Fëdor Dostoevskij
PREMESSA DELL'AUTORE
Dando inizio alla biografia del mio eroe, Aleksej Fëdoroviè Karamazov, mi trovo in un certo imbarazzo. E cioè: anche se chiamo Aleksej Fëdoroviè il mio eroe, tuttavia, io stesso sono consapevole che egli non è affatto un grande uomo, quindi già prevedo inevitabili domande di questo genere: in che cosa è notevole questo Aleksej Fëdoroviè se lo avete eletto a vostro eroe? Che cosa ha fatto di tanto notevole? Chi lo conosce e per quale ragione? Perché io, lettore, dovrei perdere tempo ad apprendere i fatti della sua vita? L'ultima domanda è la più inesorabile in quanto posso solo rispondere questo: "Forse lo capirete da voi leggendo il romanzo". E se, una volta letto il romanzo, non lo capiste e non concordaste sul fatto che il mio Aleksej Fëdoroviè sia davvero una persona notevole? Lo dico perché prevedo con rammarico che avverrà proprio questo. Personalmente lo ritengo degno di nota, ma dubito seriamente di riuscire a dimostrarlo al lettore. Il fatto è che egli è un protagonista, ma un protagonista vago, indefinito. Del resto, forse, in un'era come la nostra, sarebbe strano pretendere la chiarezza dalla gente. Una cosa però è abbastanza certa: egli è una persona strana, persino un eccentrico. Ma la stranezza e l'eccentricità danneggiano, più che non diano diritto all'attenzione, soprattutto quando tutti tentano di mettere insieme i particolari per trovare un qualche valore comune nella confusione generale. Mentre l'eccentrico, nella maggior parte dei casi, è proprio un elemento particolare, isolato. Non è forse così? Ecco: se non sarete d'accordo con questa mia ultima tesi e risponderete "non è così" oppure "non è sempre così", allora, con il vostro permesso, mi sentirei incoraggiato riguardo al valore di eroe del mio Aleksej Fëdoroviè. Giacché non solo un eccentrico "non sempre" è un elemento particolare, ma, al contrario, accade pure che egli stesso, oserei dire, porti dentro di sé il nocciolo del tutto, mentre il resto degli uomini della sua epoca se n'è temporaneamente allontanato per qualche ragione, come investito da una raffica di vento... Comunque non avrei dovuto lasciarmi andare a queste dichiarazioni estremamente banali e confuse e avrei dovuto cominciare nel più semplice dei modi, senza tanti preamboli: se il libro piacerà, verrà letto. Ma il guaio è che ho due romanzi e soltanto una biografia. Il romanzo principale è il secondo: l'attività del mio eroe ai nostri giorni, proprio nel momento attuale. Invece, il primo romanzo ha avuto luogo ben tredici anni fa e non è propriamente un romanzo, ma solo un momento della prima giovinezza del mio eroe. Non posso fare a meno di questo primo romanzo perché senza di esso molte cose del secondo non sarebbero comprensibili. Ma in questo il mio impaccio iniziale si complica ulteriormente: se io stesso, che sono il biografo, ritengo che un solo romanzo potrebbe essere eccessivo per un eroe così modesto e indefinito, come potrei uscirmene con due romanzi e giustificare una tale arroganza da parte mia? Smarrito nel tentativo di risolvere tali quesiti, ho deciso di sorvolare su di essi senza cercare risoluzione alcuna. S'intende, il lettore perspicace avrà indovinato da un pezzo che qui volevo andare a parare sin dall'inizio, e sarà solo irritato con me per l'inutile spreco di sterili parole e tempo prezioso. Darò una risposta precisa a questo proposito: ho sprecato sterili parole e tempo prezioso in primo luogo per gentilezza, in secondo per calcolo: "Almeno ci aveva avvertiti in tempo", diranno. Del resto, sono persino contento che il mio romanzo si sia spaccato da sé in due racconti "ferma restando la sostanziale unità del tutto": dopo aver letto il primo racconto, il lettore stesso potrà valutare se valga la pena di tentare con il secondo. Naturalmente, non ci sono obblighi per nessuno e si potrà abbandonare il libro anche alla seconda pagina del primo racconto per non aprirlo mai più. Ma, sapete, esistono lettori sensibili che vorranno assolutamente portare a termine la lettura per non incorrere nell'errore di un giudizio imparziale; i critici russi, ad esempio, sono fra questi. Ecco, davanti a persone del genere, mi sento il cuore più leggero: nonostante tutta la loro delicatezza e buona fede, fornisco loro il pretesto più legittimo per abbandonare il racconto al primo episodio del romanzo. E con questo concludo la premessa. Sono pienamente d'accordo sul fatto che sia superflua, ma dal momento che è già stata scritta, che rimanga pure. E adesso al lavoro.
PARTE PRIMA
LIBRO PRIMO • STORIA DI UNA FAMIGLIOLA
I • Fëdor Pavloviè Karamazov
Aleksej Fëdoroviè Karamazov era il terzo figlio di un proprietario terriero del nostro distretto, Fëdor Pavloviè Karamazov, assai noto ai suoi tempi (e del resto ancor oggi ricordato fra noi) per la sua tragica e oscura fine, avvenuta esattamente tredici anni fa e della quale parlerò a tempo debito. Adesso, invece, di questo "proprietario terriero" (come lo si chiamava da noi, anche se in tutta la sua vita non aveva abitato quasi mai nella sua proprietà), dirò solo che era un tipo strano, di quelli che tuttavia si incontrano abbastanza spesso, il tipo di persona non soltanto abietta e depravata, ma anche balorda, di quei balordi, però, che sanno gestire egregiamente i propri affarucci e, a quanto pare, solo quelli. Fëdor Pavloviè, ad esempio, aveva cominciato quasi dal nulla; la sua proprietà era modestissima, correva di qua e di là per pranzare alla tavola altrui, si ingegnava a fare il parassita, eppure al momento del trapasso gli trovarono ben centomila rubli in contanti, anche se nel contempo aveva continuato ad essere per tutta la vita uno dei più dissennati scavezzacolli di tutto il nostro distretto. Lo ripeto ancora: qui non si tratta di stupidità - la maggior parte di questi scavezzacolli è abbastanza intelligente e scaltra - si tratta proprio di dissennatezza, e per giunta di un tipo particolare, nazionale.
Si era sposato due volte e aveva avuto tre figli: il maggiore, Dmitrij Fëdoroviè, dalla prima moglie, gli altri due, Ivan e Aleksej, dalla seconda. La prima moglie di Fëdor Pavloviè apparteneva a una nobile stirpe, abbastanza ricca e famosa, anch'essi proprietari terrieri del nostro distretto, i Miusov. Non mi dilungherò troppo a spiegare come accadde esattamente che una ragazza con tanto di dote, anche bella e oltre tutto una di quelle intelligenze vivaci non così rare nella nostra generazione, ma che già si trovavano anche nella precedente, abbia potuto sposare una tale nullità, uno "scorfano", come allora lo chiamavano tutti. Ho conosciuto infatti una fanciulla appartenente alla penultima generazione "romantica", che dopo alcuni anni di misterioso amore per un certo signore, che del resto avrebbe potuto tranquillissimamente sposare in qualunque momento, finì tuttavia per inventarsi da sola ostacoli insormontabili, si gettò in un fiume abbastanza profondo e rapido da una ripa alta e scoscesa, quasi un precipizio, e vi perì decisamente a causa delle proprie fisime, per poter assomigliare all'Ofelia di Shakespeare; anzi, se quel precipizio, che ella aveva notato e vagheggiato da tanto tempo, non fosse stato così pittoresco, se al suo posto ci fosse stata soltanto una prosaica riva pianeggiante, forse quel suicidio non sarebbe mai avvenuto. Questo è un fatto vero, e c'è da credere che nella nostra vita russa, durante le ultime due o tre generazioni, si siano verificati non pochi episodi come questo, o simili a questo. Analogamente, anche l'azione di Adelaida Ivanovna Miusova era senza dubbio un'eco di suggestioni altrui e anche dell'esasperazione di una mente prigioniera. Forse aveva voluto affermare l'indipendenza femminile, andar contro le convenzioni sociali, contro il dispotismo dei parenti e della famiglia, mentre una compiacente fantasia l'aveva convinta, poniamo, per un solo istante, che Fëdor Pavloviè, malgrado la sua fama di parassita, fosse tuttavia uno degli uomini più coraggiosi e ironici di quell'era di transizione verso tempi migliori, mentre non era altro che un tristo buffone e nulla più. Un altro lato piccante della storia era che il matrimonio fu preceduto da un rapimento, il che lusingò molto Adelaida Ivanovna. Dal canto suo, Fëdor Pavloviè era oltremodo predisposto ad azioni del genere anche per la propria posizione sociale, in quanto ardeva dal desiderio di far carriera a qualunque costo, e l'idea di legarsi a una buona famiglia e di mettere le mani su una dote era molto allettante per lui. Quanto all'amore reciproco, pare che non ce ne fosse affatto, né da parte della fidanzata, né da parte di lui, nonostante la bellezza di Adelaida Ivanovna, tanto che questo caso fu forse l'unico del genere nella vita di Fëdor Pavloviè, uomo sensualissimo per tutto il corso della propria esistenza, pronto a correre dietro istantaneamente a ogni gonnella, al minimo segno di incoraggiamento. E invece, quella donna fu dunque l'unica a non fare nessun effetto sulla sua sensualità.
Subito dopo il rapimento, Adelaida Ivanovna s'avvide immediatamente di provare disprezzo e nient'altro nei confronti del marito, cosicché le conseguenze di quel matrimonio si delinearono con straordinaria rapidità. Nonostante la famiglia avesse accettato anche abbastanza in fretta il fatto compiuto, e avesse assegnato la dote alla fuggitiva, fra i coniugi ebbe inizio una vita di estremo disordine e eterne scenate. Si raccontava che la giovane sposa avesse tuttavia dimostrato un animo incomparabilmente più nobile ed elevato di Fëdor Pavloviè, il quale, come adesso è noto, le arraffò d'un sol colpo tutti i soldi, ben venticinquemila rubli, subito dopo che quella li ebbe ricevuti, cosicché per lei fu come se si fossero letteralmente volatilizzati. Quanto a un piccolo villaggio e a una casa di città abbastanza bella, che costituivano anch'essi parte della dote, egli cercò per lungo tempo e con tutti i mezzi di farli intestare a suo nome, con qualche atto opportuno, e probabilmente ci sarebbe riuscito, non foss'altro, diciamo così, per il disprezzo e la ripugnanza che ispirava continuamente alla propria consorte con quelle sue vergognose suppliche e estorsioni, nonché per la stanchezza emotiva di lei e per il desiderio di levarselo di torno. Per fortuna, però, la famiglia di Adelaida Ivanovna si mise di mezzo e pose freno a quella piovra. Si sa per certo che fra gli sposi erano frequenti i litigi, ma, a quanto si dice, non era Fëdor Pavloviè a picchiare, bensì Adelaida Ivanovna, donna focosa, audace, di carnagione olivastra, insofferente e dotata di una notevole forza fisica. Finì che lei abbandonò Fëdor Pavloviè scappando di casa con un seminarista, un morto di fame che faceva l'istitutore, e lasciando alle cure del marito il figlioletto Mitja di tre anni. In un batter d'occhio Fëdor Pavloviè si installò in casa un intero harem e si abbandonò a continue bisbocce e gozzoviglie, mentre negli intervalli se ne andava in giro per tutto il governatorato a piangere e lamentarsi con tutti quelli che incontrava perché era stato abbandonato da Adelaida Ivanovna; inoltre, della sua vita coniugale raccontava particolari tali che un coniuge si sarebbe vergognato di menzionare. La cosa notevole è che sembrava che lo gratificasse e persino lo lusingasse recitare davanti a tutti la ridicola parte del marito oltraggiato, e arrivava a dipingere a forti tinte i particolari della sua sventura. «Verrebbe da credere che abbiate avuto una promozione, Fëdor Pavloviè, tanto apparite soddisfatto, nonostante tutto il vostro dolore», gli dicevano quelli che lo prendevano in giro. Molti addirittura aggiungevano che egli era contento di mostrarsi in quella rinnovata veste di buffone, e che apposta, per far ridere di più, fingeva di non notare la comicità della propria situazione. Del resto, chi lo sa, forse lo faceva anche ingenuamente. Finalmente gli riuscì di scoprire le tracce della fuggitiva. La poveretta risultò trovarsi a Pietroburgo, dov'era approdata con il suo seminarista e si era data a una vita di completa emancipazione. Fëdor Pavloviè si dette immediatamente da fare per raggiungere Pietroburgo, anche se, naturalmente, nemmeno lui sapeva bene perché. A dire il vero, forse quella volta sarebbe anche partito, ma subito dopo aver preso tale decisione ritenne di avere pieno diritto, tanto per farsi un po' di coraggio prima del viaggio, di ubriacarsi senza ritegno. Fu proprio a quel punto che la famiglia della moglie ricevette notizia della morte di quest'ultima a Pietroburgo. Era morta, a quanto pare, in una soffitta, all'improvviso, secondo alcune voci di tifo, secondo altre di fame. Quando apprese la notizia della morte della moglie, Fëdor Pavloviè era ubriaco. Si dice che si fosse messo a correre per la strada e, levando le mani al cielo per la gioia, gridasse: «Ora, Signore, lascia che il tuo servo se ne vada in pace!». Secondo altri, invece, singhiozzava come un bambino, e così forte, che faceva persino pena a guardarlo, nonostante tutta l'avversione che suscitava. Può darsi benissimo che fossero vere tutte e due le versioni, cioè, che si rallegrasse per la propria liberazione e insieme piangesse per la propria liberatrice. In generale gli uomini, anche i farabutti, sono per la maggior parte assai più ingenui e sempliciotti di quanto generalmente si creda. E noi pure, del resto.
II • Si sbarazza del primo figlio
Naturalmente è facile figurarsi quale educatore e padre potesse essere un uomo del genere. Il suo comportamento di padre fu esattamente quello che ci si poteva aspettare: si disinteressò nella maniera più assoluta del bambino avuto da Adelaida Ivanovna, non per cattiveria nei confronti del bambino né in ragione di qualche risentimento coniugale, ma semplicemente perché lo aveva del tutto dimenticato. Nel frattempo importunava tutti con lacrime e piagnistei e trasformò la sua casa in un antro di depravazione; il fedele servo di quella casa, Grigorij, prese il piccolo Mitja, di soli tre anni, sotto la propria tutela e se non ci fosse stato lui a prendersi cura del piccolo probabilmente nessuno gli avrebbe mai cambiato la camicina. Accadde inoltre che, in un primo momento, anche i parenti materni del bambino parvero quasi essersi dimenticati di lui. Suo nonno, cioè il signor Miusov, padre di Adelaida Ivanovna, a quei tempi non era più tra i vivi; sua moglie, la nonna di Mitja, rimasta vedova e trasferitasi a Mosca, era gravemente malata, le sorelle si erano sposate, così per un anno intero a Mitja toccò vivere dal servo Grigorij e abitare nell'izba della servitù. Del resto, anche se il papà si fosse ricordato di lui (difatti egli non avrebbe potuto ignorare del tutto la sua esistenza), lo avrebbe senz'altro rispedito lui stesso nell'izba, poiché un bambino gli sarebbe stato d'impedimento nelle sue gozzoviglie. Ma accadde che tornò da Parigi il cugino della defunta Adelaida Ivanovna, Pëtr Aleksandroviè Miusov. Questi in seguito visse molti anni all'estero, ma allora era ancora molto giovane e spiccava fra i Miusov per la sua cultura, perché era vissuto nella capitale e all'estero e, dopo essere stato di gusti europei per tutta una vita, alla fine era diventato un liberale degli anni '40 e '50. Nel corso della sua carriera aveva avuto rapporti con molti degli uomini più liberali della sua epoca, sia in Russia sia all'estero, conosceva personalmente Proudhon e Bakunin e amava in particolar modo ricordare e raccontare, oramai verso la fine dei suoi pellegrinaggi, dei tre giorni della rivoluzione del febbraio '48 a Parigi, alludendo al fatto che per poco non aveva preso parte personalmente agli scontri sulle barricate. Era uno dei ricordi più felici della sua giovinezza. Aveva una proprietà che gli garantiva una vita indipendente, di circa mille anime secondo le vecchie misurazioni. La magnifica tenuta si trovava alle porte della nostra cittadina e confinava con le terre del nostro rinomato monastero, con il quale Pëtr Aleksandroviè, sin dagli anni della prima giovinezza, subito dopo l'assegnazione dell'eredità, aveva intrapreso immediatamente una causa interminabile per il diritto di pesca nel fiume o di taglio nel bosco, non so con precisione, ma aveva ritenuto persino un suo dovere di cittadino e persona illuminata far causa ai "clericali". Dopo aver appreso tutta la storia di Adelaida Ivanovna che lui, s'intende, ricordava e per la quale un tempo aveva persino avuto un certo interesse, e avendo saputo dell'esistenza di Mitja egli, nonostante tutto il suo sdegno giovanile e il disprezzo per Fëdor Pavloviè, s'immischiò nella faccenda. In quella occasione incontrò per la prima volta Fëdor Pavloviè. Gli comunicò su due piedi che avrebbe desiderato occuparsi dell'educazione del bambino. In seguito raccontò per molto tempo, come un fatto caratteristico, che quando aveva cominciato a parlare di Mitja con Fëdor Pavloviè, questi aveva avuto per un pezzo l'aria di quello che assolutamente non capisce di quale bambino si stia parlando e si meraviglia persino di avere un figlioletto in qualche angolo della casa. Forse il racconto di Pëtr Aleksandroviè poteva essere un po' esagerato, ma ci doveva pur essere qualcosa di vero. Ma in realtà, Fëdor Pavloviè per tutta la vita amò fingere, mettersi all'improvviso a recitare davanti agli altri una parte inattesa e, quel che è peggio, senza alcun motivo, anzi anche a danno della propria persona, come nel presente caso. Questa caratteristica, del resto, è tipica di un grandissimo numero di persone, a volte anche molto intelligenti, cosa che non si può dire di Fëdor Pavloviè. Pëtr Aleksandroviè condusse la faccenda con fervore e fu persino nominato tutore del bambino (congiuntamente a Fëdor Pavloviè), visto che dopo la morte della madre gli erano pur sempre rimasti una piccola tenuta, una casa e un podere. Mitja si trasferì di fatto da questo cugino di secondo grado, ma questi non aveva una famiglia propria e, dal momento che lui stesso, subito dopo aver sistemato e assicurato i redditi delle sue proprietà, si affrettò subito a partire per Parigi per un lungo periodo, ecco che affidò il bambino a una sua zia di secondo grado, una nobildonna moscovita. Accadde che, vivendo permanentemente a Parigi, anche lui si dimenticò del bambino, soprattutto quando ebbe inizio quella rivoluzione di febbraio che tanto colpì la sua immaginazione e che egli non poté dimenticare per tutta la vita. La nobildonna moscovita morì e Mitja passò a una delle sue figlie maritate. Pare che in seguito abbia cambiato nido per la quarta volta. Non starò a dilungarmi molto su tutto questo adesso, tanto più che mi toccherà raccontare ancora molte cose sul primogenito di Fëdor Pavloviè; per adesso mi limiterò alle informazioni strettamente necessarie sul suo conto, senza le quali mi sarebbe impossibile dare inizio al romanzo. In primo luogo, questo Dmitrij Fëdoroviè fu l'unico dei tre figli di Fëdor Pavloviè a crescere nella convinzione di possedere ancora un certo patrimonio e che quando avrebbe raggiunto la maggiore età, sarebbe stato indipendente. Condusse un'adolescenza e una giovinezza da scapestrato: non terminò il ginnasio, si iscrisse a una scuola militare, andò a finire in Caucaso, prestò servizio, si batté a duello, fu degradato, tornò a prestar servizio, gozzovigliò parecchio e scialacquò una somma relativamente consistente. Cominciò a ricevere denaro da Fëdor Pavloviè solo dopo aver raggiunto la maggiore età e fino a quel momento contrasse debiti. Conobbe e incontrò Fëdor Pavloviè, suo padre, per la prima volta, quand'era già maggiorenne, quando venne dalle nostre parti apposta per chiarire con lui la questione dei suoi beni. Pare che in quella occasione il genitore non gli piacque affatto; si trattenne per poco tempo e partì in fretta e furia dopo essere riuscito a spillargli una sommetta e aver raggiunto un certo accordo riguardo all'ulteriore riscossione dei proventi della tenuta, della quale (fatto degno di nota) quella volta non riuscì a sapere da Fëdor Pavloviè né il reddito né il valore. Fëdor Pavloviè si accorse allora per la prima volta (e questo occorre tenerlo a mente) che Mitja aveva un'idea sbagliata e esagerata dei propri beni. Fëdor Pavloviè ne fu molto contento, per via di certi calcoli che aveva in mente. Egli concluse che il giovane era superficiale, violento, passionale, insofferente, uno scavezzacollo al quale sarebbe bastato arraffare qualcosa di tanto in tanto per calmarsi, anche se solo per un breve periodo. Ecco, Fëdor Pavloviè cominciò a sfruttare proprio questo: cioè, se la cavava con piccole elargizioni, saltuari invii di denaro e alla fine, quattro anni più tardi, quando Mitja, persa la pazienza, ricomparve nella nostra cittadina per definire una volta per tutte la faccenda con il genitore, risultò inaspettatamente, con sua somma meraviglia, che egli non possedeva proprio un bel niente, che era persino difficile fare i conti, che aveva ricevuto da Fëdor Pavloviè in contanti l'intero controvalore della sua proprietà e che forse doveva pure qualcosa al genitore; che in seguito a questo e quest'altro affare, che egli stesso aveva voluto intraprendere in questa e quell'altra occasione, non aveva diritto a esigere nient'altro e così via. Il giovane rimase esterrefatto, subodorò la menzogna, l'inganno, perse quasi il controllo di sé. Ecco: proprio questa circostanza portò a quella catastrofe la cui esposizione costituisce l'argomento del mio primo romanzo introduttivo o, per meglio dire, del suo lato esteriore. Ma prima di passare a questo romanzo, devo ancora raccontare degli altri due figli di Fëdor Pavloviè, i fratelli di Mitja, e chiarire da dove sono venuti fuori.
III • Secondo matrimonio e figli di secondo letto
Sbarazzatosi del quattrenne Mitja, Fëdor Pavloviè ben presto si sposò per la seconda volta. Il secondo matrimonio durò circa otto anni. Pescò la sua seconda consorte, Sof 'ja Ivanovna, anche lei molto giovane, in un altro governatorato nel quale era passato per via di un piccolo appalto in società con un certo ebreo. Sebbene Fëdor Pavloviè gozzovigliasse, bevesse e si desse alla bella vita, tuttavia non smetteva mai di occuparsi di investire il proprio capitale e concludeva sempre con successo i suoi affarucci anche se, ovviamente, senza farsi tanti scrupoli. Sof 'ja Ivanovna era figlia di un oscuro diacono ed era rimasta orfana e senza parenti sin dall'infanzia; era cresciuta nella ricca casa della sua benefattrice, educatrice e despota, l'illustre vegliarda vedova del generale Vorochov. Non conosco i dettagli, ho solo sentito dire che una volta avevano tolto la mite, placida, umile educanda dal cappio che aveva appeso a un chiodo in un ripostiglio, tanto le riusciva difficile sopportare il carattere bisbetico e gli eterni rimproveri di quella vecchia, che, forse, non era cattiva ma tiranneggiava intollerabilmente il prossimo per noia. Fëdor Pavloviè chiese la mano della ragazza, raccolsero informazioni su di lui e lo cacciarono via e allora lui, come nel primo matrimonio, propose la fuga all'orfanella. È molto, molto probabile che lei stessa non lo avrebbe seguito per nulla al mondo se per tempo ne avesse saputo di più sul suo conto. Ma il fatto accadeva in un altro governatorato e poi che cosa poteva capire una ragazzina di sedici anni che avrebbe preferito annegarsi nel fiume piuttosto che continuare a vivere dalla sua benefattrice? E così la poverina cambiò una benefattrice per un benefattore. Fëdor Pavloviè questa volta non ottenne neanche il becco di un quattrino perché la generalessa montò su tutte le furie, non dette nulla e per di più li maledisse entrambi; questa volta però egli non aveva programmato di ottenere nulla, era stato sedotto esclusivamente dalla straordinaria bellezza dell'innocente fanciulla e, soprattutto, dalla sua aria innocente che aveva un fascino particolare per un lascivo e, fino a quel momento, depravato estimatore solo del tipo più volgare di bellezza femminile. «Quegli occhietti innocenti allora mi tagliarono l'anima come la lama di un rasoio», raccontava in seguito con il suo solito ghigno ripugnante. Del resto, in un uomo depravato come lui anche quello poteva essere motivo di attrazione lasciva. Non avendo ricevuto alcuna ricompensa, Fëdor Pavloviè non fece tante cerimonie con la consorte e, sfruttando il fatto che ella, per così dire, era "in torto" dinanzi a lui e che lui l'aveva quasi "tolta dal cappio" e sfruttando, soprattutto, la straordinaria mitezza e umiltà di lei, egli addirittura calpestò le più elementari regole della decenza matrimoniale. In casa, alla presenza stessa della moglie, c'era un andirivieni di donne di malaffare e si organizzavano orge. Come nota caratteristica dirò che il servo Grigorij, un moralista cupo, ottuso e testardo, che aveva odiato la precedente padrona di casa, questa volta prese le parti della nuova padrona, la difendeva e litigava per lei con Fëdor Pavloviè in un modo quasi inammissibile da parte di un servo; una volta addirittura disperse con la forza un'orgia e tutte le svergognate che vi erano convenute. In seguito a tutto questo, alla disgraziata giovane donna, vissuta nel terrore sin da piccola, venne una specie di malattia nervosa femminile che si riscontra con maggiore frequenza nel popolino, fra le donne di campagna, che, per via di questo male, vengono chiamate klikusi. A causa di questa malattia, che provocava terribili attacchi isterici, la malata di tanto in tanto perdeva persino la ragione. Comunque ella diede a Fëdor Pavloviè due bambini, Ivan e Aleksej: il maggiore nel primo anno di matrimonio, il secondo tre anni più tardi. Quando lei morì, il piccolo Aleksej aveva quattro anni e, per quanto possa sembrare strano, so che egli serbò ricordo della madre per tutta la vita, - come in un sogno, s'intende. Alla morte della madre, ai due bambini capitò praticamente la stessa sorte toccata al primo, Mitja: essi furono completamente dimenticati e abbandonati dal padre, andarono a finire nelle mani di quello stesso Grigorij e vissero nella sua izba. Fu lì che li trovò la vecchia e dispotica generalessa, la benefattrice che aveva cresciuto la loro madre. Ella era ancora tra i vivi e per tutto quel tempo, ben otto anni, non era stata capace di dimenticare l'offesa subita. Per tutti quei lunghi otto anni aveva ricevuto le più dettagliate notizie sulla vita della sua "Sophie", aveva saputo che si era ammalata e dell'ignominia che la circondava, e due o tre volte in presenza dei suoi parassiti aveva detto ad alta voce: «Ben le sta, Dio l'ha punita per la sua ingratitudine».
Esattamente tre mesi dopo la morte di Sof'ja Ivanovna, la generalessa apparve all'improvviso nella nostra città e andò personalmente, dritta dritta a casa di Fëdor Pavloviè; in città si trattenne in tutto una mezz'oretta, eppure ne combinò delle belle. Era sera. Fëdor Pavloviè, che lei non aveva mai più rivisto durante quegli otto anni, le si presentò davanti piuttosto alticcio. Dicono che lei, senza alcuna spiegazione, non appena lo vide gli assestò all'istante due sonori ceffoni coi fiocchi, e per tre volte gli tirò un ciuffo di capelli dall'alto verso il basso; poi, senza dire una parola, si diresse dritta nell'izba dai due bambini. Le bastò un'occhiata per accorgersi che i bambini non erano lavati e avevano la biancheria sporca; allora, di punto in bianco, dette uno schiaffo pure a Grigorij e gli comunicò che avrebbe portato via con sé entrambi i bambini, dopo di che li prese così com'erano, li avvolse in un coperta, li mise a sedere in carrozza e li portò nella sua città. Grigorij accettò quello schiaffo come uno schiavo devoto, non proferì parola, e mentre accompagnava la vecchia signora alla carrozza, con un profondo inchino le disse, con aria grave, che «Dio l'avrebbe ricompensata per gli orfanelli». «Ma tu rimani sempre un babbeo!», gli aveva gridato la generalessa allontanandosi. Fëdor Pavloviè, dopo aver considerato l'intera faccenda, trovò che si trattava di un buon affare e, consentendo formalmente ad affidare l'educazione dei figli alla generalessa, non rifiutò di sottostare nemmeno a una condizione. Quanto agli schiaffi ricevuti, egli stesso andava in giro a raccontare l'episodio per tutta la città.
Successe però che anche la generalessa morì di lì a poco, ma nel testamento aveva disposto l'assegnazione di mille rubli a testa ad entrambi i piccini «per la loro educazione e affinché quei soldi fossero spesi esclusivamente per loro, ma in modo che bastassero sino alla loro maggiore età perché una simile elargizione era persino troppo per gente del genere, se poi qualcuno ne aveva voglia che sborsasse lui» e così via. Io non ho letto il testamento, ma ho sentito dire che conteneva qualcosa di strano di questo genere ed era espresso in maniera molto, troppo originale. L'erede principale della vecchietta, tuttavia, si rivelò una persona onesta, il maresciallo della nobiltà di quello stesso governatorato, Efim Petroviè Polenov. Avendo capito all'istante, attraverso uno scambio di lettere con Fëdor Pavloviè, che non gli avrebbe mai cavato denaro per l'istruzione dei suoi stessi figli (sebbene il padre non si fosse mai rifiutato apertamente, solo che in quei casi la tirava per le lunghe, e a volte si lasciava persino andare a sentimentalismi), si prese cura degli orfani di persona e si affezionò in particolar modo al più giovane, Aleksej, tanto che questi per molto tempo visse con lui come uno di famiglia. Prego il lettore di prendere nota di questo sin dall'inizio. Se quei giovani dovevano essere grati a qualcuno per tutta la vita per l'istruzione e l'educazione ricevute, quel qualcuno era proprio Efim Petroviè, uomo di generosità e umanità rare a incontrarsi. Egli mise da parte i mille rubli a testa che la generalessa aveva lasciato in eredità ai ragazzi, senza toccarli, in modo che, giunti alla maggiore età, trovassero un capitale raddoppiato dagli interessi, e garantì loro un'istruzione a proprie spese; sicuramente investì per ciascuno di loro molto di più di mille rubli. Anche questa volta non mi dilungherò, per il momento, in un racconto dettagliato della loro infanzia e giovinezza, ma segnalerò solo le circostanze principali. Del resto, sul maggiore, Ivan, dirò soltanto che egli cresceva come un adolescente tetro e chiuso in se stesso, non certo timido, ma pare che già all'età di dieci anni fosse consapevole del fatto che essi crescevano in una famiglia estranea e grazie ai favori altrui, e che il loro padre era un tipo del quale faceva persino ribrezzo parlare, e così via. Questo ragazzo cominciò molto presto, quasi nella prima infanzia (almeno così dicevano), a rivelare un'attitudine allo studio brillante e fuori dal comune. Non so come, con esattezza, ma in qualche modo accadde che egli si separò dalla famiglia di Efim Petroviè, all'età di tredici anni circa, per passare in un ginnasio di Mosca e a pensione da un pedagogo esperto e al tempo famoso, un amico di infanzia di Efim Petroviè. Ivan stesso raccontò in seguito che tutto era accaduto, per così dire, «a causa della smania di buone azioni» di Efim Petroviè, entusiasta all'idea che un ragazzo di capacità geniali fosse educato da un istitutore geniale. Ma né Efim Petroviè né il geniale istitutore erano più fra i vivi, quando il giovanotto, terminato il ginnasio, si iscrisse all'università. Dal momento che Efim Petroviè aveva dato disposizioni poco chiare, anche la riscossione del denaro personale che la generalessa tiranna aveva lasciato in eredità ai bambini - e che era raddoppiata grazie agli interessi rispetto ai mille rubli iniziali - fu tirata per le lunghe per le diverse formalità e i ritardi, assolutamente inevitabili da noi, pertanto nei primi due anni d'università il giovanotto si trovò in serie ristrettezze perché fu costretto, per tutto quel tempo, a provvedere da solo al proprio mantenimento e contemporaneamente a dedicarsi allo studio. È degno di nota che allora non volle fare nemmeno il tentativo di mettersi in contatto con il padre per via epistolare, forse per orgoglio, forse per disprezzo nei suoi confronti, oppure semplicemente per il freddo buon senso che gli suggeriva che da un paparino come quello non avrebbe ricevuto nessun vero appoggio. In ogni caso, il giovanotto non si perse d'animo e si mise a lavorare, dapprima con le lezioni private a venti copeche, poi correndo per le redazioni dei giornali per consegnare articoletti di dieci righe sugli incidenti stradali firmati "Un testimone". Dicono che quegli articoletti fossero sempre scritti con uno stile così interessante e arguto che ben presto diventarono popolari, e già in questo il giovanotto dimostrò tutta la propria superiorità, pratica e intellettuale, sulle masse di giovani studenti di entrambi i sessi, eternamente bisognosi e sfortunati, che sono soliti bazzicare da mattina a sera presso i portoni di giornali e riviste delle nostre città, incapaci di escogitare niente di meglio che le solite richieste di trascrizioni o traduzioni dal francese. Una volta entrato nel giro delle redazioni, Ivan Fëdoroviè non perse mai i contatti con esse, e negli ultimi anni di università cominciò a pubblicare recensioni estremamente promettenti su libri dedicati a disparati argomenti specialistici, tanto da conquistare persino una certa notorietà nei circoli letterari. Comunque, solo nell'ultimo periodo riuscì casualmente ad attirare su di sé un'attenzione particolare e improvvisa presso una cerchia di gran lunga più vasta di lettori, tanto che allora moltissime persone di colpo lo notarono e se lo impressero in mente. Fu una circostanza abbastanza curiosa. Ivan Fëdoroviè aveva terminato gli studi universitari e si accingeva a partire per l'estero con i suoi duemila rubli, quando all'improvviso pubblicò, su uno dei giornali più importanti, uno strano articolo che attirò su di sé persino l'attenzione dei non addetti ai lavori, e, per di più, a proposito di un argomento che non doveva essergli molto familiare, visto che si era laureato in scienze naturali. L'articolo riguardava una questione dibattuta dovunque in quel periodo: i tribunali ecclesiastici. Dopo aver preso in esame alcune opinioni già espresse in merito, egli espose anche la propria personale opinione. Ciò che colpiva maggiormente in quell'articolo erano il tono e la singolare e inattesa conclusione. Intanto, molti clericali erano fermamente convinti che l'autore fosse dei loro. Eppure, all'improvviso, accanto a quelli, cominciarono ad applaudire non solo i sostenitori dei tribunali civili ma persino gli atei. Alla fin fine i più perspicaci decretarono che tutto l'articolo non era che una farsa irriverente, una presa in giro. Menziono questo episodio soprattutto perché quell'articolo penetrò tempestivamente anche nel nostro rinomato monastero fuori città, dove la questione dei tribunali ecclesiastici riscuoteva largo interesse; vi penetrò e vi produsse la più caotica confusione. Dopo aver appreso il nome dell'autore, si prese ancora maggiore interesse alla faccenda, in quanto questi era nativo della nostra città e figlio «proprio di quel Fëdor Pavloviè». Ed ecco che all'improvviso, esattamente in quel periodo, l'autore in carne ed ossa si fece vivo dalle nostre parti.
Per quale motivo Ivan Fëdoroviè era venuto da noi? Ricordo che sin da allora mi ponevo questa domanda con una certa inquietudine. Non sono riuscito a spiegarmi per molto tempo, e quasi sino all'ultimo, quella visita tanto fatale, che fu il primo passo verso conseguenze di così grande portata. In generale era strano che un giovanotto tanto istruito, e dall'aria tanto orgogliosa e avveduta, comparisse all'improvviso in una casa così indecorosa, dinanzi a un padre di quello stampo, che per tutta la vita lo aveva ignorato, non lo aveva mai incontrato né degnato di attenzione e che certo non gli avrebbe mai dato del denaro, per nessun motivo, se il figlio glielo avesse chiesto, sebbene per tutta la vita avesse temuto che anche quei figli, Ivan e Aleksej, potessero venire un giorno a chiedergli soldi. Ed ecco che quel giovanotto si stabilisce nella casa di un padre di tal fatta, vive con lui un mese e poi un altro, e i due vanno d'amore e d'accordo, come meglio non si potrebbe immaginare. Quest'ultimo particolare meravigliò molto non soltanto me, ma anche molti altri. Pëtr Aleksandroviè Miusov, del quale ho già parlato prima, lontano parente di Fëdor Pavloviè da parte della prima moglie, si trovava ancora dalle nostre parti in quel periodo per visitare la sua proprietà alle porte della città, nel corso di un breve soggiorno lontano da Parigi, dove si era definitivamente stabilito. Ricordo che fu proprio lui a meravigliarsi più di tutti dopo aver conosciuto quel giovanotto, che destò un intenso interesse in lui, e con il quale, con suo dispiacere, ebbe parecchi battibecchi su argomenti intellettuali. «Egli è orgoglioso», ci diceva allora di lui, «saprà sempre procurarsi denaro, anche adesso ha i soldi necessari per andare all'estero, a che gli serve stare qui? È chiaro a tutti che non è venuto qui per i soldi, perché in ogni caso il padre non glieli darebbe. Non ama bere né fare bagordi, e intanto il vecchio non può fare a meno di lui, tanto vanno d'accordo!». Era la verità, il giovanotto aveva una palese influenza sul vecchio; questi aveva quasi cominciato a dargli ascolto, sebbene a volte fosse estremamente e, persino perfidamente, capriccioso; aveva persino cominciato a comportarsi in modo più decente...
Solo in seguito fu chiarito che Ivan Fëdoroviè era venuto in parte su richiesta, e negli interessi, di suo fratello maggiore, Dmitrij Fëdoroviè, che aveva visto e conosciuto per la prima volta quasi nello stesso periodo, in occasione di quello stesso viaggio, ma con il quale tuttavia, per via di una faccenda molto importante, che riguardava soprattutto Dmitrij Fëdoroviè, era entrato in corrispondenza prima del suo arrivo da Mosca. Di quale faccenda si trattasse, il lettore verrà a saperlo nei dettagli a tempo debito. Nondimeno, persino quando questa particolare circostanza mi divenne nota, continuai a considerare Ivan Fëdoroviè una persona enigmatica e il suo arrivo fra di noi ancora inspiegabile.
Aggiungerò che Ivan Fëdoroviè assunse allora le vesti di mediatore e paciere tra il padre e suo fratello maggiore, Dmitrij Fëdorovic, che progettava uno scontro ai ferri corti e persino un'azione legale contro il padre.
Questa famigliola, lo ripeto, veniva a riunirsi tutta insieme per la prima volta e alcuni dei suoi componenti si vedevano per la prima volta nella vita. Solo il figlio minore, Aleksej Fëdoroviè, viveva già da un anno fra di noi, dal momento che era arrivato prima degli altri fratelli. Ecco, proprio di questo Aleksej mi è più difficile parlare in questa mia introduzione, prima di farlo uscire sulla scena del romanzo. Ma mi tocca scrivere una premessa anche su di lui, almeno per chiarire per tempo un punto molto strano, e cioè: sono costretto a presentare ai lettori il futuro eroe in tonaca da novizio dalla prima scena del suo romanzo. Sì, era già un anno che viveva nel nostro monastero e sembrava che si stesse preparando a rimanervi in clausura per tutta la vita.
IV • Il terzo figlio, Alësa
Egli allora aveva appena vent'anni (suo fratello Ivan ne aveva ventiquattro e il maggiore, Dmitrij, ventotto). Prima di tutto dirò che questo giovane, Alëša, non era affatto fanatico e, almeno secondo la mia opinione, neppure un mistico. Esporrò subito la mia opinione per intero: egli era semplicemente un precoce filantropo, e se aveva imboccato la strada del monastero, era unicamente perché in quel tempo solo essa lo colpì e gli si presentò, per così dire, come l'ideale dell'esodo della sua anima che lottava per liberarsi dalle tenebre della malvagità umana per andare verso la luce e l'amore. E questa strada lo colpì unicamente perché su di essa incontrò una creatura straordinaria, secondo la sua opinione, il famoso starec Zosima del nostro monastero, al quale si affezionò con tutto l'ardente primo amore del suo cuore insaziabile. Del resto, non discuto che anche allora egli fosse piuttosto strano, lo era stato sin dalla culla. A questo proposito, ho già ricordato che, rimasto orfano della madre all'età di soli quattro anni, egli serbò ricordo di lei per tutta la vita, ricordava il suo viso, le sue carezze, «proprio come se stesse qui davanti a me in carne e ossa», diceva. È possibile conservare simili ricordi, com'è noto, persino da un'età più tenera, persino dai due anni, ma essi emergono per tutta la vita come puntini luminosi nelle tenebre, come il lembo lacerato di un enorme quadro che si è sbiadito ed è svanito interamente ad eccezione di quel piccolo lembo. Era la stessa cosa per lui: egli ricordava una mite sera d'estate, la finestra aperta, i raggi obliqui del sole che tramontava (ricordava soprattutto quei raggi obliqui), in un angolo della stanza l'immagine sacra con un lumino acceso, davanti all'immagine, in ginocchio, singhiozzante fra strilli e strepiti, come in preda a una crisi isterica, c'era sua madre che lo afferrava con entrambe le braccia, lo stringeva forte sino a fargli male e pregava per lui la Madonna, protendendolo dal suo abbraccio, con entrambe le mani, verso l'immagine, come per affidarlo alla protezione della Vergine... all'improvviso irrompe la balia e le strappa il bambino dalle braccia, spaventata. Quello era il quadro! Alëša ricordava anche il viso di sua madre in quell'istante: diceva che era delirante ma bellissimo, a giudicare da quello che ricordava. Ma di rado amava confidare questo ricordo a qualcuno. Nell'infanzia e nella prima giovinezza, egli era stato introverso e persino taciturno, ma non per diffidenza, né per timidezza o cupa misantropia, anzi era persino il contrario, ma per qualche altra ragione, per qualche inquietudine interiore, strettamente personale che non riguardava gli altri, ma così importante per lui che, a causa di essa, quasi dimenticava le altre persone. Tuttavia amava la gente: in tutta la sua vita aveva sempre avuto fiducia nelle persone e, nel contempo, nessuno mai lo aveva considerato uno sciocco o un ingenuo.
C'era qualcosa in lui che diceva e faceva intuire (e questo gli rimase per tutta la vita) che egli non voleva essere giudice delle persone, che non voleva arrogarsi il diritto di biasimare e che non avrebbe mai condannato nessuno. Sembrava persino che egli accettasse tutto senza mai disapprovare, anche se a volte soffriva molto amaramente. E non solo: egli arrivò al punto che nessuno poteva sorprenderlo o spaventarlo in alcun modo, e questo sin dalla prima giovinezza. Giunto a casa del padre all'età di vent'anni, in quell'antro di sordida depravazione, egli, casto e puro com'era, si limitava ad allontanarsi in silenzio quando lo spettacolo gli diventava intollerabile, ma senza l'ombra di disprezzo o di condanna per chicchessia. Persino suo padre, che un tempo era stato un parassita e quindi era persona permalosa e suscettibile, dopo averlo accolto sulle prime con burbera diffidenza (diceva «sta molto zitto e rimugina molto fra sé»), finì con l'abbracciarlo e baciarlo con incredibile frequenza, e non erano passate che due settimane dal suo arrivo; certo, questo accadeva quando era brillo e vittima del suo sentimentalismo da ubriacone, tuttavia era evidente che aveva preso a volergli un bene profondo e sincero che mai un uomo come lui aveva provato per qualcuno...
Tutti amavano questo giovane, dovunque egli andasse, e questo sin dagli anni dell'infanzia. Quando si trovò a casa del suo benefattore e educatore, Efim Petroviè Polenov, egli conquistò il cuore di tutti i membri di quella famiglia, tanto che quelli lo consideravano a tutti gli effetti uno di loro. Eppure era entrato in quella famiglia in una così tenera età nella quale è impossibile sospettare scaltrezza calcolata, ipocrisia o abilità di insinuarsi nelle grazie altrui, di piacere e farsi benvolere. Dunque il dono di farsi amare egli lo possedeva dentro di sé, per così dire, nella propria natura, spontaneamente, senza dover ricorrere ad artifici. La stessa cosa gli accadde anche a scuola, anche se sarebbe sembrato proprio uno di quei bambini che suscitano la diffidenza dei compagni, a volte persino lo scherno e forse l'odio. Egli, per esempio, si perdeva nelle sue riflessioni e si isolava. Sin dalla prima infanzia, amava appartarsi in un angolino a leggere i suoi libriccini, eppure i suoi compagni gli volevano tanto bene che poteva decisamente essere considerato il pupillo di tutti per l'intero periodo in cui frequentò la scuola. Raramente era vivace, raramente era persino allegro, ma tutti, guardandolo, si accorgevano immediatamente che in lui non c'era ombrosità, ma che, al contrario, era equilibrato e sereno. Non tentava mai di primeggiare tra i suoi coetanei. Forse proprio per questo egli non temeva mai nessuno e nel contempo i ragazzi capivano subito che egli non si vantava affatto del proprio coraggio, ma che, a ben guardare, forse non si rendeva neanche conto di essere coraggioso e impavido. Non serbava mai rancore per le offese. Accadeva che un'ora dopo aver ricevuto un'offesa, egli rispondesse all'offensore o addirittura attaccasse discorso per primo con un'aria così fiduciosa e serena, come se non fosse accaduto mai nulla fra di loro. Non che desse l'impressione di aver dimenticato casualmente o perdonato di proposito l'affronto, ma semplicemente non lo considerava un affronto, e questa sua caratteristica avvinceva completamente e conquistava gli altri bambini. C'era solo un tratto del suo carattere che in tutte le classi del ginnasio, dalla prima sino alle superiori, suscitava immancabilmente nei suoi compagni il desiderio di prenderlo in giro, non per perfido scherno, ma solo per loro divertimento. Si trattava della sua straordinaria, ossessiva verecondia, del suo pudore. Egli non riusciva ad ascoltare certe parole e certi discorsi a proposito delle donne. L'abitudine a "certe" parole e a "certi" discorsi, purtroppo, è impossibile da sradicare nelle scuole. Ragazzi puri di anima e cuore, quasi ancora dei bambini, molto spesso amano parlare in classe fra di loro e, persino ad alta voce, di argomenti, scene e immagini dei quali alle volte non oserebbero parlare nemmeno i soldati; non solo, i soldati spesso ignorano e non comprendono molte delle cose già familiari a bambini piccolissimi appartenenti alle classi alte e intellettuali della nostra società. Non si tratta di depravazione morale, né di vero cinismo immorale e interiore, questo ancora no, ma di una parvenza di cinismo che essi non di rado giudicano in un certo senso elegante, fine, gagliarda e degna di imitazione. Vedendo che «Alëška Karamazov», quando si cominciavano «certi discorsi», si tappava subito le orecchie con le dita, quelli alle volte gli si accalcavano attorno, gli levavano con la forza le mani dalle orecchie, gli gridavano in tutt'e due le orecchie volgarità mentre quello si dibatteva, si abbandonava per terra, si sdraiava, si rannicchiava e tutto senza dire una parola, senza litigare, sopportando gli insulti in silenzio. Alla fine, comunque, lo lasciarono in pace e non lo stuzzicarono più con il nomignolo di "femminuccia"; non solo, presero a considerare questo suo atteggiamento con una certa compassione. A scuola era sempre uno dei migliori, ma mai il primo della classe.
Dopo la morte di Efim Petroviè, Alëša frequentò ancora per due anni il ginnasio del governatorato. L'inconsolabile consorte di Efim Petroviè, quasi subito dopo la morte di lui, partì per un lungo viaggio in Italia con tutta la famiglia, costituita interamente da elementi di sesso femminile, mentre Alëša finì a casa di due signore che non aveva mai visto prima, lontane parenti di Efim Petroviè, ma lui stesso ignorava in base a quali accordi. Un tratto persino spiccatamente tipico del suo carattere consisteva nel fatto che egli non si preoccupava mai di chiarire a spese di chi vivesse. In questo egli era completamente l'opposto di suo fratello maggiore, Ivan Fëdoroviè, che era vissuto in ristrettezze per i primi due anni all'Università, mantenendosi solo grazie al proprio lavoro, e che sin da bambino era sempre stato amaramente consapevole di vivere sulle spalle del loro benefattore. Ma non bisogna giudicare severamente questo strano tratto del carattere di Aleksej, perché chiunque, non appena lo conosceva un pochino, si convinceva subito, riguardo a questo, che egli era senz'ombra di dubbio uno di quei giovani, una specie di jurodivyj, i quali, se si trovano all'improvviso in possesso di una grossa somma di denaro, non esitano a cederla al primo che gliela chieda sia per una buona causa sia, forse, anche semplicemente a un furbacchione, purché questi ne faccia richiesta. In generale, egli ignorava il valore dei soldi, ma non, naturalmente, nel senso letterale della parola. Quando gli davano i soldi per le piccole spese, che egli da parte sua non chiedeva mai, non sapeva che farsene per intere settimane oppure li scialacquava e gli sfumavano in un battibaleno. Una volta Pëtr Aleksandroviè Miusov, uomo estremamente sensibile rispetto ai soldi e alla rettitudine borghese, dopo aver osservato attentamente Aleksej, pronunciò su di lui il seguente aforisma: «Ecco, forse, l'unico uomo al mondo che se rimanesse all'improvviso da solo e senza soldi nella piazza di una città sconosciuta di un milione di abitanti, non si perderebbe affatto d'animo e non morirebbe né di fame né di freddo, perché in un batter d'occhio lo rifocillerebbero, in un batter d'occhio gli troverebbero una sistemazione e, qualora non gliela trovassero gli altri, se la troverebbe in un batter d'occhio da solo, e questo a lui non costerebbe nessuno sforzo e nessuna umiliazione, e a chi lo accogliesse nessun peso, ma forse, al contrario, questi lo considererebbe un piacere».
Non terminò il corso di studi al ginnasio; gli rimaneva ancora un anno intero quando informò all'improvviso le signore che lo ospitavano che si sarebbe recato da suo padre per una certa faccenda che gli era venuta in mente. Quelle ci rimasero molto male e non volevano lasciarlo andare. Il viaggio costava pochissimo e le signore non gli permisero di impegnare l'orologio, che gli aveva regalato la famiglia del benefattore prima di partire per l'estero, e lo rifornirono di mezzi in abbondanza, persino di un vestito e di biancheria nuovi. Egli, comunque, restituì la metà del denaro, spiegando che voleva assolutamente fare il viaggio in terza classe. Giunto nella nostra cittadina, quando il genitore gli domandò perché fosse venuto senza aver terminato gli studi, egli non rispose nulla di preciso, ma era, come raccontano, insolitamente pensieroso. Ben presto si scoprì che egli era alla ricerca della tomba di sua madre. Praticamente ammise lui stesso di essere venuto solo con quell'intento. Ma non credo che i motivi della sua venuta si riducessero a questo. È più probabile che egli stesso allora non sapesse e non potesse in alcun modo spiegare che cosa veramente fosse insorto all'improvviso nella sua anima e lo spingesse irresistibilmente su una strada nuova, ignota ma inevitabile. Fëdor Pavloviè non sapeva indicargli il luogo in cui avevano seppellito la sua seconda moglie, perché non era mai andato alla sua tomba da quando avevano interrato la bara e, siccome erano passati molti anni, si era dimenticato completamente il luogo della sepoltura...
A proposito di Fëdor Pavloviè, prima dell'arrivo di Alëša, egli si era assentato per un bel pezzo dalla nostra città. Tre, quattro anni dopo la morte della seconda moglie si era recato nel sud della Russia e alla fine si era trovato ad Odessa dove aveva vissuto alcuni anni di seguito. Dapprima, secondo le sue stesse parole, aveva frequentato «molti giudei, giudee, giudeucci e giudeini», tanto che finì per essere accolto non solo dai giudei «ma anche dagli ebrei». È probabile che proprio in quel periodo della sua vita egli sviluppasse una particolare abilità nell'accumulare ed estorcere denaro. Fece di nuovo e definitivamente ritorno nella nostra cittadina solo tre anni prima dell'arrivo di Alëša. Gli amici di un tempo lo trovarono terribilmente invecchiato, benché non fosse poi così vecchio. Si comportava in modo non certo più dignitoso di prima, anzi era diventato ancora più spudorato. Per esempio, nel buffone di un tempo era spuntata l'insolente esigenza di far fare i buffoni agli altri. La sua depravazione con il gentil sesso non era la solita di sempre, ma addirittura più disgustosa. Presto istituì un gran numero di nuove bettole nel distretto. Era evidente che possedeva forse un capitale di centomila rubli o poco meno. Molti abitanti della città e del distretto presero subito a indebitarsi con lui, a fronte di garanzie più che consistenti, s'intende. Negli ultimissimi tempi si era come inflaccidito, aveva iniziato a perdere l'equilibrio, l'autocontrollo, era caduto persino in uno stato di trasandatezza, cominciava con il fare una cosa e finiva con un'altra, si disperdeva e sempre più spesso si ubriacava da non reggersi in piedi e se non fosse stato per il servitore Grigorij, ormai anch'egli molto invecchiato, che si prendeva cura di lui, a volte come un vero istitutore, forse Fëdor Pavloviè avrebbe passato un sacco di guai. L'arrivo di Alëša sembrò agire su di lui pure da un punto di vista morale, fu come se qualcosa si destasse in quel vecchio precoce, qualcosa da lungo assopita nella sua anima. «Lo sai», diceva spesso ad Alëša guardandolo fisso, «che tu le assomigli molto, alla klikuša, intendo?». Così chiamava la sua defunta moglie, la madre di Alëša. Fu il servitore Grigorij a mostrare finalmente ad Alëša la piccola tomba della klikuša. Lo condusse nel cimitero della nostra cittadina e lì, in un angolino remoto, gli mostrò una lapide di ghisa, da poco prezzo ma curata, sulla quale c'era persino un'iscrizione con nome, cognome, età e anno di morte della defunta; in basso era inciso pure una specie di tetrastico, di quelli che si usavano un tempo sulle tombe del ceto medio. Con meraviglia di Alëša, quella lapide risultò opera di Grigorij. L'aveva fatta erigere di persona sulla tomba della povera klikuša e a proprie spese dopo che Fëdor Pavloviè, da lui più volte importunato per ricordargli quella tomba, se n'era partito per Odessa infischiandosene non solo delle tombe, ma anche di tutti i ricordi. Sulla tomba della madre Alëša non espresse alcuna particolare emozione, si limitò ad ascoltare attentamente il racconto grave e sensato di Grigorij sulla costruzione della lapide, vi sostò accanto a testa bassa e se ne andò senza dire una parola. Dopo quel giorno, forse persino per un anno intero, non tornò più al cimitero. Ma anche questo piccolo episodio produsse il suo effetto su Fëdor Pavloviè, e un effetto persino molto singolare. Prese su due piedi mille rubli e li portò al nostro monastero per commemorare l'anima della sua consorte, ma non della seconda, non della madre di Alëša, non della klikuša, ma della prima, Adelaida Ivanovna, quella che lo picchiava. Quella sera stessa si ubriacò e insultò i monaci in presenza di Alëša. Era lungi dall'essere religioso: era il tipo che forse non aveva mai messo neanche un cero da cinque copeche davanti alle immagini sacre. Strani impulsi dettati da repentini sentimenti e repentini pensieri sono comuni in tali soggetti.
Ho già detto che si era molto inflaccidito. La sua fisionomia in quel periodo presentava alcuni tratti che testimoniavano chiaramente il tipo e la natura di vita che aveva condotto fino a quel momento. Oltre alle lunghe e carnose borse sotto gli occhi minuti, dall'espressione eternamente impudente, sospettosa e beffarda, oltre a una miriade di profonde rughe che gli solcavano il viso piccolo ma grasso, sotto il mento aguzzo gli pendeva anche un grosso pomo d'Adamo, carnoso e allungato come un portamonete, che gli conferiva un'aria disgustosamente lasciva.
Aggiungete a questo una lunga bocca vorace con le labbra carnose tra le quali spuntavano piccoli frammenti di denti neri quasi sgretolati. Spruzzava saliva ogni volta che iniziava a parlare. Del resto, egli stesso amava scherzare sul suo viso, sebbene pareva che ne fosse abbastanza soddisfatto. Soleva indicare soprattutto il proprio naso, non molto grosso, ma affilato e sensibilmente aquilino: «Un vero naso romano», diceva: «insieme al pomo d'Adamo, mi dà una vera fisionomia da patrizio dell'antica Roma nel periodo decadente». Sembrava che ne andasse fiero. Ed ecco che quasi subito dopo aver visitato la tomba della madre, Alëša gli comunicò, di punto in bianco, di voler entrare al monastero e che i monaci erano disposti ad accoglierlo come novizio. Gli spiegò che questa era la sua massima aspirazione e che gli chiedeva solennemente il suo paterno consenso. Il vecchio già sapeva che lo starec Zosima, che si stava santificando nell'eremo del monastero, aveva prodotto una forte impressione sul suo «dolce ragazzo».
«Fra tutti quei monaci certo lo starec è il più onesto», disse il padre dopo aver ascoltato Alëša in pensieroso silenzio, senza punto meravigliarsi della sua richiesta. «Hmm, allora è lì che vuoi stare, mio dolce ragazzo!». Egli era mezzo ubriaco e all'improvviso le sue labbra si allargarono nel suo solito sorrisetto lento e brillo, non scevro di furbizia e malignità alticcia. «Hmm, avevo il presentimento che avresti finito con il fare una cosa del genere, ti figuri? Tiravi dritto proprio verso quella direzione. Be', certo, hai i tuoi duemila rubletti, quella è la tua dote, ma io, angelo mio, io non ti lascerò mai, sono disposto a versarti in questo momento la cifra necessaria se me la chiederanno. E se non lo chiederanno, perché imporci, che ne dici? Tu spendi come un uccellino, due semini a settimana... Hmm... Lo sai che vicino a un certo monastero c'è un sobborgo e tutti sanno che lì ci "vivono non altri che le mogli del monastero", le chiamano così, saranno una trentina di mogli, penso... Ci sono stato e, sai, è piuttosto interessante nel suo genere, s'intende, quanto a originalità. L'unica cosa che non va è che è terribilmente russo, non c'è neanche una francesina, e potrebbero permetterselo, con i mezzi che hanno. Se quelle lo venissero a sapere, ci verrebbero. Mentre qui non c'è niente, non ci sono mogli di monaci qui, e ci saranno qualcosa come duecento monaci. Tutta rettitudine e castità. Lo riconosco... Hmm... Così vuoi andare dai monaci? Eppure mi dispiace per te, Alëša, davvero - mi credi? - mi ero affezionato a te... Comunque è anche una comodità: pregherai per noi peccatori, abbiamo peccato anche troppo qui da noi. Mi sono sempre domandato: chi pregherà mai per me un domani? Ci sarà mai una persona al mondo che lo farà? Piccolo mio, io a questo riguardo sono tremendamente stupido, tu, forse, non ci crederai. Tremendamente. Vedi: su questo sono proprio uno stupido, ci penso e ci ripenso sempre, ogni tanto cioè, non proprio sempre comunque. Potrebbe mai darsi, penso io, che i diavoli si dimentichino di trascinarmi giù da loro con gli arpioni quando morirò? Ma poi penso: gli arpioni? Ma da dove li prendono? E di che materiale sono fatti? Di ferro? Dove li forgiano? Che, hanno una fonderia da quelle parti? Forse lì al monastero credono davvero che l'inferno abbia, per esempio, il soffitto. Io sono pure disposto, sì, a credere all'inferno, ma senza il soffitto; direi che sarebbe più fine, più progredito, più alla luterana. Ma, dopo tutto, che importanza ha che ci sia o no il soffitto? Ma ecco, ecco dove sta la maledetta questione! Se non c'è il soffitto, vuol dire non ci sono neanche gli arpioni. Se non ci sono gli arpioni vuol dire che va tutto in malora, dunque è tutto di nuovo inverosimile: allora chi mi trascinerà giù con gli arpioni, perché se non mi trascineranno giù, allora che giustizia c'è a questo mondo? Il faudrait les inventer, questi arpioni, apposta per me, per me solo perché se tu solo sapessi, Alëša, che svergognato sono io!...»
«Ma lì non ci sono arpioni», disse Alëša, tranquillo e serio, guardando fisso il padre.
«Sì, sì, c'è solo l'ombra degli arpioni. Lo so, lo so. Un francese ha descritto così l'inferno: " J'ai vu l'ombre d'un cocher, qui avec l'ombre d'une brosse frottait l'ombre d'une carrosse". Tu, tesoruccio mio, come fai a sapere che non ci sono gli arpioni? Dopo aver vissuto con i monaci, cambierai musica. Comunque, va', cerca di arrivare alla verità e poi vieni a raccontarmela: sarà più facile andare all'altro mondo, se sai per certo che cosa ci trovi. E sarà anche più decoroso per te stare dai monaci piuttosto che da me, vecchiaccio d'un ubriacone, e per di più con quelle signorine... sebbene niente riesca a sfiorarti, sei proprio come un angelo. E forse anche là niente riuscirà a sfiorarti, ecco perché ti permetto di andarci ed è su questo che faccio affidamento. Il diavolo non ti ha mangiato il cervello. Avvamperai e ti spegnerai, guarirai e tornerai indietro. E io ti aspetterò: infatti sento che sei l'unica persona al mondo che non mi ha mai giudicato, mio cheto ragazzo, io lo sento davvero, non posso fare a meno di sentirlo!...»
E si mise persino a piagnucolare. Era sentimentale. Era cattivo e sentimentale.
V • Gli starcy
Qualcuno fra i miei lettori potrebbe pensare che il mio giovanotto avesse una natura cagionevole, esaltata, scarsamente sviluppata e fosse un pallido sognatore, dal fisico consunto e emaciato. Tutto il contrario: Alëša a quel tempo era un prestante adolescente di diciannove anni, colorito e con lo sguardo limpido, uno che sprizzava salute da tutti i pori. Era persino molto bello, snello, abbastanza alto, con i capelli biondo-scuro, un ovale regolare, anche se un tantino lungo, splendidi occhi grigio-scuro, distanti fra di loro; era molto riflessivo e, in apparenza, molto tranquillo. Mi diranno forse che le guance colorite non escludono né il fanatismo né il misticismo, ma a me sembra che Alëša fosse persino più realista di molti altri. Certo, quando era al monastero egli credeva fermamente nei miracoli ma, secondo me, i miracoli non metteranno mai a disagio un realista. Non sono i miracoli a fare propendere il realista verso la fede. Un vero realista, se non è credente, troverà sempre in se stesso la forza e la capacità di non credere neanche nel miracolo, ma se il miracolo diventasse un fatto innegabile lì davanti ai suoi occhi, egli sarebbe disposto a non credere ai propri sensi piuttosto che ammettere il fatto. E se lo ammettesse, lo ammetterebbe come un fatto naturale fino a quel momento a lui ignoto. In un realista non è la fede a nascere dal miracolo, ma è il miracolo a nascere dalla fede. E una volta che il realista crede, allora egli dovrà inevitabilmente ammettere, proprio per via del suo realismo, anche il miracolo. L'apostolo Tommaso disse che non avrebbe creduto finché non avesse visto e quando vide disse: «Signore mio, Dio mio!» Fu il miracolo a costringerlo a credere? È molto probabile di no: egli credette unicamente perché voleva credere e, forse, già credeva ciecamente, nel profondo del suo cuore, persino quando diceva: «Non crederò finché non avrò veduto».
Mi si potrà dire che Alëša fosse ottuso, poco colto, che non aveva finito la scuola e così via. Che non avesse finito la scuola è vero, ma dire che egli fosse ottuso o stupido sarebbe una grave ingiustizia. Ripeterò semplicemente quello che ho già detto: egli imboccò quella strada unicamente perché, a quel tempo, essa sola lo aveva colpito e si presentava a lui, per così dire, come l'ideale dell'esodo della sua anima che si strappava dalle tenebre per andare verso la luce. Aggiungete a questo che egli era già, in parte, un giovane dei nostri tempi, cioè onesto di natura, uno che desiderava la verità, la ricercava e ci credeva, e quando credeva in qualcosa, voleva prendervi parte immediatamente, con tutta la forza della propria anima, e poi sentiva l'esigenza dell'azione immediata e l'irresistibile desiderio di sacrificare anche tutto per essa, persino la vita. Eppure, purtroppo, questi giovani non si rendono conto che il sacrificio della vita è, forse, in molti casi, il più facile fra tutti i sacrifici e che sacrificare, per esempio, cinque o sei anni della propria impetuosa giovinezza a uno studio arduo e faticoso, al sapere, sebbene allo scopo di decuplicare in se stessi le forze per servire quella stessa verità e quella stessa causa che si è presa a cuore e che ci si è proposti di perseguire, è molto spesso superiore alle forze di molti di loro. Alëša aveva scelto la strada opposta a quella di tutti gli altri, ma con la stessa brama di azione immediata. Non appena si fu convinto, dopo una seria riflessione, dell'esistenza di Dio e dell'immortalità, egli si era subito detto, istintivamente: «Voglio vivere per l'immortalità, non accetto compromessi». Allo stesso modo, se avesse concluso che l'immortalità e Dio non esistono, sarebbe passato, detto fatto, dalla parte degli atei e dei socialisti (giacché il socialismo non è solo la questione operaia, o il cosiddetto quarto stato, ma è principalmente la questione dell'ateismo, la questione della forma che l'ateismo assume oggi, la questione della torre di Babele costruita senza Dio, non già per raggiungere il cielo dalla terra, ma per portare il cielo sulla terra). Ad Alëša sembrava persino strano e impossibile continuare a vivere come prima. È scritto: «Da' tutto quello che hai e seguimi se vuoi essere perfetto». E anche Alëša aveva detto a se stesso: «Non posso dare due rubli al posto di "tutto" e andare alla messa invece di "seguire Lui"». Forse nei ricordi della sua prima infanzia era rimasta traccia del monastero alla periferia della nostra cittadina, dove la madre probabilmente lo portava a messa. Può darsi che sulla sua immaginazione abbiano influito anche i raggi obliqui del sole che tramontava davanti all'immagine sacra, verso la quale lo protendeva la sua mamma, la klikuša. Tutto assorto nei suoi pensieri era arrivato da noi, forse solo per dare un'occhiata, per vedere se lì si dava tutto o soltanto due rubli, ma poi nel monastero aveva incontrato quello starec...
Quello starec, come ho già spiegato prima, era lo starec Zosima; ma a questo punto bisognerebbe spiegare chi siano in generale gli starcy nei nostri monasteri ed è un peccato che in questo campo non mi senta abbastanza competente e ferrato. Tenterò comunque di dire quattro parole a proposito, a grandi linee. In primo luogo, i competenti e gli specialisti dicono che gli starcy e l'istituto dello starèestvo abbiano fatto la loro comparsa fra di noi, nei nostri monasteri russi, in tempi molto recenti - pare che non sia passato nemmeno un secolo - mentre in tutto l'Oriente ortodosso, in particolare nel Sinai e sul Monte Athos, esistono da più di mille anni. Sostengono che lo starèestvo sia esistito anche da noi nella Rus' in tempi remoti, o per lo meno che debba senz'altro essere esistito, ma in seguito alle sciagure che si abbatterono sulla Russia - il dominio tataro, il periodo dei torbidi, l'interruzione delle precedenti relazioni con l'Oriente, seguita alla conquista di Costantinopoli, - questa istituzione cadde nell'oblio e gli starcy cessarono di esistere. Lo starèestvo venne ripristinato fra noi verso la fine del secolo scorso, per merito di uno dei grandi anacoreti (come lo chiamano), Paisij Velièkovskij, e dei suoi discepoli, ma a tutt'oggi, dopo ben cento anni, questo istituto esiste solo in pochi monasteri ed è stato persino oggetto di una sorta di persecuzione, come fosse stata un'innovazione inaudita in Russia. Lo starèestvo ha prosperato nella nostra Rus' soprattutto nel celebre eremitaggio di Kozel'skaja Optina. Ignoro chi e quando lo abbia introdotto nel monastero alla periferia della nostra città, ma a quel tempo vi si contava già la terza generazione di starcy, l'ultima delle quali era rappresentata dallo starec Zosima, ma anche lui ormai stava morendo per il deperimento e la malattia e non vi era nessuno che potesse prendere il suo posto. Era una questione importante per il nostro monastero, poiché fino ad allora esso non si era distinto per nulla di particolare: non vi si conservavano reliquie di santi, né icone miracolose, non godeva nemmeno di tradizioni gloriose legate alla nostra storia, non figuravano a suo nome imprese storiche o meriti patriottici. Aveva prosperato ed acquisito fama in tutta la Russia proprio grazie agli starcy; per vederli e ascoltarli affluivano da noi moltitudini di fedeli dall'intera Russia, anche da migliaia di verste di distanza. Ma allora che cos'è uno starec? Lo starec è colui che accoglie la vostra anima, la vostra volontà nella propria anima, nella propria volontà. Quando scegliete uno starec, voi rinunciate alla vostra volontà e gliela affidate in completa sottomissione, con assoluta abnegazione. Questo tirocinio, questa terribile scuola di vita viene accettata spontaneamente da colui che offre se stesso, nella speranza, al termine della lunga prova, di sconfiggere il proprio essere e di dominarsi fino al punto di conquistare infine, attraverso una vita di ubbidienza, la libertà assoluta, vale a dire la libertà da se stesso, per evitare il destino di coloro che hanno vissuto tutta una vita senza trovare dentro di sé se stessi. Questa istituzione, lo starèestvo appunto, non è fondata sulla teoria, ma è nata in Oriente da una pratica ormai millenaria. Gli obblighi nei confronti dello starec non corrispondono alla consueta "ubbidienza" che è sempre esistita nei nostri monasteri russi. Lo starèestvo impone la confessione perpetua di tutti coloro che si sono assoggettati allo starec e il legame indissolubile tra colui che lega e colui che è legato. Si narra per esempio che una volta, agli albori del cristianesimo, un novizio che non aveva eseguito un certo ordine impartitogli dallo starec, lasciò il suo monastero in Siria e andò in Egitto. Lì, dopo molte grandi imprese, meritò finalmente di patire i tormenti e il martirio per la fede. Mentre la comunità, che lo considerava già un santo, gli dava una degna sepoltura, all'esclamazione del diacono: «Catecumeni, uscite», la bara con il corpo del martire si staccò dal suo posto e fu scaraventata fuori dalla chiesa per ben tre volte. Solo alla fine vennero a sapere che quel santo martire aveva rotto il voto di ubbidienza abbandonando il suo starec e per questo, senza l'assoluzione dello starec, non poteva nemmeno essere perdonato nonostante avesse compiuto grandi gesta. Solo quando lo starec, convocato per l'occasione, lo sciolse dal voto di ubbidienza, poté aver luogo la sepoltura. Naturalmente, questa è solo un'antica leggenda, ma ecco un episodio recente: un monaco dei giorni nostri conduceva vita ascetica sul Monte Athos quando un bel giorno il suo starec gli ordinò di lasciare il Monte Athos, che egli amava con tutta la sua anima come una cosa sacra, come un rifugio di pace, e di andare prima a Gerusalemme a rendere omaggio ai luoghi sacri, e poi di tornare in Russia, al nord, in Siberia: «Là è il tuo posto, non qui». Confuso e stravolto dal dolore, il monaco si presentò dal patriarca ecumenico a Costantinopoli e lo pregò di scioglierlo dal voto di ubbidienza; ma ecco che l'autorità suprema gli rispose che non solo lui, patriarca ecumenico, non poteva fare una cosa simile, ma che in tutta la terra non c'era, né ci poteva essere autorità in grado di scioglierlo dal voto d'ubbidienza, una volta che questo gli era stato imposto da uno starec, fatta eccezione per l'autorità di quello stesso starec che glielo aveva imposto. Quindi gli starcy sono investiti di un potere che in certi casi è assoluto e imperscrutabile. Ecco perché in molti monasteri da noi lo starèestvo è stato persino oggetto di persecuzione. Nel contempo il popolo ha cominciato immediatamente a nutrire un grande rispetto per gli starcy. Dagli starcy del nostro monastero, per esempio, affluivano in massa sia gente del popolo sia persone eminenti allo scopo di prostrarsi dinanzi a loro e confessare i propri dubbi, i propri peccati, le proprie sofferenze, chiedere consiglio e guida. Vedendo questo, i detrattori degli starcy gridavano, oltre alle solite accuse, che qui si mortificava con arroganza e leggerezza il sacramento della confessione, sebbene la pratica di aprire continuamente la propria anima allo starec da parte del novizio e dei laici non abbia affatto il carattere di sacramento. Comunque, l'istituto dello starèestvo ha finito col resistere a queste accuse e pian pianino sta prendendo piede nei monasteri russi. Forse è anche vero che questo sperimentato e ormai millenario strumento di rigenerazione morale dell'uomo dalla schiavitù alla libertà e al perfezionamento morale può trasformarsi in un'arma a doppio taglio, perché potrebbe condurre qualcuno, invece che all'umiltà e al completo autocontrollo, proprio all'orgoglio più satanico, e quindi alla schiavitù e non alla libertà.
