giovedì 27 giugno 2019


RIFIUTO DEL MÉTÈQUE

Estratto da  "Il signore delle anime"
Irène Némirovsky

Il 18 maggio 1939 «Gringoire», «settimanale politico e letterario parigino», pubblica la prima puntata
delle Échelles du Levant (titolo nella edizione italiana "Il signore delle anime") ultimo romanzo di Irène Némirovsky.  Gli «scali del Levante» sono le città e i porti commerciali del Medio Oriente, che da sempre fungono da cerniera tra l'Europa e l'Asia, crocevia di spezie, di seta, di miseria e di pogrom. Nel periodo tra le due guerre, quando l'immigrazione in Francia è più forte che mai per l'afflusso di profughi provenienti da tutta l'Europa orientale e dalla Spagna, gli «scali» diventano il simbolo di una infiltrazione demografica che scatena nuove forme di xenofobia, inoculando nel vecchio antisemitismo cristiano un più generale rifiuto del métèque, dell'immigrato. Questo termine si era affermato nella sua accezione spregiativa alla fine dell'Ottocento, sull'onda dello scandalo di Panama e dell'affare Dreyfus, e viene usato come sinonimo di straniero, apolide, ebreo. Il protagonista del Signore delle anime ne è un tipico esempio.

IL SIGNORE DELLE ANIME  CAPITOLO 1. 
«Ho bisogno di soldi!». «Le ho detto di no». Dario tentava invano di mantenere la calma. Quando si alterava, la voce gli diventava stridula. 
Gesticolava.  Aveva  la  tipica  fisionomia  levantina:  l'aria  smaniosa  e  affamata  dei  lupi,  quei lineamenti che non sono della gente di qui e che sembrano plasmati in fretta con mano febbrile. 
«Lei  presta  soldi,  lo  so!»  esclamò  con  rabbia.  Tutti  gli  dicevano  di  no  quando  li  pregava umilmente.  Serviva  un  altro  tono.  Pazienza!  Avrebbe  saputo  ricorrere  di  volta  in  volta all'astuzia e alle minacce. Non sarebbe indietreggiato di fronte  a niente. Avrebbe mendicato o strappato con la forza i soldi alla vecchia usuraia. Sua moglie e il bambino appena nato avevano solo  lui  al  mondo,  Dario,  che  potesse  sfamarli.  La  donna  scrollò  le  spalle  robuste.  «Certo, faccio prestiti su pegno! Lei ha qualcosa da darmi in cambio?». Ah, così andava meglio! Aveva fatto  bene  a  non  perdere  le  speranze.  A  volte  chi  viene  pregato  risponde  «no»,  ma  il  suo sguardo dice «sì». Insisti. Offrimi un servigio, un favore, una complicità. Non mi supplicare, è inutile. Compra. Ma che cosa poteva darle, lui? Non possedeva niente. Quella donna era la sua padrona di casa; da quattro mesi Dario aveva preso in affitto un alloggio libero al primo piano del  villino  che  la  vecchia  aveva  trasformato  in  una  pensione  familiare  per  esuli.  «Chi  non  ha bisogno di soldi? Sono tempi duri» disse lei agitando il ventaglio. Indossava un vestito di tela rosa. Il suo viso largo e rubizzo era impassibile. «Che creatura orrenda!» pensò Dario. La donna fece per alzarsi. Lui si affrettò a fermarla. «No, aspetti! Non se ne vada!». Che cos'altro poteva dirle? Supplicarla? Inutile! Prometterle qualcosa? Inutile! Mercanteggiare? E come? Non ne era più capace. Alla scuola dell'Europa, lui, Dario Asfar, misero levantino cresciuto nei porti e nelle bettole,  si  era  illuso  di  aver  acquisito  il  senso  del  decoro  e  dell'onore.  E  adesso  doveva dimenticare i quindici anni trascorsi in Francia, la cultura francese, il titolo di medico strappato con  tanta  fatica  all'Occidente,  non  come  un  dono  ricevuto  dalla  propria  madre,  ma  come  un pezzo  di  pane  rubato  a  un'estranea.  Inutili  smancerie  europee,  che  non  gli  avevano  dato  da mangiare! Lì a Nizza, nel 1920, a trentacinque anni, faceva la fame, e aveva le tasche vuote e le suole  bucate  come  quando  era  ragazzo.  Si  disse  con  amarezza  che  quelle  nuove  armi  -  la dignità,  l'orgoglio  -  lui  non  sapeva  maneggiarle,  e  che  doveva  ricorrere  alle  preghiere  e  al baratto,  alle  vecchie  e  sperimentate  abitudini.  «Gli  altri  avanzano  in  branco,  protetti,  guidati» 
pensò. «Io sono solo. Vado a caccia da solo, per mia moglie e per mio figlio!». «Come faccio a campare, secondo lei?»  esclamò.  «Non mi conosce nessuno in questa città. Sono quattro mesi che vivo a Nizza. Ho affrontato sacrifici di ogni genere per stabilirmi qui. 
A Parigi il successo era dietro la porta. Bastava aspettare». Mentiva. 
Voleva convincerla a tutti i costi. «A Nizza, invece, curo soltanto russi. Conosco soltanto esuli morti di fame. I francesi non mi chiamano. 
Non si fidano. Colpa della mia faccia, del mio accento, che ne so...» disse, passandosi la mano sui capelli corvini, sulle guance brune e scarne, sulle palpebre orlate di lunghe ciglia femminili dietro le quali si intravedeva uno sguardo duro e inquieto. «La fiducia non può essere imposta, Marta  Aleksandrovna.  Lei  è  russa,  lo  sa  che  cosa  significa  vivere  da  emarginati.  Io  mi  sono laureato  in  medicina  in  una  università  francese,  conosco  gli  usi  francesi  e  ho  ottenuto  la cittadinanza francese, eppure vengo trattato da straniero, e mi sento straniero. 
Bisogna  aspettare.  Glielo  ripeto:  la  fiducia  non  può  essere  imposta,  occorre  ispirarla, conquistarsela  a  poco  a  poco.  Ma,  nel  frattempo,  bisogna  pur  vivere.  E'  nel  suo  interesse aiutarmi, Marta Aleksandrovna. 
Io sono suo inquilino. Le devo già degli arretrati. Mi caccerà via. E io sarò nei guai. Ma lei che cosa  ci  avrà  guadagnato?».  «Anche  noi»  sospirò  la  donna  «siamo  poveri  esuli.  I  tempi  sono duri,  dottore...  Che  cosa  posso  fare  io  per  lei?  Niente».  «Quando  mia  moglie  tornerà  a  casa, lunedì,  ancora  debole,  con  un  neonato,  come  farò  a  sfamarli,  Marta  Aleksandrovna?  Dio  li protegga! Che ne sarà di loro? Mi presti quattromila franchi, Marta Aleksandrovna, e mi chieda in  cambio  qualunque  cosa».  «Ma  che  garanzie  può  darmi,  povero  lei?  Ha  titoli  di  borsa?». 
«No».  «Gioielli?».  «Niente.  Non  ho  niente».  «Tutti  mi  lasciano  in  pegno  almeno  un  gioiello, dell'argenteria,  una  pelliccia.  Lei  non  è  un  bambino,  dottore,  capirà  che  non  posso  distribuire denaro senza nessuna garanzia. Sono spiacente, mi creda. Non ero nata per questo mestiere, per prestare soldi a interesse. Sono la moglie del generale Mouravine, io, ma che c'è da fare quando le necessità della vita ti prendono qui?» disse portandosi le mani alla gola con un gesto che ai tempi della sua giovinezza, quando faceva l'attrice in provincia, aveva riscosso gli applausi del pubblico, il vecchio generale, in effetti, l'aveva sposata soltanto in esilio, dopo aver riconosciuto il  figlio  avuto  da  lei.  La  donna  parve  stringersi  un  invisibile  monile  intorno  al  collo  bianco  e grassoccio.  «Eh,  caro  il  mio  dottore,  siamo  tutti  quanti  strozzati  dalla  miseria!  Se  lei  sapesse che cos'è la mia vita!»  disse, ricorrendo  alla consueta tattica di chi, sollecitato a concedere un prestito, si piange addosso per meglio rifiutare. «Sgobbo come una serva. E mi tocca mantenere il  generale,  mio  figlio  e  mia  nuora.  Vengono  tutti  a  chiedere  aiuto  a  me,  ma  io  non  posso contare  sull'aiuto  di  nessuno».  Prese  il  fazzoletto  di  cotone  rosa  infilato  nella  cintura  e  si asciugò gli angoli degli occhi. La sua faccia rossa dai tratti grossolani, sciupata dall'età, ma che nel  disegno  del  naso  sottile  e  aquilino  e  nel  taglio  delle  palpebre  conservava  le  vestigia  di un'antica bellezza ormai in rovina, si coprì di lacrime. «Io non ho un cuore di pietra, dottore». 
«Piange, ma mi caccerà di casa lo stesso» si disse Dario, disperato. Ogni suo pensiero dava la stura a un flusso di ricordi. Quando rimuginava: «Ci caccerà di qui. Dovremo andarcene. Non avremo  più  un  tetto.  Non  sapremo  dove  rifugiarci»,  le  scene  che  gli  venivano  in  mente  non erano  frutto  solo  della  sua  immaginazione,  ma  generate  dalla  sua  carne  che  aveva  patito  il freddo, dai suoi occhi arrossati per la stanchezza dopo una lunga notte trascorsa a vagabondare. 
Più di una volta, non sapendo dove dormire, aveva errato senza meta per le strade, messo alla porta  dagli  albergatori.  E  sebbene  tutto  ciò  gli  fosse  parso  normale  durante  l'infanzia, l'adolescenza e i primi duri anni di studio, ora avrebbe preferito morire piuttosto che sottoporsi a  una  simile  umiliazione.  L'Europa  l'aveva  viziato,  eccome!  Guardò  l'appartamento,  i  mobili. 
Tre  misere  stanzette  al  primo  piano  della  pensione  familiare,  il  pavimento  di  piastrelle  rosse coperto a malapena da logori tappeti; nel salotto due poltrone di velluto giallo, sbiadito dal sole, e nella camera matrimoniale un bel letto francese dove si dormiva così bene. Come gli piaceva tutto questo! Pensò che avrebbero piazzato la carrozzina del figlio sul balconcino: la brezza del mare, oltrepassando i tetti della rue de France, sarebbe arrivata fino a lui, e la mattina il piccolo avrebbe  sentito  le  grida  provenienti  dal  vicino  mercato:  «Sardine,  belle  sardine...».  I  suoi polmoni  avrebbero  respirato  l'aria  frizzante,  e  in  seguito  il  bimbo  avrebbe  potuto  giocare  al sole. Bisognava restare là e ottenere un prestito da quella donna. Con un misto di angoscia, di rabbia  e  di  speranza,  Dario  guardava  ora  le  pareti,  ora  i  mobili,  ora  il  viso  della  moglie  del generale.  Stringeva  le  labbra  convinto  di  assumere  un'aria  impassibile,  ma  il  suo  sguardo ansioso,  eloquente  e  disperato  lo  tradiva.  «Non  mi  rovini,  Marta  Aleksandrovna.  Quattromila franchi...  Li  troverà  quattromila  franchi  per  me,  vero?  E  per  i  tre  mesi  di  pigione  arretrata aspetterà.  Non  mi  caccerà  via.  Pazienti  un  anno.  In  un  anno  posso  fare  grandi  cose.  Con quattromila franchi mi comprerò dei vestiti decenti. 
Come faccio, conciato così, a varcare la soglia di un grande albergo? Chi mi lascerebbe entrare? Trasudo  miseria...  Parecchi  concierge  di  Nizza,  di  Cannes,  di  Cimiez  hanno  promesso  di mandarmi  a  chiamare  se  dovesse  servire  un  medico.  Ma  guardi  queste  scarpe  che  imbarcano acqua, guardi questa giacca» disse mostrando la stoffa lisa che riluceva al sole. «Parlo nel suo interesse,  Marta  Aleksandrovna.  Lei  è  una  donna,  sa  riconoscere  un  carattere  ardito,  pieno  di zelo e di buona volontà. 
