mercoledì 8 aprile 2020


FUOCO AMICO
Abraham B. Yehoshua 

Fuoco amico 
Alla famiglia, con amore 
La seconda candela 
— Ecco, — dice Yaari abbracciando forte la moglie, — qui dobbiamo salutarci, —  e con una stretta al cuore le consegna il passaporto controllando che non manchi nulla di tutto quello che vi ha infilato dentro: la carta d'imbarco per il volo successivo, il biglietto di ritorno per Israele, il modulo dell'assicurazione medica e due compresse per l'ipertensione. — Ti ho messo le cose più importanti in un unico posto. Dovrai preoccuparti solo del passaporto — . Ancora una volta l'ammonisce di non cedere alla tentazione di uscire dall'aeroporto durante la sosta prolungata tra i voli. — Stavolta sei sola, non dimenticarlo, io non sono con te e il nostro «ambasciatore» non è più ambasciatore di niente, così se ti cacci nei guai... 
— Perché dovrei cacciarmi nei guai? — risponde lei, punta sul vivo. — Se non ricordo male dal nostro viaggio precedente, la città è vicina all'aeroporto, e avrò sei ore di attesa prima del volo successivo. 
— Innanzitutto la città non è vicina, e poi cos'altro dovresti fare laggiù? Ci siamo già stati tre anni fa e abbiamo visto tutto quello che valeva la pena di vedere. No, per favore, non mettermi in ansia prima di salutarmi. Sono già un po' di notti che non dormi bene e il viaggio è lungo, ti stancherai. Perché non vai in quel bar carino dove siamo stati l'ultima volta, metti i piedi su una sedia perché non ti si gonfino le caviglie, e lasci passare beatamente il tempo? Ti ho appena comprato un romanzo nuovo... 
— Un bar carino? Ma che dici? È un posto squallido. Perché dovrei rinchiudermi lì per sei ore? Perché tu stia con l'animo in pace? 
— È l'Africa, Daniela, non l'Europa. E non c'è niente di scontato e di sicuro laggiù. 
E se vai in città potresti facilmente smarrire la strada, o la nozione del tempo. 
— Ma io ricordo strade vuote... poco traffico... 
— Appunto, poco traffico e nessuna puntualità. Per cui potresti perdere l'aereo senza nemmeno accorgertene, e a quel punto cosa faremo con te lì, a metà strada? Ti supplico, evitami altre preoccupazioni... Già così questo viaggio mi angoscia, mi fa paura. 
— Oh, adesso esageri... 
— Solo perché il mio amore per te è esagerato... 
— Un giorno o l'altro dovremo decidere se è amore o desiderio di dominio... 
— Il dominio dell'amore... — conclude Yaari con un sorriso malinconico sintetizzando il nocciolo della sua esistenza, poi abbraccia la moglie. Fra tre anni lei ne compirà sessanta e dalla morte della sorella maggiore, avvenuta più di un anno prima, soffre di una leggera forma di ipertensione, è più distratta e svagata. Però continua ad affascinarlo e a intenerirlo come all'inizio del loro rapporto. Il giorno prima, in vista del viaggio, si è tinta i capelli di una tonalità ambrata e quell'acconciatura dai capelli corti, che la ringiovanisce, lo rende orgoglioso. 
Marito e moglie sono davanti all'ingresso del controllo passaporti. Dal centro della cupola di vetro del terminal, già illuminata dai raggi rossi dell'alba, penzola una hanukkiah gigantesca e la fiamma della sua prima candela tremola come se fosse vera. 
— Allora alla fine ce l'hai fatta a sfuggirmi... — si rammenta lui. — Non abbiamo fatto l'amore e così non ho potuto rilassarmi prima della tua partenza... 
— Shh... shh... — Daniela si mette un dito sulle labbra e sorride sgomenta ai passanti. — Fa' attenzione... ti sentono... e poi faresti meglio a essere sincero... neppure tu hai fatto grandi sforzi nell'ultima settimana... 
— Non è vero, — protesta lui con amarezza a difesa della propria virilità. — Io ne avevo voglia e ho fatto del mio meglio, ma cosa posso fare contro di te? Assumiti le tue responsabilità. Quindi adesso non farmi stare ancora peggio: giurami che non uscirai dall'aeroporto. Dopotutto, cosa sono per te sei ore di riposo? 
Nei begli occhi della viaggiatrice si accende un leggero sorriso. Quel curioso accostamento tra il loro mancato rapporto sessuale e lo scalo di Nairobi la sorprende. 
— Va bene, — dice esitante, — vedremo... farò uno sforzo... Però smettila di cercarti preoccupazioni inutili. Se non mi hai perso in trentasette anni di matrimonio, non mi perderai neanche questa volta, e la prossima settimana ci rifaremo di tutto... Cosa credi, che io non mi senta frustrata quanto te? Che non provi desiderio?... Desiderio vero...? 
E ancor prima che lui abbia il tempo di reagire stringe forte il marito, gli stampa un bacio sulla fronte e sparisce dietro la porta di vetro. Soltanto per sette giorni, è vero, ma siccome da anni non va all'estero senza di lui, Yaari non solo è preoccupato ma anche stupito che sia riuscita a realizzare questo suo desiderio. Erano stati insieme in Africa per una visita ai parenti tre anni prima, e lui conosce la maggior parte dell'itinerario che attende Daniela quel giorno, ma prima che lei arrivi dal cognato, a Morogoro, a notte fonda e dopo due voli, dovrà stare sola per ore, distratta e svagata com'è negli ultimi tempi. 
Fuori è ancora buio. I raggi rossastri dell'alba che illuminavano la cupola di vetro sopra la fiamma virtuale della candela di Hanukkah a quanto pare non erano che una suggestione luminosa del nuovo terminal. Vede una sciarpa dimenticata sul sedile posteriore e una prima fitta di nostalgia gli punge il cuore. È vero, in assenza della moglie potrà godere di maggior libertà, sarà padrone del suo tempo, ma quella frase inattesa, a proposito di un «desiderio vero», torna a colpire la sua frustrazione. 
Nonostante l'ora mattutina sa che non ha senso tornare a casa. Non si infilerà nel letto grande e vuoto e non si concederà un po' di riposo. Si lascerà tentare dal lavare i piatti sporchi destinati alla colf, e si cercherà occupazioni inutili. Per un istante considera se anticipare la visita al padre, ma sa che i badanti filippini si seccano se si presenta durante la toilette mattutina. Oltrepassa quindi rapidamente la sua casa d'infanzia e si dirige a sud, verso lo studio di progettazione ereditato dal padre. 
Le cime degli alberi mosse dal vento gli fanno tornare in mente il reclamo arrivato sulla sua scrivania qualche giorno prima. Allora cambia rotta, sterza verso ovest, in direzione del lungomare, e del grattacielo Pinsker, da poco ultimato. Giunto sul posto invia col telecomando il segnale al cancello di ferro del parcheggio e sparisce lentamente sottoterra. 
La costruzione del grattacielo di trenta piani si è conclusa alla fine dell'estate ma evidentemente la vendita degli appartamenti procede a rilento se così presto la mattina non si vedono molte macchine nella penombra dell'ampio parcheggio. La scarsità di inquilini non ha però impedito loro di organizzarsi per protestare contro i difetti di costruzione dell'edificio ai quali, col sopraggiungere in inverno dei temporali, si è aggiunto un nuovo reclamo: sibili, rimbombi e insopportabili ululati nei vani degli ascensori progettati dallo studio di Yaari e installati sotto la sua supervisione. 
Basta infatti spingere la pesante porta antincendio tra il parcheggio e l'atrio degli ascensori perché Yaari sia investito da sibili e ululati terribili, nemmeno fosse capitato sulla pista di decollo di un aeroporto. Una settimana prima aveva mandato uno dei suoi ingegneri a verificare il fenomeno, ma quello era tornato solo con nuovi interrogativi. L'aria proveniva dal parcheggio? O dal tetto? Quei sibili molesti erano dovuti a un errato calcolo del rapporto tra le dimensioni delle cabine e la loro capacità di carico, oppure si era aperta una crepa nella parete tra il pannello posteriore degli ascensori e la tromba delle scale e il vento, dall'esterno, si infiltrava da lì? O magari la crepa si era formata nei muri di uno degli appartamenti rimasti invenduti e l'aria, seguendo un percorso tortuoso, si insinuava nei vani degli ascensori. Un paio di giorni prima la ditta produttrice delle cabine aveva acconsentito a mandare un tecnico, una donna esperta nell’'individuare problemi di acustica e la loro relativa causa, ma proprio quel giorno l'inverno aveva battuto in ritirata, aveva ripiegato i suoi venti, e il silenzio che regnava nell'edificio non aveva permesso alla signora dall'udito fine di farsi un'idea del problema. 
— I bambini hanno paura a prendere l'ascensore quando c'è vento, — si era lamentato il giorno prima, col ritorno del cattivo tempo, il rappresentante dell'associazione condomini al quale l'impresa di costruzione del grattacielo aveva rivelato il numero di cellulare di Yaari, esortandolo a rivolgersi direttamente a lui. —  I più piccoli scoppiano a piangere quando entrano. — A piangere? — Yaari era rimasto perplesso pensando ai suoi due nipotini. — Addirittura? — Comunque non aveva preso alla leggera il reclamo, e non aveva intenzione di sottrarsi alle proprie responsabilità. Ci teneva al suo buon nome e a quello dei suoi dipendenti, e quindi aveva promesso al tizio che se il cattivo tempo fosse continuato, sarebbe venuto a controllare di persona. 
Ed ecco che ancor prima dell'alba mantiene la promessa. Immobile, in silenzio e teso all'ascolto davanti alle porte dei quattro ascensori fermi a diversi piani del grattacielo, presta orecchio con tutta la saggezza della sua esperienza all'impetuoso ululato del vento. Alla fine chiama un ascensore e quello più vicino gli spalanca le porte. Lui non entra, lo spedisce al piano superiore e dopo che è partito torna a premere il pulsante di chiamata per verificare se arriverà una cabina lontana o se si ripresenterà quella che ha già completato la corsa. 
La pulsantiera è ben programmata. L'ascensore lontano rimane fermo mentre quello vicino fa ritorno. Questo significa risparmio di energia e nessun movimento inutile tra i piani. 
Yaari entra nell'ascensore e con la chiave di emergenza isola la cabina dal controllo del quadro di manovra centrale, la piega al suo volere. In questo modo può governarne la corsa fra un piano e l'altro per cercare di scoprire da dove si insinua il vento. Si china verso la parete posteriore, si appoggia contro la propria immagine riflessa nello specchio, e mentre l'ascensore sale lentamente, ascolta l'ululato del vento al di là della parete d'acciaio. Il ruggito che si udiva sottoterra si smorza in un brontolio soffocato che a certi piani diventa un gemito triste. Non c'è dubbio: nel vano di corsa, che dovrebbe essere completamente isolato dall'esterno, si aggirano venti non invitati. Si è forse aperta una crepa anche nella parete delle cabine? In questo caso lui ne sarebbe deluso. Contrariamente al parere dei suoi ingegneri, infatti, che avrebbero preferito cabine prodotte in Finlandia, o in Cina - in fin dei conti persino più economiche -, aveva optato per cabine di fabbricazione israeliana. 
Ma prima di essere costretto a dare disposizione ai tecnici di mettere fuori uso gli ascensori per ispezionare il vano di corsa e scoprire il motivo dell'ululare del vento, occorre riportare al grattacielo, oltre alla donna-tecnico dall'orecchio sensibile nell'individuare questo tipo di problemi, anche qualcuno con idee fresche, innovative. Yaari pensa subito al figlio, entrato in azienda tre anni prima e che ha dato prova di ottime capacità riscuotendo non solo l'apprezzamento suo ma anche degli altri dipendenti. 
Raggiunge l'ultimo piano e prima di uscire dall'ascensore disattiva il controllo manuale e lo riporta a quello automatico. Lassù, al trentesimo piano, regna il silenzio. A giudicare dalla plastica che avvolge la porta d'ingresso del lussuoso attico, l'appartamento non ha ancora trovato un acquirente. Yaari apre il locale macchine e con sua sorpresa non sente alcun sibilo, o lamento, solo il fruscio preciso e gradevole delle funi di fabbricazione europea che cominciano a risvegliarsi con l'uscita dei primi inquilini dall'edificio. Passa tra i grossi macchinari, ed esce sul minuscolo balcone alla cui costruzione l'architetto si era opposto ma sul quale lui aveva insistito per permettere ai tecnici della manutenzione di respirare una boccata d'aria fresca in caso di incendio, o della presenza di fumo nel locale macchine. Una nube torbida e scomposta avvolge Tel Aviv. Il grattacielo Pinsker sorge in una zona urbana tranquilla, dalle costruzioni basse, e non solo domina un vasto panorama ma mantiene un dialogo di tutto rispetto con i grattacieli della Borsa, e della City di Tel Aviv, che si stagliano a sudest nel loro grigiore. 
Il colore giallastro che ora tinge l'orizzonte non è un'altra suggestione luminosa, e l'aereo di linea che transita in silenzio è altrettanto reale. No, Yaari scuote l'orologio, non è ancora quello di sua moglie. Se non ci saranno ritardi l'apparecchio decollerà solo fra dieci minuti, e non ha senso aspettarla in quel freddo gelido senza la minima certezza di riconoscerlo. 
Ma l'amore per la moglie lo tiene inchiodato al balconcino. Il suo viaggio è cominciato e non c'è modo di fermarla. Però potrà sempre tenerla d'occhio da lontano. In teoria avrebbe potuto unirsi a lei e non l'ha fatto, non solo a causa della grande mole di lavoro in ufficio, ma anche perché, conoscendola a fondo, aveva capito che questa volta la sua presenza le avrebbe impedito di realizzare il desiderio di ricordare la morte della sorella, e di rievocare malinconicamente, con l'aiuto del cognato vedovo, i ricordi d'infanzia dai quali lui era escluso. Sapeva che se anche fosse rimasto in silenzio e non si fosse intromesso nella conversazione, Daniela avrebbe avuto la sensazione che lui non attribuisse sufficiente importanza a particolari piccoli e lontani. Ma proprio particolari di quel tipo lei si aspettava dal cognato, che conosceva fin dall'infanzia, da quando lui aveva cominciato a frequentare casa loro dopo il servizio militare, primo e ultimo corteggiatore della sorella. 
Yaari si appoggia alla ringhiera di ferro con tutto il corpo. In quanto progettista di ascensori veterano ed esperto, non soffre di vertigini alla vista del baratro che gli si spalanca sotto. Si domanda soltanto dove siano spariti i venti che ora dovrebbero accarezzargli il viso. 
All'uscita del duty free Daniela rimane sbigottita nel sentire il suo nome chiamato all'altoparlante perché si affretti all'imbarco, e si rende conto con apprensione che questa volta non c'è nessuno a vigilare per lei sul tempo. In fondo voleva solo comprare un rossetto che le aveva chiesto la colf, e quando non l'ha trovato al banco dei cosmetici, mentre già si stava avviando verso l'uscita un'anziana commessa, accortasi della delusione di quella gentile cliente, sua coetanea, non l'ha lasciata in pace finché non l'ha convinta ad acquistare un rossetto del colore e della qualità analoghi a quello richiesto, per quanto di una marca diversa. 
Daniela è consapevole di provare una particolare simpatia per le donne anziane da quando è morta la sorella, come se in loro potesse ritrovare un riflesso della figura amata. E le signore, d'altro canto, contraccambiano volentieri la sorridente attenzione di quella interlocutrice un po' titubante, che appare perseguitata da un inspiegabile senso di colpa e suscita in loro tenerezza. Così lei si ritrova immersa in prolungate conversazioni con colleghe insegnanti, con donne incontrate per caso nei caffè, in coda dal medico, dal parrucchiere e, naturalmente, anche nei negozi, come succede ora con quell'anziana impiegata che, mossa da simpatia per lei, comincia a raccontarle di sé, incoraggiandola al tempo stesso a comprare, con un cospicuo sconto, una rinomata crema per rigenerare la pelle del viso. 
Ma le tracce del tempo sul volto di Daniela non sono probabilmente scomparse se un giovane steward che è corso a cercarla la riconosce come la passeggera mancante, e la cattura. Senza dire una parola, nemmeno per chiederle il nome, le strappa la carta d'imbarco e insiste per accompagnarla personalmente fino all'ingresso dell'aereo, forse timoroso che possa sfuggirgli lungo la passerella telescopica. — Non si preoccupi, — la rassicura stringendo le spalle della donna che potrebbe essere sua madre, — l'importante è che si sia imbarcata — . Poi l'affida a una hostess come se fosse una bambina confusa e quella le prende di mano il trolley, lo fa sparire in una cappelliera e la conduce al suo posto. 
— Ormai ero sicuro che non sarebbe arrivata... — dice in tono di intimità il giovane seduto accanto al finestrino, nel posto destinato a Daniela, indeciso se alzarsi e lasciar libero il sedile mentre la hostess lo fissa silenziosa. 
Daniela arrossisce, ma non gliela dà vinta. Di solito lei sonnecchia, o legge, durante il volo, non guarda molto il cielo, o la terra. Però ci tiene a stare vicino al finestrino, e a maggior ragione ora che il marito non le è accanto. E quando il portellone del velivolo si chiude, i motori cominciano a ronzare e il viaggio diventa una realtà irreversibile, sulla sua fronte compare una ruga di preoccupazione. Questo viaggio era proprio necessario? Le servirà a qualcosa? Suo cognato Yirmy potrà aiutarla a risvegliare il dolore affievolitosi durante l'ultimo anno? Dimostrazioni di conforto non le mancano. Amici e conoscenti di tanto in tanto le rivolgono ancora parole di riguardo per la sorella, e suo marito e i suoi famigliari fanno il possibile per tenerla di buonumore. Ma lei non vuole trovare consolazione. Al contrario, cerca parole ed episodi dimenticati, o forse fatti nuovi, che rinfocolino il dolore causato dalla morte della sorella maggiore, che si è portata via anche un pezzetto della sua infanzia. Sì, lei desidera con tutte le forze rivivere il dolore della perdita, incrinare la crosta dell'oblio che ha cominciato ad avvolgerla. Per questo non vede l'ora di trascorrere qualche giorno in compagnia dell'uomo che conosce fin da bambina, e il cui amore e la cui fedeltà per la sorella, lo sa con certezza, non sono inferiori ai suoi. 
Su richiesta della hostess, che la osserva un po' impensierita, Daniela si allaccia la cintura di sicurezza, prende il giornale che le viene offerto e chiede un favore. Se è possibile vorrebbe che le venissero consegnati, al termine del volo, quotidiani e riviste in ebraico. Laggiù infatti, nel cuore della Rift Valley, c'è un israeliano che sarà certamente felice di riceverli. 
Yaari è ancora tremante sul balconcino, ipnotizzato dall'alba che rende più ampio l'orizzonte celeste e svela nella sua luce gli aerei che decollano uno dopo l'altro dall'aeroporto, diretti a ovest, verso il mare. Con i suoi occhi indagatori ne riconosce uno che impercettibilmente, ma con decisione, vira a sud. È lei, si emoziona, come se sua moglie pilotasse personalmente il velivolo, e aguzza la vista per accompagnare quel puntino che a poco a poco sparisce all'orizzonte. Poi si calma. Sì, Daniela arriverà sana e salva, e tornerà sana e salva. Rientra dal balconcino, chiude a chiave il locale macchine e chiama l'ascensore per tornare al parcheggio. 
— Da sola? Da sola? — si era meravigliato suo cognato Yirmiyahu quando Yaari gli aveva comunicato per telefono gli orari dei voli di andata e di ritorno di sua moglie durante le vacanze di Hanukkah. — Proprio da sola? — Lo sconcerto si era fatto più acuto. — Sì, da sola — . Yaari si era affrettato a difendere la moglie. —  Perché non dovrebbe cavarsela? — Certo che se la caverà, — aveva ridacchiato Yirmy da Dar es Salaam in tono familiare e affettuoso, — e forse riuscirà persino a resistere senza di te per sette giorni. Ma la domanda è se ce la farai tu a resistere. Ti rassegnerai a separarti da lei oppure avrai un ripensamento dell'ultimo minuto e l'accompagnerai? 
In effetti suo cognato lo conosceva bene, forse meglio di quanto lui conoscesse se stesso. Fino a due settimane prima del viaggio Yaari era rimasto indeciso se permettere a Daniela di partire da sola per l'Africa per recarsi a trovare un parente molto stretto, quasi un fratello maggiore, una persona responsabile e fidata ma contro la quale, negli ultimi anni, si era accanito il destino. 
Lui, contrariamente a parenti e amici, non giudicava male l'uomo che non aveva nemmeno atteso la fine del mese di lutto per la morte di sua moglie e si era affrettato a riprendere il suo posto di delegato per lo sviluppo economico presso una piccola rappresentanza diplomatica israeliana in Tanzania dopo una sola settimana. Ma passati sei mesi dal suo ritorno in Africa orientale il ministero degli Esteri di Gerusalemme, in seguito a tagli di bilancio o per altri motivi, aveva deciso di chiudere quegli uffici e di mandare in pensione il vecchio diplomatico vedovo, a fianco del quale erano rimasti solo un addetto alla sicurezza e due dipendenti locali. È vero, più di una volta lo stesso Yirmiyahu aveva scherzato con parenti e amici su quanto quella minuscola rappresentanza fosse inutile. A volte aveva l'impressione che fosse stata creata appositamente per lui, come compenso tardivo per un vecchio dipendente del dipartimento amministrativo del ministero il cui pensionamento era stato differito dopo che suo figlio era rimasto ucciso durante il servizio militare. Aveva quindi accettato con serenità e senza offendersi la chiusura della rappresentanza. E sarebbe stato naturale che, in vista del suo definitivo rientro dall'Africa, dopo aver dato un preavviso di sfratto agli inquilini del suo appartamento a Gerusalemme, si concedesse un periodo di svago presso sua figlia e il marito che studiavano in una università degli Stati Uniti. 
Ma l'America non aveva suscitato l'interesse del neo-pensionato e la sua permanenza laggiù si era abbreviata. Senza consultarsi con nessuno, perché in ogni caso non doveva niente a nessuno, e senza alcun segno premonitore, aveva colto di sorpresa amici e parenti prolungando di altri due anni il contratto d'affitto dell'appartamento a Gerusalemme e facendo ritorno in Africa orientale. Non nella città dove aveva avuto sede la rappresentanza diplomatica ma nei dintorni di Morogoro, a duecento chilometri da lì, vicino alla Rift Valley, con la poco chiara mansione di contabile di una spedizione paleoantropologica. 
— Perché no? — si era giustificato durante una telefonata da Dar es Salaam con i cognati prima di partire per la nuova destinazione. — Che fretta ho di tornare in Israele? Chi ha bisogno di me lassù? Nemmeno voi. Io sto a Gerusalemme, e voi a Tel Aviv. Voi avete le vostre occupazioni, i figli, e adesso anche i nipoti. Io invece sono solo, senza moglie né lavoro. Voi non avete problemi economici, al contrario, pensate solo a come spendere i soldi, mentre a me è rimasta una misera pensione di funzionario statale perché il fondo di indennizzo percepito dopo l'incidente del «fuoco amico» è stato destinato fin dal primo giorno al sostentamento dei nostri eterni dottorandi. Allora ditemi voi, onestamente: perché non approfittare di un'occasione straordinaria e risparmiare qualcosa per la vecchiaia in previsione di un mio probabile crollo fisico o mentale? Non mi merito anch'io di essere accudito come il vecchio Yaari? Se non da due filippini almeno da uno, silenzioso e devoto, che spinga la mia sedia a rotelle ai giardini pubblici. Qui in Africa la vita costa davvero poco, e la spedizione scientifica mi fornisce alloggio e vitto gratuiti e mi dà un buon stipendio in cambio di un lavoro di amministrazione e contabilità per nulla impegnativo. E intanto, a Gerusalemme, i soldi dell’'affitto si accumulano ogni mese e gli inquilini apportano di loro iniziativa migliorie alla casa. Hanno sostituito a loro spese il ripiano macchiato della cucina, hanno tappato vecchie crepe e buchi alle pareti e hanno imbiancato l'appartamento. E hanno anche promesso di ripulire i libri dalla polvere e di risistemare la biblioteca in base agli argomenti. Allora che fretta ho? Israele corre forse il rischio di scomparire? A volte mi sembra che voi dimentichiate che sarete sempre più giovani di me di qualche anno e avrete tempo di visitare posti nuovi. Io invece non avrò più molte possibilità di vivere esperienze come questa in Africa. E credetemi, non ne ho ancora abbastanza. Perciò, per favore, devo forse qualcosa a qualcuno? Non sarebbe squallido e strano se un uomo come me, già prossimo alla settantina, invece di fare quello che faccio, nel primo anno di lutto, cercasse di malavoglia un legame con una nuova donna per la quale non prova attrazione soltanto perché è annoiato o non ha niente da fare? Nessuno come voi infatti sa che l'amore che provavo per mia moglie non era inferiore a quello che voi provate l'uno per l'altra. Quindi, miei cari, e soprattutto tu, Daniela, non sentitevi responsabili e non preoccupatevi. Non mi perderete. Ma se insisterete a dire che vi manco, e non riuscirete a vincere la nostalgia, fate un salto da me, anche se siete già stati qui qualche tempo fa e da allora non è cambiato niente. 
— È suo pieno diritto, — aveva sentenziato Yaari alla moglie, impensierita dall'inaspettata decisione del cognato. — Nessuno di noi invece ha il diritto di giudicarlo. 
Il passeggero accanto a Daniela, profondamente addormentato, le crolla addosso. Tutti i tentativi di rannicchiarsi sul sedile e di allontanare la testa dalla sua spalla non servono. Il giovane, che forse la notte precedente ha fatto bisboccia contando su un volo tranquillo, ora si vendica nel sonno del finestrino di cui è stato privato e, probabilmente alla ricerca di un letto, non gli importa se vi troverà anche una signora di vent'anni più anziana di lui, con due nipoti, che subito tirerà fuori le loro fotografie per consolarsi con la loro dolcezza. Daniela si rende conto della responsabilità che si è assunta nel momento in cui ha deciso di partire da sola. Suo marito, con il suo amore dirompente e protettivo, l'ha sempre viziata, intorpidendo il suo senso della realtà. Soprattutto durante i viaggi è lui a portare i documenti, a condurla lungo strade sconosciute, in situazioni mutevoli. In aereo, in treno, in macchina o in albergo lei si muove in una bolla sicura, accanto a un uomo sveglio, attento, che ha sempre con sé la valuta giusta e le informazioni necessarie. E non ha nemmeno bisogno di ringraziarlo della sua devozione e preoccupazione perché sa che la sua stessa esistenza, anche quando è profondamente addormentata, lo ricompensa pienamente di tutte le sue premure. 
Ma adesso, in questo volo verso l'Africa, non c'è nessuno a organizzare le cose per lei. La hostess che le passa accanto e nota il giovane addormentato che invade sfacciatamente il suo spazio non le propone il suo aiuto, come se il passeggero al quale prima si era rivolta perché lasciasse libero il sedile accanto al finestrino ora si fosse trasformato in un suo protetto. Non le rimane altro da fare che svegliare il giovane e pregarlo di riprendere il suo posto con ferma cortesia. Lui arretra un poco, mormora una scusa, ma probabilmente solo in sogno perché subito i suoi occhi tornano a chiudersi e la testa a ciondolare. 
Daniela piega il giornale e lo ripone nel sacchetto del duty free, accanto al rossetto e alla crema che, a detta della commessa che le aveva raccontato un po' della sua vita, dovrebbe fare meraviglie per la pelle del viso. Sfila dalla borsetta le fotografie dei suoi amatissimi nipotini e si sofferma a lungo su ognuna di esse, quasi volesse decifrare un messaggio in codice. La più grande ha cinque anni e assomiglia ogni giorno di più a Efrat, la sua bella nuora. Ma quegli occhi azzurri irradiano innocenza e stupore, non hanno lo sguardo freddo e distante della madre. Ancora di più però l'attraggono le foto del piccolo di due anni, vivace e irrequieto, sempre tenuto per mano dal padre, o dalla madre, legato al seggiolone o al passeggino. Ancora non è chiaro a chi somigli e quali fattezze assumerà il suo viso, nonostante la sua rotondità e la piega leggera delle palpebre ricordino vagamente a Daniela i lineamenti di suo figlio, e magari quelli di suo marito. Insoddisfatta, insiste per riconoscere in questo nipote, fotografia dopo fotografia, anche tratti di somiglianza con se stessa. E siccome il volo è lungo, e lei, malgrado la stanchezza, non si concederà di addormentarsi accanto al sonno scomposto e debordante del passeggero estraneo, ha tutto il tempo per scoprire ciò che intende trovare. 
L'ascensore comincia a scendere lentamente dal trentesimo piano ma già a quello sottostante si ferma e apre le porte. Una donna in tenuta sportiva, munita di auricolari, è stupita di trovare qualcuno che scende dal piano superiore a un'ora tanto mattutina. Sulle prime continua a godersi la musica, limitandosi a trafiggere con lo sguardo il compagno di viaggio, ma quando l'ascensore rallenta, prima di arrestarsi al parcheggio non si trattiene e si toglie gli auricolari. 
— Non mi dica che l'attico è stato venduto, — dice in tono seccato, come se la vendita di quell'appartamento di lusso, che probabilmente le sarebbe piaciuto comprare ma che non ha potuto permettersi, rappresenti per lei una piccola sconfitta. 
— L'attico? — sorride Yaari. — Non lo so. Io non abito qui. Sono venuto a controllare per i reclami relativi al vostro vento. 
— Il nostro vento? — La signora sembra eccitarsi. — Perché davvero non mi spiega cosa succede? Ci hanno promesso un palazzo moderno, di lusso, costruito secondo tecniche d'avanguardia, e abbiamo anche speso un sacco di soldi, ma ecco che appena arriva un accenno di inverno si scatena un'intera orchestra: la sente? 
— Come no. 
Escono nell'atrio degli ascensori, al piano del parcheggio. Il ruggito del vento si rafforza. Yaari si stringe nelle spalle e fa per avviarsi ma l'inquilina rifiuta di lasciarlo andare. — Allora lei cos'è? Un esperto di venti? 
— Non proprio: sono il responsabile della progettazione degli ascensori. 
— Allora cos'è andato storto nei suoi calcoli? 
— Nei miei calcoli? Perché i miei? Magari in quelli degli altri. Bisogna verificare. 
Yaari avverte che non è il sibilo del vento a irritare quella signora energica, ma la sua stessa presenza. Chi è lui esattamente? E perché è qui? E prima di allontanarsi alla ricerca dell'auto nella penombra del parcheggio mormora, come per caso: 
— Non si preoccupi. Troveremo la causa e ce ne occuperemo. I miei ingegneri si daranno da fare. 
Poi saluta la signora con un cenno della testa. 
Ma lei, incuriosita, non molla. Pretende di capire chi sia esattamente quell'uomo robusto e sportivo, che ha passato da poco i sessant'anni, con i capelli brizzolati e dal taglio corto, gli occhi grandi e scuri che emanano una certa sicurezza ma con un impermeabile vecchio e logoro, fuorimoda, che denota modestia. 
— I miei ingegneri? — ripete lei con un sarcasmo che probabilmente le è naturale. 
— Perché, quanti ne ha? 
— Dieci, dodici, — risponde lui sommesso, — dipende da come li si conta. 
Poi sparisce nel parcheggio buio. Dà un'occhiata all'orologio. Sua moglie non ha ancora lasciato lo spazio aereo di Israele e già delle estranee si invaghiscono di lui. 
Nonostante il marito non le sia vicino per proteggere il suo sonno in un luogo sconosciuto, le palpebre di Daniela si chiudono, l'album delle fotografie le cade ai piedi e il ronzio dei motori si disperde nell'intimità del suo essere. Una fragranza di cibo caldo le fa aprire gli occhi: il giovane del sedile accanto mangia con appetito la prima colazione. 
«Desiderio vero», aveva detto al marito con aria indifferente prima di salutarlo. Ancora non le è chiaro quale fosse la sua intenzione, cosa l'avesse spinta a dire quella frase all'ultimo momento. Voleva forse ferirlo perché non aveva insistito ad accompagnarla malgrado lei gli avesse assicurato di voler partire da sola per questo viaggio? O voleva che sentisse ancor di più la sua mancanza per tener viva una speranza in vista del suo ritorno? Amotz però aveva ragione. Era colpa sua se si sentiva frustrato. Lui aveva voglia di fare l'amore, si era sforzato. Ma a lei, nonostante volesse concedergli il piacere che le chiedeva, non era sembrato giusto che lui si rilassasse mentre lei, frenata dall'ansia per il viaggio, rimaneva insoddisfatta. Non aveva mai attribuito troppa importanza al sesso, né da giovane e nemmeno in seguito, e di certo non ora che si avviava tranquillamente verso la terza età, però sapeva che avrebbe dovuto concedersi più spesso al marito. Non sempre però era in grado di trovare le forze per non trascurare se stessa e ottenere la soddisfazione che meritava. 
Si gira verso il finestrino. Mentre dormiva le nuvole si sono sfaldate in bioccoli di ovatta leggeri e adesso la luce del giorno rivela le distese desertiche che lambiscono il golfo. È l'Africa? Della sua visita precedente, tre anni prima, Daniela ricorda il colore rosso e affascinante della terra, e gli abitanti avvolti in tuniche variopinte che la calpestavano scalzi, procedendo con un'andatura aggraziata. Quella volta il cognato li aveva alloggiati nell'ufficio della rappresentanza israeliana, accanto al suo appartamento, sfidando i regolamenti, non solo per far loro risparmiare le spese dell'albergo ma anche perché potessero stare sempre insieme, e un giorno, dalla finestra dell'ufficio, lei aveva visto sua sorella, Shuli, una mattina presto, comprare latte e formaggi da un'africana grassa con in testa un foulard da cui spuntava una penna verde. E ora si sente stringere il cuore al ricordo di quella sagoma sottile avvolta nel vecchio scialle di lana che possedeva fin da ragazza. 
Il piccolo album con le foto dei nipotini è finito ai piedi del vicino mentre lei dormiva e ora lui, senza accorgersene, lo sta calpestando. Daniela gli chiede cortesemente di sollevarlo; il giovane si scusa di non averlo notato. La hostess ritira i vassoi della colazione e le domanda se vuole la sua. Per un attimo lei rimane indecisa, e alla fine propende per non rinunciarvi. Ma dopo aver sollevato il coperchio di alluminio della pietanza principale e averne assaggiato una prima forchettata è colta da una leggera nausea, come quella che provava nei primi mesi di gravidanza, molti anni prima. Suo marito è sempre disposto a far fuori gli avanzi dei suoi pasti, si aspetta persino che lei gli lasci qualcosa, perciò anche quando lei vuole finire la sua porzione si trattiene, e gli lascia un avanzo simbolico come espressione tangibile della sua fedeltà. Ma adesso non c'è nessuno che faccia sparire il cibo che non vuole. Si accorge allora del vicino che accarezza con lo sguardo il coltello e la forchetta abbandonati. Sarebbe un gesto di eccessiva confidenza proporre a un estraneo totale un pasto già assaggiato? Se lei fosse più giovane magari quella sarebbe un'occasione per fare conoscenza. Propone al ragazzo il vassoio, con affabilità. Lui si confonde, arrossisce. Sembra un giovane di buona famiglia, non abituato a toccare il cibo altrui. — Ma perché rinunciare, signora? La colazione è ottima... 
— Allora la prenda lei. 
Daniela non gli concede tentennamenti. Tranquilla e sicura, con fermezza materna, e ancor prima che la hostess in agguato faccia sparire il vassoio nel carrello, glielo porge. 
Il ragazzo ridacchia imbarazzato, ma la fame della gioventù è più forte, e con timida attenzione pulisce con il tovagliolino la forchetta da poco uscita dalla bocca di Daniela e infilza il coltello nella frittata. Lei china la testa in segno di esortazione; non volendo però sentirsi in obbligo di intavolare una conversazione in seguito al suo gesto, raccoglie il giornale poggiato sulle gambe e si mette a sfogliarlo. 
La porta principale dello studio è aperta. Qualcuno ha anticipato Yaari. Un vecchio commercialista settantacinquenne, che aveva lavorato per anni con suo padre, sta bevendo un caffè e mangiando di gusto un croissant friabile mentre sul suo viso si riflette la luce del monitor del computer sul quale legge le ultime notizie. Andato in pensione sette anni orsono, Yaari l'aveva richiamato dodici mesi prima perché desse una mano al progetto di ampliamento dell'azienda e al suo relativo adeguamento alle nuove norme tributarie. Ma siccome l'ex pensionato non era disposto a rinunciare al sonnellino pomeridiano, a cui si era ormai abituato, arrivava presto in ufficio e se ne andava prima di mezzogiorno. Yaari non è sicuro che il suo impegno giustifichi il lauto stipendio che gli corrisponde e che va ad aggiungersi alla pensione,ma siccome l'uomo è affezionato a suo padre, e di tanto in tanto gioca a scacchi con lui e chiacchiera su quanto avviene in ufficio, gli fa comodo averlo fra i dipendenti e mantenere tramite lui un secondo canale di comunicazione con il vecchio. 
— Cosa l'ha buttata giù dal letto? — Il commercialista raccoglie le briciole del croissant e le ingoia. 
In tono di leggero orgoglio Yaari racconta che quella mattina Daniela è partita per l'Africa, per andare a trovare il cognato. 
— È andata dal console? 
— In realtà era un semplice funzionario, e adesso non è più nemmeno quello. Sei mesi dopo la morte di sua moglie hanno chiuso la rappresentanza e l'hanno mandato in pensione. Ma siccome vivere in Africa costa davvero poco, Yirmy ha deciso di fermarsi, e ora fa il contabile per una spedizione scientifica. così mette da parte qualche soldo per la vecchiaia. Al ministero degli Esteri non ci pensano nemmeno a riportare in servizio i pensionati... 
L'uomo però non raccoglie l'allusione, convinto com'è di quanto lui sia indispensabile. 
— Che tipo di scavi sono? — domanda insistente. 
Yaari non sa dargli una risposta. Quando sua moglie tornerà, di lì a una settimana, gli racconterà tutto. 
Il commercialista scruta con sospetto il suo datore di lavoro. Gli pare di rivederlo liceale, quando arrivava dopo la scuola per esercitarsi col primo computer installato in ufficio. 
— Ma voi viaggiate sempre insieme. Cos'è successo questa volta? Non ha avuto paura a lasciarla partire da sola, e per l'Africa oltretutto? 
Yaari è leggermente imbarazzato. Quel tono di intimità non gli pare si addica al tipo di rapporto che c'è tra loro. Ma siccome a quell'uomo riesce a spremere sempre qualche notizia riguardo a suo padre, non ha altra scelta che spiegare pazientemente il motivo di quella rara separazione. Daniela può approfittare delle vacanze di Hanukkah della scuola, ma per lui è difficile assentarsi una settimana dall'ufficio, proprio ora che bisogna decidere le modifiche all'edificio del ministero della Difesa. Oltretutto non è sicuro che Moran riuscirà a rinviare il servizio di riservista. E poi, e questa è la cosa più importante, sua moglie non sarà sola nemmeno un istante in Africa. Suo cognato le sarà sempre accanto e si prenderà cura di lei. 
— Quanti anni ha suo cognato? Settanta? Di più? 
— Più o meno. 
A quanto pare il padre di Yaari di tanto in tanto lo nomina con affetto e compassione. Ma il commercialista l'ha incontrato una sola volta, al matrimonio di Amotz. 
— Al mio matrimonio? — si stupisce lui. — Trentasette anni fa? C'era anche lei? 
— Perché no? — Lavorava già per l'azienda a quell'epoca, ed era stato invitato alle nozze insieme a tutti gli altri dipendenti. E di quella cerimonia ricorda l'uomo alto che aveva ballato con entusiasmo tutta la notte con le due sorelle... 
— Sì, era un uomo di un'allegria innata prima della disgrazia... — mormora Yaari. Poi si reca nel suo ufficio, le cui dimensioni si sono recentemente ridotte per il necessario ampliamento dello studio, con l'abbattimento di pareti e la sua trasformazione in un open space. Lui però non ha rinunciato a un angolo tutto suo, sia perché in passato quello è stato l'ufficio di suo padre, sia perché dalla finestra può vedere un grande albero nel cortile retrostante, fra i cui rami, negli ultimi anni, si era intrecciato un rampicante sconosciuto che in primavera si ricopriva di fiori rossi. Non sa se è troppo presto per telefonare al figlio e chiedergli, mentre si reca in ufficio, di passare dal grattacielo per ascoltare il rumore del vento. Il labile confine tra le sue prerogative di padre e quelle di datore di lavoro, un tempo chiaro tra lui e suo padre, non è ancora ben saldamente definito tra lui e Moran, e si è fatto più sfumato e impreciso dopo la nascita del secondo nipotino. Ma poiché ha l'impressione che anche suo figlio sia impensierito dalla partenza della madre per l'Africa, Yaari si permette di chiamarlo così presto, almeno per tranquillizzarlo. 
— Ciao, tesoro, — dice saggiando il terreno nell'udire la sua voce assonnata, —  spero di non averti svegliato. Volevo solo dirti che la mamma è partita e ha promesso di rimanere al terminal di Nairobi fino al prossimo volo. Per il momento possiamo stare tranquilli e sperare che la giornata passi senza problemi. 
  