Lo starec Zosima aveva circa sessantacinque anni, proveniva da una famiglia di proprietari terrieri; un tempo, nella prima giovinezza, era stato militare e aveva prestato servizio in Caucaso con il grado di ufficiale superiore. Senza dubbio, egli aveva colpito Alëša per qualche speciale qualità della sua anima. Alëša viveva nella stessa cella dello starec, che lo amava molto e lo aveva accolto presso di sé. Occorre notare che, pur vivendo nel monastero, Alëša allora non aveva alcun obbligo, poteva andare dove voleva, assentarsi anche per giorni interi, e se indossava la tonaca, lo faceva volontariamente, per non distinguersi dagli altri. E senza dubbio questo gli faceva piacere. È probabile che sull'immaginazione giovanile di Alëša producesse un forte effetto il potere e la fama che circondavano incessantemente la persona dello starec. Dello starec Zosima molti dicevano che, avendo egli ammesso alla propria presenza, per tanti anni, tutti quelli che venivano ad aprirgli il proprio cuore, desiderosi di un suo consiglio e di una sua parola consolatoria, aveva accolto nella sua anima tante di quelle rivelazioni, sofferenze, confessioni da acquisire alla fine una preveggenza così acuta che gli bastava un'occhiata al viso dello sconosciuto visitatore per intuire il motivo della sua visita, che cosa voleva e persino che tipo di sofferenza tormentava la sua coscienza; egli alle volte destava meraviglia, turbamento e persino spavento nel suo visitatore quando questi si accorgeva che lo starec conosceva il suo segreto prima ancora di aver aperto bocca. Ma Alëša notava quasi sempre che molti, quasi tutti, coloro che si recavano per la prima volta dallo starec per un colloquio a quattr'occhi, entravano impauriti e agitati ma uscivano sereni e contenti, e anche il viso più cupo diveniva felice. Alëša fu particolarmente impressionato anche dal fatto che lo starec non era affatto severo; al contrario egli era quasi sempre allegro. I monaci dicevano che egli si affezionava a chi aveva più peccato: più uno aveva peccato e più egli lo amava. Fra i monaci ci furono quelli che odiarono e invidiarono lo starec fino alla fine dei suoi giorni, ma erano rimasti in pochi e tacevano, sebbene tra di loro ci fossero alcune personalità molto note e importanti nel monastero, come per esempio uno dei monaci più anziani, un campione nell'attenersi alla regola del silenzio e uno straordinario digiunatore. Tuttavia la stragrande maggioranza stava ormai, senza ombra di dubbio, dalla parte dello starec Zosima e fra di essi molti lo amavano con tutto il cuore, fervidamente, sinceramente; alcuni nutrivano per lui una devozione che sfiorava il fanatismo. Questi ultimi dichiaravano apertamente, ma non proprio ad alta voce, che egli era un santo, che non c'erano più dubbi su questo, e, prevedendo l'imminente sua dipartita, si attendevano addirittura miracoli immediati e una grande gloria nel prossimo futuro per il monastero grazie all'estinto. Anche Alëša credeva incondizionatamente nella potenza miracolosa dello starec, così come incondizionatamente credeva al racconto della bara volata fuori dalla chiesa. Egli vedeva che molti dei fedeli che arrivavano con bambini o anziani parenti malati affinché lo starec imponesse loro le mani e recitasse una preghiera su di loro, tornavano ben presto, alcuni persino il giorno dopo e, in ginocchio, in lacrime davanti allo starec, lo ringraziavano per la guarigione dei loro malati. Si trattava di vera guarigione o soltanto di un naturale miglioramento nel decorso della malattia? Alëša non si poneva nemmeno una tale domanda, giacché egli era già fermamente convinto della potenza spirituale del maestro e gioiva della gloria di lui come di un trionfo personale. Il suo cuore palpitava in particolar modo, ed egli sembrava tutto raggiante, quando lo starec usciva per incontrare la folla di fedeli che aspettava la sua apparizione presso le porte dell'eremo: era tutta gente semplice, convenuta da ogni parte della Russia apposta per vedere lo starec e ricevere la sua benedizione. Essi si inchinavano dinanzi a lui, piangevano, gli baciavano i piedi, baciavano la terra che lui calpestava, urlavano, le donne protendevano verso di lui i propri figli, gli avvicinavano le klikuši malate. Lo starec parlava con loro, recitava una breve preghiera, li benediceva e li congedava. Negli ultimi tempi si era così indebolito per gli attacchi della malattia da non avere la forza di uscire dalla cella, e i fedeli alle volte lo aspettavano nel monastero per alcuni giorni. Alëša non si domandava nemmeno il motivo per cui lo amavano tanto, si prostravano davanti a lui, piangevano per la commozione solo nel vedere il suo viso. Egli comprendeva benissimo che per l'anima umile del popolo russo, estenuato dalla fatica e dal dolore, e soprattutto dalle eterne angherie e dal costante peccato, proprio e del resto dell'umanità, non ci poteva essere esigenza e consolazione più grandi di trovare un oggetto sacro o un santo, cadere in ginocchio e prostrarsi davanti ad esso: «Da noi c'è il peccato, l'ingiustizia, la tentazione, tuttavia esiste un posto sulla terra dove c'è un santo, un essere superiore. In compenso da lui c'è giustizia, in compenso egli conosce la verità; quindi esse non si estinguono sulla terra e un giorno verranno anche da noi e regneranno su tutta la terra, come ci è stato promesso». Alëša sapeva che il popolo pensa e ragiona proprio in questo modo, egli questo lo comprendeva, e sul fatto che lo starec fosse un santo, il difensore della giustizia divina agli occhi del popolo - egli non aveva il minimo dubbio al pari di quei contadini in lacrime e delle loro donne malate che protendevano i figli verso lo starec. La convinzione che lo starec, una volta morto, avrebbe portato al monastero una fama straordinaria dominava l'anima di Alëša forse ancora più fermamente di quella di chiunque altro al monastero. E in generale, in quell'ultimo periodo, una sorta di profonda, ardente esaltazione interiore infiammava il suo cuore con sempre maggior forza. Non era affatto turbato dal fatto che quello starec fosse comunque un essere unico: «Egli è pur sempre un santo, nel suo cuore è riposto il segreto della rigenerazione per tutti, quella potenza che instaurerà finalmente la giustizia nel mondo e tutti saranno santi, tutti si ameranno l'un l'altro, non ci saranno più ricchi e poveri, trionfatori e umiliati, ma saranno tutti figli di Dio e avrà inizio il vero regno di Cristo». Ecco quello che sognava Alëša nel suo cuore.
L'arrivo di entrambi i suoi fratelli, che fino a quel momento non aveva mai conosciuto, sembrò produrre una fortissima impressione su Alëša. Con il fratello Dmitrij Fëdoroviè, che pure arrivò più tardi, egli instaurò subito un rapporto più intimo che con l'altro fratello (suo fratello uterino), Ivan Fëdoroviè. Gli interessava moltissimo conoscere il fratello Ivan, ma erano già due mesi che vivevano sotto lo stesso tetto, e sebbene si vedessero abbastanza spesso, non avevano per niente familiarizzato: Alëša, da parte sua, era taciturno e sembrava che aspettasse qualcosa, che fosse intimorito da qualcosa, mentre Ivan, anche se Alëša aveva notato all'inizio i suoi lunghi sguardi curiosi, ben presto non lo aveva più degnato di attenzione. Alëša notò questo con un certo turbamento. Egli attribuì l'indifferenza del fratello alla differenza d'età esistente fra di loro e soprattutto al diverso grado di istruzione. Ma Alëša si domandava se quell'assenza di curiosità e simpatia nei suoi confronti fossero causati da qualcosa che egli ignorava del tutto. Gli sembrava, per qualche ragione, che Ivan fosse assorbito da qualcosa, qualcosa di interiore e importante, che egli mirasse a uno scopo, forse, molto arduo da raggiungere, e che quindi non avesse tempo per lui, e che quello fosse l'unico motivo per il quale fosse così distratto nei suoi confronti. Alëša si domandava anche se non si trattasse pure di disprezzo, il disprezzo di un colto ateo nei confronti di uno stupido novizio. Egli sapeva benissimo che suo fratello era ateo. Non poteva offendersi di quel disprezzo, se di disprezzo si trattava: tuttavia, con un certo allarmato turbamento, a lui stesso incomprensibile, aspettava il momento in cui il fratello avrebbe desiderato avvicinarsi a lui. Il fratello Dmitrij Fëdoroviè mostrava una profondissima stima nei confronti del fratello Ivan e parlava di lui con una certa gravità, tutta speciale. Alëša aveva appreso da Dmitrij Fëdoroviè tutti i particolari di quella importante faccenda che aveva legato i due fratelli negli ultimi tempi in un rapporto stretto e straordinario. L'opinione entusiastica di Dmitrij sul fratello Ivan era tanto più significativa agli occhi di Alëša in quanto il fratello Dmitrij, in confronto a Ivan, era quasi del tutto privo di istruzione ed entrambi, messi l'uno accanto all'altro, costituivano un tale netto contrasto di personalità e carattere che, forse, sarebbe stato impossibile concepire due persone più diverse di loro.
Fu proprio in quel periodo che ebbe luogo l'incontro o, per meglio dire, la riunione fra tutti i membri di quella dissestata famiglia nella cella dello starec, riunione che doveva avere una portentosa influenza su Alëša. Il pretesto di quella riunione in realtà era inconsistente. In quel periodo il disaccordo tra Dmitrij Fëdoroviè e Fëdor Pavloviè, in merito all'eredità e alla valutazione dei beni, era arrivato a un livello intollerabile. I loro rapporti si erano inaspriti ed erano diventati insostenibili. Pare che Fëdor Pavloviè avesse lanciato per primo, e per scherzo, l'idea che tutti si riunissero nella cella dello starec Zosima, allo scopo, se non proprio di ricorrere alla sua diretta intermediazione, almeno di giungere ad un accordo in maniera più decorosa, sotto l'influenza ispiratrice e riappacificatrice della dignità e della persona dello starec. Dmitrij Fëdoroviè, che non aveva mai visitato né visto lo starec, pensò ovviamente che il padre in quel modo lo volesse spaventare, ma poiché si era più volte rimproverato in cuor suo di molti suoi recenti scatti d'ira nella disputa con il padre, accettò l'invito. Noteremo a proposito che egli non viveva in casa del padre, come Ivan Fëdoroviè, ma per conto proprio, all'altro capo della città. Accadde che anche Pëtr Aleksandroviè Miusov, che in quel periodo viveva nella nostra città, si attaccasse in modo particolare a quella idea di Fëdor Pavloviè. Liberale degli anni '40 e '50, libero pensatore e ateo, egli, forse per noia o forse per frivolo passatempo, ebbe un ruolo eccezionale in quella vicenda. Gli venne improvvisamente voglia di vedere il monastero e il "santo". Dal momento che ancora si protraevano le vecchie dispute con il monastero ed andava per le lunghe la causa sul confine fondiario dei suoi possedimenti, sui diritti di taglio nel bosco e di pesca nel fiume e via dicendo, egli si affrettò a sfruttare la situazione con la scusa di volersi mettere d'accordo di persona con il padre igumeno per vedere se fosse possibile ricomporre i loro contrasti in maniera pacifica. Avrebbero certo accolto con maggiore attenzione e considerazione un visitatore animato da tali lodevoli intenzioni, piuttosto che un semplice curioso. In seguito a tutte queste considerazioni, si poté organizzare una specie di pressione interna al monastero sullo starec malato che, negli ultimi tempi, non abbandonava quasi mai la cella e, a causa della malattia, non riceveva neanche i visitatori abituali. Andò a finire che lo starec dette il suo consenso e si fissò la data. «Chi mi ha messo a fare da giudice fra di loro?», si limitò a commentare con un sorriso ad Alëša.
Quando Alëša venne a sapere dell'incontro, ne fu molto turbato. Egli capiva che, in mezzo a quei litiganti e contendenti, l'unico che potesse prendere sul serio quel convegno era senza dubbio il fratello Dmitrij; tutti gli altri sarebbero venuti con propositi fatui e forse anche offensivi nei confronti dello starec. Il fratello Ivan e Miusov sarebbero venuti mossi dalla curiosità, e probabilmente della specie più volgare, mentre suo padre sarebbe venuto forse allo scopo di recitare qualcuna delle sue farse. Oh, anche se non parlava, Alëša conosceva a fondo suo padre! Lo ripeto: quel ragazzo non era affatto così ingenuo come molti lo consideravano. Attendeva con apprensione la data prefissata. Senza dubbio egli si preoccupava molto, nel profondo del suo cuore, di come potessero concludersi quei disaccordi familiari. Nondimeno era più di tutto preoccupato per lo starec: egli trepidava per lui, per la sua fama, temeva gli oltraggi alla sua persona, soprattutto l'ironia sottile e garbata di Miusov e le mezze reticenze sprezzanti del colto Ivan: ecco come prevedeva che sarebbe andata a finire. Egli voleva quasi azzardarsi a mettere in guardia lo starec, anticipargli qualcosa sulle persone che sarebbero potute venire, ma ci ripensò e tacque. Mandò soltanto a dire al fratello Dmitrij, attraverso un conoscente, alla vigilia dell'incontro che gli voleva molto bene, e che si aspettava che lui mantenesse la promessa. Dmitrij stette lì a pensare, perché non riusciva assolutamente a ricordare quale promessa gli avesse fatto e rispose per lettera che avrebbe fatto del suo meglio per resistere «davanti alla bassezza», ma per quanto rispettasse profondamente lo starec e il fratello Ivan, era convinto che quell'incontro sarebbe stato un tranello per lui oppure un'indegna farsa. «Tuttavia, ingoierei la lingua piuttosto che mancare di rispetto a quel santo uomo che tu stimi tanto»: così concluse Dmitrij la sua missiva. Alëša non ne fu gran che sollevato.
LIBRO SECONDO • UNA RIUNIONE INOPPORTUNA
I • Giungono al monastero
Era una magnifica giornata, mite e luminosa. Si era alla fine di agosto. L'incontro con lo starec era fissato per le undici e mezza circa, subito dopo l'ultima messa. I nostri visitatori comunque non si degnarono di partecipare alla messa, ma arrivarono direttamente quando stavano spegnendo i lumi. Giunsero in due vetture: nella prima, una lussuosa carrozza tirata da una pariglia di costosi cavalli, arrivò Pëtr Aleksandroviè Miusov in compagnia di un lontano parente, un uomo molto giovane, sui vent'anni, Pëtr Fomiè Kalganov. Questo giovanotto stava per entrare all'Università; Miusov, presso il quale viveva in quel periodo, lo voleva indurre a seguirlo all'estero, per iscriversi all'Università di Zurigo o Jena e completare lì gli studi. Il giovanotto non si decideva. Egli era pensieroso e come distratto. Aveva un viso gradevole, una corporatura robusta ed era di statura piuttosto alta. Nel suo sguardo si notava una strana immobilità: al pari di tutte le persone distratte, a volte fissava a lungo le persone, senza vederle affatto. Era taciturno e alquanto goffo, ma a volte - ma solo quando si trovava a quattr'occhi con qualcuno - egli diventava all'improvviso terribilmente loquace, infervorato e gaio e rideva a sproposito. Ma la sua animazione svaniva con la stessa rapidità con la quale era sopraggiunta. Era sempre vestito impeccabilmente, persino con ricercatezza; aveva già acquisito un certo patrimonio che lo rendeva indipendente e si aspettava di migliorare ancora la sua posizione. Era amico di Alëša.
In una carrozza presa a nolo, malandata, traballante ma spaziosa, tirata da una coppia di vecchi cavalli bigi a chiazze chiare, che seguiva a molta distanza la carrozza di Miusov, arrivarono Fëdor Pavloviè e il suo figliolo Ivan Fëdoroviè. Dmitrij Fëdoroviè era in ritardo, sebbene gli avessero comunicato l'ora dell'incontro il giorno prima. I visitatori lasciarono le carrozze fuori dal recinto, alla foresteria, ed entrarono a piedi nel portone del monastero. Tranne Fëdor Pavloviè, nessuno della compagnia aveva mai visitato un monastero; Miusov non entrava in una chiesa che erano più o meno trent'anni. Egli si guardava intorno con una certa curiosità, non priva di affettata disinvoltura. Ma per la sua mente osservatrice, oltre agli edifici religiosi e di servizio, per altro abbastanza ordinari, all'interno del monastero non c'era niente da vedere. Gli ultimi fedeli stavano uscendo dalla chiesa, levandosi il berretto e segnandosi. In mezzo alla gente del popolo si notavano anche fedeli appartenenti ai ceti più alti della società: due o tre signore, un generale molto anziano; alloggiavano tutti alla foresteria. I mendicanti attorniarono subito i nostri visitatori, ma nessuno dette loro niente. Soltanto Petruša Kalganov trasse dal suo portamonete una moneta da dieci copeche e, nervoso e imbarazzato Dio solo sa perché, la allungò in tutta fretta a una vecchia, dicendo in fretta: «Dividetela equamente». Nessuno commentò questo suo gesto, quindi non c'era motivo di sentirsi in imbarazzo, eppure, notando questo, si confuse ancora di più.
Una cosa era molto strana: la loro visita doveva essere attesa, e persino con una certa deferenza, infatti uno dei visitatori aveva appena fatto una donazione di mille rubli, un altro era un proprietario ricchissimo e coltissimo, dal quale, diciamo cosí, chi più chi meno, dipendevano un po' tutti per la questione della pesca nel fiume, in conseguenza della svolta che avrebbe potuto prendere il processo. Eppure non c'era nessuna personalità ufficiale ad accoglierli. Miusov guardava distrattamente le pietre sepolcrali intorno alla chiesa e avrebbe voluto commentare che quelle tombette dovevano essere costate piuttosto care ai parenti dei defunti per il privilegio di sepoltura in un posto così "sacro", ma se ne stette zitto: la sua ironia liberale stava per trasformarsi in rabbia.
«A chi diavolo dobbiamo rivolgerci in questa gabbia di matti?... Dobbiamo pur scoprirlo, qui il tempo passa», disse all'improvviso come parlando fra sé.
Ad un tratto si avvicinò loro un signore di mezz'età, leggermente calvo, con un largo soprabito estivo e gli occhietti dolci. Questi si levò il berretto e con un balbettio mielato si presentò a tutti come Maksimov, proprietario di Tula. Egli immediatamente si preoccupò di aiutare i nostri visitatori:
«Lo starec Zosima vive nell'eremo, nell'eremo isolato, a circa quattrocento passi dal monastero, oltre il boschetto, oltre il boschetto...» «Lo so che è oltre il boschetto», gli rispose Fëdor Pavloviè, «ma non ci ricordiamo la strada, è un bel pezzo che non ci veniamo».
«Ecco, entrate da quel portone e poi dritto per il boschetto...per il boschetto. Venite. Se volete... anch'io... Ecco, da questa parte, da questa parte...»
Essi uscirono dal portone e si avviarono per il boschetto. Il proprietario Maksimov, un uomo sulla sessantina, più che camminare correva, e si girava di sbieco per guardarli tutti con una curiosità convulsa, quasi inverosimile. Sembrava che gli occhi gli schizzassero fuori dalle orbite.
«Vedete, noi andiamo dallo starec per una faccenda nostra», osservò severamente Miusov. «Quella personalità ci ha concesso un'udienza, diciamo così, quindi, per quanto grati di averci indicato la strada, non possiamo invitarvi ad entrare insieme a noi».
«Io ci sono stato, ci sono stato, ci sono già stato... Un chevalier parfait!», e il proprietario schioccò le dita in aria.
«Chi sarebbe questo chevalier?», domandò Miusov.
«Lo starec, l'esimio starec, lo starec... L'onore e la gloria del monastero, Zosima. È uno starec così...»
Ma il suo discorso sconclusionato venne interrotto dal sopraggiungere di un monacello con il cappuccio sulla testa, di bassa statura, molto pallido ed emaciato. Fëdor Pavloviè e Miusov si fermarono. Il monaco, con un inchino estremamente cortese e profondo, annunciò:
«Dopo la visita all'eremo, il padre igumeno prega umilmente voi tutti di recarvi a pranzo da lui. All'una, non più tardi. Anche voi», disse rivolgendosi a Maksimov.
«Non mancherò!», gridò Fëdor Pavloviè contentissimo dell'invito. «Senz'altro. E, sapete, abbiamo tutti dato la parola di comportarci come si deve qui... E voi, Pëtr Aleksandroviè, favorirete?»
«Perché no? E per quale altro motivo sarei venuto qui se non per osservare tutte le loro abitudini? L'unica cosa che mi è di impiccio è proprio trovarmi in vostra compagnia, Fëdor Pavloviè...» «Ma Dmitrij Fëdoroviè ancora non si vede».
«E sarebbe un'ottima cosa se non venisse affatto, pensate forse che mi faccia piacere tutto questo pasticcio, e in vostra compagnia per giunta? Allora verremo a pranzo, ringraziate il padre igumeno», si rivolse al monacello.
«No, è mio dovere adesso condurvi dallo starec», replicò il monaco. «In questo caso, dal padre igumeno ci andrò io, dal padre igumeno», balbettò il proprietario Maksimov.
«Il padre igumeno in questo momento è occupato, ma se volete..», disse il monaco esitante.
«Un vecchietto molto appiccicoso», notò Miusov a voce alta, mentre il proprietario Maksimov correva indietro alla volta del monastero.
«Somiglia a von Sohn», disse all'improvviso Fëdor Pavloviè.
«Voi solo queste cose sapete... In che cosa somiglierebbe a von Sohn? L'avete forse visto con i vostri occhi, von Sohn?»
«Ho visto un suo ritratto. Anche se non per i lineamenti del viso, ma per qualcosa di indefinibile. È proprio la copia esatta di von Sohn. Sono sempre in grado di riconoscere le persone dalla sola fisionomia».
«Ah, certo, in questo siete un esperto. Soltanto che, Fëdor Pavloviè, voi stesso avete appena ricordato che abbiamo dato la nostra parola di comportarci come si deve, ricordate? Quindi vi consiglio di controllarvi. Se comincerete a fare il buffone, sappiate che non voglio assolutamente essere accomunato a voi in questa sede...Vedete che tipo è?», disse rivolgendosi al monaco. «Mi fa paura andare a far visita a gente per bene in sua compagnia».
Sulle labbra pallide, esangui, del monacello affiorò un sorrisetto sottile e discreto, a suo modo non privo di malizia; era sin troppo evidente che egli taceva per un senso di dignità personale. Miusov si accigliò ancora di più.
"Oh, che il diavolo li pigli tutti quanti, una facciata costruita nel corso di secoli, ma sotto sotto nient'altro che ciarlataneria e assurdità!", gli passò per la mente.
«Ecco l'eremo, siamo arrivati!», gridò Fëdor Pavloviè. «Ma il recinto e il portone sono chiusi».
E si mise a fare ampi segni di croce davanti ai santi dipinti sopra e ai lati del portone.
«Paese che vai, usanze che trovi», commentò. «Nell'eremo ci sono venticinque santi in tutto a far penitenza, si guardano l'un l'altro e mangiano cavoli. Le donne non possono oltrepassare questa soglia, ecco cosa c'è di notevole. Ed è proprio così. Solo, com'è che ho sentito che lo starec riceve le signore?», e si rivolse all'improvviso al monaco.
«Ci sono donne del popolo anche adesso qui, eccole lì vicino al portico che aspettano. E per le signore di alto rango sono state costruite proprio qui sul portico, ma al di fuori del recinto, due camerette, ecco le finestre, e lo starec, quando si sente bene, si reca a trovarle attraverso un passaggio interno, quindi oltrepassa sempre il recinto. Ecco, anche adesso, una proprietaria di Char'kov, la signora Chochlakova, lo sta aspettando con la figlia malata. Probabilmente ha promesso che sarebbe uscito per incontrarle, anche se di recente si è così indebolito che si mostra di rado anche al popolo».
«Così c'è una piccola scappatoia che conduce dall'eremo dritto alle signore. Non pensiate, padre santo, che voglia dire qualcosa di male, dico solo per dire. Ma sapete, sul Monte Athos, forse lo avete già sentito, non solo non sono ammesse le donne, ma non sono ammesse le creature femminili di nessun genere, galline, tacchine, vitelline...»
«Fëdor Pavloviè, girerò sui miei tacchi e vi lascerò qui solo, e, una volta che me sarò andato io, vi sbatteranno fuori di qui, ve lo dico in anticipo».
«Ma che fastidio vi do, Pëtr Aleksandroviè? Guardate!», esclamò ad un tratto avanzando all'interno del recinto dell'eremo. «Guardate in che valle di rose vivono costoro!»
E difatti, anche se non c'erano rose in quel momento, vi fiorivano una miriade di rari e stupendi fiori autunnali dappertutto, dovunque vi fosse un po' di spazio per piantarli. Evidentemente li curava una mano esperta. C'erano aiuole intorno alle chiese e tra le tombe. Anche la casetta di legno, ad un piano, con un portico davanti all'ingresso, nella quale si trovava la cella dello starec, era circondata da fiori.
«Era tutto così con lo starec di prima, con Varsonofij? Dicono che quello non amasse l'eleganza, che saltava su e bastonava persino le signore», osservò Fëdor Pavloviè salendo sul terrazzino d'ingresso.
«Lo starec Varsonofij a volte si comportava davvero in maniera strana, ma si raccontano molte fandonie sul suo conto. E poi non ha mai bastonato nessuno», replicò il monacello. «Adesso, signori, aspettate un minuto, andrò ad annunciarvi».
«Fëdor Pavloviè, vi ricordo per l'ultima volta i nostri patti, mi sentite? Comportatevi bene, altrimenti ve la faccio pagare», fece in tempo a mormorargli Miusov.
«Non capisco affatto perché vi scaldiate tanto», osservò sarcasticamente Fëdor Pavloviè. «Temete per i vostri peccatucci? Infatti dicono che quello capisca dagli occhi ciò che ciascuno ha commesso. E in che gran conto tenete la loro opinione, voi, un parigino, un cittadino evoluto: mi sorprendo di voi, ecco cosa vi dico!»
Ma Miusov non fece in tempo a rispondere al sarcasmo di Fëdor
Pavloviè poiché furono invitati ad accomodarsi. Entrò piuttosto irritato... "Be', mi conosco, adesso sono irritato e perderò la pazienza... comincerò ad alterarmi e umilierò me stesso e le mie idee", gli passò per la mente.
II • Un vecchio buffone
Entrarono nella stanza quasi ad un tempo con lo starec che, al loro arrivo, si era subito affacciato dalla sua cameretta. Nella cella c'erano due ieromonaci dell'eremo che aspettavano lo starec da prima di loro, uno era il padre bibliotecario, l'altro era padre Paisij, uomo delicato di salute, sebbene non vecchio, e, come si diceva, molto colto. Inoltre, in piedi, in un angoletto (e così rimase per tutto il tempo della visita), era in attesa un giovanotto sui ventidue anni, in abiti borghesi, seminarista e futuro teologo, che viveva per qualche ragione sotto la protezione del monastero e della confraternita. Era piuttosto alto, con un viso fresco, zigomi larghi, con due stretti occhi castani, intelligenti e vigili. Il suo viso esprimeva una deferenza perfetta, ma dignitosa, priva di visibile adulazione. Egli non si inchinò nemmeno a salutare gli ospiti che entravano, come se non fosse un loro pari, ma, al contrario, si trovasse in una posizione subalterna e dipendente.
Lo starec Zosima entrò nella stanza accompagnato da un novizio e da Alëša. Gli ieromonaci si alzarono e lo salutarono con un inchino molto profondo, sino a sfiorare il pavimento con le dita, poi, ricevuta la benedizione, gli baciarono la mano. Dopo averli benedetti, lo starec rispose con un inchino altrettanto profondo, sfiorando anche lui il pavimento con le dita, e chiese a ciascuno di loro di essere benedetto a sua volta. L'intera cerimonia fu eseguita nella massima serietà, nient'affatto come un rito quotidiano, ma con intensa partecipazione. Tuttavia, Miusov ebbe l'impressione che tutto fosse fatto con l'intenzione di suggestionare. Egli stava alla testa della compagnia con la quale era entrato. Avrebbe dovuto - ci aveva pensato addirittura dalla sera prima - indipendentemente da qualunque idea, ma per semplice cortesia (poiché lì si usava fare in quel modo), avvicinarsi per ricevere la benedizione dello starec, almeno quello, se non proprio baciargli la mano. Ma, vedendo tutte quelle riverenze e quei baciamano degli ieromonaci, cambiò idea in un batter d'occhio: con aria seria e grave fece un inchino abbastanza profondo, da un uomo di mondo, e si allontanò verso una sedia. Nello stesso modo si comportò Fëdor Pavloviè, questa volta imitando Miusov punto per punto. Ivan Fëdoroviè si inchinò con gravità e cortesia, ma tenendo anche lui le mani ai lati del corpo, mentre Kalganov si confuse a tal punto che non si inchinò affatto. Lo starec abbassò la mano che stava alzando per impartire la benedizione e, inchinandosi verso di loro un'altra volta, invitò tutti ad accomodarsi. Ad Alëša affluì il sangue alle guance: provava vergogna. I suoi cattivi presentimenti si stavano avverando.
Lo starec si sedette su un divanetto di mogano, ricoperto di cuoio, di foggia molto antica, e fece accomodare gli ospiti, eccetto i due ieromonaci, lungo la parete opposta, tutti e quattro uno accanto all'altro, su quattro sedie di mogano rivestite di cuoio nero molto consunto. Gli ieromonaci si sedettero ai lati, uno presso la porta, l'altro vicino alla finestra. Il seminarista, Alëša e il novizio rimasero in piedi. La cella era molto angusta e aveva un'aria alquanto sbiadita. Gli oggetti e i mobili, lo stretto indispensabile, erano rozzi e miseri. Due vasi di fiori alla finestra, molte icone in un angolo - una di esse, di enormi dimensioni, rappresentava la Madonna e risaliva presumibilmente a un'epoca di molto anteriore allo scisma. Dinanzi ad essa ardeva una piccola lampada. Vicino a quella c'erano altre due icone in rivestimenti sfavillanti, e poi piccoli cherubini scolpiti, uova di porcellana, una croce cattolica di avorio con una Mater dolorosa che l'abbracciava, alcune incisioni straniere di grandi pittori italiani dei secoli passati. Accanto a quelle incisioni, raffinate e di valore, facevano bella mostra di sé alcune fra le più dozzinali litografie russe di santi, martiri, prelati e così via, di quelle che si comprano a poche copeche in qualsiasi fiera. C'erano anche, ma sulle altre pareti, alcuni ritratti in litografia di vescovi russi del presente e del passato. Miusov lanciò una rapida occhiata a tutta quellla "paccottiglia" e poi fissò lo sguardo dritto sullo starec. Egli teneva in gran conto le proprie opinioni, aveva questa debolezza, in ogni caso perdonabile se si tiene conto che aveva già cinquant'anni - età nella quale un uomo di mondo, intelligente e agiato, comincia sempre, a volte persino involontariamente, a nutrire un po' più di rispetto nei confronti di se stesso.
Lo starec non gli piacque sin dal primo istante. Infatti, c'era qualcosa nel viso dello starec che a molti, oltre che a Miusov, poteva riuscire sgradita. Era di bassa statura, curvo, con le gambe molto deboli; aveva solo sessantacinque anni ma, a causa della malattia, sembrava molto più anziano, almeno di una decina d'anni. Il suo viso rinsecchito era tutto solcato da rughette minute, particolarmente fitte intorno agli occhi. Gli occhi erano piccoli, chiari, mobili, scintillanti, come due punti luminosi. Gli erano rimasti solo alcuni ciuffetti di capelli canuti sulle tempie, la barbetta era rada e minuscola, a punta, e le labbra, che sorridevano spesso, erano sottili come due cordicelle. Il naso non era tanto lungo quanto affilato, come il becco di un uccellino.
"Secondo tutte le apparenze, un'animuccia perfida e piena di bieca alterigia", venne in mente a Miusov. In generale era molto insoddisfatto della situazione in cui si trovava.
I rintocchi dell'orologio aiutarono a cominciare la conversazione. Il piccolo e modesto orologio a pendolo batté rapido le dodici.
«È l'ora dell'appuntamento, esatta esatta», gridò Fëdor Pavloviè, «e mio figlio Dmitrij Fëdoroviè non si è ancora visto. Chiedo scusa per lui, santo starec!» Alëša trasalì tutto nel sentire "santo starec". «Io invece sono sempre puntuale, spacco il minuto e tengo a mente che la puntualità è la cortesia dei re...»
«Eppure voi non siete un re, se non mi sbaglio», borbottò Miusov, perdendo subito la pazienza.
«Sì, questo è vero, non sono un re. Pensate, Pëtr Aleksandroviè, che questo lo sapevo da me, quant'è vero Iddio! Ma ecco che dico sempre la cosa sbagliata! Reverendo!», esclamò con repentino fervore. «Dinanzi a voi vedete un autentico buffone! Mi presento così. È una vecchia abitudine, ahimè! E se alle volte parlo a sproposito, lo faccio con uno scopo, lo scopo di divertire ed essere piacevole. Bisogna pur riuscire piacevoli, non è vero? Un sette anni fa arrivo in una cittaduzza, avevo dei piccoli affari da sbrigare, avevo formato una piccola società con certi mercantucci. Andiamo dall'ispravnik, perché dovevamo chiedergli una cosa e invitarlo a pranzare con noi. Esce l'ispravnik, un uomo alto, grasso, biondo e tetro - i soggetti più pericolosi in simili casi: è per il fegato che sono così, sì, per il fegato. Io gli dico direttamente e, sapete, con la disinvoltura dell'uomo di mondo: "Signor ispravnik, siate il nostro, per così dire, Napravnik!" "Ma quale Napravnik?", replica lui. E io mi rendo conto, dal primo mezzo secondo, di aver fatto cilecca. Lui se ne sta lì serio serio, tutto d'un pezzo e io gli dico: "L'ho detto per scherzare un po', per stare tutti allegri, siccome il signor Napravnik è il nostro famoso direttore d'orchestra russo, e noi abbiamo appunto bisogno, per l'armonia della nostra impresa, di qualcosa di simile a un direttore d'orchestra..." Diedi una spiegazione molto ragionevole del mio paragone, non vi pare? "Scusate, io sono un ispravnik e non permetto che si facciano giochi di parole sul mio titolo", dice lui, poi si gira e va via. Io lo seguo e gli urlo dietro: "Sì, è vero, siete un ispravnik, non un Napravnik!" "No, una volta che l'avete detto, ormai sono un Napravnik!", dice lui. E figuratevi che quel nostro affare andò in fumo proprio per questo! E sono proprio così, sono sempre così. Puntualmente danneggio me stesso con la mia stessa affabilità! Una volta, molti anni fa, dissi a un personaggio influente: "La vostra consorte è una donna molto sensibile": mi riferivo all'onestà, sapete, alle qualità morali, e lui, a bruciapelo, mi fa: "Perché, le avete fatto il solletico?" Non riuscii a trattenermi e così all'improvviso pensai di dire qualcosa di carino: "Sì, le ho fatto il solletico", ma a quel punto fu lui a farmi il solletico... Solo che è successo tanto tempo fa, e non ho più vergogna a raccontarlo: io danneggio costantemente me stesso in questo modo!»
«Lo state facendo anche in questo momento», borbottò Miusov con disgusto.
Lo starec guardava in silenzio ora l'uno ora l'altro.
«Davvero? Pensate, sapevo anche questo, Pëtr Aleksandroviè, e addirittura, sapete, ho avuto il presentimento che l'avrei fatto non appena avessi cominciato a parlare e, sapete, ho avuto addirittura il presentimento che sareste stato voi il primo a farmelo notare. Il momento in cui mi rendo conto che lo scherzo non mi riesce, reverendo, tutt'e due le guance cominciano ad attaccarsi alle gengive inferiori, come se avessi un crampo; questo mi accade sin dalla giovinezza, quando facevo il parassita presso i nobili e mi procuravo il pane a ufo. Io sono un buffone incallito, dalla nascita, reverendo, praticamente un puro folle; non discuto che in me possa annidarsi, reverendo, uno spirito impuro, non di grande calibro però, un spirito più importante avrebbe scelto un altro alloggio, certo nemmeno il vostro, Pëtr Aleksandroviè, visto che neanche il vostro alloggio è un gran che. In compenso credo, credo fermamente in Dio. Soltanto di recente sono stato assalito dai dubbi, ma in compenso adesso sono in attesa di sublimi parole. Io, reverendo, sono come il filosofo Diderot. Avete mai sentito, santissimo padre, di quella volta che il filosofo Diderot si presentò al metropolita Platon all'epoca dell'imperatrice Caterina? Entra e dice su due piedi: "Dio non esiste". Al che il grande prelato alza il dito e risponde: "Dice lo stolto in cuor suo: Dio non esiste!" Quello allora, in un batter d'occhio, scatta in piedi e grida: "Credo e accolgo il battesimo". E così lo battezzarono lì per lì. La principessa Daškova fece da madrina e Potëmkin da padrino...»
«Fëdor Pavloviè, è una cosa inammissibile! Eppure sapete benissimo che state mentendo e che questo stupido aneddoto non corrisponde al vero; perché fate il pagliaccio?», gridò Miusov con voce tremante, perdendo completamente il controllo.
«Per tutta la vita ho avuto il presentimento che non fosse vero!», esclamò con trasporto Fëdor Pavloviè. «A voi, signori, però, dirò tutta la verità - grande starec! - perdonatemi, l'ultima parte dell'aneddoto, quella sul battesimo di Diderot, l'ho inventata lì per lì, nel momento stesso in cui la raccontavo, prima non mi era mai venuta in mente. L'ho inventata per rendere l'aneddoto più piccante. Pëtr Aleksandroviè, io mento per riuscire più simpatico. Ma del resto non so neanch'io a volte perché lo faccio. Quanto a Diderot, ho sentito quel "dice lo stolto" una ventina di volte dai proprietari locali quand'ero giovane e vivevo a loro spese; l'ho sentito dire, fra l'altro, anche dalla vostra zietta, Pëtr Aleksandroviè, da Mavra Fominišna. Essi sono a tutt'oggi convinti che il miscredente Diderot sia andato dal metropolita Platon a disputare su Dio...»
Miusov si alzò adirato, addirittura come fuori di sé. Era furioso e conscio di rendersi ridicolo per questo. In realtà quello che stava avvenendo nella cella era assolutamente inaudito. Per quaranta o cinquanta anni, dai tempi dei primi starcy, nessun visitatore era mai entrato in quella cella senza provare un sentimento di profondissima venerazione. Nel momento stesso in cui entravano nella cella, quasi tutti gli ammessi si rendevano conto che veniva loro concesso un grande favore. Molti si gettavano in ginocchio e non si alzavano sino alla fine della visita. Molti fra i visitatori più altolocati, e anche fra i più colti, addirittura alcuni liberi pensatori, spinti dalla curiosità o da altri motivi, quando entravano in quella cella, insieme a tutti gli altri o in udienza particolare, ritenevano loro dovere primario, tutti, nessuno escluso, manifestare il più profondo rispetto e la massima delicatezza per tutto il tempo della visita, tanto più che in quel luogo il denaro non contava, ma c'erano solo da una parte amore e pietà, dall'altra pentimento e brama di risolvere qualche difficile questione dell'anima o qualche difficile momento nella vita del proprio cuore. Quindi la buffoneria che Fëdor Pavloviè aveva tirato fuori, così irriverente nei confronti del luogo nel quale ci si trovava, produsse negli astanti, se non altro in alcuni di loro, sconcerto e stupore. Gli ieromonaci, la cui fisionomia era rimasta inalterata, aspettavano, seri e vigili, quello che avrebbe detto lo starec, ma sembravano pronti ad alzarsi come Miusov. Alëša era sul punto di piangere e stava in piedi a testa bassa. La cosa più strana di tutte per lui era che suo fratello, Ivan Fëdoroviè, l'unico sul quale egli avesse riposto le sue speranze e l'unico che avesse una tale influenza sul padre da essere in grado di fermarlo, se ne stava seduto immobile al suo posto, con gli occhi bassi e sembrava addirittura che aspettasse, molto incuriosito, come sarebbe andata a finire la faccenda, quasi fosse uno spettatore completamente estraneo ad essa. Alëša non riusciva a guardare in faccia neanche Rakitin (il seminarista), che pure egli conosceva molto bene e del quale era quasi intimo: conosceva le sue idee (sebbene in tutto il monastero fosse l'unico a conoscerle).
«Perdonatemi...», prese a dire Miusov rivolto allo starec, «forse anche io vi sembrerò complice di questo ignobile scherzo. Il mio errore è stato quello di credere che persino un tipo come Fëdor Pavloviè, in occasione della visita a un persona così venerabile, si rendesse conto dei propri doveri... Non immaginavo che avrei dovuto scusarmi per il fatto di essere venuto in sua compagnia...»
Pëtr Aleksandroviè non finì di parlare e, tutto confuso, fece per uscire dalla stanza.
«Non inquietatevi, vi prego», lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto sulle gambe malferme e, prendendo Pëtr Aleksandroviè per entrambe le mani, lo fece risedere al suo posto. «State tranquillo, vi prego. Chiedo a voi, in modo particolare, di rimanere mio ospite». Fece un inchino, si girò e si sedette di nuovo sul suo divanetto.
«Grande starec, ditemi: vi sto forse offendendo con la mia vivacità?», gridò ad un tratto Fëdor Pavloviè afferrando con entrambe le mani i braccioli della sedia come sul punto di fare un balzo a seconda della risposta.
«Prego caldamente anche voi di non inquietarvi e di non sentirvi in imbarazzo», gli disse lo starec con tono suadente. «Non sentitevi in imbarazzo, ma fate come se foste a casa vostra. E, soprattutto, non vergognatevi tanto di voi stesso, giacché è da questo che deriva tutto».
«Come se fossi a casa mia? Cioè nel mio aspetto naturale? Oh, questo è molto, davvero troppo, ma l'accetto commosso! Sapete, padre benedetto, non dovreste invitarmi ad assumere il mio aspetto naturale, vi consiglio di non rischiare... non ci arrivo nemmeno io al mio aspetto naturale. Vi avviso per il vostro stesso bene. Be', il resto è ancora avvolto nelle tenebre dell'ignoto, anche se ci sono persone a cui farebbe piacere farvi una mia descrizione. Sto parlando di voi, Pëtr Aleksandroviè; quanto a voi, santissima creatura, ecco quello che vi dico: sto traboccando dall'estasi!» Si alzò e alzando le braccia in alto, recitò: «Beato il ventre che ti ha portato e le mammelle che ti hanno allattato, le mammelle soprattutto! Ora voi, con la vostra osservazione: "Non vergognatevi tanto di voi stesso perché è da questo che deriva tutto" - voi, ora, con questa osservazione mi avete trafitto da parte a parte e mi avete letto dentro. Io ho proprio l'impressione, quando sono in mezzo alla gente, di essere il più meschino di tutti e che tutti mi prendano per buffone, e così mi dico "allora lo faccio per davvero il buffone, non temo la vostra opinione perché siete tutti, dal primo all'ultimo, più meschini di me!" Ecco perché sono un buffone, per la vergogna, grande starec, per la vergogna. È solo per diffidenza che attacco briga. Infatti, se nel presentarmi alla gente mi convincessi di essere accolto da tutti come il più bravo e il più simpatico degli uomini - Signore! - che brava persona sarei! Maestro!», cadde di colpo in ginocchio. «Che cosa devo fare per conquistare la vita eterna?» Anche adesso era difficile stabilire se stesse scherzando o fosse davvero commosso.
Lo starec alzò gli occhi verso di lui e disse con un sorriso: «Voi stesso da molto tempo sapete quello che dovete fare, di intelligenza ne avete a sufficienza: non abbandonatevi all'ubriachezza e al turpiloquio, non abbandonatevi alla lussuria, e soprattutto all'idolatria del denaro, chiudete le vostre bettole; se non potete chiuderle tutte, almeno due o tre. E soprattutto, sopra ogni altra cosa: non mentite».
«Vi riferite al fatto di Diderot, vero?»
«No, non al fatto di Diderot. La cosa più importante è che non mentiate a voi stesso. Colui che mente a se stesso e dà ascolto alla propria menzogna arriva al punto di non saper distinguere la verità né dentro se stesso, né intorno a sé e, quindi, perde il rispetto per se stesso e per gli altri. Costui, non avendo rispetto per nessuno, cessa di amare e, incapace di amare, per distrarsi e divertirsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari e nei suoi vizi tocca il fondo della bestialità, e tutto questo a causa dell'incessante menzogna nei confronti degli altri e di se stesso. Colui che mente a se stesso è più suscettibile degli altri all'offesa. Offendersi a volte è molto piacevole, non è vero? Eppure egli sa che nessuno gli ha arrecato offesa, ma che egli stesso si è inventato l'offesa e ha mentito per mettersi in mostra, ha esagerato egli stesso per creare un quadretto pittoresco, ha tratto spunto da una parola e ha fatto di un sassolino una montagna: egli sa benissimo tutto questo, tuttavia è il primo a offendersi, a offendersi per provare piacere, per assaporare una grande soddisfazione, e così finisce per nutrire autentico rancore... Ma alzatevi di lì e mettetevi seduto, ve ne prego caldamente, giacché anche questi sono gesti pieni di menzogna...»
«Uomo beato! Datemi la manina da baciare», saltò su Fëdor Pavloviè e baciò al volo la mano scarna dello starec. «È proprio piacevole offendersi, proprio così. L'avete detto così bene come non l'ho mai sentito. Proprio così, per tutta la vita non ho fatto che offendermi proprio per provare piacere, mi sono offeso per godimento estetico, perché essere offeso a volte non solo è piacevole, ma persino raffinato - ecco che cosa avete dimenticato, grande starec: raffinato! Ne prenderò nota in un quadernetto! Ho mentito, mentito spudoratamente per tutta la mia vita, ogni giorno, ogni ora. In verità sono la menzogna e il padre della menzogna! Del resto pare che non esista il padre della menzogna, mi confondo sempre con i testi, ma mi sta bene anche essere solo il figlio della menzogna. Solo che... angelo mio... su Diderot si può mentire di tanto in tanto! Diderot non fa male a nessuno, mentre altre paroline possono fare male. Grande starec, a proposito, stavo per dimenticarmene, eppure erano tre anni che mi riproponevo di venire qui a chiedere informazioni, al preciso scopo di ottenere una risposta a una certa domanda, però non permettete a Pëtr Aleksandroviè di interrompermi. La domanda è questa: è vero, grande padre, che nei Èet'i-Minei si racconta, in un punto, di un santo taumaturgo che fu torturato per la fede, e, quando alla fine gli fu tagliata la testa, quello si alzò, si prese la sua testa e "baciandola amorevolmente" se ne andò, portandosela in mano e camminò a lungo, "baciandola amorevolmente". È vero o no, venerandi padri?» «No, non è vero», rispose lo starec.
«Non esiste niente di simile in tutti i Èet'i-Minei. Di quale santo, secondo voi, si scrive questo?», domandò uno dei due ieromonaci, il padre bibliotecario.
«Non so neanch'io di quale santo. Non ne ho la minima idea. Mi hanno tratto in inganno, me l'hanno raccontato. L'ho sentito dire e sapete chi me l'ha raccontato? Ecco, Pëtr Aleksandroviè Miusov, quello che or ora si è tanto alterato per Diderot, è stato proprio lui a raccontarmelo». «Non vi ho mai raccontato una cosa simile, anzi, io con voi non parlo mai di niente».
«È vero: non lo avete raccontato a me, ma lo avete raccontato a un gruppo di persone fra le quali mi trovavo anche io, tre anni fa. E l'ho ricordato perché con quella ridicola storia voi avete fatto vacillare la mia fede, Pëtr Aleksandroviè. Voi non lo potevate sapere né immaginare, ma io me ne ne tornai a casa sconvolto nella mia fede e da allora sono stato sempre più scosso. Sì, Pëtr Aleksandroviè, voi siete stato la causa di una grande caduta! Altro che Diderot!»
Fëdor Pavloviè si era infervorato in modo patetico, sebbene ormai fosse chiaro a tutti che egli stava di nuovo recitando. Eppure Miusov era offeso a morte da quelle parole.
«Che assurdità, sono tutte assurdità», borbottava, «potrei pure averlo detto una volta... ma certo non a voi. Mi è stato raccontato a mia volta. L'ho sentito a Parigi, un francese diceva che, pare, leggano questo da noi nei Èet'i-Minei, durante la messa... Era una persona molto colta, che aveva condotto uno studio specialistico sulle statistiche russe... e aveva vissuto a lungo in Russia... Io non ho letto di persona i Èet'i-Minei... e non li leggerò... Che importanza volete che abbia quello che si dice durante un pranzo?... E noi allora stavamo pranzando...»
«Sì, voi pranzavate, mentre io perdevo la fede!», lo stuzzicò Fëdor Pavloviè.
«Che cosa volete che me ne importi della vostra fede!», gridò Miusov, ma poi si trattenne e disse con disprezzo: «Voi sporcate letteralmente tutto quello che toccate».
Lo starec si alzò all'improvviso dal suo posto:
«Perdonatemi, signori, se vi lascio per qualche minuto», disse rivolto a tutti gli ospiti, «ma mi aspettavano ancora prima che voi arrivaste. E voi cercate lo stesso di non mentire», soggiunse rivolgendosi a Fëdor Pavloviè con un'espressione allegra.
Egli si mosse per uscire dalla cella, Alëša e il novizio si affrettarono ad aiutarlo a scendere dalle scale. Alëša era senza fiato, era contento di uscire, ma era pure contento che lo starec non si fosse offeso e fosse allegro. Lo starec fece per dirigersi verso il portico per benedire quanti lo stavano aspettando. Ma Fëdor Pavloviè lo fermò sulla soglia della cella. «Uomo santissimo!», esclamò con sentimento. «Permettete che vi baci la mano ancora una volta! No, con voi è ancora possibile parlare, è possibile vivere! Voi pensate che io menta sempre e faccia sempre il buffone in questo modo? Sappiate che l'ho fatto di proposito, per mettervi alla prova, ho fatto finta. Vi ho sottoposto ad esame per tutto il tempo per vedere se si può vivere con voi. Per vedere se, dinanzi alla vostra fierezza, c'era posto per la mia umiliazione. Vi conferisco un attestato di lode: con voi si può vivere! E adesso taccio, starò zitto per tutto il tempo. Starò seduto al mio posto, zitto zitto. Adesso, Pëtr Aleksandroviè, tocca a voi parlare, adesso siete rimasto voi la persona più importante... per una decina di minuti».
III • Contadine che hanno fede
Giù, presso il piccolo portico di legno costruito a ridosso del muro esterno del recinto, quel giorno si affollavano soltanto donne, una ventina di contadine. Era stato detto loro che lo starec sarebbe finalmente uscito e quelle si erano assiepate in attesa. Anche le possidenti della famiglia Chochlakov, che pure aspettavano lo starec, erano uscite sul portico, ma in un posto separato, destinato agli ospiti appartenenti alla nobiltà. Erano due: madre e figlia. La madre, la signora Chochlakova, una signora ricca e sempre vestita con gusto, era ancora giovane e molto avvenente, un po' pallida, con gli occhi molto vivaci quasi perfettamente neri. Non aveva più di trentatré anni, ed era vedova già da cinque. Sua figlia, quattordicenne, aveva le gambe paralizzate. Erano già sei mesi che la povera ragazzina non poteva camminare e la trasportavano in una lunga e comoda poltrona a rotelle. Aveva un visetto delizioso, un po' smunto a causa della malattia, ma allegro. Un'espressione birichina risplendeva nei suoi grandi occhi neri dalle lunghe ciglia. Sin dalla primavera, la madre aveva deciso di portarla all'estero, ma quell'estate si erano attardate per via della sistemazione della tenuta. Si trovavano nella nostra città più o meno da una settimana, per motivi di affari più che per devozione, ma avevano già fatto visita allo starec tre giorni prima. Quel giorno erano ritornate all'improvviso, pur sapendo che lo starec non poteva ricevere nessuno, e supplicavano che fosse loro concessa "la gioia di vedere il grande guaritore".
Nell'attesa che lo starec uscisse, la mamma era rimasta seduta accanto alla poltrona della figlia mentre, in piedi, a due passi da lei, c'era un vecchio monaco che non apparteneva al nostro monastero, ma proveniva da un oscuro convento del lontano nord. Anche lui desiderava ricevere la benedizione dello starec. Ma una volta entrato nel portico, lo starec per prima cosa si recò direttamente verso il popolo. La folla si assiepò subito ai piedi dei tre gradini che portavano al basso portico. Lo starec stava i piedi sul gradino superiore, indossò la stola e cominciò a benedire le donne che gli si affollavano intorno. Protesero verso di lui per entrambe le braccia una klikuša. Quella, non appena vide lo starec, cominciò a singhiozzare e a strillare in maniera insensata, contorcendosi tutta come nelle doglie. Lo starec le poggiò la stola sul capo e recitò una breve preghiera: quella ammutolì subito e si calmò. Non so come sia adesso, ma quando ero piccolo mi capitava spesso di vedere queste klikuši nei villaggi e nei monasteri. Le accompagnavano alla messa, quelle strillavano e latravano come cani per tutta la chiesa, ma quando portavano fuori i sacramenti ed esse vi venivano avvicinate, l'"ossessione" cessava e le malate si calmavano per un po' di tempo. Da piccolo quello spettacolo mi impressionava e mi stupiva molto. Ma alle domande che allora facevo in proposito, mi sentivo rispondere da alcuni proprietari, e soprattutto dai miei insegnanti di città, che quella era tutta una messinscena per non lavorare, una finzione che si poteva sempre estirpare con l'adeguata severità; a conferma di questo si citavano diversi aneddoti. Ma in seguito, con mia meraviglia, appresi da medici specialisti che non si tratta affatto di finzione, ma che quella è una terribile malattia attestante, pare soprattutto da noi in Russia, il pesante destino delle nostre contadine; si tratta di un malattia causata dalle estenuanti fatiche affrontate subito dopo un parto difficile, irregolare e avvenuto senza alcuna assistenza medica; inoltre deriva dal dolore represso, dalle percosse e da altre sofferenze del genere che alcune nature femminili non riescono a sopportare, come di solito accade. La strana e istantanea guarigione della donna invasata e in preda alle convulsioni, che aveva luogo non appena la avvicinavano ai sacramenti - e che pure mi avevano spiegato essere una finzione o, addirittura, un trucco escogitato dagli stessi "clericali" - avveniva anch'essa, probabilmente, in modo molto naturale: sia le donne che conducevano la malata ai sacramenti sia, soprattutto, la malata stessa, credevano fermamente, come in una verità inconfutabile, che lo spirito impuro che possedeva la malata non avrebbe resistito se, accostatala ai sacramenti, l'avessero fatta inchinare davanti ad essi. E così nella donna malata di nervi e, pure, senza dubbio, malata psichicamente, avveniva sempre (e non poteva essere altrimenti) un'improvvisa commozione di tutto l'organismo nel momento dell'inchino dinanzi ai sacramenti, una commozione suscitata dall'attesa dell'improvvisa e miracolosa guarigione nonché dalla fervida fede che essa si sarebbe compiuta. E la guarigione aveva luogo, anche se solo per un breve periodo. La stessa cosa si verificò anche nel momento in cui lo starec coprì la malata con la stola.
Molte delle donne che si accalcavano attorno a lui piangevano per la commozione e l'entusiasmo suscitato dall'emozione del momento; altre cercavano con tutte le forze di baciargli anche solo l'orlo della veste, altre ancora cantilenavano lamentosamente. Egli le benediceva tutte e con alcune scambiò qualche parola. Conosceva già la klikuša: ella proveniva da un villaggio non molto lontano, a sole sei verste di distanza dal monastero, ed era stata condotta altre volte dallo starec.
«Ah, ecco una che arriva da lontano!», e indicò una donna non vecchia, ma molto magra e provata, con il viso annerito, più che abbronzato dal sole. Ella stava in ginocchio e puntava sullo starec uno sguardo fisso fisso. I suoi occhi avevano un'espressione quasi stralunata.
«Da lontano, batjuška, da lontano, trecento verste da qui. Da lontano, padre, da lontano», prese a cantilenare la donna, dondolando ritmicamente la testa da un lato e dall'altro con la guancia poggiata sul palmo della mano. Sembrava che avesse intonato un canto funebre. C'è nel popolo a volte un dolore silenzioso e persistente, esso si rinchiude in se stesso e tace. Ma esiste pure un dolore che esplode: esso prorompe una volta in lacrime e da quel momento si sfoga nella lamentazione. Accade soprattutto nelle donne. Ma questo dolore non è più sopportabile del dolore silenzioso. I lamenti leniscono solo nel momento in cui inaspriscono e lacerano il cuore ancora di più. Un tale dolore non desidera consolazione, ma si alimenta con il senso della propria inguaribilità. I lamenti nascono solo dalla voglia di riaprire continuamente la ferita.
«Vieni dalla città?», domandò ancora lo starec guardandola incuriosito.
«Veniamo dalla città, padre, dalla città, ma siamo contadini, anche se veniamo dalla città, viviamo in città. Sono venuta per vedere te, padre. Abbiamo sentito parlare di te, batjuška, abbiamo tanto sentito parlare di te. Ho seppellito il mio figlioletto e sono partita in pellegrinaggio. Sono stata in tre monasteri e mi hanno detto: "Va', Nastas'juška, va' da loro", da voi cioè, carissimo, da voi. E così sono venuta, ieri sono stata alla messa e oggi sono venuta da voi».
«Perché piangi?»
«Sto in pena per il mio figlioletto, batjuška, aveva tre anni, mancavano soli tre mesi e avrebbe compiuto tre anni. Mi tormento per il mio bambino, padre, per il mio bambino. Era rimasto l'ultimo figlio, con Nikituška ne avevamo quattro, ma non ci campano i figliolini a noi, non ci campano, carissimo. Ho seppellito i primi tre, ma non li ho pianti molto; ho seppellito quest'ultimo e non riesco a levarmelo dalla testa. È come se mi stesse sempre davanti agli occhi, non mi lascia mai. Mi ha prosciugato l'anima. Guardo i suoi abitini, la camicina, gli scarponcini e comincio a piangere. Metto davanti a me quello che ha lasciato, guardo ogni sua cosa e piango. Dico a Nikituška, mio marito: lasciami andare in pellegrinaggio, padrone. Lui fa il vetturino, non siamo poveri, padre, non siamo poveri, amministriamo noi stessi l'impresa, è tutto di nostra proprietà, cavalli e carrozza. Ma a che ci serve quella roba adesso? Senza di me avrà cominciato a bere, il mio Nikituška, questo è sicuro, anche prima era così: non facevo in tempo a girarmi che lui ci ricascava. Ma adesso io non penso a lui. Sono già tre mesi che sono fuori di casa. Ho dimenticato, ho dimenticato tutto e non voglio ricordare, e che cosa ci potrei fare con lui adesso? È finita con lui, è finita, è finita con tutti. Non baderei alla casa adesso, non baderei alla mia roba, ai miei averi, non voglio vedere niente!» «Ascolta, madre», disse lo starec, «un tempo, un grande santo dell'antichità vide nel tempio una donna che piangeva come te, anche lei per il suo piccino, l'unico suo figlioletto, che Iddio aveva chiamato in Cielo. "Ma non sai", le disse il santo, "come diventano birichini questi piccini dinanzi al trono di Dio? Non c'è nessuno più discolo di loro nel Regno dei Cieli: 'Tu, Signore, ci hai donato la vita', dicono a Dio, 'e l'avevamo appena vista, che tu ce l'hai subito tolta'. E interrogano, interrogano in maniera così ardita che il Signore tosto concede loro il grado di angeli. Quindi", disse il santo, "gioisci anche tu, donna, e non piangere, il tuo bambino adesso è presso il Signore, nella schiera dei suoi angeli". Questo disse il santo alla donna che piangeva, nei tempi antichi. Ed egli era un grande santo, non poteva dire il falso. Pertanto, sappi anche tu, madre, che il tuo piccino adesso è certamente presso il trono di Dio, egli è lieto e felice, e prega Nostro Signore per te. Dunque piangi pure, o madre, ma gioisci».
La donna lo ascoltava, con la guancia appoggiata alla mano e il capo chino. Sospirò profondamente.
«Anche Nikituška mi consolava così, proprio con le stesse tue parole: "Sciocca che non sei altro, perché piangi? Il nostro figlioletto sta sicuramente insieme al Signore adesso e canta insieme agli angeli". Mi diceva così, ma piangeva anche lui, io lo vedevo, piangeva come me. "Lo so, Nikituška, dove altro potrebbe stare se non con il Signore Iddio? Solo che non è qui, non è qui con noi adesso, Nikituška, non è accanto a noi come prima!", gli rispondevo io. Se potessi vederlo ancora una volta, se lo potessi guardare ancora, una volta sola, senza avvicinarmi, senza parlare, mi nasconderei in un cantuccio solo per vederlo un momentino solo, per sentirlo giocare nel cortile, entrare in casa e gridare con la sua vocina: "Mammina, dove sei?" Se potessi sentirlo sgambettare per la stanza con i suoi piedini, una volta, anche una volta sola, con i suoi piedini, tuc-tuc, come faceva spesso, tanto spesso, ricordo che correva da me, gridava e rideva, se potessi solo sentire i suoi piedini, se li potessi sentire, li riconoscerei! Ma lui non c'è, batjuška, no, non lo sentirò mai più! Ecco la sua cinturina, ma lui non c'è, e adesso non lo rivedrò mai più, non lo sentirò più!»
Tirò fuori dal petto la piccola cintura di passamano del suo piccino e non appena l'ebbe guardata, fu scossa dai singhiozzi; con le mani si nascose gli occhi dai quali sgorgarono all'improvviso fiotti di lacrime.
«Ecco», disse lo starec, «l'antica "Rachele che piange i propri figli e non troverà conforto perché essi non sono più": questo è il destino che vi è stato assegnato sulla terra, o madri. Non consolarti, non è di consolazione che hai bisogno, piangi e non consolarti, ma piangi, e ogni volta che piangerai, rammenta senza posa che il tuo figlioletto è uno degli angeli del Signore, che da lì egli ti guarda, ti vede e gioisce per le lacrime tue e le addita al Signore Iddio. A lungo ti accompagnerà questo grande dolore materno, ma alla fine esso si trasformerà in pacata serenità e le tue lacrime amare saranno lacrime di quieta e gioiosa commozione che purificheranno il tuo cuore e ti libereranno dal peccato. Pregherò per la pace dell'anima del tuo piccino, qual era il suo nome?» «Aleksej, batjuška».
«Un dolce nome. In onore di Aleksej, l'uomo di Dio?»
«L'uomo di Dio, batjuška, di Dio, Aleksej, l'uomo di Dio!»
«Che magnifico santo egli fu! Lo ricorderò, madre, lo ricorderò e menzionerò anche il tuo dolore nelle mie preghiere, pregherò pure per la salute di tuo marito. È un peccato che tu lo abbandoni. Va' da tuo marito e abbi cura di lui. Se il tuo bambino vedesse da lassù che hai abbandonato suo padre, piangerebbe a causa vostra, perché turbare la sua beatitudine? Difatti egli è vivo, vivo, giacché l'anima vive in eterno, e sebbene egli non sia in casa, egli è sempre vicino a voi, invisibile. Come farà a venire a casa se tu stessa dici che hai preso in odio la tua casa? Da chi potrà andare se non vi trova insieme, se non trova il padre insieme alla madre? Adesso egli ti appare in sogno e tu ti tormenti, ma in futuro ti manderà sogni dolci. Va' da tuo marito, madre, vacci oggi stesso».
«Ci andrò, carissimo, ci andrò in obbedienza alle tue parole. Mi sei andato dritto al cuore. Nikituška, Nikituška mio, aspettami, caro, aspettami!», cominciò a dire la donna cantilenando, ma lo starec si era già rivolto a una vecchietta decrepita, che indossava abiti da città e non da pellegrina. Dal suo sguardo era evidente che aveva una faccenda da risolvere e che era venuta per dire qualcosa. Si presentò come la vedova di un sottufficiale, non veniva da lontano, ma proprio dalla nostra città. Suo figlio, Vasen'ka, prestava servizio in un certo commissariato ed era andato in Siberia, ad Irkutsk. Da lì aveva scritto due volte, ma era già passato un anno dall'ultima lettera. Ella aveva chiesto informazioni su di lui, ma in verità non sapeva precisamente a chi rivolgersi.
«Solo che l'altro giorno Stepanida Il'inišna Bedrjagina - è una mercantessa, una ricca - mi fa: "Prochorovna, prendi e scrivi il nome di tuo figlio nell'elenco dei defunti, va' in chiesa e fagli dire una messa funebre", dice, "la sua anima si rattristerà e lui ti scriverà una lettera". Stepanida Il'inišna dice che questo è un mezzo sicuro, provato molte volte. Solo che ho dei dubbi... Tu, luce nostra, dimmi: è vero o falso, ed è una cosa giusta?»
«Neanche a pensarlo. Si dovrebbe provare vergogna a porre una simile domanda. Com'è possibile che qualcuno, una madre addirittura, faccia dire una messa funebre per un'anima ancora viva! È un peccato grave, come la stregoneria, che ti viene perdonato solo per la tua ignoranza. Tu farai meglio a pregare la Regina dei Cieli, sollecita protettrice e soccorritrice nostra, per la sua salute e perché perdoni i tuoi indegni pensieri. E ti dirò un'altra cosa, Prochorovna: il tuo figlioletto presto farà ritorno da te oppure ti manderà una lettera. Sappilo questo. Adesso va' e d'ora in poi vivi in pace. Tuo figlio è vivo, ti dico».
«Carissimo, che Dio ti protegga, nostro benefattore, tu che preghi per tutti noi e per i nostri peccati...»
Ma lo starec aveva già notato nella folla i due occhi ardenti che lo fissavano di una contadina estenuata, dall'aspetto tisico, sebbene ancora giovane. Ella lo guardava in silenzio con lo sguardo implorante, ma sembrava avesse paura di avvicinarsi.
«Che c'è, figliola?»
«Assolvi la mia anima, padre caro», ella disse dolcemente, lentamente, poi s'inginocchiò e si prostrò ai suoi piedi.
«Ho peccato, padre, e ho paura del mio peccato».
Lo starec si sedette sul gradino più basso, la giovane gli si avvicinò, rimanendo in ginocchio.
«Sono vedova da tre anni», cominciò a dire in un sussurro, quasi rabbrividendo. «Era dura la vita con mio marito, lui era vecchio, e mi picchiava senza pietà. Cadde malato, io pensavo guardandolo: ma se guarisce, se si alza, che cosa accadrà? E così mi venne in mente quel pensiero...»
«Ferma!», disse lo starec e avvicinò l'orecchio alle labbra di lei. La donna continuò a parlare con un sussurro così lieve che non si sentiva quasi nulla. Finì ben presto.
«Tre anni?», domandò lo starec.
«Tre anni. All'inizio non ci pensavo, ma adesso ho cominciato a stare male, l'angoscia non mi abbandona mai».
«Vieni da lontano?»
«Cinquecento verste da qui».
«L'hai detto in confessione?» «L'ho detto, l'ho detto due volte».
«Ti hanno ammessa alla comunione?»
«Sì. Ma ho paura, ho paura di morire».
«Non avere paura di nulla, non avere mai paura, e non ti crucciare. Se il pentimento non si esaurirà in te, Dio ti perdonerà. Perché non esiste e non può esistere peccato su questa terra che il Signore non perdoni a chi si pente sinceramente. E l'uomo non può commettere un peccato tanto grande da esaurire lo sconfinato amore di Dio. Potrebbe mai esistere un peccato tale che superi l'amore divino? Pensa solo al pentimento, all'incessante pentimento, ma scaccia del tutto la paura. Abbi fede, Dio ti ama quanto tu non riesci neanche a immaginare, ti ama malgrado il tuo peccato e ti ama nel tuo peccato. C'è più gioia in cielo per un peccatore pentito che per dieci giusti, è stato detto un tempo. Va' e non temere. Non provare rancore per gli uomini, non ti adirare per le offese. Perdona al defunto in cuor tuo tutte le offese che ti ha arrecato, riconciliati sinceramente con lui. Se ti penti, vuol dire che ami. Se amerai, sarai già di Dio... L'amore riscatta tutto, salva tutto. Se persino io, che sono un peccatore come te, ho provato per te una tenera commozione e ho avuto pietà di te, tanto più lo farà Dio. L'amore è un tesoro così inestimabile che con esso puoi redimere tutto il mondo e riscattare non solo i tuoi peccati ma anche i peccati degli altri. Va' e non temere».
Egli fece tre volte il segno della croce su di lei, si tolse dal collo un'immaginetta sacra e la mise al collo della donna. Ella si prostrò sino a terra, in silenzio. Egli si alzò e posò lietamente lo sguardo su una florida contadina con un neonato in braccio.
«Vengo da Vyšegor'e, caro padre».
«È a sei verste da qui, e con il piccino in braccio ti sarai stancata. Che c'è?»
«Sono venuta per vederti. Ci sono già venuta qui da te, ti sei dimenticato? Non hai una grande memoria se ti sei già dimenticato di me. Ci hanno detto che eri pieno di acciacchi e io ho pensato di venire a vedere di persona: adesso ti vedo, ma che pieno di acciacchi? Vivrai ancora una ventina d'anni, credi a me, che Dio sia con te! E poi con tutti quelli che pregano per te, come fai ad ammalarti?» «Grazie di tutto, figliola».
«A proposito, ho una piccola cosa da chiederti: ecco sessanta copeche, caro padre, dalle a chi è più povero di me. Mentre venivo qui pensavo: meglio darle per mezzo suo, perché lui sa a chi darle».
«Grazie, cara, grazie, anima buona. Ti voglio bene. Lo farò
senz'altro. È la tua figlioletta quella che hai in braccio?» «Sì, la mia figlioletta, padre, Lizaveta».
«Che Dio vi benedica entrambe, te e la piccola Lizaveta. Hai rallegrato il mio cuore, madre. Addio, care, addio, care, amate figliole». Egli le benedisse e fece a tutte un profondo inchino.
IV • Una signora di poca fede
Mentre assisteva alla scena del colloquio con le donne del popolo e alla benedizione, la ricca signora forestiera si scioglieva in lacrime silenziose che asciugava con il suo fazzolettino. Era una signora sentimentale dell'alta società, dall'indole, per molti versi, sinceramente buona. Quando finalmente lo starec si accostò a lei, ella lo accolse con entusiasmo:
«Quanto, quanto ho sofferto nell'assistere a questa scena così commovente...», non terminò la frase dall'agitazione. «Oh, adesso capisco che il popolo vi ami tanto, anche io amo il popolo, desidero amarlo, e poi, come non amare il popolo, il nostro meraviglioso popolo russo così semplice nella sua grandezza?»
«Come va la salute della vostra figliola? Volevate avere un altro colloquio con me?»
«Oh, ho chiesto con insistenza, ho supplicato, ero pronta a mettermi in ginocchio e rimanere anche tre giorni davanti alle vostre finestre, finché non mi aveste ricevuto. Siamo venute da voi, sublime guaritore, per esprimervi tutta la nostra fervida gratitudine. Infatti voi avete guarito la mia Liza, l'avete guarita completamente, è stato quando avete pregato accanto a lei giovedì, imponendole le mani. Siamo corse a baciare queste
mani, a esprimere i nostri sentimenti e la nostra gratitudine!» «Come, l'ho guarita? Ma se è ancora sulla sua sedia!».
«Ma le febbri notturne sono cessate del tutto, sono già due giorni, esattamente da giovedì», si affrettò a dire la signora nervosamente. «E poi le gambe sono più forti. Quando si è alzata stamattina si sentiva bene, ha dormito tutta la notte, guardate che bel colorito che ha, guardate che occhietti splendenti. Prima non faceva che piangere, mentre ora ride, è allegra, felice. Oggi ha voluto assolutamente che la lasciassi stare un po' in piedi ed è restata così un minuto intero senza alcun sostegno. Scommette con me che tra due settimane ballerà la quadriglia. Ho chiamato il dottore del posto, Gercenštube, egli ha stretto le spalle e ha detto: "Sono stupito, non mi capacito". E voi volevate che non vi disturbassimo, che non corressimo qui a ringraziarvi? Lise, su, ringrazia, ringrazia!»
Il grazioso visetto sorridente di Lise ad un tratto si fece serio, ella si alzò dalla sedia, per quanto le fu possibile, e, guardando lo starec, giunse le manine davanti a lui, ma non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere...
«È per lui, per lui!», disse indicando Alëša, irritata con se stessa come una bambina per non essere riuscita a trattenersi dal ridere. Chi in quel momento avesse guardato Alëša che stava in piedi, a un passo dallo starec, avrebbe notato un subitaneo rossore imporporargli le guance. I suoi occhi scintillarono per un attimo e poi si abbassarono.
«Ha un messaggio per voi, Aleksej Fëdoroviè... Come state?», proseguì la mamma porgendo ad Alëša la sua manina graziosamente inguantata. Lo starec si voltò e osservò attentamente Alëša. Questi si avvicinò a Liza e le tese la mano con un sorriso strano e imbarazzato. Lise assunse un'espressione grave.
«Katerina Ivanovna mi ha incaricato di darvi questo», e gli porse una letterina. «Vi prega caldamente di andare a trovarla, ma al più presto possibile, vuole che non la prendiate in giro, ma che andiate assolutamente da lei».
«Vuole che io vada a trovarla? Che io vada da lei... E come mai?», mormorò Alëša stupefatto. Il suo viso assunse all'improvviso un'espressione preoccupata.
«Oh, è sempre per via di Dmitrij Fëdoroviè e... di tutti gli avvenimenti di questi ultimi tempi», si affrettò a spiegare la mamma. «Katerina Ivanovna ha preso una certa decisione... ma per questo deve assolutamente vedervi... perché? Naturalmente lo ignoro, ma lei vuole vedervi al più presto possibile. E voi ci andrete, ci andrete di sicuro, è persino un sentimento cristiano che ve lo ordina».
«Ma se l'ho vista soltanto una volta», obiettò Alëša con la stessa perplessità di prima.
«Oh, ella è una creatura così nobile, così incomparabile!... Solo per le sue sofferenze... Immaginate un po' che cosa ha dovuto sopportare, che cosa deve sopportare adesso, immaginate che cosa l'aspetta... tutto questo è terribile, terribile!»
«Va bene, ci andrò», decise Alëša, dopo aver dato una scorsa al messaggio breve e misterioso, che, oltre all'insistente richiesta di una sua visita, non conteneva alcun genere di spiegazione.
«Ah, quanto è buono e generoso questo da parte vostra!», esclamò Lise tutt'a un tratto animata. «E io che avevo detto alla mamma: "non ci andrà in nessun caso, quello pensa a santificare la sua anima". Che persona meravigliosa siete! Ho sempre pensato che foste una persona meravigliosa, e adesso mi fa proprio piacere dirvelo!»
«Lise! », disse la mamma in tono severo, ma subito dopo sorrise.
«Voi avete dimenticato anche noi, Aleksej Fëdoroviè, non volete più venire a trovarci; e intanto Lise mi ha già detto due volte che sta bene solo con voi». Alëša sollevò gli occhi, arrossì un'altra volta e sorrise di nuovo senza sapere neanche lui perché. Del resto, lo starec non lo stava più guardando. Si era messo a parlare con il monaco forestiero che lo stava aspettando, come abbiamo già detto, accanto alla poltrona di Lise. Dall'aspetto si sarebbe detto un monaco dei più umili, cioè di umile origine, con una mentalità ristretta e rigida, ma fermamente credente e, a suo modo, tenace. Egli disse di provenire dall'estremo nord, da Obdorsk, da San Silvestro, e di far parte di un povero monastero che ospitava in tutto nove monaci. Lo starec gli dette la benedizione e lo invitò a fargli visita nella sua cella quando avesse voluto.
«Come potete avere l'ardire di fare simili cose?», domandò ad un tratto il monaco indicando Lise con aria grave e significativa. Egli alludeva alla "guarigione" della ragazza.
«È ancora presto per dirlo. Un miglioramento non significa ancora la completa guarigione e può anche essere causato da altri fattori. Ma se qualcosa c'è stato, non si tratta di nessun potere particolare, ma solo della volontà di Dio. Deriva tutto da Dio. Venite a trovarmi, padre», disse ancora una volta al monaco, «non capita spesso che possa ricevere dei visitatori: sono malato e so di avere i giorni contati».
«Oh no, no, Dio non ci priverà di voi, voi vivrete ancora a lungo, a lungo», gridò la signora. «E poi di che malattia si tratta? Sembrate così pieno di salute, lieto, felice».
«Oggi mi sento straordinariamente bene, ma so già che si tratta di una cosa momentanea. Adesso comprendo pienamente la mia malattia. Dite che vi sembro lieto, non avreste potuto dirmi niente che mi facesse più piacere. Giacché gli uomini sono stati creati per essere felici, e colui che è perfettamente felice è veramente degno di dire: "Ho compiuto il volere di Dio su questa terra". Tutti i giusti, tutti i santi, tutti i santi martiri erano felici».
«Oh, come parlate! Quali parole ardite ed elevate!», esclamò la signora. «Quando parlate è come se trafiggeste l'anima! Ma la felicità, la felicità, dov'è? Chi può dire di essere felice? Oh, dal momento che siete stato così buono oggi da permetterci di vedervi un'altra volta, allora ascoltate quello che la scorsa volta non sono riuscita a dirvi, non ho avuto il coraggio di dirvi, quello per cui soffro da così tanto tempo! Io soffro, perdonatemi, ma io soffro...» E in un impeto di fervore ella congiunse le mani davanti a lui.
«Per quale motivo in particolare?» «Io soffro... per mancanza di fede».
«Mancanza di fede in Dio?»
«Oh no, no, non oso nemmeno pensare a una cosa del genere, ma la vita futura, è un tale enigma! E nessuno, proprio nessuno può risolverlo! Ascoltate, voi che siete un guaritore, un esperto dell'anima umana; io certo non oso nemmeno pretendere che voi mi crediate in tutto e per tutto, ma vi do la mia parola d'onore che non sto parlando superficialmente adesso, che il pensiero di una vita futura d'oltretomba mi turba sino a farmi soffrire, a spaventarmi, a terrorizzarmi... Non so a chi rivolgermi, non ho osato per tutta la vita... Ed ecco che in questo momento oso rivolgermi a voi... Oh Dio, che opinione avrete di me adesso?» Ella batté le mani.
«Non vi preoccupate della mia opinione», rispose lo starec. «Io credo pienamente alla sincerità della vostra sofferenza».
«Ah, come vi sono grata! Vedete, io chiudo gli occhi e penso: se tutti hanno fede, da dove mai sarà nata quella fede? E mi sono convinta che tutto questo abbia avuto origine dalla paura dinanzi ai terribili fenomeni naturali, ma che non ci sia nulla di vero. Ecco che cosa penso, che cosa ho creduto per tutta la vita: morirò e non ci sarà nulla, ma "crescerà la lappa sulla mia tomba", come ho letto in un romanzo. È orribile! In che modo, che cosa potrà restituirmi la mia fede? Del resto, io ho creduto solo da bambina, meccanicamente, senza pensare a niente... Ma in che modo, in che modo dimostrarlo? E adesso sono venuta a prostrarmi dinanzi a voi e a domandarvi questo. Infatti, se perdo questa occasione, nessuno mai nella vita mi darà una risposta. In che modo posso dimostrarlo? In che modo posso convincermi? Oh, come sono infelice! Io mi guardo attorno e vedo che gli altri sono indifferenti a questo, che quasi nessuno se ne preoccupa, mentre io sono l'unica che non riesce a sopportarlo. È micidiale, micidiale!»