Quattromila franchi, Marta Aleksandrovna... Tremila! In nome di Dio!». 
Lei scosse la testa. «No». Poi, a voce più bassa, ripeté: «No». Ma Dario non badava tanto a quel che diceva, bensì a come lo diceva: le parole non significavano niente, solo il tono contava... La vecchia  aveva  forse  mormorato  «no»  con  impazienza?  L'aveva  esclamato  con  rabbia?  Se davvero  il  rifiuto  fosse  stato  senza  remissione,  senza  appello,  si  sarebbe  messa  a  gridare  e l'avrebbe cacciato via su due piedi. Quel  «no», quell'inflessione più dolce, quelle lacrime, e al contempo  lo  sguardo  duro  dei  suoi  occhi  glauchi,  che  diventava  ancora  più  duro,  ostinato  e penetrante...  Tutto  ciò  voleva  dire  che  bisognava  contrattare,  e  nessuna  contrattazione  doveva spaventarlo.  Finché  si  trattava  di  mercanteggiare,  discutere,  comprare  o  vendere,  niente  era perduto.  «Marta  Aleksandrovna,»  disse  Dario  «c'è  qualcosa  che  posso  fare  per  lei?  Sa  quanto sono discreto e fidato. Ci pensi su. Mi sembra preoccupata, Marta Aleksandrovna, abbia fiducia in me...». «Dottore...» cominciò lei. 
Tacque.  Attraverso  l'assito  sottile  giungevano  fino  a  loro  i  rumori  della  pensione  familiare;  lì vivevano, litigavano, piangevano e ridevano esuli che davano fondo ai loro ultimi risparmi, che si  odiavano  o  si  amavano.  Echeggiarono  voci,  passi  rapidi  e  spediti  di  ragazze,  lo  scalpiccio stanco  e  senza  scopo  di  vecchi  chiusi  fra  quattro  mura  tristi.  Quanti  intrighi  fra  quella  gente! 
Quanti drammi!  La moglie del generale doveva  essere  al corrente di tutto... Aveva bisogno di lui.  E  lui  non  si  sarebbe  tirato  indietro  di  fronte  a  niente.  Provava  quel  panico  interiore  che dilaga nell'animo come un fiotto selvaggio. 
Innanzitutto,  vivere!  Al  diavolo  gli  scrupoli,  le  paure  vigliacche!  Innanzitutto,  continuare  a respirare, a nutrirsi, salvarsi la pelle, proteggere la moglie e l'amato figliolo! La donna emise un profondo sospiro. «Venga qui, dottore... Dottore, lei conosce mia nuora, Elinor, quell'americana che  mio  figlio  ha  voluto  sposare?  Dottore,  le  parlo  da  madre  disperata...  Sono  ragazzi,  hanno commesso una stupidaggine, una follia...». Gualcì il fazzoletto tra le mani e si asciugò la fronte e le labbra. Il sole, prima di tramontare, baluginò per un istante sui tetti e irruppe nella stanza. 
Era una delle prime belle giornate di una primavera burrascosa.  La moglie del generale aveva molto caldo, ansimava un po' e sembrava più umana, piena di rabbia e di paura.  «Mio figlio è un  bambinone,  dottore...  Mia  nuora,  invece,  mi  dà  l'idea  di  essere  molto  più  navigata.  Ma  il fattaccio  è  successo.  Finora  non  mi  avevano  detto  niente...  Dottore,  noi  non  possiamo permetterci un'altra bocca da sfamare... Non ce la faccio più a reggere il peso di tutti quelli che si aggrappano a me aspettando il pane dalle mie mani. Un altro bambino... 
Impossibile, dottore». 

CAPITOLO 2. 
La  moglie  di  Dario,  Clara,  era  a  letto,  con  accanto  la  culla  del  figlio,  in  una  linda  cameretta dell'ospedale Sainte-Marie. La finestra era socchiusa e una calda coperta le avvolgeva le gambe. 
Ogni  volta  che  la  suora  le  chiedeva  come  stava  Clara  si  girava  con  gratitudine  verso  di  lei, guardava  sorridendo  la  cornetta  bianca  e  rispondeva  con  timido  orgoglio:  «Come  potrei  star meglio? Non ho forse tutto quel che mi occorre?». Era sera. Stavano chiudendo le porte. Clara non vedeva Dario dal giorno prima, ma sperava ancora nel suo arrivo; le suore sapevano che era un medico e lo lasciavano entrare anche oltre l'orario di visita. A Clara spiaceva che Dario non avesse voluto farla stare in corsia. Lei non aveva mai avuto amiche. Non aveva mai legato con un'altra  donna.  Era  schiva,  guardinga...  Tutto  la  riempiva  di  stupore,  in  quelle  città  straniere. 
Aveva  imparato  a  fatica  il  francese.  Adesso  lo  parlava,  benché  con  un  pessimo  accento,  ma continuava  a  vivere  isolata.  Quando  era  con  Dario  non  aveva  bisogno  di  nessuno;  lì,  in ospedale,  il  bambino  avrebbe  dovuto  bastarle,  eppure  a  volte  le  capitava  di  desiderare  una presenza  femminile  al  fianco.  Sentiva  le  risate  delle  donne  ricoverate  in  corsia...  Che  bello doveva  essere  far  confronti  tra  il  proprio  figlio  e  quello  delle  altre  mamme!  Nessun  bambino poteva  essere  più  bello  del  suo,  di  suo  figlio,  del  suo  Daniel,  né  poppare  così  in  fretta  e  con tanto vigore, né avere un corpicino così ben fatto, gambette così agili, manine così perfette. Ma Dario  voleva  per  lei  una  camera  singola,  comoda,  tranquilla,  lussuosa.  Caro  Dario,  come  la viziava!  Credeva  forse  di  dargliela  a  bere?  Lei  sapeva  quante  difficoltà  doveva  affrontare.  E  intuiva  la  stanchezza  che  si  celava  nei  suoi  movimenti  convulsi,  nella  sua  voce,  nel  rapido gesticolare delle sue mani tremanti. Ma la nascita del bambino le colmava il cuore di pace. 
Non  sapeva  perché,  eppure  non  si  preoccupava  più.  Era  troppo  riconoscente  a  Dio  per  essere ancora preoccupata. A volte si sporgeva un po' dal letto e attirava a sé - più vicino, sempre più vicino  -  la  culla,  trattenendola  con  la  mano.  Non  vedeva  il  bambino,  ma  lo  sentiva  respirare. 
Allora,  dolorante  com'era,  si  girava  con  precauzione  su  un  fianco.  Lasciava  andare  la  culla  e incrociava  le  braccia  sul  petto  gonfio  di  latte,  che  a  quell'ora  montava  come  una  marea, martellandola di pulsazioni simili a quelle della febbre. Era così minuta che i fianchi, il seno e le ginocchia magre sollevavano appena il lenzuolo. 
Il  viso  sembrava  al  contempo  troppo  giovane  e  troppo  vecchio  per  la  sua  età:  Clara  aveva superato la trentina. Alcuni tratti - la fronte piccola e bombata, senza rughe, le palpebre intatte, il sorriso dai denti bianchi, regolari, magnifici, suo unico vero dono - le davano le sembianze di una  bella  ragazza,  quasi  di  un'adolescente,  ma  qua  e  là  fra  i  capelli  crespi  e  trascurati cominciava  a  spuntare  qualche  ciocca  grigia;  i  suoi  occhi  scuri  erano  tristi,  avevano  pianto, vegliato, scrutato la morte sul volto di persone care, atteso con speranza, guardato con coraggio; la bocca, nei momenti di riposo, tradiva spossatezza, ingenuità, sconforto. 
Usciti gli ultimi visitatori, cominciò l'andirivieni dei carrelli che si fermavano davanti a tutte le porte  distribuendo  pasti  leggeri.  Le  puerpere  che  allattavano  i  figlioletti  si  preparavano  alla poppata  serale.  I  piccoli,  appena  svegliati,  strillavano.  La  suora  entrò  nella  camera  di  Clara, l'aiutò a sedersi sul letto e le porse il bambino. Era una donna robusta, dal viso ordinario, roseo e paffuto. Per qualche istante rimasero entrambe a osservare in silenzio il neonato che girava da una parte all'altra la testolina morbida e calda, piagnucolando alla ricerca del seno, ma il piccolo si acquietò presto, e le due donne sentirono il ciangottio confuso dei poppanti sazi, soddisfatti, che  succhiano  il  latte  e  a  poco  a  poco  cadono  nel  sonno.  Allora  presero  a  chiacchierare sottovoce:  «Suo  marito  non  è  venuto  oggi?»  chiese  la  suora.  Aveva  l'accento  melodioso  di Nizza.  «No»  rispose  Clara  un  po'  rattristata.  Sapeva  che  Dario  non  si  era  dimenticato  di  lei. 
Chissà,  forse  non  aveva  i  soldi  per  il  tram...  L'ospedale  era  piuttosto  lontano  dal  centro  della città.  «E'  un  buon  marito»  disse  la  suora  chinandosi  sul  bambino  addormentato.  Fece  per prenderlo e posarlo sulla bilancia, ma il piccolo aprì subito gli occhi e agitò le manine. Clara lo strinse  a  sé.  «Aspetti.  Me  lo  lasci.  Ha  ancora  fame».  «Un  buon  marito  e  un  buon  padre» 
aggiunse la suora. «"Hanno tutto quel che occorre? C'è bisogno di qualcosa?" mi chiede tutti i giorni.  Oh,  la  ama  davvero...  Ma  basta  adesso!»  disse  alzandosi  e  prendendo  il  bambino  dalle braccia di Clara. 
Clara glielo lasciò portare via, ma solo dopo un movimento istintivo per tenerselo ancora stretto che fece sorridere la suora. «Gli dà troppo latte. Lo farà ammalare, questo bambino!». «Oh, no, signora!» disse Clara - non si era mai abituata a chiamare «sorella» la religiosa che la accudiva. 
«Ma  sono  felice  di  farlo  mangiare  a  sazietà;  il  mio  primo  figlio  è  morto  perché  non  avevo abbastanza  latte  per  sfamarlo  né  soldi  per  comprarne».  La  suora  scosse  leggermente  la  testa, con  un'espressione  cordiale,  compassionevole e sprezzante,  che  significava:  «Non  sei  l'unica, sai, povera cara! Ne ho vista tanta, io, di miseria...». E a quel cenno del capo, a quello sguardo lanciato  da  sotto  la  cornetta,  Clara  si  sentì  come  liberata  dall'amarezza  e  da  quella  specie  di vergogna che fa tutt'uno con la disgrazia. Non aveva mai parlato con nessuno del primo figlio. 
Allora, con voce rapida  e sommessa, disse:  «Prima della guerra, mio marito mi aveva lasciata sola a Parigi. Era andato nelle colonie francesi, sperando di trovare lavoro laggiù. I viaggi e le separazioni  non  ci  fanno  paura:  siamo  stranieri,  noi.  Mi  aveva  detto:  "Parto,  Clara.  Qui moriamo  di  fame.  Non  ho  i  soldi  per  il  tuo  biglietto.  Mi  raggiungerai  tra  qualche  tempo".  La nave aveva appena preso il largo che io ho cominciato ad avvertire i primi malesseri e ho capito di  essere  incinta.  Ero  priva  di  mezzi.  Persi  anche  il  modesto  impiego  che  mi  consentiva  di sopravvivere.  In seguito mi hanno detto: "Doveva rivolgersi a questo e a quello...". Ma io non ne sapevo niente. 
Non  conoscevo  nessuno.  Il  bambino  è  morto,  forse  di  fame»  concluse  abbassando  gli  occhi. 
Tormentava  con  gesti  febbrili  le  frange  di  lana  che  bordavano  il  suo  scialle.  «Su,  su,  questo vivrà»  disse  la  suora.  «E'  un  bel  bambino,  vero?».  «Certo».  La  suora  infilò  la  mano  sotto  la coperta di Clara. «Ha i piedi gelati, ragazza mia. Le preparo una borsa d'acqua calda. Si copra bene. Dimentichi i giorni tristi. Suo marito è tornato e si prenderà cura di lei». «Oh!» esclamò Clara  con  un  debole  sorriso.  «Ma  io  non  sono  più  un'ochetta,  sono  vecchia  ormai.  E  vivo  in Francia da quindici anni. Ho smesso di avere paura. All'epoca mi sentivo sperduta, qui. Ero...». 