In vista dell'atterraggio una hostess ha consegnato a Daniela un pacco rigonfio e pesante di giornali israeliani. — Oh, — esclama lei, — che bello che non l'abbia dimenticato, ma come mai è così voluminoso? In Israele ci sono solo tre quotidiani. 
— Non saprei, — si scusa la hostess. — Ho raccolto tutto quello che ho trovato, anche gli inserti sportivi ed economici, gli annunci di lavoro e immobiliari: non sapevo cosa sarebbe interessato al suo amico. 
— Va benissimo... grazie... troverò dove metterlo. 
A infilare per lei il pacco di giornali nel trolley e a portarglielo fino all'autobus diretto al terminal è il giovane passeggero, il suo invitato a colazione. — Ecco, —  scherza, — adesso l'ho ripagata del pasto che mi ha offerto — . Lei lo guarda con occhi ridenti. — Allora ho fatto bene a darti da mangiare, così ti sei irrobustito — . Poi il ragazzo si permette di chiederle il motivo del viaggio e Daniela gli racconta del cognato, in passato una sorta di rappresentante diplomatico. Ma prima di avere il tempo di menzionare la morte della sorella, il vero motivo della sua visita, una donna le si fa incontro emozionata dall'estremità opposta dell'autobus. — Signora professoressa, non ci posso credere. È proprio lei? 
Pare che quella donna non più giovane, robusta e coi capelli rossi, sia una vecchia alunna di Daniela che vive da molto tempo a Nairobi col marito, dirigente di una grossa impresa di costruzioni. Ma gli anni trascorsi dall'epoca del liceo non le hanno fatto dimenticare la giovane insegnante di inglese che era riuscita a inculcarle con garbo quella lingua tanto importante. — Non ci crederà, — cinguetta la vecchia alunna che non sembra molto più giovane di Daniela, — ma non ho ancora dimenticato il testo del Re Lear che lei ci ha insegnato con tanta perseveranza e pazienza. Allora, a differenza di oggi, l'inglese per noi era una lingua non facile, completamente estranea. Quando ha smesso di insegnare? — Non ho ancora smesso, — sorride stancamente Daniela, — insegno ancora, e persino nella stessa scuola. Non sono così vecchia come credi. — No, per l'amor del cielo, ci mancherebbe, — replica la donna precipitosamente, — non intendevo dire questo. Ma si sa che l'insegnamento è una professione logorante. E se lei ha ancora la forza e l'entusiasmo di insegnare Shakespeare, le faccio i miei complimenti... 
Daniela ride. No, Shakespeare non fa più parte del programma di studio: è stato sostituito da racconti di autori americani. Ma negli ultimi anni lei ha smesso di preparare i ragazzi alla maturità, insegna nelle classi inferiori. — E come mai? —  Avevo qualche problema di disciplina con i più grandi, — spiega. — Lei ha problemi di disciplina? — si stupisce l'anziana alunna. — Noi non solo le volevamo bene ma avevamo anche paura di lei. — Eppure è così, — sorride Daniela, che talvolta era consapevole del timore che suscitava nei ragazzi. — Che ci posso fare? Dopo la morte di mia sorella sono diventata un po' più lenta, meno comunicativa, e qualche ragazzo ne approfitta. 
Sul volto dell'ex alunna traspare un'espressione di dolore. — Sono sicura che è solo una situazione momentanea, — dice nel tentativo di consolare la professoressa che però non cerca consolazione, — e che lei tornerà a insegnare anche nelle quinte. —  Può darsi, — risponde Daniela trascinando il suo trolley dall'autobus al terminal, —  ma per il momento va bene così. Comunque è più facile correggere i compiti dei più piccoli, e ci impiego meno tempo. 
Notando che Daniela non si dirige verso il controllo passaporti ma procede in direzione della squallida sala transiti dove deve aspettare per almeno sei ore il prossimo volo, l'ex alunna, anche lei diventata da poco nonna, le propone di uscire dal terminal e di trascorrere il tempo a casa sua. Ha una casa grande e bella, e una camera per gli ospiti comoda e tranquilla. È vero, non è in centro, ma farà in modo che suo marito mandi un autista a riaccompagnarla in tempo per il volo successivo. 
Daniela è indecisa. Ha davvero bisogno di riposo, e la sua vecchia alunna sembra una persona efficiente e fidata. Ma la promessa fatta ad Amotz di non lasciare l'aeroporto la paralizza. Se, facendo gli scongiuri, dovesse esserci qualche intoppo, o un contrattempo, come potrebbe giustificarsi con lui per aver violato la promessa che le ha strappato all'ultimo momento? Dopo la morte della sorella lei si lascia influenzare più facilmente dalle sue ansie. 
Guarda l'ex alunna, di cui ora ricorda il temperamento volitivo. Perché non riposarsi davvero a casa sua? Che potrebbe mai succedere? Sicuramente è una donna responsabile, vive qui da parecchi anni e senza dubbio si preoccuperà di farla arrivare in tempo per il volo. Da lontano lancia uno sguardo al corridoio che conduce alla sala transiti, affollata di africani in attesa con bambini che si rincorrono fra ceste e pacchi. Aspettare sei ore in quella ressa non sarà facile. Ma ancora più difficile le sarebbe violare la promessa fatta al marito. Forse lui sa di lei cose che persino lei ignora. Una sbadataggine nuova, un nuovo senso di sconforto e di distrazione che potrebbero portarla a fare qualche sciocchezza. Il fatto di aver perso la nozione del tempo al duty free le dà da pensare. Sì, ha voluto fare questo viaggio da sola, eppure credeva che Amotz all'ultimo momento avrebbe insistito per venire con lei. Quindi, anche se la promessa fatta le pare inutile e irritante, come potrà violarla? 
— Non importa, — dice con rammarico all'ex alunna che già la sta conducendo verso il controllo passaporti. — Sei ore non sono poche ma non sarà terribile. Meglio non disturbare tuo marito. Mi troverò un angolino tranquillo, e se il romanzo che ho comprato questa mattina all'aeroporto mi piacerà, il tempo passerà in fretta. 
L'ex studentessa si congeda da lei con rammarico e Daniela si avvia verso il corridoio che conduce alla sala transiti, trascinando il trolley fra ceste e pacchi di gente in attesa, alla ricerca del bar dove tre anni prima si era fermata col marito. 
Lo trova, e nonostante sia sempre piuttosto brutto, non sembra più tanto squallido. È stato ampliato, sono stati aggiunti tavoli e sedie, e alle pareti sono ora appesi variopinti poster pubblicitari di alberghi e ristoranti della città. Daniela si chiede dove riuscirà a trovare un angolino tranquillo in cui trascorrere le lunghe ore d'attesa, ma un cameriere africano che l'ha già notata apre per lei un tavolino pieghevole. Nell'angolo, gli fa segno lei, nell'angolo per favore, devo stare qui molto tempo. 
Ora, pentita di aver rinunciato al pasto in aereo, ordina un panino e una tazza di caffè, e apre il romanzo. L'ha scelto a caso, in base al titolo e alla copertina. E dato che l'autrice è una donna, è naturale che anche il personaggio principale lo sia. Non sempre Daniela si trova a suo agio con romanzi scritti da donne. Di solito le protagoniste non amano se stesse, e quindi nemmeno per i lettori è facile identificarsi. E in mancanza di identificazione, nonostante lo stile di certo scorrevole, e la trama indubbiamente avvincente, il tempo non passerà veloce. 
Legge il lungo e denso resoconto sulla quarta di copertina. L'editor anticipa ai lettori un colpo di scena. Un segreto sulle prime solo accennato, che stravolgerà completamente la trama. Non sarà una lettura facile. Ci sarà bisogno di concentrazione, e non è semplice con questi due ragazzini africani che si fermano accanto al tavolino di Daniela per osservarla. Durante la sua precedente visita con il marito, in attesa del volo serale di ritorno in Israele, lei e Amotz si erano seduti a un tavolino poco lontano da questo. L'attesa non era stata lunga, solo un'ora e mezza, e con Amotz vicino che ascoltava ogni sua parola il tempo era trascorso veloce. Lei però ricorda la sensazione di tristezza che l'aveva assalita nonostante la gioia di tornare a casa, e la soddisfazione per la visita alla sorella e al cognato. Qualcosa le faceva presagire che la separazione da Shuli sarebbe stata lunga. Non poteva però immaginare che quasi due anni dopo lei se ne sarebbe andata dall'oggi al domani colpita da un infarto, e suo cognato avrebbe riportato in Israele non una bara ma un'urna piena di ceneri. — Che c'è? — aveva replicato lui dinanzi al muto stupore dei parenti. — In fondo nessuno di noi crede nella resurrezione dei morti, no? 
Yaari scivola con delicatezza dal ruolo di padre premuroso a quello di datore di lavoro, per scoprire se il congedo dal periodo di riservista di Moran sia definitivo. 
— Andrà tutto bene, papà, non ti preoccupare. 
— Quando avresti dovuto presentarti? 
— Ieri. 
— E ti è arrivato il congedo? È tutto a posto? 
— Non ho ricevuto un congedo ufficiale. Ho fatto semplicemente finta di nulla. 
— Ma perché non spieghi ai tuoi superiori che è una settimana critica per te al lavoro, che ci sono molte decisioni importanti da prendere... 
— Quella gente non vuole spiegazioni. Tutti gliene danno. È meglio tacere. Anche se scopriranno che non mi sono presentato, l'ufficiale del battaglione è mio amico, eravamo insieme al corso per paracadutisti. 
— Ma almeno l'hai informato che non ti presenterai? 
— No, se glielo dico sarò obbligato a presentarmi. È meglio far finta di niente. Come la volta scorsa. Non mi sono presentato e nessuno si è accorto della mia assenza. Hanno abbastanza soldati e ufficiali. 
— E sarà così anche questa volta? 
— Non ne ho dubbi. 
— Dato che dovremo presenziare ad alcune riunioni al ministero della Difesa, sono sicuro che se tu l'avessi detto ai tuoi superiori ti avrebbero lasciato andare. 
— Nessuno di loro si fa impressionare da qualche riunione al ministero della Difesa. Tutti quelli che non si presentano dopo essere stati richiamati come riservisti hanno scuse da vendere. Non ti preoccupare, andrà tutto bene. Sono qui con te. 
— È proprio perché non ero sicuro che potessi liberarti dai tuoi impegni che non ho voluto partire con la mamma. 
— Ma io pensavo che fosse lei a voler andare da sola. 
— L'una e l'altra cosa. Dove hanno destinato la vostra unità? 
— Nei territori, in Samaria, ma abbastanza vicino al confine. 
— Perché non trovi un altro pretesto? — Quale? 
— Qualcosa che abbia a che fare con l'obiezione di coscienza... di' che sei pacifista... dopotutto avevi un cugino che... 
— Piantala papà. Non voglio spacciarmi per quello che non sono. Il nostro esercito è comunque un po' lassista, senza una vera autorità centrale, e nessuno sa bene cosa fare. C'è un sacco di personale inutile ovunque. Nessuno si accorgerà che non mi sono presentato. 
— Ma questo ufficiale di cui parlavi... questo tuo amico... 
— Anche se lui se ne accorgerà, non muoverà un dito. 
— Spero che tu sappia quello che fai. Lo sai quanto ho bisogno di te nei prossimi giorni. Intanto, mentre vieni in ufficio, fa' un salto al parcheggio del grattacielo Pinsker e senti un po' quei rumori. Gli inquilini sono furiosi, e a ragione. Sono stato lì questa mattina e l'ululato può fare impazzire. Ho qualche idea su quale ne sia la causa, ma non dirò nulla finché non mi dirai quello che pensi tu. E non ti sei dimenticato l'appuntamento a mezzogiorno nel nuovo cantiere, vero? 
— No, non l'ho dimenticato. 
— E adesso dimmi di Nadi. È un po' più tranquillo nelle ultime notti? 
— Va a giorni. 
— E questa notte? 
— Come al solito. Magari prima di portarlo al nido faccio un salto con lui dal medico. Questa sera vieni ad accendere le candele coi bambini? 
— Non questa sera. Nel pomeriggio le accendo col nonno. Non lo vedo da due giorni. E poi andrò dritto a casa. Questa notte ho dormito a malapena tre ore. Ma avremo ancora un sacco di candele da accendere prima che torni la mamma. 
Dalla grande porta fluiscono nell'open space ingegneri, grafici, tecnici e impiegate. Sulle scrivanie i monitor dei computer si accendono uno dopo l'altro. Alcuni dipendenti si riscaldano le mani stringendo grosse tazze di caffè, ed entrano nell'ufficio di Yaari per chiedergli come sta, per mostrargli schizzi di progetti. Da qualche anno lui ha perso familiarità con i nuovi software di progettazione grafica ma è ancora in grado di dare idee e indicazioni e di giudicare i risultati del loro lavoro. 
Il giorno si rischiara e poi si rabbuia, una pioggia sottile cade incessante ma dietro la finestra i rami dell'albero tanto amato dal proprietario dello studio sono immobili. Se il temporale finisce, Moran si sforzerà inutilmente di riuscire a sentire l'ululato del vento. 
Il telefono squilla, la segretaria gli consegna la posta, ma Yaari col pensiero segue la moglie. Tra poco comincerà la sua lunga sosta a Nairobi e non ha dubbi che manterrà la promessa fatta e non si recherà in città, però gli dispiace che debba starsene seduta tutta sola per sei lunghe ore in un bar affollato e sgradevole. Forse farebbe meglio a cercarsi un angolino tranquillo vicino all'uscita del suo volo. Immagina di camminare con lei in aeroporto, tentando di raffigurarselo nella memoria per aiutare Daniela a trovare un angolo adatto, che non sia troppo isolato, e solitario. Spera che il carattere cordiale e il sorriso amichevole della moglie facciano breccia nel cuore di uno dei viaggiatori in attesa con lei. Uomo o donna, israeliano o europeo, o anche africano locale, basta che qualcuno tenga d'occhio i suoi movimenti e badi che non commetta sciocchezze. 
10 
Diversamente da quanto sperava il marito, Daniela non cerca un angolo tranquillo nel terminal ma è decisa a migliorare il suo posto nel grande bar. Un africano dai capelli bianchi l'ha aiutata a spostare il tavolino in un angolo ancora più appartato, e dopo che il cameriere le ha posato davanti il panino e la tazza del caffè, lei ha fatto un giro dei tavoli e ha preso altre due sedie. Su una ha poggiato il trolley e la borsa, sull'altra le gambe, perché riposino e il gonfiore alle caviglie si attenui. Apre la valigia, tende la mano verso il pacco di giornali israeliani, ma poi la ritrae e con un leggero sospiro, e senza troppe aspettative, prende il romanzo che ha comprato all'aeroporto. 
Ha così inizio, in mezzo al baccano di piatti e bicchieri, a una babele di lingue e all'aroma di caffè e di carne alla piastra, l'incontro della donna anziana, appassionata lettrice, con il personaggio letterario di una giovane sulla trentina la cui autocommiserazione spicca sin dalla prima pagina. Con un monologo lungo e febbrile la ragazza vorrebbe che il suo malessere confuso, privo di un motivo chiaro, venisse compreso. Ma per cosa dovrei provare comprensione?, si domanda irritata la viaggiatrice in transito. Con chi dovrei identificarmi se l'autrice stessa non mostra simpatia per il suo personaggio? Spinta dal rispetto che prova per la parola scritta, Daniela continua a girare una pagina dopo l'altra lanciando di quando in quando un'occhiata alle sue gambe poggiate sulla sedia, come se si trovasse sul divano di casa. All'improvviso raddrizza un piede, poi l'altro, e sorride, compiaciuta delle loro dimensioni. 
Le finestre del bar sono strette, luride, e la luce che filtra non rischiara a sufficienza le pagine del libro. Anche l'animazione e gli odori disturbano la concentrazione, eppure Daniela, adeguatasi al piccolo territorio che si è conquistata, si è rassegnata alle lunghe ore di attesa. È vero che adesso avrebbe potuto godersi la casa della sua ex alunna, e non c'è dubbio che il marito di lei l'avrebbe riaccompagnata in tempo all'aeroporto, ma avrebbe dovuto comunque prestare ascolto alla sua ospite, ringraziare, sorridere, mostrarsi gentile. Le viene facile conversare con gli altri, questo sì, e non fa neppure fatica a lasciare che si prendano cura di lei, che la vizino. Ma l'ansia per non aver mantenuto la promessa fatta ad Amotz avrebbe rovinato il piacere della visita. Quando è con lui ha la forza di sdrammatizzare e di respingere le sue preoccupazioni, ma quando è da sola quelle ansie la paralizzano, le risvegliano sensi di colpa. 
Non fa nulla, dice a se stessa. Si toglie gli occhiali, li pulisce. Il tempo passerà, non ha scelta, proprio come me. Nonostante la ressa intorno a lei, Daniela mantiene il controllo della situazione, e non è neppure lontana dal cancello d'uscita del prossimo volo. Tira fuori il passaporto per controllare la carta d'imbarco che il marito è solito conservare per lei, e dopo aver cercato di decifrare ciò che vi è stampato, la infila nella pagina a cui si è fermata, rimette in borsa il passaporto, chiude il romanzo e lo ripone in valigia. Sorride poi affabile a una coppia di giovani seduti accanto a lei, un uomo europeo e una donna africana, che giocano con un bimbo in cui si mescolano i tratti dei suoi genitori. Chiede loro di tenere d'occhio per qualche minuto le sue cose nel piccolo spazio che si è conquistata, si infila le scarpe, e col portafoglio in mano esce nel corridoio piuttosto buio, in direzione di un chiosco che ricorda dalla sua sosta precedente. Eccolo lì, variopinto e sovraccarico come allora, e il commesso, un africano anziano e nero come il carbone, le riempie un grosso sacchetto di dolciumi, di caramelle alla frutta e di varie tavolette di cioccolato. Dopo una piccola esitazione Daniela sfila da una boccia trasparente un dolcetto a forma di pappagallo seduto su un piccolo ramo e cosparso di praline colorate. L'aveva già adocchiato la volta precedente, ma allora suo marito le aveva impedito di comprarlo, sostenendo che era sporco. Carica di dolciumi torna soddisfatta al tavolino, offre le caramelle non solo al bimbo, dell'età del suo nipotino, ma anche ai genitori, riapre il romanzo alla pagina a cui è arrivata e con trepida golosità si mette a leccare il dolce che aveva disgustato suo marito. 
11 
Le ore si trascinano lente, la pioggia non cessa, e anche il vento ha ripreso a soffiare. Francisco telefona a Yaari e in un inglese garbato gli chiede consiglio. Nonostante il temporale suo padre insiste a uscire per la passeggiata mattutina. 
Di tanto in tanto Yaari si ritrova a dirimere un diverbio tra il padre e il badante filippino. Di solito prende le parti del vecchio, anche quando le sue richieste sono al limite della ragionevolezza, perché non ha ancora la benché minima prova che la malattia che negli ultimi anni gli provoca il tremito alle braccia e alle gambe, e ne limita i movimenti, mini anche la sua capacità di giudizio. Da quando si è manifestata suo padre è sprofondato nello sconforto, parla meno e più lentamente ma Amotz, che l'ha sempre rispettato, sente che il suo cervello è rimasto intatto, e nonostante la maggior parte del tempo se ne stia chiuso in casa, il suo senso della realtà non ne è stato intaccato. 
— Non c'è niente di male, — dice ora per tranquillizzare Francisco. — Vestilo bene, mettigli una sciarpa, coprilo con il plaid nero, e soprattutto non dimenticarti di mettergli un cappello. 
— Ma signor Yaari, il cappello di suo padre non c'è. 
— Allora trovane un altro. Non azzardarti a portarlo fuori senza cappello. L'ultima volta si è buscato un raffreddore. E applica alla sedia a rotelle il tettuccio speciale che gli ho preparato, e non passeggiate per la strada ma nei giardini pubblici, così se la pioggia aumenta troverete protezione sotto qualche pensilina. Non importa se si bagnerà un po'. L'odore della pioggia gli piace, lo rallegra. E anche il vento. 
— Vuole dirgli qualcosa? 
— Non adesso. Riferiscigli soltanto che verrò verso sera ad accendere le candele. 
— Di Hanukkah... 
— Complimenti, Francisco. Hai già imparato tutto. 
Col pensiero ancora fisso sulla sosta di sua moglie, Amotz rimanda al pomeriggio una riunione prevista per quella mattina ed esce a incontrare suo figlio. Ma nel constatare che la pioggia non cessa, anzi, aumenta d'intensità, fa comunque [una deviazione al giardino pubblico poco lontano dalla sua casa d'infanzia per osservare la passeggiata del padre. 
Da dietro i tergicristalli in movimento osserva il piccolo badante filippino imbacuccato che spinge lentamente la sedia a rotelle del vecchio Yaari fra gli scivoli e le altalene del giardino vuoto. Sì, ha seguito le sue istruzioni: ha avvolto ber bene il vecchio nella sciarpa, gli ha messo la coperta e gli ha piazzato in testa un berretto militare di colore rosso, di quando lui era soldato. 
Aspetta che la carrozzella termini il suo giro intorno agli scivoli e alle altalene e venga nella sua direzione. E nonostante suo padre abbia il berretto calato fin quasi sopra agli occhi, vede la sua soddisfazione per aver sfidato il vento e a pioggia. 
12 
Anche nelle pagine seguenti la scrittrice, o il personaggio immaginario creato dalla sua fantasia, non riesce a risvegliare l'interesse di Daniela. Malgrado lei legga con attenzione e senza saltare nessuna riga, ancora non ce la fa a calarsi nei panni della protagonista, nemmeno quando questa, a pagina venti, si reca dai genitori per una visita burrascosa che ha lo scopo di rafforzare la propria autocommiserazione riattizzando un vecchio astio infantile. Daniela trova artificiosa e poco credibile la descrizione della lite furibonda che scoppia tra la ragazza e i genitori. Come se la scrittrice non capisse che gli odi tra famigliari racchiudono sempre un senso di calda intimità, inesistente in quelli fra estranei. Allunga le gambe sul trolley, posato ora sul pavimento dopo che un cameriere le ha portato via una sedia per far accomodare un gruppo di turisti che hanno invaso il locale. E quando quello si presenta a esigere anche l'altra sedia, sulla quale è rimasta la borsa — forse ritenendo che in cambio di un panino e di una tazza di caffè quella signora bianca e anziana si stia trattenendo anche troppo — , lei si infila le scarpe e trascina il trolley verso il cancello di uscita del suo volo, in fondo al corridoio. 
Le porte che conducono alla pista di decollo sono chiuse con un lucchetto e nella saletta non c'è nessuno. Le tre ore che le rimangono appaiono a Daniela lunghe e scoraggianti. Per la prima volta da quando ha deciso di recarsi da suo cognato in Africa prova rancore per il marito che non ha insistito ad accompagnarla. Sa che la sua presenza sarebbe fuori luogo nel requiem che intende tenere per la sorella. Ma ora, in quella sala vuota, davanti alle porte sbarrate, sente di aver bisogno di lui. Dopo tanti anni di dipendenza, la sua presenza ha un effetto tranquillizzante su di lei. Amotz non avrebbe dovuto permetterle di partire da sola. Sì, tra poche ore suo cognato verrà a riceverla: con lei ha un rapporto fraterno, e la chiama «sorellina», ma quando gli ha telefonato ha avuto l'impressione che lui non comprendesse appieno il motivo di quella visita, ne sembrava persino spaventato. Ancora non le è chiara la sua decisione di tornare nel continente africano dopo che la sede della rappresentanza israeliana era stata chiusa. È solo per risparmiare denaro in vista della vecchiaia? E cosa ci fa esattamente laggiù? Ha già compiuto settant'anni e lei sa che sua sorella, che lo amava e si fidava di lui, sarebbe felice di sapere che qualcuno della famiglia lo tiene d'occhio. 
La fame e la stanchezza, ma soprattutto la noia, spingono Daniela a divorare un'intera tavoletta di cioccolato, che le lascia in bocca un sapore stucchevole. Era stato un errore offrire a quel giovane sconosciuto la colazione sull'aereo, neanche lui fosse suo marito. Il prossimo volo non sarà lungo e di sicuro non verrà servito un pasto vero e proprio. Farebbe perciò meglio a tornare al bar e a calmare i morsi della fame con qualcosa di caldo. Intanto potrebbe stendersi su una delle panchine che danno sulle porte. Francamente non è molto dignitoso che un'anziana signora si stenda come un barbone su una panchina dell'aeroporto, ma lei è sola, e se si accorgerà di dare fastidio a qualcuno, si alzerà. 
Però non ha nulla per rendere più confortevole quella panchina dura. Quindi riapre il romanzo. L'autrice, che non è riuscita a descrivere il disagio interiore della sua protagonista, come c'era da aspettarsi sceglie la via più facile, accelerando e rendendo più intricata la storia. Un ex agente segreto spunta in veste di amante freddo e distante, cercando di destare l'interesse dei lettori laddove l'anima arida della protagonista ha fallito. Daniela sente le palpebre farsi pesanti. Infila veloce la carta d'imbarco nella pagina alla quale è arrivata e rimette il libro in valigia prima che le cada di mano aperto nel momento in cui si abbandonerà al sonno che già l'avvolge. 
Sola, davanti alle porte sbarrate, è assalita da un'ondata di stanchezza. Malgrado le condizioni disagevoli sprofonda in un sonno ristoratore, e nemmeno i passeggeri che nel frattempo cominciano ad arrivare per un volo precedente al suo la strappano da quella pennichella consolatrice. A tratti sente frammenti di frasi pronunciate in lingue europee, e anche in strani idiomi africani, ma non apre gli occhi per scoprire se le persone intorno a lei sono bianche, nere o mulatte. Tutti hanno il diritto di starle intorno, perché tutti vogliono il suo bene. Sul volto le spunta un leggero sorriso e al marito assente si sostituiscono nel suo sonno molti mariti, completamente estranei, ma non meno premurosi di lui. 
13 
Yaari vede da lontano il figlio in attesa accanto al cancello chiuso del cantiere con indosso un corto giubbotto militare, non di pelle come quello che indossa lui, ma di stoffa, e comunque simile nel colore e nel taglio. Siccome sa che il giovane non ha portato con sé un casco di protezione, estrae dal bagagliaio dell'auto due caschi gialli, se ne mette uno e consegna l'altro a Moran. — Ecco, — lo prende in giro, — al posto di quello militare — . Aprono il cancello ed entrano in un grande cantiere, dove l'edificio in costruzione non è ancora stato ultimato. Il capomastro stringe loro la mano con cordialità e li invita a entrare in un gabbiotto giallo manovrato da un cinese triste che li porta lentamente, con un dondolio cigolante, sulle impalcature che circondano il fabbricato grigio, mentre loro, come scimmie dietro le sbarre, osservano la pioggia sottile che graffia l'orizzonte. — Non avrà freddo lassù in cima? —  domanda il capomastro a Moran. — Se mio padre non ha freddo, non ce l'ho neppure io, — risponde il giovane con un sorriso. Ma Yaari protesta: — Io sono io e tu sei tu — . A quel punto, senza preavviso, il gabbiotto si ferma con un forte scossone e i tre escono su uno spiazzo grigio, scabro, ingombro di materiali edili, e si sporgono a guardare la voragine scura del vano degli ascensori, da cui spuntano sbarre di ferro e resti di impalcature. 
Yaari si inginocchia, osserva il vano e mette in guardia il capomastro da crepe e lesioni. — Già ho un sacco di guai per un lavoro fatto male in un condominio nella zona ovest della città, e anche se io sono solo il responsabile della progettazione degli ascensori, gli inquilini, pensi un po', pretendono che mi prenda cura di ogni vento di passaggio. 
Moran estrae un metro a nastro e lo tende sul bordo del vano. — Attento, — lo richiama il padre, — non sporgerti troppo — . Un dolce ricordo, rapido come un lampo, lo riporta indietro di trent'anni, alla notte d'amore in cui quel ragazzo era stato concepito. Cos'era quel «desiderio vero» al quale Daniela aveva fatto cenno mentre lo salutava all'aeroporto? Le fantasticherie di una donna che tra pochi anni varcherà la soglia della terza età? Oppure una protesta segreta contro chi non aveva fatto nulla per soddisfare questo desiderio nei giorni precedenti il viaggio? 
Moran continua a srotolare il metro, controllando se le misure ottenute corrispondono a quelle del progetto dello studio, prima di dover affrontare la nuova richiesta per la quale sono stati convocati: aggiungere un nuovo ascensore, il quinto. Probabilmente una cabina privata destinata agli agenti segreti di grosso calibro, dei quali è proibito svelare l'identità. 
Yaari avverte il capomastro: 
— Anche se riusciremo a infilare qui un altro ascensore a spese degli altri quattro, la cabina sarà molto piccola: basterà per una sola persona, preferibilmente di corporatura snella. 
Ma al capomastro non importa la dimensione del quinto ascensore, l'importante è che funzioni come gli altri. 
Una nube sfilacciatasi nel cielo lascia filtrare un raggio di sole sulla testa rasata di Moran, per niente soddisfatto delle misurazioni. — Ci avete già rubato quattro centimetri rispetto alla larghezza che vi avevamo richiesto, — si lamenta, — e se continuerete a procedere nella costruzione del vano secondo questa angolazione, alla fine ci mancheranno quindici centimetri. Come pensate di voler mettere un altro ascensore? 
Riavvolge la fettuccia del metro con uno schiocco, se la infila in tasca e si sfrega via dalle mani la polvere del cantiere. Ma non sono i centimetri mancanti a impensierire Yaari. — Troveremo una soluzione, — dice per tranquillizzare il figlio, mentre fa segno al cinese, il cui sguardo è smarrito verso l'orizzonte marino, di aprire il gabbiotto giallo e di riportarli a terra. Osserva la città bianca che gli sta intorno ma il suo pensiero è rivolto alla viaggiatrice lontana. Sì, probabilmente Daniela sarà esausta e stufa per la lunga attesa nel terminal che le ha imposto, ma è convinto che i suoi occhi continueranno a regalare un sorriso a chiunque le si avvicini. 
14 
E in effetti, quando il breve crepuscolo equatoriale oscura le strette finestre, Daniela accoglie con un sorriso di gratitudine i nuovi viaggiatori che si raccolgono finalmente per il suo volo. Uno steward scrive col gesso su una lavagna il nome della compagnia aerea, il numero del volo e la destinazione, poi appende la lavagnetta accanto alla porta del gate. Daniela scorre con lo sguardo gli altri passeggeri — neri, bianchi e mulatti — per decidere a chi rivolgersi nel caso le capitasse qualche contrattempo, o se suo cognato dovesse tardare ad arrivare a prenderla a Morogoro. 
Va in bagno, si trucca con cura, e sorride affabile alla sua immagine riflessa nello specchio sudicio. Non appena chiamano il volo non aspetta che la fila si riduca, come al solito, o si esaurisca, ma si alza e si mette tra i primi, e quando uno steward le chiede il passaporto lei glielo mostra con gioia. Solo la carta d'imbarco, che lui dovrebbe strapparle, non c'è. Sulle prime la fila si blocca, tutti attendono con pazienza che la signora sorridente la rintracci nella borsa, ma quando le ricerche non danno alcun frutto, lo steward le chiede gentilmente di scostarsi dalla fila e di cercare la carta d'imbarco scomparsa con maggiore cura. — Ma è proprio necessaria? —  domanda Daniela nel suo ineccepibile inglese. — Non si potrebbe farne a meno? —  Dopotutto sul biglietto di ritorno è specificata la tratta che ne comprova l'esistenza. Ma a quanto pare quel pezzo di carta è indispensabile, e malgrado in questo terminal non ci sia un apparecchio che lo ingoia per poi rigurgitarlo, ma soltanto una mano nera, morbida e delicata, che lo riceve, è probabilmente necessario per dimostrare che in effetti si è imbarcata su quel volo, e non l'ha perso. 
Trascorso qualche minuto di vana ricerca una hostess di terra dall'uniforme arancione, che mette in risalto la sua pelle nera, allontana Daniela delicatamente dalla fila che si va allungando e le suggerisce di cercare nel trolley. — La troverà, — dice per tranquillizzare l'imbarazzata passeggera. — Perché dovrebbe averla persa? 
Infatti, perché dovrebbe averla persa? Daniela sorride in segno di approvazione, ma in cuor suo prova disperazione, offesa, e rabbia nei confronti del marito. C'era da aspettarselo. Lui l'aveva avvertita di tenere tutto in un unico posto, e adesso potrebbe persino essere contento che le sue ansie si dimostrino giustificate, che non ci si possa fidare di lei e che quindi il suo dovere e il suo scopo nella vita siano di soffocarla di attenzioni, di intorpidirla, di viziarla come una principessa, erede di un'antica stirpe di monarchi. Ecco, quella è la prova ! 
Ma lei ricorda benissimo quel rettangolino di carta. Ce l'aveva in mano, l'aveva visto, non ne aveva sottovalutato l'importanza, non l'aveva trascurato. Si ricorda com'era fatto, di che colore era; perché allora l'aveva tradita? Era sparito lasciandola sola in quel terminal di transito, senza alcun filo che la collegasse al mondo, che potesse esserle d'aiuto. 
I passeggeri la superano: tra loro una famiglia europea con dei bambini felici di quel breve volo serale alla volta di una fantastica riserva naturale. L'autobus che dovrebbe condurli all'aereo accende i fari, avvia il motore. — La signora ha forse un'altra valigia che è già stata imbarcata? — le domanda la hostess con apprensione. No, la tranquillizza Daniela, il suo viaggio durerà una sola settimana, farà visita a suo cognato, il marito di sua sorella morta da poco, e quindi ha solo quell’unico trolley. Per un istante vorrebbe aggiungere che il suo ospite, fino a qualche anno prima, era una specie di ambasciatore, o rappresentante diplomatico in quella regione, e magari, grazie a quella posizione di prestigio, la hostess rinuncerà a richiederle la carta d'imbarco. Ma attribuirsi un simile credito le appare inutile, quindi rimane in silenzio. 
Il personale di terra tira un sospiro di sollievo. Non sarà necessario ritardare il volo per cercare una valigia nella carlinga dell'aereo. Non ci saranno difficoltà a lasciare a terra quella passeggera confusa e dare l'ok alla partenza. Se nel velivolo ci fosse stata una sua valigia forse non avrebbero avuto altra scelta che rinunciare alla carta d'imbarco e riunirla al suo bagaglio, ma suo cognato aveva consigliato a Daniela di non portare con sé troppa roba, il tempo era gradevole, e se avesse fatto freddo c'erano dei maglioni e la giacca a vento di Shuli. 
Lei sente un groppo in gola. A un tratto la sparizione della carta d'imbarco si collega alla morte di sua sorella. 
Ma lei si ricorderà dove ha messo quella maledetta carta. Recluterà tutte le sue risorse mentali, si scuoterà. Non è solo suo marito a intorpidirle i sensi, ma anche la scomparsa di Shuli. E lei deve svegliarsi, altrimenti quel viaggio nella lontana Africa, intrapreso per evitare che il dolore della perdita si attutisca, non porterà a nulla. Se non si sveglierà, come potrà far rivivere i ricordi d'infanzia dimenticati? Suo cognato non potrà farlo al posto suo. Dentro di sé Daniela sa che Yirmiyahu nutre delle riserve su questa visita, anche se durerà solo sette giorni. Non ne capisce lo scopo, e teme anche le critiche della cognata, palesi o nascoste, nei suoi confronti. Ha paura che lei si metta a contestare le sue decisioni. E se arriverà da lui distratta e svagata, lui la intontirà come fa Amotz, la rammollirà, accrescerà la sua dipendenza, come aveva fatto con Shuli. 
Deve perciò trovare quella carta d'imbarco con le sue sole forze. Non si umilierà a recarsi al banco dei voli in transito, come una scolaretta che ha commesso un errore, per chiedere che le trovino un posto sul volo successivo. Riprenderà il controllo di sé, e non permetterà che l'amore degli altri pregiudichi completamente la sua autonomia. Deve provare avvilimento, rabbia vera verso se stessa, come la protagonista masochista del suo nuovo romanzo, che per il momento non riscuote le sue simpatie. 
A un tratto ha un'illuminazione. Sì, la carta d'imbarco non è scomparsa, è dentro il libro, in valigia, segna la pagina dove ha interrotto la lettura, il punto in cui la protagonista ha logorato la sua capacità di immedesimazione. 
— Un momento, un momento, — grida allo steward che pare volerle chiudere la porta in faccia. Si inginocchia, apre la valigia, trova il romanzo accanto al pacco dei giornali, e dalle sue pagine spunta la carta d'imbarco, intatta e reale. La sfila, e prima di richiudere il libro prende mentalmente nota del numero della pagina, per non dover rileggere ciò che ha già letto. 
— Stavamo cercando qualcuno che si occupasse di lei, — le dice il ragazzo strappando la carta, — ma alla fine se l'è cavata da sola. 
Essendo l'ultima a imbarcarsi l'accompagna fino all'autobus e le porta il trolley, anche se ora sembra che quello possa muoversi da solo. Sull'autobus i passeggeri sono felici dell'arrivo di Daniela, qualcuno si alza per farle posto, lei sorride, si siede e infila con cura nel passaporto, come le ha ordinato il marito, il tagliando della carta d'imbarco nonostante di lì a pochi minuti debba mostrarlo alla hostess in attesa accanto al portellone dell'aereo. 
15 
Le luci del crepuscolo che non sono riuscite a squarciare il cielo plumbeo si tramutano in ombre grigie nell'ufficio di Yaari. Lui non accende la luce, appoggia la testa all'indietro nella sua comoda poltrona e chiude gli occhi per starsene un po' da solo prima di compiere l'ultimo dovere di quel giorno iniziato molto prima dell'alba. Suo padre in quel momento sta cenando, ma siccome per lui è triste vedere come Kinsey, la badante filippina, lo imbocchi con un cucchiaino, preferisce arrivare alla fine del pasto, quando al vecchio è già stato tolto il tovagliolo e gli è stata lavata la faccia. 
C'è silenzio in ufficio. Per via delle vacanze di Hanukkah le impiegate hanno finito di lavorare a mezzogiorno e non tutti i dipendenti usciti per la pausa pranzo sono tornati alle loro scrivanie. Qualche anno prima, quando suo padre, ormai incapace di nascondere il tremito del corpo, si era ritirato definitivamente dalla direzione dell'azienda, Yaari si era affrettato ad abolire la bollatrice affidando alla coscienza di ogni dipendente la responsabilità degli sprechi di tempo. E aveva fatto bene. A volte, quando tornava dal cinema con Daniela la sera tardi, o da un concerto, passava sotto le finestre dell'ufficio per mostrarle dietro i vetri illuminati i monitor accesi dei computer. 
— Ascolta, Yaari — . Gottlieb, proprietario della fabbrica di cabine per ascensori, lo chiama al telefono. — Vedo che il vento sta rinforzando e come ti ho già detto, anche se la colpa dei sibili del grattacielo Pinsker non è da attribuire né alle mie cabine né al tuo progetto, sono disposto, per mettere il cuore in pace a un amico che ci ha dato fiducia, a spedire di nuovo al grattacielo la mia esperta. Ma a condizione che tu, o qualcuno del tuo studio, andiate con lei. 
— Perché? 
— Perché così potrà darvi direttamente istruzioni su come comportarvi con gli inquilini e dimostrare loro che gli ululati e i rimbombi non hanno niente a che fare col tuo progetto, e di certo non con le mie cabine, ma solo col lavoro scadente dell'impresa di costruzioni, e magari anche dell'architetto che ha scelto male la collocazione delle porte di emergenza nel parcheggio. Anche se non ho sentito quei rumori sono sicuro che il vento arrivi da sotto, e non da sopra, e la mia esperta ti saprà spiegare come mai succede tutto quel casino. Dammi retta, mio caro, non essere pigro, domani il tempo migliorerà, questa pioggia passerà e non si sentirà più niente. Fai uno sforzo e incontrala tra mezz'ora, non te ne pentirai. Oppure manda tuo figlio. Questa esperta appartiene a una specie rara, è brillante, molto professionale, e ti convincerà definitivamente a liberarti dal senso di colpa che ti perseguita da questa mattina e che hai deciso di scaricare su di me oggi pomeriggio. 
— Non senso di colpa, responsabilità. 
— Ti libererà anche di quella. 
— Ma che ha questa signora di tanto speciale? 
— È in grado di rilevare, solo a orecchio, il guasto di un motore, o di un cavo, molto prima che accada. Ha una capacità uditiva così raffinata che avrebbe potuto essere direttore dell'orchestra filarmonica con relativo coro anziché lavorare nel nostro reparto di assistenza tecnica... 
— È israeliana? 
— Al cento per cento. È cresciuta senza genitori in un kibbutz della Galilea dalla forte tradizione musicale e ha affinato l'orecchio fra trattori, mietitrebbia ed erpici. 
— Quanti anni ha? 
— Trenta, quaranta, forse di più. Ma è un tipo minuto, di età indefinibile, sportiva... riesce a infilarsi in qualsiasi fessura... è un vero demonio... 
— Allora manderò qualcuno a prenderla al parcheggio. 
— Sarebbe meglio che ci andassi tu di persona... 
— Non posso, i filippini di mio padre mi aspettano per accendere con lui le candele. 
— Come sta il vecchio? 
— Come al solito. 
— Salutalo da parte mia. Sai quanto lo rispettavo e quanto gli ero affezionato. 
— Allora continua a esserlo, perché è ancora vivo e vegeto. 
— Ma certo... ci mancherebbe... comunque, Yaari, caro mio, fai un salto all'antro dei venti strada facendo e chiudiamo questa storia. 
— No. Io la mia giornata di lavoro l'ho finita. Mi sono alzato alle tre del mattino per accompagnare mia moglie all'aeroporto. 
— Dov'è andata in pieno inverno? 
— In Africa. 
— Con un viaggio organizzato? 
— No, da sola. 
— In Africa? Da sola? Non mi hai mai detto di avere una moglie avventurosa. 
Yaari vorrebbe spiegargli che Daniela non sarà sola. Ci sarà suo cognato ad aspettarla. Ma tiene a freno la lingua. Avventurosa? E perché no? Quella definizione la mette in una luce nuova, che Daniela non ha mai considerato e che lui a un tratto trova allettante. 
16 
Daniela appoggia la testa al finestrino, come se fosse la spalla del marito, e osserva con attenzione il mondo che le scorre sotto. L'aereo, un bimotore a elica, non è grande ma nuovo, e avanza nella limpida sera con un piacevole e sicuro ronzio, mantenendosi a bassa quota, tanto che non solo lei può distinguere l'ansa di un fiume e la sagoma di un laghetto, ma anche le luci delle case e qua e là la fiamma di un falò. L'orgoglio per non aver perso il volo la rende più lucida e attenta, cosa insolita per lei. Tira fuori il passaporto, e controlla i documenti infilati fra le sue pagine. Poi lo sfoglia, una pagina alla volta, come se fosse un piccolo breviario. 
Nel posto accanto al suo è seduto un anziano signore inglese, di carnagione pallida, robusto e con i capelli bianchi, davanti al quale la hostess posa un terzo bicchiere di whiskey. Ma Daniela non ha paura di lui. Il volo non sarà lungo e l'uomo appare sobrio e controllato, e sembra che la osservi con simpatia. Sì, malgrado l'età lei è ben consapevole che la femminilità che irradia non si è spenta. Se si rivolgesse a questo signore con domande precise nel suo ottimo inglese e lo inducesse a raccontare di sé, non è da escludere che lui si innamorerebbe di lei prima dell'atterraggio. Invece si volta verso il finestrino. Ad attirarla in quel momento è la distesa africana illuminata dalla luce della luna. 
17 
— Il vento sta riprendendo, — dice Yaari al figlio strappandolo dal computer. — E Gottlieb sta inviando al grattacielo Pinsker un'esperta di acustica per scoprire una volta per tutte l'origine del vento nel vano degli ascensori e scagionarci da ogni responsabilità agli occhi degli inquilini. Anzi, soprattutto per scagionare se stesso. Però pretende che uno di noi vada con lei e ne ascolti le spiegazioni. Io non ho più la forza per nessun vento e vado di fretta perché devo accendere le candele col nonno, quindi fammi un favore, va' tu a incontrarla al parcheggio, così chiudiamo questa faccenda una volta per tutte. Non è possibile che degli inquilini mi perseguitino al cellulare. 
Nella sua vecchia casa d'infanzia, nel grande soggiorno, davanti al telegiornale del primo canale, suo padre trema seduto in carrozzella. Accanto a lui c'è Hylario, scolaro di prima elementare, che parla un ebraico fluente e senza accento straniero e possiede una piccola hanukkiah personale di creta giallastra in cui sono infilate tre candele di diversi colori che attendono l'arrivo di Yaari insieme alle tre nella grande e vecchia hanukkiah di famiglia. 
Quando la malattia di suo padre si era aggravata, Daniela aveva insistito che gli venisse assicurato l'aiuto non di un solo badante ma di due, una coppia sposata che oltre a prendersi cura di lui gli garantisse la stabilità e la sicurezza di una piccola famiglia. «In fin dei conti la casa è grande, — aveva detto lei, — e c'è spazio per tutti», e con un piccolo sforzo economico sarebbero stati tutti più sereni. 
Ma la casa è davvero grande?, si domanda talvolta Yaari. Negli ultimi tempi, quando va a trovare il padre, vede com'è ridotto lo spazio dell'appartamento per via del passeggino, del box, del bagnetto e dello stendibiancheria collocato in cucina. Infatti alla coppia di badanti, Francisco e Kinsey, che sembrano due ragazzini, qualche mese fa è nata una bambina, per la quale è necessario un sacco di spazio, e poi c'è Hylario, di sei anni, nato nel Sudest asiatico, che dorme nella vecchia camera di Yaari e che dopo aver frequentato la sua stessa scuola materna è ora uno scolaro diligente e disciplinato. Seduto impettito accanto al vecchio tremebondo, con una candela spenta in mano e una kippah in testa, quest'ultimo attende che Amotz gli dia il permesso di accendere le candele e di recitare la benedizione. 
— Non esageriamo adesso... — dice lui tendendo la mano per togliergli la kippah. 
Ma suo padre lo ferma. — Che ti importa? Non fa del male a nessuno con la sua kippah. Ha una nuova maestra che proviene da un istituto religioso e insegna ai bambini un po' di tradizioni ebraiche, molto più di quanto abbiano insegnato a te. 
Yaari si è ormai abituato al fatto che suo padre conosca nei dettagli la vita di Hylario, più di quanto avesse mai conosciuto la sua e quella di suo fratello quand'erano bambini. E non c'è da stupirsi: l'inglese del vecchio è stentato e quindi comunica con i badanti tramite il loro figlio maggiore, imparando a conoscere il mondo del suo interprete. 
— Bene, — sospira Yaari in inglese, — io sono esausto, quindi, come prima cosa, facciamola finita con questa faccenda delle candele. 
Il vecchio fa segno a Francisco di spegnere le luci affinché le fiammelle delle candele si riflettano negli occhi di suo figlio. Hylario accende la candela che ha in mano, recita sussurrando le due benedizioni tradizionali senza commettere alcun errore, e accende con la candela le altre due conficcate nella piccola hanukkiah di creta. Terminata l'operazione tende la candela accesa a Yaari che però gli fa segno di continuare, e il bimbo, col viso rosso per l'emozione, si alza in punta di piedi e ripete le benedizioni, chissà perché, accendendo con mano tremante anche lo shamash   e le due candele nella vetusta hanukkiah del vecchio Yaari. Si volta infine verso sua madre, seduta in un angolo con in braccio la sorellina, e riceve da lei il permesso di cantare una canzoncina di Hanukkah. Con sollievo di Yaari non è la tradizionale Ma'oz Tzur Yeshuatì, che lui detesta, ma una vecchia canzone dalla melodia semplice e orecchiabile, e siccome Francisco e Kinsey, nonostante siano in Israele da parecchi anni, non ne conoscono né le parole né la melodia, Yaari non può fare altro che accompagnare il canto del bambino. 
Al termine della cerimonia il padre vuole sapere se Daniela è già arrivata sana e salva da Yirmiyahu in Africa. Un paio di giorni prima era venuta a salutarlo e gli aveva parlato a lungo dello scopo di quel viaggio. Lui aveva ascoltato con attenzione, annuendo ripetutamente non solo per via del tremito dovuto alla malattia ma anche perché apprezzava il desiderio della nuora di rivivere il lutto e il dolore passati. Non era però rimasto completamente soddisfatto che Daniela, alla quale vuole molto bene, partisse da sola. 
Amotz guarda l'orologio. A quanto ne sa lui non dovrebbero esserci differenze di fuso orario tra Israele e l'Africa orientale, quindi, se tutto è andato bene, sua moglie dovrebbe trovarsi in volo e atterrare fra un'ora. 
— Ma Yirmiyahu non è più ambasciatore laggiù... — si rammenta il vecchio. 
— Non lo è mai stato: era soltanto a capo di una piccola rappresentanza diplomatica per lo sviluppo economico che è stata chiusa dopo la morte di Shuli. 
Alla luce delle sei fiammelle che rischiarano la sala, Yaari nota che gli occhi di suo padre si ravvivano, le guance gli si arrossano e il suo tremito aumenta fino a fargli sussultare le mani. Il suo sguardo abbandona il volto del figlio e vaga per la stanza, calamitato verso un angolo. Lui si gira e vede la badante filippina che, approfittando della penombra, si è messa ad allattare la piccola. Nel barlume delle candele di Hanukkah si intravede il disegno del suo seno scoperto e tornito, il colore olivastro della pelle. È quello probabilmente a eccitare il vecchio. 
Devo avvertire Francisco di non permettere a Kinsey di scoprirsi così davanti a mio padre, riflette Yaari. Lei lo veste e lo nutre, e non è un bene che lui si torturi nel vederla seminuda. 
Ma non è il momento per questo tipo di discorsi, soprattutto non in presenza del bambino che osserva affascinato le fiammelle. Yaari gira un poco la carrozzella del padre in modo che il vecchio non veda il seno scoperto della badante e, facendo finta di nulla, cerca addirittura di distrarlo raccontandogli dei venti che ululano nel vano degli ascensori del nuovo grattacielo, misteriosamente risucchiati dall'esterno. 
18 
Dopo l'annuncio del prossimo atterraggio la hostess si alza a distribuire caramelle ai passeggeri. Ma il vicino di posto di Daniela, intento a scolarsi il resto del suo whiskey, non ha nessuna intenzione di rovinarsi il sapore della bevanda con quello asprigno di una semplice caramella, e quindi la offre alla sua silenziosa compagna di viaggio che nei pochi minuti rimasti prima dell'atterraggio non solo è disposta ad accettarla ma anche a domandargli del clima e del paesaggio che li attendono all'arrivo. 
A quanto pare il vecchio inglese è innamorato della riserva di Morogoro e vi possiede persino una piccola fattoria dove torna ogni anno spinto dalla sua passione per gli animali selvatici. È infatti fermamente convinto che anche gli animali abbiano nostalgia di lui. Francamente non ha mai sentito parlare di una spedizione scientifica nella zona. A dire il vero non prova il benché minimo interesse per quel tipo di scavi, e gli pare un po' strano che una signora tanto fine e simpatica come lei stia per aggregarsi a un gruppo di ricercatori di ossa di ominidi preistorici quando il fantastico mondo animale del presente riserva ancora tanti misteri. Non appena le ruote del velivolo toccano la pista, a Daniela non rimane quindi che correggere l'impressione sbagliata che l'uomo ha avuto di lei e rivelargli il vero scopo della sua visita. L'inglese ascolta con grande partecipazione la storia del suo lutto e, rattristato anche per essere stato privato del suo bicchiere ormai vuoto, sembra addirittura sul punto di versare una lacrima per l'amata sorella scomparsa e per il soldato stupidamente ucciso. Anzi, se avesse tempo a disposizione sarebbe pronto a innamorarsi di Daniela stessa, e le tende un biglietto da visita con il nome e l'indirizzo della sua fattoria prima di sganciare la cintura di sicurezza. Magari avranno occasione di rivedersi. Lei accetta il biglietto di buongrado, come aveva fatto prima con la caramella, e per rimanere fedele agli ordini del marito di raccogliere tutto in un unico posto, lo infila insieme al modulo dell'assicurazione medica dentro la copertina del passaporto. Ora, mentre scende dall'aereo nell'oscurità, si rende conto non solo della distanza percorsa e del tempo trascorso ma anche della sua ridotta capacità di sopportare la solitudine. Trascina il trolley dietro l'inglese dal passo malfermo, che due africani grandi e grossi già attendono, per anticiparne lo svenimento da sbronza e metterlo seduto su una carrozzella, accompagnandolo dignitosamente fuori dal piccolo aeroporto. 
Anche dopo il controllo passaporti, circondata all'improvviso da facchini e da persone arrivate a ricevere i viaggiatori, Daniela mantiene un contatto visivo con la sedia a rotelle perché a un primo sguardo si accorge che fra le decine di neri raccolti dietro e davanti le transenne non c'è nemmeno un bianco dall'aspetto familiare. Il suo senso di sicurezza però è ancora saldo e tiene a freno la preoccupazione, o il panico. 
Solo sulle sue labbra aleggia uno strano sorriso. Non ha dubbi che, nonostante il cognato non sia del tutto soddisfatto della visita che gli ha imposto, non penserebbe mai di non venire ad accoglierla. Durante l'infanzia lei aveva seguito il corteggiamento della sorella sostenendo il loro amore con tutta l'anima. Lui, da parte sua, l'ha sempre chiamata «sorellina», era solito aiutarla nei compiti di matematica e geometria, e la sera tardi veniva spedito a riportarla a casa, con l'automobile di suo padre, da feste di classe o da riunioni dei boy-scout. 
Lottando con il sorriso sulle labbra contro il leggero senso di apprensione che l'attanaglia, Daniela nota che dal gruppo di persone si solleva un piccolo cartello su cui sono annotati con grafia familiare il suo nome e il numero del volo. Ma non è Yirmiyahu a tenerlo sollevato, bensì una donna nera come il carbone, dal portamento aristocratico, molto alta e snella. Porta una sciarpa rossa intorno al collo e indossa un camice bianco da medico, o da infermiera. Quando Daniela le fa segno che è lei la persona che cerca, la ragazza la raggiunge sgusciando rapidamente tra la folla in attesa, composta probabilmente perlopiù da curiosi locali che vengono ogni sera a vedere se qualche aereo abbia bisogno del loro aiuto per decollare, o atterrare. 
La donna alta e magra si china verso la signora Yaari e in un inglese semplice ma corretto, per quanto dall'accento indefinibile, si presenta: Sijin Kuang, sudanese, infermiera della spedizione. A mezzogiorno ha accompagnato un malato in ospedale e le è stato chiesto di aspettare fino a sera che lei arrivasse da Israele. È naturale e comprensibile che dopo un'attesa tanto lunga abbia una fretta terribile di mettersi in viaggio. La distanza fino al campo base della spedizione non è grande, quarantacinque chilometri in tutto, ma il percorso si snoda per metà su piste sterrate. Dopo aver appreso con gioia che l'ospite non ha con sé altro bagaglio che quell'unico trolley, le suggerisce di approfittare del bagno, perché la strada che le aspetta non passa per luoghi abitati e civili. Ma Daniela, ansiosa di mettersi in viaggio, le dice senza riflettere troppo: — Grazie, sono a posto così. 
Un fuoristrada polveroso le attende al parcheggio, carico di vanghe, zappe e setacci per la sabbia. A quanto pare l'infermiera farà anche da autista. Ma prima di avviare il motore mette in grembo a Daniela un sacchetto con un thermos e un grosso panino, viveri per il viaggio inviati da suo cognato che ancora non è chiaro come mai non sia venuto personalmente ad accoglierla. 
Con mano stanca Daniela scarta l'involucro che si rivela essere la pagina strappata di una vecchia enciclopedia e davanti a lei appare una specie di gigantesco pane arabo, brunastro, spesso, con all'interno delle uova sode affettate e strisce di melanzane fritte e cipolla. 
Sijin Kuang manovra abilmente tra le automobili nel parcheggio e nel frattempo osserva la passeggera, sbalordita da quel panino gigantesco. 
— Jeremy ha detto che le sarebbe piaciuto... 
Gli occhi di Daniela brillano. È vero, ha ragione. A lei e a sua sorella sono sempre piaciute le melanzane, forse perché sono le prime verdure che la loro madre aveva imparato a cucinare non appena era arrivata in Israele, quando era ancora una ragazza viziata. Nonostante la fame che l'attanaglia dopo aver rinunciato alla colazione durante il primo volo — e che il panino e i dolci comprati a Nairobi non sono riusciti a placare — , Daniela propone alla sudanese di dividere con lei il panino, ma quella rifiuta: — No, è per lei, è il compenso simbolico di un uomo che aveva paura di venire di persona all'aeroporto. 
— Aveva paura? 
— Temeva che con lei ci fossero anche altri passeggeri provenienti dal suo paese. — Israeliani? 
— Sì, israeliani. 
— Ma perché dovrebbe aver paura di loro? 
— Non lo so, magari mi sbaglio, — si corregge l'infermiera, — ma mi pare che lui non voglia incontrare nessuno che provenga dal suo paese, non desideri vedere e nemmeno percepire la loro presenza da lontano. 
— Neppure da lontano? — Daniela ripete stupefatta e addolorata le parole della donna che, malgrado la corporatura esile e delicata, mostra una grande abilità nel manovrare il pesante veicolo sulla strada buia. — In che senso? E comunque sull'aereo non c'era neanche un israeliano con me. 
— Questo, Jeremy non poteva saperlo in anticipo — . Sijin Kuang, la cui testa quasi arriva a sfiorare il tetto della macchina, sorride. 
Daniela annuisce lentamente in segno di assenso, senza aggiungere una parola. A dire il vero lei è venuta fin qui non solo per far rivivere il dolore per la perdita della sorella ed evocarne il ricordo, ma anche per scoprire cosa sta succedendo a suo cognato. E ora questa donna potrebbe darle un filo a cui aggrapparsi. Svita il coperchio del thermos, vi versa con attenzione del tè caldo e lo offre all'infermiera, ma lei ripete in un buon inglese: — È tutto per lei, signora Yaari. Io, da parte mia, ho mangiato e bevuto, e farei meglio a concentrarmi nella guida perché le strade qui a volte sono ingannevoli. 
Il tè è dolce e dissetante e Daniela se ne versa una seconda e una terza tazza. Poi prende a mordere delicatamente il panino fragrante, e dopo aver ingoiato con grande piacere l'ultima briciola ottiene dalla sudanese il permesso e anche l'incoraggiamento di rafforzare il buon sapore che le è rimasto in bocca con l'aroma di una sigaretta, l'ultima delle cinque o sei che è solita fumare ogni giorno. Solo allora, mentre la minuscola brace risplende nel buio, si rivolge a Sijin Kuang per un cortese e cauto interrogatorio. 
19 
Sulla strada di casa, nella pioggia e nel vento, col volto grigio di stanchezza, Yaari chiama il figlio per conoscere il responso dell'esperta sui venti del grattacielo. E chi è poi questa donna per la quale Gottlieb si spreca in complimenti? Moran sembra divertito ed entusiasta di lei. 
— No, Gottlieb non esagera. Ti sei perso un incontro con una strega, una giocoliera. Un personaggio da circo. 
— Quanti anni ha? 
— Difficile dirlo. È un tipo giovanile. A un primo sguardo sembra che abbia vent'anni, ma quando l'ho salutata ho avuto l'impressione che ne avesse più di quaranta. Ha una faccia da bambina, occhi enormi, e non sta ferma un attimo. Ha lavorato per anni nell'autofficina di un kibbutz che si chiama Kfar Blum, su nel Nord... 
— E questo che c'entra? — mormora Yaari, stanco. — Cosa dice dei venti? 
— Aspetta un attimo, ascolta. Ha un udito incredibile. Come prima cosa, pensa un po', mentre salivamo con l'ascensore centrale si è accorta che avevamo sostituito la guarnizione originale del pistone. Tu te lo ricordi? 
— Io, Moran, non mi ricordo nulla. Mi sono alzato alle tre del mattino, ho acceso le candele col nonno, sono a pezzi e non capisco più niente. Dimmi solo quali sono le sue conclusioni. Da dove arriva il vento. 
— Lei sostiene che nel vano ci sono crepe e fessure in vari punti e così si viene a creare un effetto sonoro particolare, come se ci fossero dei fori di un flauto, o di un clarinetto. Propone di bloccare tutti gli ascensori alle tre del mattino e di risalire il vano seduti sul tetto di una cabina per scoprire il punto esatto delle infiltrazioni. 
— Lascia stare. Flauto o clarinetto, che c'entra con noi? Il problema, come pensavo, è nel vano di corsa. Quindi la responsabilità non è nostra. Dobbiamo dire agli inquilini di rivolgersi all'impresa edile. 
— Non sono sicuro che tu abbia completamente ragione, papà. In ogni caso sia Gottlieb che noi, in veste di progettisti, avevamo il dovere di effettuare controlli accurati del vano prima di installare gli ascensori. 
— Ascoltami bene, Moran. Il vano non rientra nella nostra responsabilità. Punto e basta. E crepe e flauti possono spuntare anche dopo che si è finito di montare le cabine. 
— La signora sostiene che a giudicare dal suono le crepe sono vecchie. 
— La signora sostiene... la signora dice... calmati, caro mio. Quella piccoletta non è Dio, o perlomeno non ancora. Ma non importa, ne parleremo domani in ufficio. 
— E la mamma? Si è già fatta sentire? 
— Dai miei calcoli dovrebbe essere ancora in volo. Ma magari mi sbaglio. 
20 
E infatti Yaari si sbaglia. Incredibilmente per un uomo pratico come lui, non ha prestato attenzione al fatto che l'Africa orientale è un'ora avanti rispetto a Israele e quindi la moglie non è più in volo ma a terra, su una strada di montagna buia e deserta, affidata alle mani esperte di un'autista intelligente che lei interroga sulla sua storia e sulla sua vita. 
Durante la sanguinosa guerra civile nella zona meridionale del Sudan molti parenti e membri della tribù di Sijin Kuang erano stati uccisi perché il colore della loro pelle era più scuro di quello dei loro assassini. Era lei l'unica sopravvissuta della sua famiglia. A salvarla era stato un osservatore dell'Onu, un norvegese alto quanto lei, che si era preoccupato di darle un'educazione nella sua madrepatria, a patto che dopo aver completato gli studi da infermiera lei tornasse a prestare servizio in un ospedale da campo al confine tra il Sudan e il Kenya in cui avrebbe potuto prendersi cura dei feriti appartenenti alla sua tribù. Un ospedale simile, però, alla fine non era sorto, e mentre lei girava per Nairobi alla ricerca di un lavoro era venuta a sapere che l'Onu finanziava, tramite l'Unesco, una spedizione composta unicamente da ricercatori africani il cui scopo era scoprire, in base a un metodo di ricerca da loro sviluppato, l'anello di congiunzione tra l'uomo e la scimmia. Sijin Kuang si era allora rivolta al capo della spedizione, un tanzaniano di nome Selohe Abou, e si era proposta come infermiera. 
— Naturalmente lei è cristiana, — dice Daniela, ammirata dalla sua personalità e dai particolari della storia. Ma Sijin Kuang non lo è, né tantomeno è musulmana. È animista, secondo la definizione dei credenti di questa confessione, o mushrikun, secondo quella dei suoi oppositori. 
— Animista? — Daniela pare turbata dalla vicinanza a un'adoratrice di dèi, in una situazione tanto intima, al buio. — Davvero? In che senso? È interessante... 
Sijin Kuang, con un sorriso un po' timido, le spiega a grandi linee i principi dell'antico credo dei membri della sua tribù. 
— Credete negli spiriti? 
— Anche. In spiriti sacri che si incarnano in alberi e in pietre. 
— E un simile credo — si interessa Daniela guardinga — non interferisce col razionalismo dei suoi studi di medicina? 
— Nessuna fede interferisce con la cura dei malati, — proclama l'infermiera, — e l'animismo meno di tutte perché ogni essere umano può entrare in contatto con gli spiriti in maniera indipendente, secondo il proprio modo di vedere. Non c'è bisogno di sacerdoti o di ayatollah che facciano da intermediari. 
— È meraviglioso... 
Ma ora Daniela si domanda come suo cognato, un uomo bianco, sia stato accettato da una spedizione scientifica composta unicamente da africani, tanto più che non è né scienziato né medico, ed è anche cittadino di uno stato che solitamente riscuote poche simpatie. La ragazza sudanese ha una spiegazione semplice. Per evitare attriti circa delicate questioni finanziarie tra i membri giunti a far parte della spedizione da tutto il continente nero, era stato deciso che l'amministrazione e la supervisione del bilancio fossero affidate a uno straniero dalla provata esperienza, che conoscesse però il luogo e le sue usanze. E quando Yirmiyahu, vedovo e pensionato, esperto di contabilità e di gestione finanziaria, si era offerto per quel lavoro, aveva dato l'impressione di essere una persona fidata e obiettiva, immune da tentazioni esterne. 
— Quali tentazioni, che significa? 
— Significa che niente gli impedisce di tenere la contabilità in modo preciso e onesto. Ma tra poco glielo spiegherà lui stesso. 
Dal finestrino aperto del veicolo penetra una brezza tiepida, accompagnata dal profumo della fitta vegetazione. La zona è collinare, e la jeep sale e scende tra alture poco elevate intorno al monte Morogoro che appare e scompare di continuo. La luna, che ha scortato Daniela durante il volo, si è nascosta dietro le nuvole ma il rigoglioso fogliame che lambisce il ciglio della pista ancora serba la sua luce. Sijin Kuang, seguendo l'indicazione di un minuscolo cartello, ha lasciato da poco la strada asfaltata per imboccare un sentiero stretto ma ben battuto e poco accidentato, così che il potente motore riesce a mantenere un buon ritmo. Ora però Daniela prova un leggero senso di malessere. Il gigantesco panino che ha divorato, e le numerose tazze di tè che lo hanno preceduto, hanno bisogno di uno sfogo. Se l'avesse saputo prima non si sarebbe affrettata a respingere con tanta leggerezza la proposta di recarsi in bagno all'aeroporto. Non c'è altra soluzione. Chiede alla ragazza di fermare la jeep in un posto adatto e domanda anche se nell'auto c'è della carta igienica, altrimenti sarà costretta ad aprire la valigia. 
— Penso che non abbia scelta, — ride Sijin Kuang rallentando per fermarsi. 
Avverte la passeggera di non cercare un luogo appartato nell'intrico della vegetazione, perché potrebbe risvegliare l'interesse di qualche piccolo animale. Può semplicemente rimanere sulla pista, in ogni caso non c'è traffico, come ha potuto notare, e anche se passerà un'automobile, nessuno si accorgerà di lei. 
Ma Daniela prova imbarazzo a scoprirsi alla luce della luna, pure davanti a un'infermiera che nel frattempo ha spento il motore ed è scesa a sgranchirsi le gambe e ad accendere una specie di lunga pipa sottile e nera come lei. Si allontana perciò verso una curva ma anche lì, nonostante l'avvertimento, esita ad accovacciarsi e si apre un varco nella vegetazione, allontanandosi di pochi passi. 
Ai piedi di un albero abbassa i pantaloni, ma si sente in ansia. Lei, insegnante perbene, moglie, madre e nonna, non dimentica un episodio della sua infanzia, quando durante una ricorrenza di famiglia, festeggiata sulle rive del fiume Yarqon, si era talmente emozionata per l'affetto dimostratole da cugini grandi e piccoli che a un tratto aveva perso il controllo e le sue mutandine bagnate avevano minacciato di far crollare la sua felicità. Sua madre e suo padre non si erano accorti di nulla ma sua sorella si era affrettata a proteggere la bambina piangente e a condurla in segreto sulla sponda del fiume, in un intrico di siepi simile a quello in cui si accovaccia ora, e con parole dolci l'aveva calmata e consolata, cancellando la sua vergogna finché lei non era tornata a sorridere. 
Ora, con i pantaloni abbassati, alla luce della luna nascosta, che dal cielo bagna tutt'intorno la vegetazione, e affrancata dall'amore opprimente del marito, che non può immaginare fino a che distanza sia giunta la freccia scoccata all'alba all'aeroporto, si lascia andare al dolore per la perdita dell'amata sorella che sapeva sempre come confortarla, ma che non era riuscita a consolare se stessa. Rimane accovacciata a lungo, dando sfogo al suo dolore. Poi a poco a poco si riprende, si rialza, si ricompone, e non si allontana prima di aver raccolto qualche pietra per nascondere ciò che ha lasciato. 
Il silenzio è assoluto. Di ritorno sulla pista sterrata l'israeliana perde per un istante l'orientamento, non trova il veicolo sul quale ha lasciato la valigia con tutti i documenti, ma non perde la testa, e chiama ad alta voce il nome dell'infermiera. Sijin Kuang! Sijin Kuang! Sijin Kuang! Per tre volte lo ripete. E lei, che forse in quel momento sta chiedendo la benedizione degli spiriti degli alberi e delle pietre che la circondano per un felice proseguimento del viaggio, accende i fari dell'auto e dà un colpo di clacson, per segnalare alla donna bianca la via del ritorno. 
21 
A tarda sera Yaari raccoglie il giornale lanciato all'alba sulla soglia di casa e accende la luce nell'appartamento tirato a lucido. Con sguardo curioso e divertito cerca le novità che vi sono state apportate in sua assenza. La loro anziana colf, che fa anche da cuoca e che Daniela rispetta e ammira, gode infatti della facoltà di gestire la casa a suo piacimento. Una libertà non indifferente visto che oltre a pulire e a cucinare ci sono giorni in cui decide di ridisporre i mobili o di sistemare gli abiti secondo un nuovo ordine e in base ai suoi capricci. E così accade che i padroni di casa, di ritorno la sera, scoprano che una poltrona del salotto non è più dove l'avevano lasciata, o che camicie, mutande e calze sono state trasferite in altri cassetti, o che un vaso, che da anni stava in veranda, fa ora bella mostra di sé sul tavolo da pranzo. Talvolta accettano di buongrado quei cambiamenti, talaltra li respingono ripristinando la situazione precedente, ma per rispetto verso la colf non si lamentano mai. 
Oggi non c'è nessun cambiamento. Solo nella hanukkiah, ripulita dai resti della cera delle candele accese la sera precedente, la colf, prima di andare via, ha infilato due candele nuove e una terza che serva da shamash, perché vengano accese quella sera. Ma Yaari non ha nessuna intenzione di tornare a ripetere il rito da solo, perciò aggiunge una terza candela, per il giorno seguente, e sposta la hanukkiah in un angolo della credenza. 
La quantità di cibo preparato, lasciato sul ripiano della cucina e ancora caldo, dimostra che la colf non ha recepito che durante quella settimana in casa si nutrirà a malapena una persona sola. Yaari, spizzicando con la forchetta tra un piatto e l'altro, fa zapping tra i canali televisivi per accertarsi che quel giorno non si sia schiantato nessun aereo. Suo cognato l'aveva avvertito che i contatti tra il campo base della spedizione e il mondo esterno si mantenevano tramite Dar es Salaam, ma lui non si era dato per vinto. — Sarà anche così, — gli aveva detto, — ma siccome ti mando una donna che da anni non viaggia da sola, e che dopo la morte di sua sorella si è fatta svagata e distratta, è assolutamente necessario che io riceva un suo segno di vita entro ventiquattro ore, che senta la sua voce, o perlomeno la tua. Oppure che tu spedisci un messaggio al mio indirizzo di posta elettronica in ufficio. 
22 
Solo verso mezzanotte le due donne arrivano al campo base della spedizione che si trova in una fattoria costruita all'inizio del secolo scorso, durante il periodo coloniale. Dopo che la Tanzania aveva raggiunto l'indipendenza, la fattoria era stata confiscata ai suoi proprietari europei e trasformata in un campo di addestramento per ufficiali dell'esercito e funzionari governativi cari al regime. Ma scontri tribali e violenti colpi di stato non avevano concesso agli ufficiali e ai funzionari la possibilità di utilizzare il campo e il luogo era stato abbandonato e dimenticato per molti anni, fino a che un paio di antropologi africani l'avevano riscoperto e avevano inoltrato all'Unesco una richiesta di finanziamenti per ristrutturarlo, affinché servisse da campo base per una nuova spedizione. 
Ora, nonostante il rumore martellante di un gruppo elettrogeno, la fattoria appare buia e la sua facciata un po' spettrale. Al pianterreno è accesa una luce. — È la cucina, — spiega Sijin Kuang a Daniela, che d'un tratto sente di non avere più nemmeno le forze per scaricare la valigia. — Di certo suo cognato l'aspetta — . Poi la ragazza prende un pacco dal sedile posteriore dell'auto e accompagna l'ospite in direzione della luce. 
Se sua sorella sapesse fin dove si è spinta per far rivivere la sua memoria sarebbe soddisfatta, e magari addirittura orgogliosa di lei. Ma di sicuro avrebbe anche timore, come ne ha lei ora, dell'incontro con il vedovo. 
— Eccolo, — dice l'infermiera indicando un'alta sagoma sulla soglia di casa. 
Anziché correre incontro alla cognata, abbracciarla e aiutarla a portare la valigia, Yirmiyahu rimane immobile, distante, in attesa che le due donne gli si avvicinino. Solo a quel punto abbraccia Daniela con forza, e accarezza con affetto la spalla dell'infermiera nera che l'ha accompagnata fin lì. 
— Cos'è successo? — domanda in inglese. — Già pensavo che ti fossi pentita e all'ultimo minuto avessi rinunciato a venire. 
— Perché? Volevi forse che mi pentissi? 
— No, non volevo niente. 
Lui insiste a parlare in inglese, per riguardo verso Sijin Kuang, silenziosa come una statua accanto a lui e con il pacco ancora fra le braccia come se stesse per porgerlo in offerta. 
Ma commosso forse dalla presenza della cognata che ha fatto tutta quella strada per arrivare fin lì, l'abbraccia ancora una volta, le prende la maniglia del trolley, e Daniela ha l'impressione che il corpo di Yirmy emani un odore nuovo, pungente. 
— C'è dell'acqua calda — . Lui insiste a parlare in un inglese un po' incerto. — Ma se vuoi bere una tazza di tè prima di andare a dormire, andiamo in cucina. 
I tre si recano nell'ampio locale in cui troneggiano un frigorifero gigantesco, forni e fornelli, e anche una specie di stufa che forse è un antico scaldabagno. Grosse pentole e padelle, mestoli e ramaioli, grattugie e coltelli suggeriscono che lì si prepara parecchio cibo, e per molte persone. In un angolo c'è una catasta di legna tagliata e sui tavoli da pranzo sono allineate decine di contenitori di plastica vuoti. Daniela si guarda in giro mentre Yirmiyahu prende il pacco dalle mani dell'infermiera sudanese, la ringrazia per il disturbo e la congeda augurandole la buonanotte. 
— Le ho chiesto di comprarti delle lenzuola nuove, — dice, — perché ti senta perfettamente a tuo agio nel nuovo letto. 
Daniela arrossisce. A quel punto dovrebbe dire: «Perché? Non avresti dovuto», ma non riesce a obiettare nulla dinanzi alla sensibilità dimostrata dal cognato. Lui sa bene che anche lei, come sua sorella, ha bisogno di lenzuola nuove in un luogo estraneo. 
Yirmiyahu mette il bollitore dell'acqua sul fuoco e lei lo osserva. Ha perso parecchi capelli dal loro ultimo incontro, e la cute nuda, alla moda dei giovani che si rasano la testa di proposito, ma attempata, desta in lei una leggera preoccupazione. 
— Ti ho portato dei giornali israeliani. 
— Mi hai portato dei giornali? 
— Anche riviste e supplementi di quotidiani. La hostess li ha raccolti in aereo e me li ha messi in una busta: sceglierai tu quello che ti interessa. 
Sul volto di Yirmy compare un sorriso ironico e nei suoi occhi si accende una nuova scintilla. 
— Dove sono? 
Nonostante la stanchezza Daniela si china verso la valigia e gli tende una busta rigonfia. Per un istante sembra che lui esiti a toccarla, come se lei gli porgesse qualcosa di disgustoso. Poi la prende, si avvicina velocemente alla stufa scaldabagno, apre uno sportello che lascia intravedere una lingua di fuoco bluastra, e senza esitazione la butta dentro. 
— Un momento, — Daniela si lascia sfuggire un piccolo grido, — aspetta... 
— È quello il loro posto, almeno per me, — dice Yirmiyahu, con un sorriso maligno ma anche con un'aria di leggera soddisfazione. 
Daniela impallidisce, tuttavia come al solito mantiene il controllo. 
— Può darsi che per te sia quello il loro posto, però prima di bruciarli avresti potuto avvertirmi. 
— Perché? 
— Perché nella busta c'era anche un rossetto che ho comprato all'aeroporto per la mia colf. 
— Troppo tardi, — dice lui sottovoce ma senza pentimento. — Il fuoco è forte. 
Ora lei lo guarda con astio, offesa. A casa dei suoi genitori era solito leggere ogni giornale su cui potesse mettere mano. Lui le restituisce uno sguardo affettuoso. 
— Non prendertela. Non fa niente. Sono solo giornali che in ogni caso sarebbero finiti così. Invece di buttarli nella pattumiera li ho gettati nel fuoco. E alla tua colf potrai sempre comprare qualcos'altro. Spero che tu non mi abbia portato altri regali di questo tipo. 
— No — . Daniela si rannicchia sulla sedia. — Era tutto, non c'è altro. Solo una cosuccia... una scatola di candele di Hanukkah... 
— Candele? Perché proprio candele di Hanukkah? 
— Perché siamo a Hanukkah, te ne sei dimenticato? Pensavo che avremmo potuto accenderle insieme questa settimana. così... è una festa che mi piace... 
— Siamo a Hanukkah? Non lo sapevo, davvero. È tanto che non controllo il calendario. E questa sera, ad esempio, quante candele si accendono? 
— Dato che la festa è cominciata ieri se ne accendono due. 
— Due? — Yirmiyahu sembra divertito dal fatto che la cognata abbia avuto l'idea di portare in Africa delle candele di Hanukkah. — Dove sono? Mostramele. 
Lei ha un attimo di esitazione, poi tira fuori la scatola e gliela porge, con l'insolita speranza che magari ora lui acconsenta ad accendere lì, a mezzanotte, quelle candele, per mitigare in qualche modo l'improvvisa nostalgia che lei sente per il marito e i figli. 
Ma Yirmiyahu, con lo stesso gesto repentino di prima, un po' folle, torna ad aprire lo sportello e fa fare alle candele la stessa fine dei giornali israeliani, già andati in fumo. 
— Che ti prende? — Daniela si alza furibonda, continuando però a mantenere il controllo di sé, come davanti a un alunno che ha commesso una stupidaggine. 
— Niente. Non arrabbiarti. Ho semplicemente deciso che qui mi sarei preso una pausa da tutto questo. 
— Da tutto questo cosa? 
— Da tutto questo minestrone ebraico... israeliano... per piacere, lasciami in pace. In fondo sei venuta solo a piangere tua sorella. 
— Che intendi dire con «lasciami in pace»? — Lei gli parla in tono dolce, senza rabbia, provando pena in cuor suo per quell'uomo grande e grosso dalla testa pelata, rossa e liscia. 
— Lo capirai cosa intendo dire. Voglio tranquillità. Non voglio sapere niente. Starmene lontano da tutto. Non mi sogno nemmeno di sapere il nome del primo ministro. 
— Ma lo sai. 
— No, non lo so e non voglio che tu me lo dica. Non voglio saperlo, esattamente come tu non sai il nome del primo ministro tanzaniano, o cinese. Lasciami in pace con tutte queste cose. Anzi, ripensandoci, forse in fondo ho fatto male a non insistere che anche Amotz venisse con te. Ho paura che ti annoierai qui da sola durante una visita così lunga. 
Per la prima volta Daniela si sente offesa. 
— Non mi annoierò, non ti preoccupare per me. E la mia visita non sarà nemmeno lunga, e se farai fatica a sopportarmi, l'abbrevierò. Me ne tornerò a casa prima. Tu fai quello che devi fare. Mi sono anche portata un libro, ma non provare a buttarlo nel fuoco. 
— Se è tuo, non lo tocco. 
— Già l'infermiera che hai mandato a prendermi mi aveva avvertito... a proposito, è davvero animista? 
— Perché «davvero»? 
— Voglio dire, crede negli spiriti? 
— Che c'è di male? 
— Niente. È una ragazza che fa colpo... ha un portamento aristocratico... 
— Tu non te lo puoi ricordare, perché non eri ancora nata, ma prima della fondazione di Israele agli angoli delle strade di Gerusalemme c'erano dei sudanesi come lei, alti e nerissimi, avvolti in tuniche, che tostavano sul fuoco di piccole stufette arachidi straordinarie, saporitissime, e le vendevano in coni fatti coi fogli di giornale. Ma a quel tempo tu non eri ancora nata. 
— No, non ancora... 
— Tutta la famiglia di Sijin Kuang è stata uccisa nella guerra civile nel Sudan meridionale, ma lei è diventata una donna molto tenera e umana. 
— È vero. Mi ha detto che non sei venuto a prendermi all'aeroporto perché avevi paura di incontrare altri israeliani. Perché avrebbero dovuto esserci degli israeliani sul mio aereo? 
— Su ogni aereo che vola tra due punti del globo c'è almeno un israeliano. — Non su quello che mi ha portato qui. 
— Ne sei sicura? 
— Sicura. 
— Ed ebreo? 
— Ebreo? 
— Magari sul tuo aereo c'era un ebreo. 
— Ma come si fa a saperlo? 
— Pensa un po': non volevo incontrare nemmeno quello. 
— Addirittura? 
— Addirittura. 
— Perché? Sei arrabbiato con... 
— No, non sono affatto arrabbiato, ma voglio prendermi un po' di riposo. Ho settant'anni, e ho il diritto di starmene un po' per conto mio. E se non per una separazione definitiva, allora almeno temporanea. Diciamo che mi sto prendendo una pausa. Una pausa dal mio popolo, dagli ebrei in generale e dagli israeliani in particolare. 
— Anche da me? 
— Da te? — Yirmiyahu guarda con affetto la cognata, versa dell'acqua bollente nella sua tazza e avvicina un fiammifero all'ultimissima sigaretta che lei si ficca in bocca. — Con te non ho scelta, tu rimarrai per sempre la mia sorellina, come ti ho detto quando avevi dieci anni. E se ti sei spinta fino in Africa per far rivivere la memoria di Shuli e piangerla con me, è tuo pieno diritto. Chi, come me, sa quanto le volevi bene e quanto lei ne voleva a te? Però ti avverto, piangere insieme va bene, ma non farmi prediche. 
La terza candela 
A mezzanotte il cielo di Tel Aviv si schiarisce per circa un'ora. La luna, uscita da sotto una coltre grigia, vede Yaari rotolare dalla parte del letto lasciata vuota da sua moglie e, dopo una leggera indecisione, alzarsi. Yirmiyahu l'aveva avvertito di non aspettarsi nessun segno di vita prima del giorno seguente, ma ancora una volta lui vaga tra i canali televisivi per avere la certezza assoluta che nessun aereo sia precipitato, o sia stato dirottato, e assicurarsi così un sonno tranquillo che aiuta con un leggero sonnifero. Nel frattempo, prima che quello cominci a fare effetto, Yaari cerca, mediante uno schizzo veloce su un foglio a quadretti sempre posato accanto al suo letto, di verificare la possibilità che il quinto ascensore voluto dal ministero della Difesa non solo abbia un quadro di comando a sé, ma anche porte perpendicolari che gli permettano di incastrarsi nell'angolo sudoccidentale del vano senza rubare troppo spazio ai quattro già progettati. È solo un primo schizzo, ispirato a un modello che gli balena nella mente e che ha visto forse in una vecchia rivista, Abituato a non disturbare il sonno di sua moglie si accontenta di un piccolo lume, la cui luce si fonde con quella avara della luna. E nonostante sia entusiasta dell'idea, e fiducioso nelle prospettive dello schizzo che la illustra, aggiunge in fondo bilia pagina una breve nota: Moran, controlla se è realizzabile! 
Nella chiara notte estiva, a sud dell'equatore, la stessa luna, ma infinitamente più luminosa e prodiga, non disturba il sonno di Daniela, che con naturale tranquillità si è infilata di buongrado nel letto rifatto con lenzuola nuove. Anni di esperienza hanno insegnato a Yirmiyahu che pure lei, come sua sorella, non si sarebbe sentita a suo agio fra lenzuola lavate in un'anonima lavanderia. E anche se non è stato lui a invitarla, ricordava che aveva bisogno di lenzuola nuove, spacchettate sotto i suoi occhi. Era così che le sorelle si viziavano a vicenda quando si ospitavano, e la morte della maggiore non dispensava il marito da quell'obbligo, oltre che da quello di cederle la sua camera da letto. 
Il sacrificio del cognato non impensierisce però Daniela. Sei notti non sono poi molte. La irritano invece i giornali bruciati, e le candele di Hanukkah gettate nella stufa la mandano letteralmente in bestia. Yirmy le ha però promesso con un sorriso di non avere intenzione di bruciare altro e a mezzanotte passata, mentre lei fumava nella grande cucina l'ultima sigaretta che sarebbe entrata nel conto di quelle del giorno seguente, le ha anche detto di non fraintenderlo: da tempo aveva rinunciato a criticare, a giudicare, a protestare. Voleva solo staccarsi da tutto, allontanarsi, o almeno prendersi una pausa. E lei è una donna matura, lo conosce fin dall'infanzia: perché quindi le sue parole non dovrebbero bastarle? 
Dopo aver lavato la tazza e averla rimessa a posto, Yirmy ha preso la valigia e ha detto: — Vieni, andiamo di sopra. E preparati a fare una settantina di scalini perché qui, ovviamente, non ci sono ascensori. Anche se il tuo Amotz sarebbe certo sorpreso di scoprire che l'architetto che ha progettato l'edificio dopo la prima guerra mondiale non ha escluso del tutto la possibilità di installarne uno. Ha creato un vano stretto e tondeggiante a ridosso della rampa delle scale, che negli anni però si è riempito di masserizie e di vecchi oggetti. 
Ma un ascensore forse sarebbe comunque superfluo perché i gradini ampi, dall'alzata bassa, facilitano la salita alla camera situata all'ultimo piano. Era quella infatti la condizione posta dall'unico bianco unitosi alla spedizione africana: una camera privata all'ultimo piano, che dominasse il vasto panorama. Un locale non grande, ma ordinato e pulito, con pochi libri, contrariamente allo studio di Yirmy a Gerusalemme, e dove c'è una scrivania con sopra una pila di fogli [c di blocchi per fatture su cui è posato un teschio lucido. 
— Non spaventarti, — Yirmiyahu l'ha preso in mano e l'ha accarezzato, — non è di un essere umano. È di una giovane scimmia vissuta più di tre milioni di anni fa, forse un nostro antenato nella catena evolutiva. E non è nemmeno vero: è una riproduzione ottenuta grazie a un unico dente del giudizio che è stato rinvenuto. Ma se pensi che possa disturbarti il sonno, lo porto via. Shuli di certo non sarebbe stata contenta di dormire con un teschio in camera. 
Ma Daniela non ha paure simili. Perché mai la ricostruzione di un teschio di una giovane scimmia vissuta qualche milione di anni prima dovrebbe disturbarla? Yirmy non si ricordava che da piccola portava ai suoi genitori, di sera, ranocchie verdi prese dalla riva dello Yarqon e proponeva loro di accarezzarle prima di andare a letto? Sì, il volto del cognato si è illuminato di un leggero sorriso, si ricordava le ranocchie che saltavano anche sul letto di sua sorella. E magari gli sarebbero tornate in mente altre cose. Per un attimo è [sembrato contento che Daniela sia venuta a trovarlo. Ha ammesso di avere accorciato il periodo del lutto, forse perché quello per Eyal era andato avanti all'infinito. Era partito da Israele prima che trascorresse un mese dalla morte di Shuli [non perché voleva scappare, ma per timore che se fosse rimasto troppo a lungo le autorità tanzaniane, approfittando della sua assenza, avrebbero chiuso la rappresentanza diplomatica che da tempo si erano pentite di avere aperto per via pelle ingenti spese di sicurezza. Per somma ironia invece, chi l'aveva chiusa alla fine, sempre per ragioni di budget, era stato il ministero degli Esteri di Gerusalemme. E magari quella rappresentanza per lo sviluppo economico in fin dei conti era nata soltanto come una specie di risarcimento per il «fuoco amico» che gli aveva ucciso il figlio. 
Daniela, seduta sul letto, lo ha ascoltato, attenta a non mostrare segni di stanchezza, per non offenderlo. Ma lui, resosi conto dell'ora, prima di lasciarla le ha spiegato come aprire i rubinetti della doccia, promettendo con un sorriso ironico che ci sarebbe stata acqua calda a volontà perché la stufa scaldabagno al pianterreno stava ancora bruciando i giornali israeliani e le candele di Hanukkah. 
Dopo una lunga doccia Daniela si è infilata nel letto e per calmarsi dal trambusto del viaggio e sprofondare in un sonno tranquillo, senza suo marito a fianco, si è distratta leggendo una pagina a caso del romanzo. Ha spento infine la luce e con la sua rara abilità di riversare preoccupazioni e ansie in ricordi e sogni si è posata una mano sulla bocca in un gesto antico, come se si succhiasse il pollice, e si è addormentata. 
All'alba suo cognato entra in punta di piedi a chiudere le imposte per proteggere il suo riposo dalla luce violenta del sole e lei, certa che lui invierà a nome suo un segno di vita al marito, si limita a sorridere a mo' di ringraziamento e continua a dormire a lungo, senza apprensioni. 
Di primo mattino Yaari è felice di trovare nella sua casella di posta elettronica in ufficio il messaggio che tanto attendeva. Adesso che sua moglie si trova sotto la tutela del cognato può permettersi di rilassarsi per cinque giorni fino a che lei inizierà il viaggio di ritorno a casa. Con un senso di sollievo cerca di migliorare al computer l'idea balenatagli quella notte di un ascensore d'angolo, che non rubi quasi spazio agli altri quattro, dotato di un quadro di manovra autonomo. Ancora però non osa condividere l'idea con nessuno dei dipendenti, per timore che qualcuno si lasci sfuggire un commento ironico, o una critica. Farebbe meglio a sentire prima l'opinione di Moran perché il suo giudizio, anche se sarà feroce e negativo, rimarrà tra loro. 
Moran però tarda ad arrivare in ufficio. Forse ancora una volta Nadi ha tenuto svegli i genitori e, come al solito, è stato suo padre ad alzarsi e a prendersi cura di lui, non sua madre. Questo nipotino di due anni, nonostante sia dolcissimo, è piuttosto irrequieto e sia il nonno sia la nonna sono unanimi nel biasimare la nuora che a furia di cercare se stessa probabilmente trascura il figlio. Si ripetono però in continuazione di non lasciarsi scappare nemmeno una parola di critica né con lei né con Moran. Quando avevano conosciuto Efrat, sette anni prima, avevano avuto l'impressione che fosse una ragazza timida e scialba, e non potevano immaginare come la sua bellezza sarebbe sbocciata in futuro. Dopo le due gravidanze il suo corpo era diventato più pieno, la pelle aveva acquistato luminosità. Le scarpe col tacco, che lei aveva incominciato a portare, le slanciavano le belle gambe e le mettevano in risalto, e i lineamenti scultorei del viso, sottolineati dal trucco di cui aveva appreso i segreti, avevano iniziato ad attirare gli sguardi della gente. Ma quella bellezza, di cui probabilmente Efrat non era stata consapevole in passato, le aveva dato un po' alla testa. All'apparenza le rendeva più facile trovare lavoro, ma al tempo stesso minava la sua determinazione a perseverare. Spavaldamente sicura che il mondo sarebbe sempre stato sensibile al suo fascino, si comportava con superficialità nei confronti dei suoi doveri, si licenziava senza stare a pensarci due volte, e cambiava posto di lavoro con imprudente leggerezza. 
Il tempo fuori è grigio, non c'è pioggia né vento. Ma l'ovattata atmosfera invernale non impedisce al rappresentante dell'associazione condomini del grattacielo Pinsker, un uomo caparbio e malinconico, di chiamare Yaari al cellulare per pretendere ancora una volta che faccia qualcosa per far cessare l'ululato del vento nel vano degli ascensori. Non abituato a discutere con sconosciuti delle proprie responsabilità, Yaari gli domanda solo educatamente se anche ora, in quel preciso istante, il vento soffia sul grattacielo. Perché, ad esempio, sul grande albero vicino alla finestra del suo ufficio non si muove una foglia. — Non si muove una foglia? — ridacchia l'inquilino. — Forse da lei, signor Yaari, ma i suoi ascensori non hanno bisogno di venti esterni, se li creano da sé. Yaari ride e riaggancia, promettendo vagamente che si occuperà del problema. 
 Sono già le nove, e Moran non è ancora arrivato. Yaari lo chiama al cellulare ma gli risponde la segreteria telefonica. Sa che sua nuora probabilmente ancora dorme, eppure telefona a casa del figlio. Anche lì non c'è risposta. Non avendo scelta, compone il numero del cellulare di Efrat ma la solita voce registrata lo invita a lasciare un messaggio. Dopo qualche minuto lei lo richiama, col consueto tono distratto. 
— È vero, mi sono dimenticata di dirti che questa mattina Moran è partito come riservista. 
— Nonostante tutto? Cos'è successo? 
— Voglio dire, non è esattamente partito di sua volontà, sono venuti a prenderlo. 
— Chi? 
— Un tipo della polizia militare. 
— La polizia militare? Ma esiste ancora? 
— A quanto pare. 
— Accidenti. E dire che io l'avevo avvertito. Ma lui era sicuro che non si sarebbero accorti della sua assenza. 
— E invece se ne sono accorti. 
— Ma anche tu, Efrat, scusa tanto, hai qualche responsabilità. Avresti dovuto insistere perché evitasse di provocarli a quel modo. 
— Benissimo Amotz, adesso la colpa è mia, — si innervosisce lei, convinta com'è che la sua bellezza le garantisca sempre di essere nel giusto. — Che c'entro io? 
Perché sei così sicuro che lui mi abbia messo a parte dei suoi casini? 
— Va bene, scusami, e adesso? Ho urgente bisogno di lui in ufficio. 
— Se tu hai bisogno di lui troverai il modo di contattarlo. 
— E i bambini, Efrat? — Yaari si intenerisce. — I bambini? Avrai bisogno di aiuto. 
— Certo che ne avrò. Oggi ho un corso fino a sera tardi, su nel Nord. Mia madre ha promesso che questa notte dormiranno da lei ma se Nadi si addormenta al nido, con lui non ce la farà. 
— E io che avevo programmato di accendere le candele con voi questa sera... 
— Benissimo... allora tu e Daniela andrete direttamente da mia madre, accenderete le candele con lei e le darete una mano. Anche i bambini saranno contenti... e se mia madre sarà stanca, perché non li portate a dormire a casa vostra? 
— No, un momento, ascolta Efrat, io sono solo. Non ricordi che Daniela è partita ieri per l'Africa? 
— Oh, è vero. Mi sembra talmente strano che non siate andati insieme che ho dimenticato completamente il suo viaggio. 
L'imposta chiusa all'alba ha effettivamente aiutato a prolungare il sonno dell'ospite fino alla fine della mattina, e quando lei si rende conto dell'ora capisce quanta emozione e ansia deve aver accumulato durante l'ultima giornata per aver dormito tanto sodo. Yirmy evidentemente non ritiene che per una visita di pochi giorni sia necessario sgombrare uno scaffale del suo piccolo armadio e, in mancanza di meglio, sarà il trolley a fare da armadio a Daniela. A fianco delle camicie e dei pantaloni color kaki del cognato appende ora un abito di foggia africana, perché le pieghe del viaggio si liscino in vista del tentativo di indossarlo nel suo continente di origine. Era stato Amotz a incoraggiarla a comprarlo al mercato di Dar es Salaam tre anni prima, ma lei non aveva mai osato indossarlo in Israele. 
Quando le vecchie imposte si aprono con un gradevole cigolio, agli occhi di Daniela appare un panorama di colline rossastre poco elevate, ricoperte da arbusti folti e bassi. La fitta vegetazione che costeggiava la strada intorno al monte Morogoro è sparita e la distesa davanti a lei, nonostante sia verdeggiante, ha il sapore del vicino deserto. Accanto all'entrata della fattoria Daniela riconosce tra due furgoni parcheggiati uno per lato la Land Rover che l'ha portata fin lì. 
Al pianterreno, dove scende lentamente, ferve un'attività frenetica, accompagnata da un canto di donne, dallo scorrere dell'acqua corrente, dai rumori della cucina e dal chiocciare di galline. Nell'enorme stanza inondata di luce vengono portate stoviglie polverose e unte, arrivate nella notte dal sito degli scavi, contenitori di plastica, piatti e bicchieri, e un'infinità di cucchiai, forchette e coltelli che vengono subito insaponati e lavati. Sui tavoli della sala da pranzo vi è cibo in abbondanza: verdure fresche, uova, pagnotte di farina di granturco, grossi pezzi di carne sanguinolenta, peci che ancora serbano il loro ultimo fremito. Su un tavolo troneggia una gabbia di polli, e accanto alla porta è legata una capra nera che allatta un capretto anch'esso destinato al macello. 
Sui fornelli della cucina, che lavorano a pieno ritmo, ci sono pentole gigantesche, casseruole e padelle, e cuochi e cuoche neri con cappelli e foulard candidi mozzano teste e code di pesci, affettano carni, mescolano e friggono, e anche Yirmy è impegnato, non a cucinare, ma a contrattare. Seduto a un tavolo sul quale c'è una vecchia bilancia, con un casco coloniale di sughero in testa e banconote e monete accanto, verifica e prende nota delle provviste che vengono introdotte in cucina, discute con i fornitori prima di pagarne il prezzo e contrappone la sua autorità di uomo bianco, calvo e anziano, a tutta quella vivacità africana dai mille volti. 
— Ti sei fatta una bella dormita — . Nella sua voce echeggia una nota di leggera disapprovazione per la cognata venuta a piangere la morte della sorella, e che nel frattempo si comporta come se fosse in vacanza. 
Chiama Sijin Kuang, l'infermiera, che pure gironzola tra cuochi e fornelli per supervisionare l'igiene della cucina, e le chiede di offrire all'ospite un assortimento delle pietanze pronte per un pasto che sarà insieme colazione e pranzo. 
Nella fattoria che serve da campo base alla spedizione viene cucinato il cibo che poi verrà messo in contenitori di plastica e inviato al sito. La spedizione vera e propria non è molto numerosa, consta di dieci persone in tutto, africani nati in quel grande continente che hanno acquisito esperienza scientifica nel corso di scavi di altre spedizioni europee in Kenya, Etiopia e Sudafrica, e ora conducono ricerche in proprio. A quegli studiosi si affiancano parecchi operai provenienti dalle tribù della zona, nella speranza che l'affinità linguistica ed etnica tra scienziati e operai serva a localizzare e rinvenire i tanto sospirati fossili. 
Daniela ha una gran fame. Non essendo abituata a mangiare da sola, invita l'infermiera sudanese a tenerle compagnia, e anche Yirmiyahu copre le banconote e le monete con il casco coloniale e si unisce a loro. Il capocuoco arriva a sparecchiare al termine del pasto; Daniela gli fa i complimenti e gli offre il suo aiuto per lavare i piatti. L'uomo nero, sbalordito dall'offerta dell'anziana donna bianca, rimane a bocca aperta, scoprendo i denti quasi volesse inghiottirla. Yirmiyahu scoppia a ridere. — Lavare i piatti? Tu? Qui? 
— E perché no? 
— Ma se a casa dei tuoi genitori, di sabato, facevi di tutto per sfuggire all'unico dovere che ti avevano imposto: lavare i piatti del pranzo. Fino a che Shuli non si stufava e li lavava al posto tuo. 
Daniela arrossisce. — Non è vero... a volte lei mi dava una mano ad asciugarli. 
— No, no, — si intestardisce Yirmiyahu su ricordi d'infanzia di quaranta e più anni prima, — eri una campionessa nell'arte di svignartela. 
— Non me la svignavo, avevo i miei tempi. 
— I tuoi tempi, — ridacchia lui con una strana ironia, quasi stesse parlando di qualcosa di attuale. — Chissà perché andava però sempre a finire che il tempo non lo trovavi mai. 
Daniela sorride. «Ho i miei tempi» era in effetti la scusa che adduceva per sottrarsi al dovere, nella speranza che qualcuno perdesse la pazienza e la sostituisse, o almeno le desse una mano. Rigovernare i piatti del pranzo del sabato era veramente la sua unica mansione domestica, ma già durante il pranzo lei si incupiva, e siccome solitamente era una bambina allegra, i suoi genitori riconoscevano quel «malumore da stoviglie» e ci scherzavano su, rifiutandosi però di dargliela vinta. «Che c'è di tanto terribile a lavare i piatti?», domandava compassionevole sua madre a quella figlia per la quale stravedeva. Daniela faticava a spiegarle il senso di umiliazione di stare nel cucinino angusto e squallido — che anche lei in verità detestava — mentre il resto della famiglia si godeva il sonnellino pomeridiano. 
E quando tutti se ne stavano già sdraiati comodamente a letto, Daniela si recava con un senso di disgusto nella cucina buia della casa popolare, si metteva davanti al lavello grigiastro e graffiato, pieno di piatti, ognuno dei quali la faceva imbestialire più del precedente, ci spruzzava sopra un'enorme quantità di detersivo e poi se ne andava a sfogliare un giornale, o a chiacchierare per ore al telefono, pregando in cuor suo che il detersivo facesse il lavoro da sé. E al risveglio, allorché i genitori trovavano nell'acquaio i piatti sporchi, capitava che dalla cucina provenisse il rumore di un getto d'acqua redentore. Allora lei vi si precipitava sorridente e allegra dicendo, Uffa, ma che fretta avete? Vi ho promesso che li avrei lavati io i piatti, allora perché non avete la pazienza di aspettare che faccia le cose secondo i miei tempi? 
Ora che osserva la frenetica attività collettiva di quella cucina gigantesca le viene da pensare che non era il lavare i piatti in sé a procurarle sofferenza, ma il senso di solitudine che provava in quel cucinino. Dopotutto era sempre felice di aiutare suo padre ad accudire il loro piccolo giardino, o a dipingere la ringhiera, ma la sua anima si ribellava all'idea di rimanere sola davanti alla sporcizia e agli avanzi dei suoi famigliari addormentati, per quanto amore provasse per loro. 
E se talvolta accadeva che a causa dei «suoi tempi» la sera non c'erano un bicchiere, un piatto o un cucchiaino puliti, e una rabbia giustificata riempiva la casa dinanzi a quei «tempi» nei quali regnava l'immobilità più assoluta, sua sorella arrivava in aiuto, e senza alcun malumore calmava tutti e andava in cucina a darle una mano. 
— Davvero Shuli non si arrabbiava mai con me? — si stupisce ora Daniela. —  Dopotutto era naturale che si incavolasse un pochino... 
— Non ricordo che si sia mai incavolata... 
La «sorellina» minore, che tra pochi anni ne compirà sessanta, volge allora lo sguardo verso il cielo azzurro e le colline della savana africana con un senso di sollievo, di gratitudine, e un nodo alla gola. 
A Tel Aviv ha ripreso a soffiare il vento e — come diretta conseguenza — tra Yaari e Gottlieb si svolge un'animata conversazione telefonica. 
— A parte tutto, Yaari, spiegami ancora, ma per favore con un po' di logica, cosa ti spinge a comportarti così. Perché dovremmo continuare a occuparci di quei venti quando tu sai benissimo quanto me che i rumori nel vano degli ascensori non sono dovuti al tuo progetto, e di certo non alle mie cabine? Quindi perché sprecare un giorno di lavoro, fermare gli ascensori, smontare i pannelli e buttare via dei soldi, solo per scoprire quello che è già chiaro a tutti: che l'appaltatore ha risparmiato nelle armature in ferro e ha eseguito male la colata di cemento ed è lui che deve vedersela con gli inquilini... 
— Può darsi che tu abbia ragione e alla fine si scopra che le cose stanno davvero così, ma in ogni caso... dopotutto Moran ha incontrato la tua esperta... 
— Rorale. 
— E a suo parere i difetti di costruzione nel vano risalgono a prima che gli ascensori fossero installati, quindi, anche se formalmente noi non siamo responsabili dei rumori, da un punto di vista morale... 
— Da un punto di vista morale? — Gottlieb è allibito. — Questa mi giunge nuova. Da dove salta fuori? 
— Ascoltami e non arrabbiarti. Da un punto di vista morale i tuoi tecnici devono pur avere qualche responsabilità, e forse anche l'ingegnere del mio studio che ha supervisionato l'installazione, lo ammetto. Avrebbero dovuto accorgersi dei difetti e contestarli all'impresa ancor prima di montare le cabine. 
— No, no. Ti sbagli. Noi collaboriamo da più di vent'anni, e nonostante l'esperienza e la professionalità che hai acquisito nel tempo io sono più vecchio di te. Io e tuo padre ci capivamo e siamo sempre andati d'accordo per quanto riguarda i limiti della responsabilità comune. E anche quando lui si è ammalato e tu hai preso in mano l'azienda, abbiamo deciso di continuare a collaborare secondo gli stessi principi, cioè far fronte comune contro appaltatori e imprese edili onde evitare che applicassero la tecnica del divide et impera. Quindi cosa c'entra adesso l'etica? In passato non abbiamo mai fatto riferimento a un concetto tanto astruso, che sarà superfluo pure in futuro. Abbiamo parlato di responsabilità legale e abbiamo stabilito i limiti finanziari di ciascuno di noi, e la nostra collaborazione è andata avanti nel reciproco rispetto e con risparmio di denaro. Quindi perché adesso vuoi svegliare il can che dorme? L'impresa edile tace, non ha nessuna recriminazione nei nostri confronti, tenta solo di esasperarci utilizzando il rappresentante dell'associazione condomini, che anche se ha perso un figlio non ha il diritto di farci saltare i nervi. 
— Ha perso un figlio? Come lo sai? 
— Tu non sei l'unico che perseguita, fa diventare matto anche me. Perciò ho deciso di controllare chi è questo tizio e da dove gli arriva tutta quell'acredine, e ho scoperto che suo figlio è rimasto ucciso di recente, un mese o due prima che lui e la moglie si trasferissero in quel grattacielo. E anche se ritengo che si debbano rispettare le persone come lui, dobbiamo tenere a mente che le sue priorità sono diverse dalle nostre. Purtroppo, con tutte le guerre che abbiamo avuto, ho accumulato una discreta percentuale di dipendenti che hanno perso i figli e sto sempre attento a non prenderli di petto. Li ascolto educatamente, abbasso la testa e assicuro che farò il possibile per tener conto delle loro richieste. Poi, con cautela e delicatezza, faccio quello che devo fare. Perché se cominci a inguaiarti con genitori che hanno perso un figlio, potresti farti trascinare molto lontano. 
— Lo sai che anche noi... nella nostra famiglia... 
— Certo che lo so, c'ero anch'io al funerale. 
— C'eri anche tu? Non mi ricordo. Ero troppo preoccupato per mia figlia che è svenuta accanto alla tomba. Ero così spaventato che non ho visto... 
— Sì, mi ricordo che anche tuo padre era spaventatissimo, già allora si appoggiava a un bastone... quanti anni aveva allora tua figlia? 
— Dodici, appena compiuti. Di noi quattro è quella che ha sofferto di più per la morte del cugino, e ho l'impressione che ancora oggi, a distanza di sette anni, non si sia ripresa del tutto. 
— Succede che a volte ci si innamori follemente e in segreto di un cugino più grande. 
— Forse... chi può sapere cosa passa per la testa dei nostri figli? E anche una moglie può sorprenderti... Ma torniamo al reclamo. Perché non decidiamo di dedicare un giorno di lavoro al problema, per il tuo buon nome e il mio? Ci divideremo le spese. Ci piazzeremo sul tetto dell'ascensore più grande e risaliremo lentamente il vano illuminando le pareti con una torcia per dimostrare una volta per tutte da dove arrivano i venti. 
— No mio caro, io mi rifiuto categoricamente. Ormai ho imparato che pure una macchina è come un essere umano. Se la apri e cominci a frugarci dentro scopri cose che preferiresti non sapere. È vero, la mia esperta è molto sensibile ai suoni e ai rumori ma credimi, è anche un po' toccata. 
— Toccata? 
— È troppo sicura di sé, e perciò bisogna fissarle dei limiti. Insomma, finché non c'è una richiesta ufficiale degli inquilini noi ce ne stiamo tranquilli nel nostro angolino. E se quell'uomo, il rappresentante dell'associazione condomini, continuerà a tormentarti digli: «Ha ragione signore, stiamo verificando il problema ma ci vorrà del tempo». così te lo levi di torno con gentilezza. Dopotutto nessuno è mai morto per un fischio di vento. E la morale, amico mio, lasciala in famiglia. 
I cuochi si levano i cappelli bianchi e li sventolano sopra le pietanze per raffreddarle un po' prima di infilarle nei contenitori e poi nel grande frigorifero. I pasti pronti saranno spediti al sito degli scavi solo alle tre del pomeriggio, e nel frattempo Yirmy propone alla cognata una breve passeggiata, per vedere uno stranissimo elefante. 
— Un elefante? — si entusiasma lei. — Benissimo, ma perché dici che è strano? 
— Quando lo vedrai, capirai. 
— Perché dobbiamo andare a piedi? Non possiamo prendere la macchina? 
— Non è una passeggiata lunga. 
— Ne sei sicuro? 
— Non ti farò fare un tragitto che tua sorella non sarebbe stata in grado di percorrere. 
Daniela sale in camera a mettersi un paio di scarpe comode, ci pensa su un momento, e poi indossa anche il vestito africano. In un luogo tanto remoto potrà verificare se i suoi colori vivaci le si addicono, e con sua sorpresa il cognato riconosce l'abito comprato al mercato accanto alla sede della rappresentanza israeliana. In quell'occasione Amotz aveva cercato di convincere Shuli a seguire l'esempio di Daniela, e acquistare un vestito simile, ma lei si era fermamente rifiutata. 
— Non ho mai osato indossarlo in Israele perché i suoi colori sono troppo sgargianti e mi sembrano anche male assortiti. 
— Peccato, perché le donne africane della tua età sanno che i colori sgargianti e male assortiti le rendono più giovanili. 
— Allora adesso sarò un'africana giovanile, — ride Daniela uscendo dalla porta della fattoria mentre il sole l'acceca già al primo passo. — Un attimo, — dice a Yirmy, — fermati. Non sono pronta a un sole così forte. Dimentichi che sono arrivata da un posto piovoso e ventoso. 
Ma Yirmy non prende sul serio l'inverno israeliano. Quanto rigido potrà mai essere? Si toglie il casco coloniale e lo mette in testa alla cognata. — Ecco, in onore dell'equatore — . Poi la conduce lungo un sentiero ombroso, sul quale è gradevole camminare, e malgrado la luce forte Daniela si gode l'aria pura. 
Dopo un tratto breve e poco impegnativo, scendono verso un torrentello sulla cui sponda pascolano delle mucche nere. Yirmy dice agli alti pastori alcune parole nella loro lingua, e loro rispondono con una frase più lunga. 
Da quando è arrivata la sera prima, Daniela non ha ancora nominato i suoi famigliari — Amotz e i figli — , ma soprattutto ha badato a non lasciarsi sfuggire parole di tenerezza per i due nipotini. È strano che anche Yirmy abbia finora ignorato la loro esistenza e non domandi nulla, non mostri interesse, come se il baratro della lontananza avesse inghiottito anche loro. Mentre costeggiano il torrente Daniela decide di nominarli: dopotutto la sua famiglia è sempre stata cara al cognato. Lui le cammina a fianco, indifferente, silenzioso, alto, con abiti sgualciti color kaki e la testa pelata e arrossata dal forte sole. 
— Scusa, ma ti interessa poi che parli di loro?  
— A dire il vero, non proprio... ma se è importante per te, fa' pure, perché no? 
Daniela è sbalordita, tace, non reagisce a quell'offesa diretta. È vero, è lei che ha imposto a Yirmy questa visita, e non per raccontare di suo marito e dei figli ma per parlare di sua sorella, che magari però lui vorrebbe dimenticare. 
Mezz'ora dopo arrivano a un ampio fiume accanto al quale ci sono capanne e tettoie. 
— Ecco, l'elefante è laggiù — . Yirmy indica una tettoia lontana. Alcuni ragazzini le stanno intorno e si mettono a correre in direzione dei due bianchi. Un vecchio africano dai capelli candidi, seduto all'entrata, riconosce da lontano l'uomo e lo chiama per nome. A quanto pare Yirmiyahu è già stato qui diverse volte, e ha sempre pagato un biglietto d'ingresso. 
Nonostante non sia particolarmente imponente, l'elefante, con la sua mole e il suo odore, riempie l'intero spazio. Ha una zampa incatenata al tronco mozzo di un albero, e senza far caso agli ospiti venuti in visita continua a spiluccare delicatamente della verdura da una piccola mangiatoia, infilandosela con la proboscide nella bocca rossastra. 
L'africano impartisce un ordine secco e l'animale interrompe il pasto, solleva la testa e la tende verso gli ospiti. Daniela ora capisce il motivo della visita. L'occhio sinistro del pachiderma è piccolo e normale, infossato nella carne nera delle guance, ma quello destro è gigantesco, spalancato. Sembra un occhio da ciclope, curioso e intelligente, dall'iride azzurrognola, o verdastra, che osserva il mondo con malinconica umanità. 
— È vero? — domanda stupita Daniela. 
— Certo. Quest'uomo era guardiano di una riserva naturale, e quando l'elefante è nato ha notato che la madre lo respingeva a causa di questo difetto genetico. Siccome lei avrebbe potuto fargli del male, ha ottenuto dalle autorità della riserva il permesso di isolare l'elefantino per proteggerlo, e anche per mostrare a tutti la sua peculiarità. E adesso gira con lui da un posto all'altro, monta una tettoia e si fa pagare il biglietto. 
L'africano grida un nuovo ordine alla bestia, che muove qualche passo verso Daniela e con una specie di cerimonioso inchino abbassa la testa per mostrarle da vicino il grande e stupefacente occhio e ricevere in cambio un premio. Lei si sente mancare. L'odore pungente dell'animale le provoca un capogiro. — Accarezzalo, —  le intima il cognato, e Daniela tende una mano verso l'iride azzurrognola-verdastra che la ipnotizza, e poi subito arretra. Yirmiyahu scoppia in una risatina strana, secca. 
Daniela lo osserva. Sembra disteso e compiaciuto. A dire il vero certi suoi atteggiamenti talvolta impensierivano i suoi genitori, ma l'amore e la devozione che mostrava per Shuli fugavano ben presto ogni preoccupazione. Ora che Shuli non c'è più, sembra che Yirmiyahu non abbia più alcun freno. 
L'elefante si alza e in onore degli ospiti lascia cadere i suoi escrementi con un soffice tonfo sulla paglia sparsa a terra. L'africano li osserva con soddisfazione, sorride a Yirmiyahu e lui annuisce. 
— Vedo che sei soddisfatto, — gli dice Daniela in tono di sfida quando escono da sotto la tettoia, — ti sei allontanato da tutto e hai dimenticato i guai. Bruci i giornali e vivi senza radio e senza telefono. Ma riesci veramente a isolarti o ti stai solo divertendo? Non dirmi, ad esempio, che non sai che da noi hanno sostituito il primo ministro. 
— No, non lo so — . Yirmy solleva la mano per zittire la cognata. — E nemmeno voglio saperlo. 
— E non ti interessa sapere chi è il nuovo capo del governo? 
— Assolutamente no — . Lui le tappa la bocca. — Non dire niente. Non voglio sentire il suo nome, e nemmeno quelli dei ministri e dei sottosegretari. Non mi interessa e non me ne frega niente. Per favore, Daniela, cerca di capire la mia situazione, e cosa è importante per me adesso. Dopotutto sei venuta qui a far rivivere un dolore, non ad avvelenare la mia solitudine. 
Yaari cerca inutilmente di contattare Moran. Fatica ad accettare il fatto che il cellulare del figlio, sempre acceso e disponibile per lui, si sia trasformato all'improvviso in una segreteria telefonica virtuale che registra con indifferenza i messaggi. Lo chiama a casa, non nella speranza di trovarlo ma per lasciare in una segreteria telefonica vera un messaggio breve e imperioso che altro non è che la preoccupazione di un padre mascherata dall'ingiunzione di un datore di lavoro che pretende di sapere quando il suo dipendente sarà congedato. Poi cerca ancora Efrat al cellulare. Se risponderà, lo farà solo richiamandolo dopo qualche tempo. Consapevole che la nuora è in grado di riconoscere il suo numero sul display del telefonino, e ignorarlo a piacere, registra il messaggio più perentorio che un suocero possa permettersi di lasciare alla madre dei suoi nipoti senza compromettere i rapporti con lei. Cara Efrat, dice Yaari con una nota di disperazione nella voce, se sei riuscita a contattare il tuo disertore, chiamami subito, ho urgente bisogno di lui. 
Onestamente non c'è nulla che esiga la presenza di Moran in ufficio. Ma Yaari non lo cerca in veste di dipendente ma di figlio, sul quale esercitare un controllo in nome del suo amore, soprattutto ora che sente la mancanza della moglie. Daniela sa sempre formulare a parole malesseri che lui non riesce a definire, e così facendo li attenua, li allevia. E ora Yaari cerca Moran quasi lui fosse il riflesso silenzioso di lei. Ma non si lamenterebbe con lui come invece fa con la moglie. 
Telefona alla figlia a Gerusalemme. Anche lei è irreperibile al cellulare. Yaari ne è contento: potrà lasciarle un messaggio in segreteria senza rischiare una discussione. — Nofar, — esordisce scegliendo con cura le parole, — spero che non ti sia dimenticata che la mamma è partita ieri per l'Africa, per andare da Yirmy. Anche Moran è partito come riservista, anzi, sarebbe più giusto dire che l'hanno costretto a partire, e ancora non è chiaro se tornerà stasera o domani. Efrat è impegnata con un altro dei suoi corsi e i bambini staranno da sua madre. Questa sera perciò sono solo. Se non sei di turno, e non hai niente di importante da fare a Gerusalemme, potresti venire a stare un po' con me: accenderemo insieme le candele. 
Silenzio. Alle narici di Yaari giunge un gradevole aroma di tabacco. Si alza, prende il cappotto ed esce dall'ufficio. Nonostante mezzogiorno sia ancora lontano, l'open space è quasi vuoto. In un angolo delimitato da una bassa parete di vetro è seduto però l'ingegnere capo, il dottor Malachi, intento a osservare sul monitor del computer il progetto di un grande ascensore e a fumare la pipa, cosa che si permette di fare visto che non c'è nessuno nei paraggi. Yaari si avvia nella sua direzione per goderne l'aroma. 
— L'odore di tabacco è parte imprescindibile della mia infanzia, dei bei tempi in cui era ancora permesso fumare in ufficio. Se non fosse per l'appuntamento che ho al ministero della Difesa, rimarrei a respirarlo ancora un po'. Mi faccia solo il favore, prima di andarsene, di non lasciare della brace non completamente spenta nel cestino... 
— E lei stia attento a non promettere un quinto ascensore prima di assicurarsi un pagamento extra per ogni cambiamento che saremo costretti ad apportare al progetto. 
— Vedremo, — borbotta Yaari indossando il cappotto, — vedremo — . Ancora però non gli mostra lo schizzo notturno che ha in tasca per timore di una reazione ironica da parte di chi riceve lo stipendio più alto di tutto l'ufficio. 
— Allora non ti dispiace che ti abbia portata a vedere l'elefante, — domanda Yirmy a Daniela con tenerezza. 
— No, — risponde lei. Sotto la falda del casco coloniale il suo volto non più giovane assume una dolce espressione infantile. Poi aggiunge con un sorriso: —  Allora un elefante con un difetto genetico ti interessa di più del primo ministro israeliano... 
— Perché? Anche lui ha un difetto genetico? — ride Yirmy, spostando lo sguardo verso le colline all'orizzonte. 
Di ritorno al torrentello camminano tra mucche e pecore mentre gli alti pastori, appoggiati ai loro bastoni, li osservano seri. A poca distanza, in cima a una collina, un filo di fumo sale da una capanna che Daniela non aveva notato in precedenza. — Di' un po', — domanda al cognato, — sarebbe possibile dare un'occhiata a una capanna come quella? – Perché no? — risponde lui. — Ti renderai conto di quale esistenza conduce la gente qui, di quanta miseria ci sia, in che tanfo vivano — . Deviando dal sentiero, Daniela e Yirmy si arrampicano lungo il pendio. Accanto alla capanna pascola una mucca. Una donna africana robusta, in piedi sul tronco mozzo di un albero, spalma sul tetto del tugurio gli escrementi freschi dell'animale. Yirmiyahu le dice qualcosa, le dà una moneta, e sospinge delicatamente la cognata verso l'ingresso. 
La capanna è vuota. Qua e là ci sono coperte sulle quali è sparso del vasellame di stagno. In un angolo, circondata da pietre di basalto nere, è imprigionata la fiamma di un fuoco violaceo il cui fumo lambisce i bioccoli di paglia che spuntano dal soffitto. 
— Non hanno paura che il fuoco arrivi alla paglia e bruci la capanna? 
— Se anche bruciasse, si potrebbe ricostruirla facilmente. Non lasciano spegnere mai il fuoco, sono abituati a tenerlo sempre acceso, da generazioni, pure nel caldo torrido dell'estate. 
— Un fuoco amico, — sussurra Daniela meditabonda, con gli occhi pieni di lacrime per il fumo. 
— Sì, — esclama Yirmy con afflizione, — un fuoco veramente amico... Lo sa il diavolo come questa espressione insopportabile ci sia rimasta appiccicata. Lo sai chi è stato il primo a usarla? 
— No. 
— Indovina. 
— Non lo so... 
— L'uomo a cui vuoi più bene al mondo... 
— Moran? No, non dirmi Amotz... 
— Perché no? Proprio lui, a Gerusalemme, nel mio ufficio al ministero degli Esteri. Amotz era venuto a darmi la notizia della morte di Eyal accompagnato da un medico e da un ufficiale dell'esercito perché quando Eyal si era arruolato aveva annotato su un modulo il suo nome e il tuo nel caso avessero dovuto informare i genitori di una disgrazia. Non potevano nascondermi il fatto che era stato ucciso dal fuoco dei suoi commilitoni perché la notizia sarebbe comunque trapelata alla stampa, e mentre ascoltavo, con una freccia avvelenata infilzata nel cuore, quel messaggero di sventura in uniforme che mi spiegava come i nostri soldati avessero aperto il fuoco contro Eyal e illustrava con mano tremante la scena della battaglia, quasi ci fosse stato un vero e proprio combattimento e non la semplice uccisione di un soldato erroneamente scambiato per un ricercato, il tuo Amotz, il mio Amotz, il nostro Amotz, arrivato da Tel Aviv con quel messo, forse ritenendo che io non capissi le spiegazioni, o al contrario, con l'intenzione di consolarmi e allentare un poco la doppia fune che mi stringeva il collo — perché morire per mano dei nostri soldati è cento volte più crudele che morire per mano del nemico — , mi prese la mano, mi abbracciò forte e disse: «Yirmy, quello che vogliono dire è che Eyal è rimasto ucciso da fuoco amico». 
— Amotz? — mormora Daniela, profondamente addolorata. 
— Sì, Amotz, e non una sola volta. Ha ripetuto quella frase disgraziata più volte. Io sulle prime avrei voluto mangiarmelo vivo, poi, all'improvviso, in mezzo allo shock e alla rabbia, capii che quell'espressione assurda, quel «fuoco amico», conteneva anche qualcos'altro: una scintilla che mi avrebbe aiutato a ritrovare la strada nel buio fitto che mi attendeva, a riconoscere meglio i nostri veri mali... e allora mi sono innamorato di questa espressione, ho cominciato a usarla a proposito e a sproposito, a contagiare pure gli altri... ecco, anche tu, sorellina, sei entrata in questa squallida capanna africana e hai detto con totale semplicità: fuoco amico... no? 
La sede del ministero della Difesa è situata a poca distanza dallo studio di progettazione di Yaari ma i genitori e i bambini che si riversano verso l'Heichal HaTarbut, il centro culturale, costringono Amotz a rallentare. Avendo ereditato dal padre, che pure un tempo aveva lavorato per il ministero, un pass per entrare negli uffici, il suo accesso all'edificio ben sorvegliato avviene però rapidamente e senza inutili intoppi. 
Qualche anno prima il vecchio stabile era stato ampliato, erano stati aggiunti piani alti e sotterranei ed era stato lo studio di Yaari a progettare la maggior parte degli ascensori. In certi periodi Amotz era solito partecipare a parecchie riunioni del reparto infrastrutture del ministero per scongiurare tagli ai suoi progetti da parte delle imprese edili. Abituato alla frenesia del reparto, nota anche qui l'assenza di molti dipendenti. I computer sono spenti e gli uffici vuoti, compreso quello del direttore col quale aveva appuntamento. — Che succede? — domanda all'anziana segretaria rimasta sul posto. — Il ministero della Difesa ha deciso che Hanukkah rientra nel novero delle feste comandate per aumentare i giorni di ferie dei suoi dipendenti? 
— Perché no? — risponde lei, stupita che lui non sappia dello spettacolo organizzato per i figli del personale al centro culturale. Anche Moran era riuscito a scroccarle dei biglietti gratis da distribuire nel suo studio. 
— Non si è nemmeno preso la briga di informarmi, e nemmeno mia nuora lo sa. Questa mattina è partito per chiarire la sua posizione come riservista e adesso i miei due nipotini si perdono lo spettacolo. 
— Quanti anni hanno? 
— Il maschietto due e la bambina cinque. 
— Allora non si preoccupi. I miei avevano più o meno la loro età l'anno scorso e non si sono divertiti neanche un po'. 
— Ma come fa a sapere che si tratta dello stesso spettacolo? 
— Cosa mai potranno inventare di nuovo degli attori disoccupati che cercano di sbarcare il lunario? 
— Allora non è rimasto nessuno con cui si possa discutere del progetto? 
— C'è la nuova vicedirettrice. 
— Perché? Lei non ha figli? 
— No. È nubile per scelta. Vada nel suo ufficio. 
La donna, sui cinquant'anni, alta e sorridente, laureata in ingegneria civile e con alle spalle un dottorato di ricerca, riceve Yaari con gioia e rintraccia la pratica che lo riguarda sulla quale è scritto in pennarello rosso Top Secret. 
— Questa richiesta di un quinto ascensore — sospira lui — è saltata fuori dopo che avevamo già finito il progetto. Mi dica, è davvero indispensabile? 
Lei dà un'occhiata ai documenti e sospira di rimando. — Che ci posso fare? Anche noi riceviamo degli ordini. E a quanto pare questo è tassativo. Serve una cabina indipendente che colleghi l'ultimo piano direttamente al parcheggio sotterraneo senza possibilità di fermata, così che nessuno possa salirvi. E oltre a un telefono interno serve anche un monitor collegato alle telecamere di sicurezza che sorvegliano la zona circostante. Insomma, dovrà essere una specie di ascensore privato. 
— Vabbè, allora troveremo una soluzione. Spero che abbiate tenuto conto che questo implicherà un cambiamento radicale del progetto del vano e dei costi extra. 
— È naturale che ci voglia un cambiamento, — ammette la vicedirettrice, — ma per quanto concerne i costi, abbiamo già spremuto fino all'ultimo sheqel per questo progetto. 
— Grazie tante, allora qual è la conclusione? Che adesso dovrei sovvenzionare io le spese per la sicurezza dello stato? 
— Perché no? — ride lei. — In fondo si preoccupano anche della sua, di sicurezza. 
Yaari scrolla le spalle ma evita di addentrarsi in una discussione. In ogni caso le decisioni riguardanti i finanziamenti sono di pertinenza di un altro reparto e lì lui saprà difendere le sue posizioni. Incerto se mostrare alla donna lo schizzo fatto alla luce della luna, alla fine decide di osare. Una donna cordiale, piacente ed elegante come lei non si permetterà di stroncare una proposta tecnica che non rientra nel suo campo di competenza. — Sa, — le spiega con un sorriso enigmatico, — siccome al momento sono solo, perché mia moglie è partita per l'Africa, e soffro un po' d'insonnia, mi è venuta un'idea che forse metterà tutti d'accordo. Un ascensore con le porte perpendicolari che dovrebbe incastrarsi nell'angolo sud del vano, con un quadro di manovra indipendente. Così non ruberà troppo spazio agli altri quattro e il progetto già concluso non dovrà essere completamente rivoluzionato. 
La vicedirettrice prende un righello e compie misurazioni e calcoli in base alla scala dello schizzo. 
— Sarà piccolissimo questo suo ascensore, signor Yaari, — sorride ironica. — Il nostro cliente misterioso dovrà mettersi a dieta prima di poterlo usare. 
— È vero, — ammette Yaari, — è piccolissimo, ma non si dimentichi che ci sono due angoli, e ci potrà trovare posto anche un'altra persona, diciamo la moglie del nostro mister X. 
— La moglie? — sogghigna sorpresa la vicedirettrice. — Non l'ho davvero messa in conto per il progetto del nostro ascensore monacale. Ma se insisterà ad accompagnare il marito dappertutto, allora dovrà mettersi a dieta pure lei. 
10 
La grande cucina della fattoria è pulita e silenziosa. I cuochi e le cuoche sono scomparsi. Yirmiyahu apre davanti alla cognata una delle porte del grande frigorifero. — Cosa vuoi che ti riscaldi? — Ma il sole cocente e la donna africana che spalmava sul tetto gli escrementi della mucca hanno fatto passare l'appetito a Daniela. — Non c'è fretta, — dice, — andrò di sopra a riposarmi un po', e poi, se è possibile... 
Sì, il pranzo si può rimandare, però non oltre le tre del pomeriggio perché a quell'ora Yirmy partirà per il sito degli scavi per consegnare il cibo alla spedizione e tornerà solo a tarda sera. 
— È lontano il sito? 
— Non molto, ma si viaggia lentamente. 
— E io cosa faccio? 
— Riposa, leggi, in fin dei conti il romanzo non te l'ho bruciato. 
— E chi altri rimarrà qui? 
— C'è sempre qualcuno di guardia. 
D'un tratto Daniela è colta dal timore dell'abbandono. 
— Potrei venire con voi? C'è posto anche per me? 
— Sì, ma a patto di non farmi aspettare fino all'ultimo minuto, come faceva tua sorella. Alle due e mezza ti fai trovare qui pronta, mangiamo e ci mettiamo in viaggio. Vuoi che ti svegli? 
— Non ce n'è bisogno, — dice lei in tono di lieve scoramento, — non credo che riuscirò a dormire. 
Sale lentamente la scala ampia e agevole che si snoda intorno all'antico vano. Nella camera lasciata quella mattina respira ora un odore di lisoformio che le ricorda quello dei gabinetti della scuola in cui insegna. In sua assenza il pavimento è stato lavato, il bagno lucidato e il letto rifatto in modo diverso. Daniela volge lo sguardo verso il cielo estivo velato da una foschia azzurrognola. Su una collina lontana scorge due grosse zebre, ma è difficile dire se stiano lottando o si stiano accoppiando. Pensa al marito. Era stato davvero Amotz a usare per primo l'espressione «fuoco amico» che Yirmy aveva cominciato a ripetere con un sarcasmo che avviliva e paralizzava sua sorella? 
Tira a sé le ante di legno delle imposte, fa ombra nella stanza. La camera è piacevole, ma le manca un grande specchio che le rifletta la figura intera. Quello piccolo e graffiato appeso sopra il lavabo non riesce a soddisfare la sua curiosità. Si toglie le scarpe da ginnastica, si sfila il vestito. A giudicare dalle occhiate di approvazione della gente del posto è contenta di aver seguito il consiglio di Amotz e di averlo indossato nel suo continente di origine. Sono anni che porta solo pantaloni perché è convinta che gli abiti l'appesantiscano, almeno agli occhi degli altri, non ai suoi. Ma qui è libera, non è tenuta a proteggere la sua silhouette. L'ampio vestito aveva reso ariosa la visita mattutina all'elefante. 
Si stende sul letto in mutande e reggiseno. Dopo qualche minuto se lo slaccia. Si avvolge poi in una vestaglia leggera, trovata nel piccolo armadio di Yirmy. Amotz aveva rinunciato con troppa facilità all'idea di partire con lei. Temeva che questa volta potesse importunarla, questo sì, ma per il momento lei non si sente sopraffatta dai ricordi d'infanzia né dal dolore, e chissà cosa accadrà durante questa breve settimana che ancora l'aspetta. La solitudine nella quale suo cognato si rifugia caparbiamente altera il legame semplice e naturale che ha sempre avuto con lui. E poi non è possibile che lui si trovi qui solo per rimpolpare i suoi risparmi. Di certo i motivi sono più profondi. Quando sfoglia i tre volumi di antropologia e di geologia che trova nella stanza, Daniela capisce che non sono libri di svago, e nemmeno solo da sfogliare. La loro presenza è puramente simbolica nella camera di un uomo la cui biblioteca a Gerusalemme è sempre stata stracolma. 
Si alza a controllare se ha chiuso a chiave la porta della camera. Se si fosse recata con Amotz all'ufficio di Yirmy il giorno in cui gli avevano comunicato la terribile notizia, probabilmente lui avrebbe tenuto a freno la lingua, non si sarebbe fatto sfuggire quella frase a proposito del «fuoco amico» che aveva tanto impressionato Yirmy e gli era servita da spunto per creare quella specie di nuova fede religiosa. Invece lei era arrivata a casa di sua sorella, a Gerusalemme, in ritardo. Moran aveva una tale paura del colpo che stava per piombarle addosso che aveva gironzolato per un'ora intera fuori dalla scuola in attesa del termine delle lezioni. Tutti avevano saputo prima di lei che Eyal era morto. 
La porta è chiusa a chiave. Nonostante il caldo Daniela prende una delle coperte di lana di Yirmy e vi si avvolge. Da anni ormai si mantiene fedele al riposino pomeridiano e cerca di non rinunciarvi nemmeno durante i viaggi. E siccome fin dal suo primo anno di matrimonio Amotz aveva scoperto che in quelle ore la moglie era più incline ad avere rapporti sessuali, aveva cominciato a unirsi puntualmente a lei. Era forse la forza misteriosa del sole pomeridiano la responsabile della carica sessuale di Daniela? Oppure quella era un retaggio del periodo in cui da giovane, al termine di una giornata di studi, dei ragazzotti innamorati le venivano dietro e la fermavano all'inizio del quartiere mentre sua madre l'aspettava con il pranzo? 
Comunque, ancora anni dopo la morte di sua madre, quando i suoi spasimanti vivevano ormai soddisfatti e tranquilli con altre donne, durante le ore del riposo pomeridiano in Daniela bruciava una fiamma che Amotz si sforzava di non lasciarsi sfuggire, al punto che a volte si affrettava a interrompere appuntamenti e riunioni e si sobbarcava il lungo tragitto fino al quartiere residenziale periferico dove vivevano per tentare la fortuna nella penombra della camera da letto nella quale un'insegnante d'inglese si addormentava al termine di una mattinata di lavoro. 
11 
Incoraggiato dal fatto che lo schizzo notturno aveva per il momento ottenuto solo commenti divertiti e non sprezzanti, Yaari rinuncia a prendere uno degli ascensori da lui progettati e scende agilmente le scale dell'edificio del ministero della Difesa, diretto verso l'uscita. Il cielo si è rasserenato, e un piacevole sole invernale fa amicizia con i passanti. Le vie si sono svuotate dopo che il centro culturale ha ingoiato nel suo ventre bambini e genitori. Ma è possibile che lo spettacolo di Hanukkah abbia coinvolto anche il suo ingegnere capo e il commercialista? L'ufficio di Yaari è infatti chiuso a chiave. Solo un aroma di tabacco aleggia ancora nell'aria. 
Chiama Moran al cellulare, ma il sofisticato apparecchio in dotazione al figlio per gentile concessione dello studio gli concede solo di lasciare messaggi vocali, o scritti. Senza troppa speranza chiama il cellulare di Efrat, anch'esso inserito fra quelli in dotazione all'azienda grazie all'abilità dell'anziano commercialista, ma l'apparecchio trasmette come un pappagallo il messaggio registrato dalla nuora, civettuolo e impietoso. Tutti si sottraggono al loro dovere, riflette Yaari. Sarà lui l'unico a rimanere accanto alla scrivania del suo ufficio? Sul monitor del computer è appiccicato un post-it dell'ingegnere capo: un'anziana signora di Gerusalemme, identificatasi come la dottoressa Dvorah Bennet, chiede di parlare con suo padre riguardo al guasto di un ascensore privato installato nell'appartamento. Lui non ha preso di proposito nota del numero della signora perché non vuole che lei si aspetti che le rispondano. Sicuramente però richiamerà nel pomeriggio. È il caso di darle il numero di suo padre? 
No, scarabocchia Yaari con un pennarello nero, non le dia nessun numero. Mi basta l'inquilino del grattacielo Pinsker. Ha dimenticato che siamo uno studio di progettazione e non di assistenza? Poi appiccica il foglietto allo schermo del computer dell'ingegnere, chiude a chiave l'ufficio e se ne va a casa. In mancanza di un biglietto gratuito per uno spettacolo per bambini magari potrà farsi un sonnellino gratuito nel suo letto matrimoniale. 
Spinto dal solo desiderio di sognare, guida per le strade trafficate della città, stupito di vedere quanti ultraortodossi si siano concessi una pausa dallo studio della Torah e, in mancanza di uno spettacolo adatto ai loro bambini, riempiano i parchi giochi sulle rive dello Yarqon. Nonostante il freddo i loro piccoli scivolano, si dondolano, mentre le tziziot, le frange di preghiera, si agitano nel vento. 
Ancor prima di entrare in casa, Amotz spinge via dalla porta d'ingresso le foglie accumulate lì davanti. L'ordine perfetto che regna nell'appartamento rende ancor più palpabile l'assenza di sua moglie intorno alla quale, solitamente, regna il disordine. Rimette a posto una candela rossa caduta dalla hanukkiah pronta per la sera, riscalda il pranzo e mangia rapidamente. Poi va in camera da letto e si spoglia. Un sonno solitario, senza sesso, è un motivo sufficiente per isolarsi dal mondo? 
Senza esitare stacca il telefono. Domani Yirmiyahu porterà Daniela a Dar es Salaam e lì, a mezzogiorno, come concordato, lei lo chiamerà al telefono. Perciò adesso può allentare la presa. I badanti filippini si prendono cura di suo padre, l'esercito trattiene suo figlio, la sua consuocera dovrebbe accudire i nipotini e la bellezza di Efrat compenserà i suoi difetti. Su Nofar, anche se lei dovesse accettare l'invito di venire da lui questa sera, in ogni caso è impossibile esercitare un controllo. Yaari abbassa la tapparella, accende il riscaldamento e si infila sotto le coperte. Il silenzio che regna nella stanza, senza nessun fruscio di giornali accanto a lui, è comunque gradevole. È vero, l'amore per sua moglie avrebbe dovuto spingerlo a proporle di accompagnarla, ma aveva ritenuto più saggio astenersi dal farlo. E inoltre aveva avuto il buonsenso di avvertire Yirmiyahu di quanto Daniela fosse diventata sbadata e distratta negli ultimi tempi. 
Sa che suo cognato avrebbe preferito che lui l'accompagnasse. Ma se l'avesse fatto avrebbe reso più opprimente questa visita standosene seduto in un silenzio educato che avrebbe potuto essere interpretato come ironico. E un nuovo viaggio in Tanzania non l'avrebbe ripagato dei disagi e delle spese. Solo tre anni prima avevano visitato con Yirmy e Shuli un enorme cratere che racchiudeva dentro di sé un'intera riserva naturale, piena di predatori e piante rare. Sì, a volte sente un pizzico di nostalgia per le placide distese della savana, o per la tempesta dei colori al tramonto, ma per quel po' di nostalgia valeva forse la pena trascurare per un'intera settimana il lavoro in ufficio e rimanere seduto in silenzio tra sua moglie e suo cognato? Yirmy era fissato su quella frase a proposito del «fuoco amico» che lui si era lasciato sfuggire nel momento terribile in cui gli avevano annunciato la morte di Eyal e che aveva poi cominciato a ripetere con assurda insistenza, e da allora Yaari aveva capito che era più prudente evitare conversazioni con lui. Aveva ragione Gottlieb. I padri che hanno perso i figli hanno priorità diverse. 
Si alza a chiudere la tenda per fare ancora più buio nella stanza e nota che il suo cellulare è posato sul comodino, acceso e funzionante. Spegnerlo completamente o attivare la vibrazione? Alla fine opta per la vibrazione, infilandolo però sotto il cuscino. 
12 
Sono quasi le tre del pomeriggio nella fattoria africana e davanti alla porta chiusa della camera da letto Yirmiyahu chiama la cognata: — Stiamo per partire! E tu che pensavi non ci fosse bisogno di svegliarti... 
Daniela si scusa, per quanto non si consideri colpevole. Nei suoi viaggi all'estero bada sempre a non spostare le lancette del suo orologio per tenerle in sincronia con quelle di figli e nipoti. È Amotz a regolarsi secondo l'ora locale. 
— Ma Amotz non c'è, — si stupisce suo cognato con una lieve sfumatura di rabbia, pretendendo che lei scenda subito, altrimenti la lascerà a finire il suo romanzo. 
La minaccia di rimanere sola alla fattoria con una vecchia guardia africana porta Daniela ad agire in fretta, malgrado sia una donna che rispetta i «propri tempi», tanto più che questa volta non ha dubbi su cosa indossare. Con rapida naturalezza si infila nuovamente il vestito africano, non solo perché il tessuto è gradevole e gli alti pastori appoggiati ai loro bastoni l'hanno guardata con compiacimento, ma anche perché sa che solo qui, in Africa, può permettersi di indossare un abito tanto colorato. 
Nello spiazzo antistante la fattoria i veicoli sono pronti per partire. I contenitori termici sono accatastati l'uno sull'altro con accanto recipienti pieni di latte e acqua e piccoli sacchi di farina, di patate e di fagioli bianchi da cucinare sul posto, e anche grosse pentole di minestra, altre padelle vuote e pulite e del vasellame. Il capretto, del quale a quanto pare è stata rimandata la macellazione, si guarda attorno con interesse. I cuochi si sono tolti i grembiuli bianchi del mattino, hanno indossato delle mantelline di cuoio corte e grigiastre e terminano gli ultimi preparativi del viaggio oliando i fucili da caccia e rovistando nei motori delle vecchie jeep. 
La cucina è deserta. Sijin Kuang, con indosso uno spolverino verdognolo, posa su uno dei lunghi tavoli un piatto e un bicchiere per l'ospite. 
— Ti abbiamo riscaldato qualcosa, — le spiega Yirmiyahu, — a patto che mangi in fretta. 
Ma Daniela, malgrado sia affamata, non si umilierà a mangiare da sola sotto gli occhi di estranei, e perdipiù con una rapidità alla quale non è abituata. No, resisterà fino al pasto dei ricercatori. Quindi si può partire. Sijin Kuang, contrariata dalla rinuncia dell'ospite, le prepara però un paio di panini per il viaggio. E non contenta di quello, mentre i motori dei furgoni si risvegliano tossendo, sparisce dentro casa e torna con una giacca a vento. — Il suo vestito è bello, — dice a Daniela sedendosi al volante della Land Rover, — ma la sera c'è bisogno di qualcosa di più pesante che la protegga dal freddo. 
Yirmy, adducendo il pretesto delle gambe lunghe, chiede scusa alla cognata e la spedisce sul sedile posteriore, tra le provviste pregiate: bottiglie di whiskey e di cognac, pacchetti di sigarette e di cioccolato destinati agli scienziati, e attrezzatura medica per tutti. Daniela appoggia la giacca a vento di Sijin Kuang sulle ginocchia, si guarda attorno e addenta un panino. La Land Rover viaggia in fila indiana in mezzo ai due furgoni. In quello che li precede gli occupanti hanno in mano dei fucili da caccia. 
— Perché i fucili? — si stupisce lei. Le viene allora spiegato che talvolta animali e uccelli predatori, attratti dal cibo, si aggregano alla carovana ed è necessario tenerli a distanza. 
In un primo momento i veicoli si dirigono verso il villaggio che Daniela e Yirmy hanno visitato quella mattina e dove i bambini ancora si accalcano attorno alla tettoia dell'elefante dall'occhio ciclopico. Si inoltrano poi per un sentiero che scende lungo un pendio agevole e prosegue nell'enorme e silenziosa distesa della savana la cui erba, riarsa in più punti, s'indora sotto il sole del pomeriggio. Procedono lentamente, distanziandosi gli uni dagli altri per evitare le nuvole di polvere sollevate dalle ruote. Di tanto in tanto si fermano in mezzo a una mandria di poderosi gnu che hanno tutto il tempo del mondo a loro disposizione, e occorre aspettare che si degnino di spostarsi per lasciare libera la strada. 
Le distese aperte davanti a loro risvegliano un sentimento di rispetto nel cuore di Daniela. Yirmiyahu le fa notare un baobab gigantesco il cui tronco occupa una superficie più grande di quella della sua camera da letto alla fattoria e i cui rami danno l'impressione che l'albero sia capovolto e abbia teso le sue ampie radici verso l'alto. Su un ramo è disteso un felino dalla pelliccia dorata. 
— Qui — spiega l'infermiera sudanese — non si seppelliscono i morti, animali o uomini che siano. Vengono lasciati all'aperto, cibo per animali e uccelli, così tornano a far parte della natura che li ha generati. I loro corpi non risorgeranno, ma chi possedeva un'anima buona ha la speranza di trovare uno spirito che le permetterà di accompagnarlo. 
All'orizzonte si stagliano due colline, forse la meta del loro viaggio perché dal momento in cui vengono avvistate la carovana cambia formazione e i veicoli, anziché viaggiare in fila indiana, procedono affiancati, in libera sintonia, o in competizione, come chi, avendo chiara la meta, non deve seguire alcun sentiero, né regola di viaggio. Avanzano in grazia del cielo che li sovrasta e che muta incessantemente di colore in vista della vicina ora serale, vorticando intorno agli uccelli predatori che sciamano al seguito del cibo, anche se di tanto in tanto sono raggiunti da un secco colpo di fucile. Gli africani agitano allegramente le mani verso la Land Rover, e in particolare verso l'ospite israeliana, decollata solo la mattina del giorno prima dalla sua patria e alla quale la sua terra, il marito, i figli e i nipoti appaiono già stranamente lontani. Sì, riflette lei, è davvero inutile accendere le candele di Hanukkah in un luogo dove si cerca una scimmia preistorica che non immaginava nemmeno che anche degli ebrei sarebbero stati fra i suoi discendenti. 
Sijin Kuang e Yirmiyahu si scambiano di tanto in tanto qualche parola, coperta dal rombo del motore. Daniela si stringe intorno alle gambe la giacca a vento di Sijin Kuang. La tasta, la solleva, l'avvicina al viso e ne aspira l'odore. D'un tratto sente un nodo alla gola. Gli africani sparano con grida di gioia verso un'aquila, l'abbattono. Daniela, pallida, tocca l'ampia schiena di Yirmy, gli mostra in silenzio la giacca a vento e ancor prima di aprire bocca lui dice: 
— Sì, è la giacca di Shuli. Te l'avevo detto che avrei avuto dei vestiti pesanti per te. 
13 
In Israele sono ancora le tre. Il guanciale sotto la testa di Amotz ha soffocato non una sola vibrazione ma cinque, vuoi per la qualità delle piume, vuoi per il sonno profondo di lui. Ogni vibrazione si è lasciata alle spalle un messaggio e ora Yaari, di nuovo in piedi, li ascolta. 
Il primo, sorprendentemente, è di Nofar. «Va bene papà, se la mamma non c'è arriverò verso le sette. Porterò con me un amico che non conosci ma che non si fermerà molto. Per favore, non sottoporlo a un interrogatorio e non domandargli cosa fanno i suoi genitori. È solo un amico. Oggi è qui, domani non c'è più. E per quanto riguarda le candele, le accenderemo, a patto che non si cantino tutte quelle canzoni che io odio. Recita pure una breve benedizione se proprio devi, ma nient'altro. Se hai voglia di cantare, fallo dopo che ce ne saremo andati. Se vuoi che tua figlia ti voglia bene, devi ascoltare quello che dice. Scusa». 
Il secondo messaggio è sussurrato in tono flebile. «Parla la dottoressa Dvorah Bennet di Gerusalemme. Se questo è davvero il suo numero, signor Amotz Yaari, allora per favore non riagganci e mi richiami allo zero due sei sette cinque quattro zero zero sei. Ripeto: zero due, prefisso di Gerusalemme, e poi sei sette cinque quattro zero zero sei. Ho urgente bisogno di parlare con suo padre. Se gli dirà il mio nome, Dvorah Bennet, di sicuro lui si ricorderà di me. Eravamo grandi amici. So che è malato, ma nel mio appartamento c'è un ascensore che lui ha costruito tanti anni fa e per il quale mi ha dato una garanzia a vita, dell'ascensore intendo, non della mia. So che voi non fate servizio di assistenza ma io mi reputo una cliente speciale. Le chiedo solo il numero di telefono di suo padre. Tutto qui. Per favore, signor Yaari, mostri un po' di comprensione... » 
Il terzo messaggio è di Efrat. «Allora, tanto per cominciare, Moran è stato processato e sarà detenuto per una settimana in una base militare, gli hanno pure ritirato la batteria del cellulare... Ha detto che cercherà di contattarti domani mattina per spiegarti cos'è successo esattamente. E lo aspetta un altro processo per le defezioni passate. Io intanto mi sono messa d'accordo con mia madre perché vada a prendere i bambini al nido e alla scuola materna. Le loro vacanze di Hanukkah cominciano solo domani e se tu potessi darle una mano, almeno oggi, sarebbe meraviglioso. Io sono ancora nel Nord e tornerò tardi... » 
Il quarto messaggio è dell'inquilino del grattacielo Pinsker. «Ho aspettato inutilmente una risposta. Ora non abbiamo altra scelta che fare sul serio. Ci siamo consultati con i rappresentanti dell'impresa edile e loro sostengono che la responsabilità dei sibili del vento è di chi ha progettato e costruito gli ascensori. Sta quindi a lei e al fabbricante delle cabine chiarire almeno l'origine del problema prima di convocare una riunione di noi tutti e pensare a come affrontarlo. Se continuerà a ignorarci saremo costretti a ricorrere a vie legali. Sappiamo che una denuncia di questo tipo potrebbe trascinarsi per anni e, come lei ben sa, in casi come questo, nello stabilire la cifra dell'indennizzo si tiene conto anche del tempo trascorso senza che si sia trovata una soluzione». 
Il quinto messaggio è di Yael, la madre di Efrat, una divorziata esuberante e di buon cuore della quale Yaari apprezza le battute argute. «Di certo avrà già sentito da Efrat che suo figlio si è beccato una settimana agli arresti per la sua presunzione e la tendenza a prendere le cose sottogamba. E anche Efrat, da parte sua, insiste a non voler perdere il suo importantissimo corso. Con due genitori così i nonni di entrambe le parti non possono che unire le forze perché i nipoti non rimangano soli. Allora, Amotz, mi richiami subito per favore. In questo momento sono sulla poltrona di un dentista che ha tutte le intenzioni di volermi strappare un dente, ma ho il cellulare sempre appeso al collo per informarla di quale sarà la sua parte nella confusione che si è venuta a creare». 
Yaari chiama subito la consuocera che gli chiede, malgrado la bocca semianestetizzata e piena di batuffoli di ovatta, di andare a prendere i bambini alle quattro e di aspettarla al caffè Roladin, di fronte a casa sua. 
— Devo aspettarla in un caffè? 
— Perché no? Lì conoscono i bambini. Ordini per ciascuno di loro una pallina di gelato alla vaniglia e ricordi al cameriere di non mettere scaglie di cioccolato su quella di Nadi perché lui pensa che siano mosche. È un locale gradevole, e appena finiscono di estrarmi il dente arrivo di corsa a sostituirla. Mi spiace, cosa posso farci? Oggi sarebbe stato il turno di Daniela di andare a prendere i bambini ma lei mi ha informata che andava in Africa per stare vicina a suo cognato che è rimasto bloccato laggiù. E chi non rispetterebbe tanta nobiltà d'animo? 
14 
Il cielo africano è in continuo movimento nella promessa del vicino tramonto e le colline violacee all'orizzonte si fanno più nitide, simili a spirali preistoriche. Il terreno sotto le ruote è ora più scabro, accidentato, punteggiato da rovi ostinati e dossi nascosti. I veicoli non hanno ormai più la libertà di scegliere un percorso e tornano a formare una piccola carovana alla ricerca della giusta via. In lontananza compaiono a tratti gruppi di zebre, spariscono e ricompaiono. Tra i radi alberi sbirciano qua e là volpi o iene. Hanno sentito da lontano odore di cibo e sono arrivate ad aggregarsi alla carovana dei viveri che arranca. Uno degli africani, dopo essersi rimesso il cappello da cuoco in vista del vicino pranzo, sale sul tetto del furgone e spara alcuni colpi in direzione degli animali, non per abbatterli, ma per metterli in fuga. Poiché il crepuscolo è di breve durata in quella zona, quando la carovana arriva al grande accampamento di tende della spedizione — sul ciglio brullo di una gola vulcanica —  il buio è già calato. In fondo al canyon si riesce ancora a distinguere il luccichio di un corso d'acqua. Poco distante, su un'asta, sventola una bandiera dell'Unesco mentre altri vessilli di vari colori sono piantati tutt'intorno, di certo per segnalare il sito dei fossili. Un piccolo gruppo di scavatori scarica le merci dai veicoli e anche il capretto vivo, accompagnato da grida di giubilo. Sijin Kuang si affretta a raggiungere una delle grandi tende con l'attrezzatura medica mentre l'amministratore bianco attende con le bottiglie di alcol, le sigarette e il cioccolato l'arrivo degli scienziati. 
Ed ecco che quelli si avvicinano, risalendo il pendio del canyon, la maggior parte di loro a torso nudo, diversi gli uni dagli altri nell'aspetto e nel colore della pelle ma tutti, senza eccezione, sorpresi di vedere un'anziana donna bianca con uno sgargiante abito africano e una vecchia giacca a vento. Chi è?, domandano in un inglese dagli accenti diversi. 
Yirmiyahu presenta la sorella della defunta moglie, che ha lasciato marito, famiglia e patria per una visita di qualche giorno fatta nel tentativo di ricongiungersi allo spirito dell'amata sorella. 
Gli scienziati neri l'accolgono cordialmente, sorpresi dall'audacia che l'ha portata fino a un campo di ricerca dei resti di un ominide preistorico distaccatosi dalla scimmia milioni di anni prima. Daniela è molto emozionata, e con il piglio deciso di un'anziana insegnante chiede di conoscere i nomi degli uomini che le stanno davanti seminudi, il loro paese di provenienza e la professione di ciascuno. Yirmiyahu non ha esagerato nel descrivere la varietà di nazioni del gruppo raccoltosi da ogni angolo del continente nero. C'è un archeologo dell'Uganda, un botanico del Ciad, due geologi sudafricani di alta statura e un antropologo tanzaniano nero come il carbone, che è anche il capo della spedizione. Dietro a loro ci sono un fisico del Ghana e un geologo afroamericano di Kansas City che non ha dimenticato i suoi avi ed è venuto dal Nuovo Mondo a dare una mano a provare che il genere umano è partito proprio da qui, dall'antica Africa.  
E mentre si presentano con i loro nomi impronunciabili e i titoli di studio, stringendo con forza la mano dell'anziana donna dall'inglese gradevole e chiaro, lei si domanda con un'ombra di preoccupazione se sua nuora si sia ricordata in tempo che oggi non potrà andare a prendere i due nipotini al nido e all'asilo, nonostante sia il suo turno. 
15 
L'ombra di preoccupazione della donna in Africa orientale diventa panico a Tel Aviv. Amotz, infatti, arrivato a prendere il nipotino al nido, scopre allibito che non vi è un solo, piccolo nido, ma un'intera serie di classi raggruppate attorno a un cortile, e nella confusione di bimbi che corrono qua e là fatica a riconoscere Nadi. 
Dal momento in cui ha acconsentito ad andare a prendere i bambini i tempi si sono fatti stretti. Dapprima ha cercato di trasferire i seggiolini dei piccoli dall'utilitaria di sua moglie alla sua auto, ma quando ha visto che si ingarbugliava con cinture e ganci, perdendo del tempo prezioso, ha rinunciato e ha preso l'auto della moglie che, oltre a essere molto lenta, aveva urgente bisogno di un pieno di benzina. Le poche volte che aveva accompagnato Daniela nella stretta e trafficata via di Tel Aviv dove sono situate le scuole dei nipotini l'aveva aspettata parcheggiato in doppia fila, o in una piazzola riservata agli invalidi, finché lei non era tornata col bottino. A volte si era domandato come mai da un cancello così piccolo uscissero così tanti bambini. Ma solo oggi, dopo averlo varcato di persona, ha capito quali ricchezze nasconde. Non sapendo dove si trova la classe di suo nipote, e soprattutto nello scoprire che per via del suo lieve ritardo, o della festività di Hanukkah, alcune aule sono già del tutto vuote, ora è letteralmente in preda al panico e siccome lì nessuno lo conosce, non può rimanersene impalato in cortile ad aspettare ma è costretto a girovagare finché non rintraccia l'oggetto della sua ricerca, infagottato e abbottonato a dovere, con tanto di zainetto e una candela di Hanukkah di carta appoggiata sulla testa mentre osserva distante e sospettoso quel nonno che gli cade in ginocchio davanti, sopraffatto dalla gioia. 
— Cos'è successo oggi a sua moglie? — domandano sorprese le giovani maestre d'asilo. 
Per un istante Yaari considera se sia quello il momento giusto di elencare i vari motivi della sua assenza e alla fine riassume brevemente la storia. 
— Fino in Africa? — si stupiscono le ragazze, quindi lo pregano di avvisare i genitori di Nadav che, per via della confusione che si è creata durante la preparazione delle sufganiot , il piccolo ha schiacciato un sonnellino insieme agli altri bambini. Di solito non si dimenticano di impedirglielo a tutti i costi e di farlo giocare in cortile perché poi non si rifiuti di andare a dormire fino a mezzanotte passata. 
Yaari annuisce e ridacchia. Stavolta il problema non sarà dei genitori ma dell'altra nonna, perché questa notte i bambini dormiranno da lei. Vero, Nadi? 
Il piccolo ascolta in un silenzio sospettoso e poco cordiale, ed è impossibile sapere cosa stia tramando in cuor suo. 
Yaari e nipote si recano poi a prendere Neta, una bimba affettuosa ed espansiva, che corre incontro a loro con in mano una piccola hanukkiah fatta col Das e insegna al nonno come legare la cintura del sedile del fratellino. 
Nel piccolo caffè di fronte all'appartamento della consuocera i bambini sono di casa e quindi non sono necessarie troppe spiegazioni per ricevere palline di gelato alla vaniglia in coppette colorate, una bianca e candida mentre l'altra, destinata a Neta, cosparsa di scaglie nere di cioccolato. 
— La nonna toglie sempre il cappotto a Nadi, perché altrimenti lui lo sporca, —  dice Neta al nonno. 
Yaari segue le istruzioni della nipote e toglie al piccolo imbronciato il cappottino acquistato a Roma. Contrariamente a Daniela, lui non è in grado di ricordare in quale città europea abbiano acquistato i vari indumenti portati in regalo ai nipotini di ritorno dai loro viaggi. Ma il negozio di Roma in cui avevano comprato quel cappottino lo ricordava bene per via del prezzo esorbitante che avevano pagato. 
Cerca di aiutare Nadi a mangiare il gelato ma il piccolo non ha bisogno di aiuto. Serio e tenace, scava e rovista con il cucchiaino nelle profondità della pallina candida fino a che questo tintinna contro il fondo della coppetta. 
— Un'altra, — chiede il bimbo con fermezza, ma Yaari rifiuta. — D'estate si possono mangiare due palline di gelato, ma d'inverno ne basta una. Quando io avevo la vostra età, — dice ai nipoti, — mio padre nemmeno si sognava di comprarmi il gelato d'inverno. 
— Tuo papà è ancora vivo? — domanda Neta. 
— Certo. Non ti ricordi che siamo andati a trovarlo a Rosh haShanà? 
Neta si ricorda il bisnonno tremebondo che l'aveva fatta spaventare tantissimo. Nadi, invece, era rimasto colpito dalla sedia a rotelle. 
La pioggia comincia a ticchettare. Vuoi per il tempo, vuoi per la festa di Hanukkah, nel piccolo caffè si accalca così tanta gente che Yaari ha l'impressione che gli si faccia pressione per liberare il tavolo. Ma dove può andare? Daniela sa intrattenere una conversazione con i nipoti, conosce i nomi delle loro insegnanti e dei loro amici. Ma lui non conosce nessuno e i suoi tentativi di chiacchierare con i piccoli, ponendo loro domande generiche, ottengono risposte stringate — un «sì» o un «no» — da parte della bambina, mentre l'impassibile Nadav non lo degna nemmeno di uno sguardo. Sono passate meno di quarantott'ore da quando sua moglie è partita e già lui sente la sua mancanza, la vorrebbe accanto con il suo buonsenso per aiutarlo a risvegliare l'interesse dei nipoti. Propone loro di ordinare sufganiot e cioccolata calda ma i piccoli ne hanno abbastanza di quei dolci e a lui non rimane che infrangere la regola appena stabilita e ordinare un altro gelato. 
Yaari è affascinato da Nadi, che fa sparire abilmente uno strato di gelato dopo l'altro. A chi somiglia? Chi gli ricorda? A questa domanda non ha ancora trovato una risposta chiara. Neta si fa ogni giorno più simile a sua madre ma è difficile risalire alle origini dei lineamenti e del colore degli occhi del fratello. Moran, scherzando, dice a volte che Efrat strillava talmente tanto in sala parto che nessuno aveva fatto caso che il loro bravissimo bambino era stato scambiato con uno cattivo. 
Daniela però si infuria nel sentire quei discorsi. «Cattivo? Come osi? È semplicemente vivace, pieno di fantasia e un po' irrequieto. Per questo ha paura a dormire da solo. Ma è anche riflessivo, e al nido ci sono bambini che vanno d'accordo con lui». 
Solo dopo che il cucchiaino del piccolo riflessivo tintinna ripetutamente contro il fondo della coppetta vuota arriva, con grande giubilo dei piccoli, nonna Yael, imbacuccata in una pelliccia di volpe, o forse di lupo, con le guance arrossate dal freddo e due lecca-lecca in mano. I bambini le si fanno incontro con grande affetto, e probabilmente anche con un senso di sollievo. Ecco, stanno per liberarsi dalla sorveglianza di un nonno che fa domande stupide. 
— Dov'è il dente? — vuole sapere Nadi. 
Yael aveva raccontato ai piccoli del dente che le faceva male e aveva promesso loro che glielo avrebbe mostrato dopo l'estrazione. 
— Questo bambino è straordinario, — dice, baciando il piccolo con grande trasporto, — si ricorda ogni cosa — . E tira subito fuori dalla borsetta un fazzolettino in cui è adagiato in tutto il suo splendore un dente del giudizio, con tanto di radice. 
— Bleah, — esclama Neta indietreggiando. Ma Nadav non ha paura, e accarezza persino un po' il dente della nonna. 
— Ti fa ancora male quando lo tocco? 
Yael è una donna schietta, divorziata da tempo, priva di «meccanismi di rimozione» e di «impulsi dell'inconscio», come aveva detto Daniela dopo averla conosciuta. Ma quelle presunte pecche non le avevano impedito di stabilire con lei un legame telefonico. Amotz, invece, la prendeva con le molle. Al matrimonio di Efrat e Moran, le cui spese erano state sostenute dalla famiglia Yaari, Yael aveva invitato all'ultimo momento, e senza informarli in anticipo, cinquanta persone in più della quota di ospiti che le era stata assegnata, e solo grazie alla capacità di improvvisazione del servizio di catering nessuno era tornato a casa affamato. Ai suoi occhi è una donna patetica, imprevedibile, ma in fondo allegra. Persino il suo ex marito, un playboy cinico e sarcastico, aveva ballato con lei alle nozze fin dopo la mezzanotte, con grande irritazione della sua giovane accompagnatrice. 
Yaari si alza e si infila il cappotto. 
— Il nonno se ne va, — proclama parlando di sé in terza persona. Solo a quel punto si ricorda che la maestra d'asilo gli ha chiesto di riferire che Nadi è riuscito un'altra volta a violare il divieto di dormire il pomeriggio. 
— Oh no, — esclama Yael sfregandosi disperatamente le mani, — e adesso, tesoro? Farai passare alla nonna un'altra notte in bianco? 
— In nero, — la corregge il piccolo. — Papà dice che gli faccio passare delle nottatacce nere. 
16 
E una notte veramente nera sta calando dolcemente sull'altra nonna, sull'orlo del canyon di basalto. Sopra di lei stelle africane sconosciute rendono irriconoscibile la Via Lattea della sua infanzia, trasformandola in un fiume scrosciante e spumeggiante che irrompe dalle profondità del cosmo. Da qualche parte lungo il pendio schiocca e crepita un gruppo elettrogeno nascosto, e una luce elettrica illumina debolmente i passaggi fra le tende. Più vicino a loro, fiamme timide danzano sotto grosse pentole colme di buon cibo appoggiate su pietre. 
Il capo spedizione tanzaniano, Selohe Abou, invita Daniela a unirsi al tavolo degli scienziati, dove i cuochi già servono le pietanze nei piatti. 
— Fai qualche domanda sugli scavi, — le sussurra Yirmy, — mostra interesse per il loro lavoro, hanno bisogno di attenzione, e di apprezzamento. 
Daniela annuisce. 
— Con il tuo buon inglese riuscirai a chiacchierare e a capire le loro spiegazioni, che per me sono incomprensibili. Forse anche perché il mio udito è peggiorato. 
— Il tuo udito o la tua capacità di concentrazione? 
— Magari anche quella... come per tutte le persone sole. 
— Non ti preoccupare, mi mostrerò molto interessata, — dice lei con occhi scintillanti mentre si avvicina al fuoco, — e non solo per educazione, ma anche per abitudine. Un'insegnante come me è abituata a fare domande ai ragazzi. 
Yirmy e Daniela si siedono con gli scienziati ai tavoli disposti a rettangolo al cui centro, imprigionate fra le pietre, covano le braci di un fuoco bluastro. Davanti a lei viene posato un piatto, e la fragranza delle pietanze riscaldate le mette un grande appetito. Non ha mangiato niente dopo i panini di Sijin Kuang, eppure non si lancia sul cibo prima di aver domandato agli scienziati lo scopo del loro progetto. 
Il capo spedizione tanzaniano preferisce che sia il dottor Roberto Sabolide Kukirise, un prestante archeologo ugandese sui trentacinque anni i cui studi a Londra hanno affinato l'inglese appreso in gioventù, a darle spiegazioni. 
Ansioso di chiarire e di illustrare, l'uomo lascia senza esitazione il suo piatto pieno di ogni ben di Dio e corre a prendere un pannello di legno pieghevole sul quale è appuntata una mappa colorata dell'Africa con segnalazioni di siti famosi, o di probabile interesse scientifico. 
Sistema il pannello davanti all'ospite, lo sposta un po' perché il fuoco lo illumini, si rivolge alla donna più anziana di lui di almeno vent'anni e dice: 
— Le spiegherò, signora, ma a condizione che lei mangi. 
La dissertazione scientifica è però preceduta da un prologo politico durante il quale il dottor Kukirise lamenta la dignità calpestata dell'Africa e la mancanza di fiducia nei confronti del continente nero. La fame, le malattie, ma soprattutto i conflitti e le guerre crudeli hanno fatto sì che il mondo progredito ora si mostri sfiduciato verso il futuro dell'Africa. E a essere sinceri qualcuno afferma che sotto il dominio coloniale ci fossero meno fame e malattie rispetto ad ora che tutte le nazioni africane hanno ottenuto l'indipendenza. Ma la cosa più difficile è che l'atteggiamento di disprezzo degli stati progrediti nei confronti di quelli del Terzo Mondo è già cominciato a filtrare anche negli africani stessi, e lo sconforto potrebbe prosciugare le loro fonti di gioia popolare. È per questo che un drappello di uomini di scienza ha deciso di superare i conflitti tribali e nazionali per far sì che l'Africa, mediante una ricerca originale e indipendente, risollevi la testa. Senza attrezzature sofisticate e moderne, con strumenti di lavoro semplici e a buon mercato, questi uomini scavano ed esplorano il terreno alla ricerca dell'origine della specie umana, seguendo il corso dell'evoluzione dalla scimmia all'Homo sapiens, al fine di porre l'Africa sulla mappa mondiale come la culla della civiltà. 
Sì, nonostante siano stati rinvenuti reperti di ominidi preistorici in ogni genere di posti al mondo, la comunità scientifica concorda sul fatto che l'origine dell'uomo è da ricercarsi nelle grandi scimmie africane. Fu la separazione dell'Australopithecus afarensis dallo scimpanzé a segnare l'inizio dell'evoluzione che ha condotto alla razza umana. E nei giorni in cui il mondo progredito rinuncia a sperare nel futuro del continente nero e minaccia di abbandonarlo, è forse un bene ricordare all'umanità intera se non dove è diretta, almeno da dove essa provenga. 
A dire il vero questo obiettivo è ideologico, non scientifico, ammette lo spigliato oratore davanti all'ospite bianca, e in fin dei conti è piuttosto modesto, certo non rivoluzionario. — In ogni caso noi lavoriamo attenendoci alla teoria scientifica dell'evoluzionismo, ed è sempre possibile rinunciare alla patina ideologica. E anche nel processo evolutivo non ci sono poi episodi rivoluzionari. Tale processo è piuttosto una sorta di staffetta, in cui ci si passa il testimone. Ecco, gli scimpanzé sono ancora presenti in questo mondo e non hanno nessuna intenzione di diventare umani, ma cinque o sette milioni di anni fa uno di loro trasmise qualcosa di nuovo ai suoi discendenti, che a loro volta trasmisero quel «qualcosa», con una piccola aggiunta, a un altro dei loro discendenti. E cos'era quel «qualcosa»? Lo si può definire una nuova caratteristica, fisica o mentale, laddove «caratteristica» è naturalmente un termine letterario, impreciso, per quanto non ce ne sia uno migliore per illustrare la questione. Potrebbe essersi trattato di un nuovo dente del giudizio, magari storto, o della testa di un femore dalla forma un po' più arrotondata, o di un senso dell'olfatto un po' diverso e sviluppato che faceva sì che l'animale si sentisse incuriosito dall'ambiente circostante. 
— I vari partecipanti a questa staffetta — prosegue l'archeologo ugandese nel suo eccellente inglese — non erano consapevoli di ciò che avevano trasmesso e fin dove sarebbe arrivato il loro «testimone». Loro rimanevano fedeli alla propria razza, al loro essere scimmie di specie diverse, la maggior parte delle quali si sono estinte negli anni. Ma ciò che trasmettevano continuava a tramandarsi per inerzia, mutando a ogni passaggio, talvolta rafforzandosi o indebolendosi, talvolta facendosi più nitido, e altre volte ancora offuscandosi, finché, grazie a quelle infinite transizioni, non si trasformò nel nostro avo preistorico, l'Homo sapiens, umano in tutti i sensi. 
E così accadde che la strada seguita dall'uomo dal momento in cui si separò dalla scimmia non assomiglia a un'autostrada, ampia e diritta, ma piuttosto a un sentiero da cui si diramano un'infinità di viottoli laterali. Creature simili a noi si allontanarono, o furono allontanate, dalla via maestra, rimanendo intrappolate in vicoli senza uscita. Ad esempio, tre milioni e mezzo di anni fa, dei nostri parenti chiamati Australopithecus afarensis si staccarono dal percorso evolutivo della razza umana. Tra loro vi era l'Australopithecus bolsei scoperto qui, in Africa orientale. Quello era, per usare un'espressione volgare, «una macchina divoratrice», una specie di «schiaccianoci» che si estinse un milione di anni fa per colpa del suo cervello limitato che gli impedì di sviluppare una maggiore adattabilità in campo alimentare. 
— Macchina divoratrice? — Yirmiyahu sembra divertito da quella espressione. 
— Sì, aveva mandibole gigantesche e una faccia piatta, eppure era vegetariano. 
Ma a quel punto il capo spedizione interrompe la disquisizione del collega prima che esca dal seminato. — Il cibo si sta raffreddando. Mangiamo con calma e poi potremo mostrare alla nostra ospite alcuni fossili che abbiamo trovato. 
Daniela trova il cibo di suo gusto, rivolge ai cuochi parole calde di elogio e non rifiuta una seconda porzione. 
Alla fine del pasto, dopo che gli avanzi sono stati portati via, è possibile illustrarle la verità per la quale si lotta in quel remoto canyon vulcanico. Sul tavolo, anziché un dolce, viene posato un dessert costituito da alcuni fossili dai molteplici significati: i resti di una gigantesca mascella inferiore, nella quale sono ancora visibili due grossi denti, una porzione di teschio con enormi orbite oculari e un femore storpio, dal quale si può imparare moltissimo. 
Adesso non è solo l'ugandese a parlare. Anche il ricercatore keniota e quello ghanese corrono in suo aiuto per illustrare la cruciale importanza delle ossa. Daniela prova un vago piacere nell'avvertire che quei giovani non desiderano solo sfruttare l'opportunità di mostrare i risultati del loro lavoro a una straniera disposta a interessarvisi per un'oretta, ma sono anche alla ricerca dell'approvazione di una donna matura, materna. Forse perché lei è bianca. Si sforza allora di non perdere nemmeno una parola di quanto dicono, e di incoraggiarli con cenni di assenso. E mentre milioni di anni si rimescolano e si ingarbugliano sul tavolo tra le mascelle spalancate con sbalordimento di quella «macchina divoratrice», lei lancia un'occhiata segreta al cognato per vedere se anche lui si sforza di seguire le spiegazioni. Ma il suo cranio pelato è rivolto al fuoco, lo sguardo è perso e sul viso illuminato c'è un'espressione di dolore. 
Ancora una volta il capo spedizione tanzaniano è costretto a intervenire con autorità. — Basta così, — dice ai colleghi, — se vogliamo che la nostra ospite si ricordi qualcosa, non subissiamola di dati e di spiegazioni sui fossili. Anche se è qui per poco tempo, magari avremo il piacere di rivederla — . Daniela avverte la delusione dei ricercatori e prima di congedarsi rivolge loro una domanda provocatoria, ma sicuramente in linea con lo spirito dei tempi: — Voi siete un team di soli africani, neri, un risultato che vi fa onore da un punto di vista scientifico. Però perché non avete pensato di unire al vostro gruppo anche una donna? 
— Ma c'è una donna con noi, — protestano loro, — una paleontologa araba. Venga, gliela presentiamo. 
La conducono alla tenda dell'infermeria dove Sijin Kuang è seduta al capezzale di una giovane dalla pelle chiara, dai lineamenti delicati. Le viene presentata come Zohara al Ouqbi, araba nordafricana, che sorride sofferente all'ospite inattesa e le tende una mano che scotta. 
17 
L'ufficio è buio e chiuso a chiave, e quando Yaari entra solo un ricco aroma di tabacco aleggia ancora nell'aria. Accende tutte le luci e constata che nessuno dei dipendenti ha ritenuto necessario tornare al lavoro dopo la pausa pranzo. Questa è nuova, borbotta tra sé, elevare a festa santificata un discutibile episodio storico del passato. Ma è stato lui a proporre al personale di non timbrare più il cartellino e di assumersi la responsabilità delle rispettive ore di lavoro, quindi è certo che nessuno trascurerà il proprio dovere. Nemmeno lui vuole fermarsi. Controlla la posta elettronica. Non c'è nessun segno di vita né da parte di Daniela né da parte di Moran. Domani, secondo il programma, Yirmiyahu e Daniela saranno a Dar es Salaam e finalmente potranno comunicare con lui. 
Lo studio è situato al primo piano di un silenzioso condominio residenziale, nel cuore di Tel Aviv. Fuori si accendono i lampioni. La sera è limpida, senza vento, e porta con sé, attraverso la finestra, il chiacchiericcio dei passanti. Hanukkah è una festa amata da tutti. Se Daniela fosse qui, di certo andrebbero a vedere un film, o a trovare degli amici. Per un istante Yaari riflette se telefonare a suo padre, poi decide di non mostrarsi troppo assiduo nelle visite. È meglio che i badanti filippini non possano contare troppo sulla sua presenza. 
Se Moran gli fosse accanto gli sarebbe più facile sopportare l'assenza di Daniela. Spegne tutte le luci, e quando sta già per chiudere a chiave la porta dell'ufficio il cellulare prende a squillare e lui si affretta a rispondere al buio, senza accertare prima l'identità di chi lo chiama. No, non è Moran agli arresti, è quell'anziana donna di Gerusalemme, la dottoressa Bennet, la cui voce tremula risuona nell'oscurità. Finalmente l'ha scovato, e non lo lascerà in pace finché non le svelerà come mettersi in contatto con il vecchio signor Yaari che aveva montato un ascensore in casa sua e promesso una garanzia a vita. Dell'ascensore, non della sua. 
Sì, lo sa che suo padre è andato da tempo in pensione, e che non gode di buona salute, ma lei si ritiene un caso speciale. Una vecchia amica per cui, ne è certa, il vecchio Yaari metterà da parte i suoi malanni e si presenterà con tutto il necessario, pezzi di ricambio e un tecnico. 
— No, — le spiega Yaari con pazienza, — il nostro è uno studio di progettazione, non facciamo assistenza, non abbiamo pezzi di ricambio né tecnici. Ci limitiamo a stare seduti davanti al computer e a pensare. Ha per caso sentito parlare delle pagine gialle? Lì troverà tutto l'aiuto che le serve. 
La dottoressa Bennet conosce le pagine gialle e sa pure usarle. Ma il vecchio Yaari le aveva fatto giurare che avrebbe chiamato solo lui in caso di guasto. L'ascensore privato installato in casa è un'invenzione sua personale e solo lui sa come occuparsene. 
— A quando risale l'ultimo guasto? 
— Per molti anni non ci sono stati guasti veri e propri. L'ascensore ha sempre goduto di buona salute perché quando suo padre veniva a Gerusalemme faceva sempre manutenzione. 
— Che strano, non mi ha mai parlato di lei, né del suo ascensore. 
— Forse ci sono altre cose di cui non le ha parlato. 
— Forse, — si ammorbidisce Yaari, — ma mio padre, signora Bennet, con tutta la buona volontà, non può venire da lei. È malato di Parkinson. 
— E allora? 
— Come «e allora»? Gli tremano le mani e le gambe e non può aggiustare più niente. 
— Che venga almeno a dare un'occhiata. Io ho dei buoni amici ammalati di Parkinson che hanno la testa che funziona ancora. 
— È vero, la testa gli funziona, ma non per il suo ascensore. 
Dvorah Bennet si infuria con quell'uomo che la tratta irrispettosamente. — Perché parla a nome di suo padre e non lascia decidere a lui? Non è possibile che lo tratti come un bambino quando io mi ricordo ancora di lei, bambino. 
— Si ricorda di me bambino? 
— Sì, è venuto a casa mia nel 1954, quando montarono l'ascensore. Suo padre se l'era portato appresso perché voleva farmi conoscere suo figlio. Se non mi sbaglio allora aveva sette anni. 
— Otto. 
— E io le avevo offerto un gelato. Forse questo l'aiuterà a ricordare. 
— Non mi ricordo, però le credo, — ride Yaari, dandosi per vinto. — Se ho mangiato un gelato a casa sua all'età di otto anni mi dica allora cosa vuole esattamente da me adesso. Non penso però di poter riparare il guasto. 
Ma Dvorah Bennet gli ha già detto quello che vuole. Ha bisogno del numero di suo padre. Ci sono diversi Yaari Yoel sull'elenco telefonico di Tel Aviv — Jaffa e lei è una donna anziana e non può mettersi a chiamarli tutti. 
— L'avverto però che mio padre ha delle difficoltà anche a parlare. Gli si rivolga in modo conciso, per favore. 
— Certo, concisissimo. Io appartengo a una generazione che ama i fatti, non le parole. 
— Allora si segni il numero... 
18 
Alla ricerca della strada del ritorno lungo una pista diversa, la Land Rover di Sijin Kuang guida la piccola carovana degli approvvigionamenti mentre i due furgoni gli stanno alle costole. Ora che i recipienti termici sono vuoti i cuochi possono rilassarsi e distendersi placidamente. Ma l'aroma del cibo probabilmente aleggia ancora intorno a loro se degli occhi scintillanti accompagnano quel viaggio nel buio. 
Sul sedile anteriore la testa di Yirmiyahu ciondola, come se fosse staccata dal corpo, indipendente, finché lui non crolla nel sonno. Ma sul sedile posteriore Daniela è completamente sveglia, con tutti i sensi all'erta. 
— Come riesce a trovare la strada con questo buio? — domanda alla conducente silenziosa. 
— Conosco la pista, ma anche le stelle aiutano. Daniela alza gli occhi al cielo e nota uno spettacolo che non ha mai ammirato in nessun altro luogo al mondo. Stelle sconosciute, che probabilmente non rivedrà più. Mai è stata testimone di uno splendore tanto limpido e smeraldino. Quando mai ha avuto occasione di contemplare da sola la natura? Anche nel passato lontano, ai tempi dei campeggi del movimento giovanile, o durante il servizio militare, il suo contatto con la natura era sempre stato accompagnato dal chiacchiericcio di chi le stava intorno. E più tardi c'era sempre stato Amotz al suo fianco. Si era sposata giovanissima. Aveva a malapena concluso il servizio militare. Lui l'aveva catturata col suo amore e si era affrettato a costruirle un nido. 
I giovani scienziati neri l'hanno commossa. Da tempo non si sentiva così accettata da qualcuno, non avvertiva che la sua presenza fosse benvoluta a quel modo. Magari quello che aveva risvegliato la loro simpatia per una donna di vent'anni più anziana era la prolungata lontananza da donne, oppure il fatto che lei è un'estranea, o il colore della sua pelle. 
Nonostante il tracciato della pista sia impresso nella sua mente, e a dispetto dell'aiuto delle stelle, sembra che Sijin Kuang abbia difficoltà a trovare la strada giusta nella pianura monotona. Si ferma, aspetta che anche gli altri due conducenti facciano altrettanto, poi tutti scendono dai loro furgoni per consultarsi sulla direzione giusta. I tre confabulano sottovoce. Uno degli uomini si inginocchia ad annusare la terra, l'altro tende la mano a indicare il cielo. Yirmiyahu si stiracchia, sbadiglia, lancia uno sguardo vacuo verso i tre in consulto, ma non si intromette. Dice soltanto alla cognata che esattamente in questo punto si fermano sempre per decidere su come proseguire il viaggio. 
Daniela, seduta dietro a quell'uomo apatico, riflette di non avere neppure incominciato ad avvicinarsi allo scopo di questa sua visita. Al contrario, nei due giorni trascorsi dalla sua partenza si sente solo più rilassata. Domani, a Dar es Salaam, parlerà con suo marito, dal quale non si aspetta notizie insolite. Si fida della sua efficienza nell'accudire i membri della famiglia. 
Yirmiyahu si volta, sbadiglia ancora, si scusa. Sì, ogni tanto quei neri lo sfiniscono con le loro storie su pietre e ossa di scimmie, ma in fin dei conti sono molto gentili. 
— Un momento, di' un po', per evitare brutte figure, non è che si offendono quando li si chiama neri? 
— Perché dovrebbero? Sanno benissimo che sotto un millimetro della loro pelle sono esattamente uguali a noi. La sola differenza è che noi siamo muzungo e loro no. 
— Cosa siamo? 
— Muzungo, spellati... non siamo bianchi, solo spellati. In altre parole ci hanno tolto la nostra pelle nera. 
— Siamo spellati? È questa la differenza tra noi e loro? 
— A loro parere sì. 
Un ciclista sbucato all'improvviso nelle tenebre mette fine alla discussione tra i conducenti. Ristabilita la calma, la carovana fa dietrofront e si mette alle sue calcagna finché la luna non spunta dietro le montagne a illuminare la savana. 
Yirmiyahu si riaddormenta. L'aria è fredda, e Daniela chiude bene la lampo della giacca a vento di Shuli. Si stringe le spalle con le braccia e il suo pensiero vola a Tel Aviv. Amotz accenderà le candele con i nipotini questa sera, oppure sarà riuscito a convincere Nofar a fare un salto a casa? Ma ecco il torrente, le capanne. La carovana accelera l'andatura. La tettoia dell'elefante è circondata da fiaccole e da una folla consistente. Daniela prova l'intenso desiderio di rivedere quel grande, stupefacente occhio. Tocca la spalla di Sijin Kuang e le chiede di fermarsi per qualche minuto. 
Senza accompagnatori, e senza timore, si fa strada tra gli africani. Sulla soglia della tettoia il proprietario dell'elefante riconosce la donna bianca venuta quella mattina e considera il suo ritorno un segno di apprezzamento e di rispetto nei confronti dell'elefante, e di lui stesso. Non le chiede quindi di pagare un biglietto ma Daniela estrae dal portafoglio qualche dollaro e lo posa sul tavolo. 
A sera inoltrata la triste saggezza dell'occhio gigantesco torna a rivelarsi davanti a lei e Daniela si domanda se quel difetto genetico rimarrà una curiosità che andrà persa o forse, in qualche modo inspiegabile, qualcosa verrà trasmesso nella catena evolutiva. 
19 
Non appena apre la porta di casa, Amotz sente lo scroscio d'acqua della doccia. Allora Nofar è già qui, pensa con gioia, timoroso però dell'incontro con il nuovo ospite. 
E in effetti eccolo lì. Non è il ragazzo di Nofar, né un suo amico. È un semplice conoscente che nemmeno sta seduto ad aspettare educatamente i padroni di casa ma si prende la libertà di gironzolare per il soggiorno. Questa volta, tanto per cambiare, non è giovanissimo. Ha un velo di barba sulle guance e qualche capello grigio alle tempie. È un uomo che ha accontentato una giovane amica e si è unito a lei — in veste di puro conoscente — per l'accensione delle candele di Hanukkah a casa di suo padre, rimasto solo durante le vacanze. 
Yaari bada ad attenersi agli avvertimenti di Nofar ed evita ogni tentativo di scoprire, come sua abitudine, cosa abbia studiato il conoscente o cosa faccia nella vita, tanto per rendersi conto di che tipo è. E il modo per evitare di sottoporlo a un terzo grado, che desterebbe l'ira di sua figlia, è conversare del tempo, mostrare apprezzamento per la pioggia ma biasimo per il forte vento che talvolta si insinua nei grattacieli. Poi si lamenta della festività, che un tempo ci si limitava a celebrare con le sufganiot e le piccole trottole tradizionali ma che ora è assurta a livello di vera festa comandata, con tanto di ferie dal lavoro. Ad esempio, tutti gli ingegneri del suo studio quel pomeriggio se n'erano andati a uno spettacolo teatrale per bambini e non si erano ripresentati. 
Il conoscente gira per la stanza con aria sofferta e sospettosa, non mostra comprensione, o consenso, e punta a più riprese gli occhi piccoli e infossati sulle foto di famiglia che Daniela ha sparso ovunque, appese alle pareti o posate sugli scaffali dei libri. Diversamente da un ospite di passaggio, che oggi è qui e domani non c'è più, l'uomo si sente in dovere di esaminare accuratamente una fotografia dopo l'altra, quasi cercasse di decifrare la composizione della famiglia. E nell'arrivare alla foto incorniciata di nero di Eyal, domanda in un sussurro febbrile: 
— È questo il cugino del quale Nofar non smette mai di parlare? 
Yaari prova un senso di sgomento. 
— Quanti anni avrebbe avuto se fosse ancora vivo? 
— Più o meno la sua età, trentadue. Era più grande del fratello di Nofar di soli tre anni. 
Ma il giovanotto curioso non molla. Sembra che abbia accettato di recarsi ad accendere le candele in casa di sconosciuti solo a condizione di poterne sapere di più su quel soldato caduto sotto il fuoco dei suoi commilitoni. 
— Nofar mi ha raccontato che è stato lei a dare la notizia ai suoi genitori. 
— Soltanto a suo padre, ma non ero solo. C'erano con me anche un ufficiale dell'esercito e un medico. 
— Ed è stato davvero ucciso per sbaglio dai suoi commilitoni? 
— Sì, è morto per fuoco amico, qualcosa del genere... — mormora Yaari. 
— Ed era proprio necessario rivelare questo particolare? 
Il viso di Yaari si contrae in una smorfia davanti a quell'estraneo che si permette di insinuarsi nella sua vita privata. Ma per amore di sua figlia mantiene il controllo. 
— Certo. In ogni caso la verità sarebbe saltata fuori, i giornali l'avrebbero pubblicata, ma forse avrebbero parlato solo di fuoco delle nostre truppe, mentre io ho usato un'espressione un po' diversa, per ammorbidire il colpo. 
— E l'ha ammorbidito? 
Yaari non risponde. Proprio in quel momento Nofar entra in soggiorno con i capelli bagnati dopo la doccia. Indossa abiti neri e i suoi occhi a mandorla, simili a quelli di sua madre, lo trafiggono a mo' di avvertimento. 
— Finalmente abbiamo il piacere di vederti, — dice Yaari baciandola e abbracciandola forte. 
— Forza papà, accendiamo le candele perché poi dobbiamo andare a una festa. Ti ricordi cosa ti ho detto? Solo le benedizioni indispensabili. 
Yaari abbassa la testa in sottomissione, si avvicina alla grande hanukkiah d'argento in attesa con quattro candele, estrae lo shamash e lo accende con un fiammifero. Sulla scatola blu delle candele sono stampate due preghiere che lui legge con voce morbida, accendendo la prima candela. Consegna poi lo shamash al conoscente. L'uomo accende la seconda candela e lo passa alla giovane amica. Nofar riscalda un poco la punta della terza candela, per scoprirne lo stoppino nascosto, e dopo aver acceso una fiammella bluastra, che si rafforza diventando gialla e poi rossa, riconsegna lo shamash al padre che lo infila nel suo braccio. 
20 
In Africa orientale, all'ultimo piano della fattoria, Daniela si rigira nel letto, al buio, faticando a trovare la stanchezza che potrà farla scivolare nel sonno. La mezzanotte è vicina, e anche se in patria sono un'ora indietro rispetto a lei, non ha dubbi che le candele si siano spente da tempo a casa sua, e anche in quella di suo figlio e di sua nuora. E per quanto riguarda Nofar, lei di certo boicotterà ogni luce di gioia finché non supererà il dolore che ha nel cuore. 
Il distacco di Yirmiyahu potrebbe essere contagioso e lei dovrà fare attenzione. Yirmy sembra contento nell'ambiente primitivo in cui si trova, dove il ricordo di sua moglie sbiadisce. Se non troverà il modo di risvegliare in lui qualche frammento di memoria, di certo lui non lo farà per lei. 
Si alza dal letto, spalanca le imposte e osserva la distesa in cui non brilla nemmeno una luce artificiale. Ora avrebbe molto bisogno della vicinanza di suo marito. Dei suoi occhi che sanno ascoltare. In fondo avrebbe potuto facilmente costringerlo a unirsi a lei. 
Accende la luce e osserva il teschio della giovane scimmia posato sulla scrivania. Un parente estinto qualche milione di anni fa, ritrovato e rimesso a nuovo. Gli apre la bocca con le dita per osservarne la mascella. C'è un unico dente originale, che però lei non è in grado di distinguere dagli altri. No, pensa Daniela accarezzando il teschio liscio, non sei una «macchina divoratrice». 
Il sonno le sfugge. Se Yirmiyahu non si fosse affrettato a bruciare i giornali israeliani invece di restituirglieli semplicemente, lei ora potrebbe rilassarsi con vecchie notizie da Israele. Ma non c'è nulla da leggere nei dintorni, a parte il romanzo di cui la notte prima ha letto altre due pagine che l'hanno annoiata. 
In mancanza di meglio lo apre al punto in cui si è interrotta il giorno precedente e avvicina la luce della lampada. La protagonista si è trovata un compagno, un ragazzo, o forse solo un amico. Qualcuno comunque invischiato in faccende poco chiare. A merito dell'autrice va detto che non suscita inutili speranze nei lettori dall'occhio acuto. È già chiaro che il rapporto tra i due non durerà fino alla fine del romanzo, ma per il momento tra loro c'è passione, e attrazione reciproca. 
Daniela strizza gli occhi, curiosa di scoprire come e perché si stancheranno l'uno dell'altra. A pagina novantacinque la protagonista accompagna l'amico in un viaggio in Europa. Non appena arrivati in albergo inizia senza troppe premesse la lunga descrizione di un rapporto sessuale. Daniela è molto tollerante nei confronti delle descrizioni di rapporti sessuali nei romanzi, che di solito occupano due o tre paragrafi, al massimo una pagina. Ma in questo caso la scrittrice ha deciso di addentrarsi nei minimi particolari, di dilungarsi e di insistere fino alla fine del capitolo, cioè otto pagine fitte di amore e di sesso. La passione tra i due è vera? In altre parole, si addice al carattere della protagonista, al modo in cui è stata descritta finora, si domanda Daniela, oppure l'autrice ha deciso di attribuirle una passione artificiale, per non deludere le aspettative dei lettori? La descrizione del rapporto fisico è molto cruda e, come al solito, ripetitiva. Il linguaggio è preciso a dire il vero, ma proprio per questo crea un senso di ripugnanza. Questa scrittrice è una senza-Dio, non evita nessuna parola. Daniela si sente ingannata. Finora, nonostante la debolezza del carattere dei personaggi, intorno a loro c'era anche una certa aura spirituale, quand'ecco, di punto in bianco, un naturalismo brutale. Esamina il retro del libro per controllare se sulla quarta di copertina ci sia un'allusione, o un accenno a queste oscenità. Ma scopre che l'editor, nonostante potesse attirare altri lettori, ha preferito tacere su questo brano e serbare la dignità letteraria del romanzo. 
Saltare il capitolo e passare al prossimo?, si domanda la lettrice, il cui respiro si fa affannoso. Ma siccome non è abituata a leggere in modo superficiale, va avanti pagina dopo pagina, fino a che la luce si spegne nella camera da letto degli amanti arrivati al culmine del piacere. 
E l'irritata lettrice lascia cadere il romanzo sul pavimento, spegne l'abat-jour, e attende paziente che il sonno abbia compassione di lei. 
La quarta candela 
Nubi si addensano sul litorale di Tel Aviv prima dell'alba e dilagano poi compatte sulla città. Alle sei del mattino Yaari spalanca le imposte della camera da letto stupito di vedere che non solo la casa del vicino ma anche l'albero piantato in giardino una decina di anni prima, per creare una cortina tra le abitazioni, sono stati inghiottiti da quella condensa lattiginosa. Prende il giornale «HaAretz» dalla porta di casa, scuote via le foglie morte e umide e tenta di percepire se ci sia un alito di vento in quella foschia, o se il mondo è immobile. 
Il mondo è chiuso nel silenzio, soddisfatto del leggero mistero che lo avvolge. Mentre beve il caffè mattutino controlla sul quotidiano i millimetri di pioggia caduti il giorno prima, attende con pazienza che il sole sollevi la coltre che avvolge la casa del vicino e pensa all'iniziativa di Gottlieb. Il produttore di cabine si è persino dato la pena di apparirgli in sogno, spingendo una carrozzina per bambini con dentro una piccola sveglia vestita con una tuta da lavoro e un cacciavite appeso al collo che lo guardava con occhi luccicanti. Ecco, questa è la mia esperta, diceva Gottlieb, e tu vorresti mandarla da sola nel vano, senza nemmeno un accompagnatore? Ma Yaari si è svegliato prima di avere il tempo di rispondere. 
La nebbia intorno al giovane albero in giardino comincia a diradarsi e dietro i suoi rami spunta la casa accanto. Anche lì è accesa la luce. Il vicino, un famoso ginecologo, marcia energicamente su un tapis roulant. Squilla il telefono: Yaari si precipita a rispondere, assolutamente certo che a quell'ora possa essere solo Moran. Con suo grande disappunto è suo padre, che si è appena alzato ed è in procinto di iniziare la toilette, operazione che richiede tempo e concentrazione. — È successo qualcosa, papà? — No, — risponde il vecchio, — è tutto come al solito, ma vorrei chiederti, prima che tu prenda impegni, di passare da me questa mattina anziché questa sera. Le candele le accenderò con Hylario ma tu, se puoi, vieni subito. Ho urgente bisogno di te, non perché stia male, ma per una questione puramente umana. 
— Fammi indovinare. Quella signora di Gerusalemme alla fine ti ha trovato. 
— Non era poi così difficile indovinare. 
— Dimmi onestamente, papà. Non è ridicolo che io, o qualcun altro dell'ufficio, dobbiamo occuparci di un ascensore costruito più di cinquant'anni fa? E poi hai detto a quella signora che sei immobilizzato su una sedia a rotelle? 
— No, no, Amotz. Non voglio parlare di Dvorah Bennet al telefono. Cerca di venire da me prima di andare in ufficio e discuteremo tranquillamente di come la si può aiutare. Dammi solo mezz'ora, non di più. 
— Non è questione di mezz'ora. Lo sai quanto a Francisco non piaccia che io venga a trovarti durante la toilette del mattino. 
— Francisco ci perdonerà questa volta. Gli ho già parlato. 
Il pensiero di sentire quel giorno, a Dar es Salaam, la voce di suo marito che le racconterà come stanno i suoi cari rende più tranquillo il risveglio di Daniela e la fa scattare in piedi prima che sorga il sole. Apre le ante delle imposte e si sporge fuori per purificarsi lo spirito nell'aria buia e frizzante. Si china poi a raccogliere dal pavimento il romanzo e lo sfoglia per trovare il punto dove ha interrotto la lettura la sera prima. Dalla morte di sua sorella le capita di rileggere pagine già lette, e quando se ne rende conto è ormai tardi per saltarle, per quanto solo raramente quella doppia lettura riveli lati nascosti di personaggi ed eventi. Anzi, accade persino che li impoverisca. 
Scorre con gli occhi l'ultima pagina del capitolo terminato il giorno prima. Le descrizioni del rapporto sessuale le sembrano ora meno imbarazzanti. È la mattina a mitigare la volgarità della lettura notturna, o sono i frammenti dei suoi sogni a riconciliarla? Sia come sia non ha intenzione di rileggere quel capitolo e, in generale, farebbe bene a tenere da parte il resto del romanzo per il viaggio di ritorno e sfruttare ogni momento libero per una passeggiata nei dintorni, o per una conversazione con Yirmiyahu e con la gente del posto. Tira fuori dal passaporto ciò che resta della carta d'imbarco dell'ultimo volo e la usa come segnalibro. 
Nonostante la finestra aperta prova un senso di soffocamento nella piccola stanza, e dopo una breve esitazione indossa l'abito africano, la vecchia giacca a vento di sua sorella e scende tre piani, sul pianerottolo di ognuno dei quali si aprono tre o quattro porte. Deve scoprire in quale stanza si trova Yirmiyahu. Nonostante lei si senta bene e non soffra d'insonnia sarebbe più saggio sapere a quale porta bussare nel caso le capitasse qualcosa di notte, visto che la sua pressione sanguigna nell'ultimo anno è pericolosamente salita. 
Ma ora non si azzarderà a uscire, nemmeno per passeggiare solo intorno all'edificio, prima che il sole risplenda più forte e lei senta chiare voci umane. Cercherà quindi di prepararsi una tazza di caffè. La gigantesca cucina è silenziosa, e siccome Daniela non riesce a trovare l'interruttore si accontenta del chiarore dell'alba che filtra dalle finestre. Tastando il numeroso vasellame appeso alle pareti trova una specie di pentolino e lo riempie d'acqua nella certezza che troverà anche del caffè, e magari un po' di zucchero e di latte. 
Il giorno in cui aveva ricevuto la notizia della morte di Eyal, avvilita per essere arrivata in ritardo a casa di sua sorella, a Gerusalemme, e irritata che avessero mandato proprio lei in cucina a preparare un caffè per tutti, si era lasciata cadere di mano un grosso barattolo e si era ritrovata circondata da nere collinette di caffè in cui erano conficcati pezzetti di vetro. Ma non era colpa sua se era arrivata in ritardo. Moran non se l'era sentita di entrare nella scuola in cui anche lui aveva studiato, nemmeno per dare la notizia della morte del cugino alla direttrice, o alla segretaria. Aveva gironzolato nel cortile deserto per più di tre quarti d'ora con le gambe che gli tremavano, in attesa che suonasse la campanella, e solo a quel punto era corso in sala professori per bloccare sua madre sulla soglia, e senza dire una parola l'aveva abbracciata forte e trascinata verso l'uscita. 
così non solo lei era stata preceduta da Amotz, ma anche da parenti e amici che avevano ricevuto la notizia più rapidamente, e nel momento in cui aveva incontrato sua sorella si era ritrovata circondata da altre persone, impossibilitata a stringere fra le braccia una madre che aveva perso il figlio e ad assorbire un po' il dolore che le bruciava dentro. In quei primi momenti, nel soggiorno affollato, si era sentita impotente davanti a donne che non le avevano lasciato lo spazio che le sarebbe spettato. Aveva addirittura avuto l'impressione che la biasimassero perché era arrivata in ritardo. Per questo avevano mandato proprio lei in cucina a preparare in fretta una tazza di caffè che avrebbe forse aiutato sua sorella a non svenire. 
Ora, nell'enorme cucina che occupa l'intero pianterreno, Daniela apre uno sportello dopo l'altro alla ricerca del caffè e dello zucchero. Sulle mensole non c'è traccia di cibo, solo teglie zeppe di fossili, forse resti di animali estinti. A giudicare da come sono accatastati non sembrano reperti importanti come quelli che le sono stati mostrati la sera prima durante la cena, e non c'è dubbio che non aiuteranno a fare nuova luce sull'origine dell'uomo. Basterà dar loro un'occhiata prima che vengano buttati nella pattumiera. 
Un vecchio africano entra silenzioso in cucina, zoppicando leggermente, e annuisce malinconico nell'udire la richiesta di caffè e zucchero della donna bianca. Apre una porta del grande frigorifero e prende del caffè nero e dello zucchero di canna. Le propone anche del latte di un colore grigiastro. — Latte di cosa? Di quale animale? — domanda Daniela al vecchio che mastica un po' di inglese. E lui pronuncia il nome di un animale totalmente sconosciuto, o che magari lei conosce ma il cui nome è stato pronunciato male, e rinuncia al latte finché qualcuno di più autorevole e preciso non possa spiegargliene l'origine. 
Contrariamente alle sue visite serali, quando la casa è pulita e in ordine e Yaari preme brevemente il campanello per poi aprire subito la porta con la sua chiave, ora lo suona a lungo e rimane in attesa perché i badanti filippini possano organizzarsi meglio in vista del suo arrivo. E infatti i due mandano Hylario ad aprire, forse perché il suo ebraico dolce e il buffo berretto che ha in testa rendano più facile al figlio del padrone di casa accettare la baraonda alla quale non è abituato. 
L'appartamento è surriscaldato per via della toilette mattutina di suo padre e, diversamente dalla sera, l'identità dei suoi occupanti è molto più riconoscibile: si rivela nell'odore penetrante dei resti della cena sparsi intorno alla neonata adagiata con il solo pannolino sul grande tavolo da pranzo, nei pigiami vivacemente decorati con uccelli asiatici abbandonati su letti sfatti, e nella vestaglia di seta dai colori sgargianti che Kinsey indossa sopra il corpo nudo. 
— Che c'è Hylario, non vai a scuola oggi? 
— È vacanza, signor Yaari. È la festa dei Maccabei, — spiega lo scolaretto nel quale le tradizioni ebraiche suscitano una visibile emozione. 
Mentre si reca nella camera da letto di suo padre, Yaari lancia un'occhiata a quella che era stata la sua, occupata ora da Hylario e dalla sorellina nata in Israele. Fra giocattoli elettronici e poster di personaggi mitologici dei cartoni animati sono ancora riconoscibili alcuni oggetti preistorici, come la scatola del Monopoli della sua infanzia. 
Il vecchio Yaari è già stato rimesso a letto dopo la complessa operazione del bagno mattutino e Amotz non è abituato a conversare con un padre avvolto in due coperte, e del quale vede solo la testa appoggiata tranquillamente su un asciugamano colorato, senza alcun segno del tremore della malattia. 
— Non arrabbiarti se ti ho chiesto di venire questa mattina, — gli dice il vecchio. — Questa mia amica, Dvorah Bennet, mi ha detto che già da un po' di giorni tenta di chiamarmi ma tu, e altri in ufficio, vi rifiutate di darle il mio numero di telefono. Allora sappi che questa signora è una mia carissima amica e mi ha aiutato parecchio in un momento difficile, dopo la morte della mamma. A proposito, prima che mi dimentichi, che notizie hai di Daniela? Le hai già parlato? 
— Oggi andrà a Dar es Salaam e Yirmy farà in modo che si metta in contatto con me. 
— Allora salutala anche da parte mia, e dille che le auguro che la visita a suo cognato l'aiuti a riprendersi. 
— Il problema è che è perseguitata dai rimorsi... Ha sempre provato degli strani sensi di colpa nei confronti di sua sorella, immotivati, e dopo che è morta, si sono fatti più forti. 
— Qualche piccolo senso di colpa, anche immotivato, può sempre essere utile e salutare, — dice il vecchio progettista di ascensori, — soprattutto nei confronti della famiglia, o degli amici. Non bisogna sottovalutarlo. Per questo vorrei che tu mi aiutassi a calmare quello che provo verso questa mia amica di Gerusalemme. Dvorah ha nove anni meno di me, quindi questo significa che ora deve averne ottantuno. Che dire, è proprio una ragazzina. Parecchi anni fa ho installato nel suo appartamento un piccolo ascensore che le consentisse di accedere direttamente al sottotetto, in modo che potesse sfruttarlo come terrazzo. Un ascensore semplice, minuscolo, dotato di un motore di produzione ceca di prima della seconda guerra mondiale. Funziona grazie a un pistone che spinto dalla pressione dell'olio solleva la cabina all'altezza di un solo piano. L'ho progettata io la cabina, e Gottlieb l'ha realizzata in base al mio disegno. Quando io e tua madre ci recammo in Germania alla fine degli anni Cinquanta, trovammo anche delle parti di ricambio per il motore in un vecchio magazzino di rottami e le spedimmo in Israele. Ma ti renderai conto di tutto da solo. 
— E perché dovrei? 
— Perché ho dato a questa mia amica una garanzia a vita per l'ascensore. È una donna colta, ed è anche un po' artista. Nel periodo del mandato britannico era sposata a un inglese con qualche ascendenza ebraica che non è riuscito a rimanere qui dopo la fondazione dello stato. La sua casa è nel cuore della città ma dopo che al pianterreno avevano aperto un centro estetico le suggerii, perché avesse un angolino tranquillo, di installare un ascensore che la portasse sul tetto. In ogni caso nessuno vi saliva e vi si poteva accedere solo per mezzo di una scala a pioli dal vano delle scale. Così Dvorah si è organizzata un angolino tranquillo e fresco per le sere d'estate, vedrai. 
— Ma perché pensi che dovrei vederlo? 
— Perché te lo chiedo io. Quella donna mi ha aiutato molto dopo che tua madre è morta. Non ha la possibilità di chiamare un tecnico, che in ogni caso non capirebbe nulla di un ascensore come quello. La sua casa è in King George Street, di fronte alla vecchia Knesset, e probabilmente lei non se ne andrà di lì finché vivrà, quindi ha bisogno di un ascensore che le permetta di arrivare al tetto. Quando Gerusalemme era divisa, da lassù si poteva vedere la città vecchia. A quanto ho capito l'ascensore funziona ancora, ha solo bisogno di essere revisionato e che gli vengano sostituite alcune guarnizioni. Controllerai tu stesso. 
— Ma come potrei esserti utile? Sono un ingegnere progettista, non un tecnico. 
Il padre chiude gli occhi, tace. 
— Va bene, — dice alla fine, — se sei soltanto un ingegnere progettista non andare a Gerusalemme. Dimentica la mia richiesta. Mi rivolgerò a Moran. Lui ha più pazienza di te e ha le mani d'oro anche se, proprio come te, è solo un ingegnere e non un tecnico. 
— Fa' come vuoi, rivolgiti pure a Moran, lui è libero di fare quello che vuole. 
Sappi però che in questi giorni è stato richiamato sotto le armi. 
— Come mai? Mi aveva detto che avrebbe ignorato la chiamata. 
— L'ha fatto. Ma l'esercito non ha ignorato lui e l'hanno messo agli arresti. 
— E ora? 
— Alla fine lo lasceranno andare. 
— No, intendo dire per Gerusalemme. 
— A Gerusalemme la ragazzina aspetterà un po'. Se le hai dato una garanzia a vita non corre il pericolo che quella le scada a metà. E comunque è inverno e non deve salire sul tetto. 
— Non hai un briciolo di compassione. Non fa nulla. Se ti rifiuti di aiutarmi e Moran è agli arresti, chiederò a Francisco di chiamare due suoi amici filippini che lavorano in una casa di riposo. Mi farò portare a Gerusalemme con un taxi per disabili. Perlomeno potrò diagnosticare il problema. 
— Dio mio, ma sei davvero testardo. Spiegami una buona volta che cos'ha questo maledetto ascensore. 
— Innanzitutto, non è maledetto, e in secondo luogo, te lo ripeto, funziona ancora, non ha tirato le cuoia, però Dvorah dice che quando parte e quando si ferma ha una specie di sussulto. 
— Magari è un po' vecchiotto, papà... che ne dici? 
— Certo che è vecchiotto, ma siccome non è un essere umano gli si può controllare la pressione dell'olio e cambiare qualche guarnizione... no? 
— Tutto è possibile. 
— E poi Dvorah dice che ha cominciato a sentire anche una specie di cigolio, come se nella cabina ci fosse un gatto in calore. 
— Un gatto in calore? 
— Sì, l'ha descritto così. 
— No, papà, per l'amor di Dio, non cominciare anche tu con i cigolii negli ascensori. 
Percorrono esattamente la stessa strada, ma nel senso opposto, che scorre più veloce nella luce abbagliante del mattino, e Daniela è in grado di vedere ciò che non ha potuto scorgere la sera del suo arrivo. Ora non è seduta sul sedile anteriore ma stretta su quello posteriore, dietro il cranio pelato di suo cognato. La conducente però è la stessa, tranquilla e vigile. Questa mattina Sijin Kuang si è avvolta le spalle e le braccia sottili in uno scialle giallo girasole che mette in risalto la sua pelle lucida, color carbone. Alle dieci, a Morogoro, dovrebbero imbarcarsi su un treno merci cinese che trasporta piombo e rame al porto di Dar es Salaam, e una volta in città, come concordato e promesso, stabiliranno un contatto telefonico con Amotz, poi si recheranno a sbrigare alcune commissioni per la spedizione. E malgrado la sudanese si distingua con chiarezza dalla gente del posto per via della sua diversa provenienza, Daniela è molto soddisfatta di essere in sua compagnia perché la sua sola presenza sembra concederle una legittimazione silenziosa. 
Il giorno prima, durante la visita al campo scavi della spedizione, c'è stato un momento in cui le è parso che tra l'anziano vedovo e Sijin Kuang sia nato qualcosa di più profondo di un semplice legame tra colleghi, ma l'impressione è stata cancellata questa mattina, dinanzi alla tristezza abissale dipinta sul volto della giovane donna i cui famigliari sono stati tutti trucidati. così almeno sembra a Daniela, seduta sul sedile posteriore del fuoristrada, poiché quando vede la mano, o la spalla del cognato toccare inavvertitamente quelle della guidatrice, a causa di una curva o di un sussulto del veicolo, lei si contrae e indietreggia, come se Yirmy fosse un nemico che vuole farle del male. 
Girano intorno al monte Morogoro seguendo una pista sterrata ampia, rossastra, dal fondo duro come l'asfalto. Si inoltrano poi in un fitto e tortuoso bosco di siepi che di tanto in tanto scompare senza motivo, trasformandosi in una radura brulla. — Perché la terra qui è così rossa? — domanda Daniela al cognato. — Mi ricordo che l'avevi già spiegato a me e ad Amotz durante la nostra visita precedente, ma non rammento cos'avevi detto. 
— Per via della presenza di ferro, che la rende anche meno fertile. 
— Ferro... adesso ricordo, è quello che avevi detto anche allora. 
— Ecco la prova che sono una persona coerente che non cambia idea con facilità. Ma se farai la stessa domanda a Sijin Kuang, lei ti risponderà che il colore rosso della terra africana è dovuto al troppo sangue versato. 
La conducente, sentendo il suo nome, lancia un'occhiata a Daniela al di sopra della spalla. 
— A proposito di sangue versato, forse è un bene che voi due lavoriate insieme, —  dice lei, — perché siccome la sua tragedia è più grande della tua, vicino a lei riesci a dimenticare. 
Sulle prime Yirmy non reagisce. Forse non ha sentito. Oppure non condivide ciò che la cognata ha detto. Ma a un tratto si gira, trae a sé la sua piccola mano e se la porta alle labbra in un gesto di gratitudine. — A volte mi lasci sbalordito per quello che dici. Riesci ad arrivare al nocciolo delle cose come per caso, senza volerlo. È ovvio che la tragedia di questa donna è più grande della mia, lo capisco benissimo, ma non è solo questo il motivo per cui sto bene con lei quando mi fa da autista, o mi accompagna a sbrigare delle commissioni. Ce n'è un altro. Ti sorprenderà, ma lei non sa nulla di Eyal, non ho raccontato di lui né a lei né agli altri, perché nessuno qui abbia un qualche legame emotivo con qualcosa che voglio dimenticare. Con lei mi è più facile liberarmi della mia identità. 
— E come? 
— Grazie a tutto quello che di questa donna è piaciuto anche a te. Sijin Kuang è una vera animista che crede negli spiriti, negli alberi e nelle pietre. Non come manifestazione confusa di una religione astratta e fallimentare e nemmeno perché, sentendosi debole e disperata, cerca aiuto. Per lei adorare alberi e pietre è un vero atto di fede, per quanto di tipo diverso. Quindi, a differenza dei cristiani e dei musulmani, non ha nessun legame, o obbligo, nei confronti degli ebrei, nel bene e nel male. Non prova per loro amore né odio, non li vede all'origine del suo credo né li considera suoi concorrenti. Per lei siamo irrilevanti, e nemmeno pensa che lei abbia una qualche rilevanza per noi. Noi ebrei non siamo assolutamente parte della sua memoria religiosa, storica o mitica. Io per lei sono solo un uomo. Bianco, è vero, ma questo è un particolare secondario perché sono stati dei neri a trucidare la sua famiglia e la sua tribù. Perciò senza parole, senza sforzo, da essere umano a essere umano, mi aiuta a spogliarmi della mia identità, come un uomo bianco che si è tolto la sua pelle nera. Tutto quello che mi opprime scivola via, senza filosofie e discussioni, così che anche se mi capita tra capo e collo un'ospite che mi è cara e a cui voglio bene, questa non potrà riportare indietro le cose. 
— Naturalmente ti riferisci a me. 
— Naturalmente. Finora però non ho recriminazioni. Ti comporti con cortesia e non oltrepassi i limiti. 
— Va bene, mi arrendo, — dice Amotz a suo padre, — domani è venerdì e cercherò di andare a Gerusalemme. 
— Perché non ci vai oggi? Adesso sei più libero. 
— Ma che dici? 
— Tua moglie non c'è e non hai nessuno di cui prenderti cura, o di cui preoccuparti. 
— Non esagerare. Ho di chi prendermi cura, e cose di cui preoccuparsi ce ne sono sempre. Farò un salto a Gerusalemme domani, e non per i miagolii immaginari di un gatto in calore ma solo per farti stare tranquillo. 
— E farmi stare tranquillo non è un motivo sufficiente? Lascia allora che ti dia un bacio prima che te ne vada. 
Yaari non ricorda l'ultima volta che suo padre ha espresso il desiderio di baciarlo. Quando va da lui e lo trova sulla sedia a rotelle, talvolta gli prende la mano tremante e gli sfiora la guancia con un bacio, come se adempisse a un dovere. Ma a sua memoria, negli ultimi anni, il vecchio non ha mai preso l'iniziativa di baciarlo. Tanto più che lui ora è nudo, sotto due coperte, e Yaari è costretto a chinarsi per porgergli la fronte. 
— Se nel vano dell'ascensore di Dvorah Bennet troverai un gatto in calore, portalo qui, perché lo veda anch'io, — gli dice il vecchio. Poi chiude gli occhi e stampa un bacio sulla fronte del figlio sessantenne. 
A giudicare dall'emozione che palesa, probabilmente era innamorato di questa Dvorah, riflette Yaari mentre si avvia verso sud, in direzione dell'ufficio, in una giornata grigia e senza vento. Il vecchio era persino ansioso di confessarsi, ma lui non glielo ha permesso per non dover scoprire che la donna di Gerusalemme era stata la sua amante quando sua madre era ancora viva. E anche se dovesse saltar fuori che quella signora aveva aiutato suo padre a ritrovare sicurezza solo dopo la morte della moglie, lui non ha una gran voglia di incontrarla, e di certo non intende prendersi cura del suo vetusto ascensore che miagola e sussulta. In ogni caso ripararlo sarebbe un'impresa al di là delle sue forze, e persino individuarne il guasto. Se Moran fosse in città di certo lo manderebbe a Gerusalemme per accontentare il nonno. Ma Moran è sparito nei meandri dell'esercito e non ha ancora scambiato con lui una sola parola, e Yaari è punto dal sospetto che il figlio cominci ad apprezzare la vacanza che la sua posizione di soldato agli arresti gli concede. 
L'ufficio è affollato. Chi si è preso una pausa il giorno prima oggi si è presentato presto per recuperare il tempo perduto. — Dov'è Moran? — domandano i suoi diretti dipendenti. — È partito come riservista — . Yaari evita di rivelare la verità. — Ma aveva detto che avrebbe ignorato la chiamata. — Lo ha detto, e allora? Non tutto quello che dice si avvera. I suoi superiori hanno insistito che si presentasse. 
Per un istante Yaari considera se non sia il caso di chiedere a uno dei giovani ingegneri di recarsi a Gerusalemme al posto suo. Ma chiunque verrà mandato lassù potrebbe sentirsi ridicolo e impotente davanti a quell'ascensore preistorico, e pieno di rancore per la giornata libera di cui è stato inutilmente privato e per la mansione tecnica indegna di un progettista. 
Chiama Dvorah Bennet e le parla in tono brusco, militaresco: — Ha vinto, signora Bennet, verrò a vedere il suo ascensore domani mattina, ma l'avverto fin da ora di non farsi illusioni. Vengo solo a dargli un'occhiata, non ad aggiustarlo. Quindi non esca di casa dopo le nove del mattino, per favore. 
Anticipa poi la riunione settimanale dei dipendenti per essere sicuro che a mezzogiorno in punto, all'ora stabilita, sia lui che il suo telefono saranno liberi di ricevere la chiamata di sua moglie dall'Africa. 
Daniela non è lontana da Dar es Salaam. Seduta in un improvvisato vagone passeggeri di un treno merci cinese viaggia in compagnia di suo cognato che le dormicchia a fianco, e con Sijin Kuang seduta di fronte a lei. A giudicare dal suo sguardo carezzevole quest'ultima ha probabilmente intuito — per via della parola «animista» — che la conversazione tra i due israeliani riguardava pure lei. E sebbene la sua tragedia sia più grande di quella del vecchio contabile, la cui testa ora ciondola sul petto e sembra annuire, dato che lei era stata anche esiliata dal suo paese, Daniela vorrebbe comunque accennarle la disgrazia che ha colpito l'uomo bianco. 
Ma Yirmiyahu non vuole parlare di sé. Non vuole che un racconto ne trascini un altro, le storie si sovrappongano e persino l'adoratrice di dèi si ritrovi coinvolta emotivamente con lui. E in fondo Daniela non è venuta qui per contrastare il suo volere. Si mette allora a parlare di malattie, e di ferite. Forse, grazie all'esperienza dell'infermiera africana, potrà scoprire una medicina antica e di provata efficacia per un'eventuale e futura malattia. 
Dal finestrino già si vedono le prime case, le prime strade. Una città. Per un istante fa capolino un lembo di mare piatto su cui naviga una barca a vela. 
Yirmy, di nuovo sveglio e pieno di energia, conduce ora con estrema sicurezza le due donne per strade che conosce bene, tra bancarelle di verdure, ceste di pesce e sacchi di carbone. — Se è possibile, — dice Daniela, — comincerei dalla telefonata in Israele. L'abbiamo promesso ad Amotz e so che lui è già lì con una mano sulla cornetta del telefono. — Le promesse vanno mantenute, — la tranquillizza il cognato con un sorriso. — Da quando ho conosciuto Amotz, quarant'anni fa, so che è pericoloso farlo aspettare. 
Conduce Daniela in un phone center, talmente buio e zeppo di cavi collegati a vecchi computer e a telefoni antiquati da sembrare una caverna stracolma di ragnatele. La proprietaria del negozio, un'africana corpulenta di nome Zayneb, li riceve con gioia e fa sedere Daniela davanti a un telefono a disco un po' sbeccato. 
— L'esperienza mi ha insegnato che da qui si parla a buon prezzo e senza interferenze, — si giustifica Yirmiyahu. — Ogni mese chiamo Eleanor in America per rassicurarla che sono ancora vivo e sentire da lei quante parole ha aggiunto alla sua tesi di dottorato. Scrivi a Zayneb il numero che vuoi chiamare con il prefisso di Israele e di Tel Aviv e potrai tranquillizzare il tuo amato. Noi aspetteremo pazientemente qui fuori. 
— Non vuoi scambiare qualche parola con lui? 
— Solo se non ti dilungherai troppo. Beh, non credere che non pensi anche a lui qualche volta. 
La comunicazione dalla caverna di ragnatele viene stabilita in fretta e la voce risuona forte e chiara. A Tel Aviv la segretaria dello studio è felice di sentire la voce di Daniela dall'Africa, per quanto sia un po' stupita che telefoni così presto. Amotz è in riunione nel suo ufficio. Ma non importa, lo chiamerà subito. Lei intanto non riagganci. 
— Ma perché dice che sono in anticipo? Ci eravamo messi d'accordo di parlare oggi a mezzogiorno. 
— Però qui sono le undici, — puntualizza la segretaria. — Probabilmente lei ha un'ora di vantaggio rispetto a noi. 
— Ho un'ora di vantaggio? — ride Daniela. — Che significa? Ma la segretaria è già andata a chiamare suo marito. 
Non così, in piedi, accanto alla scrivania della segretaria e al suo telefono Amotz voleva avere la tanto sospirata conversazione con la moglie, sotto gli occhi di estranei che magari sentono quello che dice. Ma sarebbe giusto interrompere la riunione e mandar via tutti dal suo ufficio solo per potersi lamentare senza testimoni dei suoi guai? Non avendo scelta stringe forte la cornetta e tende al massimo il filo per raggiungere un angolo, cercando di parlare sottovoce, in tono di accusa, o forse di giustificazione. 
— Sì, ho sbagliato a calcolare l'ora. Ero sicuro che avessimo lo stesso fuso orario ma all'improvviso ho scoperto che l'Africa non si estende solo a sudovest rispetto a noi, ma anche a est. Quindi hai finito di fare con un'ora di anticipo tutto quello che avevo immaginato avresti fatto durante il viaggio. 
— Non importa. In fondo si tratta solo di un'ora. Ma se adesso hai problemi a parlare posso provare a richiamarti più tardi. 
— No, assolutamente no. Parlo sottovoce perché c'è gente. Mi senti bene? 
— Benissimo. Anzitutto dimmi dei ragazzi. 
— Un momento. Di loro ti dirò dopo. Racconta tu come va. Tanto per cominciare, com'è andato il viaggio? 
— Il volo per Nairobi è stato piacevole, ma starsene seduti sei ore in aeroporto solo per far stare tranquillo te è stato crudele. E alla fine ho anche quasi perso il volo. 
— L'hai quasi perso? Com'è possibile? 
— La carta d'imbarco era infilata nel romanzo. 
— Quale romanzo? 
— Quello che ho comprato all'aeroporto. 
— Te l'avevo detto di tenere tutto nel passaporto. E ci avevo pure messo i documenti. Come ci è finita la carta d'imbarco nel romanzo? 
— Non importa, alla fine l'ho trovata. 
— Stai attenta. Puoi permetterti di sognare solo quando sono vicino a te. E il secondo volo com'è andato? Ero preoccupato che l'aeroplano fosse piccolo e scalcinato. 
— Era davvero piccolo, però era pulito e carino, e per niente scalcinato, e servivano persino whiskey a volontà. 
— Spero non a te, — ride lui. — E com'è la fattoria di Yirm? È lontana dall'aeroporto? 
— Non troppo, ma la strada è in gran parte sterrata e un po' tortuosa, e per un tratto attraversa una foresta. Per fortuna la donna animista che mi ha fatto da autista... 
— La donna animista? 
— Una ragazza sudanese molto carina, di religione animista, adora gli dèi... con una storia tragica, te ne parlerò... 
— Adora gli dèi? Quali dèi? 
— Non adesso. Ti racconterò tutto a casa. Ma dimmi, come stanno i ragazzi? 
— Lascia perdere i ragazzi. Yirmy si è dimenticato di venirti a prendere all'aeroporto? 
— No, no, è una storia complicata. Ti dirò tutto. È stato lui a mandare la ragazza, è l'infermiera della spedizione. 
— E lui? 
— È sempre più strano. Ma anche contento della sua situazione. Gli ho portato un pacco di giornali che mi hanno dato in aereo e lui li ha bruciati tutti. 
— Li ha bruciati? Ha fatto bene. Perché dovrebbe leggere giornali israeliani in Africa? 
— Ha buttato nel fuoco anche le candele di Hanukkah che gli ho portato. 
— Ma tiene il fuoco sempre acceso? 
— È quello della stufa per l'acqua calda. 
— E perché le candele l'hanno fatto arrabbiare? 
— così. Tenta di staccarsi da tutto. Da Israele. Dagli ebrei. Da tutto. 
— Staccarsi da tutto? Perché no? Non è una cattiva idea. Magari potessi farlo io ogni tanto. Ma perché andare a cacciarsi in Africa? Ci sono posti più piacevoli al mondo in cui andarsi a isolare. 
— Non ora, Amotz. Tra l'altro è qui fuori che gironzola. Parleremo di tutto la settimana prossima. Ma dimmi come va con i ragazzi. 
— Nofar è venuta ieri con un tizio più vecchio di lei ad accendere le candele. 
— Benissimo. 
— Però si è fermata poco. 
— Non fa niente. L'importante è che sia venuta. 
— Ma la cosa principale, senti bene, è che questa volta Moran non l'ha avuta vinta con l'esercito. L'hanno preso e lo tengono agli arresti. 
— Arresti veri e propri? 
— Verissimi, per una settimana, o qualcosa del genere. Ma almeno è qui, in Israele, vicino al comando militare. Ancora non ho potuto parlare con lui perché gli hanno sequestrato il telefonino, ogni tanto però riesce a mettersi in contatto con Efrat. Ieri sono andato a prendere i bambini all'asilo al posto tuo e ho aspettato con loro in un caffè fino a che è arrivata Yael. Domani è venerdì e accenderò le candele con loro. 
— Per fortuna la madre di Efrat è sempre pronta a dare una mano. 
— È una brava persona. È sua figlia che non fa che girare a vuoto. Oggi ha un corso in Galilea, domani un seminario nel Negev. Mi fa diventare matto. 
— Allora diventa matto in silenzio, e sta' attento a non sgridarla. Quello che fa non è affar tuo, non sta a te educarla. Lascia che sia Moran a occuparsi di lei. 
— Ma Moran è agli arresti. Pensa un po' che vergogna. Un ufficiale di Tzahal. 
— Lascia in pace anche lui. Non rimproverarlo. È da un po' che avevo l'impressione che avesse paura di questo periodo di servizio. 
— Paura? Moran? Da dove ti salta in mente un'idea del genere? Non è mai stato un fifone, di certo non per quel che riguarda l'esercito. Gli è venuta solo voglia di fregarsene di tutti, all'improvviso, ed era sicuro, come lo sei tu, che tutti sarebbero caduti ai suoi piedi. 
— Tutti mi cadono ai piedi? 
— Più o meno. 
— Ma come ti è venuta un'idea simile? 
— Non adesso. E non sono neppure solo. Parlo dal telefono della mia segretaria. Dov'è Yirmy? È lì vicino a te? Vorrei dirgli una cosa. 
— Cosa? 
— Che continui a prendersi cura di te. 
— Non azzardarti a dirglielo. 
Yirmiyahu aspetta in un vicolo con Sijin Kuang, la cui alta figura, nobile e delicata, a fianco di un anziano uomo bianco, attira la curiosità dei passanti. Di tanto in tanto lancia un'occhiata all'interno, a sua cognata che è seduta tranquilla e sorridente nelle profondità della caverna multimediale, circondata da giovani africani con gli occhi fissi sui monitor mentre lei, con grazia giovanile, piega la testa dai capelli corti verso la cornetta sbeccata, accavalla le gambe, le scopre, giocherella con l'orlo del vestito. Anche se qui le chiamate telefoniche costano meno che in altri posti della città, la conversazione dura più a lungo di quanto lui si aspettasse e le chiacchiere sdolcinate dei suoi parenti cominciano a innervosirlo. Si sono lasciati solo due giorni prima, e si rivedranno fra quattro, e insistono a parlare tanto. Ricorda che già da ragazza Daniela monopolizzava il telefono a casa dei genitori con chiacchiere e risatine, fregandosene di tutti. E le conversazioni quotidiane con sua sorella, negli anni precedenti alla morte di Eyal, andavano avanti talvolta per più di un'ora. Proprio la sua morte le aveva accorciate. Quella morte che aveva rimpicciolito e reso angusto l'intero mondo. Sua moglie aveva perso la pazienza per le storie di estranei, persino per quelle dei suoi famigliari; e anche per sua sorella, così vicina a lei, provava meno interesse. 
Daniela gli fa segno di entrare, di unirsi a lei. Amotz vorrebbe scambiare quattro chiacchiere con lui. — Forse faremmo meglio a riagganciare e lui ci chiamerà da Israele a sue spese. — No, è impossibile, — dice Yirmiyahu respingendo con fermezza l'idea. — La proprietaria del locale non vuole rimetterci dei soldi e non rivela il numero telefonico del negozio — . Afferra il ricevitore dalle mani di Daniela e senza nemmeno un saluto inizia a prendere in giro il cognato. 
— Allora? Già dopo due giorni fai fatica a stare solo? Ma Yaari, ignorando la punzecchiatura, domanda cordiale: 
— Yirmy, carissimo, come va? 
— Non mi posso lamentare. Per il momento la signora che mi hai mandato si comporta bene, quindi te la restituiremo intera e non la daremo in pasto ai leoni. 
Ma l'esperto di ascensori non ha voglia di scherzare. 
— Dicevo tu. Come stai tu. 
— Sto come sto. 
— Quando ci vedremo? 
— Quando verrai qui. Ma prima dammi il tempo di riprendermi dalla visita di tua moglie. 
— Non in Africa. Voglio dire quando ci vedremo in Israele. 
— In Israele? E che fretta c'è? Ci ho passato la maggior parte della vita e non scapperà. Mi sa che anche volendo non riuscirà ad autodistruggersi. Qui la vita è comoda e tranquilla, e soprattutto costa poco. Anch'io voglio un badante filippino che si prenda cura di me quando sarò vecchio. E in generale, mio caro Amotz, mi sono venute delle idee un po' diverse circa il nostro mondo. 
— Che tipo di idee? 
— Non adesso, durante una chiamata intercontinentale e in mezzo al mercato. C'è gente che aspetta di mettersi in comunicazione con il mondo e io tengo occupata la linea. Te lo spiegherà Daniela cos'ha compreso di me, e quello che non capirai da lei, me lo potrai sempre domandare direttamente. Ma forse non ha nessuna rilevanza. La cosa importante è che tu abbia cura di te, e anche dei tuoi figli. 
Quando sta per riagganciare, Daniela gli strappa di mano il ricevitore per fare in tempo a domandare al marito come sta suo padre e che novità ci sono nella storia dei venti del grattacielo. 
Non appena però si ritrova nella strada illuminata scopre che la telefonata in Israele non le ha recato alcun sollievo, come se il senso di alienazione di Yirmiyahu avesse contagiato anche lei. E mentre il cognato si trattiene all'interno per pagare la telefonata, alza gli occhi e osserva l'infermiera tranquilla che risalta nella moltitudine di colori che la circonda. Il rimpianto e la malinconia che ancora non ha cominciato a provare la rattristano. E in fondo è qui, in uno dei vicoli del mercato, che la morte aveva iniziato a stringere Shuli nella sua morsa. Da qui era stata portata in una clinica vicina dove se n'era andata in completa solitudine. 
Dove aveva cominciato a sentirsi male? Dove si era fermata? 
E dov'era a quel tempo la sede della rappresentanza israeliana? Finora lei non ha riconosciuto i luoghi della sua visita precedente. 
Yirmy le mostrerà il posto. Con un po' di pazienza alla fine riconoscerà ogni cosa. È tutto vicino e lui le farà volentieri da guida, ma adesso deve recarsi in banca, prima che chiudano per la pausa. 
E a quel punto si dividono. Sijin Kuang si reca a fare provvista di medicine mentre Yirmiyahu e Daniela si avviano verso la filiale di una banca dall'aspetto molto elegante. Qui salgono al secondo piano. Yirmy fa sedere la cognata in sala d'attesa, a fianco di un africano corpulento, e scompare nell'ufficio del direttore. 
Il sorriso di Daniela incontra subito la simpatia dell'africano che indossa un costume tribale, ma lei non si accontenta del suo sorriso e si azzarda, secondo un'usanza inglese, a condividere con lui le proprie perplessità sul tempo atmosferico. L'africano, intuendo le sue intenzioni ma non possedendo alcuna conoscenza d'inglese, si alza emozionato e con un ampio e benevolo gesto della mano la invita ad accostarsi alla grande finestra. Poi, con un torrente di parole in una lingua completamente incomprensibile, indica il cielo e le nuvole, infine tace e ritorna umilmente al suo posto mentre Daniela, davanti alla finestra, cerca forse di assimilare ciò che le è stato detto. 
Il tempo effettivamente è cambiato. D'un tratto la giornata si è fatta grigia: le prime gocce di pioggia punteggiano il vetro. La telefonata a suo marito alla fine si è rivelata puramente tecnica, priva di emozioni. Se lui ha paura di mostrare i propri sentimenti in presenza dei collaboratori, perché non è tornato nel suo ufficio per interrompere la riunione e confortarla in privato con qualche parola che la rassicurasse circa il suo amore? Non le ha detto che l'amava e sembrava che non sentisse la sua mancanza ma fosse solo infastidito dalla sua assenza, spazientito e ansioso di esercitare il suo controllo. Non essendogli ancora chiaro lo scopo del viaggio doveva almeno accertarsi che l'aereo su cui lei aveva volato non fosse scalcinato, per non rischiare di perderla durante un viaggio inutile. 
E magari Amotz ha ragione, questo viaggio è davvero inutile. 
Al limite dell'orizzonte spruzzato di gocce si intravede un lembo verde-grigio dell'Oceano Indiano, su cui dondolano alcune barche di pescatori. La spiaggia allora non è lontana. Nella sua precedente visita Shuli l'aveva portata più di una volta con sé per una lunga passeggiata quotidiana sulla spiaggia e lì, da sole, senza i mariti accanto, loro due avevano gironzolato in totale sicurezza sul molo di attracco dei pescherecci. Sua sorella era molto contenta dell'incarico di rappresentante commerciale di Yirmiyahu in Tanzania. Quando Eleanor le avrebbe dato dei nipotini, aveva detto, forse avrebbe voluto esserle vicina, ma nel frattempo si trovava a suo agio in un ambiente straniero dove il dolore per il soldato che aveva attirato su di sé il fuoco dei compagni si stemperava. Con sua sorpresa Daniela aveva confermato a se stessa ciò di cui sospettava da tempo: dietro il velo di dolore silenzioso e dignitoso di sua sorella bruciavano sentimenti strani, impietosi nei confronti del figlio. E siccome Shuli temeva di rivelarli, anche solo per caso, era contenta di soggiornare in un paese lontano, distante dalle rotte di viaggio di amici e parenti. Persino mentre camminava a fianco della persona che più le era vicina al mondo, sulla spiaggia dell'oceano, aveva preferito non lasciarsi sfuggire nemmeno una parola, nominando solo ripetutamente i genitori ed evocando episodi dimenticati dell'infanzia. 
Poi, durante le telefonate da Israele, Daniela era stata attenta a non parlare troppo spesso dei propri figli e nipoti, e visto che la sorella non mostrava interesse per altri parenti o amici comuni, e soprattutto per le vicende politiche del paese, non le era rimasto altro da fare che tornare ogni volta a ricordare quella breve visita in Tanzania, gli animali visti nelle riserve e i bambini nudi che si lanciavano tra le onde, come se da quel momento in poi soltanto quelle memorie sarebbero state considerate argomenti di cui valesse la pena parlare. 
Daniela torna a guardare l'orizzonte e si domanda se nel giorno terribile in cui era iniziata l'agonia di Shuli al mercato di Dar es Salaam lei avesse fatto in tempo a passeggiare lungo il molo di attracco dei pescherecci. 
Si volta spaventata. No, non è l'africano a toccarla ma suo cognato, con in mano due buste, una piena di banconote e l'altra di monete, e al suo fianco c'è il direttore della banca, un uomo giovane e sorridente, in maniche di camicia e cravatta, senza giacca, che conosceva bene sua sorella e un paio di volte aveva persino avuto occasione di pranzare con lei nei giorni in cui suo cognato gestiva affari più consistenti del semplice conto corrente di una sperduta spedizione scientifica. Sì, dice il direttore della filiale, Jeremy gli aveva detto della sua visita in Tanzania che lui ritiene appropriata e importante perché non ci si deve dimenticare dei morti, soprattutto di quelli la cui anima si è allontanata da noi in un paese straniero. Solo grazie a quel ricordo potranno fare ritorno alla propria casa. 
— Anche lei è di religione animista? — Daniela azzarda una domanda impertinente che sorprende anche lei. 
— Magari potessi esserlo, — sospira il giovane con franchezza. — Purtroppo per me è tardi. Sono nato musulmano e perché io possa convertirmi all'animismo la banca dovrebbe cambiare il proprio statuto. 
Si inchina leggermente e si avvicina all'africano che sonnecchia per invitarlo nel suo ufficio. 
— Devi sbrigare altre commissioni? — domanda Daniela a Yirmiyahu in tono un po' lamentoso. — O puoi mostrarmi dove tutto è cominciato? 
— Ho ancora alcune cose da sbrigare, — risponde lui con calma, — ma sono per strada. 
Yaari non pretende parole di amore e di affetto da sua moglie. Gli basta aver sentito la sua voce assennata e quella scherzosa del cognato. Anche l'interesse mostrato da Daniela all'ultimo minuto per il problema del vento gli ha riscaldato il cuore. Se a una distanza simile si ricorda delle preoccupazioni quotidiane del suo lavoro allora non denota nessun segno di svagatezza. È vero, da una vita lei lo sorprende di tanto in tanto con domande inerenti problemi di lavoro di cui lui le ha parlato senza nemmeno rendersene conto. Ma siccome gli aspetti tecnici del suo mestiere le sono totalmente estranei, e vanno oltre la sua comprensione, Daniela si sforza di scoprire particolari nascosti nel carattere dei dipendenti, o dei clienti, per condividere i dubbi del marito e magari anche indirizzarlo in ciò che fa. Del reclamo del grattacielo Pinsker lui le aveva raccontato un po' per scherzo ma lei, chissà perché, si era interessata a quella storia e avrebbe voluto sentire con le proprie orecchie l'ululato del vento negli ascensori. Per accontentarla però era necessario che una qualsivoglia bufera invernale scoppiasse in un momento del suo tempo libero, e la cosa non era ancora avvenuta. 
Yaari torna nel suo ufficio. La riunione è proseguita in sua assenza passando dagli aspetti tecnici dell'aggiunta di un quinto ascensore a una discussione sui costi. L'ingegnere capo parla di una cifra considerevole, i giovani protestano: fintantoché non si conoscono i dettagli delle modifiche da apportare agli altri ascensori non è possibile preventivare alcun costo. Ma l'ingegnere capo non parla per esperienza tecnica, bensì finanziaria: — Se non ci si presenta in un ufficio ministeriale con un preventivo alto, e non si raggiunge un accordo inattaccabile riguardo al pagamento, al termine del lavoro al posto di un assegno ci consegneranno un libro con tutti i discorsi del ministro, con tanto di dedica. 
Yaari interrompe la discussione con una domanda di ordine geografico: 
— L'Africa è a est o a ovest rispetto a Israele? 
— L'Africa? Che significa? Di solito è a ovest. Yaari ride. — Che vuol dire «di solito»? 
Gli ingegneri si rendono conto che il proprietario dello studio vorrebbe farli cadere in una domanda trabocchetto e strizzano gli occhi per raffigurarsi la mappa del mondo.  
— È sia a est che a ovest, — dice uno dei giovani. — È un continente abbastanza grande per spaziare in entrambe le direzioni. 
Yaari spiega di essersi assentato dalla riunione perché Israele è un'ora indietro rispetto all'Africa. — Malgrado la distanza, — ridacchia di fronte allo stupore degli ingegneri, — ero sicuro che la Tanzania e Israele si trovassero sullo stesso fuso orario, ma a quanto pare non è così — . Poi riporta la discussione su argomenti tecnici, attento però a non lasciar trapelare nulla del progetto che tiene piegato in tasca. 
A mezzogiorno invita la segretaria a pranzo per discutere con lei di alcune cose che ha dimenticato il giorno prima. Il cielo sereno e l'aria tersa fanno sì che il cameriere rivolga loro una domanda: dentro o fuori? — Fuori, — sentenzia Yaari con fermezza. — Perché no, è una buona idea — . E nonostante la segretaria abbia freddo e preferirebbe starsene al calduccio dentro il locale, non può rifiutare la sfida, come se l'inverno ancora serbasse in sé un valore speciale. È costretta però a rimanere col cappotto dal collo di pelo sintetico e non le è facile districarsi tra la forchetta e la penna con cui prende nota delle disposizioni di Yaari. 
L'aria continua a scaldarsi e siccome il vento tace, tace anche il cellulare di Yaari. Il rappresentante dell'associazione condomini del grattacielo non si fa sentire, l'anziana donna di Gerusalemme si è zittita e anche Gottlieb ha interrotto i contatti. Yaari torna nello studio e osserva compiaciuto i dipendenti sui cui volti si riflette la luce dei computer, quindi va nel suo ufficio e spalanca la finestra. Intorno al suo amato albero sono sparsi rami e frasche che il vento ha strappato durante i temporali degli ultimi giorni, ma quella potatura naturale non ha tolto nulla alla sua grazia. Di lì a poco lo spettacolare rampicante sarà in piena fioritura e intreccerà ai rami i suoi boccioli rossi. 
È mai possibile che Daniela abbia ragione? Moran aveva davvero paura di questo periodo di servizio militare e la sua indifferenza era intesa a mascherarla? Yaari non ha mai notato segni di timore nel figlio. Anche lui, come il cugino, aveva prestato servizio in un'unità militare combattente e aveva persino firmato per un anno come ufficiale. Ma Daniela spesso sapeva leggere meglio di lui l'anima dei loro figli. Tuttavia anche così... paura? Adesso che nei territori la situazione è più calma? Un padre di due figli, la cui famiglia ha già pagato un alto prezzo allo stato, non poteva chiedere un po' di considerazione? 
Chiama Efrat al cellulare e con sua enorme sorpresa la risposta è immediata ma la voce è quella della nipotina. 
— Neta, tesoro, dove sei? Non sei all'asilo? 
— Oggi è vacanza, nonno. Anche Nadi è in vacanza. 
— E adesso dove siete? 
— A casa. 
— A casa? Che bello, meglio così. State giocando? 
— No. Ci sono i programmi per i bambini alla televisione. 
— Alla televisione? Cosa avreste fatto senza televisione? 
— Niente. 
— Passami la mamma, per favore. 
— È uscita. 
— Senza telefonino? Com'è possibile? 
— L'ha dimenticato. 
— E chi c'è lì con voi? La nonna? 
— No. Una bambina. 
— Una bambina? Che bambina? Di chi? 
— Non lo so. 
— E chi è? Come si chiama? 
— Non ce l'ha detto. 
— Neta, amore mio, passamela un momento. 
— Ma sta guardando la televisione. 
— Non importa. Dille che il tuo nonno vuole dirle una cosa importante. 
La piccola passa l'apparecchio alla bambina. In sottofondo si sentono le voci di altri bambini in televisione. 
— Chi sei, ragazzina? 
Si chiama Michal, fa la baby-sitter all'occorrenza, ha solo dieci anni e abita nel condominio accanto al loro. 
— E cosa succede lì, Michal? 
— Niente. 
E a quel punto la rabbia di Yaari nei confronti di sua nuora esplode... 
10 
A Dar es Salaam la pioggia cade lenta e leggera. All'uscita della banca, Yirmiyahu compra un ombrello per Daniela e ingaggia un facchino scalzo con una grossa cesta di vimini legata alla schiena per portare gli acquisti al mercato. 
— È davvero così importante per te vedere questo posto? — domanda perplesso alla cognata. — È solo un posto come un altro del mercato, vicino a una bancarella. Niente di speciale. 
Ma Daniela è ben determinata a vedere dove la morte aveva iniziato ad avvolgere la sorella nei suoi tentacoli. Anche per questo aveva fatto tutta quella strada da Israele. 
Yirmy la prende per un braccio e la guida con cautela fra le pozzanghere, conducendola a un negozio di ferramenta. In base all'elenco che ha in mano carica nella cesta del portatore piccole vanghe e setacci, pile di varie dimensioni, torce e lanterne a petrolio. Conclude la spesa con coltelli di acciaio che vengono anch'essi inghiottiti nella cesta. Avanza poi fra le bancarelle di frutta e verdura fino al mercato della carne e del pesce. Lì, in una piazzetta in cui è distesa una rete grigiastra strappata qua e là, due indiani sono in attesa del contabile bianco che salda il debito del pesce acquistato durante il mese precedente e consegna loro un nuovo ordine. 
— La mattina in cui Shuli è morta ha fatto in tempo ad andare a passeggiare sulla spiaggia? — domanda Daniela. 
Yirmiyahu si stringe nelle spalle. 
— E chi lo sa? Lo spero per lei con tutto il cuore, perché le piaceva molto passeggiare e aveva dei bei ricordi delle camminate che avevate fatto insieme. C'erano giorni, dopo che siete tornati in Israele, che non aveva voglia di andare alla spiaggia da sola perché sentiva la tua mancanza. 
— La mia mancanza? — La voce di Daniela trema: la malinconia della sorella finalmente risveglia la sua. 
Si addentra con Yirmy in uno spiazzo occupato da bancarelle di abbigliamento dalle quali pendono vestiti, mantelli e camicie variopinte. Ai loro piedi ci sono rotoli di stoffe indiane e, come spuntato da sottoterra, al loro fianco si materializza un altro portatore, nella cui cesta vengono messe coperte militari per riscaldare gli scienziati nelle notti fredde. Daniela, spintonata da passanti di tutte le razze, a un tratto sente un tuffo al cuore nel riconoscere chiaramente il posto. Durante la sua visita precedente era stata proprio qui. Shuli aveva portato lei e Amotz a questa bancarella. Solleva lo sguardo verso una fune tesa sopra le loro teste e vi vede appeso un abito identico al suo. È qui, dice a se stessa, è questo il posto. Nella sua mente affiora l'immagine di Shuli, irremovibile e decisa, che respingeva imperiosa la proposta di Amotz di comprare un vestito uguale al suo, da indossare talvolta al posto degli abiti a lutto. 
Yirmy fa cadere delle piccole banconote e qualche moneta nelle mani dell'africano, poi si congeda da lui con un abbraccio. Ma prima che si dirigano verso un'altra bancarella Daniela lo trattiene per la camicia. 
— Vero che è questo il posto dove Shuli si è fermata quando ha cominciato a sentirsi male? 
Si ferma un istante, e osserva il cognato con affetto. 
— Più o meno. Non è lontano da qui. La vedi quella grossa pietra? È lì che si è seduta. L'uomo da cui avevo comprato le coperte ha visto da lontano che stava male e Shuli ha fatto in tempo a chiedergli di andare a chiamarmi. Ma quando sono arrivato qui, lei non c'era già più. Aveva perso conoscenza e quattro uomini l'avevano trasportata all'ospedale. Ma come ti è venuto in mente che fosse questo il posto? 
— Perché ci siamo venute durante la nostra visita precedente, — esclama Daniela in preda all'emozione. — È qui che abbiamo comprato il vestito che indosso ora, e Amotz l'aveva tanto supplicata che ne comprasse uno anche per sé... Daniela indica il vestito appeso sopra le loro teste. 
— No, — esclama Yirmy con fermezza, — non cominciare a cercare coincidenze che non esistono. Non ti si addice. Questo posto non è affatto speciale, non ha nulla di mistico. È semplicemente la strada che Shuli faceva ogni giorno per tornare alla sede della rappresentanza. E non agitarti nemmeno per il tuo vestito. Abiti come questo, se guardi bene, ce ne sono dappertutto. 
Daniela scuote leggermente il capo in segno di diniego; il cuore le batte. 
— E dov'è l'ospedale in cui l'hanno portata? 
— Non ha fatto in tempo ad arrivarci. I soccorritori si sono fermati in una specie di consultorio pubblico. 
— Per favore, Yirmy, portamici. 
— Ma è già tardi. Il treno parte fra un'ora e pensavo che saremmo andati a mangiare qualcosa. 
— Non mi interessa mangiare. Portami in quella clinica. 
— Ma perché? È solo una clinica: che bisogno hai di vederla? — Anche per questo ho fatto tutta questa strada da Israele. 
11 
Ancora schiumante di rabbia, Yaari salva il file a cui stava lavorando. Cerca inutilmente di calmarsi, esce dal programma e dopo una breve riflessione spegne il computer, chiude la finestra, si infila il giubbotto e dice alla segretaria: — Devo andare dai miei nipoti: se qualcuno chiede di me, mi può chiamare al cellulare — . Si reca a casa del figlio, nella zona nord della città, e questa volta non esita a occupare il parcheggio riservato a lui e alla nuora. Essendo in possesso della chiave dell'appartamento non suona il campanello, ma apre la porta d'ingresso, entra nella casa buia e grida con allegria: — Bambini, guardate chi c'è. 
I nipoti sono seduti sul pavimento davanti al televisore e in mezzo a loro c'è una bambina di circa dieci anni, di certo la baby-sitter, grassottella e piccolina ma anche probabilmente piena di risorse se è riuscita a individuare l'interruttore della tapparella elettrica per far buio in soggiorno e rafforzare, come al cinema, l'illusione di realtà delle figure che danzano sullo schermo. Neta e Nadi alzano per un istante uno sguardo imbambolato nell'udire il grido emozionato del nonno, ma, fiacchi e apatici per la prolungata permanenza davanti al video, non gli vanno incontro. 
Come prima cosa Yaari decide di abbassare il volume della televisione, alzare la tapparella e riportare nella stanza la luce del giorno. Solo a quel punto comincia a interrogare la baby-sitter, come se lei fosse colpevole di trovarsi lì. 
— La loro mamma ha telefonato? — No. 
— E la nonna? 
— Nemmeno. 
— Allora chi ha telefonato? 
— Soltanto lei. 
Ma Nadi si intromette: — Non è vero, anche papà ha chiamato. 
— Ha chiamato papà? 
— Sì, — si ricorda ora la baby-sitter, — dopo di lei. 
— E cos'ha detto? 
— Cercava la mamma, — dice Neta, accorrendo in aiuto della bambina. — Ha detto che lo trattengono ancora nell'esercito e vuole che la mamma gli porti dei vestiti pesanti. 
— Mutande, — aggiunge Nadi. — Papà ha bisogno di mutande. 
— E anche canottiere. 
— E nient'altro? 
— Nient'altro, — dice Neta. 
— No, — la corregge il fratellino, — ci ha mandato anche un bacio per telefono. 
La rabbia di Yaari sbollisce e permette alla baby-sitter di aumentare il ruggito degli animali della giungla che in quel momento ballano sullo schermo con il presentatore del programma. Va al frigorifero, controlla cosa c'è dentro, poi chiede se qualcuno ha fame e vuole mangiare. Tutti hanno fame a quanto pare, e specialmente la baby-sitter cicciottella. Pieno di buona volontà, affronta la situazione: prepara delle piccole tartine, le guarnisce con fettine tonde di cetriolo, come ha imparato a fare da Daniela, e le serve ai bambini inchiodati al pavimento. Poi prepara un grosso sandwich per sé e si mette a gironzolare per l'appartamento. 
Poiché vede Moran ogni giorno in ufficio, e Daniela preferisce prendersi cura dei nipotini a casa propria, Yaari non ha molte occasioni di visitare l'appartamento del figlio e della nuora che ora, in loro assenza, può esplorare a piacimento. Dapprima va qua e là in soggiorno, controlla i cd e le videocassette, poi passa nella camera dei bambini, ne osserva i disegni e i giochi, quindi va nella stanza dei genitori, dove trova il letto sfatto, come se quella notte vi avessero dormito due persone e non una sola. Controlla gli abiti del figlio e, contrariamente al caos del letto matrimoniale, li trova ben ordinati nell'armadio. I pantaloni e le camicie sono appesi, i maglioni piegati gli uni sugli altri sugli scaffali, e i cassetti pieni di mutande e canottiere. 
Cos'è successo a Moran? Come mai i suoi superiori usano con lui il pugno di ferro? Accanto al letto matrimoniale lampeggia un piccolo palmare sul quale Yaari ritrova facilmente il numero di telefono del reggimento del figlio e, dopo una breve esitazione, compone il numero. L'impiegata che gli risponde conosce il tenente Yaari, e ha persino un'idea di dove si trovi agli arresti. I soldati della sua compagnia sono già stati mandati ai vari check-point della Samaria ma il comando del battaglione dei riservisti è rimasto entro i confini della linea verde, in una base di reclute vicino a Karkur. 
— Karkur? — Yaari chiude gli occhi per visualizzare un istante la mappa di Israele. — Non dovrebbe essere lontano. 
— Che ci vuol fare? Tutto è vicino in questo paese, — borbotta l'impiegata. 
Yaari torna in soggiorno: la baby-sitter ha riabbassato la tapparella per vedere meglio lo schermo. Ora che gli allegri animali della giungla hanno terminato di ballare, il loro posto è stato preso da un presentatore spigliato che dirige un dibattito con un gruppo di ragazzi e ragazze sul tema dei rapporti tra genitori e figli. Neta, troppo giovane per muovere critiche nei confronti dei genitori, se ne va in camera a disegnare. Nadi invece si è addormentato sul pavimento e la piccola baby-sitter non ha la forza di metterlo sul divano. Yaari si affretta a prendere in braccio il nipote e si stupisce di quanto sia pesante, come se si portasse qualcosa dentro. E perché dorma tranquillo, e Neta non lo svegli nella camera dei bambini dove sta disegnando, lo posa amorevolmente sul letto sfatto dei genitori, gli toglie le scarpe, lo copre, e alla vista della fronte alta e della mascella volitiva, dai tratti forti, si chiede a chi mai assomigli. 
— Quanto prendi all'ora? — domanda di ritorno in salotto alla giovane baby-sitter con gli occhi puntati sullo schermo. 
Lei gli spiega che la baby-sitter ufficiale è sua sorella maggiore: è lei a riscuotere i soldi e a passarle quanto le compete in veste di subappaltatrice. 
— Subappaltatrice? — ridacchia Yaari. 
— Ha detto che è questo quello che faccio io. 
— Come si chiama tua sorella? 
— Yuval. 
— Allora, Michal, sappi che Yuval ti sfrutta. 
La piccola appare costernata, e nei suoi occhi da vitellino già brilla una lacrima. 
— Ma no, l'ho detto così per ridere... — la rassicura Yaari. — Di certo tu non hai colpa di nulla — . All'improvviso sente l'impulso di consolare quella bimba grassottella, attento però a non accarezzarla. Basta, adesso deve andare. Ma la hanukkiah posata sul televisore lo infastidisce. È incrostata di gocce di cera e in due bracci sono ancora conficcati i mozziconi delle candele della sera prima, come se il vento, o una persona, non avesse permesso loro di consumarsi in santa pace. Toglie gli avanzi delle candele, porta la hanukkiah al lavandino, la infila sotto il getto dell'acqua calda e raschia con un coltello i resti della cera. E prima di rimetterla sul televisore vi infila quattro candeline bianche e uno shamash blu, pronti per quella sera. 
Se Nadi fosse sveglio avrebbero potuto accendere le candele insieme nonostante ci sia ancora luce, e cantare magari una canzoncina. Yaari sorride alla baby— sitter però sembra che lei non voglia perdonargli l'offesa rivolta alla sorella maggiore. Ma cosa diamine ci faccio ancora qui?, si chiede all'improvviso. Di colpo il suo bisogno di efficienza si traduce in gesti rapidi. Trova in cucina un sacchetto grande per la spazzatura, entra in punta di piedi nella camera da letto di Moran ed Efrat e vede Nadi ancora immerso in un sonno profondo. Apre con cautela l'armadio, riempie il sacchetto con due paia di pantaloni, un maglione, una felpa, e aggiunge canottiere e mutande, come se il figlio non fosse un soldato agli arresti ma un galeotto con una lunga pena da scontare. Annota poi su un foglietto il numero del cellulare suo e di quello di nonna Yael e lo consegna alla bambina nel caso dovesse succedere qualcosa. Lei lo guarda. 
— Yael è sua moglie? 
— No, è l'altra nonna. Mia moglie è in Africa. 
Non appena si avvicina alla nipote per salutarla, Neta gli si aggrappa al collo. —  Perché vai via, nonno? Resta qui — . Ma lui la bacia affettuoso. — Devo portare dei vestiti pesanti a papà, perché non abbia freddo, però la mamma tornerà tra poco. 
Si carica in spalla il sacco della spazzatura e lascia l'appartamento. Non chiama l'ascensore, ma scende rapidamente le scale ed esce in uno stupendo crepuscolo invernale che tinge il mondo di blu, arancione e bianco. 
12 
Controvoglia, costretto dalla perentoria richiesta della cognata, Yirmiyahu fa cenno ai portatori di seguirlo. Sotto un cielo di un grigiore banale, sfidando un vento freddo e pungente e spilli di pioggia sottile, la comitiva avanza. Alla sua testa c'è un uomo bianco, anziano e pelato ma alto e robusto. Tiene sottobraccio una donna bianca, altrettanto anziana, che si ripara sotto un ombrello. Dietro a loro, a poca distanza, marciano due portatori scalzi con le ceste sulle spalle, e quando i quattro passano davanti all'edificio dell'ex sede della rappresentanza israeliana, dove ora si è insediata una compagnia di tabacco cinese, d'un tratto si unisce a loro, come sbucata dal nulla, l'alta infermiera Sijin Kuang, anche lei accompagnata da un portatore scalzo con una cesta di vimini sulle spalle. I sei camminano in una strada affiancata da case bianche fino a un fabbricato davanti al quale è in attesa una piccola folla di malati e accompagnatori. Yirmiyahu, senza dire una parola, conduce l'intera carovana dentro lo stabile e, conoscendo perfettamente il posto, senza domandare a un'infermiera né a un medico, si dirige verso una stanza in cui ci sono cinque letti e indica alla cognata quello vicino alla finestra, dove sua sorella aveva lasciato rapidamente questo mondo. 
L'attuale occupante del letto, un giovane africano, osserva sbalordito l'uomo e la donna bianchi che in piedi davanti a lui gli puntano addosso lo sguardo, e la sudanese che svetta alle loro spalle. Daniela, incapace di frenare la commozione che ora la sommerge con l'intensità sperata, si avvicina al letto, prende la mano del giovane malato e la stringe forte, aggiungendo parole di conforto in inglese. Per quanto non afferri il significato di quelle parole il ragazzo avverte probabilmente il loro tono gentile e consolatorio perché si permette di accarezzare con affetto la mano della donna bianca, e quella carezza delicata accanto alla finestra dove Shuli aveva esalato l'ultimo respiro ripaga completamente Daniela del lungo viaggio compiuto. 
I tre portatori con le grosse ceste, che incomprensibilmente non sono rimasti fuori dall'edificio ma hanno seguito l'uomo bianco, si scostano per lasciar passare un medico e un'infermiera, accorsi a chiedere spiegazioni di quella strana invasione. Ma dopo che Yirmiyahu presenta se stesso e la cognata e spiega il motivo della visita, i due annuiscono comprensivi e disponibili, e siccome sono nuovi in quella clinica chiamano un altro medico che ricorda bene la signora bianca deceduta un anno prima, alla quale non avevano fatto in tempo a prodigare nessuna cura. Può però almeno rassicurarli che la sua morte, avvenuta nel letto accanto alla finestra, era stata veloce e priva di sofferenze. 
13
Senza ancora controllare sulla mappa dove si trova lo svincolo per Karkur, Yaari si dirige verso nord lungo la superstrada litoranea. Con grande fatica si immette nel traffico di fine giornata che avanza lentamente su tre corsie. L'aria invernale non è più così fredda, e lui non esita ad aprire il finestrino sul lato del passeggero nella speranza di respirare un profumo di terra bagnata e magari anche di invisibili agrumeti. A quest'ora del giorno la luce è splendida e nel cielo israeliano, monotono e sempre uguale per gran parte dell'anno, è in atto un piccolo dramma. Il sole, che fa capolino a occidente da un crinale di nubi in avvicinamento dal mare, prima di congedarsi scolpisce picchi innevati e ombre simili ad animali preistorici e accende una fiamma nella barba di un vecchio gigantesco.
Di lì a un centinaio d'ore Yaari si recherà a prendere Daniela all'aeroporto. Alcune di quelle ore trascorreranno veloci tra sonno e lavoro ma altre saranno invase dalla nostalgia. Ciò che gli manca di Daniela è soprattutto la sua capacità di ascoltare. Se lui, in forza del suo amore, avesse il controllo del tempo, adesso anticiperebbe il ritorno della moglie. Anche se in verità, in quel preciso istante la sua assenza rappresenta un vantaggio. Yaari infatti non ha dubbi che Daniela avrebbe posto un severo veto a questo viaggio. Moran ha quasi trent'anni, e suo padre dovrebbe evitare di comparirgli in cella con canottiere e mutande rischiando di metterlo in imbarazzo. Dovrebbe essere la moglie a occuparsi della sua biancheria anziché seguire tutti quei corsi.
Ma Moran non è solo suo figlio, è anche un dipendente dell'azienda — così si giustifica talvolta Yaari tra il serio e il faceto — , e in veste di suo principale lui ha il diritto e il dovere di preoccuparsi. Daniela, naturalmente, respinge quel doppio ruolo di padre e di datore di lavoro, che gli concede dei vantaggi sul figlio. Se ora gli fosse accanto gli direbbe: «Che sciocchezza, Moran è tuo figlio e basta. E poi come fai a essere così sicuro che riuscirai a rintracciarlo e che ti daranno il permesso di vederlo? Farai un viaggio inutile. E poi non lamentarti di non avere mai del tempo a disposizione». E con la sua scaltra saggezza gli impedirebbe di partire.
Ma la scaltrezza e la saggezza di Daniela in questo momento sono in Africa. Yaari è libero di fare ciò che vuole e conta sulla sua presenza di spirito per evitare di fare un viaggio inutile. E anche se non dovesse rintracciare Moran, non importa. Karkur non è lontana, e nonostante il traffico sia intenso e poco scorrevole è bello contemplare la luce invernale e il movimento delle nubi. Nei parcheggi stracolmi dei centri commerciali dei kibbutz alla periferia di Tel Aviv — Gaash, Shefayim e Yakum — si respira l'atmosfera festiva delle vacanze di Hanukkah e nei loro campi, trasformatisi in costosi terreni edificabili, è rimasta un'antica torre-serbatoio per l'acqua sulla quale piroetta una grossa hanukkiah che non aspetta la fine della festa per dare sfogo alla luminosità di tutti i suoi nove bracci.
Yaari prova un gradevole senso di libertà. È raro che, come adesso, abbia la pazienza di rimanere a lungo imbottigliato nella corsia centrale, senza possibilità di sorpassare, o di eseguire qualche manovra. E siccome già da più di un chilometro sta viaggiando affiancato su entrambi i lati dalle automobili di due ragazze di cui apprezza il profilo, abbassa il finestrino perché tra le due si crei un tacito contatto. E con sua grande sorpresa le ragazze si notano, e cercano persino di dirsi qualcosa attraverso l'abitacolo della sua auto.
La meta principale di tutto quel traffico, a quanto pare, sono i magazzini della svedese Ikea, ubicata nella zona industriale a sud di Netanya. Dopo quello svincolo, infatti, la circolazione si fa scorrevole e il vento che rinforza costringe Yaari ad alzare i finestrini e ad abbassare il riscaldamento. Dopo una breve esitazione telefona a Nofar ed è contento che lei non risponda. Il tono brusco della figlia lo mette sempre in ansia. Le lascia un messaggio in segreteria, poche parole affettuose e misurate. Poi chiama l'appartamento da cui è appena uscito per sapere se la padrona di casa è rientrata. Gli risponde una voce nuova, quella della sorella maggiore di Michal, arrivata a sostituire la subappaltatrice.
— Non si preoccupi, signor nonno, — lo rassicura in tono di autorevole confidenza, — i suoi nipotini dormono già tranquilli. Anche Neta si è addormentata mentre disegnava. Va tutto bene. Se succede qualcosa, la chiamo. Ho il suo numero qui davanti.
Ancora una volta Yaari ritorna col pensiero alla telefonata di sua moglie. Gli era parso di sentire una leggera tensione nella voce di Daniela. Come se non fosse sicura che la sua visita fosse ben accetta. E in effetti, nel corso dei lunghi anni di amicizia col cognato, Amotz aveva imparato a conoscere alcuni lati originali del suo carattere. Se dopo la morte di sua moglie lui aveva scelto di rimanere in un luogo selvaggio e remoto, non solo per rimpinguare la pensione ma anche per allontanarsi dalla famiglia, forse non era contento di quella visita che gli era stata imposta.
Dopo lo svincolo di Netanya nord il senso di libertà di Yaari si dissolve. Le tre corsie diventano due, e il traffico rallenta: a tratti si trascina a passo d'uomo, o si blocca del tutto. L'automobile nella corsia alla sua destra ha i finestrini scuri, impenetrabili, ma il conducente è nervoso, non fa che tagliargli la strada. Se lui dovesse fondare un partito includerebbe nel suo programma un unico punto: l'ampliamento della superstrada tra Netanya e Hadera. E non ha dubbi che otterrebbe vari seggi alla Knesset. Ma non si sognerebbe mai di candidarsi alle elezioni. A volte anche a lui viene voglia di bruciare tutti i giornali israeliani, come ha fatto suo cognato. Daniela però li legge volentieri. Chi vuole insegnare al liceo deve conoscere la realtà in cui vive per poterla poi commentare con gli studenti.
Al di sopra del ponte sul torrente Alexander vola uno sparuto stormo di uccelli migratori che sembra aver perso il resto dei compagni. Fanno pena. La luce è quella di fine giornata. Yaari approfitta del traffico che procede a rilento per dare un'occhiata alla cartina stradale. Ha fatto bene a non fidarsi dell'intuito. Altrimenti avrebbe già imboccato lo svincolo di Hadera e non, come invece è più logico, quello poco distante dall'enorme centrale elettrica di Cesarea.
Dopo aver stabilito il percorso Yaari comincia a sorpassare, slalomeggiando tra le auto. Non sarebbe saggio arrivare alla base militare col buio. A quell'ora le sentinelle sono più severe e pignole.
E infatti, davanti al cancello, tra il fruscio delle foglie di vecchi eucalipti, due reclute di origine etiope, di corporatura esile ed equipaggiate con fucile e giubbotti antiproiettile, gli sbarrano la strada pretendendo un permesso per farlo entrare.
— Non sono venuto a vedere una recluta, — protesta Yaari. — Voglio solo arrivare al centro amministrativo del comando dei riservisti di stanza qui. Mio figlio è ufficiale e ha urgente bisogno di questo pacco di vestiti, — spiega indicando il sacco nero.
Ma il battaglione dei riservisti non ha un cancello particolare e le zelanti reclute non hanno ricevuto ordini relativi a civili con pacchi di vestiti da recapitare con urgenza. E visto che non possono lasciare la loro postazione propongono a Yaari di aspettare la ronda che passerà di lì a poco.
— Fra quanto tempo?
— Più o meno tra un'ora.
— No, — ribatte lui, — mi dispiace, ma non ho nessuna intenzione di aspettare qui un'ora al buio. Ascoltate bene, ragazzi, io ho perso un figlio sette anni fa. Era sotto le armi ed è rimasto ucciso durante un'operazione militare a Tul Karem. Perciò non mostratevi intransigenti con me. È già tardi, e al centro amministrativo del comando ho l'unico figlio che mi è rimasto, un ufficiale che ha bisogno di vestiti pesanti. Ecco, vi apro il sacco e potrete vedere da voi che ci sono solo canottiere e mutande e non bombe a mano o granate.

