà come mai aveva creduto di no. Perché lo aveva fatto, giusto? Ma non importava. La porta si aprì.
- Harry? - Lei indossava una giacca di lana aperta e troppo grande, un paio di jeans lisi e pantofole di feltro talmente vecchie che Harry avrebbe scommesso che avessero le macchie di fegato. Niente trucco. Solo pura sorpresa sorridente. Eppure era come se sapesse che sarebbe venuto. Che l'avrebbe voluta vedere esattamente così. Certo, lui l'aveva già colta nel suo sguardo a Hong Kong, quell'attrazione che tante donne sentono per qualsiasi uomo con una fama, buona o cattiva. E non aveva nemmeno analizzato a fondo, una per una, le riflessioni che tutte insieme lo avevano condotto a quella porta. Tanto meglio, una fatica risparmiata. Quarantasei di piede. O quarantasei e mezzo.
- Ho avuto il tuo indirizzo da Hagen, - disse Harry. - Abiti a due passi da casa mia, così ho pensato di fare un salto invece di telefonarti.
Lei gli rivolse un sorriso sghembo. - Non hai il cellulare.
- Errore -. Harry tirò fuori dalla tasca un telefonino rosso. - Me lo ha dato Hagen, ma ho già dimenticato il Pin. Disturbo?
- No, no -. Kaja aprì completamente la porta, e Harry entrò.
Era patetico, ma il suo cuore aveva battuto un pochino più forte mentre aspettava che lei venisse ad aprire. Quindici anni prima si sarebbe irritato, ma ormai si era rassegnato ad accettare il fatto banale che la bellezza di una donna avrebbe sempre avuto quel piccolo potere su di lui.
- Ho messo su il caffè, ti va?
Erano entrati nel soggiorno. Le pareti erano tappezzate di foto e di scaffali talmente stipati di libri che Harry dubitava li avesse collezionati tutti da sola. La stanza aveva una netta impronta maschile: grossi mobili spigolosi, un mappamondo, un narghilè, dischi di vinile sui ripiani, carte geografiche e fotografie di alte montagne innevate alle pareti. Quei particolari indussero Harry a concludere che il marito doveva essere molto più anziano di lei. Un televisore era acceso con il volume al minimo.
- Marit Olsen è il titolo principale di tutti i notiziari, - disse Kaja, poi alzò un telecomando e lo schermo televisivo si spense. - Due leader dell'opposizione si sono fatti avanti chiedendo una soluzione in tempi rapidi, e hanno dichiarato che il governo ha sistematicamente demolito la polizia. La Kripos non potrà lavorare in pace nei prossimi giorni.
Harry si sedette sul divano. Sul tavolino, accanto a un paio di occhiali da lettura da donna, c'era un libro di John Fante aperto con la copertina in alto. Vicino c'erano alcune foto scattate allo Stadio del nuoto di Frogner. Non della scena del crimine, ma della folla che si era radunata a guardare fuori dello sbarramento. Harry grugnì soddisfatto. Non solo perché lei si era portata il lavoro a casa, ma perché le squadre incaricate dei sopralluoghi ancora scattavano foto del genere. A suo tempo era stato Harry a ordinare di fotografare sempre i presenti. Al corso dell'Fbi sugli omicidi seriali aveva imparato come non sia solo una leggenda che l'assassino torna sul luogo del delitto. Sia i fratelli King a Sant'Antonio sia l'uomo del K-Mart erano stati catturati proprio perché non avevano resistito alla tentazione di gustarsi gli effetti della loro opera, di vedere tutto il trambusto che avevano scatenato, di sentire quanto fossero invulnerabili. I fotografi della Scientifica lo chiamavano il sesto comandamento di Hole. E, sì, ce n'erano altri nove. Harry sfogliò le fotografie. - Non lo prendi con il latte, vero? - gridò Kaja dalla cucina.
- Sì.
- Veramente? A Heathrow...
- Volevo dire: «Sì, hai ragione, non lo prendo con il latte».
- Ah. Ti sei convertito al cantonese.
- Cosa?
- Hai smesso di usare la doppia negazione. Il cantonese è più logico. E a te piace la logica.
- È vero? Quello che hai detto a proposito del cantonese?
- Non lo so, - rispose lei dalla cucina con una risata. - Mi sto solo sforzando di sembrare intelligente.
Harry appurò che il fotografo era stato discreto, aveva scattato tenendo la macchina all'altezza dell'anca, senza flash. L'attenzione dei curiosi era rivolta alla torre del trampolino. Sguardi pigri, bocche semiaperte, quasi si annoiassero mentre aspettavano di intravedere qualcosa di raccapricciante, qualcosa per l'album dei ricordi, qualcosa con cui far inorridire il vicino di casa. Un uomo con un cellulare alzato stava indubbiamente scattando foto. Harry prese la lente d'ingrandimento che stava sulla pila di rapporti ed esaminò i visi a uno a uno. Non sapeva cosa cercare, il suo cervello era vuoto: il sistema migliore per non lasciarsi sfuggire quello che ci poteva essere.
- Trovato qualcosa? - Kaja si era fermata dietro la sua poltrona, chinandosi per vedere. Harry sentì un leggero profumo di sapone alla lavanda, lo stesso che aveva sentito sull'aereo quando lei si era addormentata con la testa sulla sua spalla.
- Mhm. Pensi che ci sia qualcosa da trovare qui? - le domandò prendendo la tazza di caffè. - No.
- E allora perché ti sei portata a casa queste foto?
- Perché il novantacinque per cento di ogni indagine consiste nel cercare nel posto sbagliato.
Aveva citato alla lettera il terzo comandamento di Harry.
- E per giunta devi fartelo piacere, questo novantacinque per cento. Altrimenti dài di testa.
Quarto comandamento.
- E i rapporti? - domandò Harry.
- Ovviamente abbiamo solo i nostri rapporti sugli omicidi di Borgny e di Charlotte, e lì non c'è nada. Nessuna traccia da analizzare, nessun testimone che abbia notato qualcosa di strano. Nessuno che fosse a conoscenza di nemici giurati, amanti gelosi, eredi avidi, stalker squilibrati, pusher impazienti o altri creditori. In poche parole...
- Nessun indizio, nessun movente palese, nessun'arma del delitto. Avrei voluto cominciare a interrogare qualcuno sul caso Marit Olsen, ma come sai di quello non ci occupiamo.
Kaja sorrise. - Certo. A proposito, oggi ho parlato con un giornalista della redazione politica di «VG». Ha detto che a nessuno dei loro cronisti parlamentari risultava che Marit Olsen soffrisse di depressione, crisi personali o idee suicide. Né che avesse nemici, sul lavoro o nella vita privata.
- Mhm.
Harry fece scorrere lo sguardo sulla schiera dei curiosi e sui loro volti. Una donna con lo sguardo da sonnambula e un bambino in braccio.
- Che cosa vuole questa gente?
Sullo sfondo: la schiena di un uomo che si stava allontanando. Piumino, berretto col pompon. - Farsi scioccare. Sconvolgere. Intrattenere. Purificare...
- Incredibile.
- Mhm. E come se non bastasse leggi John Fante. Ti piacciono le cose vecchiotte, eh? - Indicò con un cenno della testa la stanza, la casa. E si riferiva alla stanza, alla casa. Ma si aspettava che Kaja facesse commenti sul marito, se fosse davvero tanto più vecchio, come lui immaginava.
Lei lo guardò infervorata. - Hai letto John Fante?
- Quando ero giovane e in pieno periodo Bukowski, ho letto un suo romanzo di cui non ricordo il titolo. Penso di averli comprati più che altro perché Charles Bukowski era un suo fan dichiarato -. Consultò ostentatamente l'orologio. - Ah. E ora di tornare a casa.
Kaja guardò sorpresa prima lui poi la sua tazza di caffè intatta.
- Jetlag, - disse Harry con un sorriso e si alzò. - Ne riparliamo alla riunione di domani.
- Certo.
Harry si batté le tasche dei pantaloni. - A proposito, ho finito le sigarette. Quella stecca di Camel del duty free che hai portato per me...
- Aspetta qui, - disse lei con un sorriso.
Quando Kaja tornò con la stecca aperta, Harry stava nell'ingresso e si era messo il cappotto e gli anfibi.
- Grazie, - disse Harry. Tirò fuori un pacchetto e lo aprì.
Quando lui fu sulle scale, Kaja si appoggiò allo stipite della porta. - Forse non lo dovrei dire, ma ho come la sensazione che questa fosse una specie di prova.
- Una prova? - ripeté Harry accendendosi una sigaretta.
- Non ti chiederò in cosa consisteva, ma l'ho superata?
Harry fece una breve risata. - Sono venuto solo per questa Scese le scale sventolando la stecca. - Zero-sette-zero-zero.
Harry girò la chiave ed entrò in casa. Spinse l'interruttore appurando che non avevano ancora tagliato l'energia elettrica. Si tolse il cappotto, andò in soggiorno, mise su i Deep Purple, decisamente la sua band preferita nella categoria «involontariamente-buffo-ma-bellissimo». Speed King. Ian Paice alla batteria. Si lasciò cadere sul divano e si premette i polpastrelli contro le tempie. I cani alla catena tiravano. Ululavano, ringhiavano, cercavano di azzannare, straziavano le interiora con i denti. Se li avesse sciolti adesso, non sarebbe potuto più tornare indietro. Non questa volta. Prima aveva sempre avuto dei motivi sufficienti per smettere di bere. Rakel, Oleg, il lavoro, forse perfino suo padre. Adesso non li aveva più. Non poteva succedere. Niente alcol. Perciò doveva procurarsi uno sballo alternativo. Uno sballo controllabile. Grazie, Kaja. Non si vergognava? Certo che si vergognava. Ma l'orgoglio era un lusso che non sempre si poteva permettere.
Strappò il cellofan dalla stecca. Estrasse l'ultimo pacchetto in fondo. Quasi non si vedeva che il sigillo era stato manomesso. Era un dato di fatto che le donne come Kaja non venivano mai controllate alla dogana. Aprì il pacchetto e tirò fuori la stagnola. La svolse e fissò la sostanza marrone. Inspirò l'odore dolciastro.
Poi fece i preparativi.
Harry aveva visto fumare l'oppio in tutti i modi possibili, dalle complesse pratiche rituali delle fumerie, che erano vere e proprie cerimonie del tè cinesi, a diversi tipi di pipe fino al metodo più semplice: dar fuoco al panetto, infilarci una cannuccia e aspirare a più non posso mentre la ghiottoneria andava letteralmente in fumo. Lo scopo era comunque lo stesso: mandare in circolo quelle sostanze. Morfina, tebaina, codeina e un bouquet di altri agenti chimici amici. Il metodo di Harry era semplice. Fissava un cucchiaio d'acciaio al bordo del tavolo con lo scotch, vi sistemava dentro un frammento del panetto non più grande della capocchia di un fiammifero e lo scaldava con un accendino. Appena l'oppio cominciava a fumare, lo copriva con un normale bicchiere per raccogliere il fumo. Poi infilava una cannuccia, preferibilmente snodabile, nel bicchiere e aspirava. Harry notò che le sue dita si muovevano senza il minimo tremore. A Hong Kong controllava con regolarità il proprio grado di assuefazione: in un certo senso era il tossicodipendente più disciplinato che conoscesse. Riusciva a dosare in anticipo il proprio consumo di alcol e a rispettare il limite, per quanto sconvolto fosse. A Hong Kong aveva interrotto l'assunzione di oppio per una settimana o due, limitandosi a prendere un paio di paralgin forte che non bloccavano i sintomi dell'astinenza ma forse avevano un effetto psicologico, dal momento che, come sapeva, contenevano una quantità minima di morfina. Non era dipendente. Dalle sostanze in generale, sì, ma dall'oppio in particolare no. Chiaramente, però, dipendeva dal momento. Infatti, già mentre fissava il cucchiaino con lo scotch sentì che i cani si stavano calmando. Perché avevano capito, capito che fra poco avrebbero avuto quello che volevano.
E avrebbero trovato la pace. Fino alla prossima volta.
L'accendino arroventato già gli scottava le dita. Sul tavolo c'erano le cannucce del McDonald's.
Un minuto dopo prese la prima boccata.
L'effetto fu immediato. I dolori, inclusi quelli che non sapeva di avere, sparirono. 
Arrivarono le associazioni, le immagini. Quella notte sarebbe riuscito a dormire.
Bjørn Holm non riusciva a dormire.
Aveva provato a leggere la biografia di Hank Williams scritta da Escott sulla breve vita e lunga morte di quella leggenda del country, ad ascoltare un Cd pirata di Lucinda Williams al concerto di Austin e a contare vacche Longhorn texane, ma niente aveva fatto effetto.
Un dilemma. Ecco cos'era. Un problema senza una soluzione vera e propria. Il tecnico della Scientifica Holm odiava quel genere di problemi.
Si raggomitolò sul divano letto leggermente troppo corto che aveva traslocato con lui da Skreia insieme alla collezione di vinili di Elvis, dei Sex Pistols, di Jason & The Scorchers, tre abiti fatti da un sarto a Nashville, una Bibbia americana e una sala da pranzo che era sopravvissuta a tre generazioni di Holm. Ma non riusciva a concentrarsi.
Il dilemma consisteva nel fatto che aveva scoperto un particolare interessante quando avevano analizzato la fune con cui Marit Olsen era stata impiccata o, per meglio dire, decapitata. Non era una traccia che avrebbe necessariamente portato a qualcosa, ma il dilemma permaneva: era giusto riferire quell'informazione alla Kripos oppure a Harry? Bjørn Holm aveva trovato quelle minuscole conchiglie sulla corda mentre ancora lavorava per la Kripos. E anche quando aveva consultato un esperto di acque dolci all'istituto di Biologia dell'università di Oslo, la Uio, lavorava per la Kripos. Ma poi, prima che redigesse il rapporto, Beate Lønn lo aveva ceduto alla sezione di Harry. Così, quando l'indomani si sarebbe messo davanti al Pc, il rapporto avrebbe dovuto redigerlo per Harry.
Okay, quindi tecnicamente non era un dilemma, l'informazione apparteneva alla Kripos. Darla a qualcun altro avrebbe significato non adempiere al dovere. E in fondo, cosa doveva a Harry Hole? Gli aveva sempre procurato guai. Sul lavoro era capriccioso e insolente. Addirittura pericolosissimo quando era ubriaco. Ma in gamba da sobrio. Potevi star certo che ci dava dentro, e senza pose né arie da padrone. Un nemico feroce, ma un buon amico. Un uomo in gamba. Un uomo in gambissima. Un po' Hank, di fatto.
Bjørn Holm sbuffò e si girò verso il muro.
Stine si svegliò di soprassalto.
Il buio mormorava e scricchiolava. Si voltò su un fianco. Il soffitto era fiocamente illuminato, e la luce proveniva dal pavimento accanto al letto. Che ora era? Le tre di notte? Si sporse e raccolse il cellulare.
- Sì? - domandò con voce più assonnata di quanto non fosse.
- Dopo il delta ero stufo di serpenti e zanzare, e con la moto andai su a nord lungo la costa della Birmania fino ad Arakan.
Riconobbe subito la voce.
- Fino all'isola di Sai Chung, - continuò lui. - C'è un vulcano di fango attivo che stava per esplodere, e io l'avevo saputo. Eruttò la terza notte che ero là. Credevo che sarebbe venuto giù solo fango ma, non ci crederai, arrivò anche la cara, vecchia lava. Una lava densa che attraversò la città con una lentezza tale che facemmo in tempo ad allontanarci a piedi.
- È notte fonda, - disse lei sbadigliando.
- Però non si fermò. Mi pare che la chiamino lava fredda quando è così dura, ma bruciò tutto al suo passaggio. Alberi dalle tenere foglie verdi si ridussero in cenere e sparirono, ma per quattro secondi erano sembrati alberi di Natale. I birmani provarono a scappare con le automobili stipate di cose prese al volo, ma avevano impiegato troppo tempo a caricare, perché tanto la lava si avvicinava molto, ma molto lentamente! Quando uscirono con il televisore la lava era già arrivata ai muri delle case. Si precipitarono in macchina, ma il calore bucò gli pneumatici. Poi la benzina prese fuoco e si precipitarono fuori delle auto come tante fiaccole viventi. Ti ricordi come mi chiamo?
- Ascolta, Elias...
- Te lo avevo detto che te ne saresti ricordata.
- Devo dormire. Domani vado a scuola.
- Io sono un'eruzione come quella, Stine. Sono lava fredda. Mi muovo lentamente, ma è impossibile fermarmi. Ti raggiungerò.
Stine cercò di ricordare se gli avesse detto come si chiamava. E volse d'istinto lo sguardo verso la finestra. Era aperta. Fuori il vento sibilava pacifico, rassicurante.
La voce di lui era sommessa, un bisbiglio. - Vidi un cane che si era impigliato nel filo spinato cercando di scappare. Si trovava al centro del percorso della lava. Ma poi il flusso deviò a sinistra, sembrava che lo avrebbe mancato per un pelo. Un Dio pietoso, in un certo senso. Ma la lava lo sfiorò. Mezzo cane sparì, così, evaporò. Poi il resto prese fuoco. E allora anche quello si ridusse in cenere. Tutto diventa cenere.
- Uff, adesso riattacco.
- Guarda fuori. Guarda, sono già arrivato al muro di casa tua.
- Smettila!
- Sta' calma, ti sto solo prendendo in giro -. Scoppiò in una sonora risata nell'orecchio di Stine.
Stine rabbrividì. Doveva essere ubriaco. Oppure pazzo. O tutt'e due.
- Dormi bene, Stine. A presto.
La comunicazione si era interrotta. Stine fissò il telefonino. Poi lo spense e lo lanciò ai piedi del letto. Imprecò perché ormai ne era sicura. Quella notte non sarebbe più riuscita a dormire.
17. Fibre 
Erano le sei e cinquantotto. Harry Hole, Kaja Solness e Bjørn Holm percorsero la galleria, un corridoio sotterraneo lungo quattrocento metri che collegava la centrale alla casa circondariale di Oslo. A volte lo usavano per condurre i detenuti in centrale per gli interrogatori, altre per fare jogging d'inverno e, ai vecchi, brutti tempi, per pestare in gran segreto gli insubordinati.
Gocce d'acqua cadevano dal soffitto sul cemento producendo baci a schiocco che riecheggiavano per il corridoio mal illuminato.
- È qui, - disse Harry una volta che furono arrivati in fondo al corridoio.
- Qui? - domandò Bjørn Holm.
Dovettero abbassare la testa per passare sotto la scala che saliva alle celle di detenzione. Harry girò la chiave nella serratura e aprì la porta di ferro. Fu assalito da un odore di umidità calda e stantia.
Pigiò l'interruttore. Una fredda luce al neon azzurra cadde su uno stanzino quadrato di cemento con il pavimento coperto di linoleum grigio-azzurro e le pareti nude.
Non una finestra, una stufa, nessuno dei comfort prevedibili in un locale che deve fare da ufficio per tre persone.
A parte le scrivanie corredate di sedie e un Pc ciascuna. Sul pavimento c'erano una caffettiera elettrica bruciacchiata piena di macchie marroni e una tanica d'acqua.
- Le caldaie di tutto il carcere sono nella stanza qua di fianco, - disse Harry. - Ecco perché fa così caldo qui dentro.
- In fondo non è male, - commentò Kaja sedendosi a una delle scrivanie.
- Sì, certo, ricorda un po' l'inferno, - disse Holm. Si tolse la giacca scamosciata e si slacciò un bottone della camicia. - C'è campo per il cellulare qui dentro?
- Poco, - rispose Harry. - E c'è anche internet. Abbiamo tutto quello che ci serve.
- A parte le tazze per il caffè, - disse Holm.
Harry scosse la testa. Dalle tasche del cappotto estrasse tre tazze bianche che sistemò ciascuna su una scrivania. Poi tirò fuori un sacchetto di caffè dalla tasca interna e si avvicinò alla caffettiera.
- Le hai prese in mensa, - disse Bjørn alzando la tazza che Harry gli aveva messo davanti. - Hank Williams?
- È scritto con il pennarello, perciò fa' attenzione, - rispose Harry e strappò il sacchetto di caffè con i denti.
- John Fante? - lesse Kaja sulla sua tazza. - E tu, cos'hai?
- Per il momento niente, - rispose Harry.
- E perché?
- Perché ci dovrà essere scritto il nome del nostro sospettato principale del momento.
Gli altri due tacquero. La caffettiera eruttò rumorosamente.
- Voglio sul tavolo tre ipotesi prima che questa abbia finito, - disse Harry.
Erano alla seconda tazza di caffè e alla sesta ipotesi quando Harry interruppe la seduta.
- Okay, questo era l'esercizio di riscaldamento, tanto per sciogliere le circonvoluzioni cerebrali.
Kaja aveva appena lanciato l'idea che gli omicidi avessero un movente sessuale, che l'assassino fosse già stato condannato per reati simili, sapesse che la polizia aveva il suo Dna e perciò evitasse di versare sperma in terra, masturbandosi in un sacchetto o qualcosa del genere prima di lasciare il luogo del delitto, e che perciò dovessero cominciare a cercare nel casellario giudiziario e parlare con qualcuno della Buoncostume.
- Ma non pensi che potrebbe essere un'idea? - domandò Kaja.
- Io non penso niente, - rispose Harry. - Cerco di tenere la mente vuota e ricettiva.
- Ma penserai pur qualcosa?
- Sì. Penso che i tre omicidi siano stati commessi dalla stessa persona o dalle stesse persone. E penso che sia possibile trovare un nesso che ci porterà a un movente che a sua volta ci porterà al colpevole o ai colpevoli, se avremo una fortuna sfacciata.
- Fortuna sfacciata? Da come parli sembra che abbiamo ben poche speranze.
- Bene -. Harry si appoggiò allo schienale della sedia con le mani dietro la testa. - Sono state scritte intere biblioteche di letteratura specialistica su ciò che caratterizza i serial killer. Nei film la polizia interpella uno psicologo che dopo aver letto un paio di rapporti le fornisce un profilo che immancabilmente risulta corretto. La gente crede che un film come Henry, pioggia di sangue sia verosimile. Ma purtroppo nella realtà i serial killer differiscono tra loro come chiunque. Solo un particolare li distingue da tutti gli altri criminali.
- Ed è?
- Non si fanno catturare.
Bjørn Holm rise, capì che non era il caso e tacque.
- Ma non è possibile, no? - disse Kaja. - E allora...
- Stai pensando a quei casi in cui si è trovato un modus operandi e si è arrivati a catturare il colpevole. Ma pensa a tutti i delitti irrisolti che si continua a ritenere casi singoli, dove non si è mai scoperto alcun nesso. Migliaia.
Kaja distolse lo sguardo e fissò Bjørn, che annuì con aria d'intesa.
- Tu credi nel nesso? - domandò Kaja.
- Sì, - rispose Harry. - E lo dobbiamo trovare senza passare per gli interrogatori, che potrebbero tradirci.
- E allora, come?
- Quando ai servizi di sicurezza ipotizzavamo scenari pericolosi, non facevamo altro che cercare nessi possibili, senza parlare con anima viva. Avevamo un motore di ricerca messo a punto dalla Nato molto tempo prima che qualcuno sentisse parlare di Yahoo! e di Google. Con quello potevamo intrufolarci dovunque e passare al vaglio praticamente ogni cosa che avesse anche solo mezza connessione a internet. E dobbiamo farlo anche noi -. Consultò l'orologio. - E per questo tra un'ora e mezzo sarò su un aereo per Bergen. E fra tre ore parlerò con una collega disoccupata che spero potrà aiutarci. Perciò, vediamo di concludere questa riunione. Kaja e io abbiamo parlato un bel po', Bjørn. Tu cosa hai da dire?
Bjørn Holm saltò sulla sedia come se lo avesse svegliato. - Io? Ehm... poco e niente, temo.
Harry si strofinò la mascella con delicatezza. - Avrai pure qualcosa.
- No. Tanto noi della Scientifica quanto gli investigatori della squadra tattica non abbiamo un cavolo di niente, né sul caso Marit Olsen né sugli altri.
- Due mesi, - disse Harry. - Raccontamene un'altra.
- Te lo posso ripetere, - disse Bjørn Holm. - Per due mesi abbiamo analizzato, fatto i raggi X e ci siamo sguerciati a furia di guardare foto, campioni di sangue, capelli, unghie, eccetera. Abbiamo passato al vaglio ventiquattro teorie sul come e sul perché alle prime due vittime abbia fatto ventiquattro buchi in bocca, i cui prolungamenti convergevano tutti verso lo stesso centro. Senza trovare una risposta. Anche Marit Olsen aveva delle ferite in bocca: erano state praticate con un coltello a casaccio, anche se con decisione. In breve: nada.
- E i sassolini dello scantinato dove è stata rinvenuta Borgny?
- Analizzati. Parecchio ferro e magnesio, un po' di alluminio e di silicio. Una cosiddetta roccia basaltica. Porosa e nera. Ti dice qualcosa?
- Sia Borgny sia Charlotte avevano ferro e coltan sulla parte interna dei molari. Che cosa significa?
- Che sono state uccise con lo stesso maledetto congegno, ma questo non ci porta a capire meglio cos'era.
Pausa.
Harry si raschiò la gola. - Okay, Bjørn, sputa.
- Come?
- Quello su cui rimugini da quando siamo arrivati.
Il tecnico della Scientifica si grattò le basette mentre guardava Harry. Si schiarì la voce una volta. Due volte. Puntò gli occhi su Kaja come per cercare aiuto. Aprì la bocca, la richiuse.
- Bene, - disse Harry. - Allora passiamo a...
- Si tratta della fune.
Gli altri due fissarono Bjørn.
- Ho trovato dei molluschi sulla fune.
- Come? - disse Harry.
- Ma niente sale.
Continuarono a fissarlo.
- E un fatto molto strano, - continuò Bjørn. - Molluschi. D'acqua dolce.
- Quindi?
- Quindi ho consultato un biologo delle acque dolci. La conchiglia si chiama mollusco dello Jutland, è la più piccola delle anodonte ed è stata osservata solo in due laghi della Norvegia.
- Che sono?
- Øyeren e Lyseren.
- Nell'Østfold, - spiegò Kaja. - Sono vicini. Grandi.
- In una zona densamente popolata, - disse Harry.
- Mi dispiace, - disse Holm.
- Mhm. Qualche marchio sulla corda che indichi dove sia stata acquistata?
- No, ed è proprio questo, - disse Holm. - Non ci sono marchi. E non ho mai visto un tipo di fune simile. Le fibre sono solo organiche, niente nylon o altre materie artificiali.
- Canapa, - disse Harry.
- Come? - domandò Holm.
- Canapa. Corda e hashish vengono fatti con lo stesso materiale. Se hai voglia di una canna ti basta fare un salto giù al porto e dar fuoco agli ormeggi del traghetto per la Danimarca.
- Non era canapa, - disse Bjørn Holm coprendo la risata di Kaja. - Le fibre sono di olmo e di tiglio. Olmo, soprattutto.
- Corda norvegese fatta in casa, - disse Kaja. - Ai vecchi tempi nelle campagne la fabbricavano così la corda.
- Nelle campagne? - domandò Harry.
Kaja annuì. - Di solito ogni distretto rurale aveva almeno un cordaio. Si mettono i tronchi a mollo in acqua per circa un mese, poi si stacca la corteccia e si usa l'alburno che si trova all'interno. Si attorciglia fino a ottenere la corda.
Harry e Bjørn girarono le sedie verso Kaja.
- Che c'è? - domandò lei insicura.
- Be', - disse Harry. - Sono nozioni comuni che tutti dovrebbero possedere?
- Ah, ho capito, - disse Kaja. - Mio nonno fabbricava corde.
- Aha. E per fabbricare corde si usano l'olmo e il tiglio?
- In teoria si possono usare le fibre dell'alburno di qualsiasi tipo di legno.
- E le proporzioni?
Kaja si strinse nelle spalle. - Non sono una specialista, ma non credo che si usino diversi tipi di alburno per la stessa corda. Ricordo che Even, mio fratello maggiore, diceva che il nonno usava soltanto il tiglio perché assorbiva poca acqua. Così non c'era bisogno di incatramare le corde.
- Mhm, tu che dici, Bjørn?
- Se le corde miste sono una rarità, ovviamente sarà più facile risalire al luogo di produzione.
Harry si alzò e si mise a camminare avanti e indietro. Un cupo sospiro risuonava ogni volta che le suole di gomma si staccavano dal pavimento di linoleum. - Quindi possiamo supporre che la produzione fosse limitata e la vendita locale. Ti sembra un'ipotesi ragionevole, Kaja?
- Penso di sì.
- E possiamo anche supporre che il luogo di produzione e di utilizzazione fossero vicini. Queste corde fatte in casa non andavano lontano.
- Mi sembra che il ragionamento fili, ma...
- Allora partiamo da questo presupposto. Cominciate a mappare i produttori locali di corde nelle vicinanze di Lyseren e di Øyeren.
- Ma nessuno fabbrica più questo tipo di corde, - protestò Kaja.
- Fate del vostro meglio, - disse Harry, poi guardò l'orologio, prese il cappotto dallo schienale della sedia e si avviò verso la porta. - Scoprite dov'è stata fabbricata quella corda. Immagino che Bellman sia all'oscuro di questi molluschi dello Jutland. 
O no, Bjørn?
Bjørn Holm rispose con un sorriso forzato.
- Va bene se seguo la teoria dell'omicidio a sfondo sessuale? - domandò Kaja. - Potrei parlare con una persona che conosco alla Buoncostume.
- Negativo, - rispose Harry. - L'ordine generale di tenere la bocca chiusa sulla natura della nostra indagine vale soprattutto per i nostri cari colleghi della centrale. A quanto pare c'è una fuga di notizie tra la centrale e la Kripos, quindi l'unica persona con cui parliamo è Gunnar Hagen.
Kaja aveva aperto la bocca, ma uno sguardo di Bjørn la indusse a richiuderla.
- Però potresti fare un'altra cosa, - disse Harry. - Trovare un vulcanologo. E mandargli i risultati delle analisi di quei sassolini.
Le sopracciglia bionde di Bjørn si inarcarono notevolmente.
- Pietra nera porosa, roccia basaltica, - disse Harry. - Scommetto che è lava. 
Tornerò da Bergen verso le quattro.
- Salutami la centrale di Beeh-gen, - belò Bjørn levando la tazza di caffè.
- Non vado alla centrale, - disse Harry.
- Ah? E allora dove vai?
- All'ospedale di Sandviken.
- Sand...
La porta sbatté alle spalle di Harry. Kaja guardò Bjørn Holm che con un'espressione sbalordita fissava la porta chiusa.
- E che ci va a fare? - domandò lei. - A parlare con un medico legale?
Bjørn scosse la testa. - L'ospedale di Sandviken è un ospedale psichiatrico.
- Ah si? Allora deve parlare con uno psicologo specializzato in omicidi seriali o qualcosa del genere?
- Lo sapevo che avrei dovuto dire di no, - bisbigliò Bjørn ancora con lo sguardo incollato alla porta. - È matto da legare.
- Chi è matto?
- Lavoriamo in un carcere, - disse Bjørn. - Rischiamo di perdere il posto se il capo scopre a cosa stiamo lavorando, e quella collega di Bergen...
- Sì?
- Quella è matta davvero.
- Vuoi dire che è...
- Matta da ricovero coatto in un reparto chiuso. 
18. La Paziente 
Per ogni passo che il poliziotto alto faceva, Kjersti Rødsmoen ne doveva fare due. 
Ma ciononostante rimase indietro nel corridoio dell'ospedale di Sandviken. La pioggia cadeva a catinelle fuori delle alte, strette finestre affacciate sul fiordo, dove gli alberi erano talmente verdi da indurre a pensare che la primavera avesse preceduto l'inverno.
Il giorno prima Kjersti Rødsmoen aveva riconosciuto immediatamente la voce del poliziotto. Quasi si aspettasse la sua telefonata. E che le avrebbe fatto proprio quella richiesta: di poter parlare con la Paziente. La Paziente era stata ribattezzata così per garantirle il maggior anonimato possibile dopo gli omicidi di quasi un anno prima a cui aveva lavorato come agente investigativo, dopo che lo stress l'aveva rispedita dritta dritta nel posto da cui era venuta: il reparto psichiatrico. Certo, si era ristabilita molto in fretta, era tornata a casa, ma la stampa - che aveva un interesse isterico per quell'Uomo di neve nonostante il caso fosse bell'e risolto - non l'aveva lasciata in pace. E una sera di tre mesi prima la Paziente aveva telefonato a Kjersti Rødsmoen chiedendole di poter tornare.
- Quindi è in condizioni discrete? - chiese il poliziotto. - Sotto farmaci?
- Sì alla prima domanda, - rispose Kjersti Rødsmoen. - La seconda è coperta dal segreto professionale -. La verità era che la Paziente stava talmente bene che non erano più necessari né i farmaci né il ricovero. Ciononostante Rødsmoen aveva esitato a permettere al poliziotto di farle visita: anche lui si era occupato del caso Uomo di neve e avrebbe potuto riportare in superficie vecchie cose. A suo tempo, in veste di psichiatra, Kjersti Rødsmoen aveva finito col credere sempre di più nella rimozione, nell'incapsulamento delle cose, nell'oblio. Era un indirizzo misconosciuto nel suo campo. D'altro canto, l'incontro con una persona che aveva avuto a che fare proprio con quel caso poteva essere una buona prova per vedere fino a che punto la Paziente si fosse fortificata.
- Ti concedo mezz'ora, - disse Rødsmoen prima di aprire la porta della sala comune. - E ricordati che la mente è vulnerabile.
L'ultima volta che Harry aveva visto Katrine Bratt non l'aveva riconosciuta. La bella donna vicina ai trenta dai capelli scuri e dalla pelle e gli occhi ardenti aveva lasciato il posto a una persona che gli aveva fatto venire in mente un fiore vizzo: senza vita, rinsecchita, fragile, sbiadita. Aveva avuto la sensazione che avrebbe potuto spezzarle la mano se l'avesse stretta troppo forte.
Perciò si sentì sollevato vedendola adesso. Sembrava più vecchia, o forse era solo stanca. Ma quando sorrise e si alzò l'ardore era tornato nei suoi occhi.
- Harry H., - disse e lo abbracciò. - Come va?
- Discretamente, - rispose Harry. - E tu?
- Da schifo, - rispose lei. - Ma molto meglio.
Scoppiò a ridere, e Harry capì che aveva ritrovato se stessa. Almeno quanto bastava. - Che hai fatto alla mandibola? Ti fa male?
- Solo quando parlo e quando mangio, - rispose Harry. - E quando mi sveglio.
- Mi suona familiare. Sei più brutto di come ti ricordavo, però mi fa lo stesso piacere vederti.
- Altrettanto.
- Vuoi dire «altrettanto piacere», ma non «altrettanto brutta»?
Harry sorrise. - Ovviamente -. Si guardò intorno. Gli altri pazienti nella stanza se ne stavano seduti a fissare fuori della finestra, il proprio grembo o il muro. Ma nessuno sembrava interessarsi a lui e a Katrine.
Harry le raccontò cosa era successo dall'ultima volta in cui si erano visti. Di Rakel e di Oleg che si erano trasferiti a un domicilio sconosciuto all'estero. Di Hong Kong. Della malattia di suo padre. Del caso che aveva accettato. Lei addirittura rise quando le disse di non farne parola con nessuno.
- E tu? - domandò Harry.
- In realtà mi vogliono dimettere, secondo loro sono guarita e occupo un posto inutilmente. Ma qui mi trovo bene. Il servizio in camera fa schifo, però mi sento al sicuro. Ho la Tv e posso andare e venire come mi pare. Magari tra un mese o due tornerò a casa, chi lo sa?
- Chi lo sa?
- Nessuno. La pazzia va e viene. Cosa vuoi?
- Tu cosa vuoi che voglia?
Lo fissò a lungo prima di rispondere. - A parte scoparmi, voglio che tu abbia bisogno di me.
- Ed è esattamente quello che ho.
- Voglia di scoparmi?
- Bisogno di te.
- Merda. Però va bene. Di che si tratta?
- Avete un computer con accesso alla rete?
- Abbiamo un computer comune nella sala hobby, ma non è collegato a internet, non vogliono correre rischi. Lo usiamo solo per fare i solitari. Però in camera ho il mio.
- Usa quello in comune -. Harry si infilò una mano in tasca e lanciò la carta Sim dall'altra parte del tavolo. - Questo è un «ufficio mobile», come lo hanno chiamato al negozio. Devi solo inserirla...
- ... In una delle uscite Usb, - disse Katrine. Prese la carta e se la infilò in tasca. - Chi paga l'abbonamento?
- Io. Cioè, Hagen.
- Evviva, stasera si naviga. C'è qualche nuovo sito porno figo che dovrei conoscere?
- È probabile -. Harry spinse un fascicolo verso l'altra sponda del tavolo. - Qui ci sono i rapporti. Tre omicidi, tre nomi. Voglio che tu faccia la stessa cosa che hai fatto per il caso Uomo di neve. Scoprire nessi che ci sono sfuggiti. Conosci il caso?
- Sì, - rispose Katrine Bratt senza guardare la cartellina. - Erano tutt'e tre donne. Ecco il nesso.
- Quindi leggi i giornali...
- Solo un po'. Perché pensi che non siano semplicemente delle vittime casuali? - Io non penso niente, cerco.
- Però non sai cosa?
- Esatto.
- Ma sei sicuro che l'assassino di Marit Olsen e quello delle altre due sia la stessa persona? Il modus operandi era completamente diverso, a quanto ho capito.
Harry sorrise. Soprattutto del tentativo di Katrine di nascondere che aveva letto attentamente i dettagli riportati dai giornali. - No, Katrine, non sono sicuro. Però, da quello che dici, capisco che hai tratto le mie stesse conclusioni.
- Naturalmente. Eravamo anime gemelle, ricordi?
Rise, e di colpo ridiventò Katrine e non solo il relitto della brillante, eccentrica agente investigativa che Harry aveva fatto a malapena in tempo a conoscere prima che tutto andasse a catafascio. Con sua sorpresa, si sentì un groppo in gola. Maledetto jetlag.
- Pensi di potermi aiutare?
- A trovare qualcosa che la Kripos ha impiegato due mesi a non trovare? Con un computer di scarto nella sala hobby di un ospedale psichiatrico? Non so nemmeno perché me lo chiedi. In centrale c'è gente che ne sa molto più di me sulla ricerca dati.
- Sì, però io ho qualcosa che loro non hanno. Né gliela posso dare. La password per il sottosuolo.
Lei lo guardò perplessa. Harry si assicurò che nessuno potesse udirli.
- Ai tempi in cui lavoravo nei servizi di sicurezza, per il caso «Pettirosso» ebbi modo di accedere ai motori di ricerca che si usavano per rintracciare i terroristi. Si usavano le backdoor segrete che Milnet, la rete militare americana, aveva creato prima che con Arpanet, negli anni Ottanta, la rete si allargasse a usi commerciali. Come sai, Arpanet divenne internet, ma le backdoors ci sono ancora. I motori di ricerca utilizzano trojan che aggiornano password, codici e software una volta che sono riusciti a entrare. Prenotazioni di voli e alberghi, passaggi di barriere, bonifici on-line, questi motori vedono tutto.
- Ne ho sentito parlare, ma sinceramente non credevo che esistessero veramente, - disse Katrine.
- Esistono, eccome. Creati nel 1984. L'incubo orwelliano divenuto realtà. E il bello è che la mia password è ancora valida. Ho controllato.
- E allora a cosa ti servo io? Puoi farlo da solo.
- Solo i servizi possono utilizzare il sistema e, ripeto, unicamente in situazioni critiche. Proprio come su Google, quando cerchi dei dati sei rintracciabile. Se si dovesse scoprire che io o qualcun altro della centrale abbiamo usato quei motori, rischiamo di essere perseguiti a termini di legge. Ma se qualcuno dovesse tracciare la ricerca e risalire a un computer comune in un ospedale psichiatrico...
Katrine Bratt proruppe in una risata. L'altra, la variante cattiva, da strega. - Comincio a capire. In questo caso la mia qualifica principale non sarebbe quella della geniale agente investigativa Katrine Bratt, ma... - tese una mano, - della paziente Katrine Bratt. Perché, in quanto incapace di intendere e di volere, non può essere perseguita per nessuna ragione.
- Esatto, - disse Harry con un sorriso. - E perché sei una delle poche persone che sono sicuro terranno la bocca chiusa. E, anche se non sei geniale, hai comunque un'intelligenza al di sopra della media.
- Beccati tre dita macchiate di nicotina su per il tuo stretto buco del culo.
- Nessuno deve sapere cosa stiamo facendo. Ma ti giuro, siamo i Blues Brothers.
- «In missione per conto di Dio?» - citò lei.
- Ho scritto la password sul retro della carta Sim.
- Che cosa ti fa pensare che io riesca a usare quei motori di ricerca?
- È più o meno come usare Google, perfino io ci sono riuscito quando ero nei servizi -. Le rivolse un sorriso sghembo. - In fondo, quei motori sono fatti per i poliziotti.
Lei fece un profondo sospiro.
- Grazie, - disse Harry.
- Io non ho detto niente!
- Quando pensi di avere qualcosa per me?
- Va' al diavolo! - Katrine batté la mano sul tavolo. Harry notò che un infermiere si era girato a guardarli, poi incrociò lo sguardo furioso di Katrine. Aspettò.
- Non lo so, - bisbigliò lei. - Penso non sia il caso di starmene nella sala hobby a usare motori di ricerca illegali in pieno giorno, per dirla così.
Harry si alzò. - Okay, mi metterò in contatto con te fra tre giorni. - Non hai dimenticato qualcosa?
- Cosa?
- Di dirmi cosa me ne viene?
- Be', - rispose Harry allacciandosi il cappotto. - Adesso so cosa ti piacerebbe.
- Cosa mi pia... - L'espressione stupita di Katrine cedette allo sbigottimento quando cominciò a capire, e gridò dietro a Harry che già era diretto verso la porta: - Maledetto sfacciato che non sei altro! E sei pure un illuso!
Harry salì sul taxi, disse: «Aeroporto», tirò fuori il cellulare e vide che c'erano tre chiamate senza risposta di uno degli unici due numeri che aveva in rubrica. Bene, questo significava che avevano trovato qualcosa.
Richiamò il numero.
- Lyseren, - disse Kaja. - Là c'era una corderia fino a quindici anni fa, poi ha chiuso. L'agente della polizia rurale di Ytre Enebakk può mostrarci il posto oggi pomeriggio. Ci sono un paio di famigerati delinquenti nella zona, ma per robetta, furti con scasso e automobili. Più uno condannato per aver picchiato la moglie. Comunque mi ha mandato una copia del registro elettorale e adesso faccio un riscontro con il casellario giudiziario.
- Bene. Vienimi a prendere a Gardermoen, è di strada per Lyseren.
- Ma non è vero.
- Hai ragione. Vienimi a prendere lo stesso.
19. La sposa in bianco 
A dispetto della bassa velocità, la Volvo Amazon di Bjørn Holm sbandava e sobbalzava sulla stradina serpeggiante che attraversava e passava sopra i campi e i terreni dell'Østfold.
Harry dormiva sul sedile posteriore.
- Quindi nessun autore di reati sessuali dalle parti di Lyseren, - disse Bjørn.
- Nessuno che sia stato catturato, - lo corresse Kaja.
- Non hai visto l'inchiesta di «VG»? Un intervistato su venti ammette di aver commesso atti che si presterebbero a essere definiti abusi.
- La gente risponde a questo genere di domande dicendo la verità? Se fossi andato troppo in là con una donna penso proprio che, dopo, il mio cervello razionalizzerebbe tutto cancellando ogni traccia.
- Lo hai fatto?
- Io? - Bjørn sterzò e accelerò per superare un trattore.
- No. Io rientro tra i diciannove. Ytre Enebakk. Accidenti, com'è che si chiama quel comico della Tv che è di queste parti? Lo scemo del villaggio con una lente degli occhiali rotta e il motorino? Pinco Pallino di Ytre Enebakk. Una parodia da sbracarsi.
Kaja si strinse nelle spalle. Bjørn guardò nello specchietto, ma vide solo l'interno della bocca aperta di Harry.
Come d'accordo l'agente della polizia rurale di Ytre Enebakk li aspettava vicino all'impianto di depurazione di Vøyentangen. Parcheggiarono, il poliziotto si presentò come Skai - un nome che soprattutto Bjørn Holm parve apprezzare - e lo seguirono fino a un pontile galleggiante dove era attraccata una dozzina di barche che beccheggiavano nell'acqua calma.
- È presto per mettere la barca in acqua, - disse Kaja.
- Quest'anno il ghiaccio non è proprio arrivato, né arriverà, - disse l'agente. - Da quando sono nato è la prima volta che succede.
Salirono su un barchino largo e dal fondo piatto, Bjørn con più prudenza degli altri.
- L'acqua è bassa in questo punto, - disse Kaja mentre il poliziotto scostava l'imbarcazione dal pontile con una pertica.
- Già, - rispose lui, abbassando lo sguardo sull'acqua e avviando il motore con uno strappo deciso alla corda. - Però la corderia si trova laggiù, dalla parte dove l'acqua è profonda. Una strada porta quasi fino alla fabbrica, ma il terreno è talmente scosceso che l'unico modo per arrivarci è in barca -. Spostò in avanti la leva sul lato del motore. Un uccello di specie imprecisata si alzò in volo da un albero del bosco di conifere emettendo strida d'avvertimento.
- Odio il mare, - disse Bjørn a Harry, che a malapena riuscì a distinguere la voce del collega nel martellio del fuoribordo a due tempi. Scivolarono nella grigia luce pomeridiana in un canale che attraversava un canneto alto due metri. Passarono silenziosamente davanti a un mucchio di ramoscelli che Harry immaginò fosse una tana di castoro poi proseguirono per un viale di alberi simili a mangrovie.
- Questo è un lago, - disse Harry. - Non il mare.
- Stessa porcheria, - disse Bjørn spostandosi verso il centro del banco. - Datemi terraferma, sterco di vacca e roccia solida.
Il canale si allargò ed ecco stendersi davanti ai loro occhi il Lyseren. Passarono accanto a isole e isolotti con casupole per le vacanze spopolate dall'inverno, le cui finestre buie sembravano fissarli con sguardi accorti.
- Casupole spartane, - disse il poliziotto. - Qui si evita lo stress delle spiagge più quotate, dove bisogna fare a gara con il vicino a chi ha la barca più grande e la veranda più bella -. Sputò in acqua.
- Com'è che si chiama quel personaggio comico della Tv che è di Ytre Enebakk? - gridò Bjørn per coprire il rombo del motore. - Lente degli occhiali rotta. Motorino. Il poliziotto rurale fissò inebetito Bjørn Holm e scosse lentamente la testa.
- La corderia, - annunciò.
A prua, sulla terraferma, proprio in riva al lago, Harry scorse un vecchio e solitario edificio oblungo di legno che sorgeva sotto una scarpata scoscesa ed era cinto su entrambi i lati da un bosco fitto. Accanto alla costruzione un binario costeggiava il ripido fianco della montagna e spariva nell'acqua nera. La vernice rossa si staccava dai muri, che al posto delle finestre e della porta avevano vani vuoti. Harry strizzò gli occhi. Nella luce morente sembrava che una persona vestita di bianco li fissasse da una finestra.
- Oh, Gesù! Sembra proprio una casa dei fantasmi, - disse Bjørn ridendo.
- Così dicono, - convenne l'agente Skai e spense il motore.
Nel silenzio improvviso udirono l'eco della risata di Bjørn sulla riva opposta e il suono di un lontano, solitario campanaccio di pecora raggiungerli sopra l'acqua.
Kaja afferrò la cima, saltò a terra e con gesti esperti la fissò con un mezzo nodo a un palo marcio coperto di vegetazione verde che spuntava tra le ninfee.
Scesero dal barchino e salirono sui massi che fungevano da pontile. Varcarono il vano della porta e si ritrovarono in un locale lunghissimo, stretto e vuoto che puzzava di catrame e di urina. Visto da fuori, l'edificio traeva in inganno perché le sue estremità sparivano nel bosco fitto: era profondo poco più di due metri, ma ne doveva misurare oltre sessanta di larghezza.
- Si mettevano ai due capi dell'edificio e torcevano la corda, - spiegò Kaja prima che Harry facesse in tempo a domandare.
In un angolo c'erano tre bottiglie di birra vuote e tracce di un falò mancato. Sulla parete di fronte, davanti a un paio di assi mezze staccate, era appesa una rete da pesca.
- Dopo Simonsen nessuno ha voluto continuare il mestiere, - disse il poliziotto guardandosi intorno. - Da allora questo posto è abbandonato.
- A cosa serve il binario sul lato dell'edificio? - domandò Harry.
- A due cose. A calare e issare la barca su cui il cordaio portava il legname. E a tenere i tronchi sott'acqua quando dovevano stare a mollo. Fissava i tronchi al vagonetto di ferro che sicuramente è lassù, nella rimessa delle barche. Poi spingeva il vagonetto sott'acqua e lo ritirava fuori dopo qualche settimana, una volta che il legno si era ammorbidito. Un tipo pratico, Simonsen.
Trasalirono tutti quando si udì uno schianto improvviso nel bosco proprio dall'altra parte del muro.
- Pecore, - disse il poliziotto. - O cervi.
Lo seguirono su per una stretta scala di legno fino al piano superiore. Al centro c'era un tavolo lunghissimo. Entrambi i lati della stanza si perdevano nel buio come due corridoi. Il vento entrava dalle finestre orlate di vetri rotti lungo i telai, fischiava sommessamente agitando il velo da sposa tarlato della donna. Un mezzobusto che scrutava il lago. Sotto la testa e il torso si prolungava lo scheletro: una struttura di ferro nero su ruote.
- Simonsen la usava come spaventapasseri, - disse Skai indicando con un cenno della testa il manichino.
- È molto sinistra, - disse Kaja fermandosi accanto al poliziotto e rabbrividendo sotto la giacca.
L'uomo la guardò in tralice e fece un sorriso sghembo.
- I ragazzini della zona ne erano terrorizzati. Gli adulti raccontavano che con la luna piena girava nei dintorni e dava la caccia all'uomo che l'aveva piantata in asso il giorno delle nozze. E che il cigolio delle ruote annuncia il suo arrivo. Sai, io sono cresciuto proprio qui vicino, a Haga.
- Veramente? - domandò Kaja, e Harry sorrise sotto i baffi.
- Già, - rispose Skai. - E poi questa qui è stata l'unica donna della vita di Simonsen. Era un lupo solitario, capito. Ma le corde le sapeva fare, eccome.
Alle loro spalle Bjørn Holm tirò giù un rotolo di corda che era appeso a un chiodo.
- Ho detto che potevi toccare qualcosa? - domandò il poliziotto rurale senza girarsi.
Bjørn si affrettò a rimettere la corda al suo posto.
- Okay, capo, - disse Harry e accennò un sorriso a Skai.
- Possiamo toccare qualcosa?
L'agente lo soppesò con un'occhiata. - Non mi avete ancora spiegato di che caso si tratta.
- È coperto dal segreto d'ufficio, - rispose lui. - Mi dispiace. Reati finanziari. 
Capisci.
- Ah sì? Se sei l'Harry Hole che penso io, ti occupi di omicidi.
- Be', - rispose Harry. - Adesso mi occupo di insider trading, evasione fiscale e frodi. Nella vita si fanno progressi.
L'agente rurale Skai strizzò un occhio. Un uccello stridé di nuovo.
- Ovviamente hai ragione, Skai, - disse Kaja con un sospiro. - Ma sono io che devo richiedere il mandato di perquisizione al politiadvokat. Come sai, siamo sotto organico e risparmierei un sacco di tempo se potessimo semplicemente... - Sorrise con i suoi dentini aguzzi e indicò il rotolo di corda con un cenno della testa.
Skai la guardò. Oscillò un paio di volte sui tacchi degli stivali di gomma. Poi annuì.
- Vi aspetto nel barchino, - disse.
Bjørn si mise subito al lavoro. Sistemò il rotolo di corda sul tavolo, aprì lo zainetto che aveva portato con sé e accese una lampada tascabile da cui pendeva un filo terminante in un amo da pesca, che fissò tra due assi del soffitto. Tirò fuori il laptop, un microscopio portatile che per forma e dimensioni sembrava un martello, lo collegò all'uscita Usb, controllò che lo schermo mostrasse le immagini del microscopio poi aprì una foto che aveva caricato sul portatile prima di partire.
Harry si mise accanto alla sposa a scrutare il lago. Nel barchino ardeva la punta di una sigaretta. Guardò le rotaie che finivano nel lago. La parte dove l'acqua era profonda. A Harry non era mai piaciuto fare il bagno nell'acqua dolce, soprattutto dalla volta in cui lui e Øystein avevano marinato la scuola ed erano andati a Hauktjern, nell'Østmarka, dove si erano tuffati dalla Rupe del diavolo, che si diceva fosse alta dodici metri. Un attimo prima di toccare la superficie, Harry aveva visto una vipera scivolare nell'acqua sottostante; poi era stato inghiottito da un'oscurità verde bottiglia, gelida, e in preda al panico aveva ingoiato mezzo lago convinto che non avrebbe mai più rivisto la luce del sole né respirato l'aria.
Dal profumo Harry capì che Kaja era dietro di lui.
- Bingo! - udì Bjørn Holm esclamare sottovoce alle sue spalle.
Harry si voltò. - Lo stesso tipo di corda?
- Senza il minimo dubbio, - rispose Bjørn mentre teneva il microscopio a martello puntato sul capo della corda e scattava foto ad alta definizione. - Tiglio e olmo. Fibre di uguale spessore e lunghezza. Ma il «bingo» era per altro. Questa corda è stata tagliata di fresco.
- Cosa?
Bjørn indicò lo schermo. - La foto a sinistra è quella che ho portato. Mostra il taglio della corda trovata allo Stadio del nuoto di Frogner, ingrandito venticinque volte. E su questa corda ho una perfetta...
Harry chiuse gli occhi per assaporare meglio la parola che aspettava.
- ... Corrispondenza.
Continuò a tenere gli occhi chiusi. La corda che era servita a impiccare Marit Olsen non solo era stata fabbricata qui, ma era stata recisa da quella che avevano sotto gli occhi. Recisa di fresco. Poco tempo prima, lui era stato là dove erano loro adesso. Harry annusò l'aria.
L'oscurità aveva inghiottito ogni cosa. Quando andarono via Harry riuscì a malapena a distinguere qualcosa di bianco nel vano della finestra.
Kaja si sedette a prua insieme a lui. Dovette avvicinarglisi molto per coprire il rombo del motore.
- La persona che ha preso la corda laggiù deve conoscere questo posto. E non ci possono essere molti passaggi tra questa persona e l'omicida...
- Secondo me non c'è nessun passaggio, - disse Harry. - Il taglio era fresco. E non ci sono molti motivi per cui una corda debba passare di mano.
- Una persona pratica del posto, che abita o ha una casetta per le vacanze da queste parti, - pensò Kaja ad alta voce. - Oppure che è cresciuta qui.
- Ma per quale motivo andare fino alla corderia abbandonata per procurarsi qualche metro di corda? - chiese Harry. - Quanto costa una corda lunga in un negozio? Duecento corone?
- Forse si trovava nelle vicinanze e sapeva che li poteva trovare della corda.
- Okay, ma «nelle vicinanze» significa che doveva abitare in una delle casupole nei paraggi. Perché da tutte le altre case il tragitto in barca per arrivare alla corderia sarebbe troppo lungo. Mi fai...
- Sì, faccio un elenco dei vicini. A proposito, sono anche riuscita a rintracciare un vulcanologo, come mi avevi chiesto. Un nerd dell'istituto di Geologia. Felix Røst. A quanto pare è un appassionato di volcano-spotting. Gente che gira il mondo per vedere i vulcani, le eruzioni e compagnia bella.
- Ci hai parlato?
- Solo con la sorella, che vive con lui. Mi ha detto di mandargli una e-mail o un Sms, è l'unico modo in cui comunica suo fratello, mi ha spiegato. Lui non c'era perché era andato a giocare a scacchi. Gli ho mandato i sassolini e i dati.