Tacque  di  colpo.  A  che  scopo  parlarne?  Chi  l'avrebbe  capita?  Con  ogni  probabilità  la  suora aveva assistito tante povere ragazze che avevano lasciato i loro paesini di provincia per fare la fame  nelle  strade  di  Nizza,  ma  Clara  non  poteva  impedirsi  di  pensare  che  per  lei  era  stato peggio;  veniva  da  così  lontano,  e  ogni  pietra  sembrava  respingerla,  ogni  porta,  ogni  casa sembravano  dirle:  «Vattene!  Torna  fra  i  tuoi  simili!  Noi  abbiamo  già  i  nostri  poveri  da soccorrere, straniera!». La suora le piazzò la borsa dell'acqua calda sotto i piedi, le sorrise e si avviò  alla  porta.  «Vado  a  prenderle  la  cena»  disse  già  sulla  soglia.  «Ecco  suo  marito,  cara!». 
Clara tese le braccia. «Dario! Finalmente!». Gli afferrò la mano e se la portò alla guancia, alle labbra.  «Non  speravo  più  di  vederti  stasera.  Ma  perché  sei  venuto?  E'  così  tardi,  e  tu  sei  così stanco!» esclamò. Benché Dario non avesse detto niente, lei sapeva che era sfinito. Gli cinse la vita,  lo  abbracciò  con  tutte  le  sue  forze  e,  quando  lui  si  sedette  sul letto, gli  appoggiò  la  testa sulla  spalla.  «Stai  bene?  E  il  bambino  sta  bene?  E'  successo  qualcosa?  Qualcosa  di  brutto?». 
«No, niente, perché?». 
Parlavano un po' in francese, un po' in greco e un po' in russo, mescolando le tre lingue. Clara gli accarezzò le dita. «Perché, tesoro?». Dario non rispose. «Ti tremano le mani» disse lei. Ma non insistette. Continuò a tenergli le mani strette fra le sue, e a poco a poco il tremito si placò. 
«Stai bene?» ripeté Dario in tono ansioso. 
«Sto bene. Mi sembra di essere una regina. Ho tutto quel che posso desiderare, ma...». «Ma?». 
«Vorrei  essere  già  a  casa,  vorrei  tornare  accanto  a  te  al  più  presto».  Guardò  il  viso  affaticato, stravolto  del  marito,  la  sua  camicia  gualcita,  la  cravatta  annodata  male,  la  giacca  che  non  era stata  spazzolata  e  a  cui  mancava  qualche  bottone.  «Dario,  è  vero  quel  che  mi  hai  detto?  Che avevi  molti  pazienti  e  che  non  ti  serviva  niente?».  «E'  vero».  La  suora  tornò  con  il  vassoio. 
«Mangia»  disse  Dario.  «Guarda  che  buona  minestra.  Su,  mangiala  subito,  prima  che  si raffreddi».  «Non  ho  fame».  «Devi  mangiare,  se  vuoi  che  il  tuo  latte  sia  nutriente».  Clara, costretta  dal  marito  che  la  imboccava  ridendo,  mandò  giù  qualche  cucchiaiata;  e,  una  volta stuzzicato l'appetito, vuotò il piatto. «E tu? Hai cenato?» chiese. «Sì». «Prima di venire qui?». 
«Sì».  «Ah, è per questo che sei arrivato così tardi?».  «Sì. Sei più tranquilla ora?». Lei sorrise. 
Dario prese dal vassoio un pezzo di pane che la moglie aveva lasciato, e lo nascose nel pugno. 
Per non affaticare la puerpera, avevano schermato la lampada con un foglio di carta azzurra. La camera era in penombra, ma Clara notò la mossa furtiva del marito e l'avidità con cui divorava il pezzo di pane. «Hai ancora fame?». «No, no...». «Dario, tu non hai mangiato!». «Ma che cosa vai a pensare?» disse lui con voce carezzevole. «Sta' calma, Clara. Non devi preoccuparti. Non fa  bene  al  bambino».  Si  chinò  sulla  culla,  trattenendo  il  respiro.  «Avrà  i  capelli  biondi, Clara...».  «No,  è  impossibile.  Siamo  tutti  e  due  così  bruni...  Ma  i  nostri  genitori  com'erano?». 
Fecero  uno  sforzo  di  memoria.  Lui,  Dario,  era  rimasto  orfano  molto  presto.  Clara  era  fuggita dalla  casa  paterna  a  quindici  anni  per  seguire  il  vagabondo  di  cui  si  era  innamorata.  Dalle profondità del passato, come quando al  calar della sera scorgiamo in lontananza delle sagome pressoché  indistinte,  emersero  alcune  pallide  figure  quasi  cancellate:  una  donna,  invecchiata anzitempo,  con  il  capo  coperto  da  un  ampio  scialle  nero  calato  fino  alle  sopracciglia;  un'altra donna,  sempre  ubriaca,  la  bocca  aperta  a  rovesciare  imprecazioni  e  insulti  sulla  testa  di  un povero bambino terrorizzato; il padre di Clara con la fronte solcata di rughe e una lunga barba grigia che gli ricadeva sul petto; il padre di Dario, il greco, il miserabile venditore ambulante. 
Di  quest'ultimo  Dario  si  ricordava  meglio,  anche  perché  ne  era  il  ritratto  vivente.  «I  nostri genitori erano bruni come noi». «E i nostri nonni?». «Ah, quelli...». 
Non  li  avevano  conosciuti.  I  vecchi  erano  rimasti  nei  rispettivi  paesi  d'origine  -  la  Grecia, l'Italia, l'Asia Minore -, quando i figli erano partiti sciamando lontano. Per i loro discendenti era come  se  non  fossero  mai  esistiti.  Forse,  tra  quei  levantini  dimenticati,  ce  n'era  qualcuno  che, nella culla, aveva avuto i capelli biondi, la carnagione chiara. Chissà... «Clara, ma come ti salta in  mente  che  potremmo  conoscere  i  nostri  nonni?  Credi  forse  di  essere  una  borghese  nata  in Francia?». Sorrisero. Si capivano al volo. Erano uniti, corpo e anima, dall'amore, ma non solo: essendo nati nel medesimo porto della Crimea, parlando la medesima lingua, si sentivano anche fratelli;  avevano  bevuto  alla  stessa  fonte,  diviso  lo  stesso  pane  amaro.  «Dopo  la  nascita  del bambino  è  venuta  a  trovarmi  la  madre  superiora.  Mi  ha  chiesto  se  le  nostre  famiglie  erano contente. E dalle camere vicine, durante l'orario delle visite, mi giungono le voci di nonni e zie che esclamano: «Somiglia al nonno, al cugino Jean, a quel tuo zio morto nel ' 14». Non avevo mai  sentito  nulla  del  genere.  Arrivano  carichi  di  pacchetti  infiocchettati.  La  suora  mi  ha  detto che  dentro  ci  sono  bavaglini,  vestitini,  giocattoli,  pellicciotti.  E  sai,  Dario,  usano  le  vecchie lenzuola  per  farne  camiciole...»  disse  sottovoce.  Era  stanca.  Parlava  lentamente,  si  fermava, respirava  a  fatica.  Non  riusciva  a  trovare  le  parole  per  esprimere  il  suo  stupore,  la  sua meraviglia,  quando  immaginava  quelle  famiglie  chine  intorno  a  una  culla,  quelle  lenzuola consumate dallo sfregamento dei corpi, notte dopo notte, per una vita intera, quelle lenzuola da cui poi ricavavano camiciole e pannolini da neonato. «Alla suora che mi assiste dico: "Noi non abbiamo parenti. 
Nessuno si cura di noi. Nessuno gioirà per la nascita di questo bambino. 
Nessuno ha pianto per la morte dell'altro bambino". Lei sta a sentirmi. 
Ma  non  capisce».  «Come  vuoi  che  capisca?»  disse  Dario  scuotendo  la  testa.  Si  preoccupava vedendo  Clara  così  stanca  e  turbata.  Voleva  dirle  di  tacere.  Ma  lei,  parlando,  si  era addormentata  con  la  testa  sul  braccio  del  marito.  Entrò  la  suora  e  chiuse  senza  rumore  le persiane e la finestra; all'ospedale Sainte-Marie temevano l'aria della notte. 
Clara aprì gli occhi di colpo e balbettò con voce angosciata: «Sei qui, Dario? Sei tu? Sei proprio tu?  Il  bambino  vivrà?  Crescerà  bene?  Non  gli  mancherà  niente?  Vivrà?».  Ripeté  ancora  una volta: «Vivrà?» e si svegliò del tutto. Sorrise. «Dario, tesoro, perdonami, stavo sognando. Va', adesso. E' tardi. A domani. Ti amo». Lui si chinò e le diede un bacio. 
La suora, rimproverandolo amichevolmente, lo spinse verso la porta: erano le otto passate. Nei corridoi  avevano  spento  le  luci,  sostituendole  con  le  lampadine  azzurre  da  notte,  e  qua  e  là, sotto i numeri delle camere in cui dormivano le pazienti appena operate e le malate gravi, una suora appendeva in bellavista i cartelli con la scritta: «Silenzio». 
Fuori lo accolse una tiepida serata di primavera, e Dario respirò l'odore che gli era familiare sin dall'infanzia,  un  odore  che  si  ritrova  dalla  Crimea  al  Mediterraneo:  di  gelsomino,  di  pepe,  di vento salmastro. 
CAPITOLO 3. 
La moglie del generale aveva promesso che gli avrebbe consegnato i soldi l'indomani. Quella sera  Dario  aveva  ancora  le  tasche  vuote.  Percorse  a  piedi  la  strada  dall'ospedale  fino  a  casa. 
Davanti al portone vide una donna che tentava di leggere il numero civico alla fioca luce di un lampione  a  gas.  Era  a  capo  scoperto,  con  le  spalle  avvolte  in  uno  scialle;  aveva  il  fiato  corto, sembrava  impaziente  e  ansiosa.  Scorgendo  Dario,  chiese:  «Non  abita  un  medico,  qui?».  «Sì, sono io». «La prego, venga subito con me, dottore. Il mio padrone sta male. E' urgente». 
«Certo,  la  seguo»  disse  Dario,  con  il  cuore  colmo  di  speranza.  Si  avviarono  lungo  la  strada deserta. Mentre camminava, Dario si sistemò la cravatta e si ravviò con la mano i capelli ispidi, rammaricandosi  di  avere  la  barba  lunga.  A  un  tratto  la  donna  si  fermò;  parve  esitare,  poi  si avvicinò  a  Dario  per  osservarlo  con  più  attenzione.  «Ma  lei  è  proprio  il  dottor  Levaillant?». 
«No»  rispose  lui  a  malincuore.  «Sono  anch'io  un  medico,  ma...».  La  donna  lo  interruppe. 
«Allora non è il dottor Levaillant!». «Il dottor Levaillant abita più avanti, al numero 30. Se non dovesse  trovarlo,»  disse  Dario,  trattenendo  per  la  manica  la  domestica  che  si  stava  già allontanando  «io  sarò  a  casa  per  tutta  la  sera.  Il  mio  appartamento  è  quello  sopra  la  pensione Mimosa's House. 
Chieda del dottor Asfar». 