«Senza dubbio è micidiale. Ma non c'è niente da dimostrare, sebbene ci si possa convincere».
«Come? In che modo?»
«Con l'esperienza dell'amore attivo. Cercate di amare il vostro prossimo attivamente e infaticabilmente. Nella misura in cui progredirete nell'amore, vi convincerete sia dell'esistenza di Dio sia dell'immortalità della vostra anima. Se raggiungerete la perfetta abnegazione nell'amore verso il prossimo, allora crederete senza ombra di dubbio e nessun dubbio sorgerà allora nella vostra anima. Questo è provato, è certo».
«L'amore attivo? Ecco un'altra questione, e che questione, che questione! Vedete: io amo l'umanità a tal punto che a volte - ci credereste? - sogno di rinunciare a tutto, a tutto ciò che possiedo, di abbandonare Lise e di andare a fare la suora di carità. Chiudo gli occhi, penso e sogno, e in quei momenti avverto una forza irresistibile dentro di me. Nessuna ferita, nessuna piaga purulenta mi spaventerebbe. Fascerei e laverei quelle ferite con le mie stesse mani, curerei giorno e notte questi malati, sarei pronta a baciare le loro piaghe...»
«Ed è già molto, è già una buona cosa che la vostra mente concepisca questi sogni e non altri. Un giorno, senza tanto pensarci, potreste compiere qualche buona impresa nella realtà».
«Sì, ma quanto tempo potrei resistere a una simile vita?», proseguì la signora con fervore, quasi con frenesia. «Ecco la domanda più importante! È la domanda che mi tormenta più di tutte le altre. Chiudo gli occhi e mi domando: resisterei a lungo su quella strada? E se il malato, del quale stai lavando le ferite, non ti ricompensasse subito con gratitudine ma al contrario cominciasse a darti il tormento con i capricci, senza apprezzare né notare i tuoi caritatevoli servizi, se cominciasse a gridarti contro, a impartirti ordini con villania, persino a lamentarsi di te presso qualche superiore (come spesso accade con i pazienti che soffrono molto), che cosa succederebbe allora? Persevererai nel tuo amore oppure no? E, sapete, io sono pervenuta con orrore a una conclusione: se c'è qualcosa che farebbe raggelare immediatamente il mio amore "attivo" per l'umanità, quella sarebbe l'ingratitudine. Insomma, sono un'operaia per la paga, esigo subito la paga, cioè le lodi e la ricompensa dell'amore per l'amore. Altrimenti non sono capace di amare nessuno!»
Era in un vero parossismo di autoflagellazione e, in conclusione, guardò lo starec con risolutezza provocatoria.
«È esattamente la stessa storia che mi raccontò una volta, molto tempo fa, un dottore», osservò lo starec. «Era un uomo di età già avanzata e senza dubbio intelligente. Egli parlava con la stessa vostra franchezza, anche se in tono un po' scherzoso, ma amaramente scherzoso. Mi diceva: "Io amo l'umanità, però mi meraviglio di me stesso: tanto più amo l'umanità in generale, tanto meno amo i singoli uomini, presi separatamente, come persone distinte. Non di rado nelle mie fantasticherie ho formulato piani appassionati per servire l'umanità e forse mi sarei davvero fatto crocifiggere per gli uomini, se ce ne fosse stato improvvisamente bisogno, ma intanto non sono capace di vivere due giorni nella stessa stanza con qualcuno, e lo so per esperienza. Non appena qualcuno mi sta vicino, subito la sua personalità soffoca il mio amor proprio e limita la mia libertà. In sole ventiquattr'ore arrivo ad odiare le persone migliori del mondo: uno perché è troppo lento a pranzo, l'altro perché ha il raffreddore e si soffia il naso di continuo. Divento nemico degli uomini non appena qualcuno mi sfiora. In compenso avviene sempre che più odio gli uomini presi singolarmente, più ardente diventa il mio amore per l'umanità in generale"».
«Ma che cosa farci? Che cosa si può fare in questo caso? Allora c'è solo da disperarsi?»
«No, è già sufficiente che vi affliggiate per questo. Fate quello che potete e ve ne sarà reso merito. Avete fatto già molta strada se siete in grado di conoscere voi stessa in modo così profondo e sincero! Se invece anche con me avete parlato con tanta franchezza al solo scopo di ottenere approvazione per la vostra sincerità, come è avvenuto or ora, allora sicuramente non combinerete nulla nelle vostre imprese di amore operoso; i vostri rimarranno soltanto sogni e la vostra vita scivolerà via come un fantasma. In questo caso, cesserete pure di pensare alla vita futura e alla fine troverete pace in qualche modo».
«Mi avete schiacciata! Solo adesso, nel momento stesso in cui voi parlavate, ho capito che io mi aspettavo davvero soltanto la vostra approvazione per la mia sincerità quando vi ho raccontato che non sopporto l'ingratitudine. Voi mi avete rivelato il mio vero io, mi avete letto dentro e mi avete chiarita a me stessa!»
«State dicendo la verità? Ecco, adesso, dopo questa vostra ammissione, io credo che siate sincera e che il vostro cuore sia buono. Se non raggiungerete la felicità, rammentate sempre che siete sulla buona strada e cercate di non abbandonarla mai. Soprattutto, evitate la menzogna, ogni tipo di menzogna, specialmente la menzogna a voi stessa. Esaminate la vostra menzogna e sorvegliatela attentamente ogni ora, ogni minuto. Evitate di provare ribrezzo sia per gli altri sia per voi stessa: quello che vi sembra cattivo in voi stessa viene purificato dal fatto stesso che voi l'abbiate notato. Evitate anche la paura, sebbene la paura sia solo una conseguenza di ogni sorta di menzogna. Non fatevi intimorire dalla vostra viltà nel perseguire l'amore, non fatevi intimorire troppo nemmeno dalle vostre cattive azioni. Mi dispiace non potervi dire nulla di più consolatorio, giacché l'amore attivo è crudele e terrificante se paragonato all'amore dei sogni. L'amore dei sogni anela all'azione rapida, dai risultati immediati, alla vista di tutti. Gli uomini darebbero persino la vita purché l'esecuzione non duri a lungo, ma si consumi in fretta come su un palcoscenico, con un pubblico attento e plaudente. L'amore attivo invece è fatica e disciplina, e per alcuni addirittura una vera scienza. Ma vi predico questo: nel momento stesso in cui vi accorgerete con orrore che, a dispetto di tutti i vostri sforzi, non solo non vi sarete avvicinata allo scopo, ma ve ne sarete quasi allontanata, in quello stesso istante, vi predico, voi avrete raggiunto lo scopo all'improvviso e vedrete chiaramente sopra di voi la potenza miracolosa del Signore che per tutto il tempo vi ha amato e misteriosamente guidato. Perdonatemi, ma non posso trattenermi più a lungo qui con voi, mi aspettano. Arrivederci».
La signora piangeva.
«Lise, la mia Lise, beneditela, beneditela!», ella gridò trasalendo di colpo.
«Non vale neanche la pena di volerle bene. Ho visto come ha fatto la birichina per tutto il tempo», disse scherzando lo starec. «Perché prendevate in giro Aleksej?»
Lise infatti era stata intenta a quella birichinata per tutto il tempo. Ella si era accorta da tempo, sin dalla volta precedente, che Alëša si sentiva a disagio e cercava di non guardarla, e la cosa la divertiva un mondo. Ella aspettava attentamente di catturare il suo sguardo: non riuscendo a resistere a quello sguardo fisso su di lui, Alëša di tanto in tanto, involontariamente, spinto da una forza irresistibile, la sbirciava a sua volta e lei si metteva subito a ridacchiare con un sorriso di trionfo, proprio davanti a lui. Alëša si confondeva e si irritava ancora di più. Alla fine si era completamente girato dall'altra parte e si era nascosto alle spalle dello starec. Dopo qualche minuto, attratto dalla stessa forza irresistibile di prima, si voltò per vedere se lei lo stesse ancora guardando e vide che Lise, sporgendosi quasi completamente dalla sua poltrona, lo sbirciava da un lato e aspettava avidamente che lui si girasse a guardarla; dopo aver colto il suo sguardo, si mise a ridere così forte che persino lo starec non poté fare a meno di dire:
«Perché, birichina, lo mettete così in imbarazzo?»
Lise, ad un tratto, e del tutto inaspettatamente, arrossì, gli occhi le scintillavano, il viso aveva assunto un'espressione molto seria; ella si mise a parlare in fretta, nervosamente, con un tono di lamento risentito e indignato:
«E lui allora perché ha dimenticato tutto? Mi portava in braccio quand'ero piccola, giocavamo insieme. Veniva ad insegnarmi a leggere, lo sapete questo? Due anni fa, quando ci salutammo, disse che non avrebbe mai dimenticato, che saremmo stati amici per sempre, per sempre, per sempre! Ed ecco che all'improvviso ha paura di me: che, lo mangio forse? Perché non vuole avvicinarsi, perché non parla? Perché non vuole più venire da noi? Forse siete voi che non lo lasciate venire: eppure noi sappiamo che egli va dove vuole. Non sta bene che lo inviti io, avrebbe dovuto essere lui a pensarci, se è vero che non ha dimenticato. No, adesso pensa alla salvezza della sua anima! Perché gli avete fatto mettere quella tonaca dalle lunghe falde?... Se si mette a correre, cade...»
E ad un tratto, non riuscì a trattenersi, si coprì il volto con una mano e scoppiò in una risata incontenibile, prolungata, nervosa, convulsa e impercettibile. Lo starec l'aveva ascoltata con un sorriso e ora la benedisse con tenerezza; mentre gli baciava la mano, ella ad un tratto se la premette agli occhi e scoppiò a piangere:
«Non vi adirate con me, sono una sciocca, non valgo niente... e forse Alëša ha ragione a non voler venire da una ragazza ridicola come me».
«Lo manderò senz'altro da voi», decise lo starec.
V • E così sia, e così sia!
L'assenza dello starec dalla cella era durata venticinque minuti circa. Erano già le dodici e mezza e Dmitrij Fëdoroviè, la persona per la quale erano tutti lì convenuti, non si era ancora presentato. Ma si erano quasi dimenticati di lui, e quando lo starec fece ritorno nella cella trovò i suoi ospiti impegnati in una accesa discussione. I protagonisti principali della discussione erano Ivan Fëdoroviè e i due ieromonaci. Anche Miusov interveniva di tanto in tanto e, a quanto pareva, in modo abbastanza infervorato, ma anche questa volta la fortuna non era dalla sua parte: egli ricopriva un ruolo di secondo piano, le sue osservazioni erano tenute in poco conto e questa nuova circostanza non faceva che alimentare l'irritazione che si era accumulata in lui. Il fatto è che anche in passato egli aveva avuto degli scontri intellettuali con Ivan Fëdoroviè e non riusciva ad accettare, con il dovuto distacco, la noncuranza con la quale quel giovane lo trattava: "Fino ad oggi, sono sempre stato in prima linea in quanto di più progredito ci fosse in Europa, mentre questa nuova generazione ci ignora decisamente", pensava tra sé e sé. Fëdor Pavloviè, che aveva dato spontaneamente la parola di rimanersene zitto e al suo posto, era davvero rimasto buono buono per un po' di tempo, ma, con un sorrisetto beffardo, osservava il suo vicino Pëtr Aleksandroviè e si rallegrava visibilmente della sua irritazione. Da molto tempo ormai si preparava a fargliela pagare e adesso non voleva lasciarsi scappare l'occasione. Alla fine, non resistette più, si inchinò verso la spalla del vicino e lo stuzzicò ancora una volta a bassa voce:
«Non capisco perché poco fa non ve ne siate andato dopo il "baciandola amorevolmente" e abbiate accettato di rimanere in una compagnia così disdicevole. Forse vi sentivate umiliato e offeso e siete rimasto per prendervi una rivincita dando sfoggio del vostro ingegno. Adesso non ve ne andrete finché non avrete dato prova della vostra intelligenza».
«Ancora voi? E invece adesso me ne andrò».
«Sarete l'ultimo ad andarvene, l'ultimo!», Fëdor Pavloviè lo punzecchiò ancora una volta quasi nello stesso istante in cui lo starec rientrava nella cella.
La discussione cessò per un minuto, ma lo starec, sedutosi al posto di prima, li guardò come per invitarli gentilmente a continuare. Alëša, che conosceva praticamente tutte le espressioni del suo viso, si accorse con chiarezza che lo starec era spaventosamente esausto e che stava facendo un grande sforzo. Negli ultimi tempi della sua malattia, andava spesso soggetto a svenimenti causati dall'estenuazione. In quel momento il suo viso aveva lo stesso pallore dei momenti che precedevano uno svenimento, le sue labbra erano bianche. Ma egli, evidentemente, non voleva porre fine alla riunione, sembrava che avesse uno scopo preciso nel trattenerli, ma quale? Alëša non gli staccava gli occhi di dosso.
«Stiamo parlando dell'interessantissimo articolo scritto da questo signore», disse lo ieromonaco Iosif, il bibliotecario, rivolgendosi allo starec e indicando Ivan Fëdoroviè. «Vi si presentano molti spunti nuovi, ma sembra che l'idea sia a doppio taglio. È un articolo in risposta a una personalità religiosa che ha scritto un libro intero sulla questione del tribunale ecclesiastico e sull'estensione dei suoi diritti...»
«Purtroppo non ho letto il vostro articolo, ma ne ho sentito parlare», rispose lo starec osservando Ivan Fëdoroviè con uno sguardo fisso e attento.
«Egli sostiene un punto di vista interessantissimo», proseguì il padre bibliotecario, «nella questione del tribunale ecclesiastico egli rifiuta categoricamente la separazione della Chiesa dallo Stato».
«Interessante, ma in che senso?», domandò lo starec a Ivan Fëdoroviè.
Quello gli rispose, ma non con la condiscendenza che Alëša aveva tanto temuto sin dal giorno prima, bensí con modestia, con riservatezza, con premura e, a quanto pareva, senza alcun secondo fine.
«Io parto dal presupposto che questa mescolanza di elementi, vale a dire la mescolanza dei principi essenziali della Chiesa e dello Stato, considerati separatamente, andrà avanti in eterno, nonostante il fatto che essa sia impossibile e che non potrà mai condurre a risultati non solo normali, ma persino accettabili, visto che alla base della questione c'è la menzogna. Il compromesso fra lo Stato e la Chiesa in questioni come, per esempio, l'amministrazione della giustizia, è, a mio parere, impossibile nella sua vera essenza. La personalità religiosa che io contestavo afferma che la Chiesa occupa un posto preciso e definito nello Stato. Gli ho obiettato che, al contrario, la Chiesa deve includere in se stessa tutto lo Stato e non limitarsi ad occuparne solo un cantuccio, e che se ciò, per il momento, è per qualche ragione impossibile, in realtà dovrebbe divenire lo scopo diretto e primario di tutto il futuro sviluppo della società cristiana». «Giustissimo!», affermò con voce decisa e nervosa padre Paisij, ieromonaco colto e taciturno.
«Ultramontanismo bello e buono!», esclamò Miusov accavallando le gambe nervosamente.
«Eh, ma da noi non ci sono mica le montagne!», esclamò padre Iosif e, rivolgendosi allo starec, proseguì: «Questo signore contesta le seguenti "fondamentali ed essenziali" proposizioni del suo avversario, che è un ecclesiastico, badate bene. Primo: "non c'è associazione sociale che possa o debba arrogarsi il diritto di disporre dei diritti civili e politici dei suoi membri". Secondo: "l'amministrazione della giustizia penale o civile non dovrebbe competere alla Chiesa e non è compatibile con la sua natura né di istituzione divina né di associazione di uomini a fini religiosi" e, infine, terzo: "la Chiesa è un regno ma non di questo mondo"...»
«Indegnissimo gioco di parole per un ecclesiastico!», padre Paisij non poté fare a meno di interrompere nuovamente. «Ho letto il libro al quale voi avete replicato», si rivolse poi a Ivan Fëdoroviè, «sono rimasto stupito dalle parole dell'ecclesiastico quando dice che "la Chiesa è un regno ma non di questo mondo". Se non è di questo mondo, dunque, esso non può esistere affatto su questa terra. Nel santo Vangelo l'espressione "non di questo mondo" non viene usata in questo senso. Non si deve scherzare con simili parole. Il nostro Signore Gesù Cristo è venuto proprio per fondare la Chiesa sulla terra. Il Regno dei Cieli, è ovvio, non è di questo mondo, ma è appunto in cielo; in esso però non c'è modo di entrare se non attraverso la Chiesa, che è stata fondata e istituita sulla terra. E quindi frivoli giochi di parole in tal senso sono inopportuni e inammissibili. La Chiesa è, in verità, un regno, ed è fatta per regnare e alla fine dovrà immancabilmente diventare il regno che governa tutta la terra. Per questo abbiamo la promessa divina...»
Cessò di parlare di colpo, come trattenendosi. Dopo averlo ascoltato con rispetto e attenzione, Ivan Fëdoroviè proseguì con perfetta moderazione, ma con la stessa disponibile cordialità di prima, rivolgendosi allo starec:
«L'idea del mio articolo è la seguente: nei tempi antichi, nei primi tre secoli della sua esistenza, il cristianesimo sulla terra si è presentato soltanto come Chiesa ed era soltanto la Chiesa. Quando il pagano Stato romano aspirò a diventare cristiano, accadde inevitabilmente che, sposando il cristianesimo, esso venisse a includere la Chiesa, pur continuando a rimanere uno stato pagano in innumerevoli manifestazioni. In realtà, era inevitabile che questo si verificasse. Ma Roma, come Stato, conservava troppo della civiltà e della cultura pagana, per esempio, nei fini e nei fondamenti stessi dello Stato. La Chiesa di Cristo, entrando a far parte dello Stato, naturalmente non poteva rinunciare a nessuno dei suoi principi, alla pietra sulla quale si fondava, e non poteva perseguire altri fini che non fossero quelli fissati e rivelati dal Signore stesso e, tra gli altri, quello di convertire alla Chiesa tutto il mondo e quindi anche l'antico Stato pagano. In questo modo (cioè in prospettiva degli obiettivi futuri), non è la Chiesa che deve cercarsi un posto definito nello Stato, come "una qualsiasi associazione sociale" o come "associazione di uomini a fini religiosi" (come il mio oppositore definisce la Chiesa), ma al contrario, qualunque Stato della terra dovrebbe finire con il convertirsi completamente alla Chiesa e diventare tutt'uno con essa, rinunciando a qualunque finalità che non sia compatibile con quelle della Chiesa. Tutto questo non lo sminuirà in alcun modo, non gli sottrarrà né il suo onore e la sua gloria di grande Stato, né la gloria dei suoi governanti, ma lo distoglierà soltanto dall'erroneo cammino, ancora pagano e fallace, per condurlo sul cammino giusto e vero, l'unico che porti ai fini eterni. Ecco perché l'autore del libro su I fondamenti dell'amministrazione giudiziaria ecclesiastica avrebbe giudicato correttamente se, nel ricercare e nell'avanzare questi fondamenti, li avesse considerati come un compromesso provvisorio, inevitabile nella nostra epoca di peccato e imperfezione, ma niente di più. Ma non appena l'autore si azzarda a dichiarare che i fondamenti che egli propone adesso, una parte dei quali ha appena elencato padre Iosif, sono permanenti, essenziali ed eterni, egli va direttamente contro la Chiesa e la sua sacra, eterna e permanente vocazione. Ecco il succo di tutto il mio articolo, in un sunto esauriente».
«Vale a dire, in due parole», intervenne di nuovo padre Paisij calcando ogni parola, «che secondo alcune teorie, spuntate come funghi nel nostro diciannovesimo secolo, la Chiesa dovrebbe trasformarsi nello Stato, come se questo costituisse un progresso da una condizione inferiore a una superiore, per poi dissolversi del tutto in esso cedendo il passo alla scienza, allo spirito del tempo e alla civilizzazione. Se la Chiesa non vorrà questo e opporrà resistenza, allora le sarà riservato nello Stato una sorta di cantuccio, e per giunta sotto controllo - e questo è generalmente accettato ai nostri giorni nei moderni paesi europei. Invece, secondo la concezione e le aspirazioni russe, non tocca alla Chiesa trasformarsi nello Stato, come per passare da una condizione inferiore a una superiore, ma al contrario, è lo Stato che deve finire con il meritarsi di diventare esclusivamente Chiesa e niente di più. E così sia, e così sia!»
«Be', devo ammettere, che mi avete un po' rincuorato», ridacchiò Miusov accavallando nuovamente le gambe. «A quanto mi è dato di capire, dunque, questo sarebbe la realizzazione di un ideale infinitamente remoto, concomitante con il secondo avvento di Cristo. Ognuno è libero di pensarla come vuole. Un magnifico sogno utopistico che auspica l'abolizione della guerra, delle diplomazie, delle banche e così via. Addirittura, qualcosa di simile al socialismo. E io che pensavo che fosse una cosa seria e che questa Chiesa adesso, per esempio, avrebbe giudicato i criminali e condannato alla fustigazione e ai lavori forzati e forse anche alla pena di morte».
«Ma anche se adesso esistesse soltanto il tribunale ecclesiastico, anche in questo caso la Chiesa non condannerebbe ai lavori forzati o alla pena di morte. Il crimine e l'opinione su di esso dovrebbero indubbiamente cambiare, certo gradualmente, non dall'oggi al domani, ma con una certa rapidità...», replicò Ivan Fëdoroviè con calma, senza battere ciglio.
«Dite sul serio?», Miusov lo guardò fisso.
«Se tutto divenisse Chiesa, allora la Chiesa scomunicherebbe tutti i criminali e i ribelli, ma certo non gli taglierebbe la testa», continuò Ivan Fëdoroviè. «Vi domando: dove andrebbero a finire gli scomunicati? Essi, infatti, sarebbero costretti ad allontanarsi non soltanto dagli uomini, come adesso, ma anche da Cristo. Infatti, con il loro crimine, si sarebbero ribellati non solo agli uomini, ma anche alla Chiesa di Cristo. Ciò, a rigor di termini, avviene anche adesso, ovviamente, anche se non in modo esplicito, e il criminale attuale scende spessissimo a compromessi con la propria coscienza e dice: "Ho rubato, ma non vado contro la Chiesa, non sono nemico di Cristo", ecco che cosa dice a se stesso il criminale attuale ad ogni piè sospinto; ma nel momento in cui la Chiesa dovesse prendere il posto dello Stato, allora gli sarebbe difficile dire, in opposizione alla Chiesa di tutta la terra: "Tutti sbagliano, tutti sono caduti in errore, tutta l'umanità è falsa Chiesa, io soltanto, ladro e assassino, sono la vera Chiesa cristiana". Sarebbe molto difficile dire a se stesso una cosa del genere; richiederebbe una rara combinazione di circostanze eccezionali. D'altro canto, prendete ora in considerazione l'opinione che la Chiesa stessa ha del crimine: non dovrebbe forse rinunciare all'attuale atteggiamento, quasi pagano, e da meccanica amputazione della parte malata, attualmente adottata in nome della salvaguardia della società, trasformarsi, completamente e onestamente, in un'idea di rigenerazione dell'uomo, della sua resurrezione e della sua salvezza?...»
«Cioè, che vorrebbe dire questo? Torno a non capire», lo interruppe Miusov, «questa è un'altra fantasticheria. Qualcosa di amorfo, assolutamente incomprensibile. Cosa sarebbe questa scomunica, che cosa intendete per scomunica? Ho il sospetto che stiate soltanto scherzando, Ivan Fëdoroviè».
«Eppure, sapete, questo avviene anche adesso», disse ad un tratto lo starec, e tutti di colpo si voltarono a guardarlo, «infatti, se non esistesse la Chiesa di Cristo, non ci sarebbe nulla a distogliere il criminale dal compiere azioni malvage, né ci sarebbe reale castigo per lui in futuro; non intendo il castigo, al quale or ora si è fatto riferimento, e che, nella maggioranza dei casi, sortisce l'unico effetto di esacerbare il cuore, ma parlo del castigo autentico, l'unico efficace, l'unico che infonda terrore e dispensi pace, il castigo che si racchiude nel riconoscimento del peccato da parte della propria coscienza».
«Com'è possibile questo, se è lecito?», domandò Miusov estremamente incuriosito.
«Le cose stanno così», prese a a dire lo starec. «Tutte queste condanne ai lavori forzati, un tempo addirittura associate alle percosse, non correggono nessuno e, quel che è peggio, non agiscono da deterrente quasi con nessun criminale; il numero di delitti non solo non diminuisce, ma è in continuo aumento. Su questo dobbiamo convenire tutti. Di conseguenza, la società in questo modo non viene affatto salvaguardata, giacché, nonostante si amputi meccanicamente il membro dannoso e lo si spedisca lontano, ben lontano dalla vista, un altro criminale, e spesso anche due, prenderanno il suo posto. Se c'è qualcosa che salvaguardi la società, persino ai giorni nostri, e corregga il criminale e lo trasformi in una persona diversa, quella è solo, ancora una volta, la legge di Cristo che si esprime nella consapevolezza della propria coscienza. Solo riconoscendo la propria colpa come figlio della comunità di Cristo, cioè della Chiesa, egli riconoscerà la propria colpa dinanzi alla comunità stessa, cioè dinanzi alla Chiesa. Quindi, è solo dinanzi alla Chiesa che il criminale contemporaneo può riconoscere la propria colpa, non davanti allo Stato. Ecco, se l'amministrazione della giustizia competesse alla comunità in quanto Chiesa, allora la comunità stessa saprebbe chi reintegrare dalla scomunica e riaccogliere nel proprio seno. Invece, dal momento che la Chiesa attualmente non esercita alcun effettivo potere giudiziario, ma può condannare esclusivamente da un punto di vista morale, essa di sua iniziativa si astiene dall'assegnare un vero castigo. Essa non scomunica il criminale, ma si limita a impartirgli il suo insegnamento paterno. Inoltre, la Chiesa cerca di conservare la comunione cristiana con il criminale: lo ammette alle funzioni religiose, ai sacramenti, gli fa la carità e lo tratta più come un prigioniero che come un colpevole. E che ne sarebbe, o Signore! del criminale, se anche la comunità cristiana, cioè la Chiesa, lo respingesse così come lo respinge e abbandona la legge civile? Che ne sarebbe di lui, se anche la Chiesa lo castigasse con la scomunica subito dopo che la legge dello Stato gli ha impartito il suo castigo? Non potrebbe esserci disperazione più terribile, per lo meno, per il criminale russo, poiché i criminali russi hanno ancora fede. E del resto, chi può saperlo? Potrebbe accadere qualcosa di terrificante, il cuore disperato del criminale potrebbe perdere la sua fede, e allora che ne sarebbe di lui? Invece la Chiesa, al pari di una madre tenera e amorosa, si astiene dal castigo effettivo, dal momento che il criminale viene punito anche troppo severamente dal tribunale civile, e qualcuno deve pur avere pietà di lui. Ed essa si astiene soprattutto perché il giudizio della Chiesa è l'unico giudizio che racchiuda in sé la verità e per questo non può unirsi, per sua natura e per i suoi principi morali, a nessun altro giudizio, neppure in forma di compromesso temporaneo. In questo caso non si può transigere. Dicono che negli altri paesi i criminali raramente giungano a pentimento, giacché le stesse dottrine contemporanee li confermano nell'idea che il loro delitto non è un delitto, ma solo una ribellione contro un potere che soggioga ingiustamente. La società li allontana con una forza che trionfa meccanicamente su di loro e accompagna questa rimozione con odio (almeno così raccontano di se stessi gli europei), con odio, con la più fredda indifferenza e con l'oblio più spietato per il destino futuro di un proprio fratello. Così tutto avviene senza il compassionevole intervento della Chiesa, giacché in molti casi da loro le chiese non esistono affatto, ma vi sono rimasti soltanto i ministri e i meravigliosi edifici, mentre le chiese stesse da molto tempo ormai aspirano a passare dal livello inferiore, quello di Chiesa, a quello superiore, di Stato, per dissolversi completamente in esso. Pare che stia avvenendo questo, per lo meno nei paesi luterani. Quanto a Roma, sono mille anni ormai che al posto della Chiesa è stato proclamato lo Stato. Ecco perché il criminale stesso non si riconosce più membro della Chiesa e, isolato, versa in uno stato di disperazione. Nei casi in cui rientra nella società, egli è così carico di odio che la società stessa lo allontana di nuovo da sé. Come possa andare a finire tutto questo, lo potete giudicare da soli. In molti casi è avvenuto lo stesso anche da noi; ma il fatto è che da noi, oltre ai tribunali istituzionali, c'è anche, e sopra di tutto, la Chiesa, che non perde mai la comunione con il criminale e lo tratta come un figliolo buono e diletto malgrado tutto, e inoltre, esiste e si conserva, sebbene solo nel pensiero, anche il giudizio della Chiesa, che, per quanto non sia effettivo, tuttavia è pur sempre valido per il futuro, anche se solo come sogno, ed è sicuramente riconosciuto dal criminale stesso come un impulso istintivo della sua anima. È giusto quanto è stato qui affermato e cioè che se la giustizia ecclesiastica diventasse effettiva, e in tutta la sua potenza, cioè se la società tutta si trasformasse in Chiesa, allora non solo il giudizio della Chiesa agirebbe sulla correzione del criminale, diversamente da quanto avviene oggi, ma forse i crimini stessi diminuirebbero in percentuale incredibile. E non v'è dubbio che la Chiesa, in molti casi, concepirebbe il criminale e il crimine del futuro in maniera del tutto diversa da adesso e sarebbe in grado di recuperare l'escluso, frenare chi medita di commettere un crimine e rigenerare chi ha sbagliato. È vero», disse lo starec con un sorriso, «che la società cristiana al momento non è pronta a questo e poggia ancora sui sette giusti, ma dal momento che essi non cedono, tutto permarrà immutabile, nell'attesa della propria completa trasformazione da società, intesa come compagine quasi ancora pagana, in Chiesa unica, universale e onnipotente. E così sia, e così sia, anche se solo alla fine dei secoli, poiché questo è destinato a compiersi! E non c'è motivo di darsi pensiero per tempi e scadenze, giacché il segreto dei tempi e delle scadenze è inscritto nella saggezza di Dio, nella sua prescienza e nel suo amore. E ciò che in base ai calcoli umani sembrerebbe ancora molto lontano, per la predestinazione divina potrebbe essere alle porte, alla vigilia del suo avvento. E così sia, e così sia!»
«E così sia, e così sia!», ripeté con reverenza e gravità padre Paisij. «Strano, oltremodo strano!», commentò Miusov, non già con veemenza, quanto con una certa latente indignazione.
«Che cosa vi sembra così strano?», si informò cautamente padre
Paisij.
«Ma di che si tratta in fin dei conti?», esclamò Miusov, sbottando all'improvviso. «Lo Stato viene eliminato dalla terra e la Chiesa assurge al rango di Stato! Questo non è ultramontanismo, è arciultramontanismo! Neanche papa Gregorio VII è arrivato a sognare tanto!»
«Avete capito tutto il contrario!», disse severamente padre Paisij. «Non è la Chiesa a trasformarsi in Stato, cercate di capire questo. Questo è il caso di Roma e del suo sogno. Questa è la terza tentazione del demonio! Al contrario, è lo Stato a trasformarsi nella Chiesa, ad assurgere al rango della Chiesa e diventare Chiesa su tutta la terra, il che è completamente agli antipodi dell'ultramontanismo, di Roma e della vostra interpretazione, ed è soltanto il grande destino fissato per la Chiesa ortodossa sulla terra. Questa stella sorgerà ad Oriente».
Miusov taceva con aria significativa. Tutta la sua figura aveva un'espressione straordinariamente dignitosa. Un sorriso altezzoso e condiscendente gli affiorò sulle labbra. Alëša osservava ogni cosa con il cuore che gli batteva forte. L'intera conversazione lo aveva profondamente sconvolto. Il suo sguardo si posò casualmente su Rakitin; quello se ne stava immobile al posto di prima, vicino alla porta, ascoltava e osservava attentamente, anche se teneva gli occhi bassi. Ma dall'acceso rossore che gli avvampava sulle guance, Alëša intuì che Rakitin era turbato non meno di lui, e Alëša conosceva la causa di quel turbamento.
«Permettetemi di raccontarvi un piccolo aneddoto, signori», disse all'improvviso Miusov con un tono grave e un'aria di particolare importanza. «A Parigi, alcuni anni or sono, subito dopo il colpo di stato di dicembre, un giorno, nel corso di una visita a un personaggio molto, molto importante, a quel tempo legato al governo, mi capitò di incontrare in casa sua un signore curiosissimo. Quell'individuo non era un semplice investigatore, ma una specie di sovrintendente di un'intera squadra di investigatori politici, e ricopriva una carica di grande potere nel suo genere. Spinto dalla curiosità, approfittai dell'occasione di conversare con lui; dal momento che egli era stato ricevuto non in qualità di visitatore, ma di funzionario subalterno che faceva il suo speciale rapporto, e considerato pure che, dal canto suo, aveva notato come ero stato ricevuto dal suo capo, si degnò di parlarmi con una certa franchezza, fino a un certo punto, s'intende, cioè fu più cortese che franco, proprio come sanno essere cortesi i francesi, tanto più che in me vedeva uno straniero. Io l'avevo inquadrato alla perfezione. La conversazione verteva sui rivoluzionari socialisti che in quel periodo erano oggetto di persecuzione. Tralasciando il succo della conversazione, riferirò soltanto un'osservazione molto curiosa che si lasciò sfuggire quel tipo: "Noi", disse, "in sostanza non abbiamo molta paura di tutti questi socialisti, anarchici e rivoluzionari; li teniamo d'occhio e conosciamo le loro mosse. Ma fra di loro militano, benché non in gran numero, degli individui particolari: essi credono in Dio, sono cristiani e nel contempo sono socialisti. Ecco, quelli li temiamo più di tutti, quella è gente formidabile! Un socialista cristiano è assai più temibile di un socialista ateo!" Queste parole mi colpirono anche allora, ma adesso, qui con voi, mi sono ritornate alla mente all'improvviso...»
«Vale a dire che le applicate a noi e in noi vedete dei socialisti?», domandò padre Paisij direttamente, senza menare il can per l'aia. Ma prima che Pëtr Aleksandroviè riuscisse a pensare a una risposta, si spalancò la porta ed entrò Dmitrij Fëdoroviè, l'ospite atteso così a lungo. In realtà avevano persino smesso di aspettarlo e la sua improvvisa apparizione produsse, sulle prime, una certa sorpresa.
VI • Che vive a fare un uomo simile?
Dmitrij Fëdoroviè, un giovanotto di ventotto anni, di media statura e dal viso gradevole, sembrava tuttavia molto più vecchio della sua età. Era muscoloso e si poteva intuire che fosse dotato di una notevole forza fisica, eppure il suo viso aveva un'espressione poco sana. Era piuttosto magro, le guance erano incavate e nel loro colorito c'era una sfumatura giallastra. I suoi occhi scuri, abbastanza grandi e sporgenti, avevano uno sguardo di ferma determinazione, eppure in essi c'era qualcosa di vago. Persino quando era agitato e parlava con irritazione, il suo sguardo sembrava non ubbidire al suo stato d'animo, ma tradiva un qualcos'altro, talvolta persino in contrasto con la situazione. "È difficile capire a che cosa stia pensando", dicevano a volte quelli che parlavano con lui. Altri, che avevano colto nei suoi occhi un'espressione pensierosa e tetra, erano poi colpiti dalla sua inattesa risata, che testimoniava i pensieri allegri e giocondi che occupavano la sua mente proprio nel momento in cui aveva un'aria così cupa. Del resto, l'aria poco sana del suo viso in quel periodo era abbastanza comprensibile: tutti sapevano o avevano sentito parlare dello stile di vita inquieto e "dissipato" al quale egli si era abbandonato negli ultimi tempi nella nostra cittadina, come del resto era noto il livello di ira furibonda che raggiungeva nelle dispute con il padre sul denaro conteso. In città giravano già alcuni aneddoti a proposito. Vero è che egli era irascibile per natura, che aveva "una mente instabile e squilibrata", come si era espresso pittorescamente su di lui il nostro giudice conciliatore, Semën Ivanoviè Kacâl'nikov, durante una riunione. Era vestito con ineccepibile eleganza: indossava una finanziera accuratamente abbottonata, guanti neri e teneva il cilindro in mano. Dal momento che aveva lasciato l'esercito solo di recente, egli portava i baffi, mentre la barba era rasata di fresco. I capelli biondo-scuri erano tagliati corti e pettinati in avanti sulle tempie. Aveva il passo lungo e risoluto del militare. Si fermò un attimo sulla soglia e, dopo aver avvolto tutti i presenti nel suo sguardo, si diresse dritto verso lo starec, intuendo che fosse lui l'ospite. Gli fece un profondo inchino e chiese la sua benedizione. Lo starec si alzò e lo benedisse; Dmitrij Fëdoroviè gli baciò rispettosamente la mano e con un'agitazione intensa, persino con una certa irritazione, disse: «Abbiate la generosità di perdonarmi per avervi fatto aspettare tanto a lungo. Ma Smerdjakov, il servitore mandato da mio padre, alle mie reiterate domande sull'ora dell'incontro mi ha risposto due volte, con aria molto sicura, che era fissato per l'una. Adesso vengo a sapere inaspettatamente...»
«Non vi preoccupate», lo interruppe lo starec, «non è niente, avete leggermente tardato, non è poi così grave...»
«Vi sono estremamente grato e non potevo aspettarmi di meno dalla vostra bontà». Detto bruscamente questo, Dmitrij Fëdoroviè si inchinò un'altra volta, poi, voltatosi di scatto dalla parte del suo "papà", fece anche a lui lo stesso inchino rispettoso e profondo. Era evidente che aveva pensato in anticipo a quell'inchino e lo aveva concepito in buona fede, ritenendo suo dovere esprimere in questo modo il suo rispetto e le sue buone intenzioni. Fëdor Pavloviè, sebbene colto alla sprovvista, non si perse affatto d'animo: in risposta all'inchino di Dmitrij Fëdoroviè, balzò in piedi dalla sedia e rispose al figlio con un inchino altrettanto profondo. Il suo viso era diventato all'improvviso solenne e sussiegoso, il che, però, gli conferiva un'aria decisamente perfida. Poi, in silenzio, dopo aver fatto un inchino generale a tutti i presenti nella stanza, Dmitrij Fëdoroviè, con il suo passo lungo e risoluto, andò verso la finestra, si sedette sull'unica sedia rimasta, non lontano da padre Paisij e, sporgendosi tutto in avanti sulla sedia, si accinse ad ascoltare il seguito della conversazione da lui interrotta.
L'entrata di Dmitrij Fëdoroviè era durata un paio di minuti appena, la conversazione quindi poté subito riprendere. Ma questa volta Pëtr Aleksandroviè non ritenne necessario rispondere all'insistente e quasi irritante domanda di padre Paisij.
«Permettetemi di tralasciare questo argomento», disse con una certa noncuranza mondana. «Tanto più che esso è piuttosto delicato. Ecco che Ivan Fëdoroviè sta ridendo di noi, forse ha qualcosa di interessante da dire anche su questo argomento. Chiedete pure a lui».
«Niente di particolare, solo una piccola osservazione», replicò immediatamente Ivan Fëdoroviè, «a proposito del fatto che i liberali europei in generale, e persino i nostri liberali dilettanti russi, confondono spesso, e da un pezzo ormai, i risultati finali del socialismo con quelli del cristianesimo. Questa assurda deduzione è, naturalmente, un tratto caratteristico. Del resto pare che non siano solo i liberali e i dilettanti a confondere socialismo e cristianesimo, ma anche, in molti casi, i gendarmi, quelli stranieri si intende. Il vostro aneddoto parigino è piuttosto indicativo, Pëtr Aleksandroviè».
«Chiedo ancora una volta il permesso di sorvolare su questo argomento», ribadì Pëtr Aleksandroviè, «invece vi racconterò un altro aneddoto, signori, su Ivan Fëdoroviè in persona, un aneddoto molto interessante e molto caratteristico. Non più tardi di cinque giorni fa, durante una riunione qui in città, alla quale prendevano parte in prevalenza signore, egli ha dichiarato solennemente, nel corso di una discussione, che in tutta la terra non esiste assolutamente nulla che possa costringere gli uomini ad amare i propri simili e che non esiste affatto una legge della natura in base alla quale l'uomo debba amare l'umanità, e che se esiste ed è finora esistito amore sulla terra, ciò non è dovuto a una legge naturale, ma esclusivamente al fatto che gli uomini hanno creduto nella propria immortalità. Ivan Fëdoroviè aggiunse, tra parentesi, che proprio in questo consiste la legge naturale, quindi, se provaste a distruggere nell'umanità la fede nella propria immortalità, in essa si estinguerebbe immediatamente non soltanto l'amore, ma qualunque forza vitale per continuare la vita sulla terra. E non solo: non ci sarebbe più nulla di immorale, sarebbe tutto permesso, persino l'antropofagia. E, come se non bastasse, ha concluso affermando che per ogni individuo, come noi adesso per esempio, che non crede né in Dio, né nella propria immortalità, la legge morale della natura dovrà immediatamente trasformarsi nell'esatto contrario della legge religiosa prima vigente e l'egoismo umano, spinto eventualmente addirittura al crimine, deve essere non solo consentito, ma persino riconosciuto come l'esito necessario, il più razionale e quasi il più nobile nella sua posizione. Da tale paradosso, signori, potete dedurre tutto il resto delle teorie che proclama e, forse, ha intenzione di proclamare anche adesso, il nostro caro eccentrico e paradossale Ivan Fëdoroviè».
«Permettete», gridò a bruciapelo Dmitrij Fëdoroviè, «non vorrei aver capito male: "Il crimine non solo deve essere consentito, ma persino riconosciuto come la via d'uscita più necessaria e razionale dalla condizione in cui si trova l'ateo!" È così o no?» «Proprio così», disse padre Paisij.
«Lo terrò a mente».
Detto questo, Dmitrij Fëdoroviè cessò repentinamente di parlare, come repentinamente si era inserito nella conversazione. Lo guardarono tutti, incuriositi.
«Siete davvero convinto che sarebbero queste le conseguenze alle quali andrebbero incontro gli uomini, se in essi si esaurisse la fede nell'immortalità dell'anima?», domandò ad un tratto lo starec rivolto ad Ivan Fëdoroviè.
«Sì, io ho dichiarato questo. Non ci può essere virtù senza l'immortalità».
«Beato voi se siete convinto di questo, oppure infelicissimo voi!» «Perché infelice?», domandò Ivan Fëdoroviè sorridendo.
«Perché, con ogni probabilità, voi stesso non credete né nell'immortalità della vostra anima, né in tutto ciò che avete scritto sulla Chiesa e sulla questione della giustizia ecclesiastica».
«Forse avete ragione!... Tuttavia non stavo del tutto scherzando...», ammise stranamente, all'improvviso, Ivan Fëdoroviè, arrossendo di colpo. «Non stavate del tutto scherzando, è la verità. Questa idea non ha ancora trovato una risposta nel vostro cuore e lo tormenta. Ma anche il martire, a volte, ama baloccarsi con la propria disperazione, come se fosse indotto a far questo dalla disperazione stessa. Intanto, anche voi, nella vostra disperazione, vi state baloccando con gli articoli sulle riviste, con le discussioni mondane, senza che voi stesso crediate nella vostra dialettica e ridendo di essa, dentro di voi, con il dolore nel cuore... La questione non ha ancora trovato risposta in voi, questo è il vostro grande dolore, giacché essa esige improrogabilmente una risposta...»
«Ma può avvenire che in me trovi una risposta? Una risposta in senso positivo?», continuò a domandare in modo strano Ivan Fëdoroviè, guardando lo starec con lo stesso inesplicabile sorriso.
«Se non dovesse risolversi in senso positivo, non si risolverà mai neanche in senso negativo, voi stesso conoscete questa peculiarità del vostro cuore; proprio da questo dipende la vostra pena. Ma ringraziate il Creatore che vi ha concesso un cuore nobilissimo, capace di sopportare una tale pena, di "meditare cose sublimi, ricercare cose sublimi, giacché la nostra dimora è nei cieli". Che Dio conceda al vostro cuore di trovare una risposta su questa terra, e che Dio benedica il vostro cammino!»
Lo starec si alzò e stava per fare il segno della croce su Ivan Fëdoroviè dal suo posto. Ma questi si alzò di scatto, si avvicinò allo starec, accolse la sua benedizione, gli baciò la mano e tornò in silenzio al suo posto. Aveva un aspetto risoluto e serio. Questo gesto, come tutta la conversazione precedente con lo starec, così inattesa da parte di Ivan Fëdoroviè, aveva colpito tutti per la sua enigmaticità e per una certa solennità, tanto che tutti rimasero in silenzio per un attimo, mentre il viso di Alëša aveva un'espressione quasi impaurita. Poi, ad un tratto, Miusov scrollò le spalle e in quello stesso istante Fëdor Pavloviè balzò in piedi dal suo posto.
«Divinissimo e santissimo starec!», esclamò indicando Ivan Fëdoroviè. «Quello è mio figlio, carne della mia carne, carne mia dilettissima! È il mio rispettosissimo Karl Moor, per così dire, mentre l'altro mio figlio, quello che è appena entrato, Dmitrij Fëdoroviè, contro il quale cerco giustizia presso di voi, è l'irrispettosissimo Franz Moor - sono entrambi personaggi de I Masnadieri di Schiller - mentre io, io stesso in questo caso sarei il Regierender Graf von Moor! Giudicate e salvateci! Abbiamo bisogno non solo delle vostre preghiere, ma anche delle vostre profezie».
«Parlate senza stranezze e non cominciate a offendere i vostri familiari», rispose lo starec con voce debole, esausta. Egli evidentemente era sempre più affaticato, man mano che il tempo passava, le forze lo stavano visibilmente abbandonando.
«Una farsa indegna che avevo già previsto prima di arrivare!», esclamò Dmitrij Fëdoroviè indignato, scattando in piedi anche lui. «Scusate, reverendo padre», disse rivolto allo starec, «sono un ignorante e non so nemmeno come devo chiamarvi, ma vi hanno tratto in inganno e voi siete stato troppo buono a permetterci di riunirci qui da voi. Quello che vuole mio padre è solo uno scandalo, a che scopo, questo lo sa solo lui. Ma lui ha sempre un suo calcolo in mente. Anche se adesso mi sembra di capire il suo scopo...»
«Accusano tutti me, tutti quanti!», gridò a sua volta Fëdor Pavloviè. «Anche Pëtr Aleksandroviè mi accusa. Mi avete accusato, Pëtr Aleksandroviè, mi avete accusato!», si rivolse di scatto verso Miusov, sebbene questi non si sognasse neppure di interromperlo. «Mi accusano di aver nascosto i soldi dei miei figli negli stivali e di averli truffati; ma scusate non esiste forse il tribunale? Là vi renderanno conto, Dmitrij Fëdoroviè, in base alle vostre quietanze, alle vostre lettere e ai contratti, di quanto avevate, di quanto avete sperperato e di quanto vi rimane! Perché Pëtr Aleksandroviè si rifiuta di pronunciarsi? Dmitrij Fëdoroviè non è un estraneo per lui. Perché siete tutti contro di me, mentre è Dmitrij Fedoroviè che, a conti fatti, è in debito con me e non di poco, di qualche migliaia di rubli, ho tutti i documenti per provarlo! La città intera spettegola e rintrona delle sue baldorie! E là dove prestava servizio prima, pagava mille e anche duemila rubli per sedurre ragazze onorate; questo, Dmitrij Fëdoroviè, ci è noto nei particolari più intimi, lo posso dimostrare... Santissimo padre, ci credereste? Ha fatto innamorare la più nobile delle fanciulle, di buona famiglia, con una posizione, la figlia di un suo ex superiore, un coraggioso colonnello benemerito, che portava al collo la croce di Sant'Anna con le spade; ha compromesso la ragazza con la sua promessa di matrimonio, adesso lei è qui, ora è orfana, è la sua fidanzata mentre lui, davanti agli occhi di lei, se la fa con una certa seduttrice locale. Ma, sebbene questa seduttrice abbia vissuto, per così dire, in matrimonio civile con una persona rispettabile, ella ha un carattere indipendente, è una fortezza inespugnabile per tutti, come se fosse una donna sposata a tutti gli effetti, giacché ella è virtuosa - sì! - padri santi, ella è virtuosa! Ma Dmitrij Fëdoroviè vuole aprire questa fortezza con una chiave d'oro, ecco perché fa tanto lo spavaldo con me, vuole spillarmi quattrini, anche se fino ad oggi ha scialacquato già migliaia di rubli per questa seduttrice; per questo non fa che prendere soldi a prestito in continuazione, e da chi pensate che li prenda? Devo dirlo, Mitja, eh?»
«State zitto!», gridò Dmitrij Fëdoroviè. «Aspettate che io sia uscito, non osate insudiciare in mia presenza il nome di una fanciulla nobilissima... Il solo fatto che possiate osare di fare il suo nome, è un oltraggio per lei... Non lo permetterò!» Gli mancava il respiro.
«Mitja! Mitja!», strillò Fëdor Pavloviè istericamente, spremendosi le lacrime. «E la benedizione paterna non conta niente? Se ti maledicessi, che ne diresti, eh?»
«Spudorato ipocrita!», ringhiò con veemenza Dmitrij Fëdoroviè.
«E questo a suo padre, a suo padre! Che cosa oserà fare allora agli altri? Signori, pensate: vive qui da noi un uomo povero ma onesto, con una famiglia numerosa sulle spalle, un capitano a riposo, che è caduto in disgrazia ed è stato allontanato dal servizio, ma non con clamore, non con un processo, bensí conservando il proprio onore. Tre settimane fa il nostro Dmitrij Fëdoroviè, in una trattoria, lo ha afferrato per la barba, lo ha trascinato fuori, sempre tenendolo per la barba, e lo ha picchiato per strada pubblicamente, e tutto perché quello è il mio incaricato di fiducia per un certo affaruccio».
«È una menzogna dalla prima all'ultima parola! Fuori è la verità, ma dentro è una menzogna!», disse Dmitrij Fëdoroviè tremando tutto per la rabbia. «Padre! Io non giustifico il mio gesto; sì, lo riconosco davanti a tutti: mi sono comportato come una bestia con quel capitano e adesso me ne rammarico e provo disgusto di me stesso per quell'atto di ira brutale, ma quel capitano, il vostro incaricato, era andato da quella signora, che voi avete chiamato seduttrice, e le aveva proposto, a nome vostro, di rilevare le mie cambiali in vostro possesso e di esigerne il pagamento al fine di mettermi alle strette con quelle cambiali stesse, nel caso fossi diventato troppo insistente con voi nel rivendicare i diritti sui miei beni. Voi mi rimproverate di avere un debole per quella signora, allora com'è che le avete insegnato il modo per prendermi in trappola? Infatti lei lo dice chiaramente, me lo ha raccontato lei stessa, ridendo di voi! Volete mettermi alle strette solo perché siete geloso del mio rapporto con lei, perché voi stesso avete cominciato a molestarla con profferte amorose, e anche di questo ho saputo tutto, e anche per questo lei rideva di voi - mi sentite? - rideva di voi mentre mi raccontava tutto. Ecco dunque, uomini santi, com'è quest'uomo, questo padre che rimprovera un figlio perverso! Signori qui presenti, perdonate la mia ira, ma io avevo il presentimento che questo perfido vecchio ci avesse convocati tutti qui per sollevare uno scandalo. Ero venuto con l'intenzione di perdonare, se lui mi avesse teso la mano, di perdonare e chiedere perdono! Ma dal momento che egli ha appena offeso non solo me, ma anche una nobilissima fanciulla che non oso neppure nominare invano per la venerazione che mi ispira, allora ho deciso di smascherare il suo gioco pubblicamente, anche se egli è mio padre!»
Non riuscì a proseguire. Gli occhi gli scintillavano, respirava a fatica. Ma anche tutti i presenti nella cella erano agitati. Tutti, tranne lo starec, si erano alzati dai loro posti, inquieti. I padri ieromonaci avevano un'aria severa, tuttavia rimanevano in attesa della volontà dello starec. Questi se ne stava seduto, pallidissimo, non per l'agitazione, ma per la debolezza della malattia. Un sorriso implorante gli illuminava le labbra; di tanto in tanto egli aveva alzato la mano per fermare quegli infuriati e, certamente, sarebbe bastato un suo gesto perché la scenata venisse interrotta; ma sembrava che stesse aspettando qualcosa, li osservava attentamente come se cercasse di comprendere ancora qualcosa, di chiarire qualcosa che non gli era ancora chiaro. Alla fine Pëtr Aleksandroviè Miusov si sentì completamente umiliato e oltraggiato.
«Dello scandalo che qui ha avuto luogo siamo tutti responsabili!», disse con calore. «Eppure non lo avevo minimamente previsto venendo qui, sebbene fossi consapevole delle persone con cui avevo a che fare... Dobbiamo farla finita immediatamente! Reverendo padre, credetemi, non conoscevo esattamente tutti i particolari che sono stati qui rivelati, non ci volevo credere e solo adesso per la prima volta ho sentito... Un padre geloso del figlio per una donna di malaffare, un padre che si mette d'accordo con quella stessa carogna per far mettere in galera il figlio... Questa è la compagnia nella quale mi hanno costretto a presentarmi qui... Sono stato tratto in inganno, e dichiaro a tutti voi che sono stato tratto in inganno non meno degli altri...»
«Dmitrij Fëdoroviè!», si mise a strillare all'improvviso Fëdor Pavloviè con una voce alterata. «Se solo non foste mio figlio, vi sfiderei a duello seduta stante... con le pistole, alla distanza di tre passi... col fazzoletto! Col fazzoletto!», concluse pestando per terra con tutti e due i piedi.
I bugiardi inveterati, che hanno recitato tutta una vita, hanno dei momenti nei quali si compenetrano a tal punto nella parte da tremare e piangere sul serio per l'emozione, sebbene in quello stesso istante (o tutt'al più un secondo dopo) potrebbero sussurrare a se stessi: "Eppure stai mentendo, vecchio spudorato, eppure stai recitando anche adesso, a dispetto della tua ira 'sacrosanta' e del tuo 'sacrosanto' momento d'ira".
Dmitrij Fëdoroviè si accigliò cupamente e fissò il padre con uno sguardo di inesprimibile disprezzo.
«Io pensavo... io pensavo», iniziò a dire con un tono sommesso e contenuto, «di tornare nella mia città natale con l'angelo del mio cuore, la mia fidanzata, per allietare la sua vecchiaia, invece non trovo altro che un lussurioso perverso e il più abietto dei commedianti!»
«A duello!», strillò di nuovo il vecchiaccio, con il respiro corto, sputacchiando ad ogni parola. «E voi, Pëtr Aleksandroviè Miusov, sappiate, signore, che probabilmente nella vostra progenie non c'è e non c'è mai stata una donna più nobile e più pura - sentitemi bene: più pura - di quella carogna, come avete osato chiamarla or ora! Quanto a voi, Dmitrij Fëdoroviè, avete abbandonato la vostra fidanzata per quella "carogna", dunque anche voi avrete giudicato che la vostra fidanzata non vale una
suola della sua scarpa, ecco di che carogna si tratta!»
«È una vergogna!», sbottò all'improvviso padre Iosif.
«È una vergogna e un'infamia!», gridò ad un tratto con la sua voce da adolescente Kalganov, arrossendo di colpo e tutto tremante per l'agitazione. Egli, sino a quel momento, aveva taciuto.
«Che vive a fare un uomo simile?», ruggì sordamente Dmitrij Fëdoroviè, fuori di sé dalla rabbia, sollevando in modo eccezionale le spalle al punto da sembrare gobbo. «No, ditemi, si può permettere che egli disonori la terra con la sua presenza?», e girò lo sguardo su tutti i presenti indicando il vecchio con la mano. Parlava con calma, lentamente.
«Ma lo sentite, lo sentite, monaci, il parricida?», gridò Fëdor Pavloviè slanciandosi verso padre Iosif. «Ecco la risposta al vostro "è una vergogna!" Che cosa è una vergogna? Quella "carogna", quella "donna di malaffare", forse, è più santa di tutti voi messi insieme, signori ieromonaci che vi state santificando! Ella, forse, ha peccato in gioventù, corrotta dall'ambiente circostante, ma ella ha "molto amato", e anche Cristo perdonò la donna che aveva molto amato...»
«Non fu per quel genere di amore che Cristo perdonò...», sbottò il mite padre Iosif, perdendo le staffe.
«No, proprio per quello, esattamente per quello, monaci, proprio per quello! Qui voi vi santificate mangiando cavoli e pensate di essere giusti! Mangiate i ghiozzi, un ghiozzo al giorno e pensate di comprare Dio a forza di ghiozzi!»
«È inammissibile, inammissibile!», si sentiva dire da più parti nella cella.
Ma tutta quella scena, giunta ormai ai limite della decenza, venne interrotta nella maniera più inattesa. Ad un tratto lo starec si alzò. Quasi sconvolto dall'angoscia per lo starec e per tutti gli altri, Alëša tuttavia fece in tempo a sorreggerlo per un braccio. Lo starec avanzò in direzione di Dmitrij Fëdoroviè, e giunto sino a lui, cadde in ginocchio. Alëša pensò che fosse cascato per la debolezza, ma non era così. Lo starec si prostrò ai piedi di Dmitrij Fëdoroviè con un gesto netto, distinto, intenzionale, sino ad arrivare a sfiorare il pavimento con la fronte. Alëša era così sbalordito che mancò di sorreggerlo mentre si sollevava. Un debole sorriso affiorava appena sulle sue labbra.
«Perdonate! Perdonate tutti!», disse lo starec inchinandosi da tutti i lati, verso gli ospiti.
Dmitrij Fëdoroviè per alcuni istanti rimase come folgorato: un inchino ai suoi piedi, che voleva dire? Poi all'improvviso lanciò un grido: "Oh, Dio mio!", e, coprendosi il volto con le mani, fuggì fuori dalla stanza. Anche tutti gli altri ospiti si slanciarono in gruppo dietro di lui, così confusi che non salutarono né si inchinarono al loro ospite. Soltanto gli ieromonaci si accostarono a lui per la benedizione.
«Che cosa avrà voluto dire con quell'inchino ai suoi piedi? È un simbolo di qualche cosa?», tentò di riavviare la conversazione Fëdor Pavloviè, acquietatosi del tutto per qualche ragione, senza tuttavia osare rivolgersi a qualcuno in particolare. In quel momento uscivano tutti dal recinto dell'eremo.
«Io non rispondo di un manicomio e di un branco di matti», replicò subito Miusov stizzito, «ma in compenso mi sbarazzerò della vostra compagnia, Fëdor Pavloviè, e credetemi, per sempre. Dov'è quel monaco di prima?»
Ma "quel monaco", vale a dire quello che li aveva invitati a pranzo dall'igumeno, non si fece attendere a lungo. Era andato subito incontro agli ospiti, non appena quelli erano scesi dal terrazzino d'ingresso della cella dello starec, come se li avesse aspettati lì per tutto il tempo della visita.
«Fatemi la cortesia, reverendo padre, di presentare i miei più sentiti omaggi al padre igumeno e di chiedere scusa a mio nome personale, di Miusov, al reverendissimo, ma a causa di circostanze impreviste, sopraggiunte all'improvviso, non sono assolutamente nella condizione di avere l'onore di prendere parte alla sua mensa, sebbene lo desideri con tutto il cuore», disse irritato Pëtr Aleksandroviè al monaco.
«Ah, e l'imprevista circostanza, naturalmente, sarei io?», si intromise subito Fëdor Pavloviè. «Avete sentito, padre? Pëtr Aleksandroviè non vuole rimanere in mia compagnia, altrimenti ci verrebbe subito. Ma andate pure, Pëtr Aleksandroviè, vi prego, andate a far visita al padre igumeno e buon appetito a voi! Sappiate che sono io a declinare l'invito e non voi. A casa mia, a casa mia, mangerò a casa mia, qui non mi sento a mio agio, Pëtr Aleksandroviè, amatissimo parente mio».
«Non sono mai stato vostro parente, uomo abietto!»
«L'ho detto apposta per farvi andare in bestia, perché, sebbene rinneghiate la parentela, siete pur sempre un mio parente, per quanto cavilliate, lo dimostrerò con il calendario ecclesiastico; quanto a te Ivan Fëdoroviè, ti manderò i cavalli più tardi, resta pure se vuoi. Adesso, Pëtr Aleksandroviè, il decoro vi impone di presentarvi al padre igumeno;
bisogna pur scusarsi per il baccano che abbiamo fatto là dentro...»
«Ma è vero che ve ne andate? Non state mentendo?»
«Pëtr Aleksandroviè, come potrei osare dopo quanto è successo! Ho esagerato, scusate, signori, ma ho esagerato! E inoltre sono rimasto molto scosso! Provo persino vergogna! Signori, c'è chi ha il cuore di Alessandro il Macedone e chi quello della cagnetta Fidel'ka. Io ho quello della cagnetta Fidel'ka. Mi sento in soggezione! Come potrei, dopo una simile uscita, presentarmi pure a pranzo e ingozzarmi delle salse del monastero? Mi vergogno, non posso proprio, scusatemi».
"Solo il diavolo lo capisce, chissà che non ci prenda in giro!", si soffermò a pensare Miusov mentre osservava con uno sguardo perplesso il buffone che si allontanava. Quello si voltò e, notando che Pëtr Aleksandroviè lo stava osservando, gli mandò un bacio con la mano. «E voi ci andate dall'igumeno?», domandò bruscamente Miusov a Ivan Fëdoroviè.
«Perché no? Tanto più che sono stato invitato personalmente dall'igumeno sin da ieri».
«Purtroppo io mi sento davvero in dovere di partecipare a questo pranzo maledetto», continuò Miusov con la stessa amara stizza, incurante persino che il monacello stesse ascoltando. «Eppure bisognerà pure scusarsi per quello che abbiamo combinato qui e chiarire che non siamo stati noi... Che ne dite?»
«Sì, occorre chiarire che non siamo stati noi. Tanto più che papà non ci sarà», osservò Ivan Fëdoroviè.
«Ci mancherebbe solo che ci fosse il vostro papà! Maledetto questo pranzo!»
Comunque ci andarono tutti. Il monacello taceva e ascoltava.
Durante il tragitto attraverso il boschetto si limitò a far notare che il padre igumeno li stava aspettando già da un pezzo, erano in ritardo di più di mezz'ora. Non gli risposero. Miusov guardava con odio Ivan Fëdoroviè. "Ecco che va a pranzo come se niente fosse!", pensò. "Faccia di bronzo e coscienza da Karamazov".
VII • Un seminarista arrivista
Alëša accompagnò lo starec nella cella dove riposava e lo fece sedere sul letto. Era una stanzetta molto piccola con lo stretto indispensabile di mobilia; c'era un letto angusto, di ferro sul quale, al posto del materasso, era steso un semplice strato di feltro. In un angoletto, presso le icone, c'era un leggio sul quale erano poggiati una croce e il Vangelo. Lo starec si abbandonò sul letto esausto; gli occhi gli brillavano e il respiro era affannoso. Una volta seduto, fissò Alëša, come se stesse riflettendo su qualcosa.
«Va', caro, va', per me è sufficiente che resti Porfirij, ma tu affrettati.
Là è necessaria la tua presenza, va' dal padre igumeno, e servi a tavola».
«Concedetemi di rimanere qui», supplicò Alëša con voce implorante. «Sei più utile là. Là non c'è pace. Servi a tavola e renditi utile. Se si solleveranno i demoni, tu prega. E sappi, figlioletto» (lo starec amava chiamarlo così), «che in avvenire non deve essere questo il tuo posto. Ricordatelo, ragazzo. Non appena il Signore si degnerà di chiamarmi a sé, tu lascia il monastero. Abbandonalo».
Alëša trasalì.
«Che hai? Non è questo il tuo posto per ora. Ti do la mia benedizione perché tu renda un grande servizio al mondo. Lungo sarà il tuo pellegrinaggio. Dovrai anche prendere moglie, sì, dovrai farlo. Dovrai sopportare tutto, fino al giorno in cui farai nuovamente ritorno qui. E ci sarà molto da fare. Ma non dubito di te ecco perché ti mando io stesso. Cristo è con te. Non lo abbandonare e lui non abbandonerà te. Vedrai un grave dolore e in quel dolore sarai felice. Ecco il mio insegnamento per te: cerca la felicità nel dolore. Lavora, lavora instancabilmente. Ricordati le mie parole d'ora in poi, giacché, anche se avrò ancora occasione di conversare con te, non solo i miei giorni, ma le mie ore sono contate».
Sul viso di Alëša si dipinse una forte emozione. Gli angoli delle labbra gli tremavano.
«Ma che c'è ancora?», sorrise quieto lo starec. «Lascia che le persone del mondo accompagnino i loro defunti con le lacrime, mentre noi ci rallegriamo di un padre che se ne va. Ci rallegriamo e preghiamo per lui. Lasciami allora. Devo pregare. Va' e affrettati. Stai accanto ai tuoi fratelli.
Non solo a uno di loro, ma accanto a tutti e due».
Lo starec alzò la mano per benedirlo. Alëša non poteva replicare, anche se avrebbe desiderato tantissimo rimanere. Avrebbe anche voluto fare una domanda, che era lì lì per sfuggirgli di bocca, e cioè quale significato premonitore avesse quell'inchino fino a terra al fratello Dmitrij. Ma non ebbe il coraggio di domandarglielo. Egli sapeva che lo starec stesso glielo avrebbe chiarito senza tante domande, se lo avesse ritenuto giusto. Ma evidentemente non era quella la sua volontà. Quell'inchino aveva colpito moltissimo Alëša; egli credeva ciecamente che in esso fosse riposto un significato misterioso. Misterioso e, forse, terribile. Quando uscì dal recinto dell'eremo per arrivare al monastero in tempo per l'inizio del pranzo dell'igumeno (naturalmente soltanto per servire a tavola), avvertì all'improvviso una dolorosa stretta al cuore e si fermò di colpo: nella sua mente risuonarono le parole dello starec che prediceva la propria imminente dipartita. Quello che prediceva lo starec, e per di più con una tale precisione, doveva senza dubbio accadere, Alëša ci credeva devotamente. Ma come poteva rimanere senza di lui, come poteva vivere senza vederlo, senza sentire la sua voce? E dove sarebbe andato? Gli aveva ordinato di non piangere e di abbandonare il monastero, oh Signore! Era molto tempo che Alëša non provava una simile angoscia. Attraversava in fretta il bosco che separava l'eremo dal monastero e, incapace di sopportare il peso dei propri pensieri tanto questi lo opprimevano, si mise ad osservare i pini secolari che fiancheggiavano il sentierino del bosco. Il tragitto era breve, circa cinquecento passi, non di più; a quell'ora non si aspettava di incontrare nessuno, ma ad un tratto, alla prima svolta del sentierino, egli notò Rakitin. Stava aspettando qualcuno.
«Stai aspettando me?», gli domandò Alëša raggiungendolo.
«Proprio te», disse Rakitin ridendo. «Stai correndo dal padre igumeno. Lo so, dà un pranzo. Non ha più dato un pranzo simile dal giorno in cui ricevette il vescovo con il generale Pachatov. Io non vi prenderò parte, ma tu va' pure a servire le salse. Dimmi solo una cosa, Alëša: che significa quel sogno? Ecco che cosa volevo domandarti».
«Quale sogno?»
«Quell'inchino fino a terra che ha fatto a tuo fratello Dmitrij
Fëdoroviè. Ci ha picchiato forte con la fronte!» «Stai parlando dello starec Zosima?» «Sì, di padre Zosima».
«Picchiato con la fronte?»
«Ah, non mi sono espresso con il dovuto rispetto! E che sia pure senza il dovuto rispetto. Allora che significa quel sogno?» «Non lo so, Miša, che cosa significa».
«Lo sapevo che non te l'avrebbe spiegato. Di tanto complicato, poi, a ben vedere non c'è proprio nulla, sono le solite stupidaggini da bigotti. Ma il trucco è stato fatto con un fine. Ecco che tutti i baciapile della città cominceranno a ricamarci sopra e a domandarsi per tutto il governatorato: "Che cosa significherà mai quel sogno?" Secondo me il vecchio ha davvero il naso fino: ha sentito odore di delitto. Se ne sente il lezzo lì dalle vostre parti».
«Di quale delitto parli?»
Era evidente che Rakitin volesse dire ancora qualche cosa.
«Avverrà nella vostra famigliola, quel delitto. Accadrà tra i tuoi fratelli e il tuo ricco papà. Padre Zosima ha battuto la fronte per ogni evenienza futura. E dopo che sarà accaduto, diranno: "Ah, il santo starec questo lo aveva predetto, lo aveva profetizzato". Anche se che grande profezia vuoi che ci sia in un colpetto con la fronte? No, si dirà che era un gesto simbolico, un'allegoria e il diavolo sa cos'altro! Si strombazzerà ai quattro venti, si ricorderà in futuro: "Ha previsto un delitto, ha individuato il colpevole". I fanatici esaltati fanno spesso così: nelle bettole si fanno il segno della croce e poi gettano le pietre contro il tempio. Lo stesso il tuo starec: i giusti li caccia con il bastone e agli assassini si inchina fino ai piedi».
«Ma di quale delitto parli? Di quale assassino? Che cosa stai dicendo?»
Alëša si fermò impietrito, anche Rakitin si fermò.
«Quale assassino? Come se tu non lo sapessi! Scommetto che anche tu ci hai già pensato. A proposito, è curioso: ascolta, Alëša, tu dici sempre la verità, anche se tieni sempre il piede in due staffe: ci hai pensato o no? Rispondi».
«Ci ho pensato», rispose Alëša sommessamente. Persino Rakitin rimase sconcertato.
«Che cosa? Ci hai pensato davvero anche tu?», gridò.
«Non che ci abbia proprio pensato», mormorò Alëša, «ma quando tu hai cominciato a dire quelle strane cose poc'anzi, mi è sembrato di averci già pensato io stesso».
«Vedi? E con quanta chiarezza lo hai espresso, vedi? Oggi, guardando il paparino e il fratellino Miten'ka, hai pensato al delitto? Dunque non mi sto sbagliando?»
«Ma aspetta, aspetta un attimo», lo interruppe Alëša turbato. «Che cosa ti ha indotto a vedere tutto questo? E, soprattutto, perché ti interessa tanto?»
«Due domande separate l'una dall'altra, ma naturali. Risponderò a ciascuna separatamente. Che cosa mi ha indotto a vedere tutto questo? Non avrei visto nulla, se oggi, all'improvviso, non avessi capito Dmitrij Fëdoroviè, tuo fratello, com'è veramente, un volta per tutte, in tutto il suo essere. L'ho colto per intero da un solo tratto. Queste persone onestissime, ma passionali, hanno un limite che non va oltrepassato. Altrimenti, altrimenti è capace di saltare addosso al paparino con un coltello. Ma il paparino, ubriacone e libertino smodato, non ha mai conosciuto la misura, in nessun caso, quindi basta che si lascino andare entrambi e vanno a finire tutti e due dritti dritti in un fosso...»
«No, Miša, no, se è solo per questo, mi sento sollevato. Non si arriverà a tal punto».
«E allora perché tremi tutto? Lo sai tu come vanno queste cose? Ammettiamo pure che sia una persona onesta, quel Miten'ka (è stupido ma onesto), però è un sensuale. Ecco la sua vera definizione e la sua essenza interiore. È stato il padre a trasmettergli questa bassa sensualità. Sai, mi meraviglio semplicemente di te, Alëša: come hai fatto a conservare la tua castità? Eppure sei un Karamazov anche tu! Nella vostra famiglia la sensualità arriva al parossismo. Ecco, quei tre sensuali si spiano a vicenda... con i coltelli pronti. Hanno sbattuto la fronte in tre e tu, forse, sei il quarto».
«Ti sbagli sul conto di quella donna. Dmitrij la... disprezza», disse Alëša sussultando lievemente.
«Grušen'ka? No, fratello, non la disprezza. Se ha preferito apertamente lei alla sua fidanzata, vuol dire che non la disprezza. In questo caso... in questo caso, fratello, si tratta di qualcosa che adesso tu non puoi capire. Quando un uomo si innamora di una certa bellezza, di un corpo femminile, oppure soltanto di una parte del corpo femminile (questo un sensuale può capirlo), per essa sarebbe capace di abbandonare i suoi figli, vendere il padre e la madre, la Russia e la patria; se è onesto, andrà a rubare; se è mite, ammazzerà, se è leale, tradirà. Un cantore dei piedini femminili, Puškin, ha decantato in versi quei piedini; altri non li decantano, ma non riescono a guardare quei piedini senza avere i brividi. E non solo per i piedini... In questo caso, fratello, il disprezzo non c'entra, anche se egli davvero disprezzasse Grušen'ka. La disprezza, ma non riesce a staccarsene».
«Lo capisco questo», si lasciò sfuggire Alëša d'un tratto.
«Davvero? E devi capirlo davvero se così di slancio ti lasci sfuggire che lo capisci», disse Rakitin con gioia maligna. «Ti è sfuggito senza volerlo, ti è scappato. Per questo è un'ammissione tanto più preziosa: dunque l'argomento ti è già noto, alla sensualità ci hai già pensato. Hai capito il verginello! Tu, Alëška, sei un'acqua cheta, sei un santo, ne convengo, ma solo il diavolo sa i pensieri che ti sono già passati per la mente, solo il diavolo sa le cose di cui sei già venuto a conoscenza! Tu sei un puro, eppure sei già arrivato a una notevole profondità nelle tue riflessioni, è da un pezzo che ti tengo d'occhio. Anche tu sei un Karamazov, sei un Karamazov dalla testa ai piedi, la razza, la selezione dovranno pur significare qualcosa. Un sensuale da parte di padre, un puro folle da parte di madre. Perché tremi? Sto cogliendo nel segno? Sai una cosa? Grušen'ka mi ha detto: "Portamelo", stava parlando di te, "e io gli sfilerò la tonaca di dosso". E dovevi vedere come mi implorava: portamelo, portamelo! Mi è venuto solo da pensare: perché la incuriosisci tanto? Sai, anche lei è una donna fuori dal comune!»
«Salutala da parte mia e dille che non ci verrò», Alëša sorrise forzatamente. «Finisci quello che stavi dicendo, Michail, poi ti dirò il mio pensiero».
«Non c'è niente da aggiungere, è tutto chiaro. Tutto questo, fratello, è storia vecchia. Se persino tu nascondi un uomo sensuale dentro di te, allora che dire di Ivan, il tuo fratello uterino? Infatti anche lui è un Karamazov. Tutta l'essenza karamazoviana si riassume così: sensualità, cupidigia e follia! Adesso tuo fratello Ivan pubblica per burla, per qualche suo ignoto e stupidissimo motivo, articoli di teologia, pur essendo ateo; e confessa egli stesso questa sua bassezza - ecco che tipo è tuo fratello Ivan. Inoltre, sta soffiando la fidanzata a suo fratello Mitja e forse riuscirà anche in questo intento. E c'è da vedere come: con il consenso di Miten'ka stesso, perché Miten'ka gli sta cedendo la fidanzata per sbarazzarsi di lei e fuggire al più presto da Grušen'ka. E tutto questo, nota bene, a dispetto della sua grande nobiltà d'animo e del completo disinteresse da parte sua. Questi sono i tipi più fatali che ci possano essere! Solo il diavolo vi capisce: ammette la propria bassezza e ci scivola dentro da solo! Sta a sentire ancora: adesso quel vecchiaccio di vostro padre sta tagliando la strada a Miten'ka. Infatti tutto d'un tratto ha perso la testa per Grušen'ka, gli viene la bava alla bocca solo a guardarla. È stato solo a causa di lei che ha sollevato quel po' po' di scandalo nella cella, solo per il fatto che Miusov ha osato chiamarla carogna dissoluta. È peggio di una gatta in amore. Prima lei lavorava a pagamento solo in certi suoi loschi affarucci di bettole, mentre ora all'improvviso egli si è accorto di lei, l'ha guardata meglio e ha perso la testa, la insidia con le sue proposte, disoneste s'intende. E così padre e figlio finiranno con lo scontrarsi su quella stessa strada. E Grušen'ka non si concede né all'uno né all'altro, per il momento tergiversa e li stuzzica entrambi, valuta chi le convenga di più: perché anche se il paparino ha moltissimi quattrini da sgraffignare, quello non è tipo che si sposa e alla fine è capace di fare l'ebreuccio e stringere i cordoni della borsa. Ed è qui che viene fuori il valore di Miten'ka: lui i soldi non ce li ha, ma è pronto a sposarla. Proprio così, è pronto a sposarla! Lasciare la fidanzata, una bellezza incomparabile come Katerina Ivanovna, ricca, nobile, figlia di un colonnello, per sposare Grušen'ka, l'ex mantenuta del vecchio mercantuccio Samsonov, volgare zoticone e capomastro. Da tutto questo può davvero derivare un delittuoso conflitto. E tuo fratello Ivan non aspetta altro, sarebbe una vera pacchia per lui: conquisterebbe Katerina Ivanovna, per la quale si strugge, e intascherebbe pure i sessantamila rubli della sua dote. Per un uomo senza una posizione, per uno spiantato come lui, la cosa è estremamente allettante tanto per cominciare. E nota bene: non solo non offenderà Mitja, me se ne conquisterà la gratitudine sino alla tomba. Infatti so per certo che Miten'ka stesso, solo la settimana scorsa, mentre si trovava in una bettola con delle zigane, ubriaco, ha gridato a squarciagola di non essere degno della sua fidanzata Katen'ka, mentre il fratello Ivan, quello sì che ne è degno. E Katerina Ivanovna stessa ovviamente alla fine non respingerebbe un uomo affascinante come Ivan Fëdoroviè; già adesso tentenna fra i due. Ma come avrà fatto quell'Ivan a incantare tutti voi che lo venerate tanto? E invece lui ride di voi e dice: io me la spasso e mi ingozzo a vostre spese».