Avanzavano lentamente nel canale poco profondo verso il pontile. La lampada tascabile in mano a Bjørn faceva da lanterna e da guida nella rada nebbia sospesa sull'acqua. Il poliziotto rurale spense il motore.
- Guarda! - bisbigliò Kaja avvicinandosi ancora di più a Harry. Lui ne sentì il profumo mentre con lo sguardo seguiva il suo indice. Tra le canne dietro il pontile un grosso, candido cigno solitario apparve dal velo di nebbia nel cono di luce della lampada.
- Non ti sembra... bello? - gli bisbigliò estasiata, poi rise e gli strinse forte la mano.
Skai li accompagnò all'impianto di depurazione. Erano saliti sull'Amazon e stavano per partire quando Bjørn tutto concitato abbassò il finestrino e gridò dietro al poliziotto rurale: - Fritjof!
Skai si fermò e si girò lentamente. La luce di un lampione gli lambì il massiccio viso inespressivo.
- Il comico televisivo, - gridò Bjørn. - Fritjof di Ytre Enebakk.
- Ytre Enebakk? - domandò Skai e sputò. - Mai sentito.
Quando, venticinque minuti dopo, l'Amazon imboccò la strada europea nei pressi dell'inceneritore di Grønmo, Harry aveva preso una decisione.
- Dobbiamo far trapelare questa informazione alla Kripos, - disse.
- Cosa? - domandarono in coro Bjørn e Kaja.
- Parlerò con Beate, così lei potrà riferirgliela in modo da far sembrare che siano stati i suoi della Scientifica e non noi a scoprire la faccenda della corda.
- Perché? - chiese Kaja.
- Se l'assassino abita nei dintorni di Lyseren, bisognerà organizzare una battuta porta a porta. Noi non abbiamo né i mezzi né gli uomini per farlo.
Bjørn Holm diede una manata sul volante.
- Lo so, - disse Harry. - Ma l'importante è che venga catturato, non chi lo cattura. Proseguirono in silenzio con la nota falsa di quelle parole sospesa nell'aria.
20. Øystein 
Avevano tagliato la corrente. Harry si fermò nell'ingresso e pigiò l'interruttore un paio di volte. Fece la stessa cosa in soggiorno.
Poi si sedette nella bergère a fissare nel buio.
Dopo un po' squillò il cellulare.
- Hole.
- Felix Røst.
- Ah si? - domandò Harry, perché la voce sembrava quella di una donna piccola e vispa.
- Sono Frida Larsen, sua sorella. Mi ha chiesto di telefonarvi e dirvi che le pietre che avete trovato sono di lava mafica, basaltica. Va bene?
- Un momento! Che significa? Mafica?
- Che si tratta di lava calda, con una temperatura oltre i mille gradi e bassa viscosità, per cui è poco densa e si spande in un ampio raggio durante l'eruzione. - E possibile che provenga da Oslo?
- No.
- Perché no? Oslo è costruita sulla lava.
- Quella è lava vecchia. Questa qui è fresca.
- Fresca quanto?
La udì coprire il ricevitore e parlare con qualcuno. Una sola persona, Harry non sentì altre voci. Però la donna doveva aver ricevuto una risposta perché poco dopo spiegò: - Tra i cinque e cinquant'anni, mi dice lui. Ma se pensate di scoprire da quale vulcano proviene, vi aspetta un bel lavoro. Sulla Terra ci sono oltre cinquecento vulcani attivi. E il numero riguarda soltanto quelli noti. Se volete sapere altro, potete contattare Felix per e-mail. La tua assistente ha l'indirizzo.
- Ma...
La donna aveva già riagganciato.
Harry fu tentato di richiamarla, ma cambiò idea e compose un altro numero.
- Oslo Taxi.
- Ciao, Øystein, sono Harry H.
- Stai scherzando, Harry H. è morto.
- Non completamente.
- Okay, allora sono morto io.
- Ti va di accompagnarmi da Sofies gate su alla casa della mia infanzia?
- No, però lo faccio lo stesso. Devo solo finire questa corsa -. Øystein rise e tossì. - Harry H.! Porca miseria... ti chiamo appena arrivo.
Harry riagganciò, andò in camera da letto e preparò una borsa alla luce del lampione fuori della finestra, poi tornò in soggiorno a prendere un paio di Cd facendosi luce con il display del cellulare. La stecca di sigarette, le manette, la pistola d'ordinanza.
Si sedette nella bergère e approfittò del buio per esercitarsi con il revolver. Avviò il cronometro dell'orologio, estrasse il tamburo del suo Smith & Wesson, lo vuotò e lo ricaricò. Quattro cartucce fuori, quattro dentro, niente caricatore rapido, solo dita leste. Reinserì il tamburo in modo che la prima cartuccia fosse nella prima camera. Stop. Nove e sessantasei. Quasi tre secondi sopra il suo record personale. Aprì il tamburo. Aveva toppato. La prima camera pronta a fare fuoco era una delle due vuote.
Era morto. Ripeté l'esercizio. Nove e cinquanta. Di nuovo morto. Venti minuti dopo, quando telefonò Øystein, era sceso a otto secondi ed era morto sei volte.
- Arrivo, - disse Harry.
Andò in cucina. Guardò lo sportello dell'armadietto sotto il lavello. Indugiò. Poi staccò le foto di Rakel e di Oleg e se le infilò nella tasca interna.
- Hong Kong? - domandò sbuffando Øystein Eikland. Girò il suo viso disfatto dall'alcol con il brutale nasone e i tristi baffi spioventi verso Harry seduto sul sedile del passeggero. - Che cazzo ci sei andato a fare?
- Mi conosci, - rispose Harry mentre Øystein si fermava al semaforo rosso davanti all'hotel Sas Radisson.
- No che non ti conosco, accidenti, - ribatté Øystein spargendo tabacco nella cartina. - Come potrei?
- Be', siamo cresciuti insieme. Ricordi?
- E con ciò? Merda, già allora eri un mistero, Harry.
Lo sportello posteriore si aprì di colpo e salì un uomo che indossava un completo. 
- Byporten, il treno per l'aeroporto. Presto.
- Occupato, - rispose Øystein senza voltarsi.
- Sciocchezze, il segnale sul tetto è acceso.
- Che figata, Hong Kong. Perché sei tornato?
- Scusa, - disse l'uomo sul sedile posteriore.
Øystein si infilò la sigaretta tra le labbra e l'accese.
- Tresko mi ha chiamato per invitarmi a una rimpatriata tra amici stasera.
- Tresko non ha amici, - puntualizzò Harry.
- No, vero? Perciò gli ho domandato: «E chi sarebbero i tuoi amici?» «Tu», mi ha risposto, e poi mi ha chiesto: «E i tuoi, Øystein?» «Tu», ho risposto io. Quindi, siamo noi due. Ci eravamo completamente dimenticati di te, Harry.
Ecco cosa succede quando te ne vai a... - sporse le labbra a imbuto e con voce staccata pronunciò: - Hong Kong!
- Ehi! - disse l'uomo sul sedile posteriore. - Se avete finito, forse potremmo...
Scattò il verde, e Øystein accelerò.
- Allora, vieni? Ci vediamo da Tresko.
- La sua casa puzza di piedi, Øystein.
- Ha il frigo pieno.
- Mi dispiace, non sono di umore festaiolo.
- Umore festaiolo? - sbuffò Øystein e batté il palmo contro il volante. - Tu non hai idea di cosa sia l'umore festaiolo, Harry. Non ci venivi mai alle feste. Ricordi? Avevamo comprato le birre, dovevamo andare a Nordstrand in un posto elegante, pieno di donne. Poi tu proponesti che noi tre andassimo su ai bunker a bere da soli.
- Ehi, questa non è la strada per andare a prendere il treno per l'aeroporto! - udirono sibilare dal sedile posteriore.
Øystein frenò di nuovo al rosso, con uno scatto della testa gettò da una parte i capelli spettinati e lunghi fino alle spalle e si girò. - E ci andammo. E ci prendemmo una sbornia colossale, e questo qui si mise a cantare No Surrender finché Tresko non cominciò a tirargli le bottiglie vuote.
- Per favore! - piagnucolò l'uomo battendo l'indice contro il vetro di un orologio Tag Heuer. - Devo assolutamente prendere l'ultimo volo per Stoccolma.
- È bello su ai bunker, - disse Harry. - C'è il miglior panorama della città.
- Sì, - disse Øystein. - Se gli alleati ci avessero provato, i tedeschi li avrebbero ridotti in mille pezzi.
- Proprio così, - sogghignò Harry.
- Devi sapere che avevamo fatto un giuramento, io, lui e Tresko, - disse Øystein, ma a quel punto l'uomo con il completo era tutto concentrato a scrutare la pioggia alla ricerca di taxi liberi. - Ossia, che se mai quei maledetti alleati fossero arrivati, allora li avremmo bersagliati di colpi fino a staccargli la carne dallo scheletro. Così -. Øystein alzò una mitragliatrice immaginaria contro l'uomo con il completo e sparò a più non posso. L'uomo fissò atterrito il tassista pazzo che, facendo «ra-ta-ta-ta» con la bocca, gli stava spruzzando goccioline di saliva schiumosa e bianca sui pantaloni scuri stirati di fresco. Con un piccolo sbuffo riuscì ad aprire lo sportello e schizzò maldestramente fuori, sotto la pioggia.
Øystein rise sguaiatamente e di cuore.
- Avevi nostalgia di casa, - disse. - Volevi ballare di nuovo con Killer Queen al ristorante Ekeberg.
Harry scoppiò a ridere e scosse la testa. Nello specchietto laterale vide l'uomo affrettarsi a casaccio verso il Teatro nazionale. - L'ho fatto per mio padre. E malato. 
Non gli resta molto da vivere.
- Ah, porca vacca -. Øystein accelerò di nuovo. - Un brav'uomo, anche.
- Grazie. Pensavo ci tenessi a saperlo.
- Certo, cazzo. Lo dirò ai miei.
- Eccoci arrivati, - annunciò Øystein quando si fermarono davanti al garage della gialla villetta di legno nel sobborgo di Oppsal.
- Già, - disse Harry.
Øystein aspirò talmente forte che la sigaretta parve sul punto di prendere fuoco, trattenne il fumo nei polmoni poi lo ributtò fuori con un prolungato sibilo gorgogliante. Infine inclinò leggermente la testa da un lato e fece cadere la cenere nel portacenere. Harry sentì una dolce fitta al cuore. Quante volte aveva visto Øystein fare esattamente così, piegarsi da una parte come se la sigaretta fosse tanto pesante da fargli quasi perdere l'equilibrio. La testa inclinata. La cenere per terra in una rimessa della scuola dove fumavano, dentro una bottiglia di birra vuota a una festa in cui si erano imbucati, sul freddo, grezzo cemento di un bunker.
- La vita è proprio ingiusta, cazzo, - disse Øystein. - Tuo padre non beveva, faceva la passeggiata domenicale e insegnava all'università. Mio padre, invece, beveva, lavorava alla Kadok dove tutti si prendevano l'asma e strani sfoghi alla pelle, e non schiodava di un millimetro una volta che aveva trovato il divano di casa. Ed è sano come un pesce, accidenti.
Harry ripensò alla fabbrica Kadok. Kodak al contrario. Infatti il proprietario, un tipo di Sunnmøre, aveva letto che Eastman aveva battezzato la sua fabbrica di macchine fotografiche «Kodak» perché era un nome che si poteva ricordare e pronunciare in tutto il mondo. Ma la Kadok era stata dimenticata e chiusa tanti anni addietro.
- Tutto passa, - disse Harry.
Øystein annuì come se avesse seguito il suo ragionamento. - Harry, se succede qualcosa, chiamami.
- Certo.
Harry aspettò di udire gli pneumatici scricchiolare sulla ghiaia e sparire alle sue spalle prima di girare la chiave ed entrare. Premette l'interruttore della luce e indugiò mentre la porta gli si richiudeva dietro sbattendo. L'odore, il silenzio, la luce che lambiva l'armadio, tutto gli parlava, era come immergersi in una vasca di ricordi. Lo avvolsero, lo scaldarono, gli fecero venire un nodo alla gola. Si tolse il cappotto e si sfilò gli anfibi scalciando. Poi camminò. Da una stanza all'altra. Da un anno all'altro. Da mamma e papà a Søs, e infine a se stesso. La sua cameretta. Il poster dei Clash, quello della chitarra che stava per essere sbattuta in terra. Si distese sul letto e inspirò l'odore del materasso. Poi arrivarono le lacrime.
21. Bianco come la neve 
Erano le venti meno due minuti quando Mikael Bellman percorse Karl Johans gate, una delle passeggiate più modeste del mondo. Si trovava al centro del regno di Norvegia, precisamente nel bel mezzo dell'asse. Sulla sinistra c'erano l'Università e il sapere, sulla destra il Teatro nazionale e la cultura. Alle sue spalle, nel Parco del castello, troneggiava il Palazzo reale. E dritto davanti a lui: il potere. Dopo trecento passi, alle venti spaccate, salì la scalinata in pietra dell'ingresso principale del Parlamento. L'edificio non era, come quasi ogni cosa a Oslo, né molto grande né imponente. Né particolarmente protetto. L'unica forma di difesa visibile erano due leoni scolpiti in granito di Grorud ai due lati della rampa che conduceva all'entrata.
Bellman si avvicinò al portone, che si aprì silenziosamente senza dargli il tempo di spingerlo. Entrò nell'ingresso, si fermò e si guardò intorno. Un addetto alla sicurezza gli si parò davanti e con la testa gli fece un cenno gentile ma deciso in direzione di un metal detector Gilardoni. Nel giro di dieci secondi l'apparecchio rivelò che Mikael Bellman non era armato e che indossava una cintura contenente metallo, ma nient'altro.
Rasmus Olsen lo aspettava appoggiato al banco del ricevimento. Il magro vedovo di Marit Olsen gli strinse la mano e lo precedette mentre, quasi inserendo il pilota automatico, attaccò con la voce da visita guidata.
- Il Parlamento, trecentottanta dipendenti, centosessantanove deputati. Eretto nel 
1866 su progetto di Emil Victor Langlet. Svedese, per inciso. Questa è la Trappehallen. Il mosaico si intitola Società. Else Hagen, 1950. Il ritratto del re è opera di...
Salirono nella Vandrehallen, che Mikael riconobbe dalla Tv. Un paio di visi sconosciuti gli passarono frettolosamente accanto. Rasmus Olsen gli spiegò che si era appena tenuta una riunione di commissione, ma Bellman non lo stava a sentire. Il suo unico pensiero era che quelli erano i corridoi del potere. Era deluso. Certo, dominavano l'oro e il rosso, ma dov'era l'imponenza, la solennità, ciò che doveva incutere un timore riverenziale nei confronti di chi aveva il comando? Quella maledetta, meschina sobrietà era un difetto di cui una piccola e, fino a poco tempo prima, poverissima democrazia del nord Europa non riusciva a liberarsi. Comunque, lui era tornato. Se non era riuscito ad arrivare in cima nel primo posto in cui aveva provato, tra i lupi dell'Europol, sicuramente ce l'avrebbe fatta qui, dove i rivali erano nani e mezze tacche.
- Durante la guerra questa sala faceva da ufficio a Terboven. Oggi nessuno ha un ufficio tanto grande.
- Com'era il matrimonio?
- Come?
- Tuo e di Marit. Litigavate?
- Ehm... no -. Rasmus Olsen assunse un'espressione turbata e accelerò il passo. Come se volesse allontanarsi dal poliziotto o, per lo meno, raggiungere un punto dove gli altri non potessero sentire. Solo una volta che si furono seduti dietro la porta chiusa del suo ufficio, nella segreteria del gruppo parlamentare, Olsen buttò fuori il fiato tremando. - Ovviamente, avevamo i nostri alti e bassi. Tu sei sposato, Bellman?
Mikael Bellman fece cenno di sì.
- Allora sicuramente capisci cosa voglio dire.
- Tua moglie ti tradiva?
- No. Sono sicuro di poterlo escludere.
«Perché era tanto grassa?» ebbe voglia di domandare Bellman, ma si trattenne: aveva ottenuto quello che voleva. L'esitazione, il fremito all'angolo dell'occhio, la contrazione quasi impercettibile della pupilla.
- E tu, Olsen, l'hai mai tradita?
Stessa reazione. Più un certo rossore sulla fronte, sotto l'accentuata stempiatura. La sua risposta fu concisa e controllata: - No, veramente no.
Bellman piegò la testa di lato. Non sospettava di Rasmus Olsen. Quindi, perché tormentarlo con domande del genere? La risposta era tanto semplice quanto deprimente. Perché non aveva nessun altro da interrogare, nessun'altra pista da seguire. Stava semplicemente sfogando la propria frustrazione su quel poveretto.
- E tu, commissario capo?
- Io? - disse Bellman soffocando uno sbadiglio.
- Sei infedele?
- Mia moglie è troppo bella, - rispose Bellman con un sorriso. - Inoltre, abbiamo due figli. Tu e tua moglie non avevate figli, e questo fatto invita a... distrarsi di più. Ho parlato con una fonte secondo cui un po' di tempo fa tu e tua moglie avete avuto qualche problema.
- La vicina di casa, suppongo. Marit parlava parecchio con lei, sì. Un paio di mesi fa abbiamo vissuto una piccola crisi di gelosia. Avevo reclutato nel partito una ragazza incontrata a un corso per delegati sindacali. E stato proprio così che ho conosciuto Marit, perciò lei...
La voce di Rasmus Olsen si incrinò di colpo, e Bellman notò che i suoi occhi si erano riempiti di lacrime.
- Non c'era stato niente. Ma Marit se ne andò un paio di giorni in montagna per riflettere. Dopo tutto tornò come prima.
Il telefonino di Bellman squillò. Lo tirò fuori, lesse il nome sul display e rispose con un breve «Sì». E mentre ascoltava sentì montare le pulsazioni e la collera.
- Corda? - ripeté. - Lyseren? Sarebbe... Ytre Enebakk? Grazie.
Infilò di nuovo il cellulare nella tasca del cappotto. - Devo andare, Olsen. Grazie per avermi dedicato il tuo tempo.
Prima di uscire Bellman si fermò un attimo a guardare l'ufficio di Terboven, il Reichskommissar tedesco. Poi proseguì a passo svelto.
Era l'una del mattino e Harry era seduto in soggiorno ad ascoltare Martha Wainwright che cantava «far away» e «whatever remains is yet to be found».
Era sfinito. Davanti a lui sul tavolino c'erano il cellulare, l'accendino e la stagnola contenente il panetto marrone. Non lo aveva toccato. Ma presto avrebbe dovuto dormire, trovare un ritmo, concedersi una pausa. Nella mano teneva la foto di Rakel. Un vestitino azzurro. Chiuse gli occhi. Sentì il suo profumo. Udì la sua voce. «Guarda!» La sua mano gli diede una forte stretta. L'acqua che li circondava era nera e profonda, e lei galleggiava sulla superficie: bianca, silenziosa, senza peso. Il vento sollevò il velo da sposa rivelando le piume candide che nascondeva. Il suo lungo, esile collo formava un punto interrogativo. Dove? Eccola raggiungere la riva: uno scheletro di ferro nero con le ruote che scricchiolavano e gemevano. Poi sparì dentro la casa. E riapparve al piano di sopra. Lui aveva un cappio intorno al collo e al suo fianco c'era un uomo in completo nero con un fiore bianco all'occhiello. Davanti a loro, di spalle, un sacerdote con indosso un abito talare bianco leggeva adagio. Poi si voltò. Il suo viso e le sue mani erano bianche. Fatte di neve.
Harry si svegliò di soprassalto.
Batté le palpebre al buio. Un suono. Ma non era Martha Wainwright. Harry si girò e afferrò il cellulare illuminato che vibrava sul tavolino.
- Sì, - disse con voce velata.
- L'ho trovato.
Harry si tirò a sedere. - Che cosa hai trovato?
- Il nesso. E le vittime non sono tre. Ma quattro.
22. Motore di ricerca 
- Prima ho provato con i tre nomi che mi avevi indicato, - disse Katrine Bratt. - Borgny Stem-Myhre, Charlotte Lolles e Marit Olsen. Ma la ricerca non ha dato risultati soddisfacenti. Allora ho aggiunto tutte le persone scomparse in Norvegia negli ultimi dodici mesi. E ho trovato qualcosa con cui continuare la ricerca.
- Un momento, - disse Harry, ormai perfettamente sveglio. - Dove accidenti hai trovato le persone scomparse?
- Nell'intranet dell'Ufficio persone scomparse, polizia di Oslo. Cosa credevi?
Harry sbuffò, e Katrine riprese: - È saltato fuori un nome che di fatto collega gli altri tre. Sei pronto?
- Be'...
- La donna scomparsa si chiama Adele Vetlesen, ventotto anni, residente a Drammen. La sua scomparsa è stata denunciata dal suo convivente a novembre. E saltato fuori un collegamento grazie alla biglietteria elettronica delle ferrovie. Il 7 novembre Adele Vetlesen ha prenotato su internet un biglietto da Drammen a Ustaoset. Lo stesso giorno Borgny Stem-Myhre aveva un biglietto da Kongsberg per la stessa destinazione.
- Ustaoset non è l'ombelico del mondo, - disse Harry.
- Non è una località, è un pezzo di montagna. Dove le vecchie famiglie ricche di Bergen si sono costruite la baita e l'Ente per il turismo ha eretto rifugi sulle cime, per permettere ai norvegesi di perpetuare il retaggio di Amundsen e di Hansen, andando di rifugio in rifugio con gli sci o a piedi, con venticinque chili sulle spalle e una vaga paura di morire nell'anticamera del cervello. Dà un po' di sapore alla vita, sai.
- Da come ne parli sembra che tu ci sia stata.
- La famiglia del mio ex marito ha una baita nella zona. La loro ricchezza è talmente venerabile che non ci sono né l'energia elettrica né l'acqua corrente. Solo i nuovi ricchi hanno la sauna e la Jacuzzi.
- Gli altri collegamenti?
- Non c'erano biglietti a nome Marit Olsen. Però è saltato fuori un pagamento con carta di credito al vagone ristorante del treno corrispondente il giorno prima. Il pagamento è avvenuto alle 14.13: secondo l'orario il treno si doveva trovare tra Ål e Geilo, ossia prima di Ustaoset.
- Questo mi convince meno, - disse Harry. - Il treno arriva fino a Bergen, magari era diretta là.
- Pensi... - cominciò Katrine Bratt bruscamente, ma poi si trattenne, aspettò e riprese con tono sommesso. - Mi prendi per scema? L'albergo di Ustaoset ha registrato un pernottamento in camera doppia a nome di un certo Rasmus Olsen, che all'anagrafe centrale risulta domiciliato allo stesso indirizzo di Marit Olsen. Perciò ho dedotto che fosse...
- Sì, è il marito. Perché parli sottovoce?
- Perché è appena passata l'infermiera del turno di notte, okay? Ascolta, abbiamo localizzato due persone assassinate e una scomparsa a Ustaoset nella stessa data. Che te ne pare?
- Be'. Una coincidenza notevole, ma non possiamo escludere che si tratti di un caso.
- D'accordo. E adesso arriva il resto. Ho fatto una ricerca incrociata su Charlotte Lolles e Ustaoset, ma non ho trovato niente. Perciò mi sono concentrata sulla data per vedere dove fosse Charlotte Lolles mentre le altre tre stavano a Ustaoset. Due giorni prima Charlotte ha fatto gasolio a una stazione di servizio nei pressi di Hønefoss, ho trovato traccia del pagamento.
- È molto lontano da Ustaoset.
- Ma è nella direzione giusta, da Oslo. Ho cercato un'auto registrata a suo nome o a quello di un suo eventuale convivente. Se hanno il Telepass e hanno superato diversi caselli è possibile seguire i loro movimenti.
- Mhm.
- Il problema è che non aveva né un'auto né un convivente, o almeno, nulla che fosse registrato.
- Aveva un fidanzato.
- Può darsi. Ma tra i dati di Europark il motore di ricerca ha trovato un'automobile in un garage di Geilo, pagata da una certa Iska Peller.
- È ad appena qualche decina di chilometri. Ma chi è... ehm, Iska Peller?
- Secondo i dati della sua carta di credito è residente a Bristol, Sydney, Australia. Il punto è che ci sono molti riscontri quando faccio ricerche relazionali con Charlotte Lolles.
- Ricerche relazionali?
- Lo scopo è di verificare, per esempio, se negli ultimi anni determinate persone hanno pagato con la carta negli stessi ristoranti alla stessa ora, cosa che farebbe pensare che abbiano mangiato insieme e poi si siano divise il conto. Oppure se sono iscritte dalla stessa data nella stessa palestra, o se in aereo si sono sedute vicine più di una volta. Afferrato il concetto?
- Sì, afferrato il concetto, - ripeté Harry con l'accento di Bergen. - E sono sicuro che hai verificato di che tipo di auto si tratta e che è un...
- Sì, è un diesel, - rispose stizzita Katrine. - Vuoi sentire il resto oppure no?
- Certamente.
- Non è possibile prenotare un posto letto in questi rifugi dell'Ente del turismo, che non hanno personale. Se quando si arriva tutti i letti sono occupati, ci si deve arrangiare con un materasso sul pavimento o con il proprio sacco a pelo e materassino. Il pernottamento costa appena centosettanta corone, e si paga o depositando i contanti in una cassetta nel rifugio, oppure lasciando una delega temporanea per far addebitare l'importo sul proprio conto.
- In altre parole, non è possibile vedere chi è stato in quale rifugio e quando?
- Non se l'ospite paga in contanti. Se invece lascia una delega, successivamente sarà effettuata una transazione bancaria tra il conto corrente dell'ospite e quello dell'Ente per il turismo. Con specificato a quale rifugio e a quale data si riferisce il pagamento.
- Se non ricordo male fare una ricerca sui movimenti bancari è una gran faticaccia.
- Non se al motore di ricerca giusto vengono forniti i criteri giusti da una mente acuta.
- E quella ce l'abbiamo, vero?
- Così pare. Il 20 novembre sono stati addebitati sul conto di Iska Peller due posti letto in quattro rifugi dell'Ente per il turismo, e sono tutti a un giorno di marcia l'uno dall'altro.
- Una gita in montagna di quattro giorni.
- Sì, e nell'ultimo, il rifugio Håvass, hanno pernottato il 7 novembre. Si trova ad appena mezza giornata di marcia da Ustaoset.
- Interessante.
- La cosa veramente interessante sono altri due conti correnti ai quali sono stati addebitati pernottamenti al rifugio Håvass. Indovina a chi sono intestati?
- Be'. Non credo siano di Marit Olsen e di Borgny Stem-Myhre, perché immagino che la Kripos l'avrebbe scoperto se due delle vittime si fossero trovate nello stesso posto la stessa notte. Quindi uno deve essere della ragazza scomparsa, com'è che si chiama?
- Adele Vetlesen. E hai indovinato. Ha pagato per due, ma ovviamente non posso sapere chi fosse l'altra persona.
- Chi è l'altra persona che ha pagato con la delega?
- Non è interessante. È di Stavanger.
Harry andò lo stesso a prendere una penna e si annotò il nome e l'indirizzo della persona e anche quello di Iska Peller a Sydney. - Mi pare di capire che quel motore di ricerca ti piace, - disse - Sì, - rispose lei. - È come pilotare un vecchio cacciabombardiere. Un po' arrugginito e lento a scaldarsi, ma una volta che ha preso il volo... è una meraviglia. Che te ne pare del risultato?
Harry rifletté.
- In fondo, - disse, - hai soltanto dimostrato che una donna scomparsa e una che probabilmente non c'entra nulla con questo caso si trovavano nello stesso posto nello stesso momento. Di per sé non è un'impresa eccezionale. Ma hai anche prospettato la possibilità che una delle vittime, Charlotte Lolles, fosse con lei. E hai localizzato due delle vittime, Borgny Stem-Myhre e Marit Olsen, nelle immediate vicinanze di Ustaoset. Quindi...
- Quindi?
- Ti faccio i miei complimenti. Hai rispettato la tua parte del patto. Quanto alla mia...
- Risparmiatela, e lascia perdere quella risatina che so che hai sulle labbra. Non parlavo sul serio. Sono inaffidabile, non lo hai capito?
Katrine sbatté giù il telefono.
23. Passeggero 
Era sola a bordo dell'autobus. Stine appoggiò la fronte contro il finestrino per non vedere il proprio riflesso. Guardò la stazione degli autobus buia e deserta dall'altra parte del vetro. Sperava che arrivasse qualcuno. Sperava che non arrivasse nessuno.
Era rimasto seduto immobile vicino a una finestra del Krabbe davanti a una birra limitandosi a fissarla. Il berretto con il pompon, i capelli biondi e quegli occhi azzurri da pazzo. Il suo sguardo rideva, pungeva, implorava, gridava il nome di Stine. Alla fine lei aveva detto a Mathilde di voler andare a casa. Ma Mathilde, che aveva appena intrecciato una conversazione con un petroliere americano, preferiva restare ancora un po'. Allora Stine aveva preso il cappotto, era corsa dal Krabbe fino alla stazione ed era salita sull'autobus per Våland.
Guardò le cifre rosse dell'orologio digitale sopra l'autista. Sperava che le porte si chiudessero e l'autobus partisse. Mancava ancora un minuto.
Non alzò gli occhi né quando udì il rumore di passi affrettati e la voce trafelata chiedere un biglietto al conducente, né quando lui le si sedette accanto.
- Ehi, Stine, - le disse. - Ho l'impressione che mi eviti.
- Ah, ciao, Elias, - rispose lei senza spostare lo sguardo dall'asfalto bagnato di pioggia. Perché si era seduta in fondo, così lontano dall'autista?
- Non dovresti girare da sola di notte, sai.
- Ah, no? - mormorò lei sperando che arrivasse qualcuno, chiunque.
- Non li leggi i giornali? Quelle due ragazze a Oslo. E poi l'altro giorno, quella signora del Parlamento. Com'è che si chiamava?
- Non ne ho idea, - mentì Stine sentendo il cuore batterle all'impazzata.
- Marit Olsen, - disse Elias. - Del Partito laburista. Le altre due si chiamavano Borgny e Charlotte. Stine, sei sicura di non riconoscere i nomi?
- Non leggo i giornali, - rispose Stine. Se solo fosse arrivato qualcuno presto.
- Ragazze simpatiche, tutt'e tre, - disse lui.
- Già, immagino che tu le conoscessi -. Stine si pentì subito del tono sarcastico. Colpa del terrore.
- Non bene, ovviamente, - disse Elias. - Però la prima impressione è stata buona. 
Sono, come avrai capito, uno che dà molta importanza alla prima impressione.
Stine fissò la mano che lui le aveva posato con delicatezza sul ginocchio.
- Tu... - gli disse, e perfino in quel monosillabo riuscì a cogliere il proprio tono di supplica.
- Sì, Stine?
Lei alzò gli occhi e lo guardò: il suo viso era schietto come quello di un bambino, l'espressione sinceramente interrogativa. Stine era sul punto di urlare e di balzare in piedi, quando udì un rumore di passi e una voce davanti, vicino all'autista. Un passeggero. Un signore adulto. Si diresse in fondo all'autobus. Stine cercò di incrociare il suo sguardo, di fargli capire, ma aveva gli occhi coperti dalla falda del cappello ed era concentrato a infilare il resto e il biglietto nel portafogli. Stine tirò un sospiro di sollievo quando l'uomo prese posto sul sedile dietro il loro.
- È inconcepibile che la polizia non abbia scoperto il nesso che le univa, - riprese Elias. - Non dovrebbe essere tanto difficile. Saprà sicuramente che a tutte e tre quelle ragazze piaceva la montagna. Che si erano fermate al rifugio Håvass la stessa notte. Secondo te dovrei andare a dirlo alla polizia?
- Forse, - bisbigliò Stine. Se fosse stata veloce, magari sarebbe riuscita a passare davanti a Elias e a scendere. Ma non fece in tempo a completare il pensiero che il sistema idraulico sbuffò, le porte si chiusero e l'autobus ripartì. Stine chiuse gli occhi.
- È che non ho voglia di essere coinvolto. Spero che tu mi capisca. Eh, Stine?
Lei annuì lentamente, senza riaprire gli occhi.
- Bene. Allora posso parlarti di un'altra persona che era presente. Una che sicuramente sai chi è. 
Parte terza 
24. Stavanger 
Parte terza
24. Stavanger
- Puzza... - disse Kaja.
- Di merda, - disse Harry. - Di vacca, per la precisione. Benvenuta a Jaeren.
La luce del mattino filtrava dalle nuvole che veleggiavano sopra i campi verdi come a primavera. Dietro i muretti a secco le mucche mute seguivano con lo sguardo il loro taxi. Erano diretti al centro città di Stavanger dall'aeroporto di Sola.
Harry si sporse tra i sedili anteriori. - Ehi, autista, potresti andare un po' più forte? - Gli mostrò il tesserino. Il tassista fece un ampio sorriso, affondò l'acceleratore e proseguirono a tutto gas sull'autostrada.
- Hai paura che ci siamo mossi troppo tardi? - domandò Kaja quando Harry ricadde all'indietro.
- Non risponde al telefono, non si è presentata al lavoro, - rispose lui senza bisogno di completare il ragionamento.
Dopo aver parlato con Katrine Bratt la notte prima, Harry aveva dato un'occhiata agli appunti che aveva preso. Aveva il nome e il numero di telefono di due persone in vita che verosimilmente avevano pernottato insieme alle tre vittime in un certo rifugio nel mese di novembre. Aveva guardato l'orologio, calcolato che a Sydney era mattina e aveva composto il numero di Iska Peller. Gli aveva risposto ed era sembrata molto sorpresa quando lui aveva portato il discorso sul rifugio Håvass. Né aveva saputo dirgli gran che del suo soggiorno, dal momento che aveva avuto la febbre alta ed era rimasta in camera da sola. Forse se l'era presa perché aveva tenuto per troppo tempo i vestiti bagnati di sudore, o perché era troppo faticoso per una sciatrice inesperta andare da un rifugio all'altro. O forse semplicemente perché l'influenza colpisce a caso. A ogni modo, era a malapena riuscita a trascinarsi fino allo Håvass, dove la sua compagna di escursione, Charlotte Lolles, l'aveva mandata difilato a letto. Iska Peller era sprofondata in un sonno intermittente pieno di sogni mentre il suo corpo ora era tutto un dolore, ora sudava, ora rabbrividiva di freddo. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo tra gli ospiti né chi fossero, visto che lei e Charlotte erano state le prime ad arrivare al rifugio. L'indomani era ancora a letto quando gli altri erano ripartiti, e insieme a Charlotte si era fatta dare un passaggio da un poliziotto rurale in motoslitta a cui si era rivolta l'amica. Le aveva accompagnate a casa sua, dove si era offerto di ospitarle per la notte perché l'albergo era pieno. Loro avevano accettato, ma a tarda sera ci avevano ripensato e avevano preso un treno per Geilo scendendo in un albergo di quella località. Charlotte non le aveva raccontato nulla di particolare a proposito della serata al rifugio Håvass. Una serata tranquilla, con tutta probabilità.
Cinque giorni dopo l'escursione, la signorina Peller era ripartita per Sydney da Oslo, ancora un po' febbricitante, e una volta tornata a casa aveva comunicato regolarmente con Charlotte per e-mail, senza notare nulla di strano. Fino a quando aveva ricevuto la notizia sconvolgente che l'amica era stata trovata morta dietro la carcassa di un'auto ai margini di un bosco nei dintorni di Dausjøen, poco distante dalle zone densamente popolate intorno a Oslo.
Con cautela, ma senza menare il can per l'aia, Harry aveva spiegato a Iska Peller che erano preoccupati per le persone presenti nel rifugio quella sera, e che dopo aver riagganciato avrebbe chiamato il capo della Omicidi al distretto di polizia di Sydney South, Neil McCormack, con cui aveva avuto occasione di collaborare in passato. Che McCormack avrebbe raccolto da lei una testimonianza più approfondita e - anche se l'Australia era lontana - provveduto a farla mettere sotto protezione fino a nuovo ordine. Iska Peller gli aveva dato l'impressione di prendere la notizia con calma.
Poi Harry aveva digitato l'altro numero di telefono in suo possesso, quello di Stavanger. Aveva provato quattro volte, invano. Ovviamente, sapeva che di per sé questo non doveva necessariamente significare qualcosa. Non tutti dormivano con il cellulare acceso accanto. Kaja Solness, invece, lo faceva. Aveva risposto al secondo squillo, e quando Harry le aveva detto che dovevano prendere il primo volo per Stavanger e vedersi al treno per l'aeroporto alle sei e cinque, lei aveva risposto semplicemente «Sì».
Erano arrivati all'aeroporto di Oslo alle sei e mezzo e Harry aveva rifatto il numero, di nuovo invano. Un'ora dopo erano atterrati all'aeroporto di Sola, e Harry aveva riprovato a telefonare, con lo stesso risultato. Mentre si dirigevano verso i taxi davanti al terminal, Kaja aveva parlato con il datore di lavoro della persona che stavano cercando, il quale le aveva detto che non si era presentata all'ora solita. Kaja lo aveva riferito a Harry, e lui le aveva messo con delicatezza una mano sui lombi, guidandola con decisione oltre la coda di persone in attesa fino a un taxi tra proteste sonore cui aveva risposto con un: «Grazie e buonissima giornata, gente».
Erano esattamente le 08.16 quando arrivarono all'indirizzo, una villetta di legno bianca a Våland. Harry lasciò pagare Kaja e scese senza chiudere la portiera. Scrutò la facciata, che non rivelava nulla. Inspirò l'aria del Vestland, umida, fresca ma allo stesso tempo mite. Si preparò. Perché lo sapeva già. Naturalmente poteva anche sbagliarsi, ma lo sapeva come sapeva che Kaja avrebbe detto: «Grazie» non appena l'autista le avesse consegnato la ricevuta, - Grazie -. Lo sportello si richiuse.
Il nome era scritto sulla seconda delle tre targhette sul citofono accanto al portone.
Harry pigiò il pulsante e udì un ronzio proveniente dall'interno dell'edificio.
Un minuto e tre tentativi dopo premette il campanello più in basso.
La vecchietta che venne ad aprire li guardò sorridendo.
Kaja, come notò Harry, capì d'istinto chi dovesse prendere la parola. - Salve, mi chiamo Kaja Solness, siamo della polizia. Al piano sopra il suo non risponde nessuno, sai se c'è qualcuno in casa?
- Penso di sì. Anche se oggi non ho sentito rumori, - rispose la signora. E appena vide il sopracciglio inarcato di Harry si affrettò ad aggiungere: - Si sente tutto in questa casa, e stanotte ho sentito arrivare qualcuno. Dal momento che sono la proprietaria dell'appartamento, mi sembra opportuno tenermi un po' aggiornata su quello che succede.
- Aggiornata? - domandò Harry.
- Sì, però non mi metto a... - le guance della signora erano avvampate un po'. - Non è successo nulla, spero? Sì, insomma, non ho mai avuto problemi con...
- Non lo sappiamo, - rispose Harry.
- Secondo me è meglio controllare, - disse Kaja. - Se lei ha una chiave... - Harry sapeva che in quel momento diverse formulazioni mulinavano nel cervello di Kaja, e aspettò incuriosito il seguito, - allora controlleremmo volentieri al posto suo che sia tutto in ordine.
Kaja Solness era una ragazza furba. Se la padrona di casa avesse accettato la proposta e loro avessero trovato qualcosa, nel rapporto ci sarebbe stato scritto che li aveva invitati, che non erano assolutamente entrati con la forza né avevano fatto una perquisizione senza mandato.
La signora esitò.
- Ma, ovviamente, potrà anche farlo da sola dopo che ce ne saremo andati, - aggiunse Kaja con un sorriso. - E poi chiamare la polizia. O l'ambulanza. O...
- Preferisco che mi accompagniate, - disse la vecchietta, sulla cui fronte era apparsa una profonda ruga di preoccupazione. - Aspettate, vado a prendere le chiavi.
L'appartamento in cui entrarono un minuto dopo era pulito, in ordine e quasi completamente privo di mobili. Harry riconobbe subito la forte presenza del silenzio, quasi opprimente, in un appartamento vuoto la mattina, quando il corri corri quotidiano ti raggiunge dall'esterno solo sotto forma di un rumore quasi impercettibile. Ma c'era anche un odore che riconobbe. Di colla. Scorse un paio di scarpe ma nessun indumento da esterno.
Nella piccola cucina c'era una grossa tazza da tè sullo sgocciolatoio, e sopra, su una mensola, erano allineati barattoli di latta che annunciavano di contenere svariati tè di un'origine a Harry sconosciuta: Oolong Tea, Anji Bai Cha Tea. Proseguirono. Sulla parete del soggiorno c'era una foto che a Harry parve di riconoscere come il K2, la popolare montagna assassina dell'Himalaya.
- Controlli tu? - domandò Harry indicando con un cenno della testa la porta decorata con un cuoricino e dirigendosi verso quella che immaginava fosse la camera da letto. Tirò un profondo respiro, abbassò la maniglia e aprì.
Il letto era fatto. La stanza in ordine. Una finestra era socchiusa, nessun odore di colla, aria fresca come l'alito di un bambino. Harry udì la padrona di casa piantarsi sulla soglia alle sue spalle.
- Che strano, - disse lei. - Stanotte li ho sentiti. E solo una persona è andata via. - Li? - domandò Harry. - Sei sicura che ci fosse più di una persona?
- Sì. Ho sentito le voci.
- In quanti erano?
- Tre, credo.
Harry guardò nell'armadio. - Uomini? Donne?
- Per fortuna questo non sono riuscita a sentirlo.
Vestiti. Un sacco a pelo e uno zaino. Altri vestiti.
- Perché pensi che fossero in tre?
- Dopo che una persona è andata via, ho sentito dei rumori.
- Che genere di rumori?
Le guance della padrona di casa avvamparono. - Tonfi. Come se... be', capisci.
- Ma niente voci?
La padrona di casa rifletté. - No, niente voci.
Harry uscì dalla stanza. E con suo stupore vide che Kaja era ancora ferma davanti alla porta del bagno. C'era qualcosa di strano nell'atteggiamento del suo corpo, come se resistesse a un forte vento contrario.
- Qualcosa che non va?
- No, - si affrettò a rispondere Kaja con disinvoltura. Troppa disinvoltura.
Harry le si avvicinò.
- Che c'è? - domandò sottovoce.
- È... è solo che ho un problema con le porte chiuse.
- Okay, - disse Harry.
- Non... non ci posso fare niente.
Harry annuì. E fu allora che udì il rumore. Il rumore del tempo che finisce, del limite che si avvicina, dei secondi che si dileguano, un rapido, frenetico tamburellio di acqua che non scorre né stilla. Un rubinetto dietro la porta. E fu sicuro di non essersi sbagliato.
- Aspetta qui, - disse Harry. Poi aprì.
La prima cosa che notò fu che là dentro l'odore di colla era ancora più forte.
La seconda che sul pavimento c'erano un giaccone, un paio di jeans, un paio di mutande, una T-shirt, due calzini neri, un berretto e una maglia di lana leggera.
La terza che il rubinetto gocciolava in una linea quasi continua nella vasca da bagno stracolma, tanto che l'acqua in eccedenza usciva dal troppopieno sul lato.
La quarta che l'acqua della vasca era tinta di rosso, con ogni probabilità di sangue.
La quinta che lo sguardo vitreo sopra la bocca chiusa dal nastro adesivo della persona nuda, di un pallore cadaverico, distesa nella vasca, fissava da un lato. Come se cercasse di cogliere qualcosa nell'angolo morto, qualcosa che non aveva visto arrivare.
La sesta che non si vedevano segni di violenza, nessuna ferita esterna che potesse spiegare tutto quel sangue.
Harry si schiarì la voce sforzandosi di trovare il modo più delicato possibile di chiedere alla padrona di casa di entrare e identificare il suo inquilino.
Ma non ce ne fu bisogno, la signora era già nel vano della porta.
- O Signore mio! - ansimò. E poi, scandendo ogni sillaba: - O-Si-gno-re-mi-o! - E infine, con un tono lamentoso e l'impiego di ulteriori rafforzativi: - O Signore mio Gesù...
- È...? - attaccò Harry.
- Sì, - rispose la signora con la voce rotta dal pianto. - È lui. È Elias. Elias Skog.
25. Territorio
La donna si era coperta la bocca con le mani e aveva mormorato tra le dita: - Ma che hai fatto, Elias caro, Elias bello?
- Non è detto che abbia fatto qualcosa, - disse Harry accompagnandola fuori del bagno e verso la porta d'ingresso. - Per favore, potresti chiamare la polizia di Stavanger e dire che mandino qualcuno della Scientifica, e che abbiamo una scena del crimine?
- Scena del crimine? - Gli occhi della padrona di casa erano enormi e neri per lo choc.
- Sì, di' così. Chiama il 112, il numero d'emergenza, per favore. Va bene?
- S... si, certo.
Udirono la donna scendere a fatica le scale ed entrare in casa.
- Abbiamo all'incirca un quarto d'ora prima che arrivino, credo, - disse Harry. Si tolsero le scarpe, le misero nell'ingresso ed entrarono in bagno scalzi. Harry si guardò intorno. Il lavandino era pieno di lunghi capelli biondi e sul bordo c'era un tubetto schiacciato.
- Questo non mi sembra dentifricio, - disse Harry chinandosi sopra il tubetto senza toccarlo.
Kaja si avvicinò. - Supercolla, - appurò. - La più forte che ci sia. - È del tipo che non bisogna lasciare che si attacchi alle dita, vero?
- È a presa istantanea. Se tieni le dita unite troppo a lungo, restano incollate.
Allora o le separi con una lama oppure tiri finché si stacca la pelle.
Harry fissò prima Kaja, poi il cadavere nella vasca.
- Porca miseria, - disse lentamente. - Non è possibile.
Il commissario capo Gunnar Hagen aveva avuto qualche dubbio. Forse era la cosa più stupida che avesse fatto da quando lavorava alla centrale. Mettere insieme un gruppo che doveva condurre un'indagine contravvenendo agli ordini del ministero poteva essere un'iniziativa che portava guai. Incaricare Harry di dirigerlo, significava andare a cercarseli. E i guai avevano appena bussato alla porta ed erano entrati. E adesso ce li aveva davanti agli occhi nella persona di Mikael Bellman. Mentre lo ascoltava, Hagen notò che gli strani segni sul viso del commissario capo della Kripos rilucevano più bianchi del solito, come se dall'interno li illuminasse un'incandescente, refrigerata fissione nucleare, qualcosa di esplosivo che finora era stato tenuto in scacco.
- So per certo che Harry Hole e due suoi colleghi sono stati a Lyseren per indagare sull'omicidio di Marit Olsen. Beate Lønn della Scientifica ci ha chiesto di effettuare una battuta porta a porta nella zona intorno a una corderia dismessa. A quanto pare uno dei suoi tecnici ha scoperto che la corda con cui è stata impiccata Marit Olsen proviene da là. Fin qui, tutto bene...
Mikael Bellman oscillò sui tacchi. Non si era nemmeno tolto il soprabito leggero che gli arrivava alle caviglie. Gunnar Hagen si preparò al seguito. Che arrivò con una lentezza penosa, e un tono di voce come lievemente sorpreso. i8o - Ma quando ho parlato con l'agente della polizia rurale di Ytre Enebakk, sono venuto a sapere che uno dei tre che hanno fatto il sopralluogo era il famigerato Harry Hole. Cioè uno dei tuoi uomini, Hagen.
Hagen non rispose.
- Immagino tu sappia a quali conseguenze si va incontro contravvenendo agli ordini del ministero della Giustizia, Hagen.
Hagen continuò a restare in silenzio, però incrociò lo sguardo di Bellman.
- Ascolta, - disse Bellman slacciandosi un bottone del soprabito e sedendosi senza essere stato invitato a farlo. - Tu mi sei simpatico, Hagen. Secondo me sei un bravo poliziotto, e io avrò bisogno di uomini in gamba.
- Quando la Kripos avrà tutto il potere, vuoi dire?
- Esatto. Uno come te mi potrebbe tornare comodo in una posizione di primo piano. Hai nel curriculum l'accademia militare, conosci l'importanza di pensare strategicamente, di evitare battaglie perse in partenza, di sapere quando la ritirata è la miglior tattica per vincere...
Hagen annuì lentamente.
- Bene, - disse Bellman rialzandosi. - Diciamo che Harry Hole si trovava sul Lyseren per una svista, per una coincidenza fortuita che non aveva nulla a che fare con Marit Olsen. E che simili coincidenze fortuite non avverranno più. Siamo d'accordo... Gunnar?
Hagen trasalì senza volerlo quando udì il proprio nome di battesimo in bocca all'altro, come l'eco di un nome che aveva pronunciato a sua volta in passato, quello del suo predecessore, nel tentativo di creare una giovialità per la quale mancavano i presupposti. Ma non protestò. Perché sapeva che quella era una delle battaglie menzionate da Bellman. E che avrebbe anche perso la guerra, per giunta.
E che le condizioni di resa offerte da Bellman avrebbero potuto essere peggio. Molto peggio.
- Ne parlerò con Harry, - disse prendendo la mano tesa di Bellman. Fu come stringere un pezzo di marmo: duro, freddo e inanimato.
Harry bevve un sorso e con estrema cautela estrasse l'ultima falange dell'indice dal manico della sottilissima tazza da caffè della padrona di casa.
- E così tu. sei il commissario Harry Hole del distretto di Oslo, - disse l'uomo seduto nella poltrona dall'altra parte del tavolino. Si era presentato come il commissario Colbjørnsen, con la «C», e ora ripeté il titolo, il nome e l'appartenenza di Harry mettendo l'accento su Oslo. - E cosa porta la polizia di Oslo a Stavanger, signor Hole?
- Le solite cose, - rispose Harry. - L'aria pura, le magnifiche montagne.
- Ah si?
- Il fiordo. E se abbiamo tempo, il base jumping dal Prekestolen.
- Quindi Oslo ha mandato un comico. Se non altro coltivate sport estremi, questo lo posso dire. C'è un buon motivo per cui non siamo stati informati di questa visita?
Il sorriso del commissario Colbjørnsen era esile come i suoi baffi. Portava uno di quei cappellini buffi di solito sfoggiati esclusivamente da uomini decrepiti e hipster ultrasicuri di sé. Harry ricordò che Gene Hackman ne portava uno nei panni del poliziotto Popeye Doyle in Il braccio violento della legge. E scommise che nemmeno Colbjørnsen disdegnasse i lecca lecca né di fermarsi sulla porta con un: «Ah, sì, un'ultima domanda».
- Immagino che ci sia un fax in fondo al mucchio della corrispondenza, - disse Harry e alzò gli occhi a osservare l'uomo vestito di bianco che stava entrando in quell'istante. La stoffa della tuta indossata dal tecnico della Scientifica frusciò quando si tolse il cappuccio bianco e si buttò su una poltrona. Guardò dritto in faccia Colbjørnsen e borbottò un'imprecazione locale.
- Allora? - domandò Colbjørnsen.
- Ha ragione lui, - disse il tecnico annuendo in direzione di Harry senza guardarlo. - Il tipo di sopra è stato incollato alla vasca con la supercolla.
- È stato? - domandò Colbjørnsen e fissò il suo sottoposto con un sopracciglio inarcato a V. - «È stato», passivo. Non escludi un po' in fretta che Elias Skog possa averlo fatto da solo?
- E quindi abbia anche aperto il rubinetto per poter annegare nel modo più lento e tormentoso possibile? - domandò Harry. - Dopo essersi tappato la bocca con il nastro adesivo per impedirsi di urlare?
Colbjørnsen rivolse a Harry un altro sorriso esile come un punteruolo. - Ti avvertirò quando potrai interrompere, Oslo.
- Incollato da capo a piedi, - continuò il tecnico. - La sua nuca è stata rasata e cosparsa di colla. E così anche le spalle e la schiena. I glutei. Le braccia. Tutte e due le gambe. Significa...
- Significa, - intervenne Harry, - che quando l'assassino ha finito di spalmarlo, lo ha lasciato disteso per un po' in modo che la colla facesse presa, poi ha aperto il rubinetto consegnando Elias Skog a una lenta morte per annegamento. Ed Elias si è messo a lottare contro il tempo e la morte. L'acqua saliva a poco a poco mentre le forze lo abbandonavano. Fino a quando la paura di morire non lo ha invaso completamente dandogli le forze per un ultimo, disperato tentativo di liberarsi. E ci è riuscito. È riuscito a staccarsi dov'era più forte. La gamba destra. L'ha letteralmente strappata dalla pelle che, come potete vedere, è rimasta attaccata alla vasca. Il sangue si è riversato nell'acqua mentre Elias batteva il piede contro il fondo per richiamare l'attenzione della padrona di casa al piano di sotto. E lei ha sentito i tonfi.
Con un cenno della testa Harry indicò la cucina, dove Kaja cercava di consolare e di calmare la vecchietta. Sentivano i suoi forti singhiozzi.
- Solo che lei ha frainteso. Ha pensato che l'inquilino si stesse scopando una donna che si era portato a casa.
Guardò Colbjørnsen che era impallidito e non accennava più a interromperlo.
- E intanto Elias perdeva sangue. Molto sangue. Tutta la pelle del polpaccio era staccata. Diventava sempre più debole, più stanco. Infine la sua volontà ha cominciato a venir meno. Si è arreso. Forse era già privo di conoscenza per l'emorragia quando l'acqua è salita fino a penetrargli nelle narici -. Harry guardò Colbjørnsen. - O forse no.
Il pomo di Adamo di Colbjørnsen sembrava uno stantuffo.
Harry abbassò gli occhi sulla tazza di caffè. - E adesso penso sia giunto il momento per l'agente Solness e per me di ringraziare dell'ospitalità e di tornarcene a Oslo. Se dovessi avere altre domande questo è il mio numero -. Harry lo scrisse sul margine di un giornale, strappò il pezzetto di carta e lo spinse dall'altra parte del tavolino. Poi si alzò in piedi.
- Ma... - disse Colbjørnsen alzandosi a sua volta. Harry lo superava di venti centimetri. - Che cosa volevate da Elias Skog?
- Salvarlo, - rispose Harry abbottonandosi il cappotto.
- Salvarlo? Era coinvolto in qualcosa? Un momento, Hole, andiamo a fondo di questa storia -. Ma l'imperativo di Colbjørnsen aveva perso autorevolezza.
- Sono sicuro che voialtri di Stavanger siete capacissimi di scoprirlo da soli, - rispose Harry. Dalla porta della cucina fece cenno a Kaja che era ora di andare. - Se non doveste riuscirci vi posso raccomandare la Kripos. Se è necessario, salutami Mikael Bellman.
- Salvarlo da cosa?
- Da quello da cui non abbiamo fatto in tempo a salvarlo, - rispose Harry.
Nel taxi diretto a Sola Harry guardò fuori del finestrino la pioggia che martellava i campi di un verde innaturale. Kaja non disse una parola. E lui gliene fu grato.
26. La siringa
Gunnar Hagen li aspettava seduto alla scrivania di Harry quando il commissario e Kaja misero piede nell'umidità calda dell'ufficio.
Bjørn Holm, che era seduto dietro Hagen, si strinse nelle spalle e fece capire a gesti di non avere la più pallida idea di cosa volesse il commissario capo.
- Stavanger, ho saputo, - disse Hagen alzandosi.
- Sì, - rispose Harry. - Resta pure seduto, capo.
- È la tua sedia. Fra poco devo andare.
- Ah sì?
Harry intuì che c'erano brutte notizie. Brutte notizie di una certa importanza. I capi non si precipitavano nella galleria che conduceva alla casa circondariale per dire che il modulo della trasferta era stato compilato male.
Hagen rimase in piedi, lasciando che Harry fosse l'unica persona seduta nella stanza.
- Purtroppo devo informarvi che la Kripos ha già scoperto che vi state occupando degli omicidi. Non ho scelta, devo sospendere le indagini.
Nel silenzio che seguì Harry colse il brontolio delle caldaie nel locale attiguo.