Ma  la  donna  era  già  scomparsa.  Aveva  attraversato  la  strada  di  corsa  e  stava  bussando  a un'altra  porta.  Dario  rincasò.  Chiamarsi  Levaillant,  Massard  o  Durand...  Che  felicità  doveva essere! Chi mai poteva avere fiducia in lui, Dario Asfar, con il suo aspetto e il suo accento da immigrato? Quel dottor Levaillant, il suo vicino, lui lo conosceva. Gli invidiava la barba grigia, l'espressione  bonaria  e  tranquilla,  l'utilitaria,  il  grazioso  appartamento...  Salì  con  lentezza  le scale che conducevano al suo alloggio. Ritornò col pensiero a Clara, al bambino i suoi tesori, i suoi  unici  amori.  Aveva  un  figlio,  lui,  Dario!  Tentò  di  figurarsi  un  nume  benefico,  un  dio  da implorare,  qualcuno  a  cui  chiedere  protezione  per  suo  figlio.  Ma  non  riusciva  a  provare  il naturale orgoglio di un padre. Era angosciato, avvilito. Si passava di continuo la mano sul viso, con un gesto che gli era abituale. Sperava che il bambino non ereditasse i suoi tratti pronunciati, la  sua  carnagione  scura,  né  quel  suo  animo  tormentato.  Aprì  la  porta.  Era  a  disagio.  Non  si sentiva a casa sua, in quell'appartamento. Ma non si sentiva a casa sua in nessun posto. Accese la lampada e si sedette su una sedia. Era affamato.  La fame lo perseguitava fin dal mattino.  Il pezzetto di pane che aveva mangiato in clinica, lungi dal saziarlo, aveva acuito il suo desiderio di cibo. Aprì la credenza, i cassetti del tavolo, pur sapendo che non vi avrebbe trovato né carne né  pane  né  soldi.  Passava  e  ripassava  davanti  a  un  piccolo  specchio  appeso  al  muro,  e  si vergognava dello sguardo sfuggente che lo specchio gli rimandava, del suo pallore, della piega amara e disperata che aveva sulle labbra, delle mani che gli tremavano. «Una notte trascorre in fretta»  disse  sottovoce,  tentando  di  rassicurarsi  e  di  prendersi  in  giro  da  solo.  «Non  è  mica  la prima  volta  che  hai  fame,  no?  Forza,  Dario,  ricordati  dei  tempi  andati!».  Ma  i  ricordi amplificavano  come  un'eco  le  difficoltà  del  presente,  appesantendolo  di  uno  strascico  quasi insopportabile.  «Sono  proprio  viziato!»  si  disse  con  disprezzo.  «So  che  mangerò  domani, questo  non  mi  basta?  Una  volta...».  Ma  una  volta  lui  sapeva  di  essere  soltanto  un  miserabile vagabondo,  poteva  mendicare,  rubare.  Pensò  a  quando  aveva  rovesciato,  insieme  ad  altri ragazzini  del  porto,  una  carretta  piena  di  cocomeri  e  poi  era  scappato  stringendo  sotto  la camicia, contro la pelle nuda, un bel melone liscio e fresco... Sentiva ancora in bocca il sapore di quella polpa rosa, il crocchiare dei semi neri sotto i denti. E poi i furti nei mercati, le razzie negli orti... Sorrise, gemendo forte. Ora non poteva più chiedere la carità, elemosinare qualche spicciolo  per  comprarsi  un  tozzo  di  pane.  Era  più  altezzoso,  più  esigente,  più  pusillanime. 
Prima  di  tutto  doveva  salvare  la  faccia,  mantenere  un'apparenza  di  benessere,  di  agiatezza,  a costo di qualsiasi sacrificio, di qualsiasi menzogna. Così, da quando la moglie era in clinica, a volte, per gettare fumo negli occhi, stanco di aspettare invano che i pazienti bussassero alla sua porta, andava a farsi una passeggiata in campagna, con la borsa da medico sotto il braccio... In quegli  ultimi  giorni,  così  difficili,  non  aveva  neanche  tentato  di  procurarsi  un  po'  di  soldi vendendo  questo  o  quell'oggetto,  come  faceva  quand'era  studente  a  Parigi.  Avrebbe  potuto provarci.  Possedeva  qualche  libro.  Ma  gli  sembrava  che  tutti  gli  abitanti  di  Nizza  l'avrebbero riconosciuto. Era una città di provincia: le massaie spettegolavano, le portinaie si appostavano fin dal mattino sulla soglia dei portoni. I piccoli commercianti del quartiere lo seguivano con lo sguardo  ogni  volta  che  usciva  di  casa.  Temeva  persino  le  occhiate  ironiche  e  penetranti  dei vetturini che fingevano di dormire al sole, con un fiore in bocca, aspettando i clienti, mentre a pochi  passi  da  loro  i  cavalli  agitavano  le  lunghe  orecchie  sotto  i  cappellini  di  paglia.  Sì,  lo spiavano  tutti,  lì,  e  l'avrebbero  smascherato.  Non  ci  si  sentiva  isolati,  a  Nizza, misericordiosamente  protetti  dall'anonimato,  come  a  Parigi.  Tutti  -  pensava  Dario  -  odiavano quel  giovane  malvestito,  dall'accento  straniero,  quel  disgraziato,  quel  poveraccio.  Che  cosa sarebbe accaduto se l'avessero visto gironzolare per le strade della città con un pacchetto sotto il braccio,  mentre  tentava  di  vendere  un  libro?  «No,  non  posso  farlo!»  si  disse.  La  notte  era tiepida, un po' soffocante. Dario si tolse la giacca, si liberò del colletto e prese un giornale della sera, ma le lettere gli ballavano davanti agli occhi. La fame continuava ad aumentare e scavava nelle sue viscere quella sorta di galleria che arriva fin dentro l'anima trasportando un flusso di pensieri maligni, disperati, vi li. Tornava con la mente alla moglie del generale e a Elinor, e non solo non aveva alcun rimorso, ma anzi provava un compiacimento cinico e distaccato. Forse la Mouravine  aveva  ragione!  Perché  rallegrarsi  di  aver  messo  al  mondo  un  bambino?  Sarebbe stato  capace,  lui,  Dario,  di  sfamare  quel  figlio  di  cui  andava  tanto  orgoglioso?  Dall'altro  lato della strada c'era un piccolo ristorante. 
Dalla  sua  finestra  Dario  vedeva  la  sala  illuminata  e  alcuni  tavoli  coperti  di  lunghe  tovaglie bianche. Ogni tanto un cameriere si avvicinava alla finestra e prendeva i piatti pronti, esposti in vetrina per allettare i clienti. Pane dalla crosta dorata, un cesto di pesche, un astice freddo irto di antenne, alcuni fiaschi di vino italiano foderati di paglia intrecciata. Ecco un passante, con una donna  sottobraccio,  che  si  ferma,  indica  con  il  bastone  da  passeggio  l'insegna  del  ristorante. 
Entrano. «Si faranno una bella mangiata» pensò Dario. Si è alzato, incolla il naso alla finestra, ma il vetro crea una barriera fra lui e l'immagine del cibo. Apre gli infissi, si sporge. Cerca di annusare  l'odore  che  immagina  filtri  dalla  vetrina  illuminata,  un  odore  senz'altro  prelibato,  di minestra calda, di burro squisito, di verdure cotte a fuoco lento e ben rosolate, di carne anche. 
Ma il ristorante era troppo lontano. Sentiva soltanto un profumo di fiori pesti, che lo prendeva alla  gola  e  gli  dava  la  nausea.  Una  coppia  si  baciava  su  una  panchina  immersa  nell'oscurità, sotto la sua finestra. Nel corpo di Dario la fame si mescolava ad altri desideri. Bramava la carne e il vino, il pane e la donna, quei frutti morbidi sul loro letto di muschio, quel seno nudo che a tratti  gli  sembrava  di  veder  baluginare  nell'oscurità.  Ma  gli  innamorati  si  alzarono  e  se  ne andarono;  camminavano  abbracciati,  incespicando  come  ubriachi.  Dario  imprecò  sottovoce. 
Perché per gli altri la vita aveva un sapore raffinato e delizioso? A lui, invece, toccava un cibo amaro  e  scadente  da  procurarsi  con  fatica,  da  strappare  a  forza.  A  morsi,  visto  che  era impossibile fare altrimenti. Perché? 

CAPITOLO 4. 
Clara  sarebbe  stata  dimessa  l'indomani.  Con  i  quattromila  franchi  di  Marta  Aleksandrovna, Dario aveva pagato i debiti più pressanti, quelli che lo assillavano dai tempi di Parigi, e quelli più recenti, contratti a Nizza. Poteva camminare a testa alta ora. Non passava più a capo chino, rasente  i  muri,  davanti  alla  porta  del  panettiere,  né  davanti  a  quella  della  salumiera  che troneggiava  in  mezzo  a  ghirlande  di  salsicce  in  una  bottega  adorna  di  specchi.  Aveva  anche comprato  una  carrozzina  e  una  culla  per  il  bambino  e  un  cappotto  per  Clara,  che  possedeva soltanto gli abiti con cui era entrata in ospedale. Quanto a lui, Dario, aveva mangiato, bevuto e si era fatto fare un vestito nuovo, dando un anticipo al sarto; gli erano rimasti mille franchi, che aveva  depositato  in  banca.  Finalmente  la  fortuna  stava  girando:  il  giorno  prima  era  stato chiamato da una coppia di giovani funzionari francesi arrivati a Nizza da ventiquattr'ore, il cui figlio  si  era  improvvisamente  ammalato  durante  la  notte,  tra  le  valigie  disfatte  e  la  paglia  del trasloco ancora sparsa sul pavimento. Avevano accolto Dario come un salvatore. 
L'avevano ascoltato con gratitudine, devozione, rispetto. Come si era sentito buono, Dario, con loro! Con quanta amabilità li aveva rassicurati! Come era stato felice di rincuorarli, di lusingare la madre... «Non è niente, solo una laringite virale. Domani sarà guarito. 
Ma  che  bell'ometto!  Un  ometto  robusto!  Dorma  tranquilla,  signora.  Si  rassereni  anche  lei, signore.  E'  una  sciocchezza!  Una  cosa  da  nulla!».  I  genitori  l'avevano  ringraziato, accompagnato  fino  alla  porta,  gli  avevano  fatto  luce  per  le  scale.  Non  la  finivano  più  di rallegrarsi per la fortuna che avevano avuto a trovare così, mentre erano in preda al panico, in quella città sconosciuta, un medico tanto bravo, tanto premuroso, tanto gentile.  «Allora è vero che  i  giorni  peggiori  sono  passati?»  si  era  detto  Dario.  «Sembravano  eterni  e  invece  si cancellano  così  in  fretta!  Perché  ho  ceduto  alla  disperazione?  Perché  ho  agito  male?».  La felicità,  infatti,  lo  rendeva  virtuoso.  Elinor  era  rimasta  a  letto  quarantott'ore  e  adesso  stava  a meraviglia. Era un'americana  coriacea.  Non doveva essere certo la prima  volta per lei... Dario aveva cenato ed era andato a dormire. Era l'ultima notte di carnevale. Nel trambusto della folla sotto le sue  finestre e nel fragore dei fuochi d'artificio, non sentì subito  che qualcuno bussava alla sua porta. Poi gli giunsero all'orecchio grida concitate. Aprì e vide sulla soglia la moglie del generale spettinata, ansante, con uno scialle di seta scarlatta gettato sulla camicia da notte lunga e inamidata, all'antica, che le arrivava fino ai piedi. «Presto, venga! Presto, dottore! In nome del cielo,  mio  figlio  si  è  ucciso!».  Dario  si  rivestì  in  fretta  e  scese  dietro  di  lei.  Nel  salotto  della pensione il figlio del generale, un giovane alto e magro, con le spalle curve, il viso mal rasato, pallido, dall'espressione altezzosa e stupida come quella dei levrieri, si era tagliato le vene con un temperino e perdeva sangue, steso sul divano di tela grigia. Elinor, sua moglie, era l'unica a non essere presente. 
Tutti i pensionanti, ormai svegli, facevano cerchio attorno al divano. 

Il  pavimento  era  cosparso  di  asciugamani  bagnati,  sui  mobili  c'erano  catini  pieni  d'acqua.  Il divano,  che  la  notte  fungeva  da  letto,  era  stato  spinto  al  centro  della  stanza,  e  le  lenzuola, strappate  e  intrise  di  sangue,  giacevano  in  un  angolo.  Abbandonato  per  terra  c'era  anche  il temperino  usato  dal  ferito,  ancora  aperto,  e  a  turno  qualcuno  metteva  un  piede  sulla  lama,  si tagliava,  e  urlando  di  dolore  lo  spingeva  lontano  con  un  calcio;  gli  spettatori  erano  talmente interessati  alla  scena  che  si  svolgeva  sotto  i  loro  occhi  che  nessuno  pensava  a  raccattarlo  dal pavimento.  Con  vera  prodigalità  russa,  avevano  acceso  le  luci  non  solo  nel  salotto,  che  era illuminato da un grande lampadario antico a tre ordini grigio di polvere, ma anche sui tavoli e perfino nelle stanze vicine, ovunque ci fosse una lampada. Le finestre erano chiuse, e lì dentro si  soffocava.  Intorno  a  Dario  si  era  radunato  un  capannello  di  donne  sommariamente  vestite. 