«Come fai a sapere tutto questo? Come fai a parlare con tanta sicurezza?», gli domandò bruscamente Alëša, accigliato.
«E tu perché me lo domandi e hai paura della mia risposta? Vuol dire che anche tu riconosci che ho detto la verità».
«Tu non ami Ivan. Ivan non si fa irretire dai soldi».
«Davvero? E la bellezza di Katerina Ivanovna dove la metti? Non contano solo i soldi in questo caso, sebbene sessantamila rubli facciano pur sempre gola».
«Ivan è superiore a queste cose. Ivan non si lascia irretire nemmeno da migliaia di rubli. Non è il denaro, non è il quieto vivere che Ivan cerca.
Egli, forse, cerca il tormento».
«Che altro sogno è mai questo? Ah, voi... nobili!»
«Eh, Miša, egli ha un'anima burrascosa. La sua mente è in catene. Dentro di lui c'è un grande pensiero irrisolto. È uno di quelli che non vuole denaro, ma solo dare una risposta al proprio pensiero».
«Plagio letterario, Alëška. Stai citando il tuo starec. Ma guarda un po', il vostro Ivan vi ha posto un bell'enigma!», gridò Rakitin con palese astio. Aveva persino cambiato faccia e le labbra gli si erano contratte. «Eppure è un enigma stupido, questo, non c'è nulla da indovinare. Basta far funzionare il cervello e si capisce tutto. Il suo articolo è ridicolo e assurdo. Ho sentito la sua stupida teoria poco fa: "Se non c'è immortalità dell'anima, non c'è nemmeno virtù, quindi tutto è permesso". (E tuo fratello Miten'ka, a proposito - ricordi? - ha gridato: "Lo terrò a mente!"). Una teoria seducente per i mascalzoni... Ma sto offendendo... è sciocco... non per i mascalzoni, ma per gli studenti spacconi dall'"irrisolta profondità di pensiero". Un vanitosello, il succo è tutto qui: "Da un canto, non si può non ammettere, dall'altro, non si può non riconoscere!" Tutta la sua teoria non è che una vigliaccata! L'umanità troverà in se stessa la forza di vivere per la virtù anche senza credere nell'immortalità dell'anima! La troverà nell'amore per la libertà, per l'uguaglianza, per la fratellanza...»
Rakitin si era infervorato, non riusciva quasi a contenersi. Ma si bloccò all'improvviso come se si fosse ricordato di qualcosa.
«Be', ora basta», disse con un sorriso ancora più forzato di prima. «Perché ridi? Pensi che io sia un volgare?»
«No, non mi ha neanche sfiorato l'idea che tu possa essere una persona volgare. Tu sei intelligente, ma... lascia stare, è stato sciocco da parte mia sorridere. Capisco che tu possa infervorarti tanto, Miša. Dal tuo trasporto, ho intuito che tu stesso non sei insensibile al fascino di Katerina Ivanovna; io, fratello, lo sospettavo da tempo, ecco perché non hai simpatia per mio fratello Ivan. Sei geloso di lui?»
«E sarei geloso anche dei soldini di lei? Non vuoi aggiungere pure questo?»
«No, non aggiungerò nulla in merito ai soldi, non ho nessuna intenzione di offenderti».
«Se lo hai detto, ci credo, ma che il diavolo vi pigli una volta per tutte, tu e tuo fratello Ivan! Nessuno di voi capisce che si può non avere affatto simpatia per lui anche a prescindere da Katerina Ivanovna. E per che diavolo dovrei volergli bene? Lui stesso si degna di ingiuriarmi. Perché mai non dovrei avere il diritto di ingiuriarlo io?»
«Non ho mai sentito che abbia detto qualcosa su di te, né in bene né in male; non parla mai di te».
«Invece io ho sentito che due giorni fa, a casa di Katerina Ivanovna, mi ha proprio conciato per le feste con i suoi improperi, ecco fino a che punto si è interessato del vostro umile servo. Dopo di che, fratello, chi è il geloso fra noi, questo non lo so proprio! Si è degnato di esprimere la sua idea secondo la quale se non mi dedicherò alla carriera di archimandrita in un futuro molto prossimo e non mi deciderò a prendere i voti, allora andrò di sicuro a Pietroburgo ed entrerò in qualche grossa rivista, sicuramente nel settore della critica, scriverò per una decina d'annetti, e alla fine diventerò proprietario della rivista stessa. Dopo di che, riprenderò la pubblicazione della rivista sotto rinnovata veste, imprimendole sicuramente un indirizzo liberale e ateo, persino con una sfumatura socialisteggiante, anzi, addirittura con una leggera vernice di socialismo, ma sempre con le orecchie all'erta, cioè, in sostanza, dando un colpo al cerchio e uno alla botte e gettando polvere negli occhi agli imbecilli. La fine della mia carriera, secondo l'interpretazione di tuo fratello, sarebbe la seguente: la sfumatura di socialismo non mi impedirà di depositare sul mio conto corrente i soldi degli abbonamenti e, all'occasione, di investirli sotto la guida di qualche ebreuccio, fino al giorno in cui costruirò un grosso stabile a Pietroburgo, vi trasferirò la redazione e darò in affitto i rimanenti piani. Ha persino scelto il luogo della costruzione: presso il ponte Novyj Kamennyj sulla Neva in progettazione a Pietroburgo, quello che unirà la Litejnaja alla Vyborskaja...»
«Eppure, Miša, vedrai che tutto questo si avvererà, dalla prima all'ultima parola!», esclamò ad un tratto Alëša senza riuscire a trattenersi dal ridere allegramente.
«Anche voi vi lasciate andare al sarcasmo, Aleksej Fëdoroviè».
«No, no, sto scherzando, perdonami. Ho tutt'altro per la mente. Permettimi di domandarti una cosa sola: chi avrebbe potuto riferirti questi dettagli e da chi avresti potuto sentirli? Non potevi essere lì anche tu quando lui parlava di te?»
«Io non ero presente, in compenso c'era Dmitrij Fëdoroviè e io l'ho sentito con le mie orecchie dallo stesso Dmitrij Fëdoroviè: cioè, non che lo stesse dicendo a me, ho sentito, senza volerlo s'intende, perché mi trovavo nella camera da letto di Grušen'ka e non sono potuto uscire per tutto il tempo che Dmitrij Fëdoroviè è rimasto nella camera accanto».
«Ah, già, dimenticavo, lei è tua parente...»
«Parente? Quella Grušen'ka mia parente?», gridò all'improvviso Rakitin avvampando tutto. «Ma ti sei bevuto il cervello? Hai qualche rotella fuori posto?»
«Perché? Non siete forse parenti? L'ho sentito dire».
«Dove puoi averlo sentito? No, voi, signori Karamazov, vi date arie da nobili illustri e di antico lignaggio, quando invece tuo padre faceva il buffone alle tavole altrui ed era ammesso in cucina solo per concessione. Io posso essere soltanto il figlio di un pope e un pidocchio in confronto a voi nobili, ma non crediate di potermi offendere con tanta spudorata leggerezza. Anch'io ho la mia dignità, Aleksej Fëdoroviè. Non potrei essere imparentato con Grušen'ka, una donna pubblica, vi prego di comprendere!»
Rakitin era molto irritato.
«Perdonami, per l'amor del cielo, non avevo idea e poi perché la chiami donna pubblica? Lei per caso... è una di quelle?», Alëša arrossì all'improvviso. «Ti ripeto: ho sentito dire che è tua parente. Ti rechi spesso da lei, me lo hai detto tu stesso che non hai una relazione amorosa con lei... Non avrei mai pensato che proprio tu la disprezzassi tanto! Ma lei se lo merita davvero?»
«Potrei avere le mie buone ragioni per farle visita, non sono fatti tuoi. Quanto alla parentela, in men che non si dica il tuo fratellino, o addirittura il tuo paparino, la renderanno parente a te e non a me. Ma ecco che siamo arrivati. Sarà meglio che entri dalla cucina. Ah! Ma che succede qui, che è stato? Ma abbiamo fatto così tardi? Non possono aver finito di pranzare così presto. Oppure i Karamazov ne hanno combinata un'altra delle loro? Sarà andata così. Ecco tuo padre e Ivan Fëdoroviè dietro di lui. Sono scappati via dall'igumeno. Padre Isidor è lì sul terrazzino che gli grida dietro. E anche tuo padre urla e agita le mani, probabilmente impreca. Ecco lì Miusov che se ne va in carrozza, vedi, si sta allontanando. Anche il proprietario Maksimov corre, ma questo è uno scandalo in piena regola; quindi il pranzo non c'è stato! Non avranno mica picchiato l'igumeno? O forse sono stati loro ad essere picchiati? Questa sarebbe bella!...»
Rakitin aveva ragione di lasciarsi andare a simili esclamazioni. Lo scandalo c'era stato per davvero, inaudito e inatteso. Tutto era avvenuto "per un'improvvisa ispirazione".
VIII • Uno scandalo
Mentre Miusov e Ivan Fëdoroviè entravano dall'igumeno, nell'animo di Pëtr Aleksandroviè, uomo fine e di buone maniere, avvenne un rapido processo, a suo modo delicato: egli si vergognò di aver perduto la pazienza. Egli avvertì dentro di sé che, in realtà, quel meschino di Fëdor Pavloviè meritava così poca considerazione da parte sua che egli non avrebbe dovuto perdere il proprio sangue freddo nella cella dello starec e lasciarsi andare come aveva fatto. "Per lo meno, quei monaci lì non hanno nessuna colpa", concluse all'improvviso, giunto sul terrazzino d'ingresso dell'igumeno "e se ci sono persone perbene anche qui, (e padre Nikolaj, l'igumeno, deve essere anche lui di origini nobili) perché non essere gentili, cortesi e affabili con loro? Non mi metterò a discutere, sarò sempre d'accordo con loro, li conquisterò con la gentilezza e... e... alla fine, li informerò che non ho niente a che spartire con quell'Esopo, con quel buffone, con quel Pierrot e che ho preso una cantonata proprio come loro, come tutti loro..."
Decise addirittura di concedere loro, definitivamente, il diritto di taglio nel bosco e di pesca nel fiume (di quali zone si trattasse neanche lui lo sapeva), quel giorno stesso, una volta per tutte, tanto più che quei diritti avevano un valore irrisorio, lasciando cadere così l'azione giudiziaria intentata contro i monaci.
Tutte queste buone intenzioni si consolidarono quando entrarono nella sala da pranzo del padre igumeno. Non si trattava di una sala da pranzo vera e propria, perché il padre igumeno disponeva soltanto di due stanze, anche se molto più spaziose e confortevoli di quelle dello starec. Anche l'arredamento delle stanze non si distingueva per particolare lusso: i mobili erano in cuoio e mogano, secondo la vecchia moda degli anni '20; i pavimenti erano addirittura grezzi; in compenso tutto brillava di pulito, alle finestre c'erano molti fiori pregiati; ma in quel momento il principale lusso di quei locali era rappresentato, naturalmente, dalla tavola magnificamente imbandita, (sempre relativamente parlando): la tovaglia era candida, le stoviglie luccicanti; c'era pane di tre qualità cotto egregiamente, due bottiglie dell'eccellente miele del monastero e una grossa brocca di vetro con il kvas, prodotto nel monastero e rinomato in tutti i dintorni. Di vodka nemmeno l'ombra. Rakitin raccontò in seguito che il pranzo del giorno consisteva di cinque portate: zuppa di storione e pirožki di pesce; pesce in bianco cucinato in modo sopraffino e particolare, polpette di storione, gelato e frutta cotta, per finire kisel' sul tipo del blancmanger. Rakitin aveva fiutato tutte queste buone cose, dal momento che non aveva saputo resistere e aveva sbirciato nella cucina dell'igumeno, dove pure aveva i suoi contatti. Aveva contatti dappertutto e otteneva informazioni dappertutto. Egli era di temperamento irrequieto e invidioso. Era perfettamente consapevole delle proprie spiccate capacità, ma le ingigantiva nervosamente nella sua presunzione. Era sicuro di diventare una personalità nel suo campo, ma Alëša, che gli era molto affezionato, si tormentava per il fatto che il suo amico Rakitin fosse disonesto e non se ne rendesse affatto conto, anzi, si considerasse persona di onestà cristallina, solo perché non avrebbe mai rubato del denaro dimenticato su un tavolo. Sotto questo aspetto nessuno avrebbe potuto influenzarlo, nemmeno Alëša. In quanto persona di basso rango, Rakitin non poteva essere invitato al pranzo; però padre Iosif e padre Paisij erano stati invitati, con loro c'era anche un altro ieromonaco. Essi erano già in attesa nella sala da pranzo dell'igumeno, quando entrarono Pëtr Aleksandroviè, Kalganov e Ivan Fëdoroviè. Anche il proprietario Maksimov aspettava in un cantuccio. Il padre igumeno avanzò verso il centro della stanza per accogliere gli ospiti. Era un vecchio alto, magro ma ancora vigoroso, con capelli neri abbondantemente brizzolati e il viso lungo e grave, da astinente. Egli si inchinò agli ospiti in silenzio e quelli, dal canto loro, questa volta si avvicinarono per ricevere la benedizione. Miusov tentò addirittura di baciargli la mano, ma l'igumeno fece in tempo a ritrarla e il baciamano non ebbe luogo. Invece Ivan Fëdoroviè e Kalganov ricevettero la benedizione con tutti i crismi, vale a dire con il più semplice schiocco di labbra sulla mano, come fa la gente del popolo.
«Dobbiamo chiedere umilmente perdono, reverendissimo padre», esordì Pëtr Aleksandroviè sorridendo affabilmente, ma sempre con un tono grave e deferente, «perdono perché ci presentiamo da soli, senza l'altro ospite, Fëdor Pavloviè, che voi avevate invitato; egli si è visto costretto a declinare l'onore della vostra ospitalità, e non senza motivo. Nella cella del reverendissimo padre Zosima si è lasciato trasportare dalla disgraziata contesa con il figlio e ha pronunciato parole assolutamente fuori luogo... per farla breve... parole assolutamente sconvenienti riguardo a circostanze che, credo», e lanciò uno sguardo agli ieromonaci, «vi siano già note, reverendissimo. Pertanto, conscio della propria colpa e sinceramente pentito, ha provato vergogna e, incapace di superarla, ha chiesto a me e a suo figlio, Ivan Fëdoroviè, di farci testimoni dinanzi a voi del suo sincero rammarico, della sua desolazione, del suo pentimento... Insomma, egli spera e vuole porre riparo a tutto in seguito, ma al momento, implorando la vostra benedizione, vi chiede di dimenticare l'accaduto...»
Miusov tacque. Pronunciate le ultime parole della sua tirata, egli si sentì pienamente soddisfatto di se stesso tanto che nel suo animo non rimase la minima traccia della recente irritazione. Era tornato ad amare l'umanità sinceramente, senza riserve. Dopo averlo ascoltato con aria grave, l'igumeno inclinò leggermente la testa da un lato e replicò: «Mi rammarico sinceramente per l'assente. Può darsi che alla nostra tavola egli avrebbe preso ad amare noi quanto noi lui. Ma vi prego, signori, favorite». Egli si fermò dinanzi a un'icona e cominciò a pregare ad alta voce. Tutti abbassarono rispettosamente il capo, mentre il proprietario Maksimov si mise persino davanti a tutti, giungendo le mani davanti a sé, con particolare devozione.
E fu proprio in quel momento che Fëdor Pavloviè giocò il suo ultimo tiro. Bisogna dire che egli aveva avuto serie intenzioni di tornarsene a casa e aveva seriamente avvertito l'impossibilità di recarsi a pranzo dall'igumeno dopo il suo vergognoso comportamento nella cella dello starec. Non che si vergognasse tanto di se stesso o si ritenesse responsabile dell'accaduto - anzi, forse era vero il contrario - tuttavia si rendeva conto che sarebbe stato sconveniente prendere parte a quel pranzo. Ma gli avevano appena condotto la traballante carrozza al terrazzino d'ingresso della foresteria ed era sul punto di salirci, quando si fermò di colpo. Gli erano tornate in mente le parole che aveva pronunciato nella cella dello starec: "Quando incontro della gente, ho sempre l'impressione di essere il più meschino di tutti e che tutti mi prendano per un buffone, e allora mi metto davvero a fare il buffone di mia iniziativa, come a dire 'tutti voi, dal primo all'ultimo, siete più stupidi e meschini di me'. Allora gli prese la voglia di vendicarsi con tutti per le proprie canagliate. A questo proposito, si ricordò all'improvviso che una volta, in passato, gli avevano domandato: 'Per quale motivo odiate tanto quel tale?' E lui allora aveva risposto in un accesso della sua spudoratezza buffonesca: 'Ecco perché: è vero che non mi ha fatto nulla, ma io gli ho combinato una canagliata vergognosissima e, subito dopo avergliela combinata, ho cominciato ad odiarlo per questo'". Ripensandoci in quel momento, egli sorrise tranquillamente, perfidamente e rimase un attimo sovrappensiero. Gli occhi gli scintillarono e le labbra ebbero persino un fremito. "Una volta cominciato, tanto vale finire", decise ad un tratto. La sensazione più intima che provava in quel momento potrebbe essere espressa con le seguenti parole: "Dal momento che, a questo punto, non c'è verso di riabilitarmi, sputerò loro in faccia sino all'impudenza, solo per dimostrare che non mi vergogno dinanzi a loro, non per altro!" Ordinò al cocchiere di aspettare e si diresse di gran carriera al monastero, dritto dall'igumeno. Non sapeva ancora che cosa avrebbe fatto, ma era conscio di non dominarsi più e che sarebbe bastato un nonnulla per condurlo, in men che non si dica, al limite estremo di qualche oscenità, del resto solo di un'oscenità, certo non di un delitto o di altri colpi di testa per i quali avrebbe potuto incorrere in sanzioni penali. In tali casi, egli era sempre molto abile nell'evitare di oltrepassare il limite, tanto che, a volte, si meravigliava di se stesso. Fece la sua comparsa nella sala da pranzo dell'igumeno nello stesso istante in cui, terminata la preghiera, tutti si dirigevano verso la tavola. Fermatosi sulla soglia, lanciò un'occhiata all'intera compagnia e scoppiò in una risatina prolungata, insolente, cattiva, guardando sfacciatamente tutti negli occhi.
«E loro che pensavano che me ne fossi andato, invece eccomi qui!», urlò a tutta la sala.
Per un attimo tutti lo fissarono, in silenzio, e immediatamente tutti ebbero la sensazione che di lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di ripugnante, grottesco, decisamente scandaloso. Pëtr Aleksandroviè passò in un batter d'occhio dal più favorevole al più feroce degli stati d'animo. Tutto il malanimo che si era spento e placato nel suo cuore risorse e s'impennò in un baleno. «No, questo poi non posso tollerarlo!», gridò. «Non posso tollerarlo affatto e... per niente al mondo!»
Il sangue gli affluì alla testa. Egli farfugliò persino, ma non era quello il momento di pensare alla forma, e afferrò il suo cappello.
«Che cosa non può fare?», urlò Fëdor Pavloviè «Cosa "non può affatto e per niente al mondo"? Reverendo, posso entrare o no? Mi accogliete come vostro commensale?»
«Siate il benvenuto dal profondo del cuore», replicò l'igumeno.
«Signori! Mi permetto di chiedervi», soggiunse ad un tratto, «dal profondo dell'anima, di abbandonare i vostri dissapori per riunirvi nell'amore e nell'armonia familiare, rivolgendo una preghiera al Signore alla nostra umile mensa...»
«No, no, non è possibile», strillò Pëtr Aleksandroviè, fuori di sé.
«E se non è possibile per Pëtr Aleksandroviè, allora non è possibile neppure per me e non mi fermerò. È per questo che sono venuto. Sarò sempre dov'è Pëtr Aleksandroviè, adesso. Pëtr Aleksandroviè: se ve ne andrete, io vi seguirò, se resterete, resterò anche io. Parlando dell'armonia familiare lo avete indispettito ancora di più, padre igumeno: egli non riconosce di essere mio parente! Non è vero, von Sohn? Ecco che c'è anche von Sohn. Salve, von Sohn».
«Dite... a me?», borbottò il proprietario Maksimov sbalordito. «Proprio a te», gridò Fëdor Pavloviè. «A chi se no? Mica il padre igumeno potrebbe essere von Sohn!»
«Ma neanche io sono von Sohn, io sono Maksimov».
«No, tu sei von Sohn. Reverendo, lo sapete chi era von Sohn? Ci fu un processo penale: lo avevano ammazzato in un luogo di perdizione - credo che li chiamiate così quei posti voi - lo avevano ammazzato e derubato e, malgrado la sua veneranda età, lo avevano ficcato in una cassa, che poi avevano sigillato perbenino e spedito da Pietroburgo a Mosca col vagone merci, con il suo bravo numeretto. E mentre lo inchiodavano nella cassa, le donne di malaffare ballavano, cantavano e suonavano il gusli, volevo dire il pianoforte. Ecco: quello li è von Sohn in carne ed ossa. È resuscitato dal regno dei morti, non è vero, von Sohn?»
«Ma che dite? Come può essere?», si levarono in coro le voci degli ieromonaci.
«Andiamo!», gridò Pëtr Aleksandroviè rivolto a Kalganov.
«No, per favore!», lo interruppe con voce stridula Fëdor Pavloviè avanzando ancora di un passo nella stanza. «Permettete che io termini. Là nella cella mi avete denigrato perché mi ero comportato in modo irrispettoso e solo per il fatto che avevo nominato i ghiozzi. Pëtr Aleksandroviè Miusov, mio parente, ama che nelle parole ci sia plus de noblesse que de sincerité, invece io preferisco che nelle mie parole ci sia plus de sincerité que de noblesse, io me ne frego della noblesse! Non è così, von Sohn? Permettete, padre igumeno, sebbene io sia un buffone e faccia la parte del buffone, tuttavia sono un paladino dell'onore e voglio dire la mia. Sì, sono un paladino dell'onore e in Pëtr Aleksandroviè c'è solo amor proprio ferito e niente di più. Io sono venuto qui poco fa forse proprio per dare un'occhiata e dire la mia. Ho qui mio figlio Aleksej che sta per prendere i voti, sono suo padre e mi preoccupo del suo futuro ed è mio dovere farlo. Mentre recitavo la mia parte, ho ascoltato tutto e ho osservato zitto zitto, e adesso voglio recitarvi l'ultimo atto dello spettacolo. Che cosa avviene da noi? Da noi, chi è caduto una volta, rimane a terra per sempre. Che non sia più così! Io desidero alzarmi. Padri santi, sono indignato con voi. La confessione è un sublime sacramento davanti al quale anch'io mi riempio di venerazione e sono pronto a prostrarmi, ma lì in quella cella tutti si mettono in ginocchio e si confessano ad alta voce. Ma è forse permesso confessarsi ad alta voce? I santi padri hanno istituito la confessione auricolare, solo così la vostra confessione può essere considerata un sacramento, e questo da tempi immemorabili. Altrimenti come faccio a spiegargli davanti a tutti che io, per esempio, ho fatto questo e quest'altro... capite che cosa intendo con questo e quest'altro? A volte è persino sconveniente riferire certe cose. Quello sì che sarebbe uno scandalo! No, padri, a seguire voi si scivola nell'eresia... Alla prima occasione scriverò al Sinodo e mi riporterò a casa mio figlio Alëša...»
Qui c'è una cosa da notare. Fëdor Pavloviè aveva sentito il suono di certe campane. Un tempo erano state messe in giro certe voci malevole, giunte persino all'orecchio del metropolita (non solo riguardo al nostro, ma anche in merito ad altri monasteri dove vige lo starèestvo), secondo le quali gli starcy erano tenuti troppo in considerazione, persino a detrimento dell'autorità dell'igumeno; fra l'altro si diceva che gli starcy abusassero del sacramento della confessione e così via. Erano accuse infondate che si sgonfiarono da sole, sia da noi sia negli altri monasteri. Ma lo stupido demonio che aveva ghermito Fëdor Pavloviè e adesso lo conduceva sempre più giù, sulla scia dei suoi stessi nervi verso, un abisso di ignominia, gli aveva suggerito quella accusa sopita da tempo, della quale lo stesso Fëdor Pavloviè non capiva un'acca. Non aveva nemmeno saputo esprimerla correttamente, tanto più che quella volta nessuno si era messo in ginocchio nella cella dello starec, né si era confessato ad alta voce, quindi Fëdor Pavloviè non aveva avuto assolutamente modo di vedere niente di simile con i propri occhi, e parlava solo sulla base di vecchie voci e pettegolezzi che si era ricordato alla bell'e meglio. Ma una volta pronunciata questa sciocchezza, egli si accorse di aver raccontato una grossa fandonia e subito fu colto dal desiderio di dimostrare ai suoi ascoltatori, e soprattutto a se stesso, di non aver affatto raccontato una fandonia. E, sebbene sapesse alla perfezione che con ogni parola in più avrebbe solo reso quella fandonia ancora più assurda di quello che già era, non riuscì in alcun modo a trattenersi e si lanciò a capofitto.
«Che bassezza!», esclamò Pëtr Aleksandroviè.
«Perdonatemi!», disse ad un tratto l'igumeno. «In tempi antichi è stato detto: "E molti cominciarono a parlare contro di me e a pronunciare parole cattive su di me. Ma sentendo tutto quello, dissi a me stesso: 'questa è la medicina del Signore, lui l'ha inviata per curare la mia anima vanagloriosa' ". E per questo anche noi vi ringraziamo umilmente, ospite prezioso!»
E fece un profondo inchino a Fëdor Pavloviè.
«Bla bla bla! Il solito bigottismo e le solite frasi trite e ritrite! Frasi e gesti triti e ritriti! Le solite menzogne e la solita formalità delle genuflessioni fino ai piedi! Li conosciamo questi inchini! "Un bacio sulle labbra e un pugnale nel cuore", come nei Masnadieri di Schiller. Non amo le falsità, padri, voglio la verità! Ma la verità non è nei ghiozzi, e questo io l'ho già dichiarato! Padri monaci, perché osservate il digiuno? Perché mai vi aspettate una ricompensa in cielo per questo? Per un premio simile andrei anche io a digiunare! No, monaco santo, sii virtuoso nella vita, fa' del bene alla comunità, non chiuderti nel monastero dove trovi la pappa bell'e pronta, non aspettarti un premio lassù, ecco: questo sarebbe un po' più difficile. Anche io, padre igumeno, so parlare come si deve. Che cosa avete preparato lì?», e si avvicinò al tavolo. «Porto Vecchio Factori, Médoc imbottigliato dai fratelli Eliseev, suvvia, padri! Altro che ghiozzi! Vedi che po' po' di bottigliette hanno messo in mostra i padri, eh, eh, eh! E chi ha procurato tutto questo? È stato il contadino russo, il lavoratore che porta qui il suo soldino guadagnato con le sue mani callose, strappandolo alla famiglia e ai bisogni dello stato! Voi, padri santi, spremete il popolo!» «È davvero indegno da parte vostra», disse padre Iosif. Padre Paisij taceva ostinatamente. Miusov si lanciò per uscire dalla stanza seguito da Kalganov.
«Be', padri, anche io seguirò Pëtr Aleksandroviè! Non verrò mai più qui da voi, anche se me lo chiederete in ginocchio, non verrò. Vi ho mandato mille rubletti, così avete aguzzato gli occhietti, eh, eh, eh! Ma non ne manderò altri. Mi vendicherò per la mia passata gioventù, per tutte le umiliazioni subite!», sbatté il pugno sul tavolo in un accesso di finta commozione. «Ha avuto un ruolo importante questo monasterucolo nella mia vita! Ho versato molte lacrime amare a causa di esso! Voi avete aizzato mia moglie, la klikuša, contro di me. Mi avete maledetto in sette concili, l'avete strombazzato ai quattro venti! Basta, padri, questo è il secolo del liberalismo, il secolo dei battelli a vapore e della ferrovia. Non avrete più nulla da me, né mille né cento rubli e neanche cento copeche!» Ancora una cosa da notare. Il nostro monastero non aveva giocato alcun ruolo nella sua vita ed egli non aveva mai versato lacrime amare a causa di esso. Eppure si era a tal punto lasciato trasportare dalle sue lacrime false che, per un istante, a momenti ci aveva creduto lui stesso, fu persino sul punto di piangere per la commozione; ma in quello stesso istante sentì che era ora di fare marcia indietro. Udita la perfida calunnia, l'igumeno chinò la testa e disse con lo stesso tono grave di prima: «È scritto: "Sopporta con circospezione e gioia l'infamia che senza colpa ti viene gettata addosso, fa' che essa non provochi in te turbamento e non portare odio a colui che ti ha infamato". E così faremo anche noi».
«Bla bla bla, che arzigogoli! Sempre giù coi vostri sermoni! Arzigogolate pure, padri, tanto io me ne vado. E porterò via di qui mio figlio Aleksej per sempre, grazie alla mia autorità di padre. Ivan Fëdoroviè, rispettosissimo figlio mio, permettete che vi ordini di seguirmi! Von Sohn, che rimani a fare qui? Vieni con me in città. Da me si sta allegri. È solo a una versta di distanza. Invece di quell'olio quaresimale lì, ti offrirò un maialino da latte con la kaša, pranzeremo, metterò in tavola del cognac e poi un liquorino, ho della mamurovka... Ehi, von Sohn, non ti lasciar sfuggire una buona occasione!»
E uscì, gridando e gesticolando. Ecco: proprio in quel momento Rakitin lo aveva visto uscire e lo aveva indicato ad Alëša.
«Aleksej!», gli gridò il padre da lontano non appena lo scorse. «Oggi stesso ti trasferirai da me, portati il cuscino e il materasso, che non rimanga traccia di te in questo posto».
Alëša rimase come impietrito ad osservare attentamente la scena, in silenzio. Nel frattempo Fëdor Pavloviè salì in carrozza e dietro di lui cominciò a salire Ivan Fëdoroviè, cupo e silenzioso, senza nemmeno voltarsi a salutare Alëša. Ma in quel momento, un'altra incredibile scena di grottesca buffoneria dette il tocco finale all'episodio. All'improvviso, accanto al montatoio della carrozza, comparve il proprietario Maksimov. Era tutto affannato dalla corsa che aveva fatto per non tardare. Rakitin e Alëša lo avevano visto correre. Andava così di fretta che aveva messo il piede sul predellino sul quale Ivan Fëdoroviè ancora poggiava la gamba sinistra e, aggrappatosi alla fiancata, tentava di balzare dentro la vettura. «Anch'io, anch'io sono dei vostri!», gridava, continuando a saltellare ed emettendo una risatina fitta e allegra, con il viso estatico e pronto a tutto. «Prendete su anche me!»
«L'avevo detto io», gridò Fëdor Pavloviè con aria di trionfo, «che costui era von Sohn! È proprio il vero von Sohn resuscitato dal regno dei morti! Come hai fatto a scappare di lì? Che cosa hai vonsohnato laggiù, e come hai fatto ad abbandonare il pranzo? Bisogna avere proprio una bella faccia di bronzo! Io ho la faccia tosta, ma mi meraviglio della tua, fratello! Salta su, salta in fretta! Lascialo entrare, Vanja, ci divertiremo. Si sistemerà qui ai nostri piedi in qualche modo. Ti adatterai, vero, von Sohn? Oppure lo mettiamo a cassetta insieme al cocchiere?... Salta a cassetta, von Sohn!...»
Ma Ivan Fëdoroviè, che si era già seduto al suo posto, senza dire una parola, con tutta la forza che aveva, dette uno spintone nel petto a Maksimov e quello fece un volo all'indietro di due metri. Ci mancò poco che cadesse per terra.
«Andiamo!», gridò con rabbia Ivan Fëdoroviè al cocchiere.
«Ma che ti prende? Che ti prende? Perché lo tratti così?», protestò Fëdor Pavloviè, ma la carrozza era già in movimento. Ivan Fëdoroviè non rispose.
«Ma guarda un po' che bel tipo!», disse ancora Fëdor Pavloviè dopo due minuti di silenzio, guardando in tralice il figlio. «Sei stato tu a combinare questa storia del monastero, tu hai aizzato, tu hai approvato, perché mai sei cosi irritato adesso?»
«Adesso basta macinare stupidaggini, riposatevi almeno un po'!», tagliò corto severamente Ivan Fëdoroviè.
Fëdor Pavloviè tacque ancora per un paio di minuti.
«Ci vorrebbe proprio un bel cognacchino adesso», commentò sentenziosamente. Ma Ivan Fëdoroviè non rispose.
«Quando arriviamo a casa, berrai anche tu».
Ivan Fëdoroviè continuava a tacere.
Fëdor Pavloviè aspettò ancora un paio di minuti.
«Comunque, porterò Alëška via dal monastero, anche se questo non vi farà molto piacere, rispettosissimo Karl von Moor».
Ivan Fëdoroviè scrollò le spalle con aria sprezzante e, voltatosi dall'altra parte, si mise a guardare la strada. Non aprirono bocca per tutto il tragitto fino a casa.
LIBRO TERZO • I LUSSURIOSI
I • Nelle stanze della servitù
La casa di Fëdor Pavloviè Karamazov sorgeva piuttosto distante dal centro della città, anche se non proprio in periferia. Era una casa vecchia, ma piacevole a vedersi: ad un piano, con un attico, le pareti dipinte di un colore grigiognolo e il tetto rosso di ferro. Era spaziosa e confortevole e poteva reggere ancora molti anni. Aveva una miriade di sgabuzzini e nascondigli di vario genere e scalette a sorpresa. Era infestata di ratti, ma Fëdor Pavloviè non era molto contrariato per questo: "Se non altro si sente meno la noia, quando la sera si rimane soli soletti". Infatti era sua abitudine mandare a dormire i servi nella dipendenza e chiudersi a chiave da solo in casa per tutta la notte. La dipendenza si trovava in cortile, era ampia e solida. Fëdor Pavloviè aveva disposto che essa avesse anche una cucina, sebbene in casa ce ne fosse già una; egli non amava l'odore della cucina e, sia d'inverno sia d'estate, gli portavano i cibi passando per il cortile. La casa era stata concepita per una famiglia numerosa, avrebbe potuto ospitare il quintuplo della gente che vi abitava, fra padroni e servitù. Ma al momento del nostro racconto vi abitavano soltanto Fëdor Pavloviè e Ivan Fëdoroviè, mentre nella dipendenza della servitù vivevano solo tre persone: il vecchio Grigorij, la vecchia Marfa, sua moglie e il servitore Smerdjakov, che era ancora un giovanotto. Dobbiamo parlare un po' più dettagliatamente di queste tre persone di servizio. Del vecchio Grigorij Vasil'eviè Kutuzov, del resto, abbiamo già detto abbastanza. Era un uomo fermo e inflessibile, che perseguiva il suo scopo tenacemente, andando dritto per la sua strada, bastava che quello scopo, per qualche ragione, a volte sorprendentemente priva di logica, apparisse ai suoi occhi nella veste di verità assoluta. In generale, era persona onesta e incorruttibile. Sua moglie, Marfa Ignat'evna, nonostante si fosse incondizionatamente piegata alla volontà del marito per tutta la vita, aveva terribilmente insistito con lui per lasciare Fëdor Pavloviè subito dopo l'emancipazione dei servi della gleba, andare a Mosca e intraprendere lì una qualche piccola attività commerciale (avevano messo da parte i loro bei soldini), ma Grigorij aveva deciso allora, e una volta per tutte, che la donnetta vaneggiava, "perché tutte le donne sono disoneste", e che non dovevano abbandonare il loro vecchio padrone, comunque egli fosse, "perché quello, al presente, era il loro dovere".
«Lo capisci che cos'è il dovere?», aveva domandato a Marfa
Ignat'evna.
«Il dovere lo capisco, Grigorij Vasil'eviè, ma qual è il dovere che ci costringe a restare qui, questo proprio non lo capisco», rispose duramente Marfa Ignat'evna.
«E tu non capire, tanto sarà così lo stesso. D'ora innanzi tieni la bocca chiusa».
E così fu: i due non se ne andarono e Fëdor Pavloviè fissò per loro una retribuzione modesta, ma che pagava puntualmente. Grigorij sapeva, inoltre, di avere un'influenza indiscutibile sul padrone. Ne era consapevole ed era proprio così: Fëdor Pavloviè era un buffone astuto e ostinato, eppure, sebbene avesse una volontà ferrea "in certe cose della vita", come diceva lui stesso, in altre "cose della vita", con sua somma meraviglia, si dimostrava molto debole. Egli conosceva le proprie debolezze, le conosceva e ne aveva paura. In alcune occasioni della vita bisognava tenere gli occhi aperti e in tali circostanze era duro non avere una persona affidabile a fianco, e Grigorij era il più affidabile degli uomini. Nel corso della sua vita erano capitate persino molte occasioni in cui Fëdor Pavloviè si era trovato sul punto di prenderle, e di prenderle di santa ragione, e Grigorij gli aveva sempre dato una mano, pur non risparmiandogli poi la sua ramanzina. Ma le busse soltanto non avrebbero spaventato Fëdor Pavloviè: c'erano occasioni più serie, anche molto sottili e complicate, nelle quali Fëdor Pavloviè stesso non sarebbe stato capace di definire quella straordinaria esigenza di avere accanto una persona fedele e devota, che sopraggiungeva in lui a volte all'improvviso, repentinamente e inspiegabilmente. Erano circostanze quasi morbose, queste: il dissolutissimo Fëdor Pavloviè, spesso crudele nella sua lussuria al pari di un cattivo insetto, a volte veniva sopraffatto, in momenti di ubriachezza, da un terrore spirituale e da uno scuotimento morale che si ripercuoteva quasi fisicamente nella sua anima. "È come se in quei momenti l'anima mi tremasse nella gola ", diceva a volte. E proprio in quei momenti gli piaceva sapere che lì accanto, nelle vicinanze, non proprio nella stessa stanza, ma nella dipendenza, ci fosse un uomo così devoto, fermo, completamente diverso da lui, non dissoluto, il quale, sebbene assistesse a quegli eccessi e fosse al corrente di tutti i segreti, per devozione gli lasciasse passare tutto questo, non lo contrastasse e, soprattutto, non lo biasimasse e non lo minacciasse in alcun modo, né in questa vita né nell'altra e, in caso di bisogno, lo difendesse - ma da chi? Da qualche essere sconosciuto, ma terribile e pericoloso. Ciò di cui aveva bisogno era che ci fosse assolutamente un altro, una persona amica da vecchia data, e che nei momenti di crisi lo potesse chiamare solo per vederne il viso, magari per scambiare quattro chiacchiere, anche su argomenti futili; se il servitore non era arrabbiato, egli sentiva un certo sollievo nel cuore, e se invece era arrabbiato si sentiva ancora più triste. Accadeva addirittura (ma molto di rado) che Fëdor Pavloviè si recasse di notte nella dipendenza per svegliare Grigorij e chiedergli di andare da lui un minutino. Quello ci andava, e Fëdor Pavloviè si metteva a discorrere delle cose più banali e ben presto lo congedava, a volte persino con qualche battuta scherzosa e qualche burla; poi, una volta rimasto solo, dopo averci sputato su, si coricava e si addormentava del sonno del giusto. A Fëdor Pavloviè era accaduto qualcosa di simile anche dopo l'arrivo di Alëša. Alëša gli "aveva trafitto il cuore" per il fatto che "viveva con lui, vedeva ogni cosa e non giudicava mai". Inoltre egli portava con sé una cosa che suo padre non aveva mai visto prima: l'assenza assoluta di disprezzo nei confronti di un vecchio come lui e, al contrario, una costante dolcezza e un affetto perfettamente spontaneo e sincero verso il padre, che se lo meritava così poco. Tutto ciò era stato una sorpresa assoluta per quel vecchio donnaiolo privo di attaccamento alla famiglia, un'esperienza inattesa per un uomo che fino a quel momento aveva amato solo il "luridume". Quando Alëša andò via, egli confessò a se stesso di aver capito qualcosa che fino a quel momento non aveva voluto capire.
Ho già avuto modo di dire, all'inizio del mio racconto, che Grigorij aveva detestato Adelaida Ivanovna, prima consorte di Fëdor Pavloviè e madre del suo primogenito, Dmitrij Fëdoroviè, mentre aveva preso le difese della seconda consorte, la klikuša, Sof'ja Ivanovna, contro il suo stesso padrone e contro tutti quelli a cui veniva in mente di dire sul suo conto parole cattive o avventate. La simpatia verso quell'infelice si era trasformata in lui in una specie di sacra devozione, tanto che, a distanza di vent'anni dalla sua morte, egli non avrebbe tollerato che chicchessia osasse anche solo alludere a lei in maniera irriverente e avrebbe senz'altro risposto per le rime all'offensore. All'apparenza Grigorij era un uomo freddo e grave, taciturno, un tipo che soppesava accuratamente le parole, senza avventatezza. Non era possibile capire così, a una prima occhiata, se egli avesse dell'affetto o meno per quella moglie tanto sottomessa, ubbidiente, ma in realtà le voleva davvero un gran bene e lei questo lo capiva. Marfa Ignat'evna non solo non era una donna stupida, ma era persino più intelligente di suo marito, o almeno più assennata nelle faccende quotidiane; comunque, si era sottomessa a lui con rassegnazione e umiltà, sin dall'inizio del loro matrimonio, e lo rispettava incondizionatamente per la sua autorità spirituale. Va notato che entrambi, nel corso di tutta la loro vita, si erano parlati pochissimo e sempre di cose strettamente necessarie e quotidiane. Il grave e maestoso Grigorij ponderava sempre da solo tutte le proprie faccende e i propri grattacapi, tanto che Marfa Ignat'evna aveva capito da tempo, e una volta per tutte, che egli non aveva affatto bisogno dei suoi consigli. Ella si accorgeva che il marito apprezzava il suo silenzio e lo prendeva come un segno di buon senso da parte sua. Picchiarla, non l'aveva mai picchiata, fatta eccezione per una sola volta, ma anche quella solo leggermente. Un giorno, durante il primo anno di matrimonio di Adelaida Ivanovna e Fëdor Pavloviè, le ragazze e le donne contadine del villaggio, ancora soggette a quell'epoca al regime di servitù feudale, si erano riunite nel cortile padronale per cantare e danzare. Avevano intonato la canzone "Nei prati" e ad un tratto Marfa Ignat'evna, che allora era ancora giovane, balzò davanti al coro e eseguì la "russa" in un modo particolare, non alla campagnola come le altre contadine, ma come era abituata a ballarla quando stava a servizio dai ricchi Miusov, nel teatro privato dei proprietari, dove gli attori imparavano a danzare sotto la guida di un maestro di ballo venuto da Mosca. Grigorij era presente all'esibizione della moglie e quando furono tornati nella loro izba, un'ora più tardi, le diede una bella lezione tirandola un po' per i capelli. Ma le botte finirono lì: non la picchiò mai più. Marfa, dal canto suo, fece voto di non ballare mai più in vita sua.
Dio non aveva concesso loro dei figli, avevano avuto solo un piccino, ma era morto. Grigorij amava i bambini, si vedeva, non lo nascondeva: cioè, non si vergognava a dimostrarlo. Aveva preso sotto le proprie cure Dmitrij Fëdoroviè, quando Adelaida Ivanovna era scappata e il piccino aveva solo tre anni, e se n'era occupato quasi per un anno intero: con le proprie mani lo pettinava con il pettinino, con le proprie mani gli faceva il bagnetto nella vasca da bucato. Poi si prese cura anche di Ivan Fëdoroviè e di Alëša, e per questo si guadagnò pure un bel ceffone; ma di tutto questo abbiamo già avuto modo di parlare. Il suo figlioletto gli donò unicamente la gioia della speranza durante la gravidanza di Marfa Ignat'evna. Non appena il piccino fu nato, il suo cuore fu sopraffatto dal dolore e dall'orrore. Il fatto era che il piccino era nato con sei dita. Grigorij fu così colpito nel vedere questo che non solo non disse una parola sino al giorno del battesimo, ma se ne andava di proposito in giardino per starsene per conto proprio. Era primavera, e per tre giorni interi vangò l'orto. Per il terzo giorno era fissato il battesimo del piccino; Grigorij nel frattempo aveva preso una decisione. Entrando nell'izba dove erano convenuti il clero della parrocchia e gli ospiti, ed era venuto persino Fëdor Pavloviè in persona in veste di padrino, egli dichiarò all'improvviso che il bambino "non doveva assolutamente essere battezzato": non alzò la voce, non si diffuse in spiegazioni, pronunciò controvoglia una parola dietro l'altra, limitandosi a fissare ottusamente il prete mentre parlava.
«E perché mai?», s'informò il prete in tono di allegra sorpresa.
«Perché è... un drago... », borbottò Grigorij. «Un drago, che drago?»
Grigorij rimase per un po' in silenzio.
«È avvenuta una confusione di natura...», borbottò in modo indistinto, ma molto fermo ed evidentemente senza alcuna voglia di aggiungere altro.
Quelli scoppiarono a ridere e naturalmente il povero piccino venne battezzato. Grigorij pregò con fervore accanto al fonte battesimale, ma la sua opinione sul neonato non cambiò. Del resto, non interferiva in nessun modo: anzi, nelle due settimane di vita del bimbo malato, egli non gli dette neppure un'occhiata, cercava di non notare la sua presenza e trascorreva la maggior parte del tempo fuori di casa. Ma quando il bambino morì d'afta due settimane più tardi, fu lui stesso a comporre il piccino nella sua piccola bara e lo guardava tutto addolorato e, mentre coprivano la sua piccola fossa poco profonda, egli cadde in ginocchio e si prostrò sino a terra. Da quel giorno, per molti anni, non menzionò mai il suo bambino, e neanche Marfa Ignat'evna parlava mai del figlioletto in sua presenza, e quando le capitava di parlare con qualcuno del suo "piccino", lo faceva sussurrando anche se Grigorij Vasil'eviè non era presente. Marfa Ignat'evna aveva notato che, dopo la morte del bambino, egli aveva cominciato ad occuparsi in modo particolare di "cose religiose": leggeva i Èet'i-Minei, se ne stava per lo più in silenzio, da solo, e ogni volta inforcava i suoi grossi occhiali tondi, con la montatura d'argento. Raramente leggeva ad alta voce, fatta eccezione, forse, per il periodo della Quaresima. Prediligeva il libro di Giobbe e da qualche parte si era procurato una raccolta dei detti e dei sermoni del "nostro timorato padre Isacco di Siro", che leggeva con tenacia da anni senza capirci quasi nulla, ma forse proprio per questo lo apprezzava e amava ancora di più. Di recente aveva cominciato a dare ascolto con attenzione alla dottrina dei Flagellanti, con i quali aveva avuto occasione di entrare in contatto. Era stato visibilmente colpito da loro, anche se non giudicava ben fatto convertirsi a una nuova fede. La sua dimestichezza con le "cose religiose" aveva conferito alla sua fisionomia un'aria ancora più grave.
Egli, forse, era incline al misticismo. Ma la nascita di quel bambino con sei dita e la sua morte, quasi a farlo apposta, coincisero con un altro fatto singolare, molto strano e inatteso, che lasciò nella sua anima un "marchio", come ebbe ad esprimersi una volta in seguito. Accadde che proprio la notte successiva alla sepoltura del piccino dalle sei dita, Marfa Ignat'evna, fu svegliata da un rumore simile al pianto di un neonato. Si spaventò e svegliò il marito. Quello si mise in ascolto e disse che gli sembrava piuttosto che qualcuno si stesse lamentando, "sembrerebbe una donna". Si alzò, si vestì; era una sera di maggio abbastanza mite. Uscito sul terrazzino, sentì distintamente che i lamenti provenivano dal giardino. Ma il giardino era stato chiuso a chiave per la notte dalla parte del cortile e non c'era altro modo di entrarvi, dal momento che esso era cinto tutt'intorno da uno steccato alto e solido. Grigorij rientrò in casa, accese una lanterna, prese la chiave del giardino e, senza badare alle paure isteriche della moglie, ancora convinta di sentire il pianto di un bambino, anzi, sicuramente, del suo bambino che piangeva e la chiamava, si recò in silenzio nel giardino. Lì si accorse chiaramente che i gemiti provenivano dalla casetta del bagno situata nel giardino, poco distante dalla porticina, e che a lamentarsi era proprio una donna. Aprì la porta del bagno e vide uno spettacolo che lo lasciò di stucco: una mentecatta della città, una che vagabondava per strada ed era conosciuta da tutti in città con il soprannome di Lizaveta Smerdjascaja, si era rifugiata nella loro casetta da bagno e aveva appena dato alla luce un bambino. Il bimbo giaceva accanto a lei ed ella stava morendo accanto a lui. Non disse nulla semplicemente perché non aveva mai saputo parlare. Ma la sua storia richiede una particolare spiegazione.
II • Lizaveta Smerdjašèaja
C'era qui una circostanza particolare che scosse profondamente
Grigorij e rafforzò definitivamente in lui un vecchio sospetto sgradevole e ripugnante. Questa Lizaveta Smerdjascaja era una ragazzetta di bassissima statura, "un esserino sul metro e mezzo", come dicevano commosse di lei, dopo la sua morte, molte vecchiette devote della nostra cittadina. Il suo viso da ventenne, florido, ampio e colorito, aveva un'espressione completamente idiota; anche lo sguardo dei suoi occhi era fisso e sgradevole, sebbene mite. Per tutta la vita aveva sempre vagabondato scalza, sia d'inverno sia d'estate, con indosso soltanto una camiciola di canapa. I suoi capelli scuri, quasi neri, straordinariamente folti, arricciati come quelli di un montone, le spuntavano sulla testa come una specie di enorme cappello. Inoltre erano sempre impiastricciati di terra e fango e pieni di foglioline, scheggette, trucioli appiccicati, in quanto ella dormiva sempre per terra, in mezzo al fango. Suo padre Il'ja, era un senzatetto, un borghesuccio caduto in rovina e pieno di acciacchi, fortemente dedito all'alcool, che viveva ormai da molti anni con mansioni di operaio presso alcuni padroni agiati, anche loro borghesi delle nostre parti. La madre di Lizaveta era morta da tempo. Il'ja, abbrutito e sempre malaticcio, picchiava Lizaveta in maniera disumana tutte le volte che lei tornava a casa. Ma lei ci tornava di rado perché campava grazie alla carità di tutti gli abitanti della città, come una povera creatura mentecatta e cara a Dio. Sia i padroni di Il'ja, sia Il'ja stesso e persino molti cittadini compassionevoli, in prevalenza mercanti e mercantesse, avevano provato più di una volta a far indossare a Lizaveta qualcosa di più decente che non fosse quella sua striminzita camiciola, e d'inverno le mettevano indosso un pellicciotto di montone e ai piedi degli stivaletti; lei di solito si lasciava vestire senza protestare, ma poi se ne andava da qualche parte, per lo più sul sagrato della chiesa, e puntualmente si toglieva tutto quello che le avevano donato - fosse il fazzoletto, la gonna, il pellicciotto, gli stivaletti - e lasciava tutto lì e se ne andava scalza e con la sola camiciola indosso, come prima. Una volta accadde che un nuovo governatore del nostro governatorato, facendo un giro d'ispezione nella nostra città, quando vide Lizaveta si sentì molto offeso nei suoi sentimenti migliori e, sebbene si rendesse conto che era una mentecatta come gli avevano riferito, tuttavia fece notare che una giovane donna che andasse in giro con la sola camiciola indosso violava ogni norma di decenza e che perciò, da quel momento in poi, non doveva più ripetersi una cosa simile. Ma il governatore andò via e Lizaveta fu lasciata così com'era. Poi suo padre morì e per questo ella diventò ancora più cara a tutte le persone compassionevoli della città, in quanto era rimasta orfana. In realtà sembrava che tutti le volessero bene, non capitava nemmeno che i ragazzini la prendessero in giro o la offendessero, e i ragazzini da noi, soprattutto quelli che vanno a scuola, sono una masnada di dispettosi. Quando entrava in casa di sconosciuti nessuno la cacciava, al contrario, la coccolavano tutti e le davano un soldino. Quando le davano un soldino, lei andava immediatamente ad infilarlo nella cassetta per l'elemosina delle chiese o delle carceri. Quando al mercato le regalavano una ciambellina o una pagnottella, lei immancabilmente la regalava al primo bambino che incontrava, oppure fermava qualcuna delle nostre signore più ricche e la regalava a lei, e le signore accettavano persino con gioia. Quanto a lei, non si cibava che di pane nero e acqua. Quando entrava e si fermava in qualche ricca bottega, dove c'era merce preziosa e denaro in giro, i padroni non la controllavano mai, perché sapevano che anche se avessero preso e dimenticato davanti a lei migliaia di rubli, Lizaveta non avrebbe sottratto neanche una copeca. In chiesa andava di rado, dormiva nei sagrati delle chiese oppure in qualche orto, dove si intrufolava scavalcando la siepe (da noi ci sono ancora molte siepi al posto degli steccati). A casa, cioè nella casa di quei padroni presso i quali aveva vissuto il suo defunto padre, si faceva vedere su per giù una volta alla settimana, e d'inverno anche ogni giorno, ma soltanto per la notte e dormiva nell'andito oppure nella stalla. Ci si meravigliava che riuscisse a sopportare una simile vita, ma lei era abituata così; sebbene fosse piccola di statura, aveva una costituzione straordinariamente robusta. C'era fra i nostri concittadini chi sosteneva che lei facesse tutto questo per una specie di orgoglio, ma questa spiegazione non era molto convincente: non sapeva parlare, di tanto in tanto articolava qualche suono e mugghiava qualcosa - quale orgoglio ci poteva essere in tutto questo?
Accadde un giorno (molti anni fa), in una notte di luna piena tiepida e luminosa, in settembre, a un'ora molto tarda, secondo le nostre abitudini, che una combriccola brilla di nostri concittadini, cinque o sei giovanotti, tornasse dal club dopo una serata di bagordi, per una viuzza che attraversava i cortiletti sul retro delle case. Su entrambi i lati della viuzza si snodavano le siepi dietro le quali si allungavano gli orti delle case attigue; la viuzza sbucava su un ponticello che attraversava quella pozza d'acqua fetida che da noi si suole chiamare fiumicello. Presso la siepe, fra le ortiche e la lappola, la nostra combriccola scorse Lizaveta che dormiva. Gli avvinazzati signori si soffermarono accanto a lei ridendo e si misero a fare dello spirito con la più sfacciata licenziosità. Ad uno di quei signorotti venne ad un tratto in mente una domanda davvero singolare su un argomento assurdo: "Sarebbe possibile che qualcuno consideri una bestia del genere come una donna, e quindi..." e così via. Tutti con fiero disgusto decretarono che sarebbe stato impossibile. Ma anche Fëdor Pavloviè si trovava a far parte di quella combriccola, e questi subito saltò su e disse che era possibile considerarla una donna, anzi possibilissimo e che nella cosa ci sarebbe stato anche un che di piccante, eccetera eccetera. Vero è che da noi, in quel periodo egli si era esageratamente compenetrato nel ruolo di buffone, gli piaceva mettersi in mostra e divertire i signori come se fosse un loro pari, sebbene, in realtà, ai loro occhi fosse un perfetto zoticone. Era quello lo stesso periodo nel quale aveva ricevuto da Pietroburgo la notizia della morte della sua prima moglie, Adelaida Ivanovna e, con la fascia del lutto sul cappello, beveva e combinava tante di quelle porcherie che alcuni dei peggiori libertini, nostri concittadini, provavano disgusto a vederlo. La combriccola, ovviamente, rise a crepapelle sentendo formulare questa opinione inattesa, qualcuno cominciò persino a istigare Fëdor Pavloviè, mentre gli altri si misero a manifestare il loro ribrezzo più di prima, seppure con la stessa smodata allegria. Alla fine proseguirono per la loro strada. In seguito Fëdor Pavloviè giurò di essere andato via anche lui con gli altri quella sera: può anche darsi che le cose fossero andate così, nessuno può saperlo per certo, né nessuno saprà mai quale sia la verità, fatto sta che cinque o sei mesi più tardi in tutta la città si cominciò a parlare, con intensa e sincera indignazione, della gravidanza di Lizaveta: ci si domandava e si indagava di chi fosse la colpa e chi fosse l'oltraggiatore. In quell'occasione si diffuse per tutta la città la terribile voce che l'oltraggiatore altri non fosse che Fëdor Pavloviè. Da che cosa era nata quella voce? Di quella combriccola di ubriachi, a quel tempo, in città, era rimasto un solo partecipante: un anziano e rispettato consigliere, un capofamiglia, padre di figlie già adulte; costui non avrebbe mai messo in giro una chiacchiera simile anche se fosse stata vera; quanto agli altri partecipanti, cinque in tutto, a quel tempo ognuno se n'era andato per la sua strada. Ma quelle voci designarono subito Fëdor Pavloviè e continuarono a designarlo anche in seguito. Ovviamente, egli non se la prese molto per questo: certo, non si sarebbe preoccupato di giustificarsi con mercantesse e gente di mezza tacca. A quel tempo era orgoglioso e si degnava di parlare esclusivamente con la cerchia di funzionari e nobili che sapeva divertire così bene. Ecco, in quell'occasione Grigorij non solo aveva preso energicamente le difese del padrone contro tutte quelle calunnie, ma si era messo pure a litigare e fare discussioni in sua difesa, riuscendo a far cambiare idea a molte persone. «È colpa di lei, della meschina», affermava con convinzione e l'oltraggiatore altri non era che "Karp, quello della vite" (così si chiamava un detenuto famigerato che in quel periodo era fuggito dal carcere del governatorato e che viveva in latitanza nella nostra città). Questa ipotesi risultò plausibile: ci fu chi ricordò, e ricordò con chiarezza, che Karp proprio in quelle notti, all'inizio dell'autunno, si era aggirato per la città e aveva derubato tre persone. Ma quell'incidente e tutte le chiacchiere che seguirono non solo non alienarono alla povera mentecatta le simpatie generali, ma tutti cominciarono a proteggerla e a prendersi cura di lei ancora più di prima. La mercantessa Kondrat'eva, una vedova agiata, aveva persino dato disposizioni che Lizaveta fosse condotta da lei alla fine di aprile con l'intenzione di non lasciarla andare via sino al momento del parto. La tenevano continuamente sotto sorveglianza, ma, a dispetto di tutta la sorveglianza, andò a finire che Lizaveta, proprio la sera dell'ultimo giorno, scappò all'improvviso e di nascosto dalla casa della Kondrat'eva e andò a finire nel giardino di Fëdor Pavloviè. Come avesse fatto, nelle sue condizioni, a scavalcare l'alto e solido steccato del giardino, rimase un mistero. Alcuni sostenevano che qualcuno l'avesse "aiutata a scavalcare", altri dicevano che l'avesse "aiutata qualche forza oscura". La cosa più probabile è che tutto fosse accaduto in un modo naturale anche se molto complicato: dal momento che Lizaveta era abituata ad arrampicarsi sulle siepi per passare la notte negli orti altrui, in qualche modo doveva pure essersi arrampicata sullo steccato di Fëdor Pavloviè e di lì, malgrado le condizioni in cui si trovava, doveva aver fatto un salto giù nel giardino, facendosi male. Grigorij si precipitò da Marfa Ignat'evna e la mandò ad aiutare Lizaveta; quanto a lui, corse dalla vecchia levatrice, una borghese, che viveva non lontano. Riuscirono a salvare il bambino, ma Lizaveta spirò verso l'alba. Grigorij prese il piccino, lo portò a casa, fece sedere la moglie e glielo poggiò sulle ginocchia, vicino al petto: «Un bimbo di Dio, un orfanello è parente di tutti, e a maggior ragione, mio e tuo. È stato il nostro morticino a inviarcelo; egli è nato dal figlio del diavolo e da una giusta. Allattalo e d'ora in avanti non piangere più». Così fu Marfa Ignat'evna ad allevare il bambino. Lo battezzarono e lo chiamarono Pavel, e quanto al patronimico cominciarono spontaneamente a chiamarlo Fëdoroviè. Fëdor Pavloviè non si oppose in alcun modo e lo trovò persino divertente, anche se continuava a negare con tutte le sue forze la propria responsabilità. In città fece buona impressione che egli avesse accolto il bimbo abbandonato. In seguito Fëdor Pavloviè inventò anche un cognome per il trovatello: lo chiamò Smerdjakov, dal soprannome di sua madre, Lizaveta Smerdjascaja. Così questo Smerdjakov diventò il secondo servitore di Fëdor Pavloviè; all'inizio della nostra storia, egli abitava nella dipendenza insieme al vecchio Grigorij e alla vecchia Marfa. Si occupava della cucina. Dovrei soffermarmi su di lui in particolare, ma mi vergogno di distogliere tanto a lungo l'attenzione del mio lettore a causa di ordinari lacchè, pertanto ritornerò al mio racconto, sperando che capiti ancora l'occasione di parlare di Smerdjakov.
III • Confessione di un cuore ardente. In versi
Dopo aver udito l'ordine che il padre gli aveva urlato dalla carrozza mentre lasciava il monastero, Alëša rimase per un po' fermo al suo posto, profondamente sconcertato. Ma non se ne stette lì impalato a lungo, non era da lui. Al contrario, malgrado il suo turbamento, senza porre tempo in mezzo, passò per la cucina dell'igumeno e scoprì quello che aveva combinato di sopra il suo papà. Dopo di che, si mise in cammino, nella speranza di risolvere in qualche modo il problema che lo assillava lungo il tragitto per andare in città. Darò qualche anticipazione: egli non temeva affatto le urla del padre e l'ordine di trasferirsi a casa "con il cuscino e il materasso". Sapeva sin troppo bene che l'ingiunzione di trasferirsi, impartita ad alta voce e in tono così perentorio, era stata data in un impeto di "esaltazione", per così dire, persino per fare scena - qualcosa di simile al comportamento di quel borghese che aveva fatto baldoria di recente nella loro stessa cittadina, alla festa per il suo onomastico, e che, incollerito perché non gli davano più vodka, aveva cominciato all'improvviso, in presenza degli ospiti, a rompere le sue stesse stoviglie, a strappare i vestiti suoi e della moglie, a rompere i mobili e per finire i vetri della casa, e tutto questo solo per far scena; più o meno la stessa cosa era avvenuta al padre in quell'occasione. Il giorno dopo, una volta sobrio, il borghese naturalmente si era rammaricato di aver rotto piatti e bicchieri. Alëša sapeva che il vecchio l'avrebbe certamente rimandato al monastero l'indomani, o anche quel giorno stesso, forse. Era fermamente convinto che il padre avrebbe potuto desiderare di offendere chiunque tranne lui. Alëša era convinto che in tutto il mondo nessuno avrebbe mai voluto offenderlo, e non solo: nessuno avrebbe mai potuto offenderlo. Questo era un assioma per lui, stabilito una volta per tutte, inconfutabile, e in questo suo convincimento egli procedeva senza alcuna esitazione.
Ma in quel momento in lui ribolliva una paura diversa, di tutt'altro genere, e tanto più tormentosa in quanto lui stesso non era in grado di definirla, la paura di una donna, di Katerina Ivanovna, che lo aveva così insistentemente pregato di recarsi da lei per una certa faccenda tramite quel biglietto consegnatogli poco prima dalla signora Chochlakova. Quella richiesta e quella necessità di andare assolutamente avevano ispirato nel suo cuore una sensazione angosciosa, e per tutta la mattinata quella sensazione si era dolorosamente acuita man mano che il tempo passava, malgrado tutte le scenate e gli avvenimenti che avevano avuto luogo successivamente, prima nell'eremo, poi dall'igumeno e così via. La sua paura non derivava dal fatto di ignorare di che cosa lei gli volesse parlare e come le avrebbe risposto. E non era neanche la donna in generale che temeva in lei: di donne ne conosceva poche, s'intende; comunque, per tutta la vita, dalla prima infanzia sino al monastero aveva vissuto solo con donne. Egli aveva paura di quella donna, proprio di Katerina Ivanovna. Ne aveva avuto paura dalla prima volta che l'aveva vista. L'aveva incontrata solo un paio di volte, forse tre, una volta aveva scambiato con lei qualche parola, casualmente. L'immagine che gli sovveniva di lei era quella di una fanciulla bella, fiera e imperiosa. Ma non era la bellezza di lei a tormentarlo, era qualcos'altro. Ecco, l'imperscrutabilità della sua paura finiva con il rafforzare in lui quella paura stessa. I fini di quella fanciulla erano nobilissimi, lui questo lo sapeva; lei cercava di salvare suo fratello Dmitrij, già colpevole dinanzi a lei, e cercava di salvarlo solo per bontà d'animo. Eppure nonostante egli fosse consapevole di tutti questi magnifici e nobili sentimenti e non mancasse di rendere loro merito, tuttavia man mano che si avvicinava alla casa di lei, sentiva i brividi che gli correvano su per la schiena.
Egli pensava di non trovare da lei suo fratello Ivan Fëdoroviè, che le era così intimo amico: il fratello Ivan in quel momento doveva essere con il padre. Era ancora più sicuro del fatto che non avrebbe trovato Dmitrij, e prevedeva anche la ragione della sua assenza. E così la loro conversazione avrebbe avuto luogo a quattr'occhi. Avrebbe tanto voluto vedere, anche per un solo momento, il fratello Dmitrij prima di quella conversazione fatale e fare un salto da lui. Avrebbero potuto scambiare quattro chiacchiere, anche senza mostrargli la lettera. Ma il fratello Dmitrij viveva lontano e sicuramente non era in casa in quel momento. Si fermò per un attimo, poi prese una decisione definitiva. Si fece un rapido segno di croce, nel suo solito modo curioso, e subito sorrise per qualche ragione, poi si diresse risoluto dalla sua terribile signora.
Conosceva il suo indirizzo. Ma se fosse passato per la Bol'šaja, per poi attraversare la piazza, il tragitto sarebbe stato piuttosto lungo. La nostra piccola cittadina si estende su una superficie molto vasta, quindi le distanze sono considerevoli. E poi il padre lo aspettava: questi forse non aveva ancora dimenticato la propria ingiunzione, e poteva mettersi a fare le bizze, quindi bisognava affrettarsi per riuscire ad andare dall'una e dall'altro. Fatte tutte queste considerazioni, egli decise di accorciare la strada, passando per i cortili sul retro, tanto conosceva tutti i passaggi della cittadina come il palmo della sua mano. Passare per i cortili sul retro significava fare un percorso praticamente privo di strade, lungo steccati desolati, scavalcare in alcuni punti siepi di giardini altrui e rasentare cortili, dove del resto tutti lo conoscevano e lo salutavano. Per quella strada poteva raggiungere la Bol'šaja dimezzando il percorso. In un punto si trovò persino a passare molto vicino alla casa del padre, proprio accanto al giardino che confinava con quello paterno e che apparteneva a una vecchia casupola cadente con quattro finestre. La proprietaria di quella casupola era, come sapeva Alëša, una borghese di città, una vecchia dalle gambe paralizzate che viveva con sua figlia, un'ex cameriera che si era evoluta nella capitale, che fino a poco tempo prima passava da una casa di generali all'altra, e ora, da circa un anno, era tornata a casa per via della malattia della vecchia, e qui si pavoneggiava con i suoi vestiti di lusso. Quella vecchia e sua figlia, comunque, si erano ridotte in condizioni miserevoli tanto che ricorrevano ogni giorno alla mensa del loro vicino, Fëdor Pavloviè, per la zuppa e il pane. Marfa Ignat'evna gliene dava volentieri. Eppure la figlia, che andava sempre a prendere la zuppa, non si era ancora decisa a vendere neanche uno dei suoi tanti vestiti - e uno di quelli aveva persino uno strascico lunghissimo. Alëša era stato messo al corrente di quest'ultima circostanza - ovviamente in maniera del tutto casuale - dal suo amico Rakitin, il quale sapeva decisamente tutto quello che accadeva nella piccola cittadina, e, dopo esserne stato messo al corrente, aveva, naturalmente, dimenticato tutto. Ma mentre raggiungeva il giardino delle vicine, quello strascico gli tornò subito in mente, egli sollevò rapidamente il capo, che teneva pensosamente chino, e si imbatté d'un tratto... in una persona che non si sarebbe mai aspettato di incontrare lì.
Oltre la siepe del giardino delle vicine, c'era suo fratello Dmitrij Fëdoroviè che, sollevandosi su qualcosa, si sporgeva con il petto, si sbracciava per attirare la sua attenzione, lo chiamava, gli faceva segno di avvicinarsi, nel palese timore non solo di gridare, ma persino di parlare a voce alta. Alëša raggiunse la siepe di corsa. «È un bene che ti sia guardato attorno da solo, ero già lì lì per gridare», gli sussurrò in fretta Dmitrij Fëdoroviè tutto contento. «Arrampicati qui! Fa presto! Ah, che bello che sei venuto. Stavo giusto pensando a te...»
Anche Alëša era contento, solo che non sapeva come arrampicarsi sulla siepe. Ma Mitja, con la sua mano erculea, lo afferrò per un gomito e lo aiutò a saltare. Sollevata la tonaca, Alëša balzò con la disinvoltura di quei monelli che vanno in giro scalzi per la città.
«Ecco fatto, adesso andiamo!», disse Mitja con un sussurro trionfante.
«Andiamo dove?», gli sussurrò di rimando Alëša, guardandosi intorno e vedendo il giardino deserto intorno a sé: a parte loro due, non c'era anima viva. Il giardino era piccolo, ma la casupola delle padrone era comunque a una distanza non inferiore ai cinquanta passi. «Ma se non c'è nessuno perché bisbigli?»
«Perché bisbiglio? Diavolo!», gridò improvvisamente a squarciagola Dmitrij Fëdoroviè. «È vero: perché mai bisbiglio? Be', vedi un po' che brutti scherzi ti fa la natura tutt'a un tratto. Sono qui in segreto e a guardia di un segreto. La spiegazione la rimando a dopo, ma sapendo che è un segreto, mi sono messo a parlare in segreto e a bisbigliare come uno scemo, anche se non ce n'è alcun bisogno. Andiamo! Andiamo di lì! Ma per ora sta calmo. Ho voglia di darti un bacio!
Gloria al Signore che è nel mondo Gloria al Signore che è in me!...
Me lo ripetevo adesso, prima che tu arrivassi, mentre me ne stavo lì seduto».
Il giardino aveva la superficie di un ettaro o poco più, ma gli alberi - meli, aceri, tigli e betulle - erano piantati solo intorno, lungo i quattro lati delle siepi. Al centro, c'era un prato vuoto, nel quale in estate si falciavano alcuni pudy di fieno. La padrona lo affittava in primavera per pochi rubli. Tutt'intorno, lungo le siepi di recinzione, c'erano anche cespugli di lamponi, uva spina, ribes; dei filari di ortaggi erano stati tracciati di recente accanto alla casa. Dmitrij Fëdoroviè condusse l'ospite in uno degli angoli del giardino più lontani dalla casa. Lì, in mezzo a un folto di tigli e vecchi arbusti di ribes, sambuco, viburno e lillà, spuntarono all'improvviso i ruderi di un decrepito chioschetto verde, annerito dagli anni e cadente, con le pareti a graticcio, ma con il tetto integro sotto il quale era ancora possibile ripararsi dalla pioggia. Il chiosco era stato costruito Dio solo sa quando, una cinquantina di anni prima, si diceva, dall'allora proprietario della casetta, Aleksandr Karloviè von Šmidt, tenente colonnello a riposo. Ma ormai cadeva a pezzi, il pavimento marciva, le assi traballavano, il legno puzzava di umidità. Nel chioschetto c'era un tavolo verde di legno fissato al terreno e tutt'intorno delle panchine pure verdi, sulle quali ci si poteva ancora sedere. Alëša aveva notato subito lo stato d'animo esaltato del fratello, ed entrando poi nel chioschetto, scorse sul tavolo una mezza bottiglia di cognac e un bicchierino.
«Ecco qui del cognac!», disse Mitja scoppiando a ridere. «E tu guardi e pensi: "È di nuovo ubriaco". Non credere a un fantasma.
Non credere alla folla vacua e falsa Dimentica i tuoi dubbi...
Non sono ubriaco, sto soltanto "golosando", come dice quel porco del tuo Rakitin, che diventerà consigliere di V classe e continuerà sempre a dire "sto solo golosando". Siediti. Alëša, ti prenderei e ti stringerei al petto, sino a farti soffocare, giacché in tutto il mondo (ascoltami con attenzione, ascoltami con attenzione) io amo veramente soltanto te... ve-ra-men-te!» Aveva pronunciato quest'ultima frase quasi con rabbia.
«Soltanto te, e poi c'è anche una creatura "abietta" della quale mi sono innamorato e per questo sono spacciato. Ma essere innamorati non vuol dire amare. Si può essere innamorati e odiare. Ricordatelo! Per il momento sto parlando ancora per scherzo. Siediti qui al tavolo, io mi siederò accanto a te, ti guarderò e ti dirò tutto. Tu starai zitto per tutto il tempo e io dirò tutto perché è giunta l'ora. Del resto, sai, credo che dobbiamo davvero parlare a bassa voce perché qui... qui... chissà quali orecchie potrebbero essere in ascolto. Ti spiegherò tutto, te l'ho già detto: la continuazione a dopo. Perché ho tanto desiderato stare con te? Perché ti ho bramato tutti questi giorni e anche adesso? (E sono già cinque giorni che ho piantato l'ancora qui). Tutti questi giorni! Perché solo a te posso dire tutto, perché devo farlo, perché ho bisogno di te, perché domani volerò giù dalle nuvole, perché domani la vita avrà una fine e un inizio. Hai mai provato la sensazione, hai mai sognato di precipitare dall'alto in una fossa? Ebbene, io in questo momento sto precipitando allo stesso modo, ma non sto sognando. Eppure non ho paura e non devi aver paura neanche tu. Cioè, io ho paura, ma per me è una dolce sensazione. Cioè, non è una dolce sensazione, è l'estasi... Ma al diavolo, tanto fa lo stesso qualunque cosa sia! Uno spirito forte, uno spirito debole, uno spirito da femminuccia, qualunque cosa sia! Rendiamo lode alla natura: vedi che bel sole, che cielo limpido, le foglie sono tutte verdi, l'estate è al suo culmine, sono le quattro di pomeriggio, la quiete! Dove stavi andando?»
«Stavo andando da nostro padre, ma prima volevo fare un salto da Katerina Ivanovna».
«Da lei e da nostro padre! Oh, che coincidenza! Ma lo sai il motivo per il quale ti ho chiamato, perché desideravo vederti, perché ti anelavo e ti bramavo in tutti i recessi della mia anima e in tutte le fibre del mio cuore? Proprio per mandarti da nostro padre, a nome mio, e poi da lei, da Katerina Ivanovna, e così farla finita sia con lei sia con nostro padre. Mandare un angelo. Avrei potuto mandare uno qualunque, ma a me occorreva mandare un angelo. Ed ecco che tu, di tua stessa iniziativa, stai andando proprio da lei e da nostro padre».
«Ma è vero che volevi mandare proprio me?», gridò Alëša con un'espressione sofferente in volto.