14

Daniela non lascia in pace il medico il cui inglese, pur non essendo ricco di espressioni figurate, è generoso di particolari, e beve assetata il racconto degli ultimi istanti di vita della sorella per evocarne il ricordo, strapparlo all'urna piena di ceneri che suo marito aveva portato in Israele con l'irritante certezza che «in fondo nessuno di noi crede nella resurrezione dei morti». Dopo che il medico la rassicura che il giovane nero che occupa il letto di sua sorella si rimetterà completamente, lei sembra tranquillizzata e disposta a lasciare quel luogo di dolore per recarsi di tutta fretta alla stazione. Non appena usciti dalla clinica ha la sensazione che anche se la sua visita dovesse concludersi in quel momento, ora che sa dove e come è morta sua sorella lo scopo del suo viaggio è stato in un certo senso raggiunto. Se avesse la possibilità di imbarcarsi su un volo in partenza da Dar es Salaam per stare con i nipotini l'indomani sera, accendere con loro le candele di Hanukkah, cantare canzoni e mangiare le sufganiot, si congederebbe immediatamente dal cognato. Che se ne vada pure per la sua strada in questa pioggia estiva, con i tre portatori e l'infermiera chiusa nel suo dolore, per strade africane che rivelano il loro carattere musulmano nei minareti delle moschee e nei versetti del Corano arabescati qua e là sui muri delle case.
Ma visto che la cosa non è possibile, e una partenza anticipata potrebbe essere interpretata come un'offesa aperta, deve mostrarsi paziente. Nei giorni che le sono rimasti, così si immagina ora, non scoprirà più molte cose che finora non sapeva di Shuli. E vede che anche suo cognato non ha una gran voglia di rievocare con lei memorie passate. Dovrà allora semplicemente sforzarsi di mostrarsi gentile e comprensiva fino alla partenza.
I tre facchini, che ora conoscono la meta, si portano in testa al gruppo. Yirmiyahu è costretto ad affrettarsi per mantenere il loro passo e lancia occhiate all'indietro per assicurarsi che sua cognata non rimanga attardata rispetto a Sijin Kuang, che svetta in fondo al piccolo gruppo come l'albero maestro di una nave in ritardo.
L'immagine del letto e della finestra della clinica accompagna Daniela e il dolore le sgorga dentro come un infuso caldo. Prova anche compassione per Yirmy, quell'uomo calvo di settant'anni che conosce fin dall'infanzia e che con le sue falcate ampie e saltellanti sembra un po' una scimmia spelacchiata.
Alla stazione li attende un treno passeggeri stracolmo. Da ogni finestrino penzolano grappoli di intere famiglie che li osservano, e la possibilità di trovare posto sembra alquanto illusoria. Ma il contabile della spedizione dell'Unesco, che viaggia abitualmente con questo treno, si è premurato di riservare uno scompartimento in uno dei vagoni, davanti al quale i facchini ricevono un pagamento non solo per lo sforzo fatto ma anche per le grosse ceste di vimini che Yirmy si porterà via con sé.
Avendo perso l'occasione di pranzare con calma in qualche ristorante, o persino al mercato, a causa della visita alla clinica, Sijin Kuang viene ora incaricata di procurarsi delle provviste, e dopo un po' torna con un ricco bottino che per somma delusione di Daniela non comprende dolciumi interessanti. Lei però nel frattempo ha notato un venditore ambulante che spinge una fornita bancarella di caramelle e cioccolatini su un triciclo e domanda con timida esitazione al cognato se c'è il tempo di comprare qualche dolcetto per il pranzo. Con sua sorpresa lui le concede il permesso di recarsi da sola al chiosco ambulante, senza nemmeno avvertirla di fare in fretta, come se accettasse di buongrado l'eventualità che rimanga sola sul binario dopo che il treno è partito.
Segue però dal finestrino ogni sua mossa. Eccola lì, una donna matura ma dal portamento eretto, che ricorda quello di sua sorella, solo un poco appesantita dalla sua golosità e che ora sceglie un dolcetto dopo l'altro, come quando, da ragazzina, si fermava vicino al chiosco del quartiere di ritorno da scuola con la divisa e la cartella sulle spalle.
E infatti, non appena torna entusiasta allo scompartimento e posa davanti ai suoi compagni di viaggio un pacchettino con tavolette di cioccolato e biscotti prodotti in Asia, il cognato le ricorda il chiosco della sua giovinezza, dove prendeva i dolciumi senza pagare.
— Non esagerare, segnavano tutto.
— Certo, in un conto aperto che tua madre saldava all'inizio di ogni mese.
— Qualcosa del genere...
— Non capisco. Era un'abitudine anche degli altri bambini della tua classe avere un conto aperto a quel chiosco?
— Non credo.
— Quello che mi ha sempre stupito è che tuo padre e tua madre, che erano persone modeste e quasi frugali, acconsentissero che sfogassi la tua golosità per strada mentre a casa non tenevano quasi dolciumi.
— Proprio per questo a loro non importava che io mi fermassi al chiosco.
— E non avevano paura di viziarti? Daniela sorride.
— Mi conosci da più di quarant'anni: ti sembro viziata? Non ho mai dato importanza ai soldi. Quando guadagnavo qualcosa come baby-sitter, o animatrice di un campo giochi, davo tutto a mia madre e non me ne interessavo più. No, Yirmy, mio padre e mia madre non ci hanno mai rimesso per quel conto aperto al chiosco, ci hanno solo guadagnato in sorrisi e buonumore.
— E i tuoi spasimanti? — la prende in giro. — Anche loro approfittavano di quel credito?
— Di chi parli?
— Dei ragazzi che ti accompagnavano a casa dopo la scuola.
— Loro non cercavano dolci.
— Di questo sono sicuro, — ride Yirmy rilassato, come se provasse sollievo dopo la visita alla clinica. E mentre il treno fischia, quasi si facesse coraggio in vista della partenza che avviene con uno scossone in avanti e uno indietro, si diverte riandando con la mente ai ricordi di gioventù della cognata, cercando di scoprire perché fra tutti i suoi numerosi spasimanti avesse scelto proprio Amotz.
— Perché no?
— Perché hai avuto dei ragazzi migliori. così almeno diceva Shuli.
— Migliori in cosa? — Gli occhi di Daniela luccicano d'offesa, mentre il treno comincia a muoversi con un cigolio. — Migliori in cosa?
Yirmiyahu d'un tratto si spaventa, si stringe nelle spalle e non risponde.