Una di loro, alta e magra, con gli occhi infossati, in camicia da notte, a piedi scalzi, un velo di garza  svolazzante  sui  lunghi  capelli  e  una  sigaretta  accesa  tra  le  labbra,  tirava  Dario  per  la manica  ripetendo  in  tono  autoritario:  «Bisogna  trasportarlo  nella  sua  camera».  «Ma  no, principessa, sa bene che non è possibile» gridava un'altra. «Non c'è una camera per lui. La sua l'hanno affittata alla baronessa, che ora è a letto con un francese!». «Bisogna farli alzare!». «Un francese?  Non  si  alzerà  mai!  Che  cosa  vuole  che  capisca,  un  francese?».  La  moglie  del generale,  sostenuta  dalla  suocera  -  una  vecchia  con  un  corpetto  da  contadina  di  lana  nera,  i capelli  grigi,  la  bocca  semiaperta  e  tremante  -,  si  teneva  aggrappata  con  entrambe  le  mani  al bracciolo del divano e non voleva lasciare la presa. 
Il  marito  era  seduto  in  un  angolo,  su  una  sedia,  e  stringeva  al  petto  un  bulldog  dal  pelo rossiccio.  Era  un  vecchietto  magro  e  canuto,  con  una  barbetta  rada  sul  mento.  Piangeva  in silenzio,  abbracciando  il  cane,  che  emetteva  lunghi  guaiti  lamentosi.  «Il  cane  abbaia  alla morte!»  gridò  la  moglie  del  generale.  «Mio  figlio  sta  morendo!  Morirà!».  «Fate  largo!»  disse Dario.  Ma  nessuno  lo  ascoltava.  «Calma,  Marta  Aleksandrovna!  Per  l'amor  del  cielo,  si controlli!» esclamò una pensionante, con voce un po' isterica. «Bisogna stare calmi!». «Dov'è la moglie?  Dov'è  Elinor?»  chiese  Dario.  «L'ha  ammazzato  lei!»  proruppe  Marta  Aleksandrovna. 
«E  tutta  colpa  di  quella  poco  di  buono,  di  quella  donnaccia,  di  quell'americana  venuta  dal niente, che si è fatta sposare da mio figlio. 
Se  n'è  andata  stamattina!  L'ha  lasciato!  E  così  Mitenka  si  è  messo  in  testa  di  morire!».  «Che guaio! Che vergogna!» singhiozzava la vecchia col corpetto nero. «Mitenka, tesoro mio, tesoro della nonna! Sta morendo! Ho già perso mio marito e due figli per mano dei bolscevichi. 
Mitenka,  amore  della  nonna,  mi  sei  rimasto  solo  tu!».  «Glielo  dicevo  io:  "Non  sposarla..."» 
gemeva la madre, la cui  voce di contralto sovrastava senza sforzo il baccano.  «Un Mouravine non sposa una ragazza raccattata dai marciapiedi di Chicago. E che ne so, io, da dove veniva? E 
andata a letto con tutta la città, prima che se la prendesse lui! Un'americana dal cuore di pietra. 
Come  poteva  capirlo,  una  così?  Come  poteva  apprezzare  un  animo  nobile  come  il  suo?  Oh, Mitenka,  Mitenka!».  Mitenka,  intanto,  grazie  alle  cure  di  Dario,  aveva  aperto  gli  occhi.  La madre e la nonna, in ginocchio davanti a lui, gli coprirono la mano di baci. 
Dario aprì la finestra; l'aria, in quella stanza chiusa, era diventata irrespirabile. «Chiuda i vetri!» 
gridò  la  nonna.  «E'  nudo,  prenderà  freddo!».  Le  donne  più  giovani,  che  fino  a  quel  momento avevano occupato la scena entrando e uscendo dalla stanza con i catini in mano, scontrandosi, in  preda  all'agitazione,  davanti  alle  porte  e  rovesciando  tutta  l'acqua  in  terra,  la  rassicurarono: 
«Ma no, Anna Efimova! Ci vuole aria! L'aria pura fa bene, non è dannosa!». «Lo copra, allora, lo  copra!  Vede,  sta  svenendo  di  nuovo!  Ha  i  brividi.  Chiuda  le  finestre!  Le  chiuda!».  «Al contrario! Le apra! Le apra di più!» gridavano le altre. 
Dario,  stanco  di  supplicare:  «Fate  largo,  lasciatelo  in  pace»,  afferrò  i  polsi  della  madre  e  la sospinse verso una poltrona. «E' svenuta!» esclamarono le donne. «Un po' d'acqua, presto!». Il generale  si  decise  a  sollevare  la  testa,  che  fino  allora  aveva  tenuto  china  sul  pelo  del  bulldog. 
«Lo  salvi,  dottore!  Lo  salvi!».  «Non  si  preoccupi,  generale,  è  ferito  in  modo  molto  lieve». 
«Dottore,  lo  salvi!»  gridò  Marta  Aleksandrovna  e,  divincolandosi  dalle  braccia  che  la sostenevano, si precipitò di nuovo ai piedi del divano, prese la mano di Dario e la coprì di baci. 

«In nome di sua moglie! In nome del bambino che le è appena nato! Campassi cent'anni, non lo dimenticherò  mai!  Salvi  mio  figlio!».  «Ma  non  è  niente,  sono  tagli  superficiali.  Lasciatelo tranquillo, e nel giro di ventiquattr'ore neanche si vedranno più». 
«Mamma!»  mormorò  il  ferito.  Poi  scoppiò  a  piangere.  «Elinor!».  «Piccolo  mio!  Mitenka, tesoro!»  gridò  la  nonna,  mentre  le  lacrime,  le  rare  e  riarse  lacrime  della  vecchiaia,  le inumidivano gli angoli degli occhi e le colavano lungo le guance.  «Sia benedetto, dottore, l'ha riportato  in  vita!».  «E'  salvo?  Me  lo  giura,  dottore?  Il  mio  bambino  è  salvo?».  La  moglie  del generale  si  gettò  all'improvviso  sul  figlio,  lo  prese  per  le  spalle  e  lo  scosse,  con  gli  occhi scintillanti di collera. «Stupido sciagurato! Non hai pensato a tua madre? A tuo padre? Alla tua povera  nonna?  Uccidersi  per  una  sgualdrina!  Uccidersi  per  una  donna  di  strada,  per  quella maledetta  americana!».  Le  altre  donne  tornarono  ad  avvicinarsi.  «Si  calmi,  Marta Aleksandrovna!  Deve  riguardarsi!  E  anche  suo  figlio!  Vede  com'è  impallidito  di  nuovo? 
Dottore!  Un  calmante  per  la  moglie  del  generale,  dottore!».  «Mamma,  i  vostri  rimproveri  mi straziano,  ma  io  voglio  Elinor!».  «Tornerà,  tesoro  mio,  tornerà»  disse  la  nonna.  «Sii  uomo, figlio mio» mormorò il generale, mentre, turbato com'era, stringeva la testa del cane così forte che  la  povera  bestia  emise  un  guaito  lacerante.  «Se  torna,»  gridò  la  moglie  del  generale  «la caccio  io,  la  strangolo  con  le  mie  mani!  La  ributto  sul  marciapiede  da  dove  è  venuta!  Una sgualdrina che ho trattato come una figlia! Con tutto quello che ho fatto per lei... Vedevo ogni cosa,  ma  chiudevo  gli  occhi...  per  Mitenka!  Cucinavo,  io,  la  moglie  del  generale  Mouravine, portavo  fuori  il  secchio  della  spazzatura,  rifacevo  il  letto  di  quella  maledetta  americana!  Ho sborsato  quattromila  franchi  per...  Ma  quei  soldi  li  voglio  indietro!  Dovrà  restituirmeli,  ha capito?» disse a un tratto, girandosi furibonda verso Dario. «Domani! Non più tardi di domani! 
Rivoglio tutti i soldi che ho speso per quella là!». Per  fortuna crollò di colpo svenuta  ai piedi del  ferito,  che  aveva  di  nuovo  perso  conoscenza.  Dario  ne  approfittò  per  mandar  via  le  altre donne.  Rimasto  solo,  portò  la  moglie  del  generale  nella  stanza  accanto  e  le  gettò  un  catino d'acqua  in  faccia.  La  donna  si  riebbe.  «Dottore,  io  non  riconosco  i  debiti  fatti  da  mia  nuora» 
disse appena riaprì  gli occhi.  «La  prego di restituirmi immediatamente quanto mi deve».  «Ma lei è pazza?» gridò a sua volta Dario. «E' colpa mia se sua nuora se n'è andata?». «Non è colpa sua,  ma  non  sia  mai  detto  che  quella  donna  uccida  mio  figlio  e  in  più  mi  estorca  quattromila franchi! Lo sa che cosa significano per noi quattromila franchi? Per darglieli ho dovuto vendere l'anello  di  fidanzamento  e  le  icone  sacre  di  un'amica  che  me  le  aveva  lasciate  in  pegno. 
Piangeva,  mi  baciava  le  mani,  mi  supplicava  di  aspettare  una  settimana.  Ho  ridotto  alla disperazione un'amica d'infanzia per colpa di quella donna! E magari il figlio non era neanche di  Mitenka!».  «E'  questo  che  le  duole  di  più»  pensò  Dario  soffocando  a  stento  una  risata nervosa.  «Il  bambino  che  ha  ammazzato  non  era  di  Mitenka!».  «Ma  neanch'io  ho  soldi» 
esclamò poi. «Mi lasci il tempo di procurarmeli. 
Dove vuole che li prenda? Ho pagato alcuni vecchi debiti. Mi rimangono solo mille franchi, e mia  moglie  e  il  bambino  escono  dall'ospedale  domani!  Del  resto  sono  soldi  miei!  Me  li  sono guadagnati!». La donna sogghignò. «Vuol far sapere a tutti come se li è guadagnati?». «E lei?». 
«Insomma, è un ricatto?» gridò furibonda la moglie del generale. «Ma, povera pazza che è, non capisce dunque...».  «Capisco solo una  cosa: che  qui non mi paga nessuno! Campano tutti alle mie  spalle.  Mio  marito,  incapace  com'è  di  guadagnarsi  la  pagnotta,  è  una  nullità,  e  mio  figlio non è da meno! Per mantenerli, lavoro senza un attimo di respiro! Io, una Mouravine, un'artista! 
Mi  piangeva  il  cuore  a  darle  quei  soldi,  dottore!  Ma  bisognava  farlo.  Per  Mitenka!  E  ora  che quella donna se n'è andata, mi toccherà vivere sapendo che lei e sua moglie ve la spassate coi miei soldi? Senta, dottore, manterremo il segreto su questa faccenda di famiglia, tutti e due, ma se lei non mi paga entro domani, può fare le valigie e andarsene altrove. Non solo: siccome mi deve  tre  mesi  di  affitto  arretrato,  trattengo  come  cauzione  tutto  quel  che  ha.  Le  sequestro  i bagagli, e l'intera città saprà che lei è stato cacciato con ignominia da casa mia!». Dario vide in un lampo la sua reputazione compromessa, il suo avvenire distrutto. Non osò ribellarsi. La vita non  l'aveva  preparato  alla  ribellione,  ma  alla  caparbietà,  alla  pazienza,  allo  sforzo  sempre frustrato,  sempre  rinnovato,  alla  rassegnazione  apparente  che  moltiplica  e  concentra  la  forza d'animo. «Basta così, Marta Aleksandrovna,» disse «avrà i suoi soldi domani». 

CAPITOLO 5.