«Aspetta, tu lo sapevi. E vedo che hai capito tutto in un batter d'occhio. Ma sta zitto, per ora sta zitto. Non mi compatire e non piangere!» Dmitrij Fëdoroviè si alzò, rifletté per un attimo e portò l'indice alla fronte:
«Ti ha chiamato lei stessa, ti ha scritto una lettera, o qualcosa del genere, e per questo tu stai andando da lei, altrimenti tu non ci saresti mai andato di tua volontà».
«Ecco il biglietto». Alëša lo estrasse dalla tasca. Mitja gli dette una veloce scorsa.
«E tu ci andavi passando per i cortili sul retro! Oh, dèi! Vi ringrazio per averlo fatto passare per i cortili sul retro in modo tale che venisse dritto dritto da me, come il pesciolino d'oro andò dal vecchio pescatore sciocco della fiaba. Ascolta, Alëša, ascolta fratello. Adesso ho intenzione di dirti tutto. A qualcuno dovrò pur dirlo. All'angelo del cielo l'ho già raccontato, ma adesso devo raccontarlo a un angelo sulla terra. Tu sei un angelo in terra. Tu ascolterai, giudicherai e perdonerai... E a me serve proprio questo, che un essere superiore mi perdoni. Ascolta: se due creature all'improvviso si staccano da ogni cosa terrena e volano in una dimensione straordinaria, oppure, se almeno una di loro, prima di prendere il volo e di andare incontro alla rovina, va dall'altra e le dice: "Fa' per me questo e quest'altro", qualcosa che non si chiede mai a nessuno, ma che si può chiedere solo in punto di morte - può quell'altra creatura rifiutarsi di farlo... se è un amico, se è un fratello?»
«Lo farò, ma dimmi di che si tratta e dillo in fretta», disse Alëša.
«In fretta... Hmm... non avere fretta, Alëša: tu hai fretta e sei inquieto. Ma adesso non c'è motivo di avere fretta. Adesso il mondo ha imboccato una nuova strada. Eh, Alëša, che peccato che tu non sia arrivato a concepire l'estasi. Ma che cosa ti vengo a dire? Come se tu non l'avessi mai concepita! E io, imbecille, che vado dicendo:
Sii nobile, o uomo!
Di chi è questo verso?»
Alëša si decise ad aspettare. Egli aveva capito che, forse, in quel momento, proprio lì occorreva la sua opera. Mitja rimase per un attimo sovrappensiero, con il gomito poggiato sul tavolo e la testa appoggiata sul palmo della mano. Entrambi tacquero per un po'.
«Lëša», disse Mitja, «tu sei l'unico che non si metterà a ridere! Volevo iniziare... la mia confessione... con l'inno alla gioia di Schiller. An die Freude! Ma non conosco il tedesco, so soltanto An die Freude. E non pensare neanche che vaneggi per i fumi dell'alcool. Non sono affatto ubriaco. Il cognac è cognac, certo, ma a me occorrono due bottiglie per ubriacarmi:
Va' Sileno dal corno rubizzo Sull'asino incespicante,
mentre io non ho bevuto neanche un quarto di bottiglia e non sono Sileno. Io non sono Sileno, ma sono forte perché ho preso una decisione definitiva. Mi perdonerai il gioco di parole, mi dovrai perdonare molte cose oggi, non soltanto il gioco di parole. Non ti preoccupare, non mi perdo in chiacchiere, sto parlando di un fatto preciso e andrò dritto al punto. Non mi metterò a tirarla tanto per le lunghe. Aspetta, come diceva...»
Sollevò la testa, ci pensò su e poi esordì infervorato:
«Pavido, nudo e selvaggio si nascondeva
il troglodita fra i dirupi ed il nomade vagava per i campi e i campi devastava.
Il cacciatore con lancia e dardi correva minaccioso per i boschi... Guai al naufrago travolto dalle onde sui lidi inospitali!
Dalla sommità dell'Olimpo discende la madre Cerere sulle tracce di Proserpina rapita: il mondo dinanzi a lei si estende miserando. Non un angolo ospitale lì si offre alla dea, né v'è tempio che testimoni la venerazione agli dèi.
Il frutto dei campi e i dolci grappoli non brillano nei conviti, solo fumi di resti umani sugli altari insanguinati. E dovunque la dea posi lo sguardo afflitto scorge l'umanità in profonda umiliazione.
I singhiozzi proruppero all'improvviso dal petto di Mitja. Afferrò Alëša per un braccio.
«Amico mio, amico mio, mi sento umiliato, mi sento umiliato anche in questo momento. L'uomo deve sopportare un fardello terribilmente pesante su questa terra, troppe sono le sue disgrazie! Non pensare che io sia solo un villano in divisa da ufficiale, che beve cognac e conduce una vita dissoluta. Io, fratello, quasi quasi non penso ad altro che a questo, a quest'uomo umiliato, se solo non mento. Che Dio mi conceda di non mentire e di non elogiare me stesso. Penso a quest'uomo, perché io stesso sono quest'uomo.
Affinché dall'abiezione dell' anima l'uomo possa risollevarsi con l'antica madre-terra deve stringere eterno patto.
Ma la difficoltà è proprio questa: come faccio io a stringere un eterno patto con l'antica madre terra? Io non bacio la terra, non le squarcio il petto, dovrei forse mettermi a fare il contadino o il pastore? Io cammino e non so se vado verso il fetore e la vergogna oppure verso la luce e la felicità. Perché è questa la disgrazia: ogni cosa nel mondo è un enigma! E quando mi è capitato di affondare nella più abietta degradazione (e a me è capitato solo questo), ho sempre recitato questi versi su Cerere e l'uomo. Mi hanno mai corretto? Mai! Perché io sono un Karamazov, perché quando spicco il volo verso l'abisso, a capofitto, con la testa in giù e i piedi in aria, sono persino soddisfatto di cadere proprio in una posizione così umiliante e ci vedo sempre qualcosa di bello. Ed ecco che mentre mi trovo in quella degradazione, all'improvviso intono un inno. Che io sia maledetto, che sia vile e meschino, purché possa baciare il lembo di quella pianeta con cui è avvolto il mio Dio; che possa seguire anche il diavolo, ma rimango pur sempre figlio tuo, o Signore, e ti amo e provo una felicità senza la quale il mondo non potrebbe esistere.
Ogni anima creata da Dio la gioia eterna alimenta, di forza arcana e fermento arde la coppa della vita; l'erba fece germogliare, soli dal caos formò e negli spazi ignoti all'astrologo li lanciò.
Al seno della natura tutti gli esseri attingono gioia; tutte le creature, tutti i popoli, ella attrae dietro di sé.
A noi diede amici nella sventura e il succo delle viti e i serti, agli insetti, la lussuria... l'Angelo sta in piedi dinanzi a Dio.
Ma basta con i versi! Ho versato qualche lacrima, ma lasciami piangere un pochino. Che sia pure una sciocchezza questa, una di quelle che fanno ridere tutti. Ma tu non riderai. Ecco, anche tu hai i lucciconi agli occhi. Ma basta con i versi. Adesso voglio parlarti di quegli "insetti", di quelli ai quali Dio ha fatto dono della lussuria:
Agli insetti, la lussuria!
Io, fratello, sono l'insetto più insetto che ci sia e quel verso sembra scritto apposta per me. E in noi tutti Karamazov, anche in te, che sei un angelo, vive quest'insetto e anche nel tuo sangue alimenterà la tempesta! Sono tempeste quelle, perché la lussuria è una tempesta, anzi è peggio di una tempesta! La bellezza è una cosa spaventosa e terribile, spaventosa perché non è definita, ma essa è indefinibile perché Dio ha posto solo enigmi. Qui gli opposti si congiungono e tutte le contraddizioni convivono. Io, fratello, sono molto ignorante, ma ho riflettuto a lungo su questo. C'è una quantità spaventosa di misteri! Troppi enigmi opprimono l'uomo sulla terra. Dobbiamo cercare di risolvere gli enigmi meglio che possiamo, e cercare di uscire asciutti dall'acqua. La bellezza! Io non posso sopportare che un uomo superiore, con un gran cuore e con un'intelligenza elevata, incominci con l'ideale della Madonna e finisca con l'ideale di Sodoma. È ancora più spaventoso che un uomo, con l'ideale di Sodoma nell'anima, non rinunci all'ideale della Madonna, e che il suo cuore ne arda, ne arda sinceramente come negli anni innocenti della giovinezza. No, l'uomo è vasto, sin troppo vasto, io lo restringerei. Ma poi lo sa il diavolo che cosa sia l'uomo, ecco cosa vi dico! Ciò che alla mente sembra ignominia, al cuore può sembrare pura bellezza! In Sodoma c'è bellezza? Credi a me, per la stragrande maggioranza delle persone la bellezza è proprio in Sodoma, lo conoscevi questo segreto? Ciò che fa paura è che la bellezza non sia soltanto spaventosa ma anche misteriosa. Qui il diavolo combatte con Dio e il campo di battaglia è il cuore dell'uomo. E del resto, la lingua batte dove il dente duole. Ascolta, adesso vengo al sodo».
IV • Confessione di un cuore ardente. In aneddoti
«Allora conducevo una vita dissipata. Poco fa nostro padre ha detto che pagavo alcune migliaia di rubli per disonorare le fanciulle. È una sporca invenzione, non è mai successa una cosa simile; per quanto è accaduto veramente, per "quello" non occorrevano proprio, i soldi. Per me il denaro è un accessorio, qualcosa che mi riscalda il cuore, un elemento esteriore. Oggi, per esempio, posso avere tanto di gran signora al mio fianco; domani al suo posto vorrò una ragazzina di strada. Faccio divertire sia l'una sia l'altra, sperpero denaro a palate per la musica, il baccano, le zigane. Se occorre, do denaro anche alla mia signora, perché quelle lì lo prendono, lo prendono con avidità, questo bisogna riconoscerlo, e così sono tutte contente e grate. Alle signorine della buona società piacevo, non a tutte, ma ad alcune piacevo, eccome se piacevo; ma io ho sempre amato i vicoli, le viuzze cieche e scure, dietro alla piazza, lì si va incontro ad avventure, a sorprese, lì si trovano pepite d'oro nel fango. Fratello, è chiaro che sto parlando per allegorie. Nella cittadina dove mi trovavo, non c'erano vicoletti in senso letterale, ma ce n'erano in senso morale. Ma se tu fossi un tipo come me, capiresti che cosa voglio dire. Amavo la depravazione e la vergogna della depravazione. Amavo la crudeltà: non sono forse una cimice, un insetto cattivo? L'ho già detto: sono un Karamazov! Una volta andammo a un picnic a cui partecipava mezza città, partimmo in sette tiri a tre; nell'oscurità, d'inverno, sulla slitta, cominciai a stringere la manina della ragazza che mi sedeva accanto e la costrinsi a baciarmi, era la figlia di un impiegato, povera, dolce, mite e remissiva. Mi concesse, mi concesse molto nell'oscurità. Pensava, la poverina, che il giorno dopo sarei andato a farle la mia proposta di matrimonio (infatti, questo è importante, mi consideravano un buon partito); invece io, dopo l'accaduto, non le dissi una parola, per cinque mesi, neanche una mezza parola. Mi accorgevo di come mi seguivano i suoi occhietti dall'angolo della sala quando andavo ai balli (e da noi se ne organizzavano in continuazione) ardevano di un fuocherello, un fuocherello di mite indignazione. Quel gioco solleticava la lussuria da insetto che nutrivo dentro di me. Cinque mesi più tardi sposò un impiegato e partì... piena di rancore, ma anche forse di amore, verso di me. Adesso vivono felici. Nota bene, non l'ho mai detto a nessuno, non me ne sono mai vantato. Per quanto io sia meschino nelle mie voglie, e ami la meschinità, non sono privo di onore. Stai arrossendo, i tuoi occhi hanno avuto un lampo. Ne hai abbastanza di queste porcherie. E questo è niente, questi sono solo fiorellini alla Paul de Kock, sebbene il crudele insetto fosse già cresciuto, si fosse già ingrossato nella mia anima. Ma nel mio caso, fratello, ho un intero album di ricordi. Che Dio le benedica, povere care. Cercavo sempre di troncare senza litigi. Non ho mai tradito nessuna di loro, non mi sono mai vantato di nessuna conquista. Non avrai mica pensato che ti abbia chiamato qui solo per queste sciocchezze? No, adesso ti racconterò qualcosa di più interessante, ma non meravigliarti del fatto che io non abbia vergogna di te, e che, al contrario, sia quasi contento».
«Dici questo perché sono arrossito», notò Alëša all'improvviso. «Ma io non sono arrossito per i tuoi racconti e per le tue azioni, ma per il fatto che anche io sono uguale a te».
«Tu cosa? Su, adesso stai esagerando».
«No, non sto esagerando», replicò con fervore Alëša. (Evidentemente era da tempo che aveva questa idea). «La scelta è la stessa, solo che io sono sul gradino più basso, mentre tu sei più in alto, diciamo al tredicesimo gradino. Mi sembra che le cose stiano così, ma la situazione è la stessa, identica in tutto e per tutto. Chi ha messo il piede sul primo gradino, metterà immancabilmente il piede sul gradino superiore».
«Dunque bisognerebbe non metterci affatto piede?» «Chi può, dovrebbe evitare di metterlo».
«E tu puoi?» «Credo di no».
«Taci, Alëša, taci, caro, vorrei baciarti la manina, tanta è la commozione che provo. Quella birichina di Grušen'ka, un'intenditrice in fatto di uomini, una volta mi ha detto che un giorno o l'altro ti avrebbe divorato. Ma basta, basta con questi argomenti! Dalle turpitudini, da questo campo lordato dalle mosche, passiamo alla mia tragedia, anche quello è un campo lordato dalle mosche, cioè da ogni sorta di bassezze. Il fatto è questo: sebbene il vecchiaccio abbia mentito sulla seduzione delle innocenti, in realtà, nella mia tragedia, c'è stato davvero un episodio del genere, anche se è successo una volta sola e, per di più, si è concluso con un niente di fatto. Il vecchio, che mi ha biasimato per una cosa che non ho mai commesso, non è nemmeno a conoscenza di quell'episodio: non l'ho mai raccontato a nessuno, tu sei il primo, dopo Ivan, al quale lo racconto. Ivan sa tutto. È venuto a sapere tutto molto tempo prima di te. Ma Ivan è una tomba».
«Ivan è una tomba?»
«Sì».
Alëša ascoltava con estrema attenzione.
«In quel battaglione di linea, sebbene fossi alfiere, ero sempre sotto controllo, diciamo cosí, come una specie di forzato. La cittadina, però, mi aveva accolto benissimo. Gettavo al vento un mucchio di denaro, credevano che fossi ricco e lo credevo anche io. E del resto, penso che andassi loro a genio anche per qualcos'altro. Sebbene a volte scuotessero il capo in segno di disapprovazione, in realtà mi volevano bene. Invece, il mio tenente colonnello, un vecchio, mi prese subito in antipatia. Ce l'aveva sempre con me, ma io avevo i miei appoggi, e poi tutta la città era dalla mia parte, quindi non poteva nuocermi molto. Ma anch'io avevo la mia parte di colpa perché mi rifiutavo di comportarmi con il dovuto rispetto. Facevo l'altezzoso. Quel vecchio testardo - per altro persona molto buona, generosa e ospitale - aveva avuto due mogli, entrambe decedute. La prima, una donna ordinaria, gli aveva lasciato una figlia, anche lei ordinaria. Era una zitella di ventiquattro anni quando io stavo lì, viveva con il padre e la zia, la sorella della madre defunta. La zia era una sempliciotta taciturna; la nipote, la figlia maggiore del tenente colonnello, era una sempliciotta vivace. Quando ricordo le persone, mi piace dire delle cose buone sul loro conto: non ho mai trovato nella vita, caro mio, una donna con un carattere così delizioso come quello della ragazza in questione, che si chiamava Agaf'ja, pensa un po', Agaf'ja Ivanovna. E non era neanche brutta, secondo il nostro gusto russo: alta, robusta, tonda, con occhi bellissimi, ma con un viso un po' rozzo, direi. Non si era sposata, sebbene un paio di proposte gliele avessero fatte, ma lei aveva rifiutato senza abbattersi per questo. Diventai suo amico, ma non in quel senso, no, era un rapporto pulito, da semplici amici. Mi è capitato spesso di avere relazioni assolutamente innocenti con le donne, da veri amici. Con lei parlavo con una tale franchezza, uh! ma lei non faceva che ridere. Molte donne amano la franchezza, tienilo a mente, e lei, per giunta, era ancora una ragazza da marito e la cosa mi divertiva molto. Ed ecco un altro particolare: era assolutamente impossibile chiamarla signorina. Lei e la zia vivevano dal padre, e in un certo modo si mettevano spontaneamente su un piano d'inferiorità, senza competere con le persone che frequentavano. Tutti le volevano bene e ricorrevano a lei, perché era una sarta eccellente: aveva talento, non chiedeva mai soldi per il suo lavoro, lo faceva per gentilezza, ma quando le donavano qualcosa non rifiutava. Il tenente colonnello, quello era un altro paio di maniche! Era una delle maggiori personalità della città. Viveva nell'agiatezza, riceveva la città intera, dava cene, balli. All'epoca in cui arrivai per arruolarmi nel battaglione, per tutta la cittadina si era diffusa la notizia che presto avremmo ricevuto la visita della seconda figlia del tenente colonnello, la più bella fra le belle, appena uscita da un collegio aristocratico della capitale. La secondogenita era Katerina Ivanovna in persona, cioè la figlia della seconda moglie del tenente colonnello. La seconda moglie, anche lei defunta, apparteneva ad una illustre e importante famiglia di generali, anche se, come mi è noto per certo, non aveva portato neanche un soldo in dote al tenente colonnello. Insomma, aveva parenti illustri, ma niente di più, forse c'era stata qualche speranza, ma niente di concreto. Tuttavia, quando la collegiale arrivò (solo per una visita, non per sempre), sembrò che la cittadina intera si rianimasse; le dame più distinte della città - due erano mogli di eccellenze, un'altra moglie di un colonnello - e tutte le altre dietro a loro, si dettero subito da fare, la presero sotto la loro protezione e giù a dare ricevimenti in suo onore. Ella diventò la reginetta dei balli, dei picnic; abborracciarono persino dei quadri viventi a favore di qualche istitutrice in disgrazia. Io me ne stavo zitto, continuavo a fare baldoria, ma proprio in quel periodo ne combinai una che fece clamore in tutta la città. Una volta mi ero accorto che lei mi stava squadrando, eravamo a casa del comandante di batteria, ma non mi avvicinai, come se disdegnassi di conoscerla. Mi avvicinai a lei in seguito, sempre a un ballo, attaccai discorso e lei mi degnò appena di uno sguardo con un'espressione sprezzante sulle labbruzze. Allora io pensai: aspetta che mi vendico! In quel periodo, il più delle volte, mi comportavo da prepotente villano e me ne rendevo conto io stesso. Il peggio era che mi rendevo pure conto che "Katen'ka" non era semplicemente un'ingenua collegiale, ma una persona di carattere, orgogliosa e virtuosa allo stesso tempo, e, soprattutto una persona dotata di intelligenza e cultura, mentre a me mancavano sia l'una sia l'altra. Pensi che le volessi fare una proposta di matrimonio? Nient'affatto, volevo solo vendicarmi del fatto che, nonostante io fossi così in gamba, lei sembrasse non accorgersene. Ma per il momento continuavo a gozzovigliare e a far baccano. Alla fine, il tenente colonnello mi mise agli arresti per tre giorni. Proprio in quel periodo, nostro padre mi aveva appunto spedito seimila rubli dopo che io gli avevo fatto pervenire la rinuncia formale al resto del patrimonio, come a dire che avevamo "pareggiato i conti" e non avrei preteso più nulla. A quel tempo non avevo capito niente: io, fratello, sino al giorno del mio arrivo qui, persino sino a questi ultimi giorni e forse, sino ad oggi, non avevo mai capito niente di tutti questi conflitti di interesse con nostro padre. Ma, al diavolo, di questo parleremo dopo. Intanto, dopo aver ricevuto quei seimila pezzi, avevo appreso da una letterina di un amico una certa notizia molto interessante per me, e cioè che erano scontenti del nostro tenente colonnello, che lo sospettavano di non avere le mani pulite, insomma, i suoi nemici gli stavano preparando un tiro mancino. Di lì a poco arrivò il comandante della divisione e piantò una grana che non finiva più. Poco tempo dopo gli ordinarono di rassegnare le dimissioni. Non starò qui a raccontarti come andò la faccenda nei particolari: egli aveva sicuramente dei nemici e in città cominciarono a manifestare un'improvvisa freddezza nei confronti suoi e della sua famiglia, tutti avevano preso le distanze. Ed ecco che in quel momento io feci la mia prima mossa: mi incontrai con Agaf'ja Ivanovna, con la quale ero sempre rimasto in rapporti di amicizia, e le dissi: "E così al vostro paparino mancano quattromila e cinquecento rubli di denaro dello Stato". "Ma come vi viene in mente? Che cosa ve lo fa pensare? Di recente è venuto qui il generale, i soldi c'erano tutti..." "Allora c'erano, ma adesso no". Lei era terrorizzata oltre ogni dire: "Non mi spaventate, vi prego, da chi lo avete saputo?" "Non vi preoccupate, non lo dirò a nessuno e voi sapete che so essere una tomba in questi casi, ma ecco quello che volevo dirvi a questo proposito, per 'qualunque evenienza', diciamo così: se dovessero chiedere al vostro papà quei quattromila e cinquecento rubli e lui non dovesse averli, certo dovrebbe subire un processo e poi essere degradato in vecchiaia, a meno che voi non mi mandiate in segreto la vostra collegiale. Sapete, mi hanno appena spedito dei soldi, ed io le darò quei quattromila e cinquecento rubli e manterrò devotamente il segreto". "Ah, che mascalzone che siete!" (disse proprio così); "Siete un perfido mascalzone! Ma come osate?" Se ne andò terribilmente indignata, ed io le gridai dietro un'altra volta che avrei devotamente mantenuto il segreto. Le due donne, cioè Agaf'ja e sua zia - te lo anticipo - in tutta quella storia si rivelarono due veri angeli, avevano una vera adorazione per l'altra sorella, quella orgogliosa, si umiliavano dinanzi a lei, le facevano da cameriere... Subito dopo la mia mossa, cioè la conversazione che avevamo avuto, Agaf'ja le riferì ogni cosa. In seguito venni a sapere tutto nei minimi particolari. Non si tenne nulla per sé, ed ovviamente era proprio quello che volevo.
All'improvviso giunse un nuovo maggiore a prendere il comando del battaglione. Il vecchio tenente colonnello si ammalò da un giorno all'altro, non era in grado di lasciare la sua stanza; per due giorni non uscì di casa e non poté consegnare il denaro della cassa. Il dottor Kravèenko garantiva che era davvero malato. Ma c'era qualcos'altro che io conoscevo fin nei minimi dettagli, soltanto io, in segreto, e anche da molto tempo: la somma, subito dopo l'ispezione del comando, spariva regolarmente per un certo periodo ed erano quattro anni di fila che questo avveniva. Il tenente colonnello la dava in prestito ad un uomo fidatissimo, un mercante delle nostre parti, un vecchio vedovo, Trifonov, un tipo con la barba e gli occhiali d'oro. Quello andava alla fiera, concludeva la transazione che gli interessava e restituiva immediatamente l'intera somma al tenente colonnello e, insieme a quella, gli portava un regalo e gli interessi. Solo che l'ultima volta (avevo appreso ogni cosa del tutto casualmente dal figlio di Trifonov, un adolescente bavoso, suo figlio ed erede, il ragazzaccio più dissoluto mai venuto al mondo), l'ultima volta, dicevo, di ritorno dalla fiera, Trifonov non restituì nulla. Il tenente colonnello si precipitò da lui: "Non ho mai ricevuto un soldo da voi, e non avrei neanche potuto farlo": questa fu la sua risposta. E così il nostro tenente colonnello si chiude in casa, si fascia la testa con un asciugamano, e tutte e tre le donne si danno da fare a mettergli il ghiaccio sulla testa; all'improvviso arriva un soldato con un registro e un ordine: "Consegnare la somma della cassa, seduta stante, immediatamente: entro due ore". Egli firma - vidi io stesso la firma nel registro -, si alza, dice di andare a mettersi la divisa, corre in camera da letto, prende il suo fucile da caccia a due canne, lo carica, ci mette dentro una pallottola militare, si toglie lo stivale destro, poggia il fucile al petto e con il piede comincia a cercare il grilletto. Ma Agaf'ja ha già dei sospetti, si ricorda delle mie parole di allora, si avvicina quatta quatta e vede tutto in tempo: piomba nella stanza, gli si slancia alle spalle, lo stringe fra le braccia, il fucile spara un colpo al soffitto; nessuno è ferito; poi accorrono gli altri, lo afferrano, gli tolgono il fucile, lo bloccano per le braccia... Venni a sapere tutto quanto per filo e per segno, in seguito. In quel momento mi trovavo a casa, era il tramonto, e mi accingevo a uscire, mi ero vestito, pettinato, avevo profumato il fazzoletto, avevo preso il cappello, quando si spalanca la porta all'improvviso e, davanti a me, nel mio appartamento, compare Katerina Ivanovna.
Accadono a volte cose molto strane: nessuno per strada l'aveva vista venire, tanto che in città la cosa passò del tutto inosservata. Io poi avevo preso in affitto l'appartamento da due vecchiette decrepite, mogli di impiegati, che si prendevano cura di me, due donne rispettose che mi ubbidivano in tutto e, al mio ordine, riguardo all'accaduto rimasero mute come pesci. Naturalmente compresi immediatamente la situazione. Ella entrò e mi guardò dritto in faccia, i suoi occhi scuri avevano uno sguardo deciso, persino insolente, ma sulle labbra e intorno alle labbra era visibile la sua indecisione.
"Mi ha detto mia sorella che voi mi avreste dato quattromila e cinquecento rubli se fossi venuta a prenderli... da voi di persona. Sono venuta... datemi il denaro!" Non resse, le mancò il respiro, era spaventata, la voce si incrinò e le estremità delle labbra, e i tratti intorno alle labbra,
ebbero un tremito. «Alëša, mi stai ascoltando o stai dormendo?» «Mitja, io so che mi dirai tutta la verità», disse Alëša agitato.
«Te la sto dicendo. Se devo dire tutta la verità, ecco come andarono le cose, non mi risparmierò. Il mio primo pensiero fu da Karamazov. Una volta, fratello, fui morsicato da una tarantola e rimasi a letto con la febbre alta per due settimane: ecco, anche in quel momento ebbi la sensazione che mi avesse morsicato il cuore una tarantola, un insetto cattivo, capisci? La avvolsi nel mio sguardo. Tu l'hai vista? È proprio uno splendore. Ma in quel momento non era splendida soltanto in quel senso. In quell'istante era splendida in quanto mi era riconoscente, mentre io ero un mascalzone, perché lei era sublime nella sua generosità e nel sacrificio che affrontava per suo padre, mentre io ero una cimice. Ed ecco che da me, da una cimice, da un mascalzone lei dipendeva interamente, interamente, così com'era, anima e corpo. Ella era accerchiata. Te lo dirò francamente: questo pensiero, il pensiero della tarantola, possedeva il mio cuore a tal punto che esso quasi veniva meno per la sofferenza. Sembrava poi che non avrei trovato nessuna resistenza: avrei dovuto agire proprio come una cimice, una tarantola cattiva, senza alcuna pietà... mi mancava persino il respiro. Ascolta: ovviamente l'indomani stesso sarei andato a chiedere la sua mano per porre fine a tutto nella maniera più onorevole, e in modo che nessuno lo sapesse e lo potesse mai venire a sapere. Infatti, anche se sono un uomo dai bassi appetiti, ho pur sempre il mio onore. Ed ecco che in quello stesso istante una voce mi sussurrò all'orecchio: "Se domani vai a proporre di sposarla, una donna simile non esce neppure a riceverti e ordina al cocchiere in cortile di cacciarti via. 'Vantati pure per tutta la città, io non ho paura di te', ti dirà!" Gettai uno sguardo alla ragazza, quella voce non mentiva: certo sarebbe andata a finire così. Mi avrebbe fatto prender per la collottola e cacciare via, potevo già prevederlo dalla faccia che aveva in quel momento. Mi sentii ribollire di perfidia, mi venne voglia di giocarle il più abietto dei tiri, una vera porcheria, un tiro da mercante: guardarla con aria beffarda, e lì, mentre stava lì davanti a me, sbalordirla con l'intonazione che soltanto un mercantuccio sa usare: "Ah, quei quattromila rubli! Ma io stavo scherzando, che cosa dite? Siete stata troppo credulona, signorina. Un duecento rubletti, quelli sì, con piacere, volentieri, ma quattromila, quella non è cifra da buttar via con tanta leggerezza, signorina. Vi siete data disturbo inutilmente". Vedi, chiaramente avrei perduto tutto, lei sarebbe scappata via, ma sarebbe stata una vendetta infernale che mi avrebbe ricompensato di tutto il resto. Mi sarei tormentato poi tutta la vita per il rimorso, ma che gusto combinare quel tiro! Ci credi, non mi era mai capitato con nessuno, con nessuna donna, di provare tanto odio come nel momento in cui guardavo lei, ecco, te lo giuro: io per tre, cinque secondi guardai quella donna con un terribile odio, con quello stesso odio che dista dall'amore, dall'amore più folle, di un solo capello! Mi avvicinai alla finestra, poggiai la fronte sul vetro ghiacciato, ricordo che a contatto con la superficie gelata la sentii bruciare come fuoco. Non esitai a lungo, non temere, mi girai, andai alla scrivania, aprii il cassetto e estrassi un titolo al portatore del valore di cinquemila rubli al cinque per cento (lo tenevo nel vocabolario di francese). Poi glielo mostrai, in silenzio, lo piegai, glielo diedi, le aprii io stesso la porta che dava nell'andito e, arretrando di un passo, le feci il più rispettoso, il più devoto degli inchini, credimi! Lei trasalì tutta, mi fissò per un secondo, si fece bianca come un lenzuolo, e d'un tratto, senza dire una parola neanche lei, né fare alcun movimento brusco, si prostrò ai miei piedi con un inchino dolce, profondo, quieto, fino a toccare per terra con la fronte, non come insegnano al collegio, ma alla russa! Poi saltò in piedi e corse via. Dopo che fu andata via, io mi trovai vicino alla spada; estrassi la spada e avrei voluto sgozzarmi, a che scopo, non so, era una sciocchezza madornale, naturalmente, ma doveva essere per l'entusiasmo. Lo capisci, vero, che ci si possa ammazzare per l'entusiasmo? Ma non mi sgozzai, mi limitai a baciare la spada e riporla nel fodero, cosa che potevo benissimo evitare di dirti. Vedi, anche adesso, che ti raccontavo dei miei conflitti interiori, mi sono dilungato un po' per incensare me stesso. Ma lascia pure che sia così e che il diavolo si porti tutti quelli che spiano nell'animo umano! Ecco dunque l'"episodio" del passato che mi lega a Katerina Ivanovna. Adesso lo sapete tu e il fratello Ivan, soltanto voi!»
Dmitrij Fëdoroviè si alzò, fece un passo e poi un altro, tutto agitato, estrasse il fazzoletto, si asciugò il sudore sulla fronte, poi tornò a sedersi, ma non allo stesso posto di prima, in un altro posto, sulla panchina dal lato opposto, tanto che Alëša dovette girarsi completamente per guardarlo.
V • Confessione di un cuore ardente. "A capofitto"
«Adesso», disse Alëša, «conosco la prima metà di questa storia». «Adesso conosci la prima metà: è un dramma che ebbe luogo in quella cittadina. La seconda metà, invece, è una tragedia ed avrà luogo qui».
«Di questa seconda metà fino ad ora non ho capito niente», disse Alëša.
«Perché, io? Forse io l'ho capita?»
«Aspetta, Dmitrij, a questo punto c'è una questione importante da chiarire. Dimmi: ti fidanzasti allora, e sei fidanzato anche in questo momento?»
«Non mi fidanzai subito, ma solo tre mesi dopo l'accaduto. Il giorno seguente all'incontro, dissi a me stesso che la faccenda era chiusa una volta per tutte, che non ci sarebbe stato alcun seguito. Mi sembrava un'infamia presentarmi con una proposta di matrimonio. Anche lei, da parte sua, non si fece sentire per nulla durante le sei settimane che trascorse ancora in città. Con l'eccezione di una sola circostanza, a dire il vero: il giorno successivo alla sua visita scivolò in casa mia la loro cameriera e, senza dire una parola, mi consegnò un plico. Sul plico era scritto un indirizzo: da consegnare al tal dei tali. Apro: conteneva il resto dei cinquemila rubli. Erano serviti in tutto quattromila e cinquecento rubli, ma nella vendita del titolo da cinquemila rubli si era verificata una perdita di duecento e rotti rubli. Quindi mi aveva mandato in tutto circa duecentosessanta rubli, non ricordo bene, e soltanto il denaro, non un messaggio, né una parolina, una spiegazione. Cercai nel plico un segno qualsiasi a matita: niente! E così sperperai in gozzoviglie anche i rubli che mi rimanevano, tanto che anche il nuovo maggiore fu costretto a redarguirmi. Comunque il tenente colonnello restituì felicemente la somma in consegna, con meraviglia di tutti, dal momento che nessuno credeva che egli la conservasse per intero. Ma subito dopo averla consegnata, cadde ammalato, si mise a letto, vi rimase più o meno tre settimane, dopo di che si verificò all'improvviso un rammollimento cerebrale e si spense nel giro di cinque giorni. Fu sepolto con gli onori militari, visto che non aveva fatto in tempo ad andare in congedo. Subito dopo i funerali del padre, Katerina Ivanovna, la sorella e la zia, nel giro di una decina di giorni partirono per Mosca. Ed ecco che solo prima della partenza, proprio il giorno stesso della partenza (io non ero andato a far loro visita né le avevo salutate), ricevetti una minuscola busta azzurrina che conteneva un fogliettino simile a un merletto, sul quale era scritta a matita una sola frase: "Vi scriverò, aspettate. K .". Solo questo. Ti chiarirò il resto adesso, in due parole. A Mosca la loro sorte cambiò con la rapidità di un fulmine e con l'imprevedibilità delle favole arabe. Quella generalessa, la loro parente più importante, perse in un solo colpo le sue due eredi più dirette, le sue nipoti più prossime: entrambe morirono di vaiolo nel giro di una settimana. La vecchia, sconvolta, accolse con gioia Katja come fosse una figlia, come un'ancora di salvezza, si aggrappò a lei e modificò immediatamente il testamento in suo favore, ma questo riguardava il futuro, mentre, per il presente, le consegnò immediatamente, direttamente nelle sue mani, la somma di ottomila rubli: "Eccoti la dote", le disse, "fanne l'uso che credi". È un'isterica: in seguito, a Mosca, ebbi modo di osservarla. Ed ecco che all'improvviso, in quello stesso periodo, ricevetti per posta quattromila e cinquecento rubli; come si può immaginare, rimasi sconcertato e senza parole per lo stupore. Tre giorni più tardi arrivò anche la lettera promessa. Anche adesso la porto con me, è sempre con me, morirò con essa, vuoi che te la mostri? Devi leggerla assolutamente, assolutamente: si proponeva come fidanzata, si proponeva come fidanzata lei stessa: "Vi amo da impazzire, e se voi non mi amate, fa lo stesso, siate lo stesso mio marito. Non temete, non vi darò alcun fastidio, sarò il vostro mobilio, sarò il tappeto sul quale camminerete...Voglio amarvi in eterno, voglio salvarvi da voi stesso..." Alëša, io non sono degno nemmeno di riferire quelle righe con le mie vili parole e il mio vile tono di voce, con quel mio eterno vile tono di voce dal quale non riesco in nessun modo a correggermi! Quella lettera mi trafisse e mi trafigge ancora oggi, credi che adesso non mi faccia male, credi che oggi non mi faccia ancora male? Allora le scrissi subito la risposta (mi era assolutamente impossibile recarmi a Mosca di persona). La scrissi fra le lacrime; di una sola cosa mi vergognerò in eterno: accennai al fatto che adesso lei era ricca e possedeva una considerevole dote, mentre io ero soltanto un misero villano, accennai ai soldi! Avrei dovuto sorvolare su quello, ma mi scappò dalla penna. Quel giorno stesso, scrissi immediatamente a Ivan a Mosca e gli spiegai ogni cosa per lettera, per quanto mi fu possibile - una lettera di sei fogli - e mandai Ivan da lei. Che hai da guardarmi? Perché mi fissi a quel modo? Ah, sì, Ivan si innamorò di lei, ne è innamorato anche adesso, questo lo so, ho fatto una schiocchezza, secondo la vostra opinione, l'opinione comune, ma in questo momento, forse, solo quella sciocchezza potrebbe essere la salvezza per tutti noi! Oh! Non vedi quale considerazione ha di lui, non vedi come lo stima? Pensi che, mettendo a confronto lui e me, lei potrebbe amare uno come me, soprattutto dopo tutto quello che è successo qui?»
«Invece io sono convinto che lei ami uno come te e non uno come lui».
«Lei ama la propria virtù e non me», si lasciò involontariamente sfuggire, quasi con cattiveria, Dmitrij Fëdoroviè. Scoppiò a ridere, ma un secondo dopo gli occhi gli scintillarono, arrossì tutto e picchiò con forza il pugno sul tavolo. «Ti giuro, Alëša», esclamò, animato da una terribile e sincera rabbia contro se stesso, «sei libero di non crederci, ma quanto è vero Iddio e che Cristo è nostro Signore, giuro che, sebbene poc'anzi io abbia riso dei suoi sentimenti elevati, io so che la mia anima è un milione di volte più vile rispetto alla sua e che questi suoi nobilissimi sentimenti sono sinceri come quelli di un angelo del cielo. La tragedia sta proprio nel fatto che mi rendo perfettamente conto di questo. Che male c'è se uno si mette un pochino in mostra? Non lo sto facendo anch'io forse? Eppure sono sincero, sincero. Quanto a Ivan, capisco benissimo quanto adesso debba maledire la natura, a maggior ragione con l'intelligenza che si ritrova! A chi, a che cosa viene data la preferenza? Viene data a un mostro, che anche qui, sebbene sia fidanzato e abbia addosso gli occhi di tutti, non riesce a porre freno alla propria depravazione, e questo in presenza della sua fidanzata, della sua fidanzata! Ecco, viene data la preferenza a uno come me, mentre lui viene respinto. Ma per quale motivo? Perché la fidanzata vuole violentare la propria vita e il proprio destino per gratitudine! Che assurdità! Non ho mai detto nulla a Ivan a questo riguardo, neanche Ivan, s'intende, ne ha mai fatto parola, neanche il minimo accenno; ma il destino si compirà e colui che è degno conquisterà il suo posto, mentre l'indegno si rintanerà in un vicoletto per sempre, nel suo lurido vicoletto, nel suo amato vicoletto, dove si sente come a casa sua, e lì, nella sporcizia e nel tanfo, si lascerà morire a suo piacimento, con voluttà. Le ho sparate grosse, ho esaurito le parole, le pronuncio a casaccio, ma quello che ho predetto si avvererà. Io affogherò in un vicolo e lei sposerà Ivan».
«Aspetta, fratello», lo interruppe un'altra volta Alëša straordinariamente inquieto, «non mi hai chiarito un fatto: tu sei fidanzato, sei ancora fidanzato, malgrado tutto, non è vero? E allora come puoi rompere il fidanzamento se lei, la tua fidanzata, non vuole?»
«Sono fidanzato ufficialmente e con tanto di benedizione, è avvenuto tutto a Mosca, al mio arrivo, con la processione, le immagini sacre, secondo la migliore tradizione. La generalessa ha dato la sua benedizione e - ci credi? - si è perfino congratulata con Katja: "Hai scelto bene", le disse, "leggo in lui come in un libro aperto". E - ti sembra possibile? - Ivan non le piacque e non si congratulò nemmeno con lui. A Mosca parlai a lungo anche con Katja, le raccontai tutto di me con sincerità, precisione, con il cuore in mano. Lei ascoltò ogni cosa:
Fu dolce turbamento Furono tenere parole...
Ma ci furono anche parole superbe. Mi strappò la solenne promessa che mi sarei corretto. Glielo promisi. Ed ecco...»
«Che cosa?»
«Ed ecco che adesso ti ho chiamato e ti ho trascinato qui oggi, proprio oggi - tienilo a mente questo! - allo scopo di mandarti, proprio oggi, da Katerina Ivanovna e...»
«Che cosa?»
«E dirle che non andrò mai più da lei, le dirai: "Egli si accomiata da voi con un inchino"».
«Com'è possibile questo?»
«Ma proprio per questo mando te invece di andarci io stesso, perché
è impossibile, altrimenti come farei a dirglielo di persona?» «Ma tu dove andrai?» «Nel mio vicolo».
«Allora vai da Grušen'ka!», esclamò Alëša addolorato, giungendo le mani. «Com'è possibile che Rakitin abbia detto la verità? E io che pensavo che tu l'avessi frequentata solo per un periodo e poi fosse finita lì».
«Può un fidanzato fare cose simili? È questa una cosa possibile? E per di più con una fidanzata come lei e sotto gli occhi di tutti? C'è ancora un po' di onore in me, forse. Non appena ho cominciato a frequentare Grušen'ka, subito ho smesso di essere un fidanzato e un uomo d'onore, questo lo capisco perfettamente. Che hai da guardare? Vedi, inizialmente ero andato da lei solo per picchiarla. Avevo sentito, e ora lo so per certo, che a quella Grušen'ka era stata girata una mia cambiale da quel capitano, l'incaricato di nostro padre, perché ne sollecitasse il pagamento, in modo che io mi acquietassi e la piantassi di dar fastidio. Mi volevano spaventare. Ero andato da lei per picchiarla. Mi era capitato di vederla anche in passato, di sfuggita. Non è una donna che fa colpo a prima vista. Sapevo del vecchio mercante, che adesso è malato e giace in un letto privo di forze, ma che le lascerà un bel gruzzoletto. Sapevo pure che amava accumulare denaro, accumularlo e poi prestarlo a interessi spietati, lo sapevo che era una canaglia, una scellerata senza cuore. Andai per picchiarla e invece rimasi da lei. Si scatenò la tempesta, scoppiò la peste, ne fui contagiato, e ne sono contagiato tuttora, e so che è tutto finito, che non ci sarà più nient'altro, mai. Il ciclo dei tempi si è concluso. Ecco la situazione in cui mi trovo. E in quel periodo, come a farlo apposta, mi capitò di trovarmi in tasca, anche se sono un poveraccio, la somma di tremila rubli. Allora la portai a Mokroe, a venticinque verste di qui, procurai zigani, zigane, champagne, feci ubriacare tutti i contadini del luogo, persino le donne e le ragazze, gettai al vento i miei quattrini. Dopo tre giorni ero completamente al verde, ma mi sentivo come un falco. E pensi che il falco abbia raggiunto il suo scopo? Non mi ha fatto veder nulla, neanche da lontano. Ti dirò: quella donna è tutta una curva flessuosa. Quella scellerata di Grušen'ka ha una curva flessuosa che le percorre tutto il corpo, una curva che si ripercuote persino nel suo piedino, persino nel mignolo del piedino sinistro. Io ho visto quel piedino, l'ho baciato, ma niente di più, lo giuro! Mi disse: "Tu vuoi che io ti sposi, ma tu sei un poveraccio. Dimmi che non mi picchierai e che mi permetterai di fare tutto quello che vorrò e allora forse ti sposerò". E rideva. Anche adesso ride».
Dmitrij Fëdoroviè scattò in piedi in una specie di furia, e tutto a un tratto sembrò come ubriaco. Gli occhi gli si iniettarono improvvisamente di sangue.
«E tu vuoi sposarla per davvero?»
«Se lei lo volesse anche subito, ma se non lo volesse, rimarrei lo stesso accanto a lei; le farei da portiere in cortile. Tu... tu, Alëša...» si fermò all'improvviso davanti a lui e, afferrandolo per le spalle, si mise a scuoterlo con forza, «tu lo sai, ragazzo innocente, che è tutto un delirio, un delirio senza senso, perché questa è una tragedia! Sappi, Aleksej, che io posso essere un uomo abietto, dagli appetiti abietti e degradanti, ma che Dmitrij Fëdoroviè non sarà mai un ladro, un borsaiolo, un ladruncolo da anticamera. Adesso, invece, lascia che ti dica che sono davvero un ladruncolo, un borsaiolo, un ladro da anticamera! Infatti prima che mi recassi a picchiare Grušen'ka, quella mattina stessa fui chiamato da Katerina Ivanovna, in gran segreto, perché nessuno venisse a sapere nulla (la ragione la ignoro, evidentemente aveva qualche motivo per fare così), mi chiese di recarmi nella capitale del governatorato e spedire, a mezzo posta, tremila rubli ad Agaf'ja Ivanovna, a Mosca; voleva che andassi in città per non farlo sapere qui da noi. Ecco, erano quelli i tremila rubli che mi trovavo in tasca quando andai da Grušen'ka, e fu con quel denaro che ci recammo a Mokroe. Poi feci finta di essere andato in città, ma non le mostrai la ricevuta della posta, le dissi di aver inviato i soldi e che le avrei portato la ricevuta, ma fino ad oggi non le ho portato niente, dico sempre che me ne sono dimenticato. Adesso, pensa, andrai da lei e le dirai: "Egli si accomiata da voi con un inchino" e lei ti farà: "E i soldi?" Allora tu le potresti dire: "È un vile lussurioso, un essere abietto dalle passioni incontrollabili. A suo tempo non spedì il vostro denaro, ma lo sperperò, perché, come un animale, non seppe controllarsi", ma potresti anche aggiungere: "In compenso non è un ladro, ecco i vostri tremila rubli, ve li restituisce, spediteli voi stessa ad Agaf'ja Ivanovna; quanto a lui, egli si accomiata da voi con un inchino". E se lei ad un tratto ti domanda: "Ma dove sono i soldi?"»
«Mitja, tu sei un infelice, sì! Ma non tanto quanto pensi tu, non ti tormentare a morte per la disperazione, non ti tormentare a morte!»
«Ma che, credi che mi sparerò se non troverò i tremila rubli da restituire? Il fatto è proprio questo: non mi sparerò. Adesso non ne ho la forza, dopo, forse, ma adesso andrò da Grušen'ka... Accada quel che accada!»
«E da lei che farai?»
«Sarò suo marito, mi mostrerò degno di essere il suo consorte e, quando arriveranno i suoi amanti, mi ritirerò in un'altra stanza. Pulirò le calosce infangate dei suoi amici, scalderò il samovar, le farò da galoppino...»
« Katerina Ivanovna capirà ogni cosa», disse solennemente Alëša, «capirà tutta la profondità di questo dolore e perdonerà. Ha un'intelligenza superiore e vedrà da sola che nessuno è più infelice di te».
«Non perdonerà tutto», disse Mitja sorridendo. «In questo caso, fratello, c'è qualcosa che nessuna donna potrebbe perdonare. Ma sai qual è la cosa migliore da fare?»
«Che cosa?»
«Renderle i tremila rubli».
«Ma dove li prendiamo? Ascolta, io ne ho duemila, Ivan me ne darà altri mille, e sono tre, prendili e va' a restituirglieli».
«Ma quando li avrai i tuoi tremila rubli? Tu, poi, sei ancora minorenne, mentre è necessario, assolutamente necessario, che tu vada oggi stesso a porgerle il mio commiato, con o senza i soldi, perché le cose sono arrivate a un punto tale che non posso resistere oltre. Domani sarà troppo tardi, troppo tardi. Ti manderò da nostro padre».
«Da nostro padre?»
«Sì, passerai prima da nostro padre, poi da lei. Gli chiederai tremila rubli».
«Ma, Mitja, lui non me li darà».
«Magari te li desse, ma so che non te li darà. Lo sai, Aleksej, che cosa è la disperazione?»
«Lo so».
«Ascolta: dal punto di vista giuridico egli non mi deve nulla. Ho già preso tutto da lui, tutto, questo lo so. Ma dal punto di vista morale, egli è in debito nei miei confronti, è vero o no? Infatti lui ha cominciato con i ventottomila rubli di mia madre e ne ha accumulati centomila. Che mi dia solo tremila di quei ventottomila, solo tremila, salverà la mia anima dall'inferno e con questa azione espierà molti suoi peccati! Con questi tremila rubli ho chiuso, ti do la mia parola d'onore, e non sentirà mai più parlare di me. Gli darò l'ultima occasione di comportarsi da padre. Digli che è Dio stesso a concedergli quest'ultima occasione».
«Mitja, non te li darà in nessun caso».
«Lo so che non me li darà, lo so benissimo. Specialmente adesso. E non è tutto, so anche questo: ora, qualche giorno fa, forse solo ieri, ha saputo per la prima volta, sul serio (nota bene, sul serio), che Grušen'ka forse non sta scherzando e, chissà, forse ha una mezza intenzione di sposarmi. Egli conosce il suo carattere, conosce una gatta come quella. E pensi che mi darebbe mai i soldi per aiutarmi a realizzare tutto questo, quando lui stesso impazzisce per lei? Ma non è ancora finita, c'è dell'altro: so che da cinque giorni circa ha ritirato tremila rubli, in biglietti da cento, li ha messi in un grosso plico chiuso con cinque sigilli e li ha legati con un cordoncino rosso in croce. Vedi come sono al corrente di ogni particolare! Sulla busta è scritto: "Al mio angelo Grušen'ka, se vorrà venire da me"; l'ha scarabocchiato lui stesso, quatto quatto, in segreto; e nessuno sa che ha questi soldi, tranne il lacchè Smerdjakov, del quale si fida come di se stesso. È il terzo o quarto giorno che aspetta Grušen'ka, spera che vada a prendere la busta, glielo ha fatto sapere e lei gli ha mandato a dire "Forse verrò". E se lei dovesse andare dal vecchio, potrei mai sposarla poi io? Capisci adesso perché me ne sto qui in segreto e a che cosa sto facendo la guardia?»
«A lei?»
«A lei. Foma ha affittato un buco qui da queste sgualdrine, dalle padrone della casa. Foma è delle nostre parti, era un soldato del nostro reggimento. Fa dei lavoretti per loro, di notte fa il guardiano, e di giorno va a caccia di galli cedroni e così sbarca il lunario. Mi sono appostato qui da lui; sia lui sia le padrone sono all'oscuro del segreto, cioè del fatto che faccio la guardia qui».
«Lo sa solo Smerdjakov?»
«Solo lui. Mi farà sapere se quella va dal vecchio».
«Ti ha raccontato lui del plico?»
«Sì, lui. È un segreto assoluto. Neanche Ivan sa dei soldi e del resto. Mentre il vecchio vuole mandare Ivan a fare un viaggetto di due, tre giorni a Èermašnja: si è presentato un compratore per il boschetto, per il taglio ha offerto ottomila rubli, e così il vecchio vuole convincere Ivan: "Aiutami, vacci tu", il che significa stare via un paio di giorni, forse anche tre. Vuole proprio questo: che Grušen'ka vada da lui mentre Ivan è assente».
«Dunque, anche oggi sta aspettando Grušen'ka».
«No, oggi lei non verrà, ci sono dei segni che me lo dicono. Sicuramente non verrà!», gridò Mitja all'improvviso. «Anche Smerdjakov la pensa così. Nostro padre adesso si sta ubriacando, è a tavola con il fratello Ivan. Va', Aleksej, chiedigli quei tremila rubli...»
«Mitja, caro, che ti prende?», esclamò Alëša, balzando in piedi e fissando il viso stravolto di Dmitrij Fëdoroviè. Per un istante gli passò per la mente che quello fosse impazzito.
«Ma che cosa credi? No, non sono impazzito», replicò Dmitrij Fëdoroviè con uno sguardo fisso e quasi solenne. «Non temere, ti mando da nostro padre e so bene quello che dico: credo nei miracoli».
«Nei miracoli?»
«Nei miracoli della Divina Provvidenza. Dio conosce il mio cuore, vede la mia disperazione. Vede tutt'intero questo quadro. Pensi che egli possa permettere che si compia un orrore? Alëša, io credo nei miracoli, va'!»
«Ci andrò. Ma dimmi, tu mi aspetterai qui?»
«Ti aspetterò, capisco che ci metterai un po' di tempo, non puoi presentarti lì e concludere tutto in quattro e quattr'otto! Adesso è ubriaco. Aspetterò anche tre, quattro, cinque, sei, sette ore, ma sappi soltanto che oggi, sia pure a mezzanotte, tu andrai da Katerina Ivanovna, con o senza il denaro, e le dirai: "Egli si accomiata da voi con un inchino". Voglio proprio che tu dica questa frase: "Egli si accomiata da voi con un inchino"».
«Mitja! E se Grušen'ka venisse oggi quando meno te lo aspetti...e se non oggi, domani, dopodomani?»
«Grušen'ka? Io la spierò, la sorprenderò e impedirò...» «E se...»
«Se ci sarà quel "se", ucciderò. Non potrei sopportarlo». «Chi ucciderai?»
«Il vecchio. Lei, non la ucciderò».
«Fratello, che cosa dici?»
«Eppure non so, non so... Forse, non ucciderò o forse sì, ucciderò. Ho paura che egli mi diventi così odioso in quel momento con quella sua faccia. Odio il suo pomo d'Adamo, il suo naso, i suoi occhi, il suo sorrisetto impudente. Sento una repulsione fisica. Ecco quello che temo. Ecco quello che non riuscirei a sopportare...»
«Io vado, Mitja. Credo che Dio disporrà ogni cosa come riterrà opportuno affinché l'orrore non abbia luogo».
«Io starò qui ad aspettare il miracolo. Ma se non si avvererà, allora...»
Alëša si diresse verso la casa del padre, assorto nei suoi pensieri.
VI • Smerdjakov
Trovò per davvero suo padre ancora a tavola. Secondo una vecchia consuetudine, la tavola era apparecchiata in salone, anche se nella casa c'era una sala da pranzo vera e propria. Quella era la stanza più grande della casa, arredata con una certa ostentazione vecchia maniera. I mobili erano decrepiti, bianchi, imbottiti di una vetusta tappezzeria rossa in misto seta. Sulle pareti comprese tra le finestre c'erano specchi dalle cornici elaborate di antico intaglio, anch'esse bianche con decorazioni dorate. Sulle pareti tappezzate di carta da parato bianca, in molti punti già frusta, facevano bella mostra di sé due grandi ritratti: uno di un certo principe, che una trentina di anni prima era stato generale-governatore del distretto locale, e l'altro di un arcivescovo, anche quello deceduto da tempo. Nell'angolo d'onore, presso l'ingresso, erano collocate alcune icone, davanti alle quali di notte si accendeva una lampada... non tanto per devozione quanto per illuminare l'ambiente per la notte. Fëdor Pavloviè si coricava molto tardi, verso le tre, le quattro del mattino e fino a quell'ora si aggirava per la stanza oppure sedeva in poltrona a meditare. Era diventata un'abitudine per lui. Non di rado dormiva completamente solo in casa e mandava la servitù nella dipendenza, ma di solito anche il servo Smerdjakov si tratteneva per la notte, dormiva su una panca in anticamera. Quando entrò Alëša, il pranzo era già terminato, ma erano appena stati serviti il caffè e la marmellata. Fëdor Pavloviè amava i dolci con il cognac dopo pranzo. Anche Ivan Fëdoroviè era seduto a tavola e prendeva il suo caffè. I servi Grigorij e Smerdjakov erano in piedi presso la tavola. Sia i signori sia i servitori si trovavano in uno stato di insolita e vivace animazione. Fëdor Pavloviè rideva e sghignazzava rumorosamente; sin dall'andito Alëša aveva sentito la risata stridula che gli era tanto familiare, e concluse immediatamente, dal suono di quella risata, che il padre era ben lungi dall'essere ubriaco, ma che per il momento aveva raggiunto soltanto lo stadio dell'ilarità.
«Ecco anche lui, ecco anche lui!», si mise a strillare Fëdor Pavloviè rallegrandosi enormemente per l'arrivo di Alëša. «Unisciti a noi, siediti, prendi un caffettino - certo, è di magro, ma è così caldo e buono! Non ti offro il cognac, devi osservare il digiuno, ma ne vuoi, ne vuoi? No, è meglio che ti dia un liquorino con i fiocchi! Smerdjakov, va' alla dispensa, sul secondo scaffale a destra, eccoti le chiavi, corri!» Alëša fece per rifiutare il liquore.
«Lo porteranno lo stesso, non per te, ma per noi», disse raggiante Fëdor Pavloviè. «Ma aspetta, hai pranzato?»
«Sì, ho pranzato», rispose Alëša che, in verità, aveva mangiato solo una fetta di pane e bevuto un bicchiere di kvas nella cucina dell'igumeno. «Ma berrò volentieri un caffè caldo».
«Bravo il mio ragazzo! Berrà un caffettino. Lo facciamo riscaldare? Ma no, è ancora bollente. È un caffè con i fiocchi, opera di Smerdjakov. Per il caffè e la kulebjaka il mio Smerdjakov è un vero artista; anche per la zuppa di pesce, a dire il vero. Un giorno vieni a mangiare la zuppa di pesce, ma faccelo sapere per tempo... Ma aspetta... aspetta, poco fa non ti avevo ordinato di trasferirti definitivamente, oggi stesso, qui con il materasso e i cuscini? E allora, te lo sei trascinato dietro il materasso? Eh, eh, eh!...»
«No, non l'ho portato», e si mise a ridere anche Alëša.
«Ma ti sei preso un bello spavento poco fa, vero? Ah, tesoruccio mio, come potrei fare un affronto a te? Sai, Ivan, io non resisto quando vedo che lui mi guarda in questo modo dritto negli occhi e che ride, non posso. Cominciano a ridermi le viscere in risposta al suo sorriso, gli voglio un bene! Alëška, vieni qui che ti do la benedizione paterna!» Alëša si alzò, ma Fëdor Pavloviè fece in tempo a ripensarci.
«No, no, ti farò solo il segno della croce, ecco, siediti. Be', adesso ti faremo divertire, e proprio nella tua materia. Ti farai delle belle risate. Qui da noi ha cominciato a parlare l'asina di Balaam, e come parla, devi sentire!»
Con quell'appellativo - asina di Balaam - egli si riferiva al lacchè Smerdjakov. Questi era un giovanotto sui ventiquattro anni, non di più, straordinariamente misantropo e taciturno. Non che fosse timido o si vergognasse di qualcosa; no, al contrario, era altero di carattere e sembrava che disprezzasse tutti. Ma ecco che, arrivati a questo punto non possiamo fare a meno di dire anche solo due paroline sul suo conto. Era stato allevato da Marfa Ignat'evna e Grigorij Vasil'eviè, eppure il ragazzo era cresciuto "senza la minima riconoscenza" come diceva di lui Grigorij, era selvatico e guardava il mondo in tralice. Da piccolo gli piaceva moltissimo impiccare i gatti, per poi seppellirli con tanto di cerimonia funebre. In quelle occasioni indossava un lenzuolo, che fungeva da pianeta, cantava e agitava qualcosa sul cadavere del gatto come fosse un turibolo. Faceva questo zitto zitto, con la massima segretezza. Grigorij lo pizzicò una volta mentre era intento a questa pratica e lo picchiò di santa ragione con la verga. Il ragazzo si rintanò in un angolo e tenne il broncio per una settimana. "Questo qui, a me e a te, non ci vuole bene, questo mostro", diceva Grigorij a Marfa Ignat'evna, "e non vuole bene a nessuno". "Tu non sei un essere umano", diceva a Smerdjakov dritto in faccia, "non sei un essere umano, tu sei venuto fuori dal fradicio di un bagno, ecco che cosa sei tu..." Smerdjakov, come risultò in seguito, non gli perdonò mai quelle parole. Grigorij gli insegnò a leggere e scrivere e quando compì dodici anni cominciò a insegnargli le Sacre Scritture. Ma quell'iniziativa andò subito in fumo. Una volta, durante la seconda o terza lezione, il ragazzo scoppiò a ridere all'improvviso.
«Che ti prende?», gli domandò Grigorij sbirciandolo minacciosamente da sotto gli occhiali.
«Così. Il Signore Iddio ha creato la luce il primo giorno, e il sole, la luna e le stelle il quarto giorno. Allora da dove veniva la luce il primo giorno?»
Grigorij rimase di sasso. Il ragazzo guardava il maestro con aria beffarda. C'era persino una sfumatura di alterigia nel suo sguardo. Grigorij non resisté. "Ecco da dove!", gridò e colpì furiosamente l'allievo sulla guancia. Il ragazzo incassò lo schiaffo senza dire una parola, ma si rimpiattò di nuovo in un angolo per alcuni giorni. Accadde che, una settimana più tardi, ebbe il primo attacco di epilessia; quella malattia non lo avrebbe più abbandonato per il resto della sua vita. Quando lo venne a sapere, Fëdor Pavloviè sembrò aver cambiato parere all'improvviso sul conto del ragazzo. Prima era quasi indifferente nei suoi confronti, anche se non lo rimproverava mai; anzi, ogni volta che lo incontrava gli dava una copeca. A volte, quand'era di buon umore, gli mandava pure qualche dolcetto dalla sua tavola. Ma non appena venne a conoscenza della malattia, prese a occuparsi seriamente di lui, chiamò il dottore, incominciò a farlo curare, ma la malattia risultò inguaribile. Gli attacchi ricorrevano in media una volta al mese, ma a differenti intervalli. Gli attacchi variavano anche di intensità: alcuni leggeri, altri molto feroci. Fëdor Pavloviè vietò nella maniera più categorica a Grigorij di infliggere punizioni corporali al ragazzo e cominciò ad ammetterlo di sopra, nelle sue stanze. Vietò persino che per il momento gli fossero impartite lezioni di qualunque genere. Ma una volta, quando il ragazzo aveva già compiuto quindici anni, Fëdor Pavloviè lo vide gironzolare presso gli scaffali dei libri e leggere i titoli attraverso la vetrina. Fëdor Pavloviè possedeva un bel po' di libri, un centinaio di volumi, ma nessuno lo aveva mai visto leggere. Egli dette immediatamente le chiavi della libreria a Smerdjakov: "Leggi pure, vorrà dire che mi farai da bibliotecario, meglio che bighellonare per il cortile, siediti qui e leggi. Ecco, leggi questo", e Fëdor Pavloviè gli allungò Veglie alla fattoria presso Dikan'ka.
Il ragazzo lo lesse, ma non ne rimase soddisfatto, non rise nemmeno una volta, al contrario, finì con l'accigliarsi.
«E allora? Non ti fa ridere?», domandò Fëdor Pavloviè. «Rispondi, imbecille».
«Quello che è scritto qui è tutto falso», biascicò Smerdjakov con un sorrisetto.
«Va' al diavolo allora, anima da lacchè. Aspetta, prendi La storia universale di Smaragdov, lì è tutto vero, leggi quella». Ma Smerdjakov non lesse nemmeno dieci pagine dello Smaragdov, gli risultò noioso. E così gli scaffali dei libri vennero richiusi. Ben presto Marfa e Grigorij riferirono a Fëdor Pavloviè il fatto che in Smerdjakov a poco a poco si stava manifestando una sorta di inaudita schifiltosità: a pranzo, prendeva il cucchiaio e cerca cerca nella minestra, si piegava sino al piatto, osservava, tirava fuori il cucchiaio e lo sollevava verso la luce.
«Che, c'è uno scarafaggio?», domandava a volte Grigorij.
«Una mosca, forse», notava Marfa.
Lo schizzinoso giovanotto non rispondeva mai, ma si comportava allo stesso modo con il pane, la carne, e con tutte le pietanze: sollevava con la forchetta un pezzo di cibo verso la luce, lo esaminava come al microscopio, a lungo, titubava e alla fine si decideva a portarlo alla bocca. "Vedi un po' che signorino è saltato fuori", borbottava Grigorij osservandolo. Fëdor Pavloviè, dopo aver sentito di questa nuova qualità di Smerdjakov, decise immediatamente che doveva diventare cuoco e lo mandò a far pratica a Mosca. Egli vi rimase per alcuni anni e tornò una persona completamente diversa. Sembrava che fosse straordinariamente invecchiato, di colpo, si era riempito di rughe in maniera del tutto sproporzionata rispetto alla sua età; era ingiallito, cominciava ad assomigliare a uno skopec. Dal punto di vista morale era tornato praticamente lo stesso di prima della partenza per Mosca: era sempre misantropo e non avvertiva la minima esigenza di stare con la gente. Anche a Mosca se ne stava sempre zitto, come riferirono in seguito; Mosca in sé, come città, non destò quasi per nulla il suo interesse, vide giusto qualche cosina e a tutto il resto non prestò la minima attenzione. Una volta andò anche a teatro, ma al ritorno non disse una parola, sembrava insoddisfatto. In compenso tornò da Mosca con un bel vestito, una linda finanziera e la biancheria pulita. Si spazzolava di persona l'abito con molta cura, due volte al giorno, immancabilmente; quanto agli eleganti stivali di vitellino, gli piaceva moltissimo lucidarli con una speciale crema inglese, in modo che brillassero come specchi. Si rivelò un cuoco eccellente. Fëdor Pavloviè gli fissò una paga e Smerdjakov se la spendeva quasi tutta in abiti, creme, profumi e cose del genere. Sembrava che disprezzasse il sesso femminile quanto quello maschile; con le donne era posato, quasi inaccessibile. Fëdor Pavloviè cominciò allora a preoccuparsi di lui anche da un altro punto di vista. I suoi attacchi di epilessia si erano fatti più frequenti e nei giorni in cui lui era malato, toccava a Marfa Ignat'evna preparare da mangiare, il che non andava molto a genio a Fëdor Pavloviè. «Come mai gli attacchi ti vengono sempre più spesso?», disse guardando di sottecchi il nuovo cuoco e osservando la reazione del suo viso. «E se ti ammogliassi, vuoi che ti trovi una moglie?»
Ma a questi discorsi Smerdjakov si limitava a impallidire per la stizza, senza replicare nulla. Fëdor Pavloviè si allontanava, agitando la mano in un gesto sconsolato. La cosa degna di nota è che Fëdor Pavloviè era convinto della sua onestà, senza riserve, era convinto che egli non avrebbe mai sottratto o rubato nulla. Una volta capitò che Fëdor Pavloviè, alticcio, avesse lasciato cadere nel fango del cortile di casa tre banconote iridate che aveva appena riscosso; si accorse della loro scomparsa soltanto il giorno successivo e si precipitò a frugare nelle tasche, mentre le banconote si trovavano già tutte e tre sul tavolo. Da dove erano spuntate fuori? Smerdjakov le aveva raccolte e messe lì sin dal giorno prima. "Fratello, non ho mai visto un tipo come te", commentò seccamente Fëdor Pavloviè e gli regalò dieci rubli. Bisogna aggiungere che non solo era convinto dell'onestà del giovane, ma chissà perché nutriva anche dell'affetto per lui, sebbene Smerdjakov guardasse in tralice anche il padrone come tutti gli altri, e non aprisse mai bocca neanche con lui. Era raro che attaccasse discorso. Se a qualcuno fosse venuto in mente di domandarsi guardandolo: di che si interessa questo giovanotto e che cosa gli passa per la mente? Be', sarebbe stato impossibile dare una risposta semplicemente guardandolo. Eppure, sia in casa, sia in cortile, sia per strada, gli capitava spesso di fermarsi, tutto assorto nei suoi pensieri, e rimanersene lì impalato anche per una decina di minuti. Un fisionomista, dopo averlo osservato attentamente, avrebbe concluso che nel suo caso non si trattava né di meditazione né di riflessione, ma di una sorta di stato di contemplazione. Il pittore Kramskoj ha dipinto un quadro notevole dal titolo Il contemplatore: vi è rappresentato un bosco d'inverno, e nel bosco, per la via, c'è un contadinuccio che passa di lì, solo soletto, con un caffettano lacero e miseri lapti, in uno stato di desolato abbandono, se ne sta in piedi come sovrappensiero, in realtà non pensa, ma "contempla" qualcosa. Se lo urtaste, lui trasalirebbe e vi guarderebbe come chi si sia appena svegliato, senza comprendere l'accaduto. Se, appena tornato in sé, gli domandaste a che cosa pensava mentre se ne stava lì fermo, quello certo non direbbe nulla, eppure probabilmente si terrebbe per sé le impressioni ricevute nel corso della sua meditazione. Queste impressioni gli sono care e probabilmente, le accumula, impercettibilmente e persino inconsapevolmente, senza sapere a che scopo e per quale motivo: dopo aver accumulato le impressioni di anni, potrebbe abbandonare tutto all'improvviso e fuggire a Gerusalemme, in pellegrinaggio per salvare la propria anima, oppure potrebbe appiccare fuoco al suo villaggio natio, o ancora fare l'una e l'altra cosa insieme. Ce ne sono un bel po' di questi contemplatori fra il popolo. Probabilmente anche Smerdjakov era uno di questi e probabilmente anche lui accumulava le proprie impressioni con avidità, quasi senza saperne la ragione.
VII • La controversia
Ma l'asina di Balaam all'improvviso si era messa a parlare. Si trattava di uno strano argomento di conversazione: facendo la spesa quella mattina, Grigorij aveva sentito raccontare dal padrone della bottega, Luk'janov, la storia di un soldato russo che lontano, da qualche parte, al confine, era caduto prigioniero degli asiatici e, spinto a rinnegare il cristianesimo e a convertirsi all'islamismo sotto la minaccia di una lenta agonia, non aveva acconsentito a tradire il suo credo e aveva accettato le torture, si era fatto scorticare ed era morto glorificando e lodando Cristo - di tale impresa si parlava proprio nel giornale appena uscito. Grigorij aveva avviato il discorso mentre serviva a tavola. A Fëdor Pavloviè era sempre piaciuto, dopo pranzo, al momento del dolce, fare quattro risate e quattro chiacchiere, fosse pure semplicemente con Grigorij. Quella volta, poi, era di umore allegro e piacevolmente rilassato. Dopo aver udito la notizia, mentre sorbiva il suo cognac, egli osservò che avrebbero dovuto immediatamente fare santo quel soldato e traslare la pelle che gli avevano scorticato in qualche monastero: "Così la gente correrà lì e porterà un mucchio di quattrini". Grigorij si accigliò vedendo che Fëdor Pavloviè non provava alcuna commozione e, come suo solito, cominciava a bestemmiare. Ma ecco che ad un tratto Smerdjakov, che stava vicino alla porta, si mise a sogghignare. Da un pezzo ormai Smerdjakov veniva ammesso presso la tavola padronale, soprattutto verso la fine del pranzo. Ma da quando era arrivato in città Ivan Fëdoroviè, egli aveva cominciato a farsi vedere quasi ogni giorno.
«E tu che hai da ridere?», gli domandò Fëdor Pavloviè che aveva notato immediatamente il sogghigno e aveva capito che si riferiva a Grigorij.
«Be', io credo, signore», esordì inaspettatamente Smerdjakov ad alta voce, «che seppure il gesto di questo lodevole soldato sia stato molto nobile, signore, tuttavia, secondo me, non sarebbe stato peccato se, in quelle circostanze, egli avesse rinnegato, per esempio, il nome di Cristo e il battesimo ricevuto per salvare così la propria vita e dedicarla a buone azioni grazie alle quali, nel corso degli anni, avrebbe riscattato la propria pusillanimità».
«Come sarebbe a dire che non è peccato? Tu stai farneticando, per questo andrai dritto all'inferno dove ti arrostiranno come un montone», ribattè Fëdor Pavloviè. Proprio in quel momento era entrato Alëša. Fëdor Pavloviè, come abbiamo già visto, si era rallegrato molto del suo arrivo. «Proprio la tua materia, proprio la tua materia!», ridacchiò contento, invitando Alëša ad accomodarsi e ad ascoltare.
«Quanto al montone, signore, le cose non stanno affatto così, e non succederà proprio niente del genere, e non potrebbe mai succedere, a buon diritto», notò Smerdjakov con aria d'importanza.
«Come sarebbe a dire "a buon diritto"?», gridò Fëdor Pavloviè sempre più allegro, dando colpetti di gomito ad Alëša.
«È un mascalzone, ecco che cos'è», proruppe Grigorij. Guardava con ira Smerdjakov dritto negli occhi.
«Quanto al mascalzone, Grigorij Vasil'eviè, andateci piano», ribatté Smerdiakov calmo e compassato, «fareste meglio a giudicare da voi: se dovessi cadere prigioniero dei torturatori della razza cristiana e quelli pretendessero che io maledicessi il nome di Dio e rinnegassi il Santo Battesimo, io sarei autorizzato in tutto e per tutto a farlo, in forza della mia ragione, giacché in questo non ci sarebbe alcun peccato».
«Questo lo hai già detto, non ti perdere in chiacchiere, dimostralo!», gridò Fëdor Pavloviè.
«Cucinabrodaglie!», sussurrò Grigorij con disprezzo.
«Quanto al cucinabrodaglie, andateci piano anche su quello e, invece di offendere, giudicate da voi, Grigorij Vasil'eviè. Non appena dirò ai torturatori: "No, non sono cristiano e maledico il mio vero Dio", immediatamente il Supremo Tribunale di Dio mi infliggerà un'immediata e speciale scomunica e io sarò allontanato dalla Santa Chiesa né più né meno di un pagano, cosicché non solo nel momento in cui pronuncerò la maledizione, ma nel momento stesso in cui mi disporrò mentalmente a pronunciarla, non sarà passato nemmeno un quarto di secondo che sarò allontanato dalla Chiesa, è così o no, Grigorij Vasil'eviè?»
Si rivolgeva a Grigorij con evidente gusto mentre in realtà rispondeva alle domande di Fëdor Pavloviè; era consapevole di questo, ma faceva finta, a bella posta, che fosse stato Grigorij a porgli le domande. «Ivan!», gridò all'improvviso Fëdor Pavloviè. «Chinati vicino vicino al mio orecchio. Ha messo su tutto questo per te, vuole le tue lodi. Lodalo».
Ivan Fëdoroviè ascoltò con aria perfettamente seria l'entusiasta comunicazione del padre.
«Aspetta, Smerdjakov, sta zitto per un attimo», gli gridò nuovamente Fëdor Pavloviè. «Ivan, chinati un'altra volta».
Ivan si chinò con la stessa aria seria di prima.
«Voglio bene a te quanto ad Alëša. Non pensare che io non ti voglia bene. Un cognac?»
«Sì, prego». "Comunque anche tu ti sei preso la tua brava sbronza", pensò Ivan Fëdoroviè guardando fisso il padre.
Intanto osservava Smerdjakov estremamente incuriosito.
«Sei scomunicato anche adesso», proruppe ad un tratto Grigorij, «e come osi giudicare, mascalzone, quando tu stesso...»
«Non lo insultare, Grigorij, non lo insultare!», lo interruppe Fëdor Pavloviè.
«Dovreste aspettare, Grigorij Vasil'eviè, almeno un pochino, signore, e ascoltare il resto, perché non ho ancora finito. Pertanto, nel momento stesso in cui sarò maledetto da Dio, proprio in quello stessissimo istante, signore, sarò diventato né più né meno di un pagano, il battesimo mi sarà cancellato e non avrà più valore, è così o no?»
«Concludi, ragazzo, fa presto, concludi», lo incitò Fëdor Pavloviè sorseggiando con voluttà il liquore dal bicchierino.
«E se non sono cristiano, allora non ho mentito ai torturatori quando quelli mi hanno domandato: "Sei o no un cristiano?", dal momento che ero stato privato del mio cristianesimo da Dio stesso, in ragione della mia sola intenzione, prima ancora che riuscissi a pronunciare parola con i miei persecutori. E se sono stato già degradato, in che modo e secondo quale diritto chiederanno conto a me nell'aldilà, come se fossi un cristiano, per il fatto di aver rinnegato Cristo, se sono stato privato del mio battesimo nel momento stesso in cui ho pensato di rinnegarlo, prima ancora che lo rinnegassi verbalmente? Se non ero più cristiano, vuol dire che non potevo rinnegare Cristo, giacché non avevo più nulla da rinnegare. Chi chiederà conto ad un tataro pagano, Grigorij Vasil'eviè, fosse pure nel Regno dei Cieli, per il fatto che egli non è nato cristiano? E chi lo condannerà, considerato che da un solo bue non si scorticano due pelli? Lo stesso Dio Onnipotente, anche se dovesse chiedere conto al tataro quando questi morirà, gli infliggerà tuttavia una pena lievissima (visto che è impossibile esimerlo del tutto da punizione), giudicando che non ha colpa di essere nato pagano da genitori pagani. Potrebbe mai accadere che il Signore Iddio prenda di forza il tataro e gli dica che anche lui era un cristiano? In tal caso varrebbe a dire che il Signore Onnipotente ha detto una bugia bella e buona. Ma potrebbe mai il Signore Onnipotente del cielo e della terra mentire anche solo con una parolina?»