15

Le reclute alle prime armi, che fino a dieci giorni prima erano civili e non sanno che è possibile contravvenire a un ordine militare in seguito a un malinteso ma non per compassione verso qualcuno, aprono il cancello all'uomo che ha perso un figlio e porta vestiti pesanti a quello che gli è rimasto. Non sono però in grado di indicargli dove si trovi il centro amministrativo del comando dei riservisti. Ma non c'è bisogno che si preoccupino, Yaari lo troverà da sé. Chiede soltanto di dargli una mano e di tenere d'occhio la sua automobile. Poi, alle ultime luci del crepuscolo di quella giornata invernale, affretta il passo lungo i sentieri della grande base, immersa nel leggero fruscio delle foglie degli eucalipti divenuti altissimi grazie alle acque delle paludi di quella zona, prosciugate nei primi anni del sionismo. Non chiede indicazioni a nessuno, e cerca la strada da sé, fra baracche e tende. Passa silenzioso accanto all'adunata serale di un drappello di reclute equipaggiate con giubbotti antiproiettile e in ascolto del sermone di un sergente smargiasso. Gira a vuoto a lungo. Ormai ha l'impressione di tornare negli stessi posti mentre il fango continua ad appiccicarsi alla suola delle scarpe e due o tre stelle già brillano in cielo. L'oscurità che scende veloce potrebbe minare la sua sicurezza se non fosse per due vetture civili e una polverosa Land Rover militare che nota accanto a una baracca da dove proviene una musica ritmata.
Fiducioso che il buio lo nasconda, sbircia a una finestra e poi a un'altra, per assicurarsi, in base all'equipaggiamento, alle uniformi e al tipo di brande, che quello sia l'alloggio dei riservisti. Una delle stanze è buia, sembra un ufficio, ma quella adiacente è illuminata, vi sono due brande in disordine, e su una coperta distesa sul pavimento, accanto a una stufetta, è seduto Moran, vestito in borghese e impegnato in una partita di backgammon con un ufficiale di bassa statura dall'arruffata criniera di capelli rossi. Yaari non ha fretta di mostrarsi al figlio: avvicina la faccia al vetro e continua a fissarlo fino a che lui, all'improvviso, solleva lo sguardo. Non sembra sorpreso di vedere suo padre alla finestra, non si alza, né interrompe il gioco ma con un cordiale gesto della mano lo invita a entrare e dice al suo compagno: — Ti avevo avvisato che mio padre avrebbe tentato di tirarmi fuori di qui — . Il piccolo ufficiale guarda Yaari con simpatia. — Benvenuto, signor padre di Moran. Ci conceda solo un minuto per finire la partita, perché possa segnarmi un'altra vittoria.
— Prego, batta pure mio figlio quanto vuole, se lo merita, — risponde Yaari con una strana allegria, — ma sappia che non sono venuto qui in veste di padre ma di datore di lavoro.
— Come no, datore di lavoro, — borbotta Moran con un sorriso, lanciando forte i dadi.
La partita termina dopo un paio di minuti, e i due si alzano lentamente, si stiracchiano. Moran abbraccia con calore suo padre e gli avvicina persino una guancia per ricevere un bacio, senza vergognarsi, mentre il capitano si presenta all'ospite con una cordiale stretta di mano. — Piacere di conoscerla: Hezy. Forse si ricorda di me, ero con Moran al corso ufficiali.
— Anche lei è in arresto? Vedo che ve la spassate niente male.
— No, papà, Hezy non è in arresto, lui è dalla parte della legge. È il capitano del battaglione. Non aveva nessuno con cui giocare a backgammon e perciò ha deciso di tenermi qui con sé per dieci giorni.
Yaari appare divertito.
— Allora è lei il capitano. Sappia che io ho avvisato il suo amico che avrebbe dovuto inoltrare richiesta ufficiale di esonero dal servizio e non contare sul fatto che avreste fatto finta di nulla.
— Moran invece ha fatto bene a non inoltrare una richiesta ufficiale, — risponde il capitano. — Sapeva benissimo che non gli avrei concesso nessun esonero.
— Anche se è impegnato in un importante progetto per il ministero della Difesa?
— Ho soldati con mogli all'ottavo o al nono mese di gravidanza, altri col padre o la madre ricoverati in ospedale, altri ancora che sono piccoli imprenditori e ogni giorno di servizio rappresenta per loro un danno diretto all'azienda: perché allora dovrebbe importarmene qualcosa del ministero della Difesa? Moran aveva ragione a decidere di ignorare la chiamata e sperare che noi non notassimo la sua assenza.
— Ma...
— Il guaio è che non ci si può dimenticare facilmente di uno come Moran, perciò ho mandato la polizia militare a prelevarlo. E le assicuro, signor padre di Moran, che suo figlio non è finito in guardina solo perché ho avuto compassione di lui. L'abbiamo lasciato qui al comando perché io abbia qualcuno con cui giocare a backgammon, anche se è assai mediocre e pure abbastanza sfortunato. Moran ride. — Non credergli, mi offende per scherzo. 
— Ma...
— Ma cosa?
— Ma... — esita Yaari. — Già che c'eravate, perché non l'avete inviato in missione con gli altri?
— Lì non avevano bisogno di lui. Abbiamo mandato un altro ufficiale al posto suo. Io ho una regola ferrea: ogni soldato in eccedenza è esposto a rischi. E questa volta si sono davvero presentati in troppi. Ci sono un mucchio di disoccupati in Israele.
— Allora che vi importava di rinunciare a lui?
— Perché rinunciare? Moran ha tradito lo spirito di corpo della sua unità, ha mostrato disprezzo verso il valore dell'amicizia, quindi che se ne rimanga agli arresti fino alla fine del suo periodo di servizio e mediti su ciò che ha fatto, e intanto migliorerà a backgammon.
Moran ride: sembra divertito dalle parole di rimprovero dell'amico. Ma suo padre scruta l'ufficiale per capire se parli sul serio o se stia scherzando.
— Come mai lei è capitano e Moran è rimasto solo tenente?
— Perché io non ho un padre ricco, e ho fatto un periodo di ferma più lungo di quello di Moran per guadagnare e risparmiare in vista degli studi.
— E cos'ha studiato?
— Alla fine niente.
— E come si guadagna da vivere?
— Mi arrangio.
— Eppure mi sembra di aver visto la sua faccia da qualche parte.
— Magari in televisione, — si intromette Moran.
— In televisione?
— Questo qui, il capitano di un battaglione di riservisti che disserta su valori patriottici, fa parte del cast di un programma satirico della televisione e racconta squallide barzellette. Per fortuna le risate sono registrate, per non umiliarlo.
L'ufficiale colpisce Moran alle costole con un pugno affettuoso.
— Allora, che ne dice, Hezy? — Yaari gli si rivolge in tono confidenziale. — È vero che ho portato al prigioniero dei vestiti pesanti, però farebbe meglio a liberarsi della sua presenza perché si renda utile a questo mondo invece di marcire qui.
Ma l'ufficiale assume un'espressione seria. — Lei può consegnare i vestiti a Moran se vuole, ma io non posso consegnare Moran a lei. È agli arresti fino alla fine del suo periodo di servizio e tornerà in libertà quando anche gli altri suoi compagni si congederanno. E per quanto riguarda l'essere utile al mondo, è vero che gli ho confiscato il telefonino ma lui ha il permesso di chiamare sua moglie una volta al giorno, e se lei non è in casa, o non è reperibile al cellulare, non è un problema dell'esercito. E un momento: chi le ha dato il permesso di entrare nella base?
— Ho raccontato alle reclute al cancello che mio nipote è rimasto ucciso durante il servizio militare.
— Suo nipote è rimasto ucciso? — Il capitano è sbigottito. — Quale nipote?
Moran, sorpreso dal modo in cui il padre si è introdotto alla base, ricorda all'amico il cugino morto sette anni prima.
— Colpito da fuoco amico, — aggiunge Yaari sottovoce.

16

Il treno accelera, sferragliando. Le tre ceste di vimini intraprendono un loro piccolo viaggio indipendente e necessitano di essere riposizionate. Sijin Kuang si alza, le sospinge verso l'entrata dello scompartimento e le lega le une alle altre, creando in questo modo uno sbarramento ai viaggiatori curiosi che passeggiano lungo il vagone. Poi tira fuori un giornale da uno dei sacchetti delle compere fatte in stazione, si inginocchia e lo stende sul pavimento. In quelle buste ci sono uova sode, sardine affumicate, frutti di mare fritti, una fetta di formaggio duro screziato di rosso, alcune banane verdastre, datteri umidi e una noce di cocco piena di filamenti. Con le dita lunghe e affusolate Sijin Kuang prende una grossa sardina affumicata e si mette a rosicchiarne la testa piatta.
Daniela osserva con simpatia l'alta sudanese con le gambe flessuosamente piegate che lascia spazio anche agli altri sul pavimento, e dopo una breve esitazione raccoglie l'orlo del vestito e le si inginocchia accanto. Con un coltellino pieghevole, che Sijin Kuang ha aperto per lei, taglia un pezzo di formaggio, attenta a non toccare i pesci affumicati o i frutti di mare, mentre Yirmiyahu, rimasto sul sedile, piega un foglio di giornale a forma di cono, lo riempie di frutti di mare e sardine, prende un bel pezzo di pane arabo e dà inizio al suo pasto. Mangiano in silenzio, come durante una cena di lutto, ma accomunati da uno spirito di fraternità nello scompartimento sbarrato dalle grosse ceste e illuminato dalla luce dorata del pomeriggio.
Sijin Kuang non mangia dolci, preferisce neutralizzare i sapori salati e piccanti con un pezzo di noce di cocco. Yirmiyahu prende volentieri per dessert qualche biscotto indiano comprato dalla cognata, poi piega la testa all'indietro, l'appoggia al finestrino, e chiude gli occhi. Daniela trova i dolci troppo zuccherini, con un retrogusto sconosciuto, così rinuncia a mangiarli e si accontenta di qualche dattero. E siccome i silenzi prolungati di solito le pesano, cerca di intavolare con Sijin Kuang una conversazione sui riti del fuoco, del vento, degli alberi e degli animali, e dalle sue brevi risposte scopre che anche nell'animismo metafore e simboli occupano un posto privilegiato. Ecco, ad esempio l'infermiera sudanese pensava che gettando le candele di Hanukkah nel fuoco Yirmiyahu adempisse a un rito religioso.
Difficile dire se lui dorma o segua la loro conversazione a occhi chiusi. Daniela aiuta Sijin Kuang ad accartocciare i giornali unti del pranzo, e quando lei sguscia tra le ceste per uscire dallo scompartimento con un sacchetto della spazzatura, si siede accanto al finestrino, di fronte a suo cognato. Lui apre gli occhi, sorride. — Allora? Di sicuro non ti sarai immaginata così la tua visita, a correre da un posto all'altro. Ma non fa niente: avrai modo di riposare nei giorni che ti rimangono.
— Però a me va benissimo viaggiare. Posso riposare a casa. Lui annuisce.
— Tutto sommato è un bene che Amotz non sia venuto con te. Lui ha sempre un itinerario preciso in testa e un viaggio come questo di oggi, avanti e indietro solo per vedere una finestra e un letto, l'avrebbe fatto impazzire.
Il tono di leggera critica di Yirmy innervosisce Daniela. Il treno all'improvviso aumenta la velocità, lanciandosi in avanti con un fischio persistente. Yirmiyahu si sporge dal finestrino per controllarne il motivo. Viaggiano nel cuore di una distesa di erba bassa, giallastra. Davvero sua sorella gli aveva raccontato che aveva avuto corteggiatori migliori di Amotz durante la sua giovinezza o era stata un'idea sua? Yirmy e Shuli erano già sposati quando lei era al liceo, vivevano a Gerusalemme, e scendevano sulla costa solo il sabato. Chi avrebbe potuto raccontare loro di «ragazzi migliori»? Certamente non i suoi genitori, che non avevano mai parlato in quel modo dei suoi amici, limitandosi a commentare chi fosse più o meno simpatico. E fin dall'inizio avevano trovato Amotz simpatico, e soprattutto affidabile.
D'un tratto Daniela sente il bisogno di ergersi a difesa del marito. — È strano, —  dice seria mentre il fischio del treno si spegne, — è strano che tu nomini i miei amici di quarant'anni fa come se li avessi conosciuti.
— È vero, non li ho conosciuti, ma a volte, dopo anni, Shuli notava il nome di uno di loro sul giornale, uno che aveva fatto carriera ed era arrivato lontano.
— Lontano dove?
— Che ne so? — Yirmy sembra un po' imbarazzato. — Ad esempio, quello che poi è divenuto procuratore generale dello stato.
— Perché pensi che avrei dovuto sposare un procuratore generale dello stato? Non sono mai stata una fuorilegge...
Lui ride. — Ma hai avuto problemi di salute.
— E che c'entra?
— Penso a quel famoso cardiologo un po' cicciottello che abbiamo incontrato a un concerto a Gerusalemme qualche anno fa. Era così emozionato quando ti ha vista... Non è un peccato?
— Peccato per cosa?
— Non so, non arrabbiarti, lo dico così per dire... che tu non l'abbia preferito ad Amotz.
— Era un tipo imbranato e noioso. E poi... sei buffo, che ne sai tu di lui?
Yirmiyahu le mette una mano sulla spalla. — Sorellina, che ti importa che io sproloqui qui, in capo al mondo, alla fine della mia vita, degli spasimanti che avevi quarant'anni fa? Sono solo curioso. A volte domandavo anche a Shuli cosa ci fosse in te che attirava i ragazzi. Dopotutto non sei mai stata chissà quale bellezza.
— Certo che no. C'erano tante altre più belle di me.
— Eppure i ragazzi ti ronzavano attorno come api in un alveare, e proprio i tipi più intellettuali.
— Adesso esageri...
— E alla fine, tra tutti, ti sei scelta un tecnico...
— Non è un semplice tecnico.
— E così presto poi, avevi a malapena vent'anni.
— Ma che ti prende? — protesta Daniela. — Cosa c'è che non va in Amotz?
— Chi ha detto che c'è qualcosa che non va? Perché mi metti in bocca parole che non ho detto e che non avevo intenzione di dire? Da tantissimi anni non siamo solo cognati, ma anche amici.
— E allora come mai all'improvviso Amotz non ti va giù?
— Ma chi ti dice che non mi vada giù? Che c'è? Non si può più parlare dei vecchi tempi? È così raro che io sia solo con te, senza Shuli e senza Amotz. Allora spiegami perché hai scelto proprio lui fra tutti.
— Abitava nel mio quartiere, anche se non frequentava la mia scuola perché dopo le medie si è iscritto a un istituto professionale.
— Come mai?
— Perché suo padre voleva che avesse una preparazione tecnica migliore. E poi, lo sai, si è laureato in ingegneria.
— Certo, non ho mai dubitato delle sue capacità. Solo che...
— Solo cosa?
Tra le ceste di vimini che bloccano lo scompartimento spunta la figura di Sijin Kuang, di una statuaria bellezza color carbone. Rimane in piedi tra i sedili con il volto teso verso il finestrino. Ma ben presto rivolge un sorriso luminoso a Daniela e tende un lungo braccio per invitarla a guardare fuori. Nel vagone risuonano le grida di esultanza dei viaggiatori, e sembra che il treno rallenti.
Non lontano dai binari, sotto i rami di un baobab solitario in un'aperta pianura, sono distesi dei leoni con i loro cuccioli che sbattono placidamente le palpebre verso i passeggeri del treno.
Ma Daniela, contrariata, cerca di non perdere il filo del discorso.
— Vuoi sapere perché Amotz era il migliore di tutti ai miei occhi? Perché fin dal primo momento ero sicura che sarebbe riuscito a evitarmi sofferenze inutili. Non è medico né magistrato, e nemmeno un ingegnere di grande talento, e a volte è anche un po' assillante e noioso. Ma mi ama, mi è fedele e farebbe di tutto per non lasciarmi cadere nella disperazione.
— Nella disperazione? — Yirmiyahu sembra avere un moto di rifiuto. — Di che parli?
— Della disperazione, della disperazione, — ripete Daniela concitata mentre la sudanese pare ipnotizzata da lei, — la disperazione che nasce dal dolore, quella che ha ucciso mia sorella. Sai benissimo di cosa sto parlando.

17

— Allora, se le cose stanno così, — dice Yaari al capitano, — mi permetta almeno di consultarmi con il suo prigioniero su un'urgente questione di lavoro.
— Che tipo di lavoro?
— Alcuni ascensori che stiamo progettando per il ministero della Difesa.
— Non può aspettare fino alla prossima settimana?
— Qual è il problema, mi scusi? Cosa le sto chiedendo, in fondo? Che Moran dia un'occhiata a uno schizzo che ho qui con me...
— Purché sia solo un'occhiata e non si trasformi in una riunione di lavoro. Tra pochissimo in refettorio si cena, e ho promesso al rabbino della base che avrei portato anche i riservisti ad accendere le candele con le reclute.
Yaari trascina il figlio in un angolo e con un po' d'ansia tira fuori di tasca lo schizzo buttato giù di notte. — Non soffermarti sui dettagli, — lo avverte, — fatti un'idea di massima. Non l'ho ancora mostrato a nessuno in ufficio, ma soltanto alla nuova vicedirettrice del reparto infrastrutture del ministero della Difesa che non capisce nulla di ascensori. Moran avvicina lo schizzo alla luce.
— E cos'ha detto?
— Niente... ha detto scherzando che la persona che lo userà dovrà essere molto magra... nonostante qui ci sia posto per due persone, non solo per una.
Moran esamina lo schizzo con maggiore attenzione. Suo padre lo osserva teso, timoroso che il figlio in cuor suo rida di lui.
— Che strano: come ti è venuta l'idea di un ascensore d'angolo?
— Mi è venuta di notte... in sogno... forse perché adesso che la mamma non c'è sono meno tranquillo, e più creativo. Oppure avrò visto qualcosa di simile in un vecchio giornale. Ma che importa da dove arriva l'idea? Quello che conta, dimmelo onestamente, è questo: è fattibile oppure ho disegnato qualcosa di assurdo? Non vorrei fare una brutta figura.
Moran esamina lo schizzo da varie angolazioni. L'ufficiale si liscia le pieghe dell'uniforme, indossa un giubbotto, si mette il berretto, si sistema i gradi, e guarda padre e figlio con impazienza. — Non lo scarterei a priori.
— Davvero? — Yaari è sommerso dalla gioia. — Ti sembra possibile?
— Non saprei... bisogna controllare. Ma in linea di principio non mi pare un'idea da escludere. Può darsi che sia questa la strada giusta. Altrimenti avremo dei guai. Hai visto tu stesso come già a questo stadio ci hanno rubato diversi centimetri del vano per via della pendenza delle pareti, e quando arriveremo al tetto, e scopriremo che ci hanno rubato mezzo metro, dovremo pure dire grazie al geometra.
— Ho seguito proprio questa logica, — si entusiasma il padre. — Invece di cominciare a modificare l'intero progetto incastreremo semplicemente questo quinto ascensore nell'angolo a sud.
— Qualcuno del ministero della Difesa ti ha spiegato a cosa serve?
— No. Segretezza assoluta. Lavoriamo con loro da più di vent'anni e tutt'a un tratto fanno i misteriosi. E su cosa poi? Su un ascensore? Allora anche noi glielo progetteremo in modo che sia un po' misterioso, e chi insisterà a prenderlo, che si stringa in un angolo.
— Basta, — esclama l'ufficiale vicino alla porta, — la vostra occhiata si è trasformata in una riunione: salutatevi per favore. Il rabbino e le candele ci aspettano.
Spegne la luce. Nell'oscurità Yaari abbraccia forte il figlio e insieme escono nella notte mentre l'ufficiale chiama altra gente: soldati, impiegate, autisti e forse altri militari agli arresti.
Anche Yaari si trascina col gruppo che avanza fra le pietre verniciate di bianco che delimitano il sentiero tortuoso. In fondo, perché non partecipare alla cerimonia dell'accensione delle candele? Il rabbino sarà felice di vedere un anziano civile. La sua presenza infonderà nelle reclute un senso di fratellanza, di identità, di appartenenza. Entra dunque col gruppo nel grande refettorio, gremito di etiopi e di russi, di neri e di bianchi: ragazzi frastornati e smarriti durante il loro primo mese sotto le armi. Siedono stretti gli uni agli altri lungo tavolacci dai quali si leva il vapore del tè in grigie caraffe di acciaio, accanto a ciotole stracolme di gigantesche sufganiot.
Su un piccolo palco troneggia una hanukkiah assemblata con bossoli vuoti di grossi proiettili di mitragliatrici. Quattro spesse candele bianche stanno sull'attenti, sovrastate dal loro comandante shamash, una gigantesca candela rossa.
Il rabbino fa segno ai riservisti di avvicinarsi ai loro posti accanto al palco e chiede di spegnere i cellulari.
Yaari preferisce rimanere sulla soglia, tanto più che il suo telefonino si mette a suonare costringendolo a ritirarsi dalla zona illuminata.
Efrat è tornata finalmente a casa e gli chiede in tono rabbioso dove sia sparito lui.
— Non crederai fin dove sono arrivato, — esclama con orgoglio. — Sono a Karkur, da Moran. Gli ho portato canottiere e mutande. Ma in questo momento non è vicino a me: l'ho accompagnato al refettorio per accendere le candele.
Il rabbino militare, un ufficiale col grado di tenente colonnello, accende lo shamash, ma prima di accendere anche le altre candele, e anziché recitare le benedizioni, approfitta dell'occasione per tenere un discorso sul significato della festa e sui miracoli avvenuti al tempo dei Maccabei, agitando il gigantesco shamash a mo' di fiaccola.
— Non capisco. Quando hai lasciato i bambini?
— Più o meno verso le quattro e mezza. Quella bimba, la tua baby-sitter, non te l'ha detto?
— Non capisco perché hai deciso di far dormire Nadi a quest'ora.
— Non l'ho fatto dormire io. Si è addormentato sul pavimento davanti al televisore e mi sono limitato a metterlo a letto.
— Ma perché nel mio e non nel suo?
— Perché Neta stava disegnando in camera e non volevo che la luce lo disturbasse.
— Dopo che Nadi si addormenta nessuna luce lo disturba, — sbotta Efrat risentita. — E poi che ti importa che la luce lo disturbi? Volevi rovinarmi la notte di proposito? — Rovinarti la notte di proposito? — Yaari è sbalordito ma si sforza di mantenere un tono calmo. — Hai appena detto che nessuna luce lo disturba, quindi anche se l'avessi messo nel suo letto non si sarebbe svegliato...
— Vabbè, ma perché comunque nel mio? — insiste lei rabbiosa.
C'è qualcosa che non va, è offesa per qualche motivo, pensa Yaari. Forse il mondo ha smesso di stupirsi della sua bellezza.
— Che c'è di tanto terribile se l'ho messo nel tuo letto?
— Ha bagnato la coperta e il lenzuolo.
— Nadi fa ancora la pipi a letto? Non lo sapevo.
— Spero davvero che tu non lo sapessi, — dice lei con un sarcasmo di cui lui non la immaginava capace.
È sbigottito. Ma è talmente abituato a seguire i consigli di sua moglie che si trattiene dal rispondere per le rime. Con estremo buonsenso si mostra comprensivo e tenero verso la giovane donna.
— Efrat, che succede? Perché sei così arrabbiata? La voce di lei si spezza.
— Non lo so. Sono stanca e queste vacanze di Hanukkah mi pesano. L'arresto di Moran, il viaggio di Daniela che speravo mi aiutasse con i bambini. Tutto mi cade addosso all'improvviso e mi fa impazzire. Non importa, passerà... ma non dimenticarti di venire domani sera ad accendere le candele con i bambini. La prima cosa che Nadi ha chiesto quando si è svegliato è stata dove è sparito il nonno e quando sarebbe tornato.
— Che carino.
— Allora vieni domani?
— Certo.
Nel refettorio il rabbino ha terminato il discorso, breve e conciso, ha acceso le quattro candele e lo shamash e in sottofondo risuona ancora il canto mormorato delle reclute. Yaari ritrova facilmente la strada dell'uscita. Accanto al cancello le sentinelle etiopi hanno acceso un falò e probabilmente vi hanno buttato un combustibile sconosciuto, portato magari dalla loro terra di origine, che colora la fiamma di rosso e di viola.

18

Daniela è sbalordita nel vedere che i tre facchini che avevano portato le ceste di vimini a Dar es Salaam li hanno preceduti e sono arrivati a dar loro il benvenuto accanto ai binari di Morogoro. — No, — le spiega Yirmiyahu, — ti sembrano gli stessi uomini. Ma appartengono semplicemente alla stessa tribù, e forse sono anche imparentati tra loro. Però come abbiano fatto a sapere che siamo su questo treno e abbiamo bisogno di aiuto, questo non lo capirò mai.
I nuovi portatori li precedono alla stazione di servizio dove li aspetta la fedele Land Rover, pulita e lavata, con il cofano sollevato perché Sijin Kuang possa controllarla. Il filtro dell'olio è stato sostituito, il carburatore pulito, le candele rimesse a nuovo e ora la scintilla scoccherà più veloce e precisa. Mentre i portatori svuotano le grosse ceste e ne sistemano il contenuto in scatole di cartone, Sijin Kuang infila la testa nel vano motore per accertarsi che tutte le sue richieste siano state esaudite.
Yirmiyahu distribuisce intorno a sé banconote e monete. Le grosse ceste di vimini cambieranno mano più di una volta prima di tornare, per vie tortuose, al mercato della città.
Un aereo atterra su una pista poco lontana. «Sono passati solo due giorni da quando sono arrivata, — pensa Daniela tra sé, — e fra quattro ripartirò».
Per la quarta volta durante questa visita Yirmiyahu si scusa con l'ospite per essere costretto a confinarla sul sedile posteriore mentre Sijin Kuang prende posto al volante.
— Che c'è? Hai smesso di guidare in Africa? — gli domanda Daniela leggermente contrariata. — Ti è sempre piaciuto farlo, e quand'eri giovane non ti importava di venirmi a prendere a qualsiasi ora della notte, ovunque mi trovassi.
A Yirmiyahu piace sempre guidare, anche se in Africa le strade sono piuttosto accidentate, ma quando Sijin Kuang lo accompagna le cede volentieri il volante perché avere il controllo dell'automobile è per lei una sorta di consolazione. Un surrogato della sua sessualità perduta.
Daniela è sbalordita da quel modo di esprimersi. Che volgarità. Che ne sa lui della sessualità di Sijin Kuang?
Yirmiyahu si volta indietro con l'intero corpo per parlare meglio con la cognata che fa scudo agli occhi con le mani per proteggersi dal sole, ora proprio di fronte all'automobile diretta a ovest.
Lui non ne sa nulla. Un uomo bianco non può capire la sessualità di un'orfana africana. E non si sognerebbe mai di spiarla per scoprire la verità. Non ha nemmeno nessun pregiudizio di tipo etnico nei suoi confronti. Però sente dentro di sé, nel profondo, che il ricordo del massacro della sua famiglia avvenuto davanti ai suoi occhi smorza il suo istinto sessuale. Questo almeno è quello che crede, perché è quello che è successo anche a Shuli. Quel «fuoco amico» aveva bruciato la poca sensualità che c'era in lei.
— No, per favore, non tornare a ripetere quella frase.
— Perché?
— Suona cinica. Lasciala perdere. Fallo per me.
— Ti sbagli, non è cinica, è un modo pratico di descrivere quanto è avvenuto, e anche un po' poetico...
— Sei testardo, Yirmy...
— Non sono io il testardo, ma Shuli, tua sorella. E siccome io non sono riuscito a evitarle la sofferenza, ho accettato di non avere più rapporti con lei. E ho fatto bene, perché in fondo quelli erano i soli momenti in cui lui non poteva essere con noi.
— Lui chi?
— Come fai a non capire? 
— Eyal?
— È ovvio.
Daniela è inorridita. — Non poteva essere con voi? Che intendi dire?
Il sole scompare dietro una grossa nube. Sijin Kuang accende i fari dell'auto e si concentra nella guida. Dopo parecchie ore trascorse con i due bianchi sente che la loro conversazione sta prendendo una certa piega.
A partire dal momento della sua morte Eyal era sempre stato con loro, ovunque, in ogni istante. Yirmy e Shuli avevano concordato di poterlo nominare liberamente, ogni volta che lo volevano, non importa di cosa parlassero. Non sempre desideravano evocarne il ricordo, ma sapevano comunque di poterlo fare. Potevano piangere per lui, o per se stessi, compatirsi o arrabbiarsi, maledire chi si era affrettato a sparargli, oppure il contrario, giustificare l'errore. E se il personaggio di un film, o una melodia a un concerto, risvegliava in Yirmy, o in Shuli, il ricordo del figlio, ognuno di loro aveva la libertà di dire una parola a metà film, o a metà concerto. A volte si accontentavano di un sospiro, di toccarsi l'un l'altra, di guardarsi. Ma nessuno dei due era autorizzato a dire basta, mi fa male, lasciamo riposare nostro figlio in pace. Anche durante un pasto, o a una gita, o a una festa con gli amici, mentre facevano spese in un negozio e persino quando raccontavano una barzelletta, o ridevano di qualcosa, potevano nominare Eyal.
Ma non durante i rapporti sessuali. In quei momenti erano solo loro due, un uomo e una donna, e il figlio, vivo o morto, non avrebbe trovato posto nel loro letto, nella loro stanza. Se vi si fosse insinuato, se alla vista di una gamba nuda, o a una carezza della mano, si fosse sovrapposto il suo ricordo, l'eccitazione si sarebbe subito smorzata, e l'atmosfera si sarebbe fatta irrespirabile. E quindi, forse per avere Eyal sempre con sé, a partire dal giorno del funerale e fino a quello della sua morte, Shuli aveva soffocato con tenacia la propria sessualità e, di conseguenza, anche quella del marito. Come poteva infatti Yirmiyahu pretendere qualcosa dalla moglie sapendo che in ogni momento lei avrebbe potuto aprire una porta e chiamare il figlio col pensiero, vieni Eyal, torna da me, e io tornerò a piangerti? Come avrebbe lui potuto dire, mentre facevano l'amore, un momento figliolo, fermati, aspetta un secondo, sei arrivato troppo presto? Proprio come quella mattina all'alba, anche questa è una zona a rischio. Se farai un altro passo nei pensieri di questa donna nuda che tengo fra le braccia, aprirò contro di te un fuoco amico...
Gocce di pioggia scorrono sul parabrezza. Fino a qualche minuto prima splendeva il sole. La strada si addentra in una foresta di montagna e quando Yirmiyahu vede che la cognata, che lo ha ascoltato attenta, si chiude in un silenzio turbato, si volta lentamente, come a indicare che il momento delle confessioni è terminato, e non ha altro da dire.
Ma per Daniela la conversazione non è finita. Senza tentare di alzare la voce per sovrastare il rombo del motore si china in avanti, avvicina le labbra alla testa calva del cognato seduto davanti a lei, e mentre lui rimane immobile, gli dice quasi in un sussurro:
— È così dolorosa e comprensibile e naturale questa tua confessione. Anche noi, per settimane dopo la morte di Eyal, quando vi pensavamo, non eravamo in grado di toccarci. E per quanto Amotz sia un tipo focoso, in quel periodo si è guardato bene dall'insistere. Senza alcuna spiegazione ha rinunciato al sesso. E poi ha iniziato a comportarsi in modo strano, a piangere al cinema. È una cosa che gli succede ancora adesso, al buio, a volte per delle sciocchezze... e se io lo sbircio di sottecchi, lui si vergogna, si sente in imbarazzo...
Yirmiyahu sembra raggelato. Lentamente si volta indietro. — Amotz piange al buio? Incredibile...
— Allora forse adesso capirai perché ho scelto proprio lui.

  
La quinta candela

1

Il venerdì mattina Yaari è accanto alla pattumiera in cucina intento a sfrondare il quotidiano «HaAretz» da allegati inutili, nazionali e locali, da pagine di annunci immobiliari e da inserti pubblicitari di grandi catene di supermercati, e pensa alla stufa in cui il cognato ha bruciato i giornali israeliani. Se i quotidiani continueranno a diventare sempre più voluminosi sarà necessario installare una stufa africana anche qui, per non appesantire troppo la pattumiera, pensa. Legge il giornale in fretta, in modo selettivo, per quanto badi a soffermarsi sui dati delle precipitazioni, sul livello idrometrico del lago della Galilea e sulla carta sinottica con le previsioni del tempo. E quando anche la radio conferma ciò che il giornale riporta, cioè l'arrivo di venti dal quadrante orientale, asciutti ma di forte intensità, in sostituzione di quelli umidi dal quadrante occidentale, Yaari si domanda se quei venti muteranno il carattere degli ululati e dei sibili nel grattacielo o se ululati e sibili non distinguano tra est e ovest.
Lava le stoviglie della colazione nell'acquaio perché è giusto che in assenza della padrona di casa anche la lavastoviglie si goda un po' di riposo. Ma il silenzio della casa è opprimente, e sa che il sabato che lo attende si trascinerà lentissimo. È vero che si è raccomandato con la proprietaria dell'ascensore di Gerusalemme di aspettarlo a partire dalle nove del mattino, ma sa per esperienza che non è carino presentarsi a una signora anziana prima che quella abbia avuto il tempo di organizzarsi a dovere. È di buonumore. La reazione paziente di Moran al suo schizzo ancora gli risuona piacevolmente nelle orecchie. Sulla strada per Gerusalemme è dunque dell'idea di fare un salto al grattacielo Pinsker per ascoltare ancora una volta i venti prima di decidere con Gottlieb su cosa impuntarsi e quali concessioni fare. Non ha in previsione incontri importanti prima di recarsi ad accendere le candele con i nipotini quella sera. Da anni fa visita agli amici sempre e soltanto in compagnia di Daniela, e se dovesse presentarsi da solo tre giorni dopo la partenza della moglie, la cosa potrebbe apparire sospetta, come se approfittasse della sua assenza per raccontare agli amici qualcosa che loro ancora non sanno.
Pure questa volta apre il cancello di ferro col telecomando elettronico e viene inghiottito nel parcheggio sotterraneo. Attende paziente che l'automobile entrata dopo di lui si fermi in una piazzola e poi parcheggia in una di quelle libere, che sono meno numerose rispetto alla sua visita precedente. Quando apre la porta di emergenza che separa il parcheggio dall'atrio degli ascensori ha l'impressione che gli ululati si siano rafforzati, forse perché il vento è secco, orientale. Non c'è dubbio, il problema è serio ed esige un esame scrupoloso da parte dell'architetto e dell'impresa di costruzioni. Ma anche la ditta produttrice delle cabine e il suo studio di progettazione non ne sono esentati. Anziché chiamare un ascensore Yaari rimane fermo in ascolto, e non c'è da stupirsi che l'inquilino che ha appena parcheggiato la macchina — un uomo anziano, dal viso imbronciato e le guance scavate che indossa un paio di vecchi pantaloni color kaki e ha le scarpe imbrattate di fango fresco come se fosse appena tornato da una passeggiata nei campi — si insospettisca vedendo uno sconosciuto fermo nell'atrio degli ascensori.
Nonostante le chiavi del suo appartamento già gli dondolino in mano, l'uomo, nel notare l'estraneo immobile come per una preghiera silenziosa davanti agli ascensori fermi a piani differenti, rinuncia a chiamarne uno, piega il capo e si pone in ascolto con espressione severa. I due si osservano di sottecchi e ognuno, in cuor suo, già indovina l'identità dell'altro. L'inquilino si apparta in un angolo e tira fuori di tasca un telefonino e quando Yaari, ormai sazio degli ululati del vento, fa per tornare alla macchina, è bloccato dalla suoneria del cellulare nella sua tasca.
La voce dell'inquilino che parla nell'angolo si sovrappone a quella che sgorga dal suo cellulare.
— Sì, sono io, signor Kidron.
— Allora adesso ci crede che gli ululati sono veri e non un'allucinazione — . L'uomo continua a parlare al cellulare a pochi metri da Yaari, che però preferisce una conversazione a quattr'occhi, senza la mediazione dell'etere, e chiude il telefonino.
— Certo che sono veri. Non l'ho mai accusata di avere delle allucinazioni. Ma dubito, anzi respingo l'idea che il mio studio sia responsabile di tutto ciò.
— Anche l'impresa edile rifiuta di assumersi qualsiasi responsabilità, l'architetto è sparito dalla circolazione e il suo amico Gottlieb si è dato alla macchia. Chi farà qualcosa allora?
— La risposta non è semplice. Vedremo. Ma mi scusi se le faccio una domanda che potrebbe sembrarle impertinente.
— Dica pure.
— Questi ululati sono davvero così terribili?
— Che intende dire?
— Dopotutto i venti sono rari in questo paese dall'estate perenne, e a Tel Aviv lo sono ancora di più. E in ascensore, anche se si vuole arrivare all'ultimo piano, non ci si sta poi per più di un minuto...
— E allora?
— Allora perché fate tanto chiasso? In fondo, in un certo senso, sentire il rumore del vento nel silenzio di un grattacielo nel cuore di una città dà la sensazione di trovarsi in mezzo alla natura, tra le nuvole, magari in alta montagna...
— Ma è impazzito?
— Diciamo che potrebbe essere un modo diverso di considerare la situazione.
— Forse per lei, signor Yaari, ma di sicuro non per noi inquilini. E se ritiene che grazie a fantasie strampalate come questa lei e il suo studio possiate evitare di subire le conseguenze degli errori di progettazione che avete commesso, sappia che non funzionerà. Noi vi trascineremo in tribunale.
— Non ha cose più importanti da fare? — domanda Yaari con un sorriso educato.
— Le ho, — risponde l'uomo con fermezza, — ma ho anche parecchio tempo libero per occuparmi di qualunque faccenda. Ecco, come vede, sono solo le sei e mezza ma ho già finito la mia giornata di lavoro che è cominciata un'ora fa. Yaari sente un leggero brivido lungo la schiena.
— Il mio lavoro non richiede molto tempo, — prosegue l'inquilino, — per quanto non sia facile. Ogni mattina vado al cimitero, alla tomba di mio figlio, ci gironzolo un po' intorno, strappo qualche erbaccia, butto via un sasso e lo rimpiazzo con un altro. E a volte, quando mi scappa una lacrima, l'asciugo pure. In fin dei conti non ho un gran daffare. Per questo mi rimane abbastanza tempo per pretendere che gli altri facciano il proprio dovere.
Yaari abbassa il capo e ricorda le parole di Gottlieb: gente come quella ha priorità diverse. Poi dice, con una sorta di intima gioia:
— Sa, io non ho perso un figlio come lei, signor Kidron, solo un nipote, ma conosco da vicino il suo dolore, e lo rispetto moltissimo. Quindi non se la prenda se ho scherzato un po'. Si metta pure l'animo in pace, in fondo sono venuto qui per risolvere il problema e ho intenzione di incontrarmi col produttore delle cabine, l'architetto e l'imprenditore edile perché si possa trovare insieme il punto in cui si insinuano i venti. E quando ne scopriremo l'origine, vedremo cosa fare per metterli a tacere.

2

Esausta del viaggio a Dar es Salaam e per aver seguito l'ultimo doloroso percorso della sorella, di ritorno alla fattoria Daniela si scusa con il cognato e Sijin Kuang, prende i dolci rimasti e sale in camera. Con una rapidità insolita per lei si toglie il vestito che non indosserà mai più nel corso di questa visita, rimane a lungo sotto il getto dell'acqua della doccia e dopo aver deciso di rinunciare ai dolci, che le provocano una sensazione di nausea, si corica affamata. Non tocca nemmeno il romanzo posato accanto al letto, lo serba per il viaggio di ritorno, ma spegne subito la luce, trova la giusta posizione, e crolla in un sonno profondo.
Di conseguenza si sveglia presto. Quando il suo orologio da polso segna le cinque capisce che ormai la notte è terminata per lei, e che non riuscirà in alcun modo a riprendere sonno. Per mezz'ora rimane rannicchiata a occhi aperti, al buio, pensando ai suoi famigliari nei letti che lei ben conosce, ma faticando a immaginare il giaciglio militare di Moran. Alla fine la fame la spinge ad alzarsi, incontro a un'alba che si fa attendere, anche solo per una tazza di caffè e una fetta di pane.
In teoria potrebbe far passare il tempo più velocemente se riprendesse il romanzo, e se sulla quarta di copertina avessero dato maggiori delucidazioni sul colpo di scena che ci si deve aspettare, adesso lo leggerebbe con maggior pazienza per arrivare al punto agognato. Ma ha la sensazione che non vi sarà un vero colpo di scena, né che la protagonista rivelerà un nuovo aspetto di sé. L'unico cambiamento che Daniela potrebbe attendersi sarà forse quello dell'idea che lei si è fatta di questo romanzo e delle sue intenzioni. E in fin dei conti sarà un cambiamento di poco peso: dipenderà esclusivamente dalla sua volontà. Tuttavia non sempre il testo è sufficientemente profondo perché lei possa cambiare idea al riguardo.
No, non ha voglia di riprendere la lettura. Se avesse però tra le mani il numero di «HaAretz» del venerdì potrebbe continuare a rimanere piacevolmente a letto. Infatti, a differenza di suo marito, lei sa attingere dai vari articoli nuovi stimoli su quanto accade nel mondo.
Ma non avrà un giornale fino al suo ritorno in Israele. Si toglie la camicia da notte, indossa gli abiti con i quali è arrivata in Tanzania, scende le scale nella penombra e arriva all'immensa cucina. Ormai sono già un po' padrona di casa, ridacchia tra sé. Ma in cucina l'accoglie una piccola luce. Il vecchio factotum, che il giorno prima l'aveva aiutata a trovare il caffè e lo zucchero, si alza non appena lei entra. Ha ricevuto istruzioni da Yirmiyahu oppure, memore delle sue precedenti difficoltà, la sta aspettando di sua iniziativa?
Lei è contenta di vederlo, e gli stringe calorosamente la mano con entrambe le sue. Al posto di suo marito avrà ora a disposizione un vecchio rugoso che ha già messo a bollire l'acqua, ha poggiato sul tavolo un piatto, una tazza e le posate, vi ha sistemato accanto il barattolo del caffè e lo zucchero e adesso tira fuori dal frigorifero pure il bricco del latte grigiastro. E magari nel frattempo ha imparato a pronunciare meglio in inglese il nome dell'animale che l'ha prodotto e forse lei si convincerà a versarlo nella tazza.
Anche se col tempo dimenticherà la maggior parte dei dettagli e delle immagini di questa sua visita in Africa, il ricordo di questo africano vecchio e grinzoso che l'accudisce come suo marito in un'enorme cucina, prima dell'alba, rimarrà con lei fino al giorno della morte.

3

Nonostante il desiderio di Yaari di ritardare il più possibile l'arrivo a Gerusalemme per la sua visita caritatevole che quasi certamente si rivelerà inutile, la strada scorre veloce sotto le ruote dell'automobile. Tutta l'attività amministrativa ed economica della capitale scivola via durante il fine settimana come la scorza di un frutto sbucciato e svolazza verso la linea costiera. Il venerdì Gerusalemme si trasforma in una cittadina di provincia, non del tutto abbandonata, un po' negletta, ma soprattutto di facile accesso. Ecco, non sono ancora le nove del mattino e Yaari già parcheggia l'automobile in una piccola via nei pressi della vecchia sede della Knesset.
Talvolta gli capitano lavori di progettazione a Gerusalemme, non più in centro ormai, ma in periferia, specie nelle zone industriali di recente sviluppo, e ora la sua passeggiata intorno al vecchio edificio della Knesset, divenuto nel frattempo sede del tribunale rabbinico, ricorda quella di un turista. Entra nell'edificio e osserva una piccola mostra di fotografie in bianco e nero che ritraggono giorni lontani ma non dimenticati. Nonostante lui non abbia mai abitato a Gerusalemme, e negli anni Cinquanta e Sessanta la televisione non perseguitasse ancora il pubblico dei telespettatori con immagini degli uomini politici, lui serba ancora il ricordo dei cinegiornali che venivano proiettati nelle sale prima dei film. Vi si vedevano il capo del governo e i suoi ministri camminare con semplicità e naturalezza, senza pose di potere né guardie del corpo, in King George Street, dove lui cammina ora, e un paio di poliziotti bastavano per dirigere il traffico intorno a loro.
Ma perché macerarsi nella nostalgia di giorni felici? Contro questo stesso edificio, semplice e innocente, erano stati anche lanciati sassi e bottiglie all'epoca tumultuosa dell'accordo con la Germania sui risarcimenti ai sopravvissuti dell'Olocausto. Quindi, meglio lasciar perdere i tempi andati e concentrarsi sul presente. Yaari controlla dove sia ubicata la casa alla quale è diretto, e nel frattempo entra in un bar e ordina un cornetto e una grande tazza di caffè. così potrà rifiutare un'eventuale offerta di rinfresco da parte della signora Bennet e andarsene in fretta. Non vuole che nessuno lo consideri un tecnico specializzato nell'assistenza di vecchi ascensori e prova un senso di disagio nell'incontrare una donna che è stata importante per suo padre, magari anche la sua amante, sebbene oggi sia una «ragazzina» di ottantun anni.
A dispetto degli sforzi non riesce a far passare più in fretta il tempo, e quando sale le scale del condominio sono solo le nove e venti. Si ferma a ogni pianerottolo a controllare i nomi degli inquilini e all'ultimo piano, vicino a una scaletta di ferro che si arrampica fino a una botola di accesso al tetto, vede un'unica porta sul cui battente vi è una targhetta scritta in lettere ebraiche e latine: Dottoressa Dvorah Bennet, Psicanalista. Yaari non suona il campanello, ma bussa leggermente alla porta per controllare la finezza d'udito dell'anziana signora. E nonostante sembri che nell'appartamento si stia svolgendo una conversazione, e la voce della padrona di casa risuoni forte, i leggeri colpi non sfuggono all'orecchio di quest'ultima e Yaari si ritrova davanti a una donna anziana dai capelli chiari, minuta e rugosa ma dal corpo flessuoso, agile, che gli sorride allegra mentre continua a parlare nell'apparecchio telefonico che ha in mano. — Sì, è tuo figlio, — dice, — puntuale come suo padre.
Yaari prova una stretta al cuore. È chiaro che questa «ragazzina» un tempo è stata una donna bella e attraente, e se non era proprio l'amante di suo padre, di certo è stata l'oggetto del suo desiderio. Rimane solo da scoprire se tutto questo fosse accaduto prima o dopo la morte della madre.
— È suo padre, — esclama lei sventolando con grazia la cornetta. — Ha chiamato per vedere se è già arrivato. Vuole parlargli?
— No, — borbotta Yaari spazientito, — gli farò rapporto al termine della visita.
— No, Yulik, — esclama lei nel ricevitore accostandolo all'orecchio, — tuo figlio ha deciso di parlarti solo dopo il consulto. Ciao caro, e non disturbarci più — . Poi posa delicatamente la cornetta sul supporto e tende a Yaari una mano punteggiata da macchie scure.
— Grazie per aver accettato di venire. Non si preoccupi, so che lei è un ingegnere e non un tecnico, ma se individuerà il problema dell'ascensore potremo comunque cercare una soluzione. Suo padre ha detto che oggi non uscirà per la sua solita passeggiata ai giardini, ma rimarrà vicino al telefono nel caso lei voglia domandargli qualcosa...
— Non ho niente da domandargli, — la interrompe Yaari. — E a proposito: lei sa che mio padre è bloccato su una sedia a rotelle e la sua passeggiata la fa con un badante filippino che lo spinge?
La signora Bennet non sapeva della sedia a rotelle, per quanto ne avesse intuito l'esistenza. Sa che da anni suo padre è malato di Parkinson e si era molto arrabbiata con lui perché si vergognava della sua malattia e aveva smesso di venirla a trovare.
Che c'è da vergognarsi? Anche il tremito del corpo è una cosa naturale.
Yaari la trafigge con lo sguardo.
— Lui la veniva a trovare?
— Certo. Dopo la morte di sua madre eravamo più che amici... per quanto l'età ce lo permettesse. Ma si sieda, prego, e prenda un tè. così avrà la forza di ascoltare lo scricchiolio del mio ascensore. È tutto pronto, non le porterà via molto tempo.
Sul tavolo da pranzo del soggiorno, accanto a una hanukkiah allestita per la sera con cinque candele, sono posate due luccicanti tazze bianche, una zuccheriera, alcune bustine di dolcificante, scatole di tè di vari gusti, una ciotola con biscotti e una con cioccolatini. Sul tutto domina un vaso stracolmo di fiori.
— Grazie, ma ho già bevuto qualcosa in quel bar carino vicino alla Knesset.
— Allora non si fidava di me, — dice lei senza alcuna nota di lagnanza nella voce. — Peccato che suo padre non le abbia detto quanto sono brava a viziare gli ospiti. Sarà per un'altra volta. Ma almeno si addolcisca la bocca con un cioccolatino.
Sulle labbra di Yaari spunta un leggero sorriso. Dà un morso a un cioccolatino, si guarda intorno e non trova alcun segno dell'ascensore.
— Di certo sta cercando l'ascensore: prego, mi segua.
Lo conduce lungo il corridoio di un appartamento che si rivela essere piuttosto grande. Contrariamente alle case spesso troppo sovraccariche delle persone anziane, questa appare sobria. I mobili antichi sono tirati a lucido, non sembrano trascurati o rovinati. E anche gli appendiabiti dietro le porte sono in ordine. Al seguito di Dvorah, Yaari ne osserva i capelli bianco-biondi raccolti a crocchia sulla nuca, oltrepassa lo studio in cui fotografie di Sigmund Freud a varie età fanno capolino tra scaffali zeppi di opuscoli e libri e, superati il bagno e la cucina, entra con lei in una camera al cui centro troneggia un grande letto matrimoniale con un copriletto decorato con fiori e pavoni e sul quale sono sparsi cuscini di seta colorati.
Ma ancora non c'è traccia dell'ascensore. Dvorah Bennet si avvicina a un armadio a muro, ne spalanca le ante, quasi fosse un tabernacolo sacro, scosta una leggera grata di ferro e dietro a quella, finalmente, ecco l'ascensore: piccolo, stretto, è la concretizzazione dell'idea notturna del quinto ascensore d'angolo. Nella cabina ci sono tre pulsanti: uno verde per la salita, uno blu per la discesa, e uno rosso per chiedere aiuto in caso di emergenza.

4

Mentre sorseggia il caffè, Daniela tende un pacchetto di sigarette al vecchio africano che, seduto davanti a lei, non le leva gli occhi di dosso. L'uomo ne prende una, raccoglie un ramoscello da una catasta di legna, apre lo sportello della stufa, dà fuoco al ramoscello e lo avvicina alla sigaretta tra le labbra di Daniela.
Dice di chiamarsi Richard, ma è impossibile sapere se quello sia il suo nome vero o gli sia stato affibbiato nel periodo in cui lavorava in una fattoria di proprietà inglese. Da anni non parla quasi quella lingua, probabilmente ne ricorda solo qualche parola, e quando qualcuno gli si rivolge, piega la testa con grande concentrazione come se incoraggiasse il suo interlocutore a riversargli addosso altre parole, fino a che gli capiti quella buona in base alla quale ricostruire il senso di ciò che gli viene detto.
Il vecchio piace a Daniela. La mattina si prospetta lunga, Yirmiyahu e Sijin Kuang ancora non sono scesi, e lei chiacchiera volentieri con lui a ruota libera per dimostrargli rispetto e gratitudine per i suoi servizi. Ma non ha troppe speranze che tra tutte le parole che gli rovescia addosso lui ne afferrerà qualcuna. Richard però deve aver comunque recepito qualcosa se ora si alza per condurla al primo piano e apre davanti a lei la porta della camera in cui suo cognato si è trasferito provvisoriamente. La stanza non è grande, e c'è un letto stretto con le lenzuola sfatte. Chissà perché Daniela si sente più tranquilla nel notare che non ce n'è un altro, sfatto o in ordine, nonostante, in fin dei conti, cosa dovrebbe importarle? Non sta a lei preoccuparsi di qualcosa che comunque non ha più significato. Con la sua andatura zoppicante Richard, il factotum, va a rifare il letto mentre Daniela si avvicina alla piccola finestra dalla quale vede il sentiero sterrato che ha percorso in direzione del villaggio dell'elefante triste e saggio. La pioggia caduta quella notte ha reso l'aria tersa e il mattino luminoso, e finché il sole non si farà più forte lei potrà passeggiare nei dintorni anziché starsene così, senza far nulla, in attesa che compaia suo cognato.
Ma può farlo? Perché no? Ricorda bene il sentiero tranquillo e non ha nessuna intenzione di allontanarsi troppo. Per un istante è indecisa se chiedere a Richard di accompagnarla, ma perché importunarlo? E poi sarebbe un peso anche per lei. Si affretta a salire in camera, prende la giacca a vento di sua sorella, infila in tasca alcune banconote, di quelle che Amotz le aveva consegnato perché non si facesse mancare nulla durante il viaggio, e torna al pianterreno nella speranza che il vecchio la veda almeno uscire. Lui però non c'è più: è sparito così com'era comparso.
La pioggia ha rinfrescato l'aria ma ha reso la strada piuttosto fangosa. Daniela si arrampica lentamente e senza sforzo lungo il pendio della collina. Prova un senso di libertà, ma anche di leggera apprensione. Di tanto in tanto si guarda alle spalle: dietro non c'è nessuno. Anche quando arriva in cima alla collina non vede anima viva nei dintorni. Non pensa agli animali. La zona è brulla e spoglia e se qualche animale riuscisse a nascondersi, sarebbe piccolo e innocuo.
Nel discendere la china la fattoria scompare ai suoi occhi. Ricorda però chiaramente il percorso, ed è sicura che saprà rifarlo in senso inverso. Due giovani donne stanno facendo il bucato nel fiume. Quando Daniela si avvicina nota che hanno il seno scoperto. Abbassa il capo in segno di rispetto, sorride cordialmente e le saluta in un inglese semplice, puntando il dito in direzione della fattoria nascosta per spiegare da dove viene e dove tornerà. Ma non sembra che le due facciano caso alla sua presenza. Ridono e si spruzzano a vicenda. Hanno seni perfetti, sodi e lisci. Tra le lunghe gambe spunta la giovane peluria del sesso. Una di loro dice qualcosa all'amica, poi tende la mano in direzione del villaggio, appoggia il palmo a conca su un occhio e cerca inutilmente la parola adatta che incoraggi la turista solitaria a proseguire la passeggiata. «Elephant»: le ragazze hanno finalmente un'illuminazione. «Elephant», strillano di gioia dopo aver trovato la parola giusta.
Daniela conferma di aver capito. Già due volte ha fatto visita a quell'«elephant», persino di notte. Ma le giovani non capiscono le sue parole e per spronarla a proseguire escono dall'acqua, si mettono a ballare davanti a lei, la tirano per una mano facendo ondeggiare graziosamente i fianchi e le mostrano la direzione giusta. Daniela ride, va bene, dice, continuerà la sua strada, poi si volta e vede il vecchio factotum in cima alla prima collina. Allora qualcuno si preoccupa di lei e la tiene d'occhio, come sempre. Ma non si fa dissuadere dal proseguire per la sua terza visita all'elefante triste.
Nell'avvicinarsi ha però l'impressione che il pachiderma si sia già recato a mostrare le sue meraviglie altrove. La tettoia infatti è scomparsa. Daniela prosegue e capisce di essere giunta in tempo per un commiato. La struttura è ripiegata ma l'elefante è ancora incatenato al tronco mozzo dell'albero mentre il suo energico ed esperto padrone si dà da fare per coprire con una benda colorata il ciclopico occhio azzurro, probabilmente per proteggerlo dalla polvere della strada, o magari dal malocchio. Ma l'animale si ribella, scuote la testa da un lato e dall'altro, solleva la proboscide verso il cielo e protesta con un barrito strano, che gli africani intorno a lui imitano con una risata entusiasta.
Alcuni spettatori si uniscono allo sforzo del proprietario e cercano di calmare il pachiderma: la benda gli viene legata a forza dietro l'orecchio e nonostante nessuno dei presenti conosca probabilmente l'elefantino protagonista del cartone animato che piace tanto ai nipoti di Daniela — che soffre di mal di denti e va a curarsi da un coniglio — , esultano alla vista di un elefante con un occhio coperto da una benda.
Daniela si spinge tra la folla col cuore in tumulto. Nessuno fa caso alla sua presenza: l'attenzione di tutti è rivolta all'animale che cerca di togliersi la benda scuotendo disperatamente la grossa testa. Daniela si sente stringere il cuore alla vista della sua sofferenza, quasi fosse un suo congiunto. Si fa strada verso il proprietario — ritto davanti all'animale ribelle e con in mano la catena, determinato a partire — , apre la lampo della giacca a vento, tira fuori una banconota e gliela tende in presenza del pubblico, perché tolga la benda all'elefante e le mostri ancora una volta quell'occhio straordinario.
L'uomo di bassa statura, che senza dubbio ricorda e riconosce la donna bianca, appare sbalordito e sgomento dall'offerta. La banconota che lei gli tende, e solo in quel momento Daniela nota l'errore, è di cento dollari. Lui ha appena finito di legare la benda con grande sforzo, ma non potrebbe rinunciare nemmeno a un dollaro, figuriamoci a una banconota da cento che gli viene tesa con tanta risolutezza e che potrebbe cambiargli la vita. Torna a legare in fretta la catena al tronco mozzo, ordina all'elefante di inginocchiarsi e persino di stendersi davanti a quella donna generosa e decisa. Tasta dietro l'orecchio, che si solleva come un ventaglio, individua il nodo, lo scioglie e scosta la stoffa colorata con grande gioia del pubblico.
E in quell'iride screziata di azzurro, di giallo e di verde che la guarda con tristezza si raccoglie una goccia che a poco a poco si trasforma in una lacrima, seguita da un'altra, e il pianto di quell'animale muto, e forse anche grato, sconvolge Daniela nel profondo, come se in quel momento si avverasse finalmente il desiderio che l'ha condotta in Africa durante la festa di Hanukkah.

5

— Chiedere aiuto a chi? — domanda Yaari, stupito.
— Al mio compagno, ad esempio, se ne avessi uno La signora Bennet sorride e Yaari avverte il suo acuto senso dell'umorismo.
— Ma perché l'ha installato proprio in camera da letto?
— Perché solo qui, in questo angolo, suo padre era sicuro che non avremmo avuto la sorpresa di trovare una tubatura dell'acqua, o un cavo telefonico o elettrico, e non avremmo in questo modo corso il rischio di rovinare qualcosa.
Yaari esita prima di entrare con cautela nella minuscola cabina. In effetti, se si considera che questo ascensore è stato costruito negli anni Cinquanta, allora lo si poteva definire un'opera di ingegneria sofisticata e quasi audace. Suo padre era riuscito a incastrare nell'angolo della camera da letto una cabina che funzionava grazie a un pistone oleodinamico. Questo, azionato dall'olio messo in pressione da una piccola pompa e collegato con la struttura portante della cabina, la sollevava lungo due guide verticali per un'altezza di sette metri, fino a una piccola nicchia buia dove si intravedeva la botola di uscita sul tetto.
Ma la psicanalista, magari con l'aiuto di suo padre, non aveva lasciato la struttura nella sua nudità. Aveva cercato di dare un senso estetico anche all'interno della cabina e lungo il vano di corsa, perché tutto l'insieme si integrasse con naturalezza nell'appartamento. Le pareti dell'ascensore erano state rivestite da pannelli di scuro legno di quercia, e affinché il passeggero non si dimenticasse che aspetto aveva fino a che non fosse giunto alla meta — benché il tragitto fosse brevissimo — aveva appeso alla parete un piccolo specchio. La terza parete, alla quale era fissato il pistone collegato alla cabina e che era il proseguimento naturale della parete della stanza, era imbiancata e vi era stata appesa la fotografia di un rispettabile uomo europeo.
— Anche qui ha messo una foto del suo Freud? — Yaari non può fare a meno di prendere in giro la vecchia.
— Non è Freud. È Jung.
— E chi è?
— Se si fermerà a bere una tazza di tè con me, le parlerò di lui.
Yaari guarda la signora Bennet con simpatia. Chiude poi con cautela la grata di ferro e preme il pulsante di salita. Sulle prime sente un ronzio debole e prolungato, segno di un impedimento o di un problema al flusso della corrente, poi la cabina comincia a muoversi con un forte scossone, sussulta e cigola come se lottasse contro un invasore straniero e ostile, fino a che, senza un motivo chiaro, si calma, si arrende, e con uno strano e straziante uggiolio inizia a sollevarsi lentamente verso l'alto lungo lo stretto vano, mentre la parete spoglia continua a mantenere un aspetto domestico, imbiancato e, più in alto, Yaari vi vede appesi anche alcuni quadri amatoriali di paesaggi.
Gli scossoni e i sussulti peggiorano verso la fine del breve tragitto, come se una mano nascosta e violenta dovesse lottare perché l'ascensore continui ad arrampicarsi in direzione del tetto. Ma l'arresto della cabina non interrompe l'uggiolio angosciante che si spegne dopo qualche secondo. A Yaari non sembra il miagolio di un gatto in calore, come aveva sostenuto la padrona di casa con suo padre, piuttosto il lamento di uno sciacallo, di quelli che giravano di notte negli anni della sua infanzia.
Il limpido sole invernale di Gerusalemme lo acceca non appena esce sul tetto ampio e piatto, sfregiato da vecchie cicatrici di catrame. Serbatoi d'acqua vetusti e panciuti circondano una lucida antenna parabolica che tende i suoi cavi in tutte le direzioni. Nell'angolo est del tetto troneggia un tavolo bianco, alle gambe del quale sono state assicurate alcune sedie con delle catene, perché il vento non le faccia volare via.
Ma se davvero, come aveva sostenuto suo padre, l'inquilina poteva ammirare le mura della città vecchia negli anni in cui Gerusalemme era divisa, ecco che, ora che è stata riunificata, le mura sono scomparse dietro foreste di antenne e di pannelli solari, e solo le torri dell'ospedale Augusta Victoria e le cupole del monastero russo di Santa Maria Maddalena si intravedono sul crinale del Monte degli Ulivi. Yaari si volta verso ovest, dove c'è l'edificio di tre piani della vecchia Knesset — il Beit Frumin —  , e lo osserva con tenerezza. Un ascensore segreto come questo, ridacchia fra sé, che sale su un tetto direttamente dalla camera di una donna sola, avrebbe potuto far comodo a qualche malintenzionato ansioso di liberarsi di un fastidioso avversario politico giunto ingenuamente a una riunione del Parlamento.
La porticina di ferro della scaletta si apre di scatto, sbattendo contro il tetto con un forte rumore. Equipaggiata con occhiali da sole e un cappello di paglia, la signora Bennet si è arrampicata lungo la scaletta assicurata alla parete e fa la sua comparsa brontolando con l'ingegnere che non si è preoccupato di richiudere la grata di ferro affinché lei potesse richiamare l'ascensore.
— Oh, mi scusi, pensavo che lei avesse paura a usarlo.
— Perché? Quanto può essere pericoloso qualche sussulto? Suo padre ha installato anche un pulsante di emergenza per disinserire la pompa idraulica e far scendere la cabina grazie alla forza di gravità.
— Non l'ho notato, — dice Yaari, sorridendo con simpatia alla vecchietta grinzosa che parla di «pompa idraulica». — Vedo che mio padre si è davvero preoccupato di tutto.
— Suo padre è un vero amico, per la vita. Se godesse di maggior salute di certo sarebbe qui al posto suo.
— Non ne dubito.
— Allora, che ne pensa del mio ascensore? Qual è il problema?
Yaari si stringe nelle spalle senza distogliere gli occhi dall'edificio della vecchia Knesset.
— Senta un po', — dice ignorando la domanda, — lei viveva già qui quando i dimostranti lanciavano sassi contro la Knesset per la storia dei risarcimenti dalla Germania?
— Certo. E ci sono stati momenti in cui io stessa avrei voluto lanciare qualche sasso contro quell'edificio. Non per via dei risarcimenti però, che ho ricevuto anch'io. Per altri motivi.
— Ad esempio?
— Non me ne mancavano. Ma il sole qui è troppo forte per stare a chiacchierare. Venga, torniamo giù.
Malgrado la presenza dei serbatoi, dei pannelli solari e la selva di antenne, è gradevole rimanere sul vecchio tetto. La vicinanza al deserto di Giuda rende l'aria limpida.
— Scenda lei con l'ascensore, io userò le scale.
— Perché? Scendiamo insieme. Suo padre ha fatto in modo che la cabina potesse trasportare due persone.
E perché non entrare davvero con quella donnina nel minuscolo ascensore e controllare la sensazione di un tragitto in due?
Dvorah Bennet entra per prima, si stringe in un angolo, e Yaari la segue, le gira le spalle e spinge il pulsante di discesa. Ancora una volta, come proveniente dagli abissi, risuona un sottile ronzio, la cabina ha un forte scossone e quando la signora Bennet, che emana un gradevole odore di sapone, viene spinta contro di lui, Yaari sente un cigolio e alla fine della breve discesa la forte mano di prima ferma l'ascensore con rabbia, come per intralciare la sua irruzione nell'appartamento sottostante.
Yaari apre la grata di ferro, si appiattisce contro la parete e permette alla signora di uscire per prima.
— Ha sentito? Allora cosa ne dice?
Lui scrolla le spalle, perplesso, e chiede ancora in che anno suo padre aveva installato l'ascensore.
— Nel cinquantaquattro.
— Ed è sicura che mi avesse portato con sé?
— Mi ricordo di lei. Aveva sette anni. — Otto...
— Un ragazzino che stava seduto in disparte e osservava suo padre. Allora, quanti anni ha adesso?
— Non è difficile da calcolare.
— Rimane pur sempre un ragazzino.
— Stia attenta, anche mio padre la definisce così, una «ragazzina»...
— La cosa mi rende felice. Non si immagina nemmeno quanto sia bello sentirsi chiamare «ragazzina».
— Ha conosciuto anche mia madre? — domanda Yaari con una nota di irritazione nella voce.
— Certo, era una donna forte, schietta. Anche lei ogni tanto veniva a trovarmi con suo padre. E una volta è salita persino in ascensore con noi.
— Che strano, — borbotta lui sommesso, — nessuno mi ha mai parlato di lei.
— Probabilmente ero una specie di segreto, — dice lei strizzando l'occhio rugoso.
Yaari prova un senso di vertigine, chiude gli occhi per un istante e ritorna col pensiero alla sua idea dell'ascensore d'angolo. Quasi avvertisse il suo turbamento, Dvorah torna a domandargli con cautela, e con una certa preoccupazione: — Allora, che ne dice? Si potrà aggiustarlo?
Lui si riscuote, fa una diagnosi veloce.
— Gli scossoni probabilmente sono dovuti a un malfunzionamento del pistone. Lo si dovrà smontare e controllare. Ma come si può smontare un meccanismo così strano? Magari mio padre ha un'idea. Comunque sarà impossibile trovare dei pezzi di ricambio. L'unica soluzione sarà fabbricarli appositamente, e non sarà facile. — Ma possibile.
— Forse.
— E il cigolio?
— Magari c'è davvero un gatto nascosto, — dice Yaari strizzando l'occhio.
— No, — sorride Dvorah Bennet bonaria, — non c'è un gatto e non c'è mai stato.
— Allora non abbiamo altra scelta che far venire qui un'esperta dall'orecchio sensibile che ci spieghi che cosa lo provoca. Altrimenti dovrò smontare vecchie parti del sistema elettrico, che mi si sbricioleranno fra le mani e non riuscirò mai più a ricostruire.
— Allora non è una cosa facile, — sospira lei. — così sembra. Intanto mi dia un metro, se ne ha uno in casa.

6
L'elefante si alza in piedi e se ne va per la sua strada, senza la benda sull'occhio. In omaggio all'animale che all'improvviso l'ha reso ricco il suo padrone ha rinunciato a quella fastidiosa fascia colorata, l'ha arrotolata e l'ha legata al bagaglio caricato sul pachiderma. Poi, senza altri indugi, come se temesse che qualcuno voglia dividere con lui il grosso guadagno, ha inforcato un paio di occhiali da sole scuri, ha preso in mano la catena e ha tirato l'elefante al suo seguito. È evidente che anche l'animale è felice di affrettare il passo nelle distese della savana dopo essere stato legato per giorni sotto una piccola tettoia, e non passa molto tempo prima che i ragazzini che l'hanno rincorso facciano lentamente ritorno al villaggio. 
Il sole equatoriale già picchia sulla testa scoperta di Daniela. È arrivato il momento di tornare alla fattoria. Dalla rinuncia del padrone dell'elefante a legare nuovamente la benda, e dalla sua partenza burrascosa, gli africani probabilmente deducono che quell'anziana signora, giunta per la sua terza visita, e questa volta da sola, ha di certo un grande potere e un'enorme influenza, e così le si affiancano sulla via del ritorno. 
E Daniela, insegnante di inglese, si ritrova a condurre una specie di gita scolastica nella mattinata luminosa, con al suo seguito una brigata di ragazzi e anche alcuni uomini e donne. Per un istante si spaventa, ma fa attenzione a non allungare troppo il passo perché i suoi accompagnatori non interpretino la sua fretta come una fuga. Oltrepassa il torrente, dove ora si dissetano alcune mucche grigie, e mentre sale il pendio della seconda collina nota il sentiero ombroso lungo il quale l'aveva condotta Yirmiyahu e che in precedenza lei non aveva trovato. La comitiva la segue ancora, non desiste, finché Yirmiyahu, venutole incontro, non la prende per mano. 
— Non puoi andartene in giro qui da sola, — dice stizzito. 
— Perché? — sorride lei, sollevata. — Non dirmi che è pericoloso. 
— Non è pericoloso, e la gente qui non è violenta. Però non uscire mai più da sola. 
— Cos'è successo? 
— Non è successo niente e nemmeno succederà, — dice lui perentorio, — ma non andare più in giro da sola per nessun motivo. 
I ragazzi che l'hanno accompagnata, e che si sono fermati a pochi passi da lei, si accorgono della rabbia dell'uomo alto e senza capelli e nei loro occhi brilla un timore curioso. Sono ansiosi di vedere se quell'uomo pelato alzerà una mano sulla signora generosa, e all'improvviso Daniela prova un senso di umiliazione ma continua a sorridere con grande forza d'animo. 
— Non sono andata in giro senza una meta... ho fatto una passeggiata. — E allora non farne più. 
— Perché? 
— Perché, perché, perché... perché te lo dico io — . La voce di Yirmy si alza in un urlo spazientito. — Sei venuta senza Amotz, e non te ne andrai in giro da sola da nessuna parte. Lo sai che lui non te l'avrebbe permesso... 
Daniela continua a discutere, malgrado non sappia per quale motivo. 
— Tu non sei Amotz, e non hai nessuna responsabilità nei miei confronti. E poi, perché ti arrabbi? Contrariamente a Shuli, a me non piace affatto stare da sola, sto bene in compagnia di altre persone, però pensavo che tu fossi disponibile, ma invece questa mattina sei scomparso. 
— In genere non ho molto lavoro, però se a volte ho un po' più da fare, come ieri sera, mi fa solo bene. 
«Ti fa bene per quale motivo? — vorrebbe dolorosamente ribattere Daniela a quell'uomo anziano e pelato i cui abiti chiari l'accecano nel sole. — Per cancellare il ricordo di Shuli e di Eyal?» Però tiene a freno la lingua. 
 
 
Dopo aver preso nota su un pezzo di carta delle dimensioni del minuscolo ascensore, Yaari si congeda dalla signora Bennet senza promettere nulla. La prolungata assenza di sua moglie fa sì che abbia voglia di stare con i figli. È vero che solo due giorni prima Nofar aveva acceso con lui le candele di Hanukkah, ma la presenza di quello strano amico che aveva portato con sé, forse di proposito, gli aveva impedito di avere con lei una vera e propria conversazione. Visto che sono qui a Gerusalemme, di venerdì, si dice Yaari gironzolando intorno al vecchio edificio della Knesset, perché affrettarmi a tornare? Prima di salire in macchina chiama la figlia al cellulare ma lo trova spento. Questo significa che Nofar è all'ospedale. Quando è di turno spegne sempre il telefonino perché non crei interferenze con le sensibili strumentazioni elettroniche destinate alla diagnostica. Ma anziché rinunciare all'idea della visita, telefonare ai padroni dell'appartamento dove Nofar ha una stanza in affitto e lasciarle un messaggio, decide di recarvisi di persona. Non è cosa di tutti i giorni avere l'occasione di dare un'occhiata alla stanza di sua figlia, che non ha più visto da quando l'aveva aiutata a traslocare a Gerusalemme in seguito alla sua decisione di posticipare il servizio militare e di prestare opera di volontariato presso un ospedale. 
Gli sembra bello che i proprietari dell'appartamento, marito e moglie, entrambi specializzandi nell'ospedale in cui Nofar lavora, si ricordino di lui e lo riconoscano. Anche perché, secondo loro, sua figlia gli assomiglia sia nell'aspetto sia nel modo di fare. Lo accolgono con cordialità ma si domandano come faccia a non ricordare che il venerdì mattina Nofar è sempre di turno e quindi anche il suo cellulare è spento. Yaari sostiene di ricordarlo, di saperlo, solo che gli è capitato di trovarsi a Gerusalemme e prima di tornare a Tel Aviv ha deciso di sfruttare l'occasione per dare un'occhiata alla camera in cui sua figlia vive già quasi da un anno e magari lasciarle un biglietto. È possibile? Da quando l'aveva aiutata a trasferirsi qui non aveva avuto modo di vedere come si era organizzata. 
Si sente un po' a disagio nell'entrare in camera di Nofar. Sa che lei non sarebbe contenta di questa intrusione, anche solo per lasciarle un bigliettino. E come infatti aveva immaginato, la stanza è nel caos più completo: vestiti, lenzuola, libri, fogli, avanzi di cibo, fiori appassiti. Il disordine è totale, quasi voluto, ma non sembra infastidire i giovani padroni di casa che ora, in piedi sulla soglia, tessono le lodi della loro inquilina. 
Sorpreso e commosso, Yaari fa un cenno d'assenso. Sì, lo sa quanto vale sua figlia, che magari assomiglia a lui fisicamente ma ha il carattere della madre. Insomma, ha una personalità dai contorni precisi, netti, e per questo può permettersi di circondarsi di un disordine selvaggio. I due ridono divertiti nel sentire una spiegazione tanto accattivante, che magari tornerà utile anche a loro per giustificare il disordine nelle loro camere. Yaari prova gratitudine verso quella coppia di giovani che hanno preso sua figlia sotto la loro ala protettrice e fa qualche domanda, si informa sulla loro vita, sul lavoro all'ospedale, sulle rispettive specializzazioni. Poi passa a parlare di medicina in generale, delle ultime novità, di cosa vi sia di sorpassato, e siccome la conversazione è fluente, aperta e sincera, si permette di fare una domanda che forse i due farebbero meglio a non riferire a Nofar. Loro non hanno l'impressione che lei sia troppo sola, triste? Sola no, decisamente no, affermano i due all'unisono; la sera, quando non è di turno, a volte arriva un ragazzo, sempre diverso a dire il vero, e vanno insieme in un pub, o al cinema. Triste? Forse. È come se... esita la padrona di casa, come se, nonostante la sua giovane età, Nofar avesse già perso qualcosa di insostituibile. 
Yaari alza gli occhi verso la fotografia appesa sopra il letto: Eyal, da ragazzo, una foto che lui non conosce. Balbetta qualcosa a proposito dell'origine di quella tristezza. Le spiegazioni però non sono necessarie. I padroni di casa conoscono la storia nei dettagli. Nofar parla spesso di quel «fuoco amico». È questa l'espressione che adopera. Ma come mai, domandano al padre capitato da loro per caso, questa storia l'ha segnata tanto profondamente? Quanti anni aveva quando è successo il fatto? Loro hanno l'impressione che faccia un po' di confusione con gli anni. 
— Era giovanissima, — dice Yaari, — aveva dodici anni, faceva le medie. C'erano circa tredici anni di differenza tra lei e il cugino. Il ragazzo aveva studiato medicina prima di arruolarsi nell'esercito, ma poi aveva insistito a prestare servizio in un'unità combattente. Se oggi fosse vivo sarebbe medico come voi. Ma la differenza di età —  dice Yaari con un sorriso amaro — non aveva impedito a Nofar di immaginare che non solo lei fosse innamorata di lui, ma anche lui di lei. Magari lui le aveva fatto capire qualcosa che a noi era sfuggito, che l'aveva colpita, e forse per questo non è riuscita a superare il trauma. 
A giudicare dagli sguardi dei proprietari dell'appartamento, Yaari ha l'impressione di essersi spinto troppo in là. Proprio perché loro rispettano e vogliono bene a Nofar, non avrebbe dovuto dare la propria interpretazione di cose che lei stessa non ha ancora compreso. Per terminare con tatto la conversazione guarda l'orologio e cerca un pezzo di carta. Ma non è facile scovare in quella camera una cosa tanto semplice. Alla fine trova un blocco per ricette mediche dell'ospedale, ne strappa un foglio e scrive: 
 
Nofar, tesoro, il nonno mi ha costretto a venire a Gerusalemme per controllare l'ascensore di una sua vecchia amica. Ho pensato che, visto che mi trovavo in città, avremmo potuto prendere un caffè insieme. Non ricordavo che fossi di turno questa mattina e ancora una volta ho perso l'occasione per stare con te. Moran è sempre agli arresti e la mamma, se te ne sei dimenticata, starà da Yirmy fino a lunedì, in Africa. Questa sera accenderò le candele di Hanukkah con Efrat. Che ne diresti di raggiungerci? I bambini ne sarebbero contenti. E anche Efrat, naturalmente. Così sarà meno triste. Come al solito mi puoi trovare al cellulare. Aspetto un tuo segno di vita. Baci, papà. 
 
Sgombra una zona della scrivania per posare il biglietto in modo che si noti e guarda ancora la fotografia del giovane. Di colpo gli è chiaro che Nofar non gli perdonerà quell'intrusione nella sua privacy. Con risolutezza decide di cancellare la propria presenza. Appallottola il biglietto, se lo infila in tasca, e raggiunge i proprietari dell'appartamento seduti in cucina con il loro piccolo, e mentre questi lo invitano a unirsi a loro, Yaari, paonazzo e imbarazzato, chiede di non fare cenno a Nofar di questa sua visita. — Conosco bene mia figlia, — si giustifica, — ci tiene alla sua indipendenza, e farà fatica ad accettare che mi sia insinuato nel caos della sua camera senza preavviso. Non ditele che sono stato qui, per favore. Non ditele niente. Non ho neanche lasciato il biglietto. Le telefonerò più tardi... sarà più contenta così. Allora grazie... e scusate... mi dispiace... scusate ancora... — Poi si volta per uscire senza che i due abbiano la possibilità di esprimere rammarico per la sua partenza. 
Non è da escludere che i venti orientali risvegliatisi durante la notte rendano più spedita la corsa dell'auto lungo la superstrada da Gerusalemme alla pianura costiera. E Yaari, anziché passare del tempo coi suoi figli, come avrebbe voluto, deve accontentarsi di chiamare il padre, che finora ha tenuto a bada la sua curiosità con ammirevole nobiltà d'animo. È quindi lui a prendere l'iniziativa e a parlargli nel vivavoce: 
— Papà, sono stato dalla tua amica. 
— E com'è andata? 
— L'ascensore è carino, e la «ragazzina» pure... 
— Dài, Amotz, non fare lo spiritoso. 
 
 
Yirmy si intenerisce, sorride, posa una mano sulla spalla di Daniela, come se volesse placare non solo la sua offesa e il suo sconcerto per il rimprovero inatteso, ma anche l'agitazione del vecchio africano che è corso a chiamarlo e adesso se ne sta in disparte a osservarli. 
Di ritorno alla fattoria l'uomo vorrebbe addolcire l'umore dei due parenti con un buon pranzo, così accende il forno, impasta una grossa pagnotta, butta radici e verdure in una pentola di acqua bollente, e aggiunge chicchi di granturco e pezzi di carne. Gli altri due cuochi si risvegliano in una stanzetta laterale che serve da dispensa e si uniscono a lui. Nel frattempo Yirmy, seduto di fronte a Daniela, le domanda cosa ci sia in quell'elefante che l'attrae al punto da averla spinta a fargli visita per la terza volta. Ma lei non è ancora in grado di rivelare i suoi sentimenti davanti a chi l'ha appena rimproverata in presenza di estranei, e anziché spiegare cosa la porta a cercare in un difetto genetico, in un occhio da ciclope, il dolore per le imperfezioni del genere umano, racconta con orgoglio infantile dei cento dollari dati al proprietario del pachiderma perché gli togliesse la benda. 
— Cento dollari? Sei impazzita? 
Non l'ha fatto di proposito. Malgrado il denaro non abbia nessuna importanza ai suoi occhi, anche lei ha dei limiti. Però era sicura che tutte le banconote che aveva infilato nella tasca della giacca a vento fossero di piccolo taglio, perché era sempre Amotz a tenere quelle di grosso taglio, e solo quando aveva teso il biglietto al proprietario dell'elefante ne aveva notato il valore, ma ormai era troppo tardi. L'uomo l'aveva già preso, se l'era infilato nei pantaloni e aveva subito soddisfatto la sua richiesta. E quando l'animale si era disteso davanti a lei, dal suo occhio gigantesco era scesa una lacrima, e poi un'altra. 
— Lacrime? Da un elefante? 
Questo è quello che ha visto. Come poteva allora dire al suo padrone, un momento, ho sbagliato, da quando è morta mia sorella sono un po' distratta, le ho dato per sbaglio una banconota da cento dollari invece che da dieci, me la restituisca per favore? 
— Si sarebbe accontentato anche di un solo dollaro. 
— E chi stabilisce il prezzo? Tu? E in base a che cosa? — Daniela aggredisce il cognato con violenza. — Lascia perdere, Yirmy, sono contenta di aver dato a quell'uomo una delle banconote da cento dollari che Amotz mi ha messo nel portafoglio. Forse adesso avrà più cura dell'elefante. 
— Questo non lo sapremo mai, ma una cosa è certa, hai cambiato la vita di quell'uomo, e lui si ricorderà di te per sempre. 
— Mi piace l'idea che qualcuno in Africa pensi a me fino alla fine dei suoi giorni. In fondo anche tu tra poco non sarai più qui. 
— Come fai a dirlo? Tutto è possibile... non devo niente a nessuno, sono un uccel di bosco. 
— Allora sia tu sia il proprietario dell'elefante vi ricorderete che sono stata qui. 
— Io? Neanche per sogno. È vero che Shuli ti ha sempre voluto un gran bene anche se eri una ragazzina insopportabile, la seguivi dappertutto ed entravi in camera sua senza bussare. Ma perché io dovrei ricordarmi di te? Sono qui per dimenticare, non per ricordare. 
— Ma che dici? — domanda Daniela sconcertata. 
— Lo sai benissimo. Non sono qui solo per risparmiare, ma anche per dimenticare lui e tutti quelli che me lo ricordano. 
— Dimenticare Eyal? Com'è possibile? 
— È possibile... perché no? In fondo lui non c'è più, e io non sono ancora diventato un sudanese che crede negli spiriti. 
— Ma perché parli di spiriti? Sarebbe questo l'unico modo di mantenere il suo ricordo? 
— Il ricordo è finito. Ho smesso di pensare a Eyal e alla sua morte. Non ti puoi nemmeno immaginare le ricerche che ho fatto, quanto ho imparato sulla dinamica dell'incidente. Ma la mia responsabilità è finita. E se il nostro Eyal — anche vostro, perché no?, anche voi gli volevate molto bene dopotutto — , se per caso questo ragazzo resuscitasse, credimi, gli direi: complimenti per essere riuscito a tornare in un mondo che non ha avuto pietà di te, caro mio, e dove sei stato ucciso per sbaglio da due colpi sparati con precisione. Però anche se ti voglio tanto bene, adesso devi avere tu pietà di me e cercarti un altro padre. 
— Ma stai male? — mormora Daniela. — Cosa stai dicendo? 
— Perché no? Ho superato i settanta, e non mi è rimasto molto da vivere. Ho fatto il mio dovere: ho esaurito la mia quota di preoccupazioni e tormenti. Al Bar Mitzvah di Eyal, dopo che lui aveva terminato di leggere un brano tratto dal Libro dei Profeti, il rabbino mi disse di ripetere ad alta voce: «Benedetto colui che mi ha esonerato dalle responsabilità di questo», e io ripetei quelle parole orribili quasi fossi stato obbligato dal demonio. Ma a distanza di quasi vent'anni ho l'impressione che quel demonio non fosse del tutto stupido. Adesso chino la testa e dico semplicemente: «Benedetto colui che mi ha esonerato». Se mio figlio vuole spacciarsi nuovamente per «ricercato», prego, si accomodi, ma mi faccia anche il favore di trovarsi un altro padre. 
— Yirmy, — la voce di Daniela è tesa, incredula, — di cosa stai parlando esattamente? 
— Vuoi che ti rovini il pranzo? 
— Voglio la verità. La verità non rovina niente. Lui guarda la cognata con affetto. 
— Allora, se sei venuta qui a cercare la verità, ti svelerò qualche nuovo particolare su quel fuoco amico che il tuo Amotz mi ha fatto cadere addosso. 
— Lascia in pace Amotz, — protesta Daniela spazientita. — Lui voleva solo consolarti. 
Yirmy le posa una mano sul braccio. 
— Non ne dubito, e non ho niente da rimproverargli. Amotz è un uomo pratico, e mi è simpatico. All'inizio quella frase mi ha fatto impazzire, e poi si è trasformata in una sorta di ossessione. Volevo scoprire a tutti i costi chi fosse quell'amico che aveva fatto fuoco contro Eyal, conoscere il suo nome, che aspetto aveva, da dove veniva, chi erano i suoi genitori, i suoi insegnanti, tutto. 
— Ma che importanza ha? Cosa volevi fare dopo averlo scoperto? Cosa avresti potuto fare? Shuli non mi ha mai detto che questa idea ti assillasse. 
— Perché non le avevo detto nulla. Lei ha rinunciato ad avere rapporti sessuali con me e io ho rinunciato a essere sincero con lei. 
— E Amotz lo sapeva? 
— Né Amotz né nessun altro. 
Il cuoco nero posa davanti a loro due piatti con dentro una specie di minestra di verdure e carne. 
— È la colazione o il pranzo? — domanda Daniela. 
— Tutt'e due. Dopo che hai contribuito con cento dollari alle lacrime di un elefante girovago, ti meriti un pranzo come si deve. E non spaventarti se la carne ha un sapore particolare. L'hanno cotta sul fuoco vivo. Non roviniamoci il pasto con una conversazione che sono sicuro ti farà solo innervosire. 
— Continua a parlare. Odio mangiare in silenzio. Ti ascolto. Non ho mai saputo che avessi tentato di identificare il soldato che aveva sparato a Eyal. Hanno detto che lui non aveva colpa. 
— Certo che no. La colpa era interamente di Eyal. Eppure volevo conoscere chi l'aveva ucciso, avere un legame con lui. 
— Che tipo di legame? 
— Un legame. 
— E l'hai identificato alla fine? 
— No, alla fine mi sono dato per vinto e ho rinunciato. 
 