Dario  capiva  che  la  moglie  del  generale,  come  tutte  le  donne  abituate  a  esercitare  un  potere tirannico  su  intere  famiglie  terrorizzate,  non  si  sarebbe  mai  soffermata  a  valutare  se  una  cosa era logica e possibile, ma avrebbe continuato a reclamare i suoi soldi con la testardaggine di un mulo fino a quando non li avesse ottenuti. Doveva trovarli quel  giorno stesso. Quando si alzò dal  letto,  dove  si  era  agitato  per  tutto  il  resto  della  notte  senza  dormire,  era  ancora  l'alba. 
Bisognava  uscire  presto:  di  tentativo  in  tentativo,  poteva  andarsene  anche  l'intera  giornata.  E 
più tempo avesse avuto a disposizione, maggiori sarebbero state le probabilità di spuntarla! In realtà,  si  ritrovò  in  strada  senza  ancora  sapere  a  chi  rivolgersi.  La  sua  mente  sembrava  aver acquisito di colpo una forza e un'agilità sorprendenti. Si slanciava in tutte le direzioni, cercava una via d'uscita, esplorando in un baleno ogni possibile scappatoia come una bestia braccata dal cacciatore.  Pensò  ai  giovani  funzionari  che  l'avevano  chiamato  per  curare  il  figlio.  No, impossibile. 
«Se anche si lasciassero commuovere,» rifletté Dario  «poi lo racconterebbero in giro. E allora nessuno si fiderebbe più di me. 
Nessuno mi chiamerebbe più. Nessuno sarebbe disposto a mettere la sua vita nelle mie mani». 
Gli  mulinavano  in  mente  sempre  le  stesse  frasi:  «Le  tasche  vuote,  una  moglie  che  non  si  è ancora  rimessa  dal  parto,  un  figlio  appena  nato,  e  quattromila  franchi  da  trovare  entro mezzogiorno  se  domani,  e  nei  giorni  a  venire,  voglio  campare  tranquillo.  Chi  potrebbe aiutarmi?  Chi?».  Gli  sovvenne  allora  Ange  Martinelli,  il  cui  figlio  era  suo  paziente.  Ange faceva  il  maitre  in  un  grande  albergo  costruito  da  poco  accanto  al  casinò  di  Monte  Carlo. 
Viveva  a  Nizza,  in  una  casa  dietro  la  chiesa  di  Sainte-Réparate,  dove  abitava  con  il  figlio. 
Questi,  un  giovane  sui  vent'anni,  era  malato  da  tempo,  e  il  padre  si  era  rivolto  a  Dario  per disperazione,  come  ci  si  rivolge  a  un  guaritore,  a  uno  stregone,  quando  non  resta  altro  a  cui aggrapparsi.  Per  Dario  era  l'unica  speranza,  perché  Ange  era  ricco.  Era  troppo  presto  per presentarsi a casa Martinelli. Dario si fermò sotto il porticato. Da uno sfiatatoio della pasticceria Vogade fuoriusciva un odore di frutta candita che gli diede la nausea. Chissà, forse un  giorno non lontano avrebbe di nuovo patito la fame, avrebbe fiutato l'odore del cibo come un animale affamato... La strada era fiancheggiata di negozi sulle cui porte erano incastonati degli specchi, e ognuno di essi gli rimandava l'immagine del suo viso ansioso e cupo, con le orecchie a punta, i denti lunghi. Non sopportava di assomigliare a tutti quei venditori di tappeti, di occhiali e di cartoline oscene che si aggiravano fra place Masséna e la promenade des Anglais. Anche a lui, certo, era stata assegnata in sorte fin dall'infanzia una vita di avventure e di espedienti, come a quella gente, quelle canaglie levantine di cui era fratello. Non c'era dunque nessuna differenza tra lui e loro? Avevano gli stessi lineamenti, lo stesso accento, le stesse spalle magre, gli stessi occhi  scintillanti  da  lupo...  Alla  fine  arrivò  a  casa  di  Martinelli,  un  appartamenti no  assai  modesto  all'interno  di  un  vecchio  edificio  scuro  che  si  ergeva  a  ridosso  di  SainteRéparate. «Davvero encomiabile» pensò con amarezza Dario. «E ricco, ma vivrà sempre così. 
Una credenza di abete, un bicchiere di vino rosé, pesce fritto del Var in una ciotola sbreccata, mentre  io...  io  devo  bluffare  sempre.  Non  posso  mostrare  la  mia  povertà,  mi  servono  mobili, vestiti  decenti,  un'aria  di  rispettabilità,  almeno  una  parvenza.  Un  maitre  può  permettersi  di essere parco». Suonò il campanello. Sul pianerottolo comune a due appartamenti una ragazza a gambe nude aveva aperto un rubinetto e faceva scorrere l'acqua su un pesce rosso che teneva in mano. Dario le lanciò uno sguardo intenso e ardente. A volte, nei momenti più duri, si sentiva invadere da un improvviso desiderio di donne, come se tutta la feccia depositata in fondo alla sua anima risalisse a galla. Martinelli gli aprì. «Lei, dottore? Entri». «Com'è andata la notte?». 
«Al solito. Aveva la febbre alta. Era agitato. 
Stamattina gli è scesa di colpo a trentasette». «Niente emottisi?». 
«No».  Martinelli  era  in  maniche  di  camicia.  Aveva  un  fisico  prestante,  una  faccia  larga  dal colorito acceso, capelli molto scuri, occhi vivacissimi; da sotto le palpebre socchiuse saettava lo sguardo solerte e impavido, lampeggiante, che accomuna chiunque presti servizio nei gradi più alti  delle  forze  armate  o  delle  cucine,  uno  sguardo  che  deve  vedere  tutto,  giudicare  tutto,  non tralasciare niente. Ange sembrava leggergli i pensieri sul volto. «Doveva venire a visitarlo oggi, dottore?»  gli  chiese.  «Ho  pensato  che  fosse  meglio».  Martinelli  lo  fece  entrare  nella  sala  da pranzo.  «Sta  dormendo.  Pensi  che  vita,  la  mia!  Sono  stanco  morto.  Ieri  sera  il  galà  Oro  e Argento.  Stasera  il  galà  delle  Perle.  Peggio  dei  lavori  forzati!  Nessuno  a  cui  appoggiarmi,  e questo  ragazzo...».  Strinse  le  labbra  con  forza.  «Questo  ragazzo...  Un  avvenire  così promettente! Poteva diventare capocuoco quando voleva! Aveva il dono, il genio della cucina, e poi  era  sempre  gentile,  sempre  premuroso...  E'  spacciato  ormai,  immagino...».  Guardò  Dario con  un'espressione  di  rabbia  e  di  speranza  insieme.  «Spacciato,  a  vent'anni!  Non  dovrebbe essere permesso» esclamò con voce cupa e angosciata. 
«Bisogna salvarlo, dottore! Provi ancora, tenti qualunque cosa» mormorò. 
Il malato tossì. «Lo guarirò, glielo prometto» disse Dario. «Ha già recuperato un po' di forze, lo vede anche lei. C'è un miglioramento notevole. E' giovane, lo stiamo curando come si deve, non perda  le  speranze».  Parlò  così  a  lungo  e  in  tono  talmente  persuasivo  che  il  maitre  gli  disse riconoscente:  «Non  la  ringrazierò  mai  abbastanza  per  quello  che  sta  facendo  per  mio  figlio, dottore». «E' il momento giusto» pensò Dario, con la bocca secca. «Anch'io ho da rivolgerle, a mia  volta,  una  preghiera.  Mi  presti  dei  soldi,  Martinelli,  mi  salvi!».  No,  non  era  questo  che bisognava dire. A che serviva implorare pietà? Non si dà niente per niente! Lo sapeva bene, lui. 
Aveva  vissuto  abbastanza  per  impararlo  e  non  dimenticarselo  più.  «Il  denaro  è  il  denaro,  lo capisco. 
Ma perché non prova a scommettere su di me? Lei gioca alle corse, lo so. 
Mi consideri un cavallo che potrebbe fruttarle il doppio, il triplo di quanto ha puntato su di lui. 
Sono giovane e sano, ho una laurea, una solida competenza scientifica, una professione. Sono un buon medico. 
Vede come sto curando bene suo figlio? Solo che qui non mi conosce nessuno. Sono circondato da  esuli  russi  che  mi  fanno  perdere  tempo  senza  pagarmi.  Ho  anche  qualche  altro  paziente, persone perbene. Si fidano di me. Continueranno a chiamarmi, ma non posso chiedere soldi a loro, non ancora!  I medici presentano la parcella due volte l'anno, e ciò è ammesso, accettato, ma mostrare troppa fretta, palesare così la propria miseria... Ohibò, questo offende mortalmente gli esseri umani, è una mancanza di pudore, un'impazienza indecorosa, e però io non ho niente, non ho più niente! Devo saldare entro stamattina un debito di quattromila franchi, ma neanche questa  somma  basterà...  Senta,  Martinelli,  scommetta  su  di  me!  Punti  su  di  me!  Mi  presti diecimila  franchi,  mi  conceda  un  anno  di  tempo  per  restituirglieli,  e  mi  chieda  pure  tutti  gli interessi  che  vuole!  Magari  lei  sta  pensando:  "Tra  un  anno  sarà  allo  stesso  punto",  ma  non  è così! Ho forza, coraggio, determinazione! Non è colpa mia se mi serve tanto tempo per farcela; sono partito da così in basso... Abbia fiducia in me. Un anno. Le chiedo soltanto un anno. Che cosa posso fare per lei? Ci rifletta su. Potrei esserle utile. Mi presti quei soldi e, all'occorrenza, troverà  in  me  l'amico  più  devoto,  più  discreto...  Mi  aiuti!».  Ange  l'aveva  ascoltato  per  tutto  il tempo  senza  dire  una  parola.  Il  suo  viso  era  una  maschera  impassibile,  impenetrabile,  la maschera dell'uomo a cui chiedi un prestito o un favore, e che ti lascerebbe morire sotto i suoi occhi senza fare un gesto per salvarti. A quella maschera, pensava Dario, bisognava abituarsi e non averne più paura! Bisognava intuire mediante quali astuzie, mediante quali insistenze, alla fine si arriva ad aprire una breccia in certe anime. Supplicando così, Dario si umiliava invano. 
Era  un'altra  la  strada  da  percorrere  per  arrivare  al  suo  scopo.  Riuscì  a  calmarsi.  Cambiò espressione e assunse un'aria composta e dignitosa. 
Ritrovò anche quello sguardo lucido e distaccato che i medici frappongono come uno schermo tra sé e i pazienti. «Non ne parliamo più. 
Se non è disposto a farmi questo favore, sarò costretto ad abbandonare Nizza. Ma - mi ascolti bene,  Martinelli  -  se  c'è  qualcuno  al  mondo  che  può  salvare  suo  figlio,  quello  sono  io.  Era  in punto di morte. Ora sta meglio. E migliorerà ancora. La febbre sta scendendo. Riprenderà peso, si  alzerà  dal  letto,  lo  vedrà  guarito.  Ma  se  io  me  ne  vado,  se  lei  mi  lascerà  andare  via,  e  se poi...».  «Stia  zitto»  disse  Martinelli  con  voce  cupa.  «Vuole  darmela  a  bere,  ma...».  «Però  stai tremando» pensò Dario. 
«Se non si trova il punto debole, l'avversario non cede, rimane fermo sulle sue posizioni. E il punto debole di Ange è la speranza!». «Addio, Martinelli». «Aspetti, Dio santo, lei...». A partire da quell'istante, Dario si sentì tranquillo: avrebbe ottenuto ciò che voleva. Si sarebbe indebitato ancora  di  più.  Di  lì  a  un  anno,  la  sua  situazione  sarebbe  stata  altrettanto  difficile,  ma  per  il momento  aveva  vinto.  Avrebbe  avuto  i  suoi  diecimila  franchi.  Martinelli  gli  fece  firmare  un assegno  postdatato  al  31  marzo  dell'anno  successivo.  Se  entro  dodici  mesi  Dario  non  avesse pagato, sarebbe stato perseguito per emissione di assegni a vuoto; ma chi ha sempre vissuto alla giornata non conosce la lungimiranza, virtù da ricchi, virtù da eroi. Dario firmò. 
CAPITOLO 6. 