Grigorij era rimasto di sasso e guardava l'oratore con gli occhi fuori dalle orbite. Sebbene non avesse ben capito quello che stava dicendo, qualche cosa di quella assurda tiritera l'aveva d'un tratto colta e si era fermato con l'aria di chi abbia appena sbattuto la testa contro un muro.
«Alëška, Alëška, hai sentito che roba? Ah, ma tu sei un casista! Sarà stato da qualche parte con i gesuiti, eh Ivan? Ah, gesuita puzzolente, ma chi ti ha insegnato queste cose? Soltanto che le tue sono storie, casista mio, storie, storie, storie. Non piangere, Grigorij, in un batter d'occhio lo ridurremo in cenere e fumo. Dimmi solo questo, asina: ammesso pure che tu abbia ragione davanti ai torturatori, comunque tu stesso, dentro di te, avresti rinnegato il tuo credo e tu stesso dici che in quell'istante saresti colpito dall'anatema, e una volta che c'è l'anatema, all'inferno certo non ti daranno dei buffetti sulla testa. Che cosa dici a questo proposito, caro il mio gesuita?»
«Non c'è dubbio, signore, che dentro di me io abbia rinnegato il mio credo, tuttavia anche in questo caso non ci sarebbe alcun peccato particolarmente grave, e ammesso che un peccatuccio ci sia, sarebbe dei più ordinari».
«Come sarebbe, dei più ordinari?» «Tu menti, maledet-to!», sibilò Grigorij.
«Giudicate da voi, Grigorij Vasil'eviè», proseguì Smerdjakov con tono calmo e posato, conscio della propria vittoria, ma quasi ostentando aria magnanima verso il nemico battuto, «giudicate da voi, Grigorij Vasil'eviè: nelle Scritture si dice che se avete fede, foss'anche nella misura di un piccolo seme, e direte a una montagna di gettarsi nel mare, quella si getterà, senza porre tempo in mezzo, al vostro primo ordine. E allora, Grigorij Vasil'eviè, se io non ho fede e voi invece avete tanta fede da arrivare persino ad insultarmi in continuazione, allora provate voi a dire a quella montagna, se non proprio di gettarsi in mare (visto che il mare è distante da qui), almeno di gettarsi nel nostro fiumiciattolo maleodorante, quello che scorre dietro il nostro giardino, e allora in quel momento vedrete con i vostri occhi che non si muoverà proprio un bel niente e tutto rimarrà esattamente com'era prima, per quanto voi vi sgoliate. E questo significa che neanche la vostra fede è come dovrebbe essere, Grigorij Vasil'eviè, eppure vi permettete di offendere gli altri in tutti i modi. Pertanto, considerando anche il fatto che nella nostra epoca nessuno, non soltanto voi, signore, ma decisamente nessuno, a cominciare dalle persone più altolocate per finire con l'ultimo dei contadini, è in grado di spostare una montagna sino al mare - tranne forse qualche rara persona in tutta la terra, due al massimo, e di quelle che si trovano pure da qualche parte del deserto egiziano dove santificano la propria anima in segreto, tanto che nessuno li può trovare; allora se le cose stanno così, se tutti gli altri risultano privi di fede, potrebbe mai accadere che tutti questi altri, cioè l'intera popolazione terrestre, tranne quei due eremiti, vengano maledetti da Dio e che Egli nella sua misericordia, tanto famosa, non perdoni proprio nessuno? Pertanto io nutro la speranza che, pur avendo dubitato una volta, sarò perdonato se verserò lacrime di pentimento».
«Aspetta!», squittì Fëdor Pavloviè al culmine dell'entusiasmo. «Così, nonostante tutto, ammetti che possano esistere due persone in grado di spostare una montagna? Ivan, prendi nota di questa caratteristica, scrivitelo: qui si è espresso l'uomo russo per intero!»
«Voi avete notato del tutto giustamente che questa è una caratteristica della fede del popolo», convenne Ivan Fëdoroviè con un sorriso d'approvazione.
«Sei d'accordo? Allora le cose stanno così, se tu sei d'accordo! Alëska, è proprio vero? È questa veramente la fede russa, non è vero?» «No, quella di Smerdjakov non è affatto la fede russa», sentenziò Alëša in tono serio e deciso.
«Non sto parlando della sua fede, ma di quell'idea dei due eremiti, soltanto di quella ideuzza: è proprio russa, tutta russa, non è vero?» «Sì, è proprio russa», rispose Alëša sorridendo.
«La tua parola vale dieci rubli, asina, e te li manderò oggi stesso; quanto al resto sono tutte storie, storie e storie; sappi, imbecille, che noi tutti qui non abbiamo fede solo per noncuranza, perché ci manca il tempo: in primo luogo, siamo oberati dalle faccende, in secondo luogo, Dio ci ha dato poco tempo, ha fatto la giornata di sole ventiquattro ore, tanto che non abbiamo nemmeno il tempo di dormire a sufficienza, figurati di pentirci. Invece tu hai rinnegato la fede davanti ai torturatori, quando non avevi nient'altro a cui pensare che alla fede, proprio nel momento in cui dovevi dimostrarla quella fede! Questo, fratello, a parer mio costituisce un peccato».
«Quanto a costituire un peccato, certo lo costituisce, ma giudicate da voi, Grigorij Vasil'eviè, che proprio il fatto che lo costituisca non fa che alleviarlo. Infatti, se avessi creduto nella verità, come bisognerebbe credere, sarebbe stato un vero peccato non accettare la tortura per la mia fede e convertirmi al Maometto pagano. Ma in quel caso non sarei neanche arrivato alla tortura, in quanto, in quel momento, sarei stato in grado di dire alla montagna: "Muoviti e schiaccia il torturatore", e quella si sarebbe mossa e l'avrebbe schiacciato all'istante come uno scarafaggio, e io me ne sarei andato come se nulla fosse, inneggiando e glorificando Dio. Ma supponiamo che in quel momento ci avessi provato e avessi gridato alla montagna: "Schiaccia questi torturatori" e quella non li avesse schiacciati, allora ditemi, di grazia, come avrei potuto fare a meno di dubitare in un momento simile, nella terribile ora della grande paura della morte? Tanto so già che non conquisterò pienamente il Regno dei Cieli (se la montagna non si è mossa al mio comando vuol dire che da quelle parti non credono molto alla mia fede, quindi nell'altro mondo non mi aspetta un gran che di ricompensa); per quale motivo allora e, soprattutto, che utilità avrebbe lasciarmi scorticare? Infatti, anche se quelli fossero arrivati a scorticarmi a metà schiena, neanche allora la montagna si muoverebbe al mio ordine, alle mie grida. Inoltre, in un momento simile, non solo è possibile che sopraggiunga il dubbio, ma si può persino perdere la ragione per la paura, tanto che pensare diventerebbe del tutto impossibile. Dunque, in che modo sarei da biasimare se, non trovando né in questo mondo né nell'altro alcun tipo di vantaggio, né ricompensa, pensassi per lo meno a salvare la pelle? Pertanto, confidando fermamente nella misericordia di Dio, nutro la speranza che potrò essere completamente perdonato...»
VIII • Sorseggiando un cognacchino
La discussione era giunta al termine, ma, cosa strana, Fëdor Pavloviè, che fino a quel momento era stato così allegro, verso la fine si era d'un tratto rabbuiato. Si era rabbuiato e si era attaccato alla bottiglia, e quello fu davvero il bicchierino di troppo.
«Levatevi di torno, gesuiti, fuori», gridò ai servitori. «Vattene, Smerdjakov. Ti manderò oggi stesso i dieci rubli che ti ho promesso, ma adesso vattene. Non piangere, Grigorij, va' da Marfa, lei ti consolerà, ti metterà a letto. Quelle canaglie non ti lasciano stare un po' in pace neanche dopo pranzo», concluse bruscamente mentre i servitori si allontanavano prontamente al suo ordine. «Adesso Smerdjakov si intrufola ogni giorno dopo pranzo, sei tu che lo interessi tanto, come hai fatto a conquistarlo fino a questo punto?», soggiunse rivolto a Ivan Fëdoroviè.
«Proprio niente», rispose quello, «gli è saltato in mente di avere gran stima di me; ma è solo un lacchè e un villano. Carne da prima linea, comunque, per quando verrà l'ora». «Da prima linea?»
«Ce ne saranno altri e migliori, ma ci saranno anche quelli come lui.
Quelli come lui verranno prima e poi seguiranno i migliori».
«E quando verrà l'ora?»
«Il razzo si accenderà, ma forse non resterà acceso a lungo. Il popolo non ama molto dare ascolto a questi cucinabrodaglie».
«Eppure, fratello, un'asina di Balaam come lui pensa, pensa, e solo il diavolo sa che cosa arriva a pensare».
«Sta accumulando pensieri», disse Ivan sorridendo.
«Vedi, io so che non sopporta neanche me al pari di tutti gli altri, e neanche te, sebbene ti sembri che "gli sia saltato in mente di aver stima di te". Con Alëška ancora peggio, egli disprezza Alëša. Ma non ruba, questo è l'importante, e poi non è pettegolo, tiene la lingua a freno e non va a lavare i panni sporchi fuori di casa, cucina la kulebjaka in modo eccellente. Ma del resto, che il diavolo se lo porti, merita davvero che si parli tanto di lui?»
«Certo che no».
«E poi, per quanto riguarda quello che cova dentro di sé, il contadino russo, parlando in generale, va fustigato. Io l'ho sempre sostenuto. Il contadino da noi è truffatore, non vale la pena averne pietà, ed è un bene che ogni tanto lo picchino anche adesso. La terra russa è forte grazie alla betulla. Se distruggono le foreste, sarà la rovina della terra russa. Io sono dalla parte delle persone di cervello. Noi abbiamo smesso di picchiare i contadini per la nostra grande intelligenza e quelli continuano a fustigarsi fra di loro. E fanno bene. Con lo stesso metro con cui hai misurato, sarà misurato anche a te, come si dice... Insomma, sarà misurato anche a te. La Russia è tutta una porcheria. Amico mio, se sapessi, come odio la Russia... cioè non la Russia, ma tutto questo vizio... o forse, proprio la Russia. Tout cela c'est de la cochonnerie! Sai che cosa mi piace? Mi piace l'arguzia».
«Vi siete scolato un altro bicchierino. Sarebbe l'ora di smetterla».
«Aspetta, ancora uno, ancora uno, e poi basta. No, aspetta, mi hai interrotto. Mentre passavo da Mokroe ho fatto quattro chiacchiere con un vecchio e quello mi ha detto: "Ci piace moltissimo far fustigare le ragazze per punizione e le facciamo sempre fustigare dai giovanotti. Il giorno dopo il giovanotto va a chiedere la mano della ragazza che ha fustigato, così che da noi, per le ragazze questa è un'abitudine". Eccoti una vera razza di marchesi de Sade, eh? Pensala come vuoi, ma è una trovata arguta. Che ne diresti di farci un salto anche noi per dare un'occhiatina? Alëška, sei arrossito? Non ti vergognare, piccino. Peccato che oggi non ho pranzato dall'igumeno e non ho raccontato ai monaci la storia delle ragazze di Mokroe. Alëška, non ti arrabbiare per il fatto che poco fa ho offeso a morte il tuo igumeno. Perdo subito la pazienza io, ragazzo mio. Ecco, se Dio c'è, se esiste, allora sono certo colpevole e ne risponderò, ma se non esiste, che bisogno c'è dei tuoi padri? Non sarebbe sufficiente nemmeno tagliare la testa a molti di loro, perché impediscono il progresso. Ci credi, Ivan, che questo affligge i miei sentimenti? No, non ci credi, lo vedo dai tuoi occhi. Tu credi alla gente che dice che io non sono altro che un buffone. Alëša, tu ci credi che sono soltanto un buffone?» «Credo che non siate soltanto un buffone».
«E io credo che tu ci credi e parli con sincerità. Guardi con sincerità e parli con sincerità. Ivan no, invece. Ivan è altezzoso... Comunque con quel tuo monasteruccio la farei finita. Prenderei in un colpo tutto il misticismo dell'intera terra russa e lo abolirei per far ragionare una buona volta tutti questi imbecilli. E quanto argento, quanto oro entrerebbe nelle casse della zecca!»
«Ma a che pro abolirlo?», intervenne Ivan.
«Perché la verità risplenda al più presto, ecco perché».
«Ma se dovesse risplendere questa verità, sareste il primo ad essere derubato e poi... abolito».
«Ah! Forse hai proprio ragione. Sono proprio un asino», esclamò ad un tratto Fëdor Pavloviè, dandosi un leggero colpetto sulla fronte. «Allora che il tuo monasterucolo continui a sopravvivere, Alëška, se così stanno le cose. E noi, gente di cervello, ce ne staremo seduti al calduccio a goderci il nostro cognacchino. Lo sai, Ivan, che tutto questo deve essere stato sicuramente organizzato a bella posta da Dio stesso? Ivan, dimmi: Dio esiste? Ma bada: dì la verità, parla sul serio! Che hai ancora da ridere?»
«Rido per quello che voi stesso avete argutamente notato poco fa a proposito della fede di Smerdjakov nell'esistenza dei due eremiti che potrebbero smuovere le montagne».
«Perché, gli somiglio in questo momento?»
«Molto».
«Quindi, vuol dire che anch'io sono un uomo russo e ho caratteristiche russe e anche tu, che sei un filosofo, puoi essere colto nella tua caratteristica allo stesso modo. Facciamo la prova. Vuoi scommettere che ti coglierò domani stesso? Però adesso dimmi: Dio esiste? Ma rispondi seriamente! Adesso voglio che tu risponda seriamente». «No, Dio non esiste». «Alëška, Dio esiste?» «Dio esiste».
«Ivan, l'immortalità esiste, c'è qualcos'altro dall'altra parte, anche qualcosina di piccolo, di piccolissimo?»
«Non esiste neanche l'immortalità». «Per niente?» «Per niente».
«Vale a dire lo zero assoluto, oppure c'è qualcos'altro? Forse esiste qualcosa di diverso? Sarebbe pur sempre qualcosa!» «Lo zero assoluto».
«Alëška, esiste l'immortalità?» «Esiste».
«Dio e l'immortalità?»
«Sia Dio sia l'immortalità. L'immortalità è in Dio».
«Hmm... È più probabile che abbia ragione Ivan. Dio mio, pensa solo a quanta fede ha sprecato l'uomo, quante forze ha sciupato invano per questo sogno, e questo da migliaia di anni ormai! Chi è che si prende gioco a questo modo dell'uomo? Ivan! Per l'ultima volta, quella definitiva: Dio esiste o no? Te lo chiedo per l'ultima volta!» «E per l'ultima volta vi dico di no».
«Chi si prende gioco degli uomini, Ivan?»
«Il diavolo, forse», rispose Ivan Fëdoroviè sorridendo.
«E il diavolo esiste?»
«No, non esiste neanche il diavolo».
«Peccato. Al diavolo! Che cosa gli farei a quello che ha inventato Dio, se stanno così le cose! Neanche essere impiccato a una tremula gli basterebbe».
«Non ci sarebbe stata la civiltà se non avessero inventato Dio».
«Non ci sarebbe stata? Senza Dio?»
«Sì. Non ci sarebbe stato neanche il cognacchino. Ma adesso mi toccherà togliervelo quel cognac».
«Aspetta, aspetta, aspetta, caro, ancora un bicchierino, solo uno. Ho offeso Alëša. Non sei arrabbiato, Aleksej? Caro il mio Aleksejèik, Aleksejèik!»
«No, non sono arrabbiato. Io conosco i vostri pensieri. Il vostro cuore è migliore della vostra testa».
«Io avrei il cuore migliore della testa? Signore mio, e chi è a dirmi questo? Ivan, vuoi bene ad Alëška?» «Gli voglio bene».
«Devi volergli bene». (Fëdor Pavloviè era ormai brillo). «Ascolta, Alëša, ho commesso una grave insolenza davanti al tuo starec poco fa. Ma ero agitato. Eppure in quello starec c'è dell'arguzia, che ne pensi, Ivan?»
«Forse sì».
«C'è, c'è, il y a du Piron là-dedans. È un gesuita, russo però. Come in tutte le nobili creature, in lui ribolle l'indignazione di dover fingere... per infilarsi quell'aura di santità».
«Ma, naturalmente, egli crede in Dio».
«Neanche per sogno. Non lo sapevi? Eppure lo dice lui stesso a tutti, cioè non a tutti, ma a tutte le persone di cervello che vanno a trovarlo. Al governatore Šul'z l'ha detto dritto in faccia:"Credo, ma non so in che cosa"».
«Davvero?»
«Proprio così. Io lo stimo. C'è in lui qualcosa di mefistofelico o meglio qualcosa di Un eroe del nostro tempo... di Arbenin... oppure... cioè, vedi, è un lussurioso; è lussurioso a tal punto che io avrei timore che mia figlia o mia moglie andassero a confessarsi da lui. Sai, quando comincia a raccontare... Due anni anni fa ci invitò a prendere un tè, ci offrì pure un liquorino (le signore gli mandano liquori), e si mise a descrivere i tempi andati in modo così gustoso che noi ridevamo a crepapelle...Soprattutto quando raccontò di come aveva guarito una donna paralitica. "Se non mi facessero male le gambe, mi esibirei in un bel balletto qui con voi". Eh, che ne dite di questo? "Ai miei tempi ne ho athosiggiate di cotte e di crude". Ha pure sgraffignato sessantamila rubli al mercante Demidov». «Vuol dire che li ha rubati?»
«Quello glieli portò pensando che fosse un brav'uomo:
"Conservameli tu, fratello, domani da me ci sarà una perquisizione". E quello glieli conservò a modo suo. "È come se li avesse dati in offerta alla chiesa", dichiarò. Io gli dico: "Sei un mascalzone". "No", fa lui, "non sono un mascalzone, sono generoso..." Ma non era lui... È un altro... Mi sono confuso con un altro... senza accorgermene. Be', un altro bicchierino e poi basta; metti via la bottiglia, Ivan. Stavo mentendo, perché non mi hai fermato, Ivan... e non mi hai detto che stavo mentendo?» «Lo sapevo che vi sareste fermato da solo».
«Tu menti, lo hai fatto per cattiveria nei miei confronti, esclusivamente per cattiveria. Tu mi disprezzi. Sei venuto da me e mi disprezzi in casa mia».
«Me ne andrò anch'io; il cognac vi fa sragionare».
«Ti ho pregato, in nome di Cristo Nostro Signore, di andare a Èermašnja... per un giorno, due, ma tu non ci vai».
«Ci andrò domani se insistete tanto».
«Non ci andrai. Tu vuoi spiarmi qui, ecco che vuoi fare, anima perfida, ecco perché non te ne vai, vero?»
Il vecchio non si calmava. Era arrivato a quel particolare stadio di ubriachezza nel quale ad alcune persone, fino a un momento prima inoffensive, viene l'estro di attaccare briga e fare scenate.
«Che hai da guardarmi? Perché mi guardi a quel modo? I tuoi occhi mi guardano e dicono: "Brutto muso di ubriacone". I tuoi occhi sono sospettosi, i tuoi occhi sono sprezzanti... Sei un ipocrita. Ecco, Alëška ti guarda e i suoi occhi sono radiosi. Alëša non mi disprezza. Aleksej, non volere bene a Ivan...»
«Non prendetevela con mio fratello! Smettetela di offenderlo», disse Alëša all'improvviso con determinazione.
«Be', dicevo per dire. Ah, come mi fa male la testa. Metti via il cognac, Ivan, è la terza volta che te lo dico». Rimase pensieroso per un po' e poi all'improvviso un lento, furbo ghigno affiorò sul suo viso. «Non te la prendere, Ivan, con un vecchio scorfano. Lo so che non mi vuoi bene, ma non te la prendere lo stesso. Non hai motivo di volermi bene. Tu andrai a Èermašnja e io stesso ti raggiungerò più tardi, ti porterò un regalino. Ti mostrerò una ragazza lì, l'ho adocchiata da un pezzo. È ancora una ragazzina che va in giro a piedi nudi. Non lasciarti spaventare da quelle ragazzine, non le disprezzare: sono perle!...» E si baciò la mano con uno schiocco.
«Per me», si animò d'un tratto, come se per un attimo fosse tornato sobrio non appena aveva toccato il suo argomento preferito, «per me... Eh, ragazzi! Figlioletti, porcellini miei da latte, per me... in tutta la mia vita, non c'è mai stata una donna brutta per me, ecco la mia regola! Riuscite a capire questo? Ma come fate a capirlo voi: nelle vostre vene scorre latte non sangue, non siete ancora usciti dal vostro guscio! Secondo la mia regola in ogni donna si può trovare qualcosa di estremamente, diabolicamente interessante che non troverai mai in nessuna altra donna, solo che bisogna saperlo trovare, questo è il punto! È un talento questo! Per me non sono mai esistite donne bruttine: basta che siano donne e siamo già a metà strada... ma come fate a capirlo voi questo! Persino nelle vieilles filles, persino in quelle scoverai qualcosa che ti farà restare con tanto d'occhi per tutti quegli imbecilli che le hanno lasciate stagionare senza notarle! Per primissima cosa, le ragazzette scalze, come anche le bruttine, vanno colte di sorpresa, questo è il verso giusto con loro. Non lo sapevi? Ciascuna di loro va sorpresa sino a mandarla in estasi, sino a farla strillare e vergognare che un gentiluomo così abbia potuto innamorarsi di una poveraccia come lei. È veramente magnifico che ci siano sempre stati, e sempre ci saranno, villani e signori a questo mondo, perché così ci saranno sempre le sguattere e i loro padroni, ed è solo questo che serve per essere felici nella vita! Aspetta... ascolta, Alëša, io ho sempre sorpreso la buonanima di tua madre, solo che ottenevo un altro effetto. Non la coccolavo mai, ma quando all'improvviso me ne veniva l'estro, diventavo tutto zucchero e miele davanti a lei, strisciavo sulle ginocchia, le baciavo i piedini, e sempre, sempre - lo ricordo come se fosse ora - la conducevo a quella sua risatina rotta, sonora, non rumorosa, ma nervosa, particolare. Solo lei sapeva ridere così. Io sapevo che così cominciavano sempre gli attacchi del suo male, che l'indomani avrebbe urlato come un'isterica e che quella sua risatina sottile non era segno di eccitazione, eppure anche l'illusione è eccitante. Ecco che cosa significa saper trovare in ognuna il suo tratto caratteristico! Una volta Beljavskij - era un tipo di bell'aspetto, un riccone che faceva il cascamorto con lei e aveva fatto in modo di venirmi spesso fra i piedi - una volta, dicevo, mi dette uno schiaffo e proprio in presenza di lei. Allora lei, la mite pecorella, pensai che mi avrebbe fatto a pezzi per quello schiaffo vista la violenza con la quale mi attaccò: "Ti hanno picchiato, picchiato, ti sei preso uno schiaffo da lui! Mi hai venduta a lui... Come ha osato colpirti davanti a me! Non osare più comparirmi davanti, mai più! In questo stesso momento lo devi sfidare a duello..." Allora la portai al monastero per farla calmare, i santi padri la curarono con la preghiera. Ma quanto è vero Iddio, non ho mai offeso la mia klikušeèka! Forse solo una volta, ancora nel primo anno: allora lei pregava molto, osservava soprattutto le festività della Madonna e in quei periodi mi cacciava dalla sua stanza. Mi venne in mente di sradicarle via tutta quella mistica! "Vedi", le dissi, "vedi la tua immagine, quella lì, ecco, adesso la toglierò. Guarda un po', tu la consideri miracolosa e invece io adesso, davanti a te, le sputerò sopra e non mi accadrà proprio nulla per questo!..." Quando mi vide fare quello io pensai, Signore, adesso mi ammazza, e invece saltò in piedi, batté le mani, si coprì di colpo il volto con le mani, tremò tutta e crollò a terra... si lasciò proprio cadere... Alëša, Alëša! Che hai? Che hai?»
Il vecchio balzò in piedi spaventato. Da quando il padre aveva cominciato a parlare della madre, l'espressione del viso di Alëša era mutata gradualmente. Era arrossito, gli occhi gli brillavano, le labbra gli tremavano... Il vecchiaccio avvinazzato aveva continuato a sputacchiare e non si era accorto di nulla fino al momento in cui ad Alëša non accadde qualcosa di molto strano: si ripeté in lui, ad un tratto, esattamente quello che il padre stava raccontando della klikuša. Alëša saltò in piedi dal suo posto a tavola, esattamente come aveva fatto sua madre secondo il racconto, batté le mani, poi si coprì il volto, cadde come privo di sensi sulla sedia, e proruppe all'improvviso, come lei, in un attacco isterico di pianto improvviso, silenzioso e squassante. La straordinaria somiglianza con la madre colpì in modo particolare il vecchio.
«Ivan, Ivan! Presto, dell'acqua! Come lei, esattamente come lei, come faceva allora sua madre! Spruzzagli l'acqua addosso con la bocca, io facevo così allora. È perché ha sentito parlare di sua madre, di sua madre...», sussurrò a Ivan.
«Ma era anche mia madre, penso, quella che fu sua madre, vero?», proruppe Ivan con un disprezzo e una rabbia irrefrenabili. Il vecchio trasalì davanti a quello sguardo scintillante. Ma a quel punto successe una cosa molto strana, anche se solo per un attimo, a dire il vero: al vecchio, a quanto pare, era davvero uscito di mente che la madre di Alëša fosse anche la madre di Ivan...
«Come, tua madre?», biascicò senza intendere. «Perché dici questo? Di che madre parli?... forse lei... Ah, al diavolo! Infatti era anche tua madre! Al diavolo! Non ho mai avuto un'amnesia così, caro, scusami, e io che pensavo, Ivan... Eh, eh, eh!» Si interruppe. Un sogghigno prolungato, avvinazzato, mezzo ebete si diffuse sul suo viso. Ed ecco che all'improvviso, in quello stesso istante si udì provenire dall'ingresso un chiasso e un clamore terribili, si udirono grida indiavolate, la porta si spalancò e irruppe nella sala Dmitrij Fëdoroviè. Il vecchio si slanciò verso Ivan spaventato: «Mi ammazza, mi ammazza! Non farlo avvicinare, non farlo avvicinare!», gridava aggrappandosi alla falda del soprabito di Ivan Fëdoroviè.
IX • I lussuriosi
Dietro a Dmitrij Fëdoroviè si precipitarono nella sala anche Grigorij e Smerdjakov. Erano stati loro a lottare nell'ingresso contro di lui per impedirgli di entrare (secondo le disposizioni che Fëdor Pavloviè stesso aveva dato già da alcuni giorni). Sfruttando il fatto che Dmitrij Fëdoroviè, dopo aver fatto irruzione nella stanza, si era fermato un attimo per guardarsi intorno, Grigorij fece il giro intorno al tavolo, chiuse entrambi i battenti della porta sul lato opposto della sala, quella che conduceva nelle camere interne, e si piazzò davanti alla porta chiusa, con le braccia incrociate, pronto a difendere l'ingresso all'ultimo sangue, per così dire. Nel vedere questo, Dmitrij lanciò più che un urlo, uno strillo acuto e si scagliò contro Grigorij.
«Allora lei è lì! L'avete nascosta lì! Fuori dai piedi, mascalzone!» Fece per assalire Grigorij, ma quello lo respinse. Fuori di sé dalla rabbia, Dmitrij alzò il braccio e colpì Grigorij con tutta la sua forza. Il vecchio cadde a corpo morto, mentre Dmitrij scavalcandolo, sfondava la porta. Smerdjakov rimaneva dal lato opposto della sala, pallido e tremante, stretto stretto a Fëdor Pavloviè
«Lei è qui», gridò Dmitrij Fëdoroviè, «l'ho appena vista svoltare verso la casa, solo che non ho fatto in tempo a raggiungerla. Dov'è? Dov'è?»
Quel grido "lei è qui" produsse su Fëdor Pavloviè un effetto indescrivibile. Il terrore lo abbandonò in un attimo.
«Fermalo, fermalo!», strillò e si lanciò all'inseguimento di Dmitrij Fëdoroviè. Grigorij nel frattempo si era alzato da terra, ma sembrava ancora intontito. Ivan Fëdoroviè e Alëša si slanciarono a rincorrere il padre. Nella terza stanza si udì il rumore di qualcosa che cadeva per terra e si rompeva in mille pezzi tintinnanti: si trattava di un grosso vaso di vetro (di quelli poco costosi), che stava su un piedistallo di marmo e che Dmitrij Fëdoroviè aveva investito correndo come una furia.
«Prendetelo!», strillava il vecchio. «Aiuto!»
Ivan Fëdoroviè e Alëša finalmente raggiunsero il vecchio e lo riportarono nella sala con la forza.
«Che lo rincorrete a fare? Non ci metterebbe niente a farvi fuori!», gridò irosamente Ivan Fëdoroviè al padre.
«Vaneèka, Lëšeèka, dunque lei è qui, Grušen'ka è qui, l'ha detto lui che l'ha vista passare di corsa...»
Era tutto emozionato. Quel giorno non si aspettava l'arrivo di Grušen'ka e la notizia improvvisa che lei era lì gli aveva fatto perdere la testa di colpo. Tremava tutto, era come impazzito.
«Ma se l'avete visto voi stesso che non è venuta!», gridò Ivan.
«Forse è entrata da quell'altro ingresso?»
«Ma quell'altro ingresso è chiuso a chiave, e la chiave l'avete voi...»
Dmitrij riapparve nella sala. Evidentemente aveva trovato l'altro ingresso chiuso; la chiave infatti era nella tasca di Fëdor Pavloviè. Le finestre di tutte le stanze erano chiuse; Grušen'ka quindi non avrebbe potuto né entrare né fuggire da nessuna parte.
«Fermatelo!», si mise a strillare Fëdor Pavloviè non appena rivide Dmitrij. «Ha rubato il denaro dalla mia camera da letto!» E, liberatosi dalla stretta di Ivan, si scagliò nuovamente contro Dmitrij. Ma quello alzò entrambe le braccia e di colpo afferrò il vecchio per i due ciuffi di capelli che gli erano rimasti attaccati alle tempie, gli dette uno strattone e lo fece cadere per terra con gran fracasso. Riuscì a sferrargli ancora due o tre colpi di tacco sul viso mentre quello giaceva per terra. Il vecchio lanciò gemiti acuti. Ivan Fëdoroviè, anche se non era forte come il fratello Dmitrij, lo afferrò per le braccia e lo strappò via dal vecchio con tutte le sue forze. Alëša, con quel poco di forza che aveva, gli dette una mano, afferrando il fratello dall'altra parte.
«Pazzo, lo hai ammazzato!», gridò Ivan.
«Questo si merita!», esclamò Dmitrij ansimando. «E se non l'ho ammazzato, verrò un'altra volta per ammazzarlo. Non riuscirete a proteggerlo!»
«Dmitrij, va' via di qui immediatamente!», gli gridò imperiosamente Alëša.
«Aleksej! Dimmelo tu, crederò soltanto a te: lei era qui o no? L'ho vista con i miei occhi passare poco fa accanto allo steccato e sgusciare dal vicolo in questa direzione. Ho gridato e lei è scappata via...» «Ti giuro che lei non è stata qui e nessuno l'aspettava!»
«Ma io l'ho vista... dunque lei... Adesso ho capito dov'è... Addio, Aleksej! Non dire niente ad Esopo a proposito dei soldi, ma va' subito da Katerina Ivanovna, devi dire: "Egli si accomiata da voi con un inchino, si accomiata da voi con un inchino", ricordati, proprio con "un inchino" e per sempre! Descrivile questa scena».
Nel frattempo Ivan e Grigorij avevano sollevato il vecchio e lo avevano messo a sedere sulla poltrona. Aveva il viso insanguinato, ma era nel pieno delle sue facoltà e ascoltava con avidità le urla di Dmitrij. Aveva ancora l'impressione che Grušen'ka si trovasse davvero da qualche parte nella casa. Dmitrij Fëdoroviè gli lanciò un'occhiata carica di odio mentre andava via.
«Non mi pento di aver versato il tuo sangue!», esclamò. «Sta attento, vecchio, custodisci il tuo sogno perché anche io ho il mio! Ti maledico e ti rinnego per sempre...» Uscì di corsa dalla stanza.
«Lei è qui, deve essere qui! Smerdjakov, Smerdjakov», rantolò con voce appena percettibile il vecchio, facendo segno con il dito a Smerdjakov di avvicinarsi.
«Non è qui, no, pazzo d'un vecchio», gli gridò con cattiveria Ivan. «Sta svenendo! Dell'acqua, un asciugamano! Muoviti, Smerdjakov!»
Smerdjakov corse a prendere l'acqua. Finalmente spogliarono il vecchio, lo portarono in camera da letto e lo fecero coricare. Gli avvolsero un asciugamano bagnato intorno alla testa. Indebolito dal cognac, dalle forti emozioni e dalle percosse, non appena sfiorò il cuscino, chiuse gli occhi e si addormentò. Ivan Fëdoroviè e Alëša tornarono in sala. Smerdjakov stava portando via i frammenti del vaso rotto, mentre Grigorij stava in piedi presso il tavolo, tetro, a capo chino.
«Anche tu dovresti bagnarti la testa e metterti a letto, non ti pare?», disse Alëša a Grigorij. «Baderemo noi a lui, mio fratello ti ha colpito molto forte... sulla testa».
«Egli ha osato contro di me!», disse Grigorij cupamente, scandendo la parole.
«Ha "osato" anche contro nostro padre, non soltanto contro di te!», notò Ivan Fëdoroviè con una smorfia sulle labbra.
«Io che lo lavavo nella tinozza... e lui ha osato contro di me!», ripeteva Grigorij.
«Al diavolo, se non lo avessimo strappato via con la forza, forse lo avrebbe ammazzato. Non ci vuole mica tanto con Esopo», sussurrò Ivan Fëdoroviè ad Alëša.
«Che Dio ce ne scampi!», esclamò Alëša.
«E perché dovrebbe scamparcene?», continuò Ivan sempre sussurrando, contraendo il viso in una smorfia maligna. «Un rettile divorerà l'altro, quella è la fine che faranno!» Alëša trasalì.
«Io, s'intende, non permetterei che venga perpetrato un delitto, come non l'ho permesso poco fa. Rimani qui, Alëša, esco a fare due passi in cortile, mi è venuto mal di testa».
Alëša andò nella camera da letto del padre e rimase seduto al suo capezzale, dietro il paravento, per circa un'ora. Il vecchio aprì gli occhi all'improvviso e guardò a lungo Alëša in silenzio, cercando di ricordare e ricollegare i pensieri. Ad un tratto un'inquietudine straordinaria si dipinse sul suo volto.
«Alëša», sussurrò guardingo, «dov'è Ivan?»
«In cortile, gli fa male la testa. Ci fa la guardia».
«Dammi lo specchietto, eccolo, è lì, dammelo!»
Alëša gli dette un piccolo specchio tondo, pieghevole, che stava sul comò. Il vecchio si specchiò: il naso si era considerevolmente gonfiato e sulla fronte, sul sopracciglio sinistro c'era un largo livido violaceo.
«Che dice Ivan? Alëša, caro, unico figlio mio, ho paura di Ivan; ho più paura di Ivan che di quell'altro. Solo di te non ho paura...»
«Non dovete aver paura nemmeno di Ivan, Ivan si inquieta, ma vi difenderà».
«Alëša, e che mi dici dell'altro? È corso da Grušen'ka! Dolce angelo,
dimmi la verità: poco fa c'era Grušen'ka qui, o no?» «Nessuno l'ha vista. È stato un errore, lei non c'era!» «Eppure Mit'ka vuole sposarla, sposarla!» «Lei non lo sposerà».
«Non lo sposerà, non lo sposerà, non lo sposerà, non lo sposerà, non lo sposerà per nessun motivo!» Il vecchio si rianimò di gioia, come se in quel momento non gli avessero potuto dire cosa più gradita. Esaltato, afferrò la mano di Alëša e se la premette forte al cuore. Gli occhi gli brillarono persino di lacrime. «L'immagine, quella della Madre di Dio, quella di cui ti stavo raccontando poco fa, prendila e portala con te. Ti permetto di tornare al monastero... stamattina scherzavo, non te la prendere. Mi fa male la testa, Alëša... Lëša, conforta il mio cuore, sii il mio angelo, dimmi la verità!»
«Sempre la stessa domanda: se lei c'era o no?», disse Alëša con aria triste.
«No, no, no, a te credo, anzi, sai che ti dico: va' tu stesso da Grušen'ka o cerca di incontrarla in qualche modo; interrogala in fretta, più in fretta che puoi, indovina tu stesso con i tuoi occhi: chi ha intenzione di scegliere, me o lui? Eh? Che dici? Puoi farlo questo?»
«Se la vedo, glielo domanderò», mormorò Alëša imbarazzato.
«No, lei non te lo dirà», lo interruppe il vecchio, «lei è un demonietto. Comincerà a baciarti e dirà che è te che vuole. È un'ingannatrice, una spudorata, no, non devi andare da lei, non devi!» «No, e non starebbe bene, papà, non starebbe affatto bene».
«Dove ti mandava poco fa? Ha gridato: "Vacci", mentre usciva». «Mi mandava da Katerina Ivanovna». «Per denaro? Per chiedere denaro?» «No, non per denaro».
«Lui non ha denaro, neanche il becco di un quattrino. Ascolta, Alëša, io me ne starò sdraiato a pensare tutta la notte, ma tu va'. Potresti incontrarla... Solo fa in modo di passare da me domani in mattinata, mi raccomando. Domani ti dirò una parolina, ci verrai?»
«Verrò».
«Quando verrai, fa finta di essere venuto di tua iniziativa, a chiedere notizie sulla mia salute. Non dire a nessuno che ti ho invitato io. Non dire nemmeno una parola a Ivan».
«Va bene».
«Addio, angelo mio, poco fa hai preso le mie difese, non lo dimenticherò mai. Domani ti dirò una parolina... solo che devo pensarci un po' su...»
«E come vi sentite adesso?»
«Domani, domani stesso mi alzerò in piedi, completamente guarito, completamente guarito, completamente guarito!»
Passando per il cortile, Alëša trovò suo fratello Ivan seduto sulla panchina vicino al portone: stava scrivendo qualcosa a matita nel suo quadernetto di appunti. Alëša riferì a Ivan che il vecchio si era svegliato, era cosciente e gli aveva permesso di tornare a dormire al monastero. «Alëša, mi farebbe molto piacere incontrarti domani mattina», disse Ivan affabilmente, alzandosi. Quell'affabilità era del tutto inaspettata per Alëša.
«Domani andrò dalle Chochlakov», rispose Alëša. «Forse passerò anche da Katerina Ivanovna, se non la trovo adesso...»
«Così adesso, nonostante tutto, andresti da Katerina Ivanovna! È per quel "commiato con l'inchino?», disse Ivan sorridendo. Alëša era confuso. «Credo di aver capito ogni cosa dalle esclamazioni di poco fa, e anche da qualcosina detta in precedenza. Dmitrij ti ha forse chiesto di andare da lei e dirle che lui... be'... be'... in una parola che "si accomiata"?» «Fratello! Come finirà tutto questo orrore fra nostro padre e Dmitrij?», esclamò Alëša.
«È impossibile prevederlo con sicurezza. Si risolverà in nulla, forse: la faccenda potrebbe sgonfiarsi da sé. Quella donna è una belva. In ogni caso bisogna far restare a casa il vecchio e impedire a Dmitrij di entrare». «Fratello, permetti che faccia un'altra domanda: un uomo ha forse il diritto di decidere, guardando gli altri, chi di loro sia degno di vivere e chi non ne sia più degno?»
«Ma a che serve mettere in mezzo un giudizio su chi è degno e chi non lo è? La questione di solito si risolve nel cuore degli uomini, ma sulla base di ragioni del tutto diverse, più naturali. Quanto al diritto: chi non ha il diritto di desiderare qualcosa?»
«Ma non la morte di un altro essere umano!»
«E se pure fosse la morte di un altro essere umano? A che serve mentire a se stessi, quando tutti gli uomini vivono in questo modo e forse non potrebbero vivere altrimenti. Ma ti stai forse riferendo alle mie parole di poco fa: "I due rettili si divoreranno l'uno con l'altro?" Allora permetti che sia io a farti una domanda: credi che anche io, come Dmitrij, possa essere capace di versare il sangue di Esopo, cioè di ucciderlo?»
«Ma che dici, Ivan? Non ho mai pensato una cosa del genere! E credo che neanche Dmitrij...»
«Ti ringrazio se non altro per questo», disse Ivan sorridendo. «Sappi che io lo difenderò sempre. Ma nei miei desideri, in questo caso mi riservo ampia libertà. Arrivederci a domani. Non mi giudicare e non mi guardare come se fossi un malfattore», aggiunse con un sorriso.
Si strinsero forte la mano come mai avevano fatto prima. Alëša sentì che il fratello aveva fatto il primo passo verso di lui e che lo aveva fatto per uno scopo, sicuramente con qualche precisa intenzione.
X • Tutte e due insieme
Alëša lasciò la casa del padre in uno stato d'animo ancora più affranto e oppresso di quando vi era entrato poco prima. Anche la sua mente sembrava frantumata e sparpagliata, ma nel contempo sentiva di avere paura di mettere insieme i pezzi sparsi ed estrarre l'idea generale da tutte le esperienze tormentose e conflittuali di quella giornata. C'era qualcosa nel cuore di Alëša che rasentava la disperazione, qualcosa che fino ad allora non aveva mai conosciuto. Sopra ogni cosa incombeva, come una montagna, la domanda fatale e senza risposta: come sarebbe andata a finire la contesa tra il padre e il fratello per quella terribile donna? Or ora egli era stato testimone di quella contesa. Era stato presente e li aveva visti uno di fronte all'altro. Tuttavia fra i due, solo il fratello Dmitrij poteva essere l'infelice, il vero infelice, senza speranza: lo attendeva una sicura tragedia. C'erano anche altre persone coinvolte nella faccenda, anche molto di più di quanto Alëša avesse pensato in precedenza. La faccenda presentava risvolti misteriosi. Il fratello Ivan aveva fatto il primo passo verso di lui, come Alëša desiderava da tempo, ed ecco che adesso, chissà perché, si sentiva spaventato da questo avvicinamento. E quelle donne? Molto strano: poco prima si dirigeva da Katerina Ivanovna in uno stato di profondo turbamento che adesso non avvertiva più; al contrario, ora, invece, si affrettava da lei come nella speranza di riceverne delle indicazioni. Eppure, adesso, riferirle il messaggio sarebbe stato ancora più penoso di prima: la storia dei tremila rubli si era irrevocabilmente conclusa, il fratello Dmitrij si considerava ora disonorato e, privo di ogni speranza, non si sarebbe più fermato dinanzi a qualunque bassezza. Inoltre gli aveva ordinato di raccontare a Katerina Ivanovna la scena che si era appena svolta a casa del padre.
Erano già le sette e il sole stava tramontando, quando Alëša arrivò da Katerina Ivanovna, che abitava in una casa molto spaziosa e confortevole nella via Bol'šaja. Alëša sapeva che la donna viveva con due zie. Una in realtà era zia soltanto della sorella, Agaf'ja Ivanovna: era quella donna taciturna che tanto si era presa cura di lei, insieme alla sorella, quando era andata a trovare la sua famiglia, dopo essere uscita dal collegio. L'altra zia era una signora di Mosca, distinta e ammodo, anche se viveva in ristrettezze. Si diceva che entrambe le donne ubbidissero in tutto e per tutto al volere di Katerina Ivanovna e che vivessero con lei solo per un formale rispetto dell'etichetta. Da parte sua Katerina Ivanovna ubbidiva soltanto alla sua benefattrice, la generalessa, che era rimasta a Mosca per via della sua malattia, e alla quale doveva spedire due lettere alla settimana con le più dettagliate notizie su quanto le accadeva. Quando Alëša entrò nell'anticamera e chiese alla cameriera, che gli aveva aperto la porta, di essere annunciato in salotto, evidentemente, erano già al corrente del suo arrivo (forse lo avevano visto dalla finestra), ma Alëša sentì soltanto un certo trambusto, frettolosi passi femminili, un fruscio di sottane: due o tre donne dovevano essere scappate via dalla stanza. Ad Alëša sembrò strano che il suo arrivo potesse provocare una simile agitazione. Comunque fu subito introdotto in salotto. Era una stanza spaziosa, arredata con dovizia di mobili eleganti, tutt'altro che provinciali. C'era un gran numero di divani, sofà, divanetti, tavoli piccoli e grandi; c'erano quadri alle pareti, vasi e lampade sui tavoli, fiori in abbondanza, c'era persino un acquario vicino alla finestra. La stanza era piuttosto scura per via del crepuscolo. Alëša intravide sul divano, sul quale evidentemente fino a qualche momento prima era seduto qualcuno, una mantella di seta abbandonata e sul tavolo, davanti al divano, due tazze di cioccolata mezze piene, dei biscotti, un piatto di cristallo con uvetta passa azzurrina e un altro con dei cioccolatini. C'era stato qualche ospite. Alëša capì di essere capitato in un momento in cui c'erano visite e si accigliò. Ma in quello stesso istante si alzò la portiera e, a passi rapidi e affrettati, entrò Katerina Ivanovna con un sorriso entusiasta e gioioso e con entrambe le braccia protese verso Alëša. In quel momento una serva portò due candele accese che pose sul tavolo. «Grazie a Dio, siete arrivato finalmente! Non ho fatto altro che pregare Iddio tutto il giorno perché veniste! Accomodatevi».
La bellezza di Katerina Ivanovna aveva già in precedenza colpito Alëša quando il fratello Dmitrij, tre settimane prima circa, lo aveva condotto da lei la prima volta, secondo il vivissimo desiderio di Katerina Ivanovna in persona, per presentarlo alla fanciulla. Durante quell'incontro i due non avevano conversato. Supponendo che Alëša fosse molto imbarazzato, Katerina Ivanovna lo aveva, in un certo senso, risparmiato, e per quella volta aveva parlato tutto il tempo con Dmitrij Fëdoroviè. Alëša aveva taciuto, ma aveva osservato molte cose con attenzione. Lo avevano colpito l'imperiosità, la fiera disinvoltura, la sicurezza in se stessa dell'altera ragazza. E tutto questo era indubbio. Alëša sentiva di non esagerare. Egli trovò che i suoi grandi e ardenti occhi neri fossero bellissimi e si adattassero in particolar modo al suo viso pallido, quasi olivastro, e piuttosto lungo. Ma in quegli occhi, come anche nel disegno delle magnifiche labbra, c'era qualcosa di particolare del quale certo il fratello aveva potuto innamorarsi sino a perdere la testa, ma che, forse, non era possibile amare a lungo. Egli espresse questa sua opinione quasi a chiare lettere a Dmitrij, quando questi, dopo la visita, insistette, supplicandolo di non essere reticente, perché Alëša gli dicesse che impressione gli avesse fatto vedere la sua fidanzata.
«Sarai felice con lei, ma, forse... non tranquillamente felice». «Proprio così, fratello, le persone come lei rimangono tali e quali, non si piegano davanti al destino. Così tu pensi che non l'amerò per sempre?»
«No, forse l'amerai per sempre, ma forse non sarai sempre felice con lei...»
Alëša allora aveva pronunciato la sua opinione arrossendo e irritato contro se stesso perché, cedendo alle richieste di suo fratello, aveva espresso pensieri così "stupidi." Infatti la sua opinione gli era sembrata terribilmente sciocca subito dopo averla pronunciata. E poi si vergognò di aver espresso con tanta autorità un'opinione su una donna. E con maggiore stupore sentì ora, al primo sguardo a Katerina Ivanovna, che gli veniva incontro di corsa, che forse allora si era sbagliato di grosso. Questa volta il suo viso raggiava di una gentilezza buona e spontanea, di una sincerità calorosa e diretta. L'"orgoglio e l'alterigia" della volta precedente, che tanto avevano colpito Alëša, trapelavano adesso unicamente sotto forma di un'energia ardita e generosa e di una sorta di chiara, potente fiducia in se stessa. Alëša comprese dal primo sguardo, dalle prime parole di lei, che tutta la tragicità della sua posizione, in relazione all'uomo che amava tanto, non era affatto un segreto per lei; ella forse sapeva già ogni cosa, decisamente ogni cosa. Eppure, nonostante questo, raggiava tanta luce dal suo volto, tanta fiducia nel futuro. Alëša ad un tratto si sentì seriamente e intenzionalmente colpevole dinanzi a lei. Si sentì sconfitto e catturato in un batter d'occhio. Oltre a tutto ciò, si era accorto, sin dalle prime parole di lei, che ella si trovava in uno stato di sovreccitazione straordinaria per lei, un'eccitazione che rasentava una specie di esaltazione.
«Vi aspettavo tanto perché solo da voi posso apprendere tutta la verità, da voi e da nessun altro!»
«Sono venuto...», borbottò Alëša confondendosi, «io...mi ha mandato lui...»
«Ah, è stato lui a mandarvi; be', lo immaginavo. Adesso so tutto, tutto!», esclamò Katerina Ivanovna e i suoi occhi scintillarono ad un tratto. «Aspettate, Aleksej Fëdoroviè, prima vi dirò perché vi aspettavo tanto. Vedete, forse, io so molto di più di quanto voi stesso sappiate; non mi servono informazioni da voi. Ecco ciò che mi occorre da voi: mi occorre conoscere la vostra personale, recente impressione sul suo conto, mi serve che mi raccontiate nella maniera più diretta, essenziale, persino brutale (oh, brutale quanto vi pare!) - che cosa ne pensate di lui e della sua situazione adesso, dopo il vostro incontro di oggi con lui. Questo forse sarà meglio che avere una spiegazione personale con lui, dal momento che egli non vuole più venire a trovarmi. Avete capito che cosa voglio da voi? Adesso con quale messaggio vi ha mandato qui da me? (Io lo sapevo che avrebbe mandato voi!) Parlate semplicemente, ditemi l'ultimissima sua parola!..»
«Egli mi ha chiesto di dirvi che... si accomiata da voi con un inchino, e che non verrà mai più... e che si accomiata da voi con un inchino...» «Si accomiata con un inchino? Ha detto proprio così, si è espresso così?»
«Sì».
«L'ha detto distrattamente, forse, avrà sbagliato parola senza volerlo, non ha usato l'espressione giusta?»
«No, ha ordinato espressamente che vi dicessi: "Si accomiata da voi con un inchino". Me l'ha ripetuto tre volte perché non lo dimenticassi».
Katerina Ivanovna avvampò.
«Adesso aiutatemi, Aleksej Fëdoroviè, in questo momento mi occorre proprio il vostro aiuto: vi esporrò la mia idea, voi mi direte soltanto se è giusta o no. Ascoltate, se egli vi avesse chiesto di salutarmi di sfuggita, senza insistere sulle parole, senza stare a sottolinearle, sarebbe tutto... Sarebbe proprio la fine! Ma se ha insistito perché usaste quell'espressione, se vi ha incaricato di non dimenticare la parola "inchino", allora vuol dire che era agitato, fuori di sé, può essere così? Ha preso una decisione e ne ha paura! Non si è allontanato da me con passo fermo, ma è fuggito a rotta di collo. Il fatto che abbia sottolineato quella parola può indicare che si tratta solo di una bravata...»
«È così, è così!», confermò con calore Alëša. «Credo anch'io adesso che sia così».
«E se è così, egli non è ancora perduto! È solo disperato, ma io posso ancora salvarlo. Aspettate: vi ha forse accennato qualcosa a proposito di un certo danaro, di tremila rubli?»
«Non solo me ne ha parlato, ma questo forse era ciò che lo angosciava sopra ogni cosa. Diceva di aver perso l'onore, che niente gli importa adesso», rispose Alëša con calore, sentendo che un'ondata di speranza gli riaffluiva nel cuore e che, forse, c'era una via d'uscita e una salvezza per suo fratello: «Ma voi... sapete di quei soldi?», soggiunse e si interruppe di colpo.
«Lo so da molto tempo e lo so per certo. Chiesi notizie a Mosca con un telegramma e so da un pezzo che i soldi non sono arrivati a destinazione. Lui non ha mandato quei soldi, ma io ho taciuto. La settimana scorsa ho saputo che gli occorreva altro denaro... In tutto questo mi sono posta un solo scopo: che egli sapesse a chi rivolgersi, chi gli è vero amico. No, non vuole credere che io sia il suo amico più sincero, non ha voluto riconoscermi, mi considera soltanto una donna. Tutta la settimana sono stata tormentata da una terribile preoccupazione: come evitare che lui si vergogni davanti a me di aver speso quei tremila rubli? Che si vergogni pure davanti agli altri e davanti a se stesso, ma che non si vergogni davanti a me. A Dio dice ogni cosa senza vergognarsi, non è così? Perché fino ad oggi non ha compreso quanto sono disposta a sopportare per amor suo? Perché, perché non mi conosce, come osa non conoscermi dopo tutto quello che è accaduto? Io voglio salvarlo per sempre. Che dimentichi che sono la sua fidanzata! Ha paura di essersi disonorato davanti ai miei occhi! Eppure con voi, Aleksej Fëdoroviè, non ha avuto paura di confidarsi? Come mai fino ad oggi non mi sono meritata la stessa fiducia?»
Pronunciò queste ultime parole fra le lacrime; le lacrime sgorgavano a fiotti dai suoi occhi.
«Devo riferirvi», disse Alëša, anche lui con la voce tremante, «quello che è accaduto poco fa tra lui e nostro padre». E raccontò tutta la scena, raccontò che Dmitrij lo aveva mandato lì per i soldi, che il fratello poi aveva fatto irruzione in casa, aveva picchiato malamente il padre, dopo di che aveva insistito particolarmente che Alëša andasse ad "accomiatarsi con un inchino"... «Poi è andato da quella donna...», soggiunse Alëša a bassa voce.
«E voi pensate che io non sopporterò quella donna? Lui pensa che non la sopporterò? Ma lui non la sposerà», scoppiò a ridere nervosamente lei, «può forse un Karamazov ardere di una simile passione in eterno? Quella è passione, non amore. Lui non la sposerà, perché sarà lei a non volersi sposare con lui...», e Katerina Ivanovna rise di nuovo in maniera strana.
«Egli forse la sposerà», disse lugubremente Alëša, con gli occhi bassi.
«Non la sposerà, ve lo dico io! Quella ragazza è un angelo, lo sapete? Lo sapete?», esclamò all'improvviso Katerina Ivanovna con insolito fervore. «È la più fantastica tra le creature fantastiche! So quanto sia seducente, ma so anche quanto lei sia buona, ferma e nobile. Che avete da guardarmi così, Aleksej Fëdoroviè? Forse vi meravigliate delle mie parole, forse non mi credete? Agrafena Aleksandrovna, angelo mio!», gridò all'improvviso a qualcuno, guardando in direzione dell'altra stanza. «Venite da noi, è una brava persona, è Alëša, egli sa tutto delle nostre faccende, mostratevi a lui!»
«Stavo solo aspettando dietro la tenda che voi mi chiamaste», disse una voce femminile tenera, leggermente melliflua. Si sollevò la portiera e... Grušen'ka in persona, sorridente e raggiante, si accostò al tavolo. Fu come se nell'animo di Alëša sussultasse qualcosa. Egli fissò il suo sguardo su di lei, non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Eccola, quella donna terribile, la "belva", com'era sfuggito di dire al fratello Ivan mezz'ora prima. Eppure si sarebbe detto che quella fanciulla lì davanti a lui fosse la creatura più ordinaria e semplice, una donna buona e gentile, anche bella, certo, però così simile ad altre donne belle, ma "ordinarie"! In verità, ella era molto, molto bella, era una bellezza russa di quelle che molti amano alla follia. Era una donna piuttosto alta, leggermente più bassa di Katerina Ivanovna però (quella era eccezionalmente alta), piena, dai movimenti del corpo morbidi, come silenziosi, quasi illanguiditi in quella stessa particolare mellifluità che caratterizzava pure la sua voce. Si accostò ad Alëša non come Katerina Ivanovna, con una camminata energica e piena di vitalità, ma al contrario, con andatura quasi silenziosa. I suoi passi sul pavimento non producevano assolutamente alcun rumore. Si lasciò cadere mollemente nella poltrona, facendo frusciare lievemente il sontuoso abito di seta nera e avvolgendo dolcemente il collo pieno, candido come schiuma, e le ampie spalle in un prezioso scialle nero di lana. Aveva ventidue anni e il suo viso dimostrava esattamente quell'età. Era molto pallida in volto, con una sfumatura di rosa chiaro sugli zigomi. I contorni del suo viso erano un po' troppo larghi e la mascella inferiore sporgeva un pochino in avanti. Il labbro superiore era sottile, mentre quello inferiore, leggermente sporgente, era due volte più pieno, quasi rigonfio. Ma i magnifici, foltissimi capelli biondo cupo, le sopracciglia nere e folte, gli incantevoli occhi grigio-azzurri dalle lunghe ciglia avrebbero immancabilmente costretto anche la persona più indifferente e distratta che l'avesse incontrata casualmente in mezzo alla folla per strada, a fermarsi all'istante davanti a quel viso e a ricordarlo poi a lungo. Quello che colpì più di tutto Alëša in quel viso fu l'espressione infantile, ingenua. Aveva lo sguardo di un bambino; era, per qualche ragione, allegra come un bambino; si era avvicinata al tavolo "raggiante di gioia" e sembrava che aspettasse qualcosa con la curiosità tipica dei bambini, impaziente e fiduciosa. Lo sguardo di lei rallegrava l'anima - Alëša lo sentiva. C'era anche qualcos'altro in lei, che Alëša non poteva o non sarebbe stato in grado di definire, ma che, forse, egli avvertiva inconsciamente: proprio quella dolcezza, quella dolcezza nei movimenti del suo corpo, quella silenziosità felina dei suoi movimenti. Eppure era un corpo vigoroso e abbondante. Sotto lo scialle si profilavano le spalle piene e ampie, il petto alto, ancora da giovanetta. Quel corpo suggeriva le linee della Venere di Milo, sebbene, probabilmente, in proporzioni già piuttosto abbondanti - questo si intuiva. Gli esperti della bellezza femminile russa avrebbero potuto prevedere con certezza, guardando Grušen'ka, che quella bellezza fresca, ancora giovane, verso i trent'anni avrebbe perso la sua armonia, si sarebbe sformata, che il viso si sarebbe appesantito, le rughe si sarebbero formate con straordinaria rapidità intorno agli occhi e alle labbra, la carnagione del viso si sarebbe indurita e, forse, arrossata - insomma, che quella era la bellezza di un momento, quella bellezza effimera che così spesso si incontra proprio nelle donne russe. Alëša, s'intende, non pensava a questo; tuttavia, sebbene incantato dalla bellezza di lei, con una sensazione vagamente sgradevole, quasi dispiaciuto, si domandava: "Perché strascica così le parole e non riesce a parlare in modo naturale?" Lei parlava così evidentemente perché trovava bello cantilenare e modulare le sillabe e i suoni in quel modo sdolcinato. Era, ovviamente, solo una brutta abitudine di cattivo gusto che testimoniava la sua scarsa cultura e la malintesa concezione delle buone maniere acquisita sin dall'infanzia. E, tuttavia, quell'intonazione e quel modo di parlare apparivano ad Alëša in incredibile contrasto con l'espressione ingenua e gioiosa del suo viso, con la dolce e felice gioia infantile dei suoi occhi! Katerina Ivanovna l'aveva fatta subito accomodare nella poltrona di fronte ad Alëša e la baciò più volte con entusiasmo sulle labbruzze sorridenti. Sembrava innamorata di lei.
«È la prima volta che ci vediamo, Aleksej Fëdoroviè», disse poi estaticamente, «volevo conoscerla, vederla, volevo andare da lei, ma appena ha saputo del mio desiderio, è venuta lei da me. Lo sapevo che io e lei avremmo risolto tutto, tutto! Così presagiva il mio cuore... Mi hanno chiesto di desistere da questo passo, ma io ne prevedevo l'esito e non mi sbagliavo. Grušen'ka mi ha chiarito ogni cosa, tutte le sue intenzioni; ella è volata qui, come un angelo di bontà, e ha portato pace e gioia...»
«Non avete avuto ribrezzo di me, dolce, eccellente signorina», pronunciò con lenta cantilena Grušen'ka, con lo stesso sorriso dolce e gioioso.
«Non osate dirmi queste parole, incantatrice, ammaliatrice! Ribrezzo di voi? Ecco, vi bacio un'altra volta il labbruzzo inferiore. Sembra che si sia gonfiato e allora, che si gonfi ancora di più, e ancora e ancora... Guardate come ride, Aleksej Fëdoroviè, il cuore si rallegra guardando questo angelo...» Alëša era arrossito, mentre brividi leggeri e impercettibili lo percorrevano.
«Voi mi coccolate, cara signorina, e io, forse, non merito affatto la vostra gentilezza».
«Non la meritate! Proprio lei non dovrebbe meritarsi questo!», esclamò Katerina Ivanovna con lo stesso fervore di prima. «Sappiate, Aleksej Fëdoroviè, che abbiamo una testolina fantastica, siamo capricciose, ma abbiamo un cuoricino orgoglioso, superorgoglioso! Siamo riconoscenti, Aleksej Fëdoroviè, siamo generose, lo sapevate questo? Siamo solo state sfortunate. Siamo state troppo precipitose nell'offrire ogni sacrificio a un uomo indegno o, forse, frivolo. C'era pure un ufficiale, che abbiamo amato, a cui abbiamo dato tutto, e questo molto tempo fa, cinque anni fa, ma lui si è dimenticato di noi, si è sposato. Adesso è rimasto vedovo, ha scritto che sta per tornare - e sappiate che amiamo solo lui, soltanto lui, ancora oggi, è lui che abbiamo amato per tutta la vita! Lui verrà e Grušen'ka sarà di nuovo felice, mentre per questi cinque anni è stata infelice. Ma chi la rimprovererà, chi potrà vantarsi dei suoi favori! Solo quel vecchio mercante infermo, ma lui è piuttosto come un padre, un amico, un protettore. Ci trovò allora in uno stato di disperazione, fra mille tormenti, abbandonate da colui che amavamo... infatti ella fu sul punto di annegarsi, ma il vecchio mercante la salvò, la salvò!»
«Siete molto gentile a prendere le mie difese, cara signorina, voi correte molto in tutto», replicò Grušen'ka sempre strascicando le parole.
«Prendere le vostre difese! Tocca forse a noi difendervi? Potremmo mai osare di difendere voi? Grušen'ka, angelo mio, datemi la vostra manina, guardate questa incantevole, morbida manina, Aleksej Fëdoroviè, la vedete? Essa mi ha portato la felicità e mi ha ridato la vita e adesso io la bacerò, sul dorso e nel palmo, ecco così, così!» E per tre volte ella baciò la manina incantevole, sì, ma forse un po' troppo paffuta, di Grušen'ka, in una sorta di rapimento. L'altra, dopo averle porto la mano, osservava con una deliziosa risatina squillante la "cara signorina", ed evidentemente le faceva piacere che le baciasse la mano in quel modo. "Forse c'è un po' troppa esaltazione in tutto questo", balenò nella testa ad Alëša. Arrossì. Per tutto il tempo aveva provato una strana inquietudine nel cuore.
«Non umiliatemi, cara signorina, baciandomi la mano in presenza di Aleksej Fëdoroviè».
«Volevo forse umiliarvi?», disse Katerina Ivanovna un po'
meravigliata. «Ah, cara, come mi fraintendete!»
«Anche voi, forse, non mi capite del tutto, cara signorina, forse sono molto più cattiva di quel che sembro a voi. Sono cattiva di cuore, sono capricciosa. Ho conquistato quel disgraziato di Dmitrij Fëdoroviè solo per burla».
«Eppure adesso lo salverete. Avete dato la vostra parola. Lo farete ragionare, gli confiderete che amate un altro da molto tempo, e che quest'altro vi chiede in moglie...»
«Ah, no, non vi ho dato la mia parola che farò tutto questo. Siete stata voi a parlarne, io non vi ho dato la mia parola».
«Allora non vi ho capita», disse Katerina Ivanovna a mezza voce, impallidendo leggermente. «Avevate promesso...»
«Ah, no, angelica signorina, io non vi ho promesso nulla», la interruppe Grušen'ka con voce lenta e misurata e la stessa espressione allegra e innocente. «Adesso lo vedete, eccellente signorina, come sono crudele e capricciosa rispetto a voi. Faccio esattamente quello che voglio. Poco fa, forse, vi ho promesso qualcosa, ma adesso ecco che ci ripenso: ad un tratto può di nuovo piacermi, quel Mitja; una volta mi è piaciuto molto, mi è piaciuto per un'ora intera. Ecco, forse andrò da lui e gli dirò che rimanga da me a partire da oggi stesso...Ecco come sono volubile...» «Poco fa avete detto... cose completamente diverse...», ebbe appena la forza di dire Katerina Ivanovna.
«Ah, poco fa! Ma, sapete, ho il cuore tenero io, sono una scioccherella. Se solo penso a quello che ha dovuto sopportare per causa mia! Ad un tratto arrivo a casa e provo compassione per lui, e allora?»
«Non mi aspettavo...»
«Eh, signorina, quanto siete stata buona, generosa in confronto a me. Adesso forse non vorrete più bene a una scioccherella come me, a causa del mio carattere. Datemi la vostra cara manina, angelica signorina», le chiese con tenerezza e prese la mano di Katerina Ivanovna quasi con devozione. «Ecco, cara signorina, prenderò la vostra manina e la bacerò come voi avete fatto con me. Me l'avete baciata tre volte e io dovrei baciarvela trecento volte per sdebitarmi. Ma lasciamo stare, del resto che sia fatta la volontà di Dio, forse sarò completamente la vostra schiava e desidererò accontentarvi in tutto come una schiava. Che si compia la volontà di Dio, senza tanti accordi e promesse tra di noi. Ma che manina, che manina bella che avete! Cara la mia signorina, dall'indescrivibile bellezza!»
Si portò lentamente la mano alle labbra, con quello strano scopo: "sdebitarsi" a baci. Katerina Ivanovna non le sottrasse la mano: aveva ascoltato le ultime parole di lei con una timida speranza, sebbene le fosse parso strano il modo in cui Grušen'ka aveva pronunciato la promessa di servirla "come una schiava"; la guardava negli occhi in attesa: in quegli occhi vedeva la stessa espressione ingenua, fiduciosa, la stessa radiosa allegria... "Forse è troppo ingenua!", pensò e nel cuore di Katerina Ivanovna balenò la speranza. Grušen'ka, nel frattempo, come in estasi per "la cara manina", la avvicinava lentamente alle labbra. Ma quando fu vicinissima alle labbra, all'improvviso la trattenne per tre secondi, come riconsiderando qualcosa.
«Sapete che vi dico, angelica signorina», cantilenò con una vocina ancora più tenera e sdolcinata di prima, «sapete, dopo tutto, credo che non bacerò la vostra manina». E scoppiò in un'ilare risatina.
«Come volete... Ma che vi prende?», trasalì ad un tratto Katerina Ivanovna.
«Così rimarrete con il ricordo che voi avete baciato la mia mano, ma io non ho baciato la vostra». Un lampo le attraversò gli occhi. Guardava Katerina Ivanovna con uno sguardo tremendamente fisso.
«Sfacciata!», ribatté d'impeto Katerina Ivanovna, come se avesse compreso qualcosa all'improvviso. Era arrossita violentemente ed era scattata in piedi. Senza fretta si alzò anche Grušen'ka.
«Così potrò raccontare subito a Mitja che voi mi avete baciato la mano, mentre io me ne sono ben guardata. E che risate si farà!»
«Fuori, sgualdrina!»
«Ah, che vergogna, signorina! Che vergogna! È una vera indecenza da parte vostra una parola simile, cara la mia signorina!»
«Fuori, donnaccia in vendita!», strillò Katerina Ivanovna. Tremava in ogni fibra del suo volto alterato.
«In vendita, questa poi! Ma se da ragazza andavate dai gentiluomini, dopo il tramonto, a chiedere denaro, a mettere in vendita la vostra bellezza! Vedete, io lo so».
Katerina Ivanovna lanciò un urlo e le si sarebbe scagliata addosso, se Alëša non l'avesse trattenuta con tutta la sua forza:
«Non un passo, non una parola! Non dite nulla, non rispondete nulla, se ne andrà, se ne andrà subito!»
In quell'istante, al grido di Katerina Ivanovna, accorsero entrambe le parenti di Katerina Ivanovna, accorse anche la cameriera. Si slanciarono tutte verso di lei.
«Me ne vado», disse Grušen'ka prendendo la mantella dal divano. «Alëša, caro, accompagnami, su!»
«Andate via, andate via subito!», la supplicò Alëša con le mani giunte.
«Caro il mio Alëšen'ka, accompagnami! Per strada ti racconterò una storiella carina, carina! L'ho fatta per te questa scenata, Alëšen'ka. Accompagnami, tesoruccio, poi ti piacerà».
Alëša si girò dall'altra parte, torcendosi le mani. Grušen'ka, ridendo a voce alta, uscì di corsa.
Katerina Ivanovna ebbe un attacco di nervi. Singhiozzava, gli spasmi la soffocavano. Tutti si davano da fare intorno a lei.
«Vi avevo avvertita», le diceva la zia più anziana, «ho cercato di impedirvi di compiere questo passo... siete troppo impulsiva... come avete potuto fare un passo simile! Voi non conoscete le donne come quelle, e di lei si dice che è peggiore di tutte le altre... No, siete troppo caparbia!»
«È una tigre!», strillava Katerina Ivanovna. «Perché mi avete
trattenuta, Aleksej Fëdoroviè, l'avrei picchiata, picchiata!»
Non aveva la forza di trattenersi davanti ad Alëša e forse non voleva neanche farlo.
«Dovrebbero fustigarla, sul patibolo, con tanto di boia, in pubblico!...»
Alëša indietreggiò verso la porta.
«Dio mio!», gridò Katerina Ivanovna battendo le mani. «Lui no! Non può essere così privo d'onore, così disumano! Eppure ha raccontato a quell'essere quello che è avvenuto quel giorno fatale, quel giorno maledetto, maledetto in eterno! "Metteste in vendita la vostra bellezza, cara signorina!" Dunque lei sa! Vostro fratello è un mascalzone, Aleksej Fëdoroviè!»
Alëša avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovava le parole. Gli si stringeva il cuore per il dolore.
«Andatevene, Aleksej Fëdoroviè Mi vergogno, sto malissimo! Domani... Vi supplico in ginocchio, venite domani. Non mi giudicate, non so cosa ne sarà di me adesso!»
Alëša uscì in strada quasi barcollando. Anche lui aveva voglia di piangere come lei. Quando ad un tratto lo raggiunse la cameriera.
«La signorina ha dimenticato di darvi questo biglietto da parte della signora Chochlakova, è dall'ora di pranzo che è stato recapitato».
Alëša prese macchinalmente la piccola busta rosa e se la mise in tasca sovrappensiero.
XI • Un'altra reputazione in fumo
Il monastero distava dalla città poco più di una versta. Alëša s'incamminò in fretta per la strada, a quell'ora deserta. Era quasi notte e troppo buio per distinguere gli oggetti a una distanza di soli trenta passi. C'era un incrocio a metà strada. All'incrocio, sotto un citiso solitario, si intravedeva una figura indistinta. Alëša aveva appena raggiunto l'incrocio quando la figura si mosse rapidamente e si precipitò verso di lui, gridando con voce selvaggia: «O la borsa o la vita!»
«Ah, sei tu, Mitja!», gridò Alëša meravigliato, dopo un violento sussulto.
«Ah! Ah! Ah! Non te lo aspettavi? Mi domandavo dove avrei potuto aspettarti. Vicino a casa di lei? Ma da lì ci sono tre strade diverse e potevo mancarti. Alla fine ho pensato di aspettarti qui perché di qui dovevi assolutamente passare, non c'è altra strada che porti al monastero. Ma, dimmi tutta la verità, schiacciami come uno scarafaggio... Ma che hai?»
«Niente, fratello... è per lo spavento. Ah, Dmitrij! Il sangue di nostro padre poco fa...», Alëša scoppiò a piangere, era da un pezzo che aveva voglia di piangere, e adesso all'improvviso si era lacerato qualcosa nella sua anima. «A momenti lo uccidevi... lo hai maledetto... e adesso... ora... ti metti a scherzare... o la borsa o la vita!»
«E allora? Che, non sta bene? Non si addice alla mia situazione?»
«Ma no... volevo solo...»
«Aspetta. Guarda la notte: hai visto com'è cupa, che nuvole, che ventaccio si è alzato! Mi sono appostato qui, sotto il citiso, ti aspettavo e ad un tratto ho pensato (quanto è vero Iddio!): che senso ha tormentarsi ancora, perché aspettare? Ecco qui un citiso, il fazzoletto c'è, la camicia pure, posso intrecciare una corda in un minuto, ho anche le bretelle e - basta con l'essere di peso alla terra, basta disonorarla con la mia meschina presenza! Ma ecco che ti sento arrivare - Signore! È stato come se qualcosa mi investisse all'improvviso: dunque c'è una persona che io sono capace di amare, eccolo che viene, eccola qui quella persona, il mio caro fratellino, che amo più di chiunque altro al mondo, l'unico essere umano che io ami veramente! E così ho sentito un tale affetto per te, ti ho tanto amato in quel momento che ho pensato: "Adesso mi getto al suo collo". Poi mi è venuta un'idea stupida: "Gli faccio uno scherzo, lo spavento". E così ho gridato come uno scemo: "O la borsa!..." Scusa la stupidaggine, è solo una sciocchezza, eppure nella mia anima... non c'è nulla di indecoroso... Ma al diavolo, dimmi che cosa è successo lì. Che cosa ha detto lei? Schiacciami, colpiscimi, non cercare di risparmiarmi! È andata su tutte le furie?»
«No, non è questo... Non è accaduto nulla del genere lì, Mitja. Lì...
Le ho trovate tutt'e due lì poco fa».
«Come, tutt'e due?»
«Grušen'ka era da Katerina Ivanovna».
Dmitrij Fëdoroviè rimase di sasso.
«Non è possibile!», gridò. «Tu vaneggi! Grušen'ka era da lei?»
Alëša raccontò tutto quello che era accaduto dal momento in cui aveva messo piede in casa di Katerina Ivanovna. Parlò per una decina di minuti: non si può dire che il suo racconto fosse scorrevole e coerente, ma era chiaro a sufficienza; egli sapeva cogliere le parole più importanti, i movimenti più importanti e dare un'idea, spesso con un unico tratto, dei suoi sentimenti personali. Il fratello Dmitrij ascoltava in silenzio, lo guardava fisso, bloccato in una terribile immobilità, ma ad Alëša fu chiaro che egli aveva già capito tutto e si era fatto un'idea precisa dell'accaduto. Ma il suo viso, man mano che il racconto proseguiva, si faceva non tanto cupo quanto minaccioso. Aggrottò le sopracciglia, strinse i denti, il suo sguardo immobile divenne ancora più immobile, fisso e terribile... Tanto più inaspettato fu quando, all'improvviso e con inverosimile rapidità, il suo viso, fino a quel momento iroso e severo, mutò di colpo, le labbra serrate si allargarono e Dmitrij Fëdoroviè scoppiò nella più irrefrenabile e spontanea delle risate. Scoppiò letteralmente a ridere e per un pezzo non riuscì nemmeno a parlare.
«Così non le ha baciato la manina! Così non gliel'ha baciata ed è corsa via!», gridava in uno stato di entusiasmo incontenibile - si sarebbe potuto dire anche di spudorato entusiasmo, se quell'entusiasmo non fosse stato così naturale. «Così l'altra ha gridato che quella è una tigre! E lo è davvero! Così dice che bisognerebbe mandarla al patibolo? Sì, sì, bisognerebbe, anch'io sono dello stesso parere, sì, bisognerebbe e da un pezzo. Vedi, fratello, vada pure per il patibolo, ma prima devo guarire io. La comprendo la regina dell'impudenza, qui c'è lei tutta intera, si è manifestata al meglio di sé in quest'episodio della manina, donna infernale! È la regina di tutte le donne infernali che si possano immaginare al mondo! A suo modo è un capolavoro! Così se n'è tornata di corsa a casa? Subito io... ah... Corro da lei! Alëška, non mi biasimare, sono
proprio d'accordo che strangolarla sarebbe poco per lei...» «E Katerina Ivanovna?», esclamò Alëša addolorato.