 
Il vecchio Yaari cerca di disegnare al figlio con mano tremante la struttura del pistone oleodinamico che determina il movimento del piccolo ascensore mentre Hylario corre da una stanza all'altra per strappare dal suo quaderno a quadretti nuovi fogli per nuovi tentativi. Da quanto ricorda il vecchio, le varie parti del pistone si incastrano grazie a un sistema di avvitamento interno e non sono tenute insieme da bulloni esterni che sarebbero potuti arrugginire. In questo modo lui ne aveva garantito solidità e affidabilità negli anni, e l'olio idraulico non sarebbe fuoriuscito da eventuali fori. Ma anche un acciaio di qualità eccellente, fabbricato in Cecoslovacchia prima della seconda guerra mondiale, non può contrastare l'azione del tempo. Occorre quindi localizzare le giunzioni, smontare il pistone, sfilarne i cuscinetti a sfera difettosi e rimpiazzarli con dei nuovi. 
— Peccato per i disegni, papà, — dice il figlio. — Sono convinto che le giunzioni sono ormai talmente corrose da non poterle separare. Non vedo altra scelta che smontare l'intero meccanismo dalla parete e tentare di sostituirlo con qualcosa che funzioni in base allo stesso principio. 
— Ma non abbiamo nessuna possibilità di procurarci dei pezzi di ricambio adatti al mio piccolo ascensore. Dovremo fabbricare un nuovo pistone identico a quello vecchio. 
— Fabbricarlo è un altro paio di maniche, e non ho idea di chi potrebbe farlo. Per non parlare poi dei costi. 
— Perché? Chiederò a Gottlieb. Mi deve parecchio e per me lo farà. 
— Non illuderti, non lavorerà per te. E non sono per niente sicuro che sia in grado di produrre un nuovo pistone. La sua ditta è ormai completamente automatizzata, tutto è programmato e i torni lavorano con stampi di serie. Sono finiti i giorni delle officine che eseguivano artigianalmente ogni genere di capricci per ascensori privati per donne sole. 
— Gottlieb per me lo farà — . Il padre ignora il commento cinico del figlio. — So che ne è capace. 
Hylario è accanto alla sedia a rotelle, pronto a scattare in camera sua per strappare altre pagine. Francisco è seduto davanti a loro e ascolta con attenzione mentre in cucina Kinsey canticchia in mezzo al vapore delle pietanze del mezzogiorno. 
— E non abbiamo ancora parlato dell'impianto elettrico che provoca il cigolio, —  prosegue Yaari in tono acido. — Quella è una storia a parte. Muoio dalla voglia di sapere dove l'hai nascosto, papà, e capire da dove arriva la corrente. 
Il vecchio sorride. — Non c'è bisogno che tu muoia per saperlo. Dove sia situato, non me lo ricordo, ma siccome è reale, e non un puro spirito, alla fine salterà fuori. E la corrente che alimenta l'ascensore è fornita per gentile concessione dell'azienda elettrica. 
— Che intendi dire? 
Siccome l'appartamento di Dvorah Bennet, come tutti gli altri in quel vecchio edificio, non era dotato di un circuito elettrico trifase, il vecchio Yaari, temendo di aumentare troppo il carico, aveva fatto in modo che il gruppo motore dell'ascensore fosse collegato, mediante un deviatore di corrente, direttamente a un palo della compagnia elettrica. così, per anni, la «ragazzina» aveva scorrazzato su e giù a sbafo, nemmeno fosse un membro del consiglio di amministrazione dell'azienda elettrica. 
— Vedo che questa signora ha risvegliato in te istinti delinquenziali, — ride Yaari. — Ma se le cose stanno così, allora dimenticati di me. Non mi avvicino a nessun impianto elettrico che non sia a norma e che riceve energia da una fonte non ben individuata, e oltretutto provoca miagolii e sussulti. 
— Non esagerare... hai detto che nella ditta di Gottlieb c'è un'esperta che sa riconoscere a orecchio ogni tipo di guasto tecnico. La porteremo a Gerusalemme con noi e individueremo il problema. 
— Che intendi dire con «porteremo», «individueremo»? 
— Ci verrò anch'io a Gerusalemme. Prima di morire ho voglia di rivedere l'ascensore nella camera da letto di Dvorah. Le hai detto che sono su una sedia a rotelle? 
— Gliel'ho accennato. 
— Perché? 
— Perché non ti importuni troppo. Non dirmi che è una cosa di cui ti vergogni e che vuoi mantenere segreta... 
— Adesso non più. Ma a essere sinceri nei primi tempi della mia malattia me ne vergognavo molto, e per questo ho troncato i rapporti con lei. Sappi che dopo la morte di tua madre mi sono concesso qualche libertà: ho tentato di tradurre in pratica quello che già da tempo provavo per Dvorah. Io, Amotz, a dire il vero, quando le ho costruito l'ascensore in camera da letto mi sentivo mancare il respiro ogni volta che le stavo accanto. Però cercavo di tenere a bada i miei sentimenti. Ma dopo che tua madre è morta, e sono rimasto solo, ho avuto una relazione con Dvorah, non troppo intensa, diciamo adatta alla mia età. E se non fosse stato per i pazienti che le giravano per casa tutto il giorno mi sarei persino trasferito da lei. Ma poi il mio tremito è peggiorato, è arrivato alle ginocchia... 
Yaari si fa paonazzo nell'udire la confessione del padre. 
La badante filippina esce dalla cucina, piccola e rossa in volto. Una nana-bambina con un abito di seta colorato che domanda in inglese al padrone di casa se è pronto per mangiare. 
— Magari tra un po', — risponde lui nel suo inglese approssimativo. 
— Ma la cotoletta è calda, appena fatta, come piace a lei. 
— Mangia, papà, non scappo mica, mi siedo qui con te. 
— Però a te non piace guardarmi mentre mi imboccano. 
— Non fa niente. Va benissimo così. Anzi, mangerò anch'io. 
Francisco prende un grande tovagliolo e copre il petto del vecchio Yaari. Porta un piatto con una cotoletta e dei piselli, taglia la carne a pezzetti, mette nella mano tremante del vecchio una forchetta e ne tiene un'altra nella sua, con la quale lo imbocca.— Vuole anche lei una cotoletta come quella di suo padre? — domanda ad Amotz. 
— Le cotolette le posso mangiare dappertutto. Mi piacerebbe piuttosto assaggiare quello che tua moglie sta preparando per te. 
Felice del complimento, Kinsey serve ad Amotz un brodo caldo arricchito con frutti di mare in una scodella di plastica gialla, nella quale, durante la sua infanzia, lui mangiava il porridge. 
— Ti piacciono queste porcherie? — si stupisce il padre. 
— Che cosa posso farci? Fin da piccolo mi hai educato a mangiare tutto quello che mi danno. 
Francisco imbocca il vecchio tremante, gli asciuga di tanto in tanto il mento, raccoglie dal bavaglino i piselli caduti e glieli rimette in bocca. Amotz non distoglie lo sguardo da quella scena dolorosa, commosso dal modo in cui il padre lotta per mantenere la dignità. E quando il vecchio comincia a fare domande allusive circa la proprietaria dell'ascensore, chiedendo una descrizione dettagliata di lei e della camera da letto, Yaari gli propone di invitare la «ragazzina» per una visita, promettendogli di farle da autista sia all'andata che al ritorno. 
Ma il vecchio non vuole che Dvorah Bennet venga a trovarlo a casa sua e lo veda costretto su una sedia a rotelle. Di certo non prima di averle dimostrato di poter mantenere la promessa di garanzia a vita per l'ascensore. 
— Parlane a Gottlieb, — esorta il padre. 
— Lui non ci servirebbe a niente. Non lavora più per passione, pensa solo ai soldi. 
— Benissimo, — si illumina il vecchio. — Allora minaccialo di non passargli gli ordinativi per le nuove cabine del ministero della Difesa. Sono sicuro che farà tutto quello che gli chiederai. 
— Minacciarlo? — si stupisce Yaari. — Siamo arrivati a questo? 
— Sì, Amotz. Se si promette qualcosa a una donna per tutta la vita, poi si deve mantenere quella promessa. 
 
10 
 
— E credimi, — prosegue Yirmiyahu, — non mi è stato facile rinunciare a identificare il soldato che aveva sparato il proiettile mortale. Era molto importante per me conoscerlo di persona. All'inizio non nascondevo la mia intenzione di scoprire chi fosse, ma quando ho visto che andavo a sbattere contro un muro di silenzio, e che i soldati dell'unità di Eyal erano solidali l'uno con l'altro, ho tentato di scoprirlo per vie traverse. Eppure, nonostante mi fossi fatto più accorto, e avessi persino visitato il luogo della disgrazia e calcolato il possibile punto di partenza del proiettile in base alla traiettoria, non sono riuscito a identificare con certezza lo sparatore. 
— Come mai? 
— Perché tutti avevano paura, e hanno fatto il possibile per ostacolarmi. Temevano che volessi prendermela con quel soldato, che lo volessi accusare, trascinare in tribunale. O addirittura il contrario, che mi attaccassi a lui in modo ossessivo. Succede, a volte, e magari sarebbe successo anche a me. Non sono riuscito in nessun modo a convincerli che volevo sapere chi era perché ero preoccupato per lui. Perché nonostante Eyal fosse inequivocabilmente colpevole di quanto gli era capitato, quel suo commilitone avrebbe potuto, per eccessiva sensibilità, portarsi dentro un senso di colpa tale da avvelenargli la vita. Volevo tranquillizzarlo, dirgli: mio caro, io sono il padre di Eyal, però voglio rassicurarti che credo nella tua innocenza. Non sono solo i tuoi superiori ad assolverti, ma anche i genitori del ragazzo che hai ucciso per sbaglio. Vogliamo mantenere i contatti con te, per il tuo bene. Se fra qualche anno ti sentirai assalito da un senso di angoscia, o di colpa, per quel fuoco amico che hai aperto contro il tuo commilitone che aveva sbagliato a calcolare i tempi, potrai sempre venire a trovarci e noi ti aiuteremo a calmare quelle sensazioni, ad alleviare la tua angoscia. 
— Che strano... 
— Sì, che strano, eppure è la verità. Ero ossessionato dall'idea di stringere la mano di colui che aveva premuto il grilletto, come se quel ragazzo fosse stata l'ultima persona che aveva toccato l'anima di Eyal. Sì, Daniela, nei primi mesi pensavo ancora in termini di spirito, di anima, fino a che ho lasciato perdere tutte queste sciocchezze. 
Sul piatto di Daniela sono rimasti dei pezzi di carne che lei non osa toccare. Uno dei cuochi canticchia fra sé un allegro motivetto africano, tamburellando sulla pentola per scandirne il ritmo, e di tanto in tanto lancia un'occhiata di sottecchi ai due bianchi. Sono entrambi sfiniti, lei senza un motivo apparente, forse a causa della lontananza dal marito, ma Yirmy ha decisamente diritto a un po' di riposo: qualche ora dopo il ritorno da Dar es Salaam è partito per un urgente viaggio al sito degli scavi ed è tornato a notte fonda. Però l'ascolto comprensivo e commosso della cognata accresce il suo desiderio di confidarsi. 
— In teoria non avrebbe dovuto essere difficile identificare il cecchino. Eyal non era stato ucciso da colpi partiti da un cannone, o da un elicottero, che, per quanto diretti a un obiettivo preciso e a dispetto di tutti i dispositivi sofisticati di oggi, non si può mai sapere con certezza matematica se e come sono andati a segno. Nel suo caso la vicenda era semplice, quasi banale: i colpi erano partiti dai suoi commilitoni, un drappello di soldati scelti, otto in tutto, compreso il comandante responsabile dell'appostamento, un simpatico ufficiale di nome Mikha che dopo questa storia è quasi diventato di casa da noi. Anche lui si è laureato prima del servizio militare, in giurisprudenza, e nel cuore della notte aveva mandato Eyal sul tetto di una casa di Tul Karem per tenere d'occhio i dintorni, nel caso il «ricercato» fosse sfuggito all'imboscata che gli avevano teso. Gli appostamenti erano due, uno a nord e uno a sud del palazzo, a distanza di cinquanta-sessanta metri l'uno dall'altro. Ecco, è tutto chiaro, semplice. Tu ti ricordi cosa si era detto allora? 
— Mi pare di sì. 
— Allora ammettilo: non ho assillato la famiglia con inutili dettagli. Shuli non ha voluto sapere com'erano andate le cose fin dall'inizio, e a ragione. Io invece non facevo che rincorrere altri particolari, frugare qui, rovistare là, ero in preda a una sorta di frenesia che forse si addice a un certo modo maschile di vivere il dolore. Ad esempio, dopo qualche tempo ho cominciato a essere ossessionato dall'idea di sapere chi fosse il «ricercato» a cui era stato teso l'agguato quella notte sciagurata, cosa avesse fatto di tanto importante da dovergli sguinzagliare dietro otto soldati. 
— Che ti importava saperlo? 
— È proprio quello che mi ha chiesto l'ufficiale dei servizi di sicurezza quando sono andato a strappargli informazioni su di lui. «E cosa cambia se le dico il nome? Per un ricercato che va ce n'è uno che viene, e ce ne sarà sempre uno da braccare. Manca poco che tutti i palestinesi diventino dei ricercati per noi». Ma io insistevo: «Perché volevate arrestarlo? Che cosa ha fatto?» «Per spedirlo all'altro mondo», aveva riso l'ufficiale, senza darmi altre informazioni. E a ragione. Perché un dettaglio se ne porta dietro un altro e tutte quelle informazioni non avevano nessuno scopo, visto che Eyal era già morto. Ma io mi trovavo ancora in una specie di turbine che voleva risucchiare tutto ciò che era avvenuto quella notte. Mi rivolsi alla redazione del telegiornale di una rete televisiva per avere la videocassetta del funerale militare di Eyal, che loro avevano ripreso, e fui accontentato. Era un servizio brevissimo, di nemmeno un minuto. Di notte, quando Shuli dormiva, guardavo e riguardavo quel video, non per rivedere il nostro strazio, e il dramma di Nofar, che sembrava volesse lanciarsi nella tomba con Eyal, ma per esaminare attentamente le facce dei soldati del picchetto d'onore che avevano sparato la salva di tre colpi riservata a tutti i caduti, anche a quelli che hanno provocato per sbaglio la propria morte. Guardavo e riguardavo le facce di quei soldati, di cui ormai già conoscevo il nome e la storia, perché pensavo che forse, in base alla loro espressione nel momento in cui premevano il grilletto, avrei scoperto chi era il responsabile del fuoco amico. 
— È assurdo... 
— È assurdo, è vero. Ma è così. Che posso farci? È anche normale, e naturale. Nei primi mesi del lutto si vive in una spirale di assurdità. All'apparenza si mantiene il controllo ma dentro di sé ci si crea fantasie al limite dell'assurdo. Fino a che, una notte, sul tetto della casa di Tul Karem dove era morto Eyal, ho avuto un'illuminazione definitiva, filosofica: sono riuscito a liberarmi da tutte quelle assurdità e a dare inizio al progetto del grande oblio. 
Vedi, gli amici di Eyal non ci hanno abbandonato. Dopotutto noi non siamo americani o giapponesi che mandano telegrammi di cordoglio e dicono addio e non arrivederci. Abbiamo tradizioni consolidate per quanto riguarda il lutto: non si abbandona la famiglia del soldato, e si mantengono i contatti con i suoi parenti sia su un piano istituzionale che personale. I soldati del battaglione di Eyal venivano a trovarci di tanto in tanto ed erano diventati un po' di famiglia, ci invitavano alle loro ricorrenze, ci raccontavano di sé, ci coinvolgevano nelle loro esperienze. All'inizio venivano in gruppo: ragazzoni impacciati che si stringevano in salotto come per proteggersi a vicenda, per non lasciarsi sfuggire qualche parola incauta. Ma dopo aver imparato a conoscerci si sono resi conto che eravamo persone civili, la tragedia non ci aveva privati della nostra umanità, e allora si permettevano di venire per visite private — in gruppetti di tre, in coppia, persino da soli — mentre i miei sospetti rimbalzavano dall'uno all'altro, avanti e indietro, come una palla, e anche dopo il congedo alcuni di loro hanno continuato a venirci a trovare e il mio tentativo presuntuoso, patetico e insulso di identificare chi aveva sparato a Eyal diventava ogni giorno più difficile e complicato. Il fuoco di uno solo diventava il fuoco di tutti, collettivo, e da militare si trasformava in civile, generico, fino a che pure chi aveva fatto fuoco quella notte non era ormai più sicuro di aver sparato per sbaglio sul suo compagno. E a quel punto mi sono detto, Se le cose stanno così, bisogna cambiare direzione, e anziché inseguire un'ombra per proporre un perdono a chi non lo cerca e non ne ha bisogno, pretenderò dall'esercito di vedere il luogo dove è avvenuta la disgrazia: arriverò al tetto di quella casa di Tul Karem per capire cosa ha portato mio figlio a sbagliare. Ma questa è un'altra storia. Non adesso. Ora voglio dormire. Cosa mi volevi dire tu? 
— Per favore, Yirmy, non dire più che Nofar voleva solo far finta di buttarsi nella fossa... voleva farlo davvero, ne sono certa. Era disperata al funerale, e non si è ancora ripresa. 
— Scusa, Daniela, — si commuove lui, — non volevo... certo che desiderava farlo per davvero... Nofar è una ragazza stupenda... e anche il suo amore per Eyal era una cosa stupenda. 
 
11 
 
Se proprio devo minacciare, riflette Amotz, allora lo farò con accortezza e cortesia, e non in presenza di mio padre che con il suo entusiasmo romantico sarebbe capace di strapparmi di mano la cornetta a metà conversazione e rovinare la mia sottile minaccia con lo strillo di un vecchio impaziente che sa di non avere molto tempo a disposizione. Cancella quindi il sapore dei frutti di mare con un biscotto filippino, accarezza la testa di Hylario, e va in ufficio. 
È un venerdì brumoso. Sono le due del pomeriggio. In tutto il quartiere gli uffici sono ormai chiusi, ma nel grande open space dello studio due dipendenti sono impegnati in una vivace discussione davanti a un monitor. Sono due giovani ingegneri, un uomo e una donna che durante la settimana hanno fatto registrare parecchie assenze per trascorrere le feste di Hanukkah con i figli e che nel loro giorno libero trascurano i rispettivi consorti per rifarsi del tempo perduto. Yaari è orgoglioso del naturale senso del dovere che è riuscito a instillare nei suoi dipendenti, ma bada a non unirsi alla loro conversazione perché non lo trattengano con una domanda per la quale potrebbe non avere risposta. Sorride, agita una mano in saluto, e senza una parola si chiude in ufficio. 
Dopo la telefonata del giorno prima non dovrebbe sperare in un altro segno di vita di Daniela, che riabbraccerà comunque entro settantacinque ore. Eppure è un po' deluso dal suo silenzio. Poi chiama Gottlieb al cellulare. 
— Si tratta di una cosa urgente? Non si potrebbe rimandare? — brontola l'industriale. È in un bar con alcuni colleghi, e fa fatica a parlare e ancora di più a sentire. — Tua moglie non è ancora tornata dall'Africa e allora ti senti libero di importunarmi anche di venerdì? 
— È bello da parte tua ricordarti di lei, — si stupisce Yaari. — Vedo che con gli anni sei diventato un po' uno di famiglia. 
Gottlieb si rabbonisce: è disposto ad ascoltare in breve quello che Yaari ha da dire, a patto che parli con voce alta e chiara. Lui gli riassume la richiesta del padre di fabbricare delle parti di ricambio per un pistone corroso, di manifattura artigianale, appartenente a un minuscolo e vetusto ascensore di Gerusalemme. — Perché farlo a mano? — domanda Gottlieb. — Perché non sostituire l'intero ascensore e approfittare dell'occasione per ampliarlo un po'? — Ampliarlo è impossibile. Si trova all'interno di un armadio nella camera da letto di un'anziana signora e conduce direttamente al tetto. Non lo si può né ampliare né sostituire. 
Siccome ha fretta di tornare dagli amici, le cui risate fragorose fanno da sottofondo alle sue parole, Gottlieb promette che la prossima domenica, alla ripresa del lavoro, controllerà lo stato del vecchio tornio, ormai in disuso da parecchi anni. — Ma sappi — rimprovera Yaari — che non lo faccio per te. Tu non sei affatto un tipo semplice. Lo faccio perché è tuo padre a chiedermelo. Mi sono affezionato a lui fin dal primo momento che l'ho conosciuto, cinquant'anni fa, — confessa con un sospiro. 
Yaari richiede anche i servizi dell'esperta dall'udito sensibile per localizzare l'origine del cigolio nell'impianto elettrico dell'ascensore. 
— Se vuoi approfittare della mia esperta, — gli comunica Gottlieb divertito, —  dovrai ingaggiarla a pagamento. Non a spese mie. Che si prenda un giorno di ferie e potrai trastullarti con lei quanto vuoi. 
— Ma un attimo, abbiamo bisogno di lei anche per il reclamo dei sibili di vento nel grattacielo, e quello non sarà a spese mie. 
— Il reclamo dei sibili di vento? Com'è che salta sempre fuori? L'avevamo cancellato dall'ordine del giorno. Avevamo concordato che i rumori sono dovuti a errori dell'impresa edile, e non sono di nostra pertinenza. 
— Gottlieb, ascolta, non è così semplice. Sono stato lì questa mattina e i sibili e i rimbombi sono davvero insopportabili. E ho anche incontrato per caso il rappresentante dell'associazione condomini, quell'uomo che ha perso il figlio... 
— Ma cosa sei andato a fare lì? — lo interrompe Gottlieb infuriato. — Ti avevo avvisato di non avvicinarti al grattacielo e a quel tipo che ti fa subito sentire in colpa per qualsiasi cosa. Vogliono farci spendere un sacco di soldi per qualcosa di cui non abbiamo nessuna responsabilità. Se vogliono smontare l'ascensore e controllare il vano, prego, facciano pure, ma a condizione che paghino ogni minuto del lavoro dei miei tecnici. Senti, Yaari, ti avverto, se cerchi guai, trovateli da solo. Quei rumori non mi interessano. Io mi lavo le mani da tutta questa faccenda. 
— Tu non ti lavi le mani da un bel niente, — risponde Yaari con freddezza. —  Non possiamo fare altro che sporcarcele. Ho promesso a quell'inquilino, il rappresentante dell'associazione condomini, che noi due, l'architetto e i tecnici dell'impresa edile scopriremo la causa del problema. Quindi non puoi chiamarti fuori e sparire. Se tradirai la mia fiducia, in futuro ti escluderò dagli affari più importanti. 
— Quali per esempio? 
— La commessa per le nuove cabine del ministero della Difesa. Credimi, se le ordineremo dai cinesi faremo risparmiare soldi allo stato. 
All'altro capo della linea cala il silenzio. Yaari sente i respiri dell'industriale, colpito nelle tasche. 
— Mi stai minacciando? 
— Chiamala minaccia se vuoi. 
— Sai che anch'io posso minacciare te. 
— Certo. Ognuno in questo paese ha qualcun altro su cui esercitare il proprio potere. Nessuno gode di immunità. 
— Nemmeno tu. 
— Ovvio. 
— E tu minacci una persona che pochi minuti fa hai definito uno di famiglia? 
— Lo faccio proprio perché sei uno di famiglia, — ride Yaari. 
— Attento, mi lamenterò con tuo padre. 
— Stai attento tu: è stato lui a darmi l'idea di minacciarti. 
— Allora avete deciso di rovinarmi il fine settimana. 
— Non ti rovinerò un bel niente, amico mio. Per il momento non si parla di soldi, solo di tempo. In fin dei conti i venti che soffiano nel grattacielo vogliono soltanto che li si scopra con pazienza e abnegazione perché si possa dar loro modo di trovarsi uno sfogo. 
 
12 
 
Fuori cade una pioggia battente, iniziata senza preavviso, ma la grande cucina della fattoria si riscalda col calore dei pasti destinati al gruppo di scienziati affamati che arriverà il giorno dopo dal sito degli scavi per il fine settimana. Yirmiyahu si sostiene la testa con una mano, quasi potesse staccargli per la troppa stanchezza e rotolare sul tavolo tra i piatti sparpagliati. Il viaggio notturno al sito degli scavi, di cui Daniela non ha ancora capito il motivo, è stato sfiancante; le stelle e la luna, amiche di Sijin Kuang, si erano nascoste dietro una spessa coltre di nubi e a lei non era rimasto che ritrovare la strada in base agli alberi e al vento, che di volta in volta la traevano in inganno. Gli occhi di Yirmy si chiudono da soli. Lui sale pesantemente le scale fino alla sua camera provvisoria mentre Daniela rimane accanto al grande tavolo, seguendo distratta il lavoro dei cuochi ma sorridendo con grande cordialità. Gli africani sembrano provare molta simpatia per quell'anziana donna bianca e spesso sono felici di chiederle di assaggiare questa o quella pietanza ormai cotta. Anche a lei non rimarrebbe altro da fare che salire in camera sua. La pioggia è cessata, rapida com'era iniziata, e un sole tirato a lustro spunta per godersi il mondo. Ma dopo il rimprovero del cognato Daniela non oserebbe uscire da sola nemmeno per una breve passeggiata. 
Si domanda se questa sua visita non stia durando troppo. Ecco, oggi c'era un volo da Morogoro per Nairobi, e da lì avrebbe potuto arrivare l'indomani all'alba a Tel Aviv, via Amman. Ma l'idea di un secondo scalo, e ad Amman perdipiù, aveva messo in agitazione Amotz, e anche lei aveva ritenuto che non valesse la pena fare un viaggio dal continente asiatico a quello africano per sole tre notti. Se ora avesse con sé il giornale del venerdì potrebbe magari persino godersi la lontananza da suo marito e da casa, ma non c'è nemmeno l'ombra di un quotidiano, neanche in una lingua straniera, e lei può solo sperare che prima del suo ritorno, lunedì, Amotz non butti via tutto quello che vale la pena leggere. 
Chiede ai cuochi africani se in cucina c'è un piccolo transistor che possa metterla in contatto col mondo, ma nonostante loro capiscano la sua richiesta, non hanno un apparecchio simile. Le promettono però che gli scienziati che arriveranno dal sito degli scavi del primate preistorico potranno darle notizie aggiornate perché là, nel canyon, hanno installato una grande antenna parabolica che riceve programmi da ogni parte del globo. Quindi, per il momento, dovrà rinunciare a saperne di più. 
La testa comincia a dolerle. Le si è alzata la pressione o è una normale emicrania? Daniela fa ancora fatica a riconoscere i sintomi dell'ipertensione che le è stata diagnosticata dopo la morte di Shuli. Il suo medico non aveva dato troppa importanza alla cosa, l'aveva considerata più che altro una reazione emotiva, e prima di prescriverle una pillola giornaliera le aveva proposto una passeggiata quotidiana e di perdere peso, dando istruzioni ad Amotz di tenerle sotto controllo la pressione. 
Ma una camminata quotidiana e la perdita di peso erano una prospettiva poco allettante per una donna che non sopportava nessuna limitazione alla sua libertà. Era più semplice rimboccare una manica e tendere un braccio scoperto perché il marito le infilasse il misuratore di pressione e la rassicurasse che le sue sensazioni erano immaginarie. Ma ora, in Africa, in una fattoria isolata, deve fidarsi solo di se stessa, e siccome le due pastiglie per l'ipertensione sono dentro il passaporto, non c'è motivo che non ne prenda una e riporti l'altra in Israele. Sale dunque in camera, ma prima di ingoiare la compressa preferirebbe scambiare due chiacchiere con Sijin Kuang. Lei avrà sicuramente un misuratore di pressione come quello di suo marito. Torna allora in cucina, dove i cuochi la indirizzano all'ambulatorio dell'infermiera sudanese, situato non all'interno dell'edificio ma in un fabbricato posteriore, poco distante, che nel passato coloniale serviva da scuderia. Lì, su un pavimento di stuoie, avvolta in una tunica nera, Sijin Kuang è rannicchiata come un uccello gigantesco, e il suo modesto ambulatorio ricorda a Daniela quello della scuola in cui insegna. In un armadietto di vetro ci sono file di vasetti, bende, cerotti, siringhe e boccette di disinfettante, e su un tavolino sono posati uno stetoscopio e altri strumenti luccicanti per esplorare ogni cavità del cranio umano, mentre in un angolo è appeso il misuratore della pressione arteriosa. 
Attenta a non disturbare il sonno dell'infermiera, che smaltisce la stanchezza causata dagli errori di rotta compiuti la notte precedente, Daniela aspetta fuori, su una panchina. Il mal di testa non le passa: in mano ha la minuscola pasticca consegnatale dal marito ed è indecisa se ingoiarla e rinunciare così a misurare la pressione. Immagina però che il contatto della pelle vellutata di Sijin Kuang possa giovarle ancor più di quello della mano forte di Amotz. 
Chiude gli occhi per lasciare che la ronzante serenità della natura stemperi un poco il suo dolore, e attraverso l'aria limpida e pura giungono a lei le fragranze della cucina. La sua avversione per i lavori domestici le risveglia immancabilmente un sopito senso di colpa femminile, quindi cambia posizione, si stende sulla dura panchina e incrocia le mani dietro la testa, a mo' di piccolo cuscino. Non è possibile che Shuli le abbia nascosto qualcosa. Dopo la tragedia lei era solita telefonarle due o tre volte al giorno per tirarla su di morale e chiacchierare a lungo a cuore aperto. Se avesse saputo, anche solo indirettamente, che Yirmy aveva passato una notte sul tetto di una casa palestinese a Tul Karem, sua sorella glielo avrebbe riferito subito. Ma non lo sapeva. Nel momento in cui avevano smesso di avere rapporti sessuali, lei e il marito avevano anche cessato di confidarsi l'uno con l'altra. 
Daniela si rilassa, malgrado la panchina sia dura. Si assopisce, e il gradevole fruscio dell'erba di campo le concilia il sonno. Le sembra di udire i suoni flebili di un flauto. È possibile che nonostante tutto ci sia una radio accesa? Qualcuno la sfiora delicatamente. L'infermiera sudanese, alta e seria, le posa una mano rassicurante sulla spalla e si mette un dito sulle labbra, per avvisarla di tacere, di non muoversi e di non fare movimenti bruschi. 
A distanza di una ventina di metri da loro si staglia la sagoma di un animale nero, sconosciuto, grande quanto un gatto gigantesco che rizza una coda pelosa, lunga e spessa, e solleva davanti a sé le zampe da cui spuntano artigli lunghissimi. La sua mascella, stretta e appuntita come quella di un piccolo coccodrillo, è tesa verso un serpente dorato che sbuca tra l'erba facendo guizzare la lingua e soffiando come in un flauto sommesso. 
I due animali sono ipnotizzati l'uno dall'altro, attenti a non avvicinarsi. Il felino nero, con le sue mandibole e i suoi artigli, potrebbe probabilmente avere la meglio sul serpente — questa è la sua natura e per questo è stato creato — però esita, sembra che preferisca affrontare una preda meno pericolosa. Ma come potrebbe allontanarsi dal serpente senza perdere la faccia? Come potrebbe svignarsela senza ferire la dignità del proposito per il quale è stato creato? Ruggisce più forte, scopre le zanne, perché il serpente smetta di sollevare la testa con tanta fierezza e di contorcere il corpo al suono dei suoi sibili. Tuttavia anche il serpente serba la propria dignità, e nonostante non sia in grado di ingoiare e digerire una specie di gatto nero di quelle dimensioni, vorrebbe almeno zittirne il ringhio. 
Sijin Kuang conduce silenziosamente Daniela nell'ambulatorio. Quegli animali potrebbero metterci un po' prima di trovare il coraggio di allontanarsi. — Voleva qualcosa? — le chiede a voce bassa. Malgrado il mal di testa sia ormai passato, Daniela la prega di misurarle la pressione per sapere se ingoiare la pillola che tiene in mano. L'infermiera sudanese esegue volentieri il controllo, ma diversamente da Amotz non si limita a metterla seduta. Come prima cosa la fa stendere, e non si accontenta nemmeno di rimboccarle la manica, ma le chiede di togliersi la camicetta. 
Daniela, come immaginava e sperava, trova molto gradevole il contatto con la vellutata pelle color carbone della giovane donna, che le infila il bracciale del misuratore con una cura ancora maggiore di quella di Amotz. La mia pelle bianca, arrossata, la disgusta?, si domanda Daniela, dispiaciuta che l'infermiera, concentrata sul movimento dell'ago del misuratore, veda soltanto i segni dell'età sul suo stomaco e sulle braccia, e non i seni che hanno mantenuto la loro forma e freschezza. 
— La pressione è normale, — le dice Sijin Kuang nel suo buon inglese, aiutando Daniela ad alzarsi e a rivestirsi. Oltre la porta aperta c'è silenzio. Durante il controllo i due animali hanno trovato il coraggio di allontanarsi o forse, chissà, il gattone nero ora trascina nella tana, con i suoi lunghi artigli, il serpente dorato e dilaniato. 
— Ha avuto una notte difficile, vero? — cerca di attaccare discorso Daniela mentre l'infermiera ripone il misuratore. — Yirmiyahu mi ha raccontato che avete sbagliato più volte strada, — aggiunge sorridendo affettuosamente. 
Anche Sijin Kuang sorride, scoprendo denti bianchi e perfetti. 
— Suo cognato è un uomo viziato, — le dice lasciando sbalordita Daniela con un commento che non si riferisce affatto alla sua cordialità, ma getta un inaspettato fascio di luce sull'uomo che lei conosce fin dall'infanzia. 
 
13 
 
Mentre scende in ascensore nei seminterrati della vecchia Knesset, Yaari è svegliato dalla suoneria del cellulare e da sua nuora che con voce irosa lo rimprovera: — Ma dove sei, nonno? I bambini ti aspettano per accendere le candele. 
In preda all'agitazione, si scuote da un profondo e sconfinato sopore. Ecco l'ostacolo. Quando un uomo come lui corre tra una vecchia rugosa di ottant'anni e un padre anziano su una sedia a rotelle che va imboccato, i suoi sessantun anni gli sembrano leggeri come una piuma. Ma non appena si ritrova solo nel suo letto, in una camera buia, ne sente tutto il peso. È soltanto la stanchezza accumulata o è l'assenza di sua moglie a renderlo più stanco? 
Il senso di colpa verso i due nipotini che lo aspettano accanto alla hanukkiah lo porta ad accelerare i movimenti e a una velocità sbalorditiva, senza scegliere gli abiti né lavarsi la faccia, si precipita all'automobile e si lancia in direzione della casa di suo figlio nel crepuscolo di un venerdì pigro e piovoso. Allo svincolo di Halachà, davanti a un semaforo rosso che tarda a diventare verde, gli torna in mente una scena del sogno che già sta svanendo. Era nel vecchio edificio della Knesset. Vi si era recato con una tuta da meccanico e una cassetta degli attrezzi in mano, e il portiere, con un cappello a visiera e una livrea di flanella blu, gli aveva aperto la porta e l'aveva condotto a un vecchio ascensore, elegante e ampio, di quelli che a lui erano sempre piaciuti. Ma anziché farlo salire al terzo piano per guardare il tetto della casa dell'ex amante di suo padre, aveva premuto il pulsante del seminterrato e gli aveva detto, Si prepari a una discesa senza fine: ai tempi dei turchi questo era un pozzo profondissimo. 
Telefona a Efrat per chiederle se deve comprare un dolce strada facendo, o del gelato, o qualcos'altro che faccia felici lei e i bambini. — No, è già tardi, — lo rimprovera la nuora. — Basta che arrivi, ma fai in fretta, i bambini stanno perdendo la pazienza e accenderanno le candele da soli. Che ti è successo? Di solito sei puntuale. 
Yaari si sente ribollire il sangue. — Guarda caso, Efrat, — mormora ironico, — a volte mi capita anche di lavorare — . Avrebbe voglia di sbattere in faccia a quella belloccia indolente qualcosa a proposito dei suoi sessantun anni, ma si rammenta del monito della moglie di portarle rispetto e si affretta a riattaccare per non lasciarsi sfuggire un'imprecazione. Comunque non può permettersi di arrivare a mani vuote, rischiando di fare una brutta figura agli occhi dei nipoti, e si ferma a un chiosco variopinto. 
Tra ragazzi e ragazze assiepati si sente contagiato dalla passione della moglie per i dolci e ne fa man bassa. A fargli gola sono soprattutto degli splendidi bastoni da passeggio di plastica trasparente pieni di caramelline colorate, e due bambole di cioccolato: un maschietto e una femminuccia. 
Neta e Nadi lo accolgono con affetto. L'assenza del padre fa automaticamente salire le quotazioni del nonno. Lui li abbraccia, li bacia. Poi abbraccia un poco pure Efrat e le sfiora una guancia con le labbra. La prima volta che si era permesso di baciarla era stata solo dopo che Moran aveva annunciato il loro matrimonio e, nel corso degli anni, anche dopo la nascita dei nipotini, non aveva mai osato aumentare l'intensità di quel bacio. 
— I dolci sono per dopo cena, — proclama con fermezza educatrice, ma è troppo tardi. Il bambolotto di cioccolato è già stato decapitato e la testa è finita nella bocca di Nadi. — Cannibale che non sei altro, — commenta Yaari baciando con forza il piccolo ma vietandogli di continuare a mangiare il resto del corpo. 
La hanukkiah è pronta, con lo shamash al centro. Yaari gira la scatola delle candele per leggere le benedizioni stampate sul retro. Si vergognerebbe a sbagliare il testo davanti ai bambini. Ma all'improvviso Neta insiste che il nonno reciti le benedizioni con in testa una kippah, come il marito della sua maestra d'asilo. 
Efrat gira per casa con aria stanca. È spenta e pallida in volto, ha i capelli scarmigliati e indossa una vestaglia alquanto trasandata. Moran ha chiamato quella mattina e le ha chiesto di andare a trovarlo l'indomani con i bambini, durante le ore di visita dei genitori delle reclute. Nel frattempo cercano una kippah. Non è facile trovarla. Non ce n'è nemmeno una di carta, di quelle che si mettono in testa ai funerali. Ma Neta, volenterosa e con grande presenza di spirito, ritaglia una specie di kippah da un cartoncino rosso e ne graffetta i bordi. Yaari se la mette in testa con un sorriso da clown e sta per accendere lo shamash quando Nadi si ricorda che anche lui è un maschio, non una femmina, e quindi deve avere una kippah, ed è necessario aspettare che gli si porti una specie di berretto che quasi gli copre gli occhi. 
Ora è tutto pronto per accendere le candele. I bambini, eccitati, pretendono che si spenga la luce per «scacciare le tenebre», come recita il canto. Seduta sul divano, al buio, Efrat sembra triste, immersa in pensieri lontani. Magari è di nuovo incinta, pensa Yaari emozionato. Sfila lo shamash, lo accende e si sforza di leggere alla luce della sua fiammella le due benedizioni. E dopo aver intonato con voce monotona il tradizionale canto Ma'oz Tzur Yeshuatì, passa lo shamash a Neta che accende la prima e la seconda candela, poi lo consegna esitante a Nadi, già in piedi su una sediolina, pronto ad accendere la terza e la quarta candela. Quando rimane solo la quinta Yaari riprende lo shamash e si rivolge a Efrat: — Vieni, Efrat, accendi anche tu una candela — . Ma lei lo fissa con sguardo assente, e non si muove. — Ho già acceso abbastanza candele in questi giorni: dallo a Neta — . Yaari consegna lo shamash alla nipotina e la piccola accende la quinta candela. Ma a quel punto suo fratello esplode in una rabbia incontrollata. Dapprincipio tenta di rovesciare la hanukkiah accesa, e quando il nonno glielo impedisce cade in ginocchio a mo' di un musulmano in preghiera e picchia la testa contro il pavimento. Strilla infuriato: perché è stata sua sorella ad accendere la quinta candela e non lui? L'unico modo di placare la sua invidia è spegnere la quinta candela e mettergli in mano lo shamash. Ma ancora non è contento. Perché non hanno fatto accendere a lui la quinta candela per primo? 
Durante la cena Yaari racconta alla nuora e ai nipotini del piccolo ascensore costruito da suo padre per la signora Bennet di Gerusalemme. Descrive come la cabina sale dall'interno dell'armadio della camera direttamente al tetto e quale zona della città vecchia si può ancora vedere da lì. Poi parla della donna, scherzando sull'antico amore che aveva fatto nascere in suo padre. Efrat è interessata alla storia. La possibilità che il nonno di Moran abbia avuto un'avventura amorosa nella Gerusalemme degli anni Cinquanta le stimola l'immaginazione. Conta gli anni, calcola e ricalcola i tempi — quando è stato costruito l'ascensore, quando è morta nonna Yaari, quando è cominciata la malattia del vecchio. Con curiosità indiscreta e pedante vuole ricostruire un quadro della situazione per capire per quanti anni il nonno avesse avuto un'amante segreta a Gerusalemme mentre sua moglie, da lei conosciuta solo due anni prima della morte, era ancora in vita. 
Yaari cerca di difendere i suoi genitori, ma senza troppo successo. Efrat calcola i tempi e gli dà la prova che suo padre non è uno stinco di santo. — Perché mai dovrebbe esserlo? — si stupisce Yaari. — Perché tu e Daniela ci tenete a dare l'impressione di essere persone integerrime, perfette Yaari ridacchia. — Ma che dici? Anche noi abbiamo i nostri difetti. — Naturale, — risponde la nuora con aria altrettanto divertita, mentre il suo volto rianimato riprende un po' del suo stupefacente splendore. — Però, chissà come mai, riuscite a convincere tutti che i vostri difetti in fin dei conti sono dei pregi    Amotz ride benevolo, mantenendo il sangue freddo. —  Forse Daniela, ma non io, — esclama osservando compiaciuto il volto di sua nuora che ha ripreso colore. 
Nadi mangia il resto del bambino di cioccolato e vorrebbe divorare anche la femminuccia ma Neta è riuscita a nasconderla in un punto in alto, e a salvarla dalle sue fauci. 
Alla televisione il ministro della Difesa accende le candele di Hanukkah in piedi vicino a un aereo da combattimento e intona un canto con voce gradevole. Nofar telefona e conversa con grande amabilità con Efrat pretendendo anche che i due nipotini le mandino un bacio attraverso la cornetta. Yaari prende esitante il ricevitore e si domanda con lieve ansia se i padroni di casa di sua figlia non le abbiano spifferato della breve visita in camera sua. Ma a quanto pare hanno mantenuto la promessa. È stato il nonno a raccontarle della visita di suo padre a una vecchia cliente di Gerusalemme e lei si rammarica che non gli sia venuto in mente di andarla a trovare in ospedale. In quel caso l'avrebbe portato nel reparto di traumatologia dove ha chiesto di prestare servizio, perché anche lui cominci davvero a credere nei miracoli. 
Nadi crolla addormentato sul divano. Yaari aiuta la nipotina a indossare il pigiama, le rimbocca le coperte e le legge una storia di una famiglia alla quale non importa che un topolino giri libero per casa. I piatti sono impilati nell'acquaio, il tavolo è in disordine e le candele di Hanukkah si spengono lentamente. Efrat è irrequieta, vaga per le stanze, telefona in continuazione nel tentativo di trovare una baby-sitter ma a quanto pare il venerdì sera, al culmine della festività, nessuna ragazza è disposta a rinunciare a divertirsi con gli amici. — Senti, Efrat, — dice Yaari impietosito dalla disperazione della nuora, — rimango qui io questa sera con i bambini, anche tu ti meriti qualche distrazione — . Lei alza gli occhi sbalordita: non è sicura se lui parli sul serio o la stia prendendo in giro. — Ma potrei far tardi, — lo avverte. — Non importa, — la rassicura lui generosamente, — oggi pomeriggio ho fatto un sonnellino e non avrò problemi a stare sveglio. — Perché dovresti rimanere sveglio? — gli domanda lei. — Stenderò un lenzuolo e una coperta sul divano, ti darò una maglietta e i pantaloni puliti di una tuta di Moran e potrai dormire tranquillamente fino al mattino — . Yaari ha un moto di disapprovazione. — Non capisco: intendi tornare solo domani mattina? — Non si può mai sapere, — risponde lei con un sorrisetto misterioso. — Dipende da come andranno le cose — . Di che parla?, si domanda Yaari in cuor suo. Forse farebbe meglio a stabilire un orario limite e a pretendere dalla madre dei suoi nipoti che rientri prima di mezzanotte. Ma ormai è tardi. La giovane donna si risveglia alla vita e in un battibaleno, da casalinga sciatta e abbacchiata, si trasforma in una donna felice, splendida, che ticchetta orgogliosa su scarpe coi tacchi alti. Il suo abito leggero rivela tutto ciò che il corpo femminile può e deve rivelare secondo i dettami della moda, tranne ovviamente i capezzoli, che ancora appartengono al marito, mentre sulla sua pelle nuda e candida sono cosparsi dei brillantini: polvere di stelle che dovrebbe guidare quella bella donna al convivio degli dèi. 
A giudicare dagli sguardi che lancia al suocero è evidente che si aspetta di ricevere dei complimenti per il suo aspetto, ma Yaari preferisce tacere. Daniela l'ha messo in guardia dal farle complimenti galanti. «Non guardare tua nuora come la guarderebbe un uomo. Anche ciò che è permesso a suo padre, a te è vietato». E come sempre Daniela ha ragione. Perché quando lei si china su Nadi addormentato e steso su un fianco sul divano, per controllare se sia il caso di trasferirlo nel lettino, i suoi seni profumati che quasi sfiorano il viso del bimbo, ma soprattutto il minuscolo tatuaggio su uno di essi, risvegliano in Yaari una strana eccitazione che per un istante gli toglie quasi il respiro. 
— Non spostarlo nel lettino. Lascialo qui. Anche se dovesse svegliarsi mi arrangio poi io con lui. 
— L'importante è non mostrare segni di debolezza, o paura, — lo sbalordisce Efrat, — perché allora dà ancora più in escandescenze. 
— Dà in escandescenze? Non stai esagerando? 
Per maggior sicurezza, e per ogni evenienza, Efrat infila la cassetta di Baby Mozart nel videoregistratore. Yaari ricorda con piacere, ancora dai tempi in cui Neta era piccolissima, i minuscoli vagoni che trasportano simpatici animali danzanti; un vagone che scompare, ricompare, si ricongiunge al treno e scompare nuovamente; le foche che scivolano, si arrampicano, scivolano e tornano ad arrampicarsi. E tutto questo sulle note della musica geniale di Mozart che, in base a una serie di studi, rilassa i piccoli e ne amplia e affina la mente. «Se fosse esistita una videocassetta come questa ai miei tempi, — era solito lamentarsi Yaari, — oggi non sarei un semplice ingegnere ma un vero scienziato». 
Nonostante le rassicurazioni del suocero, l'elegantissima madre insiste a recarsi ticchettando nella camera di Neta, che già dorme, per calmare una possibile ansia di abbandono e ricordarle la presenza del nonno, forte e vigile, che la proteggerà da presenze estranee o da brutti sogni. La bambina piagnucola nel sonno, protesta. —  Ma che bisogno c'è di dirle che esci? A che serve poi? — si lamenta Yaari. Però la bellezza di Efrat probabilmente le impone di rendere conto di ogni suo movimento perché il marito non si torturi immaginando chissà che. Poi la giovane donna si avvolge in un leggero scialle blu, in tinta con i suoi occhi. 
— Non avrai freddo? 
— Non ti preoccupare: mi vengono a prendere sulla porta di casa e mi depositano davanti a quella di un'altra. 
Prima di congedarsi, raggiante di gioia e di gratitudine, vorrebbe baciare e abbracciare forte il vecchio baby-sitter resosi disponibile all'ultimo momento, ma lui si ritrae, e le sfiora i capelli, attento che lei non gli si avvicini troppo. 
— Vai... vai... è un peccato perdere tempo. 
Ma non appena la porta si chiude prorompe un grido disperato: Mamma, mammina, dove sei? Yaari si precipita nella camera dei bambini, accende la luce e trova Neta, dolce copia della madre appena allontanatasi, in piedi sul letto che ripete un lamento ostinato: Mamma, mammina, dove sei? Perché sei andata via? 
La bimba, considerata obbediente e giudiziosa se paragonata al suo scatenato fratello, è definita spesso un angelo caduto dal cielo e perciò Yaari è sicuro di poterne facilmente calmare il pianto che la scuote e la sconvolge. Ma quando cerca di stringerla a sé, la bimba si mette a strillare ancora più forte, sostenendosi la testa con la piccola mano, come se potesse caderle. 
Lui allora chiude la porta della camera perché le sue urla non sveglino il fratello, ma è troppo tardi. Nadi bussa alla porta chiusa col pugnetto e quando entra — scalzo, scarmigliato e con gli occhi rossi — si arrampica sul suo lettino e si siede in una posa strana, con le gambe incrociate, esamina con freddezza la sorella singhiozzante e dondola una gambina a mo' di pendolo. 
— Ma ci sono qua io a prendermi cura di te, — dice Yaari, tentando di fugare l'ansia di abbandono della bambina. Però lei va avanti a piangere per inerzia, e niente può fermarla. Continua a sostenersi la testa con la mano, sembra sul punto di avere un collasso, e ripete invariabilmente il lamento, che di tanto in tanto è soffocato da un singhiozzo profondo e sommesso: Mamma, mamma, mammina, dove sei? Perché sei andata via? 
Yaari è disperato. Si aspettava di lottare con Nadi, non con Neta, che di solito è accomodante. Dopo inutili e vani tentativi di calmarla con delle promesse, decide di cambiare tattica. 
— Ma come mai ti comporti così, Neta, amore mio, una bambina grande come te. Guarda com'è bravo il tuo fratellino. 
Già però si pente delle sue parole, perché ora al pianto si aggiunge un acuto strillo di offesa. 
Rimangono seduti così, tutti e tre, prigionieri di quel lamento ciclico: un gemito monotono che ha già perso il suo motivo d'essere ma prosegue come reminiscenza di una perdita antica, preistorica. Nadi è ancora seduto sul letto, e dondola la gamba. Ha solo due anni e pochi mesi ma dal viso ampio e forte si può indovinare che tipo d'uomo potrebbe diventare un giorno: aggressivo, se non addirittura violento. A chi somiglia? Chi gli ricorda?, si domanda Yaari tornando su un interrogativo che si è già posto un'infinità di volte. Sorride leggermente al nipote e gli chiede consiglio: —  Allora, Nadi, come si fa a calmare tua sorella? 
E il piccolo riassume la situazione per il nonno: — Nana vuole la sua mamma. 
 
14 
 
— Volevo provare la sensazione di stare su quel tetto, di notte, ma il comandante dell'unità mi aveva dato il permesso di recarmi laggiù per una sola visita, e durante il giorno. Alla fine ci siamo accordati che ci sarei andato verso sera, e sarei rimasto un po' anche dopo che l'oscurità fosse calata. L'ufficiale che mi accompagnava era gentile con me e faceva di tutto per soddisfare la mia curiosità perché capissi com'erano andate le cose. E siccome era esperto e serio, conosceva bene la popolazione locale e non aveva timori di sorta, si è preso la responsabilità di esulare un poco dagli ordini dei suoi superiori e mi ha permesso di continuare a rimanere sul tetto, nel punto in cui stava Eyal, fino a dopo il tramonto, quando già cominciavano ad accendersi le luci nelle case. 
Anche nella fattoria africana la sera non è lontana. Yirmy siede accanto alla finestra aperta, davanti al letto dove ora è stesa la cognata con il romanzo aperto accanto a lei. 
È evidente che il suo sonno è stato profondo, tranquillo. Ha gli occhi svegli, la pelle del viso rilassata, ed emana un gradevole odore di pulito. Ha cambiato gli abiti sudati del viaggio notturno con altri lavati e stirati e ha bussato alla porta della camera di Daniela con grande delicatezza, e solo dopo essersi accertato che lei non dormisse ed essere stato invitato a entrare con cordialità, si è fatto avanti e ha girato la sedia della scrivania in direzione del letto, con alle spalle lo splendore della distesa della savana. 
— E naturalmente Shuli non immaginava che tu fossi andato laggiù. 
— Certo che no. Credi che potessi metterla in ansia col pensiero di perdere anche me nello stesso posto? E non le ho raccontato niente nemmeno dopo, perché sapevo che sarebbe stata sicura, e a ragione, che io volessi tornarvi. 
— E tu volevi... 
— Non solo lo volevo, ma l'ho fatto. Da solo però, senza altri israeliani al mio fianco. 
— E non l'hai raccontato nemmeno ad Amotz? 
— Nemmeno ad Amotz. Sapevo che vi raccontate tutto, e nel momento in cui tu l'avessi saputo — tu, che non sei in grado di mantenere nemmeno l'ombra di un segreto — tua sorella ne sarebbe stata informata alla velocità della luce. 
Daniela vorrebbe protestare, ma sa che Yirmiyahu ha ragione: lei fa fatica a mantenere i segreti con i suoi cari. Si copre i piedi scalzi e a un tratto sente nostalgia di sua madre, morta due anni dopo la nascita di Nofar.    
— Ma come hai ottenuto il permesso di arrivare su quel tetto? — domanda curiosa. 
— La cosa incredibile è che non è stato per niente difficile ottenerlo. Nel reparto del ministero della Difesa incaricato di seguire le famiglie dei caduti c'è una specie di piccolo ufficio il cui compito è soddisfare le richieste insolite di genitori, figli, o fratelli di soldati uccisi. Vi lavora un impiegato anziano, che ha pure perso un figlio e svolge quella mansione a titolo gratuito, coadiuvato da una ragazza ufficiale, esperta ed efficiente, che si mette in contatto con gli esponenti delle varie branche dell'esercito. Visitare il luogo in cui un soldato ha trovato la morte non è cosa insolita per i genitori, a condizione che il campo di battaglia non sia più tale, come nel Sinai, o sulle alture del Golan, o persino al confine col Libano. Ma nei territori occupati è più complicato, perché da una parte non c'è un vero e proprio campo di battaglia, e dall'altra è tutto un campo di battaglia. Le autorità militari però fanno il possibile per venire incontro alle richieste di un genitore, o di un fratello o di una sorella, che vogliano vedere il luogo dove il loro caro ha trovato la morte, e magari anche capire perché e per cosa. Mi segui? 
— Perfettamente. 
— E la mia richiesta è stata vagliata in modo speciale. Siccome Eyal era rimasto vittima di un incidente tra commilitoni, e in casi come questi ci sono sempre strascichi anche dopo che l'inchiesta ufficiale è stata archiviata, si può dire che in quell'ufficio non solo si sono sforzati di venirmi incontro, ma si aspettavano persino che mi rivolgessi a loro. 
— E cosa volevi sapere? 
— Volevo controllare. 
— Che cosa? 
— Come mai Eyal si fosse trasformato nel corso di quell'imboscata da ricercatore in ricercato. 
— Ma ve l'avevano spiegato. Aveva calcolato male i tempi ed era sceso dal tetto prima dell'ora prevista. 
— Non aveva calcolato male i tempi, Daniela. Vi ho già detto varie volte di non credere a questa versione dei fatti. Eyal non era il tipo da sbagliare l'ora. L'orologio che ci hanno restituito, e che portava al polso quando è stato ucciso, mostrava l'ora giusta. 
— Forse si è fatto prendere dall'ansia, qualcosa gli ha messo paura... 
— No, lui non aveva paura. Il vostro Moran era un bambino fifone, ma non Eyal. Smettila con i tuoi forse e non cercare di spiegarmi quello che so meglio di te. Stammi a sentire, tutto qua. 
Daniela arrossisce. Ma avvertendo la tempesta nell'anima del cognato annuisce in silenzio. 
— Io non ero mai stato a Tul Karem, anche se dista solo mezz'ora da Netanya. Una volta abbiamo osato recarci a Hebron, un'altra abbiamo visitato la chiesa della Natività a Betlemme. Siamo andati a mangiare in un ristorante di Ramallah, abbiamo attraversato Gerico, e tanti anni fa abbiamo visitato anche Nablus e Jenin. Ma non siamo mai stati a Tul Karem. Che c'è da vedere in una cittadina di confine, anche se abbastanza gradevole? È un normale centro abitato, mediamente pulito, ben tenuto, con strade ampie, viali, e qua e là agrumeti e frutteti. E case di tutte le forme e dimensioni. Ville di uno, due, o tre piani. E anche edifici più alti. E naturalmente non manca neppure un piccolo campo profughi in periferia. Ma niente di terribile. Ci si può vivere. Di certo in Israele ci sono posti peggiori. 
A volte i soldati vengono mandati sui tetti delle case per fare sorveglianza, o tendere agguati. Per una notte, o anche più. Ci sono tetti privilegiati, di importanza strategica, su cui un intero drappello si accampa per un mese. Ma sotto quei tetti ci abita della gente. Famiglie con bambini che amano e odiano. Non importa però. Il mondo non crolla. L'essenziale è rimanere in vita. 
E inoltre la faccenda di Eyal è successa ancor prima che scoppiasse la seconda Intifada: i disordini non erano ancora organizzati e il caos non regnava sovrano. Il comandante del plotone di Eyal, un avvocato di successo che era tornato nell'esercito in cerca di avventura, quella notte era addirittura dall'altra parte della città: aspettava l'importante ricercato che ancora oggi non so che fine abbia fatto. Forse se la sta già spassando all'altro mondo, come aveva detto quel pagliaccio dei servizi di sicurezza, oppure hanno rinunciato ad acciuffarlo. Il comandante di Eyal conosceva bene Tul Karem, la girava come se si trovasse a Ramat Gan, in una deliziosa jeep pesante e corazzata sulla quale stava un soldato silenzioso con una mitragliatrice. Mi ha mostrato il posto in cui avevano sparato a Eyal, in mezzo a travi per costruzioni, accanto a un rubinetto dell'acqua, e mi ha indicato l'ingresso dell'edificio dal quale era uscito, spiegandomi dove fossero posizionati i soldati dell'imboscata, e illustrandomi a gesti da dove erano partiti i proiettili, uno e poi un altro. Io ero ancora ossessionato dall'idea di identificare lo sparatore e quindi gli ho domandato, come per caso: «Se gli spari sono partiti da lì, chi era il soldato che ha sparato?» Ma lui, persona intelligente, mi ha strizzato l'occhio e ha domandato, Che bisogno ha di saperlo? Ha già avuto modo di conoscere tutti i commilitoni di Eyal, sono dei bravi ragazzi. Perché dovremmo fare un torto a uno di loro? 
Allora gli ho detto: «Saliamo almeno sul tetto». Erano le cinque del pomeriggio, e io, Daniela, ricordo ogni dettaglio. Sono salito su per le scale, in parte senza corrimano, e qua e là anche le pareti erano senza intonaco, e sono passato davanti a porte aperte facendo cenni di saluto con la testa a intere famiglie: piccoli e grandi, vecchi e vecchie che cucinavano, cucivano, facevano i compiti. Un palazzo ricco di vita, tre piani, non proprio rifiniti, ma sovrastati da un ampio tetto pieno di biancheria stesa ad asciugare, lenzuola colorate che svolazzavano al vento. E non sembrava che gli abitanti fossero sorpresi che ancora una volta gli ebrei volessero osservare il mondo da un tetto palestinese. E se portavano con loro un vecchio in abiti civili, questo voleva dire che la cosa aveva ancora maggiore importanza. 
— Quando è successo esattamente? 
— In autunno. Tre mesi dopo la morte di Eyal. Cominciava già a fare un po' freddo. Il soldato silenzioso con la mitragliatrice era di origine drusa: avevano mandato lui con me perché potesse spiegare alla gente del posto chi ero io e cosa volevo. Ma non avevo bisogno di un interprete, perché tra i palestinesi c'è sempre qualcuno che sa l'ebraico. Nel mio caso c'era una donna giovane, incinta, simpatica, una studentessa di storia in un ateneo israeliano. Non ricordava il soldato ucciso, però disse che suo padre sarebbe tornato di lì a poco dall'agrumeto e forse avrebbe saputo dirmi qualcosa di più a proposito di quell'«incidente sul lavoro». 
— Incidente sul lavoro? 
— È l'espressione che usiamo noi quando qualche palestinese rimane ucciso per sbaglio, ad esempio nel preparare una bomba, e loro non fanno che ripeterla nei nostri confronti. Perché no? Bene, allora, eravamo sul tetto, e il soldato druso aveva posizionato la mitragliatrice sul parapetto mentre l'ufficiale mi dava spiegazioni su quella zona di sua competenza e io andavo avanti e indietro: magari avrei trovato qualche traccia, l'indicazione di qualcosa che aveva spinto Eyal a scendere dal tetto in modo da destare sospetti. Cominciava a calare la sera, con una specie di nebbiolina bluastra, e la studentessa incinta che era salita con noi ci domandò se doveva levare un po' di roba stesa, ma l'ufficiale rispose che non ce n'era bisogno e mi mostrò come a occidente, a una distanza tanto breve da poterla quasi toccare, lungo la costa israeliana, si accendevano le luci. 
— Potevi vedere il mare da lì? 
— A quanto sembra un tempo si poteva, ma oggi i nuovi palazzi lo nascondono. È quello che disse l'ufficiale. E a suo parere, è meglio così. 
— Perché è meglio così? 
— Perché ai palestinesi non venga voglia di desiderare anche il mare. 
— È quello che disse? Bastardo... 
— Forse stava cominciando a perdere la pazienza. Il padre della ragazza, che sarebbe dovuto tornare a momenti dall'agrumeto, non arrivava: probabilmente era venuto a sapere che c'erano degli ebrei che lo aspettavano sul tetto di casa e aveva preferito andare a trovare un qualche zio malato, e non dover subire l'ennesimo interrogatorio durante il quale sarebbe stato costretto a ripetere tutto ciò che aveva già detto, e cioè niente di significativo. Ma ti interessa davvero questa vecchia storia? 
— Ogni parola. 
Yirmiyahu si alza e lancia un lungo sguardo fuori dalla finestra. Poi cammina per un secondo nella stanza, prende in mano il romanzo di Daniela, gli dà un'occhiata, e lo rimette a posto a faccia in giù, com'era prima. 
— Di cosa parla? 
— Non adesso. Se vuoi, farò uno sforzo per finirlo prima della mia partenza e te lo lascio. 
— Per l'amor del cielo... insisti a non capire. Non azzardarti a lasciar qui nemmeno una lettera dell'alfabeto ebraico. 
Lei lo trafigge con lo sguardo. 
— Allora il padre non arrivò e quella studentessa incinta, che parlava ebraico con un'intonazione dolce, vide che ci stavamo innervosendo e chiamò sua madre, un'araba dall'aria maliziosa, vestita con abiti tradizionali e grassottella, che non sapeva una parola di ebraico. Lei si ricordava del soldato. Non l'aveva visto, ma ne aveva sentito parlare da suo marito. A metà notte lui gli aveva portato un caffè forte, di sua iniziativa, e pure un secchio, come il ragazzo gli aveva chiesto. 
— Suo marito gli aveva preparato un caffè di sua iniziativa? 
— Perché rimanesse sveglio, e non si addormentasse. Così spiegò la figlia. E quando le domandai che importava a suo padre che Eyal si addormentasse, perché in fondo non è che stesse vigilando su di loro, al contrario, allora sua madre mi guardò in modo amichevole e anche se sapeva che io ero il padre del soldato ucciso disse senza timore che suo marito aveva paura che se quel soldato si fosse addormentato gli sarebbe venuta voglia di ammazzarlo. Un soldato sveglio, viceversa, avrebbe potuto difendersi. E perciò lui gli aveva portato un caffè forte. E tutte queste spiegazioni venivano tradotte dalla studentessa incinta dall'accento dolce, che continuava a scambiare sorrisi maliziosi con sua madre. 
— Un arabo dall'animo complesso. Dà da bere del caffè a un soldato israeliano perché non gli venga la tentazione di ucciderlo? 
— così tradusse lei le parole della madre. Magari in arabo la donna non disse esattamente «per non farsi venire la tentazione di ucciderlo», ma usò un termine leggermente diverso. Non fraintendermi però, tutta quella conversazione sul tetto si svolse in un'atmosfera distesa, fra molti sorrisi. Anche l'ufficiale sorrideva: solo il soldato druso con la mitragliatrice rimaneva serio. 
— E poi? 
— E poi arrivò davvero il momento in cui saremmo dovuti andarcene, perché avevamo già disobbedito agli ordini, ma sapevo che quel tetto avrebbe continuato a tenermi occupata la mente, e che avrei dovuto capire meglio la faccenda del caffè, del secchio. Forse anche quella studentessa incinta, con il suo ebraico dolce, aveva contribuito a questa mia fissazione, cioè, non lei, la sua gravidanza, o meglio, il pensiero che il bimbo che sarebbe nato avrebbe camminato carponi lì, su quel tetto. A proposito, sapevi che Efrat... — Yirmy esita. 
— Efrat cosa? — domanda Daniela. 
 
15 
 
A poco a poco il pianto per la madre traditrice si spegne, i singhiozzi si indeboliscono, gli intervalli fra di essi si fanno più lunghi e la rabbia e l'angoscia perdono vigore, per quanto, al fine di mantenere la loro dignità, non terminino di colpo ma scemino lentamente. Neta non ha più la forza di rimanere in piedi, né di sostenersi la testa con la mano, e si lascia cadere piano piano sul letto. Sulle prime si limita a sedersi, infine ripiega il corpo sottile in una primordiale posizione fetale. Il nonno non si intromette nel processo: rimane seduto paziente, senza muoversi e senza dire una parola. Di tanto in tanto chiude gli occhi per incoraggiare il sonno della piccola. Nadi lo osserva con aria severa e all'improvviso scende dal letto ed esce dalla camera. Yaari gli fa segno di fare piano con il dito, perché non disturbi la sorella. Aspetta ancora un po' che il sonno avvolga completamente la nipotina e poi spegne la luce e le stende sopra una coperta. 
In soggiorno le candele sono spente da tempo. L'unica luce proviene dalla cucina. Yaari cerca il bambino, ma non lo trova. La porta di casa è chiusa a chiave. E anche quella che dà sul terrazzo. Controlla in bagno, tuttavia il piccolo non c'è. Lo chiama, Nadi, Nadi, ma lui non risponde. Per un attimo è preso dal panico, però siccome la casa non è grande effettua un rapido controllo negli armadi e dietro la lavatrice, finché non si rammenta del nascondiglio preferito del bimbo, sotto il letto dei genitori. E infatti è lì che lo trova, disteso come un sacco grigio. Accende la luce ma il piccolo strilla: — Spegni, spegni, Nadi non è qui — . Allora Yaari cerca di scherzare al buio, finge di non riuscire a trovarlo, ma Nadi si rifiuta di collaborare a quel gioco familiare, e si mette a strillare forte. Yaari cerca di arrivare a lui strisciando ma il bambino lo respinge, gli graffia la mano, esce velocemente carponi, si precipita verso la porta di casa sbarrata e la prende a calci con il piedino scalzo. 
Non cerca sua madre, e nemmeno suo padre. La sua furia ancora una volta esplode per la quinta candela che la sorella ha acceso prima di lui. Yaari cerca di calmare la sua offesa grattando via dalla hanukkiah i resti della cera e accendendo nuovamente tutte e cinque le candele. Sulle prime Nadi non crede che il nonno sia pronto a risarcirlo fino a quel punto, ma quando lo vede accendere la luce nella stanza, rinfilarsi la kippah, rileggere le benedizioni e mettergli nella manina lo shamash perché lui accenda tutte le candele, la sua rabbia sbollisce e un debole sorriso spunta sul suo volto tormentato. 
Ma a quanto pare la calma è momentanea. Il piccolo dall'animo perspicace e complesso probabilmente intuisce che una seconda accensione delle candele nella stessa sera non è che un palliativo, una finzione del nonno per placare la sua invidia nei confronti della sorella, e quando le candele colorate sono già state accese nella hanukkiah, Nadi le osserva con ostilità per uno o due minuti e poi vi soffia sopra come se fossero le candeline di una torta di compleanno. Ma non si accontenta di averle spente. Fa cadere a terra la hanukkiah fumante, poi caccia un urlo e corre alla porta d'ingresso e la scalcia con furia, chiamando il padre. 
Ora Yaari capisce che l'avvertimento di Efrat non era esagerato. Moran, probabilmente per l'imbarazzo, di solito riferisce ai genitori solo i problemi di salute del figlioletto. Yaari afferra il piccolo con forza, lo solleva fra le braccia e lo trascina via dalla porta. Il bambino lotta selvaggiamente, vuole liberarsi, avvicina i denti alla mano del nonno e tenta di morderla. Però Yaari, pur sorpreso dalla sua forza, non molla la presa. 
La lotta del piccolo si indebolisce ma quando Yaari lo mette sul divano e spegne la luce lui schizza di nuovo verso la porta, si mette a scalciarla, e il dolore al piede non fa che aumentare le sue urla di disperazione. Ancora una volta Yaari è costretto a prenderlo in braccio, e per distrarlo fa partire la videocassetta di Baby Mozart che Nadi conosce fin da quando era in fasce ma davanti alla quale rimane ancora incantato. 
Con il bambino stretto fra le braccia, al buio, cominciano a muoversi sullo schermo treni e scale, fontane, altalene e benevoli pupazzi di stoffa, mentre la musica del compositore morto giovane riconcilia nonno e nipote. 
Il bambino guarda le immagini e ascolta le note familiari ma è impossibile capire se stia ancora lottando per liberarsi dalla stretta del nonno, o gli si aggrappi con forza. Yaari è in piedi, e quando cerca di sedersi sul divano il bimbo esplode in grida di protesta. E così, una dopo l'altra, si susseguono le scene ideate da pedagoghi di buona volontà nella tranquilla California, e dopo che l'ultima nota svanisce e lo schermo si rabbuia, il bambino mormora stremato: — Ancora, nonno... 
E a Yaari non rimane altro che far ripartire la cassetta dall'inizio. 
Ora, con la testa del nipotino appoggiata alla spalla, ha modo di esaminare i suoi lineamenti da vicino, anche se in penombra, e finalmente capisce perché non gli è mai stato facile riconoscere a chi assomiglia. Molti anni prima aveva avuto fra le braccia, al buio, un bambino molto simile a Nadi, per quanto senza musica di sottofondo, ma in un silenzio assoluto. Era stato a Gerusalemme, ancor prima che nascesse Moran, quando lui e Daniela si erano offerti di fare da baby-sitter al piccolo Eyal perché Shuli e Yirmy potessero uscire a divertirsi e loro avessero un posto tranquillo dove fare l'amore. 
Il ricordo del nipote ucciso dal fuoco dei suoi commilitoni, stretto fra le sue braccia da bambino, sconvolge Yaari. Il dolore della perdita, anche se stemperato dalla dolcezza della nostalgia per gli anni in cui era giovane, lo sommerge, e Yaari stringe a sé il corpicino del nipote per infondergli sicurezza sulle note della musica di Mozart, in virtù di quella da lui acquistata in tutti i suoi anni di vita. 
E quando la videocassetta termina per la seconda volta, e Nadi mormora, già nel sonno: «Ancora, nonno... », lui decide di non tornare su quei suoni per la terza volta ma di variarli con qualcosa di nuovo che faccia addormentare definitivamente il piccolo. Dalla catasta di cassette impilate l'una sull'altra ne sceglie una dalla copertina anonima, la infila nel videoregistratore e la fa partire. 
In pochi secondi capisce di aver sbagliato, ma non ferma le immagini. Non è un film per bambini, e non è nemmeno una normale pellicola per adulti: è del tipo che non avrebbe mai pensato che suo figlio e sua nuora vedessero. 
E nonostante ultimamente, persino nei film destinati alla grande distribuzione, le scene di sesso si siano fatte estremamente audaci, sono ancora piuttosto brevi e Yaari, per qualche motivo, ha l'impressione che gli attori stessi palesino un certo timore nel fingere un'eccitazione che non è autentica. Ma in questa cassetta non ci sono trama, né dialoghi, né relazioni segrete tra i personaggi, perché il sesso è il loro unico scopo: un sesso sfrenato, disinibito, senza finzioni né vergogna, accompagnato dai battiti di un tamburo invisibile. 
Il nipote addormentato gli pesa fra le braccia, e lui già tende il dito per fermare contrariato la cassetta, ma l'espressione della giovane dai capelli cortissimi, che un uomo anziano sta spogliando, lo blocca. Qualcosa nel sorriso imbarazzato della ragazza, nel suo tentativo istintivo di nascondersi il seno e di proteggersi l'inguine, dimostra che quella donna giovane e carina non è abituata ad avere rapporti sessuali davanti a una macchina da presa. È plausibile che quello sia il primo tentativo di una studentessa americana squattrinata alla ricerca di una fonte di guadagno per pagarsi gli studi. 
La ragazza già chiude gli occhi, piega la testa all'indietro e apre la bocca, ma il suo corpo continua a lottare contro l'uomo che di lì a poco le chiederà di tutto e il suo spavento, mescolato al piacere, attrae lo spettatore nell'oscurità. Ricordi lontani di sua moglie da giovane, nei primi tempi del loro matrimonio, provocano in Yaari un brivido di eccitazione. 
Si affretta a fermare la cassetta, la sfila dall'apparecchio, la rimette nella scatola e la ripone anonima fra le altre. Poi porta il piccolo addormentato nel suo lettino, gli infila un pannolino per la notte e gli rimbocca le coperte. 
 
16  
 
— Efrat cosa? — Daniela pretende una risposta da Yirmy. 
Oltre la finestra aperta all'orizzonte della savana, il vapore che avvolgeva la luna si è dissolto e ora questa si rivela limpida e nitida. 
— Efrat naturalmente non c'entra nulla con questa faccenda, — dice infine Yaari. — A proposito, quand'è nato Nadi con precisione? Lo sai che non ci hai raccontato quasi niente di lui? 
— Dopo la visita mia e di Amotz. A quel tempo pensavo che Shuli non si interessasse più dei parenti. 
Yirmy tace. Si alza e ricomincia a girare per la stanza. Prende ancora in mano distrattamente il romanzo, si fa tentare dal leggerne alcune righe, poi si affretta a riporlo. Daniela tace, aspetta. 
— Eppure la sua gravidanza sì che c'entra, probabilmente. Perché poco tempo dopo la vostra visita abbiamo ricevuto una lettera in cui Efrat ci informava di aspettare un bambino. 
— Una lettera di Efrat? Come mai vi ha scritto? Cosa voleva? 
— Ci chiedeva il permesso di chiamare il figlio che sarebbe nato Eyal. 
— Davvero? — Daniela è stupita. — Non lo sapevo... non ci ha detto niente. Vi ha scritto di sua iniziativa o anche a nome di Moran? 
— Di sua iniziativa. Diceva che Moran ancora non sapeva di quel suo desiderio. Fra l'altro noi eravamo sorpresi che alla fine del quarto o quinto mese di gravidanza lei fosse tanto sicura che si trattasse di un maschio e pensasse già al nome. 
— Yirmy, al giorno d'oggi, diversamente che ai nostri tempi, gli esami durante la gravidanza sono talmente completi e accurati che si può conoscere non solo il sesso del nascituro, ma anche lo stato di salute di ogni organo del suo corpo. Sono così avanzati che si potrebbe addirittura prevedere se sarà un bambino simpatico oppure no. 
— E se non lo sarà, che si fa? 
— Dipende dai genitori — . Negli occhi di Daniela si accende un sorriso triste e all'improvviso prova una leggera stretta di compassione per la nuora. 
— Allora com'è andato il parto? 
— È stato difficile. Nadi è nato con un taglio cesareo perché era in posizione podalica. Ma cosa avete risposto a Efrat? Spero che non l'abbiate ferita. 
— Non so esattamente cosa sia passato per la testa di Shuli quando abbiamo ricevuto la lettera: non le ho nemmeno dato il tempo di pensarci su. Ho scritto subito a Efrat che mi opponevo fermamente all'idea. L'ho ringraziata per la sua intenzione, decisamente commovente, ma inaccettabile. Pensaci anche tu, Daniela: perché caricare un bambino non ancora nato del peso di una morte? E visto che avevo già preso la decisione di allontanarmi da tutto, l'ultima cosa di cui avevo bisogno era di affezionarmi a una nuova creatura. A proposito, che tipo di bambino è Nadi? Simpatico? 
 
  
La sesta candela 
 
 
Di ritorno a casa, Efrat bada a non accendere la luce per non destare l'attenzione del baby-sitter sull'ora tarda, ma quando lo vede raggomitolato sul divano con scarpe e vestiti lo tocca delicatamente. Per un attimo Yaari ha l'impressione che Daniela sia tornata dall'Africa e gioisce al pensiero che il viaggio della moglie sia finito. Ma la voce della nuora che lo esorta a togliersi le scarpe e a indossare la maglietta e i pantaloni della tuta di Moran gli restituisce di colpo la lucidità. La festa di Hanukkah a cui ha partecipato ha reso Efrat più radiosa ma per fortuna lei porta ancora sulle spalle lo scialle sottile, così che Yaari non deve trovarsi davanti, al buio, la scollatura leggermente profumata della nuora china su di lui alle due e un quarto del mattino, che gli domanda come mai non si è sistemato meglio per la notte. 
— Quelle pesti dei tuoi figli mi hanno talmente sfinito che sono riuscito ad addormentarmi anche sul vostro divano così duro. 
Efrat è stupita che un uomo pratico come lui non abbia capito che quello è un divano letto. Gli ha lasciato anche un lenzuolo, una coperta, e i pantaloni puliti di una tuta. Perché allora non si è preparato il letto e ci si è infilato? — Alzati, alzati, ti faccio vedere io come si apre... è semplicissimo. 
— No, lascia stare, Efrat. Me ne torno a casa. 
Ma i sensi di colpa per essersi divertita alla festa protrattasi più del previsto rinsaldano il rifiuto della giovane donna a rassegnarsi alla partenza notturna del suocero, che ha fatto così bene il suo dovere. No, non gli consentirà di mettersi in strada di notte, in quel fine settimana festivo, mentre già cominciano a circolare gli ubriachi. Moran non la perdonerebbe mai se gli succedesse qualcosa. Lo prende per mano, lo fa alzare, e con insolita rapidità apre il divano davanti a lui per dimostrargli che anche a casa sua si può dormire comodamente. Stende il lenzuolo e la coperta e gli mette in mano la maglietta e i pantaloni piegati. No, gli dice Efrat con lo sguardo, non sei più giovane e forte come ti illudi. Stenditi, e io abbasserò le tapparelle perché il sole non ti svegli domani mattina, e starò attenta che i bambini non ti disturbino. 
— Per favore Amotz, — lo esorta, — fallo per me. Aspetta che si faccia giorno. 
Lui non ricorda di aver mai sentito quella bellezza supplicare così né lui né nessun altro. Forse sta cercando di alleviare un senso di colpa che le pesa sulla coscienza. 
— La luce del giorno non mi dà fastidio, — mormora nel vederla premere l'interruttore per abbassare tutte le tapparelle. — E comunque mi sveglio sempre prima che sorga il sole. 
Gli sarebbe facile tornare a casa, ma si arrende alla nuora che a quanto pare si trasforma in una padrona di casa efficiente solo col favore dell'oscurità. Dopo essersi tolta lo scialle, Efrat gli porta un altro cuscino e lo sprimaccia più volte con le braccia nude, come se fosse la causa di tutti i guai di casa sua. Poi gli consegna un asciugamano pulito e sparisce rapidamente, perché Yaari possa cambiarsi gli abiti con la tenuta da notte di Moran. 
Ma anche se sono i pantaloni di una tuta pulita di suo figlio, Yaari è restio a infilarseli, più che altro per paura che gli stiano piccoli. Si accontenta della maglietta, quindi alza un po' le tapparelle perché il sole non si dimentichi di lui, e poi si stende sull'ampio divano e si avvolge nella coperta. 
Mai ha avuto occasione di passare un'intera notte a casa di suo figlio. I primi giorni dopo la nascita di Nadi, quando Daniela dava talvolta una mano a Moran e a Efrat e si fermava a dormire da loro, Yaari se ne tornava sempre a casa. Ma ora, senza una ragione, anche se il suo letto è a pochi chilometri di distanza, ha acconsentito a rimanere con i nipoti, vicino a sua nuora che, preparandosi per la notte, si fa una doccia che non finisce mai e anche dopo che la striscia di luce sotto la porta chiusa della sua camera è sparita, continua ad ascoltare una musica sommessa e irritante. 
Se si alzasse e se ne andasse ora, Efrat non potrebbe fermarlo. Ma la paura che lei possa cadere in un sonno profondo e prolungato e che la mattina i bambini girino per casa trascurati, lo porta ad alzarsi, a bussare alla porta della nuora e a bisbigliare concitato: — Efrat, hai voluto che restassi, ma almeno abbassa questa strana musica. 
 
 
Il sole tanto atteso si è perso la sveglia di Daniela nell'Africa orientale perché largamente preceduto dal rombo dei motori dei due furgoni che hanno condotto alla fattoria gli scienziati della spedizione per il riposo del fine settimana. Dall'alto della sua finestra, sotto un cielo ebbro di stelle, Daniela riconosce la sagoma di alcuni di loro. Scendono dai veicoli, trascinandosi dietro zaini e sacchi. Ecco il capo della spedizione, il tanzaniano Selohe Abou, e l'archeologo ugandese, il dottor Kukirise, stanchi, taciturni e pensierosi come soldati di ritorno da una missione, o da un addestramento massacrante. Hanno persino con sé un infortunato, anzi, un'infortunata, la tunisina Zohara al Ouqbi, colpita da malaria. L'adagiano cautamente su una barella e intorno a lei si forma un capannello di persone preoccupate al quale si uniscono Yirmiyahu e Sijin Kuang, chini nel chiarore notturno sul volto sofferente della donna che salutano e dalla quale ottengono il permesso di ricoverarla in infermeria. 
Uno dopo l'altro gli scienziati vengono ingoiati dall'edificio, diretti alle stanze del primo e del secondo piano, mentre sulla spianata rimangono scatole di cartone piene di fossili e frammenti di rocce in attesa di essere datati e che il vecchio inserviente tuttofare, fedele amico e devoto compagno, porta in cucina. 
Forse è il vetusto vano dell'ascensore che non ha avuto modo di veder concretizzato il suo scopo a convogliare nella camera di Daniela gli echi delle voci degli scienziati. Il loro chiacchiericcio vivace dimostra che nonostante la stanchezza non desiderano dormire, ma riprendere al più presto i contatti con il mondo civile. 
Non sono ancora le quattro del mattino. Daniela potrebbe tornarsene a letto, ma sente che la presenza dei membri della spedizione non le permetterà di riprendere il filo del sonno interrotto. E quando spuntano i primi raggi di luce nelle grandi finestre della cucina lei vi discende lavata, sorridente, e accuratamente truccata, ed è accolta con calore dai due geologi sudafricani che hanno deciso di anteporre un'abbondante colazione al bagno e al riposo. Ricordandosi dell'interesse da lei mostrato per le loro spiegazioni le chiedono di unirsi al pasto perché abbia l'opportunità di capirne di più circa lo scopo scientifico dei loro scavi, e questa volta da un punto di vista geologico. 
— Volevamo dirle — esordisce uno — che Jeremy ci ha colti di sorpresa quando l'ha portata con sé tre giorni fa, ma l'interesse che lei ha mostrato per il nostro lavoro ci ha fatto molto piacere. Ovviamente è chiaro che è dovuto a pura cortesia, ma il modo in cui ci faceva le domande, e ascoltava le risposte, ci ha colpiti molto, e quando abbiamo saputo che era ancora qui e che l'avremmo incontrata di nuovo abbiamo avuto un ulteriore motivo per essere contenti del nostro fine settimana. Non sto esagerando, vero? — domanda rivolgendosi preoccupato al compagno, i cui energici cenni d'assenso sono accompagnati dal movimento di una mano che mescola un uovo dopo l'altro con pezzi di verdure e fettine di würstel. 
— Sa, — prosegue il primo, — noi lavoriamo nell'isolamento più completo. Il nostro sito di scavi non si trova lungo rotte turistiche e non ci capita di avere visitatori, nemmeno neri, ai quali possiamo spiegare cosa stiamo tentando di dimostrare. I due unici bianchi che sono arrivati da noi, un anno fa, erano inviati dell'Unesco di Parigi: amministratori che non erano venuti a interessarsi a quello che facciamo ma solo a controllare che non ci fossero inutili sprechi di denaro. I contatti con le università e i centri di ricerca li manteniamo per posta, e prima di avere da loro un segno passa talmente tanto tempo che quasi ci dimentichiamo qual era stata la domanda. Accettiamo quindi con gratitudine ogni dimostrazione di interesse, anche casuale. Suo cognato è una persona onesta ed efficiente, ma fa fatica a seguire le nostre spiegazioni. Più tentiamo di chiarirgli cosa stiamo cercando, più lui confonde le date, e non in termini di migliaia, ma di milioni di anni. E in fondo la datazione è il fulcro di questa ricerca, tutto ciò per cui la nostra spedizione lavora. È dalla datazione che si determina l'importanza delle rocce e delle pietre che avvolgono o imprigionano i fossili, ed è in questo campo che la geologia può dare il suo contributo, senza il quale sarebbe impossibile determinare da un punto di vista evolutivo quale specie sia sopravvissuta e per quale ragione, quale si sia estinta e per quale ragione, che prezzo abbia pagato la specie rimasta in vita e chi ha tratto vantaggio da quella estinta. 
Daniela rivolge un piacevole sorriso a quel giovane entusiasta, per il quale l'inglese è quasi una lingua madre, e che, ancor prima che la gigantesca frittata che borbotta in padella abbia terminato di avvolgere e di imprigionare le verdure e la carne, si affretta ad appoggiare sul tavolo, come antipasto, un frammento di roccia destinato a dimostrare le sue parole. 
Adesso, nella luce sempre più intensa del giorno, si viene a sapere che i due giovani — Absalom Wilkazy e Sifou Soumana — sono studenti di un master all'università di Durban e Daniela ascolta le loro spiegazioni con gratitudine e pazienza, con la serena maturità di una donna che di lì a tre anni ne compirà sessanta ma che non è preoccupata per la propria età perché è certa della fedeltà del marito. 
 
 
Anche nella grigia mattina di un sabato invernale i bambini si svegliano presto. Yaari sente i passettini leggeri di sua nipote che si avvicina al divano per controllare se il nonno non sia stato sostituito durante la notte da una subappaltatrice. Non si accontenta però di vedere la punta della testa che conosce bene appoggiata al cuscino: solleva leggermente la coperta, e si accerta che anche il corpo gli appartenga. Lo fa piano, con cautela, trattenendo probabilmente a stento una risata. Yaari stringe forte le palpebre e tiene la testa girata verso la parete, curioso di vedere come Neta affronterà la situazione. Dapprima lei cerca di tirargli un po' i capelli ma quando non nota nessuna reazione gli solletica la nuca e pare che rimanga indecisa tra il desiderio di svegliare il nonno e la repulsione verso un contatto diretto con il corpo di un vecchio col quale non ha nessuna intimità. Yaari continua a rimanere immobile, non batte ciglio. — Lo so nonno che non stai dormendo, — si sente sussurrare dolcemente nell'orecchio, ma, col viso rivolto alla parete, insiste a non reagire. Dopo una breve esitazione Neta si arrampica sul divano, scavalca il corpo di Yaari a piedi nudi, e si infila tra lui e la parete, cercando di aprirgli le palpebre con la manina decisa. — Lo so che non dormi, — ripete. 
Yaari apre gli occhi. — Ecco, vedi, — proclama lei in tono trionfale, — lo sapevo che non dormivi — . E a quel punto, senza dire una parola, con un ampio gesto del braccio Yaari solleva la coperta e avvolge la piccola di cinque anni, fedele copia di sua madre, sotto la sua ala protettrice. Le parla guardandola direttamente negli occhi azzurri, nei quali brilla una risata, e pretende una spiegazione. — Perché hai pianto ieri sera dopo che la mamma è uscita? Lo sai che io so prendermi cura di te quanto nonna Daniela. Allora dimmi: perché piangevi tanto? Volevi farmi diventare matto? 
La bambina ascolta con profonda attenzione ma non sembra che abbia voglia di rispondergli. La risata nei suoi occhi si spegne e, ancora stretta fra le braccia del nonno, cerca di distogliere lo sguardo che vorrebbe frugarle dentro. Essendo la primogenita è sempre stata trattata come una principessa. Fin dai suoi primi anni di vita è abituata a infilarsi nel letto di Yaari e di Daniela, a stendersi fra loro e chiacchierare del più e del meno. Ma adesso, al posto di una nonna benevola e indulgente, all'altro lato del letto ha solo una parete liscia e muta e sembra che cominci a sentirsi un po' a disagio accanto a un nonno che insiste a volere una spiegazione del suo pianto drammatico. 
— Ti ricordi che ti sostenevi la testa con la mano come se stesse per caderti? 
Neta strizza gli occhi per lo sforzo, poi conferma di ricordare con un leggero cenno di assenso. 
— E ti ricordi — insiste Yaari — che hai frignato per metà notte e ripetuto, Mammina, dove sei? Perché sei andata via? Ti ricordi? 
La bambina annuisce piano, sbalordita o spaventata dal nonno che le rifà il verso. 
— Perché? Cosa c'era che non andava? Non ti bastavo io? Dimmelo Neta, tesoro, lo sai quanto ti voglio bene. 
Lei ascolta, attenta, poi si alza, e con una rapidità felina butta indietro la coperta e scende giù dal divano. Ma Yaari l'afferra per un braccio. 
— Se vuoi così bene alla mamma, perché la mattina svegli me e non lei? 
Gli occhi della piccola si spalancano in un'offesa meravigliata. Yaari si accorge di avere esagerato con i rimproveri scherzosi e che la nipotina è sul punto di rimettersi a piangere, perciò, prima che scappi via verso la porta chiusa della camera dei genitori, le sorride bonario e indica il fratellino spuntato in quel momento dalla camera dei bambini, che già batte le palpebre ostili verso la luce e si arrampica con naturalezza sul seggiolone accanto al tavolo da pranzo con la grossa testa scarmigliata e gli occhi rossi. 
— Ecco qui anche Nadi, — dice per calmare l'offesa della bimba. — Subito dopo che tu hai smesso di piangere e ti sei addormentata ha cominciato lui a fare i capricci. 
Ti ricordi, Nadi, quanti capricci hai fatto ieri notte? 
Il bambino annuisce. 
— Ti ricordi di aver preso a calci la porta? 
Il piccolo lancia un'occhiata in quella direzione. 
— Cosa ti ha fatto per picchiarla tanto forte? 
Nadi cerca di riflettere su cosa gli abbia fatto la porta, ma la sorella lo dispensa da una risposta. 
— Lui prende sempre a calci la porta quando la mamma va via. 
Yaari si sente sollevato. 
— E non ti fa male il piede? 
Nadi osserva serio il piedino scalzo. 
— Sì, — mormora. 
— E allora è il caso di dare calci alla porta? 
Il piccolo non ha una risposta, ma sul suo viso compare ancora una volta un'espressione che ricorda a Yaari Eyal da bambino. 
— Allora adesso ditemi, bambini, — esclama cercando di trovare una spiegazione al mistero, — vero che avete pianto e avete fatto tutte quelle scene perché avete nostalgia del papà che è militare? 
La sua proposta viene accolta immediatamente da Neta, che in ogni caso è ansiosa di compiacere il nonno, ma Nadi aggrotta la fronte come se si chiedesse se sia quella la risposta giusta o se non ce ne sia una più profonda. 
— Quindi oggi, se farete i bravi, vi porteremo a trovare papà, e ora andiamo a mangiare i cereali. 
così Yaari versa dei fiocchi gialli in due scodelle di plastica decorate, sommergendoli con una quantità di latte corrispondente alle richieste di ognuno dei piccoli. 
 
 
Daniela prende forchetta e coltello e comincia a mangiare la frittata che le verdure e la carne hanno colorato di rosso, mentre osserva la pietra di basalto nero posata tra il suo piatto e la tazza di caffè. È una pietra ricca di significato, sulla quale poggia il peso della storia, utile per spiegare alla cortese ascoltatrice come sia possibile sapere non solo quando l'Australopithecus boisei, cioè la «macchina divoratrice», si discostò dal percorso evolutivo che condusse dallo scimpanzé all'Homo sapiens, ma se è anche vera la supposizione — comunemente accettata — che, da un punto di vista evolutivo, quel primate aveva imboccato una strada senza uscita. 
Quando infatti si rinvengono reperti di animali o di creature dalle caratteristiche umane — un dente del giudizio, la giuntura di un braccio, un dito — fusi in rocce antichissime, i ricercatori devono conservare con estrema cura quelle rocce, soprattutto quella che li racchiude fossilizzati, perché in essa sono raccolte le preziose informazioni che soltanto un geologo è in grado di decifrare, non solo per quanto attiene la datazione, che si rivela grazie ad analisi della radioattività, ma anche per quanto riguarda la domanda se quella roccia è uno strato casuale in cui una parte della creatura preistorica è rimasta imprigionata o se è uno strumento cadutole di mano. Infatti se un preistorico «schiacciatore di noci» sapeva di poter schiacciare le sue noci con quel sasso, allora va posizionato a un differente gradino della scala umana. In casi come questi i paleontologi dipendono dunque dall'occhio professionale del geologo, addestrato a riconoscere se un semplice sasso come quello poggiato sul tavolo ad esempio, che a giudizio dei due ricercatori è vecchio di un milione e seicentomila anni, porta dentro di sé un feto. E due professionisti sono meglio di uno. 
— Un feto? — Daniela è talmente sbalordita che la forchetta le cade di mano. 
— In senso metaforico, — la tranquillizza il secondo geologo, Sifou Soumana, che finora è rimasto in silenzio intento a mangiare quel che resta della gigantesca frittata direttamente dalla padella. 
— In altre parole, — conferma Absalom Wilkazy, — occorre stabilire se si tratta di un semplice sasso o se invece è uno strumento, un arnese nelle mani di qualche Australopithecus boisei, lo spirito del quale, anche se è stato estromesso dalla catena evolutiva lungo il cammino verso la grande meta della creazione dell'uomo, non è svanito, ma continua a sussistere. 
— Il suo spirito? — sussurra Daniela. 
— Forse, signora, lei ha dimenticato — dice il geologo sudafricano in tono di vittoria — che due milioni e mezzo di anni fa l'Africa era unita all'Asia e all'Europa. Non c'erano mari o oceani a separare i continenti. Il nostro Australopithecus boisei, il grosso primate africano del quale cerchiamo le tracce, preoccupato del proprio futuro in questo continente, vagò a piedi dall'Africa all'Europa contribuendo con i suoi geni di bulimica «macchina divoratrice» alla civiltà che si sviluppò lassù. 
Daniela guarda il geologo per vedere se nei suoi occhi vi sia il barlume di un sorriso. 
— Adesso lei mi sta prendendo in giro. 
— Perché? — Il ragazzo fa l'ingenuo malgrado trattenga a stento un sorriso malizioso. 
La sua giovane età, nella luce del mattino, confonde Daniela e risveglia la sua simpatia. Il suo inglese è naturale, fluido, nonostante con i suoi genitori conversi probabilmente in lingua zulu, o sesotho. Non c'è dubbio, pensa lei, l'abolizione dell'apartheid ha permesso a questo ragazzo di rialzare la testa e ora, sicuro che per la gente come lui ci sia speranza, cerca, da una posizione di parità, di punzecchiare l'Europa sazia e prospera. E all'improvviso si sente sopraffare da un senso di pena per Moran, soldato agli arresti, che non comprende che il conflitto che avvelena la sua patria mina anche la sua identità e lo porta a chinare la testa. E nel filo dei suoi pensieri al figlio si uniscono Nofar ed Efrat e Neta e Nadav, e anche i suoi ex studenti, e gli alunni dai quali farà ritorno al termine delle vacanze di Hanukkah. Eccoli lì, davanti ai suoi occhi, nella sua mente, seduti in una classe con le pareti tappezzate di citazioni, proclami e ritagli di giornali. E fra loro nota con dolore la sagoma di suo nipote, sceso da Gerusalemme a Tel Aviv e mescolatosi ai suoi studenti per esigere anche per sé una parte delle lacrime che ora le velano la vista. 
Avvertendo la tristezza che a un tratto ha assalito la donna bianca, più anziana di sua madre, Absalom Wilkazy teme che lei abbia interpretato le sue facezie sulle peregrinazioni del primate preistorico come un insulto alla sua intelligenza. Si permette allora di posarle delicatamente una mano sulla spalla, come fa con sua madre. — Stavo solo scherzando, — dice, — mi dispiace. 
 
 
— Sei lì da noi? — Moran è strabiliato quando suo padre alza la cornetta. — È successo qualcosa? 
Yaari lo ragguaglia brevemente sulla sua proposta di offrirsi volontario come babysitter, e con molto tatto gli risparmia il resoconto delle scenate notturne dei bambini. 
— Ma a che festa è andata Efrat? 
— Non gliel'ho chiesto e lei non me l'ha detto. Mi sono solo preoccupato che questa volta si portasse appresso il cellulare perché mi fa innervosire quando se ne va in giro senza. 
— E allora perché sei rimasto fino a questa mattina? Ti sei addormentato e non ti sei accorto che Efrat era tornata? Oppure non è ancora rientrata? 
— No, no, ma che dici? Che idea! È qui che dorme. È tornata a mezzanotte passata e mi ha supplicato di non mettermi in strada a quell'ora... ha aperto tanto in fretta il divano letto che mi sono arreso. 
— Anche tu ti lasci abbindolare dalle sue suppliche minacciose? 
— Perché minacciose? 
— Non importa. 
— Perché non importa? 
— Lascia perdere, papà... non importa... va' avanti. Yaari percepisce la delusione del figlio verso se stesso, sua moglie e forse anche verso di lui. 
— Che ti succede, Moran? — mormora. 
Succede che ne ha piene le scatole. Quella punizione idiota in nome dello spirito di corpo ormai gli dà sui nervi. È vero, all'inizio era contento di quel distacco dal mondo, da Efrat, dai bambini, dall'ufficio, e perché no, anche dal suo esigente padre. Era piacevole schiacciare un pisolino a metà mattina, o prima di cena, senza dover rendere conto a nessuno. Ma nelle ultime due notti ha ormai perso completamente la pazienza. Quella notte si era rigirato sulla sua fetente branda militare con il cervello pieno di stupidaggini, come ad esempio in che modo salvare la sua regina bianca dai cavalli neri di quell'ufficiale del cavolo... 
— Ahah, — ridacchia Yaari, — adesso il tipo dai capelli rossi ti ha reclutato per giocare a scacchi? 
— Dopo che ho cominciato a batterlo a backgammon. 
— Un attimo, Moran, vuoi dire qualcosa ai bambini? Sono qui con me in cucina, stanno mangiando i cereali e mi guardano. 
— No, papà, non adesso, non ho tempo, li vedrò comunque tra poco. Fammi solo un favore: va' da Efrat e buttala giù dal letto. Se non si darà una mossa non farà in tempo ad arrivare. Siamo alloggiati in una base di reclute e gli orari di visita sono molto rigidi. Fino a mezzogiorno, non oltre. Mettile fretta perché parta un po' presto per una volta in vita sua. Il viaggio non sarà facile. Qui diluvia già da qualche ora. 
— A Tel Aviv invece sembra primavera: il cielo è azzurro da un orizzonte all'altro. Lo stato di Israele non è poi così piccolo come si pensa. Ascolta, ho un'idea, li porterò io da te, con la mia macchina... sarà più sicuro in tutti i sensi. 
— Ma avrai la pazienza di sopportarci ancora dopo una notte insonne sul divano? 
— Non fa niente: in fondo alle tre il divano si è tramutato in letto. 
Nonostante il permesso ricevuto dal figlio, Yaari non si sogna neppure di entrare in camera della nuora ma si accontenta di bussare forte alla porta; e quando si convince che lei ha ripreso coscienza di sé le comunica in tono spiccio e severo le istruzioni del marito. 
— Oh, Amotz, sarebbe meraviglioso se ci portassi tu, — esclama Efrat. 
— E ancor più meraviglioso se ti alzassi. 
Pure i nipotini sono soddisfatti che non sia la mamma a portarli dal padre ma il nonno, in un'automobile grande, e quindi indossano senza discutere gli abiti che la madre ha scelto per loro e come due orsacchiotti, infagottati nei giacconi caldi, accettano con gioia di aiutare Yaari a trasferire i sedili di sicurezza da un'auto all'altra e lo istruiscono su come allacciare le cinture. Nel frattempo Efrat dimostra che, se vuole, sa essere efficiente e veloce anche di mattina presto. Sbuccia verdure e prepara panini con l'hummus, mette in una grossa borsa frigo arance e bibite al cioccolato e quando scende pallida e senza trucco, con scarpe da ginnastica informi, un paio di jeans sbiaditi e un vecchio e grande giubbotto militare che le nasconde il fisico e sembra renderla volutamente goffa, a Yaari pare per un momento che voglia punire se stessa per mostrarsi solidale con il marito. 
Anche nella mattina di un sabato invernale la superstrada litoranea è trafficata, contrariamente a ogni logica, ed è impossibile sapere se siano i bambini a spingere i genitori a mettersi in viaggio o se siano questi ultimi, per un senso di colpa verso i figli, a cercare divertimenti e shopping nel giorno di riposo. Appena fuori Tel Aviv, alla pioggia di cui Moran aveva parlato, si unisce un forte vento orientale che scuote la macchina al punto che Yaari è costretto a impugnare il volante con entrambe le mani. Non avendo portato con sé dei cd per distrarre i bambini dalla noia del viaggio, Efrat cerca di divertirli col gioco dei contrari, che sembra conoscere molto bene, o almeno questa è l'impressione di Yaari. Sua nuora snocciola senza sforzo e rapidamente nomi e aggettivi, convinta che per ogni parola i suoi figli debbano conoscerne il contrario. 
Così l'automobile avanza verso nord tra giorno e notte, caldo e freddo, asciutto e bagnato, estate e inverno, intelligente e stupido, alto e basso, soffitto e pavimento, contento e triste, pulito e sporco, dritto e storto, marito e moglie, sole e luna, porta e muro, morto e vivo. E dato che Neta è ormai esperta del gioco, sciorina le parole giuste ancor prima che il fratellino tenti soltanto di pronunciarle. La madre e il nonno cercano di arginare quel torrente in piena per dare anche al piccolo la possibilità di rispondere, ma lei non riesce a tenere a freno l'entusiasmo ed Efrat, probabilmente, non intende negarle questo piacere. 
Nello specchietto retrovisore Yaari nota la rabbia crescente del piccolo che, se potesse liberarsi dalle cinture che lo legano, prenderebbe a calci la portiera dell'auto. 
— Basta con questo gioco, — intima. — Ancora un po' e Nadi esplode. 
Dopo lo svincolo di Cesarea il traffico si fa più intenso. È il primo giorno di visita per i genitori delle reclute e intere famiglie si affrettano a raggiungere la base per portare provviste ai figli e soddisfare tutti i loro bisogni. La pioggia è cessata ma lo spiazzo davanti al cancello della base è punteggiato di pozzanghere fra le quali sono stati sistemati barbecue, tavolini da picnic pieghevoli, sedie, e qua e là sono state erette tettoie a protezione della pioggia che forse ricomincerà a cadere. Fra i barbecue e le borse frigo che colorano la spianata di allegre macchie arancioni, blu e verdi, girano israeliani di tutti i tipi: anziani residenti di lunga data, immigrati vecchi e nuovi, russi, etiopi. Genitori adoranti sono seduti davanti a reclute con le uniformi nuove intente a divorare cotolette, bistecche e insalate, come se durante quel primo mese di ferma il loro appetito fosse aumentato. Ma dov'è Moran? 
Efrat rimane ad aspettare in macchina con Neta mentre Yaari esce con Nadi in braccio in direzione del cancello della base, gira intorno alla garitta, osserva l'alto soldato di guardia, sbircia dentro la base, ma fra le reclute che vanno e vengono non c'è alcuna traccia del soldato arrestato per aver mostrato disprezzo verso lo spirito di corpo della sua unità e che difende la sua regina bianca dai cavalli neri. Poi, improvvisamente, qualcuno afferra Yaari da dietro, gli strappa di braccio il bambino e lo fa volare in aria. 
Moran ha la barba lunga, gli occhi rossi, e indossa una vecchia uniforme da lavoro. — Papà, — balbetta Nadi a mezz'aria con gioia indicibile, — sei vivo? 
 