Era  il  momento,  sul  finire  della  notte,  in  cui  il  gioco  si  avvia  alla  conclusione,  il  momento migliore,  agli  occhi  di  Philippe  Wardes.  Durante  l'ultima  mano  di  una  partita  le  vincite  e  le perdite, per l'enormità stessa delle somme in ballo, smettono di suscitare cupidigia, disperazione o  invidia;  in  pratica,  smettono  di  esistere.  Il  corpo  non  sente  più  la  fame  né  la  stanchezza; l'anima si libera dalle preoccupazioni. E si raggiunge la felicità. Toccato il limite estremo della tensione  nervosa,  sopravviene  una  fase  di  calma  in  cui  si  gioca  e,  al  contempo,  ci  si  vede giocare, con distacco, immersi in una pace profonda. Wardes era cosciente della propria calma. 
Pallido in volto, sapeva che la sua testa, imponente e ben fatta, si teneva dritta sulle spalle, che il suo collo non si piegava, non cedeva, che le sue mani, piccole e paffute come quelle di una donna,  giravano  le  carte  senza  tremare.  Grazie  alla  sua  audacia,  al  suo  coraggio,  alla  sua invulnerabilità,  Wardes  era  padrone  della  situazione.  Il  piacere  del  rischio  -  piacere  banale, nutrimento di anime mediocri - l'aveva superato da tempo. Per lui non c'erano rischi. Sapeva di essere in un momento fortunato. Sapeva che  avrebbe vinto. E in effetti non perdeva un colpo. 
Era sempre così quando arrivava la giornata giusta: non appena il volgo dei giocatori senza arte né  parte  si  disperdeva,  lui,  che  aveva  resistito  più  a  lungo  degli  altri,  che  aveva  disdegnato  i consigli  degli  amici,  i  patetici  appelli  alla  prudenza  (che  cosa  dicevano  il  suo  notaio,  sua moglie, il suo medico? «Lei si sta rovinando, si sta uccidendo!». Bah, lasciali parlare!), alla fine veniva  premiato.  Momento  soprannaturale,  in  cui  la  creatura  umana  misura  le  proprie  forze  e sente  che  niente  l'abbatterà,  niente  la  fermerà.  Le  carte  gli  obbedivano.  Il  suo  cuore  batteva tranquillo e regolare come quello di un bambino. Con la temerarietà di un sonnambulo in bilico sul  cornicione,  proseguiva  la  partita,  assistito  dalla  fortuna  cieca.  Ancora  un'ora!  Ancora  un istante!  Non  aveva  più  corpo,  né  peso,  né  calore  umano.  Poteva  librarsi  in  aria.  Camminare sulle acque. Indovinava le carte che aveva in mano prima di vederle, prima di stringerle fra le dita.  Peccato  soltanto  che  quella  luce  insistente  di  fronte  a  lui,  quella  lampada  bianca  e accecante  gli  ferisse  gli  occhi.  Ebbe  un  gesto  d'impazienza  e,  come  il  sonnambulo  che  viene fermato sull'orlo dell'abisso da un ostacolo improvviso, tornò in sé. Si avvide a un tratto che gli ultimi giocatori intorno a lui avevano messo via le carte e che qualcuno aveva scostato le tende, sicché  dalle  vetrate  aperte  sulla  rada  entrava  la  luce  del  mattino.  Il  momento  era  passato.  La notte era finita da un pezzo. 
Smarrita, confusa, tremante, la sua anima tornava a un corpo stanco, pesante, coperto di sudore, assetato, e allora Wardes si sovvenne di tutto il denaro che aveva perso prima di essere baciato dalla fortuna. 
Se  ne  rammaricò:  quel  giocatore  sfrenato,  nella  vita  quotidiana  era  «attaccato  ai  soldi»,  come dicevano i suoi operai. Philippe Wardes, il grande industriale meccanico per il quale il gioco era al  contempo  una  necessità  pubblicitaria  e  un'abitudine  tirannica,  non  aveva  niente  in  comune con  il  semidio  che  aveva  albergato  in  lui  per  qualche  ora  e  che  adesso  si  era  come  dissolto, lasciandolo debole e privo di risorse. 
Quello  spirito  libero  e  selvaggio  l'aveva  abbandonato,  e  Wardes  avvertiva  il  solito  dolore  alla nuca,  le  fitte,  la  schiena  indolenzita,  e  tutto  l'amaro  di  una  bocca  di  quarant'anni  bruciata dall'alcol e dal tabacco. Ciò nonostante, riscosse i soldi della vincita e se li mise in tasca, dopo aver lasciato una mancia agli impiegati dello Sporting. 
Scese  le  scale  del  casinò,  accompagnato  dal  consueto  coro  di  commenti  dei  croupier,  dei fattorini e delle prostitute di Monte Carlo. «Da non crederci... Che fegato... Come fa a resistere così? L'avete visto ieri? Oggi vince a volontà. Ieri perdeva. E con quanta flemma incassa... Che fortuna...  Nessuno  regge  il  confronto...  E'  uno  dei  maggiori  industriali  francesi  di  oggi...». 
Wardes li sentiva, beandosi ancora un po' di quegli incensamenti. Quando era così stanco, una stanchezza che per lui non era soltanto fisica ma che sembrava insinuarglisi fin dentro l'anima, solo  gli  elogi  avevano  il  potere  di  rasserenarlo.  Le  parole  di  approvazione  gli  davano  forza, sicurezza, erano l'unico appiglio reale in un mondo di finzione. Una donna che usciva dopo di lui  dal  casinò,  in  abito  da  sera,  con  il  trucco  ormai  disfatto,  gli  passò  accanto,  lanciandogli l'ultima occhiata di quella notte - un'occhiata provocante, colma di trepida speranza. E come il pescatore  deluso  getta  ancora  una  volta  l'amo  nel  fiume,  già  in  piedi  sulla  riva,  già  pronto  ad andarsene,  e  pensa:  «Chissà...»,  così  lei,  con  un  sorriso  impudente,  gli  sussurrò  in  tono carezzevole:  «E' bello per giunta!». Lui gonfiò ancora di più il petto e sollevò la testa pesante ma  dalle  fattezze  aristocratiche.  Era  alto  e  muscoloso  come  un  atleta,  i  folti  capelli  neri  gli incorniciavano la fronte e le tempie disegnando tre punte, la bocca dalle labbra strette e sottili gli dava un'aria severa, imperiosa, ma il viso aveva un colorito livido, gli occhi erano cerchiati, e  lo  sguardo  non  si  posava  mai  su  nessuno,  era  sempre  sfuggente,  si  distoglieva  subito,  come alla spasmodica ricerca di qualcosa, mentre una lieve e costante pulsazione gli faceva fremere la palpebra sinistra. Wardes fece cenno alla donna di seguirlo e attraversò la strada per rientrare in albergo. 
Benché  la  sua  residenza  ufficiale  fosse  alla  Caravelle  -  una  villa  a  poca  distanza  da  Cannes, nella quale abitavano la moglie e la figlia -, in realtà Wardes viveva in un hotel di Monte Carlo, dove aveva un appartamento riservato da cui si allontanava soltanto per andare al casinò. Dallo Sporting  uscivano  gli  ultimi  giocatori,  la  vecchia  guardia.  Era  l'ora  in  cui  la  folla  di  donnine allegre,  di  fioraie  e  di  galoppini  finisce  col  disperdersi  in  vista  del  meritato  riposo.  La  strada cominciava a popolarsi di bimbi in carrozzina e di massaie con un mazzo di violette fresche in cima  alla  sporta  della  spesa.  Wardes,  infastidito  dall'aria  e  dalla  luce  che  gli  feriva  gli  occhi, vacillava. 
Salendo  la  scalinata  dell'albergo,  aveva  l'impressione  che  le  ginocchia  gli  cedessero  a  ogni passo. Entrò insieme alla donna. Nella sua camera le persiane erano chiuse, i pesanti tendaggi tirati.  Certi  appartamenti  dell'albergo  erano  come  circondati  da  una  cortina  di  silenzio  per proteggere  il  prezioso  sonno  dei  clienti,  sonno  che  si  prolungava  fino  al  tardo  pomeriggio. 
Wardes trovò sul comodino un messaggio da parte della moglie, che gli aveva telefonato. Non aveva alcuna intenzione di richiamarla. Lei c'era abituata. Ripose al sicuro i soldi della vincita e tornò dalla donna, che lo aspettava esultante: beccare Wardes era stato un colpaccio. E lei era una donnina che amava i lavori ben fatti. 
«Spenderà  bene  il  suo  denaro»  pensava,  con  l'intimo  compiacimento  che  nasce  dalle  migliori intenzioni. «Attenta, però: più soldi hanno, più spilorci sono» le aveva ripetuto spesso la madre. 
Ma  lui  non  pretese  granché.  Di  lì  a  poco  la  donna  dormiva.  Solo  lei.  Eppure,  quella  notte, Wardes  aveva  sperato  di  prendere  sonno,  cosa  che  a  Parigi  e  nella  casa  di  Cannes  non  gli riusciva. A volte, dopo aver giocato al casinò, quando meno se lo aspettava, quando già si era rassegnato  all'insonnia  e  mentre  ancora  pensava:  «Non  dormo.  Non  dormirò»,  ecco  che sprofondava,  colava  a  picco  nel  vuoto  fresco  delle  tenebre,  ecco  che  moriva  per  poi  ritornare alla  luce,  incredulo  di  aver  dormito.  Sospirò  profondamente  e  strinse  il  guanciale  con  forza, come quando ci si aggrappa a un amico, come un bambino fra le braccia della nutrice, cercando il punto più fresco del tessuto, sprimacciandolo con le mani, premendovi la fronte e il resto del viso; poi chiuse gli occhi e aspettò con pazienza che si compisse il miracolo. Ma non riusciva ad addormentarsi. Si girò sul fianco, cercò a tastoni la bottiglia di Perrier ghiacciata e si versò da bere. Ogni sera gli lasciavano una scorta di acqua frizzante sul comodino: aveva sempre la gola  arsa.  Bevve,  gettò  a  terra  il  guanciale  e  si  distese  sul  dorso,  seminudo,  con  le  mani incrociate sul petto, come da bambino. Brutti ricordi per lui, quelli infantili... La casa tenebrosa di Dunkerque, dove era nato, il rumore della pioggia sui vetri, la gelida camera dal soffitto alto in  cui  suo  padre  lo  costringeva  a  dormire...  Era  figlio  di  un  industriale  del  Nord,  di  origine belga,  e  di  una  polacca  che  aveva  abbandonato  il  marito  per  seguire  un  compatriota:  l'amante della madre faceva il musicista in un teatro di provincia ed  era passato da Dunkerque durante una tournée. Il marito tradito si vendicava della moglie colpevole perseguitando e punendo con durezza il bambino innocente. In quella camera di provincia, ampia e buia, in quel grande letto che  scricchiolava  e  gemeva  a  ogni  movimento,  Wardes  aveva  maturato  il  suo  odio  per  la solitudine,  il  suo  bisogno  di  avere  accanto  durante  la  notte  un  essere  vivente,  uno  qualunque, una donna o un  cane, ma che lui potesse svegliare e cacciare via non appena quella presenza, quel corpo, quel respiro gli diventavano insopportabili. Lei, la donna che Wardes aveva raccolto per strada e che si era portato a letto, dormiva. 
Giaceva al suo fianco, pesante e inerte come una pietra. Wardes tentò di imitarla costringendosi all'immobilità  assoluta.  Era  sul  punto  di  addormentarsi,  si  sarebbe  addormentato.  Sentiva  il sonno  fluire  verso  di  lui  come  un'acqua  quieta  e  profonda  che  gli  si  insinuava  nelle  vene sciogliendo  quel  grumo  di  paura,  di  rabbia  e  di  angoscia  che  aveva  nel  petto.  Sorrise;  già  gli scorrevano  in  mente  immagini  sfocate:  il  tavolo  verde  della  sala  da  gioco,  le  luci  che  ora  si ingrandivano e ora si dissolvevano in lontananza, alcuni volti pallidi chini su di lui. Li guardava uno  per  uno  senza  riconoscerli  e  pensava:  «Ecco,  mi  sono  addormentato.  Se  queste  facce  mi sono  sconosciute,  significa  che  non  sono  ricordi,  ma  visioni,  sogni...».  E  invece  si  svegliò  di colpo, come se qualcuno lo avesse strattonato. Si drizzò a sedere sul letto, accese la lampada e guardò  l'orologio  che  aveva  buttato  sul  pavimento  insieme  agli  spiccioli,  all'accendino,  al fazzoletto  e  alle  chiavi.  Aveva  dormito  solo  pochi  minuti,  cinque  o  dieci  al  massimo.  Per  un istante sperò che l'orologio si fosse fermato, ma no! Il sonno era svanito e non sarebbe tornato. 