«Vedo anche in lei, le leggo dentro da parte a parte come non ho mai fatto prima! Questa è la vera scoperta dei quattro punti cardinali; anzi, dei cinque! Che passo ha compiuto! È proprio la stessa Katen'ka, la ragazzina appena uscita dal collegio, che non ha avuto paura di ricorrere a un ufficiale rozzo e villano per la magnanima idea di salvare suo padre, rischiando di essere terribilmente oltraggiata! Ma dove sono il nostro orgoglio, la voglia di rischiare, la sfida del destino, la sfida dell'infinito! Dici che sua zia l'aveva avvertita? Sai, quella zia è una tiranna di prima categoria, è la sorella di quella generalessa moscovita, quella che più di quell'altra aveva la puzza al naso, ma il marito fu colto in flagrante a malversare il denaro dello stato e perse tutto, la proprietà e tutto il resto, così l'altera consorte dovette abbassare la cresta e a tutt'oggi non si è più risollevata. Così voleva trattenere Katja e lei non ha ubbidito. Avrà detto: "Io posso vincere tutti, posso tenere tutti sotto controllo; se voglio incanterò anche Grušen'ka", ma se ha creduto a se stessa, se si è data delle arie con se stessa, di chi è la colpa? Pensi che di proposito abbia baciato per prima la mano a Grušen'ka, per un suo astuto disegno? No, si era davvero innamorata di Grušen'ka, cioè non di Grušen'ka, ma del suo stesso sogno, dei suoi vaneggiamenti, perché quelli sono il mio sogno, i miei vaneggiamenti! Caro il mio Alëša, ma come hai fatto a salvarti da loro due, da quei due esseri? Ti sei tirato su la tonachella e sei scappato a gambe levate? Ah, ah, ah!»
«Fratello, non ti sei reso nemmeno conto di quanto hai offeso Katerina Ivanovna raccontando a Grušen'ka di quel giorno, e quella gliel'ha detto in faccia che lei stessa "si recava in segreto dai gentiluomini per mettere in vendita la propria bellezza!" Fratello, ci può essere offesa più grave?» Quello che più tormentava Alëša era il pensiero che il fratello potesse essere contento dell'umiliazione inferta a Katerina Ivanovna, anche se, ovviamente, non poteva essere così.
«Ah!», Dmitrij Fëdoroviè si accigliò all'improvviso e si colpì la fronte con la mano. Solo adesso ci faceva caso, sebbene Alëša gli avesse già raccontato per filo e per segno dell'offesa e del grido di Katerina Ivanovna: "Vostro fratello è un mascalzone". «Sì, forse ho davvero raccontato a Grušen'ka di quel "giorno fatale", come dice Katja. Ah, sì, gliel'ho raccontato, ora mi ricordo! È stato proprio quella volta, a Mokroe, ero ubriaco, le zigane cantavano. Singhiozzavo, singhiozzavo, stavo in ginocchio e pregavo sull'immagine di Katja e Grušen'ka capiva. Allora comprese tutto, ricordo che anche lei piangeva. Al diavolo! Ma potevano mai andare diversamente le cose ora? Allora piangeva, e adesso... Adesso "un pugnale nel cuore". Così fanno le femmine».
Abbassò il capo e rimase sovrappensiero.
«Sì, sono un mascalzone! Un mascalzone matricolato», disse con voce cupa. «Che importa se piangessi o no, sono sempre un mascalzone! Dille che accetto l'epiteto, se questo può consolarla. Ma basta così, addio, a che serve parlare ancora! Non c'è nessun gusto. Tu va' per la tua strada e io andrò per la mia. Non voglio neanche più incontrarti, se non proprio in caso di estrema necessità. Addio, Aleksej!» Strinse forte la mano di Alëša e, sempre a capo chino, senza alzare la testa, si avviò come di scatto verso la città. Alëša lo seguì con lo sguardo, non potendo credere che quello se ne fosse andato definitivamente, così all'improvviso.
«Aspetta, Aleksej, ancora una confessione, ma soltanto a te!», Dmitrij Fëdoroviè si girò di scatto e tornò indietro. «Guardami, guardami bene: vedi, ecco, qui, proprio qui si prepara una terribile infamia». (Dicendo "ecco qui", Dmitrij Fëdoroviè si colpì il petto con un pugno, con un'aria terribile, come se l'infamia si trovasse e si conservasse proprio nel suo petto, in qualche punto, in tasca forse, oppure pendesse cucita al collo). Tu mi conosci già: sono un mascalzone, un mascalzone confesso! Ma sappi che per quanto abbia fatto in passato e in questo momento o faccia in futuro, nulla, nulla potrà uguagliare per viltà l'infamia che proprio adesso, proprio in questo momento mi porto nel petto, ecco qui, proprio qui, l'infamia che si compirà sebbene io sia padrone di troncarla, sebbene io possa scegliere se troncarla o portarla a compimento, nota bene questo! Ma sappi pure che la porterò a compimento, non la troncherò. Poco fa ti ho raccontato tutto, ma questo non te l'ho raccontato, neanche io ho avuto la faccia di bronzo necessaria per farlo! Faccio ancora a tempo a fermarmi: fermandomi, domani stesso potrei recuperare una buona metà dell'onore perduto, ma io non mi fermerò, io porterò a compimento l'infame progetto, che tu possa testimoniare che te l'ho detto in anticipo e nel pieno possesso delle mie facoltà mentali! La rovina e le tenebre! Non c'è niente da spiegare, a suo tempo saprai. Un vicoletto fetido e una donna infernale! Addio, non pregare per me, non lo merito, e non ce n'è nemmeno bisogno, nemmeno un po'... non mi serve affatto! Via!»
E si allontanò rapidamente, ma questa volta in modo definitivo. Alëša andò al monastero. «Come può essere, come può essere che non lo vedrò mai più? Che cosa dice?», gli sembrava così assurdo. «Domani lo vedrò ad ogni costo e lo scoverò e scoprirò esattamente che cosa intendeva dire!...»
Fece il giro del monastero ed entrò direttamente nell'eremo attraverso il boschetto di pini. Gli aprirono, anche se a quell'ora non facevano entrare più nessuno. Il cuore gli tremava, quando entrò nella cella dello starec: perché, perché era uscito, perché lo aveva mandato nel "mondo"? Qui c'era quiete, santità, mentre fuori c'era confusione, tenebre nelle quali perdersi e smarrirsi...
Nella cella si trovavano il novizio Porfirij e lo ieromonaco padre Paisij, che per tutto il giorno, ad intervalli di un'ora, era venuto ad informarsi sulla salute di padre Zosima, il quale, come Alëša apprese con terrore, stava peggiorando di ora in ora. Quella volta non si era nemmeno tenuta la consueta riunione serale con la comunità dei monaci. Come d'abitudine, dopo la messa, ogni sera, prima di coricarsi, la comunità dei fratelli si riuniva nella cella dello starec e ciascuno a voce alta gli confessava i peccati della giornata, le fantasie peccaminose, i pensieri, le tentazioni, persino le dispute fra di loro, se ne capitavano. Alcuni si confessavano in ginocchio. Lo starec trovava soluzioni, ricomponeva dissidi, ammoniva, stabiliva la penitenza, dava la sua benedizione e li congedava. Ecco, proprio contro queste "confessioni" comunitarie si ergevano gli avversari dello starèestvo, sostenendo che esse costituissero una profanazione del sacramento della confessione, quasi un sacrilegio, sebbene fosse tutt'altro che così. Facevano persino presente all'autorità diocesana che tali confessioni non solo non perseguivano buoni scopi, ma invero inducevano di proposito al peccato e in tentazione. Molti membri della comunità erano restii a recarsi dallo starec, ma ci andavano controvoglia, visto che lo facevano tutti, affinché non li giudicassero superbi e ribelli di pensiero. Si raccontava che alcuni membri della comunità, recandosi alla confessione serale, si mettessero d'accordo fra di loro in anticipo, dicendo cose di questo genere: "Io dirò che stamane ho perso la pazienza con te e tu confermerai", e questo pur di avere qualcosa da dire, solo per farla franca. Alëša sapeva che qualche volta era accaduto qualcosa del genere. Era pure al corrente che nella comunità c'erano fratelli fermamente contrari al fatto che le lettere, indirizzate ai monaci da parte dei familiari, fossero portate dallo starec perché le aprisse prima dei destinatari. Si presupponeva, chiaramente, che tutto ciò dovesse avvenire per una scelta libera e sincera scaturita dal profondo del cuore, in nome di una spontanea sottomissione e di una edificazione salutare, ma nella realtà, come risultò, a volte quella pratica veniva accettata con poca spontaneità, anzi, al contrario, con sforzo e ipocrisia. Ma i più anziani e esperti della comunità rimanevano della propria idea ritenendo che "per chi è entrato sinceramente fra queste mura per santificare la propria anima, tutte queste prove di ubbidienza risulteranno indubbiamente salutari e apporteranno gran beneficio; chi, al contrario, ne è infastidito e si lamenta, è come se non fosse un vero monaco ed è stato perfettamente inutile che sia venuto al monastero: il suo posto è nel mondo. Neanche nel tempio si è salvi dal peccato e dal demonio, dunque non è il caso di essere indulgenti davanti al peccato".
«Si è indebolito, lo ha sopraffatto una forte sonnolenza», comunicò in un sussurro padre Paisij ad Alëša, dopo averlo benedetto. «È difficile svegliarlo. E non è nemmeno il caso di farlo. Si è svegliato per cinque minuti, ha chiesto di portare la sua benedizione alla comunità e ha chiesto alla comunità di pregare molto per lui stanotte. Ha intenzione di prendere la comunione un'altra volta domattina. Ti ha ricordato, Aleksej, ha chiesto di te, gli hanno risposto che eri in città. "Gli ho dato la mia benedizione proprio per questo; per ora è lì il suo posto, non qui". Sono state queste le sue parole su di te. Ti ha ricordato con affetto, con premura, ti rendi conto dell'onore che hai ricevuto? Mi domando soltanto perché ha stabilito che per ora il tuo posto sia nel mondo? Vuol dire che prevede qualcosa del tuo destino! Ricordati che se torni nel mondo, deve essere per assolvere a quel compito che ti ha imposto il tuo starec, non per lasciarti andare a frivola vanità e a piaceri mondani...»
Padre Paisij uscì. Sul fatto che lo starec stesse per morire, Alëša non aveva dubbi, anche se avrebbe potuto sopravvivere ancora un giorno o due. Alëša aveva deciso, con fermezza e fervore, che, malgrado le promesse fatte al padre, alle Chochlakov, al fratello e a Katerina Ivanovna, l'indomani non sarebbe uscito dal monastero e sarebbe rimasto con il suo starec fino al momento della sua morte. Il suo cuore s'infiammò d'amore e si rimproverò aspramente di aver potuto dimenticare per un attimo, in città, colui che aveva lasciato al monastero in punto di morte, la persona che reputava superiore a tutti al mondo. Passò nella stanzetta da letto dello starec, si mise in ginocchio e si prostrò sino a terra dinanzi al dormiente. Quello dormiva placidamente, immobile, con un respiro regolare e quasi impercettibile. Il suo viso era tranquillo.
Alëša tornò nell'altra stanza, la stessa nella quale in mattinata lo starec aveva accolto gli ospiti, e senza quasi spogliarsi, togliendosi soltanto gli stivali, si sdraiò sul duro divanetto di pelle, sul quale era solito dormire ormai da molto tempo, portandosi solo un cuscino. Quanto al materasso, che il padre gli aveva ricordato con le sue urla, da molto tempo ormai non lo stendeva più. Si limitava a togliersi la tonaca e a usarla a mo' di coperta. Ma, prima di addormentarsi, cadde in ginocchio e pregò a lungo. Nella sua ardente preghiera non chiese a Dio di fare chiarezza nel suo turbamento, egli anelava unicamente a quella gioiosa commozione, la commozione che sempre invadeva la sua anima dopo le lodi e i ringraziamenti al Signore di cui abitualmente si componeva la sua preghiera della sera. Quella gioia preannunciava puntualmente un sonno tranquillo e sereno. Mentre pregava anche quella sera, sentì casualmente nella tasca quella bustina rosa che gli aveva datto la cameriera di Katerina Ivanovna quando lo aveva raggiunto per strada. Ne rimase turbato, ma finì di pregare. Poi, dopo aver tentennato un poco, aprì la busta. Conteneva una letterina per lui firmata Lise - la giovinetta, la figlia della signora Chochlakova che aveva tanto riso di lui quella mattina in presenza dello starec.
"Aleksej Fëdoroviè", scriveva, "vi scrivo di nascosto da tutti, anche dalla mamma, e so che questo non sta bene. Ma non posso più vivere senza comunicarvi il sentimento che è nato nel mio cuore, e questo nessuno dovrà saperlo, tranne voi e me, fino al momento opportuno. Ma come dirvi quello che tanto vorrei dirvi? La pagina, dicono, non arrossisce, ma vi assicuro che non è così e che essa arrossisce esattamente come sto arrossendo io in questo momento. Caro Alëša, io vi amo, vi amo da quando ero bambina, dai tempi di Mosca, quando eravate completamente diverso da adesso, e vi amerò per tutta la vita. Ho scelto voi con il mio cuore per unirmi a voi e terminare insieme la nostra vita in vecchiaia. Naturalmente, a condizione che voi abbandoniate il monastero. Quanto alla nostra età, aspetteremo il tempo stabilito dalla legge. Per quel giorno sarò sicuramente guarita e in grado di camminare e danzare. Su questo non c'è dubbio.
Vedete come ho pensato a tutto; solo una cosa non riesco a immaginare: che cosa penserete di me quando leggerete questa lettera. Non faccio che ridere e scherzare, poco fa vi ho fatto alterare, ma vi assicuro che adesso, prima di prendere la penna in mano, ho pregato dinanzi all'immagine della Madonna, e anche in questo momento sto pregando e sono quasi sul punto di piangere.
Il mio segreto è nelle vostre mani; domani quando verrete non so come farò a guardarvi. Ah, Aleksej Fëdoroviè, e se di nuovo non mi trattenessi, come una sciocca, e scoppiassi a ridere nel guardarvi, come stamattina? Certo mi prenderete per una burlona cattiva e non crederete alla mia lettera. Per questo vi prego, caro, se avete della compassione per me, non guardatemi troppo fisso negli occhi quando verrete da noi domani, altrimenti, incrociando il vostro sguardo, sicuramente scoppierò a ridere, tanto più che indosserete quell'abito lungo... Persino ora mi vengono i brividi quando ci penso, quindi, quando entrerete, non guardatemi affatto per un po' di tempo, guardate la mamma o la finestra...
Ecco che vi ho scritto una lettera d'amore, Dio mio, che cosa ho fatto! Alëša, non mi disprezzate, e se quello che ho fatto è troppo brutto e vi ho amareggiato, allora perdonatemi. Adesso il segreto della mia reputazione, forse andata in fumo per sempre, è nelle vostre mani. Oggi piangerò sicuramente. Al prossimo incontro, al nostro prossimo terribile incontro, Lise.
P.S. Alëša, voi dovete, dovete, dovete venire, assolutamente! Lise".
Alëša lesse la lettera sbalordito, la lesse due volte, rifletté per un po' e ad un tratto si mise a ridere di una risata silenziosa, dolce. Trasalì: quella risata gli sembrò peccaminosa. Ma un attimo dopo tornò nuovamente a ridere, sempre silenziosamente e con la stessa felicità. Infilò lentamente la lettera nella sua bustina, si fece il segno della croce e si coricò. Il turbamento della sua anima si era dissolto in un baleno. «Signore, abbi pietà di loro, proteggi le loro anime infelici e violente, e correggile. Tu hai tante vie: guidali alla salvezza. Tu che sei amore e a tutti doni gioia!», mormorò Alëša facendosi il segno della croce e addormentandosi di un sonno sereno.
PARTE SECONDA
LIBRO QUARTO • LACERAZIONI
I • Padre Ferapont
Svegliarono Alëša la mattina presto, prima ancora dell'alba. Lo starec si era destato e si sentiva estremamente debole, anche se aveva voluto passare dal letto alla poltrona. Era pienamente cosciente: il suo viso, sebbene molto affaticato, era luminoso, quasi gioioso, e il suo sguardo allegro, affabile e invitante. «Forse non vivrò fino alla fine di questa giornata che ora incomincia», disse ad Alëša; poi volle confessarsi e prendere la comunione senza indugi. Il suo direttore spirituale era sempre stato padre Paisij. Dopo aver preso i due sacramenti, ebbe inizio l'estrema unzione. Si riunirono gli ieromonaci, la cella a poco a poco si riempì di monaci eremiti. Nel frattempo si faceva giorno. A poco a poco cominciavano ad arrivare anche dal monastero. Quando il servizio fu terminato, lo starec espresse il desiderio di baciare e salutare tutti. Data l'angustia della cella, i monaci che erano arrivati prima si ritiravano per lasciare posto agli altri. Alëša stava in piedi accanto allo starec, che si era nuovamente seduto nella poltrona. Questi parlava e impartiva i suoi insegnamenti per quanto gli era possibile; la sua voce, sebbene debole, era ancora abbastanza ferma. «Ho insegnato a voi per tanti anni e, quindi, ho parlato a voce alta per tanto di quel tempo che ormai parlare, e insegnare mentre vi parlo, è diventata un'abitudine per me, e questo a tal punto che tacere mi riesce persino più difficile che parlare, padri e fratelli miei cari, persino adesso che sono tanto debole», scherzò, guardando commosso i monaci che gli si stringevano attorno. Alëša, in seguito, ricordò qualcosa di quello che lo starec aveva detto allora. Ma per quanto parlasse in maniera intelligibile e con voce sufficientemente ferma, i suoi discorsi erano piuttosto incoerenti. Parlava di molte cose, sembrava che volesse dire tutto, che volesse esprimere per l'ultima volta, un momento prima di morire, tutto quello che non era riuscito a dire nella sua intera vita, e non solo allo scopo di impartire insegnamenti, ma come mosso dal desiderio di condividere la sua gioia e la sua esultanza con tutti gli uomini e tutto il Creato e riversare ancora una volta nella vita tutto il suo cuore...
«Amatevi l'un l'altro, padri», insegnava lo starec (secondo quello che ricordò in seguito Alëša). «Amate le creature di Dio. Noi non siamo più santi di coloro che vivono nel mondo per il fatto di essere venuti a rinchiuderci fra queste mura; anzi, ognuno di noi, per il fatto stesso di essere venuto qui, ha confessato in cuor suo di essere peggiore di tutti quelli che vivono fuori, di tutti gli uomini di tutta la terra... E più a lungo il monaco vivrà fra le pareti della sua cella, tanto più acutamente dovrà sentire tutto questo. Giacché, in caso contrario, a nulla gli sarà servito venire qui. Quando avrà riconosciuto non solo di essere peggiore di tutti i laici, ma anche di essere colpevole davanti a tutti gli uomini per tutti e per tutto, di tutti i peccati umani, collettivi e individuali, solo allora il fine della nostra comunità sarà stato raggiunto. Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l'umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra. Questa consapevolezza è il coronamento del cammino del monaco, così come di ciascun uomo sulla terra. I monaci infatti non sono diversi dagli altri uomini, ma sono esattamente come dovrebbero essere tutti gli uomini della terra. Solo in questa consapevolezza il nostro cuore si intenerirà di un amore sconfinato, universale, inesauribile. Allora ciascuno di voi avrà la forza di conquistare tutto il mondo con l'amore e di lavare con le proprie lacrime i peccati del mondo... Che ciascuno di voi abbia cura del proprio cuore, che ciascuno confessi i propri peccati a se stesso incessantemente. Non abbiate paura dei vostri peccati, neanche quando avrete preso coscienza di essi, purché ci sia pentimento; ma non ponete condizioni a Dio. E vi dico ancora: non siate orgogliosi. Non siate orgogliosi né davanti ai piccoli né davanti ai grandi. Non odiate quelli che vi respingono, vi diffamano, vi ingiuriano e vi calunniano. Non odiate gli atei, i maestri del male, i materialisti, nemmeno i cattivi fra questi, non soltanto i buoni: giacché fra loro ci sono molti buoni, tanto più nella nostra epoca. Ricordateli così nelle vostre preghiere: o Signore, salva tutti quelli per i quali nessuno prega, salva anche quelli che non vogliono che si preghi per te. E aggiungete pure: non è per orgoglio che ti chiedo questo, Signore, perché sono il più indegno di tutti... Amate le creature di Dio: non lasciate che il gregge passi nelle mani dei nuovi arrivati, giacché se vi addormenterete nell'accidia e nel vostro orgoglio presuntuoso, o peggio ancora nella cupidigia, quelli verranno da tutti i paesi e vi sottrarranno il vostro gregge. Diffondete instancabilmente il Vangelo tra il popolo... Non siate avidi... Non amate l'argento e l'oro, non accumulateli... Abbiate fede e sostenete il vessillo. Portatelo ben alto...»
Lo starec in realtà parlò in maniera molto più frammentaria di come è stato qui esposto e di come Alëša trascrisse in seguito. A volte si interrompeva del tutto come per raccogliere le forze, respirava a fatica, ma sembrava esultante. I confratelli lo ascoltavano commossi, anche se molti erano meravigliati dalle sue parole e le trovavano oscure... In seguito tutti ricordarono quelle parole. Quando Alëša si allontanò un attimo dalla cella, fu colpito dall'agitazione e dall'attesa generale della comunità che si affollava nella cella e intorno ad essa. Quell'attesa per alcuni era allarmata, per altri solenne. Tutti si aspettavano che avvenisse qualcosa di improvviso e sublime, subito dopo il trapasso dello starec. Da un certo punto di vista quell'attesa era piuttosto avventata, ma anche i monaci più austeri si erano lasciati prendere da essa. Il viso più severo di tutti era quello dello ieromonaco Paisij. Alëša si era allontanato dalla cella solo perché era stato chiamato in segreto da Rakitin, il quale era tornato dalla città con una strana lettera indirizzata ad Alëša da parte della signora Chochlakova. La missiva informava Alëša di una circostanza molto strana e che giungeva incredibilmente a proposito. Si trattava di questo: il giorno prima, fra le fedeli del popolo convenute per venerare lo starec e riceverne la benedizione, c'era stata quell'anziana donna che veniva dalla città, la Prochorovna, la vedova del sottufficiale. Aveva chiesto allo starec il permesso di commemorare suo figlio Vasen'ka con una messa funebre, come se fosse morto; il figlio era andato lontano per motivi di servizio, in Siberia, ad Irkutsk, ed era più di un anno che ella non riceveva notizie.
Quindi lo starec le aveva risposto con severità, vietandole di fare una commemorazione che riteneva simile a un maleficio. Ma, poi, l'aveva perdonata per la sua ignoranza e aveva aggiunto una frase consolatoria, "come se avesse letto nel libro del futuro" (così si esprimeva la signora Chochlakova nella sua lettera): "Suo figlio Vasja era sicuramente vivo, sarebbe tornato di persona al più presto, oppure le avrebbe spedito una lettera, che lei nel frattempo tornasse a casa e aspettasse. E ci credereste?", aggiungeva eccitata la signora Chochlakova, "la profezia dello starec si è avverata per filo e per segno, e c'è dell'altro". L'anziana signora era appena tornata a casa quando le fu consegnata la lettera che aspettava dalla Siberia. E non solo: in quella lettera, scritta in viaggio, da Ekaterinburg, Vasja informava sua madre che stava tornando in Russia in compagnia di un impiegato e che, tre settimane dopo l'arrivo di quella lettera, "sperava di poter riabbracciare la madre". La signora Chochlakova pregava insistentemente e caldamente Alëša di informare il padre igumeno e tutta la comunità di questo nuovo "miracolo di predizione" che si era compiuto: "Devono saperlo tutti, tutti!", esclamava a conclusione della sua lettera. La lettera era stata scritta in fretta e furia, di corsa, l'agitazione della scrivente si rifletteva in ogni riga. Ma Alëša non dovette comunicare nulla alla comunità, tutti erano già al corrente di tutto: Rakitin aveva incaricato lo stesso monaco che aveva mandato da Alëša di "riferire con profonda deferenza al reverendo padre Paisij che lui, Rakitin, aveva una certa notizia, una notizia di importanza tale che non avrebbe osato esitare nemmeno un minuto per comunicargliela e chiedeva umilmente perdono per la sua presunzione." Poiché il monaco aveva riferito a padre Paisij la richiesta di Rakitin prima di andare da Alëša, a quest'ultimo, dopo aver letto la lettera, non rimase altro che consegnarla a padre Paisij a titolo di documento. Ed ecco che persino quest'uomo austero e diffidente, dopo aver letto con aria accigliata la notizia del "miracolo", non riuscì a trattenere del tutto una certa emozione. Gli occhi gli scintillarono, sulle labbra gli affiorò ad un tratto un sorriso grave e solenne.
«Vedremo grandi cose, forse», gli sfuggì improvvisamente.
«Vedremo grandi cose, vedremo grandi cose!», ripeterono in coro i monaci tutt'intorno, ma padre Paisij, accigliatosi di nuovo, chiese a tutti di non parlare di quel fatto, almeno per il momento, "fino a quando non avrà avuto conferma, giacché negli uomini c'è molta avventatezza", e quell'episodio poteva avere "una spiegazione naturale", aggiunse con cautela, come per alleggerirsi la coscienza, ma quasi senza credere egli stesso alle proprie parole, come notarono molto bene quelli che lo ascoltavano. In men che non si dica, ovviamente, il "miracolo" fu sulla bocca di tutto il monastero e di molti fedeli giunti al monastero per la messa. Pare che il monacello giunto la sera prima "da San Silvestro", il piccolo monastero di Obdorsk all'estremo nord, fosse rimasto colpito più di tutti dal miracolo che si era compiuto. Il giorno prima aveva avuto modo di salutare lo starec ; stava accanto alla signora Chochlakova e, indicando la figlia "guarita" della signora, gli aveva domandato con gravità: "Come avete l'ardire di fare queste cose?"
Il fatto era che quel giorno il monacello era piuttosto confuso e quasi non sapeva a che cosa credere. La sera prima aveva fatto visita, lì al monastero, a padre Ferapont, che viveva in una cella a parte, dietro l'apiario, ed era stato colpito da quell'incontro che aveva prodotto su di lui un'impressione straordinaria e terribile. Quel vecchio, padre Ferapont appunto, era il monaco più anziano, il formidabile digiunatore e campione del silenzio, che abbiamo già menzionato come avversario dello starec Zosima e soprattutto dell'istituto dello starèestvo, che egli riteneva un'innovazione perniciosa e fatua. Come avversario egli era eccezionalmente pericoloso anche se, in quanto osservatore del voto del silenzio, non parlava quasi mai con nessuno. Quello che lo rendeva pericoloso era, soprattutto, il fatto che moltissimi nella comunità erano pienamente d'accordo con lui, e, fra i laici che frequentavano il convento, molti lo veneravano come un grande giusto e un grande asceta, anche se indubbiamente vedevano in lui un puro folle. Ma era proprio questa sua caratteristica che li attraeva. Padre Ferapont non si recava mai in visita allo starec Zosima. Sebbene vivesse nell'eremo, non lo importunavano molto con le regole del luogo, proprio perché si comportava da puro folle. Aveva settantacinque anni, forse anche di più, e abitava dietro l'apiario dell'eremo, in un angolo delle mura, in una cella di legno decrepita, quasi cadente, costruita in tempi remoti, sin dal secolo scorso, per padre Iona, anche lui grandissimo digiunatore e campione del silenzio, vissuto fino a centocinque anni, e riguardo alle cui gesta ancora si raccontavano, nel monastero e fuori, molti curiosissimi aneddoti. Erano sette anni che padre Ferapont aveva finalmente ottenuto il permesso di stabilirsi in quella piccola cella isolata che praticamente era una semplicissima izba, sebbene assomigliasse moltissimo a una cappella; infatti conteneva un'innumerevole quantità di immagini votive davanti alle quali ardevano perpetuamente lampade votive. Padre Ferapont aveva il compito di custodire e accendere quelle lampade. Si diceva (ma era proprio vero) che mangiasse solo due libbre di pane ogni tre giorni, non di più; glielo portava ogni tre giorni il monaco addetto all'apiario che pure viveva lì, ma persino con quel monaco apicoltore che lo accudiva padre Ferapont raramente proferiva parola. Quelle quattro libbre di pane, insieme al pane eucaristico che il padre igumeno gli mandava puntualmente dopo l'ultima messa ogni domenica, costituivano la sua razione di cibo settimanale. Non tutti i giorni gli cambiavano l'acqua nella brocca. Compariva di rado alla messa. I fedeli che andavano a rendergli omaggio lo vedevano talvolta immerso nella preghiera tutto il giorno, in ginocchio, senza guardarsi attorno. Se qualche volta si metteva a conversare con loro, era laconico, brusco, strano e quasi sempre scontroso. Erano rare, però, le volte in cui parlava con i visitatori, di solito pronunciava soltanto qualche strana parola che risultava sempre un grande enigma per l'astante e poi, per quanto lo pregassero, non diceva neanche una parola di chiarimento. Non aveva preso gli ordini sacerdotali, era un semplice monaco. Circolava una voce molto strana, soprattutto fra la gente più ignorante, comunque, secondo la quale padre Ferapont comunicava con gli spiriti celesti e conversava solo con essi: ecco perché con gli uomini taceva. Il monacello di Obdorsk, che aveva raggiunto l'apiario dietro le indicazioni del monaco apicoltore, pure quello oltremodo taciturno e cupo, si diresse verso il cantuccio dove si trovava la celletta di padre Ferapont. «Può darsi che vi parli perché siete forestiero, ma può darsi pure che non gli caverete una parola», lo aveva avvisato l'apicoltore. Il monacello, come riferì in seguito, avanzò verso la celletta in uno stato di grande apprensione. Era piuttosto tardi. Padre Ferapont questa volta era seduto presso l'uscio della cella su di un basso panchetto. Sopra il suo capo frusciava un enorme olmo secolare. Si era levata la frescura della sera. Il monacello di Obdorsk si prostrò dinanzi al santo e chiese la sua benedizione.
«Vuoi che anche io mi prostri sino a terra davanti a te, monaco?», disse padre Ferapont. «Alzati!» Il monaco si alzò.
«Benedicendo, sei benedetto, siediti qui accanto. Donde vieni?»
Ciò che colpì più di tutto il povero monacello fu il fatto che padre Ferapont, nonostante i digiuni indubbiamente rigorosi e l'età avanzata, era ancora un vecchio vigoroso, alto, con le spalle ben dritte, nient'affatto curve, un viso fresco e sano, sebbene magro. Indubbiamente conservava ancora una notevole forza. Aveva una corporatura atletica. Malgrado la veneranda età, non era del tutto canuto e aveva capelli e barba, un tempo completamente neri, ancora foltissimi. I suoi occhi erano grigi, grandi, luminosi, ma straordinariamente sporgenti, cosa che faceva persino impressione. Parlava accentuando molto la o. Indossava un lungo caffettano rossastro, di panno grezzo "da carcerato", come si diceva un tempo, stretto in vita da una solida corda. Il collo e il petto erano nudi. La tela grezza della camicia quasi completamente annerita, che non cambiava da mesi, spuntava da sotto il caffettano. Dicevano che sotto il caffettano portasse, direttamente sulla pelle, trenta libbre di catene per macerare le carni. Ai piedi nudi portava vecchi scarponi quasi a pezzi.
«Vengo dal piccolo monastero di Obdorsk, da San Silvestro», rispose con tono sottomesso il monacello forestiero, osservando l'eremita con i suoi occhietti mobili e curiosi, benché un po' spaventati.
«Sono stato dal tuo Silvestro. Ho vissuto lì. È in salute Silvestro?» Il monaco si confuse.
«Dissennati! Come rispettate il digiuno?»
«La nostra mensa è così ordinata secondo l'antica regola dell'eremo: in Quaresima, di lunedì, mercoledì e venerdì non si mette tavola. Il martedì e il giovedì alla comunità viene distribuito pane bianco, decotto con miele, bacche di mortella o cavolo in salamoia e farina d'avena mescolata. Di sabato zuppa di cavolo, zuppa di piselli, kaša al sugo, il tutto condito. Di domenica insieme alla zuppa di cavoli si serve pesce secco e kaša. Nella Settimana Santa, dal lunedì fino alla sera del sabato, per sei giorni, pane e acqua e potesi mangiare pure verdura non bollita, ma tutto con moderazione; e ancora, non si può prenderne ogni dì, ma secondo quanto è stato stabilito per la prima settimana. Il Venerdì Santo non si deve mangiare nulla, come anche il Sabato Santo bisogna digiunare sino alle tre e dopo è concesso mangiare un po' di pane e bere acqua e una sola coppa di vino. Il Giovedì Santo mangiamo una pietanza cotta di magro, beviamo vino e a volte mangiamo cibo asciutto. Giacché pure a Laodicea il concilio si è così pronunciato sul Giovedì Santo: "Non è giusto rompere il digiuno il giovedì dell'ultima settimana di Quaresima e così disonorare tutta la Quaresima". Ecco com'è da noi. Ma cos'è tutto questo in confronto a quello che fate voi, santo padre?», soggiunse il monacello che si era rianimato. «Giacché tutto l'anno, persino il giorno della Santa Pasqua vi cibate solo di pane e acqua, e il pane che noi mangiamo in due giorni a voi basta per una settimana. È davvero prodigiosa questa vostra sublime astinenza».
«E i funghi lattari?», domandò a bruciapelo padre Ferapont pronunciando la lettera g aspirata come fosse una ch. «I lattari?», domandò a sua volta il monacello stupito.
«Proprio quelli. Faccio a meno del loro pane, non ne sento affatto il bisogno, mi basta andare nel bosco e lì mi cibo di lattari e bacche, mentre questi qui non possono fare a meno del loro pane, dunque sono legati al diavolo. Adesso gli impuri dicono che codesto digiuno non serve a nulla.
Arrogante e impuro è questo loro giudizio».
«Oh, quanto è vero», sospirò il monacello.
«E i diavoli lì da loro li hai visti?», domandò padre Ferapont.
«Da loro chi?», si informò timidamente il monacello.
«L'anno scorso mi recai dal padre igumeno in occasione della Pentecoste; da allora non ci sono più tornato. A uno gli stava seduto in petto, si nascondeva sotto la tonaca, spuntavano solo le corna, a un altro gli sbirciava dalla tasca con tanto d'occhi, aveva paura di me, a un altro si era appollaiato in grembo proprio sul ventre impuro, e a un altro ancora gli pendeva al collo, si aggrappava e quello se lo portava in giro senza vederlo».
«E voi...vedete?», domandò il monacello.
«Sto dicendo che vedo, vedo dentro di loro da parte a parte. Mentre me ne andavo via dal padre igumeno, ne vidi uno che si nascondeva alla mia vista dietro la porta, era una bestia enorme, alta un metro circa, e anche più, con una codaccia grossa, marrone, lunga, aveva infilato la punta della coda nella fessura della porta, e io, ben accorto, chiusi la porta di colpo e gli schiacciai dentro la coda. Come strillò, cominciò a dimenarsi e io a fargli il segno della croce, per ben tre volte gli feci il segno della croce. Quello perì come un ragno schiacciato. Adesso deve essere ancora lì a marcire in un angolo, a puzzare, ma quelli non vedono, non sentono l'odore. È un anno che non mi reco da loro. Questo l'ho rivelato solo a te giacché tu sei forestiero».
«Sono terribili le vostre parole! Padre santo e beato», il monacello si faceva sempre più ardito, « è vero, secondo quanto si dice di voi persino in terre remote, che siete in perpetua comunicazione con il santo spirito, corrisponde al vero questo?»
«Esso vola da me. Alle volte accade». «Come, vola da voi? Sotto quale forma?» «Quella di uccello».
«Il santo spirito sotto forma di colomba?»
«C'è il santo spirito e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è ben altra cosa, esso può scendere anche sotto forma di altro uccello: una volta di rondine, un'altra di beccaccino, o ancora di cinciallegra». «Come fate a distinguerlo da una cinciallegra vera?» «Esso parla».
«Come, parla? In che lingua?» «In linguaggio umano».
«E che cosa vi dice?»
«Oggi mi ha annunciato che uno stolto mi avrebbe fatto visita e mi avrebbe posto domande oziose. Monaco, vuoi sapere troppo».
«Sono parole tremende le vostre, padre beatissimo e santissimo», scosse il capo il monacello. Ma nei suoi occhietti impauriti trapelava anche incredulità.
«Codesto albero lo vedi?», domandò padre Ferapont dopo una breve pausa.
«Lo vedo, padre beatissimo».
«Ai tuoi occhi è un olmo, ai miei rappresenta un'altra forma». «E quale?», domandò il monacello dopo una pausa di trepidante attesa.
«Accade di notte. Li vedi quei due rami? Di notte il Cristo protende le Sue mani verso di me e con quelle braccia mi cerca, lo vedo chiaramente e sono colto da tremore. È terribile, oh, terribile!». «Che c'è di terribile, se è Cristo?» «Mi afferra e mi porta in Cielo».
«Così, da vivo?»
«E nello spirito e nella gloria di Elia; che, non l'hai mai sentito? Egli mi prenderà fra le Sue braccia e mi porterà via...»
Sebbene il monacello di Obdorsk, dopo quella conversazione, avesse fatto ritorno nella cella assegnatagli - che avrebbe diviso con un confratello - in uno stato di profonda perplessità, tuttavia il suo cuore propendeva decisamente più per padre Ferapont che per padre Zosima. In primo luogo, il monacello era favorevole al digiuno, e non c'era tanto da meravigliarsi se un digiunatore così eccezionale come padre Ferapont "vedesse mirabili cose". Le sue parole, ovviamente, erano un po' assurde, ma solo Dio sapeva che cosa si racchiudeva in quelle parole, e poi le parole e gli atti di tutti gli stolti in Cristo non erano forse simili a quelli di padre Ferapont? Quanto alla coda schiacciata del demonio, era pronto a crederci, devotamente, non solo in senso figurato, ma anche in senso letterale. A parte questo, anche in precedenza, prima del suo arrivo al monastero, egli nutriva forti pregiudizi sull'istituto dello starèestvo, che conosceva solo per sentito dire, e lo considerava, sulla scia di molti altri, decisamente un'innovazione perniciosa. Dopo aver girato il monastero in lungo e in largo, aveva già avuto modo di notare i mormorii segreti di alcuni fatui fratelli della comunità, contrari allo starèestvo. Tanto più che, per natura, egli era un monaco indiscreto, indagatore, uno che metteva il naso dappertutto. Ecco perché la grande notizia sul nuovo "miracolo" compiuto dallo starec Zosima lo aveva turbato profondamente. Alëša ricordò in seguito che, fra i monaci che si accalcavano presso lo starec e intorno alla sua cella, più volte era balenata davanti ai suoi occhi la figuretta del curioso ospite di Obdorsk, che indagava da un gruppetto all'altro, ascoltando e facendo domande. Ma allora Alëša ci prestò poca attenzione, se ne ricordò soltanto in seguito...D'altronde aveva altro a cui pensare, perché padre Zosima, che si era sentito nuovamente stanco, era tornato a letto, e si era ricordato all'improvviso di Alëša, mentre stava già chiudendo gli occhi, quindi lo aveva mandato a chiamare. Alësa era accorso all'istante. Al capezzale dello starec in quel momento c'erano solo padre Paisij, il padre ieromonaco Iosif e il novizio Porfirij. Lo starec aprì gli occhi affaticati, guardò fisso Alëša e ad un tratto gli domandò: «I tuoi non ti stanno aspettando, figliolo?» Alëša si confuse.
«Non hanno bisogno di te? Ieri non hai promesso a qualcuno che saresti andato a fargli visita oggi?»
«L'ho promesso... a mio padre... ai fratelli... ad altri ancora...»
«Lo vedi. Va' senza indugio. Non ti addolorare. Sappi che non morirò finché tu non sarai presente per ascoltare la mia ultima parola su questa terra. A te dirò questa mia parola, figliolo, e te la lascerò in dono. A te, figliolo, caro, giacché tu mi ami. Ma adesso va' da coloro a cui hai promesso».
Alëša ubbidì immediatamente anche se gli era penoso allontanarsi. Ma la promessa di poter ascoltare l'ultima sua parola sulla terra e, soprattutto, che fosse lasciata in dono a lui, fece fremere la sua anima di esultanza. Si affrettò in modo da tornare al più presto, una volta conclusa ogni cosa in città. Come a farlo apposta anche padre Paisij pronunciò qualche parola di commiato che doveva produrre su di lui un'emozione profonda e inattesa. Egli parlò quando entrambi furono usciti dalla cella dello starec.
«Non ti dimenticare mai, ragazzo», esordì padre Paisij direttamente, senza preamboli, «che la scienza di questo mondo, che è diventata una grande potenza soprattutto nel nostro ultimo secolo, ha analizzato tutto ciò che di divino ci è stato tramandato nei libri sacri e, dopo questa spietata analisi, agli scienziati del mondo non è rimasto decisamente nulla di tutta la sacralità del passato. Ma, analizzando pezzo per pezzo, hanno perso di vista il tutto e fa persino meraviglia a quale grado di cecità essi siano arrivati. Eppure il tutto sta davanti ai loro occhi incrollabile, e le porte dell'inferno non prenderanno il sopravvento su di esso. Non è forse sopravvissuto per diciannove secoli, forse non sopravvive tuttora nei moti delle singole anime e nei moti delle masse popolari? Persino nei moti delle anime di quegli stessi atei che distruggono tutto, resiste incrollabile, come prima! Giacché persino coloro che hanno rinnegato il Cristianesimo e combattono contro di esso, persino loro, nella loro essenza, sono fatti a immagine di Cristo e tali sono rimasti, giacché a tutt'oggi né la loro saggezza, né l'ardore dei loro cuori è stato in grado di creare un ideale dell'uomo e della sua dignità superiore a quello indicato da Cristo nell'antichità. E se tentativi ci sono stati, hanno avuto come risultato solo mostruosità. Ricordati questo in particolar modo, ragazzo, giacché sei stato mandato nel mondo dal tuo starec morente. Forse, ricordando questo giorno sublime, non dimenticherai neanche le mie parole, proferite a mo' di cordiale viatico, giacché tu sei giovane e le tentazioni del mondo sono grandi e superiori alle tue forze. Adesso va', orfano caro».
Con queste parole padre Paisij lo benedisse. Uscendo dal monastero e ripensando a tutte queste parole inattese, Alëša capì ad un tratto che in quel monaco, fino a quel momento così rigido e severo nei suoi confronti, ora avrebbe trovato un nuovo inaspettato amico, una nuova guida che lo amava con ardore, proprio come se lo starec Zosima lo avesse affidato a lui morendo. "E forse lo hanno deciso fra di loro", pensò ad un tratto. Quanto alle dotte riflessioni di padre Paisij che aveva appena ascoltato, esse testimoniavano più di ogni altra cosa il calore del suo cuore: egli si affrettava ad armare la mente del ragazzo per la lotta contro le tentazioni e a proteggere la sua giovane anima, a lui affidata, con la più solida delle difese che potesse immaginare.
II • Dal padre
In primo luogo Alëša si recò dal padre. Durante il tragitto, gli sovvenne che questi il giorno prima aveva molto insistito perché egli entrasse di nascosto dal fratello Ivan. «Perché mai?», si domandò Alëša. «Se mio padre vuol dire qualcosa a me solo, di nascosto, che bisogno c'è di entrare pure di nascosto? Evidentemente ieri voleva dire qualcos'altro, così agitato com'era, ma non c'è riuscito», concluse. Nondimeno si rallegrò quando Marfa Ignat'evna, che gli aprì la porticina del giardino (seppe poi che Grigorij stava male e riposava nella dipendenza), alla sua domanda rispose che Ivan Fëdoroviè era uscito già da due ore.
«E il papà?»
«Si è alzato, sta bevendo il caffè», rispose un po' seccamente Marfa Ignat'evna.
Alëša entrò. Il vecchio sedeva solo a tavola, indossava le pantofole e un vecchio cappotto ed esaminava, per distrarsi, ma senza grande attenzione, certi suoi conti. Era completamente solo in casa (anche Smerdjakov era uscito a fare la spesa per il pranzo). Ma non erano i conti a tenergli occupata la mente. Sebbene si fosse alzato di buon mattino e si facesse forza, aveva tuttavia un'aria stanca e indebolita. La fronte, che durante la notte si era riempita di enormi lividi violacei, era avvolta in un fazzoletto rosso. Pure il naso si era molto gonfiato durante la notte e su di esso si erano formati dei lividi a chiazze, non molto evidenti, ma che indubbiamente conferivano al suo volto un aspetto particolarmente arcigno e malevolo. Il vecchio se ne rendeva conto da solo e gettò un'occhiata ostile su Alëša che entrava in quel momento.
«Il caffè è freddo», disse bruscamente, «non te lo offro. Oggi mangio zuppa di pesce in bianco e non invito nessuno. Perché sei venuto?» «Per informarmi sulla vostra salute», rispose Alëša.
«Sì, tanto più che sono stato io stesso ad invitarti ieri. Tutte sciocchezze. Ti sei disturbato inutilmente. Del resto, lo sapevo che ti saresti subito scapicollato qui...»
Pronunciò queste parole con aria estremamente ostile.
Nel frattempo si era alzato dal suo posto e si osservava preoccupato il naso allo specchio (per la quarantesima volta dalla mattina, forse). Cominciò pure a sistemarsi meglio sulla fronte il fazzoletto rosso. «Rosso è meglio, col fazzoletto bianco sembra di stare all'ospedale», sentenziò. «Che si dice dalle tue parti? Come sta il tuo starec?»
«Sta molto male, potrebbe morire entro oggi», rispose Alëša, ma il padre non l'ascoltò nemmeno, anzi aveva dimenticato subito la domanda che aveva posto.
«Ivan è uscito», disse ad un tratto. «Vuole soffiare la fidanzata a Mit'ka a tutti i costi, ecco perché rimane qui», aggiunse con perfidia e, storcendo le labbra, guardò Alëša.
«È stato forse lui a dirvi questo?», domandò Alëša.
«Sì ed è un pezzo che me l'ha detto. Ci crederesti? Saranno tre settimane che me l'ha detto. Non crederai che sia venuto qui anche lui per scannarmi alla chetichella? Deve pur aver avuto qualche buon motivo per venire, non ti pare?»
«Ma che dite! Perché parlate in questo modo?», ribatté Alëša molto turbato.
«Denaro non ne chiede, a dire il vero, e comunque da me non caverebbe un soldo. Io, dolcissimo Aleksej Fëdoroviè, ho intenzione di vivere il più a lungo possibile a questo mondo, sappiatelo, e dal momento che mi serve ogni singola copeca, più a lungo vivrò, tanto più essa mi sarà necessaria», proseguì passando da un angolo all'altro della stanza, con le mani affondate nelle tasche del suo ampio cappotto di calamandra estiva gialla, tutto imbrattato. «Sono ancora un uomo per il momento, ho solo cinquantacinque anni, ma voglio comportarmi da uomo ancora per una ventina d'anni; man mano che invecchierò diventerò sempre più ripugnante, allora quelle non verranno volentieri con me, ecco a cosa mi serviranno i soldini. E così adesso accumulo sempre di più, sempre di più solo per me stesso, caro figlio mio Aleksej Fëdoroviè, sappiatelo questo, perché voglio vivere nella mia lordura fino alla fine, sappiatelo. È più bello stare nella lordura: tutti imprecano contro di essa, ma tutti ci vivono dentro, solo che lo fanno di nascosto mentre io ci sto alla luce del sole. È proprio per questa mia ingenuità che tutti gli sporcaccioni si scagliano contro di me. E il tuo paradiso, Aleksej Fëdoroviè, io non lo voglio, sappilo, anche per gli uomini perbene il tuo paradiso è sconveniente, ammesso che esso esista. Secondo me, ci si addormenta per non svegliarsi più, ecco tutto, commemoratemi con le messe funebri, se volete, e se non volete, che il diavolo vi porti. Ecco la mia filosofia. Ieri Ivan ha parlato bene qui, anche se eravamo tutti ubriachi. Ivan è uno smargiasso e non ha nessuna cultura... e non ha neanche una particolare educazione, se ne sta zitto e ride di te, solo di questo è capace».
Alëša lo ascoltava in silenzio.
«Perché non parla con me? E se parla, si dà arie: è un mascalzone il tuo Ivan! E Gruška me la sposo subito, se me ne viene l'estro. Perché con i soldi basta solo volere, Aleksej Fëdoroviè, e si ha tutto. Ecco: Ivan ha paura proprio di questo e mi sorveglia perché non mi sposi e per questo istiga Mit'ka a sposare Gruška: in tal modo, da una parte vuole tenere me lontano da Gruška (come se i soldi li lasciassi a lui, se non sposo Gruška!), e dall'altra, se Mit'ka sposa Gruška, Ivan si prende per sé la fidanzata ricca di quell'altro, ecco qual è il suo calcolo! È un mascalzone il tuo Ivan!»
«Come siete irritato! È a causa dei fatti di ieri. Fareste meglio a sdraiarvi», disse Alëša.
«Ecco, tu dici questo», osservò a bruciapelo il vecchio come se quel pensiero gli venisse alla mente per la prima volta, «dici questo e con te non mi arrabbio, ma se fosse stato Ivan a dirmelo, mi sarei arrabbiato. Solo con te ho avuto i miei momenti buoni, per il resto sono cattivo». «Non siete cattivo, siete malconcio», disse Alëša sorridendo.
«Ascolta, oggi volevo far mettere in galera quello scellerato di Mit'ka, ma al momento non so ancora che cosa deciderò. Naturalmente, adesso va di moda considerare l'autorità della madre e del padre come un pregiudizio; eppure, per la legge, pare, anche ai nostri giorni non è consentito tirare i padri anziani per i capelli, picchiarli in testa con i tacchi delle scarpe, mentre giacciono per terra, in casa loro, e vantarsi di tornare a finirli una volta per tutte - tutto alla presenza di testimoni. Se volessi, lo potrei schiacciare e potrei farlo rinchiudere in galera per ciò che ha combinato ieri».
«Allora non volete sporgere denuncia, vero?»
«Ivan mi ha convinto a non farlo. Non darei retta ad Ivan, ma c'è una certa cosuccia da tenere presente...»
E, inchinatosi verso Alëša, continuò con un bisbiglio confidenziale: «Se lo faccio mettere in carcere, il mascalzone, quella sente che l'ho fatto rinchiudere e corre subito da lui. Se, invece, diciamo oggi stesso, viene a sapere che mi ha picchiato fin quasi ad ammazzarmi, a me, povero vecchio, forse lo lascia e viene subito a trovarmi... Perché lei è fatta così, è una che fa sempre tutto il contrario. Leggo in lei come in un libro aperto! Allora, ti fai un bicchierino di cognac? Prendi lì il caffettuccio freddo, caro, ti verserò un quarto di bicchierino, gli dà gusto».
«No, vi ringrazio. Ecco, prenderò con me questo pezzo di pane, se me lo permettete», disse Alëša e, preso un panino francese da tre copeche, se lo infilò nella tasca della tonaca. «Neanche voi dovreste bere cognac», consigliò Alëša preoccupato, guardando in faccia il vecchio.
«Hai ragione tu, irrita i nervi e non dà pace. Ma solo un bicchierino...Lo prendo dalla credenzina...»
Aprì la "credenzina" chiusa a chiave, si versò un bicchierino, lo bevve, poi chiuse la credenzina e si rimise la chiave in tasca.
«Basta così, non creperò per un bicchierino».
«Siete anche diventato più buono adesso», disse Alëša sorridendo. «Hmm! A te voglio bene anche senza cognac, ma con i mascalzoni mi comporto da mascalzone. Van'ka non va a Èermašnja, e lo sai perché? Vuole spiare quanto darò a Grušen'ka, quando verrà. Tutta una manica di mascalzoni! Sai, Ivan io proprio non lo riconosco. Ma da dove è venuto fuori uno come lui? Non è uno di noi nell'anima. Come se io avessi intenzione di lasciargli qualcosa! Non lascerò nemmeno il testamento, sappiatelo. Mit'ka lo schiaccerò come uno scarafaggio. Di notte schiaccio gli scarafaggi neri con le pantofole: quelli scricchiolano quando ci metti il piede sopra. Anche il tuo Mit'ka scricchiolerà. Il tuo Mit'ka, perché tu gli vuoi bene. Ecco, tu gli vuoi bene e io non ho paura che tu gli voglia bene. Ma se gli volesse bene Ivan, mi preoccuperei per me stesso, per il fatto che gli vuole bene. Ma Ivan non vuole bene a nessuno, Ivan non è come noi, la gente come Ivan non è dei nostri, fratello, è come una nuvola di polvere... Quando soffia il vento e la polvere viene spazzata via... Ieri avevo una stupida idea in mente, quando ti ho chiesto di venire qui: volevo sapere per tuo tramite se Mit'ka avrebbe accettato una carta da mille, o anche duemila, lui che è un miserabile mascalzone, per togliersi dai piedi per cinque annetti, meglio trentacinque, ma senza Gruška, anzi rinunciando a lei completamente, eh?»
«Io... glielo domanderò», mormorò Alëša. «Se fossero tremila rubli, allora forse lui...»
«Stai vaneggiando! Non occorre che tu chieda nulla, non occorre! Ho cambiato idea! Ieri mi è saltata in zucca questa sciocchezza. Non darò niente, proprio un bel niente, i miei soldini servono a me», disse il vecchio agitando il braccio. «Lo schiaccerò come uno scarafaggio anche così. Non dirgli nulla, altrimenti si metterà a sperare in qualche cosa. Non serve neanche che tu rimanga qui, va' via. Quella fidanzata, quella Katerina Ivanovna, che mi ha tenuto così accuratamente nascosta, se lo sposa o no? Ieri, se non sbaglio, sei andato da lei?»
«Ella non lo vuole lasciare a nessun costo».
«Sono proprio i tipi così che amano queste belle signorine, scapestrati e mascalzoni! Sono una schifezza quelle signorine pallide, te lo dico io: ben altra roba... Be'! Se avessi la sua giovinezza, e il mio viso di un tempo (perché ero più bello di lui a ventotto anni), sarei un conquistatore anch'io come lui. È una canaglia lui! Grušen'ka però non
l'avrà, non l'avrà, nossignore... Lo ridurrò in poltiglia!»
Dicendo queste ultime parole si era di nuovo infuriato.
«Va' via anche tu, non c'è niente che tu possa fare qui oggi», tagliò corto bruscamente.
Alëša si avvicinò per salutarlo e lo baciò su una spalla.
«Perché hai fatto questo?», il vecchio era un po' sorpreso. «Ci
vedremo ancora. Oppure pensi che non ci vedremo?» «Nient'affatto, l'ho fatto così, per caso».
«E anche io, l'ho detto solo così...», il vecchio lo guardò. «Ascolta, ehi, ascolta?», gli gridò dietro. «Fa presto a tornare un'altra volta e ti farò cucinare una zuppa di pesce speciale, non come quella di oggi, vieni, mi raccomando! A domani, mi senti, vieni domani!»
E non appena Alëša fu uscito, andò di nuovo alla credenzina e mandò giù un altro mezzo bicchierino.
«Non lo farò più!», mormorò, dopo essersi raschiato la gola. Richiuse la credenzina, si rimise la chiave nella tasca, poi andò in camera da letto, si adagiò esausto sul letto e si addormentò in un attimo.
III • Fa comunella con gli scolari
I • Padre Ferapont
Svegliarono Alëša la mattina presto, prima ancora dell'alba. Lo starec si era destato e si sentiva estremamente debole, anche se aveva voluto passare dal letto alla poltrona. Era pienamente cosciente: il suo viso, sebbene molto affaticato, era luminoso, quasi gioioso, e il suo sguardo allegro, affabile e invitante. «Forse non vivrò fino alla fine di questa giornata che ora incomincia», disse ad Alëša; poi volle confessarsi e prendere la comunione senza indugi. Il suo direttore spirituale era sempre stato padre Paisij. Dopo aver preso i due sacramenti, ebbe inizio l'estrema unzione. Si riunirono gli ieromonaci, la cella a poco a poco si riempì di monaci eremiti. Nel frattempo si faceva giorno. A poco a poco cominciavano ad arrivare anche dal monastero. Quando il servizio fu terminato, lo starec espresse il desiderio di baciare e salutare tutti. Data l'angustia della cella, i monaci che erano arrivati prima si ritiravano per lasciare posto agli altri. Alëša stava in piedi accanto allo starec, che si era nuovamente seduto nella poltrona. Questi parlava e impartiva i suoi insegnamenti per quanto gli era possibile; la sua voce, sebbene debole, era ancora abbastanza ferma. «Ho insegnato a voi per tanti anni e, quindi, ho parlato a voce alta per tanto di quel tempo che ormai parlare, e insegnare mentre vi parlo, è diventata un'abitudine per me, e questo a tal punto che tacere mi riesce persino più difficile che parlare, padri e fratelli miei cari, persino adesso che sono tanto debole», scherzò, guardando commosso i monaci che gli si stringevano attorno. Alëša, in seguito, ricordò qualcosa di quello che lo starec aveva detto allora. Ma per quanto parlasse in maniera intelligibile e con voce sufficientemente ferma, i suoi discorsi erano piuttosto incoerenti. Parlava di molte cose, sembrava che volesse dire tutto, che volesse esprimere per l'ultima volta, un momento prima di morire, tutto quello che non era riuscito a dire nella sua intera vita, e non solo allo scopo di impartire insegnamenti, ma come mosso dal desiderio di condividere la sua gioia e la sua esultanza con tutti gli uomini e tutto il Creato e riversare ancora una volta nella vita tutto il suo cuore...
«Amatevi l'un l'altro, padri», insegnava lo starec (secondo quello che ricordò in seguito Alëša). «Amate le creature di Dio. Noi non siamo più santi di coloro che vivono nel mondo per il fatto di essere venuti a rinchiuderci fra queste mura; anzi, ognuno di noi, per il fatto stesso di essere venuto qui, ha confessato in cuor suo di essere peggiore di tutti quelli che vivono fuori, di tutti gli uomini di tutta la terra... E più a lungo il monaco vivrà fra le pareti della sua cella, tanto più acutamente dovrà sentire tutto questo. Giacché, in caso contrario, a nulla gli sarà servito venire qui. Quando avrà riconosciuto non solo di essere peggiore di tutti i laici, ma anche di essere colpevole davanti a tutti gli uomini per tutti e per tutto, di tutti i peccati umani, collettivi e individuali, solo allora il fine della nostra comunità sarà stato raggiunto. Giacché sappiate, cari, che ciascuno di noi è senza dubbio colpevole per tutti e per tutto ciò che accade sulla terra, non solo per la comune colpa del genere umano, ma ciascuno personalmente è colpevole per tutta l'umanità e per ogni altro singolo uomo sulla terra. Questa consapevolezza è il coronamento del cammino del monaco, così come di ciascun uomo sulla terra. I monaci infatti non sono diversi dagli altri uomini, ma sono esattamente come dovrebbero essere tutti gli uomini della terra. Solo in questa consapevolezza il nostro cuore si intenerirà di un amore sconfinato, universale, inesauribile. Allora ciascuno di voi avrà la forza di conquistare tutto il mondo con l'amore e di lavare con le proprie lacrime i peccati del mondo... Che ciascuno di voi abbia cura del proprio cuore, che ciascuno confessi i propri peccati a se stesso incessantemente. Non abbiate paura dei vostri peccati, neanche quando avrete preso coscienza di essi, purché ci sia pentimento; ma non ponete condizioni a Dio. E vi dico ancora: non siate orgogliosi. Non siate orgogliosi né davanti ai piccoli né davanti ai grandi. Non odiate quelli che vi respingono, vi diffamano, vi ingiuriano e vi calunniano. Non odiate gli atei, i maestri del male, i materialisti, nemmeno i cattivi fra questi, non soltanto i buoni: giacché fra loro ci sono molti buoni, tanto più nella nostra epoca. Ricordateli così nelle vostre preghiere: o Signore, salva tutti quelli per i quali nessuno prega, salva anche quelli che non vogliono che si preghi per te. E aggiungete pure: non è per orgoglio che ti chiedo questo, Signore, perché sono il più indegno di tutti... Amate le creature di Dio: non lasciate che il gregge passi nelle mani dei nuovi arrivati, giacché se vi addormenterete nell'accidia e nel vostro orgoglio presuntuoso, o peggio ancora nella cupidigia, quelli verranno da tutti i paesi e vi sottrarranno il vostro gregge. Diffondete instancabilmente il Vangelo tra il popolo... Non siate avidi... Non amate l'argento e l'oro, non accumulateli... Abbiate fede e sostenete il vessillo. Portatelo ben alto...»
Lo starec in realtà parlò in maniera molto più frammentaria di come è stato qui esposto e di come Alëša trascrisse in seguito. A volte si interrompeva del tutto come per raccogliere le forze, respirava a fatica, ma sembrava esultante. I confratelli lo ascoltavano commossi, anche se molti erano meravigliati dalle sue parole e le trovavano oscure... In seguito tutti ricordarono quelle parole. Quando Alëša si allontanò un attimo dalla cella, fu colpito dall'agitazione e dall'attesa generale della comunità che si affollava nella cella e intorno ad essa. Quell'attesa per alcuni era allarmata, per altri solenne. Tutti si aspettavano che avvenisse qualcosa di improvviso e sublime, subito dopo il trapasso dello starec. Da un certo punto di vista quell'attesa era piuttosto avventata, ma anche i monaci più austeri si erano lasciati prendere da essa. Il viso più severo di tutti era quello dello ieromonaco Paisij. Alëša si era allontanato dalla cella solo perché era stato chiamato in segreto da Rakitin, il quale era tornato dalla città con una strana lettera indirizzata ad Alëša da parte della signora Chochlakova. La missiva informava Alëša di una circostanza molto strana e che giungeva incredibilmente a proposito. Si trattava di questo: il giorno prima, fra le fedeli del popolo convenute per venerare lo starec e riceverne la benedizione, c'era stata quell'anziana donna che veniva dalla città, la Prochorovna, la vedova del sottufficiale. Aveva chiesto allo starec il permesso di commemorare suo figlio Vasen'ka con una messa funebre, come se fosse morto; il figlio era andato lontano per motivi di servizio, in Siberia, ad Irkutsk, ed era più di un anno che ella non riceveva notizie.
Quindi lo starec le aveva risposto con severità, vietandole di fare una commemorazione che riteneva simile a un maleficio. Ma, poi, l'aveva perdonata per la sua ignoranza e aveva aggiunto una frase consolatoria, "come se avesse letto nel libro del futuro" (così si esprimeva la signora Chochlakova nella sua lettera): "Suo figlio Vasja era sicuramente vivo, sarebbe tornato di persona al più presto, oppure le avrebbe spedito una lettera, che lei nel frattempo tornasse a casa e aspettasse. E ci credereste?", aggiungeva eccitata la signora Chochlakova, "la profezia dello starec si è avverata per filo e per segno, e c'è dell'altro". L'anziana signora era appena tornata a casa quando le fu consegnata la lettera che aspettava dalla Siberia. E non solo: in quella lettera, scritta in viaggio, da Ekaterinburg, Vasja informava sua madre che stava tornando in Russia in compagnia di un impiegato e che, tre settimane dopo l'arrivo di quella lettera, "sperava di poter riabbracciare la madre". La signora Chochlakova pregava insistentemente e caldamente Alëša di informare il padre igumeno e tutta la comunità di questo nuovo "miracolo di predizione" che si era compiuto: "Devono saperlo tutti, tutti!", esclamava a conclusione della sua lettera. La lettera era stata scritta in fretta e furia, di corsa, l'agitazione della scrivente si rifletteva in ogni riga. Ma Alëša non dovette comunicare nulla alla comunità, tutti erano già al corrente di tutto: Rakitin aveva incaricato lo stesso monaco che aveva mandato da Alëša di "riferire con profonda deferenza al reverendo padre Paisij che lui, Rakitin, aveva una certa notizia, una notizia di importanza tale che non avrebbe osato esitare nemmeno un minuto per comunicargliela e chiedeva umilmente perdono per la sua presunzione." Poiché il monaco aveva riferito a padre Paisij la richiesta di Rakitin prima di andare da Alëša, a quest'ultimo, dopo aver letto la lettera, non rimase altro che consegnarla a padre Paisij a titolo di documento. Ed ecco che persino quest'uomo austero e diffidente, dopo aver letto con aria accigliata la notizia del "miracolo", non riuscì a trattenere del tutto una certa emozione. Gli occhi gli scintillarono, sulle labbra gli affiorò ad un tratto un sorriso grave e solenne.
«Vedremo grandi cose, forse», gli sfuggì improvvisamente.
«Vedremo grandi cose, vedremo grandi cose!», ripeterono in coro i monaci tutt'intorno, ma padre Paisij, accigliatosi di nuovo, chiese a tutti di non parlare di quel fatto, almeno per il momento, "fino a quando non avrà avuto conferma, giacché negli uomini c'è molta avventatezza", e quell'episodio poteva avere "una spiegazione naturale", aggiunse con cautela, come per alleggerirsi la coscienza, ma quasi senza credere egli stesso alle proprie parole, come notarono molto bene quelli che lo ascoltavano. In men che non si dica, ovviamente, il "miracolo" fu sulla bocca di tutto il monastero e di molti fedeli giunti al monastero per la messa. Pare che il monacello giunto la sera prima "da San Silvestro", il piccolo monastero di Obdorsk all'estremo nord, fosse rimasto colpito più di tutti dal miracolo che si era compiuto. Il giorno prima aveva avuto modo di salutare lo starec ; stava accanto alla signora Chochlakova e, indicando la figlia "guarita" della signora, gli aveva domandato con gravità: "Come avete l'ardire di fare queste cose?"
Il fatto era che quel giorno il monacello era piuttosto confuso e quasi non sapeva a che cosa credere. La sera prima aveva fatto visita, lì al monastero, a padre Ferapont, che viveva in una cella a parte, dietro l'apiario, ed era stato colpito da quell'incontro che aveva prodotto su di lui un'impressione straordinaria e terribile. Quel vecchio, padre Ferapont appunto, era il monaco più anziano, il formidabile digiunatore e campione del silenzio, che abbiamo già menzionato come avversario dello starec Zosima e soprattutto dell'istituto dello starèestvo, che egli riteneva un'innovazione perniciosa e fatua. Come avversario egli era eccezionalmente pericoloso anche se, in quanto osservatore del voto del silenzio, non parlava quasi mai con nessuno. Quello che lo rendeva pericoloso era, soprattutto, il fatto che moltissimi nella comunità erano pienamente d'accordo con lui, e, fra i laici che frequentavano il convento, molti lo veneravano come un grande giusto e un grande asceta, anche se indubbiamente vedevano in lui un puro folle. Ma era proprio questa sua caratteristica che li attraeva. Padre Ferapont non si recava mai in visita allo starec Zosima. Sebbene vivesse nell'eremo, non lo importunavano molto con le regole del luogo, proprio perché si comportava da puro folle. Aveva settantacinque anni, forse anche di più, e abitava dietro l'apiario dell'eremo, in un angolo delle mura, in una cella di legno decrepita, quasi cadente, costruita in tempi remoti, sin dal secolo scorso, per padre Iona, anche lui grandissimo digiunatore e campione del silenzio, vissuto fino a centocinque anni, e riguardo alle cui gesta ancora si raccontavano, nel monastero e fuori, molti curiosissimi aneddoti. Erano sette anni che padre Ferapont aveva finalmente ottenuto il permesso di stabilirsi in quella piccola cella isolata che praticamente era una semplicissima izba, sebbene assomigliasse moltissimo a una cappella; infatti conteneva un'innumerevole quantità di immagini votive davanti alle quali ardevano perpetuamente lampade votive. Padre Ferapont aveva il compito di custodire e accendere quelle lampade. Si diceva (ma era proprio vero) che mangiasse solo due libbre di pane ogni tre giorni, non di più; glielo portava ogni tre giorni il monaco addetto all'apiario che pure viveva lì, ma persino con quel monaco apicoltore che lo accudiva padre Ferapont raramente proferiva parola. Quelle quattro libbre di pane, insieme al pane eucaristico che il padre igumeno gli mandava puntualmente dopo l'ultima messa ogni domenica, costituivano la sua razione di cibo settimanale. Non tutti i giorni gli cambiavano l'acqua nella brocca. Compariva di rado alla messa. I fedeli che andavano a rendergli omaggio lo vedevano talvolta immerso nella preghiera tutto il giorno, in ginocchio, senza guardarsi attorno. Se qualche volta si metteva a conversare con loro, era laconico, brusco, strano e quasi sempre scontroso. Erano rare, però, le volte in cui parlava con i visitatori, di solito pronunciava soltanto qualche strana parola che risultava sempre un grande enigma per l'astante e poi, per quanto lo pregassero, non diceva neanche una parola di chiarimento. Non aveva preso gli ordini sacerdotali, era un semplice monaco. Circolava una voce molto strana, soprattutto fra la gente più ignorante, comunque, secondo la quale padre Ferapont comunicava con gli spiriti celesti e conversava solo con essi: ecco perché con gli uomini taceva. Il monacello di Obdorsk, che aveva raggiunto l'apiario dietro le indicazioni del monaco apicoltore, pure quello oltremodo taciturno e cupo, si diresse verso il cantuccio dove si trovava la celletta di padre Ferapont. «Può darsi che vi parli perché siete forestiero, ma può darsi pure che non gli caverete una parola», lo aveva avvisato l'apicoltore. Il monacello, come riferì in seguito, avanzò verso la celletta in uno stato di grande apprensione. Era piuttosto tardi. Padre Ferapont questa volta era seduto presso l'uscio della cella su di un basso panchetto. Sopra il suo capo frusciava un enorme olmo secolare. Si era levata la frescura della sera. Il monacello di Obdorsk si prostrò dinanzi al santo e chiese la sua benedizione.
«Vuoi che anche io mi prostri sino a terra davanti a te, monaco?», disse padre Ferapont. «Alzati!» Il monaco si alzò.
«Benedicendo, sei benedetto, siediti qui accanto. Donde vieni?»
Ciò che colpì più di tutto il povero monacello fu il fatto che padre Ferapont, nonostante i digiuni indubbiamente rigorosi e l'età avanzata, era ancora un vecchio vigoroso, alto, con le spalle ben dritte, nient'affatto curve, un viso fresco e sano, sebbene magro. Indubbiamente conservava ancora una notevole forza. Aveva una corporatura atletica. Malgrado la veneranda età, non era del tutto canuto e aveva capelli e barba, un tempo completamente neri, ancora foltissimi. I suoi occhi erano grigi, grandi, luminosi, ma straordinariamente sporgenti, cosa che faceva persino impressione. Parlava accentuando molto la o. Indossava un lungo caffettano rossastro, di panno grezzo "da carcerato", come si diceva un tempo, stretto in vita da una solida corda. Il collo e il petto erano nudi. La tela grezza della camicia quasi completamente annerita, che non cambiava da mesi, spuntava da sotto il caffettano. Dicevano che sotto il caffettano portasse, direttamente sulla pelle, trenta libbre di catene per macerare le carni. Ai piedi nudi portava vecchi scarponi quasi a pezzi.
«Vengo dal piccolo monastero di Obdorsk, da San Silvestro», rispose con tono sottomesso il monacello forestiero, osservando l'eremita con i suoi occhietti mobili e curiosi, benché un po' spaventati.
«Sono stato dal tuo Silvestro. Ho vissuto lì. È in salute Silvestro?» Il monaco si confuse.
«Dissennati! Come rispettate il digiuno?»
«La nostra mensa è così ordinata secondo l'antica regola dell'eremo: in Quaresima, di lunedì, mercoledì e venerdì non si mette tavola. Il martedì e il giovedì alla comunità viene distribuito pane bianco, decotto con miele, bacche di mortella o cavolo in salamoia e farina d'avena mescolata. Di sabato zuppa di cavolo, zuppa di piselli, kaša al sugo, il tutto condito. Di domenica insieme alla zuppa di cavoli si serve pesce secco e kaša. Nella Settimana Santa, dal lunedì fino alla sera del sabato, per sei giorni, pane e acqua e potesi mangiare pure verdura non bollita, ma tutto con moderazione; e ancora, non si può prenderne ogni dì, ma secondo quanto è stato stabilito per la prima settimana. Il Venerdì Santo non si deve mangiare nulla, come anche il Sabato Santo bisogna digiunare sino alle tre e dopo è concesso mangiare un po' di pane e bere acqua e una sola coppa di vino. Il Giovedì Santo mangiamo una pietanza cotta di magro, beviamo vino e a volte mangiamo cibo asciutto. Giacché pure a Laodicea il concilio si è così pronunciato sul Giovedì Santo: "Non è giusto rompere il digiuno il giovedì dell'ultima settimana di Quaresima e così disonorare tutta la Quaresima". Ecco com'è da noi. Ma cos'è tutto questo in confronto a quello che fate voi, santo padre?», soggiunse il monacello che si era rianimato. «Giacché tutto l'anno, persino il giorno della Santa Pasqua vi cibate solo di pane e acqua, e il pane che noi mangiamo in due giorni a voi basta per una settimana. È davvero prodigiosa questa vostra sublime astinenza».
«E i funghi lattari?», domandò a bruciapelo padre Ferapont pronunciando la lettera g aspirata come fosse una ch. «I lattari?», domandò a sua volta il monacello stupito.
«Proprio quelli. Faccio a meno del loro pane, non ne sento affatto il bisogno, mi basta andare nel bosco e lì mi cibo di lattari e bacche, mentre questi qui non possono fare a meno del loro pane, dunque sono legati al diavolo. Adesso gli impuri dicono che codesto digiuno non serve a nulla.
Arrogante e impuro è questo loro giudizio».
«Oh, quanto è vero», sospirò il monacello.
«E i diavoli lì da loro li hai visti?», domandò padre Ferapont.
«Da loro chi?», si informò timidamente il monacello.
«L'anno scorso mi recai dal padre igumeno in occasione della Pentecoste; da allora non ci sono più tornato. A uno gli stava seduto in petto, si nascondeva sotto la tonaca, spuntavano solo le corna, a un altro gli sbirciava dalla tasca con tanto d'occhi, aveva paura di me, a un altro si era appollaiato in grembo proprio sul ventre impuro, e a un altro ancora gli pendeva al collo, si aggrappava e quello se lo portava in giro senza vederlo».
«E voi...vedete?», domandò il monacello.
«Sto dicendo che vedo, vedo dentro di loro da parte a parte. Mentre me ne andavo via dal padre igumeno, ne vidi uno che si nascondeva alla mia vista dietro la porta, era una bestia enorme, alta un metro circa, e anche più, con una codaccia grossa, marrone, lunga, aveva infilato la punta della coda nella fessura della porta, e io, ben accorto, chiusi la porta di colpo e gli schiacciai dentro la coda. Come strillò, cominciò a dimenarsi e io a fargli il segno della croce, per ben tre volte gli feci il segno della croce. Quello perì come un ragno schiacciato. Adesso deve essere ancora lì a marcire in un angolo, a puzzare, ma quelli non vedono, non sentono l'odore. È un anno che non mi reco da loro. Questo l'ho rivelato solo a te giacché tu sei forestiero».
«Sono terribili le vostre parole! Padre santo e beato», il monacello si faceva sempre più ardito, « è vero, secondo quanto si dice di voi persino in terre remote, che siete in perpetua comunicazione con il santo spirito, corrisponde al vero questo?»
«Esso vola da me. Alle volte accade». «Come, vola da voi? Sotto quale forma?» «Quella di uccello».
«Il santo spirito sotto forma di colomba?»
«C'è il santo spirito e lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo è ben altra cosa, esso può scendere anche sotto forma di altro uccello: una volta di rondine, un'altra di beccaccino, o ancora di cinciallegra». «Come fate a distinguerlo da una cinciallegra vera?» «Esso parla».
«Come, parla? In che lingua?» «In linguaggio umano».
«E che cosa vi dice?»
«Oggi mi ha annunciato che uno stolto mi avrebbe fatto visita e mi avrebbe posto domande oziose. Monaco, vuoi sapere troppo».
«Sono parole tremende le vostre, padre beatissimo e santissimo», scosse il capo il monacello. Ma nei suoi occhietti impauriti trapelava anche incredulità.
«Codesto albero lo vedi?», domandò padre Ferapont dopo una breve pausa.