 
Yirmiyahu osserva stupito Daniela, che seduta in un cono di luce davanti alle stoviglie sporche della prima colazione ascolta con infinita pazienza il geologo che in suo onore ha spezzato il fossile e ora cerca di spiegarle grazie a quei frammenti la storia del tempo. 
— Bravissima, — la elogia, — vedo che anche i giovani approfittano della tua pazienza. Non fa niente se non capisci le loro spiegazioni, l'importante è che li ascolti. Aspetta, aspetta, tra poco scenderanno pure gli altri e ti monopolizzeranno per tutta la giornata per un ciclo di conferenze. Intanto io e Sijin Kuang porteremo la malata in una clinica poco lontana da qui. Torneremo nel pomeriggio. 
— C'è una clinica nei dintorni? 
— Non è proprio una clinica. È una specie di sanatorio. 
— Nel vero senso della parola? 
— Non proprio, — ride Yirmiyahu. — Sembra piuttosto una pensione per convalescenti, un luogo di cura per chi vuole staccarsi dal mondo e starsene in mezzo alla natura africana a buon mercato e senza i fastidi della civiltà moderna. Non è esattamente un sanatorio delle Alpi svizzere, ma funziona secondo gli stessi principi. — Ci sarà posto anche per me? 
— Dove?  
— In macchina con voi. 
— Perché no? Ma come al solito dovrai stare seduta dietro, e questa volta starai ancora più stretta perché avrai accanto la malata. Però non aver paura. La malaria non è contagiosa. Non è trasmessa da virus o da microbi ma da un parassita, e la zanzara che l'ha inoculato nel sangue di Zohara al Ouqbi — è sempre una zanzara femmina, mai un maschio — ormai ha tirato le cuoia. 
— Se sei convinto che io non corra nessun rischio allora vengo con voi. Ripartirò fra due giorni e voglio farmi finalmente un'idea del posto dove sei andato a ficcarti. 
Si scusa con i giovani della pausa che si concede, sperando in cuor suo che le capiti l'occasione di osservare lungo la strada qualche altro stupefacente fenomeno genetico. Poi esce dalla cucina mentre Sijin Kuang già fa rombare il motore del veicolo. Ma prima di accomodarsi sul sedile posteriore, come di consueto, le si avvicina per salutarla, e nel vederne l'espressione triste del viso sente aumentare la sua simpatia per quella delicata animista, così si china verso di lei e le sfiora la guancia con un bacio. Sorpresa da quel gesto inatteso, Sijin Kuang posa una mano leggera come l'ala di un uccello sui capelli dal taglio giovanile della donna anziana e dice: — Sono contenta che lei venga con noi. 
Anche la giovane nordafricana, scossa da brividi di febbre, è felice della passeggera che le si stringe al fianco e le tende cordialmente una mano che scotta da sotto la coperta che l'avvolge. — Ahalan wa sahalan, madame, — sussurra, — sono contenta che pure lei mi accompagni. 
La Land Rover si avvia verso sud, una nuova direzione per Daniela: la pista sterrata scorre talmente liscia che il ronzio delle ruote le provoca torpore, nonostante sia ancora mattina. E siccome non può porre domande a quella paleontologa che brucia di febbre sulla sua professione e sul suo ruolo nel contesto della spedizione, e aspettarsi risposte sensate, Daniela preferisce unirsi a lei, chiudere gli occhi e crogiolarsi nel sole che li accompagna. 
Il viaggio non è lungo, dura poco meno di un'ora, e quando il veicolo arriva a destinazione l'ospite israeliana sente che malgrado la zanzara portatrice della malattia sia ormai morta, nel suo sangue deve essersi comunque insinuato un qualche parassita indolente, che le annebbia i sensi. Vede il cognato aprire la portiera posteriore, sollevare la giovane araba fra le braccia, adagiarla cautamente su una barella portata da un infermiere, coprirla e scortarla dentro l'edificio, e anche lei vorrebbe all'improvviso godere dello stesso trattamento. Ma non essendoci nessuno nei paraggi che possa indovinare il suo desiderio, rimane ferma al suo posto in attesa del sostegno della mano di Sijin Kuang. 
Anche quell'edificio in passato era stato una fattoria coloniale, e l'esterno appare identico a quello da cui sono partiti. L'interno però è molto diverso. Ad accoglierli non c'è una cucina gigantesca con acquai e fornelli ma la piccola hall di un albergo, con un banco della reception in legno scuro che in passato serviva probabilmente da bar. Poltrone di pelle nera sono sistemate a semicerchio davanti a una grande finestra affacciata verso un orizzonte talmente lontano da rendere opaca persino la luce intensa del sole di mezzogiorno. 
L'ascensore mancante nella fattoria della spedizione scientifica, il cui vano sferico è rimasto vuoto, qui invece è occupato da una cabina che va su e giù con un mormorio antico e gradevole, in un vano identico e gemello. La porta della cabina si apre e da dietro spunta un medico indiano dall'espressione cordiale, giunto ad accogliere la malata di malaria che non è arrivata qui per concludere la vita, ma per rimettersi in forze. Mentre lui fa una prima conoscenza della paziente, Yirmiyahu fa notare a Daniela che i dipendenti di alto grado della clinica non sono africani, bensì indiani. Gli europei, infatti, specialmente gli anziani inglesi del ceto medio, hanno grande fiducia nelle capacità degli indiani di fornire ottime cure, sia su un piano fisico che spirituale, a chi vuol godere di qualche agio prima di morire. 
Dalla grande finestra si nota a poca distanza un laghetto intorno al quale passeggiano degli animali selvatici, che i dipendenti della clinica si preoccupano di salvaguardare perché con la loro bellezza e pazienza siano di conforto a chi si spegne lentamente. Nel frattempo, finché non sarà approntata una camera, viene somministrato alla malata un brodo di pollo, sempre pronto tra bottiglie di whiskey e di gin. 
Sijin Kuang conversa sottovoce in arabo con Zohara e i brividi di febbre che la scuotono si placano un po' grazie al brodo caldo. Yirmiyahu, comodamente sprofondato in una poltrona di pelle, continua a spiegare la peculiarità di quella clinica alla cognata nel cui sangue il parassita letargico sembra invece essere molto attivo. 
— Malgrado l'edificio appaia modesto, e non vi siano molte camere, non si potrebbe definire questo posto propriamente una clinica. Non si tratta nemmeno di una pensione. È piuttosto un sanatorio, una casa di cura dove i pazienti sono seguiti da personale medico e da psicologi. E se la fama di case di cura come questa nel mondo è dovuta alle bellezze naturali che le circondano — cime di monti innevate o laghi nascosti — , ecco che pure qui la natura ha una sua peculiarità, conserva un aspetto primordiale, e ci sono animali selvatici in abbondanza e che non temono gli esseri umani. 
Ma la vera prova del nove per istituti di questo tipo sta nel livello dei servizi che propongono ai pazienti che si fanno ricoverare di propria iniziativa e rimangono tutto il tempo che desiderano. E non c'è da sbagliarsi: questo posto, nonostante il suo aspetto e la posizione isolata, supera con molto onore il test dell'efficienza e si distingue anche per i suoi costi contenuti. Perché, chi arriva qui? Di solito anziani soli, non propriamente benestanti, che non possono più contare sul supporto di parenti e amici. Vedovi e vedove i cui figli si sono allontanati, o che non hanno figli, o li hanno persi in circostanze tragiche. Ma specialmente uomini che per tutta la vita hanno servito altri e ora possono ricevere a loro volta un servizio a costi accessibili, e godere della compagnia di ragazzi o ragazze che rimangono seduti accanto al loro letto per tutta la notte a stringergli la mano nel caso facciano un brutto sogno; non solo inservienti che puliscono e riordinano le camere ma anche qualcuno che canti, o balli a richiesta, o persino una vecchia nonna seduta in un angolo che lavora a maglia mentre un piccolo negretto cammina carponi ai suoi piedi. 
A un primo sguardo può sembrare un luogo tranquillo, magari anche un po' trascurato, ma proprio questo può essere un vantaggio. In fin dei conti è molto discreto. A distanza di mezzo chilometro da qui c'è un piccolo villaggio i cui abitanti sono tutti potenziali inservienti della clinica: uomini e donne, ragazzi, ragazze e bambini, che vengono chiamati per esercitare varie mansioni, così che l'ospite che vuole affidare il suo corpo, e forse anche l'anima, alla cura di altri, può godere di servizi che in passato erano riservati esclusivamente a principi e nobili. E proprio perché la maggior parte del personale non capisce la lingua delle persone che accudisce, gli ospiti hanno un miglior controllo sui limiti della propria intimità. Sì, a costi irrisori, come di consueto in questa zona, ci sono persone disposte a soddisfare ogni genere di fantasie e capricci e a fornire un servizio a confronto del quale la cura dei filippini del padre di Amotz sembra lacunosa e noiosa; e la gente del luogo è ansiosa di essere assoldata dai bianchi ed è disposta a essere chiamata qui persino in piena notte. Volendo, i loro servizi si potrebbero quasi definire un ritorno alla schiavitù, ma fatto per scelta. 
— E a te sembra giusto? 
— Che c'è di male se entrambe le parti sono soddisfatte? Daniela osserva con aria ostile quell'uomo robusto che quasi scompare nella poltrona di pelle logora. 
— E tu ti sentiresti a tuo agio qui? 
— Forse. Dopo che la spedizione avrà concluso il suo progetto magari potrei davvero venire qui per un periodo di cura... ma solo a patto che facciano uso di antidolorifici più potenti. 
Un'inserviente indiana arriva per accompagnare la paziente nella sua camera, ma Zohara esita a congedarsi e chiede a Sijin Kuang di andare con lei. I due israeliani si alzano in piedi, e Yirmiyahu promette a Zohara che di lì a dieci giorni torneranno a prenderla. 
— E lei, madame? — chiede l'araba all'ospite israeliana. — Sarà ancora qui quando sarò guarita? 
— No, — risponde Daniela, — non sarò più in Africa. Le vacanze della scuola dove insegno finiscono tra un paio di giorni; forse i miei alunni non sentono troppo la mia mancanza ma spero che mio marito, i miei figli e i miei nipoti mi rivogliano indietro. 
— Allora torni ancora in Africa, madame, — sussurra la giovane. 
 
Già da lontano Neta scorge l'espressione trionfale di Nadi al di sopra delle teste della gente. — Papà, papà, — urla, — ci sono anch'io — . Scende dall'auto e si fa strada, agile e veloce, tra i barbecue e le borse frigo. Moran l'abbraccia, la bacia con affetto e poiché anche lei pretende un posto sulle sue spalle, e suo fratello non rinuncia alla posizione conquistata, il soldato agli arresti si carica i due figlioletti e si avvia verso l'automobile seguito dal padre e con i bambini aggrappati ai capelli. —  Va a finire che rimarrai con la schiena bloccata, — lo avverte Yaari. 
Efrat, seduta in macchina, parla al cellulare e non si scompone nemmeno quando il marito, posati a terra i figli, apre la portiera. — Con chi stai parlando? — domanda lui. — Con mia sorella, — risponde lei spazientita, senza guardarlo. — Proprio adesso? — si innervosisce Moran. — Sì, proprio adesso. — Non vi siete parlate abbastanza? — si infuria lui. Ma Efrat, senza rispondergli, gli volta le spalle. Moran allora le strappa di mano il cellulare. — Basta, stai esagerando, — dice. 
Per distrarre i bambini dai genitori, il nonno li trascina al bagagliaio dell'auto perché lo aiutino a scaricare i sandwich, le verdure e le arance, e a sistemare il tutto su una vecchia tovaglia cerata. Da tempo Daniela cerca di capire cosa ci sia che di tanto in tanto non va nel matrimonio del figlio, ma lei adesso è lontana, in Africa, e Yaari deve cavarsela da solo con quell'esplosione di astio. 
Una sera, nell'ufficio quasi vuoto, in un raro momento di confidenza, Moran aveva ammesso che la bellezza di sua moglie non era per lui solo una fonte di orgoglio, ma anche un peso. Gli uomini notavano Efrat e lui si sentiva infastidito al pensiero che passanti casuali potessero lasciarsi trascinare in fantasie erotiche su di lei che magari coinvolgevano anche suo marito, contro il quale potevano tramare chissà che. E anche se lui non seguiva tutti i suoi spostamenti e non sospettava della moglie, aveva talvolta l'impressione che la sua avvenenza allontanasse pure i loro più cari amici. 
Ora Efrat è seduta imbronciata in macchina, infagottata in un vecchio giubbotto che le nasconde completamente il corpo. Sul viso dall'espressione acida e senza trucco spiccano qua e là alcuni orrendi brufoli. Sembra voglia imbruttirsi di proposito davanti al marito per allontanare da sé possibili sospetti, o recriminazioni, pensa Yaari. 
— No, Amotz, non ho fame, — dice lei rifiutando il panino, — mangialo tu. 
— Nemmeno io ho fame, — decreta Moran rifiutando lo stesso panino. —  Mangialo tu, papà. 
L'uniforme di Moran emana un lezzo di lubrificante per armi, un tipico odore israeliano immancabilmente accompagnato da un senso di angoscia. È infatti quello del primo contatto con l'esercito, del periodo degli addestramenti, che non si dimentica nemmeno dopo quarant'anni. — Cos'è? — Yaari tende una mano a toccare il folto velo di barba sulla faccia del figlio. — Il tizio coi capelli rossi non ti obbliga a raderti prima di sederti a giocare con lui? — Moran si ritrae. — Guardati tu, —  risponde punzecchiando il padre. — Neanche tu ti sei fatto la barba questa mattina. 
La mamma non c'è e tu vuoi avere un aspetto sexy? 
— Sexy? — si offende Yaari. 
— Sexy come Arafat, — dice Efrat con cattiveria, rivolta al marito. 
I bambini, non ancora sazi del padre, si stringono a lui, gli si aggrappano. Ma Moran è distratto, scontroso. Il suo pensiero è rivolto alla moglie. Entrambi tacciono, e quel silenzio velenoso già comincia a mostrare i primi segni sull'umore dei bambini, che si mettono a litigare per attirare l'attenzione dei genitori. 
Nadi si avvicina a un barbecue su cui sfrigola della carne alla brace, e Yaari è costretto a bloccarlo. La ressa intorno a loro aumenta. Un fumo bluastro inquina il cielo invernale. Alcune reclute, ormai ben carburate da carne e dolciumi, improvvisano una minipartita di calcio ai margini dello spiazzo, mentre altre camminano abbracciate alle loro ragazze entro il perimetro stabilito dai comandanti. I padri evocano episodi del loro passato militare mentre le madri si scambiano numeri di telefono per poter seguire insieme i figli durante i mesi dell'addestramento. 
Sì, pensa Yaari, questi due sono offesi e arrabbiati l'uno con l'altra, però provano anche attrazione. Ma in questo parcheggio affollato non potranno dare sfogo alla loro stizza e avere così l'occasione di rappacificarsi prima di separarsi di nuovo. Non ha la presunzione di capire come funzioni la vita di coppia del figlio, e non crede nemmeno di poterla approfondire senza Daniela, ma anche lei, che si vanta di saper leggere nell'animo degli altri, a volte prende degli abbagli. Avrebbe mai immaginato, ad esempio, che tra le videocassette di Baby Mozart e Baby Bach se ne nascondesse una porno che Moran ed Efrat, non confidando nella propria passione, guardano per risvegliare l'eccitazione? Tuttavia non le dirà della videocassetta, per non rattristarla. 
Porge le chiavi della macchina a Moran. — Senti, — dice, — qui c'è una confusione tremenda, e magari voi volete starvene un po' da soli. Perché non andate in qualche bar carino della zona? Mi occuperò io dei bambini. Quando sono venuto a cercarti due sere fa alla base mi è sembrato di aver visto un vecchio carro armato che potrebbe tenerli occupati. C'è davvero un vecchio carro armato o me lo sono immaginato? 
— Non mi sembra di averne visto uno, papà, però non ho nemmeno girato molto per la base. Se dici di averlo visto, di sicuro c'è. Tu non sei capace di immaginarti le cose. 
Moran prende le chiavi della macchina dal padre. Efrat è indecisa, ma lui insiste: — Sì, ci meritiamo di starcene un po' da soli. 
Nadi è entusiasta all'idea di arrampicarsi su un vero carro armato ma Neta non vuole separarsi dal padre. — Torniamo subito, — promette lui, — e vi porteremo qualcosa di meglio dei cetrioli e delle carote che ha preparato la mamma — . Poi ripone il cibo nella borsa frigo. 
Yaari stringe forte le mani dei nipotini e attraversa la strada con molta cautela. — I bambini hanno urgente bisogno di andare in bagno, — dice severo alla sentinella superando il cancello con decisione. La giornata dedicata ai genitori ha allentato la disciplina e alcune reclute gironzolano disarmate e senza il berretto d'ordinanza mentre altre hanno addirittura sostituito gli scarponi militari con calzature civili. Qualche madre particolarmente intraprendente è riuscita a intrufolarsi nella base per controllare gli alloggiamenti dei figli. — C'è un vecchio carro armato qui in giro? —  domanda Yaari a chiunque gli capiti davanti, senza però ottenere una risposta chiara. Ma non si dà per vinto. Arriva all'estremità della base. Al di là degli eucalipti si vedono le case del centro abitato di Karkur. Una goccia di pioggia gli cade in testa. Solleva gli occhi al cielo. Le nuvole si pigiano l'una contro l'altra, ma ancora si vedono squarci di azzurro. Di colpo però cominciano a scendere grosse gocce e lui si affretta a raggiungere con i bambini una grande tenda per trovarvi riparo. 
È un dormitorio zeppo di brande ordinate con cura, sulle quali vigila un soldato etiope sdraiato su una di esse. È equipaggiato in modo leggero e il suo fucile, fra le gambe, si muove al ritmo di una musica non ben identificata. 
Yaari chiede il permesso di ripararsi lì finché la pioggia non sarà terminata. Nadi si avvicina alla sentinella e senza paura, ma con un profondo senso di rispetto, accarezza l'otturatore del fucile. 
— Non sei uscito a incontrare i tuoi genitori? — domanda Yaari al ragazzo. 
Lui spiega di non avere famiglia in Israele. Suo padre è morto subito dopo essere arrivato nella terra promessa e sua madre, che avrebbe dovuto raggiungerli, si è risposata ed è rimasta ad Addis Abeba. 
Yaari gli domanda se ha nostalgia dell'Africa. 
Della mamma e dell'Africa, spiega il soldato: le due sono diventate un'unica cosa per lui, e non è in grado di separarle. 
 
 
Sijin Kuang tarda a scendere nella hall della casa di cura. Il sole di mezzogiorno, il cui intenso calore si riversa dalla finestra, quasi addormenta i due parenti sprofondati nella pelle frusta delle poltrone, che ricordano due ippopotami. Dietro il banco della reception un africano è seduto davanti al monitor di un vecchio computer e batte sui tasti. Daniela è stupita che da più di un'ora nessun malato né inserviente entri nella hall. Solo il ticchettio della tastiera disturba il grande silenzio. Yirmiyahu chiude gli occhi, sonnecchia, e Daniela ora può osservarlo da vicino e controllare cosa sia cambiato in lui. — È la prima volta che vieni qui? — gli domanda quando apre per un attimo gli occhi arrossati. Ma a quanto pare Yirmy è già stato qui diverse volte ad accompagnare operai del sito degli scavi che non erano riusciti a riprendersi dalla malaria. — E sono guariti? — Non lo so. Abbiamo perso i contatti con loro perché i membri della loro tribù si sono affrettati a tirarli fuori di qui e a sostituirli con altri. L'Unesco non si fa garante della loro salute. 
Yirmiyahu sbadiglia, si stiracchia, si mette una mano sulla fronte. — Mi sembra di avere un po' di febbre, — dice. Daniela gli posa una mano sulla fronte scoperta e si tocca la sua con l'altra. — Credo di averla io la febbre, non tu, — risponde. — Ma dimmi, — prosegue, — perché non si vede nessuno qui? Né malati né inservienti — . Yirmiyahu si stringe nelle spalle: non ha una risposta. — Forse stanno pranzando, o magari dormono. — Tu credi che ci sia un bar dove possa trovare qualcosa di dolce? 
— domanda ancora lei. 
Negli occhi dell'uomo si accende un sorriso ironico. 
— No, Daniela, — risponde con un leggero sbadiglio, — non credo che qui ci sia un chiosco per te. 
— Non avevo dubbi. 
L'ascensore si mette in moto con un fruscio, e quando la cabina ridiscende porta con sé l'aristocratica Sijin Kuang che non invita i suoi passeggeri a ripartire ma chiede a Yirmy di salire ad aiutarla a tranquillizzare Zohara al Ouqbi, che si rifiuta di restare. Mentre si recavano in camera sono passati davanti a stanze di malati terminali e la giovane araba si è lasciata prendere dal panico e ha preteso che la si riportasse alla fattoria. 
Yirmiyahu sospira, si alza e segue l'infermiera mentre Daniela, immaginando che l'opera di persuasione non sarà breve, si avvicina all'impiegato della reception per domandare se per caso ha un dolcetto, o una caramella, per alleviare il sapore amaro che ha in bocca. L'uomo si scusa di non avere niente da offrirle, ma non appena avrà terminato il lavoro di battitura cercherà di trovare qualcosa per lei. Daniela guarda i fogli accanto al computer e gli domanda se non abbia niente da leggere, anche un opuscolo del posto, magari con qualche fotografia. A quanto pare però l'istituto non ha bisogno di pubblicità e i fogli impilati sono rapporti di malattie e relative terapie da riportare sull'hard disk per le future generazioni. Ma all'impiegato sembra di ricordare che uno dei pazienti si è lasciato dietro un libro in inglese, che forse potrà interessare l'ospite. Salirà subito a cercarlo, anche se può darsi che sia solo un libro di preghiere. 
A dire il vero non è che a Daniela interessi un libro di preghiere, ma se è in inglese, gli darà un'occhiata. 
Intanto cerca di mettersi più comoda. Gira la poltrona-ippopotamo lasciata libera da Yirmiyahu e l'accosta alla sua, si toglie scarpe e calze e appoggia i piedi nudi sulla pelle frusta e ruvida. Chiude gli occhi e lascia che il sole di mezzogiorno l'accarezzi attraverso la finestra priva di tende. Il ticchettio della tastiera si interrompe. Daniela percepisce un fruscio di fogli, un cassetto che si chiude e una sedia che viene spostata. Ora che è completamente sola si sente avvolgere da un piacevole torpore, come quando è in auto, di sera, accanto al marito, su una strada extraurbana, e lui pigia sull'acceleratore. E quando nel crepuscolo della sua coscienza si insinua il ronzio dell'ascensore, è delusa dal rapido ritorno del cognato per timore che la svegli e la costringa ad abbandonare l'angolino gradevole che si è organizzata. Ma la voce che ora le si rivolge in un inglese perfetto e dall'accento impeccabile non è quella di Yirmiyahu, e nemmeno quella dell'impiegato della reception. Come in un sogno un uomo anziano, con il corpo avvolto da un accappatoio bianco e le braccia tese, le si avvicina. Daniela vede con enorme sorpresa che si tratta dell'anziano inglese, suo vicino di posto durante il volo da Nairobi a Morogoro, che si era vantato di essere il proprietario di una piccola fattoria mentre ora si rivela soltanto come uno dei pazienti della casa di cura. Ha appena saputo che una signora bianca è arrivata qui dalla base dei ricercatori della scimmia preistorica, e indovinando subito di chi si trattasse si è affrettato a scendere per dirle francamente e senza vergogna che non aveva dimenticato il loro breve incontro in aereo. 
 
 
— Ma nonno, non piove più — . Neta tira la mano di Yaari impegnato con il soldato in una conversazione sull'Etiopia. Il ragazzo descrive con gioia gli scenari della sua infanzia e la chiacchierata con quell'uomo anziano gli procura talmente tanto piacere che è disposto a smontare il castello del fucile per mostrarlo al suo nipotino e spiegargli, con l'aiuto di un proiettile, come il pistone, picchiando sul fondello della cartuccia, attizzi la polvere da sparo nel bossolo e spedisca il proiettile di piombo verso il bersaglio. — Pam pam, ti ammazzo e poi ti do un bacio, —  esclama Nadi, riassumendo con molta soddisfazione il processo dello sparo. E dopo aver toccato il proiettile, e averlo rivoltato da tutte le parti, lo fa sparire furtivamente nella tasca del suo giubbotto. Yaari però si affretta a toglierlo di mano al «piccolo assassino». — Sì, bisogna andare, è tardi — . Torna a prendere per mano i nipotini ma prima di allontanarsi non dimentica di chiedere alla recluta se in questa base c'è davvero un vecchio carro armato. 
Aveva ragione Moran, lui non si immagina le cose, né alla luce del giorno né di notte. Dietro le baracche del comando c'è un vecchio tank siriano che è stato piazzato lì dopo la guerra del Kippur, in memoria di un passato eroico. La recluta etiope esce dalla tenda e spiega a Yaari come arrivarci, poi, come per una sorta di ghiribizzo, si china e bacia i piccoli. Nadi gli si aggrappa con affetto ma Neta è spaventatissima. —  Venite, bambini, andiamo a vedere questo carro armato, — dice Yaari, con grave disappunto della nipote, ormai stufa di quella passeggiata militare e ansiosa di tornare dai genitori di cui ha percepito la grande tensione con i suoi sensi sottili. Ma lo spirito virile di Nadi incontra la simpatia del nonno che vuole soddisfare la sua curiosità bellica, e quando si ritrovano davanti all'antiquato carro armato di produzione sovietica, i cui colori mimetici ben si confondono con quelli delle rocce basaltiche delle alture del Golan, accoglie la richiesta del nipote di farlo salire sulla torretta. 
— Solo per un momento Neta, tesoro, diamo un'occhiata e torniamo subito da mamma e papà. Non vuoi vedere cosa c'è dentro? 
Ma Neta, agitata e minuta accanto ai cingoli arrugginiti, non desidera nessun contatto con il tank siriano che anche dopo più di trent'anni le mette paura. Pure l'oscurità che torna a coprire il cielo aumenta il suo disagio. Ma Yaari non cede: fa salire il piccolo entusiasta sullo scafo corazzato del tank, vi si arrampica lui stesso e da lì, con cautela e con grande sforzo, spinge il bambino fino alla tozza torretta dove lui riesce a sollevare esultante il portello di accesso. 
Dentro è buio. Ai suoi tempi Yaari aveva prestato servizio in fanteria e non è esperto di interni di carri armati. A uno sguardo superficiale ha l'impressione che l'esercito sovietico non si sia preoccupato troppo della comodità dei soldati ma solo dello spessore dell'acciaio che li proteggeva. Può notare il colore scuro, verde oliva, delle strumentazioni e due grossi caricatori del cannone color bronzo. Sembra che in un angolo ci siano ancora i resti del cinturone del carrista rimasto ucciso più di trent'anni prima. Nadi vorrebbe entrare nel ventre del tank e toccare la strumentazione, ma Yaari non glielo consente per paura di non essere poi in grado di farlo uscire da lì. Come compromesso, lo mette a testa in giù e con un movimento contrario a quello del parto gli infila la grossa testa attraverso l'apertura della torretta, tenendo stretto a sé il corpo del bambino. — Fammi scendere di più, nonno, — lo incita il piccolo con la testa che svolazza nell'oscurità. — C'è un uomo morto. —  Basta così, — proclama Yaari inorridito dalla sconfinata fantasia del nipote, — hai visto abbastanza, e adesso ce ne andiamo, prima che arrivi qualche ufficiale a sgridarci. — Non è vero, non c'è nessun ufficiale — . Nadi si irrigidisce. — Dici cavolate. 
Yaari ha già notato che questo bambino usa talvolta un linguaggio insolente con la madre e il padre, ma finora è sempre stato attento a come parla col nonno. Lo tira fuori con fermezza dal carro armato e scende rapidamente a terra. — Basta così, Nadi. Hai visto abbastanza. E poi «cavolate» lo dici ai tuoi amichetti dell'asilo, non al nonno che ti vuole tanto bene — . Il piccolo tace, abbassa lo sguardo, arriccia le labbra e osserva ostile il volto del nonno. Neta è ormai sul punto di piangere, tira la mano a Yaari, spazientita, e anche dal cielo comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Se si metterà a piangere, suo fratello la seguirà a ruota e non sarebbe dignitoso riportare ai genitori due bambini in lacrime. 
Quindi, per evitare che i piccoli esplodano in una grossa e lamentosa protesta, sarebbe più saggio tornare al più presto al cancello della base. Prima però Yaari solleva i cappucci delle giacche a vento sulle teste dei nipoti e si ripara la sua, con grande giubilo dei bambini, con il foglio a quadretti che ha trovato in tasca, lo schizzo dell'ascensore d'angolo. 
Ma quando arrivano al cancello rimane sbalordito nel vedere che il caotico incontro con il mondo civile è già stato completamente spazzato via dalla coscienza delle reclute, come per un colpo di bacchetta magica. Lo spiazzo è deserto, tutte le macchine sono sparite, e in giro non sono rimaste né cartacce né bottiglie vuote di acqua minerale. Anche l'auto che ha prestato a suo figlio non c'è, e adesso ricorda di aver lasciato il cellulare infilato nel supporto del vivavoce. 
Un fulmine repentino squarcia il cielo, seguito da un tuono e poi da un altro. I bambini, terrorizzati, si stringono al nonno e il foglio a quadretti gli si sfalda in testa. Senza stare a pensarci due volte, correndo il rischio di ritrovarsi con la schiena bloccata, Yaari solleva i nipotini uno per braccio, corre e li posa nella garitta della sentinella. Un soldato altissimo, equipaggiato come se stesse per partire per la guerra, li osserva severo. Questa volta non è un simpatico etiope ma una recluta russa che osserva accigliato i tre civili arrivati a chiedere rifugio. Magari sua madre è rimasta in Russia e lui è qui solo, pensa Yaari. Non cerca però di attaccare discorso con lui, gli basta notare un cestino di vimini pieno in un angolo. 
— Mamma, mammina, dove sei? Papà, papino, dove sei? — prorompe Neta nel suo lamento, che oggi non è un pianto violento e petulante ma un gemito delicato, pieno di apprensione, che tocca il cuore del nonno. Solleva la nipotina, infinitamente più leggera e delicata del fratello minore, e se la stringe al petto. Il lamento gli si insinua nell'anima: «Mamma, mammina, dove sei? Papà, papino, dove sei?» Come al solito la piccola ripete ostinata quella frase, e più Yaari cerca di tranquillizzarla, più si rende conto della sua angoscia. Non è davvero plausibile che il motore della sua automobile nuova abbia avuto un guasto, quindi rimane soltanto la possibilità che Efrat e Moran siano rimasti coinvolti in un incidente stradale. 
Nella garitta bagnata, a fianco dell'alto soldato russo che scosta con irritazione la manina di Nadi dal suo fucile, la mente pratica dell'ingegnere è impegnata in un lavoro febbrile. Già gli passano per la testa scenari di ogni tipo, da una semplice foratura fino all'automobile ammaccata e schiacciata. Al diavolo, rimprovera se stesso, al diavolo, sii uomo. Te ne stai qui con due bambini piccoli che si fidano di te e non hai il diritto di mostrare segni di cedimento. E se ancora una volta Daniela non ti sarà accanto nel momento in cui arriverà una cattiva notizia, tu non scapperai in Africa né in nessun altro posto al mondo ma rimetterai ordine nel caos in virtù del tuo buonsenso e della tua capacità di gestire le situazioni in modo responsabile. 
Immagini di una terribile disgrazia si sovrappongono crudelmente a soluzioni di tipo pratico. Yaari pensa a come pretenderà che Daniela abbandoni l'insegnamento per dedicarsi ai nipotini; a come affitteranno l'appartamento di Moran, e a quale prezzo; a come l'avvocato del suo studio verificherà le polizze dell'assicurazione sulla vita del figlio e della nuora; a chi si presenterà in tribunale per raggiungere un accordo sulla somma degli indennizzi. Si annota nella mente il nome dell'architetto che progetterà una nuova ala della casa destinata ai bambini, e come convincerà Nofar a farsi nominare loro tutrice dopo che lui e Daniela non ci saranno più. 
Un vento freddo soffia sui suoi capelli bagnati. Le ginocchia gli tremano. Il pensiero terrificante di ciò che potrebbe essere successo non gli concede pace, e le precise soluzioni su cui riflette non riescono a calmarlo. Lo sguardo del soldato russo è puntato sulla manina grassottella di Nadi che continua ad accarezzare nell'aria, con indicibile delicatezza, il fucile mitragliatore poggiato sul treppiede. E il lamento sommesso continua. 
— Mamma, mammina, dove sei? Papà, papino, dove sei? 
— Arriveranno presto, Neta. Vedrai, te lo prometto. Non possono essersi dimenticati di noi. 
E infatti, dopo pochi minuti, dei fari lampeggiano, un clacson strombazza e Moran, che ha scoperto dove è andata a cacciarsi la sua famiglia, attraversa in fretta la strada, entra nella garitta, si lancia sui suoi figli e porta loro e suo padre in salvo nel caldo abitacolo dell'auto. 
— Scusa, papà, scusa. Non abbiamo calcolato bene i tempi. E quando siamo tornati alla macchina abbiamo visto il tuo telefonino e abbiamo capito che non potevi chiamarci. 
Moran ed Efrat hanno i capelli bagnati e sull'informe giubbotto di lei ci sono macchie di fango e pezzetti di foglie. Yaari punta gli occhi sulla giovane donna seduta sul sedile anteriore a fianco del marito, che ora evita il suo sguardo e persino di toccare i figli schiacciati a fianco del nonno sul sedile posteriore, come se la sua anima scossa non fosse ancora pronta per loro. 
— Il nonno mi ha fatto entrare in un carro armato, — dice Nadi esultante. 
— Complimenti Nadi, — esclama suo padre ammirato. — Vedi che bravo nonno ho messo al mondo per te? 
I bambini ridono. 
— Non è vero, non sei stato tu a mettere al mondo il nonno, non era nella tua pancia, — esclama Neta. 
— Nonna Daniela ha messo al mondo il nonno, — ride Nadi. 
Moran abbraccia e bacia le loro testoline, e gli occhi di Efrat, il cui colore azzurro dalle sfumature giallastre, desertiche, è reso più profondo dal cielo rannuvolato, si inteneriscono, così lei tende una mano ad accarezzare i suoi bambini. 
Hanno fatto la pace, Yaari ne è sicuro, considerata l'allegria spumeggiante del soldato agli arresti. Perché infatti starsene seduti in un caffè e sprecare il poco tempo a disposizione con lamentele e accuse reciproche quando si può andare in mezzo alla natura e nonostante la pioggia e il freddo invernale medicare le ferite facendo l'amore? Dovremo ricordarci bene di questa festa di Hanukkah — sorride tra sé il proprietario dell'automobile che ancora si riscalda sul sedile posteriore tra le poltroncine dei bambini — , magari ci scapperà un terzo nipotino. La luce è tornata a brillare sul volto di Efrat e lo sguardo rilassato con cui osserva il marito non solo è privo di disprezzo ma anche grato all'uomo che ha saputo riconoscere sotto il goffo giubbotto militare il desiderio del suo corpo. 
E in fondo perché no? Le tragedie, si sa, sono spesso dietro l'angolo e perché litigare con la persona amata quando si può provare a godere con lei? Tra due giorni Daniela tornerà dall'Africa e Yaari sa che la prima sera vorrà essere informata, come al solito, di cosa è successo durante la sua assenza, giorno per giorno e ora per ora. E nonostante non voglia che il marito faccia ogni genere di supposizioni sulla sessualità dei loro figli, questa volta lui insisterà a raccontarle di come è rimasto con i nipotini accanto al cancello della base, esposto alle intemperie, mentre suo figlio e sua nuora facevano l'amore nei campi. Sì, non le terrà nascosto niente. E, ripensandoci, non le risparmierà nemmeno la videocassetta a luci rosse nascosta tra quelle di Baby Mozart e Baby Bach, perché non rischi di infilarla per sbaglio nel videoregistratore, com'era successo a lui. Ma in fin dei conti perché no? Fra tre anni Daniela compirà sessant'anni ed è abbastanza grande per capire che al mondo ci sono istinti più sfrenati di quanto si immagini. Lei stessa, prima di sparire dietro il cancello di imbarco dell'aeroporto, aveva parlato di un «desiderio vero». 
 
10 
 
— Non mi ha dimenticato? — ride Daniela sconcertata, spingendosi un po' all'indietro dopo aver tolto i piedi dalla poltrona di fronte a lei. — Ma se ci siamo scambiati a malapena qualche frase verso la fine del volo... 
— È vero, — dice l'anziano inglese raccogliendo con eleganza le balze del candido accappatoio e sedendosi cautamente nella poltrona ora liberatasi. Si erano scambiati solo qualche frase ma lui ricorda ogni parola e gli dispiace di non aver cominciato a conversare con lei già alla partenza, così avrebbe saputo di più della sorella defunta, del soldato ucciso dal fuoco dei suoi compagni, ma soprattutto di lei. Chi è e perché sorride sempre con tanta serenità. Ma siccome per gran parte del volo lei aveva preferito guardare fuori dal finestrino, come se volesse intenzionalmente evitarlo, aveva cortesemente deciso di non disturbarla. Davvero il panorama l'attirava tanto, oppure pensava che lui non fosse abbastanza sobrio per una conversazione? 
— Sia l'uno che l'altro. 
Ma la signora crede davvero che un bevitore esperto come lui possa ubriacarsi durante un volo di meno di un'ora? Quanti bicchieri gli aveva poi servito la hostess? Due? Tre? 
— Almeno cinque, — dice Daniela, sorridendo all'uomo pallido dai capelli bianchi. 
Cinque? Davvero? Li ha contati? Eppure non era sceso ubriaco dall'aereo. 
— Impossibile saperlo: sono arrivati subito due inservienti che l'hanno portata via su una sedia a rotelle. Ora immagino che fossero dipendenti di questa casa di cura. Ma la cosa più importante è che adesso lei è completamente sobrio e potrà scusarsi con me... 
— Scusarsi con una bella signora è sempre un piacere... ma per cosa? 
— Per avermi dato il biglietto da visita di questa casa di cura sostenendo che era sua, mentre lei è solo un paziente. 
— È vero, — ride l'inglese cordiale, — sono un paziente, ma privilegiato, un habitué che torna a ricoverarsi qui ogni anno di sua spontanea volontà. Quindi posso ormai considerarmi una specie di azionista di questo posto. Ma se lei pretende le mie scuse, gliele farò subito. Mi dispiace di averle fatto credere una cosa che non era vera. Mi scuso — . Non c'è niente di più facile per quell'uomo che pronunciare queste parole. Daniela gli era piaciuta fin dal primo momento per il modo in cui aveva mantenuto il sangue freddo quando le avevano impedito di imbarcarsi sull'aereo, e ancor più dopo la loro breve conversazione al termine del volo. E nonostante lui allora sapesse che la possibilità di incontrarla nuovamente era molto labile, perché lei gli aveva detto che la visita a suo cognato sarebbe stata breve, aveva avuto l'idea di lanciarle una piccola esca, come un cacciatore che tenta di intrappolare un animale raro. E aveva funzionato. Ecco, lei era qui. 
Daniela arrossisce leggermente, ma sorride con indulgenza. 
— Si sbaglia: non sapevo che lei fosse qui. Non ho notato che il nome di questo posto era quello annotato sul suo biglietto da visita. Mi sono semplicemente aggregata a mio cognato che ha accompagnato qui una giovane malata di malaria dal sito della spedizione. Però è vero che non mi sono dimenticata di lei. Insegno da molti anni, e sono abituata a tenere a mente i miei alunni, così non dimentico nemmeno la gente che incontro per caso. E quando mio marito non è con me, e non pretende tutta la mia attenzione, una persona originale come lei riesce a rimanermi impressa nella memoria. 
— Rimanere impresso nella memoria di una signora come lei è un grande privilegio. 
— Se vuole definirlo così... — Daniela cerca di raffreddare l'entusiasmo dell'inglese in accappatoio, che già le sembra un po' troppo appiccicoso. Magari è un vecchio maniaco. — Ma cosa ci fa lei qui? Non mi sembra particolarmente malato. 
È vero, non è malato, ma un giorno lo sarà, e ha in programma di terminare la sua vita in modo dignitoso. Essendo scapolo e senza figli, con una modesta pensione statale, in Inghilterra non ha alcuna possibilità di godere di cure decorose. Nelle case di riposo le anziane inglesi importunano i vecchi scapoli come lui. 
— Che lavoro faceva? 
Negli ultimi anni aveva prestato servizio nella società ferroviaria, ma la sua vera carriera era stata nell'esercito di Sua Maestà. Durante la seconda guerra mondiale era troppo giovane per arruolarsi ma una volta terminato il conflitto aveva chiesto di essere mandato in posti dove ci fosse ancora qualche possibilità di azione, cioè nelle colonie dell'Asia e dell'Africa. Ma dopo che l'India e la Palestina ebbero ottenuto l'indipendenza, anche le altre colonie cominciarono a pretenderla, e quando giunse al grado di maggiore, alla Gran Bretagna non era rimasto nemmeno un posto su cui dominare con onore, correttezza e senza eccessivi rischi di rimanere vittime di atti di terrorismo. Allora, all'età di cinquant'anni era diventato macchinista di treni e quindici anni prima, quando era andato in pensione, aveva deciso di tornare in Africa orientale, non come colonialista ma come paziente. 
— E ha scelto proprio l'Africa tra tutti i posti in cui ha prestato servizio? 
Sì, tra tutti i popoli dell'ex impero preferisce gli africani in veste di badanti. Sono più schietti e sinceri dei pakistani o dei burmesi, e quando si prendono cura del corpo non cercano, come gli indiani, di rubarti anche l'anima. Sono modesti, e non sospettosi, come gli arabi ad esempio, che hanno paura di rimanere contagiati dalle malattie degli europei. Sono persone riservate e si prendono cura di te senza chiacchiere inutili, come i veterinari fanno con gli animali. È vero che il panorama di questa zona è meno spettacolare che altrove, ma gli sembra che le distese monotone e semidesertiche della savana permettano di congedarsi dalla vita con meno dolore e più speranza. 
— Speranza di che? 
— Speranza che con la morte non si perda nulla, e che si riesca ad affrontarla con indifferenza, come un animale. 
L'inglese parla in tono sommesso ma con dizione chiara, come se recitasse su un palcoscenico. E Daniela è stupita di ritrovarsi a chiacchierare con tanta libertà con un estraneo che potrebbe essere suo padre e le sta seduto davanti con indosso il solo accappatoio. 
— È questo il suo termine di paragone? Gli animali? 
— Non bisogna sottovalutarli. 
— Certo che no. Tre anni fa, quando mia sorella era ancora in vita e mio cognato era rappresentante governativo, io e mio marito siamo venuti per una vacanza di qualche giorno e abbiamo visitato alcune riserve naturali. Era straordinario osservare il comportamento degli animali. 
— Quelle riserve sono ormai solo per i turisti, e anche gli animali hanno cominciato ad adeguarsi alle aspettative dell'uomo. Ma qui è un'altra cosa. Siamo nel cuore della savana, in un luogo che in passato era un grande lago salato, e se lei rimarrà qui questa notte assisterà a una scena stupefacente. Verso mezzanotte arrivano animali di tutti i tipi e dimensioni per leccare il sale depositatosi sul fondo del lago prosciugato. Lo fanno in silenzio, con spirito di solidarietà, non si disturbano a vicenda e non si minacciano. Ciascuno lecca la porzione di sale che gli è necessaria e si allontana. Solo per questo vale la pena di rimanere qui di notte. 
Daniela si stringe nelle spalle. È ospite di suo cognato ed è lui a organizzarle la giornata. Ma se sul fondo di questo lago ci fosse un deposito di materiale dolce, lei stessa vi si recherebbe a leccarlo ora, al culmine di questo pomeriggio soleggiato, senza aspettare la notte. 
— Addirittura ! — Il vecchio inglese si stupisce della bramosia di dolce di quella donna che gli è sembrata una persona posata. Purtroppo non ha nulla da offrirle. Ai pazienti è proibito tenere cibo nelle loro camere. Ma forse il liquore di produzione locale che serba in camera sua potrebbe essere considerato dolce. 
Daniela è disposta ad assaggiarlo e anche a dare un'occhiata alla stanza del suo interlocutore, perché dalla piccola hall in cui è seduta ormai da più di un'ora non riesce a farsi un'idea di che aspetto abbia il posto, e cosa vi si faccia esattamente. 
Ma con sua totale sorpresa è l'inglese a mostrarsi riluttante all'idea che lei salga in camera. No, la sua stanza non è fatta per essere vista da occhi estranei ed è anche categoricamente vietato invitare nelle camere ospiti psicologicamente impreparati alla visita. Se avrà la bontà di aspettare, le porterà giù il liquore. 
Ancora una volta Daniela si ritrova sola. Fra quarantotto ore sarà già in volo e l'Africa svanirà dai suoi ricordi. In Israele oggi è sabato, e se Moran è ancora agli arresti lei spera che Amotz dia una mano a Efrat e porti Neta e Nadi ai giardini pubblici. A un tratto si sente a disagio. Il contatto della sua mano con la pelle nera e logora della poltrona la ripugna. Si mette le scarpe e si avvicina alla finestra. Le sembra davvero di scorgere una distesa di un bianco abbagliante: forse è il fondo del lago. Deve essere senza dubbio una scena incredibile vedere gli animali che si raccolgono alla luce della luna per leccare il sale necessario alla loro sopravvivenza. Ma non la vedrà mai. Non tornerà mai più in Africa, anche se sarà Amotz a volerlo. Ci sono altri posti al mondo. E se Yirmiyahu insisterà per passare qui il resto della vita, ci pensi da sé a spedire l'urna con le proprie ceneri in Israele. Sempre che poi voglia essere sepolto vicino a sua moglie. 
L'ascensore ronza, si ferma, poi si rimette in movimento. Ma è impossibile sapere se stia salendo o scendendo. La porta si spalanca e ne esce l'impiegato della reception che non ha trovato per lei qualcosa di dolce — di certo non si è sforzato troppo — ma le ha portato, come lei gli aveva chiesto, un libro in inglese, La Sacra Bibbia: il Nuovo e l'Antico Testamento raccolti in un unico volume. 
Sono passati un'infinità di anni da quando Daniela ha sfogliato una Bibbia. Durante le cerimonie che si tengono a scuola si citano sempre brani di profeti, recitati con molta enfasi dalle ragazze, ma lei nemmeno si ricorda su quale scaffale della libreria di casa sua ne sia posata una. Ed ecco che nella desolata savana tanzaniana riceve un libro che conosce fin dall'infanzia, completato da Vangeli ed Epistole che non ha mai letto. 
Prima che l'impiegato della reception si risieda per riprendere il suo compito, Daniela gli domanda se per caso sappia il motivo del ritardo del cognato e dell'infermiera sudanese, e viene informata che la malata di malaria insiste a protestare, rifiutandosi di rimanere. — Magari potrei andare io a convincerla, — dice Daniela, proponendo il suo aiuto e avviandosi verso l'ascensore. Ma l'impiegato si alza bruscamente per sbarrarle la strada. Ospiti estranei non salgono senza un'adeguata preparazione. 
Allora in questo posto c'è davvero qualcosa di misterioso, pensa lei sconcertata. Prende una sedia e la trascina davanti alla finestra. Non ha mai avuto occasione di leggere la Bibbia in una lingua straniera. A dire il vero nel volume non sono specificati il nome del traduttore e l'anno di pubblicazione, ma a giudicare dall'inglese arcaico Daniela ha l'impressione che si tratti della vecchia traduzione del re Giacomo. Ecco, già a una prima occhiata si imbatte in parole come aloex e myrrh, che non ha idea di cosa significhino. 
Apre casualmente Samuele 2 e legge di Amnon, malato d'amore, che invita Tamar nella sua camera perché gli prepari un paio di dolci — a couple of cakes, così è scritto -, e Daniela trova questa prosa chiara e gradevole. Anche il ritmo del canto di Geremia le pare solenne e bello, ma soprattutto è soddisfatta del piccolo test a cui sta sottoponendo il suo vocabolario d'inglese. Ora si metterà alla prova con il discorso degli amici di Giobbe all'uomo che maledisse il suo giorno per verificare se la lingua di Shakespeare riesce a spiegare le pecche del mondo in modo più chiaro rispetto all'ostico ebraico che ricorda dai suoi anni di gioventù. 
L'ex ufficiale britannico le tocca leggermente la spalla. Vestito con una camicia e un completo, le strizza maliziosamente l'occhio sventolando trionfale una bottiglia contenente un liquido dorato. — Cos'ha trovato? — domanda alla sua nuova amica, e Daniela gli mostra il libro e gli chiede in tono provocatorio cosa preferisca lui, l'Antico o il Nuovo Testamento? L'uomo è perplesso. Tra un paio di mesi compirà ottant'anni e nessuno gli ha mai fatto una domanda simile in vita sua. Nemmeno il suo parroco. — Il cristianesimo ci insegna che la Bibbia è un tutt'uno, — risponde, —  un unico corpo in cui ogni organo ne completa un altro ed è originato dall'altro, come nelle opere di Shakespeare, nelle quali il re Lear completa e rafforza la follia di Amleto e la devozione di Lady Macbeth per il marito assassino trova espressione nel grande amore di Giulietta per Romeo. 
La risposta stupisce Daniela, come quella di uno studente dal quale ormai non si aspettava più nulla. L'ex ufficiale delle colonie, compiaciuto dell'effetto delle sue parole, le tende un bicchierino e versa con cautela poche gocce di un liquido che Daniela riesce solo a leccare. Ha un sapore strano, del tutto sconosciuto, ma decisamente dolce. Daniela gli rimette in mano il bicchiere e dice: — Sono pronta, signore, beviamo pure. 
Un poco alla volta si scola un paio di bicchierini e dopo una leggera esitazione ne chiede un terzo. Ma l'inglese, impreparato a un tale entusiasmo che rischia di lasciarlo con la bottiglia vuota, propone di rimandarlo. — Gli effetti deleteri dell'alcol si rivelano gradualmente, — l'avvisa, — e farebbe meglio a fare una pausa — . Poi le prende delicatamente il libro di mano per rinnovare una vecchia conoscenza. 
Yirmiyahu, senza Sijin Kuang, compare all'improvviso ed è sbalordito nel vedere che anche in un luogo tanto isolato e remoto sua cognata è riuscita a trovare un ammiratore attempato, che si presenta e gli propone un bicchierino in segno di amicizia. 
Ma Yirmy lo rifiuta. Sembra impensierito. Devono mettersi in viaggio. Sijin Kuang questa notte rimarrà ad aiutare la malata ad ambientarsi e sarà lui a guidare. E malgrado la strada non sia lunga, farebbe meglio a mantenersi lucido. 
— Non riesco a capire — sbotta Daniela in inglese — che problema c'è ad ambientarsi. Si vedono scene tanto orripilanti in questo posto da essere necessaria una preparazione psicologica? È per via dei pazienti o del personale? Anche a me, che sono una donna anziana, proibiscono di salire come se fossi una ragazzina. 
L'inglese sorride e le posa affettuosamente una mano sulla spalla. — Si calmi, Daniela, — dice rivolgendosi a lei per nome quasi fosse una sua cara amica, — ci sono qui troppi ragazzi e ragazze che non sarebbe saggio né onesto mettere in mostra. 
Yirmiyahu tace, e quando vede che la cognata, che aspetta un ulteriore chiarimento, continua a rimanere seduta, la prende per mano, come faceva con sua sorella, e la fa alzare. — Vieni — . Lei strappa il libro dalle mani dell'inglese e se lo stringe al petto. 
— Che cos'è? — chiede Yirmy. 
— Ho chiesto all'impiegato della reception qualcosa da leggere e lui mi ha scovato una Bibbia in inglese con tanto di Nuovo Testamento. 
— E allora? Puoi lasciarla sul tavolo. 
— No, voglio leggerne qualche passo nei giorni che mi sono rimasti. L'inglese è più chiaro dell'ebraico. E comunque nessuno qui ne sentirà la mancanza e tu potrai restituirlo quando verrai a riprendere la malata. A patto che non la bruci. 
Gli occhi di Yirmiyahu scintillano. 
— E perché non dovrei? Perché mai la fonte di tutti i mali dovrebbe godere di immunità? Dopotutto proprio con questo libro sono cominciati il caos e la maledizione. È proprio questo che dobbiamo distruggere. 
Daniela continua a sorridere. 
— Ma questa Bibbia è in inglese, non in ebraico. Yirmiyahu la guarda con affetto. — Se è in inglese, allora le concederemo la grazia. 
 
11 
 
— È così che va in Israele, — proclama Moran tendendo a suo padre le chiavi della macchina, — lampi, tuoni, un gran putiferio, ma subito dopo salta fuori il sole e tutto si placa. Peccato che la natura non si mostri più crudele e ci costringa a combatterla anziché scannarci l'uno con l'altro. E questo lo chiamate inverno? —
 Insiste su quel tasto forse anche per attenuare la gravità del fatto di aver lasciato suo padre e i suoi figli alla mercé del temporale. — In fondo, se considerato in un contesto globale, è solo un piacevole autunno. 
Yaari e Moran sono fuori dalla macchina, e quando quest'ultimo si china verso il sedile posteriore per agganciare le cinture di sicurezza dei figli, seduti nelle loro poltroncine, compare, come spuntato dal nulla, l'ufficiale dai capelli rossi in cerca del suo prigioniero, il quale rimane sorpreso di fronte alla bellezza della moglie del suo sottoposto. — Mi spiace, ma devo sequestrarle il marito, — scherza con Efrat, che lo osserva con aria di leggera sufficienza. — Mi creda, avrei potuto spedirlo in Samaria a fare la guardia ai posti di blocco e a correre dietro ai ricercati ma ho avuto pietà di lui e ho preferito che ampliasse un po' i suoi orizzonti. Che farci, sono un uomo che non si dà per vinto nemmeno con chi sembra senza speranza — . Poi propone a Yaari di seguire un percorso diverso dal solito per tornare a Tel Aviv, ovvero di prendere un'autostrada inaugurata da poco. — Non se ne pentirà, — gli dice per rassicurarlo. L'ingresso non è lontano, e anche se la strada è un po' più lunga e lui, l'ufficiale dai capelli rossi, si era opposto alla sua costruzione a causa dell'impatto che avrebbe avuto sul paesaggio, è comunque tranquilla e veloce e sarebbe stupido continuare a boicottarla. 
Yaari è felice dell'idea. Da tempo non prende quell'autostrada, e non conosce il tratto aperto di recente. Ma Moran fa ancora fatica a separarsi dalla moglie e dai figli e all'ultimo momento avvia col padre una conversazione su questioni di lavoro. —  Va' a difendere con coraggio la tua regina bianca, — lo interrompe lui esortandolo a tornare alla base. — Gli ascensori aspetteranno. 
Allo svincolo di Iron Yaari scivola dolcemente verso l'autostrada e dopo che il telepass conferma con un breve fischio di aver riconosciuto l'auto pronta a pagare il pedaggio, aumenta la velocità lungo l'elegante arteria stradale che si snoda nel cuore di Israele. Efrat ha infilato nel bagagliaio l'informe giubbotto militare su cui aveva fatto l'amore col marito e adesso è seduta accanto a Yaari con una leggera felpa turchese che si intona incredibilmente ai suoi occhi, e sfoglia con attenzione un atlante stradale che ha scovato nel baule — non perché abbia un particolare interesse per la geografia del suo paese, ma probabilmente per evitare lo sguardo curioso dell'autista, in teoria suo parente ma di fatto un estraneo. 
I bambini cadono in un sonno profondo. La passeggiata nella base militare, ma soprattutto l'attesa angosciante dei genitori, si dissolvono nel calore dell'auto e nel ronzio delle ruote sull'asfalto. La testa di Neta è la prima a ciondolare di lato nella poltroncina, e la sua mano si tende in avanti come in un gesto di supplica. Nadi invece tenta probabilmente di lottare ancora contro il fantasma del soldato siriano visto nel vecchio carro armato, fino a che il sonno fa sì che anche la sua testa si rovesci all'indietro. 
Yaari sorride al riflesso dei nipotini seduti dietro di lui. — Sai, — dice alla nuora, — ieri, quand'ero con i bambini, mi è sembrato di aver scoperto nuovi tratti di somiglianza fra Nadi e Daniela. 
— Daniela? — Efrat si volta e lancia un'occhiata al figlio. 
— Beh, non proprio Daniela, — si corregge Yaari, facendo leggermente marcia indietro, — più che Daniela, Shuli, ed Eyal da piccolo. Tu, naturalmente, non puoi notare la somiglianza, ma io mi ricordo di Eyal quando aveva l'età di Nadi. E ieri sera, dopo che sei andata alla festa e Nadi faceva i capricci, mi sono accorto che tra lui ed Eyal ci sono dei tratti in comune. 
Efrat torna a voltarsi. La possibile somiglianza di suo figlio con il cugino di Moran la commuove e la sconcerta. Per un istante non reagisce, poi si fa coraggio e racconta al suocero qualcosa che nemmeno suo marito sa. Quand'era incinta di cinque mesi, e già sapeva che avrebbe avuto un maschietto e non un'altra femminuccia, aveva scritto a Yirmy e a Shuli chiedendo il permesso di chiamare il bambino Eyal, di propria iniziativa, senza consultarsi con Moran. Ma loro non glielo avevano concesso. Con cortesia, manifestando gratitudine ma con fermezza, avevano respinto la richiesta. A lei era sembrato un gesto consolatorio, ma a quanto pareva loro l'avevano presa male. 
Il suo viso pallido si fa paonazzo nel rivelare al suocero una cosa che ha tenuto nascosta al marito. Ansioso di rassicurarla, Yaari toglie una mano dal volante e la posa sulla spalla della giovane donna, non lontano dal punto in cui si nasconde il piccolo tatuaggio. — È bello che tu glielo abbia proposto, ed è altrettanto bello che abbia capito le loro ragioni. Anche se io... al posto loro... — Lascia la frase in sospeso e si rifiuta persino di pensare a cosa avrebbe voluto dire. 
Il traffico in autostrada non è intenso, e malgrado la velocità sostenuta si viaggia in un'atmosfera distesa. A entrambi i lati dell'ampia strada appaiono due stazioni di servizio gemelle, con annessi bar e supermercato. Yaari volge lo sguardo a Efrat, per vedere se desidera comprare qualcosa per i bambini che non hanno né mangiato né bevuto dopo la prima colazione, ma la sua testa è riversa all'indietro, come quella del figlio, e i suoi occhi sono chiusi. Sembra che la sua breve confessione l'abbia spossata. Si è veramente addormentata o ha soltanto chiuso gli occhi per starsene un po' per conto suo? E prima, quando aveva fatto l'amore nei campi con Moran, si era concessa di urlare per il godimento o aveva soltanto sospirato sommessamente? 
Senza dire una parola Yaari abbassa il riscaldamento e aumenta la velocità del veicolo. 
Come Daniela, anche Efrat si affida completamente alla sua guida, sprofondando nel sonno. E Yaari ha l'opportunità di esaminare in modo dettagliato e da vicino la sua bellezza. Ma quando gli occhi di sua nuora sono chiusi, non risplendono, e la fossetta è sparita, mentre il suo viso da madonna appare un po' spento, scavato e spigoloso. A renderle giustizia è rimasto solo il candido collo da cigno, al quale è appesa una sottile catenina d'oro. La bellezza è qualcosa di superficiale, fragile, appesa a un filo senza la convalida della personalità? 
Più viaggiano verso sud, più il cielo si rasserena e l'aria si fa limpida. Yaari osserva i cartelli segnaletici dei centri abitati della zona, specialmente quelli a est della strada. Solo quando si arriva nel cuore di Israele si scopre quanto siano radicati e importanti i centri arabi, piccoli villaggi divenuti cittadine affollate in cui svettano torri di nuovi minareti. E quando all'improvviso comincia a intravedersi alla loro sinistra la barriera di sicurezza che separa Israele dai territori, lui libera lentamente dalle dita della bella addormentata l'atlante stradale e lo sfoglia per vedere se aveva ragione. Sì, questa cittadina è Tul Karem, vecchia e ostinata nemica ma circonfusa da un'atmosfera bucolica. 
Il sonno dei passeggeri rischia di contagiare anche lui, soprattutto dopo che quella notte non ha dormito nel suo letto. Accende la radio, da cui scaturisce una musica sommessa. Efrat apre gli occhi ma li richiude subito. Se una musica sgradevole non le disturba il sonno di notte, perché una melodiosa dovrebbe infastidirla di giorno? Il paesaggio lungo l'autostrada è monotono. Schiere di bulldozer hanno squarciato colline, cancellato campi, estirpato umili boschi e trasformato alture in pianure affinché il traffico scorresse agevolmente, senza salite né discese impegnative, o curve inaspettate. Ma il sole, che già declina a occidente, compensa la concreta uniformità della strada accendendo gli orli delle nuvole di una dorata luce invernale. 
Yaari sente che la musica non lo rende abbastanza vigile per l'alta velocità che gli è concessa. E nonostante l'uscita di Tel Aviv non sia lontana, estrae il cellulare dal vivavoce e chiama Nofar, percependo con sorpresa un'evidente nota di tenerezza e affetto nella sua voce. 
— La mamma è già qua? 
— No, non ti ricordi che torna solo lunedì? 
— Non capisco cosa faccia tutta sola in Africa per così tanto tempo. 
— Ma che dici, Nofar, non sono passati nemmeno cinque giorni. 
— Soltanto? Allora perché hai una voce tanto abbacchiata? 
— Perché ti parlo da una macchina che sembra un dormitorio. Efrat e i bambini stanno schiacciando un sonnellino qui accanto a me. Oggi è il giorno di visita delle famiglie alla base dove tuo fratello è agli arresti e siamo andati a trovarlo. Adesso stiamo tornando a casa. Siamo in autostrada. 
— Allora ho un'idea. Visto che già siete in autostrada, perché non proseguite fino a Gerusalemme e fate un salto da me? Sono di turno, ma ho diritto a una visita della mia famiglia. 
— A Gerusalemme? Adesso? 
— Mi hanno detto che ieri sei venuto a cercarmi a casa: perché non dovresti venire a trovarmi oggi in ospedale? Dài, papà, non essere pigro. In meno di quaranta minuti arriverete all'ospedale Shaarei Tzedek. Ho nostalgia dei bambini. Passami Efrat. La convinco io. 
— Ti ho detto che dorme. 
— Allora non svegliarla. E quando si sveglierà e ti chiederà dove l'hai portata, spiegale che non esiste solo Moran al mondo. Non dirmi che hai paura anche di lei oltre che della mamma... 
— Piantala Nofar, non dire sciocchezze. 
Efrat è ancora immersa in un sonno pieno di sogni e non è necessario chiederle alcun consenso per deviare dal percorso originario. Gerusalemme non è lontana, e nonostante d'inverno faccia buio presto faranno in tempo a tornare a Tel Aviv prima che cali l'oscurità. 
così, su ordine della figlia, Yaari sequestra nuora e nipoti e, come ostaggi privi di coscienza, li conduce a Gerusalemme. Le emozioni, le lotte, l'amplesso e le paure dell'ultima giornata sono stati talmente spossanti che nessuno avverte il cambiamento del brontolio del motore dell'auto che ora ha abbandonato la pianura e si arrampica in collina. Ma quando Yaari si ferma al semaforo dapprima si aprono gli occhi di Nadav, poi quelli di Neta, e per ultimi risplendono quelli di Efrat. — Dormivate come ghiri, — dice lui senza rivelare loro dove li abbia portati ma lasciando che la nuora se ne renda conto da sé dopo aver ripreso coscienza. Ed è strano che non riconosca subito il luogo in cui si trovano. Solo quando svoltano in direzione del monte Herzl, Efrat si gira verso di lui meravigliata, come se ancora palpitasse in lei la scia di un sogno, e ancor prima che gli faccia delle domande lui conferma: — Sì, siamo a Gerusalemme. Nofar mi ha supplicato di portarle i bambini ma tu dormivi e non potevo chiederti il permesso. 
Nelle pupille della nuora si accende un sorriso ironico. 
— Gerusalemme? Perché no? 
All'entrata dello Shaarei Tzedek, Nofar li aspetta in camice bianco, con i lunghi capelli raccolti in uno chignon fuorimoda. È entusiasta di vedere i nipoti, li bacia e li stringe a sé, e come al solito prende in braccio Nadi come se fosse un neonato che non sa camminare. Quando arrivano alla grande caffetteria e la trovano chiusa, Nofar esclama: — Ma come ho fatto a dimenticare che di sabato è chiusa? — Yaari è costretto a tornare alla macchina e a rifare la strada barcollando sotto il peso della grossa borsa frigo. Rovistandola però scopre che quella mattina Efrat è riuscita a riempirla di ogni genere di prelibatezze. Si sistemano accanto a una grande finestra. I bambini mangiano meticolosamente i panini spalmati di hummus mentre Efrat si riscalda le mani con una tazza di caffè che si è versata da un grosso thermos e Nofar si accontenta di un cetriolo sbucciato. Yaari si butta volentieri sul panino che a mezzogiorno era stato mortificato dal giro di «no, mangialo tu», e mentre lo sbocconcella tenta, senza grande successo, di far raccontare ai nipoti la perlustrazione alla base militare. Alla maggior parte delle domande è costretto a dare lui stesso una risposta, ottenendo solo cenni di assenso da parte dei piccoli quando termina la frase con un «vero?» A quel punto Nofar chiede il permesso alla cognata di mostrare «qualcosa» a suo padre nel suo nuovo reparto. 
Diretti verso traumatologia, Nofar consegna a Yaari un camice verdognolo e lo aiuta a indossarlo. Poi lo conduce in una stanza appartata, in penombra e surriscaldata, in cui c'è un solo letto. Yaari si trova davanti a un giovane seminudo, collegato a una selva di tubi e flebo e macchinari. Nel viso, completamente bendato, bruciano gli occhi. Nofar gli si avvicina, lo chiama per nome, e il giovane volta piano la testa. — Ti presento mio padre, — gli dice in tono solenne, indicando Yaari. —  Vuole farti i complimenti per come ti sei ripreso. 
Con un torrente di dettagli medici Nofar racconta a Yaari la storia di quell'operaio caduto da un'impalcatura e giunto in ospedale clinicamente morto ma che i medici del reparto avevano riportato in vita. Mentre il ragazzo ascolta affascinato la descrizione della sua rinascita, lei gli si rivolge all'improvviso in tono scherzoso: — Vero che volevi andartene da questo mondo ma noi te l'abbiamo impedito? Ti abbiamo riacciuffato dopo che avevi già spiccato il volo Il giovane, con gli occhi pieni di ammirazione puntati sulla ragazza che lo prende affettuosamente in giro, annuisce con la testa avvolta nelle bende. Ma Nofar non si accontenta del suo consenso. Con sguardo commosso ed emozionato continua a rimproverarlo dolcemente. — Di' un po', ti pare bello scappare così, senza chiedere il permesso a nessuno? — Gli occhi colmi di sofferenza del giovane si illuminano nel suo volto candido, e con voce rotta lui emette una specie di uggiolio sottile. Ma Nofar non desiste, e come se non le giacesse davanti un essere umano ancora in bilico tra la vita e la morte, continua a parlargli con il tono di una vecchia insegnante: — Bisogna vivere! Non ti hanno messo al mondo perché tu ci scappi. 
Gli rimbocca il lenzuolo, lo bacia sugli occhi, gli sistema il catetere e fa un leggero cenno all'ospite per segnalargli che stanno per lasciare la stanza. 
In corridoio Nadi e Neta spingono fra strilli di gioia una sgangherata sedia a rotelle bevendo bibite al cioccolato da bottigliette di plastica. Efrat, che si è già versata una seconda tazza di caffè, si sta truccando con cura davanti al sempre più grigio panorama di Gerusalemme, visibile dalla finestra. 
— Senti, Amotz, — dice con fermezza mentre Yaari si toglie il camice verde e lo restituisce alla figlia, — visto che ci hai portati a Gerusalemme con l'inganno, almeno approfittiamone per conoscere l'amante di tuo padre. 
— L'amante di mio padre? — Yaari è molto sorpreso. — Perché ti interessa? 
— Perché no? — risponde lei imperturbabile. — Vorrei sapere per quale tipo di donna si tradisce nella famiglia Yaari. 
 
12 
 
Yirmiyahu avvia il motore che si ingolfa, e adesso deve aspettare un paio di minuti prima che il carburante in eccesso evapori. — A Sijin Kuang piace così tanto occuparsi della jeep e galoppare nella savana, — si scusa con la cognata seduta accanto a lui, — che ormai non ho più familiarità con questo motore. Sijin ha buone intuizioni, ma credimi, anche lei commette errori. 
— Sai come tornare a casa? — domanda Daniela con un po' d'ansia. 
— In teoria non dovrebbe essere complicato. 
— E in pratica? 
— Non preoccuparti. Quanti chilometri abbiamo percorso dalla fattoria? Trenta, quaranta? E il sentiero era facile. E poi, visto che ti sei procurata l'Antico Testamento, con l'aggiunta del Nuovo non abbiamo nulla da temere. 
Ma ancora una volta il motore fa le bizze. Yirmiyahu non si dà per vinto, lo riduce all'obbedienza e quello, dopo aver sputacchiato e tossito, riprende finalmente a funzionare e il veicolo si mette in viaggio sulla strada sterrata. Yirmiyahu tende la testa in avanti per osservare bene la strada e chiede persino alla cognata di non distrarlo con chiacchiere finché non arriveranno al primo incrocio, da cui si dirama la pista giusta. Daniela, offesa, fa spallucce e si mette a sfogliare la Bibbia. Dopo qualche minuto, davanti a loro compare un bivio inatteso. Yirmiyahu si volta verso di lei, indica il sentiero di sinistra e le chiede rassicurazioni: — Te lo ricordi? Vero che è questa la strada giusta? — Lei è perplessa. — Lo domandi a me? Io mi perdo a Tel Aviv e tu vorresti scaricare su di me la responsabilità di trovare una strada in Africa? Decidi tu. 
E lui decide: sceglie la pista di sinistra e ben presto, riconoscendo particolari che ricorda da quella mattina, si sente più tranquillo. Si mette a canticchiare un motivetto, aumenta la velocità e lancia un'occhiata alla cognata che si è già un po' abbronzata durante questo suo breve soggiorno africano. 
— Ti è mai capitato di tenere lezioni sulla Bibbia? Anni prima Daniela aveva sostituito un'insegnante che si era ammalata, e per una settimana intera aveva letto nella sua classe la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli. Una cosa da nulla. 
— Giuseppe e i suoi fratelli? È una storia simpatica. Un'intera famiglia che si trasferisce in Africa al seguito del fratello contabile. Le storie della Genesi sono brevissime e aperte a ogni genere di interpretazioni. Raccontano di una tribù che ancora non è popolo e nella quale i patriarchi sono ossessionati dall'idea di mettere al mondo il maggior numero possibile di figli per avere pastori per le loro greggi, ma di volta in volta scoprono, con grande dispiacere, che le donne con cui sono sposati hanno enormi difficoltà a rimanere incinte. Una volta io e Shuli siamo andati alla commemorazione del padre di una coppia di amici che aveva incaricato una specie di oratore, uno scrittore o un poeta, di tenere un discorso in ricordo del padre e quello, anziché parlare del morto, ha fatto un commento molto personale sulla storia di Isacco. Quel giorno ho capito che si può trovare una nuova chiave di lettura anche nel testo più masticato che ci sia. L'oratore ha descritto l'episodio del sacrificio di Isacco dal punto di vista dei ragazzi che sono rimasti ai piedi del monte a badare all'asino di Abramo. 
Sono già le tre del pomeriggio, e un vento nuovo soffia sulla pianura intorbidendo l'aria. I raggi del sole si infrangono su chiazze di insetti spiaccicati sul parabrezza dell'auto. 
— Bisognerebbe pulirlo di tanto in tanto, — osserva Daniela. 
— Ho anche notato — prosegue Yirmiyahu, ignorando quel commento — che in genere nei convegni in cui si discute di temi biblici di solito si prendono in esame episodi facili e gradevoli. Esaù e Giacobbe, il Cantico dei Cantici, la figlia di Iefte, Samuele e Saul, Davide e Assalonne, l'amore di Giacobbe per Rachele, Caino e Abele, Sansone e Dalila. Tutti scelgono una scappatoia per evitare un argomento davvero difficile: i testi violenti e irosi dei profeti. 
— I profeti? Non credo di essermi mai occupata di loro dopo gli esami di maturità. 
— Nemmeno io, fino a che Eyal è rimasto ucciso. Allora li ho riletti, uno dopo l'altro, e all'improvviso ho visto la maledizione profonda insita nel nostro popolo. 
— Allora dopo che Eyal è morto ti sei messo a rileggere i profeti? 
— Solo per poco, ma con molto impegno. Tutto è cominciato dal vicedirettore del mio reparto al ministero degli Esteri, una persona religiosa e colta che mi aveva proposto con tatto di organizzare a casa nostra un mynian   di uomini per la preghiera durante i giorni del lutto. Siccome era mio diretto superiore, e sapevo che avrei avuto bisogno di lui se avessi voluto essere inviato all'estero, non ho potuto rifiutare. Però a conti fatti non mi importava. Se si escludeva il sabato, rimanevano solo quattro giorni per pregare. E poi lui aveva acconsentito che io non mettessi i tefillin4 quindi ho detto, perché no? Tu e Amotz avevate preso alloggio in un albergo e anche Amotz aveva fatto un po' amicizia con quell'uomo quando veniva per la preghiera. 
— Non è che si chiamava per caso Michaeli, o Rafaeli? 
— Sì, Rafaeli. È incredibile come ti ricordi i nomi della gente. 
— Sono un'insegnante, e devo presenziare a consigli di classe in cui a volte si discute del destino di alunni che non ho nemmeno visto in faccia. Amotz si era fatto una buona opinione di lui. 
— Sì, senza dubbio è una persona perbene. E anche dopo i sette giorni del lutto Rafaeli ha cercato di continuare a insegnarmi un po' di religione. Con molto tatto, senza farmi pressione, ma soprattutto senza assumere un atteggiamento di superiorità. «Solo ora cominci il tuo percorso di dolore, — mi ha detto, — quindi permettimi di suggerirti dei testi che non conosci: forse vi troverai qualcosa di profondo». 
Mi dava ogni genere di stampati e fotocopie di articoli tratti da riviste religiose di cui poi discutevamo. Ma ben presto ho capito che quei testi non facevano per me. Il passaggio tra il non credente e il finto credente è difficile e problematico. Perciò gli ho detto: «Senti, magari comincerò leggendo un po' la Bibbia, poi vedremo». 
così mi sono rimesso a leggere la Bibbia, procedendo con ordine. La Genesi era molto piacevole: patriarchi, madri, figli, nuore, fratelli, sorelle, litigi, gelosie. Ma non ho avuto l'impressione che i padri provassero un interesse particolare per i figli, a eccezione di Giacobbe e del tuo Giuseppe. Se non tentano di scannarli, li cacciano di casa, oppure semplicemente li ignorano. 
Ho proseguito con gli altri libri del Pentateuco. Lì già cominciano le lotte e gli scontri fra Mosè e la teppaglia uscita al suo seguito dall'Egitto, che ha nostalgia delle pietanze a base di carne, aglio e cipolle rimpiazzate da una religione dai rigidi principi. Quei poveracci probabilmente presentivano cosa stava per cadere loro addosso e hanno cominciato a ribellarsi contro quella fede dispotica ed esigente che gli era stata imposta. È interessante che Rafaeli, per quanto fosse credente, mi avesse rivelato che esiste un'azzardata teoria secondo la quale Mosè non sarebbe morto per cause naturali ma sarebbe stato trucidato dal suo popolo. Se è vero — avrei voluto dirgli — , allora è un peccato che non l'abbiano fatto fuori trenta o quarant'anni prima. Ma ho tenuto a freno la lingua. A merito dei libri del Pentateuco va detto che il loro stile è chiaro, non machiavellico, contorto. Non ci sono doppi sensi che traggono in inganno, come nei libri dei profeti. È vero, anche lì ci sono maledizioni e recriminazioni, ma almeno sono concentrate in un unico posto. Mentre le speranze e le consolazioni sono altrove. C'è ordine. 
Poi ho letto un po' del Libro di Giosuè e parecchi passi di quello dei Giudici. Sono proprio divertenti quelle piccole guerre che scoppiavano all'improvviso in ogni angolo del paese, proprio come adesso, e in loro onore spuntava in qualche villaggio sperduto un giudice del popolo — Eud, Gedeone, Debora, Iefte, Sansone — che ingaggiava brevi battaglie, e scompariva. Un vero avvicendamento democratico. 
Il fuoristrada arriva a un nuovo bivio e si ferma. — Cos'è? — esclama Yirmiyahu interrompendo la sua disquisizione. — Da dove salta fuori quest'altro bivio? — Si fa scudo con la mano sugli occhi e osserva l'orizzonte. 
— Non puoi vedere niente con questo parabrezza lurido, — dice Daniela, chiedendogli uno strofinaccio e dell'acqua. Da sotto il sedile del conducente Yirmy estrae uno straccio sudicio, mette in mano alla cognata una borraccia militare e lei versa l'acqua sul parabrezza e gratta via i resti degli insetti morti. Yirmiyahu intanto si mette a camminare lungo il sentiero di sinistra per controllare se vi siano rimaste tracce dei pneumatici della Land Rover dal viaggio di quella mattina, poi controlla anche quello di destra. 
— Se dovessimo commettere un errore, ricordati che è cominciato qui, — dice a Daniela imboccando il sentiero di sinistra, fiducioso che sia quello giusto. Sijin Kuang era così presa dalla sua malata che si era dimenticata di dar loro istruzioni precise circa la strada del ritorno. 
— Beh, tutto sommato, — sorride Daniela con ironia, — mi fa piacere sentire che ti ritieni ancora ebreo. 
— A dire il vero mi sto liberando da tutti questi retaggi. Tra poco sarò muzungo per gli ebrei. 
Lei solleva gli occhi, tanto luminosi da assicurarle a priori la fiducia del prossimo. Per anni si era abituata ad ascoltare senza scomporsi le idee originali e talvolta puerili di quest'uomo. Ma quelle partorite negli ultimi tempi superano ogni limite. È sicura che se lui si trovasse una nuova compagna, persino alla sua età, anche sua sorella ne sarebbe felice. 
— Yirmy, guarda bene: sei sicuro di aver preso la strada giusta? 
— Non ne sono sicuro, però vorrei crederlo. Nonostante non mi ricordi di aver visto questa mattina quei due giganteschi alberi aggrovigliati. 
— A me invece sembra di ricordarli. 
— Allora, sorellina, — dice lui tamburellando con le dita sul volante con aria compiaciuta, — siamo sulla strada giusta. E intanto non hai altra scelta che ascoltare in breve quello che penso dei profeti e capirai perché i loro brani lirici, che dovrebbero risvegliare ammirazione, mi fanno ribollire il sangue. In fondo gente come me, laica, pigra, che di solito parla con grande stima dei profeti, non è che li legga veramente. Ricorda un bel versetto, un brano che magari è stato messo in musica a proposito di spade trasformate in vomeri. Attacca i religiosi in nome dell'etica dei profeti, parla di giustizia universale, di coraggio, di anticonformismo, senza verificare per quale motivo gli Elia e i suoi consimili siano animati da tanto coraggio e dove conduca quel loro anticonformismo. Se lo facessero, scoprirebbero che tutto si ripete e non si fa che battere sullo stesso chiodo. Di chi è la giustizia di cui parlano? Chi se ne fa garante? È una giustizia universale oppure del solo Dio d'Israele, confezionata in un pacchetto che impone anche fedeltà nei Suoi confronti? E infatti poi si scopre che questa giustizia è subordinata alla fedeltà del popolo verso Dio, e l'ira dei profeti non si risveglia per questioni riguardanti vedove e orfani ma perché Dio, che di fatto è una specie di marito folle, geloso di un'unica donna della quale si è perdutamente invaghito nel deserto e che continua a tormentare con i suoi dettami, è stato tradito. Il grande dramma sociale si rivela essere semplice gelosia. Ma siccome il linguaggio è ricercato e l'eloquenza incanta, non si fa caso a ciò che è scritto fra le righe. 
— E cosa è scritto fra le righe? — Daniela si è tolta le scarpe, ha spostato il sedile all'indietro e ora i suoi piedi sollevati quasi toccano il parabrezza. 
— Fra le righe, e nelle righe. Morte, rovina, esilio, castigo e ancora castigo, distruzione, epidemie e carestie. La fame spinge il popolo a mangiare i neonati. È vero che fra quei tremendi rimproveri, mossi nello stile raffinato che tanto ammiriamo, salta fuori ogni tanto una consolazione improbabile, utopica, grandiosa, ma naturalmente è subordinata a delle condizioni. E poi è irritante, perché consiste soprattutto in uno spostamento di tiro verso altri popoli, anziché, come al solito, verso il popolo d'Israele. Come se al mondo non ci possa mai essere un momento di vera serenità, e qualcuno debba sempre prendere delle sonore batoste. 
E tutto questo noi l'abbiamo assimilato fin dall'infanzia, l'abbiamo succhiato col latte delle nostre madri, ingoiato con le prime pappe. Non c'è quindi da stupirsi se siamo sempre in attesa della prossima catastrofe che ci cadrà addosso e che magari aspettiamo pure con ansia. Ecco la catastrofe, è già qui, lo sappiamo, ne abbiamo letto la profezia parola per parola, formulata in uno stile meraviglioso. 
La pista è ben battuta. Le ruote della Land Rover la percorrono con un soffice ronzio, come su un nastro d'asfalto. La foschia appanna la luce del giorno. Daniela si toglie gli occhiali da sole e osserva con interesse quell'omone che disquisisce dei profeti come in preda a un'eccitazione febbrile, felice di aver trovato qualcuno che lo ascolti. 
— E sciorinavi tutte queste tue teorie anche alla mia povera sorella? 
— No, non volevo renderle la vita ancora più dura. E ben presto pure io ne ho avuto piene le scatole della Bibbia. Ma prima di condannarla definitivamente a farle prendere polvere su uno scaffale ho reso partecipe Rafaeli delle mie riflessioni e, sia detto a suo merito, lui mi ha ascoltato con molta pazienza, come uno psicanalista ascolta un paziente, senza cercare di discutere. Mi ha solo consigliato di lasciar perdere i profeti e di passare al Libro dell'Ecclesiaste, o a quello dei Proverbi, e io mi sono detto, Vabbè, facciamo un altro tentativo. Mi sono messo a leggere quegli scritti e quando sono arrivato al Cantico dei Cantici, all'improvviso il pensiero della morte di Eyal mi ha sopraffatto e ho letto quei passi con gli occhi pieni di lacrime. 
— Hai pensato alla morte di Eyal leggendo il Cantico dei Cantici? — Daniela si sente mancare il respiro. 
— Tutta quella bellezza mi stordiva. L'amore... l'erotismo splendido, le descrizioni della natura. Mi ha colpito il pensiero che Eyal non avrebbe potuto godere di tutte quelle cose. 
— E non hai mai più ripreso in mano la Bibbia? 
— Non l'ho più toccata. Mi sono allontanato da quel libro come da altri testi inutili. 
Con un gesto istintivo Daniela si stringe il volume al petto e guarda un avvoltoio in cima a un albero che dispiega le ampie ali. 
— Hai letto anche Geremia? 
— Naturalmente. Dopotutto sono legato a quel profeta fin dalla nascita. Ma ho capito subito che fra tutti è il più demenziale e pericoloso. È uno squilibrato. Fa venire i nervi. Salta di palo in frasca. È un amareggiato cronico. Uno stratega da quattro soldi. Non farti ingannare dal linguaggio ricercato, dalle splendide parole, dalle metafore e dai simbolismi, dal ritmo delle frasi. Tutto questo ti impedisce di notare cosa si nasconde dietro. Adesso che hai una traduzione in inglese potrai scoprire quanta violenza e disperazione c'è in quel testo. Anzi, se lo ritradurrai in ebraico, nella lingua di tutti i giorni, scoprirai che dietro le piume di pavone si nasconde un grumo di odio e di fanatismo. Prova... perché no? Ecco un buon esercizio per un'insegnante di inglese. Vuoi verificare il tuo vocabolario? Prego, sottoponiti a un test. 
È così strano e particolare, pensa Daniela: due persone anziane che discutono sulla Bibbia nel cuore della savana africana. Ho fatto tutta questa strada da Israele alla Tanzania per ritradurre la Bibbia in ebraico. 
Apre il volume, e trova il Libro di Geremia. — Magari prima lo leggo in inglese, — dice. — No, — si oppone Yirmy, — anche l'inglese ti avvolgerà nelle sue spire, ti catturerà negli orpelli della lingua. Traduci spontaneamente, una pagina a caso, ma in un ebraico semplice, per favore, che anche i tuoi figli possano capire. 
Daniela traduce lentamente, seguendo le parole col dito e cercando di sovrastare il fischio del vento che si è rinforzato: 
— Perciò così ha detto il Signore, Dio delle milizie? o degli eserciti? Sì, Dio degli eserciti. Poiché voi dite questa parola, ecco, io trasformerò in fuoco le parole nella tua bocca, e questo popolo in legna, e il fuoco lo divorerà. Guardate, condurrò a voi un popolo da lontano, o casa d'Israele, dice il Signore, un popolo forte, un popolo antico, la cui lingua non conoscete, e non comprenderete ciò che dice. La sua faretra è come un sepolcro aperto. Tutti i suoi uomini sono robusti e vi divoreranno le messi e il pane, vi divoreranno i figli e le figlie, le greggi e gli armenti, i vostri grappoli d'uva e i vostri fichi, e con le loro spade saccheggeranno le vostre città fortificate, nelle quali riponevate fiducia. Eppure, dice il Signore, in quei giorni non decreterò la vostra fine. E se loro domanderanno, Perché mai il Signore nostro Dio ci fa tutte queste cose?, allora tu dirai loro, Come voi avete abbandonato me e servito altri dèi nella vostra terra, così servirete gente straniera in una terra che non è la vostra... Uffa, basta. 
Daniela chiude il libro e lo infila nel vano portaoggetti. Ma Yirmiyahu è entusiasta della traduzione. 
— Vedi? Un brano a caso e subito ne traspare la violenza. Geremia si diverte a profetizzare sventure. Sciagure, morte, cannibalismo. E all'improvviso, e questo è tipico di lui, si spaventa della sua stessa profezia e dice, un momento, in ogni caso non sarà la fine completa. E perché non dovrebbe esserlo? Se i peccati sono così gravi, perché non farla finita una volta per tutte? Semplicissimo, perché in quel caso lui non avrebbe più nessuno contro cui scagliare le sue profezie, tormentare con le sue maledizioni. Non avrà più una fonte di reddito. E perché un popolo straniero si meriterebbe poi una vittoria tanto schiacciante? La risposta è semplice: per gelosia e sete di dominio. Non c'è giustizia, solo tradimento. Avete adorato altri dèi? Allora vi meritate che vi divorino i figli e le figlie. 
Daniela si sente assalire da un senso di sfinimento: è spossata dall'odio dell'antico profeta e dalle dissertazioni del conducente a proposito di quell'odio. La strada è interminabile e l'andatura si è fatta lenta, Yirmiyahu è distratto. La foschia si trasforma in una nebbia giallastra. 
— C'è però un brano meraviglioso, — prosegue Yirmy. — Nel capitolo quaranta e rotti ci si imbatte in un passo in cui l'autore narra con molto coraggio che gli esuli in Egitto si ribellano al profeta arrivato anche da loro, e osano dirgli in faccia quello che pensano. «Basta, — gli intimano, — abbiamo sentito tutto quello che avevi da dire e non abbiamo nessuna intenzione di darti ascolto. A noi va benissimo bruciare incenso a una dea, — che nel brano in questione ha un nome particolare, Regina del cielo, —  e ci piace pure farlo». Gli uomini e i mariti all'improvviso difendono le mogli che bruciano incenso alla dea e dicono a quell'irritante profeta, senza mezzi termini, basta, finiamola qui. Noi continueremo a praticare i nostri riti pagani perché quando adoravamo questa dea a Gerusalemme stavamo bene, avevamo cibo in abbondanza. Ma soprattutto — ed è questa la frase che mi ha toccato il cuore — dicono a Geremia: «Ascolta bene: a Gerusalemme, senza le tue parole di condanna, eravamo felici, sentivamo di essere felici, ma da quando abbiamo cominciato a darti ascolto e abbiamo smesso di bruciare incenso alla Regina del cielo, abbiamo perso tutto e abbiamo conosciuto la spada e la carestia». Mi ascolti, Daniela? Mi ascolti? 
— Certo, stai urlando. 
— Ho letto questo brano per caso, due o tre mesi dopo il funerale di Eyal, e mi ha talmente emozionato che avrei voluto abbracciare quegli esuli in Egitto a distanza di duemila e seicento anni. Gente che si era ribellata con coraggio a quel rompiscatole che li malediceva, a quel guastafeste di professione, del quale oltretutto mi tocca portare il nome. 
La strada si fa accidentata, e a un tratto la jeep si blocca. Yirmy scende a controllare il motivo dell'intoppo e scopre che intorno alle ruote si sono attorcigliati fitti arbusti dai piccoli fiori viola. — Guarda un po', — dice alla cognata, — ho parlato così tanto della Regina del cielo che ho trascurato quello che succedeva sulla terra, e non mi sono accorto che saremmo dovuti arrivare da tempo alla fattoria. Ma non fa niente. Non spaventarti. Troveremo la strada giusta, non siamo lontani. Ho una specie di walkie-talkie in macchina, e anche una vecchia pistola. 
 
13 
 
Nofar sente parlare ora per la prima volta della «ragazzina» e ascolta con grande interesse. Yaari è allibito dal modo in cui Efrat è riuscita a ricostruire la storia di un tradimento prolungato dai dettagli casuali che si è lasciato sfuggire la sera prima a cena. — Fantastico, — dice Nofar, — è proprio incoraggiante sapere che abbiamo un nonno romantico e intraprendente. Perché non andiamo davvero a dare un'occhiata a quella signora? Con gente di quell'età domani potrebbe essere troppo tardi, e saremmo tutti dispiaciuti di esserci persi una storia del genere. 
— Anche se noi moriamo dalla voglia di vedere Dvorah Bennet, — si arrende Yaari alla figlia e alla nuora, — ciò non vuol dire che lei voglia o possa riceverci proprio in questo momento. 
— Se davvero voleva bene al nonno le interesserà conoscere anche sua nipote, i suoi pronipoti e la loro madre, — proclama Efrat con grande sicurezza. — Dille che è solo per una breve visita. Non più di un quarto d'ora. Per vedere l'ascensore di Yoel. E che non stia a disturbarsi troppo. 
Dvorah Bennet è molto sorpresa di sentire al telefono la voce di Yaari: il loro appuntamento è per il giorno seguente. 
Ora è il turno di Yaari a essere sorpreso. Senza dirgli nulla suo padre ha promesso a Dvorah di recarsi da lei personalmente quella domenica per rendersi conto degli scossoni dell'ascensore e del cigolio. 
— Non sa che suo padre deve venire domani? — si stupisce l'anziana donna. 
— Non me l'ha neanche accennato. 
— Di sicuro ha paura che non gli permetta di muoversi. Allora ascoltami, giovanotto, e concedimi di darti del tu e di chiamarti giovanotto anche se sei già nonno: io insisto perché venga pure tu con lui, ci manca soltanto che mi ruzzoli giù per le scale. 
— Non si preoccupi, non lo lascerò solo nemmeno un istante. 
Naturalmente Dvorah Bennet è più che felice di mostrare a tutti l'ascensore costruito dal nonno, e di avere l'occasione di conoscere i membri della famiglia. 
Nofar corre al reparto per avere il permesso di terminare il turno solo un po' prima, e quando torna senza camice appare sottile e pallida ma con l'allegria tipica dei giovani si stringe fra le poltroncine dei nipoti. Sono quasi le quattro e la Gerusalemme invernale che va scrollandosi di dosso il sabato rimescola religiosità e laicità in un'unica, grigia realtà. Yaari parcheggia l'auto accanto alla vecchia Knesset, fiducioso che il sindaco ultraortodosso della città non permetta che i suoi vigili urbani profanino la santità del sabato dandogli una multa per sosta vietata. Nofar ed Efrat liberano i bambini un po' insonnoliti dalle cinture e chiudono i loro giubbotti. Nofar, che ha un debole per Nadi, lo subissa di baci, e poi lo prende in braccio per fargli attraversare King George Street senza pericolo. 
— Perché lo prendi in braccio? — la rimprovera Yaari. — È pesantissimo. 
— A me sembra leggero e carino, e a lui piace starmi in braccio. Vero, Nadi? 
Il bimbo tace e stringe forte la zia. 
Yaari e famiglia salgono le scale del vecchio edificio facendo un gran baccano. Nadi, ormai abituato a stare in braccio, insiste perché lo si porti anche su per le scale. — Gli fai prendere dei brutti vizi, — si secca Efrat. — Non è così che si fa. — Non fa niente, — mormora Nofar, barcollando sotto il peso del nipote preferito. 
Dvorah Bennet è contenta di quel gruppo di giovani arrivato a trovarla in quell'ora plumbea. — Come fai ad avere dei nipoti così dolci? — ironizza, quasi che la dolcezza non fosse il lato forte della sua famiglia. I bambini si sentono a loro agio con la vecchia, che offre loro cioccolatini e li conduce con il resto della brigata in camera da letto per mostrare a tutti il minuscolo ascensore inventato dal bisnonno. Mentre transitano nel corridoio che collega il salotto con la camera passano accanto allo studio, attraverso la cui porta aperta intravedono una signora distinta, dalla corporatura robusta, che fuma una sigaretta dal lungo bocchino. La padrona di casa la presenta agli ospiti: — La signora Karidy è una mia paziente di lunga data, ed è diventata anche mia amica. Ora è lei a prendersi cura di me anziché io di lei — . La signora sbuffa un grosso anello di fumo e fa un vago gesto con la mano, scoppiando in una risata roca da fumatrice accanita. 
In camera da letto Dvorah apre le ante dell'armadio, scosta la sottile grata di ferro ed ecco il minuscolo ascensore domestico nel quale ora c'è anche una piccola poltrona. — Venite, bambini, vi porto sul tetto, — dice il nonno ai nipoti in tono allegro, — e magari mentre saliamo sentirete un gatto affamato che miagola — . Neta ha paura a entrare nell'ascensore senza sua madre ma Nadi segue fiducioso il nonno. Yaari chiude la grata e preme il pulsante della salita. Ancora una volta la cabina ha un forte scossone, accompagnato da un miagolio nascosto che prosegue finché, lentamente, i due non raggiungono il tetto. 
Nadi graffia atterrito la mano di Yaari e gli abbraccia forte una gamba. Lui stringe a sé il nipotino e così avvinghiati escono sul tetto ad ammirare la città al crepuscolo. Un vento freddo soffia tra i vecchi serbatoi d'acqua e Yaari solleva il bambino perché non inciampi nei cavi neri delle antenne paraboliche. — Ecco la vecchia Knesset, —  gli spiega indicando l'edificio buio. Dall'appartamento urlano al nonno che richiuda la grata perché possano richiamare l'ascensore. E ben presto la comitiva si ritrova sul tetto con a capo la «ragazzina», avvolta in un plaid dai colori vivaci. Nofar ed Efrat lanciano esclamazioni di meraviglia, neanche fossero in cima al mondo, ma Nofar è dispiaciuta che i nuovi edifici nascondano le mura della città vecchia perché di sera, sulla Torre di Davide, si accendono le candele di una hanukkiah gigantesca. —
 Quante ne accendono stasera? — domanda Efrat. — Sei, 
— le ricorda Neta. — Allora le accenderemo anche noi. Dobbiamo tornare a casa, — conclude lei. 
La sera cala in fretta. Tra lembi di nuvole già brillano le prime stelle, e nelle strade si accendono i lampioni. L'aria di Gerusalemme è gelida ma asciutta. Soffia anche una leggera brezza però tutti, a eccezione di Nofar, sono ben coperti. Ancora una volta quest'ultima afferra il nipotino in uno slancio d'affetto e lo fa volare in alto, poco lontano dalla ringhiera. 
— Basta adesso, — la rimprovera il padre, — è pesante 'sto bambino. Va a finire che ti verrà uno strappo muscolare. 
All'improvviso sul tetto compare l'anziana paziente, la signora Karidy, con una nuova sigaretta accesa all'estremità del bocchino. Come una specie di nave dallo scafo tondeggiante, con un'unica luce in cima all'albero maestro, veleggia con tutto il suo peso tra i serbatoi d'acqua e le antenne paraboliche, diretta al bordo del tetto da cui osserverà meglio il mondo. E infatti, ben presto, si sente la sua voce arrochita dal fumo che grida: — Venite bambini, venite a vedere il fuoco — . La distinta signora ha davvero scoperto un varco tra i fabbricati che nascondono la città vecchia, attraverso il quale è possibile intravedere le magnifiche fiammelle che celebrano la festa di Hanukkah. 
 
14 
 
Daniela scende dalla vettura per aiutare il cognato nella difficoltosa manovra di retromarcia. — Torneremo un po' indietro, e se non troveremo il punto in cui abbiamo deviato dalla strada giusta per arrivare a questa aspetteremo finché non ci contatteranno dalla fattoria e verranno a farci da guida. Non ti preoccupare. Mi è già successo di sbagliare strada anche con Sijin Kuang al volante: hanno sempre chiamato e ci hanno sempre trovati. Sono sicuro di riconoscere questa collina davanti a noi, la posso vedere dal mio letto, e anche tu dovresti essere in grado di riconoscerla. Sono già quattro notti che ci dormi. 
La jeep ripercorre la strada in senso inverso ma all'incirca dopo un paio di chilometri Yirmiyahu e Daniela arrivano a un crocevia inaspettato, dove si intersecano quattro strade che i due hanno l'impressione di non avere mai visto. Yirmy ferma il fuoristrada e spegne il motore. — Basta, aspettiamo qui, per non fare un errore dopo l'altro, — dice. 
Prende uno straccio da una cassetta degli attrezzi e lo avvolge intorno a una grossa pistola. — Mi dimentico sempre come si fa a mettere la sicura, — spiega, — quindi non la maneggio molto, ma se arriverà un animale piuttosto grosso, cercheremo di spaventarlo — . Poi tira fuori anche il walkie-talkie e lo accende. Una spia rossa si illumina. Anch'esso, al pari della pistola, è un souvenir dei tempi degli inglesi, magari persino dei tedeschi, miracolosamente ancora funzionante. 
L'apparecchio emette a un tratto un fischio stridulo e Yirmiyahu, premendo un pulsante, si fa riconoscere con qualche parola di inglese. — È ancora presto perché si preoccupino per noi, — dice, — ma tra un po', quando farà buio e vedranno che non siamo tornati, qualcuno cercherà di contattarci. Non ti preoccupare, non siamo lontani e qui non ci sono pericoli. 
— Non sono preoccupata, — risponde Daniela tranquilla. — Sono convinta che anche Shuli, come me, abbia scelto un marito di cui ci si possa fidare. 
Siedono in silenzio nell'auto mentre il cielo si fa violaceo. Daniela si accorge che il cognato è di buonumore, magari per effetto dello sfogo collerico contro il profeta suo omonimo. Osa rivolgersi a lui con dolcezza: — Mi diresti, se non ti pesa troppo, se hai capito alla fine cos'è successo quella notte a Eyal? 
— Sì, l'ho capito perfettamente, — risponde lui con semplicità. — Quel palestinese che gli aveva dato un caffè perché rimanesse sveglio tutta la notte sapeva esattamente come mai era sceso anzitempo dal tetto, ma non l'aveva rivelato a nessuno, soprattutto perché a nessuno era venuto in mente di domandarlo proprio a lui. So che Eyal è sempre stato un tipo puntuale e anche l'orologio che ci hanno restituito era rimasto bloccato più o meno all'ora giusta, e quindi sono stato costretto a condurre una mia indagine personale per scoprire come mai i soldati avessero commesso un errore e scambiato Eyal per il loro ricercato. Mi sono rivolto a un farmacista arabo cristiano di nome Emil, una persona intelligente, che vive a Gerusalemme est ma che è riuscito a rientrare in possesso della farmacia appartenuta a suo padre a Gerusalemme ovest prima della guerra d'indipendenza israeliana. Io ero suo cliente ed ero diventato un po' suo amico. Lui sapeva che Eyal era rimasto ucciso e gli avevo anche raccontato quanto quella storia del «fuoco amico» mi facesse star male. Mi sono rivolto a lui perché mi aiutasse a entrare in contatto con il palestinese di Tul Karem che era sfuggito all'incontro con me e con l'ufficiale superiore di Eyal durante la mia prima visita. 
Dopo un paio di settimane circa, in cambio di una consistente somma di denaro —  non al farmacista che agiva solo per buoni propositi, ma al palestinese, un uomo di circa sessant'anni dall'aria lugubre e sospettosa che aveva paura di rivelare il suo nome — abbiamo incontrato quest'ultimo una sera davanti alla serra del kibbutz Nitzaney Oz, dove lui lavorava a cottimo, perché potesse spiegarmi, da quello che ricordava, cos'era successo sul tetto, visto che ci abita sotto. E quello che era successo era talmente semplice nella sua stupidità, umano ma anche umiliante, che ho avuto pietà di Shuli e non le ho raccontato niente. Potrei picchiare la testa contro il muro per la disperazione. 
Daniela gli punta addosso lo sguardo: prova un grande senso di angoscia. 
— Il mio caro, ingenuo, stupido, beneducato figlio — un soldato che aveva sequestrato il tetto di una famiglia nei territori occupati e suscitato il terrore dei suoi abitanti — si vergognava di lasciarsi alle spalle il secchio che gli avevano dato per fare i suoi bisogni perché era preoccupato... 
— Preoccupato di cosa...? 
— Di fare brutta figura, di perdere la faccia agli occhi di quella famiglia palestinese, e quindi non voleva lasciare il secchio sul tetto, né svuotarlo rovesciandolo di sotto, ma qualche minuto prima dell'ora stabilita, quando avrebbe dovuto smontare di guardia, è sceso dal tetto con in mano il secchio. E non per abbandonarlo in un angolino, ma per lavarlo per bene. Lavarlo, capisci? così l'avrebbe restituito alla famiglia pulito come l'aveva ricevuto. Era ingenuità? Riguardo verso gli altri? Rispetto? Più che altro stupidità. Un'abissale mancanza di comprensione per cosa valga la pena correre dei rischi e per cosa no. E così, un attimo prima di sentire gli spari, l'arabo sente scorrere l'acqua in cortile. E i soldati appostati in agguato, che non avevano visto scendere dal tetto il loro commilitone ma una sagoma scura che si intrufolava all'interno dell'edificio, perché avrebbero dovuto pensare che non si trattasse del ricercato che avevano atteso per tutta la notte? 
— E l'arabo ha visto ogni cosa con i suoi occhi? 
— Lui non ha visto proprio niente, era dentro. Ma si è svegliato al suono dell'acqua che scorreva dal rubinetto aperto. E comunque non aveva dormito molto quella notte. Poi ha sentito degli spari e al mattino, dopo che i soldati se n'erano andati portandosi via Eyal, ha trovato davanti all'ingresso del palazzo il secchio lavato e pulito. Ecco un soldato pronto a disattendere un ordine preciso per proclamare: anch'io sono un essere umano e vi restituisco il secchio pulito. È vero, tengo sotto occupazione le vostre terre, ma non ho sporcato casa vostra. 
— E l'arabo... si è almeno commosso per il gesto di Eyal? 
— Anch'io me lo sono chiesto. Non in quel momento però. Solo dopo aver digerito la storia. Perché lui aveva raccontato tutto con viso impassibile, senza tradire nessun sentimento. Aveva riferito dei semplici fatti senza alcun valore aggiunto, aveva preso il denaro che io gli avevo dato e si era affrettato a tornarsene a Tul Karem. L'ora del coprifuoco era vicina. 
— Ma perché non hai raccontato questa storia a Shuli? 
— Sai com'era tua sorella... Si sarebbe subito fatta venire degli enormi sensi di colpa per come aveva educato Eyal, per avergli inculcato la mania dell'ordine e della pulizia. 
Daniela tace. Capisce perfettamente l'intenzione del cognato. 
I contorni della collina poco lontana, loro punto di riferimento, si sfaldano lentamente in un profilo informe. Un grosso stormo di uccelli vola nell'aria mite. Yirmiyahu estrae dalla jeep una barella, la depone al suolo e vi si stende. Daniela guarda quell'uomo grosso e pelato che chiude gli occhi. Vorrebbe dirgli qualcosa, poi ci ripensa. Scende dalla jeep, si allontana di qualche passo, trova un punto in cui l'erba è un po' più alta, abbassa i pantaloni, si accovaccia e fa lentamente pipi. Alle ultime gocce solleva gli occhi al cielo e scopre un primo gruppo di stelle che già risplendono sopra la sua testa. 
Un sibilo acuto risuona nell'aria africana spegnendosi subito in un gemito. Poi una voce metallica e spezzettata emerge dall'apparecchio in un inglese perfetto. —  Jeremy, Jeremy, dove sei? — Yirmy schizza dalla barella per rispondere, per acciuffare quella connessione che si è stabilita. 
— Vieni, Daniela, — dice alla cognata mettendo in moto la jeep. — Sali e vedrai che sorpresa ti aspetta. 
E mentre si avviano lentamente lungo la pista sterrata in direzione della collina dai contorni incerti il cielo è attraversato da un razzo segnaletico che si apre in un ventaglio di luce giallastra. Lentamente ricade, la scia di luce svanisce, e un altro razzo schizza in alto nell'oscurità, e poi un terzo. 
 