Hagen si guardò intorno, fissandoli a uno a uno per poi fermare gli occhi su Harry. - Non posso nemmeno dire che questo sia un congedo con onore. Vi avevo detto espressamente di muovervi con la massima discrezione.
- Be', - disse Harry. - Ho chiesto a Beate Lønn di far trapelare alla Kripos l'informazione su una particolare corderia, e lei mi ha promesso di farlo in modo che la fonte sembrasse la Scientifica.
- E sicuramente ha mantenuto la parola, - disse Hagen. - È stato il poliziotto rurale di Ytre Enebakk a smascherarti, Harry.
Harry alzò gli occhi al cielo e imprecò sottovoce.
Hagen batté le mani e uno schiocco secco rimbombò tra i muri. - Perciò, il triste ordine che devo darvi è che ogni indagine sugli omicidi cessa con effetto immediato. E che questo ufficio deve essere sgombrato nel giro di quarantott'ore. Gomen nasai.
Harry, Kaja e Bjørn Holm si guardarono mentre la porta di ferro si richiudeva adagio e il rumore dei passi rapidi di Hagen si allontanava giù per la galleria.
- Quarantott'ore, - disse infine Bjørn. - Qualcuno vuole del caffè appena fatto?
Harry diede un calcio al cestino accanto alla scrivania; quello si schiantò contro il muro, sparse il suo modesto contenuto di carta e tornò indietro rotolando.
- Mi potete trovare al Rikshospitalet, - disse affrettandosi verso la porta.
Harry aveva sistemato la dura sedia di legno vicino alla finestra e mentre sfogliava il giornale ascoltava il respiro regolare del padre. C'erano un matrimonio e un funerale fianco a fianco. A sinistra le foto delle esequie di Marit Olsen, che mostravano il viso grave, partecipe del primo ministro, gli abiti neri dei colleghi del partito e il marito, Rasmus Olsen, dietro un paio di enormi occhiali da sole che gli stavano male. La pagina di destra annunciava che Lene, la figlia dell'armatore, avrebbe sposato il suo Tony in primavera, e mostrava foto degli invitati più in vista, i quali sarebbero stati portati tutti in aereo a St Tropez. Sull'ultima pagina c'era scritto che quel giorno a Oslo il sole tramontava alle 16.58. Harry consultò l'orologio e appurò che lo stava facendo in quel preciso istante, dietro le nuvole basse che non volevano cedere né pioggia né neve. Guardò fuori e vide accendersi le luci nelle case sulle pendici tutt'intorno a quello che tanto tempo prima era un vulcano. In un certo senso era liberatorio pensare che un giorno il vulcano si sarebbe spalancato sotto i loro piedi, inghiottendoli, cancellando ogni traccia di quella che era stata una città soddisfatta, ben organizzata e un po' intristita.
Quarantott'ore. Perché mai? Ne sarebbero bastate due per sgombrare il cosiddetto ufficio.
Harry chiuse gli occhi e rifletté sulla faccenda. Stilò mentalmente un ultimo rapporto per il suo archivio personale.
Due donne uccise nello stesso modo, annegate nel proprio sangue, il quale presentava tracce di ketamina. Una donna impiccata alla torre del trampolino con una corda presa da una corderia dismessa. Un uomo affogato nella vasca da bagno di casa sua. Verosimilmente tutte le vittime avevano alloggiato nello stesso rifugio nello stesso momento. Non sapevano ancora chi altro fosse presente, quale potesse essere il movente degli omicidi né cosa fosse successo nel rifugio durante quelle ventiquattr'ore. Avevano solo l'effetto, non la causa. Caso chiuso.
- Harry...
Non aveva sentito il padre svegliarsi e girarsi nel letto.
Olav Hole sembrava stare molto meglio, ma forse dipendeva dal colorito delle guance e dagli occhi lucidi per la febbre. Harry si alzò e avvicinò la sedia al capezzale del padre.
- Sei qui da molto?
- Da dieci minuti, - mentì Harry.
- Ho dormito come un sasso, - disse il padre. - E fatto dei bellissimi sogni.
- Lo vedo. Dall'aspetto sembri pronto ad alzarti e ad andare via di qui sulle tue gambe.
Harry diede un colpetto al guanciale, e il padre lo lasciò fare anche se sapevano entrambi che non aveva bisogno di essere sistemato.
- Come va la casa?
- Benone, - rispose Harry. - Resterà in piedi per l'eternità.
- Bene. Harry, c'è una cosa di cui ti volevo parlare.
- Mhm.
- Ormai sei un uomo fatto. E mi perderai in modo naturale. Come deve essere.
Non come quando perdesti tua madre. Per poco non ne uscisti pazzo.
- Davvero? - domandò Harry sfiorando la federa con la mano.
- Buttasti all'aria la tua stanza. Volevi ammazzare i medici e quelli che l'avevano contagiata, e perfino me. Perché avevo...be', perché non me ne ero accorto prima, suppongo. Eri talmente pieno d'amore.
- Di odio, vorrai dire.
- No, d'amore. È la stessa moneta. Tutto ha origine dall'amore. L'odio non è che il rovescio della medaglia. Ho sempre pensato che sia stata la morte di tua madre a spingerti a bere. O, più precisamente: l'amore per tua madre.
- L'amore è una macchina per uccidere, - mormorò Harry.
- Come?
- Solo una cosa che mi hanno detto una volta.
- Qualunque richiesta di tua madre era un ordine per me. Tranne una. Mi chiese di aiutarla quando sarebbe arrivato il momento.
Harry ebbe la sensazione che qualcuno gli avesse iniettato dell'acqua gelata nel petto.
- Ma non ce la feci. E sai una cosa, Harry? Questo fatto mi ha perseguitato come un incubo. Non è passato giorno senza che ci abbia pensato. Non ho saputo esaudire quel desiderio, il desiderio della donna che amavo sopra ogni altra cosa al mondo.
Il legno della leggera sedia scricchiolò quando Harry balzò in piedi. Tornò alla finestra. Alle sue spalle udì il padre fare un paio di respiri, profondi e tremanti. Poi ecco che disse: - Lo so che è un compito gravoso da accollarti, figliolo. Ma so anche che tu sei come me, che se non lo farai ti perseguiterà. Perciò, lascia che ti spieghi cosa devi fare...
- Papà, - disse Harry.
- La vedi questa siringa?
- Papà! Smettila!
Alle spalle di Harry calò il silenzio. Solo il crepitio del respiro. Harry guardò fuori il film in bianco e nero di una città dove le nuvole premevano i propri indistinti lineamenti plumbei contro i tetti delle case.
- Voglio essere sepolto a Åndalsnes, - disse il padre.
Sepolto. Quella parola sembrava un'eco delle Pasque trascorse con mamma e papà a Lesja, quando Olav Hole spiegava con grande serietà a Harry e a Søs cosa avrebbero dovuto fare se fossero stati travolti da una valanga, colti dalla pericardite costrittiva. Erano circondati da campi perfettamente in piano e da dolci colline: più o meno, era come quando le hostess sui voli nazionali della Mongolia interna spiegavano come usare i giubbotti di salvataggio. Assurdo, eppure: li faceva sentire al sicuro, certi che sarebbero sopravvissuti tutti a patto di fare quello che andava fatto. E adesso il padre gli stava dicendo che invece non era vero.
Harry si schiarì due volte la voce. - Perché a Åndalsnes? Perché non qui in città, dove...
Tacque, il padre indovinò il resto: dov'è sepolta mamma.
- Voglio riposare insieme ai miei compaesani.
- Non li conosci.
- Già, e chi si conosce? Se non altro loro e io veniamo dallo stesso posto. Forse, tutto considerato, è questo che importa. La tribù. Si vuole far parte della tribù.
- Davvero?
- Sì, davvero. Consapevoli o no, è questo che si vuole.
L'infermiere con scritto «Altman» sul cartellino entrò, rivolse un abbozzo di sorriso a Harry e lanciò un'occhiata all'orologio.
Mentre scendeva, Harry incrociò per le scale due poliziotti in divisa che salivano. Annuì automaticamente e con aria d'intesa. Quelli lo fissarono in silenzio, come se fosse uno sconosciuto.
Normalmente Harry aveva nostalgia della solitudine e di tutti i vantaggi che ne derivavano: la pace, il silenzio, la libertà. Ma quando raggiunse la fermata del tram di colpo non sapeva dove andare. Cosa fare. Sapeva soltanto che in quel momento la solitudine nella casa di Oppsal gli sarebbe riuscita insopportabile.
Digitò il numero di Øystein.
Øystein stava facendo una lunga corsa fino a Fagernes, ma gli propose una birra a
Lompa verso mezzanotte, per festeggiare che un'altra giornata lavorativa nella vita di Øystein Eikland si era conclusa in modo accettabile. Harry gli ricordò di essere un alcolista, e Øystein gli rispose che magari ogni tanto anche un alcolista aveva bisogno di sbronzarsi, o no?
Harry augurò buon viaggio a Øystein e riagganciò. Guardò l'orologio. Ed ecco riaffiorare la domanda. Quarantott'ore. Perché mai?
Un tram gli si fermò davanti e le porte si aprirono rumorosamente. Harry sbirciò dentro l'allettante, calda carrozza illuminata. Poi fece dietro front e si incamminò verso la città.
27. Buona, ladra e tirchia
- Mi trovavo nei paraggi, - disse Harry. - Ma forse stavi per uscire?
- No, no, - rispose Kaja sorridendo sulla porta infagottata in un piumino. - Ero seduta in veranda. Entra. Mettiti quelle pantofole là.
Harry si tolse le scarpe e la seguì attraverso il soggiorno. Nella veranda si sedettero ciascuno in un'enorme poltrona di legno. Lyder Sagens gate era silenziosa e completamente deserta, fatta eccezione per una solitaria auto parcheggiata. Ma al piano superiore della casa di fronte, sul lato opposto della strada, Harry intravide la sagoma di un uomo dietro una finestra illuminata.
- Quello è Greger, - spiegò Kaja. - Ha ottant'anni. Se ne sta seduto là e segue tutto quello che succede in questa strada dai tempi della guerra, credo. Mi piace pensare che mi protegga.
- Già, ne sentiamo il bisogno, - disse Harry tirando fuori il pacchetto di sigarette. - Di pensare che qualcuno ci protegga.
- Hai il tuo Greger anche tu?
- No, - rispose Harry.
- Posso scroccartene una?
- Una sigaretta?
Kaja rise. - Ogni tanto fumo. Mi... calma, credo.
- Mhm. Hai pensato a cosa farai? Cioè, quando saranno passate queste ultime quarantott'ore?
Kaja scosse la testa. - Tornerò alla sezione. I piedi sulla scrivania. Ad aspettare un omicidio abbastanza irrilevante perché la Kripos non ce lo soffi.
Harry estrasse due sigarette, se le infilò tra le labbra, le accese entrambe e ne porse una a Kaja.
- Perdutamente tua, - disse lei ridendo. - Ehm... ehm... Come si chiamava il tipo che lo faceva?
- Henreid, - rispose Harry. - Paul Henreid.
- E la tipa a cui accende la sigaretta?
- Bette Davis.
- Gran film. Vuoi una giacca più pesante?
- No, grazie. A proposito, perché te ne stai sul terrazzo? Non è certo quella che si definirebbe una notte tropicale.
Kaja alzò un libro. - Il mio cervello è più lucido all'aria fredda.
Harry lesse la copertina. - Monismo materialistico. Mhm. Mi fa venire in mente l'esame propedeutico di filosofia.
- Esatto. Secondo il materialismo tutto è materia ed energia. Tutto quello che succede fa parte di un grande calcolo, di una reazione a catena, è la conseguenza di qualcosa che è già successo.
- E il libero arbitrio è un'illusione?
- Sì. Le nostre azioni vengono decise dalla composizione chimica del nostro cervello, che viene decisa da chi decide di fare figli con chi, che a sua volta viene deciso dalla composizione chimica del suo cervello. E così via. Per esempio, è possibile ricondurre tutto al Big bang o addirittura più indietro nel tempo. Perfino il fatto che questo libro sia stato scritto, e ciò che stai pensando in questo preciso istante.
- Me la ricordo questa storia, - disse Harry annuendo e soffiando il fumo nella notte novembrina. - Mi fa venire in mente il meteorologo secondo il quale sarebbe bastato avere tutte le variabili rilevanti per poter prevedere che tempo avrebbe fatto di lì all'eternità.
- E potremmo impedire gli omicidi prima che fossero commessi.
- E immaginare che poliziotte scroccatrici di sigarette se ne stiano sedute su verande fredde con costosissimi volumi di filosofia.
Kaja rise. - Non l'ho comprato io questo libro, l'ho trovato di là in uno scaffale Tirò una boccata dalla sigaretta sporgendo le labbra e le andò il fumo negli occhi. - Io non compro mai i libri, li prendo in prestito. O li rubo.
- Non ti ci vedo proprio come ladra.
- Nessuno mi ci vede, ecco perché non mi colgono mai in flagrante, - disse lei posando la sigaretta nel portacenere.
Harry si raschiò la gola. - E perché rubi?
- Rubo soltanto alla gente che conosco e che se lo può permettere. Non perché sono avida, ma perché sono un po' tirchia. Quando studiavo, rubavo i rotoli di carta igienica dai gabinetti dell'università. A proposito, ti sei poi ricordato il titolo di quel libro di Fante che era tanto bello?
- No.
- Mandami un Sms quando ti viene in mente.
Harry fece una breve risata. - Spiacente, non scrivo Sms.
- E come mai?
Harry si strinse nelle spalle. - Non lo so. Non mi piace l'idea. Un po' come quegli indigeni che non vogliono farsi fotografare perché sono convinti che perderebbero parte dell'anima.
- Ci sono! - esclamò Kaja infervorata. - Non vuoi lasciare fonti. Tracce. Prove incontrovertibili che dimostrino chi sei. Vuoi essere sicuro di sparire, completamente.
- Hai colto nel segno, - disse Harry in tono pungente e aspirò. - Vuoi rientrare? - Indicò con un cenno della testa le mani che Kaja si era infilata sotto le cosce.
- No, ho soltanto freddo alle mani, - rispose lei sorridendo. - Il mio cuore è caldo.
E tu?
Harry guardò oltre il recinto del giardino l'auto che era parcheggiata in strada.
- E io cosa?
- Sei come me? Buono, ladro e tirchio?
- No, io sono cattivo, onesto e tirchio. E tuo marito?
Harry lo disse con voce più dura di quanto non fosse nelle sue intenzioni, come se volesse metterla a posto perché... perché cosa? Perché era seduta là, era bella, le piacevano le stesse cose che piacevano a lui e gli aveva prestato le pantofole di un uomo che faceva finta non esistesse.
- Cosa? - domandò lei con un sorrisetto.
- Ha i piedi grandi, se non altro, - si sorprese a dire Harry, e fu subito colto dall'impulso di sbattere la testa contro il piano del tavolo.
Kaja scoppiò a ridere. La sua risata si propagò nel silenzio nero di Fagerborg che si stendeva sopra le case, i giardini, i garage. I garage. Tutti avevano il garage. In strada era parcheggiata soltanto una macchina. Ovviamente, potevano esserci mille motivi per cui era parcheggiata lì.
- Non ce l'ho un marito, - rispose lei.
- Allora...
- Le pantofole che hai ai piedi erano di mio fratello.
- E quelle sulla scala...
- ... anche quelle sono del mio fratello maggiore, e stanno lì perché mi illudo che un paio di scarpe da uomo numero quarantasei riescano a spaventare i malintenzionati.
Lanciò un'occhiata significativa a Harry, il quale scelse di pensare che il doppio senso fosse involontario.
- Quindi tuo fratello abita qui?
Kaja scosse la testa. - È morto. Dieci anni fa. Questo appartamento era di mio padre. Negli ultimi anni, quando Even era iscritto all'università a Blindern, viveva qui insieme a papà.
- E tuo padre?
- È morto poco dopo Even. E allora io mi ero già trasferita qui, così ho preso possesso dell'appartamento.
Kaja tirò su le gambe, appoggiò la testa contro le ginocchia. Harry guardò il suo esile collo, la nuca, dove i capelli raccolti tiravano e qualche ciocca sciolta ricadeva sulla pelle.
- Pensi spesso a loro? - le chiese Harry.
Kaja sollevò la testa dalle ginocchia.
- Soprattutto a Even, - rispose. - Papà ci lasciò quando eravamo piccoli, e mamma viveva in una bolla tutta sua, così Even mi fece da madre e da padre. Mi aiutava, mi incoraggiava, mi educava, era il mio modello. Ai miei occhi non sbagliava mai.
Quando due persone sono state unite come noi due, il legame non si allenta mai. Mai.
Harry annuì.
Kaja si schiarì piano la voce. - Come sta tuo padre?
Harry fissò la punta incandescente della sigaretta.
- Non ti sembra strano? - chiese lui di rimando. - Che Hagen ci abbia dato quarantott'ore. Ce ne sarebbero bastate due per sgombrare l'ufficio.
- Be'. Adesso che lo dici.
- Magari ha pensato che potevamo sfruttare gli ultimi due giorni per fare qualcosa di utile.
Kaja lo guardò.
- Non per indagare sugli omicidi, ovviamente, quelli li lasciamo alla Kripos. Però ho saputo che l'Ufficio persone scomparse ha bisogno di aiuto.
- Dove vuoi arrivare?
- Adele Vetlesen è una ragazza che, a quanto mi risulta, non è collegata a nessun caso di omicidio.
- Secondo te, dovremmo...
- Secondo me dovremmo presentarci al lavoro domani mattina alle sette, - disse Harry. - E vedere se riusciamo a renderci utili.
Kaja Solness prese una boccata dalla sigaretta. Soffiò fuori il fumo e prese un'altra boccata.
- Ti stai calmando? - le domandò Harry con un sorriso sghembo.
Kaja scosse la testa tenendo la sigaretta davanti a sé. - Harry, ci tengo al mio posto di lavoro.
Harry annuì. - La presenza è facoltativa. Anche Bjørn ci voleva riflettere.
Kaja prese un'altra boccata. Harry spense la sua sigaretta.
- È ora di andare, - disse. - Stai battendo i denti.
Uscendo, Harry cercò di capire se nell'auto parcheggiata ci fosse qualcuno, ma era impossibile senza avvicinarsi. E decise di non farlo.
A Oppsal la casa lo aspettava. Grande, vuota e piena di echi.
Si distese sul letto della cameretta e chiuse gli occhi.
E fece il sogno che faceva spesso. In un porticciolo turistico di Sydney, una catena veniva tirata su, una medusa saliva verso la superficie, ma non era una medusa, erano i capelli rossi di lei, e le galleggiavano intorno al viso bianco. Poi arrivò l'altro sogno. Quello nuovo. Lo aveva fatto per la prima volta a Hong Kong, a Natale. Era disteso e fissava un chiodo che sporgeva dal muro sopra di lui e a cui era infilzato il viso di un uomo dall'aria sensibile con un paio di baffi curatissimi. Nel sogno Harry aveva un oggetto in bocca, un oggetto che sembrava sul punto di fargli esplodere la testa. Che cos'era? Che cos'era? Era una promessa. Harry sussultò. Tre volte. Poi si addormentò.
28. Drammen
- Sicché sei stato tu a denunciare la scomparsa di Adele Vetlesen, - disse Kaja.
- Sì, - rispose il tipo che era seduto di fronte a loro al People & Coffee. - Abitavamo insieme. Non era tornata a casa. Mi sono sentito in dovere di farlo.
- Sì, certo, - disse Kaja e guardò Harry. Erano le otto e mezzo del mattino. Avevano impiegato mezz'ora di macchina per raggiungere Drammen da Oslo subito dopo la riunione a tre, alla fine della quale Harry aveva mandato via Bjørn Holm. Lui non aveva detto gran che, limitandosi a fare un profondo sospiro, a lavare la sua tazza, a salire in macchina per tornare alla sede della Scientifica a Bryn e riprendere a lavorare là.
- Avete notizie di Adele, o cosa? - domandò il giovane guardando prima Kaja poi Harry.
- No, - rispose Harry. - E tu?
Il ragazzo scosse la testa e lanciò un'occhiata alle proprie spalle, verso il bancone, per assicurarsi che non ci fossero clienti in attesa. Erano appollaiati su alti sgabelli da bar davanti alla finestra che dava su una delle tante piazze di Drammen, ossia uno spazio aperto che fungeva da parcheggio. People & Coffee vendeva caffè e prodotti da forno a prezzi d'aeroporto provando a dare l'impressione di appartenere a una catena americana, e forse era davvero così. Il ragazzo con cui abitava Adele Vetlesen, Geir Bruun, dimostrava una trentina d'anni, era insolitamente pallido e aveva un cocuzzolo lucido e sudaticcio sopra uno sguardo azzurro perennemente irrequieto.
Era un cosiddetto barista , un titolo che incuteva un certo timoroso rispetto negli anni Novanta, quando le caffetterie avevano conquistato Oslo. Ma il suo lavoro consisteva semplicemente nel preparare caffè, un'arte che, secondo Harry, significava innanzitutto evitare errori ovvi. Da poliziotto qual era, lui si basava sul tono di voce, sulla dizione, sul frasario e sulle deviazioni grammaticali delle persone per inquadrarle. Il modo di vestirsi, pettinarsi e comportarsi di Geir Bruun non induceva a pensare che fosse gay, ma appena apriva bocca il sospetto veniva. C'era qualcosa nella chiusura delle vocali, nelle piccole, superflue parole d'abbellimento, nella pronuncia blesa che quasi sembrava ostentata. Harry sapeva che quel tipo poteva benissimo essere eterosessuale al cento per cento, ma aveva già stabilito che Katrine era saltata a conclusioni affrettate quando aveva definito Adele Vetlesen e Geir Bruun una coppia. Erano semplicemente due persone che per motivi economici dividevano un appartamento nel centro di Drammen.
- Sì, - rispose Geir Bruun alla domanda di Kaja. - Ricordo che l'autunno scorso ha pernottato in uno di quei rifugi di montagna -. Lo disse come se il concetto gli fosse totalmente estraneo. - Però lei non è scomparsa mentre era al rifugio.
- Lo sappiamo, - disse Kaja. - Ci è andata con qualcuno e, in caso affermativo, sai con chi?
- Non ne ho la più pallida idea. Non parlavamo di queste cose, dover condividere il bagno già basta e avanza, non so se mi spiego. Lei aveva la sua vita, io la mia. Ma dubito che sia andata in montagna da sola, per dirla così. - Eh?
- Adele faceva il meno possibile da sola. Non ce la vedo in un rifugio senza qualcuno. Ma chi, proprio non saprei. Era, se devo dire pane al pane, un po' promiscua. Non aveva amiche, ma in compenso aveva tanti amici. Che teneva nascosti gli uni agli altri. Adele aveva una vita non doppia, ma quadrupla. O giù di lì.
- Quindi era disonesta?
- Non necessariamente. Una volta mi diede una dritta sui modi onesti di chiudere una storia. Mi raccontò che una sera, mentre uno la trombava da dietro, gli scattò una foto da sopra la spalla con il cellulare e poi la mandò come Mms al tipo con cui stava in quel periodo, cancellandolo contemporaneamente dalla rubrica. Tutto in un'unica operazione -. Geir Bruun li fissò con un'espressione vacua.
- Non ho parole, - disse Harry. - Sappiamo che al rifugio ha pagato per due persone. Puoi darci il nome di un suo amico, in modo che possiamo cominciare da lui?
- No, - rispose Geir Bruun. - Però quando ho denunciato la sua scomparsa avete controllato con chi aveva parlato al telefono nelle ultime settimane.
- Chi ha controllato?
- Non ricordo nessun nome. Però erano poliziotti di qua.
- Bene, abbiamo un appuntamento con loro adesso, - disse Harry, e dopo aver guardato l'ora si alzò.
- Perché, - disse Kaja, che era rimasta seduta, - la polizia ha interrotto le indagini sulla scomparsa di Adele? Non ricordo nemmeno di averne letto nei giornali.
- Non lo sapete? - domandò il ragazzo facendo segno a due donne con lacarrozzina davanti al bancone che le avrebbe servite subito. - Ha mandato quella cartolina.
- Una cartolina? - domandò Harry.
- Sì, dal Ruanda. In Africa.
- Che cosa c'era scritto?
- Ben poco, in realtà. Che aveva incontrato l'uomo dei suoi sogni e che dovevo pagare l'affitto da solo fino a marzo, quando sarebbe tornata. Che stronza.
Il distretto di polizia era a due passi dal bar. Un commissario con la testa a forma di zucca corta e larga e un nome che Harry dimenticò nello stesso istante in cui lo udì, li ricevette in un ufficio puzzolente di fumo, servi il caffè in bicchieri di plastica che scottavano i polpastrelli e cominciò a lanciare lunghi sguardi a Kaja ogni volta che credeva di non essere osservato.
Esordì tenendo una conferenza sul fatto che in ogni momento in Norvegia c'erano tra le cinquecento e le mille persone scomparse, che prima o poi ricomparivano quasi tutte, e che se la polizia avesse dovuto indagare su ogni singola scomparsa che non si sospettasse collegata a reati o incidenti, non avrebbe avuto il tempo di fare altro. Harry soffocò uno sbadiglio.
Nel caso in questione, Adele Vetlesen aveva addirittura dato un segno di vita, anzi, ce l'avevano lì da qualche parte. Il commissario si alzò, infilò la zucca nel cassetto di un archivio e riemerse con una cartolina che posò davanti a loro. Raffigurava una montagna conica con una nuvola intorno alla vetta, ma non c'era il nome né della montagna né del paese in cui si trovava. La grafia era brutta e spigolosa. Harry riuscì a malapena a decifrare la firma. Adele. Sul francobollo c'era scritto «Ruanda» e il timbro di Kigali, che a Harry parve di ricordare fosse la capitale.
- La madre ha riconosciuto la scrittura, - disse il commissario e spiegò che su sua insistenza avevano cercato e trovato Adele Vetlesen nella lista passeggeri del volo Brussels Airlines per Kigali con scalo all'aeroporto di Entebbe, in Uganda, del 25 novembre. Inoltre, avevano fatto una ricerca negli alberghi tramite l'Interpol, e un hotel di Kigali - il commissario consultò gli appunti: il Gorilla Hotel! - aveva avuto tra i propri ospiti una certa Adele Vetlesen la notte del suo arrivo. L'unico motivo per cui Adele Vetlesen ancora figurava nell'elenco delle persone scomparse era perché non sapevano con esattezza dove si trovasse al momento, e tecnicamente una cartolina dall'estero non cambiava la sua condizione di persona scomparsa.
- Inoltre, non si tratta del cosiddetto mondo civilizzato, - disse il commissario allargando le braccia. - Huti, Tuzzi, o come si chiamano. I machete. Due milioni di morti. Mi seguite?
Harry vide Kaja chiudere gli occhi mentre il commissario, con quella voce da maestro di scuola e un'abbondanza di subordinate parentetiche, spiegava quanto la vita valesse poco in Africa, dove la tratta degli esseri umani non era un concetto sconosciuto e in teoria Adele poteva essere stata rapita e costretta a scrivere la cartolina, dal momento che i neri davano volentieri la paga di un anno pur di affondare i denti in una bionda norvegese, giusto?
Harry guardò la cartolina sforzandosi di ignorare la voce dell'uomo-zucca. Una montagna conica con una nuvola intorno alla vetta. Alzò lo sguardo quando il commissario dal nome dimenticabile si schiarì la voce.
- Eh sì, a volte possiamo capirlo, o no? - disse rivolgendo un sorriso d'intesa a Harry.
Harry si alzò e disse che il lavoro li aspettava a Oslo. Ma i colleghi di Drammen potevano fargli il favore di scannerizzare la cartolina e spedirla via e-mail?
- A un grafologo? - domandò il commissario, visibilmente contrariato guardando l'indirizzo che Kaja aveva annotato.
- Un vulcanologo, - disse Harry. - Dovresti mandargli l'immagine e chiedergli se riesce a identificare il monte.
- A identificare il monte?
- Gli interessano moltissimo. Gira il mondo per osservarli.
Il commissario si strinse nelle spalle e annuì. Poi li accompagnò all'uscita. Harry gli chiese se avevano verificato se ci fossero state telefonate sul cellulare di Adele dopo la sua partenza.
- Sappiamo fare il nostro lavoro, Hole, - ribatté il commissario. - Nessuna chiamata in uscita. Ma puoi immaginare che la rete mobile, in un paese come il Ruanda...
- Veramente no, - disse Harry. - D'altra parte non ci sono mai stato.
- Una cartolina! - disse sbuffando Kaja quando furono in piazza, davanti all'auto civetta che avevano preso in centrale. - Un biglietto aereo e un pernottamento in un albergo del Ruanda! Perché quella tua maniaca dei dati di Bergen non l'ha scoperto? Ci avrebbe evitato di sprecare mezza giornata a Drammen, cazzo!
- Pensavo che saresti stata di ottimo umore, - disse Harry aprendo la portiera. - Ti sei fatta un nuovo amico, e forse Adele non è morta.
- E tu, sei di ottimo umore? - domandò Kaja.
Harry guardò le chiavi della macchina. - Ti va di guidare?
- Sì!
Anche se stranamente nessun autovelox li aveva fotografati, arrivarono a Oslo in poco più di venti minuti.
Concordarono di portare prima in centrale gli oggetti leggeri, la cancelleria e i cassetti delle scrivanie, e rimandare quelli pesanti al giorno dopo. Li sistemarono sullo stesso carrello che Harry aveva usato per ammobiliare la stanza.
- Ti hanno già assegnato un ufficio? - domandò Kaja quando furono a metà della galleria. La sua voce mandò un'eco prolungata.
Harry scosse la testa. - Mettiamo tutto nel tuo.
- Ma lo hai chiesto, un ufficio? - domandò lei e si fermò.
Harry continuò a camminare.
- Harry!
Harry si fermò a sua volta.
- Mi avevi chiesto notizie di mio padre, - disse.
- Non volevo...
- No, certo. Ma gli resta poco. Okay? Dopo, ripartirò. Volevo solo...
- Volevi solo?
- Hai mai sentito parlare della Società dei poliziotti estinti?
- Cos'è?
- Gente che lavorava all'Anticrimine. Gente cui volevo bene. Non so se sia perché devo loro qualcosa, ma quella è la mia tribù.
- Cosa?
- Non è molto, ma è tutto quello che ho, Kaja. È l'unica cosa verso la quale ho motivo di sentirmi devoto.
- Una sezione di polizia?
Harry si rincamminò. - Lo so, e sicuramente passerà. Il mondo va avanti. In fondo, non è che una riorganizzazione, no? Le storie si annidano nei muri e adesso quei muri devono essere abbattuti. Tu e i tuoi dovrete scrivere delle storie nuove, Kaja.
- Sei ubriaco?
Harry rise. - No, solo sconfitto. Finito. E va bene così. Benissimo.
Il suo cellulare squillò. Era Bjørn.
- Ho lasciato la biografia di Hank sulla mia scrivania, - disse.
- Ce l'ho qui, - rispose Harry.
- Che rimbombo, sei in chiesa?
- No, nella galleria.
- O, Signore, c'è campo laggiù?
- A quanto pare abbiamo una rete mobile migliore che in Ruanda. Lascio il libro all'ingresso.
- È la seconda volta oggi che sento nominare il Ruanda e i cellulari. Di' che passo a ritirarlo domani.
- Cos'hai sentito a proposito del Ruanda?
- Niente, solo una cosa che ha detto Beate. A proposito del coltan, sai, quei residui metallici che abbiamo trovato sui denti delle due che avevano ferite da punta in bocca?
- Terminator.
- Eh?
- Niente. Che c'entra il Ruanda?
- Il coltan viene usato nella fabbricazione dei cellulari. È un metallo raro e quasi tutto il coltan del mondo proviene dal Congo. Solo che i giacimenti si trovano nella zona di guerra dove nessuno ha il controllo, e così un gruppo di uomini d'affari scaltri lo ruba in mezzo a tutto quel caos e lo trasporta in Ruanda.
- Mhm.
- Ci sentiamo.
Harry stava per rimettere a posto il cellulare quando si accorse di avere un Sms non letto. Lo aprì.
«Nyiragongo. Ultima eruzione 2002. Uno dei pochi vulcani con lago di lava aperto nel cratere. Si trova in Congo, vicino alla città di Goma. Felix».
Goma. Harry rimase impalato a guardare le gocce che cadevano da un tubo del soffitto. Gli strumenti di tortura africani di Kluit provenivano da lì.
- Cosa c'è? - domandò Kaja.
- Ustaoset, - disse Harry. - E il Congo.
- E cosa significa?
- Non lo so, - rispose Harry. - Ma in fatto di coincidenze sono uno scettico -. Afferrò l'impugnatura del carrello e lo girò.
- Ma che fai? - chiese Kaja.
- Torno indietro, - disse Harry. - Abbiamo ancora più di ventiquattr'ore.
29. Kluit
Era una serata insolitamente mite a Hong Kong. I grattacieli gettavano lunghe ombre su The Peak, alcune arrivavano quasi fin su alla villa dove Herman Kluit era seduto sul terrazzo con un Singapore sling rosso sangue in una mano e il telefono nell'altra. Ascoltava, e intanto guardava i fari dei serpentoni di auto avanzare come tante lucciole giù, giù in basso.
Harry Hole gli era simpatico, gli era rimasto simpatico fin dal primo istante in cui aveva visto quel norvegese alto, atletico ma evidentemente alcolizzato mettere piede a Happy Valley per puntare i suoi ultimi soldi sul cavallo sbagliato. Qualcosa nel suo sguardo bellicoso, nella postura arrogante, nel linguaggio non verbale guardingo gli ricordava se stesso quando era un giovane mercenario in Africa. Herman Kluit aveva combattuto ovunque, su tutti i fronti, al servizio di quei signori che pagavano. In Angola, Zambia, Zimbabwe, Sierra Leone, Liberia. Tutti paesi dal passato fosco e il futuro ancora più fosco. Ma non più fosco che nel paese di cui gli aveva chiesto Harry. Il Congo. Era stato là che alla fine avevano trovato la vena d'oro. Sotto forma di diamanti. E di cobalto. E di coltan. Il capo villaggio apparteneva ai Mai-Mai, i quali credevano che l'acqua li rendesse invulnerabili, ma per il resto era un uomo assennato. In Africa non c'era niente che non si potesse accomodare con una mazzetta di banconote o, al bisogno, un carico di kalashnikov. Nel giro di un anno Herman Kluit era diventato ricco. Nel giro di tre, ricco sfondato. Una volta al mese raggiungevano la città più vicina, Goma, e dormivano nei letti invece che sulla nuda terra della giungla, dove ogni notte una coltre di strane mosche succhiasangue si levava da buche nel terreno così che al risveglio si ritrovavano ridotti a cadaveri mangiucchiati. Goma. Lava nera, soldi neri, bellezze nere, peccati neri. Nella giungla la metà degli uomini si era presa la malaria, l'altra malattie di cui nessun medico bianco era a conoscenza e che andavano sotto la definizione comune di febbre della giungla. Herman Kluit era affetto da questa malattia e, sebbene lo lasciasse in pace per lunghi periodi, non se ne sarebbe mai liberato completamente. L'unico rimedio che conosceva era il Singapore sling. Quel drink gli era stato presentato a Goma, da un belga che possedeva una villa magnifica costruita, a quanto sembrava, da re Leopoldo ai tempi in cui il paese si chiamava Libero Stato del Congo ed era il campo giochi e la cassaforte personale del monarca. La villa sorgeva in riva al lago Kivu, che vantava donne e tramonti di tale bellezza da far dimenticare per un momento la giungla, i Mai-Mai e le mosche terricole.
Era stato il belga a mostrare a Herman Kluit la piccola camera del tesoro del re nella cantina. Là aveva collezionato di tutto, dagli orologi più sofisticati del mondo ad armi rare, da fantasiosi strumenti di tortura a pepite d'oro, da diamanti grezzi a teste umane imbalsamate. Ed era stato là che Kluit aveva visto per la prima volta la cosiddetta mela di Leopoldo. A quanto sembrava era stata messa a punto da uno degli ingegneri belgi del re per essere usata sui capitribú restii che si rifiutavano di rivelare dove si trovavano i diamanti. Fino ad allora avevano utilizzato i bufali. Spalmavano il capotribù di miele, lo legavano a un albero e gli mettevano vicino un bufalo rosso catturato appositamente che cominciava a leccare il miele. Tutto questo perché il bufalo aveva una lingua talmente ruvida che gli staccava la pelle e la carne. Ma catturare un bufalo richiedeva tempo, e capitava che fosse difficile fermarlo una volta che aveva cominciato a leccare. Di qui la mela di Leopoldo. Non tanto per la sua efficacia dal punto di vista strettamente tecnico come strumento di tortura, dato che per giunta impediva al prigioniero di parlare. Ma l'effetto sugli indigeni presenti, che vedevano cosa succedeva quando il responsabile dell'interrogatorio tirava la cordicella la seconda volta, era soddisfacente sotto ogni punto di vista. L'uomo successivo che si sentiva chiedere di aprire la bocca per ricevere la mela, parlava a raffica.
Con un cenno della testa Herman Kluit ordinò alla sua cameriera filippina di prendere il bicchiere vuoto.
- Ricordi bene, Harry, - disse Herman Kluit. - È ancora sulla mensola del mio camino. Per fortuna ignoro se sia mai stata usata. Un souvenir. Non mi fa dimenticare quel che c'è nel cuore di tenebra. È sempre utile, Harry. No, non mi risulta che sia mai stata usata altrove. Vedi, è un congegno tecnologico complicato, con tutte quelle molle e punte. Per costruirle ci vuole una lega speciale. Il coltan, esatto. Sì, certo. Molto raro. La persona da cui ho acquistato la mia mela, Eddie Van Boorst, mi ha detto che ne sono state realizzate soltanto ventiquattro, e che lui ne possedeva ventidue, di cui una d'oro a ventiquattro carati. Esatto, hanno anche ventiquattro aghi. Come facevi a saperlo? Pare che il numero ventiquattro avesse a che fare con la sorella dell'ingegnere, non ricordo in che modo. Ma forse Van Boorst me lo ha detto solo per alzare il prezzo: è belga, giusto?
La risata di Kluit cedette alla tosse. Quella maledetta febbre.
- In ogni caso, dovrebbe avere un prospetto su dove si trovano le mele. Abitava in una bellissima villa a Goma, nel Kivu settentrionale, quasi al confine con il Ruanda. L'indirizzo? - Kluit tossì di nuovo. - A Goma spunta una nuova strada ogni giorno, e di tanto in tanto mezza città viene sepolta dalla lava, perciò gli indirizzi non esistono, Harry. Ma l'ufficio postale sa dove trovare i musi bianchi. No, non so se viva ancora a Goma. O se sia vivo, se è per questo. In Congo l'aspettativa di vita è poco più di trent'anni, Harry. Anche per i bianchi. E poi Goma è praticamente sotto assedio.
Appunto. No, certo che non hai saputo di quella guerra. Nessuno lo ha saputo.
Gunnar Hagen fissò incredulo Harry e si sporse sopra la scrivania.
- Vuoi andare in Ruanda? - domandò.
- Solo un salto, - rispose Harry. - Quarantott'ore compreso il viaggio.
- Per indagare su cosa?
- Te l'ho detto. Su un caso di persona scomparsa. Adele Vetlesen. Kaja andrà su a Ustaoset per cercare di scoprire con chi abbia viaggiato Adele subito prima di sparire.
- Perché non potete semplicemente telefonare al rifugio e chiedere di controllare il registro degli ospiti?
- Perché allo Håvass non c'è personale, - rispose Kaja, che aveva preso possesso della sedia accanto a Harry. - Però tutti quelli che pernottano nei rifugi dell'Ente per il turismo devono scrivere il proprio nome nel registro degli ospiti e specificare dove sono diretti. Questo perché se viene denunciata la scomparsa di qualcuno in montagna, le squadre di soccorso sanno da dove cominciare le ricerche. Spero che Adele e il suo compagno di viaggio siano registrati con nome, cognome e indirizzo.
Gunnar Hagen si grattò la corona di capelli con entrambe le mani. - E ovviamente, queste ricerche non hanno nulla a che fare con gli altri casi di omicidio?
Harry sporse il labbro inferiore. - Non mi risulta, capo. E a te?
- Mhm. E perché dovrei dilapidare il fondo trasferte della sezione per una gita tanto dispendiosa?
- Perché il traffico di esseri umani ha la massima priorità, - rispose Kaja. - Vedi la dichiarazione del ministro della Giustizia alla stampa all'inizio di questa settimana.
- E comunque, - disse Harry, stiracchiandosi e intrecciando le mani dietro la testa, - è impossibile prevedere se emergeranno fatti che potrebbero portare alla soluzione di altri casi.
Gunnar Hagen guardò il suo commissario con espressione pensosa.
- Capo, - aggiunse Harry.
30. Registro degli ospiti
Un cartello sul muro di una modesta stazione gialla annunciava che erano arrivati a Ustaoset. Kaja consultò l'orologio per controllare che fossero in orario: 10.44. Guardò fuori. Il sole splendeva sulle distese innevate e sui monti bianchi come porcellana. A parte un grappolo di case e un albergo a tre piani, Ustaoset era vera e propria montagna brulla. Certo, era cosparsa di piccole baite e di qualche arbusto disorientato dall'alta quota, ma restava comunque una zona desolata. Accanto all'edificio della stazione, quasi sulla banchina, c'era un solitario Suv con il motore acceso. Dall'interno della carrozza sembrava che fuori non spirasse un alito di vento. Ma appena scese dal treno Kaja ebbe l'impressione che l'aria le trapassasse i vestiti: la biancheria termica, la giacca a vento, le scarpette da fondo.
Una figura saltò giù dal Suv e le venne incontro. Aveva il basso sole invernale alle spalle. Kaja strizzò gli occhi. Una camminata agile, sicura di sé, un sorriso bianco e una mano tesa. Kaja si irrigidì: era Even.
- Aslak Krongli, - si presentò l'uomo salutandola con una vigorosa stretta mano. - Polizia rurale.
- Kaja Solness.
- Fa freddo, si. Non è come giù in pianura, eh?
- Già, - rispose Kaja, ricambiando il sorriso.
- Oggi non posso salire allo Håvass. C'è stata una valanga, una galleria è chiusa e dobbiamo deviare il traffico Senza chiedere prese gli sci di Kaja, se li mise in spalla e si diresse verso il Suv. - Però ho chiesto al custode del rifugio di accompagnarti. Odd Utmo. Va bene?
- Va benissimo, - rispose Kaja, soddisfatta della soluzione. Magari così si sarebbe risparmiata tante domande sul perché di punto in bianco la polizia di Oslo indagasse su una persona scomparsa di Drammen.
Krongli l'accompagnò per i cinquecento metri scarsi che li separavano dall'albergo. Sul piazzale coperto di neve davanti all'ingresso un uomo sedeva in sella a una motoslitta gialla. Indossava una tuta rossa, un berretto di pelo con i paraorecchie, una sciarpa legata sopra la bocca e grossi occhiali da neve.
Quando alzò gli occhiali e mormorò il suo nome, Kaja notò che aveva un occhio coperto da una membrana bianca e opalescente, come se ci fosse stato versato sopra del latte. L'altro occhio la scrutò spudoratamente da capo a piedi. La postura eretta dell'uomo sarebbe potuta appartenere a un giovane mentre il suo viso era quello di un vecchio decrepito.
- Kaja. Grazie per la disponibilità, nonostante il poco preavviso, - gli disse.
- Mi pagano per questo, - ribatté Odd Utmo, poi consultò l'orologio, abbassò la sciarpa e sputò. Kaja vide l'apparecchio ortodontico scintillare tra i denti tinti di marrone dal tabacco da masticare. Lo sputo formò una stella nera sul ghiaccio. - Spero che tu abbia mangiato e fatto pipi.
Kaja rise, ma Utmo aveva già inforcato la motoslitta e le dava le spalle.
Intanto Krongli aveva infilato i suoi sci e bastoncini sotto le cinghie, fissandoli in orizzontale lungo i fianchi della motoslitta insieme a quelli di Utmo, a un fascio di cilindri che sembravano candelotti di dinamite rossi e a una carabina con cannocchiale di mira.
Kaja si girò verso di lui. Il poliziotto rurale si strinse nelle spalle e le rivolse ancora una volta il suo sorriso da ragazzo. - Buona fortuna, spero che trove...
Il resto della frase fu coperto dal rombo del motore della motoslitta. Kaja montò di corsa. Con sollievo vide che c'erano delle maniglie cui aggrapparsi, così se non altro poteva evitare di abbracciare quel vecchio decrepito dall'occhio bianco. I fumi di scarico li circondarono, poi la motoslitta partì di scatto.
Utmo stava in piedi con le ginocchia leggermente piegate e usava il peso del corpo per bilanciare il veicolo: superò l'albergo, un cumulo di neve e poi si inoltrò in quella fresca salendo in diagonale su per il primo, dolce pendio. Arrivati sulla cima, da dove si godeva il panorama verso nord, Kaja vide una distesa infinita di bianco. Utmo si girò, fece un cenno interrogativo. Kaja annuì per comunicargli che andava tutto bene. Poi lui accelerò. Kaja si voltò e tra gli spruzzi di neve che si alzavano dietro i cingoli vide sparire l'abitato.
Aveva spesso sentito dire che le distese innevate facevano venire in mente il deserto. A lei facevano pensare ai giorni e alle notti passati con Even nella barca a vela d'altura del fratello maggiore.
La motoslitta solcava il maestoso paesaggio deserto. La neve e il vento avevano cancellato di concerto i contorni, li avevano smussati, spianati fino a farlo sembrare un immenso mare in cui la grande montagna, lo Hallingskarvet, si innalzava come una minacciosa onda gigantesca. Non c'erano movimenti bruschi, la sofficità della neve e la pesantezza della motoslitta li addolcivano, li attutivano. Kaja si strofinò con prudenza il naso e le guance per accertarsi che il sangue li irrorasse a sufficienza. Aveva visto in quale stato potevano ridurre un viso congelamenti anche relativamente lievi. Il rombo monotono della motoslitta e l'uniformità tranquillizzante del paesaggio le avevano fatto venire sonno quando si riscosse di soprassalto e si accorse che il motore taceva ed erano fermi. Guardò l'ora. Il suo primo pensiero fu che il motore fosse in panne e si trovassero ad almeno quarantacinque minuti di motoslitta dalla civiltà. Quanto ci avrebbero impiegato con gli sci? Tre ore? Cinque? Non ne aveva la più pallida idea. Utmo era già smontato e aveva tirato giù gli sci dallo scooter.
- Qualche problema al... - fece per dire lei, ma si interruppe quando Utmo si rialzò indicandole la piccola conca davanti alla quale si erano fermati.
- Il rifugio Håvass, - le disse.
Kaja strizzò gli occhi dietro gli occhiali da sole. E, infatti, ai piedi della montagna scorse un piccolo rifugio nero.
- Perché non andiamo con la motoslitta...
- Perché la gente è stupida, e perciò dobbiamo avvicinarci al rifugio quatti quatti.
- Quatti quatti? - domandò Kaja e si sbrigò ad agganciarsi gli sci seguendo l'esempio di Utmo.
Lui indicò il fianco della montagna con il bastoncino. - Se entri in una valle così stretta con una motoslitta, il rumore rimbalza avanti e indietro. La neve fresca...
- Valanghe, - disse Kaja. Ricordò qualcosa che le aveva detto il padre dopo uno dei suoi viaggi sulle Alpi. Che lassù durante la Seconda guerra mondiale erano morti oltre sessantamila soldati sotto le valanghe, provocate per la maggior parte dalle onde sonore del fuoco d'artiglieria.
Utmo si fermò un momento e la guardò di nuovo. - Questi amanti della natura di città pensano di essere furbi costruendo i rifugi sottovento. Ma è solo una questione di tempo e la neve si prenderà anche quello.
- Anche? - domandò Kaja.
- Lo Håvass esiste solo da tre anni. E questo è il primo anno di vera e propria neve da slavina. E presto ne arriverà altra.
Indicò verso ovest. Kaja si riparò gli occhi con la mano. Sull'orizzonte di neve vide quello a cui Utmo alludeva. Pesanti cumulonembi grigio bianchi si innalzavano in formazioni a fungo sullo sfondo azzurro.
- Nevicherà per tutta la settimana, - disse lui, poi staccò la carabina dalla motoslitta e se la mise a tracolla. - Se fossi in te mi sbrigherei. Ed eviterei di gridare.
Imboccarono la valle in silenzio, e Kaja sentì scendere la temperatura quando furono in ombra, dove il freddo si posava negli avvallamenti.
Davanti al rifugio trattato con il mordente nero si sganciarono gli sci e li appoggiarono contro il muro. Utmo si cavò di tasca una chiave e la infilò nella toppa.
- Come fanno a entrare gli ospiti? - domandò Kaja.
- Comprano la chiave universale. Apre tutti e quattrocento i rifugi turistici del paese -. Utmo girò la chiave, abbassò la maniglia e spinse. Non accadde nulla. Imprecò sottovoce, puntò la spalla contro la porta e spinse. Il battente si staccò dagli stipiti con un gridolino stizzito.
- Con il freddo i rifugi rimpiccioliscono, - borbottò.
L'interno era semibuio e odorava di cherosene e di riscaldamento a legna.
Kaja ispezionò il rifugio. Sapeva che il regolamento era semplicissimo. All'arrivo ci si iscriveva nel registro degli ospiti, si prendeva un letto, oppure un materasso se i letti erano tutti occupati, si accendeva il camino, si cucinava il cibo portato al sacco nella cucina fornita di stufa e utensili e - se si attingeva alle provviste degli armadietti - si mettevano i soldi in una cassetta. La stessa cassetta serviva per pagare il pernottamento, altrimenti si compilava la delega. Tutti i pagamenti dipendevano dal senso di responsabilità e dell'onore di ciascuno.
Il rifugio aveva quattro camere da letto, ognuna esposta a nord, ognuna a quattro posti con due letti a castello. Il soggiorno era esposto a sud e ammobiliato in maniera tradizionale, ossia con pesanti mobili di pino. C'erano sia un grande camino, per l'effetto accogliente, sia una stufa, per assicurare un riscaldamento più efficace. Kaja calcolò che al tavolo potevano stare sedute dodici, quindici persone, e il doppio a dormire, se ci si stringeva e si utilizzavano i materassi e il pavimento. Immaginò la luce delle candele e del camino guizzare su visi noti e sconosciuti mentre si chiacchierava del percorso fatto e di quello dell'indomani davanti a una birra o a un bicchiere di vino rosso. Il viso rubizzo di Even la guardò ridendo e brindò in uno degli angoli quasi completamente bui.
- Il registro degli ospiti è in cucina, - disse Utmo indicando una porta. Immobile davanti all'ingresso, ancora con il berretto e i guanti indosso, aveva l'aria impaziente. Kaja posò la mano sul saliscendi e fece per aprirlo, quando ebbe un flash. Il poliziotto rurale, Krongli. La sua somiglianza era impressionante. Kaja sapeva che quel pensiero le sarebbe tornato in mente, solo che non sapeva quando. - Potresti aprirmi la porta? - domandò.
- Come?
- È incastrata, - rispose Kaja. - Il freddo.
Chiuse gli occhi mentre lo udiva avvicinarsi. La porta si aprì senza far rumore, e lei si sentì addosso lo sguardo sbalordito di Utmo. Poi riaprì gli occhi ed entrò.
La cucina aveva un leggero odore di grasso rancido. Il cuore prese a batterle più forte mentre il suo sguardo correva sul lavello, sugli armadietti, fino a trovare il registro rilegato in pelle nera sul piano da lavoro sotto la finestra. Era fissato al muro da una cordicella di nylon azzurra.
Kaja fece un respiro profondo. Si avvicinò al registro. Lo sfogliò.
Una pagina dopo l'altra di nomi scritti a mano, dagli stessi ospiti. La maggior parte aveva ottemperato alla regola di indicare la tappa successiva.
- In realtà, sarei passato di qui nel fine settimana e avrei potuto controllare per voi, - risuonò la voce di Utmo alle sue spalle. - Ma non potevate aspettare, immagino.
- No, - disse Kaja scorrendo le date. Novembre. 6 novembre. 8 novembre. Tornò indietro. Poi di nuovo in avanti. Non c'era. Il 7 novembre era sparito. Aprì al massimo il registro. Lungo il margine spuntavano i resti del foglio strappato. Qualcuno lo aveva preso.
31. Kigali
L'aeroporto di Kigali, in Ruanda, era piccolo, moderno e sorprendentemente ben organizzato. D'altro canto Harry sapeva per esperienza che gli aeroporti internazionali rivelavano poco e niente del paese in cui erano situati. A Mumbai, in India, regnavano la calma e l'efficienza, al Jfk di New York la paranoia e il caos. La coda al controllo passaporti avanzò e Harry si mosse. Nonostante la temperatura gradevole sentiva il sudore colargli tra le scapole sotto la camicia di cotone leggero. Ripensò alle figure che aveva intravisto a Schiphol ad Amsterdam, quando il volo da Oslo era atterrato in ritardo. Harry si era accaldato macinando di corsa corridoi, lettere dell'alfabeto in successione e uscite in ordine numerico crescente per arrivare in tempo all'aereo che doveva portarlo a Kampala, in Uganda. All'intersezione di due corridoi aveva colto qualcosa con la coda dell'occhio. Una figura che aveva un che di familiare. Era in controluce e troppo lontana perché riuscisse a distinguere il viso. Appena salito (per ultimo) a bordo aveva tratto la conclusione ovvia: non poteva essere lei. Infatti, quante probabilità c'erano? Ed era fuori questione che il ragazzino al suo fianco fosse Oleg. Non era possibile che fosse cresciuto tanto.
- Next.
Harry si avvicinò allo sportello, consegnò il passaporto, la carta d'immigrazione, la copia della domanda di visto che aveva stampato da internet e i sessanta dollari in banconote nuove e liscissime che ne erano il prezzo.
- Business? - domandò il controllore, e Harry incrociò il suo sguardo. Era un uomo alto, magro e aveva la pelle talmente nera che rifletteva la luce. Probabilmente Tutsi, pensò Harry. Adesso erano loro a sorvegliare le frontiere.
- Yes.
- Where?
- Congo, - rispose Harry prima di precisare aggiungendo il nome che la gente del posto usava per distinguere i due Congo: - Congo-Kinshasa.
Il controllore indicò la carta d'immigrazione che Harry aveva compilato a bordo dell'aereo. - Says here you're staying at Gorilla Hotel in Kigali.
- Just tonight, - rispose Harry. Avrebbe alloggiato solo quella notte al Gorilla Hotel; l'indomani sarebbe andato in macchina a Goma, dopo di che percorso inverso. - Then drive to Congo tomorrow, one night in Goma and then back here and home. It's a shorter drive than from Kinshasa.
- Have a pleasant stay in Congo, busy man, - disse l'uomo in divisa ridendo affabilmente della sua movimentata permanenza; quindi vibrò il timbro sul passaporto e glielo restituì.
Mezz'ora dopo Harry compilò il modulo di registrazione al Gorilla, lo firmò e gli fu consegnata una chiave attaccata a un gorilla di legno. Quando andò a letto erano trascorse diciotto ore dal momento in cui si era alzato a Oppsal. Fissò il ventilatore che ruggiva ai piedi del letto. Muoveva a malapena l'aria nonostante le pale ruotassero a una velocità forsennata. Non sarebbe riuscito a dormire.
L'autista disse a Harry di chiamarlo Joe. Joe era congolese, parlava correntemente il francese e un inglese un po' più stentato. Era stato ingaggiato tramite conoscenze in un'organizzazione umanitaria norvegese di base a Goma.
- Ottocentomila, - disse Joe mentre guidava la Land Rover per una strada asfaltata piena di buche ma perfettamente carrozzabile che si snodava in mezzo a colline verdi e pendici di montagne coltivate da cima a fondo. Di tanto in tanto frenava di buon grado per non investire persone a piedi o in bicicletta, che spingevano o portavano carichi lungo il ciglio della strada, ma per lo più si mettevano in salvo da sole balzando di lato all'ultimo momento.