«Lo vedo, padre beatissimo».
«Ai tuoi occhi è un olmo, ai miei rappresenta un'altra forma». «E quale?», domandò il monacello dopo una pausa di trepidante attesa.
«Accade di notte. Li vedi quei due rami? Di notte il Cristo protende le Sue mani verso di me e con quelle braccia mi cerca, lo vedo chiaramente e sono colto da tremore. È terribile, oh, terribile!». «Che c'è di terribile, se è Cristo?» «Mi afferra e mi porta in Cielo».
«Così, da vivo?»
«E nello spirito e nella gloria di Elia; che, non l'hai mai sentito? Egli mi prenderà fra le Sue braccia e mi porterà via...»
Sebbene il monacello di Obdorsk, dopo quella conversazione, avesse fatto ritorno nella cella assegnatagli - che avrebbe diviso con un confratello - in uno stato di profonda perplessità, tuttavia il suo cuore propendeva decisamente più per padre Ferapont che per padre Zosima. In primo luogo, il monacello era favorevole al digiuno, e non c'era tanto da meravigliarsi se un digiunatore così eccezionale come padre Ferapont "vedesse mirabili cose". Le sue parole, ovviamente, erano un po' assurde, ma solo Dio sapeva che cosa si racchiudeva in quelle parole, e poi le parole e gli atti di tutti gli stolti in Cristo non erano forse simili a quelli di padre Ferapont? Quanto alla coda schiacciata del demonio, era pronto a crederci, devotamente, non solo in senso figurato, ma anche in senso letterale. A parte questo, anche in precedenza, prima del suo arrivo al monastero, egli nutriva forti pregiudizi sull'istituto dello starèestvo, che conosceva solo per sentito dire, e lo considerava, sulla scia di molti altri, decisamente un'innovazione perniciosa. Dopo aver girato il monastero in lungo e in largo, aveva già avuto modo di notare i mormorii segreti di alcuni fatui fratelli della comunità, contrari allo starèestvo. Tanto più che, per natura, egli era un monaco indiscreto, indagatore, uno che metteva il naso dappertutto. Ecco perché la grande notizia sul nuovo "miracolo" compiuto dallo starec Zosima lo aveva turbato profondamente. Alëša ricordò in seguito che, fra i monaci che si accalcavano presso lo starec e intorno alla sua cella, più volte era balenata davanti ai suoi occhi la figuretta del curioso ospite di Obdorsk, che indagava da un gruppetto all'altro, ascoltando e facendo domande. Ma allora Alëša ci prestò poca attenzione, se ne ricordò soltanto in seguito...D'altronde aveva altro a cui pensare, perché padre Zosima, che si era sentito nuovamente stanco, era tornato a letto, e si era ricordato all'improvviso di Alëša, mentre stava già chiudendo gli occhi, quindi lo aveva mandato a chiamare. Alësa era accorso all'istante. Al capezzale dello starec in quel momento c'erano solo padre Paisij, il padre ieromonaco Iosif e il novizio Porfirij. Lo starec aprì gli occhi affaticati, guardò fisso Alëša e ad un tratto gli domandò: «I tuoi non ti stanno aspettando, figliolo?» Alëša si confuse.
«Non hanno bisogno di te? Ieri non hai promesso a qualcuno che saresti andato a fargli visita oggi?»
«L'ho promesso... a mio padre... ai fratelli... ad altri ancora...»
«Lo vedi. Va' senza indugio. Non ti addolorare. Sappi che non morirò finché tu non sarai presente per ascoltare la mia ultima parola su questa terra. A te dirò questa mia parola, figliolo, e te la lascerò in dono. A te, figliolo, caro, giacché tu mi ami. Ma adesso va' da coloro a cui hai promesso».
Alëša ubbidì immediatamente anche se gli era penoso allontanarsi. Ma la promessa di poter ascoltare l'ultima sua parola sulla terra e, soprattutto, che fosse lasciata in dono a lui, fece fremere la sua anima di esultanza. Si affrettò in modo da tornare al più presto, una volta conclusa ogni cosa in città. Come a farlo apposta anche padre Paisij pronunciò qualche parola di commiato che doveva produrre su di lui un'emozione profonda e inattesa. Egli parlò quando entrambi furono usciti dalla cella dello starec.
«Non ti dimenticare mai, ragazzo», esordì padre Paisij direttamente, senza preamboli, «che la scienza di questo mondo, che è diventata una grande potenza soprattutto nel nostro ultimo secolo, ha analizzato tutto ciò che di divino ci è stato tramandato nei libri sacri e, dopo questa spietata analisi, agli scienziati del mondo non è rimasto decisamente nulla di tutta la sacralità del passato. Ma, analizzando pezzo per pezzo, hanno perso di vista il tutto e fa persino meraviglia a quale grado di cecità essi siano arrivati. Eppure il tutto sta davanti ai loro occhi incrollabile, e le porte dell'inferno non prenderanno il sopravvento su di esso. Non è forse sopravvissuto per diciannove secoli, forse non sopravvive tuttora nei moti delle singole anime e nei moti delle masse popolari? Persino nei moti delle anime di quegli stessi atei che distruggono tutto, resiste incrollabile, come prima! Giacché persino coloro che hanno rinnegato il Cristianesimo e combattono contro di esso, persino loro, nella loro essenza, sono fatti a immagine di Cristo e tali sono rimasti, giacché a tutt'oggi né la loro saggezza, né l'ardore dei loro cuori è stato in grado di creare un ideale dell'uomo e della sua dignità superiore a quello indicato da Cristo nell'antichità. E se tentativi ci sono stati, hanno avuto come risultato solo mostruosità. Ricordati questo in particolar modo, ragazzo, giacché sei stato mandato nel mondo dal tuo starec morente. Forse, ricordando questo giorno sublime, non dimenticherai neanche le mie parole, proferite a mo' di cordiale viatico, giacché tu sei giovane e le tentazioni del mondo sono grandi e superiori alle tue forze. Adesso va', orfano caro».
Con queste parole padre Paisij lo benedisse. Uscendo dal monastero e ripensando a tutte queste parole inattese, Alëša capì ad un tratto che in quel monaco, fino a quel momento così rigido e severo nei suoi confronti, ora avrebbe trovato un nuovo inaspettato amico, una nuova guida che lo amava con ardore, proprio come se lo starec Zosima lo avesse affidato a lui morendo. "E forse lo hanno deciso fra di loro", pensò ad un tratto. Quanto alle dotte riflessioni di padre Paisij che aveva appena ascoltato, esse testimoniavano più di ogni altra cosa il calore del suo cuore: egli si affrettava ad armare la mente del ragazzo per la lotta contro le tentazioni e a proteggere la sua giovane anima, a lui affidata, con la più solida delle difese che potesse immaginare.
II • Dal padre
In primo luogo Alëša si recò dal padre. Durante il tragitto, gli sovvenne che questi il giorno prima aveva molto insistito perché egli entrasse di nascosto dal fratello Ivan. «Perché mai?», si domandò Alëša. «Se mio padre vuol dire qualcosa a me solo, di nascosto, che bisogno c'è di entrare pure di nascosto? Evidentemente ieri voleva dire qualcos'altro, così agitato com'era, ma non c'è riuscito», concluse. Nondimeno si rallegrò quando Marfa Ignat'evna, che gli aprì la porticina del giardino (seppe poi che Grigorij stava male e riposava nella dipendenza), alla sua domanda rispose che Ivan Fëdoroviè era uscito già da due ore.
«E il papà?»
«Si è alzato, sta bevendo il caffè», rispose un po' seccamente Marfa Ignat'evna.
Alëša entrò. Il vecchio sedeva solo a tavola, indossava le pantofole e un vecchio cappotto ed esaminava, per distrarsi, ma senza grande attenzione, certi suoi conti. Era completamente solo in casa (anche Smerdjakov era uscito a fare la spesa per il pranzo). Ma non erano i conti a tenergli occupata la mente. Sebbene si fosse alzato di buon mattino e si facesse forza, aveva tuttavia un'aria stanca e indebolita. La fronte, che durante la notte si era riempita di enormi lividi violacei, era avvolta in un fazzoletto rosso. Pure il naso si era molto gonfiato durante la notte e su di esso si erano formati dei lividi a chiazze, non molto evidenti, ma che indubbiamente conferivano al suo volto un aspetto particolarmente arcigno e malevolo. Il vecchio se ne rendeva conto da solo e gettò un'occhiata ostile su Alëša che entrava in quel momento.
«Il caffè è freddo», disse bruscamente, «non te lo offro. Oggi mangio zuppa di pesce in bianco e non invito nessuno. Perché sei venuto?» «Per informarmi sulla vostra salute», rispose Alëša.
«Sì, tanto più che sono stato io stesso ad invitarti ieri. Tutte sciocchezze. Ti sei disturbato inutilmente. Del resto, lo sapevo che ti saresti subito scapicollato qui...»
Pronunciò queste parole con aria estremamente ostile.
Nel frattempo si era alzato dal suo posto e si osservava preoccupato il naso allo specchio (per la quarantesima volta dalla mattina, forse). Cominciò pure a sistemarsi meglio sulla fronte il fazzoletto rosso. «Rosso è meglio, col fazzoletto bianco sembra di stare all'ospedale», sentenziò. «Che si dice dalle tue parti? Come sta il tuo starec?»
«Sta molto male, potrebbe morire entro oggi», rispose Alëša, ma il padre non l'ascoltò nemmeno, anzi aveva dimenticato subito la domanda che aveva posto.
«Ivan è uscito», disse ad un tratto. «Vuole soffiare la fidanzata a Mit'ka a tutti i costi, ecco perché rimane qui», aggiunse con perfidia e, storcendo le labbra, guardò Alëša.
«È stato forse lui a dirvi questo?», domandò Alëša.
«Sì ed è un pezzo che me l'ha detto. Ci crederesti? Saranno tre settimane che me l'ha detto. Non crederai che sia venuto qui anche lui per scannarmi alla chetichella? Deve pur aver avuto qualche buon motivo per venire, non ti pare?»
«Ma che dite! Perché parlate in questo modo?», ribatté Alëša molto turbato.
«Denaro non ne chiede, a dire il vero, e comunque da me non caverebbe un soldo. Io, dolcissimo Aleksej Fëdoroviè, ho intenzione di vivere il più a lungo possibile a questo mondo, sappiatelo, e dal momento che mi serve ogni singola copeca, più a lungo vivrò, tanto più essa mi sarà necessaria», proseguì passando da un angolo all'altro della stanza, con le mani affondate nelle tasche del suo ampio cappotto di calamandra estiva gialla, tutto imbrattato. «Sono ancora un uomo per il momento, ho solo cinquantacinque anni, ma voglio comportarmi da uomo ancora per una ventina d'anni; man mano che invecchierò diventerò sempre più ripugnante, allora quelle non verranno volentieri con me, ecco a cosa mi serviranno i soldini. E così adesso accumulo sempre di più, sempre di più solo per me stesso, caro figlio mio Aleksej Fëdoroviè, sappiatelo questo, perché voglio vivere nella mia lordura fino alla fine, sappiatelo. È più bello stare nella lordura: tutti imprecano contro di essa, ma tutti ci vivono dentro, solo che lo fanno di nascosto mentre io ci sto alla luce del sole. È proprio per questa mia ingenuità che tutti gli sporcaccioni si scagliano contro di me. E il tuo paradiso, Aleksej Fëdoroviè, io non lo voglio, sappilo, anche per gli uomini perbene il tuo paradiso è sconveniente, ammesso che esso esista. Secondo me, ci si addormenta per non svegliarsi più, ecco tutto, commemoratemi con le messe funebri, se volete, e se non volete, che il diavolo vi porti. Ecco la mia filosofia. Ieri Ivan ha parlato bene qui, anche se eravamo tutti ubriachi. Ivan è uno smargiasso e non ha nessuna cultura... e non ha neanche una particolare educazione, se ne sta zitto e ride di te, solo di questo è capace».
Alëša lo ascoltava in silenzio.
«Perché non parla con me? E se parla, si dà arie: è un mascalzone il tuo Ivan! E Gruška me la sposo subito, se me ne viene l'estro. Perché con i soldi basta solo volere, Aleksej Fëdoroviè, e si ha tutto. Ecco: Ivan ha paura proprio di questo e mi sorveglia perché non mi sposi e per questo istiga Mit'ka a sposare Gruška: in tal modo, da una parte vuole tenere me lontano da Gruška (come se i soldi li lasciassi a lui, se non sposo Gruška!), e dall'altra, se Mit'ka sposa Gruška, Ivan si prende per sé la fidanzata ricca di quell'altro, ecco qual è il suo calcolo! È un mascalzone il tuo Ivan!»
«Come siete irritato! È a causa dei fatti di ieri. Fareste meglio a sdraiarvi», disse Alëša.
«Ecco, tu dici questo», osservò a bruciapelo il vecchio come se quel pensiero gli venisse alla mente per la prima volta, «dici questo e con te non mi arrabbio, ma se fosse stato Ivan a dirmelo, mi sarei arrabbiato. Solo con te ho avuto i miei momenti buoni, per il resto sono cattivo». «Non siete cattivo, siete malconcio», disse Alëša sorridendo.
«Ascolta, oggi volevo far mettere in galera quello scellerato di Mit'ka, ma al momento non so ancora che cosa deciderò. Naturalmente, adesso va di moda considerare l'autorità della madre e del padre come un pregiudizio; eppure, per la legge, pare, anche ai nostri giorni non è consentito tirare i padri anziani per i capelli, picchiarli in testa con i tacchi delle scarpe, mentre giacciono per terra, in casa loro, e vantarsi di tornare a finirli una volta per tutte - tutto alla presenza di testimoni. Se volessi, lo potrei schiacciare e potrei farlo rinchiudere in galera per ciò che ha combinato ieri».
«Allora non volete sporgere denuncia, vero?»
«Ivan mi ha convinto a non farlo. Non darei retta ad Ivan, ma c'è una certa cosuccia da tenere presente...»
E, inchinatosi verso Alëša, continuò con un bisbiglio confidenziale: «Se lo faccio mettere in carcere, il mascalzone, quella sente che l'ho fatto rinchiudere e corre subito da lui. Se, invece, diciamo oggi stesso, viene a sapere che mi ha picchiato fin quasi ad ammazzarmi, a me, povero vecchio, forse lo lascia e viene subito a trovarmi... Perché lei è fatta così, è una che fa sempre tutto il contrario. Leggo in lei come in un libro aperto! Allora, ti fai un bicchierino di cognac? Prendi lì il caffettuccio freddo, caro, ti verserò un quarto di bicchierino, gli dà gusto».
«No, vi ringrazio. Ecco, prenderò con me questo pezzo di pane, se me lo permettete», disse Alëša e, preso un panino francese da tre copeche, se lo infilò nella tasca della tonaca. «Neanche voi dovreste bere cognac», consigliò Alëša preoccupato, guardando in faccia il vecchio.
«Hai ragione tu, irrita i nervi e non dà pace. Ma solo un bicchierino...Lo prendo dalla credenzina...»
Aprì la "credenzina" chiusa a chiave, si versò un bicchierino, lo bevve, poi chiuse la credenzina e si rimise la chiave in tasca.
«Basta così, non creperò per un bicchierino».
«Siete anche diventato più buono adesso», disse Alëša sorridendo. «Hmm! A te voglio bene anche senza cognac, ma con i mascalzoni mi comporto da mascalzone. Van'ka non va a Èermašnja, e lo sai perché? Vuole spiare quanto darò a Grušen'ka, quando verrà. Tutta una manica di mascalzoni! Sai, Ivan io proprio non lo riconosco. Ma da dove è venuto fuori uno come lui? Non è uno di noi nell'anima. Come se io avessi intenzione di lasciargli qualcosa! Non lascerò nemmeno il testamento, sappiatelo. Mit'ka lo schiaccerò come uno scarafaggio. Di notte schiaccio gli scarafaggi neri con le pantofole: quelli scricchiolano quando ci metti il piede sopra. Anche il tuo Mit'ka scricchiolerà. Il tuo Mit'ka, perché tu gli vuoi bene. Ecco, tu gli vuoi bene e io non ho paura che tu gli voglia bene. Ma se gli volesse bene Ivan, mi preoccuperei per me stesso, per il fatto che gli vuole bene. Ma Ivan non vuole bene a nessuno, Ivan non è come noi, la gente come Ivan non è dei nostri, fratello, è come una nuvola di polvere... Quando soffia il vento e la polvere viene spazzata via... Ieri avevo una stupida idea in mente, quando ti ho chiesto di venire qui: volevo sapere per tuo tramite se Mit'ka avrebbe accettato una carta da mille, o anche duemila, lui che è un miserabile mascalzone, per togliersi dai piedi per cinque annetti, meglio trentacinque, ma senza Gruška, anzi rinunciando a lei completamente, eh?»
«Io... glielo domanderò», mormorò Alëša. «Se fossero tremila rubli, allora forse lui...»
«Stai vaneggiando! Non occorre che tu chieda nulla, non occorre! Ho cambiato idea! Ieri mi è saltata in zucca questa sciocchezza. Non darò niente, proprio un bel niente, i miei soldini servono a me», disse il vecchio agitando il braccio. «Lo schiaccerò come uno scarafaggio anche così. Non dirgli nulla, altrimenti si metterà a sperare in qualche cosa. Non serve neanche che tu rimanga qui, va' via. Quella fidanzata, quella Katerina Ivanovna, che mi ha tenuto così accuratamente nascosta, se lo sposa o no? Ieri, se non sbaglio, sei andato da lei?»
«Ella non lo vuole lasciare a nessun costo».
«Sono proprio i tipi così che amano queste belle signorine, scapestrati e mascalzoni! Sono una schifezza quelle signorine pallide, te lo dico io: ben altra roba... Be'! Se avessi la sua giovinezza, e il mio viso di un tempo (perché ero più bello di lui a ventotto anni), sarei un conquistatore anch'io come lui. È una canaglia lui! Grušen'ka però non
l'avrà, non l'avrà, nossignore... Lo ridurrò in poltiglia!»
Dicendo queste ultime parole si era di nuovo infuriato.
«Va' via anche tu, non c'è niente che tu possa fare qui oggi», tagliò corto bruscamente.
Alëša si avvicinò per salutarlo e lo baciò su una spalla.
«Perché hai fatto questo?», il vecchio era un po' sorpreso. «Ci
vedremo ancora. Oppure pensi che non ci vedremo?» «Nient'affatto, l'ho fatto così, per caso».
«E anche io, l'ho detto solo così...», il vecchio lo guardò. «Ascolta, ehi, ascolta?», gli gridò dietro. «Fa presto a tornare un'altra volta e ti farò cucinare una zuppa di pesce speciale, non come quella di oggi, vieni, mi raccomando! A domani, mi senti, vieni domani!»
E non appena Alëša fu uscito, andò di nuovo alla credenzina e mandò giù un altro mezzo bicchierino.
«Non lo farò più!», mormorò, dopo essersi raschiato la gola. Richiuse la credenzina, si rimise la chiave nella tasca, poi andò in camera da letto, si adagiò esausto sul letto e si addormentò in un attimo.
III • Fa comunella con gli scolari
"Grazie a Dio non mi ha chiesto nulla di Grušen'ka", pensò dal canto suo Alëša, lasciando la casa del padre e dirigendosi dalla signora Chochlakova, "altrimenti sarei stato costretto, forse, a parlare dell'incontro di ieri con Grušen'ka". Alëša avvertiva dolorosamente che durante la notte i contendenti avevano raccolto nuove forze e che, con il nuovo giorno, il loro cuore si era nuovamente impietrito: "Nostro padre è irritato e cattivo, ha escogitato qualcosa e rimane fermo sulle sue, e Dmitrij? Anche lui si sarà rafforzato nel corso della notte, anche lui sarà irritato e cattivo e pure lui, naturalmente, ne avrà pensata qualcuna delle sue... Devo assolutamente riuscire a trovarlo oggi, a qualunque costo..."
Ma Alëša non ebbe il tempo di pensare a lungo: per strada gli accadde un incidente all'apparenza non molto rilevante, ma che gli fece un profonda impressione. Aveva appena attraversato la piazza e svoltato nel vicolo che portava in via Michajlovskij, parallela alla Bol'šaja, ma separata da questa da un piccolo canale (la nostra città è interamente intersecata da canali), quando scorse giù, davanti al ponticello, un gruppo di scolaretti, tutti ragazzini dai nove ai dodici anni, non di più. Stavano tornando a casa da scuola, chi con la cartelletta in spalla, chi con la borsa di cuoio a tracolla, alcuni con il giubbetto, altri con il cappottino; alcuni calzavano persino quegli alti stivali con i risvolti sul gambale con cui amano tanto darsi arie i ragazzini viziati dai padri facoltosi. Tutto il gruppetto discuteva con animazione, tutto lasciava credere che si stessero consultando. Alëša non passava mai con indifferenza accanto ai bambini; anche a Mosca gli capitava questo, e sebbene egli prediligesse i bimbi sui tre anni, gli piacevano pure gli scolaretti sui dieci, undici anni e, per quanto in quel momento fosse preoccupato, tuttavia gli venne voglia di deviare verso di loro e attaccare discorso. Mentre si avvicinava, osservava i loro visetti rossi, animati e subito notò che tutti i ragazzini avevano in mano una pietra, alcuni anche due. Al di là del canale, all'incirca a una trentina di passi dal gruppetto, c'era un altro ragazzino in piedi, accanto a uno steccato, anche lui uno scolaretto con la sua borsa dei libri a tracolla; a giudicare dalla statura poteva avere una decina d'anni, non di più, forse anche meno, palliduccio, piuttosto emaciato, con gli occhietti neri scintillanti. Egli osservava con sguardo attento e indagatore il gruppo degli altri sei scolaretti, probabilmente suoi compagni, con i quali era appena uscito da scuola, ma evidentemente tra loro non correva buon sangue. Alëša si avvicinò e, rivolgendosi a un bambino ricciuto, biondo, colorito, che indossava un giubbetto nero, osservò: «Quando portavo la mia borsa dei libri, uguale alla vostra, la tenevo sul fianco sinistro per poterci arrivare subito con la mano destra, invece voi la portate sulla destra, così è più scomodo prendere quello che vi occorre».
Alëša aveva intavolato la discussione con questa osservazione di ordine pratico, senza alcuna astuzia o premeditazione da parte sua; d'altronde, per un adulto, non c'è un modo migliore se vuole conquistare subito la fiducia di un bambino, tanto più di un gruppo intero di bambini. Si deve proprio cominciare con piglio serio e con argomenti pratici in modo da trovarsi subito su un piede di parità; Alëša questo lo intuiva istintivamente.
«Ma lui è mancino», gli rispose prontamente un altro ragazzino, un tipetto sveglio e in salute, sugli undici anni. Gli altri cinque fissarono tutti Alëša. «Anche le pietre le lancia con la sinistra», notò un terzo bambino.
In quell'istante si vide piombare sul gruppo una pietra, che sfiorò leggermente il ragazzo mancino, e poi passò oltre, sebbene fosse stata lanciata con forza e abilità. Era stato il ragazzino appostato al di là del canale a lanciarla.
«Colpiscilo, dagli addosso, Smurov!», si misero a gridare in coro.
Ma Smurov, il mancino, non si fece tanto pregare e replicò immediatamente scagliando un sasso contro il ragazzino al di là del canale, ma mancò il bersaglio: la pietra rimbalzò per terra. Il ragazzino oltre il canale scagliò senza indugi un altro sasso, ma questa volta dritto addosso ad Alëša e lo colpì piuttosto forte sulla spalla. Quel ragazzaccio aveva tutta la tasca piena di sassi pronti all'uso. Si vedeva anche dalla distanza di trenta passi, dalle tasche rigonfie del suo cappottino.
«L'ha lanciata a voi, proprio a voi, ha mirato proprio a voi. Siete un Karamazov, un Karamazov, vero?», urlarono i ragazzi fra le risa. «Su, coraggio, tiriamo tutti insieme, fuoco!»
E sei sassi volarono tutti insieme dal gruppo. Uno colpì il ragazzino sulla testa e lo fece cadere, ma dopo un attimo quello balzò in piedi e cominciò, infuriato, a bersagliare di sassi il gruppo.
La sassaiola divenne più fitta da entrambe le parti; anche alcuni ragazzini del gruppetto avevano fatto provvista di sassi e ne avevano le tasche piene.
«Ma che fate? Non vi vergognate, signori? Sei contro uno, finirete per ammazzarlo!», gridò Alëša.
Si era alzato e si parava dinanzi alle pietre volanti per proteggere con il suo corpo il ragazzino al di là del canale. Tre o quattro ragazzini smisero di gettare pietre per un attimo.
«È stato lui a cominciare!», gridò un ragazzino in camiciotto rosso con una stizzosa vocina infantile. «È un mascalzone, tempo fa in classe ha ferito con un temperino Krasotkin, gli ha fatto uscire il sangue. Krasotkin non ha voluto fare la spia, ma dobbiamo dargli una lezione...»
«Ma per quale motivo? Certo, sarete stati voi a provocarlo, vero?»
«Ecco, vi ha tirato un altro sasso nella schiena. Lui sa chi siete», gridarono i ragazzini. «Adesso ce l'ha con voi, non più con noi. Tutti addosso, ragazzi, ancora una volta, non lo mancare Smurov!»
E riprese la sassaiola, questa volta con impeto più violento. Il ragazzino al di là del canale fu colpito in pieno petto da una pietra; lanciò un urlo, scoppiò a piangere e si mise a correre su per la salita in direzione di via Michajlovskij. Un urlo si levò dal gruppetto: «Ah, ha avuto paura, se la batte, straccio di stoppa!»
«Voi, Karamazov, non lo sapete che mascalzone è quello lì, ammazzarlo sarebbe poco», ripeté il ragazzo in giubbetto, con gli occhietti accesi; sembrava il più anziano del gruppo.
«Ma che male ha fatto?», domandò Alëša. «Ha fatto la spia forse?» I ragazzini si scambiarono un'occhiata, ridacchiando.
«Siete diretto anche voi da quella parte, verso via Michajlovskij?», soggiunse lo stesso ragazzino di prima. «Allora cercate di raggiungerlo... Vedete? Si è fermato di nuovo, vi sta aspettando, sta guardando voi».
«Sì, proprio voi, sta guardando proprio voi!», esclamarono gli altri. «Allora domandategli se gli piacciono gli stracci di stoppa, quelli del bagno, tutti stropicciati. Avete sentito? Domandateglielo».
Scoppiò una risata generale. Alëša guardava i ragazzi e quelli guardavano lui.
«Non ci andate, quello vi farà del male», gridò Smurov in tono di ammonimento.
«Signori, non gli domanderò nulla dello straccio di stoppa, state pur certi, perché voi sicuramente lo prendete in giro in qualche modo con quelle parole, ma scoprirò il motivo per cui lo odiate tanto...»
«E allora scopritelo, scopritelo», e i ragazzi scoppiarono a ridere. Alëša superò il ponticello e si diresse per la salita affiancando uno steccato, in direzione di quel ragazzo che si era attirato le antipatie di tutti. «State attento», gli gridarono dietro i ragazzi a mo' di avvertimento, «quello non avrà paura nemmeno di voi, è capace di colpirvi a tradimento, come ha fatto con Krasotkin».
Il ragazzo era fermo lì ad attenderlo. Quando gli fu vicino, Alëša si vide davanti un ragazzino di nove anni, non di più, esile e denutrito, con un visetto lungo, pallido e magro, da cui spuntavano due occhioni scuri che lo scrutavano con ostilità. Indossava un vecchio cappottino liso, che gli andava grottescamente piccolo. Le braccia nude gli spuntavano dalle maniche. Sul ginocchio destro dei pantaloni c'era una grossa toppa e sulla punta dello stivaletto destro, all'altezza dell'alluce, si apriva un grosso buco, che evidentemente era stato mascherato con un'abbondante mano di inchiostro. Le tasche rigonfie del cappotto erano piene di sassi. Alëša si fermò a due passi di distanza da lui, guardandolo con aria interrogativa. Il ragazzo capì subito dallo sguardo di Alëša che questi non voleva picchiarlo, allora abbandonò la sua aria spavalda e gli rivolse per primo la parola.
«Io sono solo e loro sono sei... Ma non importa, li batterò tutti da solo», disse a bruciapelo con gli occhi di fuoco.
«Un sasso deve avervi colpito molto forte», osservò Alëša.
«Ma anche io ho colpito Smurov alla testa!», replicò il ragazzo. «Mi hanno detto che mi conoscete e che mi avete lanciato quel sasso di proposito, è vero?», domandò Alëša. Il ragazzo lo guardò con aria torva.
«Io non vi conosco. Ma voi mi conoscete?», tornò a domandare Alëša.
«Lasciatemi in pace!», strillò il bambino stizzito, restando immobile al suo posto, come se aspettasse; i suoi occhi erano nuovamente accesi di odio.
«Va bene, me ne andrò», disse Alëša. «Io non vi conosco e non vi prendo in giro. Mi hanno detto che cosa vi dicono per prendervi in giro, ma io non voglio prendervi in giro, addio!»
«Monaco in calzoni!», gli gridò dietro il ragazzo sempre con lo stesso sguardo provocatorio e carico d'odio, mettendosi subito in guardia, sicuro del fatto che Alëša a quel punto lo avrebbe aggredito. Invece Alëša si voltò, lo guardò appena e proseguì per la sua strada. Ma aveva fatto pochi passi, quando fu colpito alla schiena da un grosso sasso, il più grosso di quelli che il ragazzo teneva nella tasca. «Come, colpite alla schiena? Allora dicono il vero sul vostro conto, voi colpite a tradimento?», Alëša si voltò nuovamente, ma questa volta il ragazzo gli lanciò con accanimento un altro sasso dritto in faccia, Alëša riuscì a schivarlo e la pietra lo colpì soltanto al gomito.
«Ma come, non vi vergognate? Che male vi ho fatto io?», gridò.
Il ragazzo taceva e aspettava con aria provocatoria soltanto che Alëša gli si scagliasse finalmente contro; vedendo che quello non lo aggrediva nemmeno questa volta, si arrabbiò come una piccola belva: balzò dal suo posto e si scagliò lui stesso contro Alëša, e quello non fece in tempo a muoversi, che il perfido ragazzino con il capo chino gli afferrò con entrambe le mani la mano sinistra e gli addentò dolorosamente il dito medio. Affondò i denti nella carne e per una decina di secondi non mollò la presa. Alëša lanciò un urlo di dolore, cercando con tutte le sue forze di liberare il dito. Il ragazzo allentò la presa e balzò indietro al suo posto. Il dito aveva una brutta ferita, vicino all'unghia, profonda sino all'osso; il sangue sgorgava abbondante. Alëša estrasse il fazzoletto e si fasciò stretta la mano ferita. Stette lì a fasciarsi la mano per un intero minuto. Nel frattempo il ragazzo rimaneva lì in piedi, in attesa. Finalmente Alëša sollevò su di lui il suo sguardo calmo:
«Vedete», disse, «vedete che brutto morso mi avete dato? Adesso basta, vero? Ora ditemi: che cosa vi ho fatto?» Il ragazzo lo guardò con aria stupita.
«Sebbene io non vi conosca affatto e questa sia la prima volta che vi vedo», continuò Alëša sempre con il suo tono pacato, «non è possibile che io non vi abbia fatto nulla, non mi avreste mai fatto male senza un motivo. E allora, che cosa vi ho fatto? Che colpa ho verso di voi? Parlate».
Invece di rispondere, il bambino scoppiò in un pianto dirotto e scappò via da Alëša singhiozzando. Alëša lo seguì con calma in via Michajlovskij e seguì a lungo con lo sguardo il ragazzo che correva lontano, senza rallentare il passo, né girarsi a guardare e, probabilmente, continuando a piangere a squarciagola. Si ripromise fermamente di riprendere le ricerche, non appena ne avesse avuto il tempo, per chiarire quell'enigma che lo aveva colpito in modo straordinario. Adesso, però, non aveva tempo.
IV • Dalle Chochlakov
Ben presto arrivò a casa della signora Chochlakova, una bella costruzione in muratura, a due piani, una delle migliori case della nostra cittadina. Sebbene la signora Chochlakova vivesse per la maggior parte dell'anno in un altro governatorato, dove aveva la sua proprietà terriera, oppure a Mosca, dove possedeva una casa, anche nella nostra cittadina aveva una casa tutta sua che aveva ereditato dai suoi genitori e dai nonni. Anzi, la tenuta che ella possedeva nel nostro distretto era la più grande dei suoi tre possedimenti, e tuttavia la signora, fino ad allora, si era fatta vedere molto di rado nel nostro governatorato. Ella corse ad accogliere Alëša addirittura nell'anticamera.
«Avete ricevuto, avete ricevuto la lettera sul nuovo miracolo?», esordì parlando rapidamente, con i nervi a fior di pelle.
«Sì, l'ho ricevuta».
«L'avete diffusa, l'avete mostrata a tutti? Egli ha restituito un figlio alla madre!»
«Egli morirà oggi», disse Alëša.
«L'ho sentito, lo so, oh, quanto desideravo parlare con voi! Con voi o con qualcun altro di tutto questo. No, con voi, con voi! E come mi dispiace di non avere modo di vederlo! Tutta la città è in subbuglio, tutti sono in attesa. Ma sapete... che Katerina Ivanovna è da noi adesso?»
«Ah, che fortuna!», esclamò Alëša. «Così la incontrerò qui da voi, ieri mi aveva ordinato di recarmi assolutamente da lei oggi».
«So tutto, so tutto. Ho saputo tutto, fin nei minimi dettagli di come sono andate le cose da lei, ieri... e di tutto l'orribile comportamento di quell'... essere. C'est tragique, e se fossi stata al suo posto, non so che cosa avrei fatto, se fossi stata al suo posto! Ma anche vostro fratello, quel Dmitrij Fëdoroviè, che tipo, Dio mio! Aleksej Fëdoroviè, mi sto confondendo, immaginate un po': adesso lei è lì in compagnia di vostro fratello, cioè non quello tremendo di ieri, ma dell'altro, Ivan Fëdoroviè, egli è lì che parla con lei: è una conversazione solenne la loro... E se solo immaginaste quello che sta avvenendo fra loro... è orribile; è, vi dico, una lacerazione, è come un'orribile storia alla quale non si può credere: entrambi distruggono se stessi senza una ragione, ne sono consapevoli e ne godono. Io aspettavo voi! Aspettavo con ansia il vostro arrivo! Il peggio è che non posso sopportare una cosa del genere! Adesso vi racconterò tutto, ma in questo momento devo dirvi un'altra cosa, la cosa più importante - ero persino sul punto di dimenticare la cosa più importante: ditemi perché Lise ha una crisi isterica? Non appena ha sentito che stavate arrivando le è preso un attacco isterico!»
«Maman, siete voi l'isterica adesso, non io», cinguettò di sorpresa la vocina di Lise da una fessura della porta della stanza attigua. La fessura era piccolissima e la sua vocina era a scatti, proprio come quando si è sul punto di scoppiare a ridere, ma si tenta con tutte le proprie forze di trattenere il riso. Alëša notò subito la fessura; sicuramente Lise stava sbirciando dentro da lì, dalla sua sedia, ma questo lui non riuscì a vederlo. «Non ci sarebbe niente da meravigliarsi, proprio niente, Lise, con questi tuoi capricci verrà una crisi anche a me; ma sta davvero male, Aleksej Fëdoroviè, è stata male tutta la notte, aveva la febbre, si lamentava! A stento ho aspettato sino a mattina per chiamare Gercenštube. Ma lui dice che non riesce a capire che cos'abbia e che bisogna aspettare. Quel Gercenštube viene sempre per dire che non riesce a capire nulla. Non appena vi siete avvicinato alla casa, ha lanciato un grido, le è venuto un attacco e ha ordinato di essere portata qui nella sua camera di un tempo». «Mamma, ma io non sapevo che lui stesse venendo qui, non è stato per lui che ho voluto passare in questa stanza».
«Questo non è affatto vero, Lise, Julija è corsa a dirti che stava arrivando Aleksej Fëdoroviè, stava facendo la guardia dietro tuo ordine». «Carissima mammina, è terribilmente ottuso da parte vostra. Ma se volete riparare e dire qualcosa di molto intelligente, allora dite, cara mamma, all'egregio signore Aleksej Fëdoroviè appena arrivato, che ha dimostrato di non avere un grande acume per il fatto di aver deciso di venire da noi oggi, dopo tutti gli avvenimenti di ieri e nonostante tutti ridano di lui».
«Lise, adesso stai esagerando, ti assicuro che ricorrerò una buona volta a misure più severe. Chi ride di lui? Io sono così contenta che sia venuto, io ho bisogno di lui, davvero bisogno. Oh, Aleksej Fëdoroviè, sono profondamente infelice!»
«Ma che avete, mamma carissima?»
«Ah, sono questi tuoi capricci, Lise, la tua volubilità, la tua malattia, questa spaventosa notte con la febbre, questo eterno e spaventoso Gercenštube, soprattutto eterno, eterno ed eterno! E poi tutto, tutto... E per finire questo miracolo! Oh, quanto mi ha colpito, quanto mi ha scosso questo miracolo, caro Aleksej Fëdoroviè! E poi adesso, in salotto, questa tragedia che non riesco a sopportare, non ci riesco, ve lo comunico sin d'ora che non ci riesco. Una commedia, quella forse sì, ma non una tragedia. Dite, lo starec Zosima vivrà sino a domani, vivrà? Oh Dio mio! Che ne sarà di me? Ogni momento chiudo gli occhi e vedo che è tutta un'assurdità, tutta un'assurdità».
«Vi chiederei la cortesia», la interruppe ad un tratto Alëša, «di darmi una pezzuola pulita per fasciarmi il dito. Mi sono ferito e adesso mi fa molto male».
Alëša svolse il fazzoletto intorno al dito ferito. Il fazzoletto era inzuppato di sangue. La signora Chochlakova lanciò un urlo e chiuse gli occhi.
«Santo Cielo, che ferita, ma è terribile!»
Lise, appena intravista la ferita di Alëša dalla sua fessura, spalancò subito la porta.
«Venite, venite qui da me», ordinò con tono fermo e imperioso, «ora, bando alle sciocchezze. Oh Signore, perché ve ne siete stato lì zitto e impalato tutto questo tempo? Poteva morire dissanguato, mamma! Dove vi siete ferito, come? Ma prima di tutto dell'acqua, dell'acqua! Bisogna lavare la ferita, semplicemente metterla in acqua fredda perché cessi il dolore e tenerla lì, tenerla lì per un pezzo... Presto, presto, dell'acqua, mamma, in una bacinella. Ma fate in fretta», concluse nervosamente. Era spaventata oltre ogni dire, la ferita di Alëša l'aveva impressionata enormemente.
«Non dovremmo chiamare Gercenštube?», gridò la signora Chochlakova.
«Mamma, voi mi farete morire. Il vostro Gercenštube verrà e dirà che non ci capisce nulla! Acqua, acqua! Mamma, per l'amore del cielo, andate voi stessa, fate sbrigare Julija che starà pasticciando da qualche parte, non c'è mai verso che faccia in fretta quella! Ma fate presto, altrimenti morirò...»
«Ma è solo una sciocchezza!», esclamò Alëša spaventato dal loro spavento.
Julija accorse con l'acqua. Alëša immerse il dito nell'acqua.
«Mamma, per l'amor del cielo, portate della garza, la garza e quell'acqua che brucia, torbida, per le ferite, com'è che si chiama? Ti dico che ne abbiamo, ne abbiamo, ne abbiamo... Mamma, voi lo sapete benissimo dove sta quella boccetta, nella vostra camera da letto nella credenzina a destra, lì ce n'è una grossa boccetta e la garza...».
«Porto subito tutto, Lise, solo non gridare e non ti agitare. Vedi con quanta fermezza Aleksej Fëdoroviè sopporta la sua disgrazia. Ma dove vi
siete procurato una ferita del genere, Aleksej Fëdoroviè?»
La signora Chochlakova uscì in fretta. Lise non aspettava altro.
«Prima di tutto rispondete a una domanda», disse in fretta ad Alëša, «dove vi siete ferito in quel modo? E poi passerò a parlare di tutt'altro con voi. Allora?»
Sentendo istintivamente che il tempo che rimaneva prima del ritorno della mamma era prezioso per lei, Alëša, in tutta fretta, tralasciando e riassumendo molti punti, ma pur sempre con precisione e chiarezza, le raccontò l'enigmatico incontro con gli scolaretti. Alla fine del racconto, Lise batté le mani.
«Ma è mai possibile, è mai possibile che vi mettiate a far comunella con dei monellacci, e per di più con quell'abito!», gridò indignata, come se avesse qualche diritto su di lui. «Dopo quanto è accaduto, non siete altro che un monellaccio anche voi, il monellaccio più moccioso che ci possa essere! Comunque dovete assolutamente scoprire, per conto mio, chi è quell'orribile ragazzaccio cattivo e venire a raccontarmi tutto, perché sotto sotto ci deve essere qualche segreto. Adesso la seconda questione, ma prima una domanda: Aleksej Fëdoroviè, siete in grado, nonostante il dolore della ferita, di parlare delle più vuote stupidaggini, ma di parlarne con giudizio?»
«Sono perfettamente in grado, tanto più che non sento tanto dolore adesso».
«È perché avete il dito nell'acqua. Bisogna cambiarla subito perché si riscalderà in un attimo. Julija, porta immediatamente un pezzo di ghiaccio dalla cantina e un'altra bacinella d'acqua. Be', adesso che è andata via, posso passare al dunque: vi prego di restituirmi subito la mia lettera, quella che vi ho spedito ieri, ma fate presto perché la mamma può entrare da un momento all'altro, e io non voglio...»
«Non ho con me quella lettera».
«Non è vero, l'avete con voi. Lo sapevo che avreste risposto così. L'avete lì in quella tasca. Mi sono rammaricata tutta la notte per quello stupido scherzo. Ridatemi la lettera subito, restituitemela!» «L'ho lasciata là».
«Ma non potete considerarmi una bambina, una bambina piccola, piccola, dopo quello stupido scherzo della lettera! Vi chiedo perdono per lo stupido scherzo, ma voi dovete assolutamente riportarmi quella lettera, se è vero che non l'avete con voi, dovete portarmela oggi stesso, assolutamente, assolutamente!»
«Oggi non è possibile, perché tornerò al monastero e non verrò a trovarvi per un paio di giorni, forse anche tre, quattro, perché lo starec Zosima...»
«Quattro giorni, che assurdità! Ditemi, avete riso molto di me?» «Neanche un po'». «E come mai?»
«Perché ho creduto a ogni vostra parola».
«Voi mi offendete!»
«Nient'affatto. Non appena ho finito di leggerla, ho pensato subito che sarà proprio così, perché io, non appena sarà morto lo starec Zosima, dovrò immediatamente lasciare il monastero. Poi continuerò gli studi e darò l'esame, e quando arriverà il momento stabilito dalla legge, noi ci sposeremo. Io vi amerò. Anche se fino ad ora non ho mai avuto modo di pensarci, credo che non troverò una moglie migliore di voi, è stato lo starec stesso a ordinarmi di prendere moglie...»
«Ma se sono una storpia, se mi portano in giro su una sedia!», scoppiò a ridere Liza con le guance color porpora.
«Sarò io stesso a spingere la vostra sedia, ma sono convinto che per quel giorno sarete guarita».
«Ma siete impazzito», disse nervosamente Liza, «da un tale scherzo avete subito tratto una conclusione così assurda!... Ah, ecco che torna la mamma e giusto in tempo, forse. Mamma, com'è possibile che siate sempre così lenta, è mai possibile che ci mettiate tanto! Ecco anche Julija con il ghiaccio!»
«Ah, Lise, non strillare, soprattutto non strillare. Quei tuoi strilli mi... Che posso farci se tu stessa hai messo la garza da un'altra parte... Io cercavo, cercavo... Sospetto che tu l'abbia fatto di proposito».
«Ma non potevo mica prevedere che lui sarebbe venuto con un morso al dito, altrimenti forse l'avrei davvero fatto di proposito. Mammina, angelo mio, cominciate davvero a dire cose molto argute».
«Lascia perdere le mie arguzie, piuttosto quali sentimenti dimostri, Lise, riguardo al dito di Aleksej Fëdoroviè e per tutto il resto! Oh, caro Aleksej Fëdoroviè, non sono le singole circostanze a uccidermi, e neppure un Gercenštube qualsiasi, ma tutto l'insieme, tutto nel suo complesso, ecco quello che non riesco a sopportare».
«Basta, mamma, basta con Gercenštube», rise allegramente Liza, «presto, date qui garza e acqua. È solo acqua vegeto-minerale, Aleksej Fëdoroviè, adesso mi sono ricordata il nome, ma è un'ottima lozione. Mamma, pensate che si è messo a fare a botte per strada con dei ragazzacci e un ragazzaccio gli ha morso il dito, non è un ragazzino, un ragazzino anche lui? E dopo un fatto del genere potrebbe sposarsi, mamma, perché lui, pensate un po', lui vuole sposarsi, mamma. Immaginatelo un po' da sposato, non farebbe ridere, non sarebbe tremendo?»
E Lise continuava a ridere con la sua risatina sottile e nervosa, guardando maliziosamente Alëša.
«Ma come, sposarsi, Lise, e poi che c'entra questo, parli proprio a sproposito... e poi quel ragazzino poteva anche essere rabbioso».
«Ah, mamma! Come se esistessero ragazzini rabbiosi!»
«Perché no, Lise? Come se avessi detto una sciocchezza. Un cane idrofobo potrebbe aver morso il vostro ragazzino, questi potrebbe essere diventato un ragazzino idrofobo capace a sua volta di mordere qualcun altro. Come vi ha fasciato bene, Aleksej Fëdoroviè, io non ne sarei mai stata capace. Sentite ancora dolore?» «Adesso solo un pochino».
«E non avete paura dell'acqua?», domandò Lise.
«Be', basta, Lise, forse sono stata troppo precipitosa nel parlare del ragazzino rabbioso, e tu subito salti alle conclusioni. Non appena ha saputo che eravate arrivato, Katerina Ivanovna si è precipitata da me, Aleksej Fëdoroviè, vi aspetta con ansia, con ansia».
«Ah, mamma! Andate voi là da loro, lui adesso non può venire, gli fa troppo male la ferita».
«Nient'affatto, posso andarci benissimo...», disse Alëša.
«Come! Andate via? È questo che intendete? È questo che intendete, eh?»
«Be', quando avrò finito di là, tornerò di nuovo e potremo parlare tutto il tempo che vorrete. Ma adesso vorrei vedere al più presto Katerina Ivanovna perché, in ogni caso, voglio essere di ritorno al più presto al monastero oggi».
«Mamma, prendetevelo e portatelo via subito. Aleksej Fëdoroviè, non vi disturbate a passare da me dopo Katerina Ivanovna, ma andate dritto al vostro monastero, e ben vi stia! Io voglio dormire, non ho chiuso occhio per tutta la notte».
«Ah, Lise, sono i tuoi soliti scherzi, ma se davvero tu riuscissi a dormire un po'!», esclamò la signora Chochlakova.
«Non so in che modo io... Rimarrò ancora tre minutini, se volete, anche cinque», mormorò Alëša.
«Anche cinque! Ma portatelo via subito, mamma, questo è un mostro!»
«Anche io ti do un bacio, Lise. Ascoltate, Aleksej Fëdoroviè», prese a dire la signora Chochlakova bisbigliando rapidamente con aria grave e misteriosa, uscendo dalla stanza con Aleksej, «non voglio influenzarvi in alcun modo, né sollevare quella tenda; entrate da solo e vedrete con i vostri occhi che cosa sta accadendo in quella stanza, è una cosa spaventosa, è la più fantastica delle farse: ella ama vostro fratello Ivan Fëdoroviè e cerca con tutte le sue forze di convincere se stessa che ama vostro fratello Dmitrij Fëdoroviè. È spaventoso! Entrerò insieme a voi e, se non mi cacceranno, aspetterò sino alla fine».
V • Lacerazione in salotto
Ma Alëša non ebbe il tempo di pensare a lungo: per strada gli accadde un incidente all'apparenza non molto rilevante, ma che gli fece un profonda impressione. Aveva appena attraversato la piazza e svoltato nel vicolo che portava in via Michajlovskij, parallela alla Bol'šaja, ma separata da questa da un piccolo canale (la nostra città è interamente intersecata da canali), quando scorse giù, davanti al ponticello, un gruppo di scolaretti, tutti ragazzini dai nove ai dodici anni, non di più. Stavano tornando a casa da scuola, chi con la cartelletta in spalla, chi con la borsa di cuoio a tracolla, alcuni con il giubbetto, altri con il cappottino; alcuni calzavano persino quegli alti stivali con i risvolti sul gambale con cui amano tanto darsi arie i ragazzini viziati dai padri facoltosi. Tutto il gruppetto discuteva con animazione, tutto lasciava credere che si stessero consultando. Alëša non passava mai con indifferenza accanto ai bambini; anche a Mosca gli capitava questo, e sebbene egli prediligesse i bimbi sui tre anni, gli piacevano pure gli scolaretti sui dieci, undici anni e, per quanto in quel momento fosse preoccupato, tuttavia gli venne voglia di deviare verso di loro e attaccare discorso. Mentre si avvicinava, osservava i loro visetti rossi, animati e subito notò che tutti i ragazzini avevano in mano una pietra, alcuni anche due. Al di là del canale, all'incirca a una trentina di passi dal gruppetto, c'era un altro ragazzino in piedi, accanto a uno steccato, anche lui uno scolaretto con la sua borsa dei libri a tracolla; a giudicare dalla statura poteva avere una decina d'anni, non di più, forse anche meno, palliduccio, piuttosto emaciato, con gli occhietti neri scintillanti. Egli osservava con sguardo attento e indagatore il gruppo degli altri sei scolaretti, probabilmente suoi compagni, con i quali era appena uscito da scuola, ma evidentemente tra loro non correva buon sangue. Alëša si avvicinò e, rivolgendosi a un bambino ricciuto, biondo, colorito, che indossava un giubbetto nero, osservò: «Quando portavo la mia borsa dei libri, uguale alla vostra, la tenevo sul fianco sinistro per poterci arrivare subito con la mano destra, invece voi la portate sulla destra, così è più scomodo prendere quello che vi occorre».
Alëša aveva intavolato la discussione con questa osservazione di ordine pratico, senza alcuna astuzia o premeditazione da parte sua; d'altronde, per un adulto, non c'è un modo migliore se vuole conquistare subito la fiducia di un bambino, tanto più di un gruppo intero di bambini. Si deve proprio cominciare con piglio serio e con argomenti pratici in modo da trovarsi subito su un piede di parità; Alëša questo lo intuiva istintivamente.
«Ma lui è mancino», gli rispose prontamente un altro ragazzino, un tipetto sveglio e in salute, sugli undici anni. Gli altri cinque fissarono tutti Alëša. «Anche le pietre le lancia con la sinistra», notò un terzo bambino.
In quell'istante si vide piombare sul gruppo una pietra, che sfiorò leggermente il ragazzo mancino, e poi passò oltre, sebbene fosse stata lanciata con forza e abilità. Era stato il ragazzino appostato al di là del canale a lanciarla.
«Colpiscilo, dagli addosso, Smurov!», si misero a gridare in coro.
Ma Smurov, il mancino, non si fece tanto pregare e replicò immediatamente scagliando un sasso contro il ragazzino al di là del canale, ma mancò il bersaglio: la pietra rimbalzò per terra. Il ragazzino oltre il canale scagliò senza indugi un altro sasso, ma questa volta dritto addosso ad Alëša e lo colpì piuttosto forte sulla spalla. Quel ragazzaccio aveva tutta la tasca piena di sassi pronti all'uso. Si vedeva anche dalla distanza di trenta passi, dalle tasche rigonfie del suo cappottino.
«L'ha lanciata a voi, proprio a voi, ha mirato proprio a voi. Siete un Karamazov, un Karamazov, vero?», urlarono i ragazzi fra le risa. «Su, coraggio, tiriamo tutti insieme, fuoco!»
E sei sassi volarono tutti insieme dal gruppo. Uno colpì il ragazzino sulla testa e lo fece cadere, ma dopo un attimo quello balzò in piedi e cominciò, infuriato, a bersagliare di sassi il gruppo.
La sassaiola divenne più fitta da entrambe le parti; anche alcuni ragazzini del gruppetto avevano fatto provvista di sassi e ne avevano le tasche piene.
«Ma che fate? Non vi vergognate, signori? Sei contro uno, finirete per ammazzarlo!», gridò Alëša.
Si era alzato e si parava dinanzi alle pietre volanti per proteggere con il suo corpo il ragazzino al di là del canale. Tre o quattro ragazzini smisero di gettare pietre per un attimo.
«È stato lui a cominciare!», gridò un ragazzino in camiciotto rosso con una stizzosa vocina infantile. «È un mascalzone, tempo fa in classe ha ferito con un temperino Krasotkin, gli ha fatto uscire il sangue. Krasotkin non ha voluto fare la spia, ma dobbiamo dargli una lezione...»
«Ma per quale motivo? Certo, sarete stati voi a provocarlo, vero?»
«Ecco, vi ha tirato un altro sasso nella schiena. Lui sa chi siete», gridarono i ragazzini. «Adesso ce l'ha con voi, non più con noi. Tutti addosso, ragazzi, ancora una volta, non lo mancare Smurov!»
E riprese la sassaiola, questa volta con impeto più violento. Il ragazzino al di là del canale fu colpito in pieno petto da una pietra; lanciò un urlo, scoppiò a piangere e si mise a correre su per la salita in direzione di via Michajlovskij. Un urlo si levò dal gruppetto: «Ah, ha avuto paura, se la batte, straccio di stoppa!»
«Voi, Karamazov, non lo sapete che mascalzone è quello lì, ammazzarlo sarebbe poco», ripeté il ragazzo in giubbetto, con gli occhietti accesi; sembrava il più anziano del gruppo.
«Ma che male ha fatto?», domandò Alëša. «Ha fatto la spia forse?» I ragazzini si scambiarono un'occhiata, ridacchiando.
«Siete diretto anche voi da quella parte, verso via Michajlovskij?», soggiunse lo stesso ragazzino di prima. «Allora cercate di raggiungerlo... Vedete? Si è fermato di nuovo, vi sta aspettando, sta guardando voi».
«Sì, proprio voi, sta guardando proprio voi!», esclamarono gli altri. «Allora domandategli se gli piacciono gli stracci di stoppa, quelli del bagno, tutti stropicciati. Avete sentito? Domandateglielo».
Scoppiò una risata generale. Alëša guardava i ragazzi e quelli guardavano lui.
«Non ci andate, quello vi farà del male», gridò Smurov in tono di ammonimento.
«Signori, non gli domanderò nulla dello straccio di stoppa, state pur certi, perché voi sicuramente lo prendete in giro in qualche modo con quelle parole, ma scoprirò il motivo per cui lo odiate tanto...»
«E allora scopritelo, scopritelo», e i ragazzi scoppiarono a ridere. Alëša superò il ponticello e si diresse per la salita affiancando uno steccato, in direzione di quel ragazzo che si era attirato le antipatie di tutti. «State attento», gli gridarono dietro i ragazzi a mo' di avvertimento, «quello non avrà paura nemmeno di voi, è capace di colpirvi a tradimento, come ha fatto con Krasotkin».
Il ragazzo era fermo lì ad attenderlo. Quando gli fu vicino, Alëša si vide davanti un ragazzino di nove anni, non di più, esile e denutrito, con un visetto lungo, pallido e magro, da cui spuntavano due occhioni scuri che lo scrutavano con ostilità. Indossava un vecchio cappottino liso, che gli andava grottescamente piccolo. Le braccia nude gli spuntavano dalle maniche. Sul ginocchio destro dei pantaloni c'era una grossa toppa e sulla punta dello stivaletto destro, all'altezza dell'alluce, si apriva un grosso buco, che evidentemente era stato mascherato con un'abbondante mano di inchiostro. Le tasche rigonfie del cappotto erano piene di sassi. Alëša si fermò a due passi di distanza da lui, guardandolo con aria interrogativa. Il ragazzo capì subito dallo sguardo di Alëša che questi non voleva picchiarlo, allora abbandonò la sua aria spavalda e gli rivolse per primo la parola.
«Io sono solo e loro sono sei... Ma non importa, li batterò tutti da solo», disse a bruciapelo con gli occhi di fuoco.
«Un sasso deve avervi colpito molto forte», osservò Alëša.
«Ma anche io ho colpito Smurov alla testa!», replicò il ragazzo. «Mi hanno detto che mi conoscete e che mi avete lanciato quel sasso di proposito, è vero?», domandò Alëša. Il ragazzo lo guardò con aria torva.
«Io non vi conosco. Ma voi mi conoscete?», tornò a domandare Alëša.
«Lasciatemi in pace!», strillò il bambino stizzito, restando immobile al suo posto, come se aspettasse; i suoi occhi erano nuovamente accesi di odio.
«Va bene, me ne andrò», disse Alëša. «Io non vi conosco e non vi prendo in giro. Mi hanno detto che cosa vi dicono per prendervi in giro, ma io non voglio prendervi in giro, addio!»
«Monaco in calzoni!», gli gridò dietro il ragazzo sempre con lo stesso sguardo provocatorio e carico d'odio, mettendosi subito in guardia, sicuro del fatto che Alëša a quel punto lo avrebbe aggredito. Invece Alëša si voltò, lo guardò appena e proseguì per la sua strada. Ma aveva fatto pochi passi, quando fu colpito alla schiena da un grosso sasso, il più grosso di quelli che il ragazzo teneva nella tasca. «Come, colpite alla schiena? Allora dicono il vero sul vostro conto, voi colpite a tradimento?», Alëša si voltò nuovamente, ma questa volta il ragazzo gli lanciò con accanimento un altro sasso dritto in faccia, Alëša riuscì a schivarlo e la pietra lo colpì soltanto al gomito.
«Ma come, non vi vergognate? Che male vi ho fatto io?», gridò.
Il ragazzo taceva e aspettava con aria provocatoria soltanto che Alëša gli si scagliasse finalmente contro; vedendo che quello non lo aggrediva nemmeno questa volta, si arrabbiò come una piccola belva: balzò dal suo posto e si scagliò lui stesso contro Alëša, e quello non fece in tempo a muoversi, che il perfido ragazzino con il capo chino gli afferrò con entrambe le mani la mano sinistra e gli addentò dolorosamente il dito medio. Affondò i denti nella carne e per una decina di secondi non mollò la presa. Alëša lanciò un urlo di dolore, cercando con tutte le sue forze di liberare il dito. Il ragazzo allentò la presa e balzò indietro al suo posto. Il dito aveva una brutta ferita, vicino all'unghia, profonda sino all'osso; il sangue sgorgava abbondante. Alëša estrasse il fazzoletto e si fasciò stretta la mano ferita. Stette lì a fasciarsi la mano per un intero minuto. Nel frattempo il ragazzo rimaneva lì in piedi, in attesa. Finalmente Alëša sollevò su di lui il suo sguardo calmo:
«Vedete», disse, «vedete che brutto morso mi avete dato? Adesso basta, vero? Ora ditemi: che cosa vi ho fatto?» Il ragazzo lo guardò con aria stupita.
«Sebbene io non vi conosca affatto e questa sia la prima volta che vi vedo», continuò Alëša sempre con il suo tono pacato, «non è possibile che io non vi abbia fatto nulla, non mi avreste mai fatto male senza un motivo. E allora, che cosa vi ho fatto? Che colpa ho verso di voi? Parlate».
Invece di rispondere, il bambino scoppiò in un pianto dirotto e scappò via da Alëša singhiozzando. Alëša lo seguì con calma in via Michajlovskij e seguì a lungo con lo sguardo il ragazzo che correva lontano, senza rallentare il passo, né girarsi a guardare e, probabilmente, continuando a piangere a squarciagola. Si ripromise fermamente di riprendere le ricerche, non appena ne avesse avuto il tempo, per chiarire quell'enigma che lo aveva colpito in modo straordinario. Adesso, però, non aveva tempo.
IV • Dalle Chochlakov
Ben presto arrivò a casa della signora Chochlakova, una bella costruzione in muratura, a due piani, una delle migliori case della nostra cittadina. Sebbene la signora Chochlakova vivesse per la maggior parte dell'anno in un altro governatorato, dove aveva la sua proprietà terriera, oppure a Mosca, dove possedeva una casa, anche nella nostra cittadina aveva una casa tutta sua che aveva ereditato dai suoi genitori e dai nonni. Anzi, la tenuta che ella possedeva nel nostro distretto era la più grande dei suoi tre possedimenti, e tuttavia la signora, fino ad allora, si era fatta vedere molto di rado nel nostro governatorato. Ella corse ad accogliere Alëša addirittura nell'anticamera.
«Avete ricevuto, avete ricevuto la lettera sul nuovo miracolo?», esordì parlando rapidamente, con i nervi a fior di pelle.
«Sì, l'ho ricevuta».
«L'avete diffusa, l'avete mostrata a tutti? Egli ha restituito un figlio alla madre!»
«Egli morirà oggi», disse Alëša.
«L'ho sentito, lo so, oh, quanto desideravo parlare con voi! Con voi o con qualcun altro di tutto questo. No, con voi, con voi! E come mi dispiace di non avere modo di vederlo! Tutta la città è in subbuglio, tutti sono in attesa. Ma sapete... che Katerina Ivanovna è da noi adesso?»
«Ah, che fortuna!», esclamò Alëša. «Così la incontrerò qui da voi, ieri mi aveva ordinato di recarmi assolutamente da lei oggi».
«So tutto, so tutto. Ho saputo tutto, fin nei minimi dettagli di come sono andate le cose da lei, ieri... e di tutto l'orribile comportamento di quell'... essere. C'est tragique, e se fossi stata al suo posto, non so che cosa avrei fatto, se fossi stata al suo posto! Ma anche vostro fratello, quel Dmitrij Fëdoroviè, che tipo, Dio mio! Aleksej Fëdoroviè, mi sto confondendo, immaginate un po': adesso lei è lì in compagnia di vostro fratello, cioè non quello tremendo di ieri, ma dell'altro, Ivan Fëdoroviè, egli è lì che parla con lei: è una conversazione solenne la loro... E se solo immaginaste quello che sta avvenendo fra loro... è orribile; è, vi dico, una lacerazione, è come un'orribile storia alla quale non si può credere: entrambi distruggono se stessi senza una ragione, ne sono consapevoli e ne godono. Io aspettavo voi! Aspettavo con ansia il vostro arrivo! Il peggio è che non posso sopportare una cosa del genere! Adesso vi racconterò tutto, ma in questo momento devo dirvi un'altra cosa, la cosa più importante - ero persino sul punto di dimenticare la cosa più importante: ditemi perché Lise ha una crisi isterica? Non appena ha sentito che stavate arrivando le è preso un attacco isterico!»
«Maman, siete voi l'isterica adesso, non io», cinguettò di sorpresa la vocina di Lise da una fessura della porta della stanza attigua. La fessura era piccolissima e la sua vocina era a scatti, proprio come quando si è sul punto di scoppiare a ridere, ma si tenta con tutte le proprie forze di trattenere il riso. Alëša notò subito la fessura; sicuramente Lise stava sbirciando dentro da lì, dalla sua sedia, ma questo lui non riuscì a vederlo. «Non ci sarebbe niente da meravigliarsi, proprio niente, Lise, con questi tuoi capricci verrà una crisi anche a me; ma sta davvero male, Aleksej Fëdoroviè, è stata male tutta la notte, aveva la febbre, si lamentava! A stento ho aspettato sino a mattina per chiamare Gercenštube. Ma lui dice che non riesce a capire che cos'abbia e che bisogna aspettare. Quel Gercenštube viene sempre per dire che non riesce a capire nulla. Non appena vi siete avvicinato alla casa, ha lanciato un grido, le è venuto un attacco e ha ordinato di essere portata qui nella sua camera di un tempo». «Mamma, ma io non sapevo che lui stesse venendo qui, non è stato per lui che ho voluto passare in questa stanza».
«Questo non è affatto vero, Lise, Julija è corsa a dirti che stava arrivando Aleksej Fëdoroviè, stava facendo la guardia dietro tuo ordine». «Carissima mammina, è terribilmente ottuso da parte vostra. Ma se volete riparare e dire qualcosa di molto intelligente, allora dite, cara mamma, all'egregio signore Aleksej Fëdoroviè appena arrivato, che ha dimostrato di non avere un grande acume per il fatto di aver deciso di venire da noi oggi, dopo tutti gli avvenimenti di ieri e nonostante tutti ridano di lui».
«Lise, adesso stai esagerando, ti assicuro che ricorrerò una buona volta a misure più severe. Chi ride di lui? Io sono così contenta che sia venuto, io ho bisogno di lui, davvero bisogno. Oh, Aleksej Fëdoroviè, sono profondamente infelice!»
«Ma che avete, mamma carissima?»
«Ah, sono questi tuoi capricci, Lise, la tua volubilità, la tua malattia, questa spaventosa notte con la febbre, questo eterno e spaventoso Gercenštube, soprattutto eterno, eterno ed eterno! E poi tutto, tutto... E per finire questo miracolo! Oh, quanto mi ha colpito, quanto mi ha scosso questo miracolo, caro Aleksej Fëdoroviè! E poi adesso, in salotto, questa tragedia che non riesco a sopportare, non ci riesco, ve lo comunico sin d'ora che non ci riesco. Una commedia, quella forse sì, ma non una tragedia. Dite, lo starec Zosima vivrà sino a domani, vivrà? Oh Dio mio! Che ne sarà di me? Ogni momento chiudo gli occhi e vedo che è tutta un'assurdità, tutta un'assurdità».
«Vi chiederei la cortesia», la interruppe ad un tratto Alëša, «di darmi una pezzuola pulita per fasciarmi il dito. Mi sono ferito e adesso mi fa molto male».
Alëša svolse il fazzoletto intorno al dito ferito. Il fazzoletto era inzuppato di sangue. La signora Chochlakova lanciò un urlo e chiuse gli occhi.
«Santo Cielo, che ferita, ma è terribile!»
Lise, appena intravista la ferita di Alëša dalla sua fessura, spalancò subito la porta.
«Venite, venite qui da me», ordinò con tono fermo e imperioso, «ora, bando alle sciocchezze. Oh Signore, perché ve ne siete stato lì zitto e impalato tutto questo tempo? Poteva morire dissanguato, mamma! Dove vi siete ferito, come? Ma prima di tutto dell'acqua, dell'acqua! Bisogna lavare la ferita, semplicemente metterla in acqua fredda perché cessi il dolore e tenerla lì, tenerla lì per un pezzo... Presto, presto, dell'acqua, mamma, in una bacinella. Ma fate in fretta», concluse nervosamente. Era spaventata oltre ogni dire, la ferita di Alëša l'aveva impressionata enormemente.
«Non dovremmo chiamare Gercenštube?», gridò la signora Chochlakova.
«Mamma, voi mi farete morire. Il vostro Gercenštube verrà e dirà che non ci capisce nulla! Acqua, acqua! Mamma, per l'amore del cielo, andate voi stessa, fate sbrigare Julija che starà pasticciando da qualche parte, non c'è mai verso che faccia in fretta quella! Ma fate presto, altrimenti morirò...»
«Ma è solo una sciocchezza!», esclamò Alëša spaventato dal loro spavento.
Julija accorse con l'acqua. Alëša immerse il dito nell'acqua.
«Mamma, per l'amor del cielo, portate della garza, la garza e quell'acqua che brucia, torbida, per le ferite, com'è che si chiama? Ti dico che ne abbiamo, ne abbiamo, ne abbiamo... Mamma, voi lo sapete benissimo dove sta quella boccetta, nella vostra camera da letto nella credenzina a destra, lì ce n'è una grossa boccetta e la garza...».
«Porto subito tutto, Lise, solo non gridare e non ti agitare. Vedi con quanta fermezza Aleksej Fëdoroviè sopporta la sua disgrazia. Ma dove vi
siete procurato una ferita del genere, Aleksej Fëdoroviè?»
La signora Chochlakova uscì in fretta. Lise non aspettava altro.
«Prima di tutto rispondete a una domanda», disse in fretta ad Alëša, «dove vi siete ferito in quel modo? E poi passerò a parlare di tutt'altro con voi. Allora?»
Sentendo istintivamente che il tempo che rimaneva prima del ritorno della mamma era prezioso per lei, Alëša, in tutta fretta, tralasciando e riassumendo molti punti, ma pur sempre con precisione e chiarezza, le raccontò l'enigmatico incontro con gli scolaretti. Alla fine del racconto, Lise batté le mani.
«Ma è mai possibile, è mai possibile che vi mettiate a far comunella con dei monellacci, e per di più con quell'abito!», gridò indignata, come se avesse qualche diritto su di lui. «Dopo quanto è accaduto, non siete altro che un monellaccio anche voi, il monellaccio più moccioso che ci possa essere! Comunque dovete assolutamente scoprire, per conto mio, chi è quell'orribile ragazzaccio cattivo e venire a raccontarmi tutto, perché sotto sotto ci deve essere qualche segreto. Adesso la seconda questione, ma prima una domanda: Aleksej Fëdoroviè, siete in grado, nonostante il dolore della ferita, di parlare delle più vuote stupidaggini, ma di parlarne con giudizio?»
«Sono perfettamente in grado, tanto più che non sento tanto dolore adesso».
«È perché avete il dito nell'acqua. Bisogna cambiarla subito perché si riscalderà in un attimo. Julija, porta immediatamente un pezzo di ghiaccio dalla cantina e un'altra bacinella d'acqua. Be', adesso che è andata via, posso passare al dunque: vi prego di restituirmi subito la mia lettera, quella che vi ho spedito ieri, ma fate presto perché la mamma può entrare da un momento all'altro, e io non voglio...»
«Non ho con me quella lettera».
«Non è vero, l'avete con voi. Lo sapevo che avreste risposto così. L'avete lì in quella tasca. Mi sono rammaricata tutta la notte per quello stupido scherzo. Ridatemi la lettera subito, restituitemela!» «L'ho lasciata là».
«Ma non potete considerarmi una bambina, una bambina piccola, piccola, dopo quello stupido scherzo della lettera! Vi chiedo perdono per lo stupido scherzo, ma voi dovete assolutamente riportarmi quella lettera, se è vero che non l'avete con voi, dovete portarmela oggi stesso, assolutamente, assolutamente!»
«Oggi non è possibile, perché tornerò al monastero e non verrò a trovarvi per un paio di giorni, forse anche tre, quattro, perché lo starec Zosima...»
«Quattro giorni, che assurdità! Ditemi, avete riso molto di me?» «Neanche un po'». «E come mai?»
«Perché ho creduto a ogni vostra parola».
«Voi mi offendete!»
«Nient'affatto. Non appena ho finito di leggerla, ho pensato subito che sarà proprio così, perché io, non appena sarà morto lo starec Zosima, dovrò immediatamente lasciare il monastero. Poi continuerò gli studi e darò l'esame, e quando arriverà il momento stabilito dalla legge, noi ci sposeremo. Io vi amerò. Anche se fino ad ora non ho mai avuto modo di pensarci, credo che non troverò una moglie migliore di voi, è stato lo starec stesso a ordinarmi di prendere moglie...»
«Ma se sono una storpia, se mi portano in giro su una sedia!», scoppiò a ridere Liza con le guance color porpora.
«Sarò io stesso a spingere la vostra sedia, ma sono convinto che per quel giorno sarete guarita».
«Ma siete impazzito», disse nervosamente Liza, «da un tale scherzo avete subito tratto una conclusione così assurda!... Ah, ecco che torna la mamma e giusto in tempo, forse. Mamma, com'è possibile che siate sempre così lenta, è mai possibile che ci mettiate tanto! Ecco anche Julija con il ghiaccio!»
«Ah, Lise, non strillare, soprattutto non strillare. Quei tuoi strilli mi... Che posso farci se tu stessa hai messo la garza da un'altra parte... Io cercavo, cercavo... Sospetto che tu l'abbia fatto di proposito».
«Ma non potevo mica prevedere che lui sarebbe venuto con un morso al dito, altrimenti forse l'avrei davvero fatto di proposito. Mammina, angelo mio, cominciate davvero a dire cose molto argute».
«Lascia perdere le mie arguzie, piuttosto quali sentimenti dimostri, Lise, riguardo al dito di Aleksej Fëdoroviè e per tutto il resto! Oh, caro Aleksej Fëdoroviè, non sono le singole circostanze a uccidermi, e neppure un Gercenštube qualsiasi, ma tutto l'insieme, tutto nel suo complesso, ecco quello che non riesco a sopportare».
«Basta, mamma, basta con Gercenštube», rise allegramente Liza, «presto, date qui garza e acqua. È solo acqua vegeto-minerale, Aleksej Fëdoroviè, adesso mi sono ricordata il nome, ma è un'ottima lozione. Mamma, pensate che si è messo a fare a botte per strada con dei ragazzacci e un ragazzaccio gli ha morso il dito, non è un ragazzino, un ragazzino anche lui? E dopo un fatto del genere potrebbe sposarsi, mamma, perché lui, pensate un po', lui vuole sposarsi, mamma. Immaginatelo un po' da sposato, non farebbe ridere, non sarebbe tremendo?»
E Lise continuava a ridere con la sua risatina sottile e nervosa, guardando maliziosamente Alëša.
«Ma come, sposarsi, Lise, e poi che c'entra questo, parli proprio a sproposito... e poi quel ragazzino poteva anche essere rabbioso».
«Ah, mamma! Come se esistessero ragazzini rabbiosi!»
«Perché no, Lise? Come se avessi detto una sciocchezza. Un cane idrofobo potrebbe aver morso il vostro ragazzino, questi potrebbe essere diventato un ragazzino idrofobo capace a sua volta di mordere qualcun altro. Come vi ha fasciato bene, Aleksej Fëdoroviè, io non ne sarei mai stata capace. Sentite ancora dolore?» «Adesso solo un pochino».
«E non avete paura dell'acqua?», domandò Lise.
«Be', basta, Lise, forse sono stata troppo precipitosa nel parlare del ragazzino rabbioso, e tu subito salti alle conclusioni. Non appena ha saputo che eravate arrivato, Katerina Ivanovna si è precipitata da me, Aleksej Fëdoroviè, vi aspetta con ansia, con ansia».
«Ah, mamma! Andate voi là da loro, lui adesso non può venire, gli fa troppo male la ferita».
«Nient'affatto, posso andarci benissimo...», disse Alëša.
«Come! Andate via? È questo che intendete? È questo che intendete, eh?»
«Be', quando avrò finito di là, tornerò di nuovo e potremo parlare tutto il tempo che vorrete. Ma adesso vorrei vedere al più presto Katerina Ivanovna perché, in ogni caso, voglio essere di ritorno al più presto al monastero oggi».
«Mamma, prendetevelo e portatelo via subito. Aleksej Fëdoroviè, non vi disturbate a passare da me dopo Katerina Ivanovna, ma andate dritto al vostro monastero, e ben vi stia! Io voglio dormire, non ho chiuso occhio per tutta la notte».
«Ah, Lise, sono i tuoi soliti scherzi, ma se davvero tu riuscissi a dormire un po'!», esclamò la signora Chochlakova.
«Non so in che modo io... Rimarrò ancora tre minutini, se volete, anche cinque», mormorò Alëša.
«Anche cinque! Ma portatelo via subito, mamma, questo è un mostro!»
«Lise, sei ammattita. Andiamo, Aleksej Fëdoroviè, è troppo capricciosa oggi e ho paura di contrariarla. Oh, che disgrazia, le ragazze nervose, Aleksej Fëdoroviè! Ma forse è vero che l'è venuto sonno durante la vostra visita. Come avete fatto a farle venire sonno così presto? Ed è un bene che dorma!»«Ah, mamma, con quanta dolcezza avete parlato, vi do un bacio per questo, mammina».
«Anche io ti do un bacio, Lise. Ascoltate, Aleksej Fëdoroviè», prese a dire la signora Chochlakova bisbigliando rapidamente con aria grave e misteriosa, uscendo dalla stanza con Aleksej, «non voglio influenzarvi in alcun modo, né sollevare quella tenda; entrate da solo e vedrete con i vostri occhi che cosa sta accadendo in quella stanza, è una cosa spaventosa, è la più fantastica delle farse: ella ama vostro fratello Ivan Fëdoroviè e cerca con tutte le sue forze di convincere se stessa che ama vostro fratello Dmitrij Fëdoroviè. È spaventoso! Entrerò insieme a voi e, se non mi cacceranno, aspetterò sino alla fine».
V • Lacerazione in salotto