  
La settima candela 
 
 
— Sappi soltanto che domani non ho assolutamente bisogno di te, — gli ha detto il vecchio la sera prima. — Francisco e io abbiamo organizzato una vera e propria squadra per aggiustare il piccolo ascensore di Gerusalemme. Tu occupati pure delle tue faccende in ufficio e prepara la casa per il ritorno di Daniela. Se però insisti a venire, fammi il favore di arrivare di mattina presto. Lo sai che tremo meno prima di mezzogiorno. 
— Di mattina presto papà, non all'alba. 
— Troveremo un compromesso. Non c'è poi questa gran differenza. 
Ma quando Yaari arriva a casa del padre alle sette e mezza lo trova seduto e tremante nella sua sedia a rotelle, già pronto a partire. La toilette mattutina è stata anticipata, la colazione è terminata e sul tavolo ripulito dalle briciole la bebé filippina si succhia avidamente il piedino circondata da cinque contenitori di plastica stracolmi di panini, biscotti e verdure. 
— Hai paura che la tua amica di Gerusalemme non ci offra un rinfresco? 
— Qualcosa da mangiare ci sarà sicuramente, però io la conosco bene. A causa dei suoi modi affettati magari i ragazzi non oseranno avvicinarsi al tavolo. Perciò mi sono preoccupato che non debbano dipendere da quello che ha preparato lei. 
— I ragazzi, i ragazzi, — ride Yaari. — Chi sono tutti questi ragazzi? 
Una vera e propria spedizione, a quanto pare. Oltre a Yaari sono in sei ad accompagnare il vecchio: l'autista di un'ambulanza privata che la madre di Yaari era solita chiamare nei giorni della sua malattia, Francisco e due suoi amici filippini, Hylario in veste di interprete e... una piccola sorpresa. 
— Quale sorpresa? 
— Una sorpresa, — risponde sorridendo il vecchio padre. — Lo vedrai da te. 
— Ma di che tipo? 
— Un po' di pazienza. Ti ho mai deluso, a tua memoria? Yaari guarda affettuosamente il padre, vestito a festa per la visita. Camicia bianca, giacca nera, e sulle ginocchia ha una cravatta rossa. Il tremito però non sembra essersi attenuato. — E le medicine? 
— Ho preso una dose un po' più forte del solito. E ne ho in tasca un'altra, nel caso la ragazzina tentasse di oltrepassare i limiti. 
— Da quanti anni non la vedi? 
— Dall'inizio del millennio. Da quando la mia malattia ha cominciato a peggiorare. Allora ho capito che non era dignitoso che dei vecchietti come noi si facessero delle illusioni. 
— Illusioni su cosa? 
Il vecchio Yaari si toglie gli occhiali, avvicina l'orologio agli occhi per assicurarsi che le lancette si muovano, poi li punta sul figlio. — Illusioni... illusioni... —  borbotta. — Sai perfettamente a cosa mi riferisco, quindi oggi non far finta di non essere quello che sei. — Sarebbe a dire? 
— Sarebbe a dire un ingegnere non particolarmente acuto, di mentalità ristretta e dagli orizzonti limitati. 
Non avendo mai frequentato l'università, al vecchio capita ancora di prendere in giro il figlio per la sua laurea in ingegneria. Ma Amotz insiste. 
— L'illusione che l'amore possa consolare la perdita di una persona cara? 
Il padre agita le mani, irritato. 
— Se vuoi pensarla così, a me sta bene. Ma fammi un favore, rimanda a più tardi la filosofia spicciola e dimmi invece se devo mettermi anche la cravatta rossa o se sto esagerando. 
— Visto che non hai intenzione di truccarti in onore di questa visita, credo che la cravatta rossa possa ravvivare il tuo colorito pallido. 
— Ma con questa cravatta elegante Dvorah potrebbe erroneamente pensare che non vado a trovarla solo in veste di tecnico che mantiene gli impegni. 
Yaari prende la mano tremante del padre. 
— Un amante-tecnico, niente di più sexy. 
Qualcuno bussa sommessamente alla porta. Hylario, seduto accanto al grande tavolo perché la piccola non spalanchi braccia e gambe e faccia un volo a terra, corre ad aprire. Due ragazzi filippini, con un viso triste di adulti e l'aria imbarazzata, entrano in casa e si avvicinano subito alla bimba, che li gratifica di un sorriso amichevole. Kinsey arriva frettolosa dalla cucina e presenta gli ospiti: Marco e Pedro, due cari amici. Questa mattina hanno ottenuto un esonero dalle loro incombenze di badanti per dare una mano a Francisco a portare l'uomo di cui si occupa fino al quarto piano di un palazzo di Gerusalemme, la casa della sua amante. 
 
 
Per la quinta notte consecutiva Daniela si sveglia col buio pesto, colta da un'ansia improvvisa per Nofar, talmente dedita al suo lavoro in ospedale che forse, inavvertitamente, potrebbe rimanere contagiata da una qualche malattia sconosciuta. Tra due giorni, non appena farà ritorno in Israele, pretenderà di sapere a quali vaccinazioni deve sottoporsi un'infermiera ausiliaria e quali sono le direttive in merito alle cure di pazienti affetti da patologie rare. È vero che da qualche anno lei e Amotz evitano di intromettersi nelle faccende private della figlia, ma una malattia non può ritenersi tale. 
È indecisa se accendere la luce o tentare di riprendere sonno, ma dopo essere rimasta stesa in silenzio e a occhi chiusi per un quarto d'ora si rende conto che non ce la farà più a riaddormentarsi, e accende l'abat-jour per cercare di rimuovere l'angoscia leggendo dello smarrimento materiale e morale della protagonista del libro. Però dopo un paio di pagine la sensazione di arbitrio che avvolge il romanzo la porta a interrompere la lettura. Finti problemi letterari non fugheranno preoccupazioni reali, e in mancanza di meglio sostituisce il romanzo israeliano con la traduzione della Bibbia del re Giacomo. Sulle prime rilegge il Libro di Geremia, per verificare con calma fino a che punto sia giustificata la vibrante protesta del profeta omonimo del cognato. E in effetti il livello di aggressività verso i membri del suo popolo, sostenuto dal virtuosismo letterario di arabeschi lessicali, conferma il sospetto di Yirmy che quelle profezie di sventura, più che essere state pronunciate con pena e dolore, siano state fatte con godimento, e soddisfazione. 
Cerca il Libro di Giobbe. Lì almeno la sofferenza umana è libera da sentimenti nazionalisti. E c'è anche la speranza di trovare molte parole rare che metteranno alla prova il suo inglese. 
Nell'edizione che ha tra le mani, il Libro di Giobbe è collocato ben prima di quello di Geremia, chissà perché, ma dopo averlo scoperto Daniela vi trova senza fatica parole che le sono sconosciute: 
 
froward collops 
asswaged reins gin cockle  
neesing 
 
Quell'incontro con la Bibbia per mezzo di parole il cui significato le è del tutto oscuro in una lingua che lei ama e insegna, l'affascina e le reca piacere, così annota i vocaboli nell'ultima pagina del romanzo per ricordarli. Magari sottoporrà a un piccolo test il sovrintendente all'insegnamento dell'inglese del provveditorato, uno scapolo ironico nato e cresciuto in Sudafrica che l'ha presa in simpatia e le ronza sempre attorno. Ma sarebbe bello causare imbarazzo a un amico senza avere la certezza che possa superare con successo l'esame? 
Accantona il Libro di Giobbe che, per quanto le sembri serio, è infarcito di sfibranti ripetizioni. E poi, mentre un sonno pigro le accarezza gli occhi, riflette che la Bibbia si potrebbe tranquillamente abbreviare un poco senza che nulla di significativo vada perduto. Si alza a chiudere le imposte per schermare la luce del sole con ancora il libro in mano, ma prima di posarlo e spegnere l'abat-jour, decide di dare un'occhiata al Cantico dei Cantici. 
Già l'incipit sensuale — Let him kiss me with the kisses of his mouth — fluisce in un inglese musicale. Qui non ci sono parole incomprensibili, ogni termine appare appropriato, consono, e fra le righe aleggia lo spirito dell'originale ebraico. L'inglese arcaico suona con grazia ed eleganza, venato persino da una nota di umorismo. Ecco l'amore, esplicito, generoso, a volte supplicante, altre volte prorompente e audace, che si crogiola nel sole di mezzogiorno, o si infiamma di notte. 
Sì, adesso capisce perché Yirmiyahu ha pianto leggendo queste righe. 
 
I am black, but comely, 
O ye daughters of Jerusalem, As the tents of Kedar, 
As the curtains of Solomon. 
Look not upon me because I am black. 
Because the sun hath looked upon me. 
 
Nella mente di Daniela, stesa sul suo giaciglio, di notte, nel continente africano, ora spunta l'immagine di Sijin Kuang, proveniente dal deserto sudanese, nera e bella, alta come una palma, che vaga di notte per la città malata d'amore, si aggira per le piazze e le strade, cerca il suo amato ma non lo trova. Le sentinelle sulle mura la scoprono, la percuotono, la feriscono, le strappano il mantello, e lei è come una rosa tra le spine... 
Daniela prosegue, rincorrendo la protagonista per otto capitoli, senza piangere ma commossa. 
 
O that thou wert as my brother,  
That sucked the breasts of my mother,  
When I should find thee without, 
I would kiss thee, 
Yea, I should not be despised. 
 
Chiude il libro, lo mette da parte. Spegne la luce, si avvolge nelle coperte e sprofonda in un sonno consolatore. Non una sola ora trascorre ma ben tre, mentre la luce violenta del mattino cerca invano di filtrare dalle fessure delle imposte. Finché un colpo alla porta non la sveglia. Certa che sia il cognato, venuto a chiamarla per la colazione, o magari Sijin Kuang, di ritorno alla fattoria, senza pensarci due volte Daniela invita la persona al di là della porta, che non è chiusa a chiave, a entrare. Ma il battente non si apre. Lì dietro, infatti, sul pianerottolo delle scale, si nasconde l'archeologo ugandese, il dottor Roberto Kukirise, che chiede con grande cortesia il permesso di entrare per avere con Daniela una conversazione a quattr'occhi. 
Lusingata che l'intellettuale più illustre della spedizione abbia trovato il tempo di venire personalmente in camera sua, Daniela gli chiede di attendere un istante prima di aprire. Si sfila la camicia da notte, corre a piedi nudi a lavarsi la faccia, indossa l'abito africano, riordina in fretta il letto, chiude il romanzo israeliano lasciato aperto a faccia in su e lo posa accanto alla Bibbia. Ma prima di recarsi alla porta spalanca le imposte per far entrare l'aria limpida e fresca e poi, ancora a piedi nudi, impugna la maniglia. 
 
3. 
 
Francisco fa entrare Maurice, il proprietario dell'ambulanza privata che anni prima aveva fatto da autista alla madre di Yaari accompagnandola per esami e cure mediche in cliniche e ospedali. Maurice è originario dell'Egitto e ha portato con sé in Israele il temperamento placido e tollerante degli abitanti della terra del Nilo. Talvolta, con una sola frase, infonde speranza nei malati che scorrazza avanti e indietro. Nei suoi ultimi anni di vita la madre di Yaari gli si era molto affezionata e preferiva chiamare lui anziché prendere un taxi anche per recarsi a fare la spesa, o per andare a trovare le amiche. 
— Ecco il nostro Maurice, — dice il vecchio Yaari tendendo affettuosamente le braccia verso l'uomo tarchiato e di bassa statura. — Quando ti vediamo ci rammentiamo di chi ti voleva bene. 
Lui si china verso la sedia a rotelle e abbraccia il vecchio con cautela, come se fosse di vetro fragile. Poi stringe calorosamente la mano a Yaari. È contento di essere stato richiamato al servizio della famiglia, soprattutto visto che non si tratta di un viaggio in ospedale, ma di un incontro con una vecchia amante. 
Il padrone di casa si fa paonazzo, e agita il dito in direzione di Francisco, un po' troppo chiacchierone. Ma Yaari ride. — Ecco la prova che di giorno in giorno il cuore ringiovanisce. 
È una giornata uggiosa a Tel Aviv, e c'è da aspettarsi che lo sia ancora di più a Gerusalemme. Yaari insiste che Francisco faccia indossare al padre un pesante cappotto, e sopra una mantellina di nylon nera con un cappuccio simile a quello che si sfila dal colletto del giubbotto dei nipotini. E Marco e Pedro, dopo aver portato all'ambulanza una cassetta degli attrezzi preparata in precedenza e la borsa frigo con i contenitori di plastica, accompagnano all'ascensore anche l'anziano spasimante, spingendo la carrozzella nell'ambulanza azzurrina, a dire il vero un po' invecchiata, come il suo proprietario. Yaari valuta se salire sull'ambulanza col padre o viaggiare con la sua auto. Alla fine decide di tenerlo d'occhio da vicino, nonostante sia costretto a stringersi fra i taciturni filippini. 
— E la sorpresa? 
— La sorpresa ci aspetta al numero nove di Rabin Square, vicino alla libreria «Topo di biblioteca». 
L'indirizzo viene comunicato al conducente. 
Accanto al negozio di libri, ancora chiuso a quell'ora, è in attesa una figura di sesso e di età indefinibile. Un velo di pioggia sottile impedisce di vedere se è uomo o donna, giovane o anziana. E anche quando quella creatura misteriosa si infila rapidamente nell'ambulanza scrollandosi l'acqua di dosso e scoprendosi i capelli tagliati corti e il viso un po' rugoso, non è facile riconoscerne il sesso e l'età. 
Ma il vecchio scioglie l'enigma. — Vi presento l'esperta di Gottlieb, che oggi ci aiuterà a capire il motivo degli scossoni e dei cigolii dell'ascensore di Gerusalemme. Rochale? Rorale? Si chiama così, vero? Questo è mio figlio Amotz, il mio erede. 
— Ho già conosciuto l'erede dell'erede, — sorride la donna minuta, togliendosi l'impermeabile fradicio sotto il quale indossa una tuta da lavoro blu. — Speravo proprio che ci fosse anche lui. 
— È agli arresti in una base militare per non essersi presentato come riservista. 
— Non mi pare un comportamento che gli si addica. 
— Non sempre la realtà corrisponde alle nostre aspettative, — sospira Yaari. 
Marco e Pedro osservano con simpatia la donna minuta, il cui fisico giovanile si accosta delicatamente a un volto dalla fisionomia adulta. Se non fosse per i capelli biondi e gli occhi azzurri, la si potrebbe scambiare per una filippina. 
— Moran mi ha detto che avete ascoltato i venti nel grattacielo Pinsker e che lei pensa che il problema non sia dovuto ai nostri ascensori ma a difetti di costruzione del vano di corsa. 
— Non lo penso, — sorride paziente l'esperta, — ne sono sicura. Si dovrebbe piazzare sul tetto della cabina dell'ascensore il geometra dell'impresa di costruzioni, mettergli in mano una potente torcia elettrica e portarlo dritto al punto in cui ha commesso l'errore, perché lo veda e riconosca le sue colpe. 
— È proprio quello che ho proposto di fare a Gottlieb, — commenta Yaari, compiaciuto della sicurezza professionale di quella donnina, — illuminare il vano. Ma noi, come studio di progettazione, non siamo autorizzati a toccare le cabine. Quelle sono di vostra competenza. E il guaio è che il suo Gottlieb insiste a non voler fare nulla, nemmeno per dimostrare che la colpa è di... 
— Ma è ovvio, — lo interrompe vivacemente l'esperta. — Perché dovrebbe? Lui si guarda bene dal toccare anche un solo bullone se non ne ha un tornaconto. Lo conosco da quando ero piccola: è una specie di mio patrigno. 
— Gottlieb è suo patrigno? — Il vecchio Yaari è allibito e cerca inutilmente di avvicinarsi a Rorale con la sedia a rotelle. La pioggia sferza il tetto dell'ambulanza e i finestrini sono appannati dal vapore. 
— Non lo sapevate? Non ve lo ha accennato? 
— Assolutamente no. 
— È tipico di lui nascondere la nostra parentela. Mio padre era un suo dipendente, e dopo la sua morte Gottlieb ha consigliato a mia madre di mandarmi in un kibbutz dove avrei potuto anche lavorare per mantenermi agli studi, sia perché non pesassi sul bilancio famigliare, sia perché a lui fosse più facile farle la corte. Quando tornavo a casa per le vacanze lui metteva il broncio e se ne andava per evitare qualsiasi responsabilità. Mi ha sempre considerata una ragazza strana, anche perché sono rimasta piccola e magra. All'inizio non era per nulla contento che lavorassi in un'autofficina. Il mio mestiere non corrispondeva alla sua idea di femminilità. Pensava che avrei dovuto lavorare in cucina, o nella lavanderia del kibbutz. Ma quando ha scoperto che riuscivo a individuare la causa di guasti tecnici grazie all'udito, e gli ho dimostrato di poterlo fare anche con gli ascensori di sua fabbricazione, ne è stato talmente entusiasta che mi ha proposto di lavorare per lui. Ancora oggi però fa fatica ad ammettere di avere rapporti di parentela con me. Penso di fargli un po' paura. 
— Paura? — Yaari sembra perplesso. 
— E che ne so? A quanto pare le cose irrazionali, all'apparenza un po' mistiche, lo spaventano. Crede che io senta delle voci ed è intimorito da questi fenomeni, anche se possono tornargli utili. Chissà, un domani potrebbero ritorcersi contro di lui e mandarlo sul lastrico. 
Il vecchio Yaari scoppia a ridere e le prende affettuosamente la mano. 
— Ma da dove arriva questa sua abilità? Anche Moran ne è rimasto strabiliato. 
— Vi sembrerà strano ma ho scoperto di avere un udito finissimo grazie alla musica. 
— Che tipo di musica? — domanda il vecchio, che pare incantato da quella donnabambina. 
— Avete mai sentito parlare del festival di musica da camera che si tiene al kibbutz Kfar Blum? È organizzato dall'ente radiofonico israeliano, e persone da ogni parte di Israele arrivano ad ascoltare brani di musica classica nella speranza di migliorare la propria cultura. Il kibbutz gestisce il festival, ed è responsabile dell'amministrazione, dell'ospitalità e dell'intera organizzazione. Fa buoni affari e dà lavoro a parecchia gente. Ci sono i biglietti da vendere, l'allestimento da curare, le sale prove da sistemare, sedie, pianoforti e leggii da spostare, le luci da montare. Il pubblico è invitato a presenziare alle prove e per gli amanti della musica è un vero godimento. Ci sono appassionati che vanno solo alle prove, non ai concerti. Dopo il congedo dall'esercito sono entrata a far parte dello staff organizzativo del festival e ho avuto modo di assistere a molte prove durante le quali seguivo i commenti sulla cadenza e sulle tonalità delle note, sulla delicatezza dei vibrati nei passaggi melodici, sui crescendo non perfettamente limpidi, sui glissando sbarazzini, e anche sullo sforzo di schivare stonature e disarmonie. Da centinaia di anni in tutto il mondo si suonano fughe di Bach e sonate di Mozart, quindi quali novità potrebbero mai apportare gli esecutori delle loro musiche se non qualche sottilissima limatura? Me ne stavo seduta lì incantata, con le orecchie tese, e quando ho imparato a leggere la musica ho scoperto di avere quello che si definisce un «orecchio assoluto», in grado di riconoscere non solo gli intervalli tra le note ma di identificare le note stesse, associandole al loro nome e persino riproducendole nella corretta tonalità. 
— Un orecchio assoluto senza aver studiato musica fin da piccola? 
— Sì, probabilmente è una disposizione innata. E quando l'ho scoperta ho cominciato a far caso anche ai suoni in autofficina, a sfruttare questa mia capacità per trovare un nesso tra scricchiolii e cigolii di ogni genere in camion e trattori e avarie del motore. Percepisco rumori debolissimi che, se riconosciuti in tempo, possono far risparmiare un sacco di guai. Dopotutto qui da noi, in Israele, finché qualcosa non si guasta, o si rompe, non si fa nulla per prevenire il danno. Ad esempio adesso sento dei fruscii al cambio automatico di questa ambulanza quando innesta una nuova marcia, e non appena arriveremo a Gerusalemme il nostro conducente farebbe meglio a controllare il livello dell'olio nel blocco cambio. Non vorrei che rimanessimo in panne al ritorno, sotto la pioggia. 
 
 
Daniela non riesce a ricordare l'età dei frammenti delle ossa che le sono state posate accanto al piatto quattro giorni prima, durante l'indimenticabile cena al sito degli scavi. Però ha capito chiaramente le spiegazioni dell'archeologo sul metodo di «trasmissione» nei processi evolutivi e ritiene che sarà in grado di ripeterlo ad Amotz non appena ne avrà l'occasione. Il suo ospite ugandese è l'unico tra i membri della spedizione ad aver portato a termine un dottorato di ricerca, e al dipartimento dell'università di Londra oltretutto. Per questo, probabilmente, si sente più disinvolto e sicuro di sé se ha osato autoinvitarsi in camera sua per avanzare una richiesta insolita, e formulandola al plurale, perdipiù. 
— Mi spiace di averla disturbata e di interferire nella sua privacy, — si scusa con Daniela sedendosi su uno sgabello ai piedi del letto, — ma siccome sappiamo che domani lei partirà, e questa sera noi torniamo al sito degli scavi, abbiamo deciso di parlarle privatamente ancor prima di ricevere l'approvazione di Jeremy. È molto importante per noi che lei ascolti la nostra richiesta perché la possa valutare prima di consultarsi con suo cognato. Come vede non parlo solo a nome mio ma anche a quello dei miei colleghi, che sono stati molto contenti della sua breve visita e dell'interesse che ha mostrato per il nostro lavoro. Ma anzitutto vorrei domandarle se c'è la possibilità che lei torni in Tanzania, o comunque in Africa, l'anno prossimo. 
— Non credo, — sorride lei, — è più probabile che non vi ritorni mai più. La mia visita è di carattere molto personale e ha raggiunto il suo scopo. Non credo neppure che mio marito voglia acconsentire a lasciarmi partire un'altra volta da sola. Siamo già stati in Tanzania tre anni fa, quando mia sorella era ancora viva, e con lei e Jeremy abbiamo visitato alcune riserve naturali. Se Jeremy decidesse di rimanere qui, toccherà a lui venire a trovarci, non il contrario. 
Nonostante l'archeologo sembri apprezzare la sua presenza, Daniela ha l'impressione che sia soddisfatto che lei non abbia intenzione di tornare in Africa. 
Come se la sua richiesta dipendesse dal fatto che lei se ne vada per sempre. 
— A proposito, pure Jeremy non potrà rimanere ancora molto con noi. 
— Perché? — domanda lei con un po' d'apprensione. 
— Perché la spedizione ha fondi sufficienti soltanto per un altro anno di scavi, e poi ognuno se ne tornerà nella propria patria. Ma credo che Jeremy si stia già cercando un'alternativa. 
— E dove? — domanda Daniela, contrariata. — Farebbe meglio a tornarsene in 
Israele. 
— Ma lui non ne vuole sapere. 
— Sciocchezze... non stia a sentire quello che dice. 
Il dottor Kukirise è sorpreso dallo sdegno improvviso di Daniela, che ora si chiude in un lungo silenzio. Ma un poco alla volta, superati gli indugi, comincia a illustrare la sua richiesta in tono suadente, partendo da lontano. Inizia parlando del destino dei ricercatori africani che, per quanto audaci e intraprendenti, ancora dipendono dal giudizio dei colleghi bianchi. Costoro hanno il controllo su archivi ben organizzati e dispongono di laboratori avanzati. Alcuni membri della spedizione mantengono una corrispondenza elettronica con alcuni studiosi americani ed europei, interessati ai grossi primati africani, e riferiscono loro le scoperte fatte e le speranze future. Ma anche se i bianchi incoraggiano il loro lavoro non possono avallarlo da un punto di vista scientifico senza prendere prima personalmente visione dei reperti, e la loro approvazione è necessaria non solo per rassicurare i ricercatori ma anche per ottenere nuovi fondi. 
— E allora è semplicissimo. Perché non spedite loro i reperti? 
— Potrebbe essere semplicissimo, — dice l'ugandese, — ma non lo è. Infatti è assolutamente vietato esportare fossili senza un'autorizzazione del governo. 
— E come mai? 
— Perché sono ritenuti patrimonio dello stato. 
— Qualche ossa di scimmia? 
— Certo — . Il viso di Kukirise si incupisce, la sua voce si fa tesa. — Anche ossa di scimmie vecchie di milioni di anni sono un patrimonio di grande valore e quando in Tanzania, o in una nazione vicina, verrà costruito un grande museo, 
i reperti della spedizione vi troveranno posto. In Africa non ci sono grandi opere d'arte, né reminiscenze storiche di battaglie o guerre antiche che hanno cambiato la faccia della terra, né scrittori o filosofi divenuti dei classici. Eppure questo continente è la culla dell'umanità, e perché non dovremmo andar fieri di quello che abbiamo dato al mondo? Sempre che l'umanità abbia ancora un ruolo di qualche importanza. 
Mortificata per le sue parole precipitose, Daniela annuisce con vigore. 
Kukirise continua a spiegare che per inviare dei reperti fuori dall'Africa non solo occorre un'autorizzazione particolare ma è necessario stipulare una polizza assicurativa che li tuteli e depositare una somma a titolo di cauzione. In questo modo i costi diventano proibitivi, senza parlare poi del complesso e infinito iter burocratico. Infatti le autorità tanzaniane temono che se quelle ossa cominciano a circolare per il mondo nessun ricercatore verrà in Africa a studiarle. In Etiopia ad esempio si era reso recentemente necessario un benestare firmato dal capo dello stato in persona per inviare una mandibola di scimpanzé in Francia, perché venisse esaminata. — Addirittura. 
— Addirittura — . Kukirise si alza e si mette a passeggiare pensieroso su e giù per la stanza: è arrivato il momento di illustrare la sua richiesta. 
— Lei forse conosce un istituto israeliano che si chiama Abu Kabir... 
— Abu Kabir? — Daniela è sorpresa di sentire quel nome familiare pronunciato dall'uomo nero. — Certo... è il principale istituto di medicina legale israeliano. 
— Non appartiene agli arabi? 
— Perché? — Daniela gli fa notare l'equivoco. — È una struttura israeliana che serve indiscriminatamente ebrei e arabi. Il suo nome è rimasto forse perché un tempo in quel luogo sorgeva un villaggio arabo andato distrutto durante la guerra. Però è situato a Tel Aviv. 
L'ugandese chiude gli occhi per un istante. 
— Abu Kabir, il padre del grande. È un bel nome, pieno di vigore per un istituto di medicina legale. 
— Un bel nome? — Daniela è stupita. — Per noi è sinonimo di angoscia. È lì che si va a riconoscere le vittime di incidenti o di attentati. 
— Sì, è scritto anche nel suo sito internet. Ma probabilmente proprio per il gran numero di persone decedute per morte violenta che ci sono da voi Abu Kabir è diventato un istituto d'avanguardia, in cui si effettuano ricerche scientifiche molto avanzate anche sul riconoscimento di reperti del passato. 
— Può darsi — . Daniela incrocia le braccia sul petto e si stringe nelle spalle. — Io non oso avvicinarmi a quel posto, nemmeno attraverso il suo sito internet. 
— Noi ci chiedevamo — prosegue il dottor Kukirise ignorando il suo commento — se fosse possibile approfittare del suo ritorno in patria, domani, per trasferire in quell'istituto alcuni dei nostri reperti affinché vengano sottoposti a dei controlli. 
— Quali reperti? 
— Tre minuscole ossa, dal peso irrisorio e lunghe una dozzina di centimetri al massimo. 
— Vuole che le porti ad Abu Kabir perché vi dicano a chi appartengono? 
— Noi riteniamo che siano le ossa di un antico primate, l'Australopithecus afarensis. Lei ha già avuto il piacere di toccarle. Sono pulite e inodori. Secche ma non fragili. Non le ruberanno troppo spazio in valigia. Ci siamo già messi in contatto via e-mail con una ricercatrice di Abu Kabir, la professoressa Perlman, che ha acconsentito a esaminarle. 
Dopo aver finalmente avanzato la richiesta, Kukirise è all'apice della tensione. Punta i suoi occhi di fuoco sul volto di Daniela, che ancora non capisce. 
— Ma se lei dice che ossa come quelle sono un patrimonio nazionale, non avrò bisogno di un permesso ufficiale per portarle con me? 
— Sì, — ammette l'archeologo con franchezza, — ne avrebbe bisogno — . Ma dato che l'iter per ottenerlo è lungo e complesso, come le ha appena spiegato, lui e i suoi colleghi speravano nel buon cuore di Daniela per aggirarlo. Chi infatti sospetterebbe di una signora anziana, una comune turista, che contrabbanda importanti reperti? E chi poi si metterebbe a cercare ossa in un aeroporto? E anche se dovessero scoprirla, chi mai sarebbe in grado di dire che sono vecchie di milioni di anni? E a chi importa in fin dei conti? Sono ossa di un animale, non di un ominide. E anche se per ipotesi qualcuno, in Africa o in Israele, volesse insistere e scoprire come mai lei se ne va in giro con delle ossa in valigia, Daniela potrebbe sempre rispondere di averle portate con sé come souvenir dell'Africa per usarle come fermacarte sulla sua scrivania. 
Negli occhi dell'ospite israeliana si accende un sorriso. Sa già quale sarà la sua risposta, ma la tiene in sospeso di proposito. 
— Naturalmente chiederemo anche l'assenso di suo cognato, prima però volevamo sapere se lei se la sente di svolgere una missione di questo tipo. 
— Me la sentirei, — risponde lei con voce flebile, — se davvero fosse importante per voi. 
— Per noi è importantissima. 
— Allora, — la sua voce si rinsalda, — non state a parlarne con mio cognato. Perché metterlo in agitazione a causa mia? 
 
 
Una tempesta di pioggia e vento li ha preceduti lungo la strada che conduce dalla costa alla capitale, rendendo ancora più caotico il traffico in centro. Ma un'ambulanza, per quanto privata e di colore azzurrino, è autorizzata a imboccare la corsia veloce riservata ai trasporti pubblici e a parcheggiare ovunque, compresi i marciapiedi di fronte all'edificio della vecchia Knesset. Yaari padre si toglie il cappuccio dalla testa e si sfila la mantellina di nylon, e con il completo nero ormai stazzonato, ma reso più elegante dalla cravatta rossa, si spinge con la sedia a rotelle verso l'ingresso del palazzo, sorprendendo i suoi accompagnatori con la richiesta di arrivare all'ultimo piano con l'aiuto del solo bastone. 
Non sarebbe la prima volta che il vecchio ne ha abbastanza di starsene seduto in carrozzella. Daniela spesso lo incoraggia a camminare un po' mentre Amotz non è completamente convinto che quello sia un bene perché non sempre è facile accompagnare un vecchio che si appoggia soltanto al bastone. Ma questa volta la sua decisione è definitiva. Non comparirà davanti alla sua amica come un disabile. Il tremito della malattia potrebbe essere scambiato per emozione per la visita, ma la sedia a rotelle sarebbe uno schiaffo alla sua virilità. Neppure un semplice tecnico si sognerebbe mai di presentarsi su una carrozzella. E proprio per questo ha chiesto a Francisco di convocare i suoi amici perché, essendo di bassa statura, possano sostenerlo più facilmente sotto le ascelle e puntellarlo da dietro, tanto che ora sembra che il vecchio voli su per le scale, un piano dopo l'altro, verso una porta che conosce bene e sulla quale ancora campeggia la targhetta di sempre: Dottoressa Dvorah Bennet, Psicanalista. 
Una volta lì Yaari padre sorprende nuovamente i suoi accompagnatori con la richiesta di scendere una rampa di scale e di rimanere in attesa sul pianerottolo sottostante perché vuole mostrarsi all'amica come chi sta in piedi da solo. Amotz e l'esperta di Gottlieb si uniscono ai quattro filippini, stretti sul pianerottolo, attenti che la signora Bennet non li noti. Il vecchio, un po' curvo, si appoggia al bastone, allenta leggermente la cravatta e suona tre volte il campanello, come era solito fare in passato perché Dvorah capisse che non era un semplice paziente. La padrona di casa apre la porta. Ha indossato un abito di lana e si è sciolta i capelli in onore del vecchio Yaari. E malgrado nella luce del mattino appaia segaligna e grinzosa, i suoi movimenti sono agili e la voce è fresca. 
— Ecco qua il giovanotto, — esclama. — Ma dov'è la carrozzella che ti ha tenuto lontano da me? Ti vergogni ancora a usarla? 
Il vecchio tace, sbigottito. 
— Che c'è, caro, — dice lei stringendogli una spalla, — sono la stessa giovane donna che hai lasciato anni fa. Non spaventarti. E hai pure un bel bastone. 
Il tremito ha la meglio sul vecchio amante, così il bastone gli scivola di mano e per non crollare proprio sulla soglia lui si tende in avanti aggrappandosi con tutte le forze al collo della fragile vecchina, che cerca di resistere sotto quel peso imprevisto. 
Sul pianerottolo Yaari sente suo padre piangere forse per la prima volta in vita sua. Il piccolo Hylario solleva lo sguardo verso di lui, preoccupato e stupito, come a chiedergli perché non corre in suo aiuto. Ma Yaari è raggelato. I singhiozzi del padre sono ai suoi occhi l'espressione di un grande sfogo. Se salissi adesso, dice fra sé, lo mortificherei, lo metterei in imbarazzo. Guarda i filippini seduti silenziosi sui gradini, forse in ascolto, o forse no, magari sentono nostalgia di casa loro. Solo nei grandi occhi di Rorale aleggia un lieve sorriso, come se anche fra quei singulti lei riconoscesse delle note segrete. 
Con le poche forze che le sono rimaste Dvorah Bennet trascina il vecchio dentro l'appartamento e lascia la porta aperta, segno per Yaari e gli altri di entrare con cautela. Probabilmente l'ha messo a sedere nella sua poltrona dello studio perché a voce molto alta, come se lui fosse anche debole di udito, dice: — Ecco, adesso tu sei lo psicanalista e io la paziente. 
Sul tavolo da pranzo li attende un raffinato e costoso rinfresco. Yaari fa accomodare i filippini e, ormai pratico dell'appartamento, accompagna l'esperta in camera da letto. In corridoio si mette un dito sulle labbra mentre passano in silenzio accanto allo studio. Suo padre però sembra essersi già ripreso e li nota passare. — Le faccio soltanto sentire i rumori, — dice il figlio, continuando a guidare la piccola donna per mostrarle il minuscolo e incredibile ascensore, — per il momento non smontiamo niente. 
— Allora? — domanda poi a Rorale, guardandola nei grandi occhi azzurri. — Non mi dica di aver già visto qualcosa di simile. 
Lei sorride divertita. Sì, c'è di che meravigliarsi. Yaari sposta la grata e la fa entrare nella piccola cabina che sembra essere stata realizzata per una creatura minuscola come lei, dai capelli a spazzola, dal seno quasi piatto e che emana un profumo di fresco. — Adesso voglio proprio vedere cosa mi dice, — la sfida premendo il pulsante della salita. L'ascensore geme, ha uno scossone, quasi lottasse contro se stesso, ma prima che Rorale abbia il tempo di esprimere un parere Yaari si posa veloce un dito sulle labbra. — Aspetti, — dice, — c'è un'altra sorpresa — . E a quel punto, mentre l'ascensore sale lentamente, nel piccolo vano risuona una specie di miagolio di un gatto in calore. Rorale distende le labbra in un sorriso. Si guarda attorno alla ricerca di un quadro elettrico, ma le pareti sono lisce. Allunga la mano per rimuovere la foto di Jung e dietro quella scopre un quadro elettrico molto rudimentale. Il miagolio aumenta di volume. Lei estrae un piccolo tester dalla tasca della tuta ma Yaari la ferma. No, non le permetterà di toccare i fili prima di aver staccato la corrente fornita dall'azienda elettrica. 
— E chi altri dovrebbe fornirla? — si stupisce lei. 
— Non ha capito. La corrente che alimenta questo ascensore non è collegata all'impianto elettrico dell'appartamento. 
— E come mai? 
— Perché in questa casa non c'era un circuito trifase e quindi Dvorah avrebbe dovuto chiamare l'azienda elettrica per adeguare l'impianto, e questo avrebbe implicato un grosso lavoro di trapanamento di varie pareti. Ai tempi, per un intervento del genere, c'era una lista di attesa di due anni, per non parlare poi dei costi che la padrona di casa non era intenzionata a sostenere, anche se mio padre le aveva proposto di coprirli lui. Quindi mio padre decise di andare a prendere la corrente direttamente alla fonte, collegandosi a un palo. 
— E con quale diritto? 
— Col diritto che ogni cittadino ha di godere della proprietà pubblica. Lui appartiene a una generazione che non fa molta differenza tra proprietà pubblica e privata. 
— Sì, — sorride l'ex membro del kibbutz, — conosco la gente di quella generazione. 
Escono sul tetto. Un vento impetuoso li sospinge all'indietro. Yaari ha qualche dubbio. Con un tempaccio simile sarà impossibile individuare il cavo pirata, e di certo non può far salire lassù suo padre nella speranza che si ricordi dov'è posizionato. Ma l'esperta non si lascia scoraggiare dal freddo, né dal vento, e come una piccola gazzella si mette a saltellare tra panciuti serbatoi d'acqua, procedendo a balzi tra antenne paraboliche e tendendo l'orecchio verso fili del bucato vecchi e lisi, all'apparenza inutilizzati da decine di anni. 
Che tipo, pensa Yaari seguendone i movimenti, chissà come la definirebbe Daniela. Non solo è di età indefinibile, ma sembra cambiare sesso a seconda dei momenti. Non c'è da meravigliarsi che Gottlieb abbia paura di lei. Ecco, nonostante il temporale riesce a individuare il cavo giusto. 
— Non tocchi nulla, — grida Yaari mentre la sua voce si perde nel fragore del vento. 
Rorale indica un cavo attorcigliato, steso innocentemente tra i fili del bucato e che, penzolando dalla ringhiera del tetto, prosegue verso una non ben precisata direzione per rubare corrente elettrica. 
Si appoggia col ventre alla ringhiera, si piega in avanti per controllare fin dove arriva il cavo, i piedi le si sollevano in aria e Yaari si precipita ad afferrarla, pieno di apprensione. Lei, leggera come una piuma, vola all'indietro e va a finire rotolando sul tetto. 
— L'avverto, — dice lui porgendole una mano, — non tocchi nulla. 
— Ma se non staccheremo la corrente come potremo riparare il quadro elettrico? 
— Per me, questo ascensore può anche continuare a miagolare all'infinito, —  sbotta lui infuriato. — Non vale la pena rimanere fulminati per colpa sua. 
— Ma allora, — Rorale spalanca gli occhi, delusa, — mi avete pagato una giornata di lavoro per niente? 
— E con questo? Che gliene importa? — Yaari la conduce verso l'ascensore tenendola per un braccio. — Non si preoccupi però, — dice poi colpito da un'idea improvvisa, — la sua giornata di lavoro non è ancora finita. Quando torneremo a Tel Aviv andremo ad ascoltare gli ululati del grattacielo Pinsker. Bisogna approfittare di venti forti come questo. 
 
 
Eppure, pensa Daniela dopo che l'archeologo ha lasciato la sua stanza, forse non è giusto tenere nascosta a Yirmy la piccola missione che ho accettato di eseguire. Si infila le scarpe, si trucca e scende in cucina dove si prepara l'ultimo pasto dei membri della spedizione. Ma nonostante continuino ad arrivare nuove provviste, Yirmiyahu non è accanto alla porta per annotarle, e pagare i fornitori. 
— Dov'è Jeremy? — domanda al vecchio factotum che si è alzato per servirla. E l'uomo la informa che suo cognato è stato in cucina fino a poco prima, ma un feroce mal di testa l'ha spedito in infermeria. 
— Beh, è davvero arrivato il momento che si prenda cura di sé, — commenta Daniela di sfuggita alle orecchie dell'africano sorpreso dal suo appetito mattutino, visto che lei chiede di assaggiare persino le costolette d'agnello appena sfornate. I cuochi, viceversa, sono soddisfatti di quella fame e si affrettano a servirle una non ben identificata pietanza già pronta. — Ma signora, — dicono, — adesso che ha cominciato ad abituarsi agli aromi e ai sapori dell'Africa, se ne va? Quando sarà di ritorno? 
Daniela potrebbe compiacerli lasciando loro almeno qualche speranza, invece risponde in modo onesto e perentorio: — Mai più — . Poi raccoglie con il cucchiaino lo zucchero depositatosi sul fondo della sua tazzina di caffè e si addolcisce la bocca. Infine esce nella luce abbagliante del giorno, diretta all'infermeria. Non ha dimenticato lo scontro feroce e senza vincitori di cui era stata testimone due giorni prima su quello stesso sentiero, e sta attenta ad appoggiare i piedi solo sulla nuda terra, dove non potrà avere sorprese. 
Su un piccolo dosso a poca distanza dall'infermeria sono sedute alcune ragazze africane: due di loro sono incinte, e sembrano aspettare il proprio turno. La porta è spalancata. L'interno è diviso in due stanze. Nella prima, illuminata dalla luce del giorno, troneggia il lettino sul quale le è stata misurata la pressione. Nella seconda, più interna e in penombra, Daniela intravede il cranio pelato di suo cognato, disteso con la faccia rivolta verso la parete. 
Bussa leggermente alla porta aperta, lui gira il capo ma non si alza. Per la prima volta da quando è arrivata, cinque giorni prima, Daniela nota un guizzo di ostilità nei suoi occhi. 
— Sijin Kuang non è ancora tornata? — No. 
— È possibile che Zohara non la lasci andare? 
— Tutto è possibile. 
— Ma cosa c'è di tanto spaventoso in quel posto? 
— Perché spaventoso? 
Le risposte di Yirmy sono brusche e concise, come se lui cercasse di liberarsi di lei. Ma Daniela si siede sul secondo lettino quasi a proclamare: io di qui non mi muovo. 
— In cucina mi hanno detto che ti è venuto un terribile mal di testa. Hai preso un analgesico? 
— No. 
— Come mai? 
— Sijin Kuang chiude a chiave l'armadio delle medicine perché a volte qualche donna dei dintorni si intrufola qui per prendere farmaci di cui non ha bisogno. 
— E tu non hai la chiave? 
— Perché dovrei averla? Sijin Kuang è sempre nei paraggi. 
— E adesso che farai? 
— Aspetterò che mi passi il dolore. E se non ti dispiace, chiudi la porta. La luce mi dà fastidio. 
Yirmy si fa scudo con la mano sugli occhi. Daniela sente un fremito di pietà. 
— Visto che hai deciso di coricarti, perché non lo fai nel tuo letto? 
— In ogni caso quello non è il mio vero letto, e qui in infermeria non sento il chiasso che fanno i membri della spedizione. Stanotte loro se ne torneranno al sito e domani, dopo che sarai partita anche tu, mi riapproprierò del mio angolino. 
Daniela si alza e chiude la porta ma Yirmy non si toglie la mano dagli occhi, come a dire che anche con la porta chiusa non è in vena di fare conversazione. — Vuoi qualcosa da bere? 
— Dopo. 
— Vuoi che ti porti qualcosa? 
— Dopo. 
Daniela esce nel locale anteriore. Le donne africane si sono alzate e si sono avvicinate alla soglia dell'infermeria, forse nella speranza che la donna bianca possa dar loro le medicine di cui hanno bisogno. I loro mormorii l'accompagnano mentre lei porta a Yirmy un bicchiere d'acqua, e quando glielo porge lui non lo accosta alle labbra ma chiede alla cognata di posarlo sul pavimento. Lei insiste: — Bevi, se no ti disidrati — . Lui si rifiuta, lei non cede. Infine Yirmy si arrende, si mette seduto, beve e mormora: — Riesci sempre ad averla vinta tu, con tutti i membri della nostra famiglia. Siamo sempre andati al ristorante che volevi, seguendo il percorso che decidevi tu Daniela sorride: — Forse perché in cuor vostro sapevate che quello che io volevo era la cosa giusta per tutti — . Prende il bicchiere vuoto. — Ne vuoi ancora? 
— Yirmy non risponde e questa volta lei lo lascia in pace. 
Silenzio. Malgrado faccia caldo, fuori c'è vento. Nella camera sul retro le imposte sono chiuse ma tra le fessure splendono minuscoli punti di luce. Il chiacchiericcio delle donne africane si fa più distinto. Forse sono entrate in infermeria e adesso esaminano avide il lucchetto dell'armadio delle medicine. Per un istante Daniela valuta se raccontare a Yirmy della missione che ha acconsentito a compiere per i ricercatori, ma ha l'impressione che nel suo attuale stato d'animo potrebbe sollevare obiezioni, mentre lei desidera con tutto il cuore mantenere la promessa. Ha la strana convinzione che le ossa dell'antico primate, progenitore dell'intera umanità, possano avere un grande significato anche per gli israeliani. 
— Pensavi di mostrarmi qualcos'altro nel mio ultimo giorno qui? Fare qualcosa? 
— domanda guardinga al cognato. 
Lui si solleva, spinge il guanciale sotto la schiena e la trafigge con lo sguardo. 
— Di sicuro a te piacerebbe vedere qualche altro animale strano, come l'elefante dall'occhio da ciclope che ti ho mostrato il primo giorno. 
— Certo... ne sarei contenta. 
— Ma che ci posso fare, Daniela, ho solo quello. 
— Se non ne hai un altro, non fa niente. 
Dietro la porta le chiacchiere delle africane gorgogliano come un limpido ruscello. 
Lì per lì, senza pensarci, Daniela dice: — Sai, questa notte ho letto il Cantico dei Cantici. 
— In inglese? 
— Sì. E non è meno bello e commovente che nella versione originale. Anzi, l'ebraico sembrava proprio echeggiare nella traduzione. 
Yirmy tace, gira intorno lo sguardo. 
— E dopo che ho letto tutti gli otto capitoli ho compreso cos'hai provato. Leggere un testo simile è come spargere del sale sulle ferite. 
Yirmiyahu si alza e prende ad andare su e giù per la stanza: sembra ansioso di mandar via Daniela. All'improvviso sbotta, incollerito: — Ma che succede? Sei venuta in Africa per Shuli, e alla fine mi costringi a parlare di Eyal... 
— Ti costringo? — esclama lei sbalordita. — Ma in fin dei conti non c'è un nesso tra loro? 
— C'è un nesso tra tutto e al tempo stesso non c'è, — si innervosisce Yirmy. —  Non avrei dovuto raccontarti dell'ultima notte di Eyal. 
— Ma che dici? 
— Questa storia lo mette in ridicolo. 
— Stai dicendo un'assurdità colossale — . Daniela si ribella al cognato con tutta se stessa. — Il candore di Eyal è nobile, non ridicolo. 
Ma Yirmy insiste. — Quell'episodio nasconde qualcosa di molto profondo, che va al di là delle motivazioni personali. Non c'è dubbio che se un soldato israeliano prende possesso di una casa e ne terrorizza gli abitanti esponendosi poi a un rischio improvviso solo per restituire un secchio pulito, di fatto non fa che continuare a umiliarli. 
— Non cerco nemmeno di capire cosa tu voglia dire. 
— È ovvio che non capisci, e probabilmente non capirai mai — . Yirmy parla a bassa voce ma dentro di sé è sconvolto. — Gli ebrei, a dispetto di tutta la loro intelligenza, non riescono proprio a comprendere come gli altri li vedono. Io sto parlando di quelli che non sono davvero come noi, e non lo saranno mai. E invece bisognerebbe fare uno sforzo per capire, ad esempio, il motivo per cui quel palestinese al quale avevo consegnato una bella somma di denaro per raccontarmi cos'era successo la notte in cui Eyal è rimasto ucciso, non sembrava impressionato dal suo gesto. Si è intascato i soldi e se n'è andato senza dire una parola di ringraziamento, di cordoglio, o di elogio per il riguardo mostrato da mio figlio, per la sua buona educazione. E io, come un demente ossessionato, non riuscivo a capacitarmi di tanta indifferenza. Allora mi sono rivolto ancora al farmacista di Gerusalemme e ho insistito perché organizzasse un nuovo incontro con quell'uomo. Di notte, in piena Intifada, correndo un doppio pericolo, sia da parte delle nostre truppe che di quelle nemiche, mi sono recato a Tul Karem. E quella è stata la prima volta che ho intravisto il baratro nel quale stiamo precipitando, o meglio, voi state precipitando. 
Ecco il difetto genetico, riflette improvvisamente Daniela nel vedere gli occhi arrossati e fiammeggianti di Yirmiyahu nella stanza semibuia, non c'è nessun bisogno di andarlo a cercare fuori, in mezzo alla natura. 
 
 
Quando il piccolo ascensore si ferma con uno scossone accompagnato da un cigolio e la sottile grata si apre, i due passeggeri trovano il suo inventore seduto su una poltrona accanto al grande letto, con una tazza di tè in mano, una stufetta elettrica ai piedi e il bastone posato sulle ginocchia. — Allora, signorina, — dice rivolto a Rorale, — ha sentito un miagolio o pensa che la padrona di casa abbia le traveggole? 
— Né traveggole né gatto, — risponde lei risoluta. — Nel suo delizioso ascensore ci sono ogni genere di suoni causati da contatti elettrici ormai difettosi e dalle normali magagne di un impianto così vecchio. Il commutatore raccoglie sporcizia e anche la polvere metallica prodotta dal logorio del pistone. Ho trovato il quadro elettrico che lei ha nascosto dietro la foto di Carl Gustav Jung e sul tetto ho scovato il cavo camuffato tra i fili del bucato. Ma suo figlio ha paura che io rimanga fulminata quando invece avrei potuto staccare l'intero impianto girando semplicemente una vite. Lui però me l'ha impedito a forza. Cos'è? Durante l'infanzia ha forse subito qualche trauma che ha a che fare con l'elettricità per essere diventato un tale fifone? 
Il vecchio ride, poi la rimprovera un po'. 
— Innanzitutto parli di mio figlio con rispetto. È già nonno anche lui. Dall'infanzia passata con me è uscito senza traumi, ma al Politecnico di Haifa, dove ha studiato, gli hanno insegnato più che altro a prevedere sciagure. Questa volta però sono d'accordo con lui. Anch'io preferisco che lei non tocchi fili elettrici perché non ho stipulato una polizza a suo favore. 
— Sciocchezze: anche lei non aveva paura di rimanere fulminato quando ha collegato l'ascensore al palo elettrico giù in strada. 
— A dire il vero non sono stato io a farlo, ma un pensionato dell'azienda elettrica che ce l'aveva a morte con la società per la quale aveva lavorato. E l'ha fatto indossando speciali guantoni isolanti dalle lunghe maniche, con i quali poteva maneggiare i fili elettrici e fare in modo che i suoi amici godessero di una fornitura gratuita di corrente. Solo dopo che è stato scoperto l'azienda elettrica ha cominciato a elargire ai suoi dipendenti lauti stipendi, perché non avessero più motivo di lamentarsi. 
— Sì, anche allora c'erano furti e molestie, — commenta la padrona di casa, — ma i giornali avevano solo sei pagine e non c'era abbastanza spazio per riportare tutti i crimini. Venite a bere un po' di tè, signori ingegneri. 
— Perché non controlliamo prima gli scossoni causati dal pistone? — dice Amotz chinandosi accanto al padre per scaldare le mani alla spirale incandescente della stufetta elettrica. Ma la padrona di casa insiste per una pausa e accompagna personalmente il vecchio in soggiorno. Accanto al tavolo del rinfresco i quattro filippini, silenziosi e taciturni, aspettano ancora un segnale che li autorizzi a prendere un biscotto, o un tramezzino, come aveva previsto il vecchio. 
E quello viene dato. La padrona di casa fa passare più volte il grande vassoio tra gli ospiti e Francisco, Hylario, Pedro e Marco non rifiutano mai di prendere qualcosa, fino a che non rimane più nulla. Ma a giudicare dalla loro espressione, non sembrano sazi. 
— Andiamo a dare un'occhiata al pistone, — dice il vecchio, — vediamo in che stato è. 
Questa volta invita i filippini a recarsi in camera da letto con lui, e l'intimità della stanza di colpo è violata dalla presenza degli uomini che osservano compiaciuti il minuscolo ascensore adatto alla loro taglia. Amotz si avvicina per controllare come disattivare il pistone oleodinamico fissato alla parete ma suo padre lo strattona per la giacca. — Lascia fare a me stavolta. 
Yaari sorride nel vederlo appoggiarsi alle spalle basse ma robuste di Marco e Pedro per entrare nell'ascensore di sua invenzione. Si puntella alle pareti, trova una posizione stabile e chiede ai filippini di lasciarlo solo. Con mano tremante richiude la grata sottile e con il cranio pelato, il viso malinconico e le spalle curve, sembra una scimmia in gabbia dietro all'inferriata dorata e sbiadita. Preme il pulsante della salita ma a quanto pare il suo dito non ha la forza sufficiente per azionare l'ascensore. Il vecchio indietreggia un po', e schiaccia il pulsante con la punta del bastone. L'ascensore sussulta, geme, ballonzola e comincia a salire, finché il cigolio svanisce. 
I filippini rimangono a bocca aperta, come se avessero assistito a una magia, ma il piccolo Hylario è preoccupato. Si avvicina circospetto e dà un'occhiata attraverso le ante aperte dell'armadio per scoprire dove sia sparita la cabina. Yaari non nasconde il suo divertimento per lo spettacolo offerto dal padre, e sorride alla padrona di casa che si lascia cadere senza forze nella poltrona tornata libera. 
— È pazzo, — esclama lei, forse già pentita di aver rinunciato alla propria tranquillità per un simile putiferio. 
— È un birichino, — commenta Rorale. 
Per un istante Yaari teme che il padre possa uscire sul tetto e svolazzare via nel vento, ma dopo un paio di minuti sente di nuovo un cigolio e la cabina riguadagna il piano con tutto il suo accompagnamento musicale. 
Yaari si affretta a far uscire il padre e visto che Dvorah non lascia libera la poltrona, lo mette seduto sul letto, sostenendolo con cuscini di seta e rimanendo in attesa di spiegazioni tecniche dettagliate su come sia possibile smontare il pistone senza correre il rischio di restare fulminati. 
 
 
Yirmiyahu si reca nel locale illuminato a riempire il bicchiere. Le donne africane, ora sedute sulla soglia, si intrufolano nella stanza per esigere che l'armadio delle medicine venga aperto. Lentamente e faticosamente balbetta alcune parole di rifiuto nella loro lingua ma le donne ridono, protestano, fino a che Yirmy perde la pazienza ed esplode in un urlo di rabbia che le mette in fuga. Una delle ragazze cade a terra, scoppia a piangere, le amiche la rialzano, la consolano e l'accompagnano alla collinetta, ad aspettare il ritorno dell'infermiera. 
Yirmiyahu si china sul lavello e si rinfresca il viso. Riempie il bicchiere e trangugia l'acqua. Lo riempie di nuovo e torna nell'altra stanza. Sembra sorpreso di vedere la cognata seduta su un lettino, tesa nella sua apparente calma. Per un istante è indeciso se lasciare aperta la porta della stanza, poi la chiude. 
Cade un lungo silenzio. 
— Non dirmi adesso che il parassita della malaria si può davvero trasmettere per contagio, — esclama Daniela all'improvviso. — Perché in questo caso sarò io la prossima ad ammalarmi. 
Yirmy le lancia un'occhiata. 
— Tu non sei la prossima a far niente. È una cosa che mi succede ogni tanto. La stanchezza mi fa salire la febbre. 
— Magari è un buon sistema per difenderti dai profeti d'Israele. Ammalandoti scongiuri i loro presagi di sventura. Stai attento però. 
Il volto di Yirmiyahu si distende in un sorriso triste. 
— Cos'altro possono farmi che non mi abbiano già fatto? 
— Non esserne tanto sicuro, — dice lei, proseguendo lo scherzo impudente, —  credimi. Le sciagure che ci attendono non sono ancora finite. Nemmeno nella traduzione inglese. 
— Ah, vedo che cominci ad afferrare il principio. Noti il piacere e il desiderio insiti nelle profezie di sventure. 
— Ma anche tu profetizzi sventure. 
— Io? Perché io? Non ho più niente da spartire con voi, non vi appartengo più. Mi sono liberato dalle catene del passato. Osservo da lontano, indifferente e libero, protetto in un luogo dove non c'è, e non c'è mai stata, nemmeno l'ombra di una profezia di sventura, né di gioia. E anche se scavassero dappertutto, qui in giro non troverebbero nemmeno un ossicino di ebreo. 
Anche se ha ormai settant'anni, pensa Daniela, certe volte Yirmiyahu si comporta come un adolescente ribelle. Ma nelle poche ore che le sono rimaste vuole ascoltarlo. Nonostante le dichiarazioni tracotanti di non appartenere più a niente, non è infatti l'arroganza di un antico profeta a bruciargli dentro, ma il fuoco amico che gli ha ucciso il figlio. Quindi lei riporta il discorso al punto di partenza. È curiosa di sapere ancora qualcosa sul farmacista di Gerusalemme che era riuscito ad accompagnare Yirmy sano e salvo attraverso la bufera dell'Intifada. 
Emil è un arabo cristiano residente a Gerusalemme est, di circa cinquant'anni, che con assiduità e pazienza era riuscito, a colpi di carta bollata, a rientrare in possesso della farmacia che apparteneva ai suoi genitori prima della fondazione dello stato di Israele. È una persona disponibile, che parla bene l'ebraico, e la sua farmacia, situata nel quartiere di Moshavà Germanit, è pulita, ordinata, e talvolta aperta anche di notte. È un professionista che si fida del prossimo e vende medicine per le quali in altre farmacie è necessaria la ricetta. È dotato di grande cultura e dà buoni consigli su come perdere peso e risolvere problemi di insonnia, di nausea o di acidità di stomaco. Quando nel quartiere si era sparsa la notizia che Eyal era morto, ucciso da «fuoco amico», si era recato a casa di Yirmy e Shuli, suoi clienti di lunga data, per una visita di condoglianze, e aveva portato con sé un tranquillante di sua preparazione. Da allora, ogni volta che Shuli o Yirmy mettevano piede nella sua farmacia, insieme o da soli, li serviva subito, senza farli attendere, sensibile e attento, e si interessava del loro stato di salute fisica e mentale. 
E dopo la prima e frettolosa visita di Yirmiyahu a Tul Karem, durante la quale il palestinese proprietario della casa dove era morto Eyal aveva evitato di incontrarlo, Emil, con i suoi sensi acuti, aveva notato la frustrazione del suo cliente, andata a sommarsi al dolore per la perdita del figlio, e con l'aiuto di parenti e amici era riuscito a rintracciare il palestinese e a convincerlo a incontrare Yirmy in cambio di denaro. 
Sulle prime la cosa non aveva irritato Yirmy. Non si sentiva infastidito da quella situazione ridicola. Al contrario, il gesto di Emil gli era sembrato nobile. Era però rimasto stupito dalla manifesta scontrosità del palestinese che non l'aveva guardato negli occhi, forse per rabbia, o per l'odio che provava nei suoi confronti, e senza aggiungere una parola aveva preso i soldi ed era sparito tra i fiori della serra. 
Allora si era detto, Vabbè, quest'uomo ha una vita dura, vive sotto occupazione, cosa posso aspettarmi da lui? Ma anche Emil, cittadino israeliano e farmacista cristiano, uomo di cultura e dalle idee all'apparenza moderate, non aveva mostrato di apprezzare il gesto di Eyal e non aveva detto una parola a proposito del suo buon cuore e della sua ingenuità. 
Di ritorno a Gerusalemme, Yirmiyahu aveva cominciato a sentire il bisogno, anzi, l'esigenza di restituire al figlio la dignità perduta. Di mostrare la sua approvazione per quel suo comportamento all'apparenza stupido ma che lasciava trasparire nobiltà d'animo, perché sicuramente Eyal sapeva di rischiare la pelle nel momento in cui era andato a restituire un secchio lavato e pulito a dei kamikaze. 
— Kamikaze? — ripete stupita Daniela. 
— Certo, — dice Yirmy, — se non lo sono oggi, lo saranno domani. Già allora avevo comunque deciso che sarei tornato a Tul Karem, su quel tetto, per dimostrare al palestinese che non avevo insegnato a mio figlio a essere solo assurdamente e ingenuamente gentile, ma anche coraggioso. Dopo qualche giorno andai da Emil e gli dissi che tutte le sue medicine non mi avrebbero calmato finché non fossi tornato su quel tetto per riscattare la dignità di mio figlio, e che non accettavo l'indifferenza verso quel suo gesto, piccolo e umano. E anche se dovevo corrompere qualcuno per arrivare laggiù, il mio portafoglio era aperto, a patto che mi si chiedesse denaro, non sangue. Dissi a Shuli che sarei partito per una visita di ventiquattro ore alla nostra ambasciata di Cipro e credo che quella notte lei fosse rimasta a dormire da voi, a Tel Aviv, e non sospettasse di niente. Tul Karem è proprio a ridosso del confine eppure, credimi, il viaggio non fu affatto semplice. All'andata non fecero troppi controlli ai posti di blocco, e siccome ero salito su un furgone di operai e indossavo abiti da lavoro non notarono la differenza tra me e gli altri. Ma al ritorno, oh-oh, al ritorno fu necessario farmi passare il confine di frodo e proteggermi sia dal fuoco nemico che da quello amico. 
— E ne è valsa la pena? 
— Certamente. Perché su quel tetto, oltre a una forte tazza di caffè, ricevetti anche una piccola lezione di ebraismo. 
— Da chi? — ride Daniela. — Dal palestinese o dal farmacista? 
Qualcuno bussa leggermente alla porta della stanza. Sijin Kuang è tornata. 
 
 
— Tu non immischiarti, — dice ancora una volta il padre al figlio. — Sarò io a dare gli ordini questa volta. Non hai installato questo ascensore e non lo smonterai. 
— A patto che tu rimanga seduto sul letto, — risponde Yaari. — Hai deciso di rinunciare alla sedia a rotelle ma io non ho la forza di sollevarti ogni volta che cadi. 
— Non ti preoccupare, — lo tranquillizza il vecchio, — darò istruzioni da lontano. Ma tu stattene in disparte e non intrometterti. Ho dato una garanzia personale per il funzionamento di questo ascensore e non a nome dello studio. Vero, signora Bennet? 
— Certo, una garanzia a vita. 
Chissà perché Dvorah Bennet non cede al vecchio Yaari la poltrona che ha occupato, come se godesse a vederlo schiacciato tra i cuscini del grande letto. Si avvicina la stufetta elettrica, si stende un plaid sulle ginocchia e accende una sigaretta in un lungo bocchino. Sembra che si stia preparando a restare lì per un bel po'. Una grandine sferzante si abbatte contro le finestre e alcuni chicchi bianchi penetrano nella stanza attraverso il vano dell'ascensore e rotolano sul pavimento. Di colpo su Gerusalemme cala il buio. 
Senza ricevere nessuna esplicita direttiva, Rorale si avvicina all'ascensore e vi accende la luce. Poi prende gli abat-jour ai due lati del letto, li collega a una prolunga e punta il loro fascio verso il fondo dell'ascensore. Nuove ombre cominciano a danzare sulle pareti. Il vecchio Yaari chiama Hylario, lo prende per mano, gli accarezza i capelli e gli parla a lungo nell'orecchio, sussurrandogli ciò che deve riferire ai filippini in attesa di istruzioni. Ma quelle istruzioni, prolungate in ebraico, diventano molto concise in bocca all'interprete. E a quel punto si scopre che il vecchio non solo ha convocato gli amici di Francisco per essere trasportato su per le scale ma anche perché sollevino sulle spalle la cabina del piccolo ascensore e stacchino il pistone dalle forche di sollevamento. 
Il corpo infantile e asessuato di Rorale si infila immediatamente tra un pannello della cabina e il pistone montato sulla parete del vano di corsa. Grazie all'esperienza acquisita nell'autofficina della Galilea individua la valvola di chiusura dell'olio e la svita con un giratubi che estrae dalla tasca della tuta. Dalle profondità del pistone inizia a fluire un liquido biancastro e viscoso, non un olio nero pece, come c'era da aspettarsi dopo tutti quegli anni. 
— Cos'è? — si meraviglia Amotz. 
Suo padre si stringe nelle spalle. Nemmeno lui è in grado di riconoscerlo. Aveva trovato quel pistone in Cecoslovacchia, sua madrepatria, in un magazzino di pezzi di ricambio per ascensori di seconda mano, e siccome il prezzo era ridicolo, non era stato troppo a esaminarlo. 
Il liquido che fluisce in un rivolo bianco è sottile e costante. Nemmeno Rorale, che di tanto in tanto lo annusa e lo assaggia, è in grado di dire di cosa si tratti, e da dove arrivi, ma lo raccoglie in un recipiente portato in precedenza dalla cucina per poterlo poi esaminare e scoprirne l'origine. 
Anche la padrona di casa vuole assaggiarlo. Consegna un cucchiaino a Hylario, il bimbo le porta un po' del liquido e lei lo assaggia con la punta della lingua. Forse è lubrificante per macchinari, oppure è olio di sesamo, o di coloquintide, di eucalipto, di cocco, o magari è kerosene o gasolio. — Non è del tutto disgustoso, — dice. —  Stai attenta, mia cara, — ridacchia il vecchio, — la garanzia che ti ho dato non comprende dissenteria provocata da salsa di ascensori -. Ridono. Lui sul letto, tremante fra i cuscini di seta. Lei nella poltrona. Entrambi si sentono a loro agio, curiosi come se assistessero a una rappresentazione teatrale mentre Hylario spiega a Marco e a Pedro che è arrivato il momento di caricarsi la cabina sulle spalle perché Francisco la separi delle forche di sollevamento e smonti l'intero blocco idraulico, delicato e originale. 
— E la corrente elettrica? — D'un tratto Yaari si infuria col padre. — Prima che Francisco cominci a svitare anche un solo bullone dobbiamo essere sicuri che non rimanga fulminato. 
Ma la sua rabbia è superflua. Non c'è nessuna corrente. Rorale l'ha staccata di nascosto di propria iniziativa, ed eccola lì, sana e salva. 
Perché Yaari dovrebbe preoccuparsi per qualcosa di cui non è responsabile? Perché cercare di avere il controllo su un cimelio storico di cui non dovrebbe, e nessuno se l'aspetta da lui, capire niente? Se si era unito a quella spedizione per prendersi cura di suo padre può vedere da sé quanto lui stia bene sul grande letto, in una stanza che gli è familiare, riscaldata, vicino a una cara amica, nell'intimità di una buia mattina invernale. E quindi perché un uomo impegnato come lui, pieno di preoccupazioni, non sfrutta quell'ora di grazia e non se ne rimane seduto in pace in un angolo? E se Daniela, in Africa, rievoca il passato e ignora il presente, a lui ora è capitata l'occasione di prendersi una pausa da entrambi, passato e presente. Nessuna segretaria, nessun disegnatore né ingegnere lo cercano al cellulare per un consiglio. In altre parole il mondo va avanti benissimo senza di lui. 
Il volto di Yaari si illumina di un sorriso conciliante. — D'accordo. Da questo momento mi limiterò a guardare e a tacere -. Prende una poltroncina di vimini dalla cucina, la posiziona accanto al grande letto, vi si siede a gambe accavallate e chiude gli occhi. 
Francisco ha raccontato a lui e a Daniela che le Filippine sono costituite da settemila isole di cui solo cinquecento sono abitate. Lui e Kinsey arrivano da due isole che distano centinaia di chilometri l'una dall'altra. Per via dei diversi dialetti, l'inglese è la lingua che li unisce come popolo. E questa lingua si rivela utile anche nella camera da letto della psicanalista. Hylario, scolaro di prima elementare, la usa con molta intelligenza per comunicare a Marco e a Pedro le istruzioni tecniche che riceve in ebraico dal bisnonno, e spiegare come alzare la leggera cabina. 
I due la sollevano con relativa facilità ma Francisco preferisce non contare sulle loro sole forze e vi sistema sotto anche una scaletta e un comodino prima di infilarsi nel vano per separarla dalle forche di sollevamento. 
I filippini parlano sottovoce, con cortesia e rispetto. Il vecchio Yaari si adegua al loro tono e tramite Hylario dà istruzioni a Francisco su come svitare nel giusto ordine i bulloni. Il lavoro procede lentamente, con prudenza. I bulloni arrugginiti vanno oliati e occorre aspettare che si degnino di allentarsi e di separarsi dalle viti alle quali erano stati uniti per lunghi anni. 
I filippini sembrano eseguire volentieri quel lavoro capitato loro per caso. Anziché lavare e imboccare vecchi invalidi, o passeggiare con anziane brontolone, smontano un vetusto ascensore privato e se lo caricano sulle spalle. La padrona di casa, appisolatasi nella poltrona, si lascia sfuggire un sospiro. Anche a Yaari si chiudono gli occhi, la vista si appanna. Sente voci sommesse, appoggia la mano al letto accanto a lui e si immagina il padre coricato lì, tra i cuscini, anni prima. Nella mente gli spunta il ricordo della giovane impaurita della videocassetta infilata tra quelle di Baby Mozart e Baby Bach, nell'appartamento di Moran. 
Raccontarlo a Daniela o evitarle un dispiacere? 
Probabilmente si assopisce per qualche istante. Al risveglio scopre infatti che l'ascensore è scomparso da dietro le porte dell'armadio e sul pavimento, davanti al letto, giace una creatura antidiluviana, con una lunga zampa ungulata da demone —  un pistone verdastro e cilindrico, simile a un ramarro — e un motore che ricorda il piccolo cranio di un gatto, da cui spuntano fili recisi di vari colori. 
La padrona di casa è già sprofondata nel sonno. Suo padre osserva orgoglioso e con affetto quel congegno originale che ha resistito per anni, sorride al figlio e dice: — Lo vedi cosa succede quando si diventa vecchi? All'apice dell'emozione le forze ci abbandonano e ci si addormenta. Quando ci si risveglia è tutto finito e ci si sente in colpa e rammaricati — . Fa segno a Francisco, che ha appena terminato di lavarsi le mani con gli amici in bagno, di trasportare il pezzo smontato nell'ambulanza giù in strada, dove li aspetta Maurice, e di tornare con la sedia a rotelle. 
— Mia cara, — sveglia l'amica, — abbiamo smontato il motore. Non ci saranno più sibili e gemiti ma non potrai nemmeno più usare l'ascensore per salire sul tetto. E adesso non dipende solo da me ma anche da un vecchio amico che però pensa solo al denaro. 
Dvorah Bennet apre gli occhi e guarda il vecchio Yaari con un sorriso saggio. —  Pensavo che ti saresti fermato a pranzo. 
— A pranzo? — si meraviglia lui. — E per quale motivo? Perché tu mi metta un bavaglino e mi imbocchi col cucchiaio? Quando l'amore supera la soglia dell'umiliazione, io mi faccio da parte. 
 
10 
 
La pazienza delle ragazze ha dato i suoi frutti. Sijin Kuang apre l'armadio dei farmaci, distribuisce pillole e dà un paio di aspirine anche a Yirmiyahu. — Ne potrebbe dare una pure a me? — chiede Daniela. 
— Io me ne vado a dormire. Sono stata sveglia tutta la notte, — dice l'infermiera. — Vada anche lei — . Dall'alto della sua statura si permette di assumere un tono fermo con l'ospite israeliana. — Domani mattina presto l'accompagnerò a Morogoro. L'aereo è piccolo e lei farebbe bene a presentarsi in anticipo perché non cedano il suo posto a qualcun altro. 
— Può succedere? — si allarma Daniela. 
— Può succedere anche qui, — risponde suo cognato. 
— E tu non mi accompagnerai all'aeroporto? — domanda lei in ebraico. 
— Che bisogno hai di me? Hai già ascoltato più di quanto volessi dirti, persino più di quello che pensavo fossi in grado di dire. Ti ho raccontato talmente tante cose che non saprai cosa riferire ad Amotz. 
— Sei sicuro che io gli dica tutto? 
— Perché? È cambiato qualcosa tra voi? 
Lei lo scruta con leggero astio, e non risponde. 
Yirmiyahu si rivolge a Sijin Kuang e nel suo inglese elementare le riassume sorprendentemente le ultime frasi pronunciate in ebraico. La sudanese osserva i due, meravigliata e imbarazzata, e prima di richiudere a chiave l'armadio delle medicine domanda se ci sia ancora bisogno di lei. – Un sonnifero, — chiede Daniela. — Mi ha messo in ansia con la storia di domani mattina e ho paura che non riuscirò a dormire — . Ma i sonniferi non godono di popolarità presso gli africani, e non fanno parte delle scorte dell'infermeria. Come un prestigiatore Sijin Kuang fa apparire un'altra pasticca bianca di aspirina fra le lunghe dita nere e la consegna alla donna preoccupata. 
— Perché non vai davvero a riposarti invece di gironzolare qui intorno? — dice Yirmy alla cognata in un tono protettivo da fratello maggiore. — La domenica sera, prima di tornare al sito degli scavi, i membri della spedizione hanno l'abitudine di tenere un banchetto stile high table, e di certo insisteranno per averti come ospite. 
— High table? — ride lei. — Ma dove siamo, a Oxford, o a Cambridge? 
— Se a loro piace rendere onore a se stessi in questo modo, che male c'è? Forza, va' a riposare, così non sbadiglierai in faccia a tutti. 
Ancora una volta Daniela nota il desiderio del cognato di tenerla a distanza, forse perché, ritenendo di essersi spinto troppo lontano, non vuole farsi trascinare oltre. Ma dice a se stessa che se gliela darà vinta e non verrà a sapere la fine della storia, farà un torto alla sorella, rimasta all'oscuro dell'avventura disperata del marito. Si toglie le scarpe, si stende sul lettino e osserva con sguardo penetrante Yirmiyahu, ancora fermo sulla soglia della camera, per metà in luce e per metà in penombra. — Yirmy, cosa intendevi dire per lezione di ebraismo? 
— Una lezione sugli ebrei. 
— E chi era esattamente l'insegnante? Il capofamiglia palestinese o il tuo farmacista? 
Lui la scruta, immobile. 
— Né l'uno né l'altro. Il farmacista aveva paura di arrivare all'incontro che lui stesso aveva organizzato. Qualcuno, all'ultimo minuto, l'aveva avvisato che se i soldati l'avessero fermato a un posto di blocco avrebbero potuto impedirgli di tornare a Gerusalemme, nonostante possedesse una carta d'identità israeliana. Sulle prime ero preoccupato e anche spaventato dalla sua assenza, perché mi ero fidato di lui e avevo notato quanto fosse rispettato anche se era cristiano, e non musulmano. Quando capii che non si sarebbe presentato ero già su quel tetto, e non potevo più tirarmi indietro. Era una sera tipicamente invernale, ma senza pioggia, e non c'era biancheria stesa ad asciugare. Qualcuno vi aveva sistemato delle vecchie poltrone e la persona che mi aveva scortato fin lì, un arabo israeliano bigamo, con una moglie in Israele e una nei territori, mi aveva fatto accomodare dicendo: «Le porteranno subito un caffè, signore, e nel frattempo si goda l'aria. Qui è più pulita che da voi». Poi era scomparso. Io ascoltavo i rumori del luogo, diversi da quelli di una città israeliana. Cercavo di captare i suoni che Eyal poteva aver percepito nelle sue ultime ore di vita. Ero seduto da solo, aspettavo, ma non arrivava nessuno, e allora capii che se mi avessero ucciso in quel momento, o rapito, me lo sarei decisamente meritato, perché sfidavo il destino tormentando un nemico umiliato. 
— Perlomeno eri consapevole della situazione. 
— Forse ero rimasto anche un po' contagiato dalla propensione degli arabi al suicidio. 
— E come andò a finire? 
Yirmiyahu capisce che la cognata, come un segugio, non lo lascerà in pace. Porta una sedia dall'altra stanza e la sistema accanto al lettino. 
— Bene. Quando il padrone di casa vide che il farmacista non arrivava, e non sapeva cosa farsene di me, mi mandò la figlia, quella giovane incinta che avevo incontrato quand'ero andato la prima volta con l'ufficiale. 
— La studentessa di storia che parlava un ebraico dolce. 
— Non dimentichi nemmeno una parola di quello che dico. 
— Nemmeno una tua parola. Quindi non ti preoccupare, Amotz alla fine saprà tutto. 
Yirmiyahu tace. Sembra quasi dispiaciuto che le sue confidenze non resteranno fra lui e Daniela, in Africa, ma saranno riferite in Israele. Però ben presto si riprende, e continua. 
— Allora quella giovane donna, la studentessa, arrivò sul tetto, seguita dalla madre, che sembrava volesse tenerla d'occhio, grassa e sorridente, come di consueto. Il ventre della ragazza, ormai prossima al parto, era gonfio ma il suo viso era fresco e riposato per via del coprifuoco e della chiusura dei territori, luminoso per la maternità imminente, e i capelli neri erano sciolti sulle spalle. La madre aveva portato con sé un bricco di caffè su un vassoio. 
— Perché non le venisse voglia di ucciderti nel caso ti fossi addormentato? — ride lei. 
— Un vecchio disarmato come me l'avrebbero potuto uccidere anche da sveglio. Persino una donna avrebbe potuto farlo. No, mi portarono il caffè perché gli spiegassi con lucidità cosa volevo da loro. Perché continuavo a ritornare. E quando vidi quella studentessa incinta, che aveva dovuto interrompere gli studi in una delle università di Israele per via dell'Intifada e probabilmente non li avrebbe ripresi mai più, e il cui marito era partito per cercare lavoro in un emirato arabo e non sarebbe tornato tanto presto, e chissà se era lui il ricercato per il quale avevano organizzato l'agguato la notte in cui era rimasto ucciso Eyal, insomma, quando vidi arrivare quella ragazza e lei si sedette tranquilla accanto a me, ebbi un'illuminazione. Era stato per lei che avevo rischiato ancora una volta la vita ed ero tornato a Tul Karem. Sì, era la sua simpatia che ero venuto a cercare. Volevo scoprire se una ragazza istruita, che parlava un ebraico musicale e ci considerava dei nemici esattamente come tutti gli altri suoi connazionali, fosse comunque capace di provare simpatia per un soldato ingenuo e idiota che aveva perso la vita per non lasciarsi dietro un po' di sporcizia. — Lei sapeva com'erano andate le cose? 
— Certo. 
— E riuscisti a trovare la simpatia che cercavi? 
— No. Al contrario. Proprio lei si mostrò la più intransigente di tutti. Espresse la sua opinione usando parole di condanna basate sulle sue nozioni di storia. «Perché voi ebrei penetrate in luoghi che vi sono estranei e vi insinuate nell'anima degli altri? Perché vi è così facile vagare da un posto all'altro senza instaurare rapporti di amicizia con altri popoli, anche se vivete in mezzo a loro per centinaia di anni? Perché avete un Dio speciale, che è solo vostro, e anche se non credete in lui, siete sicuri che vi garantisca il diritto di vivere dove vi pare e piace? Chi proverà simpatia per voi se vi comportate così? Chi vorrà vivervi accanto? Come potrete andare avanti così?» 
— Conosciamo questi discorsi. 
— Sì, ma lì, su quel tetto di Tul Karem, pronunciati con l'abissale amarezza di quella giovane incinta, parevano assumere una sfumatura nuova. Forse perché il suo parto era ormai prossimo, forse perché suo marito non sarebbe stato presente, forse perché lei aveva dovuto interrompere gli studi e sentiva che con me non aveva nulla da perdere, io ero vulnerabile, un vecchio ebreo ostinato. «Che è venuto a fare ancora qui? — mi domandava. — Cosa cerca un uomo, di notte, da chi lo odia? Perché importuna e spaventa mio padre? Cosa vuole da me? Che mostri pietà per suo figlio? Perché dovrei mostrare pietà per un soldato che si introduce a forza in un luogo che non gli appartiene, che non gliene importa niente di noi, chi siamo e cosa siamo, occupa il tetto di una famiglia per tendere un agguato a uno di noi e pensa che se ci farà un favore, se lascerà un secchio pulito e cancellerà i segni della sua paura, noi gli perdoneremo l'offesa, l'umiliazione? Ma com'è possibile perdonare? Ci può forse comprare con un secchio pulito?» 
— È così che pensava? Riteneva che il comportamento di Eyal fosse un'ulteriore offesa? Era pazza. 
— No, Daniela, non renderti le cose più facili. Quella ragazza non era pazza. Era strana, ma non pazza. Originale, ma non pazza. Parlava in modo lucido e sensato. «Siamo esasperati, — disse, — ci avete preso la terra, l'acqua, controllate ogni nostro movimento. Dateci almeno la possibilità di unirci a voi. Altrimenti moriremo con voi. Ma voi, anche se siete bravissimi a intrufolarvi in mezzo agli altri, siete chiusi in voi stessi, non vi integrate e non lasciate che gli altri si integrino con voi. Quindi cosa ci rimane da fare? Odiarvi, e pregare che arrivi il momento che ve ne andiate. Questa non sarà mai la vostra patria se non saprete mescolarvi a tutto ciò che vi si trova. Forza, — disse, — riprendete il vostro bastone da viandanti e andatevene. Persino il bimbo che porto in grembo non aspetta altro». 
— Come si chiamava? 
— Non ha voluto dirmelo. 
— Ripeti le sue parole come se davvero fosse riuscita a convincerti. 
— Non posso dire che mi convinse, però la sua sicurezza mi colpì. E anche il fatto che fosse incinta mi toccò nel profondo. Se Eyal fosse vivo, anch'io avrei potuto avere una nuora come lei, che avrebbe partorito un nipotino che parlava un ebraico dall'accento dolce. 
— Ancora con questo ebraico dall'accento dolce... Dolce in che senso? 
— Quando gli arabi parlano un buon ebraico, corretto, senza errori, hanno talvolta un accento meno spiccato, molto dolce. E siccome hanno paura di non riuscire a pronunciare bene la p, che potrebbe suonare come una b, la enfatizzano ancora di più, con una specie di intonazione apprensiva. Mettono i verbi all'inizio della frase e questa diversa struttura sintattica crea una differenza drammatica. E hanno anche il vezzo di formulare le frasi a mo' di domanda. Anziché dire «mi fa male», quella ragazza diceva «come può non farmi male?»; anziché dire «vi odio», diceva «come fa la gente a non odiarvi?» Qualcosa del genere. 
— E a te pare dolce? 
— Lo è, per me. 
 
11 
 
Il blocco motore dell'ascensore, un pezzo unico e speciale, è adagiato nell'ambulanza che a mezzogiorno scende verso la costa. I quattro filippini se ne tengono a debita distanza. Il vecchio Yaari, seduto sulla sedia a rotelle, è soddisfatto che l'operazione di smontaggio sia avvenuta senza intoppi e riflette sul prossimo passo: come convincere Gottlieb a costruire al tornio un nuovo pistone che si adatti alla forca di sollevamento. 
È ancora imbarazzato per lo sfogo di pianto che ha avuto sulla soglia della casa dell'amica, ma le è grato per aver trasformato con molto tatto quella debolezza in un vantaggio. «Comunque ho fatto bene a non farmi tentare a rimanere a pranzo da lei: chissà se non avrei versato altre lacrime sulla torta», pensa. 
Stretti nella cabina di guida, Amotz e Rorale ascoltano i racconti degli ultimi viaggi di Maurice con la madre di Yaari. — Quando vedo tuo padre tutto arzillo e lucido, anche se è sulla sedia a rotelle, sento nostalgia di tua madre. Era una vera signora. Quando è morta aveva la tua età, Amotz. Non si lamentava mai, né mostrava amarezza. 
Yaari concorda con lui e sintetizza in una frase l'obiettivo ultimo della vita: fare il possibile per lasciare questo mondo senza lamentele né amarezze. Ma per lui quel momento non è ancora arrivato. Per ora è stupito che, nonostante sia già mezzogiorno, nessuno lo abbia cercato dall'ufficio, né per fargli delle domande, né per consultarsi con lui, e nemmeno per informarlo di un reclamo, come se il lavoro potesse veramente andare avanti senza di lui. E se ci fosse anche oggi uno spettacolo per bambini? Telefona alla segretaria che gli conferma che tutti i dipendenti sono arrivati, nonostante la coda delle vacanze di Hanukkah: lavorano con zelo e non c'è nessun problema che esiga la saggezza o l'esperienza del titolare, fatta eccezione per un signore estraneo che è seduto da ore nel suo ufficio e si ostina ad aspettarlo. 
— C'è un estraneo nel mio ufficio? — Yaari sembra meravigliato. 
A quanto pare è l'inquilino del grattacielo dei venti che si è presentato con una citazione in giudizio ed è determinato a consegnarla personalmente nelle mani di Yaari. 
— Ma perché l'ha fatto entrare nel mio ufficio? Non poteva aspettare fuori? 
— Amotz, — protesta la segretaria, — suo figlio è rimasto ucciso pochi mesi fa, mi ha raccontato tutto. E in ufficio non c'è posto per lui tra i tavoli da disegno e i computer. Fuori fa freddo, piove, ma soprattutto tira un forte vento. Non si preoccupi. Se ne sta seduto in un angolo e non tocca niente. 
Rinunciando al pranzo preparato da Kinsey, il vecchio Yaari decide di portare subito il blocco motore alla ditta produttrice di cabine di Gottlieb. Pranzerà con gli operai, in ricordo dei vecchi tempi. Ma il figlio ne ha abbastanza di quella sarabanda intorno al piccolo ascensore. — Volevi fare le cose a modo tuo? — proclama. — Fa' pure. Vedremo se riuscirai a tracciare una linea tra la psicanalista e l'industriale — . 
Si congeda dal padre accanto a casa sua e sale in macchina, mentre il vecchio Yaari e il resto del gruppo proseguono verso la fabbrica situata tra gli agrumeti della regione di Sharon. — Siete entrambi responsabili che non gli succeda nulla, — avverte Francisco e Hylario. 
Attraverso la porta aperta Yaari scorge il signor Kidron, seduto rigido e impettito con un pesante cappotto invernale, un passamontagna sulle ginocchia e lo sguardo puntato sui rami dell'albero al di là della finestra. Il tè e i biscotti offertigli dalla segretaria sono intatti. Yaari tiene a bada il malumore ed entra in ufficio sorridendo. L'uomo si alza, ma non lo saluta e si limita a consegnargli la denuncia. Lui la prende, le dà una scorsa e domanda con un leggero sorriso: 
— Sarei io l'unico imputato? 
— Anche se ce ne sono altri, questo non toglie niente alle sue responsabilità, —  risponde il rappresentante dell'associazione condomini in tono risentito. — Siete un gruppo di corrotti a cui non importa nulla dei danni che avete provocato. 
Il fruscio di questo albero dietro la finestra è piacevole ma noi, quando torniamo a casa e ci avviciniamo all'ascensore, non sentiamo il rumore del vento bensì un ululato di sofferenza, e non c'è motivo per cui noi si continui a vivere questo incubo per colpa dei suoi calcoli poco accurati. 
— Mi creda, signor Kidron, i miei calcoli erano esatti. È nel vano di corsa che ci sono delle crepe. 
— E allora smonti le cabine e dimostri a quelli dell'impresa edile che la colpa è loro. 
— Solo il produttore delle cabine è autorizzato a smontarle, io sono il progettista. 
— Ribadisco il concetto. Siete un gruppo di corrotti che gioca a scaricabarile pur di venire fuori puliti da questa faccenda. Ma noi inquilini ne abbiamo abbastanza. Per quanto ci riguarda è lei il colpevole, e se vuole dimostrare il contrario, lo faccia in tribunale. 
Yaari lo osserva. È un uomo di bassa statura, di corporatura esile sotto il goffo cappotto invernale; ha occhi azzurri e ingenui. I pesanti scarponi sono macchiati di fango. Prima della morte del figlio di certo era una persona affabile e piacevole. 
— Come vuole lei. Lo farò in tribunale. Mi spieghi soltanto come mai la denuncia è rivolta solo a me. 
— Perché lei si è dimostrato una persona disponibile. Persino la sua segretaria è simpatica. 
Yaari gira gli occhi sull'albero che lotta contro il vento, poi posa delicatamente una mano sulla spalla dell'uomo. 
— Sì, sono una persona disponibile. È un mio difetto. Ma forse anche una qualità. Oggi sarebbe la giornata ideale per individuare l'errore che la tormenta. Perché allora aspettare che il tribunale mi assolva e foraggiare nel frattempo un avvocato famelico? Approfittiamo del temporale di questa notte per controllare il vano una volta per tutte. Domani sera mia moglie tornerà dall'Africa e non mi consentirà di lasciarla sola durante la sua prima notte a casa. Ci rimane solo oggi. E siccome dovremo mettere fuori uso tutti gli ascensori, il momento migliore per farlo è a notte fonda, diciamo fra le due e le tre, nella speranza che tutti gli inquilini siano già in casa perché non abbiamo facchini che possano trasportare su e giù per le scale dei nottambuli che abitano ai piani alti. 
— Va bene — . Il volto di Kidron si illumina. — Appenderò dei cartelli nel palazzo in cui avvertirò gli inquilini di non rientrare tardi. Quanto ci vorrà? 
— A dispetto della mia età mi creda che questa è la prima volta che vado a caccia di venti. Come per un intervento chirurgico, o per una guerra, si sa quando si comincia ma non quando si finisce. 
Il rappresentante dell'associazione condomini si assume l'incombenza di invitare per quella notte un tecnico dell'impresa edile. 
— Gli parli in tono fermo, come fa con me, — gli consiglia Yaari trascinandolo verso la porta, — lo minacci. 
Ma proprio ora, mentre si avvia frettoloso verso la fabbrica di Gottlieb per far sì che la sua promessa si traduca in realtà, i dipendenti lo importunano con domande e lo fermano per mostrargli schizzi e progetti. E quando riesce a liberarsi e ad arrivare, verso sera, alla fabbrica di ascensori, è allibito nel vedere che l'ambulanza è ancora lì. 
— Non solo ho imboccato personalmente tuo padre a pranzo e l'ho ripulito dalle briciole, — lo informa Gottlieb, 
— ma gli stiamo anche fabbricando un nuovo pistone. Impara, giovanotto, il significato di una vecchia amicizia. È meglio però che un uomo abbia un solo caro amico, perché due potrebbero mandarlo in malora. 
— Vero. Ma il caro amico ha anche un caro figlio, — ride Yaari, informandolo dell'impegno preso per quella notte. 
— Abbiamo bisogno di un tecnico esperto che sappia smantellare il tetto della cabina e rimontarlo. 
— In piena notte? Ma hai idea di quanto mi costerà? 
— Non finirai sul lastrico. Abbiamo già pagato in anticipo quella tua parente. 
Gottlieb fulmina Yaari con uno sguardo truce. 
Negli ultimi anni Yaari non ha avuto occasione di visitare spesso la sua ditta. Gli ordini vengono inoltrati via e-mail e i giovani ingegneri dello studio, non particolarmente entusiasti delle cabine di Gottlieb, insistono per installare ascensori più moderni, che non necessitino di un locale macchine. Rimane quindi sorpreso nel vedere quanto la fabbrica si sia ampliata. Sofisticati macchinari di grandi dimensioni tagliano con precisione lastre di acciaio; punzonatrici modellano pulsantiere; impianti completamente automatizzati assemblano i motori elettrici, e stantuffi testano i pistoni oleodinamici. Le sale dal soffitto alto sono pulite e ordinate, e un poco in penombra. Fra i macchinari si aggirano operai specializzati che sussultano leggermente nel vedere il proprietario avvicinarsi a loro. 
Gottlieb non teme la concorrenza delle cabine cinesi che gli ingegneri di Yaari consigliano alle imprese di costruzioni. Si è assicurato una fetta di mercato in Turchia e in Grecia, e anche dall'industrializzata Inghilterra arrivano commesse. E inoltre, con la coda dell'occhio, Yaari nota un nuovo reparto di progettazione con ingegneri, geometri e disegnatori tecnici che fanno concorrenza ai suoi. All'interno della fabbrica segue Gottlieb lungo un percorso tortuoso, verso una saletta in cui ronza allegramente un vecchio tornio. Lì vede il padre, immobile nella carrozzella e affascinato dal lavoro di cui segue il ritmo, tremando. Francisco e Hylario sono seduti in un angolo, silenziosi ed esausti. 
— Papà — . Yaari si china ad abbracciarlo. — Pensi che il tornio si bloccherà se smetti di guardarlo? 
— È quello che gli dico anch'io, — interviene Gottlieb, — ma probabilmente gli piace sentire il rumore e i cigolii. I suoi filippini sono troppo silenziosi per lui. Vieni Amotz, portiamolo ad accendere le candele con noi. Vedrete una hanukkiah non meno originale dell'ascensore che tuo padre ha costruito a Gerusalemme. 
Il vecchio non reagisce. Si limita a puntare uno sguardo interrogativo prima su Gottlieb e poi su Amotz. Quest'ultimo spinge la sua sedia a rotelle al seguito di Gottlieb che li conduce in refettorio. Gli operai del turno si raccolgono per accendere le candele. In mezzo al locale troneggia una hanukkiah in tono con lo spirito della fabbrica, composta da nove bracci a forma di minuscoli modellini di ascensori all'interno dei quali penzola un piccolo lume. 
All'entrata del refettorio c'è una cesta con delle kippot, e sui tavoli sono sparsi vassoi pieni di sufganiot piccole e calde. Gli operai si raccolgono in silenzio, e si coprono il capo con le kippot. Conoscono bene la hanukkiah e non se ne meravigliano più. — Quante candele si accendono oggi? — domanda Gottlieb a un operaio osservante, pronto a recitare le benedizioni. — Sette, — risponde quello, in attesa del segnale. 
Gottlieb si avvicina a un pannello su cui sono allineati dei pulsanti numerati, preme un tasto di emergenza rosso che accende la luce dello shamash — una versione in miniatura del modello più recente di ascensore prodotto dalla fabbrica — , e non appena quella si accende l'operaio intona un salmo tradizionale con voce gradevole e limpida. Al termine delle orazioni Gottlieb preme un pulsante su cui spicca il numero sette e lentamente, una dopo l'altra, le luci all'interno dei modellini degli ascensori si accendono. 
— Allora, che ne dite? — domanda orgoglioso ai due Yaari. — Un simile miracolo avrebbe lasciato di stucco anche i Maccabei. 
Yaari ridacchia e pensa indulgente: «Non fa nulla, posso sopportare anche questo, Gottlieb. Ma domani sera accenderò finalmente le candele con Daniela». 
 