Rimase immobile ancora per qualche secondo. Come gli batteva forte il cuore! Ascoltava quel battito accelerato e pensava: «No, non è possibile! Non posso sopportare ancora a lungo questa tortura... quest'insonnia... Morirò...». Ma pensare alla morte era orribile. Pensare alla morte era più orribile della morte stessa. 
Respinse  con  un  gesto  brusco  la  coperta  e  si  alzò.  Andò  in  bagno  e  si  spruzzò  un  po'  d'acqua fredda sul petto e sul viso. Aveva acceso tutte le luci e ora osservava sgomento in ogni specchio quel  volto  che  nessuno  mai  vedeva,  quel  volto  segnato  dalla  fatica  e  dalla  solitudine.  Lo sguardo spaventato, la bocca tremante... Era questo, Wardes, il bel Wardes? Era facile vantare una resistenza fisica eccezionale, facile dire ai propri sottoposti: «Sapete, io ho dimenticato che cos'è il sonno. Non è più un problema per me. Mentre voi dormite, io lavoro». 

Anche  quella  notte  si  disse  animosamente:  «Visto  che  non  posso  dormire,  lavoriamo».  Prese alcune pratiche, si sedette al ridicolo scrittoio da signora che si trovava nel salottino attiguo alla camera  da  letto,  scorse  e  annotò  un  paio  di  pagine,  poi  le  mise  da  parte.  Niente  da  fare: impossibile lavorare! Non riusciva a concentrarsi su quel che leggeva. 
Aveva  la  mente  altrove,  i  pensieri  gli  sfuggivano  e,  incuranti  dei  suoi  sforzi  sovrumani,  se  ne andavano  liberi  per  la  loro  strada,  una  strada  già  percorsa  mille  volte.  L'insonnia  gli  generava un'angoscia che sulle prime si traduceva in uno strano nervosismo, in una specie di malumore, poi  in  una  incontenibile  agitazione  interiore  che  lo  lasciava  tremante  e  indifeso,  e  alla  fine  in paura. Che cosa temeva? L'ansia lo soffocava. 
Adesso  gli  facevano  male  gli  occhi;  immaginò  un  afflusso  di  sangue  alla  retina,  un  calo  della vista,  il  peggiorare  dei  sintomi,  la  cecità.  Lo  immaginò  con  tanta  forza  che  le  luci  parvero sdoppiarsi, vacillare, velarsi al suo sguardo. Si passò una mano sulle palpebre. «Non è vero. 
Non  è  possibile!  Perché  ho  paura?  Non  è  possibile!  E'  un  timore  infondato,  come  se  mi preoccupassi di vedere il soffitto aprirsi e i muri crollarmi addosso». Finì col girarsi lentamente verso lo specchio. 
Che  cosa  avrebbe  visto?  Con  ogni  probabilità  due  occhi  gonfi,  tumefatti,  da  cui  colavano lacrime di sangue. E invece no, nient'affatto! Erano occhi arrossati per la mancanza di sonno e per il denso fumo della sala da gioco: li scorgeva nello specchio, dilatati dal terrore ma intatti. 
Qualche  minuto  dopo  rifletté  sul  fatto  che  il  fumo  nuoceva  non  solo  agli  occhi  ma  anche  ai polmoni.  Spesso  aveva  come  un  peso  sul  petto.  Lui,  che  un  tempo  batteva  tutti  i  suoi  amici nella corsa, ansimava salendo le scale! Si stava uccidendo. Aveva il cuore malandato. E stava sperperando le proprie energie. Ancora un anno, ancora sei o sette mesi, e si sarebbe ammalato, e... Ma a quel punto la sua mente si tirava indietro, si impennava come un cavallo spaventato. Il pensiero  della  morte  apriva  la  strada  a  ciò  che  temeva  di  più  in  assoluto:  il  terrore  puro, irrazionale, la sensazione di una minaccia sconosciuta dalla quale l'anima nuda e trafelata può difendersi solo con un vano sforzo disperato, con un atto di violenza, di follia, con un urlo, con un assassinio... Wardes corse fuori dalla camera e spalancò la finestra. 
Era  giorno  fatto.  Questo  lo  salvò.  Non  avrebbe  potuto  sopportare  la  notte,  il  silenzio,  la profondità delle tenebre. La luce di mezzogiorno rendeva tutto più bello e amichevole; il vento che soffiava dalla rada lo calmò. Adesso che il peggio era passato, che la crisi era stata superata, poteva chiudere le persiane, tirare le tende e addormentarsi. 
Tornò nella sua camera e si buttò sul letto, ma ormai era troppo tardi. 
Si era abbandonato ai demoni. E loro, complice l'insonnia, gli si erano insinuati nell'anima. Si prendevano  gioco  di  lui.  Se  lo  lanciavano  l'un  l'altro  come  una  palla.  Lo  catapultavano dall'angoscia  a  una  rabbia  omicida.  Era  perduto,  indifeso,  solo,  alla  deriva.  Da  bambino  si svegliava  di  notte,  e  a  poco  a  poco  il  suo  panico  cresceva  al  punto  che  poteva  liberarsene soltanto  emettendo  suoni  inarticolati,  grida  selvagge.  E  allora  gridava,  sapendo  che  il  padre sarebbe  venuto  a  picchiarlo.  Aveva  di  nuovo  sete;  la  bottiglia  era  vuota.  Ne  prese  un'altra, predisposta  in  un  secchiello  del  ghiaccio  sul  tavolo.  Fece  saltare  il  tappo  verso  il  soffitto.  Il rumore  svegliò  la  donna,  che  gli  disse  qualcosa.  Lui  non  rispose.  Allora  lei  si  stiracchiò  e sorrise. 
Quel moto di piacere, quel benessere... Avrebbe pianto dall'invidia. Si distese accanto a lei. Oh, addormentarsi,  scivolare  nell'incoscienza,  assopirsi,  fosse  pure  per  un  istante!  Tenere  sotto scacco quella belva feroce pronta a balzargli fuori dal petto. Sentiva montare dentro di sé, con forza irrefrenabile, una furia selvaggia, quasi folle. La donna gli aveva voltato le spalle e si era riaddormentata. Aveva il respiro irregolare, affannoso, sibilante, inframmezzato da sordi gemiti, come chi soffre di bronchite cronica. Quei deboli rantoli non sfuggivano all'orecchio esasperato di  Wardes.  Lui  li  aspettava,  li  sentiva  arrivare,  li  commentava  con  un  sogghigno  e  tornava  ad aspettarli sospirando con astio: «Che puttana!». Allora la svegliò e la spinse fuori dal letto. La donna  lanciò  un  urlo.  «Che  ti  prende,  tesoro?  Stai  male?».  «Fuori  dai  piedi!».  «Ma  che  vuoi? 
Non t'ho detto una parola! E che siamo, cani? Fuori dai piedi... Fuori dai piedi... Non ho fatto niente! Mica ti ho rubato dei soldi, o che so io... E poi non mi hai neanche pagato!». Intanto si affrettava a rivestirsi; indossava una succinta sottoveste di seta rosa ricamata di farfalle nere che lasciava scoperti sulla schiena e sulle spalle i segni delle coppette per la cura della tubercolosi. 
Wardes  scoppiò  a  ridere  e  mosse  qualche  passo  verso  di  lei.  Aveva  un'espressione  così minacciosa che la donna si parò il viso con il braccio, come un bambino che vuole proteggersi dagli  schiaffi.  Wardes  vedeva  il  suo  spavento  e  ne  era  felice,  si  sentiva  il  cuore  leggero.  «Su, più  veloce!».  Si  divertiva  ad  aumentare  la  sua  confusione.  Le  gettò  i  vestiti  fra  le  gambe. 
Insopportabile,  quella  donnaccia,  quel  miserabile  ammasso  di  carne  flaccida!  Aveva  dormito nel suo letto. Gli dava il voltastomaco. «E' l'ultima volta, non le lascerò mai più restare, dopo» 
pensava.  Ma  sapeva  bene  che  stare  da  solo  gli  faceva  paura.  Le  lanciò  una  manciata  di banconote. Lei le raccattò. 
Adesso Wardes non parlava più. Di colpo lei si mise a insultarlo. Lui afferrò la bottiglia vuota e gliela tirò in testa. Poi piombò in uno stato di semincoscienza al contempo reale e simulata. A tratti  sentiva  e  vedeva.  Percepiva  le  urla  della  donna.  Vide  entrare  nella  camera  il  direttore dell'albergo e, di lì a poco, anche Dario, chiamato su raccomandazione di Ange Martinelli. Era consapevole  delle  cure  che  gli  prodigavano,  ma  in  certi  momenti  gli  rintronava  in  testa  un suono  di  campane.  Ogni  cosa  intorno  spariva.  Rimaneva  soltanto  un  rumore  sordo  e  ritmato proveniente  dalle  profondità  del  suo  essere;  Wardes  lo  ascoltava  perplesso,  finché  non  si  rese conto che a battere così era il suo cuore affaticato. Si riebbe. Era solo con Dario. «Chi ha avuto la bizzarra idea» si chiese  «di chiamare questo medicastro sconosciuto, dal viso e dall'accento straniero,  questo  immigrato  malvestito  che  non  si  è  neanche  fatto  la  barba?».  Lo  respinse  con un gesto brusco. «Sto meglio adesso... 
Non ho bisogno di niente. Se ne vada, per favore!». Ma Dario disse: «Non è la prima volta che le  succede,  vero?».  A  un  tratto  Wardes  non  lo  trovò  più  così  ridicolo.  Sul  suo  viso  passò  un lieve  fremito.  Non  rispose.  «Si  sente  come  liberato,  e  non  c'è  prezzo  troppo  alto  per  questo, neanche  un  delitto...»  mormorò  il  medico  guardandolo  negli  occhi.  «Dottore...».  Il  medico  si chinò su di lui, pronto a raccogliere le sue confessioni, a guidarlo, a sostenerlo. «Che cosa devo fare,  dottore?».  Allora  Dario  ebbe  paura:  quell'uomo  era  troppo  ricco.  Lo  avevano  chiamato solo  per  soccorrere  la  donna  ferita  e  medicare  Wardes  che  si  era  procurato  un  paio  di  tagli profondi  stringendo  fra  le  mani  le  schegge  di  vetro,  ma  lui  non  era  il  suo  medico  curante. 
Temeva di urtare la suscettibilità di qualche luminare dando l'impressione di fargli concorrenza. 
Esitò. «Non si è mai rivolto a uno specialista di malattie nervose?» chiese. Wardes non rispose. 
Dario aveva distolto lo sguardo. «La persona che era con lei è ferita in modo non grave» disse. 
«Lo so. Mentre la colpivo facevo attenzione a non avvicinarmi troppo agli occhi né alla gola». 
«Che cosa dice il suo medico?» chiese Dario. Wardes rispose in tono secco: «"Non giochi. Non fumi. Si mantenga casto, tranquillo, sobrio". Ecco che cosa dice. Un imbecille mi ha consigliato di ritirarmi in campagna e di coltivare il mio giardino. Per ascoltarli dovrei avere un'altra anima e un altro corpo. Non ho bisogno di loro».  «Eppure, signor Wardes, bisogna scegliere  fra una vita sregolata, che è un pericolo per il corpo e per l'anima, e una vita relativamente appagante, ma...».  Wardes  si  girò  dall'altra  parte  con  un'espressione  stanca,  annoiata.  «Questa  l'ho  già sentita»  sembrava  dire.  «E  roba  vecchia,  risaputa,  inutile,  soprattutto  inutile...».  «Quanto  le devo, dottore?» disse a voce alta. Ricevuta la parcella, Dario se ne andò. 

CAPITOLO 7.