- Nel 1994 furono uccise ottocentomila persone nel giro di poche settimane. Gli Hutu andarono dai loro cari, vecchi vicini e li falcidiarono a colpi di machete perché erano Tutsi. La propaganda alla radio decretava che se tuo marito era Tutsi, il tuo dovere di Hutu era di ammazzarlo. «Tagliate la cima degli alberi alti», diceva la radio. Molti fuggirono lungo questa strada... - Joe indicò fuori del finestrino. - I cadaveri erano ammassati uno sull'altro, in alcuni punti era impossibile avanzare. Una bella stagione per gli avvoltoi.
Proseguirono in silenzio.
Passarono due uomini che portavano ognuno l'estremità di un bastone da cui penzolava un grosso felino attaccato per le zampe. Bambini ballavano accanto esultanti e pungevano l'animale morto con degli stecchi. Il suo mantello era del colore del sole con macchie d'ombra.
- Cacciatori? - domandò Harry.
Joe scosse la testa, guardò nello specchietto e rispose con un miscuglio di termini inglesi e francesi. - Investito, penso. È quasi impossibile da cacciare. È raro, ha un territorio molto esteso ed esce in cerca di prede solo di notte. Di giorno si nasconde confondendosi con l'ambiente circostante. Secondo me, Harry, questo animale soffre molto di solitudine.
Harry guardò gli uomini e le donne al lavoro nei campi. In molti punti macchine stradali e operai stavano ampliando la carreggiata. In fondo a una valle Harry scorse un'autostrada in costruzione. In un campo bambini festosi in divise scolastiche blu prendevano a calci un pallone.
- Il Ruanda è okay, - disse Joe.
Due ore e mezzo dopo Joe indicò oltre il parabrezza. - Il lago Kivu. Molto bello, molto profondo.
Lo sconfinato specchio d'acqua sembrava riflettere mille soli. Il paese sull'altra sponda era il Congo. Montagne si innalzavano da ogni parte. Una solitaria nuvola bianca circondava una delle vette.
- Niente nuvole, - spiegò Joe quasi gli avesse letto nel pensiero. - La montagna assassina. Il Nyiragongo.
Harry annuì.
Un'ora dopo varcarono il confine e proseguirono in direzione di Goma. Sul ciglio della strada un uomo magrissimo con indosso una giacca strappata era seduto a fissare il vuoto con occhi disperati, folli. Joe guidava con prudenza fra i crateri del sentiero fangoso. Una jeep militare li precedeva. Il mitragliere vacillante li fissava con uno sguardo distaccato, stanco. Sopra le loro teste rombava il motore di un aereo.
- Onu, - disse Joe. - Altri fucili e altre bombe a mano. Nkunda si avvicina alla città. È molto forte. Sono in tanti a scappare, adesso. Profughi. Forse anche mister Van Boorst, eh? Non lo vedo da moltissimo tempo.
- Lo conosci?
- Tutti conoscono Mister Van. Ma ha il Ba-Maguje in corpo.
- Il Ba-cosa?
- Un mauvais ésprit. Un demone. Ti fa venire sete di alcol. E ti porta via i sentimenti.
Dal climatizzatore usciva aria fredda. Il sudore colava tra le scapole di Harry.
Si erano fermati tra due file di baracche che Harry immaginava fossero il centro città di Goma, per così dire. Persone si affrettavano avanti e indietro sul sentiero quasi impraticabile che costeggiava i negozi. Lungo i muri degli edifici mucchi di massi neri fungevano da fondamenta. La terra sembrava glassa nera rappresa e una polvere grigia turbinava nell'aria che puzzava di pesce fradicio.
- Là, - disse Joe indicando la porta dell'unica casa in muratura dell'infilata. - Io aspetto in macchina.
Scendendo dall'auto Harry notò un paio di uomini fermarsi in strada. Li vide lanciargli quell'occhiata neutrale, pericolosa, che preannuncia gli attacchi a sorpresa. Le aggressioni sono più efficaci se sono improvvise, e quegli uomini lo sapevano. Harry si diresse difilato verso la porta senza guardarsi intorno. Bussò. Una volta. Due volte. Tre. Porca miseria! Un viaggio maledettamente lungo solo per...
La porta si socchiuse.
Un viso bianco e rugoso lo osservò con espressione interrogativa.
- Eddie Van Boorst? - domandò Harry.
- Il est mort, - rispose l'uomo con una voce talmente roca che sembrava un rantolo.
Harry ricordava quel tanto di francese scolastico da capire che secondo quell'uomo Van Boorst era morto. Puntò sull'inglese. - Mi chiamo Harry Hole. Ho avuto il nome di Van Boorst da Herman Kluit di Hong Kong. Ho fatto un lungo viaggio. Mi interessa la mela di Leopoldo.
L'uomo batté le palpebre due volte. Sporse la testa fuori e guardò a destra e a sinistra. Poi aprì un po' di più. - Entrez, - disse e gli fece cenno di accomodarsi.
Harry chinò il capo per passare dalla porta bassa e ritrovò l'equilibrio all'ultimo momento: dentro il pavimento era più basso di venti centimetri. C'era odore di incenso. E di qualcos'altro, il lezzo familiare, dolciastro e soffocante di un vecchio che beve da parecchi giorni.
Quando i suoi occhi si furono abituati all'oscurità, Harry notò che il minuto, esile vecchietto indossava un'elegante vestaglia di seta bordeaux.
- Accento scandinavo, - disse Van Boorst in un inglese alla Hercule Poirot portandosi alle labbra sottili una sigaretta tenuta da un bocchino ingiallito. - Fammi indovinare. Decisamente non danese. Potrebbe essere svedese. Ma secondo me è norvegese. Sì?
Uno scarafaggio spinse le antenne fuori da una crepa nel muro alle sue spalle.
- Mhm. Sei un esperto di accenti?
- Il mio è solo un hobby, - rispose Van Boorst adulato, soddisfatto. - Nelle nazioni piccole come il Belgio bisogna imparare a volgere lo sguardo verso l'esterno, e non verso l'interno. E come sta Herman?
- Bene, - rispose Harry, si girò a destra e vide due paia d'occhi che lo guardavano indifferenti. Uno da un quadro sopra il letto nell'angolo. Il ritratto incorniciato di un uomo con una lunga barba grigia, un nasone a punta, capelli corti, spalline, catena, sciabola. Re Leopoldo, se non si sbagliava. L'altro paio d'occhi apparteneva alla donna stesa a letto su un fianco, con nient'altro addosso che una coperta drappeggiata sull'anca. La luce che entrava dalla finestra le lambiva i piccoli seni turgidi da ragazzina. Rispose al cenno di saluto di Harry con un abbozzo di sorriso che scoprì un grosso dente d'oro in mezzo a tutti gli altri bianchi. Non poteva avere più di vent'anni. Alla parete dietro il suo esile punto vita Harry intravide un bullone conficcato nell'intonaco screpolato a cui era appeso un paio di manette rosa. - Mia moglie, - disse il piccolo belga. - Be', una delle mie mogli.
- Miss Van Boorst?
- Qualcosa del genere. Vuoi comprare? Ce li hai i soldi?
- Prima voglio vedere quello che hai, - rispose Harry.
Eddie Van Boorst andò alla porta, la socchiuse, sbirciò fuori. Poi la sbatté e chiuse a chiave. - C'è solo il tuo autista con te? - Sì.
Van Boorst prese grandi boccate di fumo dalla sigaretta mentre scrutava Harry da sotto le pieghe di pelle che gli ricadevano intorno agli occhi quando li strizzava.
Poi andò in un angolo della stanza, scansò un tappeto con il piede, si abbassò e afferrò un anello di ferro. Si aprì una botola. Il belga fece segno a Harry di scendere per primo nell'apertura. Lui pensò che fosse una misura precauzionale dettata dall'esperienza e obbedì. Una scala conduceva in un buio impenetrabile. Solo dopo il settimo gradino Harry arrivò in fondo. E subito una lampada si accese sul soffitto.
Si guardò intorno: era in una stanza di altezza normale, con un pavimento piano di cemento. Scaffali e armadi tappezzavano tre pareti. Sui ripiani erano esposti i generi di consumo: pistole Glock usurate, un revolver Smith & Wesson calibro 38 come il suo, casse di munizioni, un kalashnikov. Harry non aveva mai imbracciato il famoso fucile automatico russo denominato ufficialmente Ak-47. Fece scorrere una mano sull'impugnatura di legno.
- Un pezzo originale del primo anno di produzione, il 1947, - spiegò Van Boorst.
- A quanto pare quaggiù tutti ne hanno uno, - commentò Harry. - La causa di morte più in voga in Africa, ho sentito dire.
Van Boorst annuì. - Per due semplici motivi. Quando, dopo la guerra fredda, i paesi comunisti cominciarono a esportarli quaggiù, i kalashnikov costavano quanto una gallina grassa in tempo di pace. E appena cento dollari in tempo di guerra. In secondo luogo funzionavano, qualunque uso se ne facesse, e questo in Africa è importante. In Mozambico sono talmente affezionati al kalashnikov da averlo messo nella bandiera nazionale.
Lo sguardo di Harry si soffermò sulla discreta scritta che era stampata su una valigia nera.
- È quello che penso? - domandò Harry.
- Märklin, - rispose Van Boorst. - Una carabina rara. È stata prodotta in un numero molto limitato perché si rivelò un fiasco. Troppo pesante e calibro troppo grande.
Veniva usata per la caccia all'elefante.
- E per la caccia all'uomo, - aggiunse Harry sottovoce.
- Conosci quest'arma?
- Mirino telescopico con la migliore ottica del mondo. Non esattamente quello che ti serve per centrare un elefante da una distanza di cento metri. È un vero e proprio fucile da attentati -. Harry fece scorrere le dita sulla valigia mentre i ricordi lo invadevano. - Sì, la conosco.
- Ti posso fare un buon prezzo. Trentamila euro.
- Questa volta le carabine non mi interessano -. Harry si girò verso la scaffalatura al centro della stanza. Grottesche maschere di legno dipinto di bianco gli ridevano in faccia dai ripiani.
- Le maschere degli spiriti dei Mai-Mai, - spiegò Van Boorst. - Credono che se si immergono nell'acqua sacra le pallottole del nemico non li colpiranno. Perché anche le pallottole si trasformano in H2O. I guerriglieri Mai-Mai fecero la guerra all'esercito governativo con arco e frecce, cuffie da doccia in testa e tappi di vasche da bagno come amuleti. Non ti sto prendendo in giro, monsieur. Ovviamente, furono falcidiati. Ma ai Mai-Mai piace l'acqua. E piacciono le maschere dipinte di bianco. E i cuori e i reni dei nemici. Cotti al sangue e accompagnati da farinata di mais.
- Mhm, - disse Harry. - Non mi sarei aspettato che una casa tanto modesta avesse la cantina piena.
Van Boorst proruppe in una breve risata. - Cantina? Questo è il piano terra. O meglio, lo era. Prima dell'eruzione di tre anni fa.
Harry cominciava a capire. I massi neri, la glassa nera. Il pavimento di sopra che era più basso rispetto al terreno all'esterno.
- Lava, - disse Harry.
Van Boorst annuì. - Attraversò il centro da parte a parte e si prese la mia villa giù al lago Kivu. Tutte le case di legno qui intorno furono incenerite, questa di calcestruzzo fu l'unica a rimanere in piedi, ma era mezzo sepolta dalla lava -. Indicò la parete. - Là puoi vedere la porta su quello che tre anni fa era il livello della strada. Comprai questa casa limitandomi a fare un ingresso nuovo, quello da cui sei entrato.
Harry annuì. - Quindi è stata una fortuna che la lava non abbia sfondato la porta riempiendo anche questo piano.
- Come noti, le finestre e la porta si trovano nel muro opposto rispetto al Nyiragongo. Non è la prima volta che succede. Quel maledetto vulcano erutta lava su questa città ogni dieci o vent'anni.
Harry inarcò un sopracciglio. - E malgrado questo la gente torna a viverci?
Van Boorst si strinse nelle spalle. - Benvenuto in Africa. Comunque, quel vulcano è utilissimo. Se ti devi sbarazzare di un cadavere ingombrante, problema molto diffuso a Goma, ovviamente lo puoi scaricare nel Kivu. Però laggiù continuerà a esistere. Se invece usi il Nyiragongo... La gente crede che la maggior parte dei vulcani abbia un lago di lava ribollente, rovente sul fondo, ma non è vero. Non ce l'ha nessuno. Eccetto il Nyiragongo. Mille gradi Celsius. Buttaci dentro qualcosa, e ploff!, risale sotto forma di gas. È l'unica possibilità che gli abitanti di Goma hanno di salire in cielo -. Tossi e rise contemporaneamente. - Una volta lassù ho visto con i miei occhi un cercatore di coltan un po' troppo infervorato usare una catena per calare la figlia di un capotribù dentro il cratere. Il padre si era rifiutato di firmare i documenti che autorizzavano i cercatori di coltan a sfruttare i giacimenti nel suo territorio. I capelli della ragazza presero fuoco venti metri sopra la lava. A dieci metri la poveretta arse come un cero. E dopo cinque metri ancora cominciò a liquefarsi. Non esagero. Pelle, carne, grondavano dallo scheletro... ti interessava questa qui? - Van Boorst aveva aperto un armadio e tirato fuori una sfera di metallo. Era lucida, punteggiata di forellini e un po' più piccola di una palla da tennis. Da un buco lievemente più grande degli altri spuntava una catenina munita di un anello all'estremità. Era lo stesso strumento che Harry aveva visto a casa di Herman Kluit.
- Funziona? - domandò Harry.
Van Boorst sospirò. Infilò il mignolo nell'anello di metallo e tirò. Risuonò un forte schiocco e la sfera di metallo saltò nella mano del belga. Harry la fissò. Dai fori erano spuntate delle specie di antenne.
- Posso? - domandò Harry e tese la mano. Van Boorst gli porse la sfera e lo osservò attentamente mentre contava le antennine.
Harry annuì. - Ventiquattro, - disse.
- Lo stesso numero delle mele fabbricate, - spiegò Van Boorst. - Il numero aveva un valore simbolico per l'ingegnere che le progettò e le costruì. Era l'età che aveva la sorella quando si suicidò.
- E quante ne hai in quell'armadio?
- Solo otto. Compreso questo magnifico esemplare in oro -. Tirò fuori una sfera che scintillò debolmente nella luce della lampadina e poi la rimise nell'armadio. - Ma non è in vendita, per metterci su le mani mi devi uccidere.
- Quindi, da quando Kluit ha comprato la sua ne hai vendute quattordici?
- E a prezzi sempre più alti. È un investimento sicuro, signor Hole. I vecchi strumenti di tortura hanno un gruppo di aficionados fedeli e disposti a pagare, credimi.
- Ti credo, - disse Harry cercando di abbassare una delle antenne.
- Sono a molla, - disse Van Boorst. - Tirata la catenella una volta, l'interrogato non riuscirà più a estrarre la mela dalla bocca. Né nessun altro, se è per questo. Per far rientrare le punte è necessario procedere al secondo passo. Per favore, non tirare la catenina.
- Il secondo passo?
- Dammela.
Harry tese la sfera a Van Boorst. Con cautela il belga infilò una penna nell'anello e la tenne in orizzontale alla stessa altezza della sfera, che poi lasciò cadere. Nello stesso istante in cui la catenella si tese si udì un altro schiocco: quindici centimetri sotto la penna la mela di Leopoldo danzava nell'aria e gli acuminati aghi che erano spuntati da ciascuna antennina scintillavano.
- Cazzo! - si lasciò scappare Harry in norvegese.
Il belga sorrise. - I Mai-Mai chiamavano questo congegno «Il sole del sangue». I bimbi prediletti hanno molti nomi -. Posò la sfera sul tavolo, infilò la penna nel buco da cui spuntava la catenella, spinse forte, e con un altro schiocco gli aghi e le antenne sparirono di nuovo all'interno, e la mela regale ritrovò la sua forma tondeggiante e liscia.
- Sono davvero colpito, - disse Harry. - Quanto?
- Seimila dollari, - rispose Van Boorst. - Di solito alzo un po' il prezzo ogni volta, ma tu puoi averla per la stessa cifra a cui ho venduto l'ultima.
- Perché? - chiese Harry facendo scorrere l'indice sul metallo levigato.
- Perché hai fatto un viaggio lungo, - rispose Van Boorst soffiando il fumo della sigaretta nella stanza. - E perché mi piace il tuo accento.
- Mhm. E chi è stato l'ultimo a comprarne una a seimila?
Van Boorst rise. - Così come nessuno saprà che tu sei stato qui, così non ti dico chi sono gli altri miei clienti. Non fa un effetto rassicurante, signor...? Visto? Ho già dimenticato come ti chiami.
Harry annuì. - Seicento, - disse.
- Come?
- Seicento dollari.
Van Boorst fece di nuovo una breve risata. - Ridicolo. Comunque, la cifra che offri è, guarda caso, il prezzo di un tour guidato di tre ore nella riserva, dove si possono vedere i gorilla di montagna. Preferiresti questo, signor Hole?
- Tienti pure la mela regale, - disse Harry tirando fuori dalla tasca posteriore una mazzetta di banconote da venti dollari. - Offro seicento dollari per avere informazioni su chi ha acquistato le mele da te.
Posò la mazzetta sul tavolo davanti a Van Boorst. In cima mise un tesserino di riconoscimento.
- Polizia norvegese, - disse Harry. - Almeno due donne norvegesi sono state uccise con il prodotto di cui tu hai il monopolio.
Van Boorst si sporse sopra la mazzetta ed esaminò il tesserino senza toccare né l'una né l'altro.
- Se è vero, mi rincresce tantissimo, - disse e la sua voce parve farsi ancora più roca. - Mi devi credere. La mia incolumità personale vale più di seicento dollari. Se cominciassi a parlare di tutti quelli che hanno fatto acquisti qui, la mia aspettativa di vita...
- Dovresti preoccuparti di più della tua aspettativa di vita in un carcere congolese, - ribatté Harry.
Van Boorst rise di nuovo. - Bella mossa, Hole. Ma guarda caso conosco personalmente il capo della polizia di Goma, e inoltre... - allargò le braccia, - che cosa ho fatto mai?
- Quello che hai fatto non ha molta importanza, - disse Harry tirando fuori una foto dal taschino. - Lo stato norvegese è uno dei maggiori benefattori del Congo. Quando le autorità norvegesi chiameranno Kinshasa, facendo il tuo nome quale fornitore reticente dell'arma di un duplice omicidio in Norvegia, secondo te che cosa succederà?
Van Boorst non sorrideva più.
- Non sarai condannato per qualcosa che non hai commesso, ci mancherebbe, - disse Harry. - Sarai soltanto messo in custodia cautelare, da non confondere con una pena detentiva. Si tratta semplicemente di una misura preventiva nei confronti di una persona, per esempio, mentre sono in corso indagini su un caso e si teme un inquinamento delle prove. Ma sempre un carcere è. E quest'inchiesta potrebbe tirare per le lunghe. Hai mai visto un carcere congolese dall'interno, Van Boorst? No, immagino che pochi uomini bianchi lo abbiano fatto.
Van Boorst si strinse la vestaglia intorno al corpo. Guardò Harry masticando il bocchino. - Okay, - disse. - Mille dollari.
- Cinquecento, - disse Harry.
- Cinque? Ma avevi...
- Quattro, - disse Harry.
- Affare fatto! - disse Van Boorst alzando le mani. - Che cosa vuoi sapere?
- Tutto, - rispose Harry. Poi si appoggiò contro il muro e tirò fuori le sigarette.
Mezz'ora dopo, quando Harry uscì dalla casa di Van Boorst e montò sulla Land Rover di Joe, era scesa la notte.
- All'hotel, - disse.
Come Harry scoprì, l'albergo era in riva al lago. Joe gli raccomandò di non fare il bagno. Non per via della dracunculosi di cui si sarebbe accorto solo quando, un giorno, avrebbe visto un verme sottile serpeggiargli sotto la pelle, bensì a causa del metano che saliva dal fondale sotto forma di grosse bolle e avrebbe potuto farlo svenire e di conseguenza annegare.
Harry andò a sedersi sul balcone, a guardare due creature dalle gambe lunghe muoversi a scatti sul prato. Sembravano fenicotteri con la livrea da pavoni. Sul campo da tennis illuminato a giorno due ragazzini neri giocavano con due sole palline, entrambe talmente lacere che sembravano calze appallottolate quando veleggiavano avanti e indietro sopra la rete mezza strappata. Di tanto in tanto un aereo sfiorava rombando il tetto dell'albergo.
Harry udì un tintinnio di bottiglie proveniente dal bar, che era esattamente a sessantotto passi di distanza. Li aveva contati all'arrivo. Tirò fuori il cellulare e digitò il numero di Kaja.
Gli parve contenta di sentire la sua voce. O, a ogni modo, contenta.
- Sono bloccata dalla neve a Ustaoset, - gli disse. - Non nevica fitto, ma fittissimo. Comunque, ho rimediato un invito a cena. E il registro degli ospiti era interessante. - Ah si?
- La pagina della data che cercavamo manca.
- Ah. Hai controllato se...
- Sì, ho controllato se c'erano impronte digitali o calchi della scrittura sulla pagina successiva Kaja fece una risatina e Harry immaginò che avesse bevuto un paio di bicchieri di vino.
- Mhm. Pensavo piuttosto a...
- Sì, ho controllato gli ospiti registrati il giorno prima e quello dopo. Ma non capita quasi mai che qualcuno si fermi per più di una notte in un posto dimesso come il rifugio Håvass. A meno che non si rimanga bloccati dal maltempo. E il 7 novembre il tempo era bello. Però il poliziotto del posto mi ha promesso di controllare i registri degli ospiti dei rifugi vicini nel giorno precedente e in quello successivo per vedere chi può aver fatto tappa allo Håvass.
- Bene. A quanto pare ci sei vicina.
- Forse. E tu?
- Qui siamo un po' più lontani, temo. Ho trovato Van Boorst, ma nessuno dei suoi quattordici acquirenti era scandinavo. Ne è praticamente sicuro. Ho sei nomi con relativi indirizzi, ma sono tutti noti collezionisti. Per il resto, qualche nome che non ricordava per esteso, qualche descrizione, qualche nazionalità, nient'altro. Esistono altre due mele, ma Van Boorst sapeva che le ha ancora un collezionista di Caracas. Hai fatto quella verifica su Adele e sul visto?
- Ho chiamato il consolato del Ruanda in Svezia. Ammetto che mi aspettavo il caos, invece avevano tutto sotto controllo. - Il fratello maggiore del Congo, piccolino e perbenino.
- Avevano una copia della domanda di visto fatta da Adele e le date corrispondevano. Il visto è scaduto da parecchio tempo, ma ovviamente non sanno dove si trovi. Ci hanno detto di rivolgerci all'autorità per l'immigrazione di Kigali. Mi hanno dato un numero, l'ho chiamato, e mi hanno rimbalzata da un ufficio all'altro finché non mi hanno passato un pezzo grosso. Uno che parlava inglese e mi ha fatto notare che non abbiamo un accordo di cooperazione con il Ruanda in materia, si è scusato educatamente per il rifiuto e ha augurato a me e alla mia famiglia una vita lunga e serena. Nemmeno tu hai trovato una pista?
- No. Ho mostrato la foto di Adele a Van Boorst. Mi ha detto che la sua unica acquirente aveva una vaporosa chioma di ricci color ruggine e un accento della Germania dell'est.
- Accento della Germania dell'est? Esiste?
- Non lo so, Kaja. L'uomo di cui ti parlo porta la vestaglia, fuma con il bocchino, è alcolizzato ed è un esperto di accenti. Ho cercato di venire al dunque e di levare le tende al più presto.
Kaja scoppiò a ridere. Vino bianco, scommise Harry. I bevitori di vino rosso sono meno ridanciani.
- Però ho un'idea, - aggiunse. - Le carte d'immigrazione. - Sì?
- Sulla carta si deve scrivere dove si alloggerà la prima notte. Se conservano le carte a Kigali, forse riuscirò a sapere dov'è andata Adele. Potrebbe essere una pista.
Può darsi che sia l'unica persona in vita a sapere chi si trovava nel rifugio Håvass quella notte.
- Buona fortuna, Harry.
- Buona fortuna a te, Kigali - Harry chiuse la comunicazione. Naturalmente avrebbe potuto chiederle con chi usciva a cena, ma lei glielo avrebbe detto se fosse stato rilevante per le indagini.
Harry rimase seduto sul balcone fino a quando il bar chiuse e il tintinnio di bottiglie cessò, lasciando il posto ai suoni che filtravano da una finestra aperta al piano di sopra. Due amanti. Grida roche, monotone. Gli fecero venire in mente i gabbiani di Åndalsnes ai tempi in cui si alzava all'alba insieme al nonno per andare a pesca. Suo padre non li accompagnava mai. Perché? E perché lui non ci aveva mai pensato, perché aveva capito d'istinto che il padre era fuori posto in quella barca da pesca? A cinque anni aveva già compreso che papà aveva studiato, aveva lasciato il podere proprio per non salire su quella barca? Eppure era là che suo padre desiderava tornare per trascorrervi l'eternità. Strana, la vita. O almeno la morte.
Harry si accese un'altra sigaretta. Il cielo era privo di stelle e nero a parte sopra il cratere del Nyiragongo, dove brillava di una luce rossa. Harry sentì il bruciore di una puntura d'insetto. Malaria. Magma. Metano. Il lago Kivu scintillava a perdita d'occhio. «Molto bello, molto profondo».
Un rombo si levò tra le montagne, e il rumore corse sopra l'acqua. Un'eruzione vulcanica o soltanto tuoni? Harry alzò lo sguardo. Ancora un rombo, l'eco rimbalzò da un monte all'altro. E contemporaneamente giunse una seconda eco, lontanissima.
«Molto bello, molto profondo».
Fissò tutt'occhi l'oscurità e si accorse a malapena che il cielo si era aperto e la pioggia stava iniziando a martellare, soffocando le strida dei gabbiani.
32. Polizia
- Sono contento che siate venuti via dallo Håvass prima che cominciasse a nevicare fitto, - disse l'agente Krongli. - Avete rischiato di rimanere bloccati per giorni -. Indicò con un cenno della testa l'ampia finestra panoramica del ristorante dell'albergo. - Però è uno spettacolo magnifico, non trovi?
Kaja guardava la forte nevicata. Anche Even era così: le manifestazioni della forza della natura lo entusiasmavano, propizie o avverse che fossero.
- Speriamo che il mio treno riesca ad arrivare, - disse.
- Certo, - disse Krongli giocherellando con il bicchiere di vino in un modo che indusse Kaja a supporre che non lo facesse spesso. - Ci pensiamo noi. E anche a controllare i registri degli ospiti degli altri rifugi.
- Grazie, - disse lei.
Krongli si passò una mano nei ricci ribelli e fece un sorriso sghembo. Chris de Burgh e Lady in Red si riversavano fuori dalle casse come sciroppo.
Nel ristorante c'erano soltanto altri due clienti, due uomini sulla trentina seduti ognuno al proprio tavolo dalla tovaglia bianca con una pinta davanti. Fissavano la neve fuori della finestra, aspettando qualcosa che non sarebbe successo.
- Non capita mai di soffrire di solitudine quassù? - domandò Kaja.
- Dipende, - rispose il poliziotto seguendo il suo sguardo. - Se uno non ha moglie e famiglia, capita di venire in posti come questo.
- Per stare da soli insieme a qualcuno, - osservò Kaja.
- Esatto, - disse Krongli, poi sorrise e versò dell'altro vino a entrambi. - Ma immagino che sia così anche a Oslo, no?
- Sì, - rispose Kaja. - È uguale. Tu hai famiglia?
Krongli fece spallucce. - Avevo una fidanzata. Ma qua si annoiava, e alla fine si è trasferita dove vivi tu. La capisco. Per vivere in un posto come questo bisogna avere un lavoro interessante.
- E tu ce l'hai?
- Sono convinto di sì. Qui conosco tutti, e tutti conoscono me. Ci aiutiamo a vicenda. Io ho bisogno di loro e loro... be'... - Strinse il bicchiere.
- Loro hanno bisogno di te, - concluse Kaja.
- Sì, penso di sì.
- Ed è importante.
- Sì, proprio così, - disse Krongli con voce ferma, alzando gli occhi su di lei. Lo stesso sguardo di Even. Quello che aveva sempre l'eco di una risata, dava sempre l'impressione che fosse appena successo qualcosa di divertente o di cui rallegrarsi.
Anche se non era vero. Soprattutto se non era vero.
- Che mi dici di Odd Utmo? - domandò Kaja.
- Che ti dico?
- Se n'è andato subito dopo avermi accompagnata. Che cosa fa in una serata come questa?
- Come fai a sapere che non se ne sta a casa con la moglie e i figli?
- Se mai ho incontrato un lupo solitario, agente rurale...
- Aslak, - disse lui, rise e levò il bicchiere. - E adesso capisco che sei una vera poliziotta. Però Utmo non è stato sempre così.
- Ah no?
- Prima della scomparsa del figlio ci si poteva parlare. Anzi, a volte era addirittura socievole. Ma credo che abbia sempre avuto un caratteraccio.
- Non avrei mai pensato che un uomo come Utmo fosse stato sposato.
- La moglie era anche una bella donna. Considerato quanto è brutto lui. Hai visto i suoi denti?
- Sì, ho notato che porta l'apparecchio.
- A quel che dice lui, è per evitare che i denti si storcano -. Aslak Krongli scosse la testa con il riso negli occhi ma non nella voce. - Ma è l'unica cosa a tenerli a posto e a impedire che cadano.
- Di' un po', era veramente dinamite quella che aveva sulla motoslitta?
- L'hai vista tu - rispose Krongli con una risata. - Io no.
- Che cosa vuoi dire?
- Per certe persone del posto non è poi così romantico starsene seduti per ore con la canna da pesca in riva a qualche lago del circondario, e vogliono il pesce che considerano di loro proprietà a pranzo.
- Fanno esplodere la dinamite nelle zone di pesca?
- Appena il ghiaccio si scioglie.
- Non è una pratica vietata, agente?
Krongli mise le mani avanti. - Ripeto, io non ho visto niente.
- Già, è vero, tu vivi qui. Magari ce l'hai anche tu la dinamite?
- Solo per il garage che ho intenzione di costruire.
- Ovvio. E il fucile di Utmo? Mi è sembrato moderno, con tanto di mirino telescopico e tutto il resto.
- Certo. Sembra che Utmo fosse un bravo cacciatore di orsi. Fino a quando non è rimasto orbo.
- Ho notato il suo occhio. Che cosa gli è successo?
- A quanto pare suo figlio gli versò inavvertitamente addosso un bicchiere di acido.
- A quanto pare?
Krongli si strinse nelle spalle. - Ormai Utmo è l'unico a sapere come andarono le cose. Il figlio sparì quando aveva quindici anni. E subito dopo sparì anche la moglie. Ma questa storia risale a diciotto anni fa, prima che io mi trasferissi qui. Da allora Utmo vive da solo su in montagna, senza Tv e senza radio, non legge nemmeno i giornali.
- Come hanno fatto a sparire?
- Be', bella domanda. Intorno alla casa di Utmo ci sono molti dirupi da cui precipitare. E c'è tanta neve. Una scarpa del figlio fu rinvenuta dove c'era stata una valanga, ma quando poi quell'anno la neve si sciolse non furono trovate altre tracce, inoltre è strano perdere una scarpa sul manto nevoso a quel modo. Secondo alcuni fu un orso. Ma a quanto mi risulta diciotto anni fa quassù di orsi non ce n'erano. Secondo altri, invece, lo stesso Utmo.
- Ah? E perché?
- Be', - rispose Aslak esitando. - Il ragazzo aveva una brutta cicatrice sul petto. La gente diceva che gliel'aveva fatta il padre. Che c'era di mezzo Karen, la madre.
- In che senso?
- Che se la contendevano.
Aslak scosse la testa alla domanda che lesse nello sguardo di Kaja. - Ripeto, è successo prima che io venissi qui. E Roy Stille, che fa il poliziotto rurale quassù dai tempi dei tempi, andò a casa degli Utmo, ma trovò soltanto Odd e Karen. E gli dissero entrambi la stessa cosa, che il ragazzo era uscito a caccia e non era più tornato. Ma era aprile.
- Che non è stagione di caccia?
Aslak scosse la testa. - E da allora nessuno l'ha più visto.
L'anno dopo sparì Karen. La gente dice che era distrutta dal dolore, che si buttò da un precipizio di sua volontà.
A Kaja parve di udire una piccola incrinatura nella voce del poliziotto, ma diede la colpa al vino.
- Tu che ne pensi? - gli domandò.
- Penso che sia la verità. Il ragazzo morì sotto una valanga. Soffocato dalla neve. Fu trascinato dall'acqua di disgelo in un lago e rimase lì. Insieme alla madre, probabilmente.
- Se non altro mi sembra una fine più piacevole di un orso.
- No.
Kaja alzò lo sguardo verso Aslak. Il riso era sparito dai suoi occhi.
- Sepolto vivo da una valanga, - disse, e il suo sguardo sparì fuori della finestra, dentro la nevicata. - Il buio. La solitudine. Non riesci a muoverti, ti immobilizza con una morsa di ferro, se la ride dei tuoi tentativi di liberarti. La certezza che morirai. Il panico, la paura di morire quando non riesci a respirare. Non esiste fine peggiore.
Kaja bevve un sorso di vino. Posò il bicchiere. - Per quanto tempo sei rimasto imprigionato? - gli domandò.
- Credevo per tre o forse quattro ore, - rispose Aslak. - Quando mi tirarono fuori, mi dissero che ero rimasto là sotto per un quarto d'ora. Altri cinque minuti e sarei morto.
Il cameriere si avvicinò e chiese se desideravano altro, la mescita di alcolici sarebbe terminata di lì a dieci minuti. Kaja disse di no, allora il cameriere mise il conto davanti ad Aslak.
- Perché Utmo si porta appresso quel fucile? - domandò Kaja. - A quanto mi risulta neanche adesso è stagione di caccia.
- Dice che è per via dei predatori. Autodifesa.
- Ci sono predatori da queste parti? Lupi?
- Non mi dice mai a quale specie si riferisca esattamente. A proposito, circola voce che di notte il fantasma del ragazzo si aggiri sull'altipiano. E che se capita di vederlo, bisogna fare attenzione perché significa che nei paraggi c'è un dirupo o sta per venire giù una valanga.
Kaja vuotò il bicchiere.
- Se vuoi posso prolungare l'orario di mescita di un'ora.
- Grazie, Aslak, ma domani mattina mi devo alzare presto.
- Uff, - disse lui, ridendo con gli occhi e grattandosi i riccioli. - Adesso ti ho dato l'impressione di... - si interruppe.
- Cosa? - domandò Kaja.
- Niente. Immagino che a Oslo avrai un marito o un fidanzato.
Kaja sorrise, senza rispondere.
Con gli occhi fissi sul tavolo, Aslak disse sottovoce: - «Ah, avresti dovuto vederlo, quel poliziotto di paese, dopo solo due bicchieri di vino ha cominciato a sproloquiare».
- Non preoccuparti, - disse lei. - Non ce l'ho il fidanzato. E mi sei simpatico. Mi ricordi mio fratello.
- Ma?
- Ma cosa?
- Ricordati che sono un vero poliziotto anch'io. Lo vedo che non sei un'eremita.
C'è qualcuno, non è vero?
Kaja rise. Normalmente avrebbe lasciato cadere il discorso. Forse era colpa del vino. Forse era perché Aslak Krongli le stava simpatico. Forse era perché non aveva avuto nessuno cui confidare certe cose, non dopo la morte di Even, e Aslak era uno sconosciuto, lontano da Oslo, uno che non parlava con la gente che lei frequentava.
- Sono innamorata, - disse senza volerlo. - Di un poliziotto -. Imbarazzata, si portò il bicchiere dell'acqua alla bocca, come per nasconderla. La cosa strana era che le sembrava vero solo adesso, dopo essersi sentita pronunciare quelle parole a voce alta.
Aslak levò il bicchiere di vino verso di lei. - Alla salute di un uomo fortunato. E a una ragazza fortunata. Spero.
Kaja scosse la testa. - Non c'è nessun motivo di brindare. Non ancora. Forse non ci sarà mai. Oddio, quanto parlo...
- Abbiamo forse qualcos'altro da fare? Racconta.
- È una storia complicata. Lui è complicato. E non so se mi vuole. Questo, almeno, è semplicissimo.
- Fammi indovinare. Lui ha una donna, e non riesce a lasciarla.
Kaja sospirò. - Forse. Sinceramente non lo so. Aslak, ti ringrazio dell'aiuto, ma...
- «... Adesso devo andare a dormire» -. Il poliziotto si alzò. - Spero che tutto vada a rotoli con quel tipo, che fuggirai dalle tue pene d'amore cittadine e avrai voglia di prendere in considerazione questo -. Le porse un foglio A4 con l'intestazione dell'ufficio della polizia rurale di Hol.
Kaja lo lesse e scoppiò a ridere. - Io agente della polizia rurale?
- In autunno Roy Stille andrà in pensione e i bravi poliziotti sono rari, - disse Aslak. - È il nostro bando. Lo abbiamo pubblicato la settimana scorsa. L'ufficio è in centro a Geilo. Un week-end si e uno no libero e dentista gratuito.
Quando si coricò, Kaja udì un lontano boato. Raramente una nevicata era accompagnata da tuoni.
Telefonò a Harry, le rispose la segreteria. Lasciò un piccolo racconto di fantasmi: la guida Odd Utmo con i denti marci e l'apparecchio, suo figlio che sicuramente era ancora più brutto visto che da diciotto anni si aggirava nei paraggi sotto forma di fantasma. Rise. Ammise di essere ubriaca. Gli augurò la buonanotte.
Sognò una valanga.
Erano le undici di mattina. Harry e Joe erano partiti da Goma alle sette, avevano varcato il confine con il Ruanda senza problemi e adesso Harry si trovava in un ufficio al piano superiore dell'aeroporto di Kigali. Due agenti in divisa lo stavano scrutando da capo a piedi. Non con ostilità, ma come per stabilire se fosse veramente quello che sosteneva di essere: un poliziotto norvegese. Harry si rinfilò il tesserino nella tasca della giacca e sentì la carta liscia della busta color caffè. Il problema era il numero: due uomini. Come si fa a corrompere due pubblici ufficiali contemporaneamente? Li si prega di spartirsi il contenuto della busta esortandoli con gentilezza a non denunciarsi a vicenda?
Uno degli agenti, lo stesso che due giorni prima aveva controllato il passaporto di Harry, si scostò il berretto dalla fronte. - Quindi lei vuole una copia della carta d'immigrazione... può ripetere la data e il nome?
- Adele Vetlesen. Sappiamo che è arrivata in questo aeroporto il 25 novembre. E c'è anche una ricompensa.
I due agenti si scambiarono un'occhiata, poi uno sparì fuori della porta al segnale dell'altro. Quello che rimase andò alla finestra e guardò la pista, il piccolo Dh8 appena atterrato. Fra cinquantacinque minuti avrebbe portato Harry nel primo tratto del suo viaggio di ritorno.
- Una ricompensa, - ripeté sottovoce l'agente. - Immagino lei sappia che è un reato tentare di corrompere un pubblico ufficiale, signor Hole. Ma sicuramente avrà pensato «Chi se ne frega, questa è l'Africa».
Harry notò di nuovo che la pelle dell'uomo era talmente nera da sembrare quasi laccata.
Si sentiva la camicia incollata alla schiena. Sempre la stessa camicia. Magari vendevano camicie nell'aeroporto di Nairobi. Ammettendo di arrivarci.
- Esatto, - rispose Harry.
L'agente rise e si voltò. - Tosto, eh? Sei un duro, Hole! L'ho capito appena sei arrivato. Che eri un poliziotto.
- Ah si?
- Mi hai scrutato con la stessa intensità con cui ti ho scrutato io.
Harry si strinse nelle spalle.
La porta si aprì. L'altro agente rientrò insieme a una donna vestita da impiegata, con tacchi ticchettanti e un paio di occhiali sulla punta del naso.
- Mi dispiace, - disse la donna in un inglese impeccabile squadrando Harry. - Ho controllato la data. Non ci risulta nessuna Adele Vetlesen in arrivo con quel volo.
- Mhm. È possibile che ci sia stata una svista?
- È improbabile. La carte d'immigrazione sono ordinate per data. Il volo da lei segnalato è un Dh8 proveniente da Entebbe con trentasette passeggeri. Ci è voluto poco tempo per controllare.
- Mhm. Se è tanto semplice, potrei chiederle di fare un'altra verifica?
- Certo che può chiedere. Di cosa si tratta?
- Un elenco delle altre passeggere straniere arrivate con lo stesso volo.
- E perché dovrei dargliela?
- Perché Adele Vetlesen era registrata su quel volo. Perciò, o ha mostrato un documento falso al controllo, oppure...
- Ne dubito, - disse il controllore dei passaporti. - Esaminiamo accuratamente tutte le foto dei documenti prima di introdurli in un lettore che confronta il codice con il registro dell'Organizzazione internazionale dell'aviazione civile.
- Oppure una passeggera ha viaggiato a nome di Adele Vetlesen e poi ha superato il controllo con il suo passaporto autentico. E questo è possibilissimo, dal momento che i numeri dei passaporti non vengono controllati né al check-in né all'imbarco.
- Esatto, - disse il capo del controllo passaporti tirandosi il berretto. - Gli impiegati delle compagnie aeree verificano soltanto che il nome e la foto del passaporto corrispondano più o meno. Per questo scopo ci si può far fare un passaporto falso per cinquanta dollari in qualsiasi parte del mondo. Solo al momento di uscire dall'aeroporto della destinazione finale, al controllo passaporti si verifica il numero del documento, e quelli fatti in casa vengono scoperti. Ma la domanda resta: perché dovremmo aiutarla, signor Hole? È qui in missione ufficiale, e ha qualche documento che lo dimostri?
- La mia missione ufficiale era in Congo, - mentì Harry. - Ma là non ho trovato niente. Adele Vetlesen è scomparsa, e temiamo che possa essere stata uccisa da un serial killer che ha già ammazzato almeno altre tre donne, tra cui una deputata del Parlamento norvegese. Si chiamava Marit Olsen, potete controllare su internet. So che secondo la prassi adesso dovrei tornare a casa e passare per i canali ufficiali, ma così perderemmo diversi giorni concedendo un vantaggio ancora più grande all'assassino. E dandogli il tempo di uccidere di nuovo.
Harry notò che le sue parole erano andate a segno. La donna e il capo del controllo passaporti si consultarono, e l'impiegata uscì a passo di marcia.
Aspettarono in silenzio.
Harry guardò l'ora. Doveva ancora fare il check-in.
Erano passati sei minuti quando udirono i tacchi tornare indietro ticchettando.
- Eva Rosenberg, Juliana Verni, Veronica Raul Gueno e Claire Hobbes -. Prima che la porta si richiudesse alle sue spalle la donna aveva vomitato i nomi, raddrizzato gli occhiali e posato quattro carte d'immigrazione sul tavolo davanti a Harry.
- Sono poche le donne europee che vengono qui, - spiegò.
Harry scorse le carte. Tutte avevano dato come recapito il nome di un albergo a Kigali, ma nessuna il Gorilla Hotel. Guardò gli indirizzi privati. Eva Rosenberg aveva indicato un indirizzo di Stoccolma.
- Grazie, - disse Harry e annotò nomi, indirizzi e numeri di passaporto sul retro della ricevuta di un taxi che aveva trovato in tasca.
- Mi dispiace che non abbiamo potuto fare di più per lei, - disse la donna aggiustandosi di nuovo gli occhiali.
- Al contrario, - disse Harry. - Siete stati di grande aiuto.
- E adesso, agente, - disse l'ufficiale alto e magro, e il sorriso illuminò il suo viso nero come la notte.
- Sì? - disse Harry e aspettò, pronto a tirar fuori la busta color caffè.
- È ora di provvedere al suo check-in per il volo per Nairobi.
- Mhm, - disse Harry guardando l'orologio. - Forse dovrò prendere quello successivo.
- Quello successivo?
- Devo tornare al Gorilla Hotel.
Kaja sedeva nella cosiddetta prima classe delle ferrovie norvegesi che - a parte i giornali omaggio, due caffè gratis e la presa per il computer - significava semplicemente che si stava stretti come sardine, al contrario che nel vagone di seconda classe quasi vuoto. Perciò, quando il suo cellulare squillò e vide che era Harry, vi si rifugiò di corsa. polizia - Dove sei? - le chiese Harry.
- Sul treno. Abbiamo appena superato Hønefoss. E tu?
- Gorilla Hotel, a Kigali. Ho visto il modulo di registrazione di Adele Vetlesen. Riuscirò a partire solo con il volo del pomeriggio, ma sarò a casa domani mattina. Potresti telefonare al tuo amico testa di zucca alla polizia di Drammen e chiedergli se ci può prestare la cartolina di Adele? Potresti chiedergli di fartela portare alla stazione, visto che il treno ferma lì.
- Mi sembra una pretesa un tantino eccessiva, ma ci proverò. Per cosa ci serve?
- Per confrontare le firme. C'è un grafologo, Jean Hue, che lavorava alla Kripos prima di ottenere l'invalidità civile. Convocalo in ufficio per domani mattina alle sette.
- Così presto? Pensi che sarebbe...
- Hai ragione. Scannerizzo il modulo di registrazione di Adele e te lo mando per email, così stasera puoi portare tutto a Jean.
- Stasera?
- Sicuramente gli farà piacere ricevere una visita. Se avevi altri progetti, sono annullati con decorrenza immediata.
- Benissimo. A proposito, scusa per la telefonata che ti ho fatto ieri sera tardi. - Non c'è di che. Una storia interessante.
- Ero un po' sbronza.
- L'ho capito.
Harry chiuse la comunicazione.
- Grazie dell'aiuto, - disse.
La receptionist rispose con un sorriso.
Infine la busta color caffè era passata di mano.
Kjersti Rødsmoen entrò nella sala comune e si avvicinò alla donna seduta a guardare dalla finestra la pioggia che bagnava l'edificio in legno di Sandviken. Davanti a lei c'era una fetta di torta intatta con un candelina.
- Questo cellulare è stato trovato in camera tua, Katrine, - disse Kjersti Rødsmoen sottovoce. - Me l'ha portato la caposala. Lo sai che non è permesso, vero?
Katrine annuì.
- Tuttavia, - continuò l'altra tendendoglielo, - in questo preciso istante sta squillando.
Katrine Bratt prese il cellulare che vibrava e premette il tasto verde.
- Sono io, - disse la voce all'altro capo. - Ho quattro nominativi di donne. Voglio sapere quale non era registrata sul volo Ra101 per Kigali del 25 novembre. E avere la conferma che quella donna non risulta nemmeno nel sistema di prenotazioni alberghiere del Ruanda per la stessa notte.
- Sto veramente bene, zia -. Un secondo di pausa. - Ho capito. Chiamami quando puoi.
Katrine restituì il telefonino. - Mia zia che mi faceva gli auguri di buon compleanno.
Kjersti Rødsmoen scosse la testa. - Il regolamento vieta l'uso dei cellulari. Non vedo che problema ci sia se ne hai uno, purché non lo usi. Fa' solo in modo che la caposala non lo noti, d'accordo?
Katrine annuì e, quando Kjersti Rødsmoen se ne fu andata, rimase seduta ancora per un po' a guardare dalla finestra, quindi si alzò e andò nella sala hobby. La voce della caposala la raggiunse sulla soglia.
- Dove vai, Katrine?
Katrine rispose senza voltarsi. - A fare un solitario.
33. Lipsia
Gunnar Hagen prese l'ascensore fino al sotterraneo.
Discesa. Disgrazia. Disfatta.
Uscì e si incamminò per la galleria.
Però Bellman aveva mantenuto la parola, non aveva fatto la spia. E gli aveva lanciato un salvagente, una carica di spicco nella nuova Kripos allargata. Il rapporto di Harry era stato breve e conciso. Nessun risultato. Qualsiasi idiota avrebbe capito che era ora di cominciare a nuotare verso il salvagente.
Hagen aprì la porta in fondo alla galleria senza bussare.
Kaja Solness gli rivolse un sorriso sereno mentre Harry Hole, seduto davanti allo schermo del computer con un telefono all'orecchio, non si girò neppure, limitandosi a cantilenare: - Accomodati-capo-un-pessimo-caffè? - Come se lo spirito guida del caposezione ne avesse annunciato l'arrivo.
Hagen si fermò sulla porta. - Ho saputo che non avete trovato Adele Vetlesen. È ora di fare fagotto. Il tempo è scaduto, c'è bisogno di voi per altre indagini. Almeno di te, Solness.
- Danke schön, Günther, - disse Harry al telefono, riagganciò e girò la sedia.
- Danke schön? - ripeté Hagen.
- La polizia di Lipsia, - disse Harry. - A proposito, tanti saluti da Katrine Bratt, capo. Ti ricordi di lei?
Hagen guardò il suo vice con diffidenza. - Credevo che Bratt fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico.
- Affermativo, - disse Harry, poi si alzò e raggiunse la caffettiera. - Ma quella donna è un asso nelle ricerche su internet. A proposito di ricerche, capo.
- Ricerche?
- Ti andrebbe di metterci a disposizione risorse illimitate per la ricerca di una persona scomparsa?
Hagen fissò attonito il commissario. Poi scoppiò a ridere. - Sei proprio incredibile,
Harry. Avete appena bruciato metà, del budget trasferte per un inutile viaggio in Congo, e adesso mi chiedi una ricerca in grande stile? Questa operazione cessa con effetto immediato. Hai capito?
- Ho capito... - rispose Harry, versando il caffè in due tazze e porgendone una a Hagen, - tante altre cose. E presto lo farai anche tu, capo. Adesso prenditi la mia sedia e stammi a sentire.
Lo sguardo di Hagen corse da Harry a Kaja. Fissò diffidente il contenuto della tazza. Poi si sedette. - Avete due minuti.
- È molto semplice, - disse Harry. - Secondo le liste passeggeri delle Brussels Airlines, Adele Vetlesen è andata a Kigali il 25 novembre. Ma secondo il controllo passaporti nessuno con quel nome è sceso in quell'aeroporto. In realtà, una donna munita di passaporto falso intestato a Adele è partita da Oslo. Il passaporto falso ha funzionato benissimo fino a Kigali, la destinazione finale, perché solo allora il passaporto viene immesso nel lettore e il numero controllato, giusto? Perciò in quell'occasione la donna misteriosa ha dovuto usare un documento vero. Il controllo passaporti non chiede di vedere il nome scritto sul biglietto, perciò non è possibile scoprire eventuali incongruenze tra passaporto e biglietto. A meno che non si faccia una verifica, ovviamente.
- E tu l'hai fatta?
- Sì.
- Non potrebbe trattarsi semplicemente di una svista a livello amministrativo? Magari si sono dimenticati di registrare l'arrivo di Adele.
- Certo. Però c'è la cartolina...
Harry fece un cenno con la testa a Kaja, che mostrò una cartolina. Hagen intravide la foto di qualcosa che somigliava a un vulcano fumante.
- È stata spedita da Kigali lo stesso giorno del suo presunto arrivo, - disse Harry. -
Ma innanzitutto raffigura il Nyiragongo, un vulcano che si trova in Congo e non in Ruanda. In secondo luogo, abbiamo chiesto a Jean Hue di confrontare la firma di questa cartolina con quella trovata sul modulo di registrazione che la sedicente Adele Vetlesen ha compilato al Gorilla Hotel.
- E ha confermato quello che avevo notato perfino io, - intervenne Kaja. - Non si tratta della stessa persona.
- E va bene, e va bene, - disse Hagen. - Ma con questo dove volete arrivare?
- Al fatto che qualcuno si è dato un gran daffare per far sembrare che Adele Vetlesen fosse andata in Africa, - rispose Harry. - Scommetto che Adele si trovava qui in Norvegia, dov'è stata costretta a scrivere la cartolina. Poi un'altra persona ha portato la cartolina in Africa e l'ha spedita. E tutto questo per far sembrare che Adele fosse andata laggiù, e poi avesse scritto di aver trovato l'uomo dei suoi sogni e che non sarebbe tornata prima di marzo.
- Qualche idea di chi possa essere questa tizia?
- Sì.
- Sì?
- Presso le autorità d'immigrazione dell'aeroporto di Kigali ho trovato un modulo compilato a nome di una certa Juliana Verni. Ma secondo la nostra amica pazza furiosa di Bergen questo nome non risulta né nelle liste passeggeri per il Ruanda né in quelle di nessun albergo dotato di moderni strumenti di prenotazione elettronici nella data che ci interessa. Però figura nella lista passeggeri della Rwandair da Kigali tre giorni dopo.
- Ma lo voglio sapere come vi siete procurati queste informazioni?
- No, capo. Però vuoi sapere chi e dove è Juliana Verni.
- Ossia?
Harry consultò l'orologio. - Secondo le informazioni della sua carta di immigrazione abita a Lipsia, in Germania. Sei mai stato a Lipsia, capo?
- No.
- Neanch'io. Però so che è famosa per essere la città natale di Goethe e di Bach e di uno di quei re del valzer. Com'era che si chiamava?
- Che cosa c'entra...
- Sì, e poi Lipsia è famosa per l'archivio centrale della Stasi, la polizia segreta. Infatti, la città si trovava nella vecchia Germania orientale. Lo sapevi che, nei quarant'anni in cui è esistita la Ddr, la pronuncia dei tedeschi dell'est si è evoluta tanto che un orecchio sensibile alle lingue riesce a sentire la differenza tra loro e i tedeschi dell'ovest?
- Harry...
- Scusa, capo. Il punto è che una donna che parlava con l'accento della Germania dell'est in quegli stessi giorni si trovava a Goma, in Congo, a sole tre ore d'auto da Kigali. E là ha comprato quella che sono sicuro è l'arma che ha ucciso Borgny StemMyhre e Charlotte Lolles.
- Ci siamo fatti mandare una copia conforme del duplicato che la polizia conserva al momento di rilasciare un passaporto, - disse Kaja porgendo un foglio a Hagen.
- Corrisponde alla descrizione che Van Boorst ha fatto dell'acquirente, - disse Harry. - Juliana Verni aveva voluminosi ricci color ruggine.
- Rosso mattone, - precisò Kaja.
- Come? - chiese Hagen.
Kaja indicò il foglio. - Ha un passaporto del vecchio tipo dove è riportato il colore dei capelli. Lo hanno definito «brick red», rosso mattone. Precisione tedesca, sai.
- Ho anche chiesto alla polizia di Lipsia di sequestrarle il passaporto e di controllare che abbia il timbro di Kigali con la data in questione.
Gunnar Hagen fissava con espressione vacua il foglio mentre sembrava sforzarsi di assimilare quello che avevano detto Harry e Kaja. Infine alzò lo sguardo inarcando un sopracciglio ispido. - Significa... significa che forse hai trovato la persona che ha... - Il commissario capo deglutì, cercò un modo indiretto di dirlo per paura che quel miracolo, quel miraggio svanisse se lo avesse detto ad alta voce. Ma si diede per vinto: -... è il nostro serial killer?
- Voglio solo dire quello che ho detto, - rispose Harry. - Per il momento. Il mio collega di Lipsia adesso controllerà i dati anagrafici e il casellario giudiziario, quindi presto sapremo qualcosa di più sul conto di Fräulein Verni.
- Ma queste sono notizie magnifiche, - disse Hagen e guardò sorridendo prima Harry, poi Kaja, che annuirono con aria incoraggiante.
- Non per i familiari di Adele Vetlesen, - disse Harry bevendo un sorso di caffè.
Il sorriso di Hagen si spense. - Vero. Secondo te ci sono speranze che...? Harry scosse la testa. - È morta, capo.
- Ma...
In quello stesso istante squillò il telefono.
Harry rispose. - Sì. Günther! - e ripeté con un sorriso forzato: - Sì, Harry Klein . Genau.
Gunnar Hagen e Kaja contemplarono Harry che ascoltava in silenzio. Harry concluse con un «danke» e riagganciò. Si schiarì la voce.
- È morta.
- Sì. Lo hai già detto, - fece Hagen.
- No. Juliana Verni. È stata trovata nel fiume Elster il 2 dicembre.
Hagen imprecò in silenzio.
- Causa della morte? - domandò Kaja.
Harry guardava fisso davanti a sé. - Annegamento.
- Forse è stato un incidente.
Harry scosse adagio la testa. - Non è annegata nell'acqua.
Nel silenzio che seguì udirono il brontolio delle caldaie nel locale attiguo.
- Ferite da punta in bocca? - domandò Kaja.
Harry annuì. - Ventiquattro, per la precisione. È stata mandata in Africa per riportare a casa l'oggetto con cui sarebbe stata uccisa a sua volta.
34. Medium
- Quindi Juliana Verni è stata trovata morta a Lipsia tre giorni dopo il suo rientro da Kigali, - disse Kaja. - Dove si era recata sotto il nome di Adele Vetlesen, si era registrata al Gorilla Hotel sotto il nome di Adele Vetlesen e aveva spedito una cartolina scritta dalla vera Adele Vetlesen, probabilmente sotto dettatura.
- Sì, - disse Harry, che stava mettendo su dell'altro caffè.
- E siete convinti che Verni abbia agito in collaborazione con qualcuno, - disse Hagen. - E che poi l'altra persona l'abbia uccisa per occultare le tracce.
- Sì, - confermò Harry.
- Quindi basta trovare il collegamento tra lei e quest'altra persona. Non dovrebbe essere tanto difficile, sicuramente quei due sono stati a stretto contatto se hanno commesso questo genere di crimini insieme.
- In questo caso sarà piuttosto difficile, secondo me.
- E perché?
- Perché, - rispose Harry chiudendo il coperchio della caffettiera elettrica e premendo l'interruttore, - Juliana Verni era registrata nel casellario giudiziario. Stupefacenti. Prostituzione. Vagabondaggio. In poche parole, era una persona che sarebbe stato facile ingaggiare per un lavoretto come questo, purché il compenso fosse decente. E ogni aspetto di questo caso fa pensare che il mandante non ci abbia lasciato tracce, che abbia pensato praticamente a tutto. Katrine ha scoperto che la Verni ha raggiunto Oslo da Lipsia. Da qui ha proseguito sotto il nome di Adele per Kigali. Però Katrine non ha rintracciato nemmeno una telefonata tra il cellulare della Verni e la Norvegia. La persona di cui stiamo parlando è stata prudente.
Hagen scosse la testa scoraggiato. - Mancava così poco...
Harry si sedette sulla scrivania. - C'è anche un altro dilemma su cui dobbiamo prendere una decisione. Gli ospiti del rifugio Håvass quella notte.
- Cosa?
- Non possiamo escludere che la pagina sparita del registro degli ospiti sia una lista di condannati a morte. Bisogna avvertirli.
- E come? Non sappiamo chi sono.
- Tramite i media. Anche se significherebbe far sapere all'assassino che abbiamo scoperto questa pista.
Hagen scosse adagio la testa. - Un elenco di condannati a morte. E sei arrivato a questa conclusione solo adesso?
- Lo so, capo -. Lo sguardo di Harry incrociò quello di Hagen. - Se mi fossi rivolto ai media con un avvertimento subito dopo la scoperta dello Håvass, avremmo potuto salvare Elias Skog.
Nella stanza calò il silenzio.
- Noi non possiamo rivolgerci ai media, - disse Hagen.
- Perché no?
- Se si fa vivo qualcuno, forse riusciamo a sapere chi altro c'era e cosa è successo, - intervenne Kaja.
- Noi non possiamo rivolgerci ai media, - ripeté Hagen alzandosi. - Abbiamo indagato su una persona scomparsa e scoperto collegamenti con un caso di omicidio di cui si sta occupando la Kripos. Dobbiamo passare l'informazione e lasciare che ci pensino loro. Chiamo Bellman.
- Aspetta! - disse Harry. - E lui dovrebbe prendersi tutti gli onori per un lavoro che abbiamo fatto noi?
- Non è detto che ci saranno onori da prendere, giusto? - disse Hagen avviandosi verso la porta. - E dovete cominciare a sgombrare questa stanza.
- Non stiamo precipitando un po' troppo le cose? - domandò Kaja.
Gli altri due la guardarono.
- Sì, insomma, abbiamo comunque un caso di persona scomparsa. Non dovremmo cercare di rintracciarla prima di sbaraccare?
- E come pensi di fare? - domandò Hagen.
- Come ha detto prima Harry. Con una ricerca.
- Ma se non sapete nemmeno dove cercare, per la miseria.
- Harry lo sa.
Guardarono entrambi l'uomo che con una mano aveva appena preso la caffettiera e con l'altra teneva la sua tazza sotto il getto marrone sporco.
- Lo sai? - domandò infine Hagen.
- Certo, - rispose Harry.
- E dove?
- Avrai delle grane.
- Sta' zitto e dimmelo, - ribatté Hagen, senza accorgersi della contraddizione. Perché stava pensando che era sul punto di ricascarci. Che cos'aveva quel poliziotto alto e biondo per riuscire sempre a trascinarsi dietro gli altri nella sua caduta?
Olav Hole alzò lo sguardo verso Harry e la donna che lo accompagnava.
Quando si era presentata gli aveva fatto la riverenza, e Harry aveva notato il compiacimento del padre: si lamentava sempre che le donne non facevano più la riverenza.
- E così, sei la collega di Harry, - disse il padre. - Si comporta bene?
- Stiamo andando a organizzare un'operazione di ricerca, - disse Harry. - Abbiamo solo fatto un salto per vedere come stai.
Olav Hole sorrise pallido, si strinse nelle spalle e fece segno al figlio di avvicinarsi. Harry si sporse in avanti, ascoltò. E si ritrasse.
- Andrà bene, vedrai, - disse con voce improvvisamente rauca e si alzò. - Torno stasera, okay?
In corridoio Harry fermò Altman e fece cenno a Kaja di andare avanti.
- Senti, mi chiedevo se potessi farmi un grosso favore, - attaccò appena Kaja fu fuori portata d'orecchi. - Mio padre mi ha appena detto che ha dolore. Non lo ammetterà mai con voi perché ha paura che gli aumentiate gli antidolorifici. Vedi, ha una paura maniacale di assuefarsi a... agli stupefacenti. C'è stato qualche caso in famiglia.
- Capicco, - rispose con pronuncia blesa l'infermiere e Harry ebbe un momento di confusione prima di rendersi conto che Altman aveva detto «capisco». - Il problema è che mi sposto in continuazione tra i vari reparti.
- Te lo chiedo come favore personale.
Altman strizzò gli occhi dietro le lenti, poi prese a fissare un punto tra sé e Harry, pensoso. - Vedrò cosa posso fare.
- Grazie.
Kaja guidò mentre Harry parlava al cellulare con il comandante dei vigili del fuoco di Briskeby.
- Tuo padre mi è sembrato un uomo buono, - gli disse appena lui chiuse la comunicazione.
Harry rifletté. - È stata mamma a farlo diventare così, - disse. - Quando era viva, lui era buono. Gli tirava fuori il meglio.
- Da come ne parli sembra che sia successo anche a te.
- Cosa?
- Che qualcuno ti abbia fatto diventare buono.
Harry guardò fuori del finestrino. Annuì.
- Rakel?
- Rakel e Oleg, - rispose Harry.
- Scusa, non avevo intenzione di...
- Non ti preoccupare.
- È solo che quando sono arrivata all'Anticrimine, tutti non facevano che parlare dell'Uomo di neve. Che per poco non li aveva ammazzati. E anche te. Ma tra voi era già finita quando fu aperta quell'indagine, non è vero?
- Più o meno, - rispose Harry.
- Li hai più sentiti?
Harry scosse la testa. - Abbiamo dovuto cercare di metterci una pietra sopra. Di aiutare Oleg a dimenticare. Alla sua età è ancora possibile.
- Non sempre, - disse Kaja con un sorriso sghembo.
Harry la fissò. - E tu? Chi ti ha fatto diventare buona?
- Even, - rispose lei tutto d'un fiato, senza esitare.
- Nessun grande amore?
Kaja scosse la testa. - Nessuno extra-large. Solo qualcuno small. E uno medium.
- Nessun filarino?
Kaja rise sottovoce. - Nessun filarino?
Harry sorrise. - Il mio vocabolario in materia è un po' superato.
Lei indugiò. - Forse c'è un tipo che mi piace.
- E le prospettive sono?
- Pessime.
- Fammi indovinare, - disse Harry. Abbassò un po' il finestrino e si accese una sigaretta. - È sposato e dice che lascerà la moglie e i figli per te, però non lo fa?
Kaja rise. - Fammi indovinare. Sei uno di quei tipi convinti di essere maledettamente bravi a leggere nell'animo degli altri perché ti ricordi solo le volte che hai colto nel segno.
- Lui ti ha detto che devi soltanto dargli un po' di tempo?
- Ancora cilecca, - disse lei. - Non parla proprio.
Harry annuì. Fu sul punto di farle altre domande quando comprese: non voleva sapere.
35. L'immersione
La nebbia vagava sopra la superficie nera e lucente del Lyseren. Gli alberi lungo la riva sembravano tanti sinistri, silenziosi testimoni dalle spalle curve. Il silenzio fu rotto da comandi, comunicazioni radio e tonfi quando i sommozzatori si tuffarono all'indietro dai gommoni. I sommozzatori avevano iniziato dalle spiagge vicino alla corderia per poi procedere a ventaglio, mentre i capi delle squadre di soccorso, a riva, spuntavano via via sulla carta della zona di ricerca i reticoli che avevano coperto e segnalavano con strappi ai cavi di recupero quando volevano che qualcuno si fermasse o tornasse indietro. Inoltre i sommozzatori di salvataggio professionisti, come Jarle Andreassen, avevano dei cavi che, entrando nella maschera, permettevano loro di comunicare verbalmente.
Jarle aveva finito il corso da sei mesi, e durante immersioni come quella ancora gli aumentavano le pulsazioni. E un numero elevato di pulsazioni significava un maggiore consumo di ossigeno. I vigili del fuoco più esperti della caserma di Briskeby lo chiamavano «il galleggiante» perché doveva in continuazione risalire a cambiare le bombole.
Sapeva che in superficie la luce del giorno era ancora buona, ma là sotto era notte fonda. Anche se cercava di nuotare un metro e mezzo sopra il fondale come da regolamento, sollevava lo stesso del fango che rifletteva la luce della torcia abbagliandolo parzialmente. Sebbene sapesse che c'erano altri colleghi a pochi metri di distanza e su entrambi i lati, si sentiva solo. Solo e congelato fino al midollo. E forse avrebbero dovuto continuare con le immersioni per ore. Sapeva che gli restava meno ossigeno degli altri e imprecò mentalmente. Non aveva nulla in contrario a essere il primo fra i sommozzatori di salvataggio dei vigili del fuoco di Oslo a dover cambiare le bombole, ma temeva di dover risalire addirittura prima dei volontari dei circoli sub locali. Puntò di nuovo lo sguardo avanti e trattenne il respiro. Non volontariamente, per ridurre il consumo, bensì perché al centro del cono di luce, in mezzo all'ondeggiante foresta di steli che si levavano dal fondale fangoso vicino a riva, vide una sagoma sospesa nell'acqua. Una creatura che non apparteneva a quell'ambiente, che non poteva vivere laggiù. Un corpo estraneo. Proprio questo rendeva la visione tanto straordinaria e terrificante allo stesso tempo. O forse era perché la luce della torcia si rifletteva nei suoi occhi scuri facendola sembrare ancora viva.
- Tutto bene, Jarle?
Era la voce del comandante dei sommozzatori. Uno dei suoi compiti era ascoltare il respiro dei suoi uomini. Non solo per controllare che respirassero, ma anche per sentire se il respiro tradiva nervosismo. O una calma eccessiva. Già a venti metri il cervello cominciava a immagazzinare quantità tali di azoto che poteva sopravvenire l'ebbrezza da alti fondali: quella narcosi da azoto che poteva far dimenticare le cose, rendere un po' più difficili compiti elementari e, a profondità notevoli, provocare capogiri, visione a tunnel e addirittura un comportamento decisamente irrazionale. Jarle non sapeva se fossero soltanto leggende metropolitane, ma aveva sentito di sommozzatori che a cinquanta metri di profondità si erano tolti la maschera ridendo. Da parte sua, finora aveva solo avvertito un'euforia simile alla piacevole calma indotta dal vino rosso che il sabato sera beveva insieme alla sua compagna.
- Tutto bene, - rispose Jarle Andreassen riprendendo a respirare. Inspirò la miscela di azoto e ossigeno e sentì un gorgoglio vicino alle orecchie quando buttò fuori grappoli di bollicine che arrancarono disperate verso la superficie.
Era un grosso cervo. Era appeso a testa in giù e sembrava incastrato in una parete rocciosa per l'imponente palco. Magari era caduto nel lago mentre brucava l'erba sulla riva. O forse qualcosa o qualcuno gli aveva dato la caccia fino a spingerlo nel lago: altrimenti, cosa ci faceva là? Probabilmente era rimasto impigliato nelle canne e nei gambi lunghi diversi metri delle ninfee e aveva cercato di liberarsi, con l'unico risultato di impigliarsi ancora di più in quei tentacoli verdi e tenaci. E poi era finito sott'acqua, continuando a dibattersi finché era annegato. Era andato a fondo e là era rimasto per un po', quindi i batteri e le sostanze chimiche contenute nel corpo lo avevano riempito di gas ed era risalito verso la superficie, rimanendo però bloccato per le corna nel reticolo verde di piante che crescevano sulle rocce. Di lì a qualche giorno la carcassa si sarebbe svuotata dei gas affondando di nuovo. Esattamente come un essere umano. Era molto probabile che fosse successa la stessa cosa alla persona che cercavano, che fosse quello il motivo per cui il corpo non era stato trovato: non era tornato a galla. In tal caso giaceva laggiù da qualche parte, con tutta probabilità coperto da uno strato di fango. Lo stesso fango che si sarebbe inevitabilmente sollevato non appena si fossero avvicinati, e che faceva sì che perfino zone di ricerca circoscritte come quella potessero custodire i loro segreti per sempre.
Jarle Andreassen estrasse il grosso coltello da sub, nuotò verso il cervo e recise gli steli sotto le corna. Aveva il presentimento che i suoi superiori non avrebbero apprezzato quel gesto, ma non sopportava l'idea che quell'animale magnifico dovesse rimanere sospeso sott'acqua. La carcassa salì per circa mezzo metro, ma poi fu trattenuta da altri steli. Badando a non far finire la sagola di salvataggio in mezzo alle piante, Jarle si sbrigò a tagliare. Poi sentì uno strappo nella sagola. Abbastanza forte da irritarsi. Abbastanza forte da fargli perdere la concentrazione per un momento. Il coltello gli scivolò di mano. Puntò la torcia sul fondale e fece in tempo a vedere la lama brillare nella luce prima che fosse inghiottita dal fango. La raggiunse nuotando con prudenza. Affondò la mano nel fango che saliva verso di lui come cenere. Tastò il fondale. Sentì sassi, ramoscelli, viscidi di marciume e di alghe. E poi qualcosa di duro. Una catena. Sicuramente di una barca. Ancora catene. Qualcos'altro. Di solido. I contorni di qualcosa. Un buco, un'apertura. Udì l'improvviso sibilo di bollicine prima che il suo cervello riuscisse a concepire il pensiero: che aveva paura.
- Tutto bene, Jarle? Jarle?
No, non andava tutto bene. Perché anche con i guanti pesanti, anche con un cervello che non sembrava ricevere abbastanza ossigeno, non aveva dubbi su dove aveva messo le dita: nella bocca spalancata di un essere umano. 
Parte quarta
36. Elicottero
Mikael Bellman arrivò al Lyseren in elicottero. Le pale del rotore trasformarono la nebbia in zucchero filato mentre lui lasciava il posto del passeggero e, piegato in due, attraversava il campo alle spalle della corderia. Lo seguivano Kolkka e Beavis. Dalla direzione opposta arrivarono quattro uomini con una barella di vimini. Bellman li fermò e scostò la coperta. Mentre i barellieri guardavano dall'altra parte, Bellman si sporse sopra la lettiga e studiò attentamente il cadavere nudo, bianco e gonfio.
- Grazie, - disse lasciandoli proseguire verso l'elicottero.
Si fermò in cima alla scarpata e guardò le persone sotto di lui, tra l'edificio e il lago. In mezzo ai sommozzatori che si toglievano l'attrezzatura e le mute, scorse Beate Lønn e Kaja Solness. E, più in là, Harry Hole che parlava con un uomo che Bellman immaginò fosse Skai, l'agente della polizia rurale.
Bellman fece segno a Beavis e a Kolkka di aspettarlo dov'erano e a passo agile e svelto scese giù per il pendio.
- Buongiorno, agente rurale, - disse, spazzandosi via dal cappotto lungo alcuni ramoscelli. - Mikael Bellman, Kripos, ci siamo sentiti per telefono.
- Esatto, - disse Skai. - La stessa sera in cui quello là e i suoi hanno trovato della corda, qui -. Indicò Harry con il pollice.
- E adesso a quanto pare è tornato, - disse Bellman.
- Ovviamente, la domanda è: che ci fa, lui, sulla mia scena del crimine?
- Be', - rispose Harry raschiandosi la gola. - Innanzitutto non direi che siamo sulla scena di un crimine. Secondo, poi, sto seguendo il caso di una persona scomparsa. E in effetti sembra che abbiamo trovato quello che cercavamo. Come va con il triplice omicidio? Scoperto qualcosa? Hai avuto le nostre informazioni sul rifugio Håvass?
A un'occhiata di Bellman il poliziotto rurale si allontanò con discrezione ma in fretta.
Il commissario capo della Kripos spaziò con lo sguardo sul lago, passandosi un indice sopra il labbro inferiore come se si spalmasse una pomata. - Allora, Hole. Ti rendi conto di aver appena fatto in modo che tanto tu quanto il tuo superiore, Gunnar Hagen, non solo perdiate il posto, ma siate anche denunciati per negligenza?
- Mhm. Perché facciamo il lavoro che ci è stato assegnato?
- Credo che il gabinetto del ministro della Giustizia pretenderà una spiegazione molto esaustiva del perché abbiate avviato le ricerche di una persona scomparsa proprio davanti alla corderia dove è stata fabbricata la corda che ha ucciso Marit Olsen. Vi ho dato una chance, non ve ne darò un'altra. Game over, Hole.

Vorrà dire che daremo una spiegazione esaustiva al ministro della Giustizia, Bellman. Ovviamente, spiegherò anche che abbiamo capito da dove proveniva la corda, che siamo risaliti a Elias Skog e al rifugio Håvass, che abbiamo scoperto l'esistenza di una quarta vittima di nome Adele Vetlesen e che oggi l'abbiamo trovata qui. Un lavoro che la Kripos con tutti i suoi uomini e tutte le sue risorse non è riuscita a fare in due mesi. O cosa, Bellman?
L'altro non rispose.
- Hai paura che questo potrebbe influenzare il ministro della Giustizia, quando valuterà quale unità sia più adatta a indagare sugli omicidi di questo paese?
- Non alzare troppo la posta, Hole. Io ti schiaccio così Bellman fece schioccare le dita.
- Okay, - disse Harry. - Nessuno di noi due ha una mano vincente, quindi che ne dici se passo?
- Che accidenti vuoi dire?
- Che tu prendi tutto. Tutto quello che abbiamo. Noi non ci prendiamo l'onore di niente.
Bellman guardò Harry con diffidenza. - E perché ci dovresti aiutare?
- Semplice, - rispose Harry tirando fuori l'ultima sigaretta dal pacchetto. - Io sono pagato per contribuire alla cattura dell'assassino. È il mio lavoro.
Bellman fece una smorfia e mosse le spalle e la testa come se ridesse, ma senza emettere alcun suono. - Dài, Hole, cos'è che vuoi?
Harry si accese la sigaretta. - Voglio che né Gunnar Hagen, né Kaja Solness, né Bjørn Holm paghino le conseguenze di questa storia. Le loro prospettive future nel corpo di polizia devono restare immutate.
Bellman si strinse il carnoso labbro inferiore tra il pollice e l'indice.
- Vedrò cosa posso fare.
- E io voglio partecipare. Voglio avere accesso a tutto il materiale che avete e poter attingere alle vostre risorse investigative.
- Alt! - disse Bellman alzando una mano. - Non ci senti, Hole? Ti avevo ordinato di tenerti fuori da questo caso.
- Possiamo catturare l'assassino insieme, Bellman. Penso che adesso come adesso questo sia più importante di chi diamine dovrà comandare in seguito, o no?
- Non...! - gridò Bellman, ma si interruppe quando vide un paio di teste girarsi verso di loro. Avanzò di un passo verso Harry e abbassò la voce. - Non parlarmi come se fossi un idiota, Hole.
La direzione del vento gli portò il fumo della sigaretta di Harry dritto in faccia, ma non batté ciglio. Harry si strinse nelle spalle. - Sai una cosa, Bellman? Non credo che dietro questa storia ci siano il potere e la politica, quanto il fatto che tu sei un ragazzino, tu vuoi essere l'eroe che compie la grande impresa. Tutto qui. E adesso hai paura che io ti rovini l'epopea. Ma c'è un modo semplice di decidere questa faccenda. Che ne dici di tirar giù le lampo qua, su due piedi, e vedere chi riesce a pisciare fino al gommone dei sommozzatori?
Questa volta, quando Mikael Bellman rise, lo fece a dovere, con tanto di suono e tutto il resto.
Dovresti leggere le avvertenze, Harry.
La sua mano destra scattò in avanti con una tale rapidità che Harry non fece in tempo a reagire, gli sfilò la sigaretta dalle labbra e la scagliò lontano con uno scatto delle dita. Il mozzicone finì in acqua ed emise un fioco sfrigolio.
- Il fumo uccide. Buona giornata.
Harry udì l'elicottero decollare mentre guardava la sua ultima sigaretta galleggiare sul pelo dell'acqua. La carta grigia e fradicia, la punta nera e spenta.
Calava il crepuscolo quando l'imbarcazione dei sommozzatori fece scendere Harry, Kaja e Beate Lønn vicino al parcheggio. Immediatamente sotto gli alberi scoppiò un trambusto, e subito dopo ci fu un lampeggiare di flash. Harry alzò d'istinto un braccio e udì la voce di Roger Gjendem nel buio: - Harry Hole, gira voce che avete trovato una giovane donna. Come si chiama e in quale misura siete sicuri che ci sia un collegamento agli altri delitti?
- No comment, - disse Harry facendosi largo mezzo abbagliato. - Per il momento questo resta un caso di persona scomparsa, e possiamo solo dire che è stata trovata una donna e probabilmente è la persona scomparsa. Per quanto riguarda gli omicidi a cui penso tu stia alludendo, ti devi rivolgere alla Kripos.
- Il nome della donna?
- Prima si dovrà procedere all'identificazione e ad avvisare i familiari.
- Però non escludete che...
- Io non escludo mai niente, Gjendem. Seguirà un comunicato stampa.
Harry salì sulla macchina che Kaja aveva già messo in moto, mentre Beate Lønn si era accomodata sul sedile posteriore. Si immisero in strada mentre i flash continuavano a lampeggiare alle loro spalle.
- Allora, - disse Beate Lønn sporgendosi tra i sedili. - Nessuno mi ha ancora spiegato come vi è venuto in mente di cercare Adele Vetlesen proprio qui.
- Pura e semplice logica deduttiva, - rispose Harry.
- Naturalmente, - disse Beate.
- In effetti mi vergogno di non averci pensato prima, - aggiunse Harry. - Mi domandavo perché l'assassino si fosse scomodato a raggiungere una vecchia corderia sperduta solo per procurarsi una fune. Soprattutto perché una fune del genere permetteva di risalire fino a qui, al contrario di una che avrebbe potuto comprare in un negozio. E la risposta era ovvia. Ma solo quando mi sono trovato a spaziare con lo sguardo sopra un profondo lago africano mi è balenata l'idea. Non è venuto qui per la fune. Con tutta probabilità gli è servita qui per qualcosa e poi se l'è portata a casa. Là poi, visto che casualmente ce l'aveva a portata di mano, l'ha usata per uccidere Marit Olsen.
Il motivo che lo ha spiato qui è che aveva un cadavere di cui sbarazzarsi. Adele Vetlesen. L'agente rurale Skai ce lo ha detto a chiare lettere la prima volta che siamo venuti, che questa è la parte profonda del lago. L'assassino le ha riempito i pantaloni di sassi e poi li ha stretti in vita e in fondo con la corda prima di buttarla in acqua.
- Come fai a sapere che era morta prima di arrivare qui? Magari l'ha affogata.
- Aveva un grosso squarcio in gola. Scommetto che l'autopsia rivelerà che non aveva acqua nei polmoni.
E che nel sangue c'erano tracce di ketamina, come nel caso di Charlotte e di Borgny, - aggiunse Beate.
- A quanto ho capito la ketamina è un anestetico a effetto rapido, - disse Harry. Strano che non ne abbia mai sentito parlare.
- Non è poi tanto strano, - disse Beate. - Si tratta di una vecchia copia a basso costo del ketalar, che si usa nelle anestesie, e ha il vantaggio che il paziente continua a respirare da solo. La ketamina è stata vietata nell'Unione Europea e in Norvegia negli anni Novanta a causa degli effetti collaterali, ragion per cui ora la si trova praticamente solo nei paesi in via di sviluppo. Per un periodo la Kripos l'ha usata come pista principale, ma senza approdare a nulla.
Quando, quaranta minuti dopo, lasciarono Beate alla sede della Scientifica di Bryn, Harry chiese a Kaja di aspettare un momento e scese dall'auto.
- C'è una cosa che ti vorrei chiedere, - disse.
- Sì? - disse Beate rabbrividendo e sfregandosi le mani.
- Che ci facevi su un possibile luogo del delitto? Perché non c'era Bjørn?
- Perché Bellman ha dato un incarico speciale a Bjørn.
- Ossia? Pulire i bagni?
- No. Coordinare la squadra tattica e la Scientifica.
- Come? - Harry inarcò sbalordito le sopracciglia. - Ma è una promozione. Beate si strinse nelle spalle. - Bjørn è bravo. Era ora. C'è altro?
- No.
- Buona serata.
- Grazie, altrettanto. Anzi, a proposito, aspetta un momento. Io ti ho chiamata e ti ho detto di far sapere a Bellman che avevamo trovato quella fune alla corderia.
Quando gli hai dato l'informazione?
- Tu mi hai chiamato di notte, perciò ho aspettato fino alla mattina presto. Perché?
- Niente, - rispose Harry. - Niente.
Quando rimontò in macchina, Kaja infilò il cellulare in tasca.
- La notizia che abbiamo trovato il cadavere è già sull'edizione on-line dell'«Aftenposten», - lo informò.
- Ah sì?
- Dicono che c'è una grande foto tua con il nome per esteso, e che vieni definito «responsabile delle indagini». E ovviamente hanno collegato questo caso agli altri omicidi.
- Ho capito. Mhm. Di' un po'. Hai fame anche tu?
- Da lupi.
- Hai programmi? Se non li hai ti invito a cena.
- Perfetto! E dove?
- Al ristorante Ekeberg.
- Wow. Esclusivo. C'è un motivo per questa scelta?
- Be'. Mi è venuto in mente quando un mio amico mi ha ricordato una vecchia storia.
- Sentiamo.
- Non c'è niente da sentire, solo una normale storia di puber...
Pubertà! Racconta!
Harry ridacchiò sottovoce. E mentre arrivavano in centro e percorrevano la strada tortuosa che risaliva la collina di Ekeberg, Harry raccontò di Killer Queen, la regina del ristorante Ekeberg, un tempo il più bell'edificio in stile funzionalista di Oslo. Che adesso, dopo il restauro, lo era diventato di nuovo.
- Ma negli anni Ottanta era ridotto in uno stato tale che la gente aveva praticamente smesso di frequentarlo. Era diventato una specie di ristorante-dancing decaduto dove quando andavi a un tavolo per invitare una persona a ballare, cercavi di non rovesciare i drink. E poi ci si trascinava sulla pista sostenendosi a vicenda.
- Ho capito.
- Io, Øystein e Tresko andavamo sempre sui tetti dei bunker tedeschi di Nordstrand, a bere birra e ad aspettare che la giovinezza passasse. Quando avevamo diciassette anni, ci spingevamo all'Ekeberg imbrogliando sull'età e ci facevano entrare. Non si doveva mentire più di tanto, quel locale aveva un gran bisogno di fare cassa. L'orchestra faceva schifo, però suonava Nights in White Satin. E quasi tutte le sere c'era un'attrazione. Noi la chiamavamo semplicemente Killer Queen. Un pezzo di marcantonia.
- Marcantonia? - ripeté Kaja ridendo. - Filarino?
- Sì, - disse Harry. - Ti veniva incontro a vele spiegate, esagerata e tremendamente sinistra. Agghindata come un luna park. Con curve che sembravano montagne russe.
Kaja rise ancora più forte. - Le giostre locali in carne e ossa?
- In un certo senso, - disse Harry. - Ma frequentava Ekeberg soprattutto per farsi vedere e corteggiare, credo.
E per i drink che le offrivano certi campioni di ballo sfioriti, naturalmente. Nessuno vide mai Killer Queen andare a casa con qualcuno. E forse era proprio questo che ci affascinava. Una donna che aveva dovuto abbassare parecchio le ali per trovare ancora dei corteggiatori, ma senza perdere stile, in un certo senso.
- E poi?
- Øystein e Tresko dissero che mi avrebbero pagato un whisky a testa se avessi avuto il coraggio di invitarla a ballare.
Girarono passando sulle rotaie del tram e percorsero l'ultima ripida salita che portava al ristorante.
- E? - domandò Kaja.
- Ebbi il coraggio.
- E poi?
- Ballammo. Finché disse che era stufa di farsi pestare i piedi e preferiva una passeggiata. Lei uscì per prima. Era agosto, faceva caldo, e come puoi vedere, tutt'intorno c'era solo bosco. Con fogliame fitto e tanti sentieri che portavano in posticini appartati. Ero ubriaco, ma talmente eccitato che sapevo avrebbe sentito il tremito della mia voce se avessi detto qualcosa. Perciò tenni la bocca chiusa. E andò benissimo, pensò lei a parlare. E anche al resto. Dopo mi chiese se volevo andare a casa sua.
Kaja sogghignò. - Ah. E là cosa accadde?
- Te lo racconto a cena, siamo arrivati.

Si fermarono nel parcheggio, scesero e salirono la scalinata che portava al ristorante. Il maître li accolse all'ingresso della sala e chiese il nome. Harry rispose che non avevano prenotato.
Il maître si trattenne a stento dal volgere gli occhi al cielo.
- Tutto esaurito per i prossimi due mesi, - sbuffò Harry mentre se ne andavano, dopo aver comprato le sigarette al bar. - Credo che questo posto mi piacesse di più quando ci pioveva dentro e i ratti ti urlavano in faccia da dietro i cessi. Se non altro, siamo entrati.
- Facciamoci una siga, - propose Kaja.
Raggiunsero il basso muretto oltre il quale il pendio boscoso digradava verso la città. A ovest le nuvole erano tinte di arancione e di rosso, e i serpentoni di macchine sull'autostrada scintillavano come fuochi fatui nel buio della città. Oslo sembrava stendersi ansiosa, guardinga sotto di loro, pensò Harry. Come un predatore mimetizzato. Spinse fuori dal pacchetto due sigarette, le accese e ne porse una a Kaja. - Il resto della storia, - disse lei aspirando.
- Dove eravamo rimasti?
- Killer Queen ti portò a casa sua.
- No, me lo chiese. E io rifiutai gentilmente.
- Rifiutasti? Bugiardo. Perché?
- Øystein e Tresko mi fecero la stessa domanda quando tornai. Risposi che non potevo mica svignarmela con due amici e il whisky gratis che mi aspettavano.
Kaja rise fragorosamente e soffiò il fumo sul panorama.
- Ma era una bugia, ovviamente, - continuò Harry. - La lealtà non c'entrava nulla. L'amicizia non significa nulla per un uomo, se gli fai una proposta abbastanza allettante. Nulla. La verità era che non avevo il coraggio. Killer Queen era troppo sinistra per me, tutto lì.
Rimasero in silenzio per un po', ad ascoltare il ronzio della città e a guardare il fumo allontanarsi in volute.
- Stai pensando, - disse Kaja.
- Mhm. Sto pensando a Bellman. A quanto era ben informato. Non solo sapeva che stavo rientrando in Norvegia, ma addirittura con quale volo.
- Probabilmente ha i suoi agganci in centrale.
- Mhm. E oggi, al Lyseren l'agente Skai ha detto che Bellman gli ha telefonato per chiedergli della fune la stessa sera in cui noi eravamo stati alla corderia.
- Ah sì?
- Ma Beate sostiene di aver detto a Bellman della fune solo la mattina dopo che eravamo stati là -. Harry seguì con lo sguardo un filo di tabacco incandescente che veleggiava oltre la scarpata.
- E Bjørn è stato promosso coordinatore della squadra tattica e della Scientifica. Kaja lo fissò spaventata. - Non è possibile, Harry.
Lui tacque.
- Bjørn Holm! Bjørn informare Bellman su quello che facevamo? Tu e lui avete lavorato insieme per tanto tempo, siete... amici!
Harry si strinse nelle spalle. - Ripeto, penso... - lasciò cadere la sigaretta in terra e la schiacciò con il tacco, - che l'amicizia non significa un tubo se la proposta è abbastanza allettante. Hai il coraggio di affrontare il piatto del giorno di Schrøder?
Ultimamente non faccio che sognare. Era estate e io la amavo. Ero giovanissimo e credevo che bastasse desiderare qualcosa abbastanza intensamente per averla.
Adele, avevi il suo sorriso, i suoi capelli e il suo cuore ingannatore. E ora l'«Aftenposten» dice che ti hanno trovata. Spero che fuori fossi orribile quanto dentro.
C'è anche scritto che il commissario Harry Hole è stato incaricato del caso. È stato lui a catturare l'Uomo di neve. Forse c'è speranza, forse nonostante tutto la polizia è in grado di salvare vite umane?
Ho stampato una foto di Adele dal sito di «VG» e l'ho appuntata alla parete, accanto alla pagina strappata dal registro degli ospiti del rifugio Håvass. Ormai restano solo tre nomi, compreso il mio.
37. Profilo
Il piatto del giorno di Schrøder era pasticcio di carne servito con uovo fritto e cipolle crude.
- Ottimo, - disse Kaja.
- Mi sa che oggi il cuoco non ha bevuto, - le fece eco Harry additando. - Guarda.
Kaja si voltò e alzò lo sguardo verso lo schermo televisivo che Harry aveva indicato.
- Oh, santo cielo! - disse.
Il viso di Mikael Bellman prendeva tutto lo schermo, e Harry fece segno a Nina di alzare il volume. Quindi studiò i movimenti della bocca di Bellman. I lineamenti delicati, quasi femminili. Il suo intenso sguardo castano che brillava sotto l'arco elegante delle sopracciglia. Le macchie bianche, quasi nevischio sulla pelle, non lo deturpavano, anzi, al contrario, rendevano il suo aspetto ancora più interessante, come un animale esotico. Se, come la maggior parte degli investigatori, non aveva un numero privato, di lì a poco il suo cellulare sarebbe stato pieno di Sms arrapati e innamorati. Poi arrivò il sonoro: «... al rifugio Håvass, la notte tra il 7 e l'8 novembre. Quindi chiediamo alle persone che si trovavano là di rivolgersi alla polizia al più presto».
Poi la linea tornò allo speaker del telegiornale, che passò a un'altra notizia.
Harry scostò il piatto e fece segno di portare il caffè.
- Mi piacerebbe sapere cosa ne pensi di questo assassino adesso che abbiamo trovato Adele. Fammi un profilo.
- Perché? - domandò Kaja bevendo un sorso d'acqua.
- A partire da domani ci occuperemo di altri casi.
- Così, per divertimento.
- Fare il profilo di un serial killer rientra nella tua definizione di divertimento?
Harry succhiò uno stuzzicadenti. - So che c'è una risposta esatta a questa domanda, ma non mi viene in mente.
- Tu sei pazzo.
- Allora, che tipo è?
- Innanzitutto resta invariato che si tratta di un uomo. E di un serial killer. Secondo me non è detto che Adele sia stata la sua prima vittima.
- Perché no?
- Perché ha agito in maniera talmente impeccabile che doveva avere i nervi saldi. La prima volta che si uccide non si ha tanto sangue freddo. Inoltre, l'ha nascosta benissimo: decisamente non voleva che la trovassimo. Questo significa che può aver fatto altre vittime che per il momento figurano soltanto nella statistica delle persone scomparse.
- Okay. Continua.
- Be'...
- Su. Hai appena detto che ha nascosto bene Adele Vetlesen. La prima delle sue vittime di cui siamo a conoscenza. Come si evolvono i delitti?
- Diventa più coraggioso, più sicuro di sé. Smette di occultarle. Hanno trovato Charlotte dietro un'auto nel bosco e Borgny nella cantina di un complesso di uffici in centro.
- E Marit Olsen?
Kaja rifletté a lungo. - Quello è troppo eccentrico. Ha perso il controllo, la situazione gli è sfuggita di mano.
- Oppure, - intervenne Harry, - è passato al livello successivo. Vuole far vedere a tutti quant'è bravo, e comincia a mettere in mostra i suoi delitti. L'omicidio di Marit Olsen nello Stadio del nuoto di Frogner è una forte richiesta di attenzione, ma rivela ben pochi segni di mancanza di controllo. La scelta della fune è stata nella peggiore delle ipotesi un'imprudenza, ma per il resto non ha lasciato la benché minima traccia.
Obiezioni?
Kaja rifletté e scosse la testa.
- Poi c'è Elias Skog, - continuò Harry. - Qualche elemento che lo differenzi?
- Tortura la vittima facendola morire lentamente, - rispose Kaja. - Viene fuori il sadico che è in lui.
- Anche la mela di Leopoldo è uno strumento di tortura, - disse Harry. - Ma concordo con te sul fatto che questa è la prima volta in cui emerge il sadismo. Allo stesso tempo si tratta di una scelta consapevole: è lui a scoprirsi, non viene scoperto.
La regia e il controllo sono ancora nelle sue mani.
Caffettiera e tazze furono sbattute sul tavolo.
- Ma... - disse Kaja.
- Sì?
- Non è un po' una stonatura che un assassino sadico abbandoni la scena del crimine negandosi la possibilità di assistere al culmine della sofferenza della vittima e poi alla sua morte? A quanto ci ha detto, la padrona di casa ha sentito i tonfi nella vasca da bagno dopo che l'ospite se n'era andato. Ha mollato tutto... eh, proprio sul più bello.
- Ottima domanda. Quindi, cosa abbiamo? Un sadico fasullo? E poi, perché fingere?
- Perché sa che proveremo a tracciare un profilo, come stiamo facendo in questo momento, - disse Kaja infervorata. - E che poi lo cercheremo nei posti sbagliati.
- Mmh. Può darsi. In tal caso si tratta di un assassino sofisticato.
- Tu, vecchio saggio, cosa pensi?
Harry versò il caffè. - Se si tratta veramente di un serial killer, penso che gli omicidi siano un po' troppo diversi l'uno dall'altro.
Kaja si sporse sopra il tavolo, e i suoi denti aguzzi scintillarono quando bisbigliò: - Secondo te non si tratta di un serial killer?
- Be'. Mi manca la firma. Di solito sono particolari aspetti dell'omicidio a eccitare un serial killer, e di conseguenza l'esecuzione presenta elementi ricorrenti. Qui non c'è nessuna traccia di pratiche sessuali legate ai delitti. E nessuna analogia nel modus operandi, a parte Borgny e Charlotte, che probabilmente sono state uccise con la mela di Leopoldo. Le scene del crimine sono diversissime tra loro, e lo stesso vale per le vittime. Sono di entrambi i sessi, di età diverse, di ambienti diversi e hanno caratteristiche fisiche diverse.
- Però non sono state scelte a caso: hanno passato la stessa notte nello stesso rifugio.
- Appunto. Proprio per questo non sono tanto sicuro che ci troviamo davanti al classico serial killer. O, per essere più precisi, a un movente classico. Perché di solito per il serial killer l'omicidio in sé costituisce un movente sufficiente. Il motivo per cui, per esempio, sceglie delle prostitute, di solito non è tanto perché sono peccatrici, quanto perché sono prede facili. Per quanto ne so io, c'è stato un unico serial killer che sceglieva le sue vittime in base a un criterio legato alle vittime stesse.
- L'Uomo di neve.
- Non credo nel modo più assoluto che un serial killer scelga le sue vittime da una pagina a caso del registro degli ospiti di un rifugio. E se allo Håvass è successo qualcosa che ha fornito un movente all'assassino, non ci troviamo davanti a delitti seriali classici. Senza contare che la tendenza a mettersi in mostra si sta affermando troppo in fretta per un normale serial killer.
- Che cosa vuoi dire?
- Ha mandato una donna in Ruanda e in Congo per dissimulare un delitto e allo stesso tempo acquistare l'arma per il successivo. Poi la uccide. In altre parole, ha fatto tutto il possibile per coprire quell'omicidio. Nel delitto seguente, qualche settimana dopo, non fa nulla di nulla. E in quello di qualche settimana dopo ancora, sembra un torero che ci sbatte gli attributi sul muso mentre sventola la mantiglia. Si tratta di un cambiamento di personalità in modalità fast forward. Non ha senso.
- Pensi che abbiamo a che fare con più assassini? Ognuno con il proprio modus operandi?
Harry scosse la testa. - Un'analogia c'è. Il fatto che non lascia tracce. Se i serial killer sono rari, uno che non lascia tracce è una balena bianca. Abbiamo a che fare con un assassino solo.
- Bene, d'accordo, ma allora di cosa stiamo parlando? - Kaja allargò le braccia. - Di un serial killer dalla personalità multipla?
- Di una balena bianca con le ali, - rispose Harry. - No, non lo so. Comunque non importa, visto che lo stiamo facendo solo per divertimento. Adesso il caso è della Kripos -. Harry vuotò la tazza di caffè. - Prendo un taxi per andare in ospedale.
- Posso accompagnarti.
- No, grazie, va' a casa a prepararti per nuovi, interessanti incarichi.
Kaja tirò un profondo sospiro. - Quello che mi hai detto a proposito di Bjørn...
- Non farne parola ad anima viva, - disse Harry. - Buonanotte.
Quando Harry arrivò al Rikshospitalet Altman stava uscendo dalla stanza del padre.
- Dorme, - lo informò l'infermiere. - Gli ho dato dieci milligrammi di morfina. Va' pure a sederti di là, se vuoi, ma si sveglierà solo fra parecchie ore.
- Grazie, - disse Harry.
- Nessun problema. Anche mia madre... be', ha dovuto sopportare più dolori di quanto fosse necessario.
- Mhm. Altman, tu fumi?
Dalla sua reazione mortificata Harry capì che fumava, e lo invitò fuori. I due fumarono mentre Altman, che di nome si chiamava Sigurd, raccontò che si era specializzato in anestesiologia proprio per quello che era successo alla madre.
- Perciò se hai fatto quell'iniezione a mio padre adesso...
- Diciamo che è stato un favore da figlio a figlio, - rispose Altman con un sorriso. - Comunque, ho avuto l'autorizzazione del medico. Ci tengo a mantenere il mio posto di lavoro.
- Saggio, - disse Harry. - Vorrei essere così saggio anch'io.
Spensero le sigarette e Altman fece per andare via quando Harry gli domandò: - Visto che sei infermiere anestesista, mi puoi dire dove ci si può procurare la ketamina?
- Ah, - disse Altman. - Non credo che dovrei rispondere a questa domanda.
- Tranquillo, - disse Harry con un sorriso sghembo. - Riguarda il caso di omicidio a cui sto lavorando.
- Ah, be'. A meno che uno non lavori in campo anestesiologico, la ketamina è difficile da reperire in Norvegia. È una vera bomba, letteralmente, stende il paziente in un attimo. Ma ha dei brutti effetti collaterali: provoca l'ulcera. E il pericolo di arresto cardiaco in caso di sovra-dosaggio è grande, la usavano per suicidarsi. Ma non più, la ketamina è vietata nell'Unione Europea e in Norvegia da diversi anni.
- Questo lo so, ma dove andresti per procurartela?
- Be'. Nei paesi dell'ex blocco sovietico. O in Africa.
- Per esempio in Congo?
- Sicuramente. Dopo che è stata vietata in Europa, viene venduta sottocosto dai produttori e finisce nei paesi poveri, è sempre la stessa storia.
Harry rimase seduto al capezzale del padre a guardarne l'esile torace coperto dal pigiama sollevarsi e abbassarsi. Dopo un'ora si alzò e se ne andò.
Riaccese il cellulare solo dopo essere entrato in casa, aver messo su Don't Get around Much Anymore, uno dei dischi di Duke Ellington che appartenevano al padre, e tirato fuori il panetto marrone. Vide che Gunnar Hagen aveva lasciato un messaggio vocale, ma non intendeva ascoltarlo dal momento che sapeva più o meno cosa diceva. Che Bellman gli aveva di nuovo dato addosso, che d'ora in poi non potevano avvicinarsi al caso di omicidio nemmeno se avevano ottimi pretesti. E che se Harry aveva ancora intenzione di lavorare in polizia doveva accontentarsi di stare dietro a una scrivania. Be', forse non quest'ultimo suggerimento. Era ora di mettersi in viaggio. E il viaggio doveva cominciare lì, in quel momento, quella sera. Harry tirò fuori l'accendino con una mano mentre con l'altra apriva i due Sms che aspettavano di essere letti. Il primo era di Øystein. Gli proponeva una «serata tra uomini» nel futuro prossimo, a cui avrebbero invitato anche Tresko che probabilmente era il più in soldi dei tre. L'altro era di un numero che Harry non conosceva. Aprì il messaggio.
«Ho letto sull'edizione on-line dell'"Aftenposten" che ti occupi del caso. Posso instradarti un pochino. Elias Skog ha parlato, prima di essere incollato alla vasca da bagno. C.».
L'accendino gli cadde di mano e si schiantò sul tavolo di vetro. Harry si sentì aumentare i battiti del cuore. Quando indagavano su un omicidio, c'era sempre tanta gente che offriva dritte, consigli, supposizioni. Gente pronta a giurare di aver visto, di aver sentito o di aver sentito dire: la polizia aveva un po' di tempo per darle retta? Spesso erano le stesse persone a farsi avanti, ma saltava sempre fuori qualche nuovo chiacchierone sbalestrato. Harry aveva già capito che non si trattava di questo. La stampa si era diffusa molto sul caso, la gente era in possesso di parecchie informazioni. Ma nessuno del pubblico sapeva che Elias Skog era stato incollato alla vasca da bagno. Né aveva il numero di telefono riservato di Harry.
38. Lesioni permanenti
Harry aveva abbassato Duke Ellington ed era seduto con il cellulare in mano. Quella persona sapeva della supercolla. E aveva il suo numero di telefono. Doveva controllare l'indirizzo e il nome cui corrispondeva il numero, forse addirittura far arrestare l'intestatario per evitare il rischio che fuggisse? D'altro canto, quella persona aspettava una risposta.
Harry pigiò il tasto di chiamata.
Udì due squilli, poi una voce profonda. - Sì?
- Sono Harry Hole.
- Piacere di risentirti, Hole.
- Mhm. Quand'è stata l'ultima volta?
- Non ti ricordi? L'appartamento di Elias Skog. La supercolla.
Harry si sentì pulsare la giugulare, stringere la gola.

Ero là. Con chi parlo, e che cosa ci facevi in quell'appartamento?
All'altro capo ci fu un secondo di silenzio, e Harry credette che avessero riagganciato. Mai poi la voce si fece risentire con un prolungato «Ah».
- Ah, mi dispiace, forse ho firmato il messaggio soltanto con la «C»?
- Sì.
- Lo faccio sempre. Sono Colbjørnsen. Il commissario di Stavanger. Ricordi? Mi hai dato il tuo numero di telefono.
Harry imprecò mentalmente, si accorse di trattenere ancora il respiro e buttò fuori l'aria con un lungo sibilo.
- Ci sei?
- Sì, certo, - rispose Harry, poi afferrò il cucchiaino che stava sul tavolo e staccò un pezzettino di oppio. - Mi hai scritto che avevi qualcosa per me?
- Sì, è vero. Ma a una condizione.
- E sarebbe?
- Che rimanga tra noi.
- E perché?
- Perché non sopporto quello stronzo di Bellman che si presenta qui convinto di essere il grande asso delle indagini sugli omicidi. Lui e la sua Kripos di merda mirano ad avere il monopolio in tutto il paese. Che vada a cagare. Il problema sono i miei capi. Non mi permettono di alzare un dito nel caso Skog, cazzo.
- E perciò ti rivolgi a me?
- Sono un ragazzo alla buona di una città di provincia, Hole. Ma quando vedo che l'«Aftenposten» scrive che il caso è stato affidato a te, capisco cosa sta succedendo. Immagino che tu sia come me. Non hai nessuna intenzione di sdraiarti e lasciarti morire, vero?
- Be'... - rispose Harry guardando il panetto che aveva davanti.
- Perciò, se puoi usare questa informazione per fregare quel topo di fogna, e di conseguenza bloccare i suoi progetti sull'impero del male, ben venga. Aspetto fino a dopodomani per mandare il mio rapporto a Bellman. Hai tutta la giornata di domani a disposizione.
- Di che si tratta?
- Ho parlato personalmente con qualcuno che conosceva Skog. Erano in pochi, dal momento che era un tipo strano, intenso più della media, e girava il mondo tutto solo soletto. Due persone, per l'esattezza. La padrona di casa. E una ragazza che abbiamo rintracciato tramite i numeri telefonici che lui aveva chiamato nei giorni prima di essere assassinato. Si chiama Stine Ølberg e ha detto di aver parlato con Elias la sera in cui è stato ucciso. Erano su un autobus extraurbano, e le ha raccontato che era stato al rifugio Håvass insieme alle ragazze assassinate di cui parlavano i giornali. Che era strano che nessuno lo avesse scoperto e lui aveva in mente di dirlo alla polizia. Ma esitava, non aveva voglia di essere coinvolto. E lo capisco, Skog aveva avuto guai con la polizia, era stato denunciato due volte per stalking. Certo, non aveva fatto nulla di illegale, come ho già detto, era un tipo intenso. Stine ha dichiarato che le aveva fatto paura, ma che quella sera le sembrava avesse paura anche lui.
- Interessante.
- Stine ha finto di non sapere chi fossero le tre persone uccise, e allora Elias ha detto di volerle parlare di un'altra persona che era al rifugio, una che secondo lui Stine conosceva. E qui veniamo al particolare veramente interessante. Si tratta di un personaggio famoso. O, se non altro, di una celebrità di serie B.
- Ah sì?
- A detta di Elias Skog, Tony Leike era allo Håvass.
- Tony Leike. Dovrei sapere chi è?
- Sta con la figlia di Anders Galtung, l'armatore.
Un paio di strilli di giornale scorsero davanti allo sguardo interiore di Harry.
- Tony Leike è un cosiddetto investitore, cioè, si è arricchito senza che nessuno sappia bene come, ma sicuramente non lavorando sodo. Inoltre è alquanto belloccio. Ma questo non significa che sia anche un bravo ragazzo. E qui viene il bello. Ha uno sheet.
- Sheet? - domandò Harry, fingendo di non capire per esprimere quello che pensava degli anglicismi di Colbjørnsen.
- Precedenti. Tony Leike ha una condanna per violenza aggravata.
- Mhm. Hai controllato la sentenza?
- Tony Leike pestò e menomò un certo Ole S. Hansen il 6 agosto, tra le undici e venti e le undici e quarantacinque. Davanti a una specie di discoteca nel posto dove Tony viveva con il nonno. Tony aveva diciotto anni, Ole diciassette e, ovviamente, c'era di mezzo una donna.
- Mhm. Due ragazzi sbronzi e gelosi che si azzuffano non è un fatto raro. Violenza aggravata, hai detto?
- Sì, perché non è finita qui. Dopo aver steso l'avversario Leike gli si sedette sopra e infierì con il coltello sul viso del poveretto. Hansen riportò lesioni permanenti, ma secondo la sentenza sarebbe potuta andare ancora peggio se non fosse accorsa gente che gli tolse Leike di dosso.
- Ma ha solo quella condanna?
- Tony Leike era noto per i suoi scatti d'ira ed era spesso coinvolto in qualche rissa. Al processo un testimone dichiarò che alle medie Leike aveva tentato di strangolarlo con una cintura perché aveva detto qualcosa di negativo su suo padre.
- A quanto pare dovrò fare una lunga chiacchierata con Tony Leike. Sai dove abita?
- Nella tua città. Holmenveien... aspetta... 172.
- Bene. Nella zona ovest. Bene. Grazie, Colbjørnsen.
- Non c'è di che. Ah, a proposito, c'è un'ultima cosa. Subito dopo Elias sull'autobus è salito un altro passeggero. È sceso alla stessa sua fermata, e Stine afferma di averlo visto seguire Elias. Ma non ha saputo descriverlo perché aveva la faccia nascosta da un cappello. Probabilmente non ha importanza.
- Già.
- Comunque, conto su di te, Hole.
- E per cosa?
- Conto che farai la cosa giusta.
- Mhm.
Buonanotte.
Harry rimase seduto ad ascoltare il Duca. Poi allungò la mano per prendere il telefonino e cercò il numero di Kaja nella rubrica. Sul punto di premere il tasto di chiamata esitò. Stava per rifarlo. Tirarsi dietro altre persone nella caduta. Posò il cellulare. Aveva due scelte. Quella furba, che consisteva nel chiamare Bellman. E quella stupida, che consisteva nell'agire in solitario.
Harry sospirò. Che si era messo in testa? Non aveva nessuna scelta. Perciò infilò l'accendino in tasca, incartò il panetto nella stagnola, lo ripose nel mobile bar, si spogliò, mise la sveglia per le sei e andò a letto. Nessuna scelta. Prigioniero del suo stesso schema comportamentale, dove in realtà ogni azione era compulsiva. Tutto sommato, non era né migliore né peggiore di quelli cui dava la caccia. E a quel pensiero si addormentò con un sorriso sulle labbra.
Che benedizione è il grande silenzio della notte, guarisce lo sguardo, chiarisce il pensiero. Il nuovo, vecchio poliziotto. Hole. Glielo devo dire. Non mostrargli tutto, solo quel che basta a fargli capire. In modo che possa porvi fine. In modo che io non debba fare quello che faccio. Non faccio che sputare, ma il sangue mi riempie la bocca, in continuazione.
39. Ricerca relazionale
Harry arrivò in centrale alle sette meno un quarto del mattino. Era deserta, a parte la guardia della Securitas nel grande atrio oltre le massicce porte d'ingresso.
La salutò con un cenno della testa, inserì il pass nel lettore accanto al varco di accesso e prese l'ascensore per il piano sotterraneo. Poi si affrettò lungo la galleria e aprì la porta dell'ufficio con la chiave. Si accese la prima sigaretta della giornata e compose un numero di cellulare mentre il Pc si avviava. Katrine Bratt aveva la voce assonnata.
- Voglio che tu faccia quelle ricerche relazionali, - le disse Harry. - Tra un certo Tony Leike e ciascuna delle vittime. Compresa Juliana Verni, Lipsia.
- In sala hobby non c'è nessuno almeno fino alle otto e mezzo, - disse lei. - Comincio subito. C'è altro?
Harry esitò. - Potresti controllare un certo Jussi Kolkka per me? Poliziotto.
- Che ha fatto?
- È proprio questo, - rispose Harry. - Non ne ho idea.
Harry posò il telefonino e si mise a lavorare al computer.
Era vero: Tony Leike aveva una condanna. E secondo il casellario aveva avuto a che fare con la polizia in altre due occasioni. Come aveva suggerito Colbjørnsen, per lesioni personali. Nella prima la denuncia era stata ritirata, nella seconda il caso era stato archiviato.
Harry fece una ricerca su Tony con Google e trovò svariati trafiletti, la maggior parte riguardanti la fidanzata, Lene Galtung, ma anche alcuni della stampa finanziaria che lo definivano rispettivamente investitore, speculatore di borsa e pecora ignorante. Quest'ultima definizione era di «Kapital» e si riferiva al fatto che Leike apparteneva al gregge che imitava il capobranco Kringlen in tutto quello che faceva: dall'acquisto di azioni, seconde case e automobili alla scelta giusta in. fatto di ritrovi, drink, donne, indirizzo di ufficio e abitazione, meta delle vacanze.
Harry scorse i link fino a quando non si imbatté in un articolo del «Finansavisen».
- Bingo, - mormorò.
Tony Leike stava chiaramente per riuscire a camminare con le proprie gambe. Il «Finansavisen» descriveva un progetto minerario di cui Leike era promotore e fautore. Era ritratto insieme ai suoi soci, due giovanotti con la riga da una parte. Non indossavano i soliti completi griffati, ma tute e abiti da lavoro, seduti su una pila di assi davanti a un elicottero. Tony Leike aveva il sorriso più grande. Spalle larghe, longilineo, aveva la carnagione e i capelli scuri, e un imponente naso aquilino che insieme ai colori indusse Harry a pensare che doveva avere almeno una goccia di sangue arabo nelle vene. Ma la causa della sua esclamazione soffocata era il titolo.
Il re del Congo.
Harry continuò a seguire i link.
I rotocalchi erano più presi dalle imminenti nozze con Lene Galtung e dalla lista degli invitati.
Harry consultò l'orologio. Le sette e cinque. Chiamò l'agente al centralino. - Ho bisogno di assistenza per catturare una persona in Holmenveien.
- È un arresto?
Harry sapeva di non avere elementi sufficienti per chiedere un mandato d'arresto al politiadvokat.
- Devo farla prelevare per interrogarla, - rispose.
- Non avevi detto «catturare»? E che bisogno hai di assistenza se si tratta soltanto...
- Puoi farmi trovare due uomini e un'auto pronti davanti al garage tra cinque minuti?
Per risposta Harry ricevette uno sbuffo che interpretò come un sì. Fece due tiri dalla sigaretta, la spense, si alzò, chiuse a chiave la porta e si allontanò. Aveva percorso dieci metri della galleria quando udì un debole suono alle proprie spalle e capì che erano gli squilli del telefono fisso.
Era uscito dall'ascensore e si stava dirigendo verso la porta quando sentì qualcuno gridare il suo nome. Si girò e scorse la guardia della Securitas fargli un cenno con la mano. Davanti al banco vide il dietro di un cappotto di lana color senape.
- Questo signore ha chiesto di te, - disse la guardia.
Il cappotto di lana si girò. Era del tipo che deve sembrare di cachemire e a volte lo è davvero. In quel caso Harry dedusse che lo era. Perché avvolgeva le spalle larghe di una persona longilinea dagli occhi scuri, i capelli scuri e probabilmente qualche goccia di sangue arabo nelle vene.
- Dal vivo sei più grosso che in fotografia, - disse Tony Leike, sfoderando una schiera di denti che parevano palazzi di porcellana e una mano tesa.
Buono, questo caffè, - disse Tony Leike come se lo pensasse veramente. Harry osservava le dita lunghe e contorte di Leike strette intorno alla tazza. Leike glielo aveva spiegato con una risata quando gli aveva teso la mano. Che non era una malattia contagiosa, soltanto la cara vecchia artrite, una cosa ereditaria che se non altro faceva di lui un meteorologo affidabile. - Però, sinceramente, credevo che ai commissari assegnassero uffici migliori. Un po' soffocante, eh?
- Le caldaie del carcere, - disse Harry bevendo un sorso dalla sua tazza. - Quindi hai letto dell'indagine sull'«Aftenposten» stamattina?
- Sì, mentre facevo colazione. A essere sincero, per poco non mi è andata di traverso.
- E perché?
Leike si spostò un po' sulla sedia, come un pilota di Formula Uno sul sedile prima della partenza. - Spero che quello che dirò possa rimanere tra noi.
- E chi sarebbero questi «noi»?
- La polizia e io. Preferibilmente tu e io.
Harry sperò che la sua voce sembrasse neutra e non tradisse alcuna emozione. - E per quale motivo?
Leike fece un profondo respiro. - Perché non voglio far sapere a tutti che mi trovavo al rifugio Håvass la stessa notte in cui c'era la deputata. Marit Olsen. Al momento ho i riflettori puntati addosso a causa delle mie future nozze. Sarebbe sconveniente se venissi collegato a un caso di omicidio proprio ora. La stampa si lancerebbe a capofitto sulla notizia, e potrebbe... riesumare cose del mio passato che preferirei rimanessero sepolte e dimenticate.
- Capisco, - disse Harry con aria innocente. - Ovviamente, dovrò valutare diversi elementi perciò non posso promettere nulla. Comunque questo non è un interrogatorio, solo un colloquio, e di solito non faccio trapelare informazioni del genere alla stampa.
- E nemmeno ai miei... ehm, cari?
- No, se non ce n'è motivo. Se hai paura che si venga a sapere che sei stato qui, perché sei venuto?
- Avete chiesto alle persone che si trovavano al rifugio di presentarsi, quindi immagino che sia il mio dovere di cittadino, o no? - Leike guardò Harry con espressione interrogativa. E poi fece una smorfia. - Accidenti, mi sono preso un bello spavento! Perché ho capito che forse le persone che erano allo Håvass quella sera saranno le prossime vittime. Sono montato in macchina e sono venuto difilato qui.
- Ultimamente è successo qualcosa che ti ha messo in ansia?
- No -. Tony Leike fissava pensoso nel vuoto. - A parte una visita dei ladri che hanno scassinato la porta della cantina qualche giorno fa. Accidenti, dovrei far installare un sistema d'allarme, vero?
- Hai fatto la denuncia?
- No, hanno preso solo una bicicletta.
- E secondo te i serial killer si occupano anche di furti di biciclette?
Leike fece una breve risata che si trasformò in un sorriso mentre annuiva. Non il sorriso ottuso di una persona che si vergogna di aver detto una sciocchezza, pensò Harry. Ma il sorriso disarmante, vincente di chi vuole dirti «Mi hai colto in castagna, amico», il complimento cavalleresco di chi è abituato a vincere.
- Perché hai chiesto di me?
- Nel giornale c'era scritto che indaghi sul caso, perciò mi è sembrato naturale. Inoltre, ripeto, speravo che sarebbe stato possibile far restare questa cosa tra poche persone, perciò mi sono rivolto direttamente ai vertici.
- Io non sono i vertici, Leike.
- Ah no? Dall'«Aftenposten» pareva di sì.
Harry si passò una mano sulla mandibola sporgente. Non aveva ancora deciso cosa pensare di Tony Leike. Era un uomo che combinava un aspetto curato con un fascino da ragazzo cattivo. Gli faceva venire in mente un giocatore di hockey che aveva visto in una pubblicità di biancheria intima. Sembrava voler dare l'impressione di una affabilità disinvolta e mondana, nonostante sotto ci fosse un'autenticità, una sensibilità che non si lasciava mascherare. O forse era il contrario: forse l'affabilità era autentica e la sensibilità una posa.
- Leike, che cosa ci facevi al rifugio Håvass?
- Un'escursione con gli sci, ovviamente.
- Da solo?
- Sì. Al lavoro avevo avuto delle giornatacce, avevo bisogno di staccare. Vado spesso a Ustaoset e allo Hallingskarvet. Pernotto nei rifugi. È il mio paesaggio, per così dire.
- E allora perché non hai una baita tua lassù?
- Là dove la vorrei non si può più costruire. Regolamento del parco nazionale.
- Perché la tua fidanzata non ti accompagna? Non scia?
- Lene? Lei... - Leike bevve un sorso di caffè. Il genere di sorso che uno prende nel bel mezzo di una frase quando gli serve una piccola pausa per riflettere, pensò Harry. - Era a casa. Io... noi... - Guardò Harry con un accenno di disperazione, come per chiedergli aiuto. Harry non glielo diede.
- Maledizione. Niente stampa, vero?
Harry non rispose.
- E va bene, - disse Leike come se avesse ricevuto una conferma. - Avevo bisogno di una boccata d'aria, di allontanarmi un po'. Di riflettere. Il fidanzamento, il matrimonio in vista... sono decisioni importanti da prendere. E io penso meglio da solo. Soprattutto lassù in montagna.
- E, ovviamente, pensare ti è stato utile?
Leike mostrò di nuovo il muro di smalto. - Sì.
- Ricordi chi altro c'era nel rifugio?
- Come ho già detto, ricordo Marit Olsen. Abbiamo bevuto un bicchiere di vino rosso insieme. Non sapevo che fosse deputata al Parlamento prima che me lo dicesse lei.
- Qualcun altro?
- C'erano tre o quattro persone che ho sì e no salutato. Ma sono arrivato molto tardi, quindi probabilmente qualcuno era già andato a dormire.
- Ah sì?
Fuori, nella neve c'erano sei paia di sci. Lo ricordo con precisione perché li ho portati dentro, nell'ingresso, per via del pericolo valanghe. Ricordo di aver pensato che magari gli altri non erano tanto esperti di montagna. Se il rifugio finisce semisepolto sotto tre metri di neve e non c'è nessuno che abbia un paio di sci, sei messo male. La mattina sono stato il primo a svegliarmi, com'è mia abitudine, e sono andato via prima che gli altri si alzassero.
- Hai detto di essere arrivato la sera tardi. Quindi giravi da solo in montagna al buio?
- Lampada frontale, cartina e bussola. L'escursione è stata una decisione improvvisa, e sono arrivato con il treno a Ustaoset nel tardo pomeriggio. Ma te l'ho detto, conosco il posto, sono abituato a orientarmi nella natura al buio. E il tempo era bello, il chiaro di luna illuminava la neve, non avevo bisogno né della cartina né della lampada.
- Sai dirmi qualcosa su quello che è successo nel rifugio mentre eri là?
- Non è successo niente. Marit Olsen e io abbiamo parlato di vini rossi e poi delle difficoltà di tenere in piedi un rapporto moderno. Cioè, credo che il suo rapporto fosse più moderno del mio.
- E non ha detto che era successo qualcosa nel rifugio?
- Assolutamente no.
- E gli altri che erano ancora alzati?
- Erano seduti davanti al camino, parlavano di escursioni con gli sci e bevevano. Birra, probabilmente. Oppure qualche bibita sportiva. Due ragazze e un ragazzo, tra i venti e i trentacinque anni, direi.
- Nomi?
- Ci siamo solo salutati con un cenno della testa e un «ciao». Come ho già detto, ero andato lassù per stare da solo, non per farmi nuovi amici.
- Aspetto?
- La sera in quei rifugi è piuttosto buio, e se affermo che una era bionda e l'altra mora, non è detto che sia vero. Ripeto, non ricordo nemmeno se erano in tre oppure in quattro.
- Dialetti?
- Una delle ragazze parlava con un accento del Vestlandet, mi pare.
- Dialetto di Stavanger? Di Bergen? Di Sunnmøre?
- Mi dispiace, non sono bravo in queste cose. Forse non era del Vestlandet, ma del Sørlandet.
- Okay. Tu volevi stare da solo, però hai parlato di rapporti di coppia con Marit Olsen.
- È successo, così. Lei si è seduta vicino a me. Era tutt'altro che timida. Loquace.
Grassa e simpatica -. Lo disse come se le due cose fossero un connubio naturale. E Harry si rese conto che la foto di Lene Galtung che aveva visto mostrava, considerato il nuovo peso medio dei norvegesi, una donna magra come un chiodo.
- Quindi, fatta eccezione per Marit Olsen, non puoi dirci nulla su qualcuno degli altri? Neanche se ti mostrassi le foto delle persone che erano sicuramente là? - Sì, - rispose Leike e sorrise di nuovo. - Penso che sarei in grado di farlo.
- Ah sì?
- Quando stavo per coricarmi in uno dei letti a castello, ho dovuto accendere la luce per vedere quale fosse libero. E ho visto due persone che dormivano. Un uomo e una donna.
- E pensi di poterle descrivere?
- Non bene, forse, però sono abbastanza sicuro che le riconoscerei.
- Sì?
- Si riconoscono i visi solo quando si rivedono.
Harry sapeva che Leike aveva detto una cosa vera. Di solito le segnalazioni dei testimoni erano tutt'altro che precise, ma se li coinvolgevi in un confronto all'americana non si sbagliavano quasi mai.
Andò all'archivio, che avevano riportato in ufficio e rimesso al suo posto, aprì i fascicoli delle vittime, tirò fuori le foto e le diede tutte e cinque a Leike, che iniziò a sfogliarle.
- Questa è Marit Olsen, - disse tendendo la sua foto a Harry. - E queste devono essere le due ragazze che erano sedute davanti al camino, però non sono sicuro -. Gli diede le foto di Borgny e di Charlotte. - Questo potrebbe essere il ragazzo -. Elias Skog. - Però nessuno di questi qui era nella camera da letto, ne sono sicuro.
- Quindi hai dei dubbi sulle persone che sono state per parecchio tempo insieme a te nella stessa stanza, ma sei sicuro di qualcuno che hai visto per un paio di secondi?
Leike annuì. - Dormivano, sì.
- Ed è più facile riconoscere una persona che dorme?
- No, però non ti guarda a sua volta, giusto? Quindi la puoi osservare indisturbato. - Mhm. Per un paio di secondi?
- Forse un po' di più.
Harry rimise le foto nei rispettivi fascicoli.
- Hai qualche nome? - chiese Leike.
- Nome?
- Sì. Come ti dicevo, sono stato il primo ad alzarmi e ho mangiato un paio di fette di pane direttamente dal tagliere in cucina. Il registro degli ospiti era là, e io non mi ero iscritto. Mentre finivo di mangiare l'ho aperto e ho studiato i nomi di chi era arrivato la sera prima.
- E perché?
- Perché? - Tony si strinse nelle spalle. - Spesso sono le stesse persone che viaggiano da un rifugio all'altro. Probabilmente volevo vedere se c'era qualcuno che conoscevo.
- E c'era?
- No. Ma se mi dici qualche nome dei presenti certi o presunti, forse potrei ricordare se li ho letti nel registro, no?
- Mi sembra un ragionamento logico, ma purtroppo non abbiamo nessun nome. Né un indirizzo.
- Be', allora, - disse Leike cominciando ad abbottonarsi il cappotto. - Allora temo di non potervi essere di grande aiuto. A parte il fatto che potete spuntare il mio nome dall'elenco.
Mhm, - disse Harry. - Già che sei qui, avrei un altro paio di domande. Se hai tempo.
- Sono padrone di me stesso, - rispose Leike. - Finché dura, almeno.
- Benissimo. Hai detto di avere un passato poco pulito. Puoi dirmi per sommi capi di che si tratta?
- Ho tentato di ammazzare un tipo, - rispose Leike senza mezzi termini.
- Ah, - disse Harry appoggiandosi allo schienale della sedia. - E perché?
- Perché mi aveva aggredito. Sosteneva che gli avevo soffiato la donna. La verità è che lei non era né voleva essere la sua donna, e che io non soffio le donne a nessuno.
Non ne ho bisogno.
- Mhm. Lui vi colse in flagrante e la picchiò?
- Che vuoi dire?
- Sto solo cercando di farmi un'idea di che genere di situazione ti abbia spinto a volerlo uccidere. Sempre che tu intenda «uccidere» letteralmente.
- Lui picchiò me. E perciò feci di tutto per ucciderlo. Con un coltello. E ci stavo riuscendo quando due miei amici mi trascinarono via. Fui condannato per violenza aggravata. Se pensi che si trattava di tentato omicidio, me la sono cavata a buon mercato.
- Ti rendi conto che quello che stai dicendo può fare di te un sospetto omicida?
- In questo caso? - Leike guardò Harry con diffidenza. - Che fai, mi prendi in giro?
Vi sarete fatti un'idea più precisa, spero?
- Se hai avuto intenzione di uccidere una volta...
- Ho avuto intenzione di uccidere più di una volta, io. E probabilmente l'ho anche fatto.
- Probabilmente?
- È difficile vedere un negro nero come il carbone nella giungla di notte. Si spara più che altro a casaccio.
- E tu lo hai fatto?
- Sì, nella mia peccaminosa gioventù. Dopo aver scontato la pena feci un corso ufficiali nell'esercito e poi partii subito per il Sudafrica, dove fui ingaggiato come mercenario.
- Mhm. Quindi hai fatto il mercenario in Sudafrica?
- Per tre anni. Ma il Sudafrica era solo il posto dove mi avevano assoldato, i combattimenti avvenivano nei paesi vicini. C'era sempre una guerra, sempre un mercato per i professionisti, soprattutto bianchi. Vedi, i neri sono ancora convinti che siamo più intelligenti, si fidano più degli ufficiali bianchi che dei propri.
- Magari sei stato anche in Congo?
Il sopracciglio destro di Tony Leike formò un arco nero. - Perché?
- Ci sono stato poco tempo fa, me lo chiedevo soltanto.
- Allora si chiamava Zaire. Ma non sapevamo quasi mai con certezza entro i confini di quale paese ci trovassimo. Era tutto verde, verde e poi nero, nero fino a quando il sole non sorgeva di nuovo. Lavoravo per una cosiddetta società di sicurezza addetta alla protezione di alcune miniere di diamanti. È stato laggiù che ho imparato a leggere una cartina e la bussola con la lampada frontale. A proposito, laggiù la bussola non serve a un cazzo, le montagne contengono troppo metallo.
Tony Leike si appoggiò allo schienale della sedia. Rilassato e tutt'altro che impaurito, notò Harry.
- A proposito di metallo, - disse Harry. - Mi pare di aver letto che hai delle miniere laggiù.
- Esatto.
- Miniere di cosa?
- Mai sentito parlare del coltan?
Harry annuì lentamente. - Lo usano per fare i cellulari.
- Proprio così. E gli stereo. Quando, negli anni Novanta, la produzione di telefoni cellulari decollò, mi trovavo in missione con il mio plotone nel nordovest del Congo. Là un gruppo di francesi e di indigeni aveva una miniera: sfruttavano bambini armati di vanga e piccone per estrarre il coltan. Sembra una pietra normale, ma se ne ricava il tantalio, la sostanza vera e propria che si utilizza. E pensai che se solo fossi riuscito a trovare dei finanziatori, avrei potuto aprire laggiù una miniera efficiente, moderna, e arricchire me stesso e i miei soci.
- Ed è andata così?
Tony Leike scoppiò a ridere. - Non proprio. Dovetti chiedere dei prestiti, fui imbrogliato da certi soci equivoci e persi tutto. Chiesi altri prestiti, fui imbrogliato di nuovo, chiesi altri prestiti ancora e guadagnai qualcosina.
- Qualcosina?
- Qualche milione per pagare i debiti. Però mi ero procurato una rete di conoscenze e qualche titolo sulla stampa poiché, ovviamente, vendevo la pelle dell'orso molto tempo prima di averlo ucciso, e questo mi bastò per essere accolto nel giro grosso. Per entrare a farne parte conta solo il numero di cifre che corrisponde al tuo capitale, e non se davanti c'è un segno più oppure meno -. Leike rise di nuovo, sonoramente, di cuore, e Harry non riuscì a trattenere un sorriso.
- E adesso?
- Adesso stiamo per fare il colpaccio, perché è arrivato il momento di mietere il coltan. Sì, certo, lo vado dicendo da un bel po', ma stavolta è vero. Ho dovuto vendere le mie azioni in cambio di opzioni cali, per pagare i debiti. Adesso quella faccenda è sistemata, perciò non mi resta che trovare i soldi per riscattare i diritti di opzione e sarò di nuovo socio a tutti gli effetti.
- Mhm. E i soldi dove li trovi?
- Qualcuno vedrà la convenienza di prestarmeli in cambio di una piccola quota. I proventi sono enormi, i rischi minimi. E tutti gli investimenti importanti sono già stati fatti, comprese le tangenti ai locali. Abbiamo addirittura realizzato una pista d'atterraggio nella giungla, in modo da poter caricare la roba direttamente sugli aerei da trasporto e farla uscire attraverso l'Uganda. Sei ricco, Harry? Posso vedere se riesco a farti entrare nell'affare.
Harry scosse la testa. - Sei stato a Stavanger ultimamente, Leike?
- Be'. La scorsa estate.
- Non di recente?

Leike rifletté e fece cenno di no con la testa.
- Non ne sei sicuro al cento per cento? - domandò Harry.
- Presento il mio progetto ai potenziali investitori, e questo significa che viaggio tantissimo. Penso di essere stato a Stavanger tre o quattro volte quest'anno, ma non dopo l'estate, mi pare.
- E a Lipsia?
- È adesso che devo chiedere se ho bisogno di un avvocato, Harry?
- Voglio solo escluderti da questo caso il prima possibile, di modo che possiamo concentrarci su cose più importanti -. Harry si passò l'indice sul dorso del naso. - Se non vuoi che i media fiutino questa storia, immagino che non avrai voglia di coinvolgere un avvocato, essere convocato per interrogatori formali, eccetera, eccetera.
Leike annuì adagio. - Certo, hai ragione. Grazie del consiglio, Harry.
- Lipsia?
- Scusa, - disse con sincero rincrescimento nella voce e nell'espressione. - Mai stato. Dovrei?
- Mhm. Devo anche chiederti dov'eri e cosa hai fatto in determinati giorni.
- Prego.
Harry gli dettò le quattro date degli omicidi, che Leike trascrisse in un taccuino Moleskine rilegato in pelle.
- Controllo appena arrivo in ufficio, - disse. - A proposito, questo è il mio numero -. Porse a Harry un biglietto da visita con la dicitura «Tony C. Leike, imprenditore».
- La «C» per cosa sta?
- Già, bella domanda, - rispose Leike alzandosi. - Perché in effetti Tony non è che il diminutivo di Anthony, e ho pensato che ci volesse un'iniziale. Dà un po' più di consistenza, non trovi? Ho l'impressione che agli stranieri piaccia.
Anziché passare dalla galleria, Harry accompagnò Leike su per le scale che portavano al carcere, bussò alla porta a vetri e una guardia venne ad aprire.
- Mi sembra di essere in un film della Banda Olsen, - disse Leike quando si ritrovarono sulla strada inghiaiata davanti ai muri relativamente venerabili del vecchio penitenziario.
- Così la tua uscita di scena è stata un po' più discreta, - disse Harry. - Stai diventando una faccia conosciuta, e in centrale la gente comincia ad arrivare al lavoro, a quest'ora.
- A proposito di facce, vedo che qualcuno ti ha rotto la mandibola.
- Può anche darsi che mi sia fatto male cadendo.
Leike scosse la testa e sorrise. - Ne so qualcosa di mandibole rotte. Quella frattura lì te l'ha provocata un colpo. Vedo che hai lasciato che si riaggiustasse da sola. Dovresti fartela mettere a posto, è una cosa da nulla.
- Grazie del consiglio.
- Gli dovevi molti soldi?
- Sai qualcosa anche di questo?
- Sì! - esclamò l'altro sgranando gli occhi. - Purtroppo.
- Mhm. Un'ultima cosa, Leike.
- Tony. Oppure Tony C. -. Leike sfoderò il suo smagliante apparato masticatorio.
Come se non avesse una sola preoccupazione al mondo, pensò Harry.
- Tony. Sei mai stato al Lyseren? Il lago nell'Øst...
- Certo, ci sono stato sì! - rispose ridendo Tony. - Il podere dei Leike si trova a Rustad. Passavo tutte le estati là, dal nonno. Ci sono anche vissuto per un paio d'anni. È un posto magnifico, non trovi? A proposito, perché me lo chiedi? - Il suo sorriso svanì di colpo. - Ah, porca miseria, è stato lì che hanno trovato quella ragazza! Bella coincidenza, eh?
- Be', - disse Harry. - Non mi sembra una cosa poi tanto inverosimile. Il Lyseren è grande.
- Vero. Comunque, grazie di nuovo, Harry -. Leike gli tese la mano. - E se dovesse saltar fuori qualche nome del rifugio Håvass o si dovesse fare avanti qualcuno, chiamami pure, così posso vedere se me li ricordo. Piena collaborazione, Harry.
Harry si vide stringere la mano all'uomo che aveva appena decretato colpevole di aver ucciso cinque persone nell'arco degli ultimi tre mesi.
Leike era andato via da un quarto d'ora quando telefonò Katrine Bratt.
- Sì?
- Negativo per quattro su cinque, - disse lei.
- E il quinto?
- Un riscontro. In fondo ai recessi più reconditi delle informazioni digitali.
- Poetico.
- Ti piacerà. Il 16 febbraio Elias Skog ha ricevuto una telefonata da un numero che non risulta intestato a nessuno. Ossia, da un numero riservato. E questo può essere il motivo per cui voi...
- La polizia di Stavanger.
- ... non avete scoperto prima il collegamento. Ma nei recessi più reconditi...
- Ossia nei tabulati più reconditi e strettamente riservati di Telenor?
- Qualcosa del genere. Là salta fuori il nome di un tale Tony Leike, Holmenveien 172, quale intestatario della bolletta relativa a questo numero di telefono segreto.
- Sííí! - esclamò Harry. - Sei un angelo.
- Una metafora tutt'altro che azzeccata, temo. Dal momento che a quanto pare ho appena condannato un uomo all'ergastolo.
- Ci sentiamo.
- Aspetta! Non volevi sapere di Jussi Kolkka?
- Quasi me ne dimenticavo. Spara.
E Katrine sparò.
40. La proposta
Harry trovò Kaja all'Anticrimine, nella zona verde del quinto piano. Scorgendolo nel vano della porta, lei si illuminò.
- Lasci sempre aperto? - le domandò.
- Sempre. E tu?
- Chiudo. Sempre. Ma vedo che come me hai tolto di mezzo la sedia dei visitatori.
Mossa intelligente. Alla gente piace chiacchierare.
Kaja rise. - Ti hanno dato qualcosa di interessante da fare?
- In un certo senso, - rispose lui entrando e appoggiandosi al muro.
Kaja puntò entrambe le mani contro lo spigolo della scrivania e si diede una spinta in modo da raggiungere l'archivio senza alzarsi dalla sedia. Poi aprì un cassetto, tirò fuori una lettera e la posò davanti a Harry. - Ho pensato volessi essere informato.
- Di che si tratta?
- Dell'Uomo di neve. Il suo avvocato ha fatto richiesta perché venga trasferito da Ullersmo a un ospedale normale per motivi di salute.
Harry si sedette sul bordo della scrivania e lesse. - Mhm. Sclerodermia. Ha un'evoluzione rapida. Non troppo rapida, spero. Non se lo merita.
Alzò lo sguardo e notò che lei era turbata.
- La mia prozia morì di sclerodermia, - disse Kaja. - È una malattia orrenda.
- E lui è un uomo orrendo, - disse Harry. - Inoltre, concordo pienamente con chi sostiene che la capacità di perdonare è sintomatica della qualità di una persona. Io sono di ultima scelta.
- Non intendevo criticarti.
- Prometto di migliorare nella mia prossima vita, - disse Harry, abbassò lo sguardo e si strofinò il collo. - Quando probabilmente, se gli induisti hanno ragione, sarò un bostrico. Però un bostrico buono.
Alzò lo sguardo e vide che il suo «dannato fascino da ragazzo», come lo chiamava Rakel, stava facendo più o meno effetto. - Ascolta, Kaja, sono qui per farti una proposta.
- Ah sì?
- Sì - Harry udì il proprio tono di voce solenne. Il tono di un uomo incapace di perdonare, incapace di rispetto, incapace di pensare ad altro che ai propri scopi. E continuò con la tecnica di persuasione rovesciata che gli riusciva fin troppo spesso. - Proposta che ti consiglio di rifiutare. Infatti, tendo a rovinare la vita delle persone con cui ho rapporti.
Con sua sorpresa, Harry notò che era diventata di fiamma.
- Ma non mi sembra corretto farlo senza di te, - continuò. - Non adesso che siamo tanto vicini.
- Vicini... a cosa? - Il rossore era svanito.
- Alla cattura del colpevole. Sto andando dal politiadvokat a chiedergli un mandato d'arresto.
- Ah... certo.
- Certo?
- Volevo dire: per arrestare chi? - Kaja spinse la sedia verso la scrivania. - Per cosa?
- Il nostro assassino, Kaja.
- Veramente?
Harry vide le sue pupille dilatarsi pian piano, pulsando. Sapeva che cosa provava.
L'ebbrezza sanguinaria prima della cattura, dell'abbattimento della preda. L'arresto.
Quello che sarebbe finito nel suo curriculum. Come poteva resistere?
Harry annuì. - Si chiama Tony Leike.
Le guance di Kaja erano avvampate di nuovo. - Ho l'impressione di averlo già sentito, questo nome.
- Sta per sposarsi con la figlia di...
- Ah, sì, è il fidanzato della figlia di Galtung -. Kaja aggrottò la fronte. - Pensi di avere le prove?
- Indizi. E coincidenze.
Harry vide le sue pupille contrarsi leggermente.
- Sono sicuro che è il nostro uomo, Kaja.
- Convincimi, - disse lei, e Harry udì la sete. La voglia di bere tutto a occhi chiusi, di avere un pretesto per prendere la decisione più folle della sua vita. E lui non aveva alcuna intenzione di proteggerla da se stesso. Perché aveva bisogno di lei. Era perfetta per i media: giovane, intelligente, donna, ambiziosa. Con una faccia simpatica e un passato impeccabile. In poche parole, aveva tutto quello che a lui mancava. Una Giovanna d'Arco che il ministero della Giustizia non avrebbe avuto il coraggio di ardere sulla pira.
Harry fece un respiro profondo. Poi le riferì il colloquio che aveva avuto con Tony Leike. Nei dettagli. Senza stupirsi di citare alla lettera quello che si erano detti. I suoi colleghi avevano sempre trovato strana quella sua capacità.
- Il rifugio Håvass, il Congo e il Lyseren, - disse Kaja quando lui ebbe finito. - È stato in tutti e tre i posti.
- Sì. E ha una condanna per violenza. E ammette che aveva intenzione di uccidere.
- Impressionante. Ma...
- La cosa impressionante arriva adesso. Ha telefonato a Elias Skog. Due giorni prima che lo trovassimo morto.
Le pupille di Kaja erano due soli neri.
- È nostro, - disse lei sottovoce.
- «Nostro» significa quello che penso?
- Sì.
Harry sospirò. - Ti rendi conto del rischio che corri dicendomi di sì? Anche se avessi ragione sul conto di Leike, non è detto che il suo arresto e la soluzione del caso basteranno a far pendere l'equilibrio del potere a favore di Hagen. E allora ti ritroveresti in un mare di guai.
- E tu? - Kaja si sporse sopra la scrivania. I dentini da piranha scintillavano. - Secondo te perché vale la pena rischiare?
- Io sono un ex poliziotto che ha poco da perdere, Kaja. Per me è così o niente. Non posso lavorare alla Narcotici o alla Buoncostume, e non riceverò una proposta dalla Kripos. Ma per quanto ti riguarda, probabilmente questa è una scelta sbagliata.
- Le mie scelte lo sono quasi sempre, - disse lei seria.
- Bene, - disse Harry. - Vado a stanare il politiadvokat. Tieniti pronta.
- Mi trovi qui, Harry.
Harry si alzò e voltandosi si trovò a fissare dritto in faccia un uomo che evidentemente stava sulla porta da un pezzo.
- Scusa, - disse l'uomo con un ampio sorriso. - Volevo solo prendere in prestito la signora per qualche istante.
Indicò Kaja con un cenno della testa e una risata che danzava negli occhi.
- Prego, - disse Harry, poi rivolse all'uomo la sua versione abbreviata di un sorriso e si affrettò giù per il corridoio.
- Aslak Krongli, - disse Kaja. - Che cosa porta un ragazzo di campagna nella grande, malvagia città?
- Il solito, suppongo, - rispose l'agente rurale di Ustaoset.
- L'emozione, le luci al neon e il brusio della folla?
Aslak sorrise. - Il lavoro. E una donna. Posso invitarti a prendere un caffè?
- In questo momento no, - rispose Kaja. - Sta per succedere qualcosa, e devo restare in trincea. Però ti offro volentieri un caffè su in mensa. È all'ultimo piano, perciò se mi precedi, riesco a fare una telefonata.
Lui alzò il pollice e sparì.
Kaja chiuse gli occhi e tirò un respiro profondo e tremante.
L'ufficio del politiadvokat si trovava nella zona rossa del quinto piano, quindi Harry non dovette fare molta strada. Il politiadvokat, una giovane donna che evidentemente era stata assunta dopo che Harry aveva smesso di frequentare l'ufficio, alzò lo sguardo da dietro gli occhiali appena lui varcò la soglia.
- Mi occorre un mandato, - disse Harry.
- E tu saresti?
- Il commissario Harry Hole.
Le porse il tesserino, anche se dalla sua reazione un po' agitata capì che la donna aveva sentito parlare di lui. Immaginava cosa avesse sentito e dunque lasciò cadere il discorso. Quanto a lei, trascrisse il suo nome sul modulo per arresti e perquisizioni studiando il tesserino con un impegno esagerato, come se fosse un'impresa estremamente complicata.
- Due crocette? - domandò lei.
- Sì, grazie, - rispose Harry.
Lei spuntò entrambe le voci, arresto e perquisizione, e si appoggiò allo schienale della sedia con un atteggiamento che Harry considerò un'imitazione della posa «haitrenta-secondi-per-convincermi» che aveva visto assumere dai colleghi più navigati.
Sapeva per esperienza che la prima motivazione era la più importante, perché quello era il momento in cui il politiadvokat prendeva una decisione, perciò iniziò dicendo che Leike aveva telefonato a Elias Skog due giorni prima dell'omicidio. Malgrado il fatto che durante il loro colloquio avesse cercato di fargli credere di non conoscerlo, né di averci parlato al rifugio Håvass. Come seconda motivazione addusse la condanna per violenza che, per ammissione dello stesso Leike, era stato un tentato omicidio, e già in quel momento Harry capì di avere il mandato in tasca. Perciò inzuccherò la sua causa con le coincidenze del Congo e del Lyseren senza scendere troppo nei particolari.
La donna si tolse gli occhiali.
- In linea di principio sono d'accordo, - disse. - Ma ho bisogno di riflettere un po'.
Harry imprecò tra sé e sé. Un politiadvokat più esperto gli avrebbe concesso il mandato su due piedi, ma probabilmente lei era nuova e non aveva il coraggio di farlo senza prima consultare un collega. Se ci fosse stato scritto «tirocinante» sulla porta Harry si sarebbe rivolto a qualcun altro, ma ormai era troppo tardi. - È urgente, - disse Harry.
- Perché?
Lo colse alla sprovvista. Harry fece un gesto vago con la mano, del tipo che vorrebbe dire tutto ma non dice niente.
- Prenderò una decisione subito dopo pranzo... - la donna fissava ostinatamente il modulo, - Hole. Nel caso, lascerò il mandato nella tua casella della posta.
Harry strinse i denti per assicurarsi che non gli scappasse qualche parola sconsiderata. Perché sapeva che lei stava agendo in modo irreprensibile. Ovviamente, compensava in maniera eccessiva il fatto di essere giovane, inesperta e donna in un ambiente prevalentemente maschile. Ma aveva dato prova di volersi far rispettare, alla prima occasione aveva dimostrato che con lei il metodo schiacciasassi non funzionava. Bene. Harry ebbe voglia di toglierle gli occhiali e di romperli.
- Potresti chiamarmi al mio interno quando avrai deciso? - le chiese.. - Al momento il mio ufficio è molto lontano dalla casella della posta.
- Va bene, - rispose lei clemente.
Harry era nella galleria, a circa cinquanta metri dall'ufficio, quando udì aprirsi la porta. Una sagoma uscì, chiuse frettolosamente a chiave, si voltò e a passo svelto gli venne incontro. E si raggelò non appena lo vide.
- Ti sei spaventato, Bjørn? - chiese Harry sottovoce.
Erano ancora a venti metri l'uno dall'altro, ma i muri rifransero il suono fino al tecnico della Scientifica.
- Un po', - rispose l'uomo di Toten aggiustandosi lo sgargiante berretto rasta che gli copriva i capelli rossi. - Ti avvicini di soppiatto alla gente.
- Mhm. E tu?
- E io cosa?
- Che ci fai qui? Credevo avessi abbastanza da fare alla Kripos. So che ti hanno assegnato un nuovo, bellissimo incarico Harry si fermò a due metri da Holm, che aveva un'espressione evidentemente confusa.
- Bellissimo non direi, - disse Holm. - Non mi fanno lavorare a quello che mi piace di più.
- Che sarebbe?
- Be', l'indagine scientifica. Tu mi conosci.
- Ah sì?
- Già? - Holm aggrottò la fronte. - Coordinare squadra tattica e Scientifica, che cosa significa? Dare informazioni, indire riunioni, distribuire rapporti.
- È una promozione, - disse Harry. - L'inizio di qualcosa di bello, non credi?
Holm sbuffò. - Sai cosa credo? Credo che Bellman mi abbia piazzato là per tenermi fuori dal giro, per impedirmi di ricevere qualsiasi informazione di prima mano. Perché sospetta che se mi dovesse arrivare un'informazione del genere non è detto che lui la riceverebbe prima di te.
- Ma su questo si sbaglia, - disse Harry piantandosi a pochi centimetri dal tecnico della Scientifica.
Bjørn Holm batté le palpebre due volte. - Che cazzo c'è, Harry?
- Già, che diavolo c'è? - Harry udì la propria voce farsi sottile e metallica per la collera. - Che ci facevi nell'ufficio, Bjørn? Là dentro non c'è più niente di tuo.
- Che ci facevo? - disse Bjørn. - Ero andato a prendere questo -. Alzò la mano destra. Stringeva un libro. - Avevi detto che l'avresti lasciato all'ingresso, ricordi?
La biografia di Hank Williams.
Harry si sentì arrossire per la vergogna.
- Mhm.
- Mhm, - lo imitò Bjørn.
- Lo avevo messo insieme alle cose da traslocare, - disse Harry. - Ma arrivati a metà della galleria siamo tornati indietro. E me ne sono completamente dimenticato.
- Okay. Posso andare adesso?
Harry si fece da parte, e udì Bjørn percorrere a passo pesante la galleria imprecando.
Aprì la porta dell'ufficio.
Si lasciò cadere sulla sedia.
Si guardò intorno.
Il taccuino. Lo sfogliò. Durante il colloquio non aveva annotato nulla, nulla che rivelasse i suoi sospetti su Tony Leike. Harry aprì i cassetti della scrivania per accertarsi che nessuno li avesse rovistati. Sembrava tutto a posto. Era possibile che si fosse sbagliato? Poteva sperare che Holm non fosse la gola profonda di Mikael Bellman?
Harry consultò l'orologio. Sperò che il nuovo politiadvokat mangiasse in fretta. Premette un tasto a caso del computer e lo schermo si animò. Mostrava ancora la pagina dell'ultima ricerca che aveva fatto su Google. Nel box il nome riluceva davanti ai suoi occhi: Tony Leike.
41. Mandato
- Allora, - disse Aslak Krongli girando la tazza. A Kaja sembrava un portauovo nella sua manona. Si era seduta di fronte a lui al tavolo più vicino alla finestra. La mensa della centrale, all'ultimo piano, rientrava perfettamente nello standard norvegese del genere: era grande, luminosa e pulita, ma non tanto accogliente da dare agli ospiti la tentazione di fermarsi più del necessario. La sua attrattiva maggiore era la vista della città, ma apparentemente a Krongli non interessava gran che.
- Ho controllato i registri degli ospiti negli altri rifugi della zona, - continuò lui. -
Le uniche ad aver scritto che intendevano trascorrere la notte in questione allo Håvass sono state Charlotte Lolles e Iska Peller, che avevano dormito al rifugio Tunvegg la notte prima.
- E questo lo sappiamo già, - disse Kaja.
- Sì. Quindi in effetti ho solo due particolari che forse ti interessano.
- E sarebbero?
- Ho parlato al telefono con la coppia anziana che ha pernottato al Tunvegg insieme a Lolles e Peller. Hanno detto che quella sera è passato di lì un uomo, ha mangiato un boccone, si è cambiato la camicia e poi ha proseguito verso sudovest. Nonostante fosse buio. E l'unico rifugio in quella direzione è lo Håvass.
- E quest'uomo...
- L'hanno solo intravisto. Per di più hanno avuto l'impressione che non volesse dare nell'occhio, non si è tolto né il passamontagna né gli antiquati occhiali da sci, neanche per cambiarsi la camicia. La moglie ha detto di aver pensato che in passato doveva essersi fatto qualche ferita grave.
- Perché?
- Ricorda soltanto di averlo pensato, non perché. Comunque, quell'uomo può aver cambiato direzione una volta fuori vista e raggiunto un altro rifugio.
- Ovviamente, - disse Kaja e guardò l'ora.
- A proposito, qualcuno ha risposto al vostro appello di rivolgersi alla polizia?
- No, - rispose Kaja.
- Dalla tua faccia si direbbe di sì.
Kaja alzò di colpo lo sguardo su Aslak Krongli, che reagì alzando le mani. - Il contadinotto tonto in città! Scusa, non mi riguarda.
- Nessun problema, - disse Kaja.
Fissarono ognuno la propria tazza.
- Hai parlato di due particolari che avrebbero potuto interessarmi, - riprese Kaja. - L'altro qual è?
- So che mi pentirò di avertelo detto, - rispose Krongli. La risata sommessa era tornata nei suoi occhi.
In quello stesso istante Kaja capì dove sarebbe andato a parare e fu sicura che aveva ragione: si sarebbe pentito.
- Alloggio al Plaza, e mi chiedevo se avresti voglia di farmi compagnia là a cena stasera.
Dalla sua espressione Kaja comprese che la propria non era tanto difficile da decifrare.
- Non conosco nessun altro in questa città, - aggiunse lui e storse la bocca in una smorfia che forse voleva essere un sorriso disarmante. - A parte la mia ex moglie, e a lei non mi azzardo a telefonare.
- Mi sarebbe piaciuto, - cominciò Kaja e fece una breve pausa. Condizionale passato. Notò che Aslak Krongli si era già pentito. - Ma purtroppo stasera ho già un impegno.
- Non c'è problema, anche considerato un preavviso così breve, - disse Krongli con un sorriso, passandosi le dita nei ricci arruffati. - E domani?
- Io... ehm, ultimamente sono molto occupata, Aslak.
L'agente rurale parve annuire tra sé e sé. - Naturale.
Naturale che sei occupata. Forse il motivo è il tipo che era nel tuo ufficio quando sono arrivato?
- No, adesso sono altri a comandarmi a bacchetta.
- Non mi riferivo ai capi.
- Come?
- Hai detto di essere innamorata di un poliziotto. E la mia impressione è che quello là non abbia avuto difficoltà a convincerti. Almeno, meno di me.
- No, no, ma sei matto? Non è lui! Io... sì, credo di aver bevuto un po' troppo vino quella sera -. Kaja udì la propria risata sciocca e si sentì salire il sangue su per il collo.
- Sì, sì, - disse Krongli e vuotò la tazza. - Devo decidermi a uscire nella grande e fredda città. Immagino che ci siano musei da vedere e bar da frequentare.
- Sì, devi approfittare dell'occasione.
Lui inarcò un sopracciglio con uno sguardo che allo stesso tempo piangeva a dirotto e rideva a crepapelle. Come lo sguardo di Even verso la fine.
Kaja lo accompagnò giù. Quando lui le diede la mano, le sfuggì di bocca: - Chiamami se dovessi sentirti troppo solo, vedrò se riesco a liberarmi.
Interpretò il sorriso di Krongli come un segno di gratitudine per avergli dato l'occasione di rifiutare una proposta o per lo meno di evitare di coglierla.
Quando risali in ascensore al quinto piano, le tornarono in mente le sue parole: «... non abbia avuto difficoltà a convincerti». Per quanto tempo era rimasto sulla porta ad ascoltare quello che si dicevano?
All'una il telefono davanti a Kaja squillò.
Era Harry. - Finalmente ho avuto il mandato. Pronta?
Kaja sentì il cuore batterle un po' più forte. - Sì.
- Giubbotto?
- Giubbotto e arma.
- Alle armi ci pensano le forze speciali «Delta». Aspettano in un'auto davanti al garage, devi solo scendere. E prendere il mandato dalla mia casella postale, per favore.
- Okay.
Dieci minuti dopo attraversavano il centro di Oslo a bordo di un pulmino del gruppo Delta diretti a ovest. Kaja ascoltò Harry spiegare che mezz'ora prima aveva telefonato a Leike al business center dove aveva affittato un ufficio, e gli avevano detto che quel giorno lavorava da casa. Allora aveva chiamato il telefono fisso di Holmenveien riagganciando non appena Tony Leike aveva risposto. Harry aveva chiesto espressamente che gli assegnassero Milano come capo dell'operazione, un uomo tarchiato, scuro e con due grosse sopracciglia, ma che a dispetto del nome non aveva nemmeno una goccia di sangue italiano nelle vene.
Percorsero il tunnel Ibsen. Rettangoli di luce riflessa scivolavano sugli elmetti e sulle visiere degli otto poliziotti apparentemente sprofondati nella meditazione.
Kaja e Harry erano seduti in fondo. Lui indossava un giaccone nero con la scritta «Polizia» a grandi lettere gialle davanti e dietro, e aveva tirato fuori il revolver di ordinanza per controllare che ci fossero cartucce in tutte le camere.
- Otto uomini del Delta e un frullatore, - disse Kaja alludendo alla luce azzurra che lampeggiava sul tetto dell'auto.
- Sei sicuro che non stiamo un po' esagerando?
- Dobbiamo esagerare, - rispose lui. - Se vogliamo attirare l'attenzione su chi sta seguendo questa cattura abbiamo bisogno di fare più rumore del solito.
- Hai informato la stampa?
Harry la fissò.
- Sì, insomma, se vuoi attirare l'attenzione, - disse lei.
- Pensa, il famoso Leike arrestato per l'omicidio di Marit Olsen. Mollerebbero anche il parto della principessa pur di non perderselo.
- E se in casa c'è la sua fidanzata? - domandò Harry.
- Oppure la madre? Dovrebbero finire anche loro sui giornali e in televisione? - Un'oscillazione brusca della mano e il tamburo rientrò nel revolver con un clic.
- Allora perché dobbiamo fare più rumore del solito?
- La stampa arriverà in un secondo momento, - disse Harry. - Farà domande ai vicini, ai passanti, a noi. E verrà a sapere che è stato uno spettacolo grandioso. Va bene così. Non ci andrà di mezzo nessun innocente, e noi ci assicureremo la prima pagina.
Kaja gli lanciò un'occhiata furtiva mentre le ombre del tunnel successivo sfioravano le loro teste. Superarono Majorstua e imboccarono Slemdalsveien, attraversarono la zona residenziale di Vinderen, e Kaja lo vide guardare fuori del finestrino, verso la pensilina dei tram, con un'espressione tormentata e indifesa. Le venne voglia di posare una mano sulla sua, di dire qualcosa, qualsiasi cosa, che potesse cancellargli quell'espressione. Guardò la sua mano: stringeva il revolver, forte, quasi fosse l'unica cosa che aveva. Non poteva andare avanti così, qualcosa avrebbe finito per rompersi. Si era già rotto.
Continuarono a salire, mentre la città si stendeva giù in basso. Svoltarono e superarono le rotaie del tram nello stesso istante in cui una luce cominciava a lampeggiare alle loro spalle e la sbarra si abbassava.
Erano arrivati in Holmenveien.
- Milano, chi mi accompagna alla porta? - gridò Harry verso il posto accanto al guidatore.
- Delta tre e quattro, - gridò di rimando Milano, si voltò e indicò un uomo che aveva un grosso «3» scritto con il gesso sul petto e sulla schiena della tuta.
- Okay, - disse Harry. - E gli altri?
- Due uomini su ciascun lato della casa. Formazione Dyke 1-4-5.
Kaja sapeva che era un codice per stabilire in quale ordine sarebbero entrati in azione gli uomini, che era un sistema mutuato dal football americano per comunicare con rapidità e non farsi capire dagli avversari, nel caso fossero riusciti a inserirsi sulle frequenze radio utilizzate dal Delta. Si fermarono a un paio di numeri civici da quello di Leike. Sei agenti controllarono gli Mp5 e scesero. Kaja li vide avanzare sull'erba marrone e vizza dei grandi giardini attigui, tra i meli spogli e le alte siepi che andavano per la maggiore nella zona ovest. Kaja consultò l'orologio. Erano passati quaranta secondi quando la radio di Milano gracchiò: «Tutti ai propri posti».
L'autista rilasciò la frizione e procedettero lentamente verso la casa.
La villa che Tony Leike aveva acquistato di recente era gialla, a un solo piano e piuttosto grande, ma l'indirizzo era più imponente dell'architettura, a metà tra funzionalismo e cassone di legno, a quanto poteva giudicare Kaja.
Si fermarono davanti al garage, in fondo al vialetto inghiaiato che conduceva alla porta d'ingresso. Parecchi anni addietro, durante un'operazione a Vestfold in cui i banditi avevano preso degli ostaggi, mentre il gruppo Delta circondava la villa, i sequestratori erano fuggiti dal garage, collegato alla casa tramite un corridoio: avevano messo in moto l'auto del padrone di casa e si erano allontanati comodi comodi sotto gli occhi di un pubblico sbalordito di poliziotti armati fino ai denti.
- Tieniti dietro di noi e seguici, - disse Harry a Kaja. - La prossima volta toccherà a te.
Scesero, e lui si avviò subito verso la villa insieme agli altri due poliziotti, che si tenevano un passo indietro e di lato rispetto a lui in modo da formare un triangolo. Dalla sua voce Kaja aveva capito che le sue pulsazioni erano aumentate. Ora ne ebbe conferma anche dal linguaggio non verbale, dalla tensione del collo, dall'agilità esagerata con cui si muoveva.
Salirono gli scalini. Harry suonò il campanello. Gli altri due si erano disposti ai lati della porta con la schiena contro il muro.
Kaja contò. In macchina lui le aveva detto che all'Fbi gli ordini erano di gridare: «Polizia!» e «Aprite, per favore!», ripetere quelle parole e poi aspettare dieci secondi prima di entrare con la forza. Le istruzioni della polizia norvegese non erano tanto dettagliate, ma questo non significava che non ci fossero regole.
Quella mattina in Holmenveien, però, non ci fu modo di applicarne nemmeno una.
La porta si spalancò. Di riflesso, Kaja arretrò di un passo appena vide il berretto rasta nel vano della porta e una spalla di Harry ruotare, mentre udiva il tonfo di un pugno contro un corpo.
42. Beavis
Fu una reazione istintiva, che Harry non fece semplicemente in tempo a bloccare.
Quando la faccia da luna piena del tecnico della Scientifica Bjørn Holm apparve sulla soglia della casa di Tony Leike e Harry intravide alle sue spalle altri tecnici della Scientifica impegnati nel sopralluogo, capì nel giro di un secondo che cosa era successo e gli si annebbiò la vista.
Sentì soltanto il colpo propagarglisi nel braccio, fino alla spalla, e il dolore alle nocche. Quando riaprì gli occhi, Bjørn Holm era inginocchiato nell'ingresso e il sangue gli usciva a fiotti dal naso, colandogli sulla bocca e gocciolando dal mento.
I due agenti del Delta erano balzati in avanti tenendo le armi puntate su Holm, ma era evidente che non sapevano che pesci pigliare. Con tutta probabilità avevano entrambi già visto il familiare berretto rasta e capito che gli altri uomini vestiti di bianco facevano parte di una squadra di tecnici della Scientifica.
- Comunica che la situazione è sotto controllo, - disse Harry all'uomo con il «3» sul petto. - E che il sospettato è stato arrestato. Da Mikael Bellman.
Harry era accasciato sulla sedia, con le gambe allungate fino alla scrivania di Gunnar Hagen.
- È semplicissimo, capo. Bellman è venuto a sapere che stavamo per catturare Tony Leike. Porca miseria, hanno la procura di Stato davanti, nello stesso palazzo della Scientifica. Gli è bastato attraversare la strada e farsi fare un mandato da uno dei procuratori, probabilmente ci ha messo meno di due minuti. Mentre io ho dovuto aspettare per due ore, cazzo!
- Non c'è bisogno di urlare, - disse Hagen.
- Tu non ne hai bisogno, ma io sì! - gridò Harry picchiando il bracciolo. - Accidenti! Accidenti!
- Dovresti essere contento che Holm non intende denunciarti. A proposito, perché lo hai picchiato? Era lui la gola profonda?
- C'è altro, capo?
Hagen guardò il suo vice. Poi scosse la testa. - Harry, prenditi un paio di giorni liberi.
Da piccolo Truls Bernsten aveva molti soprannomi. Ormai erano quasi tutti dimenticati. Ma agli inizi degli anni Novanta, dopo le superiori, gliene avevano affibbiato uno che gli era rimasto appiccicato: Beavis. L'idiota dei cartoni su Mtv. Capelli biondi, prognatismo e una risata che pareva un grugnito. Okay, forse rideva davvero così. Lo faceva sin dalle elementari, soprattutto quando qualcuno le buscava. Soprattutto quando le buscava lui. In una rivista di fumetti aveva letto che il creatore di Beavis e Butt-Head si chiamava Judge, il nome di battesimo lo aveva dimenticato. Comunque, questo Judge diceva che nella sua immaginazione il padre di Beavis era una spugna che picchiava il figlio. Truls Bernsten ricordava di aver scagliato la rivista sul pavimento del negozio e di essere uscito facendo quella sua risata-grugnito.
Aveva due zii poliziotti, ed era riuscito a raggiungere i requisiti di ammissione della Scuola di polizia per un pelo di fica e con due lettere di referenze. Aveva superato il concorso per il rotto della cuffia e grazie a una mano se non due del suo vicino di banco. Ci sarebbe mancato altro, erano amici d'infanzia. O forse amici non era il termine giusto. Se doveva essere sincero, Mikael Bellman era stato il suo capo fin da quando avevano dodici anni e si erano conosciuti nella vasta zona che stavano brillando per renderla edificabile su a Manglerud. Bellman lo aveva colto in flagrante mentre cercava di dare fuoco a un ratto morto. E gli aveva fatto vedere quanto fosse più divertente infilargli un candelotto di dinamite in bocca. Gli aveva addirittura permesso di accendere la miccia. E da quel giorno Truls aveva seguito Mikael Bellman come un'ombra. Quando lui glielo permetteva. Mikael se la cavava in tutte le cose in cui Truls non riusciva. A scuola, in ginnastica, a parlare in modo che nessuno potesse prenderti in giro. Se la cavava meglio anche con le ragazze, una aveva un anno più di lui e le tette, che Mikael poteva tastare quanto voleva. Solo in una cosa Truls era più bravo: a buscarle. Mikael si tirava sempre indietro quando qualcuno dei ragazzi più grandi non sopportava che quel pallone gonfiato li avesse superati nell'arte di vomitare insulti e si avvicinava con i pugni chiusi. E mandava avanti Truls. Perché Truls sapeva buscarle. Si era esercitato a casa. Lo potevano picchiare fino a fargli uscire il sangue e lui restava impalato, con la sua risatagrugnito che li faceva arrabbiare ancora di più. Ma era più forte di lui, non riusciva a trattenersi dal ridere. Sapeva che dopo Mikael gli avrebbe dato una pacca d'approvazione sulla spalla, e se era domenica magari gli avrebbe detto che Julle e Te-Ve stavano per fare un'altra gara. Allora andavano a mettersi sul ponte sotto l'incrocio di Ryen, con l'odore di asfalto cotto dal sole nelle narici, e udivano ruggire i motori dei Kawa 1000 mentre i due gruppi di supporter urlavano a squarciagola. E poi ecco che vedevano le moto di Julle e di Te-Ve sfrecciare sull'autostrada deserta di domenica, passare sotto di loro e proseguire in direzione del tunnel e di Bryn. Poi, magari, se Mikael era di buonumore e la madre di Truls di turno all'ospedale di Aker, andavano a pranzo dalla signora Bellman.
Una volta, quando Mikael aveva suonato a casa di Truls, il padre gli aveva urlato che Gesù era venuto a prendere il suo discepolo.
Non avevano mai litigato. Ossia, Truls non aveva mai risposto per le rime quando Mikael era di cattivo umore e lo insultava. Nemmeno a quella festa, quando Mikael lo aveva chiamato Beavis e tutti erano scoppiati a ridere, e lui aveva capito d'istinto che quel soprannome gli sarebbe rimasto appiccicato. Solo una volta gli aveva risposto per le rime. Era stato quando Mikael aveva detto che suo padre era un ubriacone della Kadok. Allora Truls si era alzato e gli era andato incontro mostrando il pugno. Mikael si era accucciato coprendosi la faccia con un braccio, pregandolo con una risatina di calmarsi, era solo una battuta e su, dài, scusa. Ma dopo era stato Truls a sentirsi triste e a chiedere scusa.
Un giorno erano andati a uno dei distributori dove sapevano che Julle e Te-Ve rubavano la benzina. Julle e Te-Ve riempivano i serbatoi dei Kawa al self service mentre le loro donne restavano sedute dietro con il giubbotto jeans legato in vita, in modo da coprire come per caso le targhe. Poi i due rimontavano in sella e partivano a tutto gas.
Mikael aveva dato i nomi e gli indirizzi per esteso di Julle, di Te-Ve e di una ragazza sola, quella di Te-Ve, al proprietario del distributore. L'uomo aveva fatto una faccia scettica, gli sembrava di aver visto Truls in una delle videocamere di sorveglianza: per lo meno, somigliava al ragazzino che aveva rubato una tanica di benzina poco prima che fosse incendiata la rimessa su al cantiere di Manglerud. Mikael aveva detto di non volere mance per le informazioni, solo che i colpevoli fossero puniti. Immaginava che anche il proprietario del distributore conoscesse i propri doveri di cittadino. L'uomo aveva annuito, un po' sorpreso. Mikael faceva quell'effetto alla gente. Andando via aveva detto che dopo le superiori avrebbe fatto domanda alla Scuola di polizia e che anche Beavis doveva prendere in considerazione quell'idea, lui che per giunta aveva poliziotti in famiglia.
Poco dopo Mikael si era messo con Ulla, e avevano cominciato a vedersi di meno. Ma dopo le superiori e la Scuola di polizia, erano stati destinati allo stesso distretto di Stovner, nella zona est, una periferia autentica con tanto di bande criminali, litigi domestici e perfino qualche omicidio. Nel giro di un anno Mikael si era sposato con Ulla ed era diventato il capo di Truls, o Beavis, com'era stato ribattezzato più o meno dal terzo giorno, e il futuro prometteva bene per Truls e benissimo per Mikael. Fino a quando un idiota, un sostituto civile dell'ufficio paghe, aveva accusato Bellman di avergli rotto la mascella dopo il pranzo aziendale natalizio. Non aveva uno straccio di prova, e Truls era sicurissimo dell'innocenza di Mikael. Ma tutto quel chiasso aveva comunque spinto Mikael a cercare lavoro altrove, e lo aveva trovato presso la sede centrale dell'Europol all'Aia, dove si era trasferito diventando ben presto una stella anche lì.
Quando era tornato in Norvegia per lavorare alla Kripos, la seconda cosa che aveva fatto era stata telefonare a Truls e dirgli: - Beavis, sei pronto a ricominciare a far saltare in aria i ratti?
La prima cosa che aveva fatto era stata assumere Jussi.
Jussi Kolkka era specializzato in una mezza dozzina di arti marziali, i cui nomi erano di quelli che si dimenticano prima ancora di averli sentiti pronunciare per esteso. Aveva lavorato all'Europol per quattro anni, e prima ancora aveva fatto il poliziotto a Helsinki. Ed era stato costretto a lasciare l'incarico perché aveva passato il segno durante un'indagine nell'Europa del sud su una serie di stupri le cui vittime erano delle adolescenti. Stando alle voci, Kolkka aveva gonfiato di botte un violentatore al punto che perfino il suo avvocato aveva avuto problemi a riconoscerlo. Ma non a minacciare di citare in giudizio l'Europol. Truls aveva cercato di convincere Jussi a raccontargli i particolari piacevoli, ma per tutta risposta lui lo aveva fissato in silenzio. Nessun problema, del resto nemmeno Truls era un chiacchierone. E aveva notato che meno uno parla più è probabile che gli altri lo sottovalutino. Una cosa che non sempre era uno svantaggio. Comunque, quella sera avevano motivo di festeggiare. Mikael, Truls stesso, Jussi e la Kripos avevano vinto. E dal momento che Mikael non c'era stava a loro prendere l'iniziativa.
- Zitti! - gridò Truls indicando la Tv fissata alla parete sopra il bancone del bar Justisen. E udì la propria risata-grugnito nervosa quando i colleghi gli obbedirono. Intorno ai tavoli e anche al bancone calò il silenzio. Tutti fissarono lo speaker del telegiornale che guardava dritto nella telecamera mentre dava l'annuncio che aspettavano: «Oggi la Kripos ha arrestato un uomo sospettato di un totale di cinque omicidi, incluso quello di Marit Olsen».
L'entusiasmo esplose, i boccali furono levati e il seguito della notizia fu completamente soffocato, fino a quando una voce cupa dall'accento finnico-svedese tuonò: - Chiudete il becco!
Gli uomini della Kripos ubbidirono e rivolsero l'attenzione a Mikael Bellman, che stava davanti alla sede di Bryn con un microfono peloso sbattuto sul viso.
«Il sospetto sarà interrogato dalla Kripos e successivamente verrà richiesta la custodia cautelare», dichiarò.
«Quindi, questo significa che secondo te la polizia ha risolto il caso?»
«Trovare il colpevole e farlo condannare sono due cose diverse, - rispose Bellman con un sorriso impercettibile agli angoli della bocca. - Ma con le nostre indagini noi della Kripos abbiamo portato alla luce talmente tanti indizi e coincidenze che riteniamo opportuno procedere subito all'arresto, dal momento che ci sarebbe il rischio di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove».
«Il fermato è un uomo sulla trentina. Potete dirci qualcos'altro sul suo conto?» «Ha una precedente condanna per violenza, questo è tutto quello che posso dire».
«Su internet circolano voci circa l'identità di questa persona. Sostengono che si tratti di un noto investitore, fidanzato tra l'altro con la figlia di un famoso armatore.
Ci puoi confermare queste voci, Bellman?»
«Non credo di dover confermare né smentire nulla, ma solo dire che alla Kripos contiamo di arrivare presto alla soluzione di questo caso».
Il corrispondente si girò verso la telecamera per concludere, ma fu soffocato dagli scrosci di applausi allo Justisen.
Truls ordinò un'altra birra mentre uno degli agenti investigativi saliva su una sedia e strombazzava che quelli dell'Anticrimine potevano succhiargli il cazzo, o almeno la punta, se glielo avessero chiesto per favore. Le risate scrosciarono nel locale gremito e puzzolente di sudore.
In quello stesso istante la porta si aprì, e nello specchio Truls scorse una sagoma che riempiva tutto il vano.
A quella vista provò una strana eccitazione, la palpitante certezza che stava per succedere qualcosa, che qualcuno si sarebbe fatto male.
Era Harry Hole.
Alto, largo di spalle, il viso scarno e gli occhi iniettati di sangue infossati nelle orbite. Rimase semplicemente piantato dov'era. E tuttavia, senza che nessuno gridasse di chiudere il becco, il silenzio si propagò da un capo all'altro dello Justisen, finché si udì un ultimo «sst» rivolto a due loquaci tecnici della Scientifica. Quando il silenzio fu assoluto, Hole parlò: - Allora, state festeggiando il fatto di essere riusciti a rubare il frutto del nostro lavoro?
Anche se pronunciò quelle parole sommessamente, quasi sottovoce, ogni sillaba rimbombò nel locale.
- State festeggiando il fatto di avere un capo disposto a passare sopra i cadaveri, sia quelli ammassati in giro sia quelli che presto andranno portati giù dal quinto piano della centrale, solo per poter essere il Re Sole di quella cazzo di Bryn? Okay. Eccovi cento corone.
Truls vide Hole alzare una banconota.
- Queste non vi tocca rubarle. Tenete... comprateci la birra, il perdono, un vibratore per i giochi a tre di Bellman -. Accartocciò la banconota e la lanciò in terra. Con la coda dell'occhio Truls vide che Jussi si era già mosso. - Oppure comprateci un altro informatore.
Hole fece un passo di lato per mantenere l'equilibrio e solo allora Truls notò che, nonostante parlasse distintamente come un prete, era ubriaco fradicio.
Subito dopo, quando il gancio destro di Jussi Kolkka lo colpì sul lato sinistro del mento, Hole eseguì mezza piroetta e poi, quando il sinistro del finlandese affondò nel suo plesso solare, un profondo inchino quasi galante. Truls aveva il presentimento che di lì a pochi secondi - appena avesse ripreso fiato - Hole avrebbe vomitato. Là dentro. E chiaramente Jussi pensò la stessa cosa: che fuori era meglio. Era strano vedere quel finlandese tarchiato, quasi a forma di cubo, alzare il piede in aria, con l'agilità di una ballerina puntarlo contro la spalla di Harry e spingere con estrema delicatezza il poliziotto piegato in due, facendolo cadere all'indietro e fuori della stessa porta da cui era entrato.
I più ubriachi e giovani scoppiarono a ridere fragorosamente, Truls grugnì. Qualcuno dei più anziani gridò; uno urlò a Kolkka di comportarsi bene, e che diamine. Ma nessuno alzò un dito. Truls sapeva perché. Là dentro tutti ricordavano l'episodio. Harry aveva trascinato la divisa nel fango, aveva cagato nel suo stesso nido, aveva ammazzato uno dei colleghi migliori.
Jussi marciò verso il bancone, l'espressione vacua come se avesse appena portato fuori la spazzatura. Truls sghignazzò e grugnì. Non sarebbe mai riuscito a capire i finlandesi, i lapponi, gli eschimesi o che accidenti erano.
In fondo al locale un tipo si alzò e si precipitò verso la porta d'ingresso. Truls non lo aveva mai visto alla Kripos, ma sotto i capelli scuri e ricci aveva l'aspetto del poliziotto.
- Dacci una voce se hai bisogno d'aiuto, agente, - gridò qualcuno dal suo tavolo.
Solo tre minuti dopo, quando rialzarono il volume di Celine Dion e le chiacchiere ripresero a scorrere, Truls trovò il coraggio di farsi avanti, calare il tacco della scarpa sul biglietto da cento corone e portarlo al bancone.
Harry si riempì i polmoni d'aria. E vomitò. Una volta, due volte. Poi si accasciò di nuovo. L'asfalto era talmente freddo che gli bruciava il fianco trapassando la camicia, e allo stesso tempo talmente pesante che aveva l'impressione di essere lui a sostenerlo e non viceversa. Sotto le palpebre gli danzavano macchie rosso sangue e sinuosi serpentelli neri.
- Hole?
Udì la voce, ma si rese conto che se avesse rivelato di essere cosciente, avrebbe dato il via libera ai calci. Perciò continuò a tenere gli occhi chiusi.
- Hole? - la voce era più vicina e Harry si sentì una mano sulla spalla.
Sapeva anche che l'alcol avrebbe ridotto la velocità, la precisione del colpo e del calcolo della distanza, ma lo fece ugualmente. Aprì gli occhi, si girò e mirò alla laringe. Poi si accasciò di nuovo.
Aveva mancato il bersaglio di quasi mezzo metro.
- Ti trovo un taxi, - disse la voce.
- Col cazzo, - rispose Harry sbuffando. - Togliti di mezzo, ratto di merda.
- Non sono della Kripos, - disse la voce. - Mi chiamo Krongli. Agente rurale di Ustaoset.
Harry si girò e alzò gli occhi per guardarlo.
- Sono solo un po' sbronzo, - disse con voce rauca e cercò di respirare con calma per evitare che i dolori allo stomaco lo facessero vomitare di nuovo. - Non è tanto grave.
- Sono un po' sbronzo anch'io, - disse Krongli sorridendo e mettendosi un braccio di Harry intorno alle spalle. - E se devo essere sincero, non ho la più pallida idea di dove cercare un taxi. Riesci a reggerti in piedi?
Harry si puntellò prima su una gamba poi su tutte e due, batté le palpebre un paio di volte e constatò che se non altro aveva ritrovato la posizione verticale. E che era mezzo abbracciato a un agente rurale di Ustaoset.
- Dove dormi stanotte? - gli domandò Krongli.
Harry gli lanciò un'occhiata in tralice. - A casa. E preferibilmente da solo, se non hai nulla in contrario.
In quello stesso momento si accostò una volante, e il finestrino si abbassò. Harry udì la fine di una risata e poi una voce calma: - Harry Hole, dell'Anticrimine?
- Sono io, - rispose con un sospiro.
- Abbiamo appena ricevuto una telefonata da un agente della Kripos che ci ha incaricato di venire qui e portarti a casa sano e salvo.
- E allora vedi di aprire lo sportello!
Harry si sedette sul sedile posteriore, abbandonò la nuca sul poggiatesta e chiuse gli occhi. Subito tutto cominciò a girare, ma preferiva quella sensazione alla vista dei due sui sedili anteriori che lo fissavano. Krongli li pregò di chiamarlo a un numero di cellulare non appena «Harry» fosse arrivato a casa. Come accidenti aveva fatto quel tipo a convincersi che erano amici? Harry sentì il finestrino richiudersi, e poi di nuovo la voce gradevole dal sedile anteriore: - Dove abiti, Hole?
- Va' sempre dritto. Dobbiamo andare a trovare una persona.
Appena udì partire l'auto, Harry riaprì gli occhi, si girò e vide Aslak Krongli in piedi sul marciapiede di Møllergata.
43. Visita a domicilio
Distesa su un fianco Kaja fissava il buio della camera da letto. Aveva sentito aprirsi il cancello e un rumore di passi sulla ghiaia. Trattenne il respiro e aspettò. Poi suonarono alla porta. Scese dal letto, si infilò la vestaglia e andò alla finestra.
Suonarono di nuovo. Scostò le tendine. E sospirò.
- Poliziotto ubriaco, - disse a voce alta alla stanza.
Infilò i piedi nelle pantofole e a passi strascicati percorse il corridoio fino alla porta. L'aprì e si piantò nello spiraglio a braccia conserte.
- Ehilà, tescioro, - biascicò il poliziotto. Kaja si chiese se volesse essere una parodia dello sketch dell'ubriaco. O se fosse il penoso originale.
- Che cosa ti porta qui a quest'ora? - domandò.
- Te. Posso entrare?
- No.
- Ma mi hai detto che ti potevo cercare se mi fossi sentito troppo solo. E mi sono sentito troppo solo.
- Aslak Krongli, - disse lei. - Ero a letto. Adesso vattene in albergo. Domani mattina possiamo prenderci un caffè insieme.
- Mi sa che ho bisogno di un caffè adesso. Dieci minuti, poi chiamiamo un taxi, eh? Possiamo parlare di omicidi e di serial killer per tutto il tempo. Che ne dici?
- Spiacente, - rispose lei. - Non sono sola.
Krongli si drizzò, con un movimento così repentino da indurre Kaja a sospettare che fosse meno ubriaco di quanto era sembrato all'inizio. - Ah. È qui, il poliziotto che hai detto ti piaceva tanto?
- Può darsi.
- Sono sue, queste? - chiese l'agente rurale lentamente, dando un calcio alle grosse scarpe che stavano accanto allo zerbino.
Kaja non rispose. C'era qualcosa nella voce di Krongli, anzi, sotto la sua voce, qualcosa che udiva per la prima volta. Come un ringhio a bassa frequenza, quasi impercettibile.
- O ce le hai messe tu per spaventare la gente? - Pianto e riso nello sguardo. - Non c'è nessuno, vero, Kaja?
- Ascolta, Aslak...
- Quel poliziotto di cui parlavi, quell'Harry Hole, stasera si è attaccato alla bottiglia. Si è presentato allo Justisen ubriaco fradicio, si è messo a provocare e le ha prese.
È arrivata una volante per riaccompagnarlo a casa. Quindi il tuo impegno di stasera è saltato, no?
Il cuore di Kaja accelerò i battiti, non sentiva più freddo sotto la vestaglia.
- Magari invece che a casa lo hanno accompagnato qui, - rispose accorgendosi di aver cambiato voce.
- No, mi hanno telefonato per dirmi che lo avevano accompagnato a casa del diavolo su in collina perché doveva andare a trovare qualcuno. Quando hanno saputo che si trattava del Rikshospitalet e glielo hanno sconsigliato caldamente, lui è sceso a un semaforo rosso. Il caffè mi piace forte, d'accordo?
I suoi occhi si erano illuminati di un luccichio intenso, lo stesso che Even aveva sempre quando non stava bene.
- Aslak, adesso va'. Puoi trovare un taxi in Kirkeveien.
La mano di Aslak scattò in avanti, e Kaja non fece in tempo a reagire che venne afferrata per un gomito e spinta in casa. Cercò di divincolarsi, ma lui la cinse con un braccio immobilizzandola.
- Devi essere proprio come lei? - le sibilò la voce di Aslak all'orecchio. - E sgusciare via, svignartela? Essere come tutte le altre, maledette...
Lei ansimava e si dimenava, ma Aslak era forte.
- Kaja!
La voce risuonò attraverso la porta aperta della camera da letto. Una voce maschile decisa, autoritaria che forse, in circostanze diverse, Krongli avrebbe riconosciuto. E per di più si sarebbe ricordato di averla sentita appena un'ora prima allo Justisen.
- Kaja, che succede?
Krongli aveva mollato la presa e la fissava, con tanto d'occhi e la bocca spalancata.
- Niente, - rispose Kaja senza staccare lo sguardo da Krongli. - È solo un contadinotto sbronzo di Ustaoset che sta per tornarsene a casa.
Krongli si avviò muto verso la porta e l'aprì. Uscì e se la sbatté alle spalle. Kaja si avvicinò alla porta, la chiuse a chiave e poggiò la fronte contro il legno fresco. Le veniva da piangere. Non per lo spavento o lo choc. Ma per la disperazione. Perché tutto intorno a lei stava crollando. Perché tutto quello che aveva creduto puro e giusto si stava finalmente rivelando nella sua vera luce. In realtà aveva cominciato a farlo molto tempo prima, ma lei non aveva voluto vedere. Perché quello che aveva detto Even era vero: nessuno è come sembra, e quasi tutto, a parte il tradimento vero e proprio, è menzogna e inganno. E il giorno in cui scopriamo che neanche noi siamo diversi, è il giorno in cui ci viene meno la voglia di vivere.
- Che fai, vieni, Kaja?
- Sì.
Kaja si scostò con una spinta da quella porta che avrebbe tanto desiderato oltrepassare per scappare e andò in camera da letto. Il chiaro di luna filtrava tra le tende lambendo il letto, la bottiglia di champagne che lui aveva portato per festeggiare, il suo petto nudo muscoloso, il suo viso che un tempo lei aveva considerato il più bello del mondo. Le macchie bianche sulla pelle del suo viso brillavano quasi fossero di vernice fosforescente. Come se avesse le braci dentro.
44. La radice
Kaja si fermò sulla porta della camera da letto a guardarlo. Mikael Bellman. Per gli altri: un bravo, ambizioso commissario capo, felicemente sposato e padre di tre figli, nonché futuro responsabile del nuovo colosso Kripos che avrebbe gestito tutti i casi di omicidio in Norvegia. Per lei, Kaja Solness: un uomo di cui si era innamorata appena lo aveva conosciuto, che l'aveva sedotta secondo tutte le regole e anche qualche irregolarità. Aveva avuto gioco facile, ma questo era colpa di Kaja, non sua. Tutto sommato. Come aveva detto Harry? È sposato e dice che lascerà la moglie e i figli per te ma non si decide mai a farlo?
Centro. Ovviamente. Siamo tanto banali. Crediamo perché vogliamo credere. Agli dèi perché placano la paura della morte. All'amore perché fa sembrare la vita più bella. A quello che dicono gli uomini sposati perché è quello che dicono gli uomini sposati.
Sapeva cosa avrebbe detto Mikael. E infatti lo disse: - Tra poco devo andare a casa. Altrimenti lei si insospettisce.
- Lo so, - disse Kaja con un sospiro, e come al solito evitò di fare la domanda che le si affacciava sempre alla mente quando lui se ne usciva con quella frase: perché non fai in modo che smetta di sospettare? Perché non fai ciò che vai dicendo da tanto tempo? Ed era a quel punto che aveva cominciato ad affacciarsi una nuova domanda: e perché io non sono più tanto sicura di volere che tu lo faccia?
Harry si appoggiò al corrimano mentre saliva al reparto di Ematologia del Rikshospitalet. Era fradicio di sudore, completamente congelato e i denti gli battevano come un motore a due tempi. Ed era ubriaco. Di nuovo ubriaco. Pieno di Jim Beam, pieno di malvagità, pieno di sé, pieno di merda. Percorse il corridoio barcollando, già intravedeva la porta del padre giù in fondo.
Un'infermiera fece capolino dalla guardiola, lo squadrò e sparì di nuovo. Gli mancavano cinquanta metri per arrivare alla stanza quando l'infermiera e un collega calvo si precipitarono nel corridoio sbarrandogli il passo.
- Non teniamo farmaci qui in reparto, - disse il pelato.
- Questa non è solo una gran panzana, - disse Harry sforzandosi di controllare l'equilibrio e il battito dei denti. - Ma anche una grande offesa. Non sono un tossico, sono un parente venuto a fare visita al padre. Perciò, per favore, spostatevi.
- Scusa, - disse l'infermiera che sembrava un po' tranquillizzata dalla dizione chiara di Harry. - Ma puzzi come un birrificio, e non possiamo permettere...
- I birrifici fanno la birra, - ribatté Harry. - Il Jim Beam è un bourbon. Perciò, casomai puzzo come una distilleria, signorina. E...
- Non ha importanza, - disse l'infermiere afferrandolo per il gomito. E lo lasciò altrettanto rapidamente appena si sentì torcere la mano, ansimando con una smorfia di dolore finché l'altro non allentò la stretta. Harry rimase immobile e lo fissò.
- Chiama la polizia, Gerd, - disse l'infermiere senza staccargli gli occhi di dosso.
- Se per voi va bene, adesso ci penso io a lui, - disse una voce leggermente blesa alle loro spalle. Era Sigurd Altman. Arrivò con una cartella sotto il braccio e un sorriso affabile sulle labbra. - Ti va di venire con me nel posto in cui teniamo i narcotici, Harry?
Harry oscillò due volte avanti e indietro. Concentrò l'attenzione su quell'ometto esile dagli occhiali tondi. Infine annuì.
- Da questa parte, - disse Altman, che si era già avviato.
L'ufficio di Altman era in realtà un ripostiglio. Privo di finestre e di una ventilazione percettibile, era però dotato di una scrivania, di un Pc e di una branda che lui, come spiegò, utilizzava durante i turni di notte per poter dormire ed essere svegliato al bisogno. E di un armadio con serratura che Harry immaginò contenesse possibilità di connessioni e sconnessioni chimiche.
- Altman, - disse Harry, che si era seduto sulla sponda del lettino e schioccava forte le labbra come se fossero spalmate di colla. - Un cognome insolito. Conosco solo un'altra persona che si chiama così.
- Robert, - disse Sigurd Altman, che occupava l'unica sedia della stanza. - Non mi piaceva la persona che ero nel paesino in cui sono cresciuto. Appena sono andato via ho fatto domanda per sbarazzarmi del mio banalissimo cognome in «-sen». Motivai la richiesta dicendo la verità, ossia che Robert Altman era il mio regista preferito. E il funzionario che si occupava della mia pratica doveva avere i postumi di una sbronza, perché accettò. Farebbe bene a tutti rinascere ogni tanto.
- I protagonisti, - disse Harry.
- Gosford Park, - disse Altman.
- America oggi.
- Ah, un capolavoro.
- Bello, ma sopravvalutato. Troppi temi. La composizione complica la trama inutilmente.
- La vita è complicata. La gente è complicata. Vedilo un'altra volta, Harry.
- Mhm.
- Come va? Qualche progresso nel caso Marit Olsen?
- Progresso, - ripeté Harry. - Il colpevole è stato arrestato oggi.
- Ma va'! Be', allora capisco perché festeggi -. Altman si premette il mento contro il petto e sbirciò da sopra gli occhiali. - Lo devo ammettere: posso sperare di raccontare ai miei futuri nipotini che è stata l'informazione sulla ketamina che ti ho dato io a risolvere il caso?
- Fa' pure, ma a smascherarlo è stata una telefonata che ha fatto a una delle vittime.
- Poveretto.
- Poveretto chi?
- Poveretti tutti quanti, immagino. Allora, perché tanta urgenza di vedere tuo padre proprio stanotte?
Harry si copri la bocca con una mano e ruttò in silenzio.
- C'è un motivo, - disse Altman. - Per quanto ubriaco tu possa essere, c'è sempre un motivo. D'altra parte, ovviamente questo motivo non mi riguarda, perciò forse dovrei chiudere il bec...
- Ti hanno mai chiesto di praticare l'eutanasia?
Altman si strinse nelle spalle. - Sì, qualche volta. Sono un infermiere anestesista, viene naturale rivolgersi a me. Perché?
- Mio padre me lo ha chiesto.
Altman annuì adagio. - È un grosso peso da scaricare su una persona. È per questo che sei venuto? Per toglierti il pensiero?
Lo sguardo di Harry aveva già vagato per la stanza alla ricerca di un qualcosa di alcolico da bere. Ora fece un altro giro. - Sono venuto a chiedere perdono. Perché non posso fare questo per lui.
- Non hai bisogno di farti perdonare. Non si può pretendere da nessuno di dare la morte, tanto meno dal proprio figlio.
Harry si prese la testa fra le mani. Sembrava dura e pesante come una palla da bowling.
- L'ho già fatto una volta, - disse.
La voce di Altman parve più sorpresa che sconvolta. - Praticato l'eutanasia?
- No, - rispose Harry. - L'ho negata. Al mio peggiore nemico. Soffre di una malattia inguaribile, mortale e molto dolorosa. Viene soffocato pian piano dalla sua stessa pelle che si restringe.
- Sclerodermia, - disse Altman.
- Quando lo arrestai, cercò di spingermi a sparargli. Eravamo in cima a una torre, io e lui da soli. Lui aveva commesso un numero imprecisato di omicidi e ferito me e persone a cui voglio bene. Lesioni permanenti. Gli tenevo il revolver puntato addosso. Noi due soli. Autodifesa. Non rischiavo un cazzo a sparargli.
- Ma preferivi che soffrisse, - disse Altman. - La morte era una scorciatoia troppo facile.
- Sì.
- E adesso senti che stai facendo la stessa cosa a tuo padre, che preferisci lasciarlo soffrire invece di aiutarlo a morire.
Harry si stropicciò il collo. - Non è che ho principî tipo l'inviolabilità della vita o cavolate simili. La mia è pura e semplice debolezza. Anzi, vigliaccheria. Accidenti, Altman, non è che hai qualcosa da bere qui?
Sigurd Altman scosse la testa. Harry non sapeva se in risposta alla sua domanda o a quello che aveva detto prima. Forse tutt'e due le cose.
- Non puoi svilire i tuoi sentimenti così, Harry. Cerchi di scantonare il fatto che tu, come chiunque altro, sei guidato dai concetti di giusto e sbagliato. Forse il tuo intelletto non possiede tutte le argomentazioni per spiegare questi concetti, ma sono comunque radicati in te molto, ma molto profondamente. Giusto e sbagliato. Forse sono cose che i tuoi genitori ti hanno raccontato quando eri piccolo, una fiaba con la morale che ti ha letto la nonna, un episodio che è successo a scuola e ti è sembrato ingiusto e su cui hai riflettuto molto. La somma di tutte queste cose semidimenticate -. Altman si sporse in avanti. - «Profondamente radicate» è comunque un'espressione molto azzeccata. Perché dice che forse non riesci a vedere la radice, giù in fondo, e malgrado ciò non ti schiodi di lì, continui a vagare in tondo, è quello il posto cui appartieni. Cerca di accettarlo, Harry. Accetta la radice.
Harry abbassò gli occhi guardandosi le mani intrecciate. - I dolori che ha...
- La cosa peggiore da sopportare non è il dolore fisico, - disse Altman. - Credimi, lo vedo tutti i giorni. E nemmeno la morte. Addirittura nemmeno la paura di morire.
- E allora qual è la cosa peggiore?
- L'umiliazione. Essere privati dell'onore e della dignità. Essere spogliati, emarginati dal branco. Questa è la punizione peggiore, essere sepolti vivi. E l'unica consolazione è che si colerà a picco relativamente in fretta.
- Mhm -. Harry fissò Altman a lungo. - Non è che hai qualcosa dentro quell'armadio per rallegrare un po' l'atmosfera?
45. Interrogatorio
Mikael Bellman aveva di nuovo sognato la caduta libera. Un'arrampicata in solitario a El Corro, l'appiglio che sfugge, la parete rocciosa che sfreccia davanti agli occhi, la terra che viene incontro accelerando. La sveglia che suona all'ultimo momento. Si pulì il tuorlo d'uovo da un angolo della bocca e alzò lo sguardo su Ulla, che in piedi alle sue spalle gli riempiva la tazza con la caffettiera a pistone. Aveva imparato a cogliere il momento esatto in cui lui aveva finito di mangiare: era allora e non un secondo prima che voleva il caffè, caldo e fumante, servito nella tazza azzurra. E questo era solo uno dei motivi per cui apprezzava sua moglie. Un altro era che si manteneva abbastanza in forma da attirare gli sguardi alle feste cui erano invitati sempre più spesso. Dopo tutto Ulla era la reginetta di bellezza incontrastata di Manglerud quando si erano messi insieme, lui diciotto anni, lei diciannove. Il terzo era che senza tante storie Ulla aveva accantonato il sogno di continuare gli studi per permettergli di dare la priorità al lavoro. Ma i tre motivi più importanti erano seduti intorno al tavolo e litigavano su chi dovesse avere la figurina di plastica nella scatola dei cornflakes, e su chi si sarebbe seduto davanti quando la madre li avrebbe accompagnati a scuola. Due femmine e un maschio. Tre motivi perfetti per apprezzare quella donna e la compatibilità dei suoi geni.
- Farai tardi anche stasera? - gli domandò passandogli furtivamente una mano tra i capelli. Lui sapeva che adorava i suoi capelli.
- Forse gli interrogatori tireranno per le lunghe, - rispose. - Oggi cominciamo con il sospettato -. Sapeva che nel corso della giornata i quotidiani avrebbero reso di pubblico dominio quello che sapevano già: che il fermato era Tony Leike, ma per principio lui manteneva il segreto d'ufficio anche a casa. Linea di condotta che ogni tanto gli permetteva di giustificare gli straordinari con un «Di questo non posso parlare, cara».
- Perché non lo avete interrogato ieri? - gli domandò lei mentre metteva le fette di pane spalmate nei porta-pranzo dei bambini.
- Dovevamo raccogliere altri fatti. E finire la perquisizione della casa.
- Avete trovato qualcosa?
- Non credo di poter scendere nei dettagli, cara, - disse lui lanciandole la dispiaciuta occhiata del segreto d'ufficio. Per non rivelare che, in realtà, sua moglie aveva toccato un tasto dolente. Nel corso della perquisizione Bjørn Holm e gli altri tecnici della Scientifica non avevano trovato nulla che potesse essere direttamente collegato a qualcuno degli omicidi. Ma fortunatamente per il momento non aveva molta importanza.
- Non guasta se si ammorbidisce un po' mentre passa una notte in cella, in custodia cautelare, - disse Bellman. - Sarà più ricettivo quando cominceremo. E l'inizio di un interrogatorio è sempre la parte più importante.
- Davvero? - domandò Ulla, e lui percepì che si sforzava di sembrare interessata.
- Devo andare -. Si alzò e le diede un bacio sulla guancia. Sì, la apprezzava veramente. L'idea di rinunciare a lei e ai figli, a ciò che allo stesso tempo era il pilastro e l'infrastruttura che gli permettevano di concentrarsi sulla carriera, di avanzare nella scala sociale, era ovviamente assurda. Seguire gli impulsi del cuore, gettare tutto alle ortiche per un innamoramento o qualunque cosa fosse era un'utopia, un sogno di cui parlare o a cui pensare ad alta voce in compagnia di Kaja, ovviamente. Ma quando si trattava di sognare sul serio, allora Mikael Bellman preferiva farlo molto più in grande.
Si esaminò gli incisivi nello specchio dell'ingresso e controllò che la cravatta di seta fosse in ordine. Sicuramente avrebbe trovato la stampa radunata davanti all'ingresso della Kripos.
Per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a tenere Kaja? La sera prima gli era parsa incerta. E priva di entusiasmo quando avevano fatto l'amore. Ma sapeva anche che fino a quando avesse puntato al vertice, come aveva fatto finora, avrebbe avuto il controllo su di lei. Non che Kaja fosse un'arrampicatrice con mire precise su ciò che lui, come massimo dirigente, avrebbe potuto significare per la sua carriera. Non era una questione di cervello, ma di biologia nuda e cruda. Le donne potevano essere emancipate quanto volevano, ma quando si trattava di sottomettersi al maschio alfa erano ancora allo stadio delle scimmie. Però, se aveva cominciato lo stesso a farsi prendere dai dubbi rendendosi conto che lui non avrebbe mai rinunciato alla moglie per lei, forse era ora di darle un incoraggiamento. In fondo, aveva bisogno che lei gli passasse le informazioni riservate dell'Anticrimine ancora per un po', finché non fossero state tirate tutte le fila di quella storia, finché la battaglia non fosse finita. E la guerra vinta.
Si avvicinò alla finestra mentre si abbottonava il cappotto. La casa in cui vivevano era appartenuta ai suoi genitori ed era situata a Manglerud, non la zona migliore della città, a sentire quelli che abitavano nella parte ovest. Ma chi ci era cresciuto tendeva a rimanere, perché era un quartiere con un'anima. Ed era il suo quartiere. Con vista sul resto della città. E presto sarebbe diventato suo anche quello.
- Stanno arrivando, - annunciò l'agente. Era sulla porta di una delle nuove stanze degli interrogatori dotate di impianto di videoregistrazione allestite alla Kripos.
- Okay, - disse Bellman.
Ad alcuni di quelli che conducevano gli interrogatori piaceva far portare il sospettato nella stanza per primo e lasciarlo lì in attesa, in modo che capisse chi era a comandare, per poi fare il proprio ingresso alla grande ed esordire con estrema durezza mentre l'indiziato era al massimo della difensiva e della vulnerabilità. Bellman preferiva farsi trovare pronto all'arrivo del sospettato. Marcare il territorio, dichiarare chi era il proprietario della stanza. Poteva sempre farlo aspettare sfogliando e leggendo i documenti e poi - al momento giusto, quando ne sentiva aumentare il nervosismo - alzare lo sguardo e sparare le domande. Ma questi erano dettagli minimi della tecnica di interrogatorio. Su cui naturalmente era disposto a discutere con altri colleghi competenti. Controllò di nuovo che la spia della registrazione fosse accesa. Armeggiare con la tecnologia dopo l'arrivo del sospettato poteva rovinare completamente l'introduzione con cui si era messo in chiaro chi comandava.
Dalla finestra vide Beavis e Kolkka entrare nell'ufficio attiguo. In mezzo ai due c'era Tony Leike, che avevano prelevato dalla guardina della centrale.
Bellman respirò a fondo. Sì, le sue pulsazioni erano aumentate un pochino. Aggressività mista a nervosismo. Tony Leike aveva rifiutato la proposta di avere un avvocato accanto. In linea di principio quello era ovviamente un vantaggio per la Kripos, dava più libertà d'azione. Ma allo stesso tempo rivelava che Leike era convinto di non avere nulla da temere. Poveretto. Non sapeva che Bellman aveva le prove che aveva telefonato a Elias Skog poco prima della sua morte. Mentre Leike aveva sostenuto di non conoscerlo neanche di nome.
Bellman abbassò lo sguardo sugli incartamenti e udì Leike entrare nella stanza.
Beavis gli chiuse la porta alle spalle, come lui gli aveva ordinato di fare.
- Siediti, - disse Bellman senza alzare lo sguardo.
Udì Leike obbedire al suo ordine.
Si soffermò su un foglio a caso passandosi un indice avanti e indietro sul labbro inferiore mentre contava mentalmente, da uno in poi. Il silenzio vibrava nella piccola stanza chiusa. Uno, due, tre. Insieme ai colleghi era stato mandato a fare un corso sul nuovo metodo di interrogatorio che avevano ricevuto l'ordine di utilizzare: il cosiddetto Investigative interviewing, basato, secondo quei professoroni privi di senso della realtà, sulla franchezza, sul dialogo e sulla fiducia. Quattro, cinque, sei. Bellman aveva ascoltato in silenzio, in fondo quel modello era stato scelto ai massimi livelli: ma secondo loro, che persone interrogava la Kripos? Anime sensibili quanto condiscendenti, disposte a dirti tutto quello che volevi sapere se solo offrivi loro una spalla su cui piangere? Sostenevano che il metodo utilizzato dalla polizia fino a quel momento, il tradizionale modello americano dei nove passi dell'Fbi, era misantropico e manipolativo, che induceva persone innocenti a confessare reati che non avevano commesso, e quindi controproducente. Sette, otto, nove. Okay, ammettiamo pure che nella gabbia ci fosse un pollo influenzabile, ma cosa dire di tutti gli stronzi che sarebbero usciti di lì ridendo a crepapelle di «franchezza, dialogo e fiducia»?
Dieci.
Bellman giunse i polpastrelli e alzò lo sguardo.
- Sappiamo che hai telefonato a Elias Skog qui da Oslo, e che due giorni dopo eri a Stavanger. E che allora lo hai ucciso. Questi sono i fatti che abbiamo, ma io mi chiedo: perché? Oppure non avevi un movente, Leike?
Era il primo dei nove passi del modello di Inbau, Reid e Buckley: il confronto, il tentativo di sfruttare l'effetto choc per assestare subito il colpo da k.o., l'affermazione che si sa già tutto, che è inutile negare. Perché lo scopo era uno solo: ottenere la confessione. Per la precisione, Bellman aveva combinato il primo passo con un'altra tecnica di interrogatorio: collegare un fatto a uno o più nonfatti. In questo caso, aveva collegato il dato incontrovertibile della telefonata alla congettura che Leike fosse stato a Stavanger e fosse l'assassino. Ascoltando le prove della prima affermazione, Leike avrebbe automaticamente creduto che fossero anche in grado di dimostrare le altre due. E che si trattasse di fatti talmente semplici e inconfutabili da poter saltare direttamente alla domanda che ancora aspettava una risposta: perché?
Bellman vide Leike deglutire, lo vide sforzarsi di scoprire i denti bianchi grandi come pietre miliari in un sorriso, vide la confusione nei suoi occhi e fu sicuro di avere già vinto.
- Io non ho telefonato a nessun Elias Skog, - ribatté Leike.
Bellman sospirò. - Vuoi che ti mostri il tabulato della Telenor?
Leike fece spallucce. - Non ho fatto io quella telefonata. Qualche tempo fa ho perso un cellulare. Forse qualcuno lo ha usato per chiamare questo Skog.
- Non provare a fare il furbo, Leike. Stiamo parlando del tuo telefono fisso.
- Ripeto: io non gli ho telefonato.
- Ho sentito. Secondo l'anagrafe vivi da solo, vero?

Sì. Cioè...
Ogni tanto la tua fidanzata si ferma a dormire da te, e poi tu ti alzi e vai al lavoro mentre lei rimane nell'appartamento?
- Capita. Ma il più delle volte mi fermo io da lei.
- Ma non mi dire: la figlia dell'armatore Galtung ha un nido più figo del tuo, Leike?
- Può darsi. Più accogliente, se non altro.
Bellman incrociò le braccia e sorrise. - Comunque, se non hai telefonato tu a Skog da casa tua, deve essere stata lei. Ti concedo cinque secondi per cominciare a dirci qualcosa di sensato, Leike. Tra cinque secondi una volante in servizio per le strade di Oslo riceverà l'ordine di recarsi a sirene spiegate all'accogliente nido della tua fidanzata, di ammanettarla e di portarla qui, da dove potrà chiamare il padre per dirgli che l'hai incolpata di aver telefonato a Skog. Così Anders Galtung potrà procurare alla figlia il peggior branco di avvocati feroci della Norvegia mentre tu ti procurerai un nemico coi fiocchi. Quattro, tre.
Leike fece di nuovo spallucce. - Se pensi ti basti per ottenere un mandato di cattura per una ragazza con una fedina penale immacolata, allora prego. Ma in tal caso non penso che sarò io a procurarmi un nemico.
Bellman contemplò Leike. Lo aveva sottovalutato, dopo tutto? Adesso era più difficile da decifrare. A ogni modo, avevano finito con il primo passo. Senza arrivare a una confessione. Nessun problema, ce n'erano altri otto. Il secondo passo del modello consisteva nel solidarizzare con il sospetto normalizzando il suo gesto. Ma per poterlo fare bisognava conoscere il movente, avere qualcosa da normalizzare. Il movente di uccidere tutti gli ospiti che per caso avevano trascorso la stessa notte in un rifugio non era chiaro, a parte l'evidenza del fatto che quasi sempre il movente dei serial killer si nasconde in recessi dell'animo che la maggior parte di noi non visita mai. Perciò durante i preparativi Bellman aveva deciso di saltare a piè pari il passo della solidarietà per andare dritto a quello della motivazione: dare al sospetto una ragione per confessare.
- Quello che voglio dire, Leike, è che io non sono un nemico. Sono soltanto una persona che vuole capire perché fai quello che fai. Cosa ti spinge. Evidentemente sei un tipo in gamba e intelligente, basta guardare quello che hai realizzato negli affari. Le persone che si prefiggono delle mete e le perseguono indipendentemente da quello che potrebbero pensare gli altri mi affascinano. Le persone che si distinguono dalla massa mediocre. Oso addirittura affermare che mi riconosco proprio in questo. Forse ti capisco meglio di quanto tu non creda, Tony.
Bellman aveva incaricato un agente di telefonare a uno degli amici di Leike in
Borsa per sapere se preferiva che il suo nome di battesimo fosse pronunciato «Touni», «Toni» oppure «Tonni». La riposta era stata «Toni». Bellman combinò la pronuncia corretta con il tentativo di incrociare lo sguardo di Leike e di trattenerlo.
- Adesso, Tony, ti dirò una cosa che in realtà non dovrei rivelare. Ed è che a causa di una serie di questioni interne abbiamo pochissimo tempo da dedicare a questo caso, e perciò vorremmo una confessione. Normalmente non proporremmo un accordo a un sospetto come te contro il quale abbiamo prove così forti, ma accelererà la procedura. E in cambio di questa confessione - di cui, peraltro, non abbiamo nemmeno bisogno per farti condannare - ti propongo un consistente sconto di pena. Purtroppo la legge mi impedisce di quantificare con precisione lo sconto di pena, ma che resti tra me e te: sarà con-si-sten-te. D'accordo, Tony? È una promessa. E adesso è registrata su nastro -. Indicò la spia rossa sul tavolo in mezzo a loro.
Leike guardò Bellman a lungo, pensoso. Poi aprì bocca. - I due che sono venuti a prendermi mi hanno detto che ti chiami Bellman.
- Chiamami pure Mikael, Tony.
- Mi hanno anche detto che sei un uomo molto intelligente. Brusco, ma affidabile.
- Penso che lo avrai sperimentato in prima persona, sì.
- Hai detto consistente, vero?
- Hai la mia parola -. Bellman si sentì aumentare le pulsazioni.
- Bene, - disse Leike.
- Benissimo, - disse Mikael Bellman sfiorandosi appena il labbro inferiore con il pollice e l'indice. - Vogliamo cominciare dall'inizio?
- Volentieri, - rispose Leike cavandosi dalla tasca posteriore un foglietto che evidentemente Truls e Jussi gli avevano permesso di tenere. - Ho avuto le date e gli orari da Harry Hole, quindi penso che ci vorrà poco tempo. Allora, Borgny StemMyhre è morta a Oslo tra le ventidue e le ventitre del 16 dicembre.
- Esatto, - confermò Bellman sentendo un principio di esultanza nel cuore.
- Ho controllato nella mia agenda. A quell'ora mi trovavo a Skien, nella sala Peer Gynt della Casa di Ibsen, a illustrare il mio progetto di estrazione del coltan. Questo può essere confermato dal locatore e dai circa centoventi potenziali investitori presenti. Saprai, immagino, che ci vogliono più o meno due ore per raggiungere quella località in auto. La seconda vittima, Charlotte Lolles, è morta alle... vediamo... c'è scritto tra le ventitre e la mezzanotte del 3 gennaio. In quel momento ero a cena con un gruppo di piccoli investitori a Hamar. A due ore d'auto da Oslo. Comunque, ci sono andato in treno e ho cercato il biglietto, ma purtroppo non sono riuscito a trovarlo.
Rivolse un sorriso mortificato a Bellman, che aveva smesso di respirare. Le pietre miliari dei denti fecero capolino tra le labbra di Leike quando concluse: - Ma spero che almeno qualcuno dei dodici commensali possa essere considerato un testimone affidabile.
- Poi ha detto che forse poteva essere indagato per l'omicidio di Marit Olsen, perché anche se era a casa insieme alla fidanzata, quella sera era andato a sciare da solo per un paio d'ore sulle piste illuminate di Sørkedalen.
Mikael Bellman scosse la testa e affondò ancora di più le mani nelle tasche del cappotto mentre contemplava ha bambina malata.
- Così tardi? Alla stessa ora in cui è morta Marit Olsen? - domandò Kaja, piegando un po' la testa per guardare la bocca della bambina pallida e probabilmente in fin di vita. Si concentrava sempre su un solo particolare quando si incontravano al Museo Munch. Una volta potevano essere gli occhi, un'altra il paesaggio sullo sfondo, il sole oppure semplicemente la firma di Edvard Munch.
- Ha detto che né lui né la Galtung...
Lene, - disse Kaja.
... si ricordavano l'ora esatta, ma che poteva anche essere molto tardi, lo fa spesso perché gli piace avere le piste tutte per sé.
- Quindi, Tony Leike avrebbe potuto raggiungere il parco di Frogner. Se è stato a Sørkedalen deve essere passato per la barriera all'entrata e all'uscita. Se ha un pass elettronico nel parabrezza, l'ora viene registrata automaticamente. E allora...
Kaja si girò e si fermò bruscamente quando incrociò lo sguardo freddo di Bellman.
- ... ma naturalmente questo lo avete già controllato, - disse.
- Non ce n'è stato bisogno, - disse Mikael. - Non ha il pass elettronico, si ferma e paga in contanti a ogni barriera. E in questo caso l'auto non viene registrata.
Kaja annuì. Si avviarono verso il quadro successivo e si fermarono dietro un gruppo di giapponesi che additavano e gesticolavano chiocciando. Il vantaggio di incontrarsi al Museo Munch nei giorni feriali - oltre al fatto che era situato tra la sede della Kripos, a Bryn, e la centrale, a Grønland - era che si trattava di uno dei luoghi frequentati da turisti in cui si aveva la certezza di non imbattersi mai in colleghi, vicini di casa o conoscenti.
- Cos'ha detto Leike a proposito di Elias Skog e di Stavanger? - domandò Kaja.
Mikael scosse di nuovo la testa. - Ha detto che sicuramente poteva essere incriminato anche per quell'omicidio. Visto che quella notte aveva dormito a casa sua da solo, e quindi non aveva un alibi. Allora gli ho chiesto se fosse andato in ufficio il giorno dopo, e mi ha risposto che non ricordava bene, ma immaginava di esserci andato come al solito alle sette. E che potevo verificare con la receptionist del business center se lo ritenevo importante. L'ho fatto, e ho saputo che Leike aveva prenotato una delle sale riunioni per le nove e un quarto. E parlando con alcuni investitori dell'ufficio, ho saputo che due di loro hanno partecipato alla riunione con lui. Se è uscito dall'appartamento di Elias Skog alle tre di notte, avrebbe dovuto prendere l'aereo per fare in tempo. E il suo nome non risulta in nessuna lista passeggeri.
- Non è determinante, può aver viaggiato sotto falso nome e con un documento falso. E rimane ancora la sua telefonata a Skog. Che spiegazione ha dato?
- Non ci ha nemmeno provato, si è limitato a negare, - sbuffò Bellman. - Mi dici cosa ci trova di tanto bello la gente nella Danza della vita? Non hanno nemmeno delle facce come si deve. Se lo chiedi a me, sembrano tanti zombi.
Kaja studiò le figure che ballavano nel quadro. - Magari lo sono, - rispose.
- Degli zombi? - Bellman fece una breve risata. - Dici sul serio?
- Gente che passeggia, che balla, ma si sente morta dentro, sepolta, in putrefazione. Certo.
- Teoria interessante, Solness.
Kaja odiava quando lui la chiamava per cognome, cosa che di solito faceva quando era arrabbiato oppure riteneva opportuno rammentarle la propria superiorità intellettuale. E Kaja lo lasciava fare, visto che evidentemente era importante per lui. E forse anche per lei. Non era una delle cose che l'avevano fatta innamorare subito, la sua evidente intelligenza? Non ne era più tanto sicura.
- Devo tornare al lavoro, - disse Kaja.

A fare cosa? - domandò Mikael lanciando un'occhiata alla guardia di sicurezza che sbadigliava dietro il cordone in fondo alla sala. - A contare le graffette e aspettare che la sezione venga chiusa? Lo sai che mi hai dato un problema enorme con questo Leike?
- Io? - proruppe lei incredula.
- Datti una calmata, cara. Sei stata tu a telefonarmi per passarmi la dritta su quello che Harry aveva scoperto sul conto di Leike. A dirmi che stava per arrestarlo. Mi sono fidato di te. Mi sono fidato di te al punto di arrestare Leike sulla base delle tue informazioni, e poi ho praticamente dichiarato alla stampa che il caso era risolto. E adesso questa maledetta merda ci è esplosa in faccia. Il tipo ha un alibi a prova di bomba per almeno due degli omicidi, cara, e saremo costretti a rilasciarlo in giornata. Sicuramente il suocero Galtung sta già pensando a un'azione legale con tanto di avvocati squali, e il ministro della Giustizia vorrà sapere come abbiamo fatto a prendere un granchio simile. E la testa che in questo momento sta sul ceppo non è la tua, né quella di Hole o di Hagen, ma la mia, Solness. Te ne rendi conto? Solo la mia. E dobbiamo fare qualcosa. Tu devi fare qualcosa.
- E cosa dovrei fare?
- Non molto, solo una cosuccia piccola piccola, al resto pensiamo noi. Voglio che tu esca con Harry. Stasera.
- Che io esca? Con Harry?
- Gli piaci.
- Cosa te lo fa pensare?
- Non ti ho detto che vi ho visti mentre fumavate sul terrazzo?
Kaja impallidì. - Sei arrivato tardi, ma non mi hai detto che ci avevi visti.
- Eravate talmente presi l'una dall'altro da non accorgervi che sono arrivato in macchina, e allora ho parcheggiato e vi ho guardati. Tu gli piaci, cara. Adesso voglio che lo porti fuori, solo per un paio d'ore.
- E perché?
Mikael Bellman sorrise. - Passa troppo tempo seduto in casa. O disteso. Hagen non avrebbe dovuto dargli dei giorni di permesso, i tipi come Hole non li reggono. E noi non vogliamo che si ammazzi a furia di bere lassù a Oppsal, vero? Portalo a cena fuori. Al cinema. A bere una birra. Fa' in modo che non sia in casa tra le otto e le dieci. E sii prudente. Non so se è sveglio o solo paranoico, ma quella sera, quando è andato via da casa tua, ha guardato molto attentamente la mia macchina. D'accordo?
Kaja non rispose. Era il sorriso di Mikael che sognava a occhi aperti nei lunghi periodi in cui non lo vedeva, quando il lavoro e gli impegni familiari gli impedivano di incontrarla. Allora perché adesso quello stesso sorriso le dava quasi il voltastomaco?
- Non... non avrai in mente di...
- Ho in mente di fare quello che devo fare, - disse Mikael consultando il suo orologio da polso.
- E sarebbe?
Lui si strinse nelle spalle. - Secondo te? Scambiare la testa sul ceppo, naturalmente.
Non puoi chiedermi questo, Mikael.
Non te lo sto chiedendo, cara. Te lo ordino.
La voce di Kaja era quasi impercettibile. - E se... se ti dicessi di no?
- Allora non distruggerò soltanto Hole, ma anche te.
La luce del soffitto lambì le macchie bianche di Mikael.
«Quant'è bello, - pensò Kaja. - Qualcuno dovrebbe fargli il ritratto».
Adesso le marionette ballano a dovere. Harry Hole ha scoperto che ho telefonato a Elias Skog. Mi è simpatico. Penso che forse saremmo diventati amici, se ci fossimo conosciuti da piccoli o da ragazzi. Abbiamo un paio di cose in comune. L'intelligenza, per esempio. È l'unico degli investigatori che sembra in grado di guardare al di là del velo. Questo ovviamente significa anche che devo essere prudente con lui. Aspetto gli sviluppi pieno di emozione. Come un bambino. 
Parte quinta
46. Scarabeo rosso
Harry aprì gli occhi e fissò un grosso scarabeo rosso e rettangolare che gli veniva incontro fra le due bottiglie, facendo le fusa come un gatto. Si interruppe, poi ricominciò a fare le fusa e avanzò di altri cinque centimetri sul piano di vetro del tavolino, tracciando una piccola scia nella cenere. Harry allungò la mano, lo afferrò e se lo portò all'orecchio. - Smettila di telefonarmi, Øystein, - si udì ordinare, con una voce da schiacciasassi.
- Harry...
- Con chi accidenti parlo?
- Sono Kaja. Che fai?
Harry guardò il display per accertarsi che la voce dicesse la verità. - Mi riposo -. Si accorse che lo stomaco si preparava a liberarsi del proprio contenuto. Di nuovo.
- E dove?
- Sul divano. Se non è importante, adesso riattacco.
- Vuoi dire che sei a casa a Oppsal?
- Ehm. Aspetta che guardo. La carta da parati corrisponde, se non altro. Senti, adesso devo scappare.
Harry lanciò il cellulare all'altro capo del divano, si alzò a fatica, si piegò in modo da avere il baricentro avanti, poi barcollò verso la cucina usando la testa come antenna direzionale e ariete. Ci arrivò senza collisioni degne di nota e riuscì a poggiare le mani ai lati del lavello prima di vomitare.
Quando riaprì gli occhi vide che il cesto delle stoviglie era ancora nel lavello. Il vomito, acquoso e giallo-verde, colava giù per un piatto solitario messo di taglio. Harry aprì il rubinetto. Uno dei vantaggi di essere un alcolizzato che ha ripreso a bere, è che il secondo giorno il vomito non intasa più lo scarico.
Harry bevve un po' d'acqua direttamente dal rubinetto. Non molta. Un altro vantaggio dell'alcolista esperto è sapere cosa tollera il suo stomaco.
Tornò in soggiorno, camminando a gambe larghe quasi se la fosse fatta sotto. Cosa che tra l'altro non aveva ancora controllato. Si sdraiò e udì un sommesso gracchio all'altro capo del divano. La vocina di una persona minuscola gridava il suo nome. Si frugò in mezzo ai piedi e si portò di nuovo il cellulare rosso all'orecchio.
- Che c'è?
Si domandò cosa fare della bile che gli bruciava in gola neanche fosse lava, se sputarla o inghiottirla. Oppure lasciarla bruciare, come si meritava.
Ascoltò Kaja dirgli che lo voleva vedere. Gli andava se si trovavano al ristorante Ekeberg? Subito, magari. Oppure tra un'ora.

Harry guardò le bottiglie di Jim Beam vuote sul tavolino e poi l'orologio. Le sette. Lo spaccio statale di alcolici era chiuso. Il bar del ristorante.
- Subito, - rispose.
Chiuse la comunicazione, e il telefono squillò di nuovo. Harry guardò il display e pigiò il tasto di risposta. - Ciao, Øystein.
- Adesso rispondi! Accidentaccio, Harry, non mi devi far prendere questi spaventi, cominciavo a chiedermi se fossi soffocato nel tuo vomito. Come Jimi Hendrix.
- Mi puoi accompagnare al ristorante Ekeberg?
- Per chi mi hai preso, per un maledetto tassista?
Diciotto minuti dopo Øystein fermò l'auto davanti alle scale della casa di Harry, si sporse dal finestrino abbassato e gridò ridendo: - Hai bisogno di aiuto per chiudere a chiave quella porta, spugna che non sei altro?
- A cena? - gli domandò poi, mentre percorrevano Nordstrand. - Per scopare o perché avete scopato?
- Rilassati. Lavoriamo insieme.
- Appunto. Come diceva la mia ex moglie: «Si desidera ciò che si vede tutti i giorni». Doveva averlo letto in qualche rivista. Solo che non alludeva a me, ma a quel topo di fogna di merda dell'ufficio accanto al suo.
- Guarda che non sei stato sposato, Øystein.
- Avrei potuto. Il tipo andava in giro in cardigan tradizionale e cravatta, e parlava neonorvegese. Non dialetto, ma il neonorvegese di Ivar Aasen del cazzo, non sto scherzando. Te lo immagini che effetto fa startene a letto da solo e pensare che in quel preciso momento la tua quasi moglie si sta facendo trombare su una scrivania? Ti vedi un cardigan fatto ai ferri con un culo di contadino nudo e bianco sotto che ci dà dentro, finché non si ferma come risucchiando le chiappe e il tipo mugola in neonorvegese: «Eg kjem! Sono venuto!».
Øystein lanciò un'occhiata all'amico, ma non ci fu alcuna reazione.
- Accidenti, Harry, il mio è umorismo coi controfiocchi. Sei ubriaco fino a questo punto?
Kaja era seduta al tavolo vicino alla finestra e guardava la città giù in basso, sprofondata nei suoi pensieri, quando un leggero colpo di tosse la fece voltare. Era il maître. Con lo sguardo da c'è-scritto-nel-menu-però-in-cucina-dicono-che-non-cel'abbiamo, si chinò al massimo verso di lei, ma parlò a voce talmente bassa che lei lo udì a malapena.
- Mi rincresce doverle annunciare che la sua compagnia è arrivata -. Poi arrossì e si corresse: - Volevo dire, mi rincresce, ma non abbiamo potuto farlo entrare. È un po'... su di giri, temo. E la nostra linea in caso di...
- Non c'è problema, - disse Kaja alzandosi. - Dov'è?
- È fuori che aspetta. Temo che entrando abbia preso un drink al bar, e che se lo sia portato fuori. Forse lei potrebbe aiutarci a riportare dentro quel drink. Sa, rischiamo che ci ritirino la licenza per la somministrazione di alcolici con un fatto del genere.
- Va bene, avrei solo bisogno del mio cappotto, per favore, - disse Kaja e attraversò il ristorante a grandi falcate con il maître che le saltellava dietro a passetti nervosi.
Appena fu uscita scorse Harry. Barcollava vicino al muretto davanti alla scarpata, dove si erano fermati l'ultima volta.
Kaja lo raggiunse. Sul muretto c'era un bicchiere vuoto.
- Secondo me è destino che non dobbiamo mangiare in questo ristorante, - disse lei. - Proposte alternative?
Harry si strinse nelle spalle e bevve un sorso da una fiaschetta. - Il bar del Savoy. Se non hai troppa fame.
Kaja si strinse nel cappotto. - In effetti no. Che ne dici di una visita guidata dei dintorni, visto che questa è la zona in cui sei cresciuto e io ho la macchina? Potresti mostrarmi i bunker dove andavate sempre.
- È un posto freddo e brutto, - disse Harry. - Puzza di piscio e di cenere bagnata.
- Potremmo fumare, - propose lei. - E guardare il panorama. Hai un'idea migliore?
Nel fiordo, una nave da crociera illuminata come un albero di Natale scivolava adagio e in silenzio nel buio, in direzione della città. Erano seduti sul cemento umido in cima a un bunker, ma né Harry né Kaja sentivano il freddo che penetrava nei loro corpi. Kaja bevve un piccolo sorso dalla fiaschetta che Harry le aveva teso.
- Vino rosso in fiaschetta, - disse lei.
- È tutto quello che era rimasto nel mobile bar di papà. Comunque, era solo una provvista di riserva. Allora: attore preferito?
- Tocca a te cominciare, - ribatté lei e bevve un sorso più grosso.
- Robert De Niro.
Kaja fece una smorfia. - Terapia e pallottole? Mi presenti i tuoi?
- Gli ho giurato eterna fedeltà dopo Taxi Driver e Il cacciatore. Però sì, mi è costato. E il tuo?
- John Malkovich.
- Mhm. Bene. Perché?
Kaja rifletté. - Credo per via di quella malvagità raffinata. Non che mi piaccia, come caratteristica, ma adoro il modo in cui la tira fuori.
- E poi ha la bocca da donna.
- È una qualità?
- Sì. Tutti i migliori attori hanno la bocca da donna. E/o la voce esile, da donna anche quella. Kevin Spacey, Philip Seymour Hoffman -. Harry tirò fuori le sigarette e ne offrì una a Kaja.
- Solo se me l'accendi, - rispose lei. - Non sono esattamente dei tipi ipermascolini.
- Mickey Rourke. Voce da donna. Bocca da donna. James Woods. Boccuccia tirabaci come una rosa oscena.
- Ma niente voce acuta.
- Voce lamentosa. Da pecora. Animale femmina.
Kaja rise e prese la sigaretta accesa. - Ma dài. Il tipico macho nei film ha una voce profonda, roca. Prendi Bruce Willis.
- Già, prendi Bruce Willis. Roca, sì. Ma profonda? Non direi -. Harry strizzò gli occhi e bisbigliò in falsetto verso la città: «A giudicare da qui come direttore fai schifo».
Kaja scoppiò a ridere a crepapelle, la sigaretta le cadde di bocca e danzò giù dal muretto, finendo nella boscaglia in un turbinio di scintille.
- Mi è venuta male?
- Malissimo, - singhiozzò lei. - Accidenti, per di più mi hai fatto dimenticare l'attore macho con la voce da donna che volevo dire io.
Harry si strinse nelle spalle. - Ti tornerà in mente.
- Anche io e Even avevamo un posto come questo, - disse Kaja accettando un'altra sigaretta. La tenne tra il pollice e l'indice come se fosse un chiodo che doveva conficcare. - Un posto tutto nostro che credevamo nessun altro conoscesse, dove ci potevamo nascondere e raccontarci segreti.
- Hai voglia di parlarmene?
- Di cosa?
- Di tuo fratello. Di quello che è successo.
- È morto.
- Questo lo so. Pensavo che magari volessi raccontare il resto.
- E sarebbe a dire?
- Be'. Perché lo hai canonizzato, per esempio.
- L'ho fatto?
- No?
Lei lo fissò a lungo.
- Vino, - disse.
Harry le porse la fiaschetta, e Kaja bevve avidamente un sorso.
- Lasciò un biglietto, - disse. - Even era molto sensibile e molto vulnerabile. A periodi era tutto sorrisi e risate, ovunque mettesse piede sembrava che il sole inondasse ogni cosa. Se avevi problemi, l'impressione era che svanissero appena arrivava lui, come... be', sì, come rugiada al sole. E nei periodi neri era il contrario. Tutti ammutolivano intorno a lui, era come se incombesse una tragedia irrisolta e lo si potesse udire nel suo silenzio. Musica in chiave minore. Bellissima e terribile, capisci? Ma allo stesso tempo era come se una parte della luce del sole si fosse accumulata nel suo sguardo, perché gli occhi continuavano a ridere. Era sinistro.
Kaja rabbrividì.
- Era estate, una giornata di sole, di quelle che solo Even sapeva creare. Eravamo nella casa di Tjøme, ci passavamo sempre le vacanze, e io mi ero alzata ed ero andata al negozio a comprare le fragole. Quando tornai la colazione era pronta e mamma gridò a Even che era al piano di sopra di scendere. Ma lui non rispose. Pensammo che dormisse, a volte restava a letto fino a tardi. Salii per prendere qualcosa in camera mia, passando bussai con delicatezza alla sua porta e dissi: «Fragole». Mentre aspettavo una risposta aprii la porta della mia stanza. Quando entri in camera tua non ti guardi intorno, vedi solo quello che ti interessa, il comodino dove sai che c'è il libro che sei venuta a prendere, o il davanzale e la scatola con i cucchiaini da pesca. Non lo vidi subito, percepii soltanto che la luce lì dentro era strana. Perciò guardai da un lato e dapprima vidi solo i suoi piedi nudi. Conoscevo quei piedi come le mie tasche, lui mi pagava spesso una corona per fargli il solletico, gli piaceva un mondo. Il mio primo pensiero fu che stesse volando, che finalmente avesse imparato a farlo. Il mio sguardo continuò a salire: indossava il maglione celeste che gli avevo fatto io ai ferri. Si era impiccato al lampadario con una prolunga. Doveva aver aspettato di sentire che mi alzavo e uscivo, per poi entrare in camera mia. Volevo correre fuori ma non riuscivo a muovermi, era come se avessi le gambe inchiodate al pavimento. Perciò rimasi impalata a fissarlo là appeso, vicinissimo, e chiamai mamma, insomma feci tutte le cose che messe insieme diventano un urlo, ma di bocca non mi uscì il minimo suono.
Kaja abbassò la testa e scrollò la cenere dalla sigaretta. Fece un respiro tremulo.
- Di quello che accadde dopo ricordo solo qualche frammento. Mi diedero una medicina, un calmante. Quando tre giorni dopo mi ripresi, lo avevano già seppellito. Dissero che era meglio non fossi stata presente, che lo stress avrebbe potuto essere insopportabile. Subito dopo mi ammalai e passai gran parte dell'estate a letto con la febbre. Ho sempre pensato che quel funerale sia stato troppo precipitoso, come se ci fosse qualcosa di vergognoso nel modo in cui era morto, non sei d'accordo?
- Mhm. Hai detto che aveva lasciato un biglietto?
Kaja spaziò con lo sguardo sul fiordo. - Era sul mio comodino. Aveva scritto di essere perdutamente innamorato di una ragazza che non avrebbe mai potuto avere, che non voleva più vivere e chiedeva scusa per tutto il dolore che ci arrecava, e che sapeva che gli volevamo bene.
- Mhm.
- Credo di essere rimasta sbalordita. Even non mi aveva mai parlato di una ragazza, e di solito mi raccontava quasi tutto. Se non fosse stato per Roar...
- Roar?
- Sì. Quell'estate stavo con il mio primo ragazzo. Era dolcissimo e paziente, mi veniva a trovare quasi tutti i giorni quando stavo male e mi ascoltava se gli parlavo di Even.
- Di che persona incredibilmente fantastica era stato.
- Lo avevi capito?
Harry si strinse nelle spalle. - Io ho fatto la stessa cosa quando è morta mia madre. Øystein non aveva la pazienza di Roar. Mi chiese senza tante cerimonie se avessi intenzione di fondare una nuova religione.
Kaja rise sommessamente e prese una boccata dalla sigaretta. - Secondo me dopo un po' Roar si convinse che il ricordo di Even scalzava tutto e tutti, lui compreso. La nostra storia durò poco.
- Mhm. Però Even continuò a esserci.
Kaja annuì. - Dietro ogni porta che aprivo.
- È questo il motivo, vero?
Lei annuì di nuovo. - Quell'estate, quando tornai a casa dall'ospedale e feci per entrare in camera mia, non riuscii ad aprire la porta. Semplicemente non ce la facevo. Perché sapevo che se l'avessi aperta lo avrei trovato là, ancora una volta. E sarebbe stata colpa mia.
- È sempre colpa nostra, non è vero?
- Sempre.
- E nessuno riesce a convincerci che non è così, nemmeno noi stessi -. Con uno scatto delle dita Harry lanciò il mozzicone nell'oscurità. Se ne accese un'altra.
La nave giù in basso stava attraccando alla banchina.
Una raffica di vento sibilò cupa e sinistra nelle feritoie.
- Perché piangi? - le domandò Harry sottovoce.
- Perché è colpa mia, - sussurrò Kaja mentre le lacrime le rigavano le guance. - Tutto è colpa mia. Lo hai sempre saputo, non è vero?
Harry aspirò. Si tolse la sigaretta di bocca e soffiò il fumo sulla punta incandescente. - Non sempre.
- Da quando?
- Da quando ho visto la faccia di Bjørn Holm sulla porta giù in Holmenveien.
«Bjørn Holm è un bravo tecnico, ma non un De Niro. E aveva veramente l'espressione sorpresa.
- Tutto qui?
- È bastato. Da quell'espressione ho capito che non aveva la più pallida idea che fossi sulle tracce di Leike. Ergo, non lo aveva scoperto dal mio computer, e non era stato lui a dirlo a Bellman. E se la talpa non era Holm, poteva essere solo un'altra persona.
Kaja annuì e si asciugò le lacrime. - Perché non hai detto niente? Perché non hai fatto niente? Perché non mi hai tagliato la testa?
- A che scopo? Ho immaginato che avessi un buon motivo.
Lei fece cenno di no lasciando scorrere le lacrime.
- Non so che cosa ti abbia promesso, - disse Harry. - Immagino una carica importante nella nuova, onnipotente Kripos. E avevo ragione quando ho detto che il tipo di cui sei innamorata è sposato e dice che lascerà la moglie e i figli per te, però non si decide mai a farlo.
Kaja singhiozzava sommessamente, con il collo piegato, come se la testa le fosse diventata troppo pesante. Come un fiore appesantito dalla pioggia, pensò Harry.
- Quello che non capisco è perché hai voluto vedermi stasera, - continuò, fissando la sigaretta con espressione diffidente. Forse doveva cambiare marca. - In un primo momento ho pensato che magari mi volevi dire che eri tu la talpa, ma ci ho messo poco a capire che non era questo il motivo. Aspettiamo qualcuno? Deve succedere qualcosa? Insomma, sono stato messo fuori gioco, in quale altro modo posso danneggiarvi, ormai?
Kaja guardò l'ora. Tirò su col naso. - Andiamo a casa tua, Harry?
- Perché? C'è qualcuno che ci aspetta?
Kaja annuì.
Harry finì il vino.
La porta era stata forzata. Le schegge di legno sulle scale rivelavano che era stata aperta con un piede di porco. Niente finezze, niente tentativi di fare con cautela. Irruzione della polizia.
Harry si girò sulle scale e guardò Kaja che era scesa dalla macchina e indugiava a braccia conserte. Poi entrò.
Il soggiorno era al buio, l'unica luce proveniva dal mobile bar aperto. Ma bastò a permettergli di riconoscere la persona seduta nell'ombra accanto alla finestra.
- Commissario Bellman, - disse Harry. - Sei seduto nella poltrona di mio padre.
- Mi sono preso questa libertà, - rispose Bellman. - Visto che il divano aveva un odore molto particolare. Perfino il cane ha fatto il giro largo.
- Cosa posso offrirti? - Harry indicò il mobile bar con un cenno della testa e si accomodò sul divano. - O hai trovato qualcosa da te?
Vide il commissario capo scuotere la testa. - Io no. Ma il cane sì.
- Mhm. Suppongo ti sia procurato un mandato di perquisizione, ma Sono curioso di conoscere la motivazione.
- Una soffiata anonima secondo la quale avresti introdotto clandestinamente stupefacenti nel paese tramite una terza persona ignara. Stupefacenti che con tutta probabilità erano qui.
- E c'erano?
- Il cane antidroga ha trovato qualcosa, un panetto di una sostanza marroncina avvolto in carta stagnola. Non somiglia agli stupefacenti che siamo abituati a sequestrare in Norvegia, perciò al momento non sappiamo cosa sia. Ma stiamo valutando se farlo analizzare.
- Valutando?
- Potrebbe essere oppio, ma potrebbe anche essere plastilina o creta. Dipende.
- Dipende da cosa?
- Da te, Harry. E da me.
- Ah sì?
- Se accetti di farci un favore, può darsi che propenderò per l'idea che si tratti di plastilina, e non lo farò analizzare. Un dirigente deve pensare innanzitutto a come sfruttare le risorse, non sei d'accordo?
- Il dirigente sei tu. Che genere di favore?
- Hole, tu sei un uomo che non ha bisogno di tanti giri di parole, perciò te lo dico chiaro e tondo. Voglio che ti accolli il ruolo di capro espiatorio.
Harry si accorse che c'era un anello marrone in fondo a una delle bottiglie di Jim Beam sul tavolino, ma resistette alla tentazione di portarsela alla bocca.
- Abbiamo appena dovuto rilasciare Tony Leike, dal momento che ha un alibi di ferro per almeno due degli omicidi. L'unica prova a suo carico è una telefonata a una delle vittime. Siamo stati un po' aggressivi coi giornalisti. Insieme a Leike e a suo suocero potrebbero darci del filo da torcere. Dobbiamo diffondere un comunicato stampa stasera. E in quel comunicato ci sarà scritto che abbiamo proceduto all'arresto in base al mandato che tu, il controverso Harry Hole, hai estorto con l'inganno a quella povera procuratrice inesperta della centrale. Che si è trattato di un assolo tuo e soltanto tuo, e che te ne assumi tutta la responsabilità. Che la posizione della Kripos in questa storia è che abbiamo mangiato la foglia dopo l'arresto, siamo intervenuti e in un colloquio con Leike abbiamo chiarito la verità dei fatti. E lo abbiamo subito rilasciato. Devi firmare il comunicato stampa e non pronunciarti più sul caso, nemmeno una parola. Intesi?
Harry studiò di nuovo il fondo di whisky nella bottiglia. - Mhm. Un incarico difficile. Secondo te la stampa si berrà questa storia dopo averti visto esultare e prenderti l'onore dell'arresto?
- Mi sono assunto la responsabilità, ci sarà scritto nel comunicato stampa. Consideravo mio dovere di dirigente assumermi la responsabilità dell'arresto, anche se intuivamo che un poliziotto aveva commesso uno sbaglio. Ma in un secondo momento, quando Harry Hole ha insistito per farsi avanti, gliel'ho permesso vuoi perché è un commissario esperto vuoi perché non lavora nella Kripos.
- E la mia motivazione è che se non firmo sarò incriminato per contrabbando e possesso di sostanze stupefacenti?
Bellman giunse i polpastrelli e si dondolò nella poltrona.
- Esatto. Ma se questo ti può dare una motivazione ancora più forte, sono in grado di farti mettere in custodia cautelare subito. Un peccato, vero? Lo so che vorresti essere in ospedale accanto a tuo padre. Non gli resta più molto da vivere, a quanto mi hanno detto. È una cosa davvero triste.
Harry si appoggiò allo schienale del divano. Sapeva che avrebbe dovuto essere
Arrabbiato. Che il vecchio - il giovane - Harry lo sarebbe stato. Ma quello attuale, di Harry, aveva soprattutto voglia di scavarsi una tana in quel divano puzzolente di vomito e sudore, di chiudere gli occhi e sperare che se ne andassero, che sparissero: Bellman, Kaja, le ombre vicino alla finestra. Ma il suo cervello continuò a ragionare per automatismo acquisito.
- Indipendentemente da me, - si sorprese a dire, - perché Leike dovrebbe sostenere questa versione? Sa che è stata la Kripos ad arrestarlo e a interrogarlo.
Harry conosceva la risposta già prima che Bellman gliela desse.
- Perché Leike sa che una persona che è stata arrestata sarà sempre circondata da una sgradevole ombra di sospetto. Naturalmente, tanto più sgradevole per uno come lui che proprio in questo momento sta cercando di conquistarsi la fiducia degli investitori. Il modo migliore per sbarazzarsi di quell'ombra è sostenere una versione secondo cui l'arresto è dovuto a una scheggia impazzita, a un elemento inaffidabile della polizia che ha fatto tutto da solo. Sei d'accordo?
Harry annuì.
- Inoltre, per il corpo... - cominciò Bellman.
- Proteggo l'intero corpo di polizia assumendomi tutta la colpa, - disse Harry.
Bellman sorrise. - Ho sempre saputo che sei un uomo relativamente intelligente, Hole. Questo significa che siamo arrivati a un accordo?
Harry rifletté. Se Bellman se ne andava adesso, poteva verificare se c'era ancora qualche goccia di whisky in quella bottiglia. Annuì.
- Ecco il comunicato stampa. Voglio il tuo nome in fondo -. Bellman spinse un foglio e una penna sul tavolino. Era troppo buio per poterlo leggere. Non aveva alcuna importanza. Harry firmò.
- Bene, - disse Bellman, quindi prese il foglio e si alzò. La luce di un lampione fuori gli lambì il viso, facendo brillare la pittura di guerra. - È per il bene di tutti noi. Pensaci, Harry. E riposati un po'.
La premura clemente del vincitore, pensò Harry, prima di chiudere gli occhi e sentirsi accogliere dal sonno. Poi riaprì gli occhi, si alzò a fatica e seguì Bellman fuori, sulle scale. Kaja era ancora accanto alla sua auto con le braccia conserte.
Harry vide Bellman rivolgerle un cenno d'intesa a cui lei rispose con un'alzata di spalle. Lo vide attraversare la strada, montare nella stessa macchina che aveva visto in sosta in Lyder Sagens gate quella sera, lo vide mettere in moto e partire. Kaja era arrivata in fondo alle scale. Aveva ancora la voce arrochita dal pianto.
- Perché hai picchiato Bjørn Holm?
Harry si girò per rientrare, ma lei fu più veloce, fece i gradini a due a due e gli sbarrò il passo mettendosi davanti alla porta. Harry sentì il suo respiro rapido e caldo sul viso.
- Lo hai picchiato solo quando hai capito che era innocente. Perché?
- Va' via, Kaja.
- Non me ne vado!
Harry la guardò. Sapeva di non poterlo spiegare. Il grande, incredibile dolore di quando aveva capito come stavano le cose. Talmente grande da spingerlo a picchiare, a picchiare quella sbalordita, innocente faccia di luna piena, l'immagine riflessa della sua stessa ingenua credulità.
- Che cosa vuoi sapere? - le domandò e udì il metallo, percepì la collera insinuarsi nella sua voce. - Ti ho creduto veramente, Kaja. Perciò, non mi resta che congratularmi. Congratularmi per l'incarico portato felicemente a termine. Adesso, ti vuoi spostare?
Harry vide le lacrime riempirle di nuovo gli occhi. Poi Kaja si scansò, e lui entrò barcollando e si chiuse la porta alle spalle. Indugiò nell'ingresso, nel vuoto silenzioso che seguì lo schianto, la quiete improvvisa, il non essere, il piacevole nulla.
47. Paura del buio
Olav Hole batté le palpebre nel buio.
- Harry, sei tu?
- Sì.
- È notte, vero?
- Sì. È notte. - Come stai?
- Sono vivo.
- Fammi accendere la luce...
- Non ce n'è bisogno. Ti devo solo raccontare una cosa.
- Riconosco questo tono. Non so se ho voglia di ascoltarti.
- Lo leggerai comunque nei giornali domani.
- E tu hai un'altra versione che mi vuoi raccontare?
- No, voglio solo essere il primo.
- Hai bevuto, Harry?
- Vuoi sentire?
- Tuo nonno beveva. Lo adoravo. Tanto da ubriaco quanto da sobrio. Non sono molti a poter dire una cosa del genere di un padre alcolizzato. No, non voglio sentire.
- Mhm.
- E posso dire la stessa cosa a te. Ti ho adorato. Sempre. Tanto da ubriaco quanto da sobrio. E non è stato nemmeno difficile. Anche se sei sempre stato bellicoso. Eri in guerra praticamente con tutti, soprattutto con te stesso. Ma amarti è stata la cosa più facile che abbia fatto, Harry.
- Papà...
- Non c'è tempo per parlare di inezie, Harry. Non so se te l'ho detto, mi pare di sì, ma a volte pensiamo a qualcosa talmente tanto e spesso che crediamo di averla detta ad alta voce. Sono sempre stato fiero di te, Harry. Te l'ho detto abbastanza spesso?
- Io...
- Sì? - Olav Hole tese le orecchie nel buio. - Piangi, figliolo? Va bene. Sai qual è stata la cosa che mi ha inorgoglito di più? Non te l'ho mai detto, ma una volta un insegnante ci telefonò quando andavi alle medie. Ci disse che per l'ennesima volta ti eri azzuffato in cortile. Con due ragazzini che avevano un anno più di te, che stavolta era andata male, ti avevano dovuto accompagnare al pronto soccorso per farti ricucire il labbro e cavarti un dente che dondolava. Ricordi che ti decurtai la paghetta? Comunque, in seguito Øystein mi raccontò come erano andate le cose. Che li avevi assaliti perché avevano riempito lo zaino di Tresko con l'acqua della fontanella in cortile. Se non ricordo male Tresko neanche ti stava simpatico. Øystein disse che ti avevano ridotto in quello stato perché non ti eri arreso: volta dopo volta ti eri rialzato, fino a essere talmente coperto di sangue che i ragazzini più grandi si erano spaventati e se ne erano andati.
Olav Hole rise sommessamente. - Allora non mi parve il caso di dirtelo, sarebbe stato un incoraggiamento a farti coinvolgere in altre zuffe. Ma ero talmente fiero che mi sarei messo a ridere. Eri così coraggioso, Harry. Avevi paura del buio, ma lo affrontavi. E io ero il padre più orgoglioso del mondo. Te l'ho mai detto, Harry? Harry? Ci sei?
Libero. La bottiglia di champagne si è rotta contro il muro, e le bollicine sono colate sulla carta da parati come materia cerebrale in ebollizione, sopra le fotografie, sopra i ritagli, sopra la stampata di internet con la foto di Harry Hole che si assume la colpa. Libero. Libero dalla colpa, libero di mandare di nuovo il mondo all'inferno. Calpesto i vetri, li conficco nel pavimento, sento lo scricchiolio. E sono scalzo. Scivolo nel mio sangue. Rido fino a gridare. Libero. Libero!
48. Ipotesi
Il capo della squadra omicidi al distretto di polizia di Sydney South, Neil McCormack, si passò una mano nella criniera diradata mentre studiava la donna occhialuta dall'altra parte del tavolo degli interrogatori. Era venuta direttamente dalla casa editrice dove lavorava. Indossava un tailleur sobrio e sgualcito, tuttavia qualcosa nella presenza di Iska Peller lo induceva a pensare che fosse costoso, che semplicemente non fosse destinato a fare colpo sulle anime semplici come lui. Comunque, dal suo indirizzo si deduceva che non era particolarmente ricca. Bristol non era certo la zona più elegante di Sydney. Iska Peller dava l'impressione di essere una donna matura e giudiziosa. Decisamente non il tipo incline a drammatizzare, a esagerare, a volere l'attenzione per l'attenzione in sé. Inoltre erano stati loro a convocarla, e non lei a rivolgersi alla polizia di Sydney. McCormack consultò l'orologio. Nel pomeriggio doveva uscire in barca con il figlio, avevano appuntamento giù a Watson Bay, all'attracco. Perciò aveva sperato che la cosa non prendesse troppo tempo. E tutto era sembrato filare liscio fino a quell'ultima informazione.
- Signorina Peller, - disse McCormack appoggiandosi allo schienale e intrecciando le mani sopra l'imponente emisfero della sua pancetta. - Perché non me ne ha parlato prima?
La donna si strinse nelle spalle. - Perché avrei dovuto farlo? Nessuno me lo ha chiesto, e non vedo nemmeno quale rilevanza potrebbe avere nell'omicidio di Charlotte. L'ho detto adesso solo perché lei mi ha fatto una domanda precisa. Credevo vi interessasse quello che era successo nel rifugio, non un... incidente successivo. Ed è stato proprio questo. Un piccolo incidente, presto superato, presto dimenticato. Idioti come quello esistono ovunque, e individualmente non ci si può accollare il peso di dare la caccia a ogni verme della sua specie.
McCormack grugnì. Ovviamente, la donna aveva ragione. E nemmeno lui aveva voglia di approfondire la faccenda. Significava sempre tantissime difficoltà, seccature, e soprattutto un bel po' di lavoro in più quando il titolo professionale della persona in questione finiva con la parola «polizia». Guardò fuori della finestra. Il sole scintillava sull'acqua di Port Jackson e verso Manly, dove il fumo saliva ancora nonostante l'ultimo incendio del bush fosse stato spento da oltre una settimana. Il fumo si dirigeva a sud. Un bel vento caldo da nord. Perfetto per andare in barca a vela. McCormack aveva trovato simpatico Harry Hole. O Holy, «santo», come lo aveva ribattezzato. Aveva fatto un ottimo lavoro quando li aveva aiutati nell'importante caso del clown. Ma al telefono quello smisurato, biondo norvegese gli era sembrato stanco. McCormack sperava veramente che Hole non stesse per colare a picco di nuovo.
- Cominciamo dall'inizio, signorina Peller.
Mikael Bellman entrò nella sala riunioni intitolata a Odino e il chiacchiericcio si interruppe di colpo. A passo rapido si diresse verso il podio, sistemò gli appunti davanti a sé, collegò il computer a un'uscita Usb e si piantò a gambe larghe al centro della stanza. La squadra investigativa contava trentasei persone, il triplo del normale per un caso di omicidio. Avevano lavorato tutte talmente a lungo senza approdare a nulla che gli era toccato tirarle su di morale un paio di volte, ma nel complesso avevano resistito da eroi. Perciò Bellman non si era compiaciuto soltanto di se stesso, ma anche dei suoi uomini per quello che era sembrato il loro grande trionfo: l'arresto di Tony Leike.
- Avete letto i giornali di oggi, - esordì spaziando con lo sguardo sui presenti.
Aveva salvato i cocci. Due dei tre maggiori quotidiani avevano pubblicato la stessa foto in prima pagina: Tony Leike che saliva su un'auto davanti alla centrale. Il terzo riportava un'immagine di Harry Hole, una foto d'archivio scattata a un talk show televisivo in cui aveva parlato dell'Uomo di neve.
- Come potete vedere, il commissario Hole si è assunto la responsabilità. Come è giusto e logico che sia.
Udì le proprie parole rimbalzare contro i muri e tornare indietro, e incrociò gli sguardi muti e ancora assonnati dei suoi uomini. O si trattava di un'altra forma di stanchezza? In tal caso, andava combattuta. Perché a questo punto la situazione era diventata critica. Il capo della Kripos era passato per dire che il ministro aveva telefonato e fatto domande. La clessidra si stava svuotando.
- Quindi, non abbiamo più un sospettato principale, - disse. - Ma la buona notizia è che abbiamo nuove piste. E partono tutte dal rifugio Håvass, a Ustaoset.
Si avvicinò al Pc, premette un tasto, e la prima pagina della presentazione in PowerPoint che aveva preparato durante la notte si illuminò.
Mezz'ora dopo aveva passato in rassegna tutti i fatti di cui erano in possesso, completi di nomi, orari e presunti percorsi.
- La domanda è, - disse spegnendo il Pc: - con quale tipo di omicidi abbiamo a che fare? A questo punto penso che possiamo escludere l'omicidio seriale classico. Le vittime non sono state scelte a caso all'interno di un certo gruppo demografico, ma sono collegate a un luogo specifico in un momento specifico. Quindi, abbiamo motivo di pensare che ci sia anche un movente specifico, e forse per giunta può essere considerato razionale. Se è così, questo ci facilita notevolmente il compito:
trovato il movente abbiamo l'assassino.
Bellman vide annuire diversi agenti investigativi.
- Il problema è che non ci sono testimoni che possano dirci qualcosa. L'unica che ci risulta in vita, Iska Peller, era malata ed è rimasta a letto in una camera da sola per tutto il giorno e per tutta la notte. Gli altri o sono morti oppure non si sono fatti avanti. Per esempio, sappiamo che Adele Vetlesen viaggiava insieme a un tipo che aveva conosciuto da poco, ma a quanto pare nessuno della sua cerchia di conoscenze sa qualcosa di lui, perciò dobbiamo supporre che sia durata poco. Stiamo esaminando con quali uomini ha comunicato per telefono e via internet, ma ci vorrà un po' di tempo per passarli in rassegna tutti. E finché non abbiamo testimoni, dovremo crearci un punto di partenza da soli. Abbiamo bisogno di ipotesi sul movente. Qual è il movente che porta a uccidere almeno quattro persone?
- La gelosia o le voci dentro la testa, - rispose qualcuno in fondo alla sala. - Secondo l'esperienza.
- D'accordo. Chi potrebbe sentire delle voci che gli ordinano di uccidere?

Tutti quelli che hanno un'anamnesi psichiatrica, - cantilenò qualcuno con l'inflessione del Finnmark.
- E tutti quelli che non ce l'hanno, - aggiunse qualcun altro.
- Bene. Chi avrebbe potuto essere geloso?
- Il fidanzato o il coniuge di una persona che era là.
- E cioè? - domandò Bellman.
- Ma abbiamo già controllato gli alibi e i potenziali moventi dei fidanzati e mariti delle vittime, - disse un'altra voce. - È la prima cosa che facciamo. E o erano single, oppure i fidanzati o mariti sono stati scagionati.
Mikael Bellman sapeva che si limitavano a dare gas mentre le ruote continuavano a girare nello stesso solco in cui si erano impantanate da un po', ma adesso come adesso l'importante era che fossero disposti a fare proprio questo: a dare gas. Perché era sicuro che il rifugio Håvass fosse una tavola da poter infilare sotto una ruota per riuscire a sbloccarla.
- Non abbiamo scagionato tutti i fidanzati e mariti, - disse oscillando sui talloni. - Solo chi non ci è sembrato sospetto. Chi è che non ha un alibi per l'ora in cui è stata uccisa la moglie?
- Rasmus Olsen!
- Esatto. E quando sono andato in Parlamento a parlare con lui, ha ammesso che qualche mese fa c'era stata «una piccola scenata di gelosia». E che Marit Olsen era andata un paio di giorni allo Håvass per riflettere. Forse non si è limitata a riflettere. Forse si è vendicata. Ed eccovi un'informazione. La notte in cui le vittime erano al rifugio, Rasmus Olsen non si trovava a Oslo, perché era registrato in un albergo di Ustaoset. Che ci faceva Rasmus in quella zona se la moglie era al rifugio Håvass? E ha trascorso la notte in albergo oppure si è avventurato in una lunga escursione con gli sci?
Gli sguardi che aveva davanti non erano più pesanti e stanchi, al contrario, ed era lui che li stava illuminando. Aspettò qualche risposta. Normalmente una squadra investigativa così grande non era l'ideale per quel genere di gioco a quiz improvvisato, ma i presenti lavoravano insieme al caso da talmente tanto tempo che si erano tutti visti smontare approcci, dritte arcisicure, ipotesi fantasiose ed ego.
Uno dei giovani fece un tentativo: - Può darsi che sia arrivato senza preavviso al rifugio in serata e l'abbia colta in flagrante. E dopo se ne sia andato alla chetichella. Per preparare il piano con calma.
- Forse, - disse Bellman tornando al podio e alzando un appunto. - Argomentazione numero uno a favore di questa teoria: ho appena ricevuto questo dalla Telenor. Dimostra che quella mattina Rasmus Olsen ha parlato una volta con la moglie. Quindi, supponiamo che sapesse a quale rifugio era diretta. La seconda argomentazione a favore dell'ipotesi è questo rapporto meteorologico, da cui si evince che per tutta la sera e tutta la notte c'è stato il chiaro di luna e il cielo era sereno, perciò Olsen può benissimo aver raggiunto il rifugio con gli sci, come ha fatto Tony Leike. La prima argomentazione contro questa ipotesi: perché uccidere altre persone oltre alla moglie e al suo eventuale partner?
Forse ne aveva più di uno, - gridò una donna, una tipa bassa e pettoruta. Bellman immaginava fosse lesbica, tanto che aveva accarezzato l'idea di invitarla a casa di Kaja una sera. Ovviamente, la sua era stata solo un'idea.
- Magari lassù hanno fatto una cazzo di orgia.
Ci fu uno scroscio di risate. Bene, l'atmosfera si era già allentata.
- Forse non ha visto con chi stava facendo sesso la moglie, nemmeno se era una donna o un uomo, ha capito soltanto che c'era qualcuno sotto le lenzuola, - disse un altro.
- E allora si è parato su tutti i fronti.
Altre risate.
- Piantatela, non abbiamo tempo per queste scemenze, - gridò Eskildsen, uno dei vecchi, che nessuno sapeva esattamente da quanto tempo lavorasse come investigatore. Nella sala calò il silenzio. - Qualcuno dei pivellini ricorda il caso che risolsero giù all'Anticrimine qualche anno fa, quando tutti erano convinti che un serial killer si aggirasse per Oslo? - continuò Eskildsen. - Quando trovarono l'assassino scoprirono che aveva soltanto un movente per uccidere il numero tre della serie di cadaveri. Ma siccome sapeva che avrebbero sospettato di lui se si fosse limitato a uccidere quella donna, aveva ucciso le altre per farla sembrare una folle serie di omicidi.
- Porca miseria, - gridò il giovane. - Non mi dire che l'Anticrimine è riuscita a risolvere un caso? Dev'essere stato un colpo accidentale.
Il ragazzo si guardò intorno con una risatina e pian piano arrossí poiché la reazione si faceva attendere. Infatti, tutti i colleghi con una certa esperienza ricordavano il caso. Quell'indagine veniva portata a esempio nelle scuole di polizia di tutto il nord Europa. Era leggendaria. Tanto quanto l'uomo che l'aveva risolta.
- Harry Hole.
- Sono Neil McCormack, Holy. Come stai? E dove sei?
McCormack ebbe la netta impressione che Harry gli avesse risposto «in coma», ma dedusse che doveva aver pronunciato il nome di una località norvegese.
- Ho parlato con Iska Peller. Come mi avevi anticipato non mi ha saputo dire molto su quella notte, ma in compenso, riguardo alla sera successiva...
- Sì?
- Il poliziotto rurale è andato a prendere lei e la sua amica Charlotte e le ha sistemate a casa sua. E mentre la signorina Peller cercava di smaltire l'influenza dormendo, il poliziotto e l'amica si sono fatti un bicchiere in soggiorno, dopo di che, a quanto pare, l'agente ha cercato di sedurre Charlotte in maniera molto determinata, fisica. In maniera talmente fisica che lei ha gridato aiuto, la signorina Peller si è svegliata, si è alzata ed è andata in soggiorno dove il poliziotto era già riuscito a calare i pantaloni da sci dell'amica fino alle ginocchia. Poi lui ha lasciato perdere e la signorina Peller e l'amica hanno deciso di andare a prendere il treno e scendere in un albergo di una località che temo di non...
- Geilo.
- Grazie.
- Hai detto «cercato di sedurre», Neil, ma volevi dire tentato di stuprare?
No. Ho dovuto fare diversi tentativi con la signorina Peller prima di arrivare a una formulazione precisa. Mi ha detto che secondo le parole dell'amica il poliziotto le aveva tirato giù i pantaloni contro la sua volontà, ma senza toccarla nelle parti intime.
- Ma...
- Probabilmente possiamo presumere che ne avesse l'intenzione, però non lo sappiamo. Il punto è che non era ancora successo niente di perseguibile. La signorina Peller mi ha dato ragione in proposito, e infatti non si sono nemmeno prese la briga di denunciare l'episodio, limitandosi a partire. Il poliziotto ha addirittura chiesto a un tipo strambo del villaggio di accompagnarli tutti e tre alla stazione e le ha aiutate a salire sul treno. A detta della signorina Peller il poliziotto dava l'impressione che l'accaduto non gli facesse né caldo né freddo, gli premeva di più riuscire a farsi dare il numero di telefono dell'amica che scusarsi. Come se si fosse trattato di un normalissimo episodio della serie uomo-incontra-donna.
- Mhm. Altro?
- No, Harry. A parte il fatto che l'abbiamo messa sotto protezione come suggerivi. Ventiquattr'ore su ventiquattro, consegna a domicilio di cibo e generi di prima necessità. L'unica cosa che può fare è gustarsi il sole. Ammesso che il sole splenda su Bristol.
- Ti ringrazio, Neil. Se dovesse...
- ...saltar fuori qualcosa, ti chiamo. E viceversa.
- Naturalmente. Mi raccomando.
«A me lo dici», pensò McCormack, poi riagganciò e guardò il cielo azzurro del pomeriggio fuori della finestra. Le giornate si erano un po' allungate adesso che era estate, faceva ancora in tempo a uscire in barca per un'ora e mezzo prima che calasse il buio.
Harry si alzò e si infilò sotto la doccia. Rimase immobile lasciandosi inondare dall'acqua bollente per venti minuti. Poi uscì, si asciugò la pelle indolenzita e arrossata e si vestì. Sul cellulare vide che aveva ricevuto diciotto telefonate mentre dormiva. Quindi erano riusciti a procurarsi il suo numero. Capí che lo avevano cercato tre dei maggiori quotidiani e due dei canali televisivi più importanti poiché avevano tutti un numero di centralino composto da zeri e numeri pari. Le ultime cifre erano più arbitrarie e portavano sicuramente a giornalisti assetati di commenti. Ma soffermò lo sguardo su un numero in particolare, senza saperne il motivo. Forse perché nel suo cervello c'era qualche byte che si divertiva a memorizzare i numeri. O perché le prime cifre gli dicevano che la telefonata proveniva da Stavanger. Sfogliò l'elenco delle chiamate e trovò il numero di due giorni prima. Colbjørnsen.
Harry lo richiamò e premette il telefonino contro la guancia con la spalla mentre si allacciava gli anfibi appurando che era ora di comprarne un paio nuovo. Il rinforzo di ferro che gli permetteva di calpestare chiodi senza problemi sporgeva dalla suola.
- Porca miseria, Harry. Ti hanno proprio linciato oggi sui giornali. Un vero massacro. Che ne dice il tuo capo?
Colbjørnsen sembrava afflitto dal doposbronza. O solo afflitto.
- Non lo so, - rispose Harry. - Non ci ho parlato.
L'Anticrimine ne esce praticamente indenne, la colpa viene data esclusivamente e personalmente a te. È stato il tuo capo a importi di sacrificarti per tutti?
- No.
La domanda arrivò dopo un silenzio piuttosto lungo. - Non... non è stato Bellman, vero?
- Che vuoi, Colbjørnsen?
- Ah, accidenti, Harry. Ho condotto un'indagine in solitario un tantino illegale, proprio come te. Per cui prima devo sapere se siamo ancora nella stessa squadra oppure no.
- Io non ho una squadra, Colbjørnsen.
- Bene, mi confermi che fai ancora parte della mia. La squadra dei perdenti.
- Stavo per uscire.
- Okay. Ho fatto un'altra chiacchierata con Stine Ølberg, la tipa che interessava tanto a Elias Skog.
- Sì?
- È saltato fuori che Elias Skog le ha raccontato più particolari su ciò che è successo nel rifugio quella notte di quanti non me ne avesse riferiti durante il primo interrogatorio.
- Comincio a credere nei secondi interrogatori, - disse Harry.
- Eh?
- Niente. Sentiamo.
49. «Bombay Garden»
Il Bombay Garden era uno di quei locali che apparentemente non hanno una ragion d'essere, ma al contrario dei concorrenti più trendy continuano a resistere, anno dopo anno. La sua posizione al centro della zona est di Oslo era pessima, situato com'era in una strada secondaria tra un vecchio deposito di legname e una fabbrica in disuso trasformata in teatro indipendente. La licenza per la somministrazione di alcolici era stata ritirata e restituita a singhiozzo a causa di innumerevoli infrazioni, e lo stesso era capitato con l'autorizzazione a servire cibo. Una volta l'ufficio d'igiene aveva trovato nella cucina un roditore di cui non era riuscito a determinare la specie, tranne il fatto che aveva una certa parentela con il Rattus norvegicus. Nel box riservato ai commenti del suo rapporto, l'ispettore che aveva fatto il sopralluogo si era sbizzarrito, definendo la cucina una «scena del crimine» dove sicuramente erano stati commessi i delitti più efferati. Le slot machine allineate lungo le pareti rendevano piuttosto bene, ma venivano scassinate spesso. E non era nemmeno vero che i proprietari vietnamiti usassero il locale per riciclare i proventi del traffico di droga come sospettava qualcuno. Il motivo per cui il Bombay Garden riusciva a tenere la testa fuori dell'acqua era da ricercare più in fondo al locale, dietro due porte chiuse a chiave. Là c'era un cosiddetto circolo privato, e per potervi accedere bisognava fare una domanda di iscrizione. Nella pratica questo significava firmare un modulo dal

vietnamita al bancone del bar e pagare cento corone di quota annuale. Dopo di che ti accompagnava dentro e richiudeva la porta a chiave alle tue spalle.
Ti ritrovavi in una stanza piena di fumo - la legge che lo vieta non vige nei circoli privati - davanti a un ippodromo ovale in miniatura di quattro metri per due. La pista vera e propria era rivestita di feltro verde e suddivisa in sette corsie, dove altrettanti cavalli di metallo avanzavano a scatti su rotaie. La velocità di ciascuno era determinata sempre e comunque da un computer che ronzava e rombava sotto il tavolo, ed era - insegnava l'esperienza - assolutamente casuale e giusta. Ovvero, il programma dava ad alcuni cavalli più probabilità di una velocità maggiore, cosa che si rifletteva nelle quote e quindi anche negli eventuali premi. Tutt'intorno alla pista si raccoglievano i soci, vecchie conoscenze alcuni, nuovi arrivati altri, su comode sedie girevoli di pelle mentre fumavano, bevevano la birra del locale a prezzo scontato e incitavano il cavallo o la combinazione su cui avevano scommesso.
Dal momento che il circolo operava in una zona grigia della legge sul gioco d'azzardo, il regolamento imponeva che quando erano presenti dodici o più soci, la puntata massima di ciascuno non poteva superare le cento corone. Se erano presenti meno di dodici soci, lo statuto decretava che si trattava di un gruppo circoscritto di amici che utilizzava i locali del circolo per incontrarsi, e che in una piccola riunione privata non si poteva impedire a persone adulte di fare scommesse private, dunque l'entità delle puntate riguardava esclusivamente gli interessati. Fatto strano, per questo motivo capitava molto spesso che ci fossero esattamente undici persone nel locale più riposto del Bombay Garden. Per inciso, cosa c'entrasse il giardino nessuno lo sapeva.
Alle 14.10 l'uomo che si era iscritto per ultimo al circolo, per la precisione quaranta secondi prima, fu introdotto nella stanza, dove constatò che le uniche persone presenti a parte lui erano un socio accomodato su una sedia girevole e voltato di spalle e un uomo di probabili origini vietnamite che evidentemente gestiva le corse e le puntate. Per lo meno indossava un gilè simile a quelli usati dai croupier.
La schiena sulla sedia girevole era ampia e riempiva la camicia di flanella.
Riccioli neri ricadevano sul colletto.
- Stai vincendo, Krongli? - domandò Harry sedendosi vicino al poliziotto rurale.
La testa ricciuta dell'agente si girò. - Harry! - gridò, sinceramente contento nella voce e in viso. - Come hai fatto a trovarmi?
- Perché pensi che ti stia cercando? Magari sono un cliente fisso.
Krongli rise e guardò i cavalli che avanzavano sulla dirittura ciascuno con un fantino di latta in groppa. - No. Vengo qua ogni volta che capito a Oslo e non ti ho mai visto.
- Okay. Qualcuno mi ha detto che probabilmente ti avrei trovato qui.
- Accidenti, mi sono fatto una brutta fama? Anche se è legale, forse frequentare questo posto non si addice a un poliziotto.
- A proposito di legalità, - disse Harry facendo segno di no al croupier che con espressione interrogativa gli aveva indicato la spina della birra. - Volevo parlarti proprio di questo.
- Parla pure, - disse Krongli fissando concentrato la pista: il cavallo azzurro nell'ultima corsia era in testa ma si accingeva ad affrontare una lunga curva esterna.
- Iska Peller, l'australiana che sei andato a prendere al rifugio Håvass, ha detto che hai importunato la sua amica. Charlotte Lolles.
Harry non scorse alcun accenno di cambiamento nell'espressione concentrata dell'altro. Aspettò. Infine Krongli alzò lo sguardo.
- Devo dire qualcosa in proposito?
- Solo se vuoi, - rispose Harry.
- Ne deduco che tu lo vuoi. «Importunato» non è il termine giusto. Abbiamo flirtato un po'. Ci siamo baciati. Io volevo andare più in là. Lei non era d'accordo. Ho usato un po' di persuasione costruttiva, come una donna si aspetta da un uomo, in fondo rientra nel gioco delle parti tra i sessi. Ma niente di più.
- Secondo Iska Peller, non è quello che le ha detto Charlotte Lolles. Credi che menta?
- No.
- No?
- Ma non mi stupisce che Charlotte abbia voluto dare all'amica una versione leggermente diversa. Sai, le ragazze cattoliche vogliono apparire un po' più virtuose di quello che sono.
- Hanno deciso di pernottare a Geilo anziché da te. Con tutto che Peller era malata.
- È stata quell'australiana a insistere perché andassero via. Non posso sapere cosa sia successo tra loro due, spesso le amicizie tra ragazze sono faccende complicate. Scommetto per inciso che quella Peller non ha un fidanzato -. Alzò il bicchiere di birra mezzo vuoto davanti a sé. - Dove vuoi andare a parare, Harry?
- È un po' strano che tu non abbia accennato a Kaja Solness di aver conosciuto Charlotte Lolles quando lei è stata su a Ustaoset.
- Ed è un po' strano che tu ancora ti occupi di questo caso. Credevo fosse della Kripos, soprattutto dopo le prime pagine dei giornali di oggi -. Krongli si concentrò di nuovo sui cavalli. Usciti dalla curva quello in terza corsia conduceva per una lunghezza di latta.
- Già, - disse Harry. - Ma i casi di violenza carnale rientrano ancora nella giurisdizione dell'Anticrimine.
- Violenza carnale? Non sei ancora sobrio, Harry?
- Mah -. Harry tirò fuori il pacchetto di sigarette dalla tasca dei pantaloni. - Lo sono più di quanto spero fossi tu, Krongli -. Si infilò una sigaretta storta tra le labbra. - Tutte le volte che hai massacrato di botte e violentato la tua ex su a Ustaoset.
Krongli si girò verso Harry e rovesciò il bicchiere con il gomito. La birra penetrò nel feltro verde, e la macchia umida si allargò come la Wehrmacht su una cartina dell'Europa.
- Vengo direttamente dalla scuola dove lavora, - continuò Harry accendendosi la sigaretta. - È stata lei a dirmi che probabilmente ti avrei trovato qui. Mi ha detto anche che quando lasciò te e Ustaoset, più che un trasloco la sua fu una fuga. Che tu...
Harry non riuscì a completare il discorso. Krongli fu rapido, girò la sedia con il piede e gli saltò addosso da dietro senza dargli il tempo di reagire. Harry sentì la stretta intorno alla mano, intuì cosa lo aspettava, lo intuì perché era una presa in cui si esercitavano fin dal primo anno della scuola: la mezza elson. Eppure reagì con un secondo di ritardo, con la lentezza di quarantott'ore di bevute e quarant'anni di imbranataggine. Krongli gli torse il braccio e il polso all'indietro, costringendolo a piegarsi in avanti e a poggiare la tempia sul feltro. Dal lato della mandibola rotta. Harry gridò per il male, e per un attimo perse completamente i sensi. Poi, tornò il dolore, fece un tentativo furioso di divincolarsi. Harry era forte, lo era sempre stato, ma si rese subito conto di non avere alcuna chance con Krongli. Il respiro del robusto poliziotto rurale era caldo e umido sul suo viso.
- Non avresti dovuto farlo, Harry. Non avresti dovuto parlare con quella puttana. È capace di dire di tutto. Di fare di tutto. Ti ha fatto vedere la fica? L'ha fatto, Harry?
Quando Krongli aumentò la pressione Harry sentì uno scricchiolio dentro la testa. Mentre un cavallo giallo e uno verde gli cozzavano contro la fronte e il naso, sollevò e riabbassò il piede destro. Con forza. Udì Krongli strillare, si divincolò dalla stretta, si girò e colpì. Non con il pugno, si era rotto abbastanza nocche con quella cretinata, ma con il gomito. Colpì Krongli nel punto in cui l'esperienza gli aveva insegnato che l'effetto era più forte, leggermente di lato invece che in mezzo al mento. Krongli vacillò all'indietro, cadde su una sedia girevole bassa e finì in terra con i piedi per aria. Harry notò che la stoffa della Converse destra di Krongli aveva uno squarcio sanguinolento, dopo essersi scontrata con il rinforzo in ferro della suola di un anfibio che era decisamente ora di buttare. Notò anche, curiosamente, di avere ancora la sigaretta tra le labbra. E - con la coda dell'occhio - che il cavallo rosso della prima corsia stava per aggiudicarsi la corsa.
Si chinò, afferrò Krongli per la collottola, lo tirò su e lo scaraventò sulla sedia. Prese una gran boccata dalla sigaretta e si sentì bruciare e scaldare i polmoni.
- Concordo sul fatto che la mia ipotesi di violenza carnale è alquanto fiacca, - disse. - Se non altro perché né Charlotte Lolles né tua moglie ti hanno denunciato. Perciò, come investigatore devo cercare altre prove, giusto? Ed è a questo punto che torna in ballo il rifugio Håvass.
- Ma di che diavolo parli? - dalla voce Krongli sembrava essersi buscato un raffreddore acuto e fortissimo.
- Di quella ragazza di Stavanger con cui Elias Skog si confidò la stessa sera in cui fu ucciso. Erano seduti in autobus, ed Elias le raccontò che quella notte al rifugio Håvass aveva assistito a una scena che, ripensandoci in seguito, avrebbe potuto essere uno stupro.
- Elias?
- Sì, Elias. Evidentemente aveva il sonno leggero. In piena notte era stato svegliato da alcuni rumori che venivano da fuori e aveva guardato dalla finestra della camera da letto. C'era il chiaro di luna, e aveva visto due persone nell'ombra sotto la gronda del gabinetto esterno. La donna era girata verso di lui mentre l'uomo le stava alle spalle, quindi Elias non lo aveva visto in faccia. Però aveva avuto la netta impressione che stessero scopando: la donna sembrava fare la danza del ventre mentre l'uomo le copriva la bocca con una mano, evidentemente per impedirle di svegliare qualcuno. E quando l'uomo l'aveva trascinata dentro il gabinetto, Elias - un po' deluso di non poter assistere al finale del live show - era tornato a dormire. Solo quando aveva letto degli omicidi aveva cominciato a considerare l'episodio sotto un'altra luce. Che forse quella donna si contorceva nel tentativo di divincolarsi. Che la mano davanti alla sua bocca serviva a soffocare le invocazioni d'aiuto -. Harry prese un'altra boccata. - Eri tu, Krongli? Eri là?
Krongli si strofinò il mento.
- Alibi? - domandò Harry con tono lieve.
- Ero a casa, dormivo da solo. Elias Skog ha detto chi era la donna?
- No. E come ho già detto, non vide l'uomo.
- Non ero io. E tu vivi pericolosamente, Hole.
- Devo prenderlo come una minaccia o un complimento? Krongli non rispose. Ma gli ridevano gli occhi, gialli e freddi.
Harry spense la sigaretta e si alzò. - A proposito, la tua ex non mi ha fatto vedere niente. Abbiamo parlato nella sala insegnanti. Qualcosa mi dice che ha paura di stare in una stanza da sola con un uomo. Quindi un risultato l'hai ottenuto, eh, Krongli?
- Ricordati di guardarti le spalle, Hole.
Harry si girò. Il croupier non dava segni di essere stato turbato dall'episodio e aveva già sistemato i cavalli per un'altra corsa.corsa.E
- Vuoi puntare? - domandò con un sorriso in un norvegese stentato.
Harry scosse la testa. - Spiacente, non ho niente da puntare.
- Tanto più da vincere, - disse il croupier. Uscendo Harry assimilò quella risposta e concluse che o si era trattato di un equivoco linguistico oppure che la sua logica aveva dei grossi limiti. O magari era soltanto l'ennesimo brutto proverbio asiatico.
50. La corruzione