12 
 
Il cui mal di testa si è dissolto in un sonno prolungato e tranquillo. Lei si fa una doccia, scende rinfrescata al pianterreno e nota che la disposizione dei tavoli è cambiata in vista della cena di commiato. Il grande tavolo è stato spostato in fondo alla sala, sollevato su un piccolo palco in legno e ricoperto con una tovaglia ricamata che raffigura la mappa dell'Africa. Gli altri sono stati sistemati su tre file con le panche rivolte verso il palco, come nella platea di un teatro. Nel cortile antistante l'edificio i membri della spedizione caricano sui furgoni provviste, zaini e nuovi attrezzi per gli scavi. Daniela vede un gruppo di africani dagli abiti sgargianti, decorati con nastri. Alcuni di loro si appoggiano a lunghi bastoni appuntiti. Yirmiyahu, arrivato dall'infermeria con un'andatura pesante, prima di farsi una doccia e cambiarsi d'abito avvisa la cognata di prendere sul serio quel banchetto. — Chissà perché ti considerano un'ospite più importante di quello che sei. 
— Ma tu sai che è impossibile considerarmi più importante di quello che sono, —  lo punzecchia lei. — E tu come stai? Ti è passato il mal di testa? 
Lui la osserva con sguardo acuto. — Devo avere pazienza. Domani, quando sarai partita, mi passerà tutto, — e senza aspettare una risposta, o una protesta, le tocca leggermente la spalla in un gesto riconciliante, quindi si avvia frettoloso verso la sua camera. 
Come spuntato da sottoterra compare il vecchio e rinsecchito factotum, anche lui agghindato con un nastro e con in mano un ramo gigantesco. Con aria di importanza conduce il gruppo di africani all'interno e li fa accomodare ai tre tavoli di fronte al palco. — Chi sono? — domanda Daniela a Sijin Kuang, che dall'alto della sua statura autoritaria dà una mano al vecchio a sistemare ognuno al proprio posto.. 
La domenica sera, prima di ripartire per una nuova settimana di scavi, i membri della spedizione invitano a cena i capifamiglia delle tribù della zona perché anch'essi sentano di avere un ruolo nel lavoro scientifico. 
Sijin Kuang fa sedere Daniela a un tavolo della prima fila lasciando liberi due posti — uno alla sua destra e uno alla sua sinistra — per sé e per Yirmiyahu. I cuochi dai cappelli bianchi posano sui tavoli ciotole di terracotta e caraffe colme di un liquido giallastro. Con la testa pelata e rilucente e gli abiti puliti fa il suo ingresso Yirmiyahu; prende posto accanto a Daniela e dice: — Quando hanno l'impressione che gli europei li snobbino, gli africani fanno di tutto per accattivarsene le simpatie. 
Il vecchio factotum sventola il grosso ramo: i presenti si alzano. Gli scienziati entrano in fila indiana, abbigliati con toghe nere da accademici sulle quali sono appuntati nastri coi colori delle bandiere delle loro nazioni. Sono in nove, senza la paleontologa nordafricana. In testa cammina il tanzaniano Selohe Abou, che indica a ciascuno degli altri membri il proprio posto accanto al tavolo sul palco. E poiché gli invitati hanno molto appetito e il cibo è caldo, rimandano il discorso al termine del pasto e fanno onore alle pietanze che, secondo la tradizione inglese importata dal dottor Kukirise da Londra, devono essere accompagnate solo da chiacchiere banali. 
— Di' un po', — domanda all'improvviso Daniela al cognato, — sei sicuro che non tornerai in Israele un po' svitato con tutto quello che succede qui? 
Lui posa la forchetta e rimane con il solo coltello in mano. 
— E chi ti dice che tornerò? Sei qui da sei giorni e ti ostini a non capire. Non c'è niente che mi invogli a tornare in una nazione che è diventata una specie di tornio. 
— Questa non l'avevo davvero mai sentita. 
— Qui non ci sono antichi sepolcri né pavimenti di sinagoghe in rovina; non ci sono musei con i resti di una parochet   bruciata né testimonianze di pogrom o dell'Olocausto; non c'è diaspora né dispersione; non ci sono reminiscenze di un'epoca d'oro né c'è mai stata una comunità ebraica che abbia contribuito ad arricchire la cultura mondiale. Qui non ci si occupa di assimilazione o di sterminio, di odio verso se stessi o di orgoglio; non si parla del popolo eletto e non spunta all'improvviso una nonna alla ricerca della propria identità. Non ci sono credenti o laici, né una religiosità troppo indulgente verso se stessa, ma soprattutto non si ha nostalgia di nulla. E non c'è scontro fra tradizione e modernizzazione. Non ci sono ribellioni contro i padri né nuove interpretazioni di antiche consuetudini. A nessuno preme decidere chi è ebreo, israeliano, o magari cananeo, se Israele è uno stato più democratico o più ebraico, se ha ancora qualche speranza di sopravvivere, o se è arrivato al capolinea. La gente intorno a me non cerca di sciogliere questa matassa aggrovigliata che esaspera e confonde. Però si vive. Ho settant'anni, Daniela, e ho il diritto di allontanarmi da tutto. 
Prende la forchetta e la infilza nella carne. 
Lei è indignata: vorrebbe ribattere a tono, ma si trattiene. La scioltezza del discorso di Yirmy dimostra che anche se non ha mai tenuto un simile monologo, di certo l'ha ripetuto più volte dentro di sé. 
Il vecchio africano appicca il fuoco al ramo che ha in mano, lo sventola, e il capo della spedizione si alza a tenere il tradizionale discorso. Yirmiyahu sussurra alla cognata che nonostante lui parli nel dialetto locale tutti i presenti conoscono quel discorso e sono in grado di seguirlo parola per parola. Abou tratta un argomento che gli sta particolarmente a cuore: la conquista del fuoco da parte dell'uomo, e la sua capacità di comprendere quella conquista. Persino Yirmiyahu già lo capisce e completa da sé ciò che non gli è ancora chiaro. 
Il fuoco è considerato un qualcosa di vivo. È in perpetuo movimento, cambia forma e colore. Consuma, produce suoni e riscalda. L'uomo può crearlo o soffocarlo, soffiarvi sopra per ravvivarlo oppure, sempre soffiandovi sopra, spegnerlo. Il fuoco è l'unica cosa sulla faccia della terra che l'uomo può sopprimere o riportare in vita. La maggior parte di ciò che gli esseri umani creano o fabbricano ha a che fare col fuoco, e anche la maggior parte di ciò che distruggono, o rovinano. Il fuoco è un amico che aiuta a vivere, disinfetta, purifica, ma è anche un temibile nemico. Forse, nel dominio sul fuoco, è insita anche la chiave per comprendere la morte. 
Di tutte le creature terrestri l'uomo è l'unico a capire il significato della morte. È strano, perché tutti gli animali sono circondati dalla morte, la provocano ogni giorno. Eppure, la consapevolezza della morte è peculiare all'uomo e si esprime, ad esempio, nelle usanze di sepoltura, comparse per la prima volta sulla faccia della terra circa centomila anni fa. 
La coscienza umana si differenzia da quella degli animali principalmente in due cose: per la conoscenza del fuoco e della morte. C'è un nesso fra queste due cose. L'una genera l'altra. La conoscenza del fuoco ha fatto sì che l'uomo controllasse la natura, ma l'ha anche trasformato in un essere malinconico, consapevole dell'ineluttabilità della morte. 
Il vecchio africano sventola il ramo durante l'intero discorso. 
 
 
L'ottava candela 
 
 
Pensava di svegliarsi senza problemi, invece un sogno insistente glielo ha impedito. Aveva fatto bene a programmare la sveglia telefonica. Moran si divertirebbe a rincorrere venti in piena notte, pensa Yaari alla ricerca di un maglione caldo, ma per un nonno perseguitato per un giorno intero da un bisnonno questa avventura notturna è assolutamente superflua. Consapevole però del suo dovere di giorno, lo compirà anche in piena notte. Se suo padre aveva dato una garanzia a vita per un ascensore fabbricato a mano, e aveva mantenuto l'impegno con onore malgrado fosse tremebondo su una sedia a rotelle, lui non sarebbe sfuggito alle sue responsabilità nei confronti degli inquilini di un grattacielo costruito solo un anno prima. Sì, è vero, un abile avvocato magari riuscirebbe a tirare le cose per le lunghe, a scaricare la colpa su altri, a portare i condomini all'esasperazione, ma qui hanno a che fare con un uomo che ha perso un figlio e Yaari, che conosce da vicino quel dolore, prova un senso di solidarietà nei suoi confronti. Per questo si è dato da fare per radunare tutte le parti coinvolte in quella notte di temporale e stabilire chi è il responsabile del problema. 
Tel Aviv è davvero una città che non si ferma mai, come recita lo slogan, ammette Yaari nel vedere le luci e il traffico a quell'ora di notte. A lui non è mai piaciuto fare le ore piccole, nemmeno quand'era giovane, e negli ultimi anni ha sempre cercato di convincere Daniela ad andare a letto più presto. Ma l'indomani sera, lo sa, non avrà nessuna fretta di infilarsi sotto le coperte. Non riuscirà a prendere sonno. Lui e Daniela avranno molto da dirsi, da ascoltare. Anche se sa già che se farà una piccola allusione al desiderio al quale lei aveva accennato all'aeroporto dovrà comunque armarsi di pazienza perché nonostante sia stata lei a partire, e lui sia rimasto a casa, Daniela sarà sicuramente risentita della loro separazione. E il risentimento spegne immancabilmente il desiderio. 
Ha smesso di piovere, ma l'acqua delle pozzanghere riflette la luce dei fari delle automobili. Ancora una volta Yaari fa il giro di Rabin Square per trovare accanto alla vetrina buia della libreria la sagoma indistinta di quella mattina che ha aggiunto al suo abbigliamento una sciarpa di colore rosso. 
— Allora? — la prende in giro con affetto. — Adesso non potrà più dire che l'abbiamo pagata per niente. Questa notte avremo bisogno della sua competenza. Speriamo che ci sia abbastanza vento: sembra che si stia smorzando. 
— Non si preoccupi, signor Yaari, — sorride Rorale con occhi grandi e luminosi. — Basterà anche un minimo alito. Dopo che il vento si sarà insinuato nel vano, mi sarà facile ascoltarne i sussurri. 
— Ascoltare i sussurri del vento — . Sorpreso da quella frase, Yaari domanda a Rorale se sia possibile conoscere la sua età. 
— No, — sussulta lei, — non ancora. 
Per l'ennesima volta l'auto viene inghiottita nel parcheggio sotterraneo del grattacielo, ma ora Yaari fatica a trovare un posto libero. È possibile che nonostante i venti sempre più forti tutti gli appartamenti vuoti siano stati venduti quella settimana? Mentre ancora gira tra i due piani del parcheggio, il suo cellulare squilla ed echeggia la lugubre voce del rappresentante dell'associazione condomini. — Parcheggi pure nella mia piazzola, signor Yaari. L'ho lasciata libera per lei. 
Nell'atrio degli ascensori gli ululati sono fortissimi e il viso da bambina di Rorale si illumina soddisfatto. Salgono al pianterreno e il portiere notturno li prega di recarsi all'appartamento del signor Kidron, al ventiquattresimo piano. Sulle pareti della hall e sulle porte degli ascensori sono appesi dei cartelli scritti con un pennarello nero e bordati da una cornice dello stesso colore. A prima vista sembrano annunci funebri ma a una seconda occhiata Yaari scopre che sono avvisi per gli inquilini: Per risolvere il problema dei rumori, gli ascensori verranno messi fuori uso questa notte fra le due e le quattro. La porta della famiglia Kidron è spalancata e l'appartamento è completamente illuminato. In soggiorno, sul tavolo da pranzo, ci sono un rinfresco e dei bricchi di caffè. Gottlieb è già arrivato in compagnia di un tecnico, semidisteso su un divano, e mastica ingordamente mentre conversa con la padrona di casa — una signora grassottella e irrequieta, vestita di nero, con al collo una catenina impreziosita da ciondoli d'oro — a proposito dei legami di parentela di quest'ultima. Anche il marito, in completo scuro e cravatta, ha un'aria solenne, formale. Sembra animato da uno spirito combattivo in vista del possibile scontro con i rappresentanti dell'impresa edile, che tardano ad arrivare. 
— Sono più di uno? — domanda Yaari stupito. 
A quanto pare arriveranno un ingegnere e un avvocato. Visto che in Israele c'è sovrabbondanza di avvocati, i prezzi per i consulti notturni probabilmente sono crollati. 
Yaari va a fare la conoscenza del tecnico che Gottlieb ha portato con sé, un uomo maturo, robusto e taciturno sui cinquant'anni, seduto in un angolo poco distante dal balcone. Ha una cassetta degli attrezzi accanto ai piedi e una tazza di caffè tra le mani. 
— Piacere, Rafi, — si presenta lui con un sussurro, e abbassando gli occhi. 
Gottlieb e Rorale non lasciano trapelare nessun segno di intimità famigliare. Lei si tiene a distanza dal patrigno, mette un biscotto su un piattino e si siede accanto al tecnico. — Domani mattina il pezzo di ricambio per tuo padre sarà pronto, — dice Gottlieb a Yaari, — ma ci vorrà la divina provvidenza perché il pistone riprenda a funzionare. 
— Anche se non dovesse funzionare, — ribatte lui freddamente, — non sarà la fine del mondo. Credimi, non ne posso più del dispotismo di mio padre. 
Gottlieb è sorpreso. 
— Il dispotismo di tuo padre? E proprio tu ti lamenti? È lo stesso dispotismo che mi ha buttato giù dal letto stanotte per farmi partecipare a questa specie di teatrino. 
— Ma non credi che valga la pena svegliarsi nel cuore della notte per liberarsi dai sensi di colpa e chiarire le proprie responsabilità? 
— No, se porto con me due tecnici a cui devo pagare gli straordinari. 
— La signorina la paghiamo noi. 
Ma la signorina, che ascolta la conversazione con occhi scintillanti, dice: — Lascia perdere, Gottlieb, non è necessario che mi paghino. Mi diverto a lavorare con loro, sia col padre che col figlio. 
— Certo, — Gottlieb sventola la mano con disappunto, — lo so che pensate che sia un tirchio, senza tenere conto che se non dovessi pagare ai miei tecnici un compenso adeguato e la relativa assicurazione, in caso di incidente mi ritroverei scoperto. E nella mia ditta ci sono macchinari che potrebbero tagliare in due un uomo in pochi secondi. E se dovesse succedere, chi dovrebbe sostenere le spese per ricucirlo? Il sottoscritto? 
— Qui, amico mio, non ci sono macchinari. 
— Però dovremo fare il sopralluogo di un vano buio alto trenta piani. 
Yaari, sconfortato da tanta grettezza, vorrebbe interrompere la conversazione, e mentre il padrone di casa telefona al rappresentante dell'impresa edile per chiarire il motivo del ritardo, domanda a sua moglie il permesso di fare un giro dell'appartamento per controllare se l'ululato dei venti risuoni anche tra quelle pareti. — Venga con me, — dice la signora emozionata, e come prima cosa lo conduce nella camera da letto sua e del marito, così in ordine che è evidente che quella notte non sono ancora andati a dormire. Alla camera è annesso un balconcino affacciato a sudest. Ancora una volta Yaari si ritrova dinanzi al panorama urbano che aveva ammirato dal terrazzino del locale macchine sei giorni prima. Quel giorno la visibilità era pessima, ora, invece, nitide luci risplendono nella notte. Tra i grattacieli della City — i giganteschi Azrieli che toccano le nuvole e quello accanto alla Borsa dei diamanti — spiccano sgargianti schermi pubblicitari sui quali ai titoli delle ultime news si susseguono gambe affusolate di ragazze dai capelli corti che spuntano da lavatrici e lavastoviglie, e si tramutano poi nuovamente in notizie a proposito del pericolo nucleare iraniano. 
Accanto a lui la signora Kidron, paffuta e silenziosa, accarezza delicatamente la catenina d'oro che porta al collo e alza gli occhi verso un aereo di linea in fase di atterraggio verso la grande città. Yaari guarda l'orologio. Fra quindici ore Daniela atterrerà, sempre che qualche animale selvaggio non le abbia divorato il passaporto e il biglietto, o che qualcuno abbia cambiato idea e spostato gli orari dei voli. 
— Vostro figlio... il soldato... — balbetta assumendo un'aria di finta indifferenza con gli occhi ancora fissi sull'aereo, — ha visto questo appartamento? 
— No. È rimasto ucciso due mesi prima che traslocassimo. Volevamo rinunciare a trasferirci ma ormai era tardi. 
— Perché rinunciare? Non reca un po' di sollievo trasferirsi in un posto nuovo? 
— Lo speravamo. Però in autunno sono cominciati questi venti che ci hanno reso ancora più tristi. 
— I venti vi hanno reso più tristi? Ma è un problema prettamente tecnico... Lei lo osserva preoccupata. 
— Lei crede? 
— Non lo credo, ne sono sicuro. 
Un nuovo aereo di linea, enorme, spunta da sopra il mare e si prepara all'atterraggio. Yaari chiede di dare un'occhiata alle altre stanze. La signora lo conduce in una camera per bambini zeppa di giocattoli, simile a quella che Daniela ha allestito a casa loro per i nipoti, a cui si accede attraverso una stanzetta stracolma di libri. Lui tende l'orecchio, ascolta. Sì, l'ululato del vento risuona solo nel vano degli ascensori e nella tromba delle scale. Nell'appartamento è tutto tranquillo. All'improvviso sente il desiderio di dare un'occhiata al volto del ragazzo morto. Sfiora un braccio alla padrona di casa e le chiede di vedere una fotografia del figlio. Ma lei respinge la richiesta. Le foto di suo figlio sono in fondo a un cassetto. Non è con le fotografie che i genitori serbano la sua memoria nel cuore, e soprattutto nella mente. — Io e mio marito siamo d'accordo di non fossilizzarci su un'unica immagine, — dice la signora, — e in casa non abbiamo fotografie di nostro figlio. Cerchiamo di tenere vivo il suo ricordo restando attivi, portandolo con noi in posti in cui non era mai stato e immaginandolo lì con noi. In questo modo gli permettiamo di continuare a crescere, di invecchiare persino: non vogliamo che rimanga congelato per l'eternità in immagini dell'infanzia, o del periodo del servizio militare. 
Yaari sente una stretta al cuore, e annuisce in silenzio. Poi chiede il permesso di andare in bagno. Si chiude in fretta la porta alle spalle e quando scopre che l'interruttore della luce è all'esterno, rinuncia ad accenderla. Abbassa i pantaloni, si accovaccia al buio, teso, nervoso e pensieroso, forse anche addolorato. 
La parete alle sue spalle è probabilmente un muro perimetrale e nonostante l'ora tarda sente scrosci di pioggia e il gemito del vento. Il prossimo ritorno di Daniela lo mette in ansia. Teme intoppi e imprevisti nei voli dall'Africa. Ma si fida del buonsenso del cognato, che saprà rispedirgli la moglie in patria. 
Dall'appartamento giungono voci nuove, giovani e allegre. I rappresentanti dell'impresa edile sono arrivati per dimostrare la loro innocenza. 
 
 
Alla fine si sono dimenticati di darmi le ossa, pensa Daniela, delusa nel vedere dalla finestra della sua camera i due furgoni in procinto di partire. Ma non correrò a dirglielo. Probabilmente non è così importante per loro, oppure non si fidano di me. O magari è un'altra delle pecche del Terzo Mondo: i suoi abitanti non sanno perseguire un obiettivo con sufficiente tenacia. Non solo non avevo paura a portare quelle ossa con me, sarei stata persino felice di farlo. 
È la sua ultima notte in Africa e forse l'indomani si accomiaterà per sempre da suo cognato. Nessuno riporterà la sua urna funeraria in Israele. Questa visita ha raggiunto il suo scopo? Yirmy l'ha aiutata a evocare vecchie memorie perché lei possa alimentare negli anni futuri l'amore che sua sorella si merita? Alla fine lui ha evitato di nominare Shuli, ma ha rinfocolato la fiamma colma di rabbia di quel «fuoco amico» che probabilmente non si spegnerà mai. E poi si lamenta della collera dei profeti. Anche se aveva avuto pietà di sua moglie e le aveva nascosto ciò che ha osato raccontare a lei, è impossibile che Shuli non fosse rimasta scottata dal rancore violento che gli bruciava dentro per un mondo che lei amava, nonostante la morte del figlio. 
Solitamente non ha problemi ad addormentarsi, ma quella sera Daniela teme di passare una notte in bianco, di prendere sonno solo verso il mattino, e di non potersi quindi accomiatare come si deve dal posto, e dalla gente. È vero, potrebbe combattere l'insonnia leggendo le pagine che ancora le restano del romanzo, nella speranza che l'artificiosità della trama aiuti il sonno a tessere le prime ragnatele sui suoi occhi, ma fedele alla decisione di serbarne la fine per le due ore di attesa fra un volo e l'altro, l'ha già messo nella tasca esterna del trolley perché le sia facile sfilarlo nel bar dell'aeroporto di Nairobi. 
Yirmy è sparito subito dopo la cena. È chiaro che cerca ancora di evitarla. È completamente preso dalla sua idea di allontanarsi da tutto e probabilmente teme che, in vista della partenza, lei gli faccia promettere di mantenersi in contatto con la famiglia, in nome di Shuli. Oppure capisce che approfitterà di quel momento per aprire finalmente la bocca, e controbattere alle sue argomentazioni. Finora si è limitata ad ascoltarlo, e con le sue domande l'ha incoraggiato ad andare avanti, attenta a non assumere un tono di insofferenza per paura che lui si zittisse. Da buona insegnante di liceo non può fare altro che ascoltare di tanto in tanto le chiacchiere adolescenziali dei ragazzi, e forse proprio per questo non ha pazienza per i vecchi ribelli. 
A dire il vero non dovrebbe solo compatire le teorie del cognato, ma anche arrabbiarsi per come è sparito. Non ha dubbi che Shuli sarebbe delusa dal modo in cui lei si è accomiatata da chi è sempre stato una persona amata in famiglia, degna di fiducia e su cui si può contare, ma che è andata a cacciarsi in un luogo dimenticato da Dio, allontanandosi da tutto ciò che era caro e importante per lei. Sorprendentemente però la rabbia di Daniela compie una virata e si indirizza su suo marito. Quella notte lei sente in modo particolare la sua mancanza, anche se l'indomani lui le sarà di nuovo al fianco. Ancora una volta ha l'impressione che se Amotz avesse mostrato maggiore buonsenso, non l'avrebbe lasciata andare da sola. Era suo dovere accantonare il lavoro e partire con lei, persino contro la sua volontà, per aiutarla a confutare le teorie che forse danno speranza a una giovane kamikaze incinta ma che gettano lei nella disperazione. 
Forse lui sarebbe capace di tenere testa a Yirmiyahu. Non per sé, ma per Shuli, e anche per Eleanor e Yoav, perché possano fare ritorno in Israele al termine degli studi. Solo lui, con il suo senso pratico, potrebbe costringere il cognato a tenersi in contatto con la famiglia finché gli spiriti maligni dentro di lui non si calmeranno. 
Ma Amotz, pensa Daniela con leggero disprezzo, probabilmente approfitta della sua assenza per andare a letto più presto. Riesce persino a immaginarselo con il suo pigiama rosso di flanella mentre proprio in quel momento si infila nel loro grande letto, circondato dalle fotografie dei figli e dei nipoti appese alle pareti, raccoglie il quotidiano economico dal pavimento e si copre con il grande piumino, senza nemmeno rendersi conto che il suo posto non è a Tel Aviv, ma in quella remota fattoria africana, pronto a rispondere al fuoco dell'uomo che ha deciso di distruggere tutto. 
È vero, il comportamento di Yirmiyahu potrebbe mascherare un profondo malessere personale. Ma lei sa che l'odio verso se stessi non può porre rimedio a niente. E lei non è in grado di affrontare Yirmy e tenergli testa con argomenti validi. È una professoressa di inglese, insegna grammatica, nuovi vocaboli, e talvolta illustra il carattere di questo o di quel personaggio di un racconto, o di una pièce teatrale. Amotz invece ha dimestichezza con fatti e cifre, ricorda il numero dei morti e dei feriti di entrambe le parti delle guerre israeliane, e anche di quelle di nazioni lontane. Quando gli capita di leggere, non sceglie romanzi ma biografie, o libri di storia, quindi può portare esempi di epoche e luoghi che lei nemmeno sa che esistono. Sa fare paragoni tra noi e gli altri, distinguere tra colpe vere e fasulle. Lui avrebbe dovuto essere lì con lei, a tenere a freno suo cognato, non solo per amore della verità ma per dare speranza ai figli suoi e ai loro, perché Eleanor e Yoav possano tornare in Israele, con o senza il diploma del dottorato di ricerca, e mettere al mondo almeno un nipote che dia un senso alla vita di Yirmy e gli faccia dimenticare lo strano e musicale ebraico della ragazza palestinese colma d'odio e di disprezzo. 
Presa dal turbine dei suoi pensieri mescolati al rancore per il marito di cui sente un disperato bisogno, Daniela non fa caso ai leggeri colpi alla porta che alla fine viene aperta con circospezione. Con sua gioia appare il dottor Roberto Kukirise, pronto per il viaggio, salito in camera sua con le ossa del primate che non era riuscito a inserirsi nella catena evolutiva. 
Daniela arrossisce. — Pensavo che vi foste dimenticati, o che aveste rinunciato a portarmele. 
— Non ci ho rinunciato, — risponde lui in tono cordiale. — Come potremmo dimenticare i nostri reperti? Ma alcuni di noi hanno cominciato a temere che potessimo metterla nei guai con una missione nella quale lei non c'entra nulla. Anche il fatto che non ne abbia parlato a Jeremy ci causa imbarazzo. 
— Non c'è problema, — risponde immediatamente Daniela, — sono disposta a dirgli tutto. 
— Benissimo. così staremo più tranquilli. Vogliamo essere sicuri che anche lui non abbia obiezioni su quanto le chiediamo di fare. All'istituto Abu Kabir la stanno già aspettando. 
Daniela tende ansiosa la mano, il dottor Kukirise sfila di tasca un sacchettino di tela, lo apre e le mostra tre ossa, di grandezza, forma e colore diversi, e la invita a riporle in valigia. 
— Certo. Ho già cominciato a preparare i bagagli. 
Lui però esita a consegnargliele. Controlla la valigia aperta sul tavolo e cerca un nascondiglio adatto. 
— E se le mettessimo in un posto insolito? — propone. — Diciamo nel suo nécessaire da viaggio, tra i cosmetici. Qualcosa a cui le donne tengono molto e dove di solito non si fruga. 
— Buona idea, — concorda lei, prendendogli il sacchetto di mano. 
 
 
Ecco, è successo, e tutto grazie alla mia pacata autorità, pensa Yaari con orgoglio. Fra le due e le tre di notte il team dei sei «uomini del vento» è raccolto nell'atrio illuminato del grattacielo e al loro fianco, raggiante in volto, c'è un settimo uomo: Kidron, il rappresentante dell'associazione condomini, con in mano due torce elettriche collegate a delle grosse batterie, che ringrazia fra sé i venti che non si sono calmati nel momento cruciale, non l'hanno tradito. Il corpulento portiere notturno è stato mandato al cancello d'accesso del parcheggio per assicurarsi che all'ultimo momento non arrivi un inquilino che potrebbe rimanere bloccato. 
I quattro ascensori sono fermi a piani diversi. Occorre chiamarli tutti e disattivarli uno alla volta. Solo allora si potrà salire sul tetto di una cabina e risalire lentamente il vano buio illuminandone le pareti. Nonostante Yaari abbia in tasca le chiavi di emergenza, preferisce non utilizzarle in presenza di Gottlieb, per evitare malintesi. Il tecnico arrivato con lui chiama un ascensore dopo l'altro, disinserisce i quadri di manovra poi, con la chiave di emergenza, blocca i contatti tra la porta esterna e quella della cabina. I quattro ascensori, con le porte spalancate, sono in attesa del controllo. 
Il cellulare del rappresentante dell'associazione condomini squilla. Il portiere chiede cosa fare con un uomo e una donna arrivati al parcheggio con cinque pesanti valigie. Sono atterrati da poco all'aeroporto e nessuno li aveva avvertiti che gli ascensori sarebbero stati bloccati. — A che piano devono andare? — domanda Yaari. E quando viene informato che è l'ottavo, proclama impietoso: — Che lascino le valigie in macchina fino a domani mattina e salgano a piedi — . Ma la signora è incinta, e Yaari decide di scendere al parcheggio con il grande ascensore centrale dopo aver dato istruzioni al tecnico di preparare per il sopralluogo uno di quelli laterali. 
— Quello di destra o di sinistra? — domanda lui. 
Yaari e Gottlieb guardano l'esperta con il naso rivolto all'insù, in ascolto. 
— Di sinistra, — proclama lei categorica. — Il problema è a sinistra. 
Yaari estrae le chiavi di emergenza e malgrado la presenza di Gottlieb riattiva l'ascensore centrale e scende a prendere la coppia di ritorno a casa. E infatti si ritrova davanti a un uomo, a una donna incinta e a cinque pesanti valigie. 
— Allora? — scherza. — Alla fine si torna sempre nella tormentata patria? — L'ha azzeccata solo in parte. I due vivono e lavorano negli Stati Uniti, sono riusciti persino a ottenere la cittadinanza americana, ma vogliono che il figlio nasca in Israele, nell'appartamento che hanno comprato per i loro soggiorni in patria, e contare così sull'aiuto dei genitori di entrambi nei primi mesi di vita del bambino. — Un sionismo di tipo pratico, — ride Yaari, aiutandoli a portare le pesanti valigie. 
Di ritorno nell'atrio vede che il lavoro di preparazione dell'ascensore di sinistra procede rapidamente. Gottlieb è un professionista di prim'ordine: conosce ogni bullone della cabina progettata da Yaari. In piedi, accanto al tecnico svelto e obbediente, gli indica quali parti smontare nel cubo lucido e sfavillante che rivela ben presto i suoi dispositivi elettromeccanici agli occhi dei rappresentanti dell'impresa edile. 
Il tecnico entra nell'ascensore, lo fa scendere di qualche metro senza chiudere la porta, e dopo pochi secondi ricompare agli occhi dei presenti seduto sul tetto della cabina che manovra grazie a un dispositivo di servizio composto da una pulsantiera con tre pulsanti di cui lui ne tiene premuto contemporaneamente due. Ora che l'ascensore è fermo tra l'atrio e il parcheggio, persino l'avvocato dell'impresa edile può farsi un'idea di cosa sia un vano buio che si eleva verso l'alto, interamente occupato da tre strutture in ferro che stabilizzano la corsa della cabina e dei vari contrappesi lungo le guide. 
Poiché utilizzano un ascensore normale, e non quello grande, la superficie del tetto a loro disposizione è ridotta, anche se non piccola, e Yaari è indeciso se mandare solo il tecnico e l'esperta per una prima ispezione del vano, o unirsi a loro. Sceglie quest'ultima ipotesi. Prende dalle mani del signor Kidron le due torce elettriche e dice: — Ecco, vado a illuminare quegli orribili ventacci — . Dà una torcia a Rorale, che ha già preso posto sul tetto della cabina, e tiene l'altra per sé. Poi dice al tecnico: — Forza, ragazzo, si parte. 
L'ascensore sale verso l'alto. Il tecnico lo manovra con la pulsantiera di servizio. Il movimento è lento, quasi impercettibile. Rorale, la captatrice di suoni di Kfar Blum, è sicura che il problema si trova al quattordicesimo piano, ma Yaari insiste a controllare minuziosamente ogni centimetro del vano. I potenti fasci di luce delle due torce che lo illuminano rivelano pareti spoglie, ruvide, scabre. Qua e là si intravede una sbarra di ferro che spunta dal cemento, persino un vecchio giornale. Di tanto in tanto sembra che davanti a loro si delinei la faccia di un uomo, o il muso di un animale, altre volte una frase incisa in un alfabeto segreto. — L'impresa edile ha fatto un pessimo lavoro, — dice Yaari al tecnico, che scruta attentamente le pareti buie del vano come se temesse di urtare contro un oggetto inatteso. Una dopo l'altra scorrono davanti a loro le porte di ferro su cui sono scritti, con grafia incerta, e sempre diversa, i numeri dei piani. Malgrado il volteggio preciso del fascio di luce, Yaari non chiede al tecnico di fermare la cabina. Solo quando arrivano al tredicesimo piano Rorale intima all'uomo: — Fermati, Nimer. 
E infatti, non appena la cabina si arresta, non c'è alcun dubbio che il vento che provoca gli ululati minacciosi si introduca da lì. La donna, il cui fascio di luce sfiora la parete, indica a Yaari una crepa nel vano che ricorda delle labbra socchiuse, o delle narici, risultato di una colata di cemento fatta male, magari di proposito. Le crepe producono suoni diversi e dissonanti, come le canne di un organo gigantesco senza la guida di un musicista. 
— È questo il punto? — domanda Yaari all'esperta, che ora si alza in piedi con un'espressione di dolce tristezza. 
— Sì. Quando sono venuta con Moran qualche giorno fa pensavo che il problema si trovasse al quattordicesimo piano. Non mi sono sbagliata poi di molto. 
— Mi creda, — esclama Yaari toccandole un braccio con simpatia, — Dio commette più errori di lei. Se io e Gottlieb fossimo andati su e giù per il vano tutta la notte non avremmo mai pensato di trovare questa specie di organo. Andiamo a chiamare l'ingegnere e l'avvocato perché salgano a vedere da dove provengono gli ululati e si rendano conto delle loro responsabilità. così potremo dormire in pace. 
Dà istruzioni al tecnico di riportare l'ascensore nell'atrio e quando vi arriva fa i complimenti al costruttore di cabine, seduto imbacuccato e sonnacchioso in una poltrona accanto al bancone del portiere. 
— Meno male che non hai lasciato questa ragazza in Galilea, altrimenti io e te saremmo andati su e giù per il vano all'infinito — . Poi, rivolto all'ingegnere: —  Perché sprecare fiato. Tanto lei non ci crederà finché non vedrà con i suoi occhi come stanno le cose. Forza, non abbia paura, prenda la mia torcia e si sieda sul tetto della cabina. La signorina la porterà tranquillamente e in tutta sicurezza agli errori commessi dalla vostra impresa. 
L'ingegnere ha un attimo di titubanza, poi prende la torcia dalle mani di Yaari, sale sul tetto della cabina, e si invola verso la sommità del vano buio in compagnia della piccola donna e del tecnico. 
Yaari si accomoda sulla sedia del portiere e chiede a Gottlieb chi sia quel tecnico che ha portato con sé. Qual è il suo vero nome? Rafi o Nimer? È ebreo o arabo? — È un mezzosangue, — mormora Gottlieb con calma sonnacchiosa. — In che senso? —  ridacchia Yaari. — È un miscuglio di tutto quello che c'è ancora di buono in questo paese, — borbotta Gottlieb con gli occhi chiusi. 
L'avvocato cammina su e giù irrequieto. Ogni tanto si avvicina al vano dell'ascensore e lancia un'occhiata in su, chiedendosi dove sia scomparso l'ingegnere. 
— Stia attento, — lo avverte Yaari, — non le conviene cadere giù nel parcheggio, anche se sono solo due piani. Se vuole che l'accompagniamo a vedere le crepe per convincersi che non avrà modo di scagionare l'impresa, non c'è problema. 
L'uomo tace. Il rappresentante dell'associazione condomini se ne sta in disparte, soddisfatto del sopralluogo, ma anche timoroso dei risultati. Lui avrebbe preferito che si fosse scoperto qualche difetto tecnico degli ascensori. Correggere un danno alla struttura dello stabile significa infatti compromettere la quiete degli inquilini. — Vuole salire anche lei per vedere da dove provengono gli ululati? 
— No, — sobbalza l'uomo, — mi basta sentirli, non ho bisogno di vederli. 
L'ascensore ritorna nell'atrio. A giudicare dalla sua espressione sembra che l'ingegnere abbia visto lo strano spettacolo. Confabula con l'avvocato, che ritiene forse ingiustificato il suo compenso se non vede il problema con i propri occhi. Magari, con qualche espediente, riuscirà a coinvolgere la società di assicurazione. Rafi-Nimer è seduto sul tetto della cabina, serio, chino sul dispositivo di servizio, ma Rorale, con occhi brillanti, invita Yaari a unirsi a un'altra corsa per osservare ancora una volta la meraviglia di quell'organo naturale. 
Perché no? Questa volta non si fermeranno al tredicesimo piano ma proseguiranno fino al trentesimo: forse lassù scopriranno un'acustica diversa. 
— Venga a vedere anche lei, — dice Yaari all'avvocato, — l'accompagnerò io personalmente. 
L'uomo, un giovane di bell'aspetto, raccoglie la sfida e Yaari chiede al tecnico di lasciare libera la sua postazione. — Anch'io so cavarmela con tre pulsanti, — ride, e con grande delicatezza decolla verso l'alto con l'avvocato e l'esperta. 
Dapprima si porta in cima al vano, al trentesimo piano, per ascoltare il respiro del grande baratro in fondo al quale risplende la luce bianca dell'atrio. Poi, con prudenza, porta la cabina al tredicesimo piano e Rorale punta il fascio di luce sull'organo dei venti, su labbra e narici create da operai rumeni, o thailandesi, o arabi, forse per infondere all'edificio una sensazione di fremito vitale. Ma l'ansia dell'avvocato, che per la prima volta in vita sua si ritrova ad andare su e giù seduto sul tetto di un ascensore in un vano buio, probabilmente gli rende difficile capire su cosa puntare lo sguardo. — Dov'è? Dov'è? — non fa che ripetere ostinato. — Io non vedo niente — . Dinanzi a una simile insistenza Rorale non si accontenta di illuminare la parete con un fascio di luce, ma si tende veloce per indicare con la mano gli strani difetti già ricoperti da una patina di umidità, o di muffa. L'estremità della sua sciarpa rossa si impiglia nel cavo del contrappeso, lei inciampa, la torcia le cade di mano e piomba sul fondo del vano proiettando un fascio di luce sempre più fioco mentre Rorale si aggrappa alle travi di ferro della struttura portante lasciandosi sfuggire un breve grido che sconvolge Yaari. 
 
 
Qualche minuto dopo che l'aitante archeologo se n'è andato, risuona il rombo del motore di un veicolo che probabilmente aspettava solo lui, e Daniela si affaccia veloce alla finestra facendo in tempo a vedere come la luce dei fari, punteggiata da una pioggerellina sottile, sferzi il sentiero come un nerbo dorato. 
Per un istante valuta se avvolgere le ossa in qualcos'altro, oltre che nel sacchetto di stoffa, per isolarle dagli odori dei cosmetici e del profumo nel suo nécessaire da viaggio. Poi rinuncia. Se si sono mantenute integre nella profondità della terra per milioni di anni nonostante tutto quello che è rimasto loro appiccicato, i profumi del suo nécessaire non peggioreranno le cose. 
Malgrado abbia promesso di raccontare al cognato della piccola missione che ha accettato di compiere, non ha nessuna fretta di recarsi da lui. Sente però l'urgenza di dirgli alcune cose importanti prima che la confusione della partenza gliele faccia dimenticare. Si infila le scarpe da ginnastica e nonostante il caldo indossa anche la vecchia giacca a vento di Shuli. Poi scende nella camera che l'anziano factotum le ha mostrato un paio di giorni prima. La porta si apre al solo tocco della mano e rivela una camera vuota, un letto intatto. Delusa, Daniela prosegue verso la sala da pranzo. Il tavolo grande è ancora sul palco, accanto alla finestra rivolta a ovest, e con sua grande sorpresa su di esso, e anche sugli altri tavoli, sono rimasti i resti del banchetto, e sui fornelli ci sono pentole e padelle. Ma nonostante il disordine e la sporcizia lei si sente a suo agio: non teme di rimanere sola in quella confusione, al buio. Convinta che Yirmiyahu passerà di lì per tornare in camera, si siede accanto a uno dei tavoli e lo aspetta. 
Il silenzio è assoluto. Daniela ripensa alle ossa preistoriche accanto ai suoi cosmetici e ancora una volta si rammarica che la colf non riceverà il rossetto costoso che le ha chiesto. Ma se lei dovesse raccontarle che fine ha fatto, e perché, la donna si rattristerebbe, oltre a rimanerne delusa. 
Con la mano ripulisce un angolo del tavolo dalle briciole, vi appoggia il capo e chiude gli occhi. Aspetterà Yirmy ancora un po', ma se lui ha scelto di rinchiudersi in infermeria per via del suo mal di testa — forse anche perché è sicuro che lei non si avventurerà fin lì al buio — , dovrà rinunciare a parlargli questa sera e rimandare tutto al momento della partenza. 
Con il capo appoggiato al grande tavolo e gli occhi chiusi, d'un tratto Daniela è colta dal sonno, che le svolazza tra le palpebre come un uccellino. Per qualche minuto perde coscienza del mondo. Quando solleva pesantemente il capo e apre gli occhi, non riconosce il luogo in cui si trova. Nella luce fioca che proviene dalla finestra le pare di vedere la sagoma di un elefantino con la proboscide alzata verso il cielo e un occhio fantastico che gli aleggia accanto: una sorta di creatura a sé, lampeggiante e azzurrina. 
Ma la visione svanisce subito, ritorna a essere il tavolo con i resti anneriti del gigantesco ramo bruciato durante il discorso solenne e la stufa dallo sportello socchiuso con la brace accesa nel ventre. 
Finalmente Daniela sente una dolorosa fitta di nostalgia, quella che è venuta a cercare in Africa. La consapevolezza della perdita della sorella la colpisce proprio lì, nella grande cucina, con una intensità mai provata prima. Si alza, chiude con un leggero calcio lo sportellino della stufa per nascondere la brace e si abbandona a un pianto prolungato che le scuote il corpo. 
Sì, forse le cure eccessive che ha dedicato ai nipoti nel corso dell'ultimo anno avevano il solo scopo di farle dimenticare Shuli, di attenuare la nostalgia che sente per lei. Per questo ha voluto venire da sola in Africa e stare vicina al cognato. Ma Yirmy, ossessionato dal tentativo di dare un senso alla morte del figlio, ha aperto un fuoco amico contro sua moglie e la famiglia di lei. Oh, Amotz, le tue intenzioni erano senz'altro buone, ma non potevi immaginare quale inganno racchiudesse la frase che ti era sfuggita nell'annunciare a Yirmy la morte di Eyal. 
Dopo il monologo che le ha tenuto quella sera, a proposito di allontanarsi da tutto, è naturale e comprensibile che Yirmy cerchi di tenersi alla larga da lei. La conosce bene, sa che anche se mantiene un atteggiamento disponibile e sorridente, poi reagisce con giudizi severi. Quindi domani mattina tenterà di spedirla via in tutta fretta. Non c'è tempo, le dirà mettendole premura, la pioggia di questa notte ha reso quasi impraticabile la strada e Sijin Kuang ci tiene molto alla puntualità, non vuole far tardi. 
Ma Daniela non osa uscire dallo spazio protetto dell'edificio per percorrere nella completa oscurità il tratto fino all'infermeria. Serba ancora nella mente il ricordo del serpente che in pieno giorno si è sollevato davanti a lei nell'erba, paralizzato dal terrore per le mandibole del felino. 
Dov'è ora il vecchio africano che la serve di mattina? Lo seguirebbe a occhi chiusi tra l'erba bagnata, con le gocce di pioggia che le picchiettano sulle spalle. Ma dopo aver spento il ramo in fiamme e averlo posato sopra il tavolo sul palco, è sparito. Vive alla fattoria o arriva dalla capanna di un villaggio dei dintorni? Daniela ha dimenticato di chiedergli quali fossero le sue mansioni, così come dopo sei giorni ancora non sa dove si trova la camera di Sijin Kuang. Seguirebbe ovunque anche lei, tranquilla e completamente sicura. Ma nonostante non sia ancora mezzanotte non rischierà una figuraccia proprio l'ultima sera della sua permanenza andando a bussare a porte sconosciute. 
Una normale torcia le darebbe sicurezza. Anche una grossa candela basterebbe. Ricorda dove sono i fiammiferi in cucina. Se Yirmy non avesse distrutto le candele di Hanukkah già la prima sera, forse ora potrebbe fonderle e ottenere un grosso cero con cui fugare i suoi timori. Apre la porta e osserva lo spazio buio. Tra le nuvole spunta una mezzaluna sottile, musulmana, che forse potrà illuminarle un po' il cammino. Chiude la lampo della vecchia giacca a vento, solleva il cappuccio e senza pensarci due volte esce dal cancello della fattoria e imbocca il sentiero familiare, mettendosi a correre per sfuggire alle gocce calde che le cadono addosso, convinta che il suo movimento veloce possa confondere qualunque animale, anche se dovesse calpestarlo per sbaglio. 
Se i suoi nipotini la vedessero correre così, a notte fonda, in Africa, di sicuro si sbellicherebbero dalle risate. Di breve durata però, perché l'infermeria non è molto distante. La porta d'ingresso è chiusa, ma non a chiave. Daniela entra silenziosa nella stanza illuminata dalla luce fioca di un abat-jour. Qualcuno ha lasciato un dépliant pubblicitario della Tanzania accanto allo stetoscopio. Sulla copertina spicca una fotografia della riserva naturale di Ngorongoro — un profondo e gigantesco cratere vulcanico le cui pareti sono alte quanto un grattacielo di duecento piani, impossibili da scalare per gli animali rimasti intrappolati lì che di conseguenza hanno mantenuto i loro tratti originari. Durante il loro precedente viaggio, tre anni prima, Yirmy aveva portato lei e Amotz nelle profondità di quel cratere per una visita della riserva. Indecisa sul da farsi, Daniela ha un attimo di esitazione, poi spegne l'abat-jour, e nel buio fitto si avvia verso la stanza interna. Bussa leggermente, con il cuore in tumulto, poi apre la porta senza aspettare una risposta. Yirmiyahu si sveglia di colpo: lei è ancora sulla soglia. — Sei impazzita? — domanda lui. 
Ma non è la pazzia a portarla lì, piuttosto un moto di pietà per quel ragazzo che chiede di essere liberato dalla stretta risoluta del padre, che gli si conceda riposo. Entra nella stanza e anziché sedersi sul secondo lettino si accomoda su quello dell'uomo che conosce fin dall'infanzia e che ora arretra un po', sulla difensiva. 
— Che ti prende? 
— Non riesco ad addormentarmi e ho paura che non sarò pronta domani mattina presto quando Sijin Kuang verrà a chiamarmi. 
— Ma di che ti preoccupi? Se non ti sveglierai, ti sveglierà lei. 
— Perché? Tu non hai intenzione di alzarti presto? 
— Mi alzerò anch'io. Ma se per caso dovessi dormire più del solito, Sijin Kuang sveglierà pure me perché faccia in tempo a salutarti. 
— Forse è meglio che dorma anch'io qui in infermeria. Mi sentirò più tranquilla. E lei potrà svegliarci tutti e due e non dovrà correre dall'uno all'altra. No, non spaventarti. Ti ricordi che quando i miei genitori uscivano di sera a volte mi infilavo nel letto di Shuli? Lei era sempre contenta di tenermi con sé. 
— Non sempre, — ridacchia lui. — Una volta ti sei presentata nel cuore della notte, io ero a letto con lei e abbiamo dovuto mandarti via. 
— Ma adesso Shuli non è qui, e non c'è bisogno di mandarmi via. 
Daniela non riesce a credere di aver pronunciato una frase simile con tanta naturalezza. Le sembra di intravedere l'espressione sconcertata di Yirmy nell'oscurità. Forse è per difendersi da lei che lui prende i pantaloni sulla sedia, estrae dalle tasche dei fiammiferi e un pacchetto di sigarette schiacciato e se ne accende una. La stanza si riempie di un fumo strano. 
— Hai ripreso a fumare? 
— No, a volte però, di notte, mi piace vedere una piccola brace tra gli occhi. 
— Allora danne una anche a me. 
— Sarebbe meglio se ne fumassi una delle tue. Questa è africana, molto semplice e molto forte. Più che tabacco, contiene un'erba di un certo tipo. 
— Proprio quello che mi ci vuole. 
Sfila dal pacchetto una sigaretta, l'accende, aspira una lunga boccata di fumo dal sapore strano e racconta a Yirmy della promessa fatta di ricevere la sua approvazione per la consegna delle ossa già dentro il suo nécessaire. Aggiunge poi che anche se lui dovesse opporsi, lei è ben decisa a portarle con sé. Sente il bisogno di mostrare la sua gratitudine a quegli scienziati che sono stati tanto cortesi con lei. 
— Perché dovrei oppormi? — si stupisce Yirmy. 
— Perché mi hanno fatto capire che la cosa è illegale. 
— E allora? — Nella voce di lui echeggia una sfumatura ostile. — Anche se dovessero scoprirti, tu la passeresti liscia, come sempre. 
— Che intendi dire? 
— Che sei bravissima a schivare il dolore e i sensi di colpa, e ti sei anche scelta, come tu stessa hai ammesso, un marito che ti fa vivere nell'ovatta. 
Quelle parole dure e impietose, pronunciate in un tono di evidente biasimo, aggiungono veleno al fumo acre che Daniela aspira nei polmoni. Butta la sigaretta sul pavimento, la schiaccia con la suola della scarpa e fissa il cognato. Yirmy rimane seduto, indifferente, rannicchiato su se stesso, si copre i piedi nudi con una coperta di lana e continua ad aspirare con avidità il fumo della sigaretta. 
Negli occhi di Daniela spunta una prima lacrima di offesa. 
Come può lui accusarla di schivare il dolore se ha fatto tutta quella strada per arrivare fin qui, in Africa? E se lui ha l'impressione che si sia anche divertita durante questo suo soggiorno, allora non c'è niente di male. È una donna curiosa, si è sempre interessata alla gente. Ma il vero scopo del viaggio era di stare con lui, ascoltare con affetto e pazienza ogni sua parola. E anche quando la cecità che aveva mostrato in passato, e l'ostinazione che lo caratterizza nel presente l'hanno mandata su tutte le furie stimolando la sua disapprovazione, non ha dimenticato neppure per un istante quanto lui abbia sofferto. 
Yirmy scuote debolmente la testa china. 
— Ti ho fatto andare su tutte le furie? — mormora. Ancora non la guarda negli occhi. 
— Sì, ho provato rabbia, e disapprovazione, per il tuo comportamento, —
 conferma Daniela, mentre la voce le si spegne in gola per poi risalire in una specie di gemito. — Invece di nascondere a Shuli la tua ossessione per quel tetto sciagurato, invece di umiliare te stesso, e indirettamente anche tua moglie, nel tentativo disperato di riscuotere la simpatia di una ragazza incinta con aspirazioni da kamikaze, e tutto questo solo per dare un senso alla morte di Eyal — una morte assurda, casuale, stupida — , avresti dovuto accettare quella mancanza di senso, e il tuo compito avrebbe dovuto essere un altro. 
— Quale? — Il viso di Yirmy si contrae in una smorfia di disprezzo. 
— Anche se Shuli aveva represso la sua sessualità tu avresti dovuto lottare per risvegliare i suoi sensi, anziché approfittare di quella sua riluttanza per giustificare il tuo ripudio del passato, della tua identità, del mondo in cui sei cresciuto, della tua storia passata e futura. Tu avevi il dovere di lottare per Shuli, per la sua sessualità, per il suo desiderio. Confortarla, anziché aiutarla a spegnersi a poco a poco. Fare in modo che vivesse, non che morisse. 
Yirmiyahu solleva uno sguardo inorridito verso la donna che, tra lacrime e singhiozzi, continua ad accusarlo come se non fosse più in grado di controllare ciò che le sfugge di bocca. Di certo non si aspettava che la sua ospite, disponibile e paziente, al momento del congedo lo accusasse della morte della sorella. 
Daniela trema, piange, spaventata dalle sue stesse parole. Yirmy si alza, spegne la sigaretta e la sbriciola fra le dita, attento a non avvicinarsi a lei. 
— Vieni, — dice affranto, — è già tardi, e tu sei stanchissima. Ti riporto in camera. 
Ma lei rifiuta di muoversi. Al contrario, si toglie la giacca a vento e con aria di sfida si sfila anche le scarpe. Come Yirmiyahu era attratto dal tetto palestinese, ora lei lo è da questa infermeria: un luogo estraneo, ma privo di pericoli. Infatti, nonostante il timore di correre un rischio mortale, Yirmiyahu avrebbe dovuto sapere che la donna palestinese che gli aveva offerto da bere non avrebbe permesso che gli fosse fatto del male. Gli ospiti, per gli arabi, sono ancora più sacri della vendetta. E lei, fidandosi ora dell'ospitalità del cognato, sa che lui non la toccherà anche se continuerà a spogliarsi al buio. Si sfila gli indumenti, uno dopo l'altro, poi si sdraia nuda sul letto e si avvolge nella coperta. È così che vuole piangere la sessualità perduta di sua sorella. 
Yirmiyahu è sconcertato, sconvolto. Per la prima volta dal suo arrivo Daniela ha l'impressione che stia perdendo il controllo. Però continua a fidarsi di lui, anche quando le si avvicina al buio, come una grossa scimmia tremante, solleva la coperta e guarda il suo corpo nudo e chiaro, ricordando forse a cosa aveva rinunciato e quali colpe aveva commesso nei confronti di sua sorella. Poi Yirmy chiude gli occhi, e come se si piegasse in un inchino sfiora con le labbra i seni nudi di Daniela, sospira, le mordicchia una spalla e la ricopre con tenerezza. Infine, dopo un istante, lascia la stanza. 
 
 
Yaari allontana di colpo le mani dalla pulsantiera di servizio dell'ascensore per evitare qualsiasi movimento, anche involontario. — Non si muova, — dice alla donna intrappolata, — risolviamo subito tutto; e faccia attenzione anche lei, — grida infuriato al giovane avvocato che fissa inorridito Rorale con la gamba imprigionata fra il contrappeso e le strutture di sostegno, — stia fermo e non tocchi nulla. 
Gottlieb probabilmente ha notato la torcia caduta nel vano e ha capito che era successo qualcosa perché mentre Yaari cerca il telefonino per chiamarlo lui già urla da sotto: — Cos'è successo, Yaari? È caduto l'avvocato? — Ma Yaari, che nel frattempo ha ritrovato il cellulare, non risponde con un urlo per non spaventare gli inquilini. Con dita tremanti compone il numero di Gottlieb e lo informa che la sua figlia adottiva è intrappolata nel vano. Non sapendo esattamente a che piano si trovino, ordina di non muovere la cabina e di dare l'allarme ai pompieri. — Quelli proprio no, — esclama Gottlieb bocciando l'idea, — sveglieranno l'intero quartiere con la loro sirena e faranno un chiasso mostruoso senza ottenere niente. No, caro mio, libereremo noi la piccola. Io, Nimer, e persino tu, abbiamo abbastanza esperienza per sapere cosa fare in casi come questo — . Gli racconta poi di aver avuto un incidente simile quarant'anni prima, dal quale, come poteva constatare lui stesso, era uscito illeso. Perciò ora pretende che Yaari mostri concretezza e buonsenso, come sempre, e cerchi di stabilire con precisione a che piano si trovano perché il tecnico non faccia troppe scale a piedi. 
Yaari fa scorrere il fascio di luce tra i meandri delle strutture di sostegno, lungo il contrappeso che ha imprigionato la gamba di Rorale, e ne scorge la sagoma, la sciarpa rossa di lana. Il pianto sommesso della ragazza si mescola al gemito dei venti, lo angoscia. — Come si sente, Rorale? Mi dica — . Cerca di farla parlare ma lei non risponde, si limita a mormorare: — Papino, papino. 
Nimer spunta dalla porta esterna dell'ascensore del tredicesimo piano, che ha aperto con la chiave di emergenza, e per prima cosa decide di far scendere l'avvocato. Con l'agilità di una scimmia, insolita per la sua età, si tende verso il margine del tetto della cabina, ordina all'avvocato di afferrargli la mano e lo solleva con uno strattone sul bordo del vano, sospingendolo sul pianerottolo. — Gottlieb mi ha detto di portar fuori anche lei, — dice a Yaari. — No, — risponde lui perentorio, — io non mi muovo di qui finché non avremo tratto in salvo Rorale. Sono anch'io della partita. 
Gottlieb nel frattempo ha messo in moto l'ascensore più grande. Dopo aver infilato la cassetta degli attrezzi lo fa salire standosene seduto sul suo ampio tetto come un ammiraglio sulla tolda di una grossa nave, e lo ferma in prossimità del dodicesimo piano, in un punto che gli permette di avvicinarsi alla ragazza intrappolata. 
Solo ora, con la sicurezza che le dà la presenza del padre adottivo, suo datore di lavoro, Rorale smette di singhiozzare e risponde alle sue domande. 
— Che succede, Rorale? — cerca di scherzare lui. — Hai deciso di fare una passeggiatina notturna lungo le pareti del vano? 
— Sono caduta, Gottlieb, e mi si è impigliata la gamba. 
— Ti sei presa troppo a cuore i venti della famiglia Yaari. 
— La gamba mi fa un male cane. 
— La liberiamo subito e ti tiriamo fuori di qui, non muoverti però. 
— Ho paura di averla persa. 
— Come puoi averla persa se la vedo ancora qui? — continua lui a scherzare. —  Non puoi perderla fintantoché ti rimane attaccata. E poi stai tranquilla, ho stipulato per te non una ma due polizze, e Nimer arriva subito a smontare la parete della cabina per liberarti. Non preoccuparti, potrai ballare il giorno delle nozze. 
— Di quali nozze parli, Gottlieb? 
— Delle tue naturalmente. 
— Per me non ci saranno nozze. 
— Ci saranno eccome, vedrai. E pure io ballerò. 
— Ballerai? 
— Sì, ma solo al tuo matrimonio. 
Nimer è sceso a piedi all'undicesimo piano, ha aperto la porta del grande ascensore e vi si è infilato mentre dal tetto Gottlieb gli urla le istruzioni per smontare velocemente la parete e arrivare alla ragazza intrappolata. Dal punto in cui si trova Yaari, sopra di loro, alla luce della torcia, il tecnico sembra un uomo preistorico che sbuca dalla sua caverna. Fa segno a Yaari di scendere un po' con la sua cabina per liberare il contrappeso, tira a sé la fragile donna con ancora la sciarpa rossa intorno al collo e Gottlieb riporta l'ascensore centrale al pianterreno. 
Nell'atrio, agitati e in preda all'angoscia, oltre all'ingegnere dell'impresa edile, all'avvocato, al rappresentante dell'associazione condomini e al portiere notturno, sono in attesa anche altri inquilini curiosi, svegliati dal baccano e venuti a controllare cosa sta succedendo. Stendono con cautela la ragazza su una coperta messa a disposizione dal portiere e Yaari, tornato con l'ascensore di sinistra, ripristina il funzionamento automatico delle cabine. Nel giro di pochi minuti tre dei quattro ascensori riprendono la loro funzionalità e, di pari passo, riprendono anche i gemiti del vento. 
Non avendo nessuna fiducia nei servizi di emergenza statali, Gottlieb si rifiuta di chiamare un'ambulanza. Prende fra le braccia la ragazza ferita, dal piede sanguinante, e la porta alla sua automobile per trasportarla al più vicino pronto soccorso. 
— Adesso non mi dica che è colpa mia se è caduta, — protesta l'avvocato con Yaari. 
— No, non è caduta per colpa sua, — replica lui in tono freddo e sprezzante. — La sua colpa è di non aver creduto a quello che le si voleva far vedere. 
— Allora cosa succede adesso? — domanda Kidron a Yaari col volto terreo. 
— Succede che è come le dicevo. Il progetto e la messa in opera degli ascensori sono ineccepibili. La colpa è dell'impresa edile e quindi ho diritto che lei finalmente mi lasci in pace. 
 
 
Nel giro di pochi minuti Daniela si risveglia dal sonno e capisce che le voci provenienti dall'altra stanza sono quelle di due africani, un ragazzo e una donna. Subito dopo che Yirmy se n'è andato, sgomento, lei ha indossato il reggiseno e la camicetta. Solo la giacca a vento è rimasta abbandonata lì per terra. La scuote e la indossa prima di aprire guardinga la porta che separa le stanze. Un ragazzo africano è disteso sul lettino e al suo fianco c'è una donna anziana, probabilmente sua madre. 
Daniela sorride ai due con muta gratitudine per averla svegliata. Ora avrà il tempo di sgattaiolare in camera sua prima che Sijin Kuang la svegli. 
Ma mentre esce dall'infermeria nella splendida mattinata e cammina sull'erba umida e lucida, scorge da lontano l'alta figura della sudanese che viene a cercarla dopo che non l'ha trovata in camera sua. 
— C'è gente che l'aspetta, — dice Daniela arrossendo, mentre l'infermiera, nella sua nobiltà, non le chiede come mai abbia trascorso l'ultima notte in infermeria, ma le ricorda soltanto che il tempo stringe. 
Col cuore in gola Daniela entra in cucina, dove ferve il lavoro mattutino e ogni segno del solenne banchetto è sparito. Yirmy è seduto con il suo sbiadito completo color kaki vicino ai tavolini, impegnato a contrattare a gesti con un alto guerriero masai dalla tunica rossa che ha portato una pecora e un agnello. Fa un cenno cordiale in direzione della cognata e le grida da lontano: — Devi sbrigarti, la pioggia stanotte ha di sicuro reso fangosa la pista. 
Lei sale veloce in camera. A giudicare dalle lenzuola sfatte sembra che qualcuno sia stato lì quella notte e abbia addirittura dormito nel suo letto. Ma non ha tempo per immaginazioni, o supposizioni, vuole congedarsi come si deve da quella stanza che, in fin dei conti, le è piaciuta, e restituirla ordinata al suo proprietario. Si lava il viso, chiude definitivamente la valigia e ripiega con cura le lenzuola. Pulisce un po' il lavabo, il water, e si preoccupa di non lasciarsi alle spalle nessuna traccia imbarazzante. Rimane un attimo indecisa se chiamare qualcuno per portarle giù la valigia, ma sa di poterlo fare da sé. 
— Non c'è tempo, — ripete Yirmiyahu spronandola, come se fosse una scolaretta in ritardo alla prima ora di lezione. Né il suo sguardo né il suo tono di voce lasciano trapelare fastidio, o rancore. C'è solo una nuova nota di tenerezza, mescolata a compassione per quell'ospite che torna in un luogo pieno di pericoli. Daniela è sorpresa di scoprire che la fretta perentoria di Yirmiyahu non le permette nemmeno di fare colazione, come d'abitudine, e neppure di salutare il vecchio africano. Come il giorno del suo arrivo lui le ha preparato dei panini, e un thermos. — Sono per te, —  le dice consegnandoglieli con un sorriso, — perché non faccia tardi. Ho promesso ad Amotz di riconsegnarti in tempo. E non cacciarti nei guai durante i voli di ritorno — . 
Poi le porta il trolley fino alla Land Rover. 
Sijin Kuang è già al volante. Sul sedile accanto a lei si è sistemato il ragazzo africano, che ha bisogno di spazio per via della gamba fasciata e tesa in avanti. Yirmy carica la valigia sul vano posteriore e fa segno a Daniela di prendere il suo posto abituale. La fretta con cui viene congedata e la collocazione assegnatale sul sedile posteriore la offendono un po'. 
Ma a un tratto il cognato l'abbraccia con calore. — Grazie comunque per la visita. Non è stata solo una tortura, mi ha fatto anche piacere. E se sono riuscito a dimostrarti che non dovete preoccuparvi per me, allora ho ottenuto qualcosa di buono. 
— Non dovremmo preoccuparci? — sussurra lei, delusa. 
— No, — risponde lui con fermezza. — Prendetevi cura gli uni degli altri, in Israele, lì sì che c'è da stare in ansia, e se per caso dovessi sentirti in ansia anche per me, manda qui Amotz. Per lui non dovrò preparare un discorso, tu gli avrai già detto tutto. Però che venga senza giornali, e senza candele: andremo a fare un giro nei dintorni. 
Le accarezza leggermente la testa e l'aiuta a salire in auto. 
Con una manovra rapida e definitiva la conducente sudanese porta la jeep fuori dalla fattoria, e siccome il ragazzo africano ha occupato il posto che dovrebbe essere destinato a Daniela, per età e come dimostrazione di rispetto, ancora una volta lei si ritrova circondata da pacchi. Ma la sua frustrazione non è dovuta a motivi puramente tecnici. Aveva progettato di chiacchierare con Sijin Kuang durante quell'ultimo viaggio a proposito del futuro di Yirmy, che tre giorni prima lei aveva definito sorprendentemente e severamente «uomo viziato». Ma com'è possibile conversare dal sedile posteriore mentre il rombo del motore soverchia e fagocita ogni voce umana? Deve allora accontentarsi di fissare la schiena del ragazzo africano, del quale viene a sapere che ha una gamba ferita che rischia di andare in cancrena e che spera di trovare una clinica che possa salvargliela. 
La pista che lei e Sijin Kuang hanno percorso la prima sera serpeggia nella foresta. Ma allora gli alberi le erano apparsi cupi e ritti, mentre adesso, alla luce del giorno, le loro fronde verdi e lucide le infondono serenità e Daniela si rammarica che quest'ultimo viaggio sia fatto in silenzio: un'occasione persa. Tocca la spalla sottile di Sijin Kuang, e si protende verso di lei. — Potremmo fermarci un momento, per favore? 
La sudanese l'accontenta di malavoglia. Si ferma accanto a una piccola radura e spegne il motore perché Daniela possa scendere a sgranchirsi le gambe dopo una notte agitata. Anche il ragazzo è felice. Saltella sulla sua unica gamba tra gli alberi e recide un ramo con un coltello. Solo Sijin Kuang non si allontana dalla jeep. Apre il cofano e controlla il livello dell'olio. Poi versa un po' d'acqua nel radiatore. All'improvviso Daniela si sente colmare di affetto per quella seria giovane nera. Torna all'auto e dice senza preamboli: — Ascolti, Sijin Kuang, l'ho sognata. 
L'infermiera sudanese sembra spaventata. Forse nella sua religione i sogni degli uomini bianchi racchiudono poteri maligni. Ma Daniela, consapevole della sua ansia, si affretta a tranquillizzarla. — È un bel sogno. L'ho vista da noi, a Gerusalemme, cercava l'amore e lo trovava. 
Sijin Kuang è allibita. Chiude il cofano, sbattendolo violentemente, si pulisce le mani con uno straccio e con un sorriso ironico e intelligente domanda: 
— Mi ha fatto andare fino a Gerusalemme perché potessi trovare l'amore? 
— Se è amore vero, — risponde Daniela con tenerezza, — perché no? 
— E Jeremy, suo cognato, l'ha convinto a tornare a Gerusalemme? 
— Non so. Lei che ne dice? 
— Che fa bene a rimanere qui. 
Il ragazzo africano saltella di ritorno alla jeep con un grosso ramo. Sijin Kuang gli proibisce di portarlo in macchina e lui, dispiaciuto, lo butta via. 
 
 
Yaari aspetta che il tecnico che ha smontato con efficienza la parete del grande ascensore per trarre in salvo con lui la ragazza finisca di rimontarla. Ma la cosa non è semplice e l'assenza di Gottlieb rallenta il lavoro. Non conoscendo i dettagli dell'ascensore progettato dal suo studio non è in grado di dare consigli, e siccome il portiere notturno non si rivela un gran conversatore non gli rimane altro da fare che sonnecchiare nella poltrona di Gottlieb, vicino al bancone del portiere, e mostrare all'anziano tecnico una solidarietà silenziosa. 
Un primo raggio di luce mattutina illumina le gigantesche porte di vetro dell'atrio del grattacielo e fa aprire gli occhi a Yaari. Vede che il tecnico sta riponendo l'ultimo attrezzo nella cassetta e la chiude. Si alza pesantemente per ripristinare il funzionamento automatico dell'ascensore ma il tecnico l'ha preceduto, e la cabina già sale verso un inquilino mattiniero. — Venga, Rafi, — dice Yaari in tono cordiale, —  la riporto a casa. — Non ce n'è bisogno, — risponde l'uomo, — aspetterò il primo autobus — . Ma lui non gliela dà vinta e lo accompagna lungo il litorale fino a un quartiere a sud della città, non lontano dall'istituto Abu Kabir. Il tecnico, rimasto in silenzio per l'intero tragitto, invita Yaari a salire nel suo appartamento a prendere un caffè, in segno di gratitudine, e lui, indeciso se tornare a casa per recuperare il sonno perduto o recarsi direttamente in ufficio, accetta, anche per avere l'occasione di esaminare la casa dell'uomo e trovare riscontri alla definizione di «mezzosangue» che gli è stata attribuita. 
Il bilocale è pulito e arredato con gusto. Nella prima stanza c'è una libreria con molti volumi in russo. Non c'è alcun segno di influenze orientali, nemmeno nella stoffa del copridivano, o nelle riproduzioni di quadri appese alle pareti. Ma il caffè che il padrone di casa gli serve ha un odore e un sapore spiccatamente arabi. Una ragazza incinta, svegliatasi nella seconda camera e venuta ad aggiungere dei salatini al caffè preparato dal compagno, non dà nessun nuovo indizio perché Yaari si faccia un'idea precisa dell'identità dell'inquilino. 
Domanda all'uomo che tipo di datore di lavoro sia Gottlieb, ed è sorpreso di sentire che lui lo stima. È vero, lo stipendio è piuttosto basso rispetto a quello che corrispondono i concorrenti, ma siccome Gottlieb è sempre presente in sala produzione, e gira tra gli operai, il lavoro è più appassionante, carico di tensione, e per questo il tempo passa più in fretta. 
— Allora qual è il suo vero nome, — domanda Yaari prima di accomiatarsi, —  Nimer o Rafi? 
— Dipende da chi lo chiede, — sorride il tecnico. 
— Quando gliel'ho chiesto io ha risposto Rafi: questo cosa dice di me? 
— È vero, — ammette l'uomo, — ma dopo aver lavorato insieme tutta la notte, può chiamarmi Nimer. 
Il cellulare di Yaari squilla. È Moran. Si è congedato mezz'ora fa e sta rientrando a Tel Aviv. La prima domanda è se sua madre è tornata. — Arriva verso sera, —  risponde il padre laconico, — ma tu va' subito in ufficio, per favore, dopo che ti sarai cambiato d'abito e avrai dato un bacio a tua moglie e ai tuoi figli. Prendi tu in mano la situazione. Io me ne vado a casa a dormire. Tu hai oziato abbastanza — . Poi gli riferisce per sommi capi quanto è successo quella notte. 
Quando arriva nella sua casa di periferia, con gli occhi che già gli si chiudono alla vista dell'albero al centro del prato, il cellulare riprende a squillare. Stavolta è Francisco, che lo informa che suo padre ha la febbre. 
— Quanta? 
— Trentotto e cinque. 
— Prova a misurargliela ancora. 
— Gliel'ho già misurata due volte, ed è sempre uguale. 
— Va bene, arrivo. 
— Devo chiamare anche il dottor Zaslansky? 
— Abbi pietà di lui e aspetta un altro po'. Il poveretto ha ottant'anni: lascia che si svegli da solo. 
Secondo le istruzioni del medico, se la temperatura corporea del vecchio non supera i trentotto gradi i badanti filippini possono somministrargli un antipiretico, ma oltre quella soglia devono chiamare Amotz e il dottor Zaslansky, amico di gioventù del vecchio Yaari e suo medico personale. 
Amotz si lava le mani e guarda bramoso il letto che ha lasciato a notte fonda. Avrebbe una gran voglia di avvolgersi nel piumino candido. Ma il medico l'ha avvertito: i sintomi del morbo di Parkinson possono aggravarsi in caso di febbre alta, e l'ultima cosa di cui ha bisogno quel giorno è una recrudescenza della malattia, oltre che un ritorno di fiamma del padre. Senza radersi e senza cambiarsi d'abito si precipita quindi a casa del vecchio per verificare quanto il suo stato d'animo abbia influito su quello fisico. 
Lo trova seduto sul letto, appoggiato al cuscino, con gli occhi lucidi di febbre e le guance gradevolmente colorite. Come prima cosa domanda al figlio dei venti del grattacielo, e Amotz gli racconta della specie di organo nella parete del vano, creato di proposito, o per caso. 
— È la fine, — dice il vecchio Yaari in tono disperato. — Quando si assumono operai stranieri a condizioni umilianti, prima che se ne tornino in patria ti combinano guai come questo, e poi vai a ripescarli in Romania, o in Cina, per chieder loro conto di quello che hanno fatto... 
— Perché sei così sicuro che l'abbiano fatto di proposito? Magari è stato solo un caso. 
Ma il vecchio scarta quella possibilità con sarcasmo. — Solo chi è troppo pigro per pensare attribuisce la colpa al caso. 
Amotz, esausto, non ha nessuna intenzione di mettersi a discutere col padre. Il dottor Zaslansky arriverà tra un'ora e siccome Hylario è già sveglio, chiede a Kinsey di cambiare le lenzuola del letto del piccolo e di lasciarlo dormire nella sua vecchia camera di quand'era bambino. Non gli farà male sonnecchiare per un'oretta. I filippini eseguono l'ordine con gioia. — Invece di approfittare del viaggio di Daniela per riposarsi, si è stancato ancora di più, signor Amotz, — lo rimproverano. — A che ora arriva l'aereo di sua moglie? 
— Oggi pomeriggio alle cinque. 
— Vuole un pigiama di suo padre?  
— No. 
Il suo letto da ragazzo emana un profumo dolciastro, forse di provenienza orientale. La camera gli è familiare ed estranea a un tempo. La libreria comprata quando aveva cominciato il liceo è ancora al suo posto, e accanto alla scrivania c'è la sua vecchia sedia. Ma poi c'è un'accozzaglia di mobili portati da altre camere: il comodino che stava di fianco al letto di sua madre, una cesta di vimini del bagno. E anche accessori di origine filippina: poster e lampade colorate, e un telefono, vero o finto, a forma di drago. Yaari si spoglia e si infila nel letto in mutande e con la canottiera a maniche lunghe che ha indossato prima della sortita notturna. Spera in un giusto sonno ristoratore che lo prepari all'imminente incontro con la moglie. 
Si addormenta subito e sprofonda in un torpore pesante, per quanto intercalato da frasi e parole. Dalle profondità dell'inconscio sente la cordiale voce da basso del dottor Zaslansky, che lui conosce fin da bambino, proprio mentre spiega cosa dare da bere al vecchio. Poi aggiunge: — Non fa niente, lasciate pure dormire Amotz, non svegliatelo — . Yaari tira a sé la coperta e ringrazia in cuor suo il medico della sua infanzia. Infine ripiomba in un sonno meraviglioso che lo culla fra le braccia. 
Sogna. Alcuni operai trasportano un blocco di metallo e lo buttano sul pavimento facendo un gran fracasso. Parlano tra loro in rumeno, o in cinese. Ecco, lui è di nuovo nel vano dei venti. Ma quello, anziché elevarsi verso l'alto, si estende in lunghezza. È una galleria, e al posto degli ascensori ci sono dei piccoli vagoni di una miniera di carbone che si possono accompagnare camminandovi a fianco mentre sono in movimento. Anziché carbone trasportano inquilini vestiti di nero, con scintillanti girocolli d'oro. Yaari li scorta tenendo in mano una torcia. Cammina tra la parete e i binari quando all'improvviso avverte l'impellente bisogno di fare pipi. Ma dove? Vagoncini pieni di gente transitano in continuazione, arrivano da un punto illuminato e proseguono verso l'oscurità, e siccome sono scoperti, e gli sguardi dei passeggeri sono rivolti a lui, fa fatica a trovare un angolino appartato. Nota un gruppo di ragnatele su una parete del vano, si avvicina, e decide di lacerarle con il getto potente della sua urina. 
Si sveglia in tempo, e corre in bagno in mutande e canottiera. Dietro la finestra del soggiorno nota una luce diversa, pomeridiana. In fondo al corridoio, accanto alla porta d'ingresso, è posato il pistone fabbricato da Gottlieb. 
— Ma come? — domanda agitato. — L'hanno portato qui? 
— Sì, sono arrivati due operai a mezzogiorno. Gottlieb ha detto che non aveva dove metterlo in fabbrica. 
— Bastardo, — si inviperisce Yaari, — a un tratto non ha posto per un pistone. Perché non mi avete svegliato? Li avrei costretti a riportarlo indietro. 
— Non sarebbe servito a niente, — risponde Francisco con calma. — Suo padre era d'accordo. È stato contento di riceverlo. 
Yaari sospira, e si appoggia alla parete senza forze. 
— Come sta? 
— Meglio. La febbre è scesa. 
Guarda l'orologio. Incredibile, sono le tre e mezza del pomeriggio. 
— Ma come avete potuto lasciarmi dormire? — rimprovera Francisco. 
— Suo padre non ha voluto che la svegliassimo, — sorride lui con la sua dentatura candida, — ma solo fino alle quattro, perché non faccia tardi all'appuntamento con sua moglie. 
 
 
Questa volta l'aeroplanino è atterrato a grande distanza dal terminal di Nairobi e un autobus scalcinato è arrivato a raccogliere tutti i passeggeri. Ma contrariamente alla speranza di Daniela di poter salire subito al piano delle partenze, gli addetti del terminal la costringono ad attraversare il controllo passaporti e la dogana. — Per quanto tempo rimarrà in Kenya? — le domanda l'agente della finanza. — Non ho intenzione di fermarmi, — risponde lei con un sorriso triste, — sono in transito. Rimarrò qui solo un paio d'ore — . Le aprono però lo stesso la valigia e gliela frugano. Tolgono persino tutto quello che c'è nel nécessaire ma le ossa non destano il loro interesse. 
Ancora una volta Daniela deve passare il metal detector, poi gira a lungo trascinandosi dietro il trolley prima di trovare il solito bar affollato in cui aspettare il volo di ritorno a casa. Non ha davanti a sé sei ore di attesa, è vero, come per il volo a Morogoro, ma non è nemmeno più la donna sicura di sé che si conquista uno spazio suo. Non osa prendere due sedie per appoggiarvi i piedi, la valigia e la borsa. Si accontenta di un posto libero in mezzo alla ressa, incastrato fra altri tavolini occupati, e quando ordina al cameriere una tazza di caffè con un sorriso stanco, lo fa chinando la testa. 
Trema di paura in vista del ritorno a casa. La possibilità, puramente teorica, che Amotz scopra cos'è successo l'atterrisce. Cosa nascondeva lo strano sguardo di Yirmiyahu al momento della partenza? Rabbia? Speranza? Sgomento? Non aveva detto una parola su ciò che era accaduto quella notte, forse perché provava compassione per lei. E malgrado si senta a disagio al pensiero che qualcuno provi pietà di lei, vorrebbe che fosse così. Anche senza quel morso alla spalla, solo per il fatto che le labbra di suo cognato le hanno sfiorato i seni, è come se gli avesse concesso, per pura pietà, un atto di proprietà su di lei. Ora è nelle sue mani. Che lui torni in Israele oppure no. E magari adesso non tornerà proprio per delicatezza nei suoi confronti, o per il profondo legame che ha con lei e con Amotz. Chissà. Per un istante uno strano pensiero la colpisce: forse era proprio questa la sua intenzione nascosta, impedire a Yirmy di tornare, per non amareggiare la sua famiglia con quel fuoco amico. I suoi figli e i suoi nipoti. 
Il cameriere le mette davanti una tazza di caffè e chiede di essere pagato subito perché il suo turno sta per finire. Daniela lo paga lautamente ma non è in grado di portare la tazza alle labbra, quasi contenesse una medicina amara. Pigiata tra africani ed europei, all'improvviso sente parlare ebraico. Non alza la testa. In quel sudicio bar cerca un anonimato totale. Vorrebbe che la sua vergogna rimanesse congelata nel tempo. 
 Il tabellone elettronico annuncia un ritardo di mezz'ora del volo per Tel Aviv e lei ne è felice. Due giovani ultraortodossi vestiti di nero — probabilmente emissari del movimento Chabad riusciti a insinuarsi nel terminal — si aggirano tra i tavoli scrutando attentamente gli avventori nella speranza di catturare un viaggiatore ebreo che possa ottemperare con loro a un precetto. Guardano anche lei, che abbassa subito gli occhi. Per non dar loro nessun motivo di avvicinarsi tira fuori il romanzo comprato per il viaggio e senza gioia si appresta a leggerne l'ultimo capitolo. 
Conta le pagine rimaste. Solo venticinque. Poi le sfoglia per controllare la quantità dei dialoghi e la lunghezza dei paragrafi. Infine riprende a leggere, ritornando sulle ultime due pagine del capitolo precedente per calarsi di nuovo nella trama. Inaspettatamente scopre una nuova tensione nel tono dell'autrice che scrive in prima persona, immedesimandosi completamente con la protagonista. Ma è ancora difficile interpretarne la natura. Ad ogni modo l'ironia e il cinismo si mitigano, e le esasperanti descrizioni del paesaggio, introdotte forse più per adempiere a un dovere stilistico che per un bisogno personale della scrittrice, o per necessità della trama, sono scomparse. Probabilmente sta per accadere qualcosa di serio. Magari l'autrice prepara il suicidio della protagonista. E in fondo perché no? Una giovane vuota e incosciente potrebbe senz'altro tentare di togliersi la vita. All'improvviso tra le righe affiora anche un certo dolore, proprio nei punti in cui il testo appare indecifrabile, e minimalista. Daniela gira velocemente le pagine, una dopo l'altra, e poi, senza motivo, si blocca. Sfoglia le prime pagine del libro ricordando un'allusione a qualcosa che potrebbe spiegare ciò che sta per accadere nelle ultime. Ha la sensazione che l'autrice, giovane e spavalda, stia preparando un assurdo colpo di scena che ragazzi della sua età, e del suo stesso ambiente sociale, accoglieranno probabilmente con gioia. Ma non una lettrice sobria e tradizionalista come lei, che vi si ribella fin da ora. Beve un sorso del caffè ormai quasi freddo senza posare il libro, come ipnotizzata. Si sente indifesa, intrappolata nella ragnatela tessuta dalle parole che già vede sfocate per le lacrime inattese che le riempiono gli occhi. Legge le ultime righe. Poi chiude il volume e lo fa sparire nella tasca esterna del trolley. 
Lo sforzo e l'emozione le hanno messo appetito. Il tabellone elettronico non segnala un ulteriore ritardo del suo volo. Il bar si fa più affollato. Non c'è speranza che il cameriere indaffarato tra i tavoli la noti dopo che l'ha già pagato. Si ricorda del chiosco poco lontano, ma non ha voglia di dolci. Al contrario, questi le farebbero venire ancora più nausea. Si rammenta dei panini che suo cognato le ha dato dopo averla costretta a rinunciare alla colazione. Il thermos l'ha restituito a Sijin Kuang, ma la busta con i panini l'ha infilata nel trolley. Ne prende uno col ripieno di carne, lo addenta, e si guarda attorno. 
Uno dei ragazzi ultraortodossi si è seduto a un tavolino accanto, vi ha steso sopra un tovagliolo di stoffa, ci ha posato una bottiglia di acqua minerale e si è messo a mangiare come lei un panino portato da casa. Nel notare quello di Daniela le sorride, come se condividesse con lei un segreto che di lì a poco gli permetterà di attaccare discorso. Mastica con grande delicatezza. Se riconoscesse il tipo di carne che lei sta mangiando magari non scatterebbe con tanta prontezza nel vederla mentre lo chiama con un dito. 
L'ultraortodosso è americano, non israeliano, e parla un ebraico incerto, dal forte accento straniero. Daniela gli si rivolge in tono imperioso, da insegnante spazientita, come se lui fosse un allievo da cui non ci si può aspettare più nulla. 
— Ha per caso una Bibbia da prestarmi? 
— Una Bibbia da prestarle? — ripete lui sbigottito. — Che intende dire? 
— Che significa che intendo dire? — ridacchia lei. — Vorrei leggere un passo della Bibbia e restituirgliela subito. 
— Una Bibbia completa? 
— Sì, ma in ebraico. 
— Non ce l'ho. Vorrebbe forse il Libro dei Salmi? Quello ce l'ho. 
— Non voglio il Libro dei Salmi, — risponde lei imitando il suo accento, — ma una Bibbia completa. 
— Quale passo cerca esattamente? 
— Ma che importanza ha? Ce l'ha o non ce l'ha? 
— No, non ce l'ho, — ammette lui sconfortato. 
— Allora non fa niente, non è una tragedia. 
— Potrei darle un libro di preghiere, che contiene parecchi passi della Bibbia. 
— Non lo voglio, — risponde lei seccata, rendendosi conto che non riuscirà a liberarsi facilmente di quel giovane dal viso delicato, ascetico, incorniciato da un velo di barba bionda, che non vuole farsi sfuggire l'occasione di ottemperare a un precetto in quell'aeroporto africano. 
— Bene, — riflette il ragazzo, — aspetti un attimo e le porterò una Bibbia. C'è ancora parecchio tempo prima che il suo volo parta. 
Sparisce rapidamente tra la folla, forse alla ricerca del suo compagno, e dieci minuti dopo ricompare con una grossa Bibbia, nuova, che ha probabilmente comprato apposta per lei. Un volume bilingue, in ebraico e in inglese. 
La versione inglese non è quella del re Giacomo ma l'ebraico è quello antico che Daniela conosce. Ricordava che il passo di cui è alla ricerca facesse parte del capitolo 42 del Libro di Geremia, invece lo trova al capitolo 44. Lo legge mentalmente, con intima emozione, mentre l'ultraortodosso americano, col viso quasi trasfigurato da un afflato di spiritualità, le sta accanto, affascinato e teso. 
 
Perciò dice il Signore degli eserciti, Dio di Israele: «Ecco, io rivolgo la faccia verso di voi a vostra sventura e per distruggere tutto Giuda. Abbatterò il resto di Giuda, che ha deciso di andare a dimorare nel paese d'Egitto; essi periranno tutti nel paese d'Egitto; cadranno di spada e periranno di fame, dal più piccolo al più grande; moriranno di spada e di fame e saranno oggetto di maledizione e di orrore, di esecrazione e di obbrobrio. Punirò coloro che dimorano nel paese d'Egitto come ho punito Gerusalemme con la spada, la fame e la peste. Nessuno scamperà né sfuggirà fra il resto di Giuda che è venuto a dimorare qui nel paese d'Egitto con la speranza di tornare nella terra di Giuda, dove essi desiderano ritornare ad abitare; essi non vi ritorneranno mai, eccettuati pochi fuggiaschi». Allora tutti gli uomini che sapevano che le loro donne avevano bruciato incenso a divinità straniere, e tutte le donne che erano presenti, una grande folla, e tutto il popolo che dimorava nel paese d'Egitto e in Patros, risposero a Geremia: «Quanto all'ordine che ci hai comunicato in nome del Signore, noi non ti vogliamo dare ascolto; anzi decisamente eseguiremo tutto ciò che abbiamo promesso, cioè bruceremo incenso alla Regina del cielo e le offriremo libazioni come abbiamo già fatto noi, i nostri padri, i nostri re e i nostri capi nelle città di Giuda e per le strade di Gerusalemme. Allora avevamo pane in abbondanza, eravamo felici e non vedemmo alcuna sventura; ma da quando abbiamo cessato di bruciare incenso alla Regina del cielo e di offrirle libazioni, abbiamo sofferto carestia di tutto e siamo stati sterminati dalla spada e dalla fame». 
 
 
Già da lontano Amotz vede la moglie ma lei ancora non lo scorge, pressato com'è tra la folla in attesa degli arrivi. Come sua abitudine, Daniela si avvia verso l'uscita di destra con l'andatura lenta ed eretta che piace tanto al marito, trascinandosi dietro la sua valigetta. Lui arretra, e aggira la folla con un'insolita pesantezza di movimenti. È talmente raro che lei parta e lui rimanga ad aspettarla che vorrebbe rimandare il loro incontro, forse perché lei si renda conto che lui non è sempre ai suoi ordini. 
È strano che Daniela non si fermi a cercarlo ma prosegua, probabilmente distratta. E quando Amotz la raggiunge e l'afferra da dietro, come aveva fatto Moran con lui alla base militare, le sue mani esperte, che le stringono i fianchi, percepiscono la tristezza e la stanchezza, fisica e mentale, della moglie. Allora, anziché sfiorarle le labbra, le bacia la fronte, come aveva fatto lei nel salutarlo una settimana prima. 
— Tutto finito, — dice lui in tono affermativo, o forse di domanda. 
— Tutto finito, — conferma lei. Poi, nell'alzare lo sguardo luminoso, chiede stupita: — Che c'è? È in mio onore che non ti sei rasato oggi? 
— Non è in tuo onore. Semplicemente non ho fatto in tempo. Questa notte abbiamo cercato di risolvere il problema dei venti del grattacielo Pinsker e stamattina Francisco mi ha chiamato perché a papà era salita la febbre. Mi sono addormentato in camera di Hylario prima che arrivasse il dottor Zaslansky e poi sono dovuto correre in aeroporto. 
— E non ti sei fatto una doccia? 
— Non riesco a lavarmi nel bagno di papà, con tutta quella confusione. 
— Riesci soltanto a dormire a casa sua? 
— A dormire e a sognare. 
— E come sta Yoel? 
— La febbre è scesa. 
— Allora oggi non sei stato nemmeno in ufficio. 
— Moran è stato congedato e l'ho mandato in ufficio al posto mio. 
— Insomma, per farla breve ti sei dato alla bella vita. 
— Se ti piace definirla così. 
— Però con la barba lunga e gli abiti da lavoro sembri più giovane e simpatico. — Allora rimarrò sempre così. 
— E i venti? 
— Come pensavo. Un difetto di costruzione del vano. Per caso, o forse no, hanno lasciato crepe e fessure che creano l'effetto di un organo in una chiesa. 
— Un organo in una chiesa? — ride lei. — E cosa faranno gli inquilini? Pregheranno e si faranno il segno della croce? 
— Saranno quelli dell'impresa edile a pregare che la società di assicurazione mostri pietà di loro. Io e Gottlieb ne siamo usciti puliti. Ma un momento, Daniela, dobbiamo chiamare Moran per dirgli che sei arrivata. Questa volta, forse perché era agli arresti e non aveva niente da fare, sembrava ancora più preoccupato di me. 
— Più di te? — ripete lei in tono di leggera offesa. 
— Io ero assolutamente tranquillo dopo aver parlato con te e con Yirmy quando siete andati a Dar es Salaam. 
— E non hai sentito la mia mancanza? 
— Non ne ho avuto il tempo — . Yaari sorride, consapevole di far male alla moglie ma ansioso di penetrare il velo di indifferenza che non si aspettava da lei. Preme il telecomando per aprire le portiere dell'auto e anziché mettere la valigia nel bagagliaio la posa sul sedile posteriore, quasi fosse un passeggero. 
— Io invece ho avuto tempo di sentire la tua mancanza, — dice Daniela con un'espressione severa mentre si allaccia la cintura di sicurezza, — e anche di arrabbiarmi. 
— Arrabbiarti per cosa? 
— Perché non sei venuto con me. 
Yaari è sorpreso, ma d'altra parte si aspettava questa reazione. 
— Ma io pensavo che era quello che volessi tu. Un po' di tempo per stare da sola. Evocare ricordi d'infanzia senza che nessuno che non potesse condividerli con te ti disturbasse. 
— Dopo trentasette anni di matrimonio, — lo rimbecca lei bruscamente, — è arrivato il momento che tu capisca che mia sorella non è solo mia ma anche tua, e Yirmy, che è bloccato laggiù, è legato anche a te. Avresti dovuto insistere, e non lasciarmi partire da sola. 
— Ma come? — Yaari è senza parole. — Sei stata tu... proprio tu... 
— Tu... tu... — gli rifà il verso lei. — È vero, sono stata io, ma anch'io posso sbagliarmi, e tu avresti dovuto capire l'errore e fare in modo che lo evitassi. 
— Come avrei potuto capire che stavi sbagliando se per trentasette anni ti sei presa la briga di convincermi che sai sempre cosa è giusto fare e cosa no nei rapporti con la tua famiglia? — ride lui. 
Lei tace, addolorata. 
— Ma cos'è successo? Perché dici di aver fatto male a partire da sola? 
— Te lo racconto dopo. 
— Dimmi almeno qualcosa. 
— Tra un po'. Prima parlami dei ragazzi. Cos'è successo a Moran? 
— È stato richiamato come riservista e ancora una volta ha fatto finta di nulla. Questa volta però non si sono dimenticati di lui. Il comandante del battaglione, un suo amico che era con lui al corso ufficiali, ha fatto sì che lo tenessero agli arresti. E dovrà anche subire un processo per non essersi presentato le volte precedenti. Alla fine gli toglieranno i gradi di ufficiale. Ecco, Daniela, non avremo più un ufficiale in famiglia. 
— E ti sembra una tragedia? 
— Non è una tragedia. È un piccolo dispiacere, un'onta. 
— Non per me. Io non ho bisogno di glorie militari. Sappi che Yirmy non è in lutto solo per Shuli, e la maggior parte del tempo non abbiamo parlato di lei. Si rode ancora per la storia di Eyal, su cui ha svolto indagini private di cui non sapevamo niente. Il fuoco amico che gli hai ficcato in testa non lo lascia in pace. 
— Io gliel'ho ficcato in testa? Io? Ma cos'hai? Sei tornata a casa in vena di attaccar briga? Fammi un favore, non gli ho ficcato in testa nessun fuoco e non avrei nemmeno potuto ficcarglielo in testa. Se l'è ficcato in testa da solo. Con quell'espressione cercavo solo di mitigare il fatto che Eyal fosse stato ucciso dai suoi commilitoni e se tu ci trovi qualcosa di ironico... 
— Va bene, non innervosirti, forse ho sbagliato. 
— Stai facendo errori a raffica, e io non ci sono abituato. Che ti succede? 
— Dài, lasciamo perdere, non volevo incolparti di nulla, ma solo farti presente quanto sono rattristata dal fatto che tu non abbia capito che dovevi venire con me ad aiutarmi a tener testa a un uomo intransigente e triste. Ma non parliamone adesso. 
Cercherò di spiegarmi meglio dopo. Intanto dimmi qualcosa dei bambini. 
— Sono dolcissimi. — E Nofar? 
— È stata carina, tanto per cambiare. 
— Ti sei tenuto in contatto con lei? 
— In contatto? — esclama lui offeso. — Mi sono preso cura personalmente di ogni membro della famiglia. Per prima cosa venerdì ho permesso a Efrat di andare a una festa e sono stato tutta la notte a fare il baby-sitter ai bambini che strillavano e piangevano. Sabato li ho accompagnati alla base di Moran e ho gironzolato sotto la pioggia per dare ai loro genitori un po' di tempo per stare insieme. Poi ti racconto. E Nofar: sono stato da lei a Gerusalemme non una, ma ben due volte. E a tutto questo aggiungi che dopo la tua partenza mio padre si è trasformato in una tigre innamorata e mi ha costretto a prendermi cura dell'ascensore di una sua vecchia fiamma. Una donna incredibile che abita a Gerusalemme. Oh oh, quanto mi ha fatto andare avanti e indietro. Non solo sono stato un padre e un nonno esemplare, ma anche un bravissimo figlio. 
— Allora ti sei goduto la vita, — dice lei con un sorriso. 
— Anche troppo. Me la sono goduta senza riposarmi un attimo. Ma che succede laggiù in Africa? Quando ha intenzione di tornare Yirmy? 
— Non tornerà. Non ci pensa nemmeno. Dice che l'Africa gli permette di allontanarsi da tutto. 
— Che significa allontanarsi? E cos'è questo tutto? — protesta Yaari. — Esiste poi una cosa simile: tutto? E anche se esiste, com'è possibile lasciarsi tutto alle spalle? Daniela, conosco Yirmy quanto te, e non ha scelta: alla fine tornerà. 
 
10 
 
Perché a un tratto il crudo e abbagliante paesaggio urbano che la sta lentamente inghiottendo suscita in Daniela un senso di oppressione? Gli svettanti grattacieli di Tel Aviv, i giganteschi schermi pubblicitari su cui le immagini si susseguono a ritmo frenetico, il traffico convulso che le scorre ai lati, le macchine in entrata e in uscita dagli svincoli della superstrada. Anche la morbida comodità del sedile anteriore della grossa automobile la infastidisce, quasi lei desiderasse ritrovarsi sul sedile posteriore della rumorosa Land Rover guidata dalla triste sudanese. 
Amotz parla e Daniela ascolta, ma senza prestargli molta attenzione. Sapendo quanto lei sia ansiosa di conoscere sempre tutto nei dettagli, lui si sforza di informarla dell'umore dei famigliari, del loro tono di voce, del tempo, dei colori, degli odori. Si diverte a raccontarle tutto quello che ha fatto per darle prova della sua efficienza e delle sue capacità. La subissa di particolari, e non le risparmia nemmeno la storia della videocassetta porno scoperta tra quelle di Baby Mozart e Baby Bach. 
— E cos'hai fatto? 
— L'ho rimessa a posto. Che altro potevo fare? 
— Ma l'hai guardata? 
— Solo l'inizio. 
— E com'era? 
— Come avrebbe potuto essere? C'era una ragazza giovane, un po' spaventata. 
— Allora ti sei davvero goduto la vita mentre non c'ero, — ripete ancora lei. 
— E cos'hai fatto tu? — scherza lui. — Ti sei goduta la morte? 
— Ho lottato contro la morte, — risponde Daniela in tono serio. 
— Che intendi dire? 
— Finisci prima la tua storia. 
— Ti ho già detto le cose più importanti. 
La casa è buia e fredda, e Daniela chiede ad Amotz di accendere il riscaldamento. Esausta e malinconica, non si trattiene con lui in cucina ma sale direttamente in camera, si toglie le scarpe e si lascia cadere vestita sul letto matrimoniale sfatto, dal quale Amotz è uscito a notte fonda. La coperta lambisce il pavimento e il pigiama di Amotz è abbandonato accanto al guanciale. Anziché sentirsi a suo agio nel luogo che le è più familiare al mondo, circondata dagli oggetti che conosce bene, prova un senso di malessere. Dopo la stanza monacale in Africa, questa le appare stracolma di cose inutili. Armadi e scaffali superflui, ceste piene di vasetti di cosmetici vuoti e scatole di ombretti ormai secchi. Persino la quantità di fotografie dei suoi cari appese alle pareti — lei, il marito, i figli, i nipoti, e anche l'ultima istantanea di Eyal — le sembra esagerata. 
Amotz porta su la valigia e la posa in un angolo, poi si siede ai piedi della moglie, glieli accarezza e glieli massaggia. 
Lei chiude gli occhi. 
— Non hai fame? 
— No. C'è l'acqua calda? 
— Tra un po'. Ho acceso il boiler elettrico perché non so se i pannelli solari l'abbiano riscaldata a sufficienza. 
— Lavati anche tu, fammi questo favore. 
— Perché? — Lui finge di fare l'ingenuo. — Mi hai detto che sporco e con gli abiti da lavoro sembro più giovane e simpatico. 
— Giovane e simpatico, però lavati. 
Lui si china a baciarle il viso e il collo, e via via aumenta il ritmo dei baci. Lei è languida, passiva, ma quando lui tende la mano per sbottonarle la camicetta nella speranza di affondare il viso tra i suoi seni, lei gliela afferra, e lo ferma. 
— Cos'è successo al tuo «desiderio vero»? 
— C'è, ci sarà. 
— Perché non adesso? Che c'è che non va? 
— Non ci sono ancora con la testa. Dovrai aspettare. 
Deluso, Amotz continua a baciarle il viso, il collo, le graffia la pelle con i peli irti della barba. Daniela chiude gli occhi per il dolore, lo spinge via. 
— O ti radi adesso oppure rimandi i baci a domani. 
— Solo per un po' di baci non vale la pena radersi, — dice lui alzandosi e gironzolando irrequieto e amareggiato per la stanza. 
— Almeno spiegami cos'è questa spedizione di scavo. Cosa si scava? 
Lei gli racconta in breve della spedizione, degli scienziati, della visita serale al sito, della «macchina divoratrice» che non era riuscita a inserirsi nel processo evolutivo e anche del dottor Roberto Kukirise, che le aveva chiesto di trafugare delle ossa preistoriche perché fossero esaminate ad Abu Kabir. 
— Contro la legge? 
— Cosa sarebbe potuto succedere? 
— Dove sono? 
— Nel mio nécessaire da viaggio. Ma non c'è niente da vedere. Tre ossa rinsecchite di una scimmia preistorica. 
Tuttavia Amotz non rinuncia, e ben presto scova nella valigia il nécessaire, tira fuori le ossa, le tocca, le annusa e le avvicina agli occhi per vederle meglio. — Tutto qui? 
— Tutto qui. 
— E se ti avessero beccata e arrestata? Le prigioni delle nazioni primitive e a regime dittatoriale sono peggio dei cimiteri. 
— Ti saresti trovato una nuova moglie, migliore di me, — sorride lei con un doloroso senso di colpa. 
— Esiste una donna simile? 
— Certo. C'è sempre qualcuno migliore di noi. Amotz nota nella valigia la Bibbia bilingue. 
— Ti sei portata la Bibbia in viaggio? 
Lei gli racconta dell'ultraortodosso americano e del motivo per cui aveva cercato una Bibbia in ebraico all'aeroporto di Nairobi. Lui l'ascolta incredulo. 
— Il Libro di Geremia? Non capisco. Cosa vi cerca Yirmy? E da che parte sta? È a favore o contro? 
— Contro, decisamente contro. 
— In altre parole, è anche un po' contro se stesso. Tuttavia Daniela vuole lasciar cadere l'argomento. — L'acqua sarà calda ormai, — dice. — Va' a farti la doccia di sotto, io mi lavo qui. Ma spegni qualche luce. 
Solo quando sente il getto dell'acqua al primo piano va in bagno a controllare il morso sulla spalla. Il segno lasciato dai denti è quasi sparito, è rimasta solo una mezzaluna rossastra che lei potrebbe giustificare in decine di modi. Eppure non vuole che il marito, che conosce ogni centimetro del suo corpo, le faccia domande in proposito. Si insapona a lungo, fino a che la sua pelle si arrossa. Si mette una camicia da notte e si infila a letto. Prende il quotidiano «HaAretz», si ricorda dei giornali bruciati e lo lascia cadere. 
Amotz sale in camera, non in pigiama ma con un paio di pantaloncini corti. Non si è ancora rasato. 
Quando lei si sveglia, a mezzanotte, e non lo trova al suo fianco, scende in salotto e lo vede seduto al buio, intento a guardare un film alla televisione. 
— Che c'è? Non dormi? 
— No, ho dormito tutto il giorno, e adesso sono sveglio come un folletto. 
È un folletto, pensa lei, e la luce dello schermo riflessa sul suo viso gli dà un'aria di mistero. Un folletto potrebbe scoprire tutto, pensa disperata dirigendosi verso il tavolo da pranzo su cui troneggia la hanukkiah vuota, senza nemmeno una candela. — Come mai non ci sono candele? La festa è già finita? 
— No, non ancora, — risponde lui, — oggi si accende l'ultima. Ma tu ti sei addormentata così in fretta... 
— Quante candele si accendono oggi? 
— Otto. Otto. 
— Dài, accendiamole. Non ne ho accesa neanche una in Africa. 
— Alla fine Yirmy ha davvero bruciato le candele che gli avevi portato? 
— Non alla fine, all'inizio — . Daniela si avvicina alla scatola, e resta sorpresa. —  Come mai ce ne sono rimaste così tante? Non le hai mai accese a casa? A te piace giocare con il fuoco. 
— Le ho accese una sola volta, il terzo giorno di Hanukkah, con Nofar. Negli altri non sono stato a casa. Sono stato da papà, da Efrat e i bambini, nel refettorio della base militare di Moran quando sono andato a trovarlo, e ieri persino nella fabbrica di Gottlieb. Quindi non avevo bisogno di tornare a casa per accenderle da solo. 
— Allora vieni, — si illumina lei all'improvviso, — non è troppo tardi — . Infila otto candele dai diversi colori nei bracci della hanukkiah e vi aggiunge uno shamash rosso. 
— Accendile tu, — dice Amotz senza alzarsi dalla poltrona. — Visto che non ne hai accesa nemmeno una, te le lascio tutte e otto. 
— Va bene, ma abbassa il volume della televisione. così non si possono recitare le benedizioni e cantare. 
— Vuoi che recitiamo anche le benedizioni? 
— Perché no? Come sempre. 
— Allora fallo tu. Viviamo nell'era dell'emancipazione femminile. Non sei dispensata dal farlo. Ci sono donne rabbino che se ne vanno in giro con frange e filatteri. 
— Ma dov'è il testo? 
— È stampato sulla scatola delle candele. 
— È così semplice e facile. 
Amotz abbassa il volume della televisione ma non la spegne. Daniela accende con un fiammifero lo shamash, accosta la fiammella alle altre candele, e legge le benedizioni alla loro luce. — Vieni, — dice al marito, — adesso cantiamo — . Lui si alza controvoglia dalla poltrona. — Per favore non Ma'oz Tzur, — la supplica. —  Anche Nofar non sopporta questa canzone. 
— Che c'è da non sopportare? — protesta lei. — Adesso ti metti a parlare come Yirmy? 
— Come Yirmy o no, questo canto non mi piace. 
— Ma non ti succederà niente se lo canterai con me, in duetto. 
 
 
